ANNO LXIX - N. 2 APRILE - GIUGNO 2017 RASSEGNA AV V O C AT U R A DELLO STATO PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO COMITATO SCIENTIfICO: Presidente: Michele Dipace. Componenti: Franco Coppi - Giuseppe Guarino Natalino Irti - Eugenio Picozza - Franco Gaetano Scoca. DIRETTORE RESPONSABILE: Giuseppe Fiengo -CONDIRETTORI: Maurizio Borgo, Danilo Del Gaizo e Stefano Varone. COMITATO DI REDAZIONE: Giacomo Aiello -Lorenzo D’Ascia -Gianni De Bellis -Francesco De Luca - Wally Ferrante -Sergio Fiorentino -Paolo Gentili -Maria Vittoria Lumetti -Francesco Meloncelli Marina Russo. CORRISPONDENTI DELLE AVVOCATURE DISTRETTUALI: Andrea Michele Caridi -Stefano Maria Cerillo Pierfrancesco La Spina -Marco Meloni -Maria Assunta Mercati -Alfonso Mezzotero -Riccardo Montagnoli -Domenico Mutino -Nicola Parri -Adele Quattrone -Pietro Vitullo. HANNO COLLABORATO INOLTRE AL PRESENTE fASCICOLO: Federico Basilica, Guglielmo Bernabei, Vincenzo Tommaso Ciorra, Liborio Coaccioli, Carla Colelli, Anna Collabolletta, Isabella Corsini, Giulia Fabrizi, Ettore Figliolia, Salvatore Paolo Putrino Gallo, Michele Gerardo, Massimo Giannuzzi, Antonio Grumetto, Paolo Marchini, Lucia Marzialetti, Giacomo Montanari, Glauco Nori, Paola Palmieri, Valentina Pincini, Carlo Maria Pisana, Gabriella Salvati, Massimo Salvatorelli, Mario Antonio Scino, Francesco Sclafani, Antonio Tallarida, Massimo Massella Ducci Teri, Claudio Tricò, Ivan Michele Triolo, Daniele Sisca. Email giuseppe.fiengo@avvocaturastato.it maurizio.borgo@avvocaturastato.it danilodelgaizo@avvocaturastato.it stefanovarone@avvocaturastato.it ABBONAMENTO ANNUO ..............................................................................€ 40,00 UN NUMERO .............................................................................................. € 12,00 Per abbonamenti ed acquisti inviare copia della quietanza di versamento di bonifico bancario o postale a favore della Tesoreria dello Stato specificando codice IBAN: IT 42Q 01000 03245 348 0 10 2368 05, causale di versamento, indirizzo ove effettuare la spedizione, codice fiscale del versante. I destinatari della rivista sono pregati di comunicare eventuali variazioni di indirizzo AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO RASSEGNA - Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma E-mail: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it Stampato in Italia - Printed in Italy Autorizzazione Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 indice -sommario TEMI ISTITUZIONALI Osservatorî sulla Giustizia civile, Comunitato dell’Avvocato Generale dello Stato, avv. Massimo Massella Ducci Teri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Massimo Salvatorelli, La parte pubblica in mediazione e negoziazione assistita: riflessioni generali. Il ruolo della Avvocaura dello Stato . . . . . Patrocinio dell’Avvocatura dello Stato dell’Ente “Agenzia delle Entrate -Riscossione” (“ADER” già Equitalia s.p.a.). Protocollo d’intesa sottoscritto il 22 giugno 2017, Circolare A.G. prot. 339351 del 5 luglio 2017 n. 36; Circolare A.G. prot. 383205 del 2 agosto 2017 n. 41. . . . . . . . . . . CONTENZIOSO NAZIONALE Giulia fabrizi, Le Sezioni Unite sul concorso tra reati di malversazione a danno dello Stato e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche: il caso Invitalia S.p.a. (Cass. pen., Sez. Un., sent. 28 aprile 2017 n. 20664) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ivan Michele Triolo, Danni punitivi: la “nuova” natura polifunzionale della responsabilità civile (Cass. civ., Sez. Un., sent. 5 luglio 2017 n. 16601). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Wally ferrante, Translatio iudicii negli appelli ex lege 689/81 (e non solo) (Cass. civ., Sez. Un., sent. 14 settembre 2016 n. 18121; Cass. civ., Sez. Sesta - 2, ord. 8 marzo 2017 n. 5841). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Claudio Tricò, Illecita detenzione di segni distintivi in uso alle forze di polizia; rilevanza penale del falso ottenuto mediante fotocopia di un inesistente originale (Cass. pen., Sez. V, sent. 21 marzo 2017 n. 13810) . . . Carlo Maria Pisana, In tema di decandenza da agevolazioni per imposta di registro (Cass., Sez. V, sent. 30 maggio 2017 n. 13583) . . . . . . . . . . . Gabriella Salvati, Il conflitto tra il diritto individuale alla libertà di scelta ed i superiori diritti collettivi (Trib. Napoli, Sez. X civ., ord. 25 maggio 2017). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Massimo Giannuzzi, In materia di cause aventi ad oggetto danni derivanti da urto di navi al di fuori del mare territoriale: il giudice competente (Trib. Roma, Sez. II civ., ord. 30 maggio 2017). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Valentina Pincini, L’accesso alla documentazione fiscale e tributaria del coniuge nei giudizi di separazione: normativa ed orientamenti giurisprudenziali (T.a.r. Emilia Romagna, Sez. I, sentt. 2 febbraio 2017 nn. 64 e 65) I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO federico Basilica, Interpretazione della normativa sulle preclusioni per l’ammissione alla procedura di chiamata dei docenti universitari . . . . . pag. 1 ›› 2 ›› 9 ›› 15 ›› 42 ›› 54 ›› 66 ›› 76 ›› 79 ›› 89 ›› 92 ›› 109 Ettore figliolia, Sulla subappaltabilità dei lavori nelle ATI verticali . . . Carla Colelli, Controllo e riscossione del contributo unificato in caso di ricorsi straordinari al Capo dello Stato. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Anna Collabolletta, L’istituto della mediazione e il rimborso delle spese legali per i giudizi proposti nei confronti dei dipendenti delle pp.aa. . . . Antonio Grumetto, Sull’applicazione degli interessi di mora per il ritardato pagamento di una pubblica amministrazione . . . . . . . . . . . . . . . . . francesco Sclafani, Interpretazione e disciplina attuativa dei contratti esclusi dall’ambito di applicazione oggettiva del d.lgs 50/2016 . . . . . . . Paolo Marchini, L’acquisizione delle opere abusive nelle aree naturali protette: il principio “tempus regit actum” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . francesco Meloncelli, La regola del concorso pubblico per le progressioni tra aree funzionali e la deroga di legge . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Paola Palmieri, Il regime della revisione dei prezzi negli appalti di lavori a seguito della novellata disciplina del D.lgs 50/2016 . . . . . . . . . . . . . . Isabella Corsini, Il rimborso delle spese legali a favore di dipendenti di amministrazioni statali ai sensi dell’art. 18 del D.L. 25 marzo 1997 n. 67: la “ratio” del rimborso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Mario Antonio Scino, L’applicazione di sanzioni pecuniarie aggiuntive nel caso di sostituzione commissariale ex art. 32, c. 10, D.L. 90/2014 . . Mario Antonio Scino, Interpretazione dell’art. 84 d.lgs 159/2011 e modalità di valutazione dei requisiti per l’iscrizione nelle “white list” . . . . Sergio fiorentino, Valutazione della proporzione della soccombenza ai fini del riparto dell’onere del contributo unificato nel giudizio amministrativo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Liborio Coaccioli, Sull’incombenza dell’onere del contributo unificato LEGISLAZIONE ED ATTUALITà Antonio Tallarida, Norme di commercializzazione e controlli di conformità. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Daniele Sisca, Illegittimità della delibera consiliare con la quale vengono approvate le aliquote e le tariffe dei tributi comunali oltre il termine stabilito per l’approvazione del bilancio di previsione. . . . . . . . . . . . . . . . . CONTRIBUTI DI DOTTRINA Michele Gerardo, Violazione del principio di gerarchia delle fonti del diritto: conseguenze, rilievo dell’antinomia. Rivisitazione dell’atto normativo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Alfonso Mezzotero, Salvatore Paolo Putrino Gallo, Il sitema delle informative antimafia nei recenti arresti giurisprudenziali . . . . . . . . . . . . . . . Glauco Nori, Sistemi elettorali e rappresentatività . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 113 ›› 118 ›› 126 ›› 132 ›› 138 ›› 144 ›› 150 ›› 156 ›› 163 ›› 165 ›› 168 ›› 175 ›› 181 ›› 187 ›› 201 ›› 211 ›› 225 ›› 246 Vincenzo Tommaso Ciorra, L’efficacia delle decisioni dell’AGCM nei giudizi follow on . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 250 Lucia Marzialetti, Contabilità nazionale e unità istituzionali. Interpretazione ed applicazione dei criteri dettati dal SEC 2010 per l’inserimento delle PP.AA. nell’Elenco delle unità istituzionali appartenenti al settore delle Amministrazioni Pubbliche di competenza dell’ISTAT . . . . . . . . . . ›› 270 RECENSIONI Guglielmo Bernabei, Giacomo Montanari, Autonomie e Finanza Locale, Cleup editore - Università di Padova, 2017. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 289 TEMIISTITUZIONALI OSSERVATORÎ SULLA GIUSTIZIA CIVILE Comunicato dell’Avvocato Generale dello Stato, avv. Massimo Massella Ducci Teri Nei giorni 19, 20 e 21 maggio 2017 si è tenuta, presso la Corte Suprema di Cassazione in Roma, la XII Assemblea Nazionale degli Osservatorî sulla Giustizia civile, che ha affrontato quest’anno il tema generale: “Giustizia diffusa e condivisa: confronto e collaborazione nella risoluzione dei conflitti”. Ai lunghi e complessi lavori preparatori, nonché all’Assemblea conclusiva, ha partecipato quest’anno per la prima volta una consistente delegazione dell’Avvocatura dello Stato, coordinata dal Vice Avvocato Generale Massimo Salvatorelli e composta dagli Avvocati dello Stato Maria Gabriella Mangia, Attilio Barbieri e Gaetana Natale, e dai Procuratori dello Stato Brunella Borgoni e Maria Francesca Severi. Gli avvocati e procuratori dello Stato si sono occupati, nell’ambito dei vari gruppi di lavoro istituiti, delle tematiche più vicine alla attività dell’Istituto: in particolare, dei problemi connessi al “danno non patrimoniale alla persona”, ai rapporti tra “giurisdizione e rimedi alternativi per la risoluzione delle controversie (ADR)”, al rispetto del principio della “sinteticità degli atti del processo” (scritti defensionali, ma anche provvedimenti giurisdizionali). È stato per me motivo di grande soddisfazione poter constatare (anche direttamente, nel corso del saluto introduttivo che ho rivolto ai partecipanti nella giornata inaugurale dei lavori) che la fattiva partecipazione della Avvocatura ai lavori è stata vivamente apprezzata tanto dai Magistrati quanto dai colleghi del libero Foro. Si è pertanto da più parti auspicato - ed è mia intenzione operare affinché ciò avvenga -che la partecipazione dell’Avvocatura dello Stato all’attività degli Osservatorî non rimanga episodica, ma si svolga con regolarità, estendendo anzi la stessa, limitata quest’anno ai gruppi di lavoro istituiti presso il RASSeGNA AVVOCATuRA DeLLO STATO - N. 2/2017 Tribunale di Roma, anche alle sedi Distrettuali. Alla ripresa dei lavori degli Osservatorî, dopo l’estate, provvederò pertanto a designare, per la partecipazione, avvocati in servizio presso i Tribunali interessati dai lavori stessi. Mi pare anche importante, in questo contesto, estendere a tutto l’Istituto l’intervento presentato nel corso dei lavori dall’Avvocato Salvatorelli sullo specifico tema della posizione del difensore pubblico nel contesto dei cd. “strumenti deflattivi del contenzioso”. In questo intervento - che è stato da me pienamente condiviso -, anche alla luce dell’esperienza maturata in questi primi anni di applicazione degli istituti in discorso, possono trovarsi significativi spunti, in un’ottica tesa a conciliare una costruttiva valorizzazione della partecipazione a tali procedimenti con una lettura delle norme (che, giova evidenziare, ha trovato la piena comprensione da parte degli interlocutori presenti) compatibile con le difficoltà operative che l’Istituto può trovarsi a fronteggiare nella quotidiana applicazione degli ADR. GRUPPO DI LAVORO SU “GIURISDIZIONE ED ADR” La parte pubblica in mediazione e negoziazione assistita: riflessioni generali. Il ruolo della Avvocatura dello Stato (*) Negli ultimi anni, come noto, anche nell’ordinamento processuale italiano si è assistito alla introduzione di varie misure volte a garantire i principi costituzionali in tema di celerità ed effettività della tutela giurisdizionale, attraverso metodi alternativi per la prevenzione del contenzioso e la risoluzione delle controversie (cosiddetti “ADR”: alternative dispute resolution). Nel regolamentare tali procedure (e si pensa qui, in particolare, alla mediazione finalizzata alla conciliazione di cui al D. Lgs. 4 marzo 2010 n. 28, al D.L. 12 settembre 2014, n. 132 in tema di degiurisdizionalizzazione e definizione dell’arretrato in materia di processo civile, che regola il trasferimento dei procedimenti pendenti in sede arbitrale e la negoziazione assistita, al D. Lgs. 6 agosto 2015, n. 130 sulla risoluzione alternativa delle controversie dei consumatori), mezzi di portata generale ed applicabili in linea di principio a tutti i soggetti potenzialmente parti di una controversia, assai di rado, però, il Legislatore si è posto nell’ottica delle modalità di applicazione degli stessi ai soggetti pubblici. Basta pensare, a questo proposito, alla presenza di norme “premiali” con riflessi tributari per le parti che si accordano; agli obblighi relativi alla informazione che il difensore deve fornire alle parti assistite; a quelle disposizioni che presuppongono la iscrizione del difensore stesso all’albo pro(*) Intervento del Vice Avvocato Generale Massimo Salvatorelli. TeMI ISTITuzIONALI fessionale, per comprendere che siamo in presenza di previsioni evidentemente non applicabili alle parti pubbliche e ai loro difensori; e d’altro canto, le disposizioni del diritto dell’unione che sono in gran parte ispiratrici degli ADR sembrano anch’esse escludere la presenza nelle controversie in atto o in potenza di una parte pubblica. Ora, le peculiarità che innegabilmente caratterizzano l’operare di tali soggetti, e in particolare le modalità con le quali gli stessi sono assistiti e difesi in giudizio, hanno creato e creano una serie di problemi concreti, dei quali si è dovuta fare carico anche l’Avvocatura dello Stato, difensore ex lege delle Amministrazioni statali e di altri enti pubblici, finendo col dare talvolta l’impressione di un preconcetto rifiuto di tali strumenti: rifiuto che invece, a ben vedere, non c’è. Tali vie alternative non possono non essere viste anche dalla parte pubblica come fondamentali, potenzialmente decisive per il raggiungimento di scopi (generali e particolari) certamente condivisi. Ma un reale contributo alla loro effettività anche nei confronti di quelle parti non può che passare attraverso una condivisione delle difficoltà che essi pongono. un costruttivo confronto dialettico tanto con il Foro libero quanto con la Magistratura, finalizzato ad una intelligente, reciproca comprensione delle problematiche -problematiche reali, e non mero “scudo” sintomatico di un gretto rifiuto della novità -, può e deve allora contribuire a rendere quegli strumenti realmente utili ed efficaci per il raggiungimento delle fondamentale finalità di abbattimento del contenzioso. Altrimenti, è inutile nasconderlo, la mancata “reciproca comprensione” non può che condurre ad un risultato addirittura opposto, costituendo gli strumenti ipoteticamente deflattivi un passaggio meramente formalistico, utile solo ad un ulteriore allungamento dell’iter processuale: il che sarebbe una sconfitta per tutti, anche, e si vorrebbe dire in primo luogo, per il soggetto per definizione portatore di interessi collettivi. L’atteggiarsi delle Amministrazioni pubbliche nei confronti degli strumenti deflattivi del contenzioso è caratterizzato da due ordini di distinte problematiche, da affrontare e risolvere con approcci diversi. Vi è, per così dire, un aspetto “soggettivo”: meno serio, certamente, sotto il profilo giuridico, ma tutt’altro che trascurabile, poiché può costituire di fatto un ostacolo difficilmente sormontabile: il timore che nutre il funzionario pubblico nell’addivenire ad una composizione della controversia. e ciò per due ordini di ragioni. uno, per così dire, è psicologico, e di “educazione”: spesso, i vertici delle Amministrazioni -quelli che, naturalmente, si trovano a dover assumere la decisione finale sulla definizione della controversia avendo la disponibilità del diritto -provengono da una formazione culturale tradizionalmente sospettosa di RASSeGNA AVVOCATuRA DeLLO STATO - N. 2/2017 fronte ad accordi che precedano o sostituiscano una statuizione giurisdizionale. L’altro, al primo collegato, ma ben più concreto, è costituito dal timore che concludere una transazione possa essere per il funzionario fonte di responsabilità. e occorre dire che l’assunzione di atteggiamenti rigidi da parte del Giudice contabile cui non di rado si è assistito possono avere decisiva influenza in questo senso. Sono, questi due profili “soggettivi”, aspetti sui quali si può certamente lavorare, e l’Avvocatura dello Stato a questo fine concretamente si sta impegnando. Occorre cioè far comprendere che una buona, o comunque una ragionevole transazione, lungi dal comportare responsabilità, può anzi prevenire un addebito di mala gestio della cosa pubblica. Rifiutare un accordo in una situazione dove l’accordo appare consigliabile per prevenire più gravi conseguenze per l’erario costituisce propriamente una scelta di “buona amministrazione” da assumere proprio nel corretto perseguimento dell’interesse pubblico. L’assistenza del difensore, che chiarisca caso per caso questo punto, può certamente essere fondamentale, come altrettanto utile può essere la disponibilità e la collaborazione dell’Autorità giudiziaria, laddove in qualche modo investita della questione, e degli stessi difensori di controparte. Anche per il privato un accordo rapido e ragionevole può essere preferibile, pur se in termini magari meno vantaggiosi, ma più facilmente accettabili da parte dell’Amministrazione. Tuttavia, accanto a questi profili che abbiamo definito “soggettivi”, ben più serie problematiche “oggettive” vanno ad incidere sulla partecipazione delle Amministrazioni pubbliche e dei loro difensori ai procedimenti deflattivi del contenzioso. È su questi aspetti che una piena comprensione e collaborazione da parte di tutte gli atri soggetti che intervengono negli ADR possono fornire il contributo decisivo per la effettiva utilità del rimedio alternativo alla tutela giurisdizionale. Con più specifico riferimento alla mediazione, un primo ordine di problemi deriva dai limiti di applicabilità normativamente posti al ricorso a quello strumento deflattivo. a. La normativa vigente, correttamente, ritiene percorribile la strada della mediazione limitatamente ai soli diritti disponibili. Con riferimento ai soggetti pubblici, ciò si traduce in una limitazione per tutta una serie di vicende che, ratione materiae, non sono suscettibili di accordo. Considerato anche il testuale riferimento alle “controversie civili e commerciali”, si deve dunque escludere che possano essere oggetto di mediazione (perché non possono essere oggetto di accordo): i. le controversie in materia di diritto amministrativo, laddove cioè l’Amministrazione abbia esercitato o debba esercitare potestà pubbliche; TeMI ISTITuzIONALI ii. le controversie tributarie (evidentemente comprese quelle in materia doganale); iii. le controversie in tema di responsabilità dello Stato per atti compiuti iure imperii. Tra queste devono ritenersi evidentemente rientrare le (non transigibili) controversie in materia di responsabilità per l’eccessiva durata del processo (cd. “legge Pinto”), come dimostra la necessità, che era stata come noto a suo tempo avvertita, di istituire una specifica procedura di natura para-conciliativa; iv. le pretese civili azionate a mezzo della costituzione di parte civile nel procedimento penale; v. le controversie relative a diritti reali “pubblici” (si pensi a vicende involgenti la demanialità o la natura patrimoniale indisponibile di un bene). In tutti questi casi, è evidente (e deve essere compreso dalle stesse controparti e dai Giudici) che l’opposizione di un rifiuto alla mediazione/negoziazione discende da un preciso obbligo di legge e non da un “capriccio” di un’Amministrazione neghittosa. b. Ma a queste ipotesi devono affiancarsene logicamente altre, pur vertenti in materia “civile e commerciale”, nelle quali l’Amministrazione non può logicamente addivenire ad accordo alcuno, poiché in realtà la atipicità del suo operare non consente di ricomprendere la controversia, se non attraverso una lettura superficiale, in tale novero. Si pensi, così, ai casi in cui vi sia stretta commistione tra la materia civilistica e quella pubblicistica, laddove cioè l’Amministrazione si trovi ad agire sì, formalmente, sul piano privatistico, ma attraverso una commistione con attività e strumenti di altra natura. Agevoli esempi di casi simili, nei quali non appare possibile ricorrere agli strumenti deflattivi considerati, sono costituiti: i. dalla necessaria parallela adozione di atti organizzativi; ii. laddove si sia in presenza di rapporti contrattuali “speciali” nei quali, in considerazione della natura pubblica di uno dei contraenti, siano inseriti nel contratto clausole imposte dalla legge (il che accade, a titolo meramente esemplificativo, per talune tipologie di locazioni); iii. quando sia in ogni caso necessaria l’adozione di altri atti amministrativi (si pensi alle “transazioni” regolate da legge e da regolamenti in materia di danno da emotrasfusione); iv. più in generale, laddove si sia in presenza di atti amministrativi presupposti, sui quali evidentemente l’Amministrazione non può incidere direttamente in via pattizia (si pensi ai contratti accessivi a concessioni). c. Non si può infine trascurare l’esistenza di controversie per le quali, in ragione delle loro peculiari connotazioni, la via dei rimedi alternativi come definiti dalla normativa in discorso non risulta in sostanza adeguata, finendo RASSeGNA AVVOCATuRA DeLLO STATO - N. 2/2017 con il costituire una superfetazione superflua/inutile che finisce proprio col comportare una situazione dilatoria contraria alla stessa finalità degli ADR. È ben noto, ed evidente, che i rimedi alternativi al contenzioso giudiziale sono stati pensati principalmente per il contenzioso tra privati di natura sostanzialmente bagatellare: è in questo campo che hanno le maggiori possibilità di essere realmente incisivi, abbattendo il contenzioso. Ma ciò non avviene in una larga parte del contenzioso delle Amministrazioni pubbliche. esso involge materie di particolare delicatezza e complessità giuridica, non di rado di elevatissimo valore, nei quali si confrontano con l’Amministrazione soggetti privati (imprenditori di grandi dimensioni, multinazionali, ecc.) che hanno a loro volta strutture legali particolarmente specializzate e agguerrite. Anche laddove non siano normativamente previsti procedimenti speciali volti alla definizione (ma si pensi, in primo luogo, ai Rimedi alternativi alla tutela giurisdizionale previsti dal Capo II del Titolo I della Parte VI del nuovo Codice dei contratti pubblici, D. Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, artt. 205 e seguenti), è evidente, da un lato, che i legali delle parti, prima di accedere al contenzioso giudiziale, avranno tentato di percorrere ogni strada idonea alla risoluzione bonaria della controversia, in analogia con il procedimento di negoziazione assistita; d’altro canto, è lecito dubitare che un mediatore, pur dotato di grande abilità dialettica e di capacità di “smussare gli angoli” tra le parti private, possa fornire un effettivo contributo ad una soluzione pre-giudiziale della vicenda. In questi casi, se mai, potrebbe essere solo il Giudice, cognita causa, a suggerire alle parti una via conciliativa sulla base del (principio di) convincimento che si fosse in lui formato in sede di esame della causa sottopostagli. Parimenti da escludere appare l’utilità concreta di un tentativo di composizione alternativo per il contenzioso seriale che spesso vede coinvolte le Amministrazioni pubbliche (non diversamente da quanto accade, per vero, ad altri soggetti quali Assicurazioni, Banche, Finanziarie, ecc.). È in questi casi evidente che non è possibile risolvere la singola controversia, anche se di valore non particolarmente elevato, se non passando attraverso una soluzione di carattere più generale, per la quale deve ravvisarsi una competenza ai massimi livelli decisionali, anche a tutela di fondamentali principi costituzionali quali la parità di trattamento tra le parti e il buon andamento dell’Amministrazione. In tutti questi casi sembra giustificato e comprensibile il rifiuto dell’Amministrazione di anche solo avviare o partecipare ad un ADR che finirebbe, come detto, col comportare unicamente una dilazione superflua rispetto all’accesso alla giustizia. Nel quadro così sommariamente delineato resta da comprendere quale debba essere il ruolo del difensore pubblico, e, in particolare, dell’Avvocatura dello Stato: ruolo che, va detto subito, non può che essere fondamentale nel TeMI ISTITuzIONALI l’affiancare e assistere l’Amministrazione patrocinata favorendo la finalità, da tutti condivisa, di una riduzione del contenzioso, sgombrando però il campo dell’errato e dal superfluo e concentrando l’intervento su quei casi nei quali vi sia effettiva, concreta possibilità di definizione. È di piena evidenza che, proprio per la sua posizione istituzionale di difensore della parte, ma anche di pubblico ufficiale, l’Avvocato dello Stato, ben prima della nascita degli strumenti deflattivi di cui si discorre, si è sempre inserito nella dialettica processuale come garante della legittimità dell’azione amministrativa. In quest’ottica svolge un ruolo fondamentale la funzione consultiva del- l’Avvocatura, che può consentire all’Amministrazione, per un verso, di prevenire un contenzioso inutile o dannoso, e, per l’altro, di definire ove possibile in tempi ragionevoli il contenzioso con una soluzione accettabile per entrambe le parti in contesa. Non può tacersi, per contro, che gli adempimenti necessari per fronteggiare un crescente accesso da parte del privato ai rimedi alternativi di cui si tratta costituiscano per l’Avvocatura dello Stato un aggravio consistente in termini di carico di lavoro, richiedendosi in materia una attività giuridica e soprattutto una presenza “fisica” in luoghi diversi, spesso oggettivamente inconciliabili con i concomitanti impegni professionali degli Avvocati dello Stato. Per accennare a uno solo tra i tanti problemi (che il Legislatore non sembra a suo tempo essersi posto), per l’ente pubblico che intenda agire in una materia per la quale è prevista la mediazione obbligatoria si pone il problema della scelta della struttura cui rivolgersi: scelta che comporta l’impegno di fondi pubblici e impone quindi obblighi contabili che potrebbero giungere addirittura alla necessità dello svolgimento di una procedura selettiva per l’individuazione della struttura. Sembra tuttavia che, anche alla luce di quanto fin qui esposto, sia possibile una ragionevole lettura delle disposizioni che regolano gli ADR in modo tale da contemperare le varie esigenze presenti, riducendo l’intervento concreto dell’Avvocatura alle sole ipotesi in cui lo stesso sia effettivamente utile, ferma restando una costante e generale attività di assistenza dell’Amministrazione, in linea peraltro con la funzione consultiva sempre svolta. Come si accennava (cfr. le lettere a., b.e c. che precedono), vi sono dei casi nei quali il rimedio alternativo non è giuridicamente praticabile, o è comunque sostanzialmente privo di utilità perché evidentemente destinato al fallimento. Ragioni di economia nell’attività dei soggetti pubblici suggeriscono in questi casi che l’Amministrazione (sempre “sentita l’Avvocatura”) provveda direttamente, e chiarisca con una motivata risposta all’invito alla mediazione o alla negoziazione -eventualmente intevenendo direttamente in sede di primo incontro di mediazione - le ragioni che sono di radicale ostacolo al percorso conciliativo. RASSeGNA AVVOCATuRA DeLLO STATO - N. 2/2017 Deve essere altresì possibile per l’Amministrazione intervenire direttamente (ed esclusivamente) nel procedimento in tutti i casi in cui la normativa le consenta di presenziare da sola anche in sede giurisdizionale (si pensi, a titolo esemplificativo, alla previsione degli artt. 2 e 3 del T.u. n. 1611/1933 e di altre disposizioni similari; a non diversa soluzione sembra potersi giungere nelle ipotesi di Amministrazioni che abbiano uffici legali interni e che si avvalgano del patrocinio cd. “autorizzato” dell’Avvocatura). Sarebbe, in effetti, del tutto irrazionale pretendere l’intervento dell’Avvocatura pubblica in una fase pre-contenziosa laddove poi l’Amministrazione possa difendersi in giudizio da sola. Parteciperà invece certamente all’ADR l’Avvocatura (oltre che nei casi in cui occorre promuovere la procedura di mediazione obbligatoria) laddove si delineino per la mediazione o la negoziazione concrete possibilità di successo: nel qual caso, oltre a svolgere la normale attività di consulenza per l’Amministrazione, l’Avvocatura si darà carico di intervenire partecipando a quanto necessario per il successo del procedimento, e in primo luogo alla stesura dell’accordo transattivo. Sembra, in conclusione, che una lettura “elastica” e costruttiva delle disposizioni sui rimedi alternativi per la definizione delle controversie quale quella suggerita nelle pagine che precedono con riferimento alla partecipazione agli stessi delle Amministrazioni pubbliche e dei loro difensori sia pienamente conforme allo spirito delle norme, e possa contribuire, con la collaborazione di tutte le parti coinvolte, all’auspicato risultato di una riduzione del contenzioso. A ciò l’Avvocatura pubblica intende contribuire pienamente, rendendosi fattivo protagonista per tendere agli obiettivi posti nella Carta fondamentale per una giustizia più celere ed efficace. TeMI ISTITuzIONALI Avvocatura Generaledello Stato CIRCOLARE n. 36 / 2017 Oggetto: Patrocinio dell’Avvocatura dello Stato dell’Ente “Agenzia delle Entrate -Riscossione” (“ADER” già Equitalia s.p.a.). Protocollo d’intesa sottoscritto il 22 giugno 2017. L'art. 1, comma 1, del D.L. n. 193/2016 (convertito nella legge n. 225/2016) ha previsto che "a decorrere del 1° luglio 2017 le società del Gruppo Equitalia sono sciolte" (ad eccezione di equitalia Giustizia s.p.a) e che alle stesse società "subentra, a titolo universale, nei rapporti giuridici attivi e passivi, anche processuali" un ente pubblico economico denominato "Agenzia delle Entrate - Riscossione" (in seguito solo "ADER"). Ai sensi del successivo comma 8 il nuovo ente è autorizzato "ad avvalersi del patrocinio dell'Avvocatura dello Stato ai sensi dell'articolo 43 del testo unico delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull'ordinamento dell'Avvocatura dello Stato, di cui al regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611, fatte salve le ipotesi di conflitto e comunque su base convenzionale. Lo stesso ente può altresì avvalersi, sulla base di specifici criteri definiti negli atti di carattere generale deliberati ai sensi del comma 5 del presente articolo, di avvocati del libero foro, nel rispetto delle previsioni di cui agli articoli 4 e 17 del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, ovvero può avvalersi ed essere rappresentato, davanti al tribunale e al giudice di pace, da propri dipendenti delegati, che possono stare in giudizio personalmente; in ogni caso, ove vengano in rilievo questioni di massima o aventi notevoli riflessi economici, l'Avvocatura dello Stato, sentito l'ente, può assumere direttamente la trattazione della causa. Per il patrocinio davanti alle commissioni tributarie continua ad applicarsi l'articolo 11, comma 2, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546". La fase di trasformazione è affidata ad un Commissario straordinario, nominato con D.P.C.M. 16 febbraio 2017 fino al 30 giugno 2017, il quale tra i vari compiti è tenuto alla "predisposizione di tutti gli atti, gli accordi i contratti e le convenzioni propedeutici all'istituzione dell'ente e necessari all'operatività del medesimo". Ciò premesso, il 22 giugno 2017 è stato sottoscritto - tra il Commissario e l'Avvocato Generale -un Protocollo d'intesa diretto a disciplinare le modalità operative dello svolgimento del patrocinio del nuovo ente da parte dell'Avvocatura dello Stato. Nel Protocollo sono state individuate le controversie per le quali l'assistenza e la rappresentanza in giudizio verrà resa dall'Avvocatura, mentre per il restante contenzioso ADeR potrà stare in giudizio tramite propri dipendenti ovvero con l'assistenza di avvocati del libero foro. Controversie affidate all'Avvocatura In particolare sono affidate all'Avvocatura: 1) tutte le cause davanti al Giudice Amministrativo; 2) tutte le cause davanti alla Corte di Cassazione; 3) tutto il contenzioso civile non afferente alla riscossione (ad es. cause di locazione, di appalti ecc. in cui è coinvolto l'ente); 4) procedimenti penali in cui si ritenga opportuna la costituzione di parte civile; 5) cause di lavoro dei dipendenti dell'ente (dove il patrocinio è assicurato "di norma" ); RASSeGNA AVVOCATuRA DeLLO STATO - N. 2/2017 6) contenzioso afferente all'attività di riscossione, limitatamente: a) ad azioni risarcitorie (con esclusione di quelle radicate innanzi al Giudice di Pace anche in fase di appello); b) ad azioni revocatorie, di simulazione e ogni altra azione ordinaria a tutela dei crediti affidati in riscossione (in sostanza si tratta di cause attive instaurate dall'ente); c) altre cause innanzi al Tribunale Civile e alla Corte d'Appello Civile, nelle sole ipotesi in cui sia parte anche un ente impositore difeso dall'Avvocatura (ad esempio opposizioni a cartelle di pagamento; opposizioni all'esecuzione o agli atti esecutivi). Controversie non affidate all'Avvocatura Ne consegue che saranno trattate da ADeR tutte le altre controversie, ed in particolare: - tutte le cause innanzi al Giudice di Pace (compresa la fase di appello); -tutte le cause innanzi alle Sezioni Lavoro di Tribunale e Corte d'Appello (che non riguardino il personale dipendente dell'ente); - tutte le cause innanzi alle Commissioni Tributarie; -le cause innanzi al Tribunale Civile e alla Corte d'Appello afferenti alla riscossione (opposizioni a cartelle di pagamento ecc.) in cui non sia evocato in giudizio un ente impositore difeso dall'Avvocatura. Controversie rilevanti Al punto 3.2 del protocollo si precisa che, in ogni caso, "L 'Avvocatura, sentito l'Ente, assicura il patrocinio, anche innanzi alle Magistrature Superiori, nelle controversie in cui vengono in rilievo questioni di massima o particolarmente rilevanti in considerazione del valore economico o dei principi di diritto in discussione". Disposizioni transitorie Al punto 7 del Protocollo si precisa che "L'Avvocatura assume il patrocinio dell'Ente nelle controversie introdotte con atti notificati a decorrere dal 1° luglio 2017" - ancorchè risulti ancora intimata equitalia s.p.a. - "nonché per tutte le controversie innanzi al Consiglio di Stato o alla Corte di Cassazione, per le quali, alla data del 1° luglio 2017, non sia stato ancora conferito incarico ad avvocati del libero foro". Attribuzione delle nuove competenze all'interno dell'AGS In via di prima applicazione e sperimentale, all'interno dell'Avvocatura Generale: -tutte le controversie di ADeR in cui sia parte evocata in giudizio anche un'Amministrazione (quale ente impositore) difesa dall'Avvocatura, sono attribuite alla Sezione di pertinenza della stessa Amministrazione (1); -le altre cause (nonchè l'attività consultiva) di ADeR sono attribuite, di regola, alla Sezione I Bis. Con cadenza mensile si procederà alla verifica dell'impatto effettivo delle nuove competenze, anche ai fini della adozione di tutti i provvedimenti opportuni sotto il profilo organizzativo e di riparto delle risorse. Contributo unificato Si ritiene opportuno evidenziare che il Ministero della Giustizia con l'allegata (omissis) (1) Ovviamente qualora siano presenti Amministrazioni di diverse Sezioni, si seguirà il consueto criterio della prevalenza. TeMI ISTITuzIONALI nota 26 marzo 2014 ha ritenuto -per il contenzioso in tema di riscossione -suscettibile di prenotazione a debito il contributo unificato a carico dell'Agente della riscossione (ai sensi degli artt. 48 del D.P.R. n. 602/1973 e 157 del D.P.R. n. 115/2002) (2). L’AVVOCATO GeNeRALe DeLLO STATO avv. Massimo Massella Ducci Teri CIRCOLARE n. 41 / 2017 Oggetto: Patrocinio dell’Avvocatura dello Stato dell’Ente “Agenzia delle Entrate -Riscossione” (“ADER” già Equitalia s.p.a.). Gestione del contenzioso. Richiamata l'allegata Circolare n. 36/2017 relativa al patrocinio da parte dell'Avvocatura dello Stato di ADeR ("Agenzia delle Entrate -Riscossione ", già equitalia s.p.a.), nonché il Protocollo d'Intesa 22 giugno 2017 (disponibile sulla INTRANeT), si forniscono di seguito una serie di indicazioni utili per la corretta gestione del relativo contenzioso. 1. Corrispondenza Avvocatura - ADER La corrispondenza tra ADeR e l'Avvocatura avviene di norma via PeC. Tuttavia il punto 3.8.2 del Protocollo d'Intesa prevede che nelle ipotesi in cui la richiesta di ricorso per cassazione venga trasmessa oltre i termini previsti (due mesi prima della scadenza; un mese se opera il termine breve), "la stessa è inviata anche all'indirizzo di posta elettronica ordinaria della sezione competente, del Responsabile e del Coordinatore di sezione". Analoga modalità è prevista nei casi di proposte di controricorso inviate oltre il termine di 20 giorni prima della scadenza (punto 3.8.12 del protocollo d'Intesa). Per il contenzioso afferente alla riscossione, i rapporti saranno tenuti di norma con le Direzioni Regionali (DR). L'elenco degli indirizzi con i nominativi e recapiti dei rispettivi titolari sarà reso disponibile sulla INTRANeT. 2. Contenzioso fuori sede dell'Avvocatura Come previsto al punto 3.1.9 del Protocollo d'Intesa "Per le cause che si svolgono davanti ad autorità giudiziaria avente sede diversa da quella della competente Avvocatura, que- st'ultima può avvalersi, per le funzioni procuratorie, di dipendenti dell'Ente ai sensi dell'art. 2 del R.D. n. 1611 del 1933. Nelle ipotesi in cui venga accertata l'impossibilità, di avvalersi di dipendenti dell'Ente, le funzioni procuratorie possono essere delegate ad avvocati del libero foro iscritti nell'elenco avvocati dell'Ente e dallo stesso indicati. I relativi compensi saranno liquidati direttamente dall'Ente". Ne consegue che in tali ipotesi non dovranno essere incaricati i consueti delegati del- l'Avvocatura ed inoltre non sarà necessario richiedere e liquidare la nota spese del delegato dell'ente per l'attività procuratoria svolta. (2) La prenotazione a debito del contributo unificato, com'è noto, è invece consentita alle Agenzie fiscali dall'art. 158 del D.P.R. n. 115/2002, richiamato dall'art. 12, comma 5, del D.L. n. 16/2012 (convertito nella legge n. 44/2012). RASSeGNA AVVOCATuRA DeLLO STATO - N. 2/2017 3. Atti notificati irritualmente all'Avvocatura Trattandosi di patrocinio ex art. 43 R.D. n. 1611/1933, eventuali notifiche di atti introduttivi di giudizio effettuate ad ADeR presso l'Avvocatura sono da ritenersi nulle (e non anche inesistenti: cfr. Cass. SS.uu. n. 22641/2007; SS.uu. n. 1878/2009; Cass. n. 11814/2017). Come previsto al punto 3.1.7 del Protocollo d'Intesa "Qualora gli atti introduttivi del giudizio o di un grado di giudizio e qualunque altro atto o documento vengano notificati al- l'Ente presso una sede dell'Avvocatura, non ancora investita della difesa, sono dalla stessa inviati senza indugio alla competente struttura dell'Ente". A tale adempimento si potrà ovviare solo qualora dall'atto emerga che la notifica è stata eseguita anche presso ADeR. Ovviamente in caso di urgenza si valuteranno le iniziative più opportune da adottare al fine di evitare pregiudizi per l'ente (ad esempio, in caso di art. 700 c.p.c. si potrà comparire all'udienza al solo fine di evidenziare la nullità della notifica). Dal punto di vista archivistico, in caso di atto notificato irritualmente presso l'Avvocatura, occorrerà verificare se trattasi di contenzioso che verrà seguito dall'ente ovvero dall'Avvocatura. Nel primo caso - in deroga a quanto previsto nel punto 3, comma 2, della Circolare n. 42/2010 (1) - non occorre impiantare un affare nuovo, ma l'atto verrà inserito nell'Affare d'Ordine annuale n. 48 e trasmesso ad ADeR con lettera standard. Nella seconda ipotesi invece dovrà essere impiantato un affare nuovo ed inviata la consueta richiesta di rapporto. 4. Cause in cui, oltre ad ADER, è parte in giudizio anche un Ente difeso dall'Avvocatura Allorché una richiesta di patrocinio da parte di ADeR riguardi una causa in cui è parte già un ente difeso dall'Avvocatura (ciò che dovrebbe costituire la regola per il contenzioso davanti al Tribunale in tema di riscossione: punto 6) lett. c) Circolare n. 36/2017), dovrà essere impiantato un unico affare (cfr. punto 3, comma 4, della citata Circolare n. 42/2010) e l'affare sarà di competenza della Sezione alla quale appartiene l'altro ente difeso. Potrà quindi essere effettuata un'unica costituzione in giudizio per tutte le parti come normalmente avviene per le cause con più Amministrazioni convenute (ovviamente differenziando le relative posizioni e sempreché non vi siano ipotesi di conflitto). 5. Cause in cui l'interesse di ADER è residuale Accade spesso nelle cause afferenti la riscossione, che la controversia riguardi in realtà il merito della pretesa con la conseguenza che l'interesse sostanziale è dell'ente impositore. In tali casi, in cui è evocata in giudizio anche ADeR (il che avviene, di norma, quando viene impugnata una cartella o un atto della riscossione), secondo la giurisprudenza della Suprema Corte viene a crearsi una situazione di litisconsorzio necessario processuale (Cass. n. 13732/2016 (2), a differenza di quello sostanziale che in primo grado non è ritenuto sussistente). (1) La Circolare n. 42/2010 "Criteri di impianto degli affari legali" al punto 3 comma 2 prevede che "Sono impiantati come affari contenziosi anche gli atti notificati presso l'Avvocatura agli enti pubblici e le amministrazioni il cui patrocinio sia stato autorizzato ai sensi dell'art. 43, comma 1, R.D. 1611/1933, nonché le Regioni a statuto ordinario che abbiano adottato la delibera di cui all’art. 43, comma 5, R.D. 1611/1933". TeMI ISTITuzIONALI Ne consegue la necessità che ADeR sia presente in giudizio unitamente all'ente impositore ancorché, come rilevato, l'interesse prevalente sia di quest'ultimo. In siffatte ipotesi è opportuno che la costituzione in giudizio per ADeR avvenga di norma solo su espressa richiesta dell'ente. Si è infatti concordato che in tali casi l'ente potrà anche scegliere di non conferire all'Avvocatura l'incarico, rimanendo contumace (evitando in tal modo un inutile aggravio di attività difensiva da parte dell'Avvocatura). Quanto appena detto vale anche per le cause tributarie in Cassazione (e comunque nei casi di impugnazione in generale). Accade spesso in tali giudizi che una sentenza di Commissione Tributaria Regionale debba essere impugnata dall'Avvocatura per conto dell'Agenzia delle entrate ed in causa sia presente anche ADeR (che davanti alla Commissione Tributaria sta in giudizio direttamente ovvero con avvocati del foro libero). In tali ipotesi di norma il ricorso dovrà essere proposto per la sola Agenzia delle entrate e notificato anche adADeR (come si è detto, litisconsorte necessario) presso la sede legale (Via Giuseppe Grezar, 14 -00142 Roma), anche via PeC all'indirizzo contenzioso@pec.agenziariscossione.gov.it ovvero nel domicilio eletto nel giudizio di merito. Solo qualora si ritenga che sussista un interesse non marginale di ADeR, il ricorso potrà essere proposto anche nell'interesse dello stesso ente, al quale dovrà essere data previa comunicazione o comunque (qualora i tempi non lo consentano) tempestiva notizia. 6. Prenotazione a debito nelle cause di ADER Come precisato all'ultimo punto della Circolare n. 36/2017, la prenotazione a debito di ADeR è prevista per il solo contenzioso afferente la riscossione (sia di esecuzione che di cognizione). In tutti gli altri casi, il contributo unificato dovrà essere versato con le consuete modalità. 7. Segnalazioni e richieste di chiarimenti Al fine di facilitare una corretta instaurazione di rapporti con il nuovo ente, verrà inserito nella INTRANeT un apposito settore (ADeR -eX eQuITALIA) contenente tutte le indicazioni utili. eventuali richieste di chiarimenti potranno essere inviate alla casella di posta elettronica contenziosoader@avvocaturastato.it e le relative risposte potranno essere inserite nell'apposita sezione delle FAQ sulla INTRANeT. Solo nei casi di assoluta urgenza si potranno contattare il Coordinatore o il vice Avvocato generale della Sezione I Bis dell'Avvocatura Generale. L’AVVOCATO GeNeRALe DeLLO STATO avv. Massimo Massella Ducci Teri (2) Cass. 6 luglio 2016 n. 16732: "Il giudizio in primo grado è stato promosso dalla contribuente nei confronti dell'Agenzia delle entrate e del Concessionario alla riscossione ed è proseguito tra le medesime parti in appello, dando vita ad un litisconsorzio processuale necessario, come rilevato già da questa Corte in fattispecie analoghe (Cfr. Cass. nn. 8125/2016, 10934/2015, 24868/2013)". ContenzIoSonAzIonALe Le Sezioni Unite sul concorso tra i reati di malversazione a danno dello Stato e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche: il caso Invitalia S.p.A. Nota a CassazioNe PeNale, sezioNi UNite, seNteNza 28 aPrile 2017 N. 20664 Giulia Fabrizi* Con la sentenza in commento le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione sono state chiamate a dirimere il contrasto giurisprudenziale circa il rapporto tra le due fattispecie di reato contro l’Amministrazione Pubblica: malversazione a danno dello Stato ex art. 316-bis c.p. e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche ex art. 640-bis c.p. Si è dunque affermato il seguente principio di diritto: «il reato di malversazione in danno dello stato (art. 316-bis cod. pen.) concorre con quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis cod. pen.)». sommario: 1. la vicenda giudiziaria - 2. Gli orientamenti giurisprudenziali - 3. il concorso apparente di norme - 4. il ne bis in idem: la sentenza della Corte Costituzioanle n. 200 del 2016 - 5. il principio di sussidiarietà regola il rapporto tra gli artt. 640-bis e 316-ter c.p. - 6. il rapporto tra gli artt. 640-bis e 316-bis c.p. - 7. Considerazioni conclusive. la vicenda giudiziaria. Il Tribunale di Genova accertava la penale responsabilità di S.P. e B.F. in relazione al reato di cui all’art. 316-bis c.p. realizzato con la malversazione dei beni strumentali di proprietà della CED & Multiservice s.a.s., società di cui la prima risultava, all'atto della costituzione, socia accomandataria, e dal dicembre 2006 amministratrice, e la seconda socia di fatto. I beni oggetto del reato erano stati acquistati mediante l'impiego di finanziamenti pubblici, di cui non risultavano restituite ventuno delle ventotto rate che la società era te (*) Dottoressa in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura Generale dello Stato. rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 nuta a rimborsare. Il giudice di primo grado condannava la S. a mesi otto di reclusione e la B. a anni uno di reclusione, concedendo ad entrambe la sospensione della pena, subordinata al pagamento della provvisionale in favore della parte civile. Venivano, altresì, applicate le pene accessorie e condannate le imputate in solido al risarcimento del danno in favore della parte civile, con liquidazione di una provvisionale. In relazione al secondo reato ascritto, ossia la truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche ex art. 640-bis c.p., si dichiarava non doversi procedere nei confronti della S. e della B, in quanto l'accertamento di responsabilità si era limitato alla sottrazione dei beni strumentali acquistati con i finanziamenti ottenuti, ed al correlativo mancato pagamento delle rate residue allo scioglimento della società riguardanti il prestito agevolato concesso. Si riteneva, pertanto, integrata la sola fattispecie di malversazione a danno dello Stato ex art. 316-bis c.p. La Corte di Appello di Genova con sentenza del 18 febbraio 2016 confermava quanto statuito dal giudice di primo grado. I difensori di S. e B. proponevano, maldestramente, ricorso per Cassazione, dolendosi di: a) Violazione della legge penale e vizio della motivazione, in relazione all'applicazione dell'art. 640 bis c.p. b) Mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, quanto alla verifica di sussistenza del reato di cui all'art. 316 bis c.p., connesso alla distrazione dei beni strumentali, accertato nel presupposto della natura fittizia del- l'attività della CED & Multiservizi s.a.s. c) Violazione di legge penale e vizio della motivazione, in relazione al mancato riconoscimento della natura sussidiaria del reato di cui all'art. 316 bis c.p., rispetto a quello di cui all'art. 640 bis c.p., essendo i due comportamenti contestati espressione di identica offesa al bene giuridico tutelato. d) Violazione di legge e vizio argomentativo, in relazione al diniego delle attenuanti generiche per la B., al riconoscimento della sospensione condizionale della pena subordinata al pagamento di una provvisionale ed al mancato riconoscimento della non menzione della condanna. La difesa della parte civile Invitalia s.p.a. deduceva la inammissibilità di tutti i motivi di ricorso, depositando insieme al Procuratore Generale memorie con le quali contestava la tesi del preteso assorbimento del reato di cui all'art. 316 bis c.p., nell’imputazione di cui all'art. 640 bis c.p., e si ribadiva l'autonomia delle fattispecie contestate. Preso atto della sussistenza di due orientamenti giurisprudenziali contrapposti circa il rapporto tra le due fattispecie, l’uno a favore dell’autonomia tra le due e quindi della possibilità di concorrere, l’altro a favore della sussidiarietà del 316 bis rispetto al 640 bis, stante l’identità del bene giuridico tutelato, la VII Sezione con ordinanza n. 47174 del 2016 ha rimesso alle Sezioni Unite la ConTEnzIoSo nAzIonALE seguente questione: «se nel caso di erogazioni da parte di ente pubblico di contributo o finanziamento, ottenuto fraudolentemente, il delitto di cui all’art. 640-bis c.p. concorra con quello di cui all’art. 316-bis c.p., ove il contributo finalizzato a favorire attività di interesse pubblico sia destinato almeno in parte ad altre finalità, ovvero assorba tale ultimo delitto, nel presupposto che esso realizzi uno stadio minore dell’offesa al medesimo bene protetto» (1). 2. Gli orientamenti giurisprudenziali. La Corte esordisce dando conto degli orientamenti giurisprudenziali sul punto. Un primo indirizzo interpretativo maggioritario in giurisprudenza (2), ma minoritario in dottrina (3), si pone a favore dell’autonomia tra le due fattispecie incriminatrici di truffa aggravata e malversazione a danno dello Stato, ritenendo assente qualsiasi rapporto di interferenza, meno che mai quello di specialità, e ammettendo, pertanto, la possibilità di configurare un concorso materiale di reati ex art. 81 c.p. in primis sottolinea la diversità degli interessi giuridici protetti - il reato di cui all’art. 316-bis c.p. tutelerebbe la P.A. da atti contrari agli interessi della collettività, anche di natura non patrimoniale, mentre quello di cui all’art. 640bis c.p. preserverebbe il patrimonio pubblico da atti di frode, aggravata nel caso di conseguimento di erogazioni pubbliche -; in secundis, esclude che tra le due fattispecie possa sussistere un rapporto di specialità a causa della sola eventuale contemporaneità delle condotte tipizzate: il comportamento preso in considerazione ex art. 640-bis c.p., invero, riguarderebbe una fase antecedente l’erogazione delle provvidenze pubbliche, di contro, quello ex art. 316bis c.p. tipicizzerebbe una condotta attinente alla fase esecutiva del progetto finanziato e, dunque, successiva al versamento da parte dello Stato del finanziamento richiesto (4). (1) nel caso di specie, l’esame del motivo di ricorso sub c) è stato correttamente ritenuto pregiudiziale dalla VII Sezione, poiché dal suo accoglimento sarebbe derivata la necessità di dichiarare l’estinzione dell’unico e assorbente reato di truffa aggravata, e quindi di prosciogliere le imputate dal reato di malversazione per cui erano state condannate nei precedenti gradi di giudizio. (2) Cass. pen. Sez. 2, n. 29512 del 16 giugno 2015, Sicilfert s.r.l., rv. 264232; Cass. pen. Sez. 2, n. 43349 del 27 ottobre 2011, Bonaldi, rv. 250994; Sez. 6, n. 4313 del 2 dicembre /2003, dep. 2004, Gramegna, rv. 228655; Cass. pen. Sez. 1, n. 4663 del 7 novembre 1998, Saccani, rv. 211494; Cass. pen. Sez. 6, n. 3362 del 15 dicembre 1992, Scotti, rv. 193155. (3) F. AnToLISEI, manuale di diritto penale - Parte speciale, II, 2008, XV ed., p. 327 s.; r. GIo- VAGnoLI, studi di diritto penale. Parte speciale, p. 451, ad avviso del quale, operando le due ipotesi di reato in fasi esecutive distinte, è certamente configurabile il concorso tra le due. (4) In Cass. pen., Sez. 2, n. 29512 del 16 giugno 2015, Sicilfert s.r.l., rv. 264232, la Corte, pur consapevole di decisioni di segno contrario, escluse che tra le due fattispecie potesse ravvisarsi un rapporto di sussidiarietà, affermando che “il reato di malversazione in danno dello stato (art. 316 bis c.p.) può concorrere con quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640 bis c.p.)”: in considerazione della non identità degli interessi protetti. Gli artt. 640 e 640 bis c.p., tute rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 Asserisce, invero, che la configurabilità del reato di cui all’art. 316-bis c.p., introdotto dalla L. 26 aprile 1990, n. 86, art. 3 e avente lo scopo di reprimere le frodi attuate non destinando i fondi pubblici già conseguiti alla finalità prevista, solo ipoteticamente, ma non necessariamente, potrebbe postulare l’ottenimento delle provvidenze economiche mediante gli “artifizi e raggiri”, tipizzati dal reato ex art. 640-bis c.p. Ben più verosimile sarebbe, però, la situazione in cui il soggetto richiedente abbia correttamente esposto e documentato una situazione meritevole di contributi, versando poi in illecito solo in un momento successivo, quando, ottenuto il finanziamento, lo destini a scopi diversi da quelli in vista del quale era stato erogato. Di contro, il 640-bis richiederebbe la frode, quale elemento costitutivo funzionale all’erogazione pubblica. Pertanto, alla luce di questo primo orientamento, rispetto al contributo concesso dall'ente pubblico potrebbero così configurarsi due comportamenti illeciti differenti, puniti autonomamente da norme penali diverse: quello di chi “con artifizi e raggiri” simuli una situazione che induca l'ente a corrispondere fondi, che altrimenti non sarebbero erogati, in vista di un fine poi effettivamente perseguito e quello di colui che, conseguite senza artifizi le pubbliche erogazioni concesse in vista di un fine prestabilito, destini i fondi ad uno scopo diverso. L’opposta interpretazione, minoritaria in giurisprudenza (5), ma maggioritaria in dottrina (6) è invero favorevole ad una relazione di sussidiarietà lano, infatti, il patrimonio da atti di frode, aggravata nel caso di conseguimento di erogazioni pubbliche; l'art. 316 bis c.p., tutela la pubblica amministrazione da atti contrari agli interessi della collettività, anche di natura non patrimoniale. In Cass. pen n. 43349 del 27 ottobre 2011, Bonaldi, rv. 250994, si affermò che “la circostanza che i due comportamenti possano sommarsi, nel senso che artificiosamente, allegando una situazione non rispondente al reale, in relazione ad un fine dichiarato, si ottengano pubblici contributi in concreto destinati ad uno scopo diverso e già programmato, come contestato nel caso in esame, non elude la possibilità di concorso tra i due reati. Non si verte infatti su di una stessa materia regolata da una pluralità di disposizioni penali, per la quale possa valere il criterio di specialità dettato dall'art. 15 del codice penale. la concomitanza dei due comportamenti, l'uno preso in considerazione dalla truffa, antecedente al conseguimento dei fondi pubblici, l'altro, quello punito dall'art. 316 bis c.p., a tale momento successivo, è solo eventuale, e non vale a caratterizzare la prima o la seconda delle due ipotesi delittuose come speciale rispetto all'altra. la inapplicabilità del criterio di specialità alle due norme emerge anche in considerazione della non identità degli interessi protetti. l'art. 640 e art. 640 bis c.p., tutelano il patrimonio da atti di frode, aggravata nel caso di conseguimento di erogazioni pubbliche; l'art. 316 bis c.p., tutela la pubblica amministrazione da atti contrari agli interessi della collettività, anche di natura non patrimoniali”. (5) Cass. pen. Sez. 2, n. 42934 del 18 settembre 2014, Messina; Cass. pen. Sez. 6, n. 23063 del 12 maggio 2009, Bilotti, rv. 244180; Cass. pen. Sez. 2, n. 39644 del 9 luglio 2004, Ambrosio, rv. 230365. (6) C. BEnUSSI, Note sul delitto di malversazione a danno dello stato, in riv. trim. dir. pen. eco- nom., 1997, p. 1066 s.; M. GAMBArDELLA, sub art. 316-ter, in i delitti contro la personalità dello stato, i delitti contro la pubblica amministrazione, LATTAnzI G. e LUPo E. (a cura di), in AA.VV., Codice penale, Vol. III, Milano, 2005, p. 58; PAGLIAro, PAroDI GIUSIno, Principi di diritto penale - Parte speciale, X ed., 2008, p. 121; M. roMAno, i delitti contro la Pubblica amministrazione, i delitti dei pubblici ufficiali, ConTEnzIoSo nAzIonALE dell’art. 316-bis c.p. rispetto al 640-bis c.p., e circoscrive la configurabilità del concorso tra i due reati alla sola ipotesi di contemporaneità dei momenti di consumazione delle due fattispecie di reato, ossia qualora alla condotta truffaldina si sommi una destinazione diversa dei fondi erogati rispetto allo scopo rappresentato. Di contro, nella maggior parte dei casi, qualora i momenti consumativi dei due reati non coincidessero, il delitto di malversazione a danno dello Stato sarebbe meramente residuale e sussidiario rispetto a quello di truffa aggravata, ravvisandosi, pertanto, in tale ipotesi, un concorso apparente di norme (7). Secondo questo orientamento le condotte tipizzate dalle due disposizioni incriminatrici, poste così in rapporto di sussidiarietà (8), lederebbero il medesimo bene giuridico, ancorché in stati e gradi diversi, giustificando, pertanto un’unica risposta penale. Sarebbe irragionevole, invero, punire due volte due comportamenti offensivi del medesimo interesse protetto, giacché l’impiego “distorto” del finanziamento non sarebbe che una conseguenza naturale del conseguimento dell'erogazione ottenuta con artifici o raggiri. Secondo tale ricostruzione, il bene giuridico protetto dalle due norme sarebbe soltanto uno, in quanto patrimonio pubblico e buon andamento della PA -che, ad avviso dell’indirizzo opposto, rappresenterebbero due beni giuridici distintamente tutelati dalle fattispecie di reato - non rappresenterebbero altro che due aspetti del medesimo interesse giuridicamente rilevante (9). II ed., Milano, 2006, p. 74; S. SEMInArA, sub art. 316-bis, in A. CrESPI - F. STELLA - G. zUCCALà, Commentario breve al codice penale, V ed., 2008, p. 762 s.; FIorELLA, i reati dei pubblici ufficiali contro la Pa, in Questioni fondamentali della parte speciale del diritto penale, Torino, 2013, 718, secondo cui, “l’art. 316 bis c.p. e l’art. 640 bis c.p. approntano una tutela complementare in materia di finanziamenti pubblici [...] tali fattispecie non possono, tuttavia concorrere materialmente. l’art. 316 bis c.p. presuppone il regolare ottenimento delle risorse; ove la frode sia finalizzata al conseguimento dei fondi, implicando la ricezione del finanziamento una utilizzazione dei fondi medesimi non in linea con l’interesse dell’ente erogatore, risulterà sanzionabile la sola ipotesi di truffa, fattispecie delittuosa più grave, che “coprendo” l’intero disvalore del fatto (illecito ottenimento delle risorse e loro distrazione) assorbe l’ipotesi minore di cui all’art. 316 bis c.p.”. (7) In Cass. pen. Sez. II, 18 settembre 2014, n. 42934 (rv. 260830) si afferma che “la questione del concorso del delitto di malversazione di cui al capo l) con il delitto di truffa (ovvero di indebita percezione di erogazioni a danno dello stato) è fondata. Non sfugge l'indirizzo interpretativo secondo il quale il reato di malversazione in danno dello stato (art. 316-bis c.p. ) può concorrere con quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis c.p.). Va tuttavia rammentato che questa Corte, nel caso per il quale è stata enunciata la massima indicata (Cass. sez. 2, 27 ottobre 2011 n. 43349), ha ipotizzato il concorso come possibile allorché alla condotta truffaldina si sommi una destinazione diversa dei fondi erogati rispetto allo scopo rappresentato. ipotesi teorica che nel caso non ricorre e al quale meglio si attaglia il condivisibile principio secondo cui il reato di malversazione in danno dello stato ha natura sussidiaria e residuale rispetto alla fattispecie dell'art. 640 bis c.p. che sanziona la truffa aggravata per il conseguimento delle erogazioni pubbliche (Cass. sez. 6, 12 maggio 2009 n. 23063). (8) Sul principio di sussidiarietà, GrISPIGnI, Diritto penale italiano, 1952, 416 ss.; BETTIoL - PET- ToELLo MAnToVAnI, Diritto penale, 718; AnToLISEI, manuale, parte speciale, II, 1977, 743; PAGLIAro, op. cit. rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 Dirimente per la risoluzione del rapporto tra le due norme, tuttavia, sarebbe non tanto il bene giuridico, quanto piuttosto il rapporto di sussidiarietà che legherebbe l’art. 316-bis all’art. 640-bis c.p.: dal momento che il primo sanzionerebbe in maniera meno grave un comportamento criminoso offensivo del medesimo bene, sanzionato dal secondo in misura maggiore. Pertanto, la violazione di quest’ultima norma assorbirebbe totalmente il disvalore della prima (10). I due indirizzi concordano sulla affermazione che il principio di specialità ex art. 15 c.p. non è in grado di operare nel caso de quo. Il suo ambito di applicazione, infatti, viene tradizionalmente circoscritto ai casi in cui una medesima condotta tipica - “stessa materia” - sia riconducibile a - “regolata” da -più norme incriminatrici, delle quali una descrive un fatto che presenta tutti, più almeno uno, gli elementi dell’altra -sia cioè una “disposizione di legge speciale” -. 3. il concorso apparente di norme. Ai fini di una corretta risoluzione del contrasto di cui supra, è opportuno tracciare brevi cenni sulla complessa tematica del concorso apparente di norme (11), istituto di genesi dottrinale e giurisprudenziale ove, nonostante il confluire di più norme incriminatrici, tutte apparentemente applicabili ad un unico (9) Secondo Cass. pen. n. 23063 del 12 maggio 2009, “e neppure sembra possa risolvere il problema l'affermazione per la quale l'art. 640 bis c.p. tutela il patrimonio mentre l'art. 316 bis c.p. tutela il buon andamento della pubblica amministrazione. a parte la considerazione che ormai quasi più si afferma che i problemi di concorso apparente possano risolversi valutando i beni giuridici tutelati, non pare che possa farsi una affermazione così netta, perché, da un lato, quando è offeso il patrimonio della pubblica amministrazione è offeso anche il buon andamento della pubblica amministrazione, e, dall'altro, quando è offeso il bene del buon andamento della pubblica amministrazione, con la destinazione dei finanziamenti a scopi diversi da quelli sottesi alla norma che quei finanziamenti concede, si realizza anche un offesa del patrimonio della pubblica amministrazione”. (10) Quanto poi al principio di specialità, sembra alla Corte che più precisamente si debba fare ricorso a quello di sussidiarietà, che meglio descrive il fenomeno e che è applicabile quando due fattispecie criminose sanzionino due comportamenti diversi che offendano stati o gradi diversi dello stesso bene, uno più gravemente, e l'altro in misura minore, cosicchè il secondo fatto -reato rimane assorbito nel primo. se è vero che nella ipotesi in esame i comportamenti che vengono in considerazione sono due, uno anteriore al conseguimento del finanziamento, che si realizza attraverso artifizi e raggiri, e l'altro posteriore, che si realizza con l'impiego dei fondi per una destinazione diversa, non può mettersi in dubbio che il bene tutelato sia offeso sin dal momento consumativo della truffa, cioè dal momento della realizzazione del profitto con corrispondente danno della parte lesa, e che sia poi ulteriormente offeso, a finanziamento conseguito, dalla diversa destinazione impressa, che rappresenta, per così dire, la fase esecutiva dello stesso progetto criminoso, sia esso già programmato sin dall'inizio dell'azione ovvero abbia preso corpo dopo il conseguimento della erogazione. Non possono dunque sottoporsi a sanzione due comportamenti offensivi dello stesso bene in due diversi momenti giacchè, in definitiva, il diverso impiego del finanziamento non è che una conseguenza naturale del conseguimento della erogazione a seguito di artifici o raggiri. (11) Si è affermato che “la tematica del concorso apparente di norme costituisce tutt’oggi uno dei capitoli più controversi del diritto penale”, G. FIAnDACA -E. MUSCo, Diritto penale -Parte generale, VII ed., 2014, p. 716 ss. ConTEnzIoSo nAzIonALE fatto, la peculiare natura del rapporto in essere comporta l’applicazione di una sola norma, escludendo le altre (12). La caratteristica principale del concorso apparente è la presenza di due requisiti: l'esistenza di una medesima situazione di fatto e la convergenza di una pluralità di norme applicabili alla fattispecie concreta (13). Sono stati elaborati da dottrina e giurisprudenza criteri potenzialmente in grado di discernere i casi di concorso apparente, dalle ipotesi di concorso reale, nelle due species di concorso materiale e formale: specialità, sussidiarietà e assorbimento (o consunzione). Dei tre solo il primo trova un riscontro normativo nel codice penale (art. 15 c.p.), gli altri due, invero, sono frutto di elaborazione dottrinale e contestati da alcuni perché privi di riconoscimento positivo. Il principio di specialità permette, dunque, di individuare un’ipotesi di concorso apparente, che ricorre quando in presenza di due norme, che regolino la medesima materia (14) e che si trovino in rapporto di genere a specie, la legge speciale prevale rispetto alla legge generale, estromettendola (15). La Corte esclude che tale principio possa operare nel caso de quo. Secondo la Corte, è agevole individuare due fatti - l’indebita percezione dei fondi e l’uso distorsivo degli stessi - materialmente, cronologicamente e anche giuridicamente ben distinti. Il che rappresenterebbe un argomento idoneo a ritenere inapplicabile il principio di specialità. In secondo luogo, di specialità sarebbe pertinente parlare quando il rapporto strutturale tra le disposizioni possa essere rappresentato mediante due circonferenze concentriche, in cui quella di maggior diametro rappresenti la norma generale da disapplicare ove la sotto-fattispecie concreta si collochi all’interno, anche, del (12) Sul punto, AnToLISEI, Concorso formale di reati e conflitto apparente di norme, in Giust. Pen., 1942, II, 209. (13) FIAnDACA MUSCo, Diritto penale, Parte generale, zanichelli, 1995, p. 614; PAGLIAro, Diritto penale, Parte generale, Giuffrè, 1980, p. 185 ss.; MAnToVAnI, Concorso e conflitto di norme nel diritto penale, zanichelli, 1966, p. 426. (14) Sul significato dell’espressione “stessa materia”, due indirizzi interpretativi si sono fronteggiati. Secondo un orientamento, BETTIoL - PETToELLo MAnToVAnI, Diritto penale, 717; SPIEzIA, il reato progressivo, 1937, 576, il concetto di “stessa materia” non solo alluderebbe al medesimo fatto che sia apparentemente riconducibile a più norme, ma presupporrebbe, altresì, l’omogeneità del bene giuridico tutelato; di contro, ad avviso di un secondo indirizzo interpretativo, si dovrebbe invece valorizzare la specialità in concreto: il concetto di stessa materia farebbe riferimento anche alle ipotesi in cui un medesimo fatto concreto sia riconducibile a due o più figure criminose, pur se in astratto non sussisterebbe un rapporto di genere a specie, AnToLISEI, manuale, 138; ConTI, voce Concorso apparente di norme, 1013; SInISCALCo, il concorso apparente di norme; PETronE, il principio di specialità nei rapporti tra millantato credito e truffa, in riv. it. dir. proc. Pen., 1963, 160. (15) MArInUCCI, DoLCInI, manuale di diritto penale. Parte generale, specializzante può essere: a) un elemento che specifica un elemento del fatto previsto dalla norma generale; b) un elemento che si aggiunge a quelli espressamente previsti dalla norma generale. Senza che ne derivi alcuna conseguenza in termini di disciplina, si può parlare, nel primo caso, di specialità per specificazione, e nel secondo, di specialità per aggiunta. rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 cerchio più piccolo. Sul criterio di specialità, non si dovrebbe invece fare affidamento allorché le disposizioni disegnino due circonferenze intersecantisi, formando un’area di sovrapposizione sul cui terreno fioriscono formule quali “specialità in concreto” e “specialità reciproca” o “bilaterale”(16), di cui da tempo si sottolinea l’inafferrabilità (17). nel caso in esame, dunque, le condotte incriminate sarebbero riconducibili a disposizioni che non si trovano in rapporto di genere a specie, nel senso appena precisato, bensì presenterebbero reciproche differenze strutturali che solo in concreto trovano una parziale sovrapposizione consistente nell’avere ad oggetto la medesima erogazione pubblica. La Corte prosegue nel dar atto di alcune figure, ritenute da parte della dottrina applicazione del concorso apparente di norme, ossia l'assorbimento, la consunzione e l'ante-fatto o post-fatto non punibile (18). Le ultime due, considerate possibili applicazione del principio di consunzione, risultano di maggior incertezza applicativa. Ad avviso di parte della dottrina, vi rientrerebbero tutte quelle attività che secondo l’id quod plerumque accidit precedono o seguono un certo reato e che dunque, anche se astratta (16) L’elemento che contraddistingue la “specialità reciproca bilaterale” è dato dal fatto che mentre nei casi di specialità per specificazione e per aggiunta, la “materia” regolata è sempre la stessa, altrettanto non può dirsi per il primo caso. Un classico esempio di specialità reciproca bilaterale si rinviene tra gli artt. 609 bis (violenza sessuale) e 564 (incesto): pur risultando la condotta comune ad entrambe (atto di congiunzione carnale), l’una presenta l’elemento aggiuntivo della violenza, minaccia o abuso di autorità, mentre l’altra contempla, a sua volta, gli elementi aggiuntivi dati dall’esistenza di una relazione di consanguineità o affinità, nonché dal verificarsi di un pubblico scandalo. Si verifica, pertanto, un’interferenza tra le norme limitatamente alla sola condotta, essendo gli altri elementi reciprocamente incommensurabili: mancando la “stessa materia” e con essa il concorso apparente di norme, il rapporto tra le due norme sarà qualificabile in termini di concorso formale di reati ai sensi dell’art. 81 c.p; a favore della specialità reciproca come ipotesi di concorso apparente di norme, MAnToVAnI, Diritto penale, parte generale, Padova 2001; amplius, ID., Concorso e conflitto di norme nel diritto penale, Bologna, 1966. (17) Un tentativo di chiarimento della “specialità reciproca” si rinviene in Cass. pen. Sez. un. 28 ottobre 2010, n. 1963, che in tema di rapporto tra gli artt. 334 c.p. e 213 c.d.s., risolto nel senso di concorso apparente tra le due norme, affermava: “la specialità può essere invece bilaterale o reciproca e ciò si verifica quando l'aggiunta o la specificazione si verificano con riferimento sia all'ipotesi generale che a quella specifica (per es. rapporto tra artt. 610 e 611 c.p.: la prima norma prevede anche il tollerare o l'omettere che non sono previsti dalla seconda che, a sua volta, ha in più che la violenza o la minaccia devono essere dirette a far commettere un fatto costituente reato). È evidente, nel caso di specialità bilaterale, la maggior difficoltà di applicare il principio di specialità perché non esistono criteri, se non di ordine logico, idonei a spiegare in modo inequivoco che cosa si intenda per norma speciale. su questo punto è da osservare che, per rendere concretamente applicabile il principio di specialità in questi casi più complessi, sono stati proposti il criterio di sussidiarietà e quello di consunzione (detto anche di assorbimento)”. (18) Allorché ci si trovi di fronte al c.d. antefatto o postfatto non punibile, di fronte, cioè, a condotte antecedenti o successive ad uno specifico fatto di reato e normalmente ad esso accessorie; in tali ipotesi, per il solo fatto della normale accessorietà rispetto al reato principale, le violazioni accessorie non vengono punite in quanto assorbite dalla pena relativa al reato principale. Si pensi, con riferimento ad un esempio di antefatto non punibile, al possesso di chiavi e grimaldelli in relazione ad un furto e, per un esempio di postfatto non punibile, all'uso di monete contraffatte successivamente alla contraffazione. ConTEnzIoSo nAzIonALE mente configurerebbero degli autonomi reati, resterebbero assorbite nel reato maggiore, il quale includerebbe già il disvalore della condotta antecedente o successiva (19). In questi casi, pur in presenza di una pluralità di fatti, parte della dottrina ammette un concorso apparente (20). La giurisprudenza ha talvolta individuato casi di ante-fatto o post-fatto non punibile, senza però fornire a riguardo un quadro organico di disciplina (21). nondimeno, un orientamento minoritario ravvisa in tali ipotesi un caso di concorso materiale di reati, trattandosi di una pluralità di fatti autonomi e distinti e non sussistendo, perciò, il presupposto fondamentale della struttura del concorso apparente e cioè l’unicità del fatto (22). Si sostiene infatti che le categorie in esame mancherebbero di un fondamento di diritto positivo. Se già nella definizione del concetto di norma speciale si è verificata una notevole difformità di vedute, a maggior ragione i criteri di sussidiarietà e di consunzione, di matrice prettamente dottrinale, si sono rivelati vaghi e di incerta applicazione (23). A questo proposito, si è osservato che il tema del concorso di norme è caratterizzato dalla necessità di tener conto di due distinti interessi: l’esigenza di equità/proporzione, che sottende l’elaborazione di criteri volti ad allargare le maglie del concorso apparente di norme, e il bisogno di certezza giuridica che deve guidare l’applicazione delle norme (24). A fronte di questo articolato quadro dottrinale, la giurisprudenza attribuisce assoluta prevalenza al principio di specialità sul presupposto che esso, a differenza degli altri criteri, abbia un esplicito e diretto riferimento normativo nell’art. 15 c.p.: le stesse Sezioni Unite, peraltro, hanno ritenuto tali criteri non meritevoli di applicazione come canone ermeneutico, perché minanti i principi di tassatività e determinatezza della norma penale (25). (19) G. VASSALLI, voce antefatto non punibile, postfatto non punibile, in enc. dir., vol. II, roma, 1958, 505 ss.; A. Moro, Unità, cit., 92; S. ProSDoCIMI, Profili penali del postfatto, Milano, 198. (20) G. FIAnDACA -E. MUSCo, op. cit., 640; G. LozzI, Fatto antecedente e successivo non punibile nella problematica dell’unità e pluralità di reati, in riv. it. dir. proc. pen., 1956, 940. (21) Per esempio, in Cass. pen., 26 aprile 2004, n. 33419, con riferimento ai reati contro la P.A., è stato altresì sostenuto che la semplice promessa di pagamento sotto la pressione del metus pubblicae potestatis è sufficiente ad integrare gli estremi del reato consumato di concussione, costituendo il pagamento dell'indebito un post factum che serve solo alla realizzazione dell'illecito profitto, ma che è ininfluente sul già avvenuto perfezionamento del reato. (22) nel senso, che si tratta di ipotesi al di fuori dello schema del concorso apparente di norme, L. ConTI, op. cit., 1017. (23) La tesi favorevole all’esistenza di una pluralità di criteri è largamente prevalente in dottrina. Peraltro, una parte della dottrina accoglie tre criteri dirimenti il concorso apparente di norme, mentre altra parte si limita ad ammettere soltanto un secondo criterio oltre a quello di specialità. Fra gli autori che ammettono tutti e tre i criteri si vedano, fra gli altri, M. roMAno, Commentario sistematico del codice penale, cit., 176, e sia pure con significato parzialmente diverso G. MArInUCCI -E. DoLCInI, manuale di diritto penale, cit., 292; V.B. MUSCATIELLo, op. cit., 398 ss. Tra i sostenitori della impostazione volta ad attribuire valenza al solo principio di specialità, si ricorda, fra tutti, F. AnToLISEI, manuale di diritto penale, p. gen., 16a ed., Milano, 2003, 157. (24) Sul punto, si veda F. MAnToVAnI, Diritto penale, Padova, 2011, 465. rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 L’unico criterio idoneo ad operare come discrimen delle ipotesi di concorso apparente di norme risulterebbe, pertanto, essere il solo principio di specialità ex art. 15 c.p. (26), applicabile non solo nel raffronto tra norme penali, ma anche al fine di dirimere il conflitto tra norma penale e sanzione amministrativa alla luce dell’art. 9 della L. 24 novembre 1981, n. 689 (27). Si tende, pertanto, a privilegiare la dimensione astratta della figura dell’illecito, e a valorizzare i suoi elementi costitutivi, a prescindere dal nomen juris attribuitole dall’ordinamento. 4. il ne bis in idem: la sentenza della Corte Costituzionale n. 200 del 2016. A proposito del concetto di “medesimezza del fatto” sono doverosi brevi cenni sul principio del ne bis in idem, sancito a livello processuale dall’art. (25) Secondo Cass. pen. Sez. un. 20 dicembre 2005, n. 232302, i criteri di sussidiarietà sono privi di riscontro normativo, perché l’inciso finale dell’art. 15 c.p. allude alle clausole di riserva previste dalle singole norme incriminatrici, che, in deroga al principio di specialità prevedono l’applicazione della norma generale, anziché di quella speciale; ma si riferiscono a casi specifici, non generalizzabili. “Vero è che, secondo una parte della dottrina e della giurisprudenza, anche nel caso di diversità strutturale delle fattispecie, il rapporto di consunzione o di assorbimento, cui alluderebbe l'ultimo inciso dell'art. 15 c.p. quale applicazione sostanziale del principio processuale del ne bis in idem, richiederebbe di considerare solo apparente il concorso tra due norme relative a un medesimo quadro di vita sociale, quando la commissione di un reato comporti, secondo l'id quod plerumque accidit, anche la commissione dell'altro e una delle fattispecie esaurisca compiutamente l'intero disvalore del fatto. sicché il concorso dovrebbe escludersi non solo quando la commissione di un reato comporti necessariamente la consumazione anche dell'altro, ma altresì quando sia solo ricorrente la consumazione di entrambi i reati in un contesto sociale unitario. e perciò potrebbe ritenersi che l'immissione in commercio dei supporti informatici illecitamente prodotti includa anche il disvalore della precedente condotta di acquisto dei supporti, come certamente include il disvalore della loro produzione. tuttavia i criteri di assorbimento e di consunzione sono privi di fondamento normativo, perché l'inciso finale dell'art. 15 c.p. allude evidentemente alle clausole di riserva previste dalle singole norme incriminatrici, che, in deroga al principio di specialità, prevedono, sì, talora l'applicazione della norma generale, anziché di quella speciale, considerata sussidiaria; ma si riferiscono appunto solo a casi determinati, non generalizzabili. e infatti è appunto un'esplicita clausola normativa di riserva a escludere il concorso tra le condotte di produzione e di immissione in circolazione dei supporti illecitamente prodotti. inoltre i giudizi di valore che i criteri di assorbimento e di consunzione richiederebbero sono tendenzialmente in contrasto con il principio di legalità, in particolare con il principio di determinatezza e tassatività, perché fanno dipendere da incontrollabili valutazioni intuitive del giudice l'applicazione di una norma penale”, in senso adesivo, Cass. pen., Sez. Un., 28 ottobre 2010, n. 1235, Giordano e a.; Cass pen., Sez. Un., 28 ottobre 2010, n. 1963, Di Lorenzo. (26) A. UBALDI, truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche e malversazione: per le sezioni Unite è concorso materiale di reati, Diritto & Giustizia, fasc. 75, 2017, pag. 9, “dopo un'attenta ricostruzione del quadro maturato -in giurisprudenza, anche internazionale, e in letteratura -il supremo Consesso ha anzitutto ribadito un postulato di fondo: l'unico criterio da utilizzare per risolvere il concorso apparente di norme è il criterio di specialità - cristallizzato all'art. 15, c.p. - con conseguente reiezione di tutti gli altri (i.e. criteri dell'assorbimento, della consunzione, dell'ante-fatto o post-fatto non punibili, etc.), siccome privi di effettivo sostrato normativo e, dunque, tecnicamente 'inaffidabili'”. (27) Quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, ovvero da una pluralità di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative, si applica la disposizione speciale; in giurisprudenza, Cass. pen., sez. V, 4 ottobre 2016, n. 4768; dubbi sulla legittimità costituzionale della norma sono stati espressi da parte della dottrina, PA- DoVAnI, Diritto penale, 2002, 358. ConTEnzIoSo nAzIonALE 649 c.p.p. (28) e recentemente interessato da una parziale declaratoria di illegittimità costituzionale per effetto della sentenza della Consulta n. 200 del 2016 (29). La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata dal G.U.P. di Torino (30), chiamato a decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio nel processo "Eternit bis", avente ad oggetto 258 casi di omicidio doloso, dopo che "in relazione alla medesima condotta l'imputato, in un precedente giudizio, [era] già stato prosciolto per prescrizione da reati previsti dagli artt. 434, secondo comma, e 437, secondo comma, del codice penale" (rispetto ai quali gli eventi di morte erano stati qualificati come circostanze aggravanti). Il giudice torinese rilevava un contrasto, nella ricostruzione del ne bis in idem, fra la giurisprudenza della CEDU (31) e la giurisprudenza della Corte di Cassazione italiana (32): la prima a favore di un criterio fattuale, la seconda di un criterio giuridico di identificazione dell'idem. Con riferimento al diritto vivente, è stata proposta questione di legittimità costituzionale dell'art. 649 c.p.p, "nella parte in cui limita l'applicazione del principio ne bis in idem all'esistenza del medesimo fatto giuridico, sebbene diversamente qualificato, invece che all'esistenza del medesimo fatto storico così come delineato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo". La Corte Costituzionale ha innanzitutto sul piano ermeneutico, recepito l'opzione compiuta con nettezza dalla Cedu a favore dell'idem factum, non del- l'idem legale. Ha poi delineato le coordinate per identificare il fatto storico-naturalistico (28) A livello sostanziale trova riconoscimento quale diritto sostanziale dell’individuo nell'art. 4 Prot. 7 CEDU e nell'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea. (29) Pubblicata in Gazzetta Ufficiale 1a serie speciale - Corte Costituzionale n. 30 del 27 luglio 2016. (30) La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dal GUP di Torino, con ordinanza del 24 luglio 2015, iscritta al n. 262 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 2015. (31) Le pronunce più rilevanti sono Corte EDU, Grande Camera, zolotoukhine c. russia del 10 febbraio 2009, poi recepita dalla sent. Grande stevens 4 marzo 2014. (32) L’orientamento nazionale, a favore dell’idem legale, trova recente applicazione in Cass. pen. Sez. III, Sent., 2 dicembre 2014, n. 50310, secondo cui “il requisito del "medesimo fatto", inteso come coincidenza di tutte le componenti della fattispecie concreta oggetto dei due processi, dovendo il segno linguistico ("medesimo fatto") esprimere l'identità storico -naturalistica del reato in tutti i suoi elementi costitutivi identificati nella condotta, nell'evento e nel rapporto di causalità, in riferimento alle stesse condizioni di tempo, di luogo e di persona”; in senso conforme, Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 16 maggio 2014) 31 luglio 2014, n. 34048, secondo cui “l'applicazione del principio che vieta il "bis in idem" richiede, invece, secondo l'espressione testuale contenuta nell’art. 649, e nell’art. 669 c.p.p., comma 1, l'identità del fatto, locuzione costantemente intesa nella giurisprudenza di legittimità come coincidenza di tutte le componenti della fattispecie concreta, portata alla cognizione del giudice nei distinti processi, come "corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona". rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 rilevante ai fini del divieto di bis in idem. Il fatto rileva, "secondo l'accezione che gli conferisce l'ordinamento, perché l'approccio epistemologico fallisce nel descriverne un contorno identitario dal contenuto necessario". Il fatto cui fare riferimento, secondo la Corte "è l'accadimento materiale, certamente affrancato dal giogo dell'inquadramento giuridico, ma pur sempre frutto di un'addizione di elementi la cui selezione è condotta secondo criteri normativi". Si badi bene però che l'affrancamento dall'inquadramento giuridico (cioè dall'idem legale) non equivale ad affrancamento da criteri normativi, in quanto gli elementi rilevanti per la sua identificazione devono essere selezionati secondo criteri elaborati dal legislatore penale. nella prospettiva della Consulta, invero, il “fatto” è l'accadimento materiale ma giuridicamente qualificato, perché frutto della addizione di elementi relativi alle circostanze di tempo e di luogo la cui selezione è condotta - e non potrebbe essere altrimenti - sulla base di criteri normativi. Del resto, neppure la condotta, è di per sé un evento naturalistico dotato di essenza fenomenica, assumendo comunque rilevanza il dato normativo capace di individuare, nel costante fluire delle azioni umane, un certo comportamento, qualificandolo; altrimenti detto: posto che l'identità di due fatti criminosi non è un dato empirico né una realtà ontologica, ma un giudizio di valore, senza il richiamo al dato normativo e dunque alla qualificazione giuridica del fatto materiale, non sarebbe neppure possibile effettuare quell'operazione di raffronto in cui la identificazione consiste. Pertanto, sulla base della triade condotta - nesso causale - evento naturalistico, il giudice "può affermare che il fatto oggetto del nuovo giudizio è il medesimo solo se riscontra la coincidenza di tutti questi elementi, assunti in una dimensione empirica.” 5. il principio di sussidiarietà regola il rapporto tra gli artt. 640-bis e 316-ter c.p. Se il principio di specialità è dalla Corte di Cassazione ritenuto l’unico criterio utilizzabile in caso di concorso apparente di norme, e se nel caso di specie le due fattispecie incriminatrici sono autonome quanto a genesi e sviluppo, se ne deduce l’impossibilità di ricondurre l’una all’interno dell’altra. Si esclude, pertanto, che il principio di specialità possa sovvenire per qualificare il rapporto tra le due. Al riguardo, la pronuncia che meglio aveva argomentato in tema di concorso apparente tra il 316 bis e il 640 bis, aveva fatto applicazione del principio di sussidiarietà, ritenendo che le due norme incriminatrici sanzionassero due comportamenti diversi, offensivi, in stati e gradi diversi, dello stesso bene, uno più gravemente, e l'altro in misura minore, cosicché il secondo fatto -reato sarebbe stato assorbito nel primo (33). Alle medesime conclusioni era giunta la Corte di Cassazione a Sezioni ConTEnzIoSo nAzIonALE Unite (34), applicando analogicamente i principi espressi nella sentenza della Corte Costituzionale 18 aprile 2004, n. 95 (35) sul rapporto tra gli artt. 640bis e il 316-ter c.p. In quella sede la Consulta aveva statuito che l'art. 316-ter avrebbe assicurato una tutela aggiuntiva e complementare rispetto a quella offerta dall'art. 640-bis, coprendo spazi estranei al paradigma del delitto di truffa, la concreta dimensione dei quali sarebbe spettata all'interprete identificare, in base alla più o meno ampia "capacità di presa" riconoscibile a quel delitto, avendo riguardo all'elemento degli artifici e raggiri ed al requisito dell'induzione in errore (che non è menzionato nell'art. 316-ter) (36). (33) In Cass. pen. Sez. II, 18 settembre 2014, n. 42934 (rv. 260830) si afferma che “la questione del concorso del delitto di malversazione di cui al capo l) con il delitto di truffa (ovvero di indebita percezione di erogazioni a danno dello stato) è fondata. Non sfugge l'indirizzo interpretativo secondo il quale il reato di malversazione in danno dello stato (art. 316-bis c.p. ) può concorrere con quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis c.p.). Va tuttavia rammentato che questa Corte, nel caso per il quale è stata enunciata la massima indicata (Cass. sez. 2, 27 ottobre 2011 n. 43349), ha ipotizzato il concorso come possibile allorché alla condotta truffaldina si sommi una destinazione diversa dei fondi erogati rispetto allo scopo rappresentato. ipotesi teorica che nel caso non ricorre e al quale meglio si attaglia il condivisibile principio secondo cui il reato di malversazione in danno dello stato ha natura sussidiaria e residuale rispetto alla fattispecie dell'art. 640 bis c.p. che sanziona la truffa aggravata per il conseguimento delle erogazioni pubbliche”; in senso adesivo a quanto affermato in Cass. pen. Sez. VI, 4 giugno 2009, n. 23063, “Quanto poi al principio di specialità, sembra alla Corte che più precisamente si debba fare ricorso a quello di sussidiarietà, che meglio descrive il fenomeno e che è applicabile quando due fattispecie criminose sanzionino due comportamenti diversi che offendano stati o gradi diversi dello stesso bene, uno più gravemente, e l'altro in misura minore, cosicché il secondo fatto -reato rimane assorbito nel primo. se è vero che nella ipotesi in esame i comportamenti che vengono in considerazione sono due, uno anteriore al conseguimento del finanziamento, che si realizza attraverso artifizi e raggiri, e l'altro posteriore, che si realizza con l'impiego dei fondi per una destinazione diversa, non può mettersi in dubbio che il bene tutelato sia offeso sin dal momento consumativo della truffa, cioè dal momento della realizzazione del profitto con corrispondente danno della parte lesa, e che sia poi ulteriormente offeso, a finanziamento conseguito, dalla diversa destinazione impressa, che rappresenta, per così dire, la fase esecutiva dello stesso progetto criminoso, sia esso già programmato sin dall'inizio dell'azione ovvero abbia preso corpo dopo il conseguimento della erogazione. Non possono dunque sottoporsi a sanzione due comportamenti offensivi dello stesso bene in due diversi momenti giacché, in definitiva, il diverso impiego del finanziamento non è che una conseguenza naturale del conseguimento della erogazione a seguito di artifici o raggiri”. (34) Cass. Pen., Sez. Un., 27 aprile n. 2007, n. 16568, i delitti di cui agli articoli 316-ter e 640bis cod. pen. sono in rapporto di sussidiarietà, e non di specialità, ricorrendo quest’ultimo solo quando difettino gli estremi della truffa, come nel caso di situazioni caratterizzate dal mero silenzio antidoveroso o delle condotte che non inducano effettivamente in errore l’autore della disposizione patrimoniale. (35) Corte Cost., 18 aprile 2004, n. 95, pubblicata in GU 1a serie speciale - Corte Costituzionale n. 11 del 17 marzo 2004. (36) Si affermava che, “che appare dunque evidente - alla luce tanto del dato normativo, quanto della ratio legis - come l’art. 316-ter cod. pen. sia volto ad assicurare agli interessi da esso considerati una tutela aggiuntiva e "complementare" rispetto a quella già offerta dall’art. 640-bis cod. pen., "coprendo", in specie, gli eventuali margini di scostamento -per difetto -del paradigma punitivo della truffa rispetto alla fattispecie della frode "in materia di spese", quale delineata dall’art. 1 della Convenzione: margini la cui concreta entità - correlata alle più o meno ampie "capacità di presa" che si riconoscano al delitto di truffa, avuto riguardo sia all’elemento degli "artifizi o raggiri", in qualunque rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 Le Sezioni Unite, recependo questo orientamento, hanno riconosciuto la sussidiarietà tra le due fattispecie, facendo leva sul secondo dei requisiti indicati dalla Consulta, costituito dall'induzione in errore. La Corte suprema ha incentrato il discrimine fra i due reati non sul tipo di condotta di volta in volta realizzato, bensì innanzi tutto sull'essere stato l'ente erogante tratto, o meno, in inganno dal comportamento decettivo del beneficiario, consapevolmente riducendo l'ambito applicativo dell'art. 316-ter a situazioni del tutto marginali. In breve, si affermava chiaramente che l’art. 640 bis sarebbe stato “consumante” rispetto all’art. 316 ter. 6. il rapporto tra gli artt. 640-bis e 316-bis c.p. Preso atto dell’unicità del criterio ermeneutico utilizzabile per individuare un potenziale concorso apparente di norme, ma della sua non pertinenza al rapporto tra i reati di cui agli articoli 316 bis e 640 bis c.p., la Corte prosegue nel delineare gli elementi costitutivi delle due fattispecie di reato, al fine di verificarne il rapporto e le modalità di una sua possibile risoluzione. Le considerazioni svolte deporrebbero a favore dell’autonomia. Da un punto di vista storico e sistematico, si ribadisce che le due norme sono entrate in vigore a distanza di poco tempo l’una dall’altra (37), e che è assente in entrambe una clausola di salvaguardia, unico elemento che, una volta escluso il rapporto di genere a specie, ne potrebbe legittimare uno di valore o gerarchia tra le due. Da un punto di vista contenutistico sarebbe evidente, ad avviso della Corte, che né gli artifici e i raggiri siano l’unica modalità con le quali il soggetto agente possa ottenere la percezione indebita dei fondi pubblici, né l’utilizzazione degli forma realizzati, sia al requisito dell’induzione in errore - spetta all’interprete identificare, ma sempre nel rispetto della inequivoca vocazione sussidiaria della norma oggi sottoposta a scrutinio; che, in altre parole, rientra nell’ordinario compito interpretativo del giudice accertare, in concreto, se una determinata condotta formalmente rispondente alla fattispecie delineata dall’art. 316-ter cod. pen. integri anche la figura descritta dall’art. 640-bis cod. pen., facendo applicazione, in tal caso, solo di quest’ultima previsione punitiva; che - nella prospettiva della natura meramente sussidiaria e residuale della norma impugnata - è ben vero che l’art. 316-ter cod. pen. si presta, nell’intenzione del legislatore, a reprimere taluni comportamenti che, se posti in essere in danno di soggetti privati - o anche di soggetti pubblici, quando non si discuta dell’indebita erogazione di sovvenzioni - restano privi di sanzione: ma ciò senza che ne derivi affatto la lesione dell’art. 3 Cost. ventilata dal rimettente, posto che - come correttamente osserva l’avvocatura generale dello stato - la previsione di una tutela penale rafforzata, anche quanto ad ampiezza, delle finanze pubbliche e comunitarie contro le frodi, rispetto alla generalità degli altri interessi patrimoniali, costituisce ragionevole esercizio di discrezionalità legislativa, tenuto conto della specialità dell’interesse offeso, nonché del carattere "minore" delle violazioni di cui si discute (evidenziato anche dall’applicazione di una semplice sanzione amministrativa al sotto di una certa soglia), rispetto a quelle integrative del delitto di truffa”. (37) L’art. 640 bis è stato aggiunto dalla L. 19 marzo 1990, n. 55, mentre l’art. 316 bis è stato introdotto dall’art. 3, L. 26 aprile 1990, n. 86, in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione e successivamente così modificato dall’art. 1, L. 7 febbraio 1992, n. 181, in tema di delitti contro la pubblica amministrazione. ConTEnzIoSo nAzIonALE stessi per finalità diverse rispetto a quelle per cui siano stati erogati, costituisca il naturale esito della condotta fraudolenta tipizzata dall’art. 640-bis c.p. Anzi, si ribadisce che la finalità della condotta truffaldina può spesso tradursi nella convenienza economica dell’ottenimento tale da permettere all'impresa che ne usufruisca un margine di utile decisamente maggiore di quello ritraibile a seguito del ricorso al credito a prezzi di mercato, e quindi da consentire a coloro che vi accedono di recuperare quote di mercato maggiori, quale effetto dell'abbattimento dei costi. Inoltre, qualora ad essa segua l’erogazione dei fondi pubblici, il danno che ne deriva, non sarà esclusivamente un danno economico a carico dell’ente erogatore, ma verrà leso anche l’interesse del concorrente imprenditore, ingiustamente escluso dalla selezione. Anzi, si ribadisce che la lesione non consisterà in un danno patrimoniale strettamente inteso, in quanto per l’ente erogatore sarà indifferente a chi, tra più concorrenti in condizioni di parità, l’erogazione patrimoniale verrà destinata. Piuttosto, verrà menomato il buon andamento dell’amministrazione e la libera concorrenza del mercato, lesa dalla falsa rappresentazione della realtà operata dall’agente truffaldino nell’ottenere le provvidenze. Quanto al 316-bis, si precisa che dal tenore testuale della norma non sia ricavabile alcuna qualificazione della condotta percettiva dei finanziamenti, poi stornati dalle loro finalità pubbliche originarie, tale da concludere nel senso di una sua dipendenza dagli artifici e raggiri del 640-bis. Assente è qualsiasi riferimento alle modalità legittime o illegittime di ingresso delle somme nel patrimonio dell’agente, irrilevante è il momento genetico del finanziamento (38). Al fine di sottolineare la diversità strutturale tra le due fattispecie, si delineano le possibili e molteplici situazioni concrete che potrebbero delinearsi, eventualmente combinandosi tra loro, con modalità autonome: a) il privato ottiene un finanziamento illecitamente e, successivamente, utilizza la somma per scopi privati; b) il privato ottiene con mezzi fraudolenti l'erogazione, ma (38) Dubbi sull’irrilevanza del momento genetico sono espressi da S. FInoCCHIAro, il buio oltre la specialità. le sezioni Unite sul concorso tra truffa aggravata e malversazione, in www.penalecontemporaneo.it, secondo cui “Vale infine la pena di soffermarsi sull’ulteriore argomento speso dalle sezioni Unite, secondo cui l’art. 316-bis c.p. non conterrebbe alcun richiamo testuale che ne limiti l’applicazione ai soli contributi acquisiti lecitamente (§ 7.2). al riguardo, avevamo in altra sede osservato come ciò non paia far necessariamente concludere per un’irrilevanza dell’elemento genetico dell’erogazione. Pensiamo all’appropriazione indebita: l’art. 646 c.p. non specifica affatto che presupposto della condotta appropriativa debba essere una genesi lecita della situazione possessoria, esprimendosi anzi in termini di “possesso a qualsiasi titolo”. Cionondimeno è comune opinione che non ci si possa “appropriare” di beni ottenuti mediante un reato, e che pertanto non sia lecito sanzionare a titolo di appropriazione indebita l’atto di disposizione (ad esempio l’alienazione ad altri o la distruzione) di un bene precedentemente oggetto di furto o truffa, che pure certamente approfondisce l’offesa patrimoniale già arrecata con la prima condotta illecita”. rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 la destina effettivamente ad opere o attività giustificanti il sostegno economico richiesto c) il privato ottiene legittimamente il finanziamento, ma omette di destinarlo all'attività o all'opera di pubblico interesse per cui era stato erogato. nel primo caso dopo aver compiuto la truffa, con una condotta anche cronologicamente autonoma ed eventuale, il privato pone in essere la malversazione; nel secondo viene in evidenza l'autonomia fra le due fattispecie, in quanto il privato pone in essere una truffa ma poi non compie una malversazione; nell'ultimo caso si verte in ipotesi di malversazione "pura”. Tutto ciò depone a favore di un’autonomia, e solo eventualmente di un’interferenza tra le due fattispecie, comprovato da una considerazione di ordine temporale secondo cui l’attività esecutiva distorsiva dalla finalità pubblica ex art. 316-bis, in genere si colloca in tempi considerevolmente successivi rispetto all’attività percettiva delle provvidenze. né può invocarsi l’applicazione del principio di sussidiarietà, assenti sia i necessari riferimenti normativi, sia i presupposti interpretativi - rapporto tra i fatti secondo l’id quod plerumque accidit -, oltre che la comprovata e netta distinzione tra le due fattispecie (39). Dalla disamina svolta emerge un’indubbia esigenza di assicurare una tutela effettiva e rafforzata ai due differenti interessi giuridici in questione, esigenza maggiormente sentita nel caso in cui si faccia questione di ottenimento e utilizzazione di fondi comunitari, sui quali sempre vigile è l’attenzione della CGUE. Alla luce di questa comprovata autonomia, genetica, esecutiva e temporale, l’unico rapporto ipotizzabile, pertanto, non potrà che essere il concorso materiale di reati, con eventuale applicazione del regime della continuazione ex art. 81 c.p. 7. Considerazioni conclusive. La sentenza in commento opera un pregevole sunto delle opzioni ermeneutiche sul punto e una breve, ma compiuta analisi di tematiche assai rilevanti, tuttavia l’esito interpretativo non può dirsi del tutto soddisfacente. Il percorso argomentativo seguito denota, invero, una schematicità eccessiva per l’argomento in questione, come se la Corte, fin troppo consapevole della difficoltà di liquidare in poche righe un quesito così annoso e controverso, abbia proceduto via via eliminando con brevi annotazioni le varie so (39) Molto sinteticamente, poi, la Corte procede a escludere - come già aveva annunciato in premessa - la possibilità di dare rilevanza a criteri diversi da quello di specialità. non può parlarsi di assorbimento poiché “una tale chiave interpretativa trascura l’elemento essenziale dell’istituto del concorso di norme che si fonda sulla comparazione della struttura astratta delle fattispecie, per apprezzare la valutazione implicita di correlazione tra norme ritenuta dal legislatore, non dal loro atteggiarsi concreto”. Parimenti viene scartata l’operatività del principio di sussidiarietà, “il cui presupposto dogmatico -la connessione dei fatti secondo l’id quod plerumque accidit - al di là del mancato riconoscimento normativo di tale principio in tema di concorso apparente di norme, risulta concretamente escluso, nel rapporto tra le due norme, dalle ricostruzioni espresse”. ConTEnzIoSo nAzIonALE luzioni elaborate in dottrina meno confacenti, per poi trovarsi a dover verificare la sola compatibilità del principio di specialità con gli art. 316 bis e 640 bis c.p. Una volta risolta, se non addirittura liquidata, la questione nel senso del- l’incompatibilità, ha concluso con il sancire definitivamente l’autonomia tra le due fattispecie di reato, con considerazioni non troppo convincenti di ordine temporale, esecutivo e genetico, comprovate, a suo dire, dalla ormai desueta teoria dei beni giuridici (40). Pare, dunque, che la Corte abbia risolto la questione avvalendosi del principio di specialità, erroneamente inteso come unico strumento ermeneutico a disposizione, non preoccupandosi di verificare appieno se potessero attagliarsi al caso concreto altri principi. nel caso di specie in cui con condotta truffaldina, le imputate hanno ottenuto provvidenze pubbliche, per poi stornarle dalle finalità cui erano destinate, non può certo ravvisarsi una distinzione così netta come quella tracciata dalla Corte. Vero è che le condotte summenzionate possono dar luogo a esiti delittuosi differenti, in cui vengano integrate, l’una indipendentemente dal- l’altra, le due fattispecie di reato, come efficacemente prospettato in sentenza. Ma qui l’interferenza tra le due condotte c’è ed è evidente. Ed è la stessa Corte ad ammetterlo. Ma il principio di specialità (outil meramente logico che si applica al rapporto tra norme) non può impiegarsi nel caso in cui le condotte incriminate siano distinte, seppur accumunate dal non irrilevante elemento della somma provento del reato, che è la stessa. I principi elaborati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 200 del 2016, a favore dell’idem factum, non sembrano ancora aver scalfito l’iter argomentativo della Corte di Cassazione. Si afferma, inoltre, che i beni giuridici tutelati dalle due norme sarebbero distinti: in un caso il buon andamento della PA e nell’altro il patrimonio pubblico. Come se non si trattasse affatto di due aspetti complementari dello stesso principio sancito a livello costituzionale dall’art. 97 Cost. (41). non può, invero, negarsi che l’attività amministrativa -intesa pacifica (40) Del resto, la stessa sezione della Corte aveva ritenuto ormai superata la teoria dei beni giuridici quale criterio identificativo delle ipotesi di concorso apparente di norme, Cass. pen. n. 23063 del 12 maggio 2009, “a parte la considerazione che ormai quasi più si afferma che i problemi di concorso apparente possano risolversi valutando i beni giuridici tutelati, non pare che possa farsi una affermazione così netta, perchè, da un lato, quando è offeso il patrimonio della pubblica amministrazione è offeso anche il buon andamento della pubblica amministrazione, e, dall'altro, quando è offeso il bene del buon andamento della pubblica amministrazione, con la destinazione dei finanziamenti a scopi diversi da quelli sottesi alla norma che quei finanziamenti concede, si realizza anche un offesa del patrimonio della pubblica amministrazione”. (41) La previsione di cui all’art. 97 Cost. riguarda non solo l’organizzazione degli uffici, ma in maniera più ampia investe il funzionamento della PA nel suo complesso. Secondo Corte Cost. 40/1998, tale disposizione “stabilisce sia una finalità da perseguire e da raggiungere, che un criterio caratterizzante l’attività amministrativa”. rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 mente dalla dottrina penalistica come quella esercitata da organi non solo amministrativi, ma anche legislativi e giudiziari (42) - è soggetta dalla Costituzione al rigoroso rispetto dei parametri del buon andamento e dell’imparzialità, ed è proprio in tali parametri che è possibile individuare lo specifico oggetto di tutela dei delitti contro la pubblica amministrazione (43). La norma costituzionale, se originariamente veniva interpretata in senso oggettivo e statico, ha subito progressivamente un graduale mutamento esegetico, ricevendo per via legislativa ed ermeneutica un “riempimento” di contenuto normativo, o, per meglio dire, una “giuridicizzazione” (44). È pacifico, invero, che la nozione di buon andamento sia ad oggi articolata nelle species di efficienza, efficacia, economicità (45), trasparenza, adeguatezza, proporzionalità, tutto ciò che comporti una adeguata tutela del regolare funzionamento dell’attività della pubblica amministrazione, e della capacità di perseguire i fini che le vengono assegnati dalla legge, nella massima aderenza all’interesse pubblico (46). (42) PAGLIAro, PAroDI GIUSIno, Principi di diritto penale - Parte speciale, X ed., 2008, p. 5 ss.; FIAnDACA MUSCo, Diritto penale, Parte generale, zanichelli, 1995, p. 156, secondo i quali i reati contro la PA tutelano non solo l’attività amministrativa, ma anche quella legislativa e giudiziaria. (43) La giurisprudenza maggioritaria propende per una concezione plurioffensiva dei reati contro la PA, secondo cui essi lederebbero sia un bene giuridico comune alla categoria (buon andamento PA), sia un bene giuridico specifico, proprio di ogni singola fattispecie incriminatrice, potendo ammettere, dunque, la configurabilità della contemporanea lesione penalmente rilevante di una pluralità di beni giuridici. Si veda Cass. pen. Sez. VI, 10 giugno 1993, n. 8009, secondo cui il peculato offenderebbe sia il buon andamento della PA, sia il patrimonio della PA, che “l’interesse dello Stato alla probità e correttezza dei funzionari pubblici”; Cass. pen. Sez. VI., 3 dicembre 2008, n. 14977, secondo cui la concussione offenderebbe sia il buon andamento della PA, sia la libertà morale della vittima, che il prestigio della PA. In dottrina, si rinvia a M. roMAno, i delitti contro la pubblica amministrazione. i delitti dei pubblici ufficiali, Miano, 2006, p. 93 e ss.; C. BEnUSSI, G. MArInUCCI, E. DoLCInI, trattato di diritto penale. Parte speciale, I, p. 348 ss.; S. VInCIGUErrA, i delitti contro la pubblica amministrazione, 2008, p. 67 e ss. Questa concezione plurioffensiva è stata criticata in dottrina, in quanto banalizzerebbe il concetto stesso di bene giuridico, frustrandone la funzione di limite all’arbitrio nell’uso della potestà punitiva e consentendo all’interprete di attribuire la qualifica di interesse giuridico tutelato ad ognuno dei molteplici interessi che la singola fattispecie di reato finisce per compromettere. In questo senso, CATEnACCI, trattato teorico-pratico di diritto penale. reati contro la pubblica amministrazione e contro l'amministrazione della giustizia, Torino, 2015, 32 ss.; A. BonDI, A. DI MArTIno, G. FornASArI, reati contro la pubblica amministrazione, Torino, 2008, 171 ss.; C. FIorE, i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Torino, 2004, p. 117 e ss. (44) Il contenuto della norma costituzionale è pacificamente inteso come efficienza dell’azione amministrativa nella realizzazione dei suoi compiti istituzionali, TAGLIArInI, il concetto di pubblica amministrazione nel codice penale, Milano, 1973, p. 9 ss.; BrICoLA, Tutela penale della pubblica amministrazione e principi costituzionali, in temi, 1968, 569 ss. (45) I principi di economicità, efficacia ed efficienza sono sanciti dall’art. 1 della L. n. 241 del 1990, sul procedimento amministrativo. Il principio di economicità impone alla PA di perseguire i suoi obbiettivi con il minor dispendio di risorse; il principio di efficacia impone invece di agire in maniera idonea al perseguimento degli interessi pubblici selezionati in sede politica o legislativa. Infine, il principio di efficienza si riferisce al funzionamento dell’intero apparato amministrativo. (46) Per una sintesi sul punto, A. FIorELLA, i reati dei pubblici ufficiali contro la Pa, in Questioni fondamentali della parte speciale del diritto penale, secondo cui, “offenderanno l’interesse del buon ConTEnzIoSo nAzIonALE In relazione al reato di malversazione a danno dello Stato non può negarsi che esso si presti a ledere proprio il buon andamento inteso nei suoi corollari applicativi di efficacia ed efficienza, in quanto attraverso una deviazione dal vincolo di destinazione impresso a provvidenze pubbliche, il danno è diretto all’integrità funzionale dell’apparato amministrativo. Alla luce di tali considerazioni, il patrimonio pubblico tutelato dall’art. 640-bis c.p, sembrerebbe rappresentare proprio un aspetto del buon andamento della PA, ossia la funzione pubblica legata a particolari modalità di erogazione dei fondi a disposizione della collettività. Vero è che in quest’ultima ipotesi il soggetto attivo sottrarrà al concorrente escluso le provvidenze pubbliche messe a disposizione dalla PA, ma è improprio affermare che per l’ente erogatore sia indifferente l’identità del soggetto percettore. Il fatto stesso che la PA ponga delle regole sulle modalità di erogazione dei fondi pubblici, implica l’obbligo di rispetto delle stesse da parte dei concorrenti, al fine di garantire che il patrimonio pubblico giunga in capo al soggetto che sia legittimamente più idoneo a riceverne. Tutto ciò per il regolare funzionamento della pubblica amministrazione e nella massima aderenza all’interesse pubblico, ai sensi dell’art. 97 Cost., così come sopra interpretato. non appare condivisibile, dunque, la conclusione operata dalle Sezioni Unite Penali su una così netta distinzione tra i due interessi giuridici in esame, anzi, sembra irragionevole e affetta da un eccessivo rigorismo punitivo, la scelta di irrogare una duplice sanzione penale per due fatti sì interferenti tra loro, ma lesivi dello stesso bene giuridico, ancorché in stati e gradi diversi. Un’ultima considerazione a proposito delle implicazioni sui profili risarcitori a favore della parte civile. A fronte della così affermata autonomia tra le due fattispecie, alle due distinte statuizioni sulla penale responsabilità conseguirebbero due separati capi risarcitori: ma nel caso concreto la somma della quale si discute è la stessa che, da un lato, viene ottenuta con frode, e dall’altro, viene distorta dalla finalità pubblica alla quale era stata destinata, mentre i capi risarcitori saranno due, in quanto due le statuizioni di responsabilità. Vi è di più. Ambedue i capi risarcitori, a fronte di debita richiesta, potenzialmente provvederanno sia alla liquidazione del danno patrimoniale che alla liquidazione di quello non patrimoniale. A seguito della condanna per il reato di cui all’art. 316 bis c.p., dovrà provvedersi alla restituzione alla PA dell’importo erogato e non destinato dal- l’imputato al fine pubblico previsto; sarà, inoltre, da ritenersi fondata la richiesta del p.m. per il risarcimento del danno non patrimoniale all’immagine (47) e al funzionamento della PA (48), come anche la pretesa risarcitoria della andamento le condotte che ostacolino l’efficienza dell’azione amministrativa, che ne frustrino, cioè, la capacità di perseguire i fini ad essa assegnati dalla legge”, in senso adesivo, r. rAMPIonI, Bene giuridico e delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Milano, 1984, 85 ss.; M. CATE- nACCI, reati contro la Pubblica amministrazione e contro l’amministrazione della giustizia. trattato teorico pratico di diritto penale, Torino, 2011, 8 ss. rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 società privata concorrente, illegittimamente esclusa dall’assegnazione delle provvidenze pubbliche, se costituitasi parte civile (49). A seguito della condanna per il reato di cui all’art. 640 bis c.p., l’imputato sarà condannato alla restituzione della somma di denaro fraudolentemente ottenuta, nonché al risarcimento del danno patrimoniale cagionato all’economia dell’ente erogatore delle provvidenze pubbliche interessato dalla condotta truffaldina, e, altresì, al ristoro del pregiudizio non patrimoniale arrecato al buon funzionamento della PA, secondo l’accezione lata di cui all’art. 97 Cost. (50). Sono quindi evidenti le problematiche lasciate senza soluzione persino da una pronuncia di così indubbio spessore: non resta che auspicare un intervento volto alla creazione normativa o giurisprudenziale - per esempio chiarimenti sul criterio della “specialità bilaterale” (51) - di criteri ermeneutici in grado di meglio regolare gli aspetti “dinamici” e concreti della questione. Cassazione, Sezioni Unite Penali, sentenza 28 aprile 2017 n. 20664 -Pres. G. Canzio, rel. A. Petruzzellis, P.G. A. rossi (difforme) -F.B., P.S. (avv. E. Monteverde); Invitalia s.p.a. (avv. G. Volo). rEATI ConTro IL PATrIMonIo PUBBLICo -rEATI ConTro IL BUon AnDAMEnTo DELLA PA -BEnI GIUrIDICI - TrUFFA AGGrAVATA PEr IL ConSEGUIMEnTo DI EroGAzIonI PUBBLICHE - MALVEr- SAzIonE A DAnno DELLo STATo - rAPPorTo - SPECIALITà - SUSSIDIArIETà - InSUSSISTEnzA - AUTonoMIA - ConCorSo MATErIALE DI rEATI – SUSSISTEnzA. [Articoli 15, 316-bis e 640-bis codice penale; articolo 9 Legge 24 novembre 1981, n. 689; articolo 649 codice procedura penale; articolo 4 Protocollo 7 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo; articolo 50 Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea]. ConSIDErATo In DIrITTo 1. La questione di diritto che ha generato la rimessione dei ricorsi alle Sezioni Unite è la seguente: "se il reato di malversazione in danno dello stato (art. 316 bis c.p.) concorra con quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640 bis c.p.)". 2. Il quesito trova la sua origine nella presenza di due contrapposte interpretazioni delle disposizioni richiamate. (47) Il danno all’immagine della PA potrà essere riconosciuto solo se il reato sia stato commesso da un dipendente. (48) Corte Conti reg. (Campania) sez. giurisd. 7 marzo 2011 n. 325, in presenza di una decisione penale di condanna irrevocabile ai sensi dell'art. 316 bis c.p. (malversazione a danno dello stato) deve ritenersi fondata la pretesa del p.m. presso la Corte dei conti per il risarcimento di danno all'immagine. (49) In Cass. pen., sez. VI 21 maggio 2010, n. 20847, la Corte ha ritenuto che la società illegittimamente esclusa dalla selezione per l’assegnazione di fondi pubblici potesse far valere pretese di natura civilistica nell'ambito del procedimento penale in qualità di persona danneggiata dal reato. (50) Vedi nota 46. (51) Si verificherebbe, pertanto, un’interferenza tra le norme limitatamente alla sola condotta, essendo gli altri elementi reciprocamente incommensurabili. ConTEnzIoSo nAzIonALE Per la prima, si esclude un rapporto di specialità tra due reati e si ritiene il concorso delle fattispecie (Sez. 2, n. 29512 del 16/06/2015, Sicilfert s.r.l., rv. 264232; Sez. 2, n. 43349 del 27/10/2011, Bonaldi, rv. 250994; Sez. 6, n. 4313 del 02/12/2003, dep. 2004, Gramegna, rv. 228655; Sez. 1, n. 4663 del 07/11/1998, Saccani, rv. 211494; Sez. 6, n. 3362 del 15/12/1992, Scotti, rv. 193155), in ragione della mancanza di identità degli interessi protetti. L'eventuale concomitanza dei due comportamenti, l'uno preso in considerazione dalla truffa, antecedente al conseguimento dei fondi pubblici e riguardante la fase percettiva della provvidenza economica, in cui la previsione del reato è funzionale alla tutela del patrimonio pubblico, l'altro, punito dall'art. 316 bis c.p., successivo a tale momento, riguardante la fase esecutiva del progetto finanziato, limitata a tutelare l'interesse pubblico che l'erogazione intende perseguire, non vale a caratterizzare la prima o la seconda delle due ipotesi delittuose come speciale rispetto all'altra. Secondo l'opposta interpretazione (Sez. 2, n. 42934 del 18/09/2014, Messina, non mass. sul punto; Sez. 6, n. 23063 del 12/05/2009, Bilotti, rv. 244180; Sez. 2, n. 39644 del 09/07/2004, Ambrosio, rv. 230365), non si ritiene dirimente, al fine di individuare gli spazi applicativi delle disposizioni, la considerazione che i diversi momenti di consumazione tra i due reati possano non coincidere, posto che il problema sorgerebbe proprio quando la diversa destinazione dei beni viene impressa allorchè l'erogazione venga conseguita con artifizi e raggiri, prospettandosi in tal caso un'ipotesi di concorso apparente di norme. Sulla base di tale ultima ricostruzione, esclusa la rilevanza, quale discrimine utilizzabile per l'applicazione del principio di specialità, dell'identità di materia o di interesse protetto, si ritiene non corretto sottoporre a sanzione due comportamenti offensivi dello stesso bene, giacchè il diverso impiego del finanziamento non sarebbe che una conseguenza naturale del conseguimento dell'erogazione a seguito di artifici o raggiri. Entrambi gli orientamenti interpretativi, contenuti nei due filoni giurisprudenziali citati, escludono quindi che le fattispecie siano tra loro in rapporto di specialità. Il primo ritiene il concorso di reati in virtù della diversità della materia disciplinata dalle due disposizioni; il secondo, che nega tale concorso, conclude per la presenza di un concorso apparente di norme, in quanto valuta i comportamenti tipizzati nelle disposizioni in esame offensivi del medesimo bene giuridico, in stati e gradi diversi, ed evoca a sostegno della propria ricostruzione il principio del rapporto di sussidiarietà tra le norme. 3. L'esame sulla fondatezza dell'una o dell'altra soluzione interpretativa deve prendere le mosse dalla considerazione dei principi vigenti sul concorso apparente di norme che ricorre ove, attraverso un confronto degli elementi strutturali, più fattispecie risultino applicabili al medesimo fatto, e che è regolamentato dall'art. 15 c.p., secondo cui: "Quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito". Da tale norma si trae il principio generale che, ove si escluda il concorso apparente, è possibile derogare alla regola del concorso di reati solo quando la legge contenga l'espressione delle c.d. clausole di riserva, le quali, inserite nella singola disposizione, testualmente impongono l'applicazione di una sola norma incriminatrice prevalente che si individua seguendo una logica diversa da quella di specialità. Sul rapporto di specialità si fonda anche la comparazione, e quindi l'applicazione delle componenti accessorie del reato, posto che le disposizioni di cui agli artt. 68 e 84 c.p., informano le correlazioni tra gli elementi eventuali del reato nei medesimi termini previsti dall'art. rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 15, i cui principi sono volti ad evitare l'addebito plurimo di un accadimento, ove unitariamente valutato dal punto di vista normativo: condizione che si porrebbe in contrasto col principio del ne bis in idem sostanziale. 3.1. È noto che sul punto sussiste un ampio e risalente dibattito in dottrina tendente ad ampliare il concorso apparente di norme alle figure dell'assorbimento, della consunzione e dell'ante-fatto o post-fatto non punibile: classificazioni ritenute tuttavia prive di sicure basi ricostruttive, poiché individuano elementi incerti quale dato di discrimine, come l'identità del bene giuridico tutelato dalle norme in comparazione e la sua astratta graduazione in termini di maggiore o minore intensità, di non univoca individuazione, e per questo suscettibili di opposte valutazioni da parte degli interpreti. In particolare, la loro applicazione quale criterio ermeneutico è stata ripetutamente negata dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite per la mancanza di riferimenti normativi che consentano un collegamento di tale ricostruzione alla voluntas legis. 3.2. La giurisprudenza delle Sezioni Unite risulta invece saldamente fondata sul criterio di specialità, individuato quale unico principio legalmente previsto in tema di concorso apparente, con ampliamento della sua applicazione alle ipotesi di illeciti amministrativi secondo la previsione della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 9, che ha imposto la comparazione delle fattispecie astratte, prescindendo dalla qualificazione, penale o amministrativa, degli illeciti posti a raffronto. In tal senso, in maniera coerente, si sono pronunciate ripetutamente le Sezioni unite (Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, Di Lorenzo, rv. 248722; Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, rv. 248865; Sez. U., n. 16568 del 19/04/2007, Carchivi, rv. 235962; Sez. U, n. 47164 del 20/12/2005, Marino, rv. 232302; Sez. U,. n. 23427 del 09/05/2001, ndiaye, rv. 218771; Sez. U, n. 22902 del 28/03/2001, Tiezzi, rv. 218874), le quali, pur ribadendo l'applicabilità del solo criterio normativo, hanno chiarito che il raffronto deve estendersi anche alle previsioni amministrative, secondo un'evoluzione interpretativa che ha caratterizzato anche la giurisprudenza della Corte EDU, sulla base di una comparazione che si fonda sugli aspetti comportamentali, oggettivi e soggettivi, della fattispecie. 4. Più di recente è stata avvertita l'esigenza di porre in discussione tali consolidati principi sulla base della rinnovata attenzione, convenzionale e costituzionale, al divieto del bis in idem sostanziale, che trova riconoscimento, quale diritto fondamentale dell'individuo, nell'art. 4 Prot. 7 CEDU e nell'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, sulla base di quanto specificamente elaborato anche dalla Corte EDU con la sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia ed in successive pronunce sul tema della medesima autorità (Corte EDU, Grande Camera, 15/11/2016, A e B contro norvegia), fino a giungere alla sentenza della Corte cost. n. 200 del 2016. Appare al Collegio, per contro, che tali interventi non legittimino un mutamento giurisprudenziale sul tema oggetto di esame. 4.1. Dall'attenta lettura dei provvedimenti richiamati si ricava la presenza di un costante riferimento alla necessità di una comparazione concreta e complessiva delle fattispecie con particolare distinzione -quanto alla verifica del presupposto processuale di cui all'art. 649 c.p.p., e del suo corrispondente convenzionale dell'art. 4 Prot. 7 CEDU - al fatto oggetto di contestazione e, quanto all'individuazione dell'unitarietà della fattispecie contestata, agli elementi costitutivi della stessa, caratterizzati come sempre dalla correlazione azione - evento elemento psicologico, e dalla loro concreta attribuzione, attraverso il capo di imputazione, alla persona sottoposta a giudizio. ConTEnzIoSo nAzIonALE In particolare, le pronunce della Corte EDU succedutesi in argomento, cui si è già fatto riferimento, fondano la necessità di una comparazione di quanto contestato con l'oggetto di un precedente giudizio; sottolineano la funzione processuale di tale limite; e non escludono che la regolamentazione sostanziale del fatto possa essere descritta in più di una disposizione in- criminatrice (penale o amministrativa) stante la più ampia libertà decisionale riconosciuta allo Stato nazionale in argomento. Tali interpretazioni quindi non impediscono di ritenere il concorso di norme nell'ipotesi in cui non si ravvisi la coincidenza materiale nella fattispecie astratta. L'essenza del divieto espresso dalla giurisprudenza della Corte EDU in materia è individuabile nella necessità di non sottoporre ad accertamento due volte l'interessato per il medesimo fatto storico, divieto che non ha natura assoluta, non essendo precluso il perseguimento della persona sottoposta a controllo in due autonome procedure, pur auspicandosi una trattazione unitaria, ma solo la sottoposizione ad autonomo giudizio quando sia stato definito uno dei due. Si deve sottolineare che, anche ai fini processuali, l'oggetto della comparazione riguarda accadimenti che costituiscono un insieme di circostanze fattuali concrete riconducibili al medesimo colpevole ed indissolubilmente legate nel tempo e nello spazio. 4.2. nè al fine di sostenere la necessità di un ampliamento del campo di azione del concorso apparente di norme, al di là della previsione legale, risulta potersi utilmente evocare la sentenza della Corte cost. n. 200 del 2016 che ha ridefinito l'applicazione dell'art. 649 c.p.p., prescrivendola anche nell'ipotesi in cui oggetto del giudizio concluso sia un reato in concorso formale con l'altro posto in comparazione. Tale pronuncia ha precisato che, nel discrimine tra fatto giuridico e naturalistico, essenziale per stabilire i poli posti a raffronto, ad avere carattere giuridico è la sola indicazione dei segmenti dell'accadimento naturalistico che l'interprete è tenuto a prendere in considerazione per valutare l'identità del fatto ed ha espressamente chiarito che "la tutela convenzionale affronta il principio del ne bis in idem con un certo grado di relatività, nel senso che esso patisce condizionamenti tali da renderlo recessivo rispetto ad esigenze contrarie di carattere sostanziale. Questa circostanza non indirizza l'interprete, in assenza di una consolidata giurisprudenza Europea che lo conforti, verso letture necessariamente orientate nella direzione della più favorevole soluzione per l'imputato, quando un'altra esegesi della disposizione sia collocabile nella cornice dell'idem factum". 5. Sicchè, riportando l'analisi nell'ambito più strettamente attinente alla questione rimessa a questo Collegio, si deve concludere che sia l'univoca giurisprudenza della Corte di legittimità sia la mancanza di principi che impongano l'ampliamento postulato dall'opposta tesi, sulla base dell'evoluzione giurisprudenziale della Corte EDU e del Giudice delle leggi, conducono ad escludere la presenza di un sostegno ermeneutico all'ipotesi di considerare, nell'ambito del- l'istituto del concorso apparente di norme, criteri valutativi diversi da quello di specialità. 6. La schematizzazione descrittiva del criterio di specialità, anche nelle più ampie declinazioni della specialità bilaterale, non si attaglia alle fattispecie in esame, che hanno genesi e sviluppo autonomo, posto che lo stesso può ravvisarsi solo ove vi sia un identico contesto di fatto ed una delle norme contenga necessariamente gli elementi dell'altra. 6.1. In particolare, la pronuncia che ha argomentato in maniera più ampia sulla presenza del concorso apparente di norme tra le due fattispecie (Sez. 6, n. 23063 del 12/05/2009, Bilotti, rv. 244180) ha fatto riferimento al principio di sussidiarietà, non a quello di specialità. Per contro, la più risalente pronuncia (Sez. 2, n. 39644 del 09/07/2004, Ambrosio, rv. 230365) è pervenuta alle medesime conclusioni facendo leva sulla sussidiarietà dichiarata dall'ordinanza della Corte cost. n. 94 del 2004, che in realtà poneva a raffronto le diverse fat rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 tispecie di cui agli artt. 640 bis e 316 ter c.p. e coerentemente concludeva in tal senso in quanto tale rapporto tra le fattispecie era conclamato dalla clausola di riserva in essa contenuta "salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall'art. 640 bis c.p.". 6.2. risulta a questo punto necessario valutare gli elementi costitutivi dei reati oggetto di analisi in questo procedimento, al fine di verificare la natura del concorso ipotizzabile. È del tutto pacifico che gli artifici e raggiri non costituiscono l'unica modalità attraverso la quale possa ottenersi la percezione dei finanziamenti e delle altre forme di provvidenze previste dall'art. 316 bis c.p., così come, per contro, la percezione illegittima, non necessariamente sfocia nello storno delle somme erogate dalla loro finalità che individua l'elemento caratterizzante della disposizione di cui all'art. 640 bis c.p. (Sez. U., n. 7537 del 16/12/2010, dep. 2011, Pizzuto, rv. 249105). nel senso indicato, oltre che la lettera delle disposizioni, depongono lo sviluppo storico e sistematico delle due previsioni incriminatrici. Si tratta di norme contenute in disposizioni di legge autonome, ma entrate in vigore a brevissima distanza l'una dall'altra, pari a poco più di un mese, e la mancata previsione di clausole di riserva (le sole che, al di là del principio di specialità, autorizzino un rapporto di valore tra le diverse disposizioni incriminatrici) depone di per sè nel senso di una meditata definizione di autonomia delle fattispecie. Tale chiave di lettura si ricava anche dalle valutazioni sulla complessiva finalità della disposizione che ha introdotto l'art. 640 bis c.p., contenuta nella L. 19 marzo 1990, n. 55, art. 22, che reca come titolo "nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale". La norma è mirata a prevenire l'infiltrazione di imprese che trovano origine o possano connettersi a contesti criminali territoriali. Il bene giuridico avuto di mira dal legislatore non è solo la protezione dallo storno delle somme dalla finalità pubblica che si voleva imprimere con l'erogazione, ma anche la corretta individuazione del beneficiario. Del resto, in linea di ricostruzione astratta, l'acquisizione di fondi pubblici -a fondo perduto o a tassi agevolati -non consente al percettore di realizzare un utile esclusivamente attraverso lo storno delle somme dalle loro finalità, circostanza che imporrebbe di ritenere la condotta caratterizzante la fattispecie di cui all'art. 316 bis c.p., quale inevitabile prosecuzione della prima; ma ben può identificarsi anche nella convenienza economica del credito, tale da permettere all'impresa che ne usufruisce un margine di utile decisamente maggiore di quello ritraibile a seguito del ricorso al credito a prezzi di mercato, e quindi da consentire a coloro che vi accedono di recuperare quote di mercato maggiori, quale effetto dell'abbattimento dei costi. 7. La considerazione di tali profili pone in evidenza l'autonomia esistente tra le fattispecie. L'artificio e raggiro, ove sfociante nell'erogazione, crea un indubbio vantaggio al percettore, con danno dell'ente erogatore, che può essere economico, oltre che, congiuntamente o disgiuntamente, riguardare la possibilità di incidere sulla corretta distribuzione delle risorse, sia sul piano oggettivo che su quello soggettivo; il danno inoltre si può realizzare anche nei confronti del privato concorrente nell'erogazione del credito, in quanto ingiustamente pretermesso. 7.1. Quanto al primo profilo le Sezioni Unite (sent. n. 26351 del 26/06/2002, Fedi, rv. 221663) hanno posto in evidenza come il danno considerato dall'art. 640 bis c.p., non possa essere circoscritto a quello patrimoniale strettamente inteso, poiché nel caso di erogazioni stanziate è economicamente indifferente l'attribuzione ad uno o ad altro operatore; sicchè l'attività truffaldina deve intendersi come volta a tutelare il patrimonio valutato in senso dinamico, comprendente la funzione sociale dell'intervento ed i principi di buona amministrazione. ConTEnzIoSo nAzIonALE Analogamente, il richiamo all'intera disposizione di cui all'art. 640 c.p., utilizzato dalla parte descrittiva della nuova disposizione per definirne i contorni caratterizzanti, impone di escludere che questo si riferisca solo alla circostanza aggravante del danno apportato all'ente pubblico di cui al comma 2, n. 1, dovendosi intendere riferito anche alla fattispecie di cui al primo comma. Ciò rende rilevante, ai fini della consumazione del reato, anche la verificazione di un danno economico nei confronti dell'operatore concorrente, escluso illegittimamente dall'accesso ai fondi, per effetto della falsa rappresentazione della realtà esposta dall'autore del reato. 7.2. Ciò consente di cogliere l'assenza di un nesso di interdipendenza necessaria tra i due reati contestati, la cui consumazione presuppone una pianificazione autonoma da parte dell'autore, rientrante nella figura del concorso di reati, che eventualmente possono tra loro essere connessi da unicità ideativa. 7.3. nè a diverse conclusioni permette di giungere l'analisi del testo della disposizione di cui all'art. 316 bis c.p., stante l'assoluta indifferenza della fase genetica del credito rispetto alla descrizione normativa. Si vuole in particolare sottolineare che nessun richiamo testuale consente di limitare l'applicazione della disposizione ai soli contributi acquisiti lecitamente, poiché la norma rimanda all'acquisizione del finanziamento, nelle sue varie forme, come fatto storico, prescindendo dalla focalizzazione degli aspetti inerenti alle modalità di ingresso nel patrimonio del destinatario di tali importi, cosicché l'elemento genetico risulta indifferente al fine della configurazione della fattispecie. 7.4. Sulla base delle richiamate differenze tra le due fattispecie in comparazione si possono verificare almeno tre tipi di situazioni diverse: a) il privato ottiene un finanziamento illecitamente e, successivamente, utilizza la somma per scopi privati (l'ipotesi più frequente); b) il privato ottiene con mezzi fraudolenti l'erogazione, ma la destina effettivamente ad opere o attività giustificanti il sostegno economico richiesto (ipotesi più rara ma non certo impossibile); c) il privato ottiene legittimamente il finanziamento, ma omette di destinarlo all'attività o all'opera di pubblico interesse per cui era stato erogato. nell'ultimo caso si verte in ipotesi di malversazione "pura"; nel secondo viene in evidenza l'autonomia fra le due fattispecie, in quanto il privato pone in essere una truffa ma poi non compie una malversazione; nel primo caso dopo aver compiuto la truffa, con una condotta anche cronologicamente autonoma ed eventuale, il privato pone in essere la malversazione. Sussiste inoltre l'ulteriore possibilità che l'importo riscosso sia destinato a fini pubblici diversi da quelli avuti di mira dall'ente erogante, con condotta astrattamente paragonabile alla figura giuridica del peculato per distrazione, ed anche in questo caso il testo normativo non permette di escludere la consumazione del reato. L'analisi dell'atteggiarsi delle fattispecie astratte ha il pregio di mettere in luce come le situazioni concrete in cui i due reati possono realizzarsi siano molteplici e possano combinarsi tra loro, con modalità autonome. Il che sottolinea la differenza strutturale tra le due fattispecie e le interferenze tra le condotte che, anche se in via eventuale, possono verificarsi. La possibilità astratta di tali diverse conseguenze porta a concludere che la soluzione giuridica non può che essere quella del concorso materiale dei due reati eventualmente, e solitamente, unificabili nel vincolo della continuazione. 7.5. né possono considerarsi rilevanti, ai fini dell'assorbimento nella fattispecie minore in quella più grave, i casi in cui nel concreto il reato si atteggi come naturale prosecuzione della condotta truffaldina, ritenendo possibile l'effetto di assorbimento. Una tale chiave interpretativa trascura l'elemento essenziale dell'istituto del concorso di norme che si fonda sulla comparazione della struttura astratta delle fattispecie, per apprezzare la valutazione implicita rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 di correlazione tra norme ritenuta dal legislatore, non dal loro atteggiarsi concreto, condizione che riguarda il diverso istituto del concorso tra i reati e la valutazione dell'elemento soggettivo al fine di accertare nel concreto la natura autonoma o unica dell'attività ideativa. 7.6. Va da ultimo rimarcato che i due reati si consumano fisiologicamente in tempi diversi -momento percettivo ed attività esecutiva, di natura omissiva istantanea -della condotta finanziata, e che nel caso di specie la condotta qualificata ai sensi dell'art. 316 bis c.p., si è distanziata di parecchi anni rispetto alla percezione delle provvidenze. Tale condizione di fatto, come già valutato da precedenti delle Sezioni Unite (sent. n. 23427 del 09/05/2001, ndiaye, rv. 218770) è un rilevante indicatore dell'autonomia delle fattispecie, preclusivo di un rapporto di identità tra norme suscettibile di qualificare un concorso apparente. La conclusione raggiunta sulle fattispecie risulta ulteriormente evidenziata dalla circostanza che il reato di cui all'art. 316 ter c.p., omologo a quello di cui all'art. 640 bis c.p., pur procurando l'identico evento d'indebita percezione dei fondi, è punito in modo più mite di quest'ultima incriminazione, cosicchè rispetto a questo la fattispecie di cui all'art. 316 bis c.p., che si realizzerebbe ove gli importi riscossi vengano sottratti alle finalità a cui erano destinati per essi stabilite, non potrebbe ridursi ad un irrilevante post factum non punibile, pena l'irriducibile contraddizione della ricostruzione sistematica. 7.7. Se, per comune indicazione proveniente dalle esegesi in materia formulate dalla giurisprudenza di legittimità, il rapporto tra le norme in esame è estraneo al criterio di specialità, deve escludersi anche l'operatività di quello di sussidiarietà, il cui presupposto dogmatico -la connessione dei fatti descritti secondo l'id quod plerumque accidit -, al di là del mancato riconoscimento normativo di tale principio in tema di concorso apparente di norme, risulta concretamente escluso, nel rapporto tra le due norme, dalle ricostruzioni espresse. 8. La violazione del principio di legalità non può essere sostenuta dall'esigenza di evitare l'interpretazione in malam partem, posto che la finalità evocata è superata dall'individuazione dell'autonomia degli interessi tutelati e dalla conseguente necessità che questi trovino riconoscimento. Tale esigenza risulta ancora più cogente dalla considerazione in entrambe le fattispecie della possibile provenienza comunitaria dei fondi: circostanza, questa, che impone di non ignorare il costante richiamo della Corte di giustizia U.E. all'effettività di tutela che l'ordinamento degli Stati nazionali deve garantire agli interessi comunitari. Per contro, le esigenze di giustizia sostanziale di correlazione della sanzione alla gravità del fatto trovano ampia possibilità di tutela con l'applicazione dei criteri ordinari in tema di concorso dei reati e nella previsione del contemperamento del cumulo materiale della sanzione conseguente all'applicazione dell'art. 81 c.p., ove se ne riconoscano i presupposti. 9. Il quesito sottoposto all'attenzione delle Sezioni Unite deve quindi essere risolto nel senso seguente: "il reato di malversazione in danno dello stato (art. 316 bis c.p.) concorre con quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640 bis c.p.)". 10. Passando all'analisi degli ulteriori motivi di ricorso proposti si deve escludere l'ammissibilità della deduzione inerente alla mancanza di elementi caratterizzanti l'ipotesi di truffa, poiché la declaratoria di prescrizione del reato impone una modifica della pronuncia sul punto solo nell'ipotesi dell'emergere di risultanze che dimostrino la presenza di condizioni che impongono il proscioglimento, secondo quanto espressamente previsto dall'art. 129 c.p.p., comma 2: ipotesi, questa, esclusa con argomentazioni adeguate e logiche, perciò incensurabili, dalle pronunce di merito. 11. Anche per la contestazione riguardante la sussistenza del reato di cui all'art. 316 bis ConTEnzIoSo nAzIonALE c.p., connesso alla distrazione dei beni strumentali, risulta dirimente rilevare che tutte le deduzioni contenute nell'atto di impugnazione non si rapportano con le risultanze specificamente evidenziate dai giudici di merito, ma sottolineano aspetti di fatto che, anche ove dimostrati, risulterebbero inidonei a porre nel nulla le circostanze poste a logico fondamento dell'accertamento di responsabilità. nè l'esame della norma sulla base della quale è stato erogato il finanziamento evidenzia la non imperatività del carattere della novità dell'attività beneficiata, in quanto tale presupposto costituisce, sulla base del testo del D.Lgs. 21 aprile 2000, n. 185, la condizione legittimante l'erogazione espressa dall'art. 1 ove prevede: "Le disposizioni del presente titolo sono dirette a favorire l'ampliamento della base produttiva e occupazionale nonché lo sviluppo di una nuova imprenditorialità": novum che non è dato riscontrare nel- l'ipotesi di costituzione di una società paravento, quale quella accertata nella specie. 12. Estranee all'ambito valutativo rimesso al giudizio di legittimità risultano le censure formulate con riferimento al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche in favore della B., nonché alla sottoposizione alla condizione del pagamento della provvisionale in favore della parte civile della sospensione concessa, e al mancato riconoscimento della non menzione della condanna, riguardanti entrambe le ricorrenti. Si tratta, infatti, di decisioni rimesse alla valutazione discrezionale del giudice di merito, rispetto alle quali la mancata dimostrazione di insussistenza delle condizioni fondanti la valutazione nel concreto o di assenza di motivazione sul punto rende insuscettibili di censura le relative disposizioni. Quel che rileva è la presenza di una argomentazione di sostegno e la sua coerenza rispetto alle emergenze di fatto, condizioni la cui sussistenza non è contestata nel ricorso. 13. Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna delle ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese di rappresentanza della parte civile InVITALIA s.p.a. in questo grado, liquidate nella misura indicata in dispositivo. P.Q.M. rigetta i ricorsi e condanna le ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione in favore della parte civile costituita delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 6.000,00 oltre gli accessori di legge. Così deciso in roma, il 23 febbraio 2017. rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 Danni punitivi: la “nuova” natura polifunzionale della responsabilità civile Nota a Cass. CiV., sez. UN., seNteNza 5 lUGlio 2017 N. 16601 Ivan Michele Triolo* nel nostro ordinamento alla responsabilità civile è stata storicamente riconosciuta una funzione precipuamente compensativa, avente l’unico fine di reintegrare la sfera personale - patrimoniale e non - della vittima dell’illecito. Tale concezione riparatoria dell’illecito civile ha condotto, per molti anni, alla ferma esclusione di qualsiasi funzione ulteriore del risarcimento, compresa -segnatamente -la funzione sanzionatoria sottesa ai cc.dd. danni punitivi. Trattasi, com’è noto, di un istituto di derivazione anglosassone che si sostanzia in una prestazione ulteriore rispetto alla reintegrazione del danno effettivamente sofferto dalla vittima, avente - appunto - funzione prettamente sanzionatoria dell’autore dell’illecito. La ratio dell’istituto va individuata nell’esigenza di ricercare un più efficace deterrente all’illegalità, alternativo all’azione repressivo-sanzionatoria dei pubblici poteri, attraverso la mobilitazione dei privati, indotti alla «persecuzione » degli illeciti sotto l’impulso dell’egoistico movente di trarne un vantaggio economico (1). La funzione dei danni punitivi è quindi duplice: da un lato, costituiscono un quid pluris risarcitorio di natura premiale per la vittima, che viene così sostanzialmente «gratificata» per aver fatto emergere una condotta illecita; dall’altro, imponendo al responsabile una prestazione ulteriore, dalla spiccata natura afflittiva, rappresentano -almeno nelle intenzioni -un forte deterrente alla violazione del fondamentale principio del naeminem laedere, e quindi all’illegalità. Le Sezioni Unite, con sentenza n. 16601 del 5 luglio 2017, hanno riconosciuto ai danni punitivi il definitivo diritto di cittadinanza nell’ordinamento italiano, riconoscendo così alla responsabilità civile una natura polifunzionale. La Cassazione - anche in questo caso - ha affrontato il problema incidentalmente, in sede di delibazione di provvedimenti giudiziari stranieri che a tale istituto fanno riferimento. L’ammissibilità dei danni punitivi nel nostro ordinamento, fino al recente passato, è stata oggetto di un intenso dibattito dottrinale e giurisprudenziale, culminato con il recentissimo arresto in commento. Un primo orientamento, consolidatosi a partire dall’emanazione del co- (*) Dottore in Giurisprudenza, già praticante foresene presso l’Avvocatura dello Stato di Bologna. (1) F. GALGAno, i fatti illeciti, Cedam, Padova, 2008, 161. ConTEnzIoSo nAzIonALE dice civile, negava fermamente la compatibilità dell’istituto dei danni punitivi con l’ordinamento italiano, facendo leva sul riconosciuto carattere monofunzionale della responsabilità civile, avente l’unico fine di reintegrare la posizione del soggetto vittima dell’illecito (ex multis, Cass. civ., Sez. III, 19 gennaio 2007, n. 1183). A siffatto orientamento faceva seguito un secondo filone interpretativo, sostenuto dalla dottrina, attento nell’individuare le numerose ipotesi di risarcimento punitivo previste dalla legge. Al riguardo, a titolo meramente esemplificativo, si segnalano: l’art. 96, comma 3, c.p.c., che sanziona l’abuso del processo; l’art. 614 bis c.p.c., che prevede il potere del giudice di fissare preventivamente una somma pecuniaria per ogni ulteriore violazione e/o ritardo nell’esecuzione del provvedimento di condanna (cc.dd. astreintes); l’art. 12 della legge n. 47/1948, che prevede una somma aggiuntiva, a titolo di riparazione, in caso di diffamazione a mezzo stampa; i recenti artt. 3-5 del d.lgs. n. 7/2016 che, depenalizzando varie fattispecie di reato poste a tutela della fede pubblica, dell’onore e del patrimonio, hanno previsto una sanzione pecuniaria ulteriore rispetto al risarcimento danni, avente una dichiarata finalità preventiva e repressiva (per un esaustiva elencazione delle fattispecie si rinvia a Cass. civ., Sez. I, 15 aprile 2015, n. 7613, nonché all’ordinanza di rimessione prodromica alla sentenza in esame, Cass. civ., Sez. I, 16 maggio 2016, ord. n. 9978). A fronte di quanto argomentato, le Sezioni Unite, con la sentenza in commento, hanno definitivamente emesso un giudizio positivo di compatibilità tra la funzione sanzionatoria del risarcimento del danno e l’ordinamento italiano, a condizione - beninteso - che sussista una indefettibile predeterminazione legislativa della fattispecie punitiva, in ossequio al fondamentale principio di legalità sancito dall’art. 25, comma 2, Cost., dall’art. 7 CEDU, nonché - per quel che concerne l’imposizione patrimoniale - dall’art. 23 Cost. Secondo la Cassazione, vi è «[…] un riscontro a livello costituzionale della cittadinanza nell’ordinamento di una concezione polifunzionale della responsabilità civile, la quale risponde soprattutto a un’esigenza di effettività (cfr. Corte Cost. 238/2014 e Cass. 21255/2013) della tutela che in molti casi, della cui analisi la dottrina si è fatta carico, resterebbe sacrificata nell’angustia monofunzionale». Tuttavia, avverte la Corte, «ciò non significa che l’istituto aquiliano abbia mutato la sua essenza e che questa curvatura deterrente/sanzionatoria consenta ai giudici italiani […] di imprimere soggettive accentuazioni ai risarcimenti che vengono liquidati». ogni imposizione patrimoniale, infatti, esige una previa intermediazione legislativa, in forza dei principi predetti, stante la natura puramente afflittiva delle prestazioni imposte al responsabile dell’illecito. In conclusione, si segnala che la Cassazione è giunta a tale risultato interpretativo passando per la definitiva adesione ad una concezione «internazionale » di ordine pubblico, che ha sancito l’approdo finale dell’evoluzione rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 giurisprudenziale degli ultimi anni (2). La clausola di salvaguardia dell’ordine pubblico, infatti, rappresenta un limite invalicabile per la delibazione di sentenze straniere, ragion per cui -sia pure in presenza degli altri requisiti previsti dall’art. 64 della legge n. 218/1995 - al giudice italiano è precluso il riconoscimento di qualsivoglia pronuncia emessa da un’Autorità giudiziaria straniera che si ponga in contrasto con il complesso di principi e valori fondamentali del nostro ordinamento. Secondo le Sezioni Unite, in ossequio all’elaborazione giurisprudenziale più recente, nonché a quanto affermato dalla Prima Sezione nell’ordinanza di rimessione n. 9978 del 16 maggio 2016, l’ordine pubblico deve intendersi quale «[…] complesso dei principi fondamentali caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico, ma fondati su esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo comuni ai diversi ordinamenti e desumibili, innanzitutto, dai sistemi di tutela approntati a livello sovraordinato rispetto alla legislazione ordinaria […]». A fronte di tali argomentazioni, pertanto, deve escludersi che la funzione compensatoria del rimedio risarcitorio assurga a valore fondamentale, e inderogabile, del nostro ordinamento, sicché il legislatore è pienamente libero -nei limiti della discrezionalità accordatagli dai parametri costituzionali -di prevedere rimedi risarcitori che vadano oltre la (mera) compensazione, sfociando finanche nell’alveo della sanzione. Cassazione civile, Sezioni Unite, sentenza 5 luglio 2017, n. 16601 -Primo Pres. f.f. rordorf, rel. D’Ascola, P.m. Giacalone (rigetto ricorso, riaffermazione del principio di contrasto con l’ordine Pubblico Italiano della sentenza U.S.A di condanna a danni punitivi). Fatti di causa La società noSA Inc., con sede in Florida (USA), ha ottenuto dalla Corte di appello di Venezia che siano dichiarate efficaci ed esecutive, nell'ordinamento italiano, tre sentenze pronunciate negli Stati Uniti d'America, passate in giudicato: la sentenza del 23 settembre 2008, esecutiva, della Circuit Court of the 17th judicial Circuit for Broward Count (Florida), confermata in appello dal District Court of Appeal of the State of Florida, dell'11 agosto 2010, che aveva condannato la società italiana AXo Sport spa a pagare la complessiva somma di dollari USA 1.436.136,87, oltre interessi al tasso annuo dell'11%, a seguito di procedimento giudiziario svoltosi davanti a quell'autorità; la sentenza del 14 gennaio 2009, con cui il medesimo giudice aveva liquidato dollari USA 106.500,00, a titolo di rifusione dei costi, delle spese legali e degli interessi al tasso annuo dell'8%; la sentenza del 13 ottobre 2010 che aveva liquidato, in relazione al giudizio di appello, l'ulteriore somma di dollari USA 9.000,00, a titolo di rifusione dei costi, delle spese legali e degli interessi al tasso annuo del 6%. (2) Sul punto, si veda A. DI MAjo, riparazione e punizione nella responsabilità civile, in Giur. it., n. 8-9/2016, 1854-1860. ConTEnzIoSo nAzIonALE Con tali pronunce, i giudici americani hanno accolto la domanda di garanzia promossa da noSA, in relazione ad un indennizzo di un milione di Euro transattivamente corrisposto ad un motociclista che aveva subito danni alla persona in un incidente avvenuto in una gara di motocross, per un asserito vizio del casco prodotto da AXo, distribuito da Helmet House e rivenduto da noSA. nel giudizio promosso dal danneggiato anche nei confronti della società importatrice distributrice del casco (Helmet), noSA aveva accettato la proposta transattiva del motociclista, e il giudice americano successivamente ha ritenuto che dovesse essere manlevata da AXo. noSA ha ottenuto dalla Corte di appello di Venezia (sentenza 3 gennaio 2014) il riconoscimento delle suddette pronunce, a norma della L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 64, avendo la AXo accettato la giurisdizione straniera. La AXo ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, cui si è opposta la noSA. Le parti hanno presentato memorie. La causa è stata rimessa al Primo Presidente, per l'assegnazione alle Sezioni Unite, a seguito di ordinanza n. 9978/16 della Prima sezione, che ha sollecitato un ripensamento sul tema della riconoscibilità delle sentenze straniere comminatorie di danni punitivi. nuove memorie delle parti sono state depositate prima della discussione conclusiva. ragioni della decisione (...) 4) Il terzo motivo denuncia violazione della L. n. 218 del 1995, art. 64, e vizio di motivazione e lamenta che la Corte veneziana non avrebbe ravvisato che la sentenza della Corte USA riguardava, senza specifica motivazione in ordine alla tipologia di danni indennizzati, un indennizzo corrisposto al danneggiato anche a titolo di danni punitivi, perché la proposta transattiva noSA, accettata dal motociclista, fissava l'importo "a titolo di composizione integrale di tutte le pretese risarcitorie del sig. D., comprese quelle per punitive damages". La Corte di appello ha respinto questo profilo delle difese di parte AXo, circa la contrarietà all'ordine pubblico della sentenza americana, sulla base di tre convergenti osservazioni. Si possono così riassumere: a) La sentenza non ha specificato quali danni sono stati indennizzati perché ha recepito "l'importo della transazione con il danneggiato"; b) non è necessario individuare la tipologia di danni, perché comunque AXo si è avvantaggiata di tale transazione; c) non risulta in atti il riconoscimento di tale profilo risarcitorio, ed anzi l'accordo va inteso diversamente. AXo, oltre a richiamare le difese già oggetto delle precedenti censure, sostiene che il testo della proposta transattiva imputava espressamente "il pagamento di cui alla transazione" a "risarcimento di danni punitivi" e che la Corte di appello non ne avrebbe tenuto conto. In secondo luogo la violazione di legge e il vizio di motivazione vengono denunciati in riferimento alla carenza di motivazione della sentenza americana circa la tipologia dei danni liquidati. La tesi svolta è che tale carenza motivazionale sarebbe ostativa al riconoscimento, "in presenza di un quantum risarcitorio abnorme". A questo proposito la ricorrente invoca Cass. 1781/12 e Cass. 1183/07, precedenti di cui dà conto l'ordinanza di rimessione 9978/16 nel chiedere un ripensamento delle Sezioni Unite in ordine alla compatibilità dell'istituto dei punitive damages con l'ordine pubblico italiano. 4.1) Il motivo risulta inammissibile, giacché è imperniato su un presupposto insussistente: la configurabilità, nella condanna addebitata al garante, di una liquidazione di "danni punitivi" in favore della vittima del sinistro. Su questo punto, che il ricorso non riesce a scalfire, la valutazione della Corte di appello non rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 è viziata da omesso esame di alcun fatto decisivo, nel senso voluto dalla riforma dell'art. 360 c.p.c., n. 5. occorre subito ricordare che secondo la giurisprudenza della Corte (SU 8053/14) va esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione e viene in rilievo, ai fini del controllo sulla motivazione, soltanto l'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo. nel caso di specie va escluso che vi sia stata la lamentata "totale obliterazione del fatto che la proposta transattiva" accettata da nosa e posta a base della sentenza di condanna del garante riguardasse anche la pretese per punitive damages. nell'ultimo periodo di pag. 21, la Corte di appello ha chiaramente considerato la circostanza che si era discusso tra le parti di danni punitivi. Ha però ritenuto che l'accordo non implicasse la liquidazione di danni punitivi e il loro recepimento, ma "solo che noSA inc. richiese una rinuncia anche a pretese per danni punitivi, in un'ottica di chiusura complessiva dei rapporti tra le parti". Questa inequivocabile motivazione, che rimanda a un'interpretazione della sentenza americana alla luce della transazione che sta alla base della liquidazione, non è quindi viziata dall'omissione ipotizzata nel motivo di ricorso. L'accordo transattivo è stato considerato e la maggiore o minore plausibilità delle conclusioni raggiunte in ordine alla sua portata non è sindacabile in questa sede (circa i limiti del controllo sull'apprezzamento del giudice di merito sul contenuto del provvedimento da delibare, indagine di fatto riservata al medesimo giudice cfr proprio Cass. 1183/07 e, ivi, i richiami a Cass. n. 1266/1972, n. 3709/1983, n. 3881/1969). La censura è quindi inammissibile. 4.2) Anche il secondo profilo del motivo è inammissibile. Esso afferma che la sentenza americana sarebbe veicolo di una liquidazione di danni punitivi, sul presupposto dell'abnormità del risarcimento accordato al danneggiato. Questo presupposto, indispensabile premessa della tesi che propugna il divieto di riconoscimento nel nostro ordinamento, ex art. 64, dei c.d. danni punitivi, è tuttavia enunciato apoditticamente. Va ricordato in proposito che, se è vero che in caso di contestazione del riconoscimento della sentenza straniera, ai sensi dell'art. 67 della legge 31 maggio 1995, n. 218, l'indagine relativa alla sussistenza dei requisiti del riconoscimento deve essere compiuta dal giudice anche d'ufficio (Cass. 13662/04), tuttavia tale indagine incontra i limiti delle risultanze processuali, secondo i relativi oneri probatori delle parti. nel caso di specie, a fronte di grave pregiudizio alla persona (al calcolato silenzio del ricorso sul punto, ha fatto riscontro il dettagliato controricorso, che ha specificato i particolari delle lesioni craniche e dei postumi invalidanti subiti dall'infortunato) la liquidazione, peraltro su base transattiva, di un importo di un milione di Euro (o due, considerando la analoga transazione stipulata dall'infortunato con Helmet, come sottolineato negli scritti di parte), non è definibile di per sé abnorme. L'apprezzamento di fatto reso sotto questo profilo dalla Corte di appello non è sindacabile in questa sede, perché la Corte di appello ha valorizzato la considerazione della sentenza americana circa la ragionevolezza della transazione e ha osservato, a chiusura, che ulteriore somma era stata aggiunta a quell'importo con la transazione diretta AXo-motociclista. Se cosi è, non v'è margine in sede di legittimità per una nuova valutazione della pretesa ab- normità degli effetti della sentenza americana nell'ordinamento italiano (questo è l'ambito del sindacato della Corte Suprema, che non può valutare la correttezza della soluzione adottata ConTEnzIoSo nAzIonALE alla luce dell'ordinamento straniero o della legge italiana: cfr. 9483/13, ma già, acutamente, Cass. 10215/07). non vi è questo spazio soprattutto perché lo si propugna in relazione all'asserita liquidazione di danni punitivi, dedotta in assenza di una puntuale evidenziazione, in ricorso, delle circostanze che legittimerebbero tale affermazione, relative alla articolazione (tra danni patrimoniali, morali ed eventualmente punitivi) delle richieste delle parti, al loro fondamento giuridico nel sistema a quo, all'incedere delle contestazioni insorte sul punto nel giudizio americano, etc. né giova a parte ricorrente dedurre che in carenza di indicazione, nella sentenza, di regole e/o criteri di liquidazione del danno si dovrebbe presumere una natura parzialmente sanzionatoria del quantum transatto. Questa via, che si inerpica nuovamente sulla strada impercorribile del vizio di motivazione, è contraddetta dalle stesse ammissioni (pag. 13 di memoria 2016) circa il fatto che nell'affidavit D., oltre alle spese mediche sostenute per 335.000 USD, la sola perdita della capacità di guadagno era stata stimata dai due a tre milioni di dollari. Pertanto a poco vale addurre che inizialmente il difensore del motociclista aveva testimoniato avanti la giuria della Florida che il valore della domanda oscillava dai 10 ai 30 milioni di dollari. Proprio questa prospettiva, che avrebbe potuto essere grossolanamente sanzionatoria e abnorme, risulta abbandonata dal ridimensionamento della transazione ben sotto i limiti della sola componente patrimoniale del risarcimento richiesto. ne discende che non v'è alcun modo per ipotizzare il carattere "punitivo" della condanna pronunciata, carattere che comunque non si può presumere sol perchè manchi nella sentenza, o meglio nella transazione recepita dal giudice americano, una chiara distinzione delle componenti del danno. Il motivo in questo senso ripropone una lettura "radicale" dei precedenti specifici citati, i quali erano però fondati (cfr in particolare Cass. 1781/12) sul riscontro dell'"insufficienza argomentativa", canone ormai non utilizzabile e che costringe quindi chi si opponga al riconoscimento a individuare inequivocabilmente eventuali profili normativi falsamente applicati dal provvedimento di delibazione. 5) L'esito dei tre motivi svolti da parte ricorrente conduce al rigetto del ricorso. L'inammissibilità dell'ultimo motivo dà tuttavia alle Sezioni Unite la facoltà di pronunciarsi sulla questione in esso dibattuta, potendosi interpretare l'art. 363 c.p.c., comma 3, nel senso che la enunciazione del principio di diritto è consentita anche in relazione a inammissibilità di un singolo motivo di ricorso che involga una questione di particolare importanza, ancorché il ricorso debba nel suo complesso essere rigettato. nella specie le condizioni che giustificano l'enunciazione del principio di diritto si desumono dall'esteso dibattito dottrinale che da tempo sollecita un intervento giurisprudenziale sul tema e dalla stessa ordinanza di rimessione, stimolata dalla sagacia espositiva delle parti. 5.1) nel 2007 la Cassazione ha fondato il rifiuto di riconoscimento di una pronuncia in materia, sancendo l'estraneità al risarcimento del danno dell'idea di punizione e di sanzione, nonché l'indifferenza della "condotta del danneggiante". Ha affermato il carattere monofunzionale della responsabilità civile, avente la sola funzione di "restaurare la sfera patrimoniale" del soggetto leso. Immediatamente censurata dalla dottrina maggioritaria, che ha criticato il contrasto tra queste proposizioni e il dinamico percorso dalla nozione di responsabilità civile nei lustri anteriori, la sentenza 1183/07 ha trovato conferma qualche anno dopo. In Cass. 1781/2012 l'esclusione del carattere sanzionatorio della responsabilità civile è stata rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 più esplicitamente riferito ai limiti della "verifica di compatibilità con l'ordinamento italiano della condanna estera al risarcimento dei danni da responsabilità contrattuale". Le Sezioni Unite ritengono che questa analisi sia superata e non possa più costituire, in questi termini, idoneo filtro per la valutazione di cui si discute. Già da qualche anno le Sezioni Unite (cfr. SU 9100/2015 in tema di responsabilità degli amministratori) hanno messo in luce che la funzione sanzionatoria del risarcimento del danno non è più "incompatibile con i principi generali del nostro ordinamento, come una volta si riteneva, giacché negli ultimi decenni sono state qua e là introdotte disposizioni volte a dare un connotato lato sensu sanzionatorio al risarcimento". Le Sezioni Unite hanno tuttavia precisato che questo connotato sanzionatorio non è ammissibile al di fuori dei casi nei quali una "qualche norma di legge chiaramente lo preveda, ostandovi il principio desumibile dall'art. 25 Cost., comma 2, nonchè dall'art. 7 della Convenzione Europea sulla salvaguardia dei diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali". Se si completa quest'avvertenza con il richiamo, altrettanto pertinente, all'art. 23 Cost., si può comprendere perché mai, perfino nello stesso ambito temporale, ritornino (l'esempio più significativo: SU n. 15350/15) dinieghi circa la funzione sanzionatoria e di deterrenza della responsabilità civile. Essi risalgono, quando non si tratta di meri arricchimenti argomentativi, alla esigenza di smentire sollecitazioni tese ad ampliare la gamma risarcitoria in ipotesi prive di adeguata copertura normativa. non possono valere tuttavia a sopprimere quanto è emerso dalla traiettoria che l'istituto della responsabilità civile ha percorso in questi decenni. In sintesi estrema può dirsi che accanto alla preponderante e primaria funzione compensativo riparatoria dell'istituto (che immancabilmente lambisce la deterrenza) è emersa una natura polifunzionale (un autore ha contato più di una decina di funzioni), che si proietta verso più aree, tra cui sicuramente principali sono quella preventiva (o deterrente o dissuasiva) e quella sanzionatorio-punitiva. 5.2) Indispensabile riscontro di questa descrizione è il panorama normativo che si è venuto componendo. Esso da un lato denota l'urgenza che avverte il legislatore di ricorrere all'armamentario della responsabilità civile per dare risposta a bisogni emergenti, dall'altro dimostra, con la sua vivacità, quanto sia inappagante un insegnamento che voglia espungere dal sistema, confinandole in uno spazio indeterminato e asfittico, figure non riducibili alla "categoria". A incaricarsi di formare questo elenco, per definizione mai completo, sono state, oltre agli studi dell'Ufficio del Massimario, l'ordinanza di rimessione n. 9978/16 e la sentenza n. 7613/15, chiamata a vagliare la compatibilità con l'ordine pubblico italiano delle misure di astreintes previste in altri ordinamenti (nella specie in quello belga). Quest'ultima ha recensito: "in tema di brevetto e marchio, il r.D. 29 giugno 1127, n. 1939, art. 86, e r.D. 21 giugno 1942, n. 929, art. 66, abrogati dal D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, che ha dettato a tal fine le misure dell'art. 124, comma 2, e art. 131, comma 2; il D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, art. 140, comma 7, c.d. codice del consumo, dove si tiene conto della "gravità del fatto"; secondo alcuni, l'art. 709 ter c.p.c., nn. 2 e 3, introdotto dalla L. 8 febbraio 2006, n. 54, per le inadempienze agli obblighi di affidamento della prole; l'art. 614 bis c.p.c., introdotto dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 49, il quale contempla il potere del giudice di fissare una somma pecuniaria per ogni violazione ulteriore o ritardo nell'esecuzione del provvedimento, "tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile"; il D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, art. 114, redatto sulla falsariga della norma appena ricordata, che attribuisce analogo po ConTEnzIoSo nAzIonALE tere al giudice amministrativo dell'ottemperanza". Ha considerato "le ipotesi in cui è la legge che direttamente commina una determinata pena per il trasgressore: come - accanto alle disposizioni penali degli artt. 388 e 650 c.p. - l'art. 18, comma 14, dello statuto dei lavoratori, ove, a fronte dell'accertamento dell'illegittimità di un licenziamento di particolare gravità, la mancata reintegrazione è scoraggiata da una sanzione aggiuntiva; la L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 31, comma 2, per il quale il locatore pagherà una somma in caso di recesso per una ragione poi non riscontrata; l'art. 709 ter c.p.c., n. 4, che attribuisce al giudice il potere di infliggere una sanzione pecuniaria aggiuntiva per le violazioni sull'affidamento della prole; o ancora il D.L. 22 settembre 2006, n. 259, art. 4, convertito in L. 20 novembre 2006, n. 281, in tema di pubblicazione di intercettazioni illegali". L'ordinanza 9978/16 ha menzionato tra gli altri: L. 22 aprile 1941, n. 633, art. 158, e, soprattutto, D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, art. 125, (proprietà industriale), pur con i limiti posti dal cons. 26 della direttiva CE (cd. enforcement) 29 aprile 2004, n. 48 (sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale), attuata dal D.Lgs. 16 marzo 2006, n. 140 (v. art. 158) e la venatura non punitiva ma solo sanzionatoria riconosciuta da Cass. n. 8730 del 2011; il D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 187 undecies, comma 2, (in tema di intermediazione finanziaria); il D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7 (artt. 3 - 5), che ha abrogato varie fattispecie di reato previste a tutela della fede pubblica, dell'onore e del patrimonio e, se i fatti sono dolosi, ha affiancato al risarcimento del danno, irrogato in favore della parte lesa, lo strumento afflittivo di sanzioni pecuniarie civili, con finalità sia preventiva che repressiva". Entrambe le pronunce annettono precipuo rilievo alla L. 8 febbraio 1948, n. 47, art. 12, che prevede una somma aggiuntiva a titolo riparatorio nella diffamazione a mezzo stampa e al novellato art. 96, comma 3, c.p.c., che consente la condanna della parte soccombente al pagamento di una "somma equitativamente determinata", in funzione sanzionatoria dell'abuso del processo (nel processo amministrativo l'art. 26, comma 2, del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104). Mette conto citare anche l'art. 28 del d.lgs n. 150/2011 sulle controversie in materia di discriminazione, che dà facoltà al giudice di condannare il convenuto al risarcimento del danno tenendo conto del fatto che l'atto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento. E ancora, si vedano l'art. 18 comma secondo dello Statuto dei lavoratori, che prevede che in ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto; il D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 28, comma 2, in materia di tutela del lavoratore assunto a tempo determinato e la anteriore norma di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5, 6 e 7, che prevede, nei casi di conversione in contratto a tempo indeterminato per illegittimità dell'apposizione del termine, una forfettizzazione del risarcimento. L'elenco di "prestazioni sanzionatorie", dalla materia condominiale (art. 70 disp. att. c.c.) alla disciplina della subfornitura (L. n. 192 del 1998, art. 3, comma 3), al ritardo di pagamento nelle transazioni commerciali (D.Lgs. n. 231 del 2002, artt. 2 e 5) è ancora lungo. non è qui il caso di esaminare le singole ipotesi per dirimere il contrasto tra chi le vuol sottrarre ad ogni abbraccio con la responsabilità civile e chi ne trae, come le Sezioni Unite ritengono, il complessivo segno della molteplicità di funzioni che contraddistinguono il problematico istituto. 5.3) Giova segnalare, piuttosto, che nella stessa giurisprudenza costituzionale si trovano agganci meritevoli di considerazione. Corte Cost. n. 303 del 2011, riferendosi alla normativa in materia laburistica da ultimo citata rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 (L. n. 183 del 2010), ha avuto modo di chiarire che trattasi di una novella "diretta ad introdurre un criterio di liquidazione del danno di più agevole, certa ed omogenea applicazione", avente "l'effetto di approssimare l'indennità in discorso al danno potenzialmente sofferto a decorrere dalla messa in mora del datore di lavoro sino alla sentenza", senza ammettere la detrazione dell'aliunde perceptum e così facendo assumere all'indennità onnicomprensiva "una chiara valenza sanzionatoria". Corte Cost. n. 152 del 2016, investita di questione relativa all'art. 96 c.p.c., ha sancito la natura "non risarcitoria (o, comunque, non esclusivamente tale) e, più propriamente, sanzionatoria, con finalità deflattive" di questa disposizione e dell'abrogato art. 385 c.p.c. Vi è dunque un riscontro a livello costituzionale della cittadinanza nell'ordinamento di una concezione polifunzionale della responsabilità civile, la quale risponde soprattutto a un'esigenza di effettività (cfr. Corte Cost. 238/2014 e Cass. n. 21255/13) della tutela che in molti casi, della cui analisi la dottrina si è fatta carico, resterebbe sacrificata nell'angustia mono- funzionale. Infine va segnalato che della possibilità per il legislatore nazionale di configurare "danni punitivi" come misura di contrasto della violazione del diritto Eurounitario parla Cass., sez. un., 15 marzo 2016, n. 5072. Ciò non significa che l'istituto aquiliano abbia mutato la sua essenza e che questa curvatura deterrente/sanzionatoria consenta ai giudici italiani che pronunciano in materia di danno extracontrattuale, ma anche contrattuale, di imprimere soggettive accentuazioni ai risarcimenti che vengono liquidati. ogni imposizione di prestazione personale esige una "intermediazione legislativa", in forza del principio di cui all'art. 23 Cost., (correlato agli artt. 24 e 25), che pone una riserva di legge quanto a nuove prestazioni patrimoniali e preclude un incontrollato soggettivismo giudiziario. 6) Questo inquadramento del tema illumina la questione della compatibilità con l'ordine pubblico di sentenze di condanna per punitive damages. La descrizione dell'ordine pubblico internazionale, "come complesso dei principi fondamentali caratterizzanti l'ordinamento interno in un determinato periodo storico, ma fondati su esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell'uomo comuni ai diversi ordinamenti e desumibili, innanzi tutto, dai sistemi di tutela approntati a livello sovraordinato rispetto alla legislazione ordinaria" (cfr. ord. 9978/16 pag. 21), può far pensare a una "riduzione della portata del principio di ordine pubblico". Ciò che va registrato è senz'altro che la nozione di "ordine pubblico", che costituisce un limite all'applicazione della legge straniera, ha subito profonda evoluzione. Da "complesso dei principi fondamentali che caratterizzano la struttura etico-sociale della comunità nazionale in un determinato periodo storico, e nei principi inderogabili immanenti nei più importanti istituti giuridici" (così Cass. 1680/84) è divenuto il distillato del "sistema di tutele approntate a livello sovraordinato rispetto a quello della legislazione primaria, sicché occorre far riferimento alla Costituzione e, dopo il trattato di Lisbona, alle garanzie approntate ai diritti fondamentali dalla Carta di nizza, elevata a livello dei trattati fondativi dell'Unione Europea dall'art. 6 TUE (Cass. 1302/13)". La dottrina ha spiegato che l'effetto principale recato dal recepimento e dall'interiorizzazione del diritto sovranazionale non è la riduzione del controllo avverso l'ingresso di norme o sentenze straniere che possono "minare la coerenza interna" dell'ordinamento giuridico. Come si è anticipato sub p. 2.2, a questa storica funzione dell'ordine pubblico si è affiancata, con l'emergere e il consolidarsi dell'Unione Europea, una funzione di esso promozionale dei ConTEnzIoSo nAzIonALE valori tutelati, che mira ad armonizzare il rispetto di questi valori, essenziali per la vita e la crescita dell'Unione. È stato pertanto convincentemente detto che il rapporto tra l'ordine pubblico dell'Unione e quello di fonte nazionale non è di sostituzione, ma di autonomia e coesistenza. Le Sezioni Unite ne traggono riprova dall'art. 67 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea (TFUE), il quale afferma che "l'Unione realizza uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia nel rispetto dei diritti fondamentali nonché dei diversi ordinamenti giuridici e delle diverse tradizioni giuridiche degli Stati membri". Pertanto a fungere da parametro decisivo non basta il confronto tra le reazioni delle corti dei singoli Stati alle novità provenienti da uno Stato terzo, o da un altro stato dell'Unione; né lo è un'enunciazione possibilista come quella, proprio in tema di danni non risarcitori, contenuta nel Considerando n. 32 del reg. CE 11 luglio 2007 n. 864. La sentenza straniera che sia applicativa di un istituto non regolato dall'ordinamento nazionale, quand'anche non ostacolata dalla disciplina Europea, deve misurarsi con il portato della Costituzione e di quelle leggi che, come nervature sensibili, fibre dell'apparato sensoriale e delle parti vitali di un organismo, inverano l'ordinamento costituzionale. Se con riguardo all'ordine pubblico processuale, ferma la salvaguardia dell'effettività dei diritti fondamentali di difesa, il setaccio si è fatto più largo per rendere più agevole la circolazione dei prodotti giuridici internazionali, con riguardo all'ordine pubblico sostanziale non può dirsi altrettanto. Gli esiti armonizzanti, mediati dalle Carte sovranazionali, potranno agevolare sovente effetti innovativi, ma Costituzioni e tradizioni giuridiche con le loro diversità costituiscono un limite ancora vivo: privato di venature egoistiche, che davano loro "fiato corto", ma reso più complesso dall'intreccio con il contesto internazionale in cui lo Stato si colloca. non vi potrà essere perciò arretramento del controllo sui principi essenziali della "lex fori" in materie, come per esempio quella del lavoro (v. significativamente Cass. 10070/13) che sono presidiate da un insieme di norme di sistema che attuano il fondamento della repubblica. nel contempo non ci si potrà attestare ogni volta dietro la ricerca di una piena corrispondenza tra istituti stranieri e istituti italiani. non avrebbe utilità chiedersi se la ratio della funzione deterrente della responsabilità civile nel nostro sistema sia identica a quella che genera i punitive damages. L'interrogativo è solo il seguente: se l'istituto che bussa alla porta sia in aperta contraddizione con l'intreccio di valori e norme che rilevano ai fini della delibazione. 7) Le considerazioni svolte fanno da guida alle conclusioni che si intendono raggiungere in materia di riconoscimento di sentenze che condannino a risarcire punitive damages. Schematicamente si può dire che, superato l'ostacolo connesso alla natura della condanna risarcitoria, l'esame va portato sui presupposti che questa condanna deve avere per poter essere importata nel nostro ordinamento senza confliggere con i valori che presidiano la materia, valori riconducibili agli artt. da 23 a 25 Cost. Così come (cfr p. 5.2) si è detto che ogni prestazione patrimoniale di carattere sanzionatorio o deterrente non può essere imposta dal giudice italiano senza espressa previsione normativa, similmente dovrà essere richiesto per ogni pronuncia straniera. Ciò significa che nell'ordinamento straniero (non per forza in quello italiano, che deve solo verificare la compatibilità della pronuncia resa all'estero) deve esservi un ancoraggio normativo per una ipotesi di condanna a risarcimenti punitivi. Il principio di legalità postula che una condanna straniera a "risarcimenti punitivi" provenga rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 da fonte normativa riconoscibile, cioè che il giudice a quo abbia pronunciato sulla scorta di basi normative adeguate, che rispondano ai principi di tipicità e prevedibilità. Deve esservi insomma una legge, o simile fonte, che abbia regolato la materia "secondo principi e soluzioni" di quel paese, con effetti che risultino non contrastanti con l'ordinamento italiano. ne discende che dovrà esservi precisa perimetrazione della fattispecie (tipicità) e puntualizzazione dei limiti quantitativi delle condanne irrogabili (prevedibilità). resta poi nella singolarità di ogni ordinamento, a seconda dell'attenzione portata alla figura dell'autore dell'illecito o a quella del danneggiato, la declinazione dei risarcimenti punitivi e il loro ancoraggio a profili sanzionatori o più strettamente compensatori, che risponderà verosimilmente anche alle differenze risalenti alla natura colposa o dolosa dell'illecito. Presidio basilare per la analisi di compatibilità si desume in ogni caso dall'art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione relativo ai "Principi della legalità e della proporzionalità dei reati e delle pene". La sua applicazione comporta, è stato notato anche in dottrina, che il controllo delle Corti di appello sia portato a verificare la proporzionalità tra risarcimento riparatorio-compensativo e risarcimento punitivo e tra quest'ultimo e la condotta censurata, per rendere riconoscibile la natura della sanzione/punizione. La proporzionalità del risarcimento, in ogni sua articolazione, è, a prescindere da questo disposto normativo, uno dei cardini della materia della responsabilità civile. 7.1) È d'uopo a questo punto dar conto della circostanza che nell'ordinamento nordamericano, dal quale provengono le condanne per le quali la giurisprudenza degli Stati Europei si affatica, vi è stata una rapida evoluzione, che ha ormai scacciato la prospettiva dei danni cosiddetti grossly excessive. Se nel 1996 già la Corte Suprema (caso BmW Supreme Court (Usa), 20-051996) aveva ripudiato, con due sole opinioni dissenzienti, questa configurazione dell'istituto, dodici anni dopo il percorso si era quasi ultimato. nel mentre gran parte degli Stati disciplinavano normativamente l'istituto, sottraendolo a verdetti imprevedibili delle giurie (pur costituite, in origine, per garantire al danneggiante il giudizio dei suoi pari), la Supreme Court (20-022007, caso Philip morris) sanciva che nel diritto statunitense lede la due process clause, di cui al XIV emendamento della Costituzione, la concessione di danni punitivi basati sul valore del diritto di credito vantato da tutti coloro che non hanno instaurato la lite. E la sentenza eXXoN (U.S. Supreme Court, 25 giugno 2008) è giunta a stabilire anche un rapporto massimo di 1 a 1 tra importo della somma riconosciuta a titolo compensativo e liquidazione punitiva. A guisa di esempio può essere utile uno sguardo all'attuale legge della Florida (Florida Statute), stato da cui provengono le sentenze di cui si tratta, ove sono stati introdotti limiti al fenomeno della responsabilità multipla. Limiti costituiti dal divieto del ne bis in idem, dall'introduzione di massimali alternativi a seconda del tipo di responsabilità che si configura, dalla necessità di seguire un complesso rito con una verifica iniziale della responsabilità ed una fase successiva relativa agli eventuali punitive damages (un miniprocesso, significativo per quanto riguarda il nostro sistema in quanto rafforzamento della garanzia sul procedimento ex art. 24 Cost.). non è dunque puramente teorica la possibilità che viene schiusa con la revisione giurisprudenziale che le Sezioni Unite stanno adottando. Il caso di specie, che neppure comporta pronuncia a risarcimenti punitivi, non offre il destro per ulteriori approfondimenti, che la casistica potrà incaricarsi di vagliare. Ciò che conta ri ConTEnzIoSo nAzIonALE badire è che la riconoscibilità del risarcimento punitivo è sempre da commisurare agli effetti che la pronuncia del giudice straniero può avere in Italia, con tutta l'ampiezza di verifica che si deve praticare nel recepimento, con le pronunce straniere, di un istituto sconosciuto, ma in via generale non incompatibile con il sistema. 8) È quindi possibile enunciare il seguente principio di diritto: Nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile. Non è quindi ontologicamente incompatibile con l'ordinamento italiano l'istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi. il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve però corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell'ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i limiti quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell'atto straniero e alla loro compatibilità con l'ordine pubblico. Il rigetto del ricorso comporta la sussistenza delle condizioni per il raddoppio del contributo unificato. Le spese di questo grado del giudizio possono essere interamente compensate, in considerazione della novità e complessità delle questioni esaminate. P.Q.M. La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità. Enuncia, ai sensi dell'art. 363 c.p.c., il principio di diritto di cui al punto 8 della motivazione. Dà atto della sussistenza delle condizioni di cui al D.P.r. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dal comma 17 della L. n. 228 del 2012, art. 1, per il versamento di ulteriore importo a titolo di contributo unificato. Così deciso in roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 7 febbraio 2017. rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 Translatio iudicii negli appelli ex lege 689/81 (e non solo) CassazioNe CiVile, sezioNi UNite, seNteNza 14 settemBre 2016 N. 18121; CassazioNe CiVile, sez. sesta - 2, orDiNaNza 8 marzo 2017 N. 5841 L’ordinanza della Corte di cassazione dell’8 marzo 2017, n. 5841, sulla scorta della sentenza delle Sezioni Unite del 14 settembre 2016, n. 18121 nelle more intervenuta, ha accolto il ricorso per cassazione dell’Avvocatura dello Stato -ricorso che integralmente si riporta -, affermando che la proposizione di un appello innanzi ad un giudice incompetente per territorio o per grado, non determina l’inammissibilità dell’appello ma è idonea a far proseguire il giudizio dinanzi al giudice competente in applicazione del principio della translatio iudicii. La sentenza delle Sezioni Unite ha fatto un’ampia ricostruzione del contrasto giurisprudenziale creatosi sul punto, risolvendolo privilegiando l’effetto conservativo dell’appello. CT 23526/15 Avv. Ferrante AVVoCATUrA GEnErALE DELLo STATo SUPrEMA CorTE DI CASSAzIonE rICorSo Per il MInISTEro DELL’InTErno (C.F. 97149560589), in persona del Ministro pro tempore e la Prefettura -Ufficio Territoriale del Governo di Teramo, in persona del Prefetto pro tempore rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato (C.F. 80224030587) presso i cui uffici sono per legge domiciliati in roma, via dei Portoghesi 12 (per il ricevimento degli atti, FAX 06/96514000 e PEC ags_m2@mailcert.avvocaturastato.it) contro C. D.r., rappresentata e difesa dall'Avv. Manuela Sestili, domiciliata ex lege presso la cancelleria del Tribunale di L’Aquila PEr LA CASSAzIonE Della sentenza del Tribunale di L’Aquila n. 120 del 5 febbraio 2015, non notificata. FATTo Con ricorso depositato il 25.09.2007, la sig.ra C. D.r., nella sua qualità di comproprietaria del veicolo tg CE734DC e di conducente al momento dell'infrazione rilevata, adiva il Giudice di Pace di nereto ai sensi dell'art. 204 del Cds proponendo opposizione avverso il verbale di contestazione n. ATX 0001006468 del 14.05.2007 redatto dalla Polizia Stradale di Ascoli Piceno, per violazione della disposizione di cui all'art. 142, comma 9, del Codice della Strada, essendo stato accertato che in data 12.03.2007 alle ore 10,49 sulla strada rA01101 raccordo Porto D'Ascoli - Ascoli nel territorio del Comune di Ancarano, in carreggiata est al KM 10,5, il veicolo tg CE734DC di proprietà di Sparti Simone procedeva ad una velocità di 145 Km/h, superando di 15 KM/H i limiti massimi di velocità fissati in Km/H 130. Con l'opposizione ex art. 204, la controparte deduceva vizi del verbale di accertamento per asserita omessa revisione dell'apparecchio autovelox di rilevazione, mancata contestazione immediata dell'infrazione, nonché "incompetenza territoriale" degli agenti accertatori (Polizia Stradale di Ascoli Piceno) e la conseguente illegittimità delle sanzioni comminate. ConTEnzIoSo nAzIonALE Il ricorso con il pedissequo decreto di fissazione di udienza in data 19.10.2007 veniva notificato alla Prefettura di Teramo. All'esito del procedimento, il Giudice di Pace di nereto con la sentenza n. 195/08 depositata in data 30.06.2008, rilevato che “dal verbale non risulta che l’apparecchio autovelox sia stato mai revisionato o controllato dalla società costruttrice”, accoglieva il ricorso in opposizione e annullava il verbale impugnato. Avverso tale decisione, siccome erronea e ingiusta, il Ministero dell'Interno e la Prefettura - Ufficio Territoriale del Governo di Teramo, proponevano appello innanzi al Tribunale di L’Aquila premettendo i motivi in diritto per i quali doveva ritenersi sussistente la competenza funzionale del Tribunale adito in base alle regole del foro erariale e deducendo l’erroneità della decisione di accoglimento del ricorso per insussistenza dei necessari presupposti giuridico -fattuali, la violazione dell'art. 192 Codice della Strada, la violazione dell’art. 345 regolamento di attuazione del codice della strada e la violazione e falsa applicazione della legge n. 273 del 1991. In particolare, per quanto qui interessa, le Amministrazioni appellanti sottolineavano che, ad evitare il sorgere di contestazioni, doveva affermarsi la competenza del Tribunale di l'Aquila come "foro erariale" a conoscere dell’impugnazione ex art. 25 c.p.c. e art. 6 r.d. 1611/1933 atteso che l'appello avverso le sentenze del Giudice di Pace quando sia parte del giudizio una Amministrazione segue le regole del foro erariale. Detta conclusione, che privilegia la considerazione della natura del giudice ad quem più che l'oggetto della causa al suo esame, al fine dell'operatività del foro erariale in caso di appello di sentenze del giudice di pace, trova conferma non solo nella lettera delle norme ma anche da una lettura complessiva del sistema. In particolare, deducevano le amministrazioni appellanti, a seguito della riforma abolitiva del Pretore, il sistema del foro erariale può indicarsi come segue: a) il foro erariale è la regola per le cause in Tribunale ex art. 25 c.p.c., salve le eccezioni espressamente previste; b) eccezione generale è data per le cause pervenute al Tribunale in virtù della soppressione del Pretore. In particolare, si rileva l'esplicita esclusione del foro erariale per le controversie di lavoro operata dall'art. 40 d.lgs. 80/98 (ubi voluti dixit). c) il Tribunale in appello su sentenza del Giudice di Pace è quello erariale perché detta competenza non è stata "ereditata" a motivo della soppressione della pretura (art. 341 c.p.c. novellato dall'art. 34 della legge 21 novembre 1991 n. 374). non può allora non confermarsi, proseguivano le amministrazioni appellanti, l'assunto secondo cui l'appello contro le sentenze del giudice di pace, anche nei giudizi di opposizione ex artt. 22 e 23 L. 689/1981, va proposto innanzi al Tribunale erariale. Al riguardo giova dar conto di alcune significative pronunce della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione: la prima con ordinanza del 19 marzo 2002 n. 66 a proposito delle controversie previdenziali ha valorizzato l'elemento della "conservazione" del foro ordinario, che peraltro emergeva dall'art. 444 c.p.c. nel testo sostituito dall'art. 86 del d.lgs. 51/1998; la seconda ha sottolineato, in via generale, che la vecchia competenza pretoriale, ora trasferita al Tribunale monocratico, continua a seguire le regole del foro ordinario (Cass. 21 marzo 2003 n. 4212 dove si precisa che seguono la competenza ordinaria soltanto le cause passate dal Pretore al Tribunale monocratico e non già tutte quelle comunque di competenza del Tribunale monocratico; così anche Cass. 1 aprile 2003 n. 5004 e 22 ottobre 2003 n. 15853; da ultimo Cass. 15 aprile 2004 n. 7216 dove si conferma, quale conclusione acquisita, che il foro erariale non trova applicazione soltanto "nei giudizi innanzi ai Tribunali in composizione monocratica già attribuiti alla competenza dei pretori"). rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 Alla luce delle esposte considerazioni l'appello avverso la sentenza del Giudice di Pace di nereto veniva proposto innanzi al Tribunale di l'Aquila quale foro erariale. Il Tribunale di l’Aquila, con la sentenza in epigrafe, rigettata l’eccezione di tardività del gravame ex adverso sollevata, dichiarava inammissibile l’appello, compensando le spese del grado. Il Tribunale, infatti, richiamando la sopravvenuta giurisprudenza delle Sezioni Unite (Cass. sez. Un. 18.11.2010, n. 23285 e 23286) in tema di competenza per territorio, secondo la quale le regole del foro erariale non sono applicabili nei giudizi di appello in materia di sanzioni amministrative, riteneva che l’appello andasse proposto innanzi al Tribunale di Teramo, circondario in cui ha sede il Giudice di Pace di nereto ex art. 341 c.p.c. Il Giudice di secondo grado riteneva inoltre che non si trattasse di questione di competenza, richiamando la giurisprudenza della Suprema Corte secondo la quale “nel nostro ordinamento processuale civile non ha fondamento l’assunto secondo cui la regola d’individuazione dell’ufficio giudiziario legittimato a essere investito dell’impugnazione sia riconducibile alla nozione di competenza adoperata dal codice di procedura civile nel Capo i del titolo i del libro i, in quanto, se anche la normativa in parola assolve a uno scopo simile, sul piano funzionale, a quello che ha la disciplina dell’individuazione del giudice competente in primo grado, l’una e l’altra afferendo a regole che stabiliscono davanti a quale giudice debba svolgersi un determinato processo civile, tuttavia non è possibile ravvisare tra le due fattispecie una stessa ratio sufficiente, quindi, a giustificare l’estensione analogica anche parziale di aspetti applicativi della seconda alla prima. Ne deriva che l’erronea individuazione del giudice legittimato a decidere sull’impugnazione non si pone come questione di competenza, ma riguarda la valutazione delle condizioni di proponibilità o ammissibilità del gravame, che deve, pertanto, dichiararsi precluso se prospettato a un giudice diverso da quello individuato dall’art. 341 c.p.c. (Cass. 7.12.2011, n. 26375)”. Il Giudice di seconde cure pertanto, anziché concedere termine per riassumere il giudizio innanzi al giudice competente, dichiarava l’appello inammissibile, ritenendo “superate le altre questioni proposte”. Venivano tuttavia compensate le spese di lite atteso che “sulla questione della inammissibilità dell’appello la giurisprudenza si è consolidata solo a partire dalle sentenze a sezioni unite citate in precedenza, mentre l’appello è stato introdotto prima”. Avverso tale sentenza, le Amministrazioni in epigrafe, propongono rICorSo PEr CASSAzIonE per i seguenti MoTIVI nullità della sentenza e del procedimento ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c. -Violazione e falsa applicazione degli articoli 44 e 50 c.p.c. in tema di translatio iudicii, dell’articolo 359 c.p.c. in tema di applicabilità delle norme di primo grado ai giudizi di appello, degli articoli 153, comma 2 c.p.c. e art. 294, commi 2 e 3 c.p.c. in tema di rimessione in termini in caso di errore scusabile in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. 1. La sentenza di secondo grado è affetta da error in procedendo in quanto il giudice d’appello, anziché rimettere le parti innanzi al giudice di secondo grado ritenuto territorialmente competente, ha dichiarato inammissibile l’impugnazione. La sentenza impugnata, infatti, è stata emessa in violazione del principio della translatio iudicii ricavabile dagli articoli 44 e 50 c.p.c. in base ai quali il giudice dichiaratosi incompetente concede alle parti un termine perentorio per riassumere la causa innanzi al giudice indicato quale giudice competente innanzi al quale il processo prosegue. ConTEnzIoSo nAzIonALE La disposizione di cui all’art. 359 c.p.c. prevede un generale rinvio, nei procedimenti d’appello, alle norme dettate per il procedimento di primo grado davanti al tribunale, se non incompatibili, tra le quali appunto si annoverano i richiamati articoli 44 e 50 c.p.c. in materia di translatio iudicii in caso di dichiarazione di incompetenza e di concessione del termine per la riassunzione della causa innanzi al giudice dichiarato competente. Il caso è analogo e specularmente opposto a quello affrontato dalla Corte di Cassazione nel precedente citato dal Tribunale di l’Aquila (Cass. 7.12.2011, n. 26375). nel caso appena citato, infatti, la Corte di Cassazione era stata investita per censurare la decisione del giudice di secondo grado che, anziché dichiarare l’inammissibilità dell’appello, aveva dichiarato l’incompetenza della Corte d’appello (essendo competente il Tribunale per l’impugnazione delle sentenze del Giudice di Pace) concedendo termine per la riassunzione della causa innanzi al Tribunale dichiarato competente. Innanzi tutto, va precisato che, come nel suddetto precedente, pur non avendo il Giudice di seconde cure deciso il merito della controversia, non va proposto regolamento necessario di competenza ai sensi dell’art. 42 c.p.c. atteso che, come osservato da codesta Suprema Corte in quella fattispecie, è stata “correttamente impugnata la pronuncia della Corte d’appello per violazione di norme processuali (artt. 341, 353 e 354 e 50 c.p.c.), per cui deve negarsi che il ricorso costituisca regolamento di competenza, trattandosi di ricorso ordinario che deduce la nullità della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, anche se il giudice di essa non si è pronunciato sul merito ma solo sulla rilevata sua incompetenza (Cass. 3 agosto 2005, n. 16299, 23 luglio 2004, n. 13921, 23 agosto 2003, n. 12418, 14 dicembre 2000, n. 15779, 12 novembre 1999, n. 764, tra le altre)” (Cass. n. 26375/2011 cit.). In detta sentenza, la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata senza rinvio “dovendosi rilevare la improseguibilità della causa ai sensi dell’art. 382 c.p.c. u.c.” atteso che la Corte d’appello erroneamente adita avrebbe dovuto dichiarare l’inammissibilità del gravame anziché concedere termine per la riassunzione della causa innanzi al Tribunale. Al riguardo, va evidenziato che il Procuratore Generale aveva concluso in subordine per la trasmissione degli atti al Primo Presidente per investire le sezioni unite della questione di massima di particolare importanza oggetto della pronuncia. Invero, tale precedente e gli altri citati nella medesima pronuncia: Cass. 10 febbraio 2005, n. 2709, Cass. Sez. Un. ord. 22 novembre 2010, n. 23594 e Cass, 2 febbraio 2010, n. 2361 (il riferimento a Cass. 6 settembre 2007, n. 1876 appare invece errato) riguardano tutti casi di erronea individuazione della competenza per grado del giudice d’appello e non già di erronea individuazione della competenza per territorio del giudice d’appello, come nel caso di specie. Appare allora condivisibile l’affermazione secondo la quale “è divenuto quindi principio consolidato quello enunciato più volte da questa Corte, per il quale la erronea individuazione del giudice legittimato a decidere sulla impugnazione non si pone come questione di competenza ovvero attinente ai poteri cognitivi del giudice adito ma riguarda la mera valutazione delle condizioni di proponibilità o ammissibilità del gravame che deve quindi dichiararsi precluso se prospettato ad un giudice diverso da quello individuato per legge dall’art. 341 c.p.c.” (Cass. n. 26375/2011 cit.). Invero, nel caso di specie non vi è stata alcuna violazione dell’art. 341 c.p.c. in base al quale l’appello contro le sentenze del giudice di pace e del tribunale si propone rispettivamente al tribunale e alla corte d’appello bensì un mero errore, peraltro cagionato da un vuoto normativo conseguente all’abrogazione del principio dell’inappellabilità delle sentenze emesse ai sensi della legge 689/81, nell’individuazione del giudice territorialmente competente, questione che non può non rientrare in una questione di competenza per territorio. rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 Anche nella sentenza di codesta Suprema Corte richiamata nella suddetta pronuncia (Cass. n. 2709/2005 cit.) era stato accolto il ricorso incidentale che aveva dedotto che “erroneamente il tribunale, dopo aver riconosciuto che l’appello avrebbe dovuto essere proposto alla Corte d’appello di torino, in quanto notificato successivamente al 2 giugno 1999, avrebbe ritenuto sanata (applicando implicitamente l’art. 38 c.p.c.) la relativa violazione per preclusione del potere di rilevazione ad istanza di parte e d’ufficio; il tribunale avrebbe ritenuto la sanatoria sulla base dell’orientamento giurisprudenziale che considera suscettibile di sanatoria la violazione della competenza delle impugnazioni per ragioni di territorio ed ammette che il processo possa essere riassunto avanti al giudice territorialmente competente. senonché, nella specie si era verificato non già un vizio di competenza territoriale del giudice del- l’impugnazione, ma un vizio ben più grave, consistente nell’investitura di un tipo di ufficio giudiziario diverso da quello competente sulla impugnazione. si era dunque verificata una violazione che comportava una vera e propria decadenza dall’impugnazione, ricorrendo una inosservanza della c.d. competenza per grado, per cui la giurisprudenza non considera possibile la translato iudicii avanti al giudice competente. al momento della proposizione del- l’impugnazione, infatti, il tribunale era ormai solo giudice di primo grado e rappresentava il giudice del medesimo grado di quello che aveva pronunciato la sentenza.” Sempre una questione di inosservanza della competenza per grado è stata oggetto della sentenza di codesta Suprema Corte n. 2361 del 2010, citata nella sentenza del Tribunale di l’Aquila, in cui l’appello era stato dichiarato dalla Corte di Cassazione d’ufficio inammissibile in quanto erroneamente proposto innanzi al Tribunale anziché alla Corte d’appello. nel caso di specie, invece, come si è detto, vi è stata un’inosservanza - peraltro incolpevole - della competenza territoriale e pertanto proprio in virtù della giurisprudenza di legittimità citata nella sentenza qui impugnata, avrebbe dovuto essere concesso il termine per riassumere il gravame innanzi al giudice di secondo grado territorialmente competente. Quanto all’ordinanza pronunciata dalla Corte di cassazione, Sez. Un., n. 23594 del 2010, citata nella sentenza qui impugnata, si osserva che trattavasi di pronuncia su istanza di regolamento di competenza che, proprio in un caso simile a quello oggetto del presente giudizio, ha dichiarato la competenza del Tribunale di Monza anziché del Tribunale di Milano individuato dal giudice di secondo grado sulla base della regola del foro erariale, dichiarando la competenza del primo. In quel caso quindi non vi è stata alcuna pronuncia di inammissibilità dell’appello proposto innanzi al giudice territorialmente incompetente, bensì la dichiarazione del giudice di secondo grado territorialmente competente, con conseguente termine per la riassunzione del gravame innanzi allo stesso. 2. In subordine, la sentenza è inoltre censurabile nella parte in cui, in violazione degli articoli 153, comma 2 c.p.c. e 294, commi 2 e 3 c.p.c. in tema di rimessione in termini in caso di errore scusabile, non ha ravvisato la ricorrenza di una causa non imputabile alle amministrazioni appellanti - nonostante la diffusa premessa contenuta nell’appello - nell’individuazione del giudice di secondo grado competente. Va ricordato infatti che il D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 si è limitato ad abrogare l’ultimo comma dell’articolo 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689 che disponeva, in materia di opposizione a ordinanza ingiunzione “la sentenza è inappellabile ma è ricorribile per cassazione”. La novella ha quindi lasciato un vuoto normativo, in ordine alla forma dell’appello e al giudice di secondo grado competente nella materia de quo, che ha dato adito a pronunce giurisprudenziali contrastanti, sino al chiarimento offerto dalle Sezioni Unite con le citate sentenze n. 23285 e 23286 del 18 novembre 2010. ConTEnzIoSo nAzIonALE orbene, il Tribunale di l’Aquila, pur dando atto, ai fini del regolamento delle spese, che l’appello era stato proposto prima dell’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite, non ha tenuto in alcun conto della situazione di incertezza cagionata dalla tecnica legislativa della mera abrogazione della norma che prevedeva l’inappellabilità delle sentenze in questione, senza nulla disporre in ordine alla forma dell’appello e al giudice competente nonché del conseguente contrasto giurisprudenziale che ne è derivato, che avrebbe senz’altro imposto l’applicabilità dell’istituto della rimessione in termini. Alla luce dei suesposti motivi, la sentenza impugnata dovrà essere cassata nella parte in cui ha dichiarato l’inammissibilità dell’appello anziché concedere un termine per la riassunzione del giudizio di secondo grado innanzi al Tribunale di Teramo dichiarato territorialmente competente, in ossequio al principio della translatio iudicii. In subordine, andrà comunque riconosciuta la rimessione in termini, essendo stato adito un giudice incompetente per causa non imputabile alle amministrazioni appellanti, con la concessione di un termine per la riassunzione del giudizio di secondo grado innanzi al Tribunale di Teramo. Pertanto, le amministrazioni ricorrenti, come sopra rappresentante e difese CHIEDono che la Suprema Corte, previa eventuale rimessione della questione alle Sezioni Unite, trattandosi di questione di massima di particolare importanza, voglia accogliere il ricorso e, per l’effetto, voglia concedere alle parti il termine di legge per la riassunzione del giudizio di secondo grado innanzi al Tribunale di Teramo dichiarato territorialmente competente Ai fini della prenotazione a debito, si dichiara che per la presente causa è dovuto il contributo unificato forfettario di € 27 ai sensi degli art. 10, comma 6 bis e 30 del D.P.r. 30.5.2002, n. 115. Si producono: 1) istanza ex art. 369 c.p.c. 2) copia autentica della sentenza impugnata roma, 7 marzo 2016 Wally Ferrante Avvocato dello Stato (...) Cassazione civile, Sez. Sesta - 2, ordinanza 8 marzo 2017 n. 5841 -Pres. S. Petitti, rel. A. Giusti - Ministero interno e Prefettura di Teramo (avv. gen. Stato) c. C.D.r. (...) ritenuto che il Ministero dell'interno e la Prefettura di Teramo hanno proposto appello al Tribunale di L'Aquila avverso la sentenza del Giudice di pace di nereto in data 30 giugno 2008, con la quale era stata accolta l'opposizione a sanzione amministrativa proposta da D.r.C.; che il Tribunale di L'Aquila, con sentenza in data 5 febbraio 2015, ha dichiarato inammissibile l'appello; che -premesso che in tema di competenza per territorio le regole del foro erariale non sono applicabili nei giudizi di appello in materia di sanzioni amministrative -il Tribunale ha ritenuto che l'appello andava proposto dinanzi al Tribunale di Teramo, circondano in cui ha sede il Giudice di pace di nereto, ex art. 341 cod. proc. civ.; rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 che per la cassazione della sentenza del Tribunale il Ministero dell'interno e la Prefettura di Teramo hanno proposto ricorso, con atto notificato il 7 marzo 2016, sulla base di un motivo; che l'intimata non ha svolto attività difensiva in questa sede; che la proposta del relatore, ai sensi dell'art. 380-bis cod. proc. civ., è stata notificata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell'adunanza in camera di consiglio. Considerato che con l'unico mezzo le Amministrazioni ricorrenti lamentano violazione e falsa applicazione degli artt. 44 e 50 cod. proc. civ. in tema di transiatio iudicii, dell'art. 359 cod. proc. civ. in tema di applicabilità delle norme di primo grado ai giudizi di appello, degli artt. 153, secondo comma, e 294, secondo e terzo comma, cod. proc. civ., in tema di rimessione in termini per errore scusabile; che il motivo è manifestamente fondato; che l'appello proposto davanti ad un giudice diverso, per territorio o grado, da quello indicato dall'art. 341 cod. proc. civ. non determina l'inammissibilità dell'impugnazione, ma è idoneo ad instaurare un valido rapporto processuale, suscettibile di proseguire dinanzi al giudice competente attraverso il meccanismo della transiatio iudicii (Cass., Sez. U., 14 settembre 2016, n. 18121); che il ricorso va, pertanto, accolto; che, cassata la sentenza impugnata, la causa deve essere rinviata dinanzi al Tribunale di Teramo; che il giudice del rinvio provvederà sulle spese del giudizio di cassazione. P.Q.M. accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, al Tribunale di Teramo. Così deciso in roma, nella camera di consiglio della VI-2 Sezione Civile, il 17 febbraio 2017. Cassazione civile, Sez. Unite, sentenza 14 settembre 2016 n. 18121 -Primo Pres. f.f. r. rordorf, Pres. sez. G. Amoroso, rel. L. Matera -Il Birillo s.a.s. (avv.ti V. Dini e L. Terranova) c. Condominio (...) (avv. A. Cirla). (omissis) 6) Con riguardo al sesto motivo di ricorso - con il quale si lamenta che la Corte di Appello di Brescia abbia dichiarato l'inammissibilità dell'appello anzichè declinare la propria competenza e concedere all'appellante la possibilità di riassumere la causa dinanzi alla Corte di Appello di Milano -, assume rilievo il secondo contrasto di giurisprudenza segnalato dalla Seconda Sezione Civile. L'ordinanza interlocutoria ha dato atto che, secondo un orientamento, l'appello proposto davanti ad un giudice territorialmente incompetente non configura un'ipotesi di inammissibilità dell'impugnazione ai sensi dell'art. 358 cod. proc. civ., ma vale ad instaurare un valido rapporto processuale suscettibile di proseguire dinanzi al giudice competente, essendo possibile, attraverso il meccanismo della riassunzione, trasferire e proseguire il rapporto processuale originario davanti all'organo dichiarato competente (Cass. Sez. Lav., 2-7-2004 n. 12155; Cass. Sez. 2, 30-8-2004 n. 17395; Cass. Sez. 6-Lav., 9-6-2015 n. 11969). Ha richiamato, tuttavia, un diverso indirizzo (Cass. Sez. 3, 10-3-2005 n. 2709), che, premesso che nel nostro ordinamento processuale civile non ha fondamento l'idea che la regola di individuazione dell'ufficio giudiziario legittimato ad essere investito dell'impugnazione sia ConTEnzIoSo nAzIonALE riconducibile alla nozione di competenza adoperata dal codice di procedura civile nel Capo 1 del Titolo 1 del Libro 1, ha ritenuto che la norma sulla translatio di cui all'art. 50 cod. proc. civ. non può trovare applicazione nemmeno nel caso di impugnazione proposta dinanzi ad un giudice territorialmente non corrispondente a quello indicato dalla legge. 6A) Il primo orientamento si pone nel solco di un indirizzo formatosi sotto il vigore del codice di rito del 1865, nel quale, pur mancando una norma generale -come l'attuale art. 50 cod. proc. civ. -da cui potesse desumersi il principio della traslazione del processo nei casi di incompetenza del giudice adito, e pur essendo pacifico che il difetto di competenza del giudice di primo grado ponesse fine al rapporto processuale, imponendo una pronuncia di "absolutio da istantia", con riferimento al giudizio di appello la giurisprudenza assolutamente prevalente riteneva che il gravame proposto dinanzi al giudice incompetente fosse idoneo a costituire il rapporto processuale, il quale, pertanto, continuava dinanzi al giudice designato dalla sentenza di accoglimento dell'eccezione di incompetenza. In tal modo, veniva garantito l'effetto conservativo dell'appello proposto dinanzi a giudice incompetente, si da impedire la decadenza dal termine per appellare. Tale orientamento si è ulteriormente consolidato a seguito dell'entrata in vigore del nuovo codice di procedura civile del 1942, il cui art. 50 ha espressamente previsto la trasmigrazione della causa proposta dinanzi a giudice incompetente, ove tempestivamente riassunta dinanzi al giudice ritenuto competente nella sentenza (ora ordinanza) dichiarativa dell'incompetenza. Pur avendo la tesi esposta trovato, con il nuovo codice di rito, un concreto fondamento normativo, nel tempo la giurisprudenza ha cominciato progressivamente a porre dei limiti alla piena operatività del principio del c.d. effetto conservativo dell'appello. Tale giurisprudenza, muovendo dal presupposto che l'appello, per essere considerato tale, deve necessariamente essere proposto dinanzi ad un giudice di grado superiore, ha inizialmente ritenuto inammissibile il gravame nelle sole ipotesi di sua proposizione dinanzi allo stesso giudice o ad un giudice di pari grado rispetto a quello che ha emesso la decisione impugnata (v. Cass. Sez. Lav., 912-1981 n. 6515; Cass. Sez. Lav., 24-9-1998 n. 9554; Cass. Sez. 1, 12-6-1999 n. 5814; Cass. Sez. Lav., 12-11-2002 n. 15866; Cass. Sez. Lav., 2-7-2004 n. 12155; Cass. Sez. 1, 6-9-2007 n. 18716). Di qui il graduale affermarsi di una giurisprudenza orientata ad escludere l'operatività dell'effetto conservativo del gravame ogni qualvolta l'impugnazione sia stata proposta dinanzi ad un giudice di grado diverso rispetto a quello dinanzi al quale avrebbe dovuto proporsi (v. Cass. Sez. 3, 29-1-2003 n. 1269; Cass. Sez. 1, 6-92007 n. 18716; Cass. Sez. 3, 2-2-2010 n. 23661, che hanno affermato l'inammissibilità dell'appello avverso una decisione del Pretore, proposto dinanzi al Tribunale anzichè alla Corte di Appello, divenuta competente in forza della disciplina transitoria prevista dal D.Lgs. n. 51 del 1998, art. 134), fino a giungere esplicitamente ad ammettere la transiatio iudicii nel solo caso di incompetenza meramente territoriale del giudice adito in appello (v. Cass. Sez. II, 30-8-2004 n. 17395; Cass. Sez. VI-Lav., 9-6-2015 n. 11969). Il vero punto di rottura con il tradizionale indirizzo, peraltro, si è registrato con la menzionata sentenza n. 2709 del 2005: prima di essa, infatti, non si era mai dubitato, in giurisprudenza, della applicabilità dell'art. 50 cod. proc. civ. (e dei conseguenti effetti conservativi) nella ipotesi di appello proposto dinanzi a un giudice incompetente solo per territorio. Sulla scia del nuovo orientamento instaurato dalla pronuncia da ultimo citata si sono poste due successive decisioni della Corte di Cassazione (Cass. Sez. 1, 7-12-2011 n. 26375 e Cass. Sez. 6-3, 2-11-2015 n. 22321); mentre con altra recente pronuncia (Cass. Sez. 6-Lav., 9-6-2015 n. 11969) è stata riaffermata l'applicabilità della translatio iudicii in caso di appello proposto dinanzi a giudice territorialmente incompetente. rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 6B) La sentenza n. 2709 del 2005, nell'affermare che l'art. 50 cod. proc. civ. non è mai applicabile in fase di impugnazione, quale che sia il tipo di errore commesso dall'appellante nell'individuare il giudice di appello competente e, quindi, anche in caso di mera incompetenza territoriale, è partita dal rilievo secondo cui nel nostro ordinamento processuale civile non ha fondamento l'idea che la regola di individuazione dell'ufficio giudiziario legittimato ad essere investito dell'impugnazione sia riconducibile alla nozione di competenza adoperata dal codice di procedura civile nel Capo 1 del Titolo 1 del Libro 1. Ciò in quanto, se anche la disciplina della individuazione del giudice dell'impugnazione assolve ad uno scopo di massima simile sul piano funzionale a quello che ha la disciplina della individuazione del giudice competente in primo grado, l'una e l'altra afferendo a regole che stabiliscono avanti a quale giudice debba svolgersi un determinato tipo di processo civile, in ragione del grado, tuttavia appare impossibile ravvisare fra i due fenomeni normativi una eadem ratio, sufficiente a giustificare l'estensione anche parziale di aspetti applicativi della seconda alla prima sul piano dell'analogia. Di qui la conclusione secondo cui l'appello proposto dinanzi ad un giudice non legittimato ad essere investito del gravame è da considerare inammissibile, sia per il caso in cui l'impugnazione venga proposta dinanzi ad un giudice territorialmente non corrispondente a quello indicato dalla legge, sia per il caso di impugnazione proposta a giudice che nella ripartizione verticale dell'organizzazione del processo civile non sia "superiore" a quello che abbia pronunciato la sentenza. Come si è detto, tale orientamento è stato poi seguito dalle sentenze n. 26375 del 2011 e n. 22321 del 2015, con le quali è stata ritenuta l'inammissibilità dell'appello proposto dinanzi a giudice diverso rispetto dinanzi al quale avrebbe dovuto essere proposto, ribadendosi che l'erronea individuazione del giudice legittimato a decidere sull'impugnazione non si pone come questione di competenza ovvero attinente ai poteri cognitivi del giudice adito, ma riguarda la mera valutazione delle condizioni di proponibilità o ammissibilità del gravame, che deve, pertanto, dichiararsi precluso se prospettato a un giudice diverso da quello individuato dall'art. 341 cod. proc. civ.. 6C) Le Sezioni Unite ritengono che il contrasto debba essere composto privilegiando l'interpretazione favorevole all'applicabilità della regola della translatio iudicii anche in grado di appello. E invero, su un piano concettuale, non sembra possibile negare che la norma ( art. 341 cod. proc. civ. ) che detta i criteri per l'individuazione del giudice legittimato a ricevere l'appello, preveda, in realtà, una ipotesi di "competenza", intesa come frazione dell'intero esercizio della funzione giurisdizionale. Si tratta, peraltro, di una competenza sui generis, in ragione della contemporanea previsione di criteri d'individuazione sia in senso verticale (giudice superiore) che orizzontale (giudice che ha sede nella circoscrizione di quello che ha pronunciato la sentenza); e alla quale, proprio in considerazione dei suoi tratti peculiari, appare confacente la qualifica di "competenza funzionale", attribuitale dalla dottrina prevalente e recepita da queste Sezioni Unite nella sentenza 22-11-2010 n. 23594, nella quale è stato affermato che "l'individuazione del giudice di appello, ex art. 341 c.p.c. , attiene a una competenza territoriale del tutto sui generis, che prescinde dai comuni criteri di collegamento tra una causa e un luogo: dipende indefettibilmente dalla sede del giudice a quo, sicchè è dotata di un carattere prettamente funzionale che impedisce il definitivo suo radicamento presso un giudice diverso, per il fatto che la questione non sia stata posta in limine litis". non sembra sostenibile, pertanto, l'assunto, posto a base delle decisioni che hanno escluso l'applicabilità al giudizio di appello dell'art. 50 cod. proc. civ. , secondo cui l'erronea ConTEnzIoSo nAzIonALE individuazione del giudice legittimato a decidere sull'impugnazione non darebbe luogo a una questione di competenza, ma comporterebbe l'inammissibilità del gravame. E invero, premesso il richiamo a quanto rilevato al punto 3C) riguardo alle ipotesi di inammissibilità dell'impugnazione conosciute nel nostro sistema processuale, si osserva che il vizio derivante dall'individuazione di un giudice di appello diverso rispetto a quello determinato ai sensi dell'art. 341 c.p.c. non rientra nè tra i casi per i quali è espressamente prevista dalla legge la sanzione della inammissibilità del gravame, nè tra i casi in cui non sia configurabile il potere di impugnare: il vizio in esame, infatti, non incide sull'esistenza del potere di impugnazione, ma solo sul suo legittimo esercizio, essendo stato tale potere esercitato dinanzi ad un giudice diverso da quello al quale andava proposto il gravame. 6D) Una volta ricondotta nella nozione di "competenza" la regola che individua il giudice legittimato a conoscere dell'appello, sembra difficile escludere l'applicabilità anche al relativo giudizio del principio della translatio iudicii previsto dall'art. 50 cod. proc. civ. , ove solo si consideri che tale norma è collocata tra le disposizioni generali contenute nel titolo 1 del libro 1, e non opera alcuna distinzione tra competenza di primo e secondo grado. orbene, la giurisprudenza che propende per la tesi della non estensibilità della disposizione in esame al giudizio di appello, si basa su un giudizio di incompatibilità che, a ben vedere, non è richiesto dall'art. 359 cod. proc. civ. Tale norma, infatti, nello stabilire che per il giudizio di appello davanti al tribunale o alla corte di appello si osservano le norme che regolano il procedimento di primo grado davanti al tribunale, purchè non siano "incompatibili" con le disposizioni proprie del giudizio di impugnazione, si riferisce alle norme contemplate nel titolo 1 del libro 2 del codice di rito (artt. 163 ss.), e non anche a quelle contenute nel titolo 1 del libro 1, aventi di per sè una portata generale ed applicabili, quindi, in via di principio anche al giudizio di appello, salvo specifiche limitazioni. nè a diverse conclusioni potrebbe pervenirsi ove si intendesse aderire all'indirizzo, ricorrente in dottrina, che tende ad accostare l'ipotesi della competenza funzionale al fenomeno della giurisdizione, piuttosto che a quello della competenza vera e propria. E infatti, posto che il legislatore (v. L. n. 69 del 2009, art. 59 e art. 11 del nuovo codice del processo amministrativo) ha esteso l'applicabilità della translatio iudicii al caso di errore nell'individuazione del giudice munito di giurisdizione, e che, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 223/2013, analogo effetto conservativo viene riconosciuto anche nei rapporti tra giudici e arbitri, non si vede per quali ragioni non potrebbe ritenersi sanabile con lo stesso meccanismo l'atto di appello proposto in violazione delle norme sulla competenza funzionale. Diversamente opinando, si finirebbe con l'attribuire all'errore nella individuazione del giudice territorialmente competente per l'appello conseguenze ben più rilevanti rispetto all'ipotesi di errore nella individuazione del giudice munito di giurisdizione; il che, come evidenziato in dottrina, alla luce dell'evoluzione subita dal nostro ordinamento processuale, si tradurrebbe in una incoerenza del sistema difficilmente giustificabile. 6E) Sotto altro profilo, si osserva che l'orientamento favorevole all'applicabilità del meccanismo della translatio iudicii in caso di appello proposto dinanzi a giudice territorialmente incompetente appare rispondente al principio della effettività della tutela giurisdizionale, immanente nel nostro ordinamento. E infatti, come è stato più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità (v. Cass. Sez. Un., 5-1-2016 n. 29; Cass. Sez. 1, 15-11-2013 n. 25735; Cass. Sez. Un., 22-2-2007 n.. 4109), il diritto alla tutela giurisdizionale, di cui all'art. 24 Cost. , comma 1, include anche il diritto ad ottenere una decisione di merito ("il giusto processo civile viene celebrato non già per sfociare in pronunce procedurali che non coinvolgono i rap rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 porti sostanziali delle parti che vi partecipano -siano esse attori o convenuti -ma per rendere pronuncia di merito rescrivendo chi ha ragione e chi ha torto: il processo civile deve avere per oggetto la verifica della sussistenza dell'azione in senso sostanziale di chiovendiana memoria, nè deve, nei limiti del possibile, esaurirsi nella discettazione sui presupposti processuali, e per evitare che ciò si verifichi si deve adoperare il giudice": Corte Costituzionale, sentenza n. 220 del 1986; v. anche sentenze n. 123 del 1987 e n. 579 del 1990); e a questo fine deve essere orientata l'interpretazione delle norme processuali in generale e di quelle volte all'individuazione del giudice munito di giurisdizione e di competenza ("al principio per cui le disposizioni processuali non sono fini a se stesse, ma funzionali alla miglior qualità della decisione di merito, si ispira pressochè costantemente - nel regolare questioni di rito il vigente codice di procedura civile, ed in particolare vi si ispira la disciplina che all'individuazione del giudice competente - volta ad assicurare, da un lato, il rispetto della garanzia costituzionale del giudice naturale e, dall'altro lato, l'idoneità (nella valutazione del legislatore) a rendere la migliore decisione di merito - non sacrifica il diritto delle parti ad ottenere una risposta, affermativa o negativa, in ordine al bene della vita oggetto della loro contesa": Corte Costituzionale, sentenza n. 77 del 2007). 6F) La nozione di "competenza funzionale" propria del giudice di appello, nella quale si intrecciano criteri di competenza "orizzontale" e "verticale", induce a ritenere applicabile il principio della translatio iudicii non solo nella ipotesi di erronea individuazione del giudice territorialmente competente, ma anche in quella di erronea individuazione del giudice competente per grado. In entrambi i casi, infatti, si è in presenza di un errore che cade esclusivamente sulla individuazione del giudice dinanzi al quale deve essere proposto l'appello avverso la decisione di primo grado, e che, quindi, non incide sulla esistenza del potere di impugnazione, ma solo sul modo di esercizio di tale potere. Pertanto, una volta che si riconosca effetto conservativo all'atto di appello proposto dinanzi a un giudice territorialmente incompetente, non si vede per quale ragione debba escludersi il medesimo effetto nel caso di gravame (sempre che la scelta del mezzo di impugnazione sia corretta) proposto ad un giudice non corrispondente per grado a quello indicato dall'art. 341 cod. proc. civ.. Se è vero, infatti, che nell'uno o nell'altro caso, si è in presenza di un vizio che attiene alla "competenza funzionale" del giudice di appello, non possono che derivarne, per ragioni di coerenza del sistema, identiche conseguenze, rinvenibili, sul piano del diritto positivo, nel meccanismo delineato dall'art. 50 cod. proc. civ. 6G) In definitiva, deve affermarsi il seguente principio di diritto: L'appello proposto dinanzi ad un giudice diverso da quello indicato dall'art. 341 cod. proc. civ. non determina l'inammissibilità dell'impugnazione, ma è idoneo ad instaurare un valido rapporto processuale, suscettibile di proseguire dinanzi al giudice competente attraverso il meccanismo della transiatio iudicii, sia nell'ipotesi di appello proposto dinanzi ad un giudice territorialmente non corrispondente a quello indicato dalla legge, sia nell'ipotesi di appello proposto dinanzi a un giudice di grado diverso rispetto a quello dinanzi al quale avrebbe dovuto essere proposto il gravame. 7) nella specie, la Corte di Appello di Brescia non si è attenuta all'enunciato principio, in quanto, nel ravvisare la propria incompetenza territoriale in ordine all'impugnazione proposta avverso la sentenza pronunciata in primo grado dal Tribunale di Milano, ha dichiarato l'inammissibilità dell'appello, senza concedere all'appellante un termine per la riassunzione del giudizio dinanzi alla Corte di Appello di Milano, territorialmente competente. ConTEnzIoSo nAzIonALE Di conseguenza, in accoglimento del sesto motivo di ricorso, s'impone la cassazione nella parte de qua della sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di Appello di Milano, la quale pronuncerà sul merito dell'appello e provvederà anche alla regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte rigetta i primi cinque motivi di ricorso, accoglie il sesto, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese alla Corte di Appello di Milano. Così deciso in roma, nella Camera di Consiglio, il 7 giugno 2016. rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 Illecita detenzione di segni distintivi in uso alle forze di polizia; rilevanza penale del falso ottenuto mediante fotocopia di un inesistente originale Nota a CassazioNe PeNale, sez. V, seNteNza 21 marzo 2017 N. 13810 Claudio Tricò* By this ruling, the Fifth Section of the Court of Cassation has come back to assess whether a forgery realized through the copy of a non-existent document should be regarded as a crime. Particularly, the Court has stated that this copy may constitute an offence if it is presented as the original document or if it is presented with the attestations of authenticity required by law. The ruling has also allowed to summarize the case law about the illegal detention, use or manufacture of distinctive signs used by the police. The repression of this offence, pursuant to Article no. 497 ter of the italian Criminal Code, represents a key instrument to combat terrorism and organized crime, warding the trusting relationship between the police officer and the citizen. sommario: 1. Premessa - 2. la fattispecie concreta al vaglio della Corte - 3. Declinazione normativa e giurisprudenziale del delitto di illecita detenzione dei segni distintivi in uso alle forze di polizia - 4. sulla rilevanza penale del falso realizzato per mezzo della fotocopia di un documento originale inesistente. 1. Premessa. nonostante la sua brevità e la sua pacifica linearità, la sentenza oggetto del presente commento offre lo spunto per approfondire talune tematiche di particolare interesse giuridico. In primo luogo, essa consente di concentrare l’attenzione sulle declinazioni giurisprudenziali del delitto di “possesso di segni distintivi contraffatti” di cui all’art. 497-ter c.p., la cui rilevanza emerge oggi nel contesto di una società impegnata ad affrontare i cancri del fenomeno mafioso e del fenomeno terroristico a livello intestino (1). (*) Specializzato nelle Professioni Legali, già tirocinante presso la Corte di Cassazione. Vincitore del concorso per l’accesso al ruolo dei Commissari della Polizia di Stato. (1) Troppo spesso la cronaca trasmette notizie di vili attentati perpetrati dalla criminalità organizzata grazie all’abuso dei segni distintivi delle forze dell’ordine. Particolarmente rappresentative le parole di roberto Saviano, intento a descrivere le tecniche omicide tipiche della c.d. “Guerra di Secondigliano”: “li ammazzano con uno stratagemma antiquato ma sempre efficace, i killer fingono di essere poliziotti. […] Stavano camminando quando un’auto li fermò. Aveva una sirena sul tetto. Scesero due uomini con i tesserini della polizia. I ragazzi non tentarono di fuggire né di fare resistenza. Sapevano come dovevano comportarsi, si lasciarono ammanettare e caricare in auto. I tre forse non capirono subito, ma quando videro le pistole fu tutto chiaro. Era un’imboscata […]. Due, inginocchiati e sparati alla testa, furono finiti subito. Il terzo, dalle tracce ritrovate sul luogo, aveva tentato di scappare […]. Lo raggiunsero, gli puntarono un’automatica in bocca. Il cadavere aveva i denti rotti, il ragazzo aveva tentato di mordere la canna della pistola, per istinto, come per spezzarla”. r. SAVIAno, Gomorra, Mondadori, 2006, p. 106. ConTEnzIoSo nAzIonALE In secondo luogo, essa, pur dando applicazione ai profili meno dibattuti della questione, richiama alla memoria l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale non ancora del tutto assopito, relativo alla rilevanza penale del falso realizzato mediante la riproduzione fotostatica di un documento giuridicamente inesistente, e cioè mediante una copia volta a rappresentare falsamente l’esistenza di un documento originale. 2. la fattispecie concreta al vaglio della Corte. Alla base della pronuncia, una vicenda di fatto che si rivela nella sua semplicità. Con sentenza del 13 ottobre 2015, la Corte di Appello di Milano condannava per il delitto di cui all’art. 497-ter c.p. un soggetto accusato di aver illecitamente detenuto la fotocopia a colori di una tessera di riconoscimento rilasciata da un Comando regionale dei Carabinieri, e pertanto di un documento atto a consentire l’identificazione dello stesso quale appartenente a una forza di polizia (2). Tale fotocopia, stampata a colori, appariva realizzata con modalità tali da far ritenere la tessera autentica. nei confronti della suddetta pronuncia di merito l’imputato proponeva ricorso per Cassazione lamentando, oltre che la mancata applicazione dell’art. 131-bis c.p. e dell’istituto della sospensione condizionale della pena (profili ai nostri scopi non interessanti), una violazione di legge per mancanza degli elementi costitutivi del reato ascritto. In particolare, da quanto sembra potersi estrapolare dal tenore della sentenza in esame, egli deduceva il mancato utilizzo della fotocopia contestata, il fatto che quest’ultima non corrispondesse alla tessera attualmente in uso al corpo di polizia nonché, soprattutto, l’inidoneità di una mera fotocopia a configurare un falso penalmente rilevante. Il Giudice di legittimità, nel rigettare il ricorso, non solo ha ricostruito la struttura e la ratio del reato di falso contestato, superando così le prime deduzioni sopra richiamate, ma ha anche confermato, alla luce della ratio di tutela individuata, un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, in base al quale può sussistere il reato di falso, nelle sue diverse possibili prospettazioni, quando la riproduzione fotostatica di un documento non sia presentata in quanto tale, ma con l’apparenza di un documento originale. Quest’ultima so (2) Per un’enumerazione delle Forze di Polizia operanti nel nostro ordinamento, v. art. 16 della L. 1 aprile 1981, n. 121, a detta del quale “ai fini della tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica, oltre alla Polizia di Stato sono forze di polizia, fermi restando i rispettivi ordinamenti e dipendenze: a) l'Arma dei carabinieri, quale forza armata in servizio permanente di pubblica sicurezza; b) il Corpo della guardia di finanza, per il concorso al mantenimento dell'ordine e della sicurezza pubblica. Fatte salve le rispettive attribuzioni e le normative dei vigenti ordinamenti, sono altresì forze di polizia e possono essere chiamati a concorrere nell'espletamento di servizi di ordine e sicurezza pubblica il Corpo degli agenti di custodia e il Corpo forestale dello Stato”. Tale ultimo corpo risulta oggi assorbito nell’Arma dei Carabinieri, come disposto dalla Legge Madia in tema di razionalizzazione delle funzioni di polizia, e, in particolare, dall’art. n. 7 del D.Lgs. n. 177 del 2016. rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 luzione, in particolare, è indicata quale riconosciuta deroga a un principio più generale, ossia quello relativo all’inidoneità di una fotocopia, priva di qualsiasi attestazione che ne confermi l’autenticità, a trarre in inganno la pubblica fede, pur laddove presentata al fine di dimostrare falsamente l’esistenza di un documento originale. Tale ricostruzione, come sarà ulteriormente specificato, appare peraltro congruente a un orientamento numericamente prevalente, ma non per questo incontestato, della giurisprudenza di legittimità. 3. Declinazione normativa e giurisprudenziale del delitto di illecita detenzione dei segni distintivi in uso alle forze di polizia. Per quanto attiene all’analisi della disposizione di cui all’art. 497-ter c.p., la Corte evidenzia fin da subito l’origine dell’articolo in discussione, introdotto dall’art. 10-bis del D.L. 27 luglio 2005, n. 144, convertito nella L. 31 luglio 2005, n. 155, a sua volta aggiunto dall’art. 1-ter del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, come convertito, con modifiche, dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49. La disposizione in questione trova dunque la propria genesi nell’ambito della disciplina antiterrorismo disegnata dal legislatore del 2005, il quale ha voluto introdurre uno strumento normativo atto a punire la produzione, la detenzione e l’uso illeciti dei segni distintivi dei corpi di polizia, rilevando la potenziale strumentalità di tali condotte rispetto alla consumazione di ulteriori delitti, e in particolar modo di quelli caratterizzati da finalità di terrorismo. A tali norme fa eco, sul piano amministrativo, la legislazione di pubblica sicurezza, la quale prescrive il possesso di un’apposita licenza biennale per la realizzazione e la detenzione delle tessere di riconoscimento e degli altri contrassegni di identificazione degli ufficiali e degli agenti di pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria, definendo altresì delittuosa la natura delle suddette condotte qualora realizzate in assenza della licenza stessa (3). Una normativa articolata, dunque, ma che trova una comune razionalità nell’obiettivo di evitare che possa abusarsi, per fini illeciti, di simboli nati, piuttosto, per raccogliere e catalizzare la fiducia dei cittadini, nella consapevolezza che la fiducia e la collaborazione di quest’ultimi sono presupposto e strumento fondamentale al fine del raggiungimento dei compiti istituzionali delle forze di polizia stesse (4). (3) V. art. 28 del r.D. 18 giugno 1931, n. 773 (meglio noto come “Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza” o TULPS), come modificato dal D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito nella L. 21 febbraio 2006, n. 49, e dal D.Lgs. 26 ottobre 2010, n. 204. (4) Questa la ratio che emerge dall’art. 24 della L. 1 aprile 1981, n. 121, inerente i compiti istituzionali della Polizia di Stato, che in tal senso prende nettamente le distanze dalla prospettiva autoritaria tipica del precedente art. 1 del TULPS. Afferma difatti la norma che “la Polizia di Stato esercita le proprie funzioni al servizio delle istituzioni democratiche e dei cittadini, sollecitandone la collaborazione”. Collaborazione elevata a strumento indispensabile affinché la Polizia possa a sua volta tutelare l'esercizio delle libertà e dei diritti dei cittadini; vigilare sull'osservanza delle leggi, dei regolamenti e dei provvedimenti della pubblica autorità; tutelare l'ordine e la sicurezza pubblica; provvedere alla prevenzione e alla repressione dei reati; prestare soccorso in caso di calamità ed infortuni. ConTEnzIoSo nAzIonALE A tali fini l’art. 497-ter c.p., collocato nel contesto dei delitti di falsità personale, estende l’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 497-bis c.p., relativo al possesso e alla fabbricazione di documenti di identificazione falsi, a quanti pongano in essere le condotte individuate dai due numeri che ne compongono il primo e unico comma, e cioè a quanti detengano, utilizzino o producano illecitamente segni, contrassegni e documenti in uso alle forze di polizia. Come evidenziato dalla Corte, l’art. 497-ter, comma 1, n. 1), c.p., nel punire chi detiene illecitamente tali oggetti, si riferisce tanto alla detenzione di segni contraffatti e non autentici (come sembra potersi desumere dalla rubrica della norma), quanto anche alla illecita detenzione di segni autentici, ma di diversa origine illegale (ad es. furto o ricettazione). Il rifermento alla mera detenzione, considerata quale condotta illecita a se stante, rende ovvie le considerazioni esposte dal Giudice in motivazione, nella parte in cui considera di nessun pregio le deduzioni relative al mancato uso del tesserino falso contestato (5). Del resto, le ulteriori condotte della fabbricazione e dell’uso dei segni distintivi delle forze di polizia trovano un’autonoma e separata considerazione nel numero 2) dell’articolo in esame, il quale, secondo un approccio ermeneutico ormai consolidato, descrive una fattispecie autonoma di reato e non, invece, una circostanza aggravante del delitto previsto dal precedente n. 1), risultando pertanto insuscettibile al giudizio di comparazione di cui all’art. 69 c.p. A favore di tale ricostruzione militano, peraltro, tutta una serie di indizi strutturali, tra cui il carattere autonomo e indipendente delle condotte descritte dal n. 2), le quali non condividono gli elementi costitutivi del fatto tipico di cui al n. 1), né si arricchiscono di ulteriori elementi di specialità. Inoltre, tale interpretazione non trova contraddizione nel rinvio operato dall’art. 497-ter c.p. alle pene previste dall’art. 497-bis c.p., dato che quest’ultimo deve ritenersi operato esclusivamente quoad poenam e non può invece ritenersi riferito alla struttura della norma richiamata, che pur tratta la condotta di fabbricazione e di uso dei documenti di identificazione falsi alla stregua di un’aggravante del delitto di illecita detenzione degli stessi (6). oggetto delle condotte penalmente rilevanti, ai sensi dell’articolo in esame, sono dunque tutti quei segni, contrassegni e documenti i quali consentono di identificare un soggetto quale appartenente a una forza di polizia, perché direttamente riconducibili a essa o necessari ai fini dell’esplicazione delle relative attività istituzionali. In tal senso, la giurisprudenza ha ritenuto di sanzionare condotte tipiche riguardanti la produzione, la detenzione e l’uso di tesserini, di palette e di lampeggianti, escludendo le ipotesi di contraffazioni innocue in ragione della loro grossolanità (7). Emerge pertanto con evidenza (5) Secondo una ricostruzione già operata in precedenza da Cass. pen., sez. V, 29 maggio 2014, n. 32964. (6) Così Cass. pen., sez. V, 12 marzo 2014, n. 26537. rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 la ratio della norma, la quale mira non solo a tutelare l’autenticità dei suddetti oggetti, ma soprattutto a garantire che determinati strumenti siano riservati agli appartenenti alle forze dell’ordine, in quanto è attraverso gli stessi che si realizza il riconoscimento del personale esercente la funzione di polizia da parte del cittadino. Da qui, peraltro, l’introduzione dell’art. 497-ter c.p. nel novero dei reati di falsità personale e non tra quelli, topograficamente precedenti, relativi agli atti di falsificazione materiale. Come sottolineato dalla pronuncia in esame, se la ratio della norma può individuarsi nell’esigenza di evitare che il cittadino possa essere indotto in errore in relazione alle qualità e ai poteri di colui che detiene illecitamente i segni distintivi, ben può comprendersi perché il legislatore abbia fatto riferimento, in chiusura al citato n. 1), anche all’illecita detenzione di “oggetti o documenti che ne simulano la funzione”. Difatti, secondo l’interpretazione oggi prevalente della norma, tale espressione intende affermare la rilevanza penale di quelle condotte aventi a oggetto segni e strumenti che, pur non corrispondendo a quelli attualmente in uso alle forze di polizia, appaiono comunque idonei a trarre in inganno sulla funzione tipica di quest’ultimi e dunque ad alterare la percezione sociale del loro possessore o utilizzatore. ne sono esempi giurisprudenziali la detenzione e l’uso di una paletta recante i segni del Ministero dei trasporti e lo stemma della repubblica Italiana, che, anche laddove non attualmente in uso ai corpi di polizia, è comunque idonea a simulare l’ordine dell’autorità di arrestare la marcia (8); o ancora l’esibizione di un distintivo o di una tessera di riconoscimento falsi, che, ancorché non corrispondenti a quelli utilizzati dalla Polizia dello Stato, possono trarre agevolmente in inganno il cittadino sulle qualità personali di colui che ne fa uso (9). occorre inoltre rilevare che la giurisprudenza di legittimità, nel valutare la riferibilità di un determinato segno o strumento ai soggetti indicati dall’art. (7) Sul concetto di falso grossolano, in tale ambito, v. Cass. pen., sez. V, 27 aprile 2016; Cass. pen., sez. V, 12 marzo 2014, n. 26537. A detta di quest’ultima pronuncia, in particolare, “la grossolanità del falso ricorre soltanto quando questo sia ictu oculi riconoscibile da qualsiasi persona di comune discernimento ed avvedutezza, senza che sia necessario far riferimento a particolari cognizioni o competenze specifiche, né alla straordinaria diligenza di cui taluni possono essere dotati”. (8) V. Cass. pen., sez. V, 23 maggio 2013, n. 35094, a detta della quale già in via meramente interpretativa sembrerebbe potersi rilevare che “il requisito dell’attualità dell’uso del segno oggetto di contraffazione costituisce condizione indefettibile per il rispetto della ratio della norma, che è quella di impedire il pericolo che può derivare dall’uso del detto segno”. In virtù di tale ratio, tuttavia, considerata anche la natura di reato di pericolo dell’illecito, si conclude che la lesione dell’affidamento pubblico può escludersi nel caso della detenzione di un oggetto “che replica un segno distintivo da tempo in disuso”, e cioè nel caso in cui il decorrere del tempo abbia reso in concreto tale oggetto inidoneo ad alterare la percezione sociale del detentore o dell’utilizzatore. (9) V. Cass. pen., sez. V, 27 aprile 2016, n. 34894; Cass. pen., sez. V, 31 ottobre 2014, n. 3556. A detta delle stesse integra il delitto di cui all’art. 497-ter c.p. la detenzione di un distintivo delle forze dell’odine che, pur senza riprodurre fedelmente l’originale, ne simuli la funzione, inducendo in errore il pubblico relativamente all’esercizio della funzione di polizia. ConTEnzIoSo nAzIonALE 497-ter c.p., non ha richiesto che quest’ultimo fosse utilizzato in via esclusiva dalle forze di polizia, ma che esse più semplicemente ne facessero uso, ciascuna secondo le rispettive dotazioni. ne è conseguito, per esempio, il carattere penalmente illecito dell’uso di un lampeggiante blu rimovibile sull’autovettura di un privato, in quanto l’abuso di tale strumento, pur essendo quest’ultimo utilizzato anche da soggetti che non esercitano funzioni di polizia, ha senza dubbio l’effetto di attribuire all’automobile che ne è dotata l’aspetto di un’auto “civetta” delle forze dell’ordine (10). Ulteriore profilo caratterizzante le condotte tipiche descritte dall’art. 497ter c.p., pur non approfondito specificamente dalla sentenza in commento, è quello della loro presupposta illiceità, la quale ricorre ogni qual volta la detenzione, l’uso o la produzione non siano sorrette da un valido titolo di legittimazione. relativamente alla condotta detentiva, pertanto, l’illiceità della stessa sussiste tanto nel caso di un acquisto avvenuto mediante la realizzazione di un reato, ad esempio per via furtiva, quanto nell’ipotesi in cui il detentore sia privo dei necessari titoli di legittimazione personale, perché estraneo al novero dei soggetti cui quei segni o strumenti sono riservati. Sulla scorta di tali considerazioni, la giurisprudenza di legittimità ha affermato il carattere illecito della detenzione posta in essere da un soggetto la cui relativa licenza era ormai scaduta (11), così come di quella conseguente a un acquisto operato regolarmente, per mezzo di internet, da parte di un privato a ciò non legittimato (12). Allo stesso modo è stata ritenuta illegittima la condotta di chi, pur appartenendo alle forze di polizia, ha detenuto sulla propria auto un lampeggiante fuori dall’orario di servizio, non dovendosi confondere la nozione di “servizio permanente”, consistente nella possibilità del pubblico ufficiale di intervenire in ogni momento per esercitare le sue funzioni, con quella di “effettivo esercizio delle funzioni”, essendo solo quest’ultimo idoneo a giustificare la detenzione contestata (13). 4. sulla rilevanza penale del falso realizzato per mezzo della fotocopia di un documento originale inesistente. Così definiti i profili oggettivi del delitto in questione, la Corte è stata chiamata a esprimersi su un’ulteriore questione relativa alla rilevanza penale del falso realizzato mediante la copia fotostatica di un documento originale inesistente. nel caso di specie, come anticipato, la Corte ha ritenuto di dover affer- (10) V. Cass. pen., sez. V, 16 gennaio 2015, n. 6784. (11) Così Cass. pen., sez. I, 5 maggio 2011, n. 30457. (12) V. Cass. pen., sez. V, 30 giugno 2009, n. 41080. (13) Così Cass. pen., sez. V, 29 maggio 2014, n. 32964. Con il concetto di “servizio permanente” si fa riferimento al complesso istituto di cui all’art. 68 della L. dell’1 aprile 1981, n. 121, a detta del quale “gli appartenenti ai ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza sono comunque tenuti, anche fuori dall’orario di servizio, ad osservare i doveri inerenti alla loro funzione”. rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 mare il carattere delittuoso della detenzione contestata, rilevando come la fotocopia del tesserino di riconoscimento non fosse stata detenuta in quanto tale, ma in modo da farla apparire quale documento originale, anche grazie alle tecniche di riproduzione utilizzate, idonee a farne ritenere l’autenticità. Del resto, la giurisprudenza di legittimità sembra aver ormai solidamente riconosciuto il principio secondo cui non può dubitarsi che la copia presentata nella veste di un atto originale inesistente possa ritenersi idonea a trarre in inganno la pubblica fede e dunque a integrare un reato di falso, tanto materiale quanto personale. È evidente, difatti, che in tal caso la fotocopia perde la propria essenza di mera riproduzione del documento presupposto, divenendo piuttosto strumento di una contraffazione connotata da lesività (14). Più discussa appare invece l’ipotesi del falso realizzato mediante una copia fotostatica che sia presentata come tale, cioè quale mera fotocopia di un originale in realtà inesistente. L’intento dell’agente, come ovvio, è quello di attestare artificiosamente l’esistenza di un mancante documento presupposto, al fine di trarre vantaggio da una falsa rappresentazione della realtà. Sul punto, la giurisprudenza appare biforcarsi in una duplice direzione, dividendosi tra quanti affermano l’idoneità della fotocopia, anche se non autenticata, a ledere la pubblica fede e quanti invece richiedono l’autenticazione della copia affinché questa possa considerarsi oggetto di un falso penalmente rilevante. Secondo un primo orientamento, difatti, l’idoneità lesiva della fotocopia non dipenderebbe dalla presenza di attestazioni di autenticità, ma esclusivamente dalla capacità della stessa, alla luce delle circostanze di fatto e della sua provenienza, a convincere il destinatario della propria conformità a un originale e dunque dell’esistenza di quest’ultimo. Del resto, la realizzazione della fotocopia non solo potrebbe presupporre la contraffazione o l’alterazione di un documento, quale matrice per la successiva riproduzione, ma anche laddove non fosse frutto della manipolazione di un atto preesistente, potrebbe comunque apparire idonea a rappresentare falsamente l’esistenza dello stesso. Ai fini dell’integrazione del reato di falsità, pertanto, non sarebbe sempre necessaria la manomissione di una realtà probatoria precedente, ma sarebbe sufficiente la mendace e attuale rappresentazione di una realtà probatoria inesistente, con conseguente lesione della pubblica fede. Tale effetto, in particolare, potrebbe ottenersi tanto mediante la realizzazione di un fotomontaggio, quanto mediante (14) infra alios, v. Cass. pen., sez. V, 2 dicembre 2004, n. 5401; Cass. pen., sez. V, 17 giugno 1996, n. 7717. Sul punto, difatti, rilevata “la realizzazione di macchinari ormai sofisticatissimi per la riproduzione fotostatica di documenti ed idonei dunque a formare un prodotto ultrafedele se non identico all'originale, utile ad un uso che ben può trarre in inganno e che prescinde totalmente dalla esibizione dell'atto come fotocopia o copia dell'originale”, si è sostenuto che la “formazione di una fotocopia di un atto pubblico o di una autorizzazione amministrativa - non necessariamente frutto di un fotomontaggio -non è condotta di per sé esente da valutazione sul piano penale quando l'atto stesso non venga utilizzato e presentato come copia ma come l'originale”. ConTEnzIoSo nAzIonALE l’alterazione di un’altra copia, quanto anche attraverso la creazione artificiosa di una fotocopia. Ciascuno di tali strumenti, difatti, a prescindere da una successiva procedura di autenticazione, viene presentato dall’orientamento in questione come idoneo ad alterare la percezione della realtà probatoria, rappresentando l’esistenza di un documento inesistente e ledendo dunque i beni giuridici tutelati dalle norme penali in materia di falso (15). Secondo un diverso orientamento, invece, un’interpretazione sistematica dell’ordinamento consentirebbe di estrapolare il principio secondo il quale una copia fotostatica non può ritenersi oggetto di un falso penalmente rilevante se priva delle necessarie attestazioni di autenticità. In tale ipotesi, difatti, la fotocopia, tanto in mancanza di un documento presupposto quanto in presenza di una manomissione di quest’ultimo, non potrebbe integrare il falso qualora presentata come tale e non con l’apparenza di un documento originale (16). La ragione di ciò emergerebbe dall’analisi delle disposizioni civilistiche in materia probatoria, nella parte in cui esse affermano che la copia fotografica, di cui non sia autenticata la conformità all’originale dal pubblico ufficiale competente, non ha di per sé valenza probatoria, salvo che nelle ipotesi espressamente previste dall’ordinamento (17). ne deriva che al di fuori di tali ipotesi la fotocopia non autenticata non può ritenersi idonea a trarre in inganno la pubblica fede in quanto per sua natura priva di valore probatorio, e che pertanto deve escludersi la sussistenza del delitto di falso, non potendosi ritenere integrato il fatto tipico del reato. Appare pertanto sovrabbondante il richiamo, talvolta emerso in giurisprudenza, alla figura del reato impossibile per inesi- (15) In tal senso, v. Cass. pen., sez. V, 17 maggio 2012, n. 40415; Cass. pen., sez. VI, 10 dicembre 2007, n. 6572. È stato difatti rilevato che “la falsità è integrata non dalla modificazione di una realtà probatoria preesistente (che nel caso di specie non c'è, non trovandosi traccia del documento originale), ma dalla mendace e attuale rappresentazione di una siffatta realtà probatoria, creata appunto attraverso un simulacro o una immagine cartolare di essa (fotocopia o anche fotomontaggio), che è intrinsecamente idonea a ledere (e lede) il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice costituito dalla pubblica affidabilità di un atto, qualunque esso sia, proveniente dalla pubblica amministrazione. Sicché ben può una fotocopia (o anche una pluralità di fotocopie, come nel caso di specie) fatta passare come prova di un atto originale che non esiste, del quale intenda artificiosamente attestare l'esistenza e i connessi effetti probatori, integrare una falsità penalmente rilevante ai sensi dell'art. 476 c.p.” (16) Così Cass. pen, sez. V, 12 dicembre 2012, n. 10959; Cass. pen., sez. II, 3 novembre 2010, n. 42065; Cass. pen., sez. V, 5 maggio 1998, n. 11185. In particolare, Cass. pen., sez. V, 14 dicembre 2007, n. 7385 ha affermato che “in realtà secondo la giurisprudenza di questa Corte la formazione ad opera del privato di una falsa fotocopia di un documento originale inesistente, presentata come tale e priva di qualsiasi attestazione che confermi la sua originalità o la sua estrazione da un originale esistente, non integra alcun falso documentale, anche ove detta copia abbia in astratto e per la sua verosimiglianza, attitudine a trarre in inganno i terzi, potendo in tal caso il suo uso essere sanzionato come truffa o ad altro specifico titolo”. (17) Cfr. artt. 2719 c.c.; 215 c.p.c. A tal proposito, Cass. pen., sez. V, 14 dicembre 2007, n. 7385 ribadisce che è giurisprudenza consolidata quella secondo cui “la copia di un atto o di un contrassegno costituente l'attestazione di un atto assume il carattere di documento solo in seguito alla pubblica autenticazione del contenuto dell'atto o del contrassegno”. rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 stenza dell’oggetto, dovendosi piuttosto rilevare a monte la atipicità della condotta contestata (18). nella sentenza in commento la Corte, come anticipato, ha aderito con un rapido cenno a tale secondo indirizzo ermeneutico, del resto maggioritario nella pronunce della giurisprudenza di legittimità. E a tale soluzione è pervenuta in considerazione della ratio, sopra richiamata, del reato di falso, nonché in considerazione dell’esigenza di reprimere esclusivamente le condotte che siano effettivamente idonee a sorprendere la fede pubblica. Una soluzione cui sembra potersi guardare con favore, non solo alla luce dei principi generali dell’ordinamento penale, ma anche in considerazione del fatto che essa non sembrerebbe sacrificare gli interessi di quanti siano stati indotti tramite la fotocopia non autenticata a far affidamento nell’esistenza del documento originale. Difatti, la condotta del soggetto agente, pur non potendo integrare il reato di falso, non per questo deve a priori ritenersi lecita e penalmente irrilevante. La presentazione di una copia priva delle necessarie certificazioni di autenticità potrebbe, ad esempio, rilevare quale “artifizio”, e pertanto configurare un elemento costitutivo del diverso reato di truffa previsto dal Codice penale (19). Cassazione penale, Sez. V, sentenza 11 gennaio 2017 (dep. 21 marzo 2017), n. 13810 - Pres. Fumo, rel. Sabeone. “integra il reato di cui all'articolo 497 ter n. 1 c.p. la condotta di chi detiene illecitamente una fotocopia a colori, riprodotta con modalità tali da farla ritenere autentica, di una tessera di riconoscimento rilasciata dal Comando regionale Carabinieri e quindi di un documento identificativo delle Forze di Polizia” rITEnUTo In FATTo 1. La Corte di Appello di Milano, con sentenza del 13 ottobre 2015, ha confermato la sentenza del Tribunale di Milano, Sezione Distaccata di Cassano D'Adda del 25 ottobre 2012 che aveva condannato M.A. per il delitto di cui all'art. 497 ter c.p., n. 1, per aver illecitamente detenuto una fotocopia a colori, riprodotta con modalità tali da farla ritenere autentica, di una tessera di riconoscimento rilasciata dal Comando regionale Carabinieri della Lombardia e quindi di un documento identificativo delle Forza di Polizia. 2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'imputato, a mezzo del proprio difensore, che lamenta, quale primo motivo una violazione di legge per mancanza dei requisiti caratterizzanti il reato ascritto; quale secondo motivo la mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all'articolo 131 bis cod. pen. nonché, infine, la mancata concessione della sospensione condizionale della pena. ConSIDErATo In DIrITTo 1. Il ricorso è da rigettare. (18) Cfr. Cass. pen., sez. V, 5 maggio 1998, n. 11185. (19 In tal senso v. anche Cass. pen., sez. V, 4 marzo 1999, n. 4406. ConTEnzIoSo nAzIonALE 2. La norma di cui all'art. 497 ter c.p., è stata introdotta dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49 (in sede di conversione, con modifiche, del D.L. n. 272 del 2005, sulla funzionalità della Amministrazione dell'Interno); l'art. 1 ter, è intervenuto a modificare, mediante previsione aggiuntiva, il D.L. n. 144 del 2005, art. 10 bis, convertito in L. n. 55 del 2005, ossia il decreto contenente norme urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale, ed ha inteso punire la detenzione, la fabbricazione e l'uso di segni distintivi dei corpi di Polizia, sul presupposto della potenziale strumentalità di tale condotta rispetto alla consumazione di delitti terroristici. La previsione del comma 1, n. 1) si riferisce, come si desume anche dalla rubrica del- l'articolo di legge, sia alla detenzione di segni contraffatti o comunque non autentici (posto che la contraffazione, in sé, è condotta rientrante in quelle espressamente descritte nell'ipotesi numero 2, prevista dall'articolo citato), sia alla detenzione illecita di segni distintivi di diversa origine illegale (ad esempio furto). D'altra parte, la condotta integrata dalla "detenzione" di segni o contrassegni contraffatti, in uso a corpi di Polizia, prevista nella prima parte del n. 1, è disciplinata unitamente a quella, contenuta nella seconda parte del n. 1 dello stesso art. 497 ter c.p., della detenzione di "oggetti o documenti che ne simulano la funzione" cioè di oggetti idonei a trarre in inganno sulla funzione tipica del segno imitato. Tale dizione è in grado di ricomprendere l'ipotesi di documenti che, ancorché non realmente in uso ai corpi di Polizia, siano comunque in grado di indurre in errore in ordine allo svolgimento della funzione, siano cioè idonei a trarre agevolmente in inganno i cittadini sulle qualità personali di chi li dovesse, illecitamente, usare e sul potere connesso all'uso del segno, come appunto avvenuto nel caso di specie, secondo l'accertamento di merito operato dalla Corte territoriale che, se congruo (v. pagina 3 della motivazione), è insindacabile da questa Corte di Cassazione. Quello che rileva ai fini penali è, quindi, l'attitudine della copia fotostatica a sorprendere la fede pubblica in quanto intesa a rappresentare falsamente un inesistente originale. Il che peraltro costituisce il criterio ispiratore anche della giurisprudenza di questa Sezione laddove, stabilendo una deroga al principio per il quale la copia fotostatica è di per sé inidonea a ledere il bene tutelato, afferma che, invece, sussiste il reato di falso, nelle sue varie prospettazioni, quando la falsa copia sia presentata con l'apparenza di un documento originale (v. per un'esaustiva disamina delle varie fattispecie, Cass. Sez. 5^ 9 ottobre 2014 n. 8870). Di nessun pregio sono, poi, le argomentazioni defensionali in merito alla mancata utilizzazione del falso documento, posto che la norma punisce la mera detenzione, o ad altre situazioni soggettive metagiuridiche, che sono state tenute presenti ai fini della quantificazione della pena. 3. La mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all'art. 131 bis c.p., nonché la mancata concessione della sospensione condizionale per una quarta volta appaiono logicamente e congruamente motivate dalla Corte territoriale per cui sfuggono al sindacato di legittimità di questa Corte. 4. In definitiva, il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali. P.T.M. La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in roma, l’11 gennaio 2017. Depositato in Cancelleria il 21 marzo 2017. rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 In tema di decadenza da agevolazione per imposta di registro CassazioNe CiVile, sezioNe V, seNteNza 30 maGGio 2017 N. 13583 La sentenza della Cassazione tributaria in rassegna riafferma il principio secondo cui il contribuente che abbia goduto di una agevolazione ai fini del- l’imposta di registro, una volta decaduto dalla prima non può pretendere che gliene venga applicata una diversa anche se richiesta in subordine. Il caso riguarda il godimento delle agevolazioni fiscali per i trasferimenti a titolo oneroso di terreni agricoli a coltivatori diretti (cioè in misura fissa). La particolarità della fattispecie risiede nel fatto che, la società, incorsa in decadenza per aver rivenduto il fondo prima del decorso di un quinquennio, aveva inoltrato un’istanza in cui dichiarava di rinunciare all’agevolazione goduta (da cui era ormai decaduta), chiedendo l’applicazione della agevolazione prevista per gli imprenditori agricoli non coltivatori diretti (imposta di registro all’8%). La Corte di Cassazione ha ribadito anche con riferimento a questa particolare fattispecie, il principio in parola, secondo cui : “la sottoposizione di un atto ad una determinata tassazione, ai fini del- l'imposta di registro, con il trattamento agevolato richiesto o comunque accettato dal contribuente, comporta, in caso di decadenza dal beneficio, l'impossibilità di invocare altra agevolazione, nemmeno se richiesta in via subordinata già nell'atto di acquisto, in quanto i poteri di accertamento e valutazione del tributo si esauriscono nel momento in cui l'atto viene sottoposto a tassazione e non possono rivivere”. La Corte illustra inoltre meglio la ratio del principio in parola nella parte finale della motivazione. Carlo maria Pisana* Cassazione civile, Sez. V, sentenza 30 maggio 2017 n. 13583 -Pres. Botta, rel Stalla, P.m. Fuzio (difforme) -Agenzia delle Entrate (avv. St. Pisana) c. Agrifrut romagna Società agricola cooperativa r.l. (avv. Vincenzi). Fatti rilevanti e ragioni della decisione § 1. L'agenzia delle entrate propone tre motivi di ricorso per la cassazione della sentenza n. 38/03/09 del 3 luglio 2009 con la quale la commissione tributaria regionale dell'Emilia ro- magna, in riforma della prima decisione, ha ritenuto illegittimo l'avviso di accertamento notificato alla Agrifrut romagna coop. agr. in recupero della piena tassazione di registro (aliquota 15% ), ipotecaria e catastale sull'atto 10 maggio 2004; atto con il quale la società aveva acquistato un terreno, con sovrastante fabbricato rurale, usufruendo delle agevolazioni (registro (*) Avvocato dello Stato. ConTEnzIoSo nAzIonALE ed ipotecaria in misura fissa, imposta catastale all'1% ) di cui al D.Lgs. n. 99 del 2004, art. 2, comma 4 (trasferimenti di terreni agricoli a coltivatori diretti). La commissione tributaria regionale, in particolare, ha rilevato che: - effettivamente non spettava alla società l'agevolazione fruita al momento dell'acquisto atteso che, come dalla stessa dedotto in formale atto di "denuncia di decadenza" 22 aprile 2005, il terreno era stato da essa venduto a terzi nel quinquennio dall'acquisto; - purtuttavia, la società aveva diritto di fruire della diversa agevolazione, richiesta contestualmente alla citata denuncia di decadenza, di cui alla nota I art. 1 Tariffa Prima Parte D.P.r. n. 131 del 1986 (registro all'8% ), atteso che essa rivestiva la qualità di "imprenditore agricolo professionale" (IAP) e che, inoltre, la mutata destinazione urbanistica del terreno da agricolo a edificabile non aveva comportato alcuna variazione della sua destinazione agricola di fatto. resiste con controricorso e memoria Agrintesa soc.coop.agr., incorporante Agrifrut. § 2.1 Con il primo motivo di ricorso l'agenzia delle entrate lamenta -ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 -nullità della sentenza per violazione dell'art. 112 cod. proc. civ. Per non avere la commissione tributaria regionale preso in esame la sua eccezione, opposta fin dal primo grado di giudizio, relativa al fatto che la decadenza dalla agevolazione richiesta al momento della registrazione della compravendita precludeva, di per sè, la nuova richiesta di un diverso beneficio. Con il secondo motivo di ricorso si deduce analoga censura - ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 - per l'ipotesi in cui si ritenesse che la mancata pronuncia sulla suddetta eccezione denotasse rigetto implicito della medesima. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta -ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 -insufficiente motivazione in ordine al convincimento della CTr di effettiva destinazione agricola del terreno nei dieci anni successivi al trasferimento; destinazione agricola che, al contrario, doveva escludersi in ragione del fatto che la società aveva venduto il fondo e che, inoltre, quest'ultimo aveva mutato destinazione urbanistica, divenendo edificabile: "il che rende impossibile per la società contribuente agrifrut di continuare la coltivazione (quand'anche vi abbia mai provveduto)". § 2.2 Sono fondati il primo ed il secondo motivo di ricorso (assistiti da idonei quesiti di diritto ex art. 366 bis cod. proc. civ., vigente ratione temporis) con assorbimento del terzo. La commissione tributaria regionale, nell'ammettere la società agricola all'agevolazione alternativa, ha disatteso il principio di diritto in base al quale: "la sottoposizione di un atto ad una determinata tassazione, ai fini dell'imposta di registro, con il trattamento agevolato richiesto o comunque accettato dal contribuente, comporta, in caso di decadenza dal beneficio, l'impossibilità di invocare altra agevolazione, nemmeno se richiesta in via subordinata già nell'atto di acquisto, in quanto i poteri di accertamento e valutazione del tributo si esauriscono nel momento in cui l'atto viene sottoposto a tassazione e non possono rivivere, sicchè la decadenza dell'agevolazione concessa in quel momento preclude qualsiasi altro accertamento sulla base di altri presupposti normativi o di fatto. (Nella specie, per la s.C. non poteva essere concessa l'aliquota ridotta dell'8% una volta che i contribuenti erano decaduti dalla agevolazione di cui al D.P.r. 29 settembre 1973, n. 601, art. 9 prevista per le imprese diretto-coltivatrici)" (Cass. 8409/13; così Cass. 14601/03). Diversamente da quanto sostenuto dalla controricorrente, la circostanza che l'avviso di accertamento opposto avesse fatto inizialmente richiamo non già a quest'ultimo principio, bensì al mutamento della destinazione agricola del fondo nel decennio dall'acquisto, non osta al- l'applicazione del medesimo principio nella presente sede contenziosa. rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 Va intanto osservato che la cessazione della destinazione agricola del fondo era stata dal- l'amministrazione finanziaria desunta proprio dalla alienazione prima del tempo e, dunque, dalla sopravvenuta impossibilità per la società contribuente di proseguire sul fondo l'esercizio diretto dell'agricoltura. In ogni caso, la preclusione all'ottenimento di una agevolazione diversa da quella in relazione alla quale si è verificata la decadenza discende dalla applicazione alla fattispecie - sempre ammissibile e, anzi, doverosa -della disciplina giuridica sua propria (in termini di esaurimento del potere di accertamento e di valutazione del regime di tassazione applicabile al momento della registrazione dell'atto), e non dall'esercizio di un potere discrezionale e de- libativo sul quale l'amministrazione finanziaria fondi ex novo la pretesa impositiva. ne segue, in definitiva, l'accoglimento del ricorso con la cassazione della sentenza impugnata. Poichè non sono necessari ulteriori accertamenti in fatto, nè sono state dedotte altre questioni controverse, sussistono i presupposti per la decisione nel merito ex art. 384 cod. proc. civ., mediante rigetto del ricorso introduttivo della società contribuente. Le spese del presente giudizio di legittimità e di quello di merito vengono compensate, considerato il consolidarsi soltanto in corso di causa dei su riportati orientamenti interpretativi. Pqm La Corte: - accoglie il ricorso; -cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo della società contribuente; - compensa le spese del giudizio di legittimità e merito. Così deciso in roma, nella camera di consiglio della quinta sezione civile, il 9 maggio 2017. ConTEnzIoSo nAzIonALE Il conflitto tra il diritto individuale alla libertà di scelta ed i superiori diritti collettivi Nota a triBUNale Di NaPoli, sez. X CiV., orDiNaNza 25 maGGio 2017 Gabriella Salvati* il diritto alla libertà individuale di scegliere di consumare, durante l’orario della mensa scolastica, un pasto di preparazione domestica, in luogo di quello fornito dal servizio di refezione scolastica, non può ricevere tutela cautelare se si pone in contrasto con i diritti della collettività, ugualmente garantiti dalla Costituzione, quali il diritto all’uguaglianza, il diritto al- l’istruzione ed, in primis, il diritto alla salute che, in un’ottica di bilanciamento tra diritti confliggenti trovano, nel caso di specie, una più diretta ed immediata tutela. L’ordinanza del Tribunale di napoli, che si commenta, ha rigettato il ricorso d’urgenza attivato, ai sensi dell’art. 700 c.p.c., da un genitore nell’interesse della figlia minore nei confronti del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della ricerca, dell’Ufficio Scolastico regionale Campania, nonché della Scuola Primaria presso la quale la medesima minore frequenta la classe IV, al fine di vedersi riconoscere, in via cautelare, il diritto di scegliere tra la mensa scolastica ed il pasto di preparazione domestica da consumarsi a scuola, nell’orario destinato alla refezione scolastica. il precedente torinese. L’innovativa tematica oggetto dell’ordinanza che si annota prende le mosse da un precedente piemontese che ha visto la Corte di Appello di Torino riformare parzialmente l’ordinanza con la quale il Giudice di prime cure aveva respinto le domande avanzate da 150 genitori, con il procedimento cautelare ex art. 700 c.p.c., affinché venisse consentito agli studenti che scelgono di non fruire della refezione scolastica comunale di consumare il proprio pasto domestico, nell’orario a tal fine preposto, all’interno dei locali mensa della scuola. Il Tribunale di Torino, posto che il servizio locale di refezione scolastica è un servizio a domanda individuale che l’Ente non ha l’obbligo di istituire ed organizzare, si orientava nel senso di non riconoscere al diritto attivato dai ricorrenti natura di diritto soggettivo, limitando la sua portata a quella di mero interesse legittimo; inoltre, rigettava le doglianze con le quali i ricorrenti assumevano la violazione degli artt. 3, 34 e 35 della Costituzione, ruotando la motivazione, in sostanza, intorno alla facoltà posta in capo ai genitori di scegliere se e come avvalersi del servizio di refezione scolastica, e, per conseguenza, di scegliere di evitarne i costi qualora risultassero insostenibili, fermo (*) Dottoressa in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato di napoli. rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 restando, in ogni caso, il principio per il quale le famiglie meno abbienti usufruiscono del servizio in base a tariffe agevolate. La Corte di Appello di Torino, chiamata a pronunciarsi sull’impugnazione promossa da 58 dei 150 soccombenti in primo grado, si attestava, invece, su una diversa posizione che trova il suo fondamento nella qualificazione del diritto all’istruzione - così come invocato dagli appellanti - quale diritto soggettivo, perché da declinarsi come «diritto a partecipare al complesso progetto educativo e formativo che il servizio scolastico deve fornire nell’ambito del “tempo scuola” in tutte le sue componenti e non soltanto a quelle di tipo strettamente didattico». Partendo da tale ineludibile assunto, e atteso il carattere facoltativo della refezione scolastica in quanto servizio a domanda individuale, la Corte concludeva nel senso di ritenere che «se […] la permanenza a scuola in tale segmento orario risponde ad un diritto soggettivo, se la refezione scolastica non può diventare obbligatoria e deve comunque aver luogo il consumo di un pasto, ne consegue necessariamente che ciò debba avvenire presso la scuola, ma al di fuori della refezione scolastica». Pertanto, in parziale riforma dell’ordinanza pronunciata dal Tribunale, accertava il diritto degli appellanti di scegliere, per i propri figli, tra la refezione scolastica ed il pasto domestico da consumarsi nell’ambito delle singole scuole e nell’orario destinato alla refezione; altresì dichiarava il difetto di giurisdizione del Giudice ordinario a conoscere della domanda volta ad ottenere la statuizione sulle modalità pratiche per dare concreta attuazione alla sentenza che avesse accertato il diritto invocato. l’ordinanza del tribunale di Napoli. Il Tribunale di napoli, con l’ordinanza che si commenta, ha rigettato il ricorso - promosso sulla falsariga del precedente torinese - volto ad ottenere il riconoscimento del diritto del genitore ricorrente di scegliere, per la propria figlia, tra la refezione scolastica ed un pasto di preparazione domestica da consumarsi a scuola nell’orario destinato alla refezione scolastica, condividendo così integralmente la tesi prospettata dall’Amministrazione Statale convenuta circa l’insussistenza del fumus boni iuris e del periculum in mora, presupposti indefettibili per l’emissione di un provvedimento cautelare. Si premette che dal dispositivo si evince che il Tribunale ha ritenuto sussistente la propria giurisdizione, superando, pertanto, ogni eventuale dubbio rilevabile anche d’ufficio - sulla possibile giurisdizione del Giudice Amministrativo, pur trattandosi di una controversia in materia di pubblici servizi relativa a concessione di pubblici servizi ex art. 133, comma 1, lett. c), c.p.a., qual è il servizio erogato da una ditta appaltatrice dell’Ente locale, nella specie, del Comune di napoli. nel merito, posto che la ricorrente non lamenta un disservizio della mensa ConTEnzIoSo nAzIonALE scolastica dal quale potrebbe derivare la difficoltà o l’impossibilità della minore a fruire del pasto erogato dal servizio di refezione collettiva, pasto che anzi -la stessa continua a consumare di buon grado, il Tribunale rileva che non si ravvisano specifiche ragioni che possano far temere un pericolo per la salute della minore, né, tanto meno la violazione del diritto all’istruzione, inteso nella sua accezione più ampia che rintraccia nella partecipazione al “tempo mensa” una notevole finalità educativa e didattica. Escluso, inoltre, che possa ritenersi leso il diritto al lavoro del genitore costretto a prelevare - in caso scegliesse di non usufruire del servizio mensa la minore dalla scuola al momento del pasto, per poi riaccompagnarla successivamente, in quanto trattasi di un diritto di cui sarebbe titolare la madre, un soggetto cioè diverso dalla minore nel cui solo interesse agisce la ricorrente, pertanto non invocabile nel medesimo giudizio. Pertanto, l’unico diritto ad essere leso è quello astratto della libertà individuale di scelta tra ed il cd. pasto domestico, da consumare durante il tempo mensa, ed il pasto messo a disposizione dal servizio di refezione scolastica; esso, tuttavia, ad avviso del Tribunale adito, non è meritevole della richiesta tutela, attesa l’esigenza di contemperare l’anzidetto diritto individuale con altri diritti della collettività, ugualmente garantiti dalla Costituzione quali, su tutti, il diritto all’uguaglianza, garantito dalla possibilità dei bambini di condividere in un momento comune il medesimo pasto, senza discriminazioni, ed il diritto alla salute della minore e degli altri partecipanti alla comunità scolastica. Del resto, essere parte di una collettività impone il rispetto di regole di convivenza civile, in ossequio all’art. 2 Cost., che possono determinare la tollerabile riduzione di alcuni diritti, pur se fondamentali, entro «i limiti di una certa soglia minima», così da garantire ed assicurare il pieno esercizio di superiori diritti collettivi, nell’ambito del bilanciamento degli interessi coinvolti nel caso concreto. L’ordinanza si esprime in termini di «dimensione sociale dei diritti», nel senso che questi esistono solo se si inseriscono nel tessuto sociale di una comunità, di un determinato contesto storico (lo stesso diritto di proprietà deve rispettare criteri di utilità sociale), per cui il diritto alla libertà di scelta, così come delineato dalla ricorrente, si svuoterebbe della sua intrinseca portata. A tanto si potrebbe aggiungere, come illustrato nel documento elaborato dalla Commissione refezione Centrale del Comune di napoli, intitolato “la refezione scolastica tra educazione, salute e sorveglianza nutrizionale”, la scuola rappresenta un luogo privilegiato in cui svolgere interventi di promozione della salute, soprattutto per la prevenzione dell’obesità, poiché l’educazione alimentare rappresenta lo strumento fondamentale per ottenere comportamenti alimentari corretti e per indurre scelte consapevoli attraverso strategie educative messe in atto a partire dalla prima infanzia; pertanto, la ristorazione scolastica con il suo duplice obiettivo, nutrizionale ed educativo, rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 riveste un ruolo primario per la salute ed il benessere fisico degli alunni di qualsiasi scuola, attraverso la proposizione di piani nutrizionali corretti e validati, che rappresentano un vero e proprio veicolo di proposta e di acquisizione di modelli culturali e comportamentali che influenzeranno le loro scelte. Quanto al requisito del periculum in mora, anch’esso indefettibile per il riconoscimento della tutela cautelare invocata, il Giudice si è espresso nel senso di disconoscerne la sussistenza, attesa l’imminenza della conclusione dell’anno scolastico e, ancor prima, della cessazione del servizio di refezione al momento della pronuncia. Tale presupposto, d’altronde, neanche potrebbe ravvisarsi in ordine ad un diritto esercitabile eventualmente -con l’iscrizione all’anno scolastico successivo -dopo diversi mesi dalla proposizione del giudizio d’urgenza, posto che il procedimento attivato ai sensi dell’art. 700 c.p.c. deve necessariamente essere caratterizzato -alla data della sua iscrizione come al momento della pronuncia -dalla sussistenza di un fondato motivo di temere che, durante il tempo occorrente per far valere il proprio diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio grave, imminente (dunque, attuale) ed irreparabile. Sull’opportunità di vedersi riconoscere giudizialmente un diritto non attualmente esercitabile il Giudice, facendo proprie le osservazioni della difesa del Ministero resistente, rileva che alla fine dell’anno scolastico sono formulate dalle scuole di tutto il Paese, ai vari Uffici Scolastici regionali, delle mere richieste di autorizzazione al funzionamento di classi e sezioni per il successivo anno scolastico, che richiedono lo svolgimento, a livello nazionale, di complesse operazioni di mobilità del personale, di determinazione dei posti disponibili, di definizione delle procedure per il collocamento in quiescenza per gli aventi diritto, di definizione dei criteri per la chiamata diretta degli insegnanti. Tutte operazioni, propedeutiche alla definizione degli organici di ogni singola istituzione scolastica, al solo termine delle quali è possibile stabilire le piante organiche di ogni singola scuola e, a livello locale, le modalità e gli orari di funzionamento delle singole classi e sezioni, di guisa che non è ipotizzabile richiedere l’adozione di un provvedimento che statuisca sull’esistenza di un diritto potenzialmente destinato a rimanere astratto e mai esercitabile. In conclusione, il Tribunale, pur non avendo nutrito dubbi in ordine alla propria giurisdizione relativamente alla posta questione del diritto di scelta, ha evidenziato che sussisterebbe, in ogni caso, la propria carenza di giurisdizione in ordine alla definizione delle concrete modalità di attuazione del diritto de quo, posto che al Giudice ordinario è comunque inibito di ordinare all’amministrazione un facere in materia di atti emanati nell’esercizio di poteri pubblici, totalmente rimessi alla discrezionalità dell’Amministrazione (nel caso di specie) scolastica nell’ambito delle valutazioni di natura tecnica e di opportunità che è chiamata ad effettuare, sindacabili eventualmente dinanzi al Giudice Amministrativo. ConTEnzIoSo nAzIonALE In considerazione di tali osservazioni, il mero riconoscimento del diritto invocato dalla ricorrente rischia di ridursi ad una mera petizione di principio, del tutto inidonea a garantire la tutela richiesta. Conclusioni. La tematica oggetto dell’ordinanza che si commenta appare di estrema attualità e si presta a considerazioni che trascendono la singola questione del cd. pasto domestico, inserendosi in un contesto storico -quello odierno -in cui si assiste al conflitto, sempre più acceso, tra il diritto individuale ad autodeterminarsi ed i diritti collettivi, rappresentati dallo Stato e dalle finalità da esso perseguite, che conduce inevitabilmente alla sovrapposizione dei secondi sul primo. Com’è noto, per risolvere le questioni in cui si registri un contrasto tra diritti o interessi diversi ma parimenti garantiti a livello costituzionale, il Giudice deve ricorrere alla tecnica del bilanciamento dei diritti, indicando quale diritto o interesse deve recedere rispetto all’altro nel caso di specie, senza che ciò comporti, però, il suo annullamento. Tale operazione viene posta in essere assicurando che la compressione di un diritto sia congrua rispetto al fine che la legge si prefigge e proporzionata. orbene, il nostro ordinamento costituzionale non sempre, nel rapporto tra l’interesse dell’individuo e l’interesse della collettività, attribuisce prevalenza a quest’ultimo, si pensi al 1° comma dell’art. 32 Cost. che, nel configurare la salute come diritto dell’individuo prima e come interesse della collettività poi, lascia intendere una netta priorità della tutela del bene individuale, rispetto all’interesse della collettività che per il suo tramite si realizza. Tuttavia, è frequente, in epoche come quella attuale, che determinate situazioni giuridiche soggettive individuali possano essere compiutamente tutelate soltanto per il tramite di un paradigma di tutela collettiva e che, pertanto, la predetta compressione debba essere necessariamente operata a svantaggio dei diritti individuali, anche quando si configurino nella loro accezione di diritto all’autodeterminazione. Ciò accade, oltre che nel caso esaminato -in cui si rende necessario scongiurare il pericolo per la salute dell’intera comunità scolastica, a fronte del beneficio trascurabile di un unico soggetto -anche nel più discusso caso della libertà a vaccinarsi, in cui l’esigenza di garantire il più ampio margine di immunità a determinati tipi di virus, dunque nell’attuazione del suo dovere di tutela della salute e della incolumità pubblica, conduce lo Stato centrale ad imporre la somministrazione del vaccino anche contro le scelte e le ideologie dei consociati. In definitiva, nell’ambito della complessa operazione di bilanciamento degli interessi “in gioco”, il Giudice deve rapportare i costi sopportati dalla collettività con i benefici conseguiti dal singolo ed orientarsi nel senso di ga rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 rantire la più tollerabile sproporzione tra i due, con la conseguenza che, in casi come quello di specie, si renderà inevitabile approntare una più effettiva ed immediata tutela ai superiori diritti collettivi. tribunale di napoli, X Sezione civile, ordinanza 25 maggio 2017 -Giud. B. Gargia - F.F. (avv.ti G. Vecchione, C. olivieri e F. Frasca) c. Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della ricerca, Ufficio Scolastico regionale Campania, Scuola Primaria “Luigi Vanvitelli” (avv. St. G. Arpaia). Con ricorso ex art. 700 c.p.c. depositato il 9 marzo 2017 e notificato al Ministero dell’Università, dell’Istruzione e della ricerca, presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato, nonché all’Ufficio Scolastico regionale e alla Scuola Primaria L. Vanvitelli, F.F., quale genitore esercente la potestà sulla minore F.L., ha esposto che la figlia frequenta una classe a tempo pieno, articolata su 40 ore settimanali, con entrata alle ore 8 ed uscita alle ore 16.00, presso la scuola primaria Luigi Vanvitelli di napoli e che la stessa, per libera e legittima scelta dei genitori, ha intenzione di non fruire più della refezione scolastica, durante il tempo mensa, preferendo, in alternativa, un proprio pasto preparato a casa dalla madre; ha, poi, dedotto che la dirigenza scolastica della scuola Vanvitelli, espressamente interpellata sul punto, ha ingiustamente negato tale diritto, con comunicazione del 23 gennaio 2017. Tanto esposto, la ricorrente, ritenendo che il comportamento delle amministrazioni resistenti ledesse diritti soggettivi perfetti, di rango costituzionale, e deducendo l’esistenza, non solo del fumus del diritto alla piena tutela della libertà di scelta, nonché dei diritti inviolabili di istruzione e di studio, ma anche del periculum in mora, attesa l’immediata, ed irreparabile lesione dei suddetti diritti, ha chiesto al tribunale: previo accertamento del proprio diritto di scegliere, per la propria figlia, tra la refezione scolastica ed un pasto di preparazione domestica da consumarsi a scuola nell’orario destinato alla refezione scolastica, ordinare, nella presente sede cautelare, all’istituto Luigi Vanvitelli, all’Ufficio Scolastico regionale della Campania ed al Ministero dell’istruzione, dell’Università e della ricerca, di consentirle immediatamente di dotare la propria figlia di un pasto di preparazione domestica, da consumarsi nel refettorio scolastico o in classe, nel- l’orario destinato alla refezione, oltre spese processuali con condanna delle resistenti al risarcimento dei danni per responsabilità processuale aggravata ex art. 96, primo comma, c.p.c., sul presupposto, quest’ultima, dell’ostinato ed ingiustificato diniego dell’amministrazione a riconoscere il diritto da lei fatto valere, nonostante i plurimi precedenti giurisprudenziali di merito favorevoli (v. Tribunale e Corte d’ Appello di Torino e Tribunale Milano). Si è costituita l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di napoli a difesa degli enti convenuti in giudizio (Ministero, Ufficio regionale Scolastico e Scuola Primaria L. Vanvitelli) contestando la domanda avversa, eccependo, in via preliminare, la nullità del ricorso, per mancata e insufficiente esposizione dei fatti posti a fondamento della domanda, nonché l’inammissibilità del procedimento d’urgenza, in quanto teso ad ottenere una pronuncia di mero accertamento; ha poi eccepito l’infondatezza del ricorso per insussistenza del periculum in mora oltre che per carenza del fumus boni iuris, stante la necessità del bilanciamento del diritto vantato dalla ricorrente, con le superiori esigenze pubblicistiche di tutela della salute collettiva, richiedendo, la somministrazione e la conservazione degli alimenti, il rispetto di rigide norme igienico-sanitarie. Ha, infine, contestato la richiesta avversa di condanna dell’Amministrazione al risarcimento danni per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. ConTEnzIoSo nAzIonALE All’esito della comparizione delle parti e della discussione dei procuratori, all’udienza dell’8 maggio 2017 la causa è stata riservata per la decisione con termine fino al 15 maggio 2017, per il deposito di note difensive. occorre premettere che la ricorrente ha, nel proprio ricorso, fatto più volte riferimento alle pronunce del Tribunale di Torino e della Corte d’Appello di Torino -pronunce emesse all’esito di procedimenti sommari ex art. 702 bis c.p.c. e cautelari ex art. 700 c.p.c. nelle quali è stato riconosciuto il medesimo diritto fatto valere in questa sede dalla ricorrente; pacifico è, naturalmente, che le suddette pronunce non costituiscano un giudicato efficace anche nei confronti dei genitori dei minori che non hanno partecipato a quei giudizi, e quindi anche nei confronti della odierna ricorrente, non v’e dubbio, però, che costituiscano dei semplici precedenti della giurisprudenza di merito dei quali poter tener conto ai fini della decisione. Ciò premesso, ritiene, il Tribunale, che il ricorso sia infondato e debba perciò essere rigettato, non ritenendosi esistente né il fumus boni iuris, nè il periculum in mora, presupposti indispensabili per il richiesto provvedimento d’urgenza. Con riferimento al fumus boni iuris, parte ricorrente, come dedotto e in ogni caso precisato nelle note difensive depositate dopo l’udienza dì discussione, non lamenta la lesione di un diritto patrimoniale, quale potrebbe derivare dalla necessità - per esservi costretta a causa del diniego dell’Istituto scolastico di fruire, e conseguentemente di sostenere, il costo del servizio mensa, che è un servizio a pagamento (che, peraltro, come risaputo e comunque chiarito dal- l’avvocatura distrettuale, prevede una contribuzione proporzionata al reddito); la ricorrente, dunque, espressamente nega che il diritto leso e per il quale si richiede la tutela d’urgenza, sia un diritto di natura patrimoniale. E d’altra parte, ove così fosse, apparirebbe di chiara evidenza l’insussistenza del periculum in mora che, per poter giustificare un provvedimento di urgenza, ex art. 700 c.p.c., richiederebbe la prova della particolare ed intensa gravità del danno economico (la giurisprudenza, infatti, non esclude che il danno economico possa giustificare l’emissione di un provvedimento di urgenza, ma richiede che esso sia tale da privare la parte dei mezzi di sussistenza, in modo da incidere su beni primari costituzionalmente garantiti, o comunque che esso sia insuscettibile di tutela piena ed effettiva all’esito del giudizio di merito, perché lo strumento risarcitorio non sarebbe in grado di riparare in pieno il pregiudizio sofferto, sussistendo uno “scarto intollerabile tra danno subito e danno risarcito”). Dunque, parte ricorrente lamenta la sussistenza di un pregiudizio imminente ed irreparabile derivante dalla lesione di diritti non patrimoniali, fondamentali della persona e costituzionalmente rilevanti, ovvero, il diritto alla libertà di scelta tra mensa scolastica e pasto domestico, il diritto allo studio e all’istruzione, il diritto al lavoro della madre (che sarebbe leso ove la stessa fosse costretta a prelevare la minore dalla scuola, durante il tempo mensa, per poi riportarla a scuola successivamente) e all’uguaglianza. Ciò premesso, deve rilevarsi che, stante l’insussistenza di specifiche ragioni attinenti alla salute della minore L., che possano impedire alla stessa di fruire del servizio-mensa messo a disposizione dalla scuola, non appare al Tribunale che, dal comportamento dell’amministrazione convenuta, derivi il pericolo di una lesione del diritto all’istruzione, anche nella sua più ampia accezione (non limitata, perciò, alla mera attività del docente di impartire cognizioni), posto che risulta che attualmente la minore stia continuando, attesa la denegata autorizzazione dell’Istituto a portare un pasto domestico, a fruire della mensa scolastica, così partecipando integralmente all’attività scolastica, anche durante il tempo mensa e il dopo-mensa (che integra, in maniera indiscussa ed incontestata, un momento di grande condivisione e socializzazione e, perciò, ha una importante finalità educativa e didattica); né, tanto meno, risulta leso rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 il diritto al lavoro (diritto che, peraltro, sarebbe nella titolarità di un soggetto diverso dalla minore, nel cui interesse solo la F. agisce); né, infine, come sopra detto, viene dedotta, a fondamento della richiesta cautelare, la lesione immediata del diritto alla salute della minore, non lamentando, la ricorrente, il mancato rispetto, da parte del servizio di refezione scolastica fornito dalla ditta attualmente appaltatrice, delle normali regole igienico-sanitarie, la cui disapplicazione potrebbe determinare un pericolo per la salute della minore. A ben vedere, dunque, l’unico diritto che astrattamente potrebbe essere leso, nella fattispecie, è il diritto alla libertà individuale di scelta di consumare, durante l’orario della mensa, anziché il pasto messo a disposizione dal servizio di refezione scolastica, il pasto domestico. ritiene, peraltro, questo tribunale - contrariamente ai plurimi precedenti della giurisprudenza di merito, noti a questo Giudice, e comunque esibiti dalla parte ricorrente -che tale diritto non possa ricevere la richiesta tutela. E ciò deve dirsi in considerazione del fatto che contrapposti al diritto sopra indicato, del quale la ricorrente chiede in questa sede l’immediata tutela, vi sono altri diritti della collettività, ugualmente meritevoli di tutela, quali il diritto all’uguaglianza (garantito proprio dalla possibilità dei bambini di condividere, in un momento comune, proprio il medesimo pasto, senza discriminazioni) e, in primis, il diritto alla salute della minore stessa oltre che degli altri partecipanti alla comunità scolastica. L’amministrazione (cfr. anche la nota della Dirigente dell’Istituto Scolastico Vanvitelli, del 23 gennaio 2017) ha infatti evidenziato i concreti rischi connessi alla possibilità dei bambini di portare, ognuno, il proprio pasto da casa; ovvero, i rischi alla salute per lo stesso minore che consuma il pasto domestico, rischi dovuti alla mancanza di strutture adeguate per la corretta conservazione dei cibi, rischi alla sicurezza dei minori, per l’assenza di personale ad hoc, assicurato ed adeguatamente formato, per la vigilanza degli alunni e assistenza al pasto, e soprattutto i rischi per la salute degli altri minori, fruitori del servizio di refezione scolastica, connessi al non improbabile scambio di alimenti e contaminazione alimentare. Diritti di prioritaria importanza, che rischierebbero di essere gravemente pregiudicati, e con i quali pertanto, occorre effettuare un attento bilanciamento. Come infatti, sottolineato dall’amministrazione resistente, è necessario contestualizzare il diritto vantato dalla ricorrente e valutarlo nell’ambito della comunità scolastica, effettuando un necessario bilanciamento del diritto di ciascuno con i contrapposti diritti degli altri membri della comunità, a cui ci si rapporta, nella specie, quella scolastica. E d’altra parte, non può dubitarsi che vi siano regole imposte dalla convivenza civile, che devono essere rispettate, e che possono determinare la tollerabile limitazione e riduzione di alcuni diritti, pur se fondamentali. Del resto essere partecipi di una comunità sociale, quale appunto quella scolastica, impone il rispetto delle regole di convivenza civile, in ossequio all’art. 2 Cost., secondo il quale i singoli hanno non solo diritti ma anche doveri di solidarietà sociale. Come è noto, i diritti fondamentali riflettono il valore dell’uomo e ne consentono la piena dignità e il libero sviluppo della personalità; peraltro, detti diritti, la cui tutela trova fondamento nella Carta Costituzionale, rispecchiano al contempo la loro dimensione sociale, che implica la necessaria coesistenza pluralistica di libertà e diritti contrapposti, di diversi soggetti. Da tanto consegue che l’accertamento in concreto dell’inviolabilità degli stessi induce a non fermarsi alla loro cornice formale, ma a guardare se essi risultano “incisi oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio”. Ciò è quanto sostanzialmente affermato nella sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 26972/08, secondo la quale l’offesa arrecata è priva di gravità, qualora non venga inciso un diritto, anche costituzionalmente rilevante, oltre una soglia minima; in particolare, “La gravità dell’offesa costituisce requisito ulteriore ConTEnzIoSo nAzIonALE per l’ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili. Il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. La lesione deve eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza. Il filtro della gravità della lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima, e quello di tolleranza”. Da tale affermazione di principio la Suprema Corte fa derivare che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile. Dunque, concludendo, l’accertamento di una minima serietà dell’offesa è garanzia di un’oggettiva rilevanza del danno e consente di escludere quei pregiudizi che, anziché tutelare la persona, assecondano l’intolleranza a scapito del pluralismo dei diritti. Sulla base dei suddetti principi, è possibile affermare che non appare sussistere, nella fattispecie concreta all’esame di questo Giudice, quanto meno in questa sede, il fumus del diritto del quale la ricorrente ha chiesto l’immediata tutela. né, per vero, appare ravvisabile il concreto periculum in mora, ovvero il pregiudizio imminente ed irreparabile che la ricorrente potrebbe subire nell’attesa di un giudizio di merito, diretto ad ottenere l’accertamento del proprio diritto. occorre, infatti, rilevare che l’anno scolastico è di imminente conclusione e che il servizio mensa -attivato sin dall’inizio del- l’anno scolastico -sta ormai per concludersi fra poco più di una settimana, poiché cesserà alla data del 31 maggio 2017 (e, in ogni caso, va evidenziato che il ricorso è stato proposto solo nel mese di marzo e, dunque, dopo 5 mesi dall’inizio della refezione scolastica). né potrebbe ravvisarsi il dedotto periculum in mora, con riferimento ad un diritto esercitabile in via eventuale e solo dopo diversi mesi dalla proposizione del giudizio d’urgenza, ovvero per l’anno scolastico a venire; sul punto, va sottolineato quanto affermato dall’amministrazione, nelle proprie note difensive depositate, secondo cui, attualmente, sono state formulate dalle singole scuole ai vari Uffici Scolastici regionali, per il prossimo anno scolastico, mere richieste di autorizzazione al funzionamento di classi e sezioni e sono in corso, a livello nazionale, operazioni di mobilità del personale, di determinazione dei posti disponibili; dette operazioni, particolarmente complesse, sono propedeutiche alla definizione degli organici di ogni singola istituzione scolastica e, conseguentemente, alla determinazione delle modalità e degli orari di funzionamento delle singole classi e sezioni (se a 24, 27, 30 o 40 ore settimanali) di ciascun Istituto, con la conseguenza che come sottolineato dall’avvocatura del Ministero, non è attualmente possibile predeterminare con certezza se la classe frequentata dalla figlia della ricorrente, nel prossimo anno scolastico, funzionerà a tempo pieno, con uscita alle ore 16,00, o a tempo ridotto, di guisa che non è possibile, sin da ora, ipotizzare una eventuale lesione del diritto della ricorrente per il prossimo anno scolastico ed emettere un provvedimento che statuisca sull’esistenza di un diritto solo potenzialmente ed in via astratta esercitabile. Infine, preme a questo Giudice evidenziare come il riconoscimento del diritto della ricorrente, alla libertà di scelta tra mensa scolastica e pasto domestico, durante il tempo-mensa, rischia di ridursi ad una mera e sterile affermazione di principio, non concretamente idonea a fornire piena tutela alla ricorrente, proprio alla luce della incontestata sussistenza della discrezionalità dell’Amministrazione scolastica nell’organizzazione del servizio; ed infatti, gli istituti scolastici dovrebbero individuare e prescrivere le modalità concrete per consentire detto esercizio del diritto, effettuando valutazioni di natura tecnica e di opportunità, certamente insindacabili da parte del Giudice ordinario, cercando, così, di bilanciare i diritti individuali di coloro che richiedono di portare, durante il tempo mensa, il proprio pasto da casa, con gli interessi pub rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 blici e i diritti della collettività sopra menzionati (diritto all’istruzione, all’uguaglianza e alla salute); il tutto tenuto conto delle risorse a disposizione dell’amministrazione, sia in termini di personale (essendo evidente che l’aumento del numero di bambini che consumano un pasto domestico e dunque non controllato, rende necessaria una più consistente operazione di vigilanza dei docenti e del personale, onde impedire lo scambio di alimenti e la sicurezza del momento mensa) che di spese (richiedendosi probabilmente attrezzature tecniche nelle scuole, quali fornetti, frigoriferi, contenitori). Per tutto quanto sopra detto, ritiene il Tribunale che la domanda della ricorrente debba essere rigettata, attesa l’insussistenza dei presupposti per il richiesto provvedimento d’urgenza. Quanto alle spese, in considerazione della particolarità, novità e complessità della questione giuridica affrontata, oltre che dell’esistenza di orientamenti favorevoli alle deduzioni della ricorrente, devono ritenersi sussistere eccezionali ragioni per la compensazione delle stesse. P.Q.M. - rigetta il ricorso; - Compensa integralmente le spese di lite. napoli, 25/5/17 ConTEnzIoSo nAzIonALE In materia di cause aventi ad oggetto danni derivanti da urto di navi al di fuori del mare territoriale: il giudice competente Nota a triBUNale Di roma, sez. ii CiV., orDiNaNza 30 maGGio 2017 Massimo Giannuzzi* Con l’ordinanza in esame il Tribunale di roma ha accolto l’eccezione di incompetenza territoriale sollevata dall’Avvocatura dello Stato, nell’interesse del Ministero della Difesa e del Comandante della Corvetta Sibilla della Marina Militare italiana (rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, ex art. 44 del regio decreto n. 1611/1933), evocati in giudizio da soggetti che assumono di essere parenti di alcune delle vittime del naufragio subito dalla motovedetta albanese su cui le stesse erano imbarcate, al largo del canale di otranto, in data 28 marzo 1997, per ottenere il risarcimento dei danni -sia iure proprio, sia iure hereditatis -conseguenti al naufragio dovuto all’asserito speronamento della predetta motovedetta, da parte della Corvetta Sibilla. Il Tribunale di roma mostra di condividere l’assunto della difesa erariale circa l’applicabilità, nel caso di specie, del disposto dell’art. 590 del codice della navigazione, in forza del quale la competenza territoriale per le cause riguardanti i danni dipendenti da urto di navi, se il fatto è avvenuto fuori del mare territoriale (come nel caso di specie), è attribuita al tribunale della circoscrizione nella quale è avvenuto il primo approdo della nave danneggiata, o l’arrivo della maggior parte dei naufraghi, o, in mancanza, al tribunale della circoscrizione nella quale è il luogo di iscrizione della nave. Sulla base di questa disposizione del codice della navigazione, il Tribunale di roma ha escluso l’applicabilità al caso di specie dell’ultima parte del- l’art. 25 del codice di procedura civile, secondo il quale, quando è convenuta un’Amministrazione dello Stato e la causa ha ad oggetto un rapporto di obbligazione, il distretto in cui si trova il giudice che sarebbe competente secondo le norme ordinarie si determina con riguardo al giudice del luogo in cui è sorta o deve eseguirsi l’obbligazione. Conclusivamente il Tribunale di roma, muovendo dalla premessa che, in forza dell’art. 7 del regio decreto n. 1611/1933, le norme di competenza rimangono ferme anche quando sia parte in causa un’Amministrazione dello Stato, per i giudizi di cui agli artt. 873 del codice di commercio e 94 del codice di procedura civile (il cui contenuto precettivo è stato trasfuso rispettivamente nell’art. 590 del codice della navigazione e 22 del codice di procedura civile), ha individuato nel Tribunale di Brindisi il giudice che sarebbe competente secondo le norme ordinarie (ovvero l’art. 590 del codice della navigazione), il (*) Avvocato dello Stato. rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 primo approdo della motovedetta albanese essendo avvenuto nella circoscrizione del predetto Tribunale. Il giudicante è pervenuto a dichiarare la propria incompetenza territoriale, in favore del Tribunale di Lecce, luogo in cui ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato, nel cui distretto si trova il Tribunale di Brindisi, in forza del disposto della prima parte dell’art. 25 del codice di procedura civile. tribunale di Roma, Sez. II civ., ordinanza 30 maggio 2017 -Giud. A. Canonaco - C.P. ed altri (avv.ti G. Polverini e C. Di Marco) c. Ministero della difesa e L.F. (avv. gen. Stato). Premesso che gli attori di cui sopra hanno convenuto in giudizio il Ministero della Difesa e L.F. dinanzi al Tribunale di roma per ottenerne la condanna, in solido, al risarcimento del danno, sia iure proprio che iure hereditatis, da essi riportato quali prossimi congiunti delle vittime del naufragio della motovedetta albanese Kater I rades, verificatosi il 28 marzo 1997, nel canale di otranto (naufragio asseritamente provocato dallo speronamento posto in essere dalla nave della Marina Militare Italiana, la Corvetta Sibilla, nel corso di un'operazione di interdizione navale, finalizzata ad impedire l'ingresso della motovedetta albanese nelle acque territoriali italiane ove era diretta per l'approdo); che parte convenuta, costituita il 24 febbraio 2017 per l'udienza di prima comparizione fissata per il 20 marzo 2017 eccepiva, in via pregiudiziale, l'incompetenza del Tribunale di roma adito per essere inderogabilmente competente il Tribunale di Lecce, a norma del combinato disposto dell'art. 590 comma 2 del codice della navigazione e dell'art. 25 cpc; che parte attrice ha chiesto il rigetto dell'eccezione pregiudiziale, non essendo stati contestati tutti i criteri di collegamento previsti dall'art. 18, 19 e 20 cpc e dall'art. 25 cpc (in particolare con riguardo al forum destinatae solutionis); che parte attrice ha contestato in ogni caso l'infondatezza dell'eccezione pregiudiziale, asserendo che a norma dell'art. 25, secondo comma, cpc sussista la competenza territoriale del Tribunale di roma quale forum destinatae solutionis (foro concorrente a quello relativo al luogo in cui è sorta l'obbligazione), coincidendo il primo, in base alle norme di contabilità pubblica, con il luogo ove è sita la tesoreria provinciale nella cui circoscrizione è domiciliato il creditore (tenuto conto che nelle specie i creditori residenti all'estero e cittadini albanesi hanno quale unico centro di interessi lo studio professionale dei propri difensori dove hanno eletto domicilio); parte attrice ha poi aggiunto che il diritto al risarcimento esercitato nell'odierno giudizio troverebbe fondamento nell'obbligo risarcitorio previsto a carico dello Stato italiano ai sensi della legge 23 dicembre 2000 n. 388 art. 82 punto 3 e che pertanto, trattandosi di dare applicazione ad un obbligo dello Stato imposto dalla legge sussisterebbe la competenza del Tribunale di roma, sia in relazione al luogo in cui è sorta l'obbligazione, sia in relazione al luogo in cui essa deve eseguirsi; oSSErVA In primo luogo deve osservarsi che parte attrice ha prospettato, per i fatti ascritti nell'atto introduttivo, una responsabilità del Ministero della Difesa e del comandante della nave della marina militare L.F. ai sensi degli artt. 2043 cc., art. 185 cp e art. 2059 c.c., senza fare alcun riferimento, né in fatto, né in diritto alla legge n. 388/2000 che peraltro all'art. 82 comma 3 si limita a prevedere che "il ministero della difesa è autorizzato, fino al limite complessivo di 10 miliardi di lire, in ragione di 5 miliardi di lire per ciascuno degli anni 2001 e 2002, a de ConTEnzIoSo nAzIonALE finire consensualmente, anche in deroga alle disposizioni di legge in materia, ogni lite in corso con le persone fisiche che hanno subito danni a seguito del naufragio della nave "Kaider i rades a451" avvenuto nel canale di otranto il 28 marzo 1997." Conseguentemente non è ravvisabile alcun obbligo statuale in virtù della richiamata disposizione che pertanto non può incidere - avuto riguardo all'oggetto della domanda - sui criteri di collegamento per l'individuazione del giudice territorialmente competente. Ancora deve osservarsi che il sinistro marittimo oggetto di causa è avvenuto, per pacifica ammissione delle parti, fuori dal mare territoriale italiano. L'ad. 589 del codice della navigazione prevede che le cause riguardanti i danni dipendenti da urto di navi come nella specie (essendo stato dedotto lo speronamento della motovedetta Kater I rades da parte della Corvetta Sibilla) sono proposte davanti al Tribunale, mentre in ordine alla competenza territoriale l'art. 590 cod. nav. dispone che "se il fatto è avvenuto fuori del mare territoriale, le cause sono proposte avanti il tribunale della circoscrizione, nella quale è avvenuto il primo approdo della nave danneggiata, o l'arrivo della maggior parte dei naufraghi, o, in mancanza, avanti il tribunale della circoscrizione nella quale è il luogo di iscrizione della nave." Si tratta di disposizioni speciali che prevedono ipotesi di competenza per territorio inderogabile, giusta il disposto di cui agli artt. 25 cpc e 7 del rd n. 1611 del 1933. Invero l'art. 25 cpc rinvia alle leggi speciali sulla rappresentanza e difesa dello Stato in giudizio e tra tali disposizioni il citato art. 7 rd n. 1611/1933 stabilisce che "le norme ordinarie di competenza rimangono ferme, anche quando sia in causa un'Amministrazione dello Stato, per i giudizi ....... di cui agli artt. 873 del codice di commercio e 94 del codice di procedura civile" (ora rispettivamente art. 590 codice navigazione 1942 e art. 22 c.p.c. 1942). Conseguentemente per effetto del citato rd n. 1611 del 1933 art. 7 per le cause di cui all'art. 590 cpc (come quella odierna) proposte nei confronti della p.a. trovano applicazione non le disposizioni contenute nell'art. 25 cpc sul foro erariale (relative al luogo in cui è sorta o deve eseguirsi l'obbligazione) bensì la regola ordinaria di cui al citato art. 590 cpc che fa riferimento al luogo in cui è avvenuto il primo approdo della nave danneggiata (cfr per una ipotesi simile Cass. Sez. 6-3 ordinanza n. 1465 del 2014). ne consegue che deve affermarsi la competenza territoriale inderogabile del Tribunale di Lecce, come indicato da parte convenuta, luogo in cui ha sede l'ufficio dell'Avvocatura dello Stato nel cui distretto si trova il Tribunale di Brindisi, competente secondo le norme ordinarie (ovvero il richiamato art. 590 cod. navigazione). Deve precisarsi che trattandosi di incompetenza per territorio inderogabile non rileva la dedotta incompleta eccezione di parte convenuta, potendo la questione essere rilevata d'ufficio non oltre l'udienza di cui all'art. 183 cpc. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo tenuto conto dei parametri di cui al dm 55/2014, del valore della domanda e dell'attività in concreto svolta. PQM dichiara l'incompetenza territoriale dell'adito Tribunale di roma, per essere territorialmente competente ex art. 7 r.D. n. 1611 del 1933 e art. 25 cpc il Tribunale di Lecce; assegna termine di mesi tre, dalla comunicazione della presente ordinanza, per la riassunzione della causa dinanzi al giudice dichiarato territorialmente competente; condanna parte attrice al pagamento delle spese dell'odierno giudizio in favore di parte convenuta, liquidate in complessivi euro 7.000,00 oltre accessori come per legge. Si comunichi roma 29.05.2017 rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 L’accesso alla documentanzione fiscale e tributaria del coniuge nei giudizi di separazione: normativa ed orientamenti giurisprudenziali Nota a triBUNale ammiNistratiVo reGioNale Per la emilia romaGNa, sez. i, seNteNze. 2 FeBBraio 2017 NN. 64 e 65 Valentina Pincini* Il presente articolo ha lo scopo di approfondire l’accesso alla documentazione fiscale e tributaria del coniuge nel processo di separazione, al fine di orientare il lettore nel panorama normativo rappresentato dalla L. n. 241/1990, in via generale, e dalla recentissima introduzione dell’art. 155 sexies disp. att. c.p.c., che ha, apparentemente, provocato un restringimento del diritto di accesso così come definito dalla 241/1990. In un’ottica tecnico-pratica, l’analisi si estenderà agli orientamenti giurisprudenziali prima e dopo il 2014, al fine di comprendere l’interpretazione data dai giudici alle nuove disposizioni e l’eventuale rapporto fra il nuovo ed il vecchio diritto di accesso all’Anagrafe Tributaria. sommario: 1. Premessa -2. la nuova normativa per la ricerca con modalità telematiche dei beni da pignorare: i motivi dell’estensione ai procedimenti familiari e la sua applicazione concreta - 3. il diritto di accesso: natura giuridica, requisiti ai sensi della l. n. 241/1990 e della l. n. 15/2005, rapporto con il diritto di privacy - 4. il contrasto giurisprudenziale - 5. Conclusioni. 1. Premessa. Il diritto di accesso, nei termini che di seguito verranno dettagliatamente indicati, è la modalità mediante la quale la Pubblica Amministrazione, dapprima trincerata dietro ad un manto di impermeabilità, diventa penetrabile dal privato, dando così attuazione piena al principio di buon andamento dell’azione amministrativa ex art. 97 Cost. e il diritto di informazione ex art. 21 Cost. (1). Il diritto di accesso ai sensi dalla L. n. 241/1990 permette, infatti, una tutela piena ed effettiva ai privati cittadini che avranno solo l’onere di dimostrare di avere interesse a visionare ed estrarre copia dei documenti posseduti dal- l’Amministrazione. Fino alla recentissima riforma del Codice di Procedura Civile e delle Disposizioni Attuative dello stesso, l’accesso era consentito anche ai documenti posseduti dall’Anagrafe Tributaria, ma, in un’ottica di tutela di eventuali altri controinteressati, era ammessa esclusivamente la presa visione senza possibilità di estrarre copia. (*) Dottoressa in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato di Bologna. (1) CArInGELLA F., manuale di diritto amministrativo, X edizione. ConTEnzIoSo nAzIonALE Tale orientamento normativo ha trovato pieno riscontro nella giurisprudenza del Consiglio di Stato (2), che adita sul tema, ha sempre ordinato alla P.A. di consentire l’accesso alla documentazione posseduta nella sola forma della visione. La normativa, introdotta con il D.L. 12 settembre 2014, n. 132 e convertito nella L. n. 162/2014, sulla ricerca con modalità telematiche dei beni da pignorare, ha modificato l’art. 155 sexies disp. att. c.p.c. ed ha esteso le disposizioni in materia di ricerca con modalità telematiche dei beni da pignorare anche ai procedimenti in materia di diritto di famiglia, per l’effetto l’accesso all’Anagrafe Tributaria non è più libero e privo di limiti, ma sottoposto a preventiva ed apposita autorizzazione rilasciata dall’Autorità Giudiziaria. Tale cambiamento ha avuto risvolti anche giurisprudenziali ed, infatti, le recentissime sentenze “gemelle” (3) del TAr Emilia-romagna si sono fatte portavoce della nuova normativa, entrando in collisione con i precedenti e consolidati orientamenti giurisprudenziali. Proprio il Tribunale bolognese ha statuito che l'autorizzazione deve necessariamente essere richiesta anche nei casi in cui si voglia agire in forza degli artt. 22 e ss. della L. n. 241/1990 e dell’azione ex art. 116 c.p.a., altrimenti, presentando un istanza direttamente all’Agenzia delle Entrate, vi sarebbe uno sviamento della normativa (4). Se così non fosse stato, si sarebbe arrivati all’assurda conclusione che l’art. 492 bis c.p.c. e gli artt. 155 quinquies e sexies disp. att. c.p.c. offrissero una via alternativa ed opzionale per il soggetto interessato che, però, verrebbe aggirata, essendo sicuramente più lunga ed incerta, in quanto soggetta al controllo di un organo giurisdizionale. La trattazione che segue vuole indagare i dettagli della nuova normativa ed i motivi che hanno spinto il legislatore ad estenderla al diritto di famiglia, richiamare in modo sintetico i principi del diritto di accesso, già ampiamente trattato dalla dottrina, al fine di comprendere la portata della nuova normativa in materia di accesso agli atti dell’Agenzia Tributaria nei procedimenti di separazione dei coniugi. Ma fino a che punto si può parlare di contrasto giurisprudenziale? E so (2) Fra molte, Cons. di Stato, sentenza n. 2472/2014. (3) Con il termine “gemelle” si vuole indicare due pronunce aventi ad oggetto le medesime domande, difese ed eccezioni, per le quali il TAr Emilia-romagna determina le stesse conclusioni e statuizioni. (4) “l’autorizzazione deve necessariamente essere richiesta anche nel caso in cui gli stessi diretti interessati intendano agire esternamente alla causa civile che li vede coinvolti, avvalendosi dell'istituto dell'accesso di cui agli artt. 22 e ss. l. n. 241/1990 ed eventualmente dell'azione ex art. 116 c.p.a. per ottenere l'ostensione di documenti contenuti in una banca dati telematica. Diversamente opinando, infatti, si perverrebbe all'illogica conclusione (certamente non voluta dal legislatore) che la nuova disciplina autorizzatoria alla ricerca con modalità telematiche sia, di fatto, inutiliter data, in concreto ben potendo le parti in causa in quelle controversie, aggirare l'ostacolo dell'autorizzazione presentando direttamente istanza di accesso alla competente agenzia delle entrate” (TAr Emilia-romagna, sez. I, sentenze nn. 64-65/2017). rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 prattutto il TAr Emilia-romagna si è fatto portavoce del testo della riforma oppure ha mal interpretato il diritto di accesso secondo la L. n. 241/1990? Dul- timo la nuova normativa può avere risvolti positivi per la tutela dei diritti dei privati o può qualificarsi come mera limitazione di un diritto ormai acquisito dai cittadini? La novità delle questioni affrontate, la centralità dell’argomento e la sua rilevanza non solo giuridica ma anche pratica, accennate nelle domande che precedono, hanno giustificato -nelle sentenze del TAr Emilia-romagna -l’integrale compensazione delle spese legali, pur nella piena vittoria dell’Avvocatura di Stato. 2. la nuova normativa per la ricerca con modalità telematiche dei beni da pignorare: i motivi dell’estensione ai procedimenti familiari e la sua applicazione concreta. La L. n. 162/2014 ha introdotto nel nostro ordinamento, per il tramite del- l'art. 492 bis c.p.c., un sistema per rendere più efficiente e più rapido il processo esecutivo, consentendo all'Ufficiale Giudiziario di effettuare indagini per via telematica presso le principali banche dati della Pubblica Amministrazione previa autorizzazione del Presidente del Tribunale del luogo di residenza del debitore. L'art. 155 sexies disp. att. c.p.c. ha esteso tale applicazione alla ricostruzione dell'attivo e del passivo nell'ambito delle procedure concorsuali, ai procedimenti in materia di famiglia ed a quelli relativi alla gestione di patrimoni altrui. Si tratta di casi non assimilabili e non riconducibili ai procedimenti di natura esecutiva ed agli atti di pignoramento, ove l'accesso alle banche dati ha la finalità di reperire beni e crediti da sottoporre a procedure esecutive per soddisfare un pregresso diritto di credito. nei procedimenti di famiglia, invece, l'accesso alle banche dati e, nello specifico, all'Anagrafe Tributaria consente al giudice l'analisi delle singole capacità reddituali dei membri della coppia, così che possa pervenire ad una corretta determinazione della misura degli assegni previsti dalla legge in favore dei figli e del coniuge che abbia minore disponibilità economica. È noto che nei procedimenti giudiziari in materia di famiglia l'aspetto su cui spesso si sviluppa la maggior parte del contenzioso tra coniugi-genitori è costituito proprio dalla commisurazione dell'eventuale assegno in favore del- l'altro coniuge e/o dei figli nell'ottica di quanto richiesto dal Codice Civile. L'art. 155 impone il “mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito”, così come l'art. 156 assicura al coniuge cui non sia addebitabile la separazione “quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri”. Dunque, il mantenimento dovrà tendenzialmente assicurare al beneficiario un tenore di vita analogo a quello precedente alla separazione (5), a meno che il coniuge “non fruisca di redditi propri, ConTEnzIoSo nAzIonALE tali da fargli mantenere una simile condizione” e purché “sussista una differenza di reddito tra i coniugi” (6). L’obbligo delle parti di allegazione dei Modelli reddituali costituisce esclusivamente un primissimo momento di indagine, in quanto tacciono sul- l'effettivo spessore reddituale della vita familiare ed è per questo che il Tribunale di roma in primis, seguito poi da tutti gli altri Uffici Giudiziari, ha iniziato a chiedere alle parti, che avessero presentato un'istanza di separazione, di allegare una dichiarazione giurata nella quale riassumere ed indicare le proprietà, i conti correnti bancari o postali, le carte di credito e gli investimenti in uso alle parti o nella loro disponibilità (7). Tale intervento è volto alla tutela del diritto al contraddittorio e di difesa delle parti processuali e, oggi, per il tramite dell’art. 155 sexies disp. att. c.p.c., la tutela è resa ancora più effettiva essendoci una norma di legge espressa. Sotto il profilo meramente pratico, il creditore (ovvero il coniuge) propone istanza al Presidente del Tribunale nel luogo ove il debitore (ovvero l'altro coniuge), risiede o ha dimora. Con l’istanza dovrà, altresì, chiedere l’autorizzazione all’accesso alle banche dati e dovrà indicare i motivi e le ragioni su cui si fonda la richiesta. Il Presidente, o un giudice designato, si pronuncerà autorizzando o negando l'accesso. ottenuta l'autorizzazione, nella prima versione della normativa, il creditore si rivolgeva, appunto, all'Ufficiale Giudiziario che conduceva direttamente l’indagine; ora, con la modifica ad opera del D.L. 27 giugno 2015, n. 83, è stata disposta l'immediata fruibilità da parte del creditore delle informazioni contenute nelle banche dati previste dall'art. 492 bis c.p.c. L’accesso riguarda in particolar modo il potente software investigativo dell'Agenzia delle Entrate, denominato serpico, che consente di accedere cumulativamente a conti correnti bancari e postali, ai dossier titoli, ai rapporti cessati, alle garanzie prestate dagli operatori finanziari nell’interesse del cliente e, da ultimo, alle posizioni nelle quali il soggetto è soltanto il titolare di mera delega ad operare o destinatario di procura. Tale sistema viene utilizzato dal- l'Agenzia delle Entrate per la lotta all'evasione fiscale mediante controllo su saldi e movimenti nei rapporti bancari e finanziari (8). Dai cenni appena fatti alla normativa, appare evidente e, quindi superfluo evidenziare, il motivo che ha condotto il legislatore a sottoporre l'accesso alla (5) La prima sezione della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11504 del 10 maggio 2017, ha dato una nuova lettura in tema di assegno divorzile, ritenendo che il criterio per l’assegnazione debba essere quello dell’indipendenza e dell’autosufficienza economica dell’ex coniuge. (6) Cass. Civ., 27 giugno 2006, n. 14840. (7) “la corretta lettura del reddito della famiglia nel processo di separazione e divorzio -il diritto di ‘accesso’e di ‘copia’delle movimentazioni esistenti presso l’anagrafe tributaria”, Convegno Milano 24 maggio 2016. Commento Avv. Vaccaro Giorgio. (8) BArILoTTo A., Gli accertamenti patrimoniali e reddituali nel processo della famiglia tramite banche dati telematiche e indagini di polizia tributaria, in Famiglia e Diritto, 2016, 6, 608. rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 valutazione delle opportunità da parte di un organo terzo ed imparziale qual è il giudice, per di più individuato nel massimo organo giudiziario di riferimento -il Presidente del Tribunale - trattandosi di procedimenti particolarmente delicati nei quali rilevano le esigenze di riservatezza e di privacy in capo ai diversi membri della famiglia, anche alla luce della potenza investigativa delle banche dati possedute dall’Agenzia delle Entrate ed introdotte per scopi istituzionali. 3. il diritto di accesso: natura giuridica, requisiti ai sensi della l. n. 241/1990 e della l. n. 15/2005, rapporto con il diritto di privacy. Se si analizzasse esclusivamente la nuova riforma non sorgerebbero dubbi sulla sua legittimità, eppure nell’ambito amministrativo non va taciuto il rinvio alla L. n. 241/1990 che introduce il diritto all'accesso, quale prerogativa dei soggetti interessati senza passare per il tramite dell’autorizzazione del Presidente del Tribunale. Accanto ai principi regolatori dell’azione amministrativa (legalità, imparzialità, buona amministrazione), la dottrina e la giurisprudenza ne hanno individuato uno nuovo destinato a ridefinire in chiave democratica il rapporto fra amministratori ed amministrati, trasformando quest’ultimi da spettatori a protagonisti dell’operato dei pubblici poteri: il cd. principio di trasparenza, operante mediante il diritto di accesso, così come regolamentato dagli artt. 22 e ss. della L. n. 241/1990. Il diritto di accesso ha, quindi, una duplice valenza: è una posizione soggettiva che garantisce al privato la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti nei confronti della Pubblica Amministrazione ed è, allo stesso tempo, funzionale ad assicurare la concretizzazione dei principi generali di imparzialità e trasparenza amministrativa (9). Prima di entrare nel vivo degli artt. 22 e ss. della L. n. 241/1990, va indagata la natura giuridica dell’accesso agli atti amministrativi ricordando le difficoltà interpretative connesse all’inquadramento del diritto di accesso nelle categorie giuridiche tradizionali. Se ancora oggi la dottrina oscilla fra l’accesso come diritto e l’accesso come interesse - non oppositivo e non pretensivo, ma partecipativo -il legislatore, dal canto suo, collocando il diritto di accesso nella giurisdizione esclusiva, ha sicuramente optato per la natura di diritto soggettivo. Quanto alla giurisprudenza, se in passato ha sostenuto entrambe le tesi, attualmente tende pragmaticamente a glissare sul punto. Le complicazioni sorgono con il comma 2 dell’art. 22 della 241/1990 che, descrivendo l’accesso come finalità di pubblico interesse, fa acquisire allo stesso connotati di fine obiettivo di giustizia e democrazia amministrativa e, (9) PozzAnI P., il diritto di accesso tra riforma ed applicazione giurisprudenziale: una nuova dinamica tra interesse e diritto, in www.giustizia-amministrativa.it, 2012, n. 1, pag. 4281. ConTEnzIoSo nAzIonALE quindi, specifiche finalità di pubblico interesse, facendone una sorta di “super” diritto con una forte connotazione pubblicistica. Eppure un potere finalizzato ad un interesse superindividuale non è né un diritto soggettivo né un interesse legittimo. Si tratta, quindi, di una situazione soggettiva nuova, “ermafrodita” e sconosciuta (10). Un altro acceso dibattito, sempre in materia di diritto di accesso, è il suo inquadramento come situazione giuridica autonoma o piuttosto come situazione strumentale-procedimentale. Il dubbio va risolto in quest’ultimo senso, essendo l’accesso sotteso alla tutela di una situazione giuridica sottostante (11). Il diritto di accesso definito dall’art. 22 della L. n. 241/1990 come “il diritto degli interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi” è stato elevato a livello essenziale delle prestazioni ed infatti il comma 2 della medesima disposizione stabilisce che “l’accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza”. La possibilità di prendere visione ed estrarre copia, però, viene riservata ai soli interessati, ovvero “tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”. Il diritto di accesso, quindi, è riservato a chi vanta una posizione giuridica rilevante, alla quale è sotteso un interesse personale, concreto ed attuale. Vanno necessariamente indagati i tre aggettivi che il legislatore ha posto a tutela del concetto di interesse, poiché, per il tramite della qualificazione, si è esclusa l’interpretazione dell’accesso quale controllo generalizzato sull’operato della Pubblica Amministrazione. Deve esservi un interesse strettamente collegato al soggetto richiedente (in questo senso si parla di personalità del- l’interesse), che sia tangibile e non evanescente (in ciò sostanziandosi la concretezza) e che sia meritevole di attenzione (ossia attuale). Sul punto vi è, però, un gioco tra titani: se il legislatore restringe il diritto di accesso entro canoni tassativi, la dottrina e soprattutto la giurisprudenza hanno cercato di ampliarlo, ricomprendendo anche interessi non ancora azionabili in sede processuale, non essendo ancora lesi (12), inglobando posizioni eterogenee (aspettative ed interessi diffusi), senza mai estendersi fino agli interessi di fatto, posizioni alle quali l’ordinamento non riconosce alcuno strumento di tutela giurisdizionale. (10) GIACHETTI S., Diritto d’accesso, processo amministrativo, effetto Fukushima, in www.giustizia-amministrativa.it, 2011. (11) PozzAnI P., il diritto di accesso tra riforma ed applicazione giurisprudenziale: una nuova dinamica tra interesse e diritto, cit., pag. 4281. (12) Cons. di Stato, sez. VI, 30 ottobre 1993, 783. rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 La volontà di restringere il campo applicativo del diritto di accesso trova giustificazione nell’ottica di tutelare un altro principio incalzante nell’ultimo decennio: la celerità dell’attività pubblica che verrebbe compromessa dalla necessità di impegnare risorse umane e strumentali in favore dell’evasione delle domande di accesso. Ma non solo. La limitazione all’accesso tende a tutelare sia le esigenze di riservatezza e di segretezza nell’interesse della P.A. sia il diritto alla riservatezza e alla privacy dei controinteressati, definiti come “tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che dall'esercizio dell'accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza”. In quest’ultimo caso la tutela della riservatezza deve essere concreta ed attuale, ossia circoscrivibile e tangibile sotto il profilo della titolarità e, conseguentemente, il documento deve incidere sulla sfera personale e patrimoniale di un altro soggetto. Mediante il riferimento ai soggetti controinteressati e alle limitazioni all’accesso, il legislatore pone l’accento sul rapporto fra diritto di accesso e tutela della privacy, anche alla luce dell’introduzione del Codice della Tutela dei Dati Personali. Va necessariamente evidenziando che già prima dell’introduzione del D. Lgs. n. 196/2003, il cd. Codice della Privacy, l’art. 24 della L. 241/1990 escludeva l’accesso a quei documenti che riguardavano la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, persone giuridiche, gruppi, imprese ed associazioni. La norma, assai generale, è stata attuata per il tramite di regolamenti adottati dalle singole Pubbliche Amministrazioni. Con l’introduzione del Codice per l’Applicazione dei Dati Personali, invece, si sono delineati tre livelli di protezione dei dati dei terzi ai quali corrispondono tre gradi di intensità della situazione giuridica che il richiedente deve dimostrare di tutelare con la richiesta di accesso. Se la richiesta si indirizza verso dati c.d. super sensibili (stato di salute e vita sessuale), la situazione giuridica sottesa deve essere almeno di rango pari ai diritti dell’interessato; con riferimento, invece, ai dati sensibili (idonei a rilevare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche, le opinioni politiche o l’appartenenza a organizzazioni o associazioni), l’accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile per curare o difendere i propri interessi giuridici e, da ultimo, per i dati comuni l’accesso è permesso qualora la conoscenza sia necessaria per la difesa dei propri interessi (13). Con la nuova normativa, per (13) zErMAn, la trasparenza della Pa tra accesso e privacy nella recente giurisprudenza del Consiglio di stato, in www.giustizia-amministrativa.it, 2005. Proprio con riferimento al diritto di difesa per la tutela del quale è ammesso il diritto di accesso, è stato ampiamente dibattuto se con il concetto di diritto di difesa si dovesse intendere la difesa in un procedimento già pendente ovvero il diritto di precostituire la prova allo scopo di utilizzarla in un futuro ed eventuale procedimento. La giurisprudenza sul punto non è sempre stata concorde: se il TAr Trentino Alto Adige, con la sentenza 399/2007, ha sostenuto la prima tesi analizzata, il TAr Puglia Lecce, con la sen ConTEnzIoSo nAzIonALE tanto, non è più sufficiente un generico interesse conoscitivo, ma un quid pluris: la situazione antigiuridica paventata deve essere in atto o quanto meno ragionevolmente prevedibile ed, inoltre, è necessaria la sussistenza di un nesso di pertinenza fra documento e tutela dell’interesse. Dunque, occorre una necessità e non una mera utilità per consentire l’accesso (14). nel prosieguo si vedrà come la giurisprudenza ha calibrato il diritto di accesso alla tutela della riservatezza nelle singole fattispecie ed i risvolti nel caso oggetto dell’attenzione del presente elaborato. Il lavoro di bilanciamento appare complesso e difficoltoso, in quanto, pur facendo salve le disposizioni del Codice della Privacy, la P.A. deve, comunque, tutelare un altro principio centrale: il “diritto all’autodeterminazione informativa” (15). L’accesso riguarda esclusivamente il documento amministrativo così come definito dall’art. 22: “ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale”. Il Legislatore ha optato per una definizione generale, senza prodursi in un’elencazione tassativa e puntuale degli atti accessibili. Ad ogni modo si tratta di atti interni alla Pubblica Amministrazione o comunque utilizzati ai fini del- l’attività amministrativa, così come, atti di un procedimento in fase di elaborazione, non necessariamente provenienti dall’Amministrazione, purché intervenuti nel procedimento amministrativo. Sul punto, però, è la giurisprudenza che ha concretamente stabilito dei tenza n. 3015/2007, ha optato per la seconda tesi individuata. La dottrina, con un’interpretazione pienamente condivisibile, ha sostenuto che se il giudizio fosse stato pendente, avrebbero trovato applicazione le disposizioni contenute all’art. 47 del Codice della Privacy concernente il trattamento di dati sensibili per ragioni di giustizia, mentre quando il diritto di accesso è svincolato da esigenze difensive in senso stretto si applica l’art. 22 della L. 241/1990 (VILLECCo A., il diritto di difesa tra accesso ai documenti con dati ultrasensibili e tutela del diritto alla riservatezza, in Famiglia e Diritto, 2008, nn. 8-9, pag. 829). In quest’ottica altra parte della dottrina, seguendo la giurisprudenza amministrativa (Cons. di Stato, sez. VI, 9 gennaio 2004, n. 14), si è spinta fino a dire che il diritto di accesso è autonomo, non dipendente dalla sorte del processo principale e dalla stessa possibilità di istallazione del medesimo. Si potrebbe, addirittura ritenere che l’accesso debba essere consentito anche ad un atto amministrativo inoppugnabile, se vi è un interesse personale, concreto, attuale e serio dell’istante (TAr Lazio, sentenza n. 1968/1998). Autonomia e indipendenza del diritto di accesso agli atti rispetto al diritto di agire in giudizio non significa che il titolare acquisti un nuovo ed autonomo potere perché rimane pur sempre un diritto per sua natura strumentale, in quanto funzionale al soddisfacimento di un interesse ad esso sotteso (PozzAnI P., il diritto di accesso tra riforma ed applicazione giurisprudenziale: una nuova dinamica tra interesse e diritto, cit., pag. 4281). Tutto questo per impedire che l’attività della P.A. diventi molto più lenta e molto meno efficiente. (14) PozzAnI P., il diritto di accesso tra riforma ed applicazione giurisprudenziale: una nuova dinamica tra interesse e diritto, cit., pag. 4281. (15) PozzAnI P., il diritto di accesso tra riforma ed applicazione giurisprudenziale: una nuova dinamica tra interesse e diritto, cit., pag. 4281. rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 limiti invalicabili che saranno oggetto delle due sentenze del TAr Emilia romagna oggi in esame: l’accesso deve essere utilizzato per documenti già preesistenti e non allo scopo di promuovere la costituzione di nuovi documenti contenenti informazioni richieste od ottenere informazioni sullo stato di un procedimento ovvero il nome di un responsabile (16). L’art. 2 co. 2 del D.P.r. n. 184/2006 individua quale regola generale che “la Pubblica amministrazione non è tenuta ad elaborare dati in suo possesso al fine di soddisfare le richieste di accesso” e, in definitiva, l’accesso può riguardare esclusivamente documenti preesistenti e sufficientemente individuati. Questo riferimento normativo è volto a tutelare i principi di efficienza dell’attività amministrativa che, però, incontrano un limite nella “leale cooperazione istituzionale”, in forza della quale una ragionevole attività di elaborazione non può essere rifiutabile (17). Va aggiunto, pur essendo intuitivo, che l’accesso è consentito ed è esercitabile fino a quando la P.A. ha l’obbligo di detenere i documenti amministrativi dei quali si chiede l’accesso. 4. il contrasto giurisprudenziale. La normativa in materia di diritto di accesso, in assenza della nuova per la ricerca dei beni da pignorare, spingeva i Consiglieri di Palazzo Spada a confermare la sentenza del TAr adito che consentiva l’accesso all’Anagrafe Tributaria. Vanno ripercorsi alcuni dei passaggi argomentativi della sentenza n. 2472/2014 della sez. IV del Consiglio di Stato - presa a modello fra le tante sul tema -per individuare e risolvere i conflitti con la normativa introdotta con il D.L. n. 132/2014: è sussistente “uno stretto nesso di pertinenza tra il documento e la tutela dell’interesse, in quanto i documenti fiscali del coniuge risultavano oggettivamente utili al perseguimento del fine di tutela” e l’accesso alla documentazione fiscale, reddituale e patrimoniale del coniuge è al fine di difendere il proprio interesse giuridico, attuale e concreto, la cui necessità di tutela è reale ed effettiva e non semplicemente ipotizzata. Si aggiunge, altresì, che “con la modifica della l. n. 241/1990, operata dalla l. n. 15/2005, è stata codificata la prevalenza del diritto di accesso agli atti amministrativi e considerato recessivo l’interesse alla riservatezza dei terzi, quando l’accesso sia esercitato prospettando l’esigenza della difesa di un interesse giuridicamente rilevante”. ovviamente, “l’istanza di accesso deve essere motivata in modo ben più rigoroso rispetto alla richiesta di documenti che attengono al richiedente: in particolare, si è osservato che, fuori dalle ipotesi di connessione evidente tra (16) Cons. di Stato, sez. VI, 27 maggio 2003, n. 2938. (17) PozzAnI P., il diritto di accesso tra riforma ed applicazione giurisprudenziale: una nuova dinamica tra interesse e diritto, cit., pag. 4281. ConTEnzIoSo nAzIonALE diritto all’accesso ad una certa documentazione ed esercizio proficuo del diritto di difesa, incombe sul richiedente l’accesso dimostrare la specifica connessione con gli atti di cui ipotizza la rilevanza a fini difensivi e ciò anche ricorrendo all’allegazione di elementi induttivi, ma testualmente espressi, univocamente connessi alla conoscenza necessaria alla linea difensiva e logicamente intellegibili in termini di consequenzialità rispetto alle deduzione difensive esplicabili” (18). Se questo veniva detto in via di principio, “nel caso di specie la cura e la tutela degli interessi economici e la serenità dell’assetto familiare, soprattutto nei riguardi dei figli minori delle parti in causa, prevale o quantomeno deve essere contemperata con il diritto di riservatezza previsto dalla normativa vigente in materia di accesso a tali documenti sensibili del coniuge. Va considerato dirimente, al riguardo, il fatto che nella specie la richiesta di accesso sia provenuta dal marito della controinteressata e non da un quisque de po- pulo e che l’interesse dello stesso, attuale e concreto, alla cura dei propri interessi in giudizio si presentasse sicuramente qualificato”. Di questo primo orientamento appare certamente condivisibile che, nel- l’ottica del bilanciamento fra il diritto di difesa da una parte e il diritto di riservatezza dall’altra, possa darsi prevalenza al primo nell’intento di salvaguardare la serenità familiare e la solidità patrimoniale delle parti in causa, anche perché, come correttamente evidenziato dai giudici di Palazzo Spada, la richiesta di accesso, pur non pervenendo dal diretto interessato, proveniva da un membro della famiglia che, in via di principio, conosceva il patrimonio di tutti i membri della stessa. non va taciuto che, sì, il Consiglio di Stato ammetteva l’accesso, ma nella sola forma della visione dei documenti senza possibilità di estrarre copia, poiché il regolamento del Ministero delle Finanze, stabiliva che la documentazione finanziaria, economica, patrimoniale e tecnica di persone fisiche e giuridiche, gruppi, imprese e associazioni è sottratta all’accesso, fatte salve le richieste del titolare dell’interesse in via di principio generale, ferma restando la visione degli atti dei procedimenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per la cura e la difesa degli interessi giuridicamente rilevanti proprio di coloro che ne fanno motivata richiesta. La pronuncia del Consiglio di Stato si inserisce in un contesto giuridico in cui, già da tempo, la giustizia amministrativa aveva affermato che il diritto di ottenere l’ablazione del vincolo matrimoniale per effetto di un’azione di nullità o di divorzio è da considerare un diritto della personalità come anche il diritto a chiedere la separazione ogni qual volta si concreti una situazione tale da rendere oggettivamente intollerabile la prosecuzione della convivenza. (18) Cons. di Stato, sez. VI, 15 marzo 2013, n. 1568. rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 Un tempo, il favor matrimonii e il preminente calore dell’unità familiare avrebbe potuto contrastare tale conclusione, ma l’evoluzione del costume sociale e della stessa legislazione fa emergere anche all’interno della coppia coniugale i valori della personalità di ciascun coniuge dando decisivo rilievo alla tutela di ciascuno di essi e ai rispettivi spazi di libertà (19). Tale sentenza interveniva, però, in un momento antecedente all’introduzione della normativa in esame, che, senza possibili dubbi interpretativi, estende la procedura autorizzativa anche ai processi in materia di famiglia, in quanto l’aspetto economico patrimoniale è l’ambito più conflittuale e poiché si vogliono tutelare anche gli interessi dei figli minori destinatari e beneficiari dell’assegno di mantenimento. Il TAr Emilia-romagna, richiamando e dando vigore alla normativa sull’accesso così come qualificabile ante 2014, precisa che “il diritto di accesso debba comunque prevalere sull’esigenza di riservatezza di terzi, quando viene esercitato per consentire la cura o la difesa processuale di interessi giuridicamente protetti e quando esso concerne, come nella specie, documenti amministrativi indispensabili a tali fini, la cui esigenza non può essere altrimenti soddisfatta”. Eppure il quadro normativo e giurisprudenziale è mutato dalle modificazioni apportate al Codice di Procedura Civile dal D.L. n. 132/2014 convertito con la L. n. 162/2014 e non può ritenersi che quest’ultima normativa abbia esclusivamente ampliato i poteri istruttori del giudice della cognizione, avendo una successiva modifica permesso l’accesso diretto all’interessato, senza il tramite dell’Ufficiale Giudiziario. Il TAr evidenzia, correttamente, che “la scelta di subordinare la possibilità di ricerca telematica da parte dei soggetti direttamente interessati in tali nuove controversie alla previa autorizzazione del Presidente del tribunale risulta, oltre che del tutto coerente con quanto originariamente previsto per il procedimento di pignoramento, anche del tutto ragionevole, tenuto conto, da un lato dell’indiscussa autorevolezza, imparzialità e cognizione di causa del- l’organo autorizzante e, dall’altro lato, della particolare importanza e delicatezza delle controversie in dette materie (e, in particolare, di quelle in materia di famiglia) che impongono una più attenta tutela di tutte le posizioni in esse coinvolte; esigenza, questa, che mal si concilierebbe con la possibilità di utilizzo indiscriminato delle banche dati telematiche da parte dei contendenti della lite sottostante”. È solo con questa recentissima normativa che il legislatore ha dato concreta ed equilibrata attuazione a detta esigenza di contemperamento tra accesso e riservatezza, che con la normativa sull’accesso e con il Codice della Privacy poteva qualificarsi come mero principio informatore. (19) VILLECCo A., il diritto di difesa tra accesso ai documenti con dati ultrasensibili e tutela del diritto alla riservatezza, cit., pag. 829. ConTEnzIoSo nAzIonALE A parere di chi scrive, non si può non evidenziare che la procedura per il rilascio dell’autorizzazione, nella prassi, viene evasa in tempi ragionevoli e non eccessivamente lunghi ed è economicamente accessibile (20), certamente non paragonabile alle tempistiche ed ai costi di una causa civile. Appare, quindi, irragionevole ed incomprensibile l’attivazione di un giudizio amministrativo sicuramente meno conveniente sotto il profilo temporale e sotto il profilo economico. oltre al dato letterale della nuova normativa, che impedisce a chiare lettere la possibilità di applicare il diritto di accesso così come previsto dall’art. 22, vi è un altro ed ulteriore elemento che impedisce l’accesso diretto: il concetto di documento ai sensi della L. n. 241/1990. La giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di chiarire che solo i documenti preesistenti e specificatamente individuati possono essere oggetto di accesso, ma fino a che punto le informazioni contenute all’Anagrafe Tributaria fungono da vero e proprio documento amministrativo preesistente? non a caso viene utilizzato il termine “informazione”, poiché le informazioni non hanno la consistenza di un documento, presupponendo un’attività di analisi ed elaborazione di dati e nozioni, non integranti quel “documento amministrativo” che solo costituisce l’oggetto del diritto di accesso ex L. n. 241/1990. In tal senso, come già anticipato, si è espressa nel tempo la giurisprudenza di merito e di legittimità, chiarendo che “il diritto di accesso si esercita con riferimento ai documenti amministrativi materialmente esistenti al momento della richiesta e detenuti alla stessa data da una Pubblica amministrazione. […] la Pubblica amministrazione non è tenuta ad elaborare dati in suo possesso al fine di soddisfare le richieste di accesso” (21). Per evadere la richiesta del coniuge è necessario un vero e proprio fa- cere dell’operatore amministrativo: l’analisi dei rapporti, l’individuazione di quelli utili all’istanza dell’interessato e la conseguente produzione di un documento ad hoc. Da ciò si desume che il funzionario compie una vera e propria attività di selezione delle informazioni, la conseguente estrapolazione e rielaborazione delle nozioni utili al richiedente e l’inserimento delle stesse in un documento apposito, nuovo ed autonomo. A maggior ragione non si tratta di facere meramente strumentale, quale l’estrarre, il fotocopiare ed il mettere a disposizione del richiedente i documenti, essendo, piuttosto, un’attività valutativa e ricostruttiva di un documento nuovo, quindi, fuori dai limiti oggettivi posti dalla 241/1990 e richiamati a più riprese dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (22). (20) Per l’istallazione del giudizio è richiesta esclusivamente una marca da bollo di € 43,00, alla quale dovranno aggiungersi le spese legali. (21) TAr Campania napoli, sez. VI, 8 marzo 2016, n. 1231. (22) Cons. di Stato, sez. VI, 25 settembre 2006, n. 5636. rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 5. Conclusioni. Per concludere, lasciando il passo alle parole, più pregnanti e già ampiamente indagate, delle sentenze del TAr Emilia-romagna che si consiglia di leggere, appare doveroso evidenziare come il Tribunale Amministrativo emi- liano-romagnolo si sia fatto portatore dell’interpretazione della nuova normativa, chiara, precisa e non trascurabile. Ad avviso di chi scrive, questa nuova interpretazione giurisprudenziale non entra drasticamente in conflitto con la L. n. 241/1990 in materia di accesso né con i precedenti orientamenti giurisprudenziali, poiché da sempre intento del legislatore e dei giudici è stato quello di garantire il diritto di accesso nel rispetto dei presupposti e dei requisiti tassativamente prescritti dalla legge. In questo senso, infatti, il diritto di accesso, quale espressione del più generale principio di trasparenza al quale deve tendere la P.A., è stato consentito esclusivamente ai portatori di un interesse personale, concreto ed attuale, anche al fine di non incidere negativamente su un altro assioma per l’attività amministrativa: il buon andamento, escludendo, quindi il cd. accesso generalizzato che avrebbe rallentato l’operare dei funzionari pubblici. Così come, sempre nell’ottica di tutela dei principi costituzionali sanciti all’art. 97 Cost., l’accesso è stato consentito esclusivamente ai documenti preesistenti e formalizzati, escludendo tutte quelle attività volte alla produzione di un documento ad hoc. Da ultimo, poi, con l’introduzione del Codice Privacy, è stato necessario intraprendere un difficile gioco di bilanciamento fra interessi: seppur la giurisprudenza ha unanimemente ritenuto prevalente il diritto di difesa a quello di riservatezza del controinteressato che poteva sentirsi leso dall’accesso al provvedimento che lo riguardava, è sempre stata necessaria un’analisi ed una valutazione ponderata caso per caso. non può parlarsi di vera e propria collisione fra la nuova normativa in materia di ricerca dei beni da pignorare e quella sul diritto di accesso, poiché, in questo caso, il bilanciamento di interessi è stato posto in essere, in via preliminare, dal legislatore, il quale ha ritenuto di dover dar prevalenza al diritto di riservatezza ed anzi ha permesso l’accesso, seppur mediato all’intervento del Presidente del Tribunale, ad una documentazione che non aveva tutti i canoni richiesti dall’art. 22 della L. n. 241/1990 -essendo stata qualificata come informazione - arrivando, quindi, ad ampliare il novero dei dati accessibili. A maggior ragione, la normativa tributaria, confermata dalla giurisprudenza amministrativa, ammetteva il diritto di accesso, ma impedendo la possibilità di estrarre copia, quindi limitando, fin dall’origine, il diritto di accesso all’Anagrafe Tributaria, salvaguardando il diritto alla riservatezza da possibili pregiudizi che la copia o la trascrizione avrebbero potuto cagionare (23). Con la nuova normativa l’accesso non è stato limitato, ma anzi è stato notevolmente ampliato, quantomeno nella sostanza. ConTEnzIoSo nAzIonALE non si può neanche trascurare che, come evidenziato in precedenza, la procedura di rilascio dell’autorizzazione da parte del Presidente del Tribunale non richiede tempistiche lunghe e, anzi, probabilmente molto più celeri di un eventuale ricorso innanzi al TAr, che, tra l’altro, porta sempre con sé elevato rischio di insuccesso. non resta che monitorare le tempistiche e la diffusione dell’applicazione degli artt. 492 bis c.p.c. - 155 quinquies e sexies disp. att. c.p.c. ed attendere eventuali e successive pronunce giurisprudenziali per poter comprendere a pieno la portata del cambiamento. tribunale Amministrativo Regionale per la emilia Romagna, Sez. I, sentenza 2 febbraio 2017 n. 64 -Pres. Di nunzio, est. Giovannini -omissis (avv. D. Abram) c. Agenzia delle Entrate - Direzione regionale dell’Emilia romagna (avv. St. L. Paolucci). FATTo e DIrITTo riferisce l’odierno ricorrente di avere a suo tempo proposto ricorso dinanzi al Tribunale civile di Bologna al fine di ottenere sentenza dichiarativa della separazione personale dalla moglie. Al fine di tutelare i propri diritti e interessi nei confronti della consorte, costituitasi in quel giudizio chiedendo al Tribunale di porre a carico del marito un assegno di mantenimento per sé e per i due figli, ricorrente, ritenendo oltremodo eccessivo l’importo di detto assegno, chiedeva all’Agenzia delle Entrate di potere accedere ai documenti fiscali della moglie e del figlio maggiorenne, e, in particolare, oltre alle dichiarazioni dei redditi presentate recentemente dai medesimi, anche alle “… comunicazioni inviate da tutti gli operatori finanziari dell’Anagrafe tributaria -sezione Archivio dei rapporti finanziari -relative ai rapporti continuativi, alle operazioni di natura finanziaria ed ai rapporti di qualsiasi genere…” riconducibili alla moglie. Con l’atto introduttivo del presente giudizio, il ricorrente ha chiesto pronuncia dichiarativa dell’illegittimità del silenzio serbato dall’Agenzia delle Entrate riguardo alla predetta istanza di accesso. In seguito -sopraggiunto il parziale diniego espresso di accesso da parte dell’Agenzia delle Entrate, Direzione regionale dell’Emilia-romagna, mediante il quale si negava unicamente l’ostensione delle comunicazioni e dei dati relativi ai rapporti finanziari del coniuge contenuti nella Sezione Archivio dei rapporti finanziari dell’Anagrafe Tributaria -il ricorrente presentava motivi aggiunti, con essi contestualmente chiedendo pronuncia dichiarativa sia dell’illegittimità del diniego parziale di accesso sia del proprio diritto ad accedere anche di tali atti. Tale pretesa è basata su motivi in diritto rilevanti: violazione degli artt. 22, 24 e 25 L. n. 241 del 1990; dell’art. 5 del D.M. n. 603 del 1996; violazione del principio di trasparenza dell’azione amministrativa; eccesso di potere per carenza di istruttoria, manifesta illogicità, travisamento dei fatti e contraddittorietà. Si è costituita in giudizio Agenzia delle Entrate - Direzione regionale per l’Emilia-romagna -chiedendo la reiezione di ambedue i ricorsi, in quanto infondati, ritenendo non esistente, nel (23) PozzAnI P., il diritto di accesso tra riforma ed applicazione giurisprudenziale: una nuova dinamica tra interesse e diritto, cit., pag. 4281. rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 caso in esame, alcun diritto di accesso del richiedente in relazione ai dati contenuti nell’Archivio dei rapporti Finanziari dell’Anagrafe Tributaria. Alla camera di consiglio del giorno 23 novembre 2016, la causa è stata chiamata ed è stata quindi trattenuta per la decisione come indicato nel verbale. Il Collegio osserva, in via preliminare, che il ricorso principale deve essere dichiarato improcedibile per sopravenuta carenza di interesse, essendo venuta meno, nelle more dell’azione, l’inerzia dell’Agenzia delle Entrate Direzione regionale dell’Emilia romagna, avendo essa adottato la nota in data 12/9/2016, con la quale, in riscontro all’istanza di accesso presentata dal ricorrente in data 22/6/2016, ha rifiutato l’ostensione di solo parte della documentazione richiesta, concernente i dati e i documenti relativi ai rapporti finanziari della moglie del richiedente contenuti nell’Archivio dei rapporti finanziari dell’Anagrafe Tributaria. Pertanto, sempre in via preliminare, anche il ricorso per motivi aggiunti deve essere dichiarato in parte qua improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, avendo l’Agenzia delle Entrate accondisceso all’ostensione di tutti i restanti dati e documenti fiscali in possesso della stessa riguardanti la moglie e il figlio maggiorenne del ricorrente. resta, quindi, da decidere unicamente la questione relativa all’ostensibilità o meno dei suddetti dati e documenti relativi ai rapporti finanziari della moglie del richiedente contenuti nella Sezione Archivio dei rapporti finanziari dell’Anagrafe Tributaria. L’Agenzia delle Entrate ha motivato il diniego opposto al ricorrente sul presupposto che, avendo l’art. 155 sexies disp. att. del codice di procedura civile esteso le disposizioni in materia di ricerca con modalità telematiche dei beni da pignorare anche ai procedimenti in materia di diritto di famiglia, per effetto di tale richiamo “…l’accesso alle informazioni contenute nell’Archivio dei rapporti finanziari deve ritenersi possibile esclusivamente in presenza di preventiva ed apposita autorizzazione rilasciata dal- l’Autorità giudiziaria…” e, nello specifico dal Presidente del tribunale presso cui pende la causa di separazione personale. Di contrario avviso è l’odierno ricorrente, il quale, fondando il proprio ragionamento sul presupposto che il diritto di accesso debba comunque prevalere sull’esigenza di riservatezza di terzi quando viene esercitato per consentire la cura o la difesa processuale di interessi giuridicamente protetti e quando esso concerne, come nella specie, documenti amministrativi indispensabili a tali fini, la cui esigenza non può essere altrimenti soddisfatta, perviene alla conclusione circa la piena accessibilità ai suddetti documenti. Tale prevalenza del diritto di accesso deve essere riconosciuta anche nelle controversie in materia di famiglia e, nello specifico, nella causa di separazione fra i coniugi sottostante l’istanza di accesso, sussistendo tutti i presupposti di legge e sussistendo altresì, tutti gli elementi che sono stati individuati dalla giurisprudenza per consentire all’interessato di dimostrare la capacità economica e patrimoniale del coniuge o del convivente more uxorio, mediante l’accesso alle comunicazioni contenute nel suddetto Archivio informatico dei rapporti finanziari. Secondo la tesi del ricorrente non costituisce ostacolo all’ostensione di tali dati quanto dispone l’art. 24 L. n. 241 del 1990, posto che, in riferimento alle limitazioni del diritto all’accesso contenute nella suddetta norma, il Consiglio di Stato ha autorevolmente stabilito che “…la cura e la tutela degli interessi economici e della serenità dell’assetto familiare soprattutto nei riguardi dei figli minori delle parti in causa prevale o quantomeno deve essere contemperata con il diritto alla riservatezza previsto dalla normativa vigente in materia di accesso a tali documenti sensibili del coniuge..” (Cons. Stato sez. IV, 2014 n. 2472). Secondo l’instante, detta decisione stabilisce l’oggettiva prevalenza, in ogni caso, del diritto di accesso del coniuge ai dati e alle informazioni relativi ai rapporti finanziari dell’altro coniuge contenuti nell’Archivio dei rapporti finanziari, rispetto alla riservatezza dei dati personali in detta banca dati contenuti. ConTEnzIoSo nAzIonALE né la difesa del ricorrente è dell’avviso che tale quadro normativo e giurisprudenziale sia mutato a seguito delle modificazioni apportate al codice di procedura civile dal D.L. n. 132 del 2014 convertito dalla L. n. 162 del 2014, specie con riferimento all’introduzione degli artt. 492 bis e 155 sexies, in quanto tali nuove norme a suo dire dispongono unicamente “…un ampliamento dei poteri istruttori del giudice della cognizione già previsti dal codice di procedura civile…” (v. ric. aggiuntivo pag. 9), senza porre alcuna limitazione al diritto di accesso. Il Collegio ritiene non persuasive le argomentazioni esposte dal ricorrente, risultando invece del tutto condivisibile la tesi difensiva dell’amministrazione resistente, propugnata dall’Avvocatura erariale. Le norme che in questa sede interessano e rilevano recitano rispettivamente: -art. 492 bis c.p.c. “su istanza del creditore, il presidente del tribunale del luogo in cui il debitore ha la residenza, il domicilio la dimora o la sede, verificato il diritto della parte istante a procedere ad esecuzione forzata, autorizza la ricerca con modalità telematiche dei beni da pignorare…”. -art. 155 sexies disp. att. c.p.c. “le disposizioni in materia di ricerca con modalità telematiche dei beni da pignorare si applicano anche per l’esecuzione del sequestro conservativo e per la ricostruzione dell’attivo e del passivo nell’ambito di procedure concorsuali di procedimenti in materia di famiglia e di quelli relativi alla gestione di patrimoni altrui”. Il Collegio ritiene che dalla lettera e dalla ratio delle riportate nuove disposizioni del codice di procedura civile si evinca chiaramente che: a) l’ampliamento ad ulteriori controversie - in materie particolarmente rilevanti e delicate quali sono certamente le procedure fallimentari o comunque concorsuali, i rapporti familiari e la gestione di patrimoni altrui - della possibilità di effettuare ricerche con modalità telematiche, è finalizzata ad ampliare i poteri istruttori del giudice ordinario anche riguardo a tali nuove controversie; b) l’accesso ai dati ricavabili da ricerche effettuate con modalità telematiche (tra le quali è inclusa certamente anche la ricerca telematica da effettuarsi presso il Settore Archivio dei rapporti finanziari dell’Anagrafe tributaria), da parte dei contendenti della controversia civile sottostante, necessita di previa autorizzazione del Presidente del Tribunale; ciò sia nell’ipotesi originaria di pendenza di un procedimento esecutivo di pignoramento, sia in riferimento alle nuove cause (tra le quali vi sono quelle in materia di famiglia) certe destinatarie dell’ampliamento dei poteri istruttori del giudice ordinario voluto dal legislatore; c) la scelta di subordinare la possibilità di ricerca telematica da parte dei soggetti direttamente interessati in tali nuove controversie, alla previa autorizzazione del Presidente del Tribunale risulta, oltre che del tutto coerente con quanto originariamente previsto per il procedimento di pignoramento, anche del tutto ragionevole, tenuto conto, da un lato dell’indiscussa autorevolezza, imparzialità e cognizione di causa dell’organo autorizzante e, dall’altro lato, della particolare importanza e delicatezza delle controversie in dette materie (e, in particolare, di quelle in materia di famiglia) che impongono una più attenta tutela di tutte le posizioni in esse coinvolte; esigenza, questa, che mal si concilierebbe con la possibilità di utilizzo indiscriminato delle suddette banche dati telematiche da parte dei contendenti della lite sottostante; d) quale ulteriore conseguenza delle precedenti considerazioni deriva che, stante l’accertata necessità di previa autorizzazione delle suddette ricerche con modalità telematica nell’ambito del processo civile pendente relativamente ad una delle riferite tipologie di controversie, tale autorizzazione deve necessariamente essere richiesta anche nel caso in cui gli stessi diretti interessati intendano agire esternamente alla causa civile che li vede coinvolti, avvalendosi dell’istituto dell’accesso di cui agli artt. 22 e ss L. n. 241 del 2000 ed eventualmente dell’azione ex art. 116 cod. proc. amm. per ottenere l’ostensione di docu rASSEGnA AVVoCATUrA DELLo STATo - n. 2/2017 menti contenuti in una banca dati telematica. Diversamente opinando, infatti, si perverrebbe all’illogica conclusione (certamente non voluta dal legislatore) che la nuova disciplina auto- rizzatoria della ricerca con modalità telematiche sia, di fatto, inutiliter data, in concreto ben potendo le parti in causa in quelle controversie, aggirare l’ostacolo dell’autorizzazione presentando direttamente (come è avvenuto nella specie) istanza di accesso alla competente Agenzia delle Entrate. oltre a ciò, il Collegio ritiene che le considerazioni svolte dal ricorrente neppure possano essere condivise laddove esse citano - asseritamente in favore della propria tesi - la sentenza della quarta sezione del Consiglio di Stato 14/5/2014 n. 2472. In disparte la considerazione, pur non irrilevante, che la suddetta decisione non tratta e quindi non applica, evidentemente ratione temporis (il ricorso in primo grado è stato presentato al T.A.r. Lazio nel 2013) la nuova normativa del codice di procedura civile, il Collegio osserva, in riferimento al passo della sentenza già riportato in narrativa, che i giudici di Palazzo Spada non affermano che il diritto di accesso delle parti in causa nelle cause di separazione e/o di divorzio debba sempre e comunque prevalere sul contrapposto diritto alla riservatezza del coniuge riguardo alla divulgazione di tali documenti “sensibili” contenuti nella Sezione Archivio dei rapporti finanziari dell’Anagrafe Tributaria. Il Consiglio di Stato sostiene, invece, che vi siano anche casi nei quali la tutela dei diritti del soggetto richiedente l’accesso debba “…essere contemperata con il diritto alla riservatezza previsto dalla normativa vigente in materia di accesso a tali documenti “sensibili” del coniuge”. ritiene conclusivamente il Collegio che proprio mediante la nuova normativa introdotta nel codice di procedura civile, il legislatore abbia dato concreta ed equilibrata attuazione a detta esigenza di contemperamento tra accesso e riservatezza, indicata dal Consiglio di Stato nella citata decisione, ma da ritenersi già presente, quale principio informatore, sia nella disciplina dell’accesso contenuta nella L. n. 241 del 1990 sia nel D. Lgs. n. 196 del 2003 (c.d. “Codice della privacy”). Per le suesposte ragioni il ricorso per motivi aggiunti è in parte respinto. Sussistono giusti motivi, in relazione alla novità della principale questione esaminata ed alle oscillazioni giurisprudenziali (anche di questo T.A.r.) in materia, per disporre l’integrale compensazione delle spese del giudizio. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo regionale per l'Emilia - romagna (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso principale e sul ricorso per motivi aggiunti, come in epigrafe proposti: A) dichiara improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse il ricorso principale; B) in parte dichiara improcedibile ed in parte respinge il ricorso per motivi aggiunti; C) Spese compensate. ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. (...) Così deciso in Bologna, nella camera di consiglio del giorno 23 novembre 2016. ParerIdelComItatoConsultIvo Interpretazione della normativa sulle preclusioni per la ammissione alla procedura di chiamata dei docenti universitari Parere del 18/11/2015-520461-520462, al 20034/2015, avv. Federico Basilica Il Politecnico di Torino ha chiesto un parere in merito ai procedimenti di chiamata dei docenti universitari, con particolare riguardo alla portata applicativa della norma posta dall'art. 18 della legge n. 240/2010 che -nel disciplinare i requisiti di ammissione alla procedura di chiamata dei professori preclude la partecipazione di coloro che abbiano un grado di parentela o di affinità, fino al quarto grado compreso, con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell'ateneo. Si chiede, in particolare, di chiarire se tale preclusione possa essere estesa anche ai coniugi e ai conviventi, che non sono contemplati dalla norma e che dunque - stando al dato letterale - potrebbero in linea teorica partecipare alla procedura, in quanto per essi la normativa non prevede espressamente una causa di esclusione. L'Università conosce l'indirizzo giurisprudenziale rigoroso espresso dalla Sesta Sezione del Consiglio di Stato con sentenza del 4 marzo 2013, n. 1270, che estende ai coniugi l'incompatibilità, ma ha chiesto all'Avvocatura distrettuale di Torino un approfondimento in ordine alla fondatezza della soluzione contraria che predilige l'interpretazione restrittiva della norma fondata sul dato letterale. Negli stessi termini si è espresso il Ministero, sollecitato ad esprimere il suo avviso data la rilevanza della questione, spiegando di essersi "adeguato all'interpretazione del consiglio di stato, pur non condividendola" e chiedendo a quest'Avvocatura di valutare "la possibilità di sostenere il differente orientamento sopra esposto volto ad escludere il rapporto di coniugio dalle ipotesi di inconipatibilità di cui all'art. 18, comma 1” della legge citata (nota 7 luglio 2015, n. 8071). RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 Si pone dunque un problema di esatta individuazione della portata applicativa della disposizione in esame che non può prescindere dalla preliminare verifica della ratio giustificatrice del divieto, che guarda alla posizione del candidato prima anche che alla posizione di chi potrebbe favorirlo. Infatti, la norma in esame non impone un obbligo di astensione (e correlativamente non consente la ricusazione) del componente dell'organo collegiale o del titolare dell'organo monocratico che in ragione del legame di parentela o affinità versi in situazione di incompatibilità con un candidato, ma piuttosto pone un divieto di partecipazione alla procedura selettiva in capo a quest'ultimo, idonea ad eliminare in radice il sospetto di possibili deviazioni della procedura selettiva dal modello legale, volte a favorire i parenti di professori o amministratori delle università. Quindi si può concludere che il divieto in questione trova fondamento non solo e non tanto nell'esigenza di assicurare il pieno rispetto dei principi di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione (già assicurati dagli obblighi di astensione e ricusazione previsti in via generale dagli artt. 51 e 52 c.p.c. e, per le commissioni di concorso, dall'art. 11 del DPR 9 maggio 1994, n. 487), ma anche e soprattutto nell'esigenza di salvaguardare l'immagine, la reputazione e il decoro delle Università, offuscati in passato da non infrequenti e biasimevoli fenomeni di "nepotismo" o di c.d. "familismo universitario" (come testualmente definiti dal Consiglio di Stato nella citata sentenza 4 marzo 2013, n. 1270). Alla luce di quanto esposto, dunque, è parere di quest'Avvocatura che il divieto di partecipazione sancito dall'art. 18 è principalmente volto ad assicurare che le procedure di chiamata dei professori universitari siano non solo e in concreto imparziali e obbiettive, ma anche e soprattutto che appaiano tali; e, secondo un presunzione legislativa assoluta, tali non possono ritenersi quelle nelle quali certi legami con soggetti che operano all'interno della stessa università possono far sorgere anche solo il sospetto di fenomeni di "nepotismo". Dunque la norma vuole scongiurare non solo un pericolo in concreto di alterazione dell'imparzialità, ma anche un pericolo in astratto. Tanto premesso sembra, anzitutto, difficile contestare la fondatezza delle ragioni che hanno portato il Consiglio di Stato ad affermare che "in disposizione in questione va considerata nel senso che include anche il caso di coniugio come situazione genetica della medesima incompatibilità". Questa incompatibilità discende infatti dal possibile affievolimento del principio di eguaglianza e della conseguente lesione della par condicio tra i candidati, che deriva inevitabilmente dalla familiarità esistente tra giudicato e giudicante. Il criterio della par condicio tra i candidati costituisce una diretta applicazione di alcuni precetti costituzionali, quali il principio di uguaglianza nonché specialmente di quelli del buon andamento e dell'imparzialità della pubblica amministrazione, la quale deve operare le proprie valutazioni senza PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo lasciare alcuno spazio a rischi di condizionamenti esterni. Pertanto, tale criterio assume una valenza generale ed incondizionata e in quanto tale deve essere tutelato, mirando esso ad assicurare la piena trasparenza di ogni pubblica procedura selettiva e costituendone uno dei cardini portanti (come chiarito in molteplici decisioni e da ultimo in modo assai chiaro da: Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sent. 20 novembre 2013, n. 26). È chiaro, quindi, che l'incompatibilità affermata dal Consiglio di Stato nella sentenza del 4 marzo 2013, n. 1270, diretta a tutelare la par condicio tra i candidati, muove dal concetto di "familiarità", che trova certamente la sua massima intensità nei confronti del coniuge, tenuto conto del suo obbligo di coabitazione (ex art. 143 c.c.). D'altra parte sarebbe del tutto irragionevole proclamare l'incompatibilità per gli affini e non per il coniuge, il cui rapporto è il presupposto indispensabile per la stessa affinità (ex art. 78 c.c.: "l'affinità è il vincolo tra un coniuge e i parenti dell'altro coniuge"), "salvo assumere che il biasimevole, ma non infrequente, fenomeno detto del familismo universitario vada addirittura istituzionalizzato". Dunque, si può concludere sul punto che sussiste l'incompatibilità anche in caso di rapporto di coniugio, posto che è su di esso che si fondano i rapporti di affinità previsti dalla norma che, sul punto, dunque “minus dixit quam voluit”. Questa soluzione, peraltro, deve essere necessariamente estesa anche al rapporto di convivenza more uxorio, considerato il recente orientamento giurisprudenziale che cerca sempre di più, alla luce delle modifiche sociali del modello di famiglia oggi esistente, di estendere alla famiglia di fatto la disciplina legislativa dedicata alla famiglia legittima, ovvero a quel modello di famiglia fondato sulla stabilità del vincolo coniugale formalizzato da un atto di matrimonio. Il rapporto di convivenza more uxorio è un'unione tendenzialmente stabile caratterizzata dalla condivisione di scelte e interessi e dalla reciproca collaborazione e assistenza morale e materiale (Cass. Civ. n. 11975 del 8 agosto 2003), al pari del rapporto coniugale, ma non formalizzato legalmente. L'assimilazione tra i due diversi modelli di famiglia è sempre più diffusa in giurisprudenza che nel tempo ha provveduto a riconoscere a tali convivenze more uxorio i diritti conferiti alla sola famiglia fondata sul matrimonio (solo per citare qualche caso, si ricordano: Corte Costituzionale, sent. 372/94, risarcimento del danno da morte del convivente: Corte Costituzionale, sent. 404/88, successione nel contratto di locazione e nel relativo rapporto). Significative appaiono del resto le novità contentute nella seconda parte del 3 comma, art. 199 cod. proc. penale, dove la convivenza more uxorio è stata posta sullo stesso piano della convivenza coniugale, per cui il coniuge o convivente more uxorio, limitatamente ai fatti verificatisi o appresi dall'imputato durante la convivenza, hanno facoltà di astenersi. Ma è fin troppo evidente che il sistema non riconosce ai conviventi solo diritti, poiché dalla situazione di convivenza di fatto discendono anche oneri RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 e appunto incompatibilità. Ne consegue che una diversa posizione in relazione al rapporto di convivenza more uxorio, ovvero a quel rapporto basato sulla stabilità della relazione, condurrebbe inevitabilmente ad una disparità di trattamento, data la familiarità propria della relazione, la stessa su cui si basa l'incompatibilità per rispondere alla chiamata di professore. Pertanto, alla luce di quanto sin qui chiarito, quest'Avvocatura è del parere che non vi siano ragioni per discostarsi dall'interpretazione estensiva della norma perché il rigore che essa esprime, condiviso dal Consiglio di Stato, sia pienamente in linea con le finalità di trasparenza ed imparzialità dell'attività amministrativa che la norma sull'incompatibilità persegue con riferimento all'ambito universitario. La ratio giustificatrice della norma sembra dunque condurre a tale conclusione e perciò si suggerisce di non discostarsi dall'indirizzo finora seguito, suggerendo alle Università italiane, che già perseguono gli indicati obiettivi di imparzialità, chiedendo una dichiarazione ai componenti delle commissioni esaminatrici di non trovarsi nelle situazioni previste dall'art. 51 e 52 cpc. per le quali sussiste un obbligo di astensione, di far dichiarare al candidato che propone la domanda l'insussistenza dei predetti rapporti con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell'ateneo. Su tale parere è stato sentito il Comitato consultivo, che si è espresso in conformità nella seduta del 15 novembre 2015. PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo sulla subappaltabilità dei lavori nelle atI verticali Parere del 09/11/2016-519908, al 38532/2015, avv. ettore Figliolia Con la nota che si riscontra del 7 ottobre 2015 (prot. CDg 0116289) codesto ente chiede di conoscere il parere in linea legale di questa Avvocatura generale in ordine alla interpretazione da riservarsi al pertinente contesto normativo rispetto alla subappaltabilità dei lavori della categoria scorporabile da parte della mandante in caso di ATI verticale. A detta nota hanno fatto seguito, come è noto, taluni chiarimenti che sono stati resi con e-mail in data 10 maggio 2016 su sollecitazione della Scrivente. orbene, premesso che non è stata trasmessa tutta la documentazione afferente al contesto, con particolare riguardo agli atti concernenti la disposta variante, ritiene tuttavia questo g.U. di poter comunque rendere la richiesta consultazione nei termini di cui appresso. Tenuto conto che non sussiste una previsione normativa che disciplini espressamente il profilo circa la sussistenza o meno del limite di subappalta- bilità del 30% in caso di ATI verticale, è formulato il primo quesito che attiene alla possibilità per la mandante di subbappaltare la categoria scorporabile nei limiti del 30%, ovvero totalmente. L’ulteriore questione interpretativa posta alla valutazione in linea di diritto di questa Avvocatura generale concerne la possibilità di ratificare, con apposito atto aggiuntivo, il mutamento dell’assetto interno del raggruppamento per effetto dell’adozione di una variante di progetto, a seguito della quale vi è stato un sopravvenuto mutamento degli importi delle categorie iniziali, con importo della categoria scorporabile og3 notevolmente superiore a quello della categoria prevalente oS12. Con riferimento al primo quesito formulato, osserva questo g.U., in via generale, che la normativa di riferimento è costituita dall’art. 118, comma 2 del Codice Appalti, ai sensi del quale “la stazione appaltante è tenuta ad indicare nel progetto e nel bando di gara le singole prestazioni e, per i lavori, la categoria prevalente con il relativo importo, nonché le ulteriori categorie, relative a tutte le altre lavorazioni previste in progetto, anch’esse con il relativo importo. tutte le prestazioni nonché lavorazioni, a qualsiasi categoria appartengano, sono subappaltabili e affidabili in cottimo. Per i lavori, per quanto riguarda la categoria prevalente, con il regolamento, è definita la parte di quota subappaltabile, in misura eventualmente diversificata a seconda delle categorie medesime, ma in ogni caso non superiore al trenta per cento. Per i servizi e le forniture, tale quota è riferita all’importo complessivo del contratto. (….)”. Alla luce della richiamata disposizione normativa si evince chiaramente che l’unico limite espressamente previsto per il subappalto dei lavori, costituito RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 dal 30% del relativo importo, è quello relativo alla categoria prevalente, mentre, per converso, nessun limite è previsto per le categorie scorporabili. La ratio della fissazione di una percentuale massima di subappaltabilità dei lavori costituenti la categoria prevalente è evidentemente diretta ad evitare che l’affidamento dell’esecuzione dell’opera abbia un valore meramente formale, assicurando invece l’impegno dell’appaltatore ad eseguire i lavori della categoria che connota maggiormente l’intervento commissionato, necessità che invece non si rinviene anche con riferimento ai lavori della categoria scorporabile. Ne discende che, da un lato non sussiste alcun limite al subappalto delle opere generali o specializzate scorporate, subappaltabili al 100%, e dall’altro lato, il subappalto delle opere rientranti nella categoria prevalente o nelle categorie delle strutture, impianti od opere speciali deve rispettare il limite del 30% dell’importo della categoria (art. 170, comma 1 D.P.R. n. 207/2010). Le pronunce dell’AvCP che codesta Amministrazione ha posto a fondamento del diniego all’autorizzazione del subappalto formulato dalla mandante dell’impresa (...) sono state rese sulla scorta della previgente normativa e devono ritenersi oggi definitivamente superate. Invero, a seguito dell’intervenuto annullamento, per accoglimento di specifico ricorso al Capo dello Stato, dell’art. 85, comma 1 lett. b) nn. 2 e 3 del D.P.R. n. 207/2010, norma contestata proprio nella parte in cui prevedeva un limite alla utilizzabilità, ai fini della qualificazione nella categoria scorporabile, dei lavori affidati in subappalto se questo superava il 30% dell’importo della categoria scorporabile a qualificazione non obbligatoria ovvero il 40% nel caso di categoria a qualificazione obbligatoria, l’AvCP è intervenuta con il Comunicato n. 1/2014 al fine di fornire indicazioni interpretative alle SoA per garantire il corretto esercizio dell’attività di qualificazione. L’Autorità, nel predetto comunicato ha stabilito che “ai sensi dell’art. 85, comma 1, lettera b), numeri 2 e 3, in caso di subappalto eccedente le quote del 30 e del 40 per cento -fermo restando quanto previsto dall’art. 37, comma 1 del codice - l’impresa affidataria può utilizzare, ai fini della qualificazione nella singola categoria scorporabile, l’intero importo dei lavori dalla stessa direttamente eseguiti in tale categoria, nonché una quota dei lavori subappaltati (pari ad un massimo del 30 per cento o del 40 per cento) avvalendosene in alternativa per la qualificazione nella categoria prevalente, ovvero ripartita tra categoria prevalente e categoria scorporabile”. Ancora, nel senso di riconoscere la subappaltabilità dei lavori relativi alla categoria scorporabile, con Parere n. 42 del 26 febbraio 2014, l’AvCP ha stabilito che le opere scorporabili inerenti alle categorie di opere generali individuate nell’Allegato A del D.P.R. n. 207/2010 possono essere subappaltate al 100%. orbene, in assenza di un espresso riferimento normativo che regoli l’ipotesi di specie, e, ritenendo in ragione della predetta mancanza la subappalta PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo bilità per l’intero delle categorie di lavorazioni scorporabili, a nulla rilevando che l’aggiudicataria dell’appalto sia una ATI verticale ovvero orizzontale, l’unica deroga a tale principio si rinviene nel disposto normativo di cui all’art. 37, comma 11 del Codice dei contratti pubblici, nel caso cioè di “opere per le quali sono necessari lavori o componenti di notevole contenuto tecnologico o di rilevante complessità tecnica, quali strutture, impianti e opere speciali, e qualora una o più di tali opere superi in valore il quindici per cento dell’importo totale dei lavori”, per le quali è possibile il subappalto con i limiti dettati dall’art. 118, comma 2, terzo periodo e cioè il limite del 30% stabilito per la categoria prevalente. Ciò premesso, questo g.U., preso atto che oramai la perizia di variante è stata approvata con la sottoscrizione di specifico Atto di sottomissione da parte dell’impresa, in coerenza con quelle ragioni di interesse pubblico sottese all’intervento modificativo di che trattasi, e che, ovviamente, pertengono alle esclusive valutazioni di merito alla Stazione appaltante, e che come tali sfuggono alle prerogative della Scrivente, ritiene conseguentemente che l’autorizzazione al subappalto richiesto dall’impresa non possa essere negata a ragione del mutamento della categoria scorporabile in categoria prevalente, in quanto devono rimanere sostanzialmente fermi i pertinenti contenuti dell’offerta che è stata oggetto di aggiudicazione. Invero, al riguardo, non possono certamente che rimettersi agli apprezzamenti di merito tecnico della stazione appaltante, i contenuti della disposta variante, anche rispetto al vigente quadro normativo che, come è noto, interdice modificazioni sostanziali dello stesso oggetto e delle condizioni del rapporto contrattuale d’appalto, vieppiù concluso all’esito di una procedura di evidenza pubblica, per cui, ferme le eventuali diverse determinazioni di codesto ente modificative dell’attuale contesto, non ricorrono, allo stato degli atti, i presupposti per poter negare la richiesta autorizzazione. Per quanto concerne la possibilità di ratificare con apposito atto aggiuntivo il mutamento dell’assetto interno del raggruppamento a seguito dell’adozione della perizia di variante per effetto della quale l’importo delle lavorazioni ricomprese nella categoria og3 - indicata nel bando come scorporabile e su- bappaltabile al 100% - supera l’importo della categoria prevalente oS12, osserva questo g.U., in via generale, che l’art. 118, comma 2, primo periodo del Codice appalti impone alla Stazione appaltante di individuare con precisione ed esattezza negli atti di gara le categorie di cui si compone l’opera, attraverso la indicazione “nel progetto e nel bando di gara le singole prestazioni e, per i lavori, la categoria prevalente con il relativo importo, nonché le ulteriori categorie, relative a tutte le altre lavorazioni previste in progetto, anch’esse con il relativo importo”. La ratio di tale previsione risiede nella circostanza che l’esatta individuazione della categoria prevalente assume una rilevanza fondamentale ri RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 spetto alla natura dell’opera commissionata ed implica una serie di conseguenze sul sistema di qualificazione degli operatori economici, sulle condizioni di partecipazione dei soggetti qualificati ad assumere lavori, sul riparto delle quote di partecipazione delle imprese all’interno delle associazioni temporanee, sulle modalità esecutive delle opere appaltate e sulla quota di lavori affidabili in subappalto. Per tale ragione, e sempre in via generale, un mutamento dell’assetto interno del raggruppamento costituito dalla inversione della categoria prevalente con una categoria scorporabile andrebbe di per sé a porsi in contrasto con le statuizioni anzitutto previste nel bando di gara e nel successivo contratto e, conseguentemente, determinerebbe uno stravolgimento della compagine associativa delle imprese raggruppate ed una alterazione della natura dei lavori oggetto di affidamento. Tale questione è stata anche oggetto di approfondito esame da parte del- l’AvCP che con Parere Ag 4/2013, pronunciandosi su una richiesta di parere in merito alla determinazione delle categorie prevalente e scorporabili dei lavori a seguito di varianti in corso d’opera, ha persuasivamente stabilito che “la stazione appaltante, dovendosi attenere alle condizioni della gara originaria cui il contratto si riferisce, non può operare una diversa classificazione della categoria prevalente e delle categorie scorporabili con i relativi importi rispetto a quella prevista nel bando di gara e negli atti di affidamento dei lavori di cui alle varianti approvate in corso d’esecuzione”. Invero, “diversamente verrebbero alterate le caratteristiche iniziali dell’appalto sia con riferimento alla fase di affidamento che di esecuzione dei lavori”. Nello stesso senso, e parimenti in termini assolutamente persuasivi, si è espressa la stessa Autorità di vigilanza con il Parere Ag 4/2011, nel quale, con riferimento alle modifiche progettuali integranti varianti in corso d’opera, si legge che “le modifiche devono essere tali da non determinare una novazione oggettiva del rapporto contrattuale, quindi non devono variare sensibilmente sia le quantità complessive, sia le categorie delle opere da realizzarsi, mantenendo inalterate le categorie e le classifiche delle lavorazioni; in altri termini, non deve mutare la natura dei lavori posti a base di gara, con la conseguenza che gli stessi, analizzati con i medesimi criteri utilizzati in sede di gara per la definizione degli importi e delle corrispondenti categorie e classifiche soa, non debbono condurre a modifiche rispetto a quanto individuato nel bando a suo tempo pubblicato”. Per quanto testé espresso, devesi ritenere, ancora in via generale, che l’adozione di una variante in corso d’opera non potesse comportare la sostituzione della categoria prevalente, così come indicata nel bando di gara dalla Stazione appaltante, con una delle categorie scorporabili, determinandosi altrimenti una inammissibile modifica delle condizioni di contratto con conseguente stravolgimento dell’opera commissionata. PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo Ciò premesso, stante come testé evidenziato l’intervenuta adozione della perizia di variante nei termini di cui si è riferito con la sottoscrizione del relativo Atto di sottomissione, è opinione di questa Avvocatura generale che non possa negarsi l’autorizzazione al subappalto, laddove, per converso, la possibilità di invertire le componenti dell’ATI sì da determinare mediante “atto aggiuntivo l’inversione della capogruppo mandataria dell’ati in ragione del mutamento degli originari importi di prevalente os12 e scorporabile og3” non sembra effettivamente praticabile alla stregua della vigente normativa che, come è noto, impone la immodificabilità del soggetto offerente e contraente, e, comunque, neppure avrebbe alcuna utilità per effetto del rilascio dell’autorizzazione richiesta. Nei termini suesposti è la richiesta consultazione, restando a disposizione per quant’altro possa occorrere. Sulle questioni trattate nel presente parere è stato sentito il Comitato Consultivo di questa Avvocatura che si è espresso in conformità. RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 Controllo e riscossione del contributo unificato in caso di ricorsi straordinari al Capo dello stato Parere del 14/11/2016-528571, al 19349/2016, avv. carla colelli Quesiti Con la nota che si riscontra il Ministero del lavoro e delle politiche sociali chiede di conoscere il parere della Scrivente su alcuni profili problematici insorti con riferimento ai ricorsi straordinari proposti avverso atti dell’INPS e dell’INAIL, relativamente ai quali -nell’ambito dell’attività di vigilanza svolta sugli enti previdenziali ed assicurativi -il medesimo Ministero cura l’istruttoria ai sensi degli artt. 9 e ss. del D.P.R. 1199/1971. In particolare vengono posti i seguenti quesiti: 1) quale sia il soggetto competente a verificare la regolarità del contributo unificato versato e ad effettuare l’invito al pagamento in caso di omesso versamento dello stesso, con specifico riguardo all’ipotesi di notifica del ricorso direttamente presso il Segretariato generale della Presidenza della Repubblica o l’Avvocatura dello Stato o presso il solo Ministero istruttore; 2) chi debba curare la riscossione coattiva del contributo nel caso in cui l’invito non venga ottemperato. Quadro normativo e problematiche interpretative L’art. 37, comma 6, lettera s), del decreto-legge n. 98/2011 - nel modificare l’art. 13 del D.P.R. 115/2002 (T.U. sulle spese di giustizia) con l’aggiunta del comma 6-bis - ha introdotto l’obbligo del pagamento del contributo unificato in misura fissa pari ad € 600,00 (successivamente aumentata ad € 650,00, dall’art. 1, comma 25, lettera a), n. 3, della legge 24 dicembre 2012, n. 228) per il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. All’introduzione di tale nuovo obbligo non si è accompagnato l’adeguamento alle specificità del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica delle disposizioni del T.U. sulle spese di giustizia che disciplinano la verifica del corretto adempimento dello stesso e, in caso di omesso o insufficiente pagamento, la procedura per la riscossione del contributo unificato. Da ciò la necessità di colmare tale lacuna in via interpretativa, mediante un’applicazione analogica delle pertinenti disposizioni del D.P.R. n. 115/2002. vengono in rilievo, in particolare, le seguenti norme di tale decreto: - art. 3 (Definizioni) “1. ai fini del presente testo unico, se non diversamente ed espressamente indicato: ... f) "ufficio giudiziario" è l'ufficio del magistrato competente secondo le norme di legge e le disposizioni dei codici di procedura penale e civile; PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo g) "ufficio" è l'apparato della pubblica amministrazione strumentale all'ufficio giudiziario, con esclusione in ogni caso dell'ufficio finanziario; ... i) "funzionario addetto all'ufficio" è la persona che svolge la funzione amministrativa secondo l'organizzazione interna;” - art. 14 (obbligo di pagamento) “1. la parte che per prima si costituisce in giudizio, che deposita il ricorso introduttivo, ... è tenuta al pagamento contestuale del contributo unificato”. -art. 15 (Controllo in ordine alla dichiarazione di valore ed al pagamento del contributo unificato) “1. il funzionario verifica l'esistenza della dichiarazione della parte in ordine al valore della causa oggetto della domanda e della ricevuta di versamento; verifica inoltre se l'importo risultante dalla stessa è diverso dal corrispondente scaglione di valore della causa”. - art. 6 (omesso o insufficiente pagamento del contributo unificato) “1. in caso di omesso o insufficiente pagamento del contributo unificato si applicano le disposizioni di cui alla parte vii, titolo vii del presente testo unico e nell'importo iscritto a ruolo sono calcolati gli interessi al saggio legale, decorrenti dal deposito dell'atto cui si collega il pagamento o l'integrazione del contributo”. - art. 247 (Ufficio competente) “1. ai fini delle norme che seguono e di quelle cui si rinvia, l'ufficio incaricato della gestione delle attività connesse alla riscossione è quello presso il magistrato dove è depositato l'atto cui si collega il pagamento o l'integrazione del contributo unificato”. - art. 248 (Invito al pagamento) “1. Nei casi di cui all'articolo 16, entro trenta giorni dal deposito dell'atto cui si collega il pagamento o l'integrazione del contributo, l'ufficio notifica alla parte, ai sensi dell'articolo 137 del codice di procedura civile, l'invito al pagamento dell'importo dovuto, quale risulta dal raffronto tra il valore della causa ed il corrispondente scaglione dell'articolo 13, con espressa avvertenza che si procederà ad iscrizione a ruolo, con addebito degli interessi al saggio legale, in caso di mancato pagamento entro un mese”. - art. 249 (Norme applicabili) “1. alla riscossione del contributo unificato si applicano gli articoli: 208, comma 2, riferito all'articolo 247; 210; 211, comma 2; 213; 214; 215; 216; 219; 220; 222; 223; 224; 225; 226; 227; 228; 230; 231; 234”. - art. 213 (Iscrizione a ruolo) “1. l'ufficio procede all'iscrizione a ruolo scaduto inutilmente il termine per l'adempimento, computato dall'avvenuta notifica dell'invito al pagamento e decorsi i dieci giorni per il deposito della ricevuta di versamento”. RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 - art. 223 (Riscossione mediante ruolo) “1. Per la riscossione mediante ruolo, la formazione e il contenuto dei ruoli, la consegna del ruolo al concessionario, la cartella di pagamento, la notificazione della stessa, le modalità di pagamento delle somme iscritte a ruolo e relativa quietanza, gli interessi di mora e l'imputazione dei pagamenti, si applicano gli articoli 17, comma 1, e 22 del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46, l'articolo 12, commi 1, 2 e 4, gli articoli 24, 25, commi 1, 2 e 3, gli articoli 26, 28 e 29 del decreto del Presidente della repubblica 29 settembre 1973, n. 602; l'articolo 24, del decreto legislativo 13 aprile 1999, n. 112, e gli articoli 30 e 31 del decreto del Presidente della repubblica 29 settembre 1973, n. 602 e successive modificazioni”. essendo le riportate disposizioni espressamente modellate sui ricorsi giurisdizionali, sono insorte, a seguito dell’introduzione dell’obbligo di pagamento del contributo unificato anche per i ricorsi straordinari, una serie di problematiche interpretative generate dalla non immediata applicabilità delle stesse a quest’ultimo, in ragione delle peculiarità che lo caratterizzano sia quanto alla natura che alle modalità di svolgimento. Nello specifico, per quanto rileva ai fini del presente parere, non è risultato agevole individuare, tra i soggetti coinvolti nella procedura del ricorso straordinario, le figure corrispondenti a quelle cui il T.U. demanda gli adempimenti connessi al controllo e alla riscossione del contributo unificato. Nel T.U. il “funzionario” competente a controllare il corretto versamento del contributo unificato e l’ “ufficio” competente a curarne la riscossione, sono individuati nell’ambito dell’ “ufficio giudiziario” cui appartiene il “magistrato” competente a decidere il ricorso. Presso tale “ufficio giudiziario” si svolge ogni fase del relativo procedimento, vale a dire: - il deposito del ricorso; - l’istruttoria del giudizio; - la decisione. Diversamente, nell’ambito del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica - disciplinato dal D.P.R. 1199/71 -, le varie fasi del procedimento si svolgono dinnanzi a soggetti diversi, posto che: -il ricorso, dopo la notifica, deve essere presentato “all’organo che ha emanato l’atto o al Ministero competente” (art. 9, comma 2), al quale ultimo deve comunque essere trasmesso nel caso in cui sia stato presentato presso l’organo che ha emanato l’atto (art. 9, comma 4); -l’istruttoria del ricorso è curata dal Ministero competente (art. 11, comma 1) ovvero, qualora vengano impugnati atti di enti pubblici in materie per le quali manchi uno specifico collegamento con le competenze di un determinato Ministero, dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri (art. 11, comma 4); PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo -completata l’istruttoria, il ricorso viene trasmesso per il parere al Consiglio di Stato, il quale - previa eventuale integrazione dell’istruttoria o rinvio alla Corte costituzionale -si esprime sull’ammissibilità e fondatezza dello stesso (art. 13); -il Ministero competente adotta una proposta di decisione conforme al parere del Consiglio di Stato e la trasmette al Presidente della Repubblica, che adottata la decisione finale con decreto (art. 14). Al fine di rispondere ai quesiti posti alla Scrivente occorre, quindi, stabilire presso quale o quali dei soggetti coinvolti nel descritto procedimento si trovi il “funzionario” e l’“ufficio” competenti ai sensi del DPR 115/2002. Precedenti pareri Sulla questione in esame si è espresso il Ministero dell’economia e delle finanze, che con nota prot. n. 3-14460 del 5 novembre 2012, ha ritenuto che «deve essere il “funzionario” dell’organo che ha emanato l’atto impugnato ovvero del Ministero competente per l’istruttoria a dover verificare la congruità del pagamento del contributo unificato, nonché a procedere nel caso di omesso o insufficiente pagamento alla notifica al debitore dell’invito al pagamento dell’importo dovuto e all’eventuale iscrizione a ruolo, essendo l’assolvimento dell’obbligo tributario contemporaneo alla presentazione del ricorso straordinario agli organi competenti». Tale impostazione è stata ribadita anche dal Consiglio di Stato nell’Adunanza della Prima Sezione del 3 dicembre 2014 e del 10 giugno 2015, che si è espressa con il parere n. 3070/2013, affermando che “gli adempimenti connessi alla verifica della regolarità del contributo e alla sua eventuale riscossione ben possono gravare sull’organo che ha originato l’atto o sul Ministero competente per materia, a seconda che l’originale del ricorso sia stato depositato presso l’uno o presso l’altro”. Ciò in quanto, a differenza di quanto previsto dall’art. 247 del T.U. sulle spese di giustizia - secondo cui “l’ufficio incaricato della gestione delle attività connesse alla riscossione è quello presso il magistrato dove è depositato l’atto cui si collega il pagamento o l’integrazione del contributo unificato” nel caso di ricorso straordinario è da escludersi che i suddetti adempimenti possano essere svolti dalle segreterie delle sezioni consultive, in quanto “nel procedimento del ricorso straordinario non è prevista, né sarebbe possibile alcuna interlocuzione diretta tra il consiglio di stato e il ricorrente”. Ha poi ulteriormente precisato il Consiglio di Stato che: -“nel caso di presentazione del ricorso presso il segretariato generale della Presidenza della repubblica o presso l’avvocatura dello stato, ..., gli adempimenti relativi alla verifica della regolarità del contributo unificato non possono che essere di competenza del Ministero direttamente coinvolto per materia, al quale il ricorso è trasmesso per l’istruttoria”; RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 -“ad analoga conclusione si perviene anche nel caso di impugnazione di provvedimenti emanati da enti non statali, in quanto il contraddittorio nei confronti degli stessi deve comunque essere integrato d’ufficio a cura del Ministero istruttore e referente”. esame dei quesiti Ritiene la Scrivente che la soluzione ai quesiti posti dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali possa essere fornita valorizzando soprattutto gli ultimi passaggi del riportato parere del Consiglio di Stato, che paiono ispirati al condivisibile obiettivo di concentrare gli adempimenti relativi al controllo e alla riscossione del contributo unificato in capo a soggetti appartenenti al- l’Amministrazione statale. Proprio sulla scorta di tale impostazione, ritiene la Scrivente che, non risultando possibile individuare - nell’ambito dei soggetti che intervengono nel procedimento del ricorso straordinario - figure formalmente corrispondenti a quelle cui il T.U. demanda gli adempimenti in discorso, al fine di dare una corretta soluzione a tale problematica sia opportuno seguire un criterio di carattere sostanziale. * * * Come sancito dalla Corte costituzionale in sede di risoluzione di un conflitto di attribuzioni sollevato dalla Regione Siciliana, il contributo unificato ha natura di “entrata tributaria erariale”, come “si desume …, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato dalla normativa che lo disciplina: a) dalla circostanza che esso è stato istituito in forza di legge a fini di semplificazione e in sostituzione di tributi erariali gravanti anch'essi su procedimenti giurisdizionali, quali l'imposta di bollo e la tassa di iscrizione a ruolo, oltre che dei diritti di cancelleria e di chiamata di causa dell'ufficiale giudiziario (art. 9, commi 1 e 2, della legge n. 488 del 1999); b) dalla conseguente applicazione al contributo unificato delle stesse esenzioni previste dalla precedente legislazione per i tributi sostituiti e per l'imposta di registro sui medesimi procedimenti giurisdizionali (comma 8 dello stesso art. 9); c) dalla sua espressa configurazione quale prelievo coattivo volto al finanziamento delle <> (rubrica del citato art. 9); d) dal fatto, infine, che esso, ancorché connesso alla fruizione del servizio giudiziario, è commisurato forfettariamente al valore dei processi (comma 2 dell'art. 9 e tabella 1 allegata alla legge) e non al costo del servizio reso od al valore della prestazione erogata. il contributo ha, pertanto, le caratteristiche essenziali del tributo e cioè la doverosità della prestazione e il collegamento di questa ad una pubblica spesa, quale è quella per il servizio giudiziario (analogamente si sono espresse, quanto alle caratteristiche dei tributi, le sentenze n. 26 del 1982, n. 63 del 1990, n. 2 del 1995, n. 11 del 1995 e n. 37 del 1997), con riferimento ad un presupposto economicamente rilevante” (Corte costituzionale, sentenza n. 73 del 2008). PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo Avverso gli atti del procedimento di riscossione del contributo unificato, ossia gli inviti di pagamento e le cartelle emesse a seguito dell’iscrizione a ruolo, è ammesso ricorso dinnanzi alle Commissioni tributarie (v. Cass. SS.UU. n. 5994/2012 e n. 9840/2011); soggetto passivamente legittimato è (oltre al Concessionario - ora Agente - della riscossione in caso di impugnazione della cartella) l’Amministrazione statale che ha emesso l’invito al pagamento e che risulta concretamente creditrice delle relative somme (1). Le somme versate a titolo di contributo unificato nell’ambito dei procedimenti giurisdizionali affluiscono in specifici capitoli di entrata del bilancio dello Stato destinati a finanziare la giustizia civile, amministrativa e tributaria. In particolare, nel modello di bollettino di pagamento attualmente in uso -approvato con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate del 19 febbraio 2002 -il destinatario del versamento è la “tesoreria prov. di viterbo”. Non consta alla Scrivente che per il versamento del contributo unificato dovuto per il ricorso straordinario sia stata prevista una diversa destinazione; anche tali somme affluiscono, quindi, al bilancio dello Stato. sul primo quesito Tanto detto, pare alla Scrivente che l’opzione interpretativa più coerente con il quadro generale descritto, sia nel senso di identificare il soggetto tenuto all’accertamento dell’avvenuto pagamento del contributo e, in caso di esito negativo del controllo, di attivare la procedura di cui all’art. 248 del t.u. cit. nel Ministero competente per materia, cioè nell’ufficio la cui attività di supporto al procedimento di ricorso straordinario, ex art. 11 del DPR 1199/71, è quella maggiormente assimilabile all’attività delle cancellerie e segreterie rispetto agli organi giurisdizionali (civili ed amministrativi). escluso, infatti, per le ragioni esposte nel citato parere del Consiglio di Stato, che detti adempimenti possano essere posti a carico degli altri soggetti statali coinvolti nella procedura, (vale a dire il medesimo Consiglio di Stato, il Segretariato generale della Presidenza della Repubblica e l’Avvocatura dello Stato), il Ministero istruttore, in quanto organo appartenente all’Amministrazione statale, può a buon diritto essere considerato creditore di somme destinate al bilancio dello Stato, qualità che non potrebbe riconoscersi non solo agli enti non statali -in quanto dotati di una dimensione territoriale -che avessero emanato l’atto impugnato, ma neanche agli enti che, pur agendo su tutto il territorio nazionale -come appunto l’INPS e l’INAIL -, risultano estranei (1) L’art. 11 comma 2 del D.Lgs. n. 546/1992 nel testo in vigore dal 1° gennaio 2016, prevede espressamente che “stanno altresì in giudizio direttamente le cancellerie o segreterie degli uffici giudiziari per il contenzioso in materia di contributo unificato”. RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 all’apparato statale e non possono, quindi, considerarsi, neanche in senso lato, creditori delle somme dovute a titolo di contributo unificato (senza considerare l’anomalia di una previsione che attribuisce ad una delle parti l’attività di controllo e riscossione di un tributo nell’ambito di un giudizio, - il ricorso straordinario al PdR - ormai “giurisdizionalizzato” (2)). Ritiene, quindi, la Scrivente che -a prescindere da dove venga depositato il ricorso straordinario - il compito di verificare il corretto adempimento del- l’obbligo di versare il contributo unificato ed emettere l’invito di pagamento spetti al Ministero competente per materia, che, pertanto, sarà anche il soggetto passivamente legittimato nell’eventuale giudizio che dovesse sorgere dall’opposizione a quest’ultimo davanti alle Commissioni Tributarie. sul secondo quesito Quanto al secondo quesito, nonostante le difficoltà lamentate da molte pubbliche amministrazioni quanto nella gestione della fase di riscossione del contributo, la soluzione corretta pare essere quella proposta dal Ministero dell’economia e delle finanze con la nota sopra citata, secondo cui è lo stesso ufficio che ha emanato l’invito a dover procedere all’iscrizione a ruolo, mediante comunicazione all’Agente della riscossione. Ciò in quanto non sussiste una competenza istituzionale dell’Agenzia delle entrate in tema di C.U., né tantomeno alla sua riscossione coattiva, come affermato dalle risoluzioni dell’Agenzia n. 242/e del 7 settembre 2007 e n. 319/e del 4 ottobre 2002. Dello stesso avviso è, del resto, il Consiglio di Stato, il quale nel citato parere, pur avendo evidenziato le criticità dell’attuale sistema e auspicato un intervento correttivo del legislatore in favore proprio della competenza del- l’Agenzia delle entrate, ha escluso che detta competenza sussista attualmente. In conclusione ritiene la Scrivente che agli adempimenti concernenti la fase di riscossione del contributo unificato devono trovare applicazione le norme generali sulla riscossione del t.u. 115/2002, ai cui adempimenti -in coerenza con quanto esposto in risposta al primo quesito - deve provvedere il Ministero competente per materia in quanto soggetto che ha provveduto al- l’emanazione dell’invito di pagamento. Stante il suo carattere di massima, il presente parere, viene inviato anche alla Presidenza del Consiglio, al Ministero dell’economia e delle Finanze ed (2) Al riguardo, ancora di recente, la Corte Costituzionale, nel respingere l’eccezione di inammissibilità della questione in quanto sollevata dal Consiglio di Stato in sede di ricorso straordinario, ha confermato che “dopo le significative modifiche apportate a questo istituto dall'art. 69, comma 1, della legge 18 giugno 2009, n. 69 (disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), è acclarata la legittimazione del consiglio di stato a sollevare questioni di legittimità costituzionale in sede di parere sul ricorso straordinario al Presidente della repubblica (sentenza n. 73 del 2014)” (Corte cost., sentenza n. 133/2016). PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo al Ministero della giustizia, affinchè valutino l’opportunità di un intervento legislativo in materia, volto ad adeguare le norme del T.U. n. 115/2002 in tema di C.U. anche al ricorso straordinario, se del caso individuando nell’ambito dell’apparato statale un unico ufficio competente per l’accertamento e la riscossione del suddetto tributo. Sul presente parere è stato sentito il Comitato Consultivo dell’Avvocatura dello Stato, che si è espresso in conformità nella seduta dell’11 novembre 2016. RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 l’istituto della mediazione e il rimborso delle spese legali per i giudizi proposti nei confronti dei dipendenti delle pp.aa. Parere del 18/11/2016-540803, al 6727/2016, avv. aNNa collaBolletta Con la nota indicata a margine Codesto Ministero formulava allo Scrivente g.U. una richiesta di parere concernente la portata applicativa dell'articolo 18, comma 1, del decreto legge 25 marzo 1997, n. 67, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 maggio 1997, n. 135 (che disciplina l'istituto del rimborso delle spese di patrocinio legale) in relazione all'istituto della mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, disciplinato dal decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28. Al riguardo si rappresenta quanto segue. L'art. 18, comma 1, del decreto legge 25 marzo 1997, n. 67, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 maggio 1997, n. 135, subordina il rimborso (o l'anticipazione) delle spese legali per giudizi proposti nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali ai seguenti presupposti: 1) l'instaurazione di un giudizio per responsabilità civile, penale o amministrativa nei confronti di un dipendente di una amministrazione statale; 2) che il predetto giudizio sia stato promosso in conseguenza di fatti ed atti connessi con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali da parte del dipendente; 3) che tale giudizio si sia concluso con sentenza o provvedimento che escluda la responsabilità del dipendente. L'istituto della mediazione finalizzato alla composizione delle controversie civili e commerciali, disciplinato dal decreto legislativo n. 28/2010, all'art. 1, comma 1, lettera a) definisce mediazione l’attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, anche con formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa. Pertanto, la mediazione si configura come sistema di risoluzione delle controversie relative a diritti disponibili alternativo al processo civile, fondato sulla ricerca di un accordo amichevole per la composizione della controversia, che si conclude con un accordo transattivo. Ai sensi della lettera b) del sopracitato articolo 1, comma 1, mediatori sono la persona o le persone fisiche che, individualmente o collegialmente, svolgono la mediazione rimanendo prive, in ogni caso, del potere di rendere giudizi o decisioni vincolanti per i destinatari del servizio medesimo. Alla luce delle disposizioni appena citate inerenti la mediazione, la stessa non appare possa essere equiparata ad un giudizio che si concluda con l'esclusione della responsabilità civile del pubblico dipendente, in ragione del quale lo stesso abbia diritto al rimborso (o anticipazione) delle spese legali sostenute. PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo Codesto Ministero ha evidenziato come l'istituto della mediazione presenti peculiarità tali da renderlo, sotto alcuni specifici aspetti, affine a un giudizio di responsabilità, in ragione: 1) della obbligatorietà della mediazione nelle ipotesi previste all'art. 5 del d.lgs. 28/2010, che costituisce condizione di procedibilità rispetto all'instaurazione dei giudizi ivi espressamente richiamati; 2) della obbligatorietà dell'assistenza di un legale per chi esperisca tale procedimento (cfr. art. 5, co. 1 bis d.lgs. 28/2010), allorché obbligatorio; 3) del fatto che, ai sensi dell'art. 5, comma 5, del d.lgs. 28/2010, dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell'articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile. il giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall'articolo 5, non ha partecipato a procedimento senza giustificato motivo, al versamento all'entrata del bilancio dello stato di una somma di importo conspondente al contributo unificato dovuto per il giudizio. In ragione di ciò, Codesto Ministero ha evidenziato che la posizione del dipendente di un'Amministrazione statale il quale, nell'espletamento del servizio o nell'assolvimento di obblighi istituzionali, sia coinvolto in una controversia per la quale sia previsto l'esperimento obbligatorio della procedura della mediazione, possa essere sostanzialmente assimilabile a quella contemplata dall'articolo 18, comma 1, del d.l. n. 67/1997. in quanto, nei casi di mediazione obbligatoria, il dipendente sarebbe normativamente tenuto ad avvalersi del patrocinio di un legale e, quindi, a sostenere il relativo onere economico e, laddove decidesse di non prendere parte alla procedura di mediazione, rischierebbe di incorrere nelle sanzioni processuali e pecuniarie contemplate nell'art. 8, comma 5, del d.lgs. 28/2010, cosicché l'esclusione dal diritto al rimborso potrebbe costituire una indebita disparità di trattamento. Lo Scrivente g.U., al riguardo, rappresenta quanto segue. Con parere n. 24075 del 4 giugno 2014, il Comitato Consultivo della Scrivente ha ribadito che "la norma di cui al citato art. 18, per consolidato indirizzo della giuriprudenza, è norma di stretta interpretazione, e deve essere applicata nel senso di rigettare ogni richiesta risarcitoria che non sia suffragata da un provvedimento che escluda qualsiasi profilo di responsabilità, risultando applicabile ai soli casi espressamente disciplinati ex lege". La ricostruzione ermeneutica dell'istituto in discorso, la quale ha trovato conferma anche nella giurisprudenza civile, converge su una interpretazione restrittiva dei presupposti in presenza dei quali sussiste il diritto al rimborso delle spese legali in capo al dipendente coinvolto in un procedimento all'esito del quale è stata del tutto esclusa la sua responsabilità. Tale stretta interpretazione si fonda sulla natura dell'istituto del rimborso, RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 che costituisce una speciale prerogativa riconosciuta ai pubblici funzionari, alla quale è inevitabilmente correlato un onere erariale. Dovendosi, dunque, assicurare un corretto e ragionevole impiego delle risorse erariali, l'Amministrazione opererà, nel suo esclusivo interesse, una specifica e motivata valutazione in ordine alla sussistenza dei presupposti per la corresponsione di tale rimborso, il quale non costituisce un diritto automatico del dipendente interessato. Il legislatore, infatti, nel porre a carico dell'erario una spesa ulteriore, ha dovuto ponderare le esigenze economiche dei dipendenti coinvolti in un procedimento per ragioni di servizio con quelle di limitazione degli oneri posti a carico dell'Amministrazione, tenendo in debito conto le esigenze di finanza pubblica che impediscono di gravare l'erario di oneri eccedenti quanto necessario e sufficiente per soddisfare gli interessi sottesi all'istituto del rimborso delle spese. Tale orientamento restrittivo è stato, altresì, confermato dalla recente giurisprudenza delle SS.UU. della Suprema Corte, che hanno precisato che "il pubblico funzionario ingiustamente accusato per fatti inerenti a compili e responsabilità dell'ufficio ha diritto, ai sensi dell'art. 18 del d.l 25 marzo 1997, n. 67, conv. con mod. dalla legge 23 maggio 1997, n. 135, al rimborso delle spese sostenute per la sua difesa, la cui entità va riconosciuta nei limiti dello "strettamente necessario" secondo il parere di congruità, di natura consultiva, dell’avvocatura erariale, che - nella prospettiva di un contemperamento tra le esigenze di salvaguardia della spesa pubblica e di protezione del dipendente -non può limitarsi ad una applicazione pedissequa delle tariffe forensi, ancorata ai minimi tariffari, né mirare a tenere indenne da ogni costo l'interessato, ma, nel valutare le necessità difensive del funzionario in relazione alle accuse mosse ed ai rischi del processo penale, nonché la conformità della parcella del difensore alla tariffa professiovale o ai parametri vigenti, deve considerare ogni elemento nel rispetto di principii di affidamento. ragioneuolezza e tutela effettiva dei diritti riconosciuti dalla costiuizione" (Cassazione civile, Sez. Un., 6 luglio 2015, n. 13861). Tale diritto al rimborso non è, pertanto, automatico, in quanto consegue ad una attenta valutazione da parte dell'Amministrazione circa la sussistenza dei requisiti previsti dalla legge, che si concretano, in particolare, in un presupposto giuridico (sentenza o provvedimento che escluda del tutto la responsabilità dell'impiegato), nonché in due presupposti, uno soggettivo (la qualità di dipendente di una amministrazione statale) e uno oggettivo (il nesso tra i fatti e/o atti da cui è originato il giudizio e l'espletamento del servizio o l'assolvimento di obblighi istituzionali). vi è da chiedersi, quindi, se, nel caso del procedimento di mediazione di cui al decreto legislativo n. 28/2010, siano soddisfatti i presupposti del rimborso di cui all'art. 18 della 1. 67/97, alla luce di una stretta interpretazione di tale disposizione. PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo A. Quanto al primo requisito, che subordina il rimborso all'instaurazione di un giudizio per l'affermazione della responsabilità del dipendente di una amministrazione statale, lo Scrivente g.U. non ritiene estensibile tale definizione al procedimento di mediazione di cui al d.lgs. 28/2010. Ciò, anzitutto, in ragione della natura dello stesso, il quale rappresenta un metodo di composizione stragiudiziale di controversie vertenti su diritti disponibili ad opera delle parti, proprio nell'ottica deflattiva del contenzioso giurisdizionale che ha ispirato l'adozione della relativa disciplina. ad abundantiam, si richiamano quelle nozioni di teoria generale del diritto che descrivono il giudizio come "la decisione resa da un giudice a seguito di un processo", occorrendo una rigorosa interpretazione dei termini "decisione", "giudice" e "processo". Distinguendo tra giudizio-attività (che è l'individuazione dei procedimenti logico interpretativi, ovvero dei canoni di valutazione mediante i quali il giudice perviene alla decisione) e giudizio-risultato (che è l'enunciazione finale della scelta del giudice in ordine alla questione controversa), è proprio la prima accezione ad escludere marcatamente dall'area del giudizio (attività) procedimenti alternativi di risoluzione delle controversie, che pur pervengano ad un qualsivoglia risultato definitorio delle stesse. Non è, infatti, possibile individuare siffatti canoni valutativi nell'ambito della mediazione, in cui il mediatore è privo, in ogni caso, del potere di rendere giudizi o decisioni vincolanti per i destinatari del servizio medesirno. B. essendo ininfluente, ai fini del presente parere, la valutazione del requisito che subordina il rimborso al fatto che il giudizio sia stato promosso in conseguenza di fatti ed atti connessi con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali da parte del dipendente, si procede alla disamina del terzo presupposto necessario, per cui è necessario, ai fini del rimborso, che tale giudizio si sia concluso con sentenza o provvedimento che escluda la responsabilità del dipendente. ebbene, tale presupposto appare dirimente nel senso della esclusione del procedimento di mediazione dal novero dei giudizi di cui all'art. 18 della 1. 67/97. Come noto, la mediazione consiste nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, anche attraverso una proposta transattiva dell'organo conciliativo. essa non può, naturalmente, concludersi con una sentenza, che è provvedimento riservato all'autorità giurisdizionale. Ma, in qualità di accordo suscettibile di mediare gli interessi delle parti, l'atto che esita dal procedimento di mediazione non può neppure latamente intendersi come provvedimento escludente la responsabilità del dipendente. Ciò in quanto è estraneo allo stesso spirito della procedura conciliativa che essa si concluda con la totale esclusione di responsabilità del convenuto, RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 a svantaggio dell'attore, la stessa presupponendo, invece, un accordo che, in qualche modo, medi le posizioni delle parti, sì da non determinare una totale soccombenza a carico di una delle due. Solo in tale modo è, infatti, scoraggiato l'avvio di un giudizio in senso stretto, preferendosi il ricorso ad un procedimento più celere, nel quale gli interessi di entrambe le parti trovino la giusta composizione. Codesto Ministero ha, altresì, evidenziato alcune peculiarità che renderebbero l'istituto della mediazione affine ad un giudizio di responsabilità; al riguardo, si rappresenta quanto segue. A. Anche nei casi di mediazione obbligatoria, di cui all'art. 5 del d.lgs. 28/2010, la vera e propria procedura di mediazione, con conseguenti spese di pagamento dell'organo deputato allo svolgimento della stessa, è preceduta da un primo incontro gratuito di programmazione con un mediatore e le parti. Solo all'esito di detto incontro, le parti decidono se concludere la mediazione con un accordo, se proseguire nella procedura o, in caso di mancato accordo, se terminarla e andare in giudizio, comunque senza pagare le relative indennità. Nessuna spesa connessa alla procedura, pertanto, graverebbe sul dipendente pubblico convenuto in una delle ipotesi di obbligatorietà della mediazione, allorché la procedura si interrompesse all'esito di tale incontro preliminare, gravando, comunque, sull'attore le eventuali spese di avvio della procedura (pari a 40 curo per le liti di valore fino a 250.000 euro, a 80 euro per quelle di valore superiore). Appare superfluo, nel caso dei giudizi contemplati dall'art. 18 d.lgs. 67/97, specificare come la posizione processuale del dipendente potrà essere esclusivamente quella di convenuto. B. Quanto all'obbligatorietà dell'assistenza di un legale (pur dibattuta, per quel che riguarda il convenuto, in quanto la lettera della legge parrebbe riservarla solo a chi intende esercitare in giudizio un'azione), si rappresenta come le eventuali spese legali per la (sola) partecipazione all'incontro di programmazione potrebbero essere oggetto di rimborso all'esito del giudizio successivamente instaurato e conclusosi con provvedimento escludente la reponsabilità del pubblico dipendente. Ciò non si pone in contraddizione con quanto sopra rappresentato, in quanto il presupposto di detto rimborso sarebbe, in ogni caso, il provvedimento del giudice che esclude in toto la responsabilità del dipendente, considerandosi la mediazione come mera condizione di procedibilità del giudizio e non come procedimento presupposto per il rimborso delle spese legali in sé e per sé. C. Da ciò discende, altresì, come il dipendente che volesse evitare spese legali, poi non rimborsabili, non dovrebbe trovare conveniente la mancata partecipazione al procedimento di mediazione (dalla quale potrebbero per lo stesso discendere le conseguenze negative di cui all'art. 5 del d.lgs. 28/2010, anche rappresentante del Ministero istante), in quanto la mera partecipazione PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo al primo incontro di programmazione non comporterebbe per lo stesso alcuna spesa poi non rimborsabile, sussistendone i presupposti, all'esito del giudizio successivamente instaurato dall'attore. In conclusione, il procedimento di mediazione di cui al d.lgs. 28/2010, conclusosi con un accordo tra l'attore e il dipendente di una Amministrazione statale, non costituisce, presupposto per il rimborso delle spese legali sostenute dallo stesso, in ragione dell'assenza del presupposto necessario della totale esclusione della responsabilità del dipendente all'esito di detto procedimento. Le spese sostenute per l'eventuale assistenza legale occorsa per la sola partecipazione al mero incontro gratuito di programmazione potrebbero essere oggetto di rimborso solo all'esito dell'istaurato giudizio, ove fosse esclusa la responsabilità del dipendente. L'eventuale obiezione alla sopra rappresentata stretta interpretazione del- l'art. 18 del d.lgs. 67/97, che facesse leva sulla sostanziale elusione dell'intento deflattivo cui è ispirata la disciplina della mediazione e asserisse che, in tal modo, i dipendenti pubblici dovrebbero preferire alla snella procedura della mediazione le lungaggini del processo, al fine di ottenere il rimborso delle spese legali, è facilmente superabile in virtù delle seguenti considerazioni. Il dipendente, legato all'Amministrazione da un rapporto di immedesimazione organica, non è portatore di un interesse suo proprio, ma dell'ente per il quale ha agito. Pertanto, è sempre opportuno che il dipendente informi l'Amministrazione del suo coinvolgimento in una procedura di mediazione. Tale interesse altruistico, che si riversa a beneficio della collettività di cui l'ente è espressione, da un lato pone l'esigenza che l'ente medesimo tenga il dipendente indenne dalle spese legali sostenute allorché egli sia chiamato a rispondere del suo operato pubblico in sede civile (penale e amministrativa), dall'altro impone al dipendente stesso oneri comportamentali, anche processuali, tali da non ledere l'immagine dell'ente che egli rappresenta, attraverso una eventuale ammissione di responsabilità. Tale esigenza di tutela dell'immagine delle Amministrazioni pubbliche si ritiene equivalente, se non preponderante, su quella di deflazionare il ricorso al processo, ricorrendo a meccanismi alternativi (e conciliativi) di risoluzione delle controversie, così giustificando la stretta interpretazione della disciplina del rimborso delle spese sostenute dai dipendenti delle amministrazioni statali, in relazione al procedimento di mediazione di cui al d.lgs. 28/2010. In relazione al presente parere è stato sentito il Comitato Consultivo che si è espresso in conformità. RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 sull’applicazione degli interessi di mora per il ritardato pagamento di una pubblica amministrazione Parere del 28/11/2016-557440, al 38590/2012, avv. aNtoNio gruMetto È richiesto il parere della Scrivente sulla compatibilità, rispetto alla disciplina prevista dalla D.lgs 9 ottobre 2002, n. 231, delle clausole di contratti relativi al servizio di mensa obbligatoria per il personale di polizia penitenziaria della Calabria nel periodo 1 luglio 2009 -30 giugno 2011. La richiesta di parere premette che sulle questioni sollevate dalla ditta appaltatrice si è registrato il pronunciamento del Consiglio di Stato con sentenza 469 del 2010, con la quale è stato rigettato l’appello proposto dall’Amministrazione della giustizia avverso la sentenza del Tar Lazio n. 6277 del 2009. Quest’ultima aveva annullato le clausole del bando di appalto dei servizi per l’affidamento del servizio di ristorazione della mensa obbligatoria del personale della polizia penitenziaria predisposte dal Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per il Lazio nel 2009, con le quali si prevedeva la maturazione degli interessi moratori solo dopo trascorsi 180 giorni dalla scadenza del termine di pagamento, nonché la misura degli interessi moratori pari al tasso di interesse della Banca centrale europea senza applicazione della maggiorazione prevista dal D.lgs n. 231/2002. Sul presupposto della corrispondenza tra le clausole contrattuali sulle quali è intervenuto il predetto pronunciamento della giustizia amministrativa e quelle oggetto della richiesta di parere, codestaAmministrazione formula il seguente quesito: “si chiede di voler esprimere autorevole parere circa la corretta applicazione della vigente normativa in materia alla luce dell’articolato contrattuale delle parti, nonché apprezzabile valutazione, tenuto conto degli orientamenti giurisprudenziali recenti ed ascrivibili all’autorità giudiziaria ordinaria, sull’opportunità o meno di agire in autotutela su quelle clausole contrattuali non toccate dal giudicato predetto”. Alla richiesta di parere è allegato un estratto di un contratto di fornitura del servizio di ristorazione e precisamente l’articolo 12 relativo alle modalità di pagamento. Da tale articolo si desume che la disciplina del pagamento e delle conseguenze del ritardo è formulata nei seguenti termini: 1. il termine per il pagamento è fissato a 60 giorni dalla data di ricevimento della fattura mensile; 2. in caso di mancato pagamento entro il suddetto termine, per il successivo periodo di 180 giorni non è previsto pagamento di interessi di mora; 3. qualora il ritardo superi il termine di 180 giorni (e quindi quello complessivo di 240 giorni dalla presentazione della fattura) l’amministrazione è tenuta a corrispondere gli interessi di mora calcolati al tasso della Banca centrale europea senza l’applicazione di alcuna maggiorazione. PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo Nella richiesta di parere si precisa che la questione sottoposta riguarda il pagamento delle fatture relative al servizio svolto per gli anni 2009 - 2010 2011. Ritiene la Scrivente che le questioni sottoposte alla consultazione siano le seguenti: 1. se il precedente costituito dalla sentenza del Consiglio di Stato 2 febbraio 2010, n. 469 sia vincolante anche in relazione alla fattispecie concreta relativa al contratto stipulato dal Provveditorato regionale della Calabria; 2. in caso di risposta negativa al quesito precedente, se sia valida la clausola contrattuale che (i) fissi in 60 giorni dalla ricevimento della fattura mensile il termine per il pagamento del corrispettivo della prestazione; (ii) escluda le conseguenze del ritardo per il periodo intercorrente tra la scadenza del termine di pagamento e il 180° giorno successivo; (iii) preveda quale conseguenza del ritardo ulteriore rispetto alla scadenza del predetto termine di 180 giorni un tasso di interesse moratorio corrispondente al tasso della Banca centrale europea senza applicazione di alcuna maggiorazione. sul primo quesito Ritiene la Scrivente che al primo quesito debba darsi risposta negativa. Il precedente costituito dalla sentenza del Consiglio di Stato 2 febbraio 2010, n. 469 si è infatti formato sulla legittimità del bando della gara per il servizio di mensa obbligatoria della polizia penitenziaria indetta dal Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria per il Lazio. La sentenza di primo grado, emessa dal Tar per il Lazio e confermata dal predetto precedente del Consiglio di Stato, ha dichiarato “nulle le clausole del bando impugnate”; ragion per cui il predetto precedente non esplica efficacia vincolante nella fattispecie oggetto della presente consultazione. È evidente, tuttavia, che l’autorevolezza del supremo organo di giustizia amministrativa comporta che di tale precedente si debba comunque tener conto ai fini della risoluzione della questione sottoposta alla Scrivente. sul secondo quesito a) La normativa applicabile La fattispecie concreta sottoposta alla Scrivente riguarda la prestazione del servizio svolto negli anni che vanno dal 2009 al 2011. viene pertanto in considerazione la disciplina del decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231 nella formulazione anteriore alle modifiche introdotte prima dal decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1 (convertito in legge 24 marzo 2012 n. 27), poi dal decreto legislativo 9 novembre 2012, n. 192 ed infine dalla legge 30 ottobre 2014, n. 161. RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 b) Il termine per l’adempimento La prima questione sottoposta riguarda la legittimità di una clausola contrattuale che stabilisca il termine di 60 giorni dal ricevimento della fattura per il pagamento della controprestazione. Ciò in quanto l’articolo 4 del D.lgs n. 231 del 2002, nel testo applicabile alla fattispecie, prevede che, in mancanza di una diversa volontà delle parti, il pagamento deve avvenire entro 30 giorni dal ricevimento della fattura. Ritiene la Scrivente che tale clausola sia valida. Benché il citato precedente del Consiglio di Stato abbia escluso la validità di clausole contrattuali che deroghino ai termini di pagamento previsti dal D.lgs n. 231 del 2002, non può escludersi la facoltà dell’amministrazione debitrice di derogare alla disciplina legale. Tale possibilità di deroga è prevista dallo stesso articolo 4 del predetto D.lgs, il quale contiene una disciplina sussidiaria nel caso in cui manchi un accordo espresso tra le parti (“se il termine per il pagamento non è stabilito nel contratto”). Tale facoltà deve ritenersi esercitabile nei limiti previsti dall’articolo 7 del D.lgs n. 231 del 2002, dato che quest’ultimo colpisce con la sanzione della nullità solo l'accordo sulla data del pagamento o sulle conseguenze del ritardato pagamento che risulti gravemente iniquo in danno del creditore; non certo qualsiasi accordo di deroga alla disciplina legale. Anche la giurisprudenza amministrativa formatesi successivamente al citato precedente del Consiglio di Stato (TAR, Piemonte sentenza n. 2346 del 2010), ha ritenuto che “non vi sia assoluta incompatibilità tra la predefinizione unilaterale di clausole contrattuali e la loro strutturazione in deroga ai tempi e modi di pagamento previsti dal d.lgs. n. 231/2002, purché in aderenza al dettato dell'art. 7 del d.lgs. medesimo”. Ciò in quanto la inesistenza di tale incompatibilità risulta dall'art. 8 del decreto legislativo n. 231 del 2002 “che, nell'approntare una tutela collettiva avanzata avverso le condizioni generali unilateralmente predisposte (art. 1341 c.c.) in deroga ai parametri di legge, prevede che le stesse possano essere sindacate preventivamente rispetto alla conclusione del contratto, su impulso delle associazioni di categoria”. Tale sindacato “ha senso solo se si ammette che anche la condizione generale di contratto può astrattamente contenere una legittima deroga ai parametri legali, salva la sua sindacabilità preventiva alla luce dell'art. 7 della legge” (loc. ult. cit). La piena ammissibilità di una deroga alle disposizioni del decreto legislativo n. 231 del 2002 anche da parte della pubblica amministrazione è del resto confermata dall’attuale formulazione dell’articolo 4, comma 4, del predetto decreto legislativo -introdotta con la legge 30 ottobre 2014, n. 161 -, con il quale si autorizza la pubblica amministrazione, quando ricorrano circostanze oggettive, a prevedere un termine di pagamento superiore a quello previsto dal comma 2 del medesimo articolo. PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo Le considerazioni che precedono inducono la Scrivente a discostarsi dal precedente costituito dalla già richiamata sentenza del Consiglio di Stato del 2 febbraio 2010, n. 469, con la quale è stata ritenuta iniqua la clausola, inserita in un bando di gara per l’affidamento del servizio di ristorazione per le mense del personale della polizia penitenziaria predisposto dalla Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria del Lazio, che prevedeva proprio il termine di 60 giorni dal ricevimento della fattura per il pagamento del corrispettivo. La predetta decisione ravvisa l’iniquità di tale clausola, e quindi la sua contrarietà agli articoli 4 e 5 del D.Lgs n. 231 del 2002, in quanto “nella presentazione della offerta può rinvenirsi il diverso accordo contrattato dalle parti solo a seguito di apposita contrattazione e trattativa sul punto, che evoca un concetto di contatto di tipo pararapportuale (o precontrattuale) che non può rinvenirsi certo nel binomio “bando-presentazione dell’offerta”, che già integra (quantomeno in parte) la conclusione del contratto”. Ad avviso della Scrivente, la predetta decisione non può condividersi, laddove fa dipendere l’iniquità della clausola dalla circostanza che la stessa non sarebbe stata preceduta da una contrattazione nella fase delle trattative tra le parti. In primo luogo, va osservato che per il diritto comune (artt. 1341 e 1342 c.c.) il requisito della contrattazione tra le parti, infatti, esclude la necessità della specifica approvazione per iscritto (e quindi di un requisito formale), ma non rende di per sé la clausola non iniqua. In secondo luogo, al concreto esperimento di una fase di trattativa precontrattuale, avente per oggetto la predisposizione di una clausola di contenuto analogo a quello in esame, osta la circostanza che l’acquisizione di beni e servizi da parte della pubblica amministrazione avviene, di regola, attraverso la predisposizione unilaterale del capitolato contrattuale, rispetto al quale, in omaggio al principio di parità di trattamento fra i concorrenti alla gara, non è pensabile una fase precontrattuale di negoziazione del contenuto di specifiche clausole. Né tale negoziazione sarebbe possibile, senza con ciò violare il carattere vincolante del bando di gara, nella fase successiva all’aggiudicazione del contratto. Ciò detto deve ritenersi che la clausola contrattuale sottoposta all’esame della Scrivente, nella parte in cui stabilisce un termine per l’adempimento di 60 giorni dal ricevimento della fattura, non sia nulla. Tale termine, infatti, si presenta giustificato alla luce del fatto che la prestazione resa dall’appaltatore deve essere verificata con riguardo al numero dei pasti effettivamente somministrati; nonché alla luce del fatto che, in ragione delle dimensioni delle mense per le quali è stipulato l’appalto, è ragionevole ritenere che il numero dei pasti mensilmente somministrati sia a tal punto considerevole da giustificare un tempo di adempimento maggiore rispetto a quello normalmente previsto dalla D.lgs 231 del 2002. RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 c) La clausola che esclude gli interessi di mora A diverse conclusioni deve viceversa giungersi per quanto concerne la clausola contrattuale nella parte in cui esclude qualsiasi conseguenza del ritardo nel pagamento per il periodo intercorrente tra la scadenza del termine di 60 giorni e la scadenza del successivo termine di 180 giorni. È evidente che con tale clausola l’amministrazione abbia azzerato le conseguenze del proprio inadempimento con riferimento a tale segmento temporale. Tale clausola, pertanto, appare gravemente iniqua e come tale nulla, in quanto priva, senza alcuna apparente giustificazione, il creditore del diritto ad essere indennizzato per le conseguenze dovute al ritardo nell’adempimento dell’obbligazione avente ad oggetto il pagamento del prezzo. Del resto l’articolo 7 del D.Lgs in esame, nella formulazione introdotta dal D.Lgs 9 novembre 2012, n. 192 (e come tale non applicabile alla fattispecie in esame) stabilisce che “si presume che sia gravemente iniqua la clausola che esclude l’applicazione di interessi di mora”, presunzione che, ai sensi della medesima disposizione, non ammette prova contraria. d) La clausola che riduce gli interessi di mora Così come gravemente iniqua si presenta, altresì, la clausola con la quale si fissa nella misura pari al tasso praticato dalla Banca centrale europea, senza applicazione di alcuna maggiorazione, l’entità degli interessi moratori in caso di persistenza dell’inadempimento dopo la scadenza del predetto termine di 180 giorni. A questo riguardo, non viene fornita alcuna giustificazione da parte della richiedente amministrazione che consenta - avuto riguardo alla corretta prassi commerciale, alla natura della merce o dei servizi oggetto del contratto, alla condizione dei contraenti ed ai rapporti commerciali tra i medesimi, nonché ad ogni altra circostanza (art. 7 cit.) - di ritenere non gravemente iniqua tale clausola. vi sono, viceversa, elementi per ritenere nulla la predetta clausola per grave iniquità, solo che si consideri che: 1. la diminuzione dell’entità delle conseguenze del ritardo da parte del- l’amministrazione non può essere giustificata con la difficoltà delle verifiche necessarie circa la correttezza della controprestazione, una volta che sia stato già fissato un termine di 60 giorni, in deroga alla disciplina di legge, per l’esecuzione di tali verifiche; 2. la diminuzione dell’entità delle conseguenze del ritardo da parte del- l’amministrazione riguarda un segmento temporale successivo alla scadenza del termine di 180 giorni per il quale, come si è visto, non è prevista alcuna conseguenza pregiudizievole per il debitore, una volta che si consideri che l’aver beneficiato di un’esenzione dalle conseguenze del ritardo per un termine di 180 giorni giustificherebbe una maggiorazione -non certo una diminuzione - delle conseguenze del ritardo per il debitore; PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo 3. la già affermata nullità della clausola che esclude gli interessi di mora comporta la sua sostituzione con la previsione di un saggio degli interessi nella misura fissata dall’articolo 5 del D.Lgs n. 231 del 2002, rappresentata dal tasso di interesse applicato dalla Banca centrale europea maggiorato; ragion per cui la misura degli interessi moratori per il segmento temporale successivo alla scadenza del termine di 180 giorni non può essere inferiore a quella prevista per il ritardo precedente (id est, BCe senza maggiorazione). Alla luce della consultazione resa a codesta Amministrazione, si suggerisce, pertanto, di valutare la possibilità di definire la questione con la ditta appaltatrice attraverso un bonario componimento. La complessità della consultazione resa sulla questione induce la Scrivente a precisare che le conclusioni raggiunte devono ritenersi valide, per i motivi già esposti nel presente parere, anche con riguardo alla disciplina attualmente vigente del D.Lgs n. 231 del 2002. Come si è già avuto modo di osservare: a) nelle transazioni commerciali in cui il debitore è una pubblica amministrazione, la possibilità di una deroga del termine di 30 giorni previsto per il pagamento è [oggi] espressamente consentita dall’articolo 4, comma 4, del D.Lgs 231 del 2002 nella formulazione attualmente vigente; quest’ultimo, infatti, consente di prevedere un termine per il pagamento di durata superiore ai 30 giorni (ma mai superiore a 60) quando ciò sia oggettivamente giustificato dalla natura particolare del contratto o da talune sue caratteristiche; b) la iniquità della clausola che esclude le conseguenze della mora in caso di ritardo nel pagamento è [oggi] prevista dall’articolo 7 del D.Lgs 231 del 2002, nella formulazione attualmente vigente; c) la clausola che deroghi al saggio degli interessi legali di mora è da ritenersi nulla per contrasto con la norma imperativa di cui all’art. 5 del D.Lgs n. 231 del 2002 [oggi] vigente, per il quale la misura degli interessi legali di mora può essere derogata solo “.. nelle transazioni commerciali tra imprese...”. Sul presente parere è stato sentito il Comitato consultivo, il quale si è espresso in conformità nella seduta del 25 novembre 2016. RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 Interpretazione e disciplina attuativa dei contratti esclusi dall’ambito di applicazione oggettiva del d.lgs 50/2016 Parere del 15/12/2016-591790, al 31387/2016, avv. FraNcesco sclaFaNi 1. -Con la nota che si riscontra codesta Regione ha chiesto il parere di questa Avvocatura in merito all’applicazione dell’art. 4 del d.l.vo 18 aprile 2016, n. 50 secondo il quale: “l’affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture, esclusi, in tutto o in parte, dall’ambito di applicazione oggettiva del presente codice, avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell’ambiente ed efficacia energetica”. La richiesta di parere concerne in particolare la stipula di contratti di mutuo che (ai sensi dell’art. 17, comma 1, lett. f d.l.vo 50/2016) sono esclusi dall’ambito di applicazione del nuovo codice, tuttavia investe la questione generale dell’interpretazione e della conseguente disciplina attuativa dell’art. 4 cit. per tutti i contratti esclusi dall’ambito di applicazione oggettiva del codice. 2. -Trattandosi di quesito avente ad oggetto l’interpretazione e le modalità applicative di una norma del nuovo codice dei contratti pubblici occorre preliminarmente analizzare il tema del completamento attuativo della nuova disciplina e delle novità dalla medesima introdotte sulla governance dei contratti pubblici (Titolo II d. l.vo 50/2016). Come opportunamente evidenziato nel parere reso dal Consiglio di Stato sullo schema del decreto legislativo in esame (parere n. 855 del 1 aprile 2016) la filosofia ispiratrice della riforma è di affidare il completamento della disciplina del codice ad un sistema attuativo più snello e flessibile rispetto al modello tradizionale del regolamento unico di esecuzione ed attuazione. Ciò si desume in primo luogo dall’art. 1, comma 1, lett. t) della legge delega (legge 28 gennaio 2016, n. 11) che prevede l’attribuzione all’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) anche di “atti di indirizzo, quali linee guida, bandi-tipo, contratti-tipo ed altri strumenti di regolamentazione flessibile” eventualmente “dotati di efficacia vincolante”. Inoltre, all’art. 1, commi 4 e 5, la legge delega ha previsto l’adozione di “linee guida di carattere generale proposte dall’aNac e approvate con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti”. L’art. 213 d. l.vo 50/2016, al comma 1, attribuisce espressamente al- l’ANAC non solo “la vigilanza e il controllo sui contratti pubblici” ma anche “l’attività di regolazione degli stessi”. La stessa norma, al comma 2, specifica che detta funzione di regolazione avviene “attraverso linee guida, bandi-tipo, capitolati-tipo ed altri strumenti di regolazione flessibile” e serve a garantire “la promozione dell’efficienza, della qualità dell’attività delle stazioni appaltanti, cui fornisce supporto anche facilitando lo scambio di informazioni e PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo l’omogeneità dei procedimenti amministrativi e favorisce lo sviluppo delle migliori pratiche”. Alla stregua di tali disposizioni nel citato parere del Consiglio di Stato vengono identificati tre tipi di atti attuativi: a) le disposizioni adottate con decreto del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, su proposta dell’ANAC, previo parere delle competenti commissioni parlamentari; b) le disposizioni adottate con delibera dell’ANAC a carattere vincolante erga omnes, in particolare le linee guida; c) le disposizioni adottate con delibera dell’ANAC a carattere non vincolante. 3. -L’art. 4 del d.l.vo 50/2016 sostituisce l’art. 27 del d.l.vo 163/2006 rispetto al quale, da un lato, non prevede più l’obbligo di invitare almeno cinque concorrenti se compatibile con l’oggetto del contratto, dall’altro, specifica ulteriormente i principi da osservare nei settori esclusi aggiungendo i principi di pubblicità, tutela dell’ambiente ed efficacia energetica a quelli già previsti dall’art. 27. Dette novità non sono tali da diversificare la ratio della disposizione in esame rispetto a quella previgente in quanto l’art. 4 cit. -al pari dell’art. 27 d.l.vo n. 163/2016 - consiste nel tradurre in norma positiva nazionale una regola di diritto giurisprudenziale comunitario, secondo la quale ai contratti sottratti dall’ambito di applicazione delle direttive comunitarie sugli appalti pubblici si applicano comunque i principi posti dai trattati della Ue (C. giust. Ue, 3 dicembre 2001 c 59/00; C. giust. Ue, 7 dicembre 2000 c 324/98; comunicazione della Commissione Ue, 2006/C 179/02). Pertanto, se l’art. 27 d.l.vo 163/2006 doveva essere letto in coerenza con tale giurisprudenza comunitaria (v. Cons. Stato, Ad. Pl. n. 16 del 2011) lo stesso vale per il nuovo art. 4 d.l.vo n. 50/2016. In secondo luogo deve ritenersi applicabile alla nuova disposizione quanto affermato dal Consiglio di Stato riguardo all’art. 27 d. l.vo 163/2006 nella citata sentenza dell’Adunanza Plenaria, ovvero che i contratti “esclusi” dal codice sono quelli “dallo stesso codice nominati, ancorché al solo scopo di escluderli dal proprio ambito di applicazione, e non anche quelli da esso non menzionati, neppure per escluderli” (i c.d. contratti “estranei”). Pertanto, i contratti in questione (che il Consiglio di Stato chiama “nominati ma esenti” per distinguerli dagli “estranei”) si agganciano ai settori ordinari o speciali di attività contemplati dal codice perché “in astratto potrebbero rientrare nel settore di attività ma ne vengono eccettuati con norme di esenzione, per le ragioni più disparate” (Ad. Pl. cit.). Si tratta quindi di contratti che, pur godendo di una disciplina speciale rientrano nel sistema del codice dei contratti pubblici e quindi sono soggetti alle fonti di regolamentazione flessibile sopra descritte. RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 Ne consegue che l’estraneità di tali contratti rispetto all’ambito oggettivo di applicazione del nuovo codice non consente di sottrarre la loro disciplina ai suindicati strumenti di regolazione flessibile. Infatti, se è vero che la suddetta nuova funzione regolatrice deve essere esercitata “nei limiti di quanto stabilito dal presente codice” (art. 213, comma 1, d.l.vo 50/2016), è anche vero però che tale disposizione deve essere interpretata nel senso che tutti i contratti contemplati dal codice (anche al solo fine di escluderli dalle regole ordinarie) sono soggetti alla nuova governance e ai nuovi strumenti di regolazione flessibile che dovranno essere adottati nel rispetto della disciplina del codice. Peraltro, l’art. 4 d.l.vo 50/2016 contiene una disciplina, sia pure embrionale, di tali contratti costituita dal richiamo ad una serie di principi generali. Tale disciplina è evidentemente suscettibile di diverse applicazioni e quindi rispetto ad essa si pone l’esigenza di un’attività di regolazione finalizzata a garantire in modo uniforme per tutte le stazioni appaltanti, la più efficace realizzazione dei suddetti principi in coerenza con le novità introdotte dalla riforma. Quindi, l’ampia discrezionalità rimessa dal legislatore alle stazioni appaltanti, riguardo alla modalità con cui dare attuazione ai principi sanciti dal- l’art. 4 del nuovo codice, deve essere esercitata tenendo conto delle suddette fonti di regolamentazione flessibile ed in particolare delle linee guida che l’ANAC può adottare in tutte le materie del codice, ivi compresi i contratti esclusi. 4. -Allo stato non risultano ancora emanate apposite linee guida sull’applicazione dell’art. 4 cit. pertanto al fine di un corretto esercizio della suddetta discrezionalità occorre tenere conto delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza formatasi sul previgente art. 27 d. l.vo 163/2006. Al riguardo è stato innanzitutto sottolineato che la stazione appaltante deve sempre dettare una disciplina congrua con l’oggetto della gara e con le relative caratteristiche, non potendo la mera riconducibilità dell’oggetto del- l’appalto ai settori esclusi giustificare l’applicazione di una disciplina derogatoria che vada a discapito dei principi, immanenti in materia di appalti, di favor partecipationis, non discriminazione, concorrenza ed economicità, non essendo la scelta del contraente finalizzata all’esclusivo interesse dell’Amministrazione, ma volta anche alla tutela dell’interesse degli operatori di accedere al mercato. Pertanto, anche nei settori esclusi occorre sempre verificare se la non applicabilità di determinate disposizioni del codice dei contratti pubblici sia coerente e compatibile con l’interesse sotteso alla gara (Tar Lazio, II, 5 marzo 2014, n. 2550). In tale prospettiva è stato affermato che la regola secondo cui tutti coloro che prendono parte all’esecuzione di pubblici appalti devono essere in possesso dei requisiti morali prescritti dal codice, costituisce un principio di tutela della par condicio, dell’imparzialità e dell’efficacia dell’azione amministra PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo tiva, per cui deve trovare applicazione anche nei settori esclusi dall’applicazione del codice nei quali, al di là del rigore formale e dei vincoli procedurali, resta inderogabile la necessità di verificare nella sostanza il possesso dei suddetti requisiti (Tar Molise, I, 11 aprile 2014, n. 242). Inoltre, è stato sottolineato che nei settori esclusi la scelta delle imprese da invitare al confronto concorrenziale non si colloca in uno spazio completamente libero in quanto le stazioni appaltanti devono prima effettuare un’indagine di mercato assumendo informazioni circa le caratteristiche di qualificazione economico-finanziaria e tecnico-organizzativa delle imprese in possesso dei requisiti per eseguire l’appalto e procedere alla loro selezione attraverso criteri trasparenti (Tar Lombardia -Milano, I, 11 aprile 2013, n. 930). 5. -Ulteriori indicazioni possono essere desunte, per analogia, dalle linee guida sulle procedure per l’affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alla soglia di rilevanza comunitaria adottate dall’ANAC ai sensi dell’art. 36, comma 7, d. l.vo n. 50/2016 (linee guida n. 4 approvate con delibera n. 1097 del 26 ottobre 2016). Ciò in quanto la scelta del contraente nei contratti sotto soglia deve avvenire nel rispetto dei principi di cui all’art. 30, comma 1, del nuovo codice che coincidono in buona parte con quelli enunciati nell’art. 4. A tal fine assumono rilevanza in primo luogo i “principi comuni” enunciati al par. 2 delle suddette linee guida ed in particolare al par. 2.2 in cui viene data una, sia pur generica, indicazione degli obiettivi da perseguire in relazione ai singoli principi fissati dal legislatore. Ai sensi del par. 2.2 le stazioni appaltanti “garantiscono, in aderenza: a) al principio di economicità, l’uso ottimale delle risorse da impiegare nello svolgimento della selezione ovvero nell’esecuzione del contratto; b) al principio di efficacia, la congruità dei propri atti rispetto al conseguimento dello scopo e dell’interesse pubblico cui sono preordinati; c) al principio di tempestività, l’esigenza di non dilatare la durata del procedimento di selezione del contraente in assenza di obiettive ragioni; d) al principio di correttezza, una condotta leale ed improntata a buona fede, sia nella fase di affidamento sia in quella di esecuzione; e) al principio di libera concorrenza, l’effettiva contendibilità degli affidamenti da parte dei soggetti potenzialmente interessati; f) al principio di non discriminazione e di parità di trattamento, una valutazione equa ed imparziale dei concorrenti e l’eliminazione di ostacoli o restrizioni nella predisposizione delle offerte e nella loro valutazione; g) al principio di trasparenza e pubblicità, la conoscibilità delle procedure di gara, nonché l’uso di strumenti che consentano un accesso rapido e agevole alle informazioni relative alle procedure; h) al principio di proporzionalità, l’adeguatezza e idoneità dell’azione rispetto alle finalità e all’importo dell’affidamento; RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 i) al principio di rotazione, il non consolidarsi di rapporti solo con alcune imprese, favorendo la distribuzione delle opportunità degli operatori economici di essere affidatari di un contratto pubblico”. Inoltre, ai sensi del par. 2.4 “tutti gli atti della procedura sono soggetti agli obblighi di trasparenza previsti dall’art. 29 del codice”. Ulteriori indicazioni utili sono contenute nei successivi parr. 3, 4 e 5 che dettano specifiche linee guida in relazione all’importo dei contratti. Tra queste si segnalano: -l’opportunità di procedere alla preliminare consultazione di un elenco di fornitori oppure di svolgere un’indagine esplorativa o una vera e propria indagine di mercato, per selezionare un numero di operatori confacente alle necessità della stazione appaltante e proporzionato all’importo e alla rilevanza del contratto, nonchè idoneo a garantire un confronto competitivo non discriminatorio; l’indagine dovrà essere finalizzata a conoscere l’assetto del mercato, i potenziali concorrenti, i loro requisiti, le condizioni tecniche ed economiche praticate e le clausole contrattuali generalmente offerte secondo le modalità indicate nelle citate linee guida, in quanto applicabili; -la necessità che il contraente sia in possesso dei requisiti di carattere generale di cui all’art. 80 d. l.vo 50/2016 nonché dei requisiti minimi di: a) idoneità professionale; b) capacità economica e finanziaria; c) capacità tecniche e professionali (secondo le indicazioni contenute nel par. 3.2.1 e nel par. 3.2.2 delle linee guida); -la necessità, al fine di assicurare la massima trasparenza, di motivare adeguatamente in merito alla scelta della procedura seguita per il confronto competitivo e dell’aggiudicatario, “dando dettagliatamente conto del possesso da parte dell’operatore economico selezionato dei requisiti richiesti nella determina a contrarre o nell’atto ad essa equivalente, della rispondenza di quanto offerto all’interesse pubblico che la stazione appaltante deve soddisfare, di eventuali caratteristiche migliorative offerte dal contraente, della congruità del prezzo in rapporto alla qualità della prestazione” (par. 3.3.1); -la necessità che l’invito degli operatori selezionati contenga tutti gli elementi necessari per formulare un’offerta informata tra i quali almeno quelli elencati al par. 4.2.6 delle linee guida; -la necessità che le sedute di gara siano tenute in forma pubblica ad eccezione della fase di valutazione delle offerte tecniche con verbalizzazione di tutte le attività. Alla luce delle suddette considerazioni si ritiene che l’art. 4 del d. l.vo n. 50/2016 debba essere interpretato nel senso che l’attuazione dei principi ivi enunciati è rimessa alla discrezionalità della stazione appaltante che dovrà esercitarla tenendo conto dei richiamati orientamenti giurisprudenziali e delle indicazioni contenute negli strumenti di regolazione flessibile introdotti dal codice, tra cui per analogia le linee guida sopra richiamate, in quanto applica PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo bili, nonchè le ulteriori che dovessero essere adottate dall’ANAC per indirizzare l’applicazione della disposizione in esame in modo efficace ed uniforme. 6. -Per quanto concerne l’ulteriore quesito, relativo ai finanziamenti che codesta Regione ha interesse ad ottenere dalla Banca europea per gli Investimenti, si osserva che essi sono estranei al sistema del codice dei contratti pubblici come sopra delineato trattandosi di erogazioni di un’istituzione finanziaria dell’Unione europea per il finanziamento degli investimenti atti a sostenere gli obiettivi politici dell’Unione ed ai quali trova applicazione l’art. 20, commi quater e quinquies del d.l. 185/2008 conv. in l. 2/2009 che disciplina in modo specifico le modalità di accesso a tali erogazioni di cui possono beneficiare anche progetti di interesse regionale. 7. -Il presente parere è stato sottoposto al Comitato Consultivo dell’Avvocatura dello Stato ai sensi dell’art. 26 legge n. 103/1979, il quale si è espresso in conformità nella seduta del 14 dicembre 2016, e viene trasmesso anche all’ANAC per le valutazioni ed eventuali determinazioni di propria competenza. RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 l’acquisizione delle opere abusive nelle aree naturali protette: il principio “tempus regit actum” Parere del 16/12/2016-593183, al 20874/2016, avv. Paolo MarchiNi L’Avvocatura distrettuale in indirizzo con la nota di riferimento ha rimesso a questo g.U. il proprio parere in ordine alla questione in oggetto, sollevata dall’ente Parco ... con nota del 9 marzo 2016 n. 1322, ritenuta rilevante ed avente portata di massima. In particolare, l’ente Parco ha posto il quesito se prima della entrata in vigore della legge n. 426/1998 e della legge n. 296/2006, l’acquisizione delle proprietà delle aree soggette anche a vincolo di parco e sulle quali fu commesso un abuso edilizio, si verifichi esclusivamente in capo agli enti comunali allo scadere dei novanta giorni dalla notificazione dell’ordinanza di demolizione da questi ultimi emanata. Codesta Avvocatura distrettuale, dopo aver richiamato la costante giurisprudenza secondo cui il provvedimento di acquisizione in proprietà riveste natura dichiarativa in quanto l’acquisto avviene ope legis allo scadere dei novanta giorni decorrenti dalla notificazione dell’ordinanza di demolizione, ha espresso la tesi che detto acquisto avviene di diritto automaticamente “a favore dell’ente (comune o ente Parco) indicato dalla legge vigente al momento della scadenza del predetto termine”. Come correttamente richiamato dalla Avvocatura distrettuale, questa Avvocatura generale, già si espresse sulla “competenza ente Parco Nazionale alla acquisizione gratuita dell’area di sedime conseguente all’inottemperanza dell’ordine di riduzione in pristino emesso dallo stesso ente” con il parere prot. 296245/6 del 21 luglio 2012, AL 47802/11 -red. avv. Paolo Marchini, con avviso conforme del Comitato Consultivo riunito il 15 giugno 2012 - con il quale, dopo aver ripercorso l’excursus storico delle norme succedutesi nel tempo, si è affermato il principio che l’acquisto in questione opera ope legis allorquando si determinano le condizioni di fatto previste dalla norma “in guisa che il provvedimento di acquisizione adottato dall'ente parco ha carattere dichiarativo, e non costitutivo”. In tale parere la questione non venne toccata direttamente, ma fu ben messo in risalto come la competenza dominicale nella ipotesi di “plurivincolo” fu, dalle leggi susseguitesi nel tempo, trasferita ora al Comune, ora all’ente parco. Appare opportuno, in questa sede esporre il quadro normativo storico con una particolare evidenza tipografica dei momenti di entrata in vigore delle varie disposizioni di legge e dell’ente da esse individuato come proprietario delle aree in questione. PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo CoMPeTeNZA DeL CoMUNe DAL 1977 AL 28 DICeMBRe 1998 § 1. l’art. 7, comma 6 della legge n. 47 del 1985 ante testo unico sull’edilizia. La legge 28 febbraio 1985 n. 47 recante “Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie”, pubblicata nella gazz. Uff. 2 marzo 1985, n. 53, S.o., riproduce la disposizione contenuta nell'art. 15, terzo comma, della legge 28 gennaio 1977, n. 10, che prevedeva la acquisizione in proprietà dell’area, quale sanzione di secondo grado, nel caso di interventi eseguiti in assenza di permessi di costruire, di totale difformità o con variazioni essenziali e di inottemperanza all’ordinanza di demolizione emanato dalla Amministrazione cui compete la vigilanza sull’osservanza dei vincoli esistenti. In particolare il comma 6 del- l’art. 7 [poi abrogato dall’art. 136, D.Lgs. 6 giugno 2001, n. 378, con la decorrenza indicata nell'art. 138 dello stesso decreto e dall'art. 136, D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, con la decorrenza indicata nell’art. 138 dello stesso decreto, e poi ulteriormente trasfuso nell'art. 31 del testo unico emanato con il suddetto D.P.R. n. 380 del 2001, attualmente vigente], attribuisce la competenza “dominicale” (ossia legittimante l’acquisizione in proprietà dell’area) a seconda che il vincolo ambientale concorra o meno con altri vincoli di inedificabilità. Recita Par. 7, rubricato: “opere eseguite in assenza di concessione, in totale difformità o con variazioni essenziali: “sono opere eseguite in totale difformità dalla concessione quelle che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto della concessione stessa, ovvero l'esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile. il sindaco, accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione, in totale difformità dalla medesima ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi del successivo articolo 8, ingiunge la demolizione. se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall’ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. l'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita. l'accertamento dell'inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine di cui al precedente comma, previa notifica all'interessato, costituisce titolo per l’immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente. RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 l'opera acquisita deve essere demolita con ordinanza del sindaco a spese dei responsabili dell’abuso, salvo che con deliberazione consiliare non si dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o ambientali. Per le opere abusivamente eseguite su terreni sottoposti, in base a leggi statali o regionali, a vincolo di inedificabilità, l'acquisizione gratuita, nel caso di inottemperanza all'ingiunzione di demolizione, si verifica di diritto a favore delle amministrazioni cui compete la vigilanza sull'osservanza del vincolo. tali amministrazioni provvedono alla demolizione delle opere abusive ed al ripristino dello stato dei luoghi a spese dei responsabili dell'abuso. Nella ipotesi di concorso dei vincoli l’acquisizione si verifica a favore del patrimonio del comune. il segretario comunale redige e pubblica mensilmente, mediante affissione nell'albo comunale, l’elenco dei rapporti comunicati dagli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria riguardanti opere o lottizzazioni realizzate abusivamente e delle relative ordinanze di sospensione e lo trasmette all'autorità giudiziaria competente, al presidente della giunta regionale e, tramite la competente prefettura, al Ministro dei lavori pubblici. in caso d'inerzia, protrattasi per quindici giorni dalla data di constatazione della inosservanza delle disposizioni di cui al primo comma dell'art. 4 ovvero protrattasi oltre il termine stabilito dal terzo comma del medesimo articolo 4, il presidente della giunta regionale, nei successivi trenta giorni, adotta i provvedimenti eventualmente necessari dandone contestuale comunicazione alla competente autorità giudiziaria ai fini dell'esercizio dell'azione penale. Per le opere abusive di cui al presente articolo, il giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui all'articolo 17, lettera b), della legge 28 gennaio 1977, n. 10, come modificato dal successivo articolo 20 della presente legge, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita”. § 2. la legge quadro sulle aree protette l. n. 394/1991. L'inosservanza delle misure ripristinatone è disciplinata dall'art. 29, secondo comma, che rinvia alla disciplina dell’art. 27 della 1. 28 febbraio 1985, n. 47, corrispondente all’attuale art. 41 del D.P.R. 380/01, e non contempla l’acquisizione in proprietà dell’area (che si connette invece, come detto, alle specifiche violazioni previste dall’art. 31 del predetto d.p.r.). L’assenza dì una disciplina, nella legge quadro, della acquisizione in proprietà da ineseguito ordine di demolizione promanato dall’ente Parco, può agevolmente giustificarsi con il fatto che tale disciplina era già contemplata dal citato comma 6 dell’art. 7 della legge n. 47/1985, sia nel caso di “mono- vincolo”, sìa in quello dì “plurivincolo”, sicché non vi era necessità di una sua rinnovazione. PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo CoMPeTeNZA DeLL’eNTe PARCo DAL 29 DICeMBRe 1998 AL 29 gIUgNo 2003 § 3. la legge 9 dicembre 1998 n. 426. Con la legge 9 dicembre 1998 n. 426, recante nuovi interventi in campo ambientale e pubblicata nella gazz. Uff. 14 dicembre 1998, n. 291, il legislatore pone la prima significativa deroga alla regola generale dettata dal comma 6 dell’art. 7 della legge n. 47/1985 in tema di competenza “dominicale” nella fattispecie di plurivincolo di inedificabilità. Infatti, l’art. 2 oblitera del tutto la competenza comunale. Dispone tale norma: “interventi per la conservazione della natura. 1. Nelle aree naturali protette nazionali l'acquisizione gratuita delle opere abusive di cui all'articolo 7, sesto comma, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, e successive modificazioni ed integrazioni, [n.d.r.: ora art. 31 d.p.r. n. 380 del 2001] si verifica di diritto a favore degli organismi di gestione. Nelle aree protette nazionali, i sindaci sono tenuti a notificare al Ministero dell’ambiente e agli enti parco, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, gli accertamenti e le ingiunzioni alla demolizione di cui all'articolo 7, secondo comma, della citata legge n. 47 del 1985. il Ministro del- l'ambiente può procedere agli interventi di demolizione avvalendosi delle strutture tecniche e operative del Ministero della difesa, sulla base di apposita convenzione stipulata d'intesa con il Ministro della difesa, nel limite di spesa di lire 500 milioni per l'anno 1998 e di lire 2.500 milioni a decorrere dall'anno 1999”. Il testo non contempla ipotesi di plurivincolo, sicché esse devono ritenersi ricomprese nella competenza dominicale dell’ente parco nazionale. CoMPeTeNZA DeL CoMUNe DAL 30 gIUgNo 2003 AL 31 DICeMBRe 2006 § 4. Il testo unico sull’edilizia d.P.r. n. 380/2001 (Pubblicato nella Gazz. uff. 20 ottobre 2001, n. 245, s.o.). La questione sembrava definitivamente risolta con riferimento alle aree protette nazionali, se non fosse che il legislatore interviene nuovamente in deroga, reintroducendo la doppia competenza, segnatamente quella comunale in caso di plurivincolo. Infatti al comma 6 dell’art. 31 del testo unico sull’edilizia è scritto: “Per gli interventi abusivamente eseguiti su terreni sottoposti, in base a leggi statali o regionali, a vincolo di inedificabilità, l'acquisizione gratuita, nel caso di inottemperanza all'ingiunzione di demolizione, si verifica di diritto a favore delle amministrazioni cui compete la vigilanza sull'osservanza del vincolo. tali amministrazioni provvedono alla demolizione delle opere abusive ed al ripristino dello stato dei luoghi a spese dei responsabili dell'abuso. Nella ipotesi di concorso dei vincoli, l'acquisizione si verifica a favore del patrimonio del comune'’’. RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 Quanto alla entrata in vigore, il D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 all’art. 138 (L) “entrata in vigore del testo unico” si prevede: 1. le disposizioni del presente testo unico entrano in vigore a decorrere dal 1 ° gennaio 2002 (*). il presente decreto, munito del sigillo dello stato, sarà inserito nella raccolta ufficiale degli atti normativi della repubblica italiana. È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare. CoMPeTeNZA DeLL’eNTe PARCo DAL 1 geNNAIo 2017 § 5. la legge 27 dicembre 2006 n. 296. Solo con la legge finanziaria per il 2007 (“Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato”, pubblicata nella gazz. Uff. 27 dicembre 2006, n. 296, S.o.) all’art. 1, comma 1104 si deroga ancora - ed allo stato attualmente vigente, definitivamente - al testo unico sull’edilizia, attribuendo stavolta la competenza dominicale in via principale all’ente parco (ora anche regionale) e, solo in via sussidiaria, al Comune. Infatti, l’art. 1, comma 1104, dispone ora che “Nelle aree naturali protette l’acquisizione gratuita delle opere abusive di cui all'articolo 7, sesto comma, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, e successive modificazioni, (...allo stato della legislazione vigente, art. 31, sesto comma, d.p.r. n. 380 del 2001) si verifica di diritto a favore degli organismi di gestione ovvero, in assenza di questi, a favore dei comuni. restano confermati gli obblighi di notifica al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare degli accertamenti, delle ingiunzioni alla demolizione e degli eventuali abbattimenti direttamente effettuati, come anche le procedure e le modalità di demolizione vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge". L’entrata in vigore di tale normativa è disciplinata dall’art. 1, comma, 1364: “la presente legge entra in vigore il gennaio 2007, ad eccezione dei commi 966, 967, 968 e 969, che entrano in vigore dalla data di pubblicazione della presente legge”. * * * Illustrato il quadro normativo storico, questo g.U. concorda con la tesi espressa dalla Avvocatura dello Stato di Napoli. Infatti, si tratta di applicare il principio del "tempus regit actum" in relazione alla legge vigente al momento del fatto generatore dell’acquisto ope legis della proprietà che avviene a titolo originario e di diritto per il mero decorso del tempo (cfr. C. Stato, sez. v, 12 (*) Termine prorogato al 30 giugno 2002, dall’art. 5-bis, comma 1, D.L. 23 novembre 2001, n. 411, convertito dalla L. 31 dicembre 2001, n. 463 e, successivamente, al 30 giugno 2003 dall'art. 2, comma 1, D.L. 20 giugno 2002, n. 122, convertito, con modificazioni, dall'art 1, comma 1, L. 1° agosto 2002. n. 185. PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo dicembre 2008, n. 6174, nonché gli altri arresti della giurisprudenza richiamati da codesta Avvocatura distrettuale nel parere in oggetto). Peraltro, si tratta di sanzione autonoma che ''consegue all’inottemperanza dell’ingiunzione, abilitando poi il sindaco ad una scelta fra la demolizione di ufficio e la conservazione del bene, definitivamente già acquisito, per la destinazione a fimi pubblici, sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o ambientali" (Corte Costituzionale, sentenza n. 345 del 11 luglio 1991). Da qui il corollario che "la notifica dell’accertamento dell’inottemperanza è un adempimento estrinseco rispetto alla fattispecie ablatoria ed ha due funzioni. l'una, consiste nello essere il necessario titolo per la concreta immissione nel possesso da parte dello ente comunale qualora l’interessato non intenda spontaneamente spogliarsi del bene; l’altra, si rinviene nel permettere al comune di trascrivere nei registri immobiliari il trasferimento della proprietà (per gli effetti dell'art. 2644 cod. civ.)" (Cass. pen., sez. IIII, 28 maggio 2009, n. 22440, Morichetti). Secondo autorevole dottrina (Predieri) si tratta di un’ablazione intesa quale confisca amministrativa repressiva, in quanto sanzione conseguente ad un illecito amministrativo, quale è il costruire senza il provvedimento concessorio (o in difformità da esso). Quindi, i due effetti automatici (lo spossessamento e la acquisizione al patrimonio dell’ente) si verificano nello stesso tempo istantaneo ed a quel tempo va individuato l’ente competente che la legge in vigore in quel momento indica. In conclusione, precisato che qualora sia intervenuto il jus superveniens prima dello scadere dei 90 gg. la acquisizione in proprietà già compete al nuovo ente, questo g.U. ritiene che la mancata demolizione entro novanta giorni dalla notificazione della relativa ordinanza produca al novantunesimo giorno che cada prima della entrata in vigore della legge n. 426/1998 o della legge n. 296/2006, l’effetto dell’acquisto in proprietà del Comune. La questione è stata sottoposta all’esame del Comitato Consultivo della Avvocatura generale dello Stato di cui all’art. 26 della legge 3 aprile 1979, n. 103, che si è espresso in conformità. RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 la regola del concorso pubblico per le progressioni tra aree funzionali e la deroga di legge Parere del 17/01/2017-24381, al 29974/2016, avv. FraNcesco MeloNcelli la fattispecie Con la nota in epigrafe codesto Ufficio del Ministero espone quanto segue: -con D.D. 11 luglio 2001 n. 13302 il Ministero avviava una procedura di selezione interna per la copertura di n. 715 posti disponibili nell’area C, posizione economica C1 (attualmente corrispondente all’area III, fascia retributiva F1), alla quale erano ammessi a partecipare i dipendenti collocati nell’area B, posizioni economiche B1, B2 e B3 (attualmente corrispondenti all’area funzionale II). La formazione della graduatoria per l’ammissione al percorso formativo doveva considerare: l’esperienza professionale maturata nel Ministero nelle qualifiche che davano il diritto a concorrere; l’anzianità di servizio; il titolo di studio del quale il candidato era in possesso al momento della presentazione della domanda; le attività formative eventualmente svolte nel corso della carriera all’interno dell’Amministrazione stessa o in altri istituti universitari; l’idoneità a prove selettive o concorsi per la qualifica per la quale si concorreva e la valutazione del dirigente responsabile. La procedura prevedeva, quindi, l’espletamento di un percorso formativo e, da ultimo, l’esame finale; -all’esito dello svolgimento della suddetta procedura di selezione, per effetto del rilevante peso dato all’anzianità di servizio, i candidati della posizione economica B3 venivano preceduti, nella graduatoria per l’accesso al percorso formativo, dai candidati delle posizioni economiche B1 e B2, perdendo di fatto la possibilità di conseguire la qualifica dell’area C1; -in data 1 agosto 2003 veniva stipulato tra codesto Ufficio e le organizzazioni sindacali una preintesa, in base alla quale i candidati della posizione economica B3 venivano ammessi, sebbene non fossero rientrati nella graduatoria, a partecipare al percorso formativo al cui termine è stata approvata, nel 2008, una graduatoria di vincitori nella quale hanno trovato la precedenza i soggetti in posizione economica B3; -tale modus operandi ha generato una serie di contenziosi promossi dai candidati della posizione economica B2, i quali nella graduatoria finale sono stati posposti rispetto ai candidati della posizione economica B3, ammessi in soprannumero. Tali contenziosi si sono conclusi con delle sentenze, emesse dal giudice amministrativo, le quali accoglievano le doglianze dei candidati della posizione economica B2, considerato che la precedenza data ai candidati della posizione economica B3, nella formazione della graduatoria per la partecipazione al percorso formativo, era stata prevista esclusivamente dall’ac PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo cordo sindacale del 1 settembre 2003 ma non era stata recepita nel bando di partecipazione al concorso; -al fine di evitare una modificazione in pejus della posizione economica dei dipendenti ex B3, che da tempo erano già stati inquadrati nella posizione economica C1, codesto Ufficio, con il decreto dell’8 ottobre 2010 n. 87905, ha deciso di mantenere invariata, in via di autotutela, la posizione economica dei dipendenti ex B3 e B3S; -tale ultimo decreto, richiamato nel punto precedente, è stato invalidato con diverse sentenze del Consiglio di Stato (cfr. sentt. 3602/2013; 4212/13) con le quali il giudice amministrativo ha accolto i ricorsi presentati dai dipendenti appartenenti alla posizione economica B2; -in ottemperanza a quanto disposto dalle suindicate sentenze, codesto Ufficio emanava il decreto 26 settembre 2013 n. 110391, rettificato dal decreto 9 ottobre 2013 n. 115693, con il quale i candidati della posizione economica B3, che per effetto dell’ampliamento dei posti avevano conseguito la qualifica superiore C1, venivano rinquadrati nell’area originaria di appartenenza (attuale area funzionale II, fasce retributive F3 e F4), a decorrere dal 14 ottobre 2013; -a seguito delle ordinanze del Consiglio di Stato n. 4709/2013 e n. 4708/2013, con le quali venivano accolte le istanze cautelari di alcuni dei candidati “retrocessi” alla posizione economica B3, e per l’effetto veniva sospesa l’esecutività delle sentenze del Consiglio di Stato 3602/2013 e 4212/2013 già richiamate, codesto Ufficio, con D.D. 6 dicembre 2013 n. 0141629, ha provveduto a sospendere l’efficacia dei decreti n. 11031 del 26 settembre 2013 e n. 115693 del 9 ottobre 2013 in attesa della discussione nel merito delle istanze cautelari congiuntamente alla richiesta di chiarimenti, ex art. 112, comma 5, c.p.a., proposta dal Ministero; -il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 5153/2015, ha definitivamente ordinato <>; -codesto Ufficio, pertanto, con D.D. 2 dicembre 2015 n. 136627 ha ripristinato gli effetti dei decreti n. 110391 del 26 settembre 2013 e n. 115693 del 9 ottobre 2013 di presa d’atto della dichiarazione di nullità del decreto n. 87905 dell’8 novembre 2010, rinquadrando definitivamente nell’ex area B, posizione economica B3 e B3S (ora area funzionale II, fasce retributive F3 e F4) i candidati che avevano beneficiato dell’accordo sindacale, facendo decorrere gli effetti di questa nuova disposizione dal 14 ottobre 2013; -con l’art. 1, comma 9, legge 28 dicembre 2015, n. 208, il legislatore, nell’intento di intervenire nella materia de qua, ha disposto che “al fine di evitare un pregiudizio alla continuità dell'azione amministrativa, ai dipendenti dell'amministrazione economico-finanziaria, ivi incluse le agenzie fiscali, cui sono state affidate le mansioni della terza area sulla base dei RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 contratti individuali di lavoro a tempo indeterminato stipulati in esito al superamento di concorsi banditi in applicazione del contratto collettivo nazionale di comparto del quadriennio 1998-2001, o del quadriennio 2002-2005, continua ad essere corrisposto, a titolo individuale e in via provvisoria, sino all'adozione di una specifica disciplina contrattuale, il relativo trattamento economico e gli stessi continuano ad esplicare le relative funzioni, nei limiti delle facoltà assunzionali a tempo indeterminato e delle vacanze di organico previste per le strutture interessate”; -secondo l’interpretazione di codesto Ufficio, la norma prevede il mantenimento, in capo ai dipendenti “retrocessi”, del trattamento economico e delle funzioni svolte prima della retrocessione, mediante l’assegnazione, a titolo individuale ed in via provvisoria, di un differenziale a carico di fondi assunzionali; -codesto Ufficio ha quindi, con nota del 19 gennaio 2016 n. 5869, provveduto a comunicare alla Presidenza del Consiglio dei Ministri che ai dipendenti appartenenti all’area funzionale II, fasce retributive F3 e F4, continuava ad essere corrisposto il trattamento economico dell’area III, fascia retributiva F1; -con i D.D. n. 61051, 61052 e 61045 del 23 maggio 2016 e il D.D. n. 67120 dell’8 giugno 2016 codesto Ufficio ha indetto l’avvio delle procedure per lo sviluppo economico all’interno delle Aree; -in particolare, i dipendenti appartenenti all’area funzionale II, fasce retributive F3 e F4, destinatari della disposizione di cui all’art. 1, comma 9, cit., hanno presentato domanda informatica di partecipazione alla procedura, modificando la propria Area e fascia economica di appartenenza e partecipando alla progressione per lo sviluppo economico nell’area 3, fascia retributiva F2; -con la chiusura della fase d’iscrizione, codesto Ufficio tramite la nota n. 76801 del 4 luglio 2016, ha comunicato al Dipartimento delle Finanze, unità organizzativa alle dirette dipendenze del Direttore generale delle Finanze, che con riguardo ai dipendenti beneficiari, nella procedura del 2001, degli effetti dell’ampliamento dei posti, grazie ai quali avevano conseguito una qualifica superiore, si era provveduto con D.D. a rinquadrali nell’area funzionale II, fasce retributive F3 e F4, in ottemperanza a quanto disposto dalle Sentenze del Consiglio di Stato (sentt. 3602/2013, 4212/2013 e 5153/2015). Di conseguenza, tali dipendenti potevano partecipare alla procedura per lo sviluppo economico indetta nel 2016 esclusivamente all’interno dell’area funzionale II, per vedersi attribuire la fascia retributiva superiore, rispetto a quella attualmente in godimento; -di contro, i dipendenti interessati dalla vicenda de qua hanno rivendicato, in forza di quanto disposto dall’art. 1, comma 9, cit. il diritto a poter concorrere alla procedura di progressione economica per l’Area III, fascia retributiva F2. PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo il quesito Premesso tutto ciò, codesto Ufficio chiede di sapere se l’art. 1, comma 9, cit. “sia da interpretare nel senso che i suddetti dipendenti, in possesso del trattamento economico equiparato alla qualifica area iii, fascia retributiva F1 e ammessi allo svolgimento delle relative funzioni, possano concorrere per l’attribuzione della fascia economica superiore (area iii, fascia retributiva F2), atteso che l’art. 2 dei decreti di indizione delle procedure citate prevede, come requisito di ammissione, l’anzianità di almeno due anni nella fascia retributiva di appartenenza, ovvero se, come invece ritenuto da codesto ufficio in conseguenza del dettato normativo, la norma, al fine di garantire la continuità amministrativa, persegua l’obiettivo di riconoscere ai dipendenti interessati esclusivamente il mantenimento del trattamento economico correlato allo svolgimento di funzioni, senza incidere sull’attribuzione dell’area e fascia economica di appartenenza, id est sullo stato giuridico, che risulta essere tuttora corrispondente all’area ii, fascia retributiva F3 e F4”. la risposta al quesito I destinatari dell’art. 1, comma 9, L. 208/2015 sono coloro ai quali “sono state affidate le mansioni della terza area sulla base dei contratti individuali di lavoro a tempo indeterminato stipulati in esito al superamento dei concorsi banditi in applicazione del contratto collettivo nazionale di comparto del quadriennio 1998-2001, o del quadriennio 2005”. Di seguito, il legislatore dispone che a questi dipendenti “continua ad essere corrisposto, a titolo individuale e in via provvisoria … il relativo trattamento economico e gli stessi continuano ad esplicare le relative funzioni”. Poiché potrebbe risultare irragionevole che il legislatore attribuisse a titolo provvisorio, a coloro che hanno vinto il concorso in base alle regole del bando, un trattamento che spetterebbe loro permanentemente in base alla qualifica e all’inquadramento previsti per il posto messo a concorso, la disposizione non può avere altro senso, ex art. 12 disp. prel. c.c. e in base ad un’interpretazione teleologica, se non quello di attribuire provvisoriamente il trattamento economico, ma non l’inquadramento, a coloro che hanno altrimenti “superato” il concorso e hanno effettivamente svolto le mansioni corrispondenti all’area terza. Pertanto, destinatari della norma sono i dipendenti che hanno meramente partecipato al concorso e ai quali l’Amministrazione economico-finanziaria ha comunque affidato, all’esito del concorso e mediante la stipula di un contratto di lavoro individuale a tempo indeterminato, le mansioni dell’area terza. gli oggetti della norma sono il trattamento economico e le funzioni da loro svolte. Quanto al primo oggetto, la norma prescrive che il trattamento economico dell’area terza continua ad essere corrisposto. Quanto al secondo oggetto, vi si prescrive che essi continuino ad esplicare le funzioni dell’area terza. RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 Tuttavia, poiché, come esplicitato nella disposizione normativa qui in esame, si tratta di una disciplina dettata, in primis, da un’esigenza di continuità dell’azione amministrativa e, in secundis, fino all’adozione di una specifica disciplina contrattuale, essa ha, evidentemente e necessariamente, carattere temporaneo e provvisorio. Lo conferma, per l’appunto, la lettera del comma 9 dell’art. 1 cit., il quale prevede che il contenuto normativo prescrittivo sopra descritto si applichi “a titolo individuale e in via provvisoria”. In altri termini, tenuto conto del senso più conveniente alla natura e all’oggetto della disposizione normativa e tenuto altresì conto del fine per il quale il legislatore è intervenuto, cioè quello di “evitare un pregiudizio alla continuità dell’azione amministrativa”, in ossequio al principio del buon andamento della pubblica amministrazione di cui all’art. 97 Cost., l’art. 1, comma 9, cit. è rivolto a coloro i quali, partecipando alle procedure per la progressione tra le aree, pur non superando la prima fase della procedura (quella che dava accesso al percorso formativo), hanno tuttavia beneficiato di una “deroga” al bando di gara disposta a seguito di un’intesa sindacale, in base alla quale essi erano stati fatti rientrare comunque tra gli ammessi allo svolgimento delle mansioni dell’area superiore (area III), seppure non avessero mai superato il concorso ai sensi del bando. Come più volte affermato dalla Corte Costituzionale <> (Corte cost., sent. 4 aprile 1990, n. 161; conformi, ex multis, Corte cost., sent. 30. ottobre 1997, n. 320; Corte cost., sent. 4 gennaio 1999, n. 1). Tale principio di derivazione costituzionale è stato, peraltro, recentemente positivizzato dal legislatore, tramite l’introduzione del comma 1-bis all’art. 52 del D.Lgs. 30 marzo .2001 n. 165. Ne deriva che l’espletamento e il superamento di un concorso non attiene soltanto alla fase iniziale dell’accesso al pubblico impiego, ma coinvolge anche le eventuali progressioni tra aree funzionali alle quali il dipendente, già collocato all’interno dell’ amministrazione pubblica, vorrà eventualmente partecipare. Una diversa lettura della disposizione normativa di cui qui si tratta, anzi, PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo potrebbe reputarsi come violatrice dei giudicati amministrativi sopra menzionati, nei quali è stata sancita l’illegittimità amministrativa dell’operato del- l’Amministrazione, che avrebbe inquadrato il personale dell’area B3 nell’area terza, per effetto di un ampliamento della graduatoria dei vincitori non prevista nel bando di concorso. Il trattamento retributivo, corrispondente all’area III, fascia retributiva F1, è, infatti, mantenuto nei confronti dei soggetti beneficiari della disposizione normativa soltanto in via provvisoria e per esigenze legate alla continuità amministrativa. Ciò comporta, quindi, che i dipendenti in questione sono comunque tenuti ad effettuare gli sviluppi economici all’interno dell’effettiva area di appartenenza, nel caso di specie corrispondente all’area funzionale II, essendo l’espletamento delle mansioni dell’area III provvisorio, legato ad esigenze di continuità dell’azione amministrativa e destinato, per sua stessa natura, a cessare per effetto del sopravvenire delle condizioni previste dalla legge per la sua cessazione. In conclusione, i dipendenti a cui si applica il comma 9 dell’art. 1 L. n. 208/2015, restano inquadrati, ai fini dell’espletamento di concorsi interni volti allo sviluppo economico o alla progressione tra le aree, nell’area funzionale II, fasce retributive F3 e F4. Sulle questioni trattate nel presente parere è stato sentito il Comitato consultivo di questo Istituto, che si è espresso in conformità. RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 Il regime della revisione dei prezzi negli appalti di lavori a seguito della novellata disciplina del d.lgs 50/2016 Parere del 23/01/2017-35949, al 40294/2016, avv. Paola PalMieri Codesto Ministero ha chiesto il parere di questo g.U. in ordine all’applicazione della disciplina introdotta dal decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, recante “attuazione delle direttive 2014/23/ue, 2014/24/ue e 2014/25/ue, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure di appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture”. 1. Con la richiesta di parere, in particolare, si richiama il Comunicato in data 11 maggio 2016, con il quale il Presidente dell’A.N.A.C. ha chiarito che le disposizioni di cui al d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, come noto abrogato dal d.lgs. n. 50/2016, continuano ad applicarsi, tra l’altro, nel caso di “affidamenti aggiudicati prima della data di entrata in vigore del nuovo codice, per i quali siano disposti, fermo restando il divieto generale di rinnovo tacito e di proroga del contratto: il rinnovo del contratto o modifiche contrattuali derivanti da rinnovi già previsti nei bandi di gara; consegne, lavori e servizi complementari; ripetizione di servizi analoghi; proroghe tecniche -purché limitate al tempo strettamente necessario per l’aggiudicazione della nuova gara; varianti per le quali non sia prevista l’indizione di una nuova gara. ciò, indipendentemente dal fatto che per tali fattispecie sia prevista l’acquisizione di un nuovo cig, in quanto si tratta di fattispecie relative a procedure di aggiudicazione espletate prima dell’entrata in vigore del nuovo codice”. Alla luce di tali premesse, codesta Amministrazione chiede alla Scrivente di precisare se continuano a trovare applicazione alcune disposizioni contenute nell’art. 133 del d.lgs. n. 163/2006. Ci si riferisce, in particolare: a) alle attività prescritte in attuazione dell’art. 133, comma 3, del d.lgs. n. 163/2006 e ss.mm. ed ii. (recante l’istituto del cd. prezzo chiuso, con particolare riferimento alla necessità che il decreto ministeriale di fissazione della percentuale di aumento del prezzo dei lavori continui, in applicazione di quanto indicato nella Comunicazione del Presidente dell’A.N.A.C. sopra menzionata, ad essere adottato annualmente dal Ministero, pur in assenza di un’espressa disposizione normativa all’uopo prevista dal nuovo Codice (neppure in sede di regime transitorio, disciplinato dall’art. 216 del d.lgs. n. 50/2016); b) alle attività di cui ai commi 4, 5, 6 e 6 bis del medesimo art. 133, in materia di compensazioni. Il dubbio dell’Amministrazione riguarda l’ulteriore decreto, da adottarsi entro il 31 marzo di ogni anno, con cui il Ministero, ai sensi di dette disposizioni rileva le variazioni percentuali annuali dei singoli prezzi dei materiali da costruzione più significativi. PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo L’art. 106, comma 1, lett. a) del nuovo Codice, infatti, nello stabilire le condizioni e i termini in base ai quali possono essere apportate modifiche ai contratti senza una nuova procedura di affidamento, non sembra fare alcun riferimento a tale provvedimento ministeriale. Pertanto, sul punto, la richiesta è volta a chiarire se, le valutazioni in materia di variazioni di prezzo indicate nel sopra richiamato art. 106, comma 1, lett. a) siano previste direttamente a carico delle stazioni appaltanti o se, invece, debbano continuare ad essere assicurate mediante l’apposito decreto del Ministero. Al fine di dare adeguato riscontro alla richiesta di parere, si ritiene opportuno, innanzitutto, procedere all’inquadramento generale ed alla disamina delle norme citate nel contesto del peculiare regime pubblicistico della revisione dei prezzi nell’ambito degli appalti di lavori, facendo riferimento alla disciplina abrogata e a quella da poco introdotta. 2. Le disposizioni che formano oggetto della richiesta di parere afferiscono al peculiare regime della revisione dei prezzi negli appalti di lavori. 2.1. A tale proposito, l’art. 133 del Codice abrogato, una volta stabilito che per i lavori pubblici affidati dalle stazioni appaltanti non si potesse procedere alla revisione dei prezzi né applicare l’art. 1664, comma 1 c.c. (comma 2), prevedeva che, in tali casi, si dovesse applicare il prezzo chiuso, “consistente nel prezzo dei lavori al netto del ribasso d’asta, aumentato di una percentuale da applicarsi, nel caso in cui la differenza tra il tasso di inflazione reale e il tasso di inflazione programmato nell’anno precedente sia superiore al 2 per cento, all’importo dei lavori ancora da eseguire per ogni anno intero previsto per l’ultimazione degli stessi”. Tale percentuale era fissata, “con decreto del Ministro delle infrastrutture da emanare entro il 31 marzo di ogni anno, nella misura eccedente la predetta percentuale del 2 per cento” (comma 3). Dalla data di pubblicazione del suddetto decreto in gazzetta Ufficiale, decorreva il termine di sessanta giorni, entro il quale, a pena di decadenza, l’appaltatore aveva l’onere di presentare alla stazione appaltante l’istanza di applicazione del prezzo chiuso (comma 3 bis). In deroga a tale regime, laddove il prezzo dei singoli materiali da costruzione, per effetto di circostanze eccezionali, avesse subito variazioni in aumento o in diminuzione, superiori al dieci per cento rispetto al prezzo rilevato dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti nell’anno di presentazione dell’offerta con l’apposito decreto, si faceva luogo a compensazioni, in aumento o in diminuzione, per la metà della percentuale eccedente il dieci per cento e nel limite delle risorse appositamente accantonate per imprevisti (comma 4). Analogamente a quanto previsto con riferimento al prezzo chiuso, da un lato, il Ministero era tenuto ad emanare, sempre entro il 31 marzo di ogni anno, un decreto con cui si rilevavano le variazioni percentuali annuali dei singoli prezzi dei materiali da costruzione più significativi (comma 6); dall’altro, l’ap RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 paltatore, per beneficiare della compensazione, era tenuto a presentare la relativa istanza, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dalla pubblicazione del decreto medesimo (comma 6 bis). 2.2. Il regime della revisione dei prezzi, nell’ambito dei contratti relativi ai lavori, ha subito modifiche significative ad opera del d.lgs. n. 50/2016. Tali modifiche hanno comportato il superamento degli istituti del prezzo chiuso e delle compensazioni, così come disciplinate nel previgente contesto normativo. Il comma 1 dell’art. 106 del nuovo Codice, prevede, in linea generale, che le modifiche e le varianti dei contratti di appalto in corso di validità devono essere autorizzate dal RUP con le modalità previste dall’ordinamento della stazione appaltante da cui il RUP dipende. Inoltre, ai sensi della lett. a) di tale comma, i contratti di appalto nei settori ordinari e nei settori speciali possono essere modificati senza una nuova procedura di affidamento purché le modifiche, a prescindere dal loro valore monetario, siano state previste nei documenti di gara iniziali in clausole chiare, precise ed inequivocabili, che possono comprendere clausole di revisione dei prezzi. Tali clausole, in ogni caso, non devono essere tali da apportare modifiche idonee ad alterare la natura generale del contratto o dell’accordo quadro. Per quanto più interessa in questa sede, la disposizione prosegue prevedendo, specificamente per i contratti relativi a lavori, che “le variazioni di prezzo in aumento o in diminuzione possono essere valutate, sulla base dei prezziari di cui all’art. 23, comma 7, solo per l’eccedenza rispetto al 10% rispetto al prezzo originario e comunque in misura pari alla metà”. 3. Passando all’esame della disciplina transitoria si osserva che, l’art. 216, comma 1, del d.lgs. n. 50/2016 stabilisce, in via generale, che il Codice “si applica alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata in vigore nonché, in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o di avvisi, alle procedure e ai contratti in relazione ai quali, alla data di entrata in vigore del presente codice, non siano ancora stati inviati gli inviti a presentare le offerte”. Siffatte disposizioni fissano, come pure ha avuto a dire la Commissione Speciale del Consiglio di Stato, nel parere sullo schema di decreto del 21 marzo 2016, n. 855, un “usuale regime transitorio generale”. Da parte sua, il Comunicato del Presidente dell’A.N.A.C. dell’11 maggio 2016, nel precisare la portata della norma suddetta, ha confermato, da un lato, che “le disposizioni del d.lgs. n. 163/06 si applicano a tutti gli avvisi pubblicati entro il 19.04.2016”, dall’altro, come detto sopra, ha ritenuto doversi continuare ad applicare le disposizioni previgenti agli “affidamenti aggiudicati prima della data di entrata in vigore del nuovo codice, per i quali siano disposti, fermo restando il divieto generale di rinnovo tacito e di proroga del contratto: il rinnovo del contratto o modifiche contrattuali derivanti da rinnovi già previsti nei bandi di gara; consegne, lavori e servizi complementari; ri PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo petizione di servizi analoghi; proroghe tecniche -purché limitate al tempo strettamente necessario per l’aggiudicazione della nuova gara; varianti per le quali non sia prevista l’indizione di una nuova gara”, specificando come ciò accada “indipendentemente dal fatto che per tali fattispecie sia prevista l’acquisizione di un nuovo cig, in quanto si tratta di fattispecie relative a procedure di aggiudicazione espletate prima dell’entrata in vigore del nuovo codice” (v. punto 1 del Comunicato) . 3.1 Senza soffermarsi - in quanto si tratta di questione non attinente all’oggetto della richiesta in esame - sul fatto che, a differenza della norma di legge, il Comunicato fa riferimento anche al momento della “aggiudicazione”, e non solo a quello della “pubblicazione” del bando, quale dies a quo per l’applicazione del nuovo Codice, in ogni caso, sembra potersi ritenere, da quanto risulta alla stregua delle disposizioni di legge e dal menzionato chiarimento dell’Autorità competente, che si continui ad applicare la vecchia normativa per tutte le procedure di scelta del contraente già disposte, secondo le pertinenti modalità, alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016. Come specificato dall’A.N.A.C., tale principio generale vale per tutte le fattispecie indicate nel richiamato comunicato che, osserva questo g.U., determinando un maggior tempo contrattuale, potrebbero dare luogo ad altrettante ipotesi di possibili aggiornamenti dei prezzi contrattuali, o per applicazione del prezzo chiuso o per applicazione dell’istituto della compensazione, ove siano ricorrenti i relativi presupposti. Il dubbio di Codesta Amministrazione sembra potersi ricondurre alla circostanza per la quale, i provvedimenti ministeriali collegati alla disciplina del prezzo chiuso e delle compensazioni, devono essere emanati annualmente, entro il termine stabilito dalla legge, e ciò, nonostante che, nel nuovo Codice, non sussista una trasposizione degli istituti in esame. 4. Si osserva, al riguardo, che, una volta che si ritenga applicabile la disciplina previgente, difficilmente potrà negarsi l’obbligo del Ministero di continuare ad emanare i decreti che la rendono attuabile con riferimento agli istituti oggetto di esame. L’art. 217 del nuovo Codice, del resto, dispone l’abrogazione del D.Lgs. n. 163 del 2006 “fermo restando quanto previsto dall’art. 216”, ovvero fatta salva la disciplina transitoria ivi introdotta. 4.1 giova richiamare, al riguardo, la giurisprudenza amministrativa che, nella vigenza della normativa precedente al d.lgs. n. 163/2006, con riferimento alla disciplina del prezzo chiuso di cui all’art. 26, comma 4, della legge 11 febbraio 1994, n. 109, riprodotta, peraltro, in modo quasi identico dall’art. 133, commi 3 e 3bis, del d.lgs. n. 163/2006, ha affermato l’obbligo del Ministero per i Lavori pubblici, allora competente, di provvedere annualmente al- l’adozione del relativo decreto pur in assenza dei presupposti di fatto atti ad integrare in aumento il prezzo originario dei lavori. RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 Ciò, non solo in quanto, spetta “necessariamente all’amministrazione di effettuare il rilievo dello scostamento tra inflazione programmata e inflazione reale, perché solo ove tale operazione sia compiuta è possibile affermare o negare che la seconda abbia avuto un’eccedenza percentuale rispetto alla prima superiore al 2%”, ma, altresì, in quanto, “quale che ne sia il risultato, la rilevazione dello scostamento tra i due indici in questione costituisce l’esercizio formalizzato di un potere valutativo che si riflette sulla posizione delle imprese”. esse “hanno perciò un interesse qualificato dalla stessa normativa qui in rilievo a veder pubblicati i presupposti ed i criteri utilizzati nella valutazione, al fine di conoscere come, comunque, la loro posizione sia stata definita dall’amministrazione (…) e di poter contestare, nelle sedi opportune, gli esiti che ritenessero illegittimamente sfavorevoli” (In tal senso, Cons. St., sez. vI, 4 settembre 2006, n. 5088). 4.2 L’esistenza di un tale interesse qualificato dell’appaltatore all’emanazione del decreto ministeriale è ancora più evidente nel contesto normativo del d.lgs n. 133/2006. Il comma 3 bis dell’art. 133 prevede, infatti, che il procedimento di aumento del prezzo, in attuazione del meccanismo del prezzo chiuso, si attivi su istanza di parte (si veda, TAR Lazio - Roma, sez. III, 7 ottobre 2014, n. 10226, che si riferisce altresì alla disciplina della compensazione per variazioni dei prezzi di singoli materiali da costruzione), facendo decorrere il termine perentorio di sessanta giorni per la presentazione della domanda proprio dalla data di pubblicazione del decreto. Considerazioni analoghe possono essere svolte con riferimento al decreto di rilevazione delle variazioni percentuali annuali dei singoli prezzi dei materiali da costruzione più significativi, di cui al comma 6 dell’art. 133, dal momento che anche in tal caso sussiste un chiaro rapporto di strumentalità tra l’emanazione di siffatto provvedimento da parte del Ministero e l’attivazione della procedura, nonché l’esercizio dello specifico interesse qualificato del- l’appaltatore (come rilevato nel corso della trattazione, il comma 6 bis dell’art. 133 prevede, anche in questa ipotesi, un termine perentorio di sessanta giorni dalla pubblicazione del decreto per la presentazione della relativa istanza). Sul punto, si può, pertanto, concludere nel senso di ritenere l’emanazione dei decreti ex commi 3 e 6 dell’art. 133 come strumentale all’applicazione delle relative discipline, rispettivamente del prezzo chiuso e della compensazione. 5. Prima di poter definitivamente concludere secondo quanto sopra prefigurato si ritiene opportuno procedere ad un’ultima verifica, concernente l’esistenza di strumenti, previsti dal nuovo regime ex d.lgs. n. 50/2016, idonei, eventualmente, a supplire all’emanazione dei provvedimenti in discorso o, comunque di carattere equivalente. Infatti, qualora venisse integrata tale ipotesi, il generale principio di economicità dell’azione amministrativa, immanente nel sistema e, comunque codificato dall’art. 1, comma 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241, potrebbe giustificare la non adozione dei decreti. PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo 5.1 Come sopra rilevato, l’art. 106 del nuovo Codice, rubricato “Modifica dei contratti durante il periodo di efficacia”, non prevede più l’operatività dell’istituto del prezzo chiuso - peraltro, di scarso successo nella vigenza del vecchio Codice - né di quello della compensazione per eccezionali variazioni dei prezzi dei materiali da costruzione. Al loro posto, per i contratti relativi a lavori, si dispone, ferma la necessità che le condizioni di revisione dei prezzi debbano essere state “previste nei documenti di gara iniziali in clausole chiare, precise ed inequivocabili”, che “le variazioni di prezzo in aumento o in diminuzione possono essere valutate, sulla base dei prezzari di cui all’art. 23, comma 7, solo per l’eccedenza rispetto al 10% rispetto al prezzo originario e comunque in misura pari alla metà” (art. 106, comma 1, lett. a)). La possibilità di aggiornamento dei prezzi dunque, è rimessa alla inequivoca volontà delle parti del contratto, con il limite, indisponibile, che i meccanismi revisionali così previsti non alterino la natura generale del contratto. Nel codice previgente, invece, la disciplina del prezzo chiuso e quella relativa alle compensazioni nasce da una previsione automatica derivante da uno scostamento significativo dei prezzi certificato dal Ministero. La nuova norma, in ogni caso, non fa alcun riferimento alla differenza superiore al 2 per cento tra il tasso di inflazione reale e il tasso di inflazione programmato, quale presupposto per l’adeguamento del prezzo. Pertanto, con riferimento alla disciplina del prezzo chiuso, è evidente l’assenza, nel nuovo Codice, di strumenti analoghi al decreto ministeriale di fissazione della percentuale da applicarsi all’importo dei lavori, nella misura eccedente la predetta percentuale del 2 per cento. Detto provvedimento, pertanto, a parere della Scrivente, dovrà continuare ad essere adottato, entro il 31 marzo di ogni anno, fino a che non vi siano procedure cui si applica il regime transitorio. 5.2 Le medesime conclusioni valgono con riferimento al decreto ministeriale che rileva le variazioni percentuali annuali dei singoli prezzi dei materiali da costruzione più significativi. L’art. 106, comma 1, lett. a), quarto periodo del d.lgs. n. 50/2016, come già visto, prevede un meccanismo in parte simile a quello delle compensazioni per eccezionali variazioni dei prezzi dei materiali, ma dispone che le variazioni in aumento o in diminuzione possono essere valutate “sulla base dei prezzari di cui all’art. 23, comma 7”. Si tratta di atti documenti “predisposti dalle regioni e dalle province autonome territorialmente competenti, di concerto con le articolazioni territoriali del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti” che servono a consentire la quantificazione definitiva del limite di spesa in sede di progettazione definitiva, peraltro definiti dal menzionato comma 7 come eventualmente adottati (occorre, infatti, fare riferimento ad essi “ove esistenti”). RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 essi, tuttavia, non sembrano possedere caratteristiche e contenuti analoghi a quelli del decreto ministeriale ex art. 133, comma 6 del d.lgs. n. 163/2006, in quanto gli stessi certificano l’adeguamento dei prezzi ai valori di mercato correnti, ma non costituiscono strumenti attraverso i quali è possibile rilevare annualmente le variazioni percentuali dei prezzi medesimi. *** Alla luce di quanto sopra considerato si conclude nel senso che, finché ricorrano procedure rientranti nel campo applicativo del regime transitorio ex art. 216 d.lgs. n. 50/2016 il Ministero dovrà considerarsi tenuto all’emanazione tanto del decreto ministeriale di cui all’art. 133, comma 3, del d.lgs. n. 163/2006, quanto del decreto ministeriale di cui all’art. 133, comma 6 del medesimo decreto legislativo, in quanto provvedimenti dotati anch’essi di efficacia ultrattiva nei limiti di applicazione del regime transitorio di cui all’art. 216, comma 1, del nuovo Codice. L’interpretazione contraria, infatti, vanificherebbe la portata dell’efficacia ultrattiva delle norme previgenti ma rientranti nella descritta disciplina transitoria, anche con possibile lesione degli affidamenti vantati dalle imprese che abbiano stipulato i relativi contratti. *** Coinvolgendo questioni di massima, il presente parere è stato sottoposto all’esame del Comitato consultivo, ai sensi dell’art. 26 della legge 3 aprile 1979, n. 103, che si è espresso in conformità nella seduta del 20 gennaio 2017. PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo Il rimborso delle spese legali a favore di dipendenti di amministrazioni statali ai sensi dell’art. 18 del d.l. 25 marzo 1997 n. 67: la “ratio” del rimborso Parere del 03/03/2017-117921, al 22847/2016, avv. isaBella corsiNi Per ragioni di chiarezza, si riepiloga che il dipendente indicato in oggetto ha presentato istanza diretta ad ottenere il rimborso delle spese di difesa sostenute nell’ambito del procedimento penale per i reati militari di appropriazione indebita di munizioni da guerra e peculato, poi diversamente qualificati in contravvenzione per abusiva detenzione di munizioni non denunciate al- l’Autorità (ex art. 697 c.p.), definito con sentenza di assoluzione per insussistenza dal fatto del Tribunale penale di ..., in composizione collegiale, divenuta irrevocabile in data 7 maggio 2014. Ha allegato alla domanda nota spese predisposta dal proprio legale per un importo complessivo di euro 5.646,79 (importo comprensivo di CPA, rimborso forfettario ed IvA). La scala gerarchica ha espresso parere contrario al rimborso (cfr. nota del Comando Legione Carabinieri Lazio del 9 maggio 2016), poiché non appare integrata la connessione dei fatti con l’assolvimento degli obblighi istituzionali. La Scrivente, concorda con l’avviso espresso da codesta Amministrazione e dalla Scala gerarchica, ritenendo che la fattispecie non rientri nella previsione beneficiante dell’art. 18 comma 1, del D.L. n. 67/97, convertito dalla Legge n. 135/97. Nella sentenza si legge che: “… il teste del P.M. ha precisato che si trattava di un ufficio normalmente in uso al M., ma in sua assenza utilizzato anche da altri colleghi e che la scrivania non era chiusa a chiave. inoltre, ha ancora riferito il luogotenente nel cassetto di tale scrivania vennero rinvenute la pistola del maresciallo con il suo caricatore da 15 colpi nonché un altro caricatore con 14 colpi che il M. disse non essere suo e che venne comunque sequestrato. tali essendo gli elementi a disposizione di questo collegio non si ritiene che possa affermarsi al di la di ogni ragionevole dubbio che il caricatore con i 14 proiettili in questione appartenesse necessariamente all’odierno imputato. la non esclusività dell’uso della stanza adibita ad ufficio del Maresciallo M. e quindi della scrivania in essa presente nemmeno chiusa a chiave non consentono di escludere che qualcun altro abbia potuto mettere e forse dimenticare nella scrivania in questione quel secondo caricatore, il quale peraltro nulla aveva a che fare né con la pistola in dotazione al M., né con quelle degli altri militari della stazione, appunto perché non relativo ad arma da guerra…” (cfr pag. 6 della sentenza). L’art. 18 del D.L. 25 marzo 1997, n. 67, convertito in legge 23 maggio 1997, n. 135, consente il rimborso delle spese legali a favore dei dipendenti RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 di amministrazioni statali, qualora vengano sottoposti a giudizi “in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali”, “conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità”. La “ratio” del rimborso è quella di tenere indenni i pubblici dipendenti dalle spese legali affrontate per i procedimenti giudiziari relativi agli atti compiuti nel o connessi all’espletamento dei compiti istituzionali. Nel caso di specie, l’operato dell’imputato non è neppure incardinabile nell’ambito del rapporto di servizio con la Amministrazione di appartenenza essendo risultato dal procedimento penale che il caricatore de quo non gli apparteneva; che fu rinvenuto nel cassetto della scrivania dell’interessato ove chiunque frequentante la Stazione CC di omissis lo avrebbe potuto mettere, che il militare non si era accorto della presenza del caricatore. Alla luce di tali considerazioni si esprime parere negativo al rimborso. Sul presente parere è stato sentito il comitato consultivo dell’Avvocatura dello Stato, che si è espresso in conformità. PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo l’applicazione di sanzioni pecuniarie aggiuntive nel caso di sostituzione commissariale ex art. 32, c. 10, d.l. 90/2014 Parere del 16/03/2017-141248, al 36591/2016, avv. Mario aNtoNio sciNo 1) Quesito Con nota del 19 settembre 2016 n. 11001/119/7 27, codesto gabinetto del Ministro, richiedeva alla Scrivente Avvocatura di volersi esprimere a chiarimento di precedente parere reso su ulteriori aspetti applicativi della nuova normativa antimafia e dell’art. 32, comma 10 del D.L. 90/2014. In particolare si richiede se ad integrazione del parere reso il 27 giugno 2016 n. 309204 (CT 48015/2015)(*), la penale pecuniaria prevista in ottemperanza dell’art. 5 bis, c. 4, del D.L. 6 giugno 2012 n. 74 (conv. L. 122/2012) (in tema di interventi per il sisma dell’emilia-Romagna), sia applicabile anche nei casi previsti dall’art. 32, c. 10 del D.L. 92/2014. 2) considerazioni Il quesito suindicato riguarda profili applicativi della disciplina introdotta con l’art. 32, c. 10, D.L. 90/2014. Con riguardo al quesito attinente all’applicabilità o meno della penale prevista sulla base dell’art. 5 bis, comma 4, D.L. 74/2012 (L. 122/2012), dalle linee guida emanate dal Comitato di Coordinamento per l’Alta Sorveglianza delle grandi opere, di seguito CCASgo, (in tema di interventi urgenti per il sisma del 2012), il cui valore precettivo non è limitato alle amministrazioni ma anche agli operatori di mercato e alle stazioni appaltanti, anche ai casi di commissariamento previsti dall’art. 32 co. 10, D.L. 90/2014, tenuto conto di quanto indicato dal Comitato di coordinamento per l’Alta Sorveglianza delle grandi opere con la circolare del 26 maggio 2015, si osserva quanto segue. Invero con il parere del 27 giugno 2016 n. 309204 la Scrivente Avvocatura ha ritenuto che: -la penale prevista dai contratti stipulati dal Commissario delegato all’emergenza sisma 2012 è applicabile anche nel caso in cui l’informativa in- terdittiva antimafia sopravvenga dopo l’ultimazione dei lavori e prima della redazione del conto finale; -la penale dovrà essere ragguagliata, secondo quanto previsto dai contratti e nella percentuale ivi indicata, al valore del contratto ovvero, qualora lo stesso non sia determinato o determinabile, a quello delle prestazioni eseguite; -tuttavia, in sede di conto finale, la penale dovuta dovrà essere conguagliata, ex art. 94, comma 2, cod. antimafia, con il valore delle opere già ese- (*) Pubblicato in rassegna, 2016, vol. 3, p. 189 ss. RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 guite e, in caso di esecuzione parziale, altresì con le spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, il tutto nei limiti delle utilità conseguite. orbene nell’atto del CCASgo del 26 maggio 2015, per l’illustrazione ai Prefetti dello Schema di Protocollo Tipo da stipularsi ai sensi dell’art. 176 del Decreto legislativo 162/2006, in seguito alle modifiche intimate al d.lgs. 159/2011 e alle novità normative introdotte dal D.L. 90/2014, si richiama la necessità di inserire (art. 3 del Protocollo) clausole contrattuali antimafia, in mancanza delle quali (art. 8 Protocollo) operano ipotesi sanzionatorie cumulative: 1) risoluzione contratto ex art. 1456 c.c.; 2) penale pecuniaria nella misura dal 5% al 10%. La circolare del 26 maggio 2016 precisa che tale sanzione pecuniaria, ai sensi dell’art. 5, co. 2, del Protocollo, non opera nel caso di applicazione del- l’art. 32, c. 10, D.L. 90/2014 (art. 8, par. 2, comma 3 del citato Protocollo). Deve rilevarsi, in proposito, che l’art. 32 del D.L. 90/2014 realizza una separata gestione pubblicistica della vicenda contrattuale, anche se oggetto della misura interdittiva resa nei confronti dell’operatore nei cui confronti sia stata applicata la conservazione del contratto, con la nomina dei commissari prefettizi nella gestione del contratto. Deve rilevarsi invero che l'opzione conservativa cui risponde il rimedio previsto dall'art. 32 citato è un'alternativa ai rimedi risolutori, con conseguente inapplicabilità del sistema risarcitorio a carico dell'operatore economico interdetto con la misura antimafia, laddove invero alla misura revocatoria del contratto si aggiunge la misura della sanzione pecuniaria per rifondere la stazione appaltante, che dovrà reperire con nuove procedure di gara il bene o l'opera relativa al contratto risolto. La ratio legis dello strumento previsto dall'art. 32 citato è ben evidenziato nei pareri della Scrivente Avvocatura riguardo le sue prime applicazioni e alle seconde linee guida del 27 gennaio 2016: invero la vicenda contrattuale prosegue e in tali casi l'applicazione di una misura sanzionatoria aggiuntiva, in assenza di una specifica previsione normativa, quale l'art. 5 bis, comma 4, D.L. 74/2012 (misure urgenti per it sisma emilia Romagna), non è in linea con l'istituto della sostituzione commissariale e la necessità, ove ne ricorrano gli estremi, di ricondurre al termine del commissariamento in bonis l'Azienda (così seconde linee guida del 27 novembre 2015). L'applicazione di una sanzione non connessa all'inadempimento e addirittura in assenza di una precisa disposizione normativa, esporrebbe l'Amministrazione ad azioni giudiziarie da parte degli Amministratori delle imprese i cui contratti siano commissariati al termine del commissariamento. II legislatore attraverso la previsione della gestione separata e dell'accantonamento degli utili realizza il meccanismo che evita - da un lato - vantaggi economici a favore dell'impresa commissariata, e nel caso prospettato da codesta Amministrazione di impresa anche colpita da misura anche interdittiva, e favorisce - d'altra parte - adeguata tutela alla stazione appaltante. PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo La previsione di clausole contrattuali di tipo penale, seppure atipiche del genere di quelle introdotte con l’art. 5 bis c. 2, del D.L. 74/2012, devono essere previste alla norma e non possono essere applicate per analogia. 3) conclusioni Deve rilevarsi sulla base delle considerazioni svolte sub 2, che le conclusioni cui si ritiene, allo stato degli atti e delle normative vigenti, pervenire siano le seguenti: a) Deve escludersi la possibilità di applicare le sanzioni pecuniarie aggiuntive (penali) previste dall’art. 5 bis, c. 2 D.L. 74/2012 alle ipotesi disciplinate dall’art. 32, c. 10, D.L. 90/2014 (conv. L. 114/2014), e deve, pertanto ritenersi la congruità delle disposizioni contenute nella Circolare CCASgo del 26 maggio 2015 in relazione al protocollo tipo di cui all’art. 176 del decreto legislativo n. 163/2006 ed in particolare all’art. 8, c. 2 par. 3. b) Deve riconoscersi alle disposizioni CCASgo il valore precettivo e di interpretazione autentica della normativa primaria, di cui è attuazione, non solo ai fini interni ma anche nei confronti degli operatori di mercato e delle stazioni appaltanti. In tal senso si è espresso il Comitato consultivo nella seduta del 14 dicembre 2016. RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 Interpretazione dell’art. 84 d.lgs 159/2011 e modalità di valutazione dei requisiti per l’iscrizione nelle “white list” Parere del 12/07/2017-351086, al 9436/2017, avv. Mario aNtoNio sciNo Quesito Codesto Ministero chiede di conoscere il parere della Scrivente Avvocatura circa le modalità di valutazione dei requisiti per l’iscrizione nell’elenco dei fornitori e prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativo d’infiltrazione mafiosa (“white list”). Con circolare del 17 febbraio 2014, codesto Ministero chiariva invero che, per l’iscrizione dell’impresa richiedente nei predetti elenchi, “nel caso ci si trovi in presenza di una o più delle situazioni previste dall’art. 84, comma 4, del d.lgs 159/2011, occorrerà disporre i necessari accertamenti volti a verificare se esse siano sintomatiche dell’esistenza di tentativi di infiltrazioni mafiosa”. A seguito di alcune recenti sentenze del Consiglio di Stato si chiede alla Scrivente Avvocatura generale di voler far conoscere il proprio avviso in merito, soprattutto nella prospettiva di voler fornire alle Prefetture linee di indirizzo alle quali conformare la propria attività in materia di rilascio della documentazione antimafia. considerazioni Com’è noto, l’informativa antimafia, ai sensi degli art. 84, comma 4, e 91, comma 6, del d.lgs. 159/2011, presuppone «concreti elementi da cui risulti che l’attività d’impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata». Il codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione di cui al d.lgs 159/2011 -come già avevano disposto l’art. 4 del decreto legge 8 agosto 1994, n. 490 ed il d.p.r 3 giugno 1998, n. 252 - ha tipizzato un istituto mediante il quale con un provvedimento costitutivo, si constata un’obiettiva ragione d’insussistenza della fiducia sulla moralità e affidabilità dell’imprenditore, che deve costantemente esservi nei rapporti contrattuali di cui sia parte la Pubblica Amministrazione. Pertanto, il provvedimento prefettizio, in alcuni casi, può assumere quasi un carattere vincolato nell’ottica del legislatore, lì dove i fatti risultino chiari ed evidenti o quantomeno altamente plausibili; in questo caso, il provvedimento de quo può limitarsi a rimarcare la loro sussistenza provvedendo di conseguenza. ove però i fatti emersi nel corso del procedimento risultino opinabili, e vi sia la necessità di effettuare collegamenti e valutazioni, il provvedimento prefettizio deve precisare gli elementi che ritiene rilevanti. In altre parole, il Prefetto deve basare la propria decisione su un quadro indiziario in cui assumono rilievo preponderante i fattori da cui trarre la con PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo clusione; egli gode di un ampio margine di discrezionalità, al punto che, il Consiglio di Stato ha più volte ribadito “che il sindacato del giudice amministrativo non può impingere nel merito, restando, di conseguenza, circoscritto a verificare, sotto il profilo della logicità, il significato attribuito agli elementi di fatto e l’iter seguito per pervenire a certe conclusioni”. In siffatto modo, le informative prefettizie si pongono come espressione di “lata discrezionalità”. Deve riconoscersi, inoltre, che le informative prefettizie sono pienamente in linea con i valori costituzionali, ed in particolar modo con gli artt. 3, 24, 27 comma secondo e artt. 41-42 Cost. Lo Stato, infatti, non riconosce dignità quali operatori economici a soggetti condizionati, controllati, infiltrati ed eterodiretti dalle associazioni mafiose. È vero che questa valutazione, che si ribadisce essere preventiva e non sanzionatoria, costituisce serio limite all’inziativa economica privata, ma, tuttavia, è giustificata dalla considerazione che il metodo mafioso per sua stessa ragion d’essere costituisce un danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana (art. 41 Cost.). La stessa Corte di giustizia Ue, in riferimento ai protocolli di legalità, ha ribadito di recente che «va riconosciuto agli Stati membri un certo potere discrezionale nell’adozione delle misure destinate a garantire il rispetto del principio della parità di trattamento e dell’obbligo di trasparenza, i quali si impongono alle amministrazioni aggiudicatrici in tutte le procedure di aggiudicazione di un appalto pubblico» poiché «il singolo Stato membro è nella posizione migliore per individuare, alla luce di considerazioni di ordine storico, giuridico, economico o sociale che gli sono proprie, le situazioni favorevoli alla comparsa di comportamenti in grado di provocare violazioni del rispetto del principio e dell’obbligo summenzionati» (Corte di giustizia, sez. X, 22 ottobre 2015, in C-425/14). Se ne deve concludere, pertanto, che l’attuale sistema della documentazione antimafia e delle informazioni antimafia codificato con il d.lgs 159/2011 mantiene la sua configurazione “se e nella misura in cui esso non si risolva nell’impermeabilità dei dati posti a loro fondamento, soprattutto dopo l’istituzione della Banca dati nazionale unica, la quale consente di avere una cognizione ad ampio spettro e aggiornata della posizione antimafia di un’impresa. il Prefetto, pertanto, avrà l’obbligo di rilasciare le informazioni antimafia nelle ipotesi di cui all’art. 91, comma 1, del d.lgs. n. 159 del 2011 e avrà la facoltà, nelle ipotesi di verifiche, procedimentalizzate dall’art. 88, comma 2, e dall’art. 89-bis, di emettere un’informativa antimafia, in luogo della richiesta comunicazione antimafia, tutte le volte in cui, nel collegamento alla Banca dati nazionale unica, emergano provvedimenti o dati che lo inducano a ritenere non possibile emettere una comunicazione liberatoria de plano, ma impongano più serie verifiche in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa” (Consiglio di Stato, Sez. III , 9 febbraio 2017, n. 565). RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 Tale sistema, che risponde a valori costituzionali ed europei di preminente interesse e irrinunciabile tutela, non attenua le garanzie che la ripartizione tra le comunicazioni e le informazioni antimafia prima assicurava. La valutazione prefettizia, pertanto, deve fondarsi su elementi gravi precisi e concordanti che alla stregua della logica del “più probabile che non” consentano di ritenere razionalmente credibile il pericolo di infiltrazione mafiosa in base ad un complessivo e oggettivo apprezzamento dei fatti nel loro valore sintomatico. In siffatto modo, il criterio del “più probabile che non” si pone come regola e garanzia e si palesa in linea con la presunzione di non colpevolezza, di cui all’art. 27 Cost., comma due, cui è ispirato anche l’art. 6 CeDU. La ponderazione dei valori in gioco e dei principi costituzionali, la libertà d’impresa da un lato e la tutela dei fondamentali beni che presidiano il principio di legalità sostanziale richiedono alla Prefettura un’attenta valutazione di tali elementi, che devono offrire un quadro chiaro, completo e convincente del pericolo d’infiltrazione mafiosa, così come, a sua volta, impongono al giudice amministrativo un attento e approfondito esame di tali elementi al fine di assicurare una tutela giurisdizionale piena ed effettiva contro ogni eventuale eccesso di potere da parte del Prefetto, in virtù di un così ampio, ma non indeterminato, potere discrezionale. L’opzione ermeneutica che si trarrebbe dalle sentenze (CDS III, n. 4555 del 29 settembre 2016 e idem n. 3323 del 23 luglio 2016 ), che codesto Ministero ha posto a base della richiesta del quesito, nella parte in cui sembra doversi escludere uno specifico accertamento della Prefettura ai fini dell’adozione dell’informativa ex art. 84 d.lgs 159/2011, non ha, allo stato attuale, conferma univoca e consolidata nell’interpretazione che il g.A. ha sinora fornito della suddetta normativa. Infatti, sebbene prima facie sembra potersi dedurre che già solo la valenza sintomatica delle vicende penali contemplate dall’art. 84 d.lgs 159/2011 escluda qualsiasi accertamento ulteriore (al punto che, quando il Prefetto abbia contezza della commissione di taluni delitti menzionati nell’art. 84, e sino a quando non intervenga sentenza assolutoria, deve limitarsi ad attestare la sussistenza del rischio infiltrativo siccome desunto dalla ricognizione della mera vicenda penale), l’analisi della recentissima giurisprudenza del Consiglio di Stato fornisce elementi chiarificatori della reale portata applicativa della norma in discorso. Infatti, già con la sentenza n. 4657 del 7 ottobre 2015 il g.A. aveva specificato che: <>. L’ adozione dell’informativa antimafia ex art. 84 d.lgs 159/2011 può certamente basarsi su fatti risalenti nel tempo. Nel procedimento di adozione il Prefetto deve tenere conto di quanto contestato all’imputato: da qui, però, non è possibile dedurre che egli debba limitarsi ad accertare i fatti oggetto di contestazione nel processo penale, in quanto, come detto, gode di un’ampia discrezionalità che non va confusa con l’arbitrarietà. Tanto più un provvedimento è discrezionale, tanto maggiori saranno le responsabilità che da questo possono derivare, considerando che un’interdittiva di questo tipo determina per la società che ne viene colpita l’impossibilità ad esercitare l’attività alla quale è preposta, dunque, la sua estinzione. Pertanto l’accertamento dell’attualità degli elementi a disposizione per l’adozione delle misure di prevenzione da parte delle Prefetture è sempre doveroso e necessario e nenache le sentenze citate da codesto Ministero autorizzano a derogare a tale indeffettibile accertamento. È importante, infatti, distinguere il valore estrinseco del provvedimento giurisdizionale emesso in sede penale per uno dei delitti spia dell’art. 84, comma 4, quale fatto sintomatico dell’infiltrazione mafiosa, dal contenuto intrinseco di tale provvedimento, ossia dall’apprezzamento che il Prefetto compie della sentenza o di altro provvedimento in sede penale, e cioè il valore intrinseco che il contenuto della sentenza assume nella valutazione discrezionale compiuta dall’Autorità. L’informativa antimafia, si ribadisce, è per sua stessa ragion d’essere un provvedimento discrezionale e non vincolato, che deve fondarsi su di un autonomo ma attualizzato apprezzamento degli elementi delle indagini svolte o dei provvedimenti emessi in sede penale. Quanto sin qui esposto consentirebbe di affermare che il Prefetto deve necessariamente tenere in conto l'emissione o, comunque, il sopravvenire di un provvedimento giurisdizionale, nel suo valore estrinseco, tipizzato dal legislatore, di fatto sintomatico dell'infiltrazione mafiosa a fronte di uno dei delitti- spia previsti dall'art. 84, comma 4, del codice delle leggi antimafia, ma deve nel contempo effettuarne un autonomo apprezzamento, nel suo contenuto intrinseco, delle risultanze penali, senza istituire un automatismo tra l'emissione del provvedimento cautelare in sede penale e l'emissione dell'informativa ad effetto interdittivo (Cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 2 marzo 2017, n. 981). Il Prefetto è chiamato ad esprimere un giudizio sulle risultanze dell’istrut RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 toria svolta dalle forze dell’ordine ed a valutarne il significato indiziario nella loro intima connessione, secondo una lettura complessiva e non certo atomistica degli elementi acquisiti (Consiglio di Stato, sez. III, 23 marzo 2017, n. 1321). È ormai pacifico, come detto, che l’interdittiva possa fondarsi su fatti risalenti nel tempo, oltre che su fatti recenti, quando tuttavia sulla base degli indizi anche più risalenti possa ritenersi sussistente un condizionamento attuale dell’attività dell’impresa; ed invero, “se dall’esame dei fatti non esce confermata l’attualità del condizionamento, pur ipotizzabile sulla base di fatti retrodatati, l’informativa deve essere annullata” (Cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 5 maggio 2017, n. 2085; Cons. St., sez. III, 13 marzo 2015, n. 1345). Infatti, in tema di informative antimafia, il mero dato fattuale (esempio: rapporto di parentela), in assenza di ulteriori elementi non è idoneo di per sé a dare conto del tentativo di infiltrazione mafiosa. L’attendibilità delle interferenze dipende anche da un serie di circostanze ed elementi che qualifichino, su un piano di attualità ed effettività, una immanente situazione di condizionamento e di contiguità con interessi malavitosi. Pertanto, deve ritenersi illegittima un’informativa della Prefettura con la quale si asserisce l’esistenza di condizionamenti mafiosi sulla base di fatti che da soli non possono assurgere ad elementi significativi del pericolo di condizionamento mafioso, e soprattutto, ove tale informativa non sia corroborata da elementi significativi di un’attuale contiguità. Altro discorso è la sopravvenienza di elementi penali favorevoli all’impresa che non inficiano o viziano la misura di prevenzione laddove gli elementi sintomatici ex art. 84 siano stati, ex ante, valutati alla stregua dell’attualità e dell’effettività del tentativo di infiltrazione. Alla luce di quanto suesposto preme insistere sulla necessità di tenere conto della responsabilità che potrebbe discendere dalla colpa dell’Amministrazione nell’esercizio dell’attività provvedimentale, con particolare riguardo alle interdittive antimafia, laddove si prescinda dal rispetto di tale giudizi prognostici in sede di valutazione delle misure di prevenzione. Com’è noto, la configurabilità delle responsabilità delle pubbliche amministrazioni per i danni provocati dall’adozione di un provvedimentto illegittimo esige la dimostrazione del dolo o della colpa dell’autorità che lo ha emanato; è stato altresì chiarito dalla costante giurisprudenza del Consiglio di Stato che i fattori escludenti le responsabilità dell’Amministrazione per i danni causati da un provvedimento illegittimo sono da individuare con riguardo al carattere della regola d’azione violata. Se la regola d’azione è chiara, univoca e cogente si dovrà riconoscere la sussistenza dell’elemento psicologico nella sua violazione; al contrario, se questa è ambigua, o comunque costruita in modo da affidare all’autorità amministrativa un elevato grado di discrezionalità, la colpa potrà essere accertata solo nelle ipotesi in cui il potere è stato esercitato in palese violazione delle regole di correttezza e proporzionalità. PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo Dunque, declinati i principi generali della colpa dell’Amministrazione derivante da illegittimo esercizio dell’attività provvedimentale occorre trasporli alle misure di prevenzione antimafia. Come si è visto il paradigma legale di riferimento, codificato in particolare dagli artt. 84 e 91 del d.lgs 159/2011 resta volutamente elastico, in particolar modo nella misura in cui affida al Prefetto l’apprezzamento di indici sintomatici di eventuali tentativi di infiltrazioni mafiosa, e, quindi, la formulazione di un giudizio prognostico dell’inquinamento nella gestione dell’impresa. Tale elasticità della normativa de qua impedisce di identificare questa fattispecie in quelle enucleate in via generale dalla giurisprudenza e che consentono di individuare le situazioni rientranti nel cosiddetto “errore scusabile”, unico esimente nel caso di provvedimento illegittimo. Pertanto, si deve allora rilevare che “il beneficio dell’errore scusabile va riconosciuto (con conseguente esclusione della colpa, e di conseguenza della responsabilità dell’amministrazione) nelle ipotesi in cui le acquisizioni informative trasmesse al Prefetto dagli organi di polizia risultano astrattamente idonee a formulare un giudizio plausibile sul tentativo d’infiltrazione mafiosa, in quanto oggettivamente significative di intrecci e collegamenti tra l’organizzazione criminale e l’amministrazione dell’impresa, ancorchè vengano, in concreto, giudicate insufficienti a legittimare la misura dell’interdittiva. dev’essere al contrario negato l’errore scusabile nel diverso caso in cui le acquisizioni istruttorie si rilevino labili ed inconsistenti, tali da non consentire alcun apprezzamento serio ed attendibile, e ciò nonostante la Prefettura adotti la misura di protezione” (Cfr. Consiglio di Stato, sez. III, n. 3707 del 28 luglio 2015). Pertanto, poiché nell’ultima ipotesi deve ritenersi violato il criterio di condotta al quale deve obbedire il Prefetto, sarebbe opportuno che prima di adottare una misura di prevenzione antimafia procedesse alla valutazione di tutti gli elementi necessari a giustificare un provvedimento di siffatto genere (e tra questi, primo fra tutti dev’essere l’attualità del condizionamento mafioso), stabiliti tanto dalla normativa quanto dalla giurisprudenza degli ultimi anni, sia perché ciò rappresenta l’unica condotta esimente l’amministrazione da colpa nel caso di provvedimento illegittimo, sia perché tale modus agendi è garante del rispetto dei valori costituzionalmente garantiti. conclusioni Alla luce della giurisprudenza elencata, nonché delle considerazioni suesposte, tanto l’art. 84 quanto l’art. 91 del decreto legislativo 159/2011 necessitano di specifici accertamenti da parte delle Prefetture i quali vadano, in limine, a verificare se il connotato dell’attualità, più volte richiamato dalla giurisprudenza, sia presente o meno. Non vi può essere un automatismo tra le situazioni sintomatiche dell’infiltrazione mafiosa indicate dall’art. 84 e l’emissione del provvedimento in questione. RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 Quanto detto finora conferma, ad avviso della Scrivente, il predetto orientamento sulla base del quale va sicuramente confermato quanto contenuto nella circolare di Codesto Ministero del 17 febbraio 2014, in particolar modo, occorrerà confermare alle varie Prefetture la linea d’indirizzo finora adottata, anche e soprattutto nel primario interesse della Pubblica Amministrazione la quale, così facendo, potrà evitare d’incorrere in eventuali responsabilità che da simili questioni potrebbero discendere in virtù del mancato contemperamento dei canoni di proporzionalità tra la misura adottata, e, dunque, tra l’interesse pubblico perseguito, e le situazioni di diritto soggettivo incise dai provvedimenti disciplnati dal dlgs. 159 del 2011. In tal senso si è espresso il Comitato consultivo nella riunione del 7 luglio 2017. PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo valutazione della proporzione della soccombenza ai fini del riparto dell’onere del contributo unificato nel giudizio amministrativo Parere reso iN via ordiNaria 28/11/2016-557466, al 46630/2012, avv. sergio FioreNtiNo Con provvedimento n. 23931 del 28 settembre 2012, codesta Autorità ha accertato che la M.F. S.p.A. aveva preso parte a un'intesa restrittiva della concorrenza contraria all'art. 101 TFUe, consistente in un'unica e complessa pratica concordata, continuata nel tempo (gennaio 2003 - maggio 2007), volta a distorcere fortemente i meccanismi di confronto concorrenziale nel mercato nazionale dei dispositivi metallici di sicurvia. In ragione della gravità e della durata dell'infrazione, l'Autorità ha irrogato alle imprese interessate sanzioni amministrative pecuniarie per un ammontare complessivo di € 37.317.565,00, dei quali € 11.013.165,40 alla M.F. S.p.A. Quest'ultima, al pari delle altre imprese coinvolte, ha proposto ricorso giurisdizionale e, con sentenza dell'8 ottobre 2013 n. 8674, il T.A.R. del Lazio ha accolto parzialmente il ricorso, riducendo la sanzione applicata a € 324.141,29 (importo corrispondente al 10% del fatturato 2011 della M.F. cui, a giudizio del Tribunale, non andava sommato il ben più rilevante fatturato del ramo d'azienda conferito, nel medesimo esercizio, ad altra società del gruppo, la F. S.p.A.). Avverso tale sentenza l'Autorità ha proposto appello, lamentando che il T.A.R. avesse erroneamente escluso dal computo del fatturato complessivo, sul quale calcolare il limite legale della sanzione (pari, appunto, al 10% di tale fatturato), la componente riferibile alla F. S.p.A. Con sentenza 2 luglio 2015, n. 3291 il Consiglio di Stato ha accolto tale appello. La sanzione, tuttavia, non è stata ricondotta all'importo originario in quanto il Consiglio ha accolto anche uno dei motivi dell'appello incidentale proposto dalla società, tendente a far valere alcuni vizi nella determinazione dell'entità della sanzione. In esecuzione della sentenza di appello, la sanzione è stata, poi, definitivamente determinata da codesta Autorità in € 7.714.083,40 (con valutazione che l'impresa ha nuovamente contestato, in seno a un ricorso per ottemperanza attualmente pendente dinnanzi al Consiglio di Stato). *** Tanto premesso, la questione che si pone è quella del riparto dell'onere conseguente al pagamento del contributo unificato, anticipato dalle parti ìn relazione alle diverse fasi del processo sopra descritto. In sostanza, ritiene codesta Autorità che tale onere dovrebbe far carico: RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 -per intero sull'impresa, quanto al contributo unificato di € 9.000,00 dovuto in relazione all'appello proposto dall'Autorità, considerato l'integrale accoglimento di tale appello; -in misura uguale su entrambe le parti, quanto al contributo unificato di € 9.000,00 versato in relazione all'appello incidentale proposto dall'impresa, posto che tale appello incidentale è stato accolto solo in parte. Inoltre, nessun rimborso sarebbe dovuto alla società in relazione al contributo unificato di € 6.000,00 da questa anticipato per il giudizio di primo grado. A tale conclusione si dovrebbe pervenire, relativamente alla fase di appello, in ragione di quanto affermato in un parere della scrivente del 12 dicembre 2015 (AL 39157114 - Avv. De Stefano), nel quale si è confermato che il riparto dell'onere tra le parti «dovrà avvenire in rapporto alla stesse misura di soccombenza, da determinare in via equitativa sulla base delle riultanze di causa». Conseguentemente, posto che l'Autorità sarebbe da considerare interamente vittoriosa in relazione al proprio appello principale, il relativo onere dovrebbe per intero far carico alla M.F. S.p.A. Per contro, relativamente all'appello incidentale proposto dall'impresa e solo parzialmente accolto, la soccombenza reciproca comporterebbe che l'onere debba essere suddiviso, in misura paritaria, fra le due parti. Quanto alla fase di primo grado, ritiene codesta Autorità che non si sia «determinata alcuna soccombenza, in difetto del passaggio in giudicato della sentenza del tar del lazio n. 8674/2013, impugnata da entrambe le parti e riformata dal consiglio di stato», di tal che risulterebbe inapplicabile la regola posta dall'art. 13, comma 6-bis1, del D.P.R. n. 115 del 2002, secondo la quale l'onere per il contributo unificato è dovuto in ogni caso dalla parte soccombente, anche nel caso di compensazione giudiziale delle spese. *** Così ricostruiti i termini della questione, si osserva quanto segue. L'art. 13, comma 6-bis1 del D.P.R. n. 115 del 2002 stabilisce che « (l)'onere relativo al pagamento dei (..) contributi è dovuto in ogni caso dalla parte soccombente, anche nel caso di compensazione giudiziale delle spese e anche se essa non si è costituita in giudizio. ai fini predetti la soccombenza si determina con il passaggio in giudicato della sentenza». Trattasi di disposizione speciale, relativa al solo contributo unificato dovuto per i giudizi amministrativi, ispirata a un regime diverso da quello previsto per i giudizi civili: mentre in quest'ultimo ambito è pacifico che il contributo unificato costituisca un'obbligazione ex lege gravante sulla parte soccombente per effetto della condanna alla spese, che, pertanto, il beneficiario della condanna può azionare quale titolo esecutivo anche per la ripetizione delle somme in concreto impiegate per adempiere quell'obbligazione ex lege (Cass., ordinanze 17 settembre 2013, n. 21207 e 20 novembre 2015, n. 23830), PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo nel giudizio amministrativo l'onere del pagamento del contributo unificato grava sulla parte per effetto della (sola) soccombenza, anche nel caso di compensazione giudiziale delle spese, (v., ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. Iv, 10 febbraio 2014, n. 625) ed è sottratto «alla potestà del giudice, sia quanto alla possibilità di disporne la compensazione, sia quanto alla determinazione del suo ammontare» (Consiglio di Stato, Sez. III, 3 febbraio 2014, n. 473 e 13 marzo 2014, n. 1160). Ne consegue che «il rimborso del contrilbuto unificato alla parte vittoriosa, che lo abbia anticipato, costituisce una obbligazione ex lege, al cui adempimento la parte soccombente non può sottarsi, distinta rispetto a quella concernente le spese del giudizio liquidate in sentenza, nel cui computo esso non può ritenersi ricompreso» (Consiglio di Stato, n. 62512014 cit.). In altre parole, mentre nel processo civile è il giudice che, con la pronuncia di condanna alle spese o di compensazione, influisce sul riparto sostanziale del- l'onere corrispondente al contributo unificato, nel giudizio amministrativo tale riparto è influenzato da un fatto -la soccombenza -che occorre determinare indipendentemente dalla pronuncia resa sul capo relativo alle spese di lite. In ragione di tali caratteristiche del regime, nel parere della scrivente richiamato da codesta Autorità, nel quale si è affrontato il caso della reciproca soccombenza delle parti (ossia dell'accoglimento solo parziale del ricorso), si è ritenuta, nella sostanza, l'impossibilità dì ricavare dal dettato normativo criteri ancorati a parametri meramente formali, che pure avrebbero condotto a soluzioni più immediate e più soddisfacenti sul piano della certezza del diritto (quali, ad esempio, il ritenere che la parte che ha introdotto il giudizio sia comunque tenuta a sopportare l'onere del contributo qualora essa sia risultata in qualche misura soccombente). Affermato il diritto alla rivalsa (parziale) nel caso di soccombenza parziale, si è ritenuto che il riparto debba avvenire «in rapporto alla rispettiva misura di soccombenza, da determinare in va equitativa sulla base delle risultanze di causa», con la precisazione che si rende applicabile la presunzione di divisione in parti uguali dell'obbligazione, ricavabile dall'art. 1298, comma secondo, cod. civ. e che, conseguentemente, incombe sulla parte che voglia far valere diverse quote di riparto di dare la prova che la soccombenza si è determinata in misura non paritaria. Ritiene la scrivente che l'avviso espresso nel parere ora sintetizzato debba essere confermato, con le integrazioni di cui subito si dirà. In contrario non sembrano valorizzabili i principi affermati dalla Corte di cassazione nell'ordinanza 21 gennaio 2015, n. 930, richiamata nella nota in riferimento, invocata dall'impresa nei confronti di codesta Autorità. Tale decisione -che non si è occupata della questione del riparto del- l'onere del contributo unificato -si è limitata a ribadire alcuni consolidati principi giurisprudenziali sul rapporto tra soccombenza e condanna al pagamento RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 delle spese del giudizio. Come noto, secondo un tradizionale insegnamento della Corte di cassazione, il principio della soccombenza esclude che le spese possano essere poste a carico della parte interamente vittoriosa (salva la possibilità di derogarvi quando la parte risultata vincitrice sia venuta meno ai doveri di lealtà e probità, imposti dall'art. 88 cod. proc. civ.). Nel ribadire tale principio, l'ordinanza in esame ha ricordato che esso non è violato nel caso in cui le spese siano integralmente poste a carico della parte il cui appello sia stato parzialmente accolto. e solo in questo contesto che la Corte ha affermato che «in tema di liquidazione delle spese giudiziali, nessuna norma prevede, per i1 caso di soccombenza reciproca delle parti, un criterio di valutazione della prevalenza della soccombenza dell'una o dell'altra basato sul numero delle domande accolte o respinte per ciascuna di esse, dovendo essere valutato l'oggetto della lite nel suo complesso». Ciò posto, si osserva, a integrazione e chiarimento di quanto già esposto nel richiamato parere del 12 dicembre 2015, che nella valutazione della proporzione della soccombenza, ai fini del riparto interno dell'onere del contributo unificato, si deve prescindere da criteri fondati sul numero dei motivi di ricorso o di impugnazione accolti ovvero sulla posizione processuale che, per ragioni connesse all'andamento del giudizio, le parti hanno incidentalmente finito per assumere. Sembra, in altri termini, alla scrivente che la proporzione di soccombenza debba essere determinata sulla base dell'esito complessivo del giudizio e in relazione al c.d. bene della vita che ne formava oggetto. Così, ad esempio, se il ricorrente originario ottiene l'annullamento del provvedimento in virtù del- l'accoglimento di uno solo dei motivi da esso proposti, non potrà negarsi che la soccombenza della controparte sia integrale, benché, in ipotesi, il giudice abbia espressamente rigettato altri motivi di gravame proposti dal ricorrente originario. Ne consegue che, in caso di contrapposti appelli proposti dalle parti (ancorché in via incidentale da una di esse), non pare possibile scindere la soccombenza, postulando che l'una delle parti sia integralmente vittoriosa rispetto al proprio appello benché, all'esito della delibazione di entrambi gli appelli, questa non abbia interamente ottenuto il "bene della vita" che formava oggetto di causa (nel nostro caso, ad esempio, la conferma integrale della sanzione). occorre, piuttosto, avere riguardo all'esito complessivo del giudizio e, sulla base di questo, ripartire il carico complessivo del contributo unificato dovuto in relazione a entrambi gli appelli proposti. A questo criterio generale può derogarsi, ad avviso della scrivente, esclusivamente nel caso in cui l'iniziativa della parte sia rimasta del tutto priva di incidenza causale sulla decisione. Si pensi, ad esempio, a un appello incidentale inammissibile in quanto tardivo o per altre ragioni. In tali casi, non sembra legittimo far carico all'appellante principale -neanche nell'ipotesi di rigetto, PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo integrale o parziale, della propria impugnazione -dei costi di un'iniziativa processuale, assunta da controparte, rivelatasi del tutto improduttiva di effetti sul contenuto della decisione finale: tali costi, in omaggio al principio di causalità, devono rimanere a carico della parte che vi ha dato origine. In definitiva, i costi dell'appello incidentale inammissibile o riconosciuto come integralmente infondato, con dichiarazione espressa del giudice d'appello, dovranno essere posti a carico della parte che li ha sostenuti, ancorché tale parte non risulti complessivamente soccombente alla stregua del criterio fondato sul conseguimento del bene della vita. Non altrettanto è a dirsi rispetto all'appello incidentale non esaminato in quanto dichiarato assorbito, per effetto del rigetto dell'appello principale. Nella fattispecie, posto che codesta Autorità ha ritenuto, all'esito del giudizio di appello, di avere titolo per l'applicazione di una sanzione corrispondente a circa tre quarti dell'importo originario, nella stessa proporzione dovrebbe ripartirsi l'onere del contributo unificato dovuto sia in relazione all'appello principale, sia in relazione all'appello incidentale. Quanto al giudizio di appello, peraltro, per questa via si perviene, del tutto accidentalmente, a un risultato identico a quello già prospettato da codesta Autorità, in applicazione del (diverso) criterio fondato sul ritenuto accoglimento integrale dell'appello principale e sull'accoglimento solo parziale del- l'appello incidentale. Inoltre - e diversamente da quanto traspare essere l'avviso di codesta Autorità - un criterio analogo a quello ora descritto dovrebbe regolare il riparto del contributo unificato versato (dall'impresa) per il giudizio di primo grado. Non può, infatti, ritenersi che il contributo unificato dovuto per il giudizio di primo grado debba far carico alla parte ricorrente per il solo fatto che sia stato proposto appello. La circostanza che sia stato proposto appello non implica che «non si è determinata alcuna soccombenza», ma implica esclusivamente che, come dispone l'art. 13, comma 6-bis1 del D.P.R. n. 115 del 2002, la soccombenza sia determinata «con il passaggio in giudicato della sentenza», da intendersi come la sentenza che definisce il giudizio (sia essa la medesima sentenza di primo grado o la sentenza di appello). Questa disposizione, in altri termini, chiarisce che la soccombenza si determina in ragione del contenuto della sentenza che definisce il giudizio e al momento del passaggio in giudicato di tale sentenza: quando, cioè, diviene definitiva la sentenza che ha attribuito, integralmente o parzialmente, all'una o all'altra parte il bene della vita che costituisce oggetto del giudizio. Qualora tale sentenza determini la soccombenza, parziale o integrale, della parte resistente in primo grado, su di essa dovrà gravare, a misura di tale soccombenza, anche il contributo unificato versato per il giudizio di primo grado, indipendentemente dal contenuto della sentenza di primo grado contro la quale fu proposto appello. RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 In conformità a quanto sopra affermato in relazione al giudizio di appello, può ritenersi che a tale regola faccia eccezione il caso in cui le parti, dopo la proposizione del gravame principale, abbiano assunto ulteriori iniziative processuali, prive di effetti sulla decisione, che hanno dato luogo a distinti obblighi di pagamento del contributo unificato, come la proposizione di ricorsi incidentali o motivi aggiunti inammissibili ovvero manifestamente ultronei. Alla luce di quanto precede, ritiene la scrivente che l'insieme dei contributi unificati versati per il giudizio in esame -che complessivamente ammonta, secondo quanto riferito nella richiesta di parere, a € 24.000,00 - possa ragionevolmente far carico per un quarto, pari a € 6.000,00, a codesta Autorità e per tre quarti, pari a € 18.000,00, alla M.F. S.p.A. PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo sull’incombenza dell’onere del contributo unificato Parere reso iN via ordiNaria 01/12/2016-565316, al 23130/2009, avv. liBorio coaccioli In esito al quesito posto con la nota in riscontro, osserva la scrivente quanto segue. Premesso che il contributo unificato costituisce un tributo ed, in particolare, una tassa giudiziaria correlata alla richiesta di accesso al servizio giudiziario (oggetto dell’onere di anticipazione previsto dall’art. 8, comma 1, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115) in quanto costo del processo, esso è destinato, in caso di vittoria, ad essere recuperato a carico della controparte soccombente e, in caso di soccombenza, a rimanere definitivamente a carico della parte che l’ha anticipato al momento dell’iscrizione al ruolo della causa: il suo rimborso, secondo consolidata giurisprudenza, ha natura di un’obbligazione ex lege, il cui adempimento grava sulla parte soccombente a prescindere da un’apposita statuizione al riguardo (cfr. TAR Lazio -Roma, sez. III, n. 8133 del 10 giugno 2015). Tutto ciò premesso, relativamente ai quesiti sottoposti, si espone quanto segue: - 1 – Primo quesito se, in caso di soccombenza nei giudizi davanti al giudice amministrativo, in mancanza di specifica statuizione giudiziale l’amministrazione debba comunque rimborsare il cu alla parte vittoriosa (previa dimostrazione dell’avvenuto pagamento), e se, nel caso di giudizi improcedibili per cessazione della materia del contendere o sopravvenuta carenza di interesse, non sia dovuta la restituzione del contributo unificato, salvo il caso in cui il giudice espressamente individui la parte tenuta a tale onere. Ai sensi dell’art. 13, comma 6 bis1, del d.P.R. n. 115/2002, al ricorrente vittorioso che abbia corrisposto gli importi del contributo unificato per le spese degli atti giudiziari, spetta il relativo rimborso, anche qualora la parte soccombente non si sia costituita in giudizio (cfr. T.A.R. Campania -Napoli, sent. n. 713 del 10 febbraio 2016). Tuttavia occorre distinguere l’ipotesi della declaratoria della cessazione della materia del contendere da quella della declaratoria dell’improcedibilità del ricorso per sopravvenuto difetto di interesse. La sentenza che dichiara la cessazione della materia del contendere è una pronunzia di merito cui, ai sensi dell’art. 34, comma 5, cod. proc. amm., il giudice fa luogo “qualora nel corso del giudizio la pretesa del ricorrente risulti pienamente soddisfatta”. RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 La sentenza che dichiara l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuto difetto di interesse è invece una pronuncia di rito cui, a mente dell’art. 35, comma 1, lett. c) cod. proc. amm., il giudice fa luogo “quando nel corso del giudizio sopravviene il difetto di interesse delle parti alla decisione”. Tale distinzione, in astratto assolutamente chiara e netta, non sempre trova riscontro nella prassi giudiziaria, dal momento che non di rado accade che anche nel caso di intervenuta, integrale soddisfazione della pretesa azionata, il giudice, anziché dichiarare, come dovrebbe, la cessazione della materia del contendere, dichiari invece l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuto difetto di interesse. Il rilievo non risponde soltanto ad astratte finalità di carattere classificatorio e dogmatico, ma ha anche significative ricadute pratiche sul tema della regolazione delle spese del giudizio perché, mentre nel caso di cessazione della materia del contendere il giudice è tenuto a provvedere alla tassazione delle spese processuali sulla base del criterio della c.d. soccombenza virtuale - ponendo quindi le spese a carico dell'amministrazione che, soddisfacendo la pretesa del ricorrente, ne ha esplicitamente riconosciuto la fondatezza -; nell'ipotesi di improcedibilità del ricorso per sopravvenuto difetto d’interesse, trattandosi di pronuncia di rito dovuta al venir meno in corso di giudizio di una delle condizioni dell'azione, non è dato individuare un soccombente in senso sostanziale e le spese debbono perciò, di regola, rimanere a carico del ricorrente che le ha anticipate, soccombente in senso formale. e poiché l'obbligo di pagamento del contributo è collegato dalla legge -art. 13, comma 6-bis1 del d.P.R. n. 115/2002 -alla soccombenza, nell'ipotesi in cui il giudice non individui esso stesso la parte virtualmente soccombente, come tale tenuta al pagamento del contributo unificato, occorre distinguere il caso in cui sia dichiarata la cessazione della materia del contendere da quello in cui sia dichiarata la improcedibilità del ricorso per sopravvenuto difetto di interesse. Nella prima ipotesi -cessazione della materia del contendere -non v'è dubbio che obbligata al rimborso del contributo unificato sia l'amministrazione resistente, soccombente in senso virtuale; nella seconda ipotesi - improcedibilità del ricorso per sopravvenuto difetto di interesse -, occorre invece distinguere i casi in cui il venir meno dell'interesse alla decisione del ricorso derivi da una condotta dell'amministrazione comunque satisfattiva dell'interesse del ricorrente da quello in cui il venir meno dell'interesse non sia in alcun modo riferibile ad un atto o ad un fatto della resistente. Nel primo caso, si realizza in realtà una cessazione della materia del contendere, con la conseguenza che il contributo unificato anticipato dal ricorrente dovrà essere rimborsato dall'amministrazione; nel secondo, invece, non essendo configurabile alcuna soccombenza virtuale dell'amministrazione, esso dovrà restare a carico della parte che lo ha anticipato. Si ricordi che, in caso di soccombenza virtuale (ad es. improcedibilità del PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo ricorso o cessazione della materia del contendere) e previa apposita richiesta di parte per la condanna alle spese e per la refusione del contributo unificato, il giudice, al solo fine di regolare le spese del giudizio, è tenuto ad esaminare le questioni sollevate dai ricorrenti. È stato osservato, infatti, che: “con riguardo alla decisione sulle spese deve essere pertanto applicato il criterio della c.d. “soccombenza virtuale”, in ossequio al consolidato principio per cui il venir meno dell’interesse al ricorso non preclude una sommaria delibazione nel merito della pretesa azionata, al limitato fine della pronuncia sulle spese di giudizio” (così, T.A.R. Napoli, sent. n. 2461 del 12 maggio 2016; cfr., altresì, Consiglio di Stato, sez. v, sent. n. 3348 del 7 luglio 2015). - 2 – secondo quesito se, nel caso di compensazione delle spese, sia opportuno che l’amministrazione proceda autonomamente alla valutazione di quale sia la parte processuale soccombente, perché in ambito, infatti, appare particolarmente critico il caso di accoglimento parziale delle domande (cfr. in tal senso cons. stato iii, n. 1160/2014) sia da un punto di vista generale, sia in quelle ipotesi in cui la reiezione di alcune domande sia l’effetto di un concorso della controparte nell’adozione di un provvedimento illegittimo. È principio ormai noto che, in caso di accoglimento del ricorso con compensazione delle spese, il resistente soccombente sia comunque costretto a rifondere l’importo del contributo unificato, poiché esso è sottratto alla potestà del giudice sia quanto alla possibilità di disporne la compensazione, sia quanto alla determinazione del suo ammontare (cfr. Cons. Stato, sez. III, n. 4436 del 22 settembre 2015 e n. 1160 del 13 marzo 2014). La giurisprudenza amministrativa è, d’altronde, pacifica nel ritenere il rimborso del contributo unificato ancorato esclusivamente al verificarsi della situazione di fatto rappresentata dall’accoglimento del ricorso (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. v, n. 3153 del 23 giugno 2014 e sez. III, n. 1657 del 18 marzo 2011). Pertanto, a meno di non voler operare un’interpretazione forzatamente estensiva del citato art. 13, non è possibile ritenere che il rigetto di talune istanze proposte in via subordinata dal ricorrente vittorioso costituisca una deroga a quanto ivi stabilito. In caso di soccombenza reciproca o parziale il contributo unificato deve essere posto “a carico della o delle parti soccombenti nei limiti della loro soccombenza”: da ciò consegue che se le parti sono soccombenti in parti uguali, l’onere del contributo deve essere ripartito in parti eguali e, di conseguenza, rimborsato per la metà a favore della parte che lo ha anticipato; se le parti sono invece soccombenti in diversa misura, il contributo unificato dovrà essere rimborsato dalla parte resistente in misura proporzionale alla sua percentuale di soccombenza (v. pareri del Comitato consultivo 10 maggio 2013 n. 204029 e 12 febbraio 2015 n. 70211). RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 v’è altresì da aggiungere che, in caso di divergenza circa la soccombenza - o circa la misura della soccombenza -, la relativa questione dovrà essere sottoposta al vaglio dell’Avvocatura e, nell’ipotesi di persistente contrasto tra le parti, la relativa controversia dovrà trovare composizione, su ricorso della parte interessata ad ottenere il rimborso - o un maggior rimborso -, in sede di giudizio di ottemperanza. - 3 terzo quesito Quando e in che misura eventualmente debba avvenire la refusione del cu, considerato che l’art. 13, comma 6-bis. 1, del d.P.r. n. 115 del 2002 dispone che “la soccombenza si determina con il passaggio in giudicato della sentenza”, il che sembrerebbe significare che, nel caso di ricorso in appello, l’eventuale refusione debba attendere il giudizio di secondo grado, non apparendo chiaro tuttavia se essa riguardi il contributo del primo grado sommato a quello del secondo grado. In caso d’appello, l’obbligo di rimborso del contributo unificato sorge solo e soltanto al momento del passaggio in giudicato della relativa decisione; in tale ipotesi, l’obbligo di rimborso riguarderà peraltro sia il contributo anticipato al momento del deposito del ricorso di primo grado sia quello versato al momento del deposito del ricorso di secondo grado, senza alcuna possibilità di rimborso “anticipato” del contributo corrisposto per il primo grado di giudizio in forza della sola esecutività della sentenza di primo grado. - 4 Quarto quesito se il principio della refusione del cu in caso di soccombenza, dettato dall’art. 13 con riferimento ai contenziosi davanti al tar ed al consiglio di stato, debba applicarsi anche ai giudizi innanzi al giudice ordinario pur in assenza di pronuncia giudiziale specifica. L’art. 13, comma 6-bis, in virtù del suo tenore letterale, si deve ritenere insuscettibile di estensione ai giudizi ordinari. La disposizione, infatti, riguarda i soli ricorsi proposti dinanzi ai T.A.R. ed al Consiglio di Stato. Il predetto comma, infatti, è stato inserito al fine di svincolare il contributo unificato per i processi amministrativi dal valore della controversia, diversamente da quanto previsto per i processi civili, (cfr. nota di Andrea Dai- done a T.A.R. Trento, 29 gennaio 2014, n. 23, sez. I in Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario, fasc. 2, 2014, p. 478) ove si legge: «con l’inserimento del comma 6 bis al citato art. 13 […] il contributo unificato per i processi amministrativi, diversamente da quanto previsto per i processi civili, è stato svincolato dal valore della controversia. il legislatore, infatti, ha adottato il differente criterio per materia ed in seguito ha ulteriormente PAReRI DeL CoMITATo CoNSULTIvo distinto l’entità del contributo unificato dovuto secondo una differenziazione delle materie». Anche in altri siti, relativamente al processo civile e tributario, si afferma che «mentre per il processo amministrativo il legislatore ha espressamente previsto che anche il contributo unificato soggiaccia al principio della soccombenza e vada rimborsato alla parte vittoriosa, tanto non è stato fatto per quello civile e tributario» (trattasi di un articolo pubblicato su web il 26 novembre 2014). Articolo di Michela Roja, titolo “Rimborso del contributo unificato. È dovuto post sentenze sfavorevoli?”, pubblicato il 26 novembre 2014 sul sito web www.Fiscooggi.it Link http://www.Fiscooggi.it/analisi-e- commenti/articolo/rimborso-del-contributo-unificato-dovuto-post-sentenze- sfavorevoli. Nel commento in esame, inoltre si fa espressamente richiamo alla sentenza n. 235/2014 della Commissione tributaria provinciale di Pordenone, che ha negato la rimborsabilità del contributo partendo proprio dall’assunto secondo cui “La configurazione del contributo unificato come obbligazione ex lege che fa carico alla parte soccombente e che pertanto è estraneo al potere liquidatario del giudice trovando per così dire automatica applicazione vale solo ed esclusivamente per il giudizio amministrativo in forza del comma 6 bis d.P.R. 115/02. Trattasi di norma speciale che, quindi, non è suscettibile di estensione analogica al processo civile e tributario”. - 5 Quinto quesito la corresponsione delle spese generali ai legali di controparte nel caso di soccombenza dell’amministrazione. In materia di spese forfettarie dovute all’avvocato, occorre distinguere a secondo che il giudice abbia indicato la liquidazione delle spese legali come comprensiva o meno anche delle spese generali. Nel primo caso, ovviamente, nulla quaestio; nel secondo, invece, occorre considerare che il potere di liquidazione del giudice si riferisce, da un lato, alle spese c.d. vive, anticipate e documentate dalla parte vittoriosa, e, dall’altro, ai compensi professionali. Le somme dovute a titolo di rimborso delle spese generali, al pari di quelle dovute dal soccombente a titolo di rimborso del contributo unificato, dell’imposta di registrazione della sentenza, di contributo previdenziale forense e di imposta sul valore aggiunto esulano, come tali, dal potere giudiziale di liquidazione trattandosi di somme che sono dovute per legge e di cui la legge stabilisce con esattezza le modalità di quantificazione (quanto a percentuale e base di calcolo) e di cui rimette in genere alla parte la autoliquidazione; tant’è vero che la giurisprudenza ritiene pacificamente dovuti i relativi importi anche in difetto di specifica statuizione giudiziale proprio perché “oneri accessori” dovuti ex lege. RASSegNA AvvoCATURA DeLLo STATo - N. 2/2017 Per tale ragione deve ritenersi che, salvo diversa indicazione da parte del giudice, una liquidazione “omnicomprensiva” riguardi in realtà, come s’è detto, le sole spese vive ammesse a rimborso e i soli compensi professionali, con esclusione, quindi, sia delle spese forfettarie sia degli ulteriori oneri contributivi e fiscali. Di conseguenza, sembra potersi ragionevolmente affermare che, pur nel caso in cui il giudice qualifichi espressamente come “onnicomprensiva” la somma liquidata in sentenza, comunque sia necessario procedere all’incremento di cui all’art. 2 del decreto ministeriale n. 55 del 10 marzo 2014. Anche in tal caso, infatti, trattasi di obbligazione sottratta alla disponibilità del giudice e, pertanto, gravante ex lege sulla parte soccombente. Nelle suesposte considerazioni è il parere di questa Avvocatura. LEGISLAZIONEEDATTUALITÀ Norme di commercializzazione e controlli di conformità Antonio Tallarida* Sommario: 1. Premessa - 2. Norme Unece - 3. Norme di commercializzazione UE - 4. Prodotti ortofrutticoli -5. Finalità -6. Controlli -7. Sanzioni -8. Tutela penale degli alimenti - 9. Coordinamento dei controlli - 10. Sintesi conclusiva. 1. Premessa. Tre recenti sentenze rese in materia di norme di commercializzazione dei prodotti alimentari dalle massime Autorità giudiziarie, ripropongono all’attenzione un tema particolarmente importante non solo per l’economia in generale ma anche per la vita quotidiana, essendo il consumatore sempre più interessato a un acquisto informato e responsabile (1). Si tratta della sentenza della Corte di Giustizia Ue 14 giugno 2017, in causa C-422/16, su rinvio pregiudiziale del Tribunale regionale di Treviri, sull’uso della denominazione Latte; della sentenza della Corte di Giustizia Ue 3 marzo 2016, in causa C-26/15 P, pronunciata su ricorso del regno di Spagna c. Commissione Ue, che ha affrontato il problema dei rapporti tra norme Unece e regolamenti comunitari; e della sentenza della Corte di Cassazione 24 febbraio 2016, n. 3670, che si è occupata delle indicazioni contenute nei documenti di accompagnamento dei prodotti freschi trasportati. In particolare, la prima ha statuito che gli obiettivi perseguiti da tali norme, di migliorare le condizioni economiche della produzione e della commercializzazione, nonché la qualità dei prodotti stessi nell’interesse di produttori, com- (*) Già Vice Avvocato generale dello Stato. (1) GermAnò A., Diritto agroalimentare. Le regole del mercato degli alimenti e dell’informazione alimentare, Giappicchelli 2014. rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo - n. 2/2017 mercianti e consumatori, “ostano a che la denominazione «latte» e le denominazioni che tale regolamento riserva unicamente ai prodotti lattiero-caseari siano utilizzate per designare, all’atto della commercializzazione o nella pubblicità, un prodotto puramente vegetale, e ciò anche nel caso in cui tali denominazioni siano completate da indicazioni esplicative o descrittive che indicano l’origine vegetale del prodotto in questione, salvo il caso in cui tale prodotto sia menzionato all’allegato i della decisione 2010/791/UE della Commissione, del 20 dicembre 2010, che fissa l’elenco dei prodotti di cui all’allegato Xii, punto iii.1, secondo comma, del regolamento n. 1234/2007 del Consiglio”. La seconda ha affermato che per la prescrizione dei regolamenti Ue di tener conto delle norme Unece nella definizione delle norme di commercializzazione nella specie riguardanti gli agrumi “ne peut signifier, à son considérant 6, que les normes de commercialisation spécifiques adoptées par la Commission doivent être identiques aux normes CEE-oNU, mais doit davantage être compris en ce sens que, lorsque de telles normes doivent être établies par la Commission pour des produits individuels, elles doivent être définies sur la base des normes CEE-oNU, avec les modifications éventuelles, nécessaires pour tenir compte des éléments, autres que lesdites normes, qui sont mentionnés à l’article 113, paragraphe 2, du règlement n° 1234/2007”. La terza (per la verità seguita da un gruppo di altre 18 conformi) ha ritenuto che “ avuto riguardo alla finalità della norma in esame, volta a definire i parametri merceologici minimi di tracciabilità da rispettare per singolo prodotto ortofrutticolo, affinchè questo possa essere commercializzato garantendo gli standard di qualità previsti dalla normativa comunitaria, la relativa disciplina è certamente volta a vincolare tutti i livelli della filiera, dalle aziende agricole, ai mercati alla produzione, all'ingrosso o di transito, ai centri di condizionamento e di deposito, ma, ove siano a monte rispettate le dette prescrizioni, non può ulteriormente gravare per i transiti a valle tra le piattaforme della grande distribuzione e i singoli punti vendita" (v. anche Cass., n. 17025/2016, Cass., n. 17517/2016 e altre). Il rinnovato interesse verso queste norme induce a una rivisitazione della loro finalità e della loro portata, estesa anche agli aspetti applicativi dei controlli. Peraltro va preliminarmente chiarito che le norme di commercializzazione riguardano esclusivamente il commercio di determinati prodotti agricoli a destinazione alimentare e che vanno distinte dalle molte altre che sono poste a tutela di distinti interessi, quali la salute e l’igiene, la sicurezza alimentare, il pubblico affidamento o la particolarità di certe produzioni, di cui si tratterà più oltre (par. 8), ma che possono concorrere con quelle in esame quando abbiano ad oggetto gli stessi prodotti (2). (2) CoSTATo L., BorGhI P., rIzzIoLI S., Compendio di diritto alimentare, Cedam 2015; mASInI S., Corso di diritto alimentare, Giuffrè 2015. LeGISLAzIone ed ATTUALITà 2. Norme Unece. norme dirette a regolamentare la commercializzazione di prodotti agricoli alimentari sono state originariamente introdotte dall’Unece, organismo internazionale in ambito onU, cui aderiscono numerosi Paesi, con l’obiettivo di favorire la cooperazione economica e sociale. Come riportato nella sentenza del Tribunale di Prima Istanza “13 La Commissione economica per l’europa delle nazioni Unite (UneCe) è stata istituita nel 1947 tramite la risoluzione 36 (IV), del 28 marzo 1947, del Consiglio economico e sociale delle nazioni Unite (ecosoc). essa raccoglie attualmente 56 paesi europei (compresi tutti gli Stati membri dell’Unione europea), della Comunità degli Stati indipendenti e del- l’America del nord. Poiché l’Unione non è membro delle nazioni Unite, la stessa non è neanche membro della UneCe. Per contro, essa partecipa alla UneCe in veste di osservatore. 14 La UneCe presenta, al suo interno, il gruppo di lavoro delle norme di qualità dei prodotti agricoli (in prosieguo: il «gruppo di lavoro»), incaricato, segnatamente, della definizione delle norme comuni per le merci deperibili. 15 nel 1958, il gruppo di lavoro ha adottato il protocollo di Ginevra sulla normalizzazione degli ortofrutticoli freschi e della frutta secca ed essiccata (riveduto nel 1964 e nel 1985; in prosieguo: il «protocollo di Ginevra»). esso prevede, al suo punto I, quanto segue: «Ciascun prodotto soggetto alla normalizzazione commerciale di qualità deve essere definito in una norma specifica che lo riguarda, mediante l’indicazione del genere e della specie alle quali esso appartiene (riferimento botanico latino seguito, se del caso, dall’indicazione dell’autore). (...). Cionondimeno, un gruppo di prodotti può parimenti costituire l’oggetto di una norma più generale applicabile a tale gruppo, nella misura in cui le loro caratteristiche lo consentano». 16 In forza del punto IX del protocollo di Ginevra, il gruppo di lavoro è incaricato di prevedere, segnatamente, la redazione di nuove norme speciali e gli adeguamenti possibili delle norme esistenti. Ai sensi del punto X del protocollo di Ginevra, il gruppo di lavoro ha parimenti il compito di elaborare le clausole di un accordo internazionale idoneo a conferire uno status definitivo alle norme stabilite nell’ambito dell’UneCe per i prodotti ortofrutticoli” (sent. 13 novembre 2014 in T-481/11). Tali norme riguardano circa 50 prodotti agricoli ed hanno natura e valore di raccomandazioni, volte ad agevolare gli scambi commerciali; esse sono prese a riferimento dall’Ue per definire le norme di commercializzazione europee vincolanti all’interno dell’Unione. Secondo la Corte di Giustizia Ue, le norme Unece non sono vincolanti per l’Unione dato che questa non è parte dell’onU (sent. n. 26/15 P/2016 cit.) (3). 3. Norme di commercializzazione UE. Fin dal regolamento sull’organizzazione comune di mercato (oCm) nel (3) BonorA G., Le norme di commercializzazione specifiche dell’UE e il loro rapporto con le raccomandazioni Unece, in riv. diritto alimentare, 2016, n. 3, 46. rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo - n. 2/2017 settore degli ortofrutticoli (reg. Cee 25 ottobre 1966 n. 159) sono state previste disposizioni per la commercializzazione di tali prodotti, precisandosi che “a tal fine si tiene conto delle norme CEE(oNU) raccomandate dal gruppo di lavoro sulla normalizzazione dei prodotti deperibili e il miglioramenti qualitativo istituito presso la Commissione economica per l’Europa” (art. 2). Queste norme sono state nel tempo adeguate e perfezionate con successivi regolamenti (reg. Cee n. 1035/1972, Ce n. 2200/1996, Ce n. 1234/2007, Ue n. 1308/2013) e con il regolamento applicativo n. 543/2011/Ue, come modificato con reg. n. 594/2013/Ue, tuttora in vigore. Allo stato il reg. (Ce) 17 dicembre 2013 n. 1308/2013 prevede che“per tener conto delle aspettative dei consumatori e migliorare le condizioni economiche della produzione e della commercializzazione nonché la qualità dei prodotti agricoli”, le norme di commercializzazione, fatte salve eventuali altre disposizioni applicabili ai prodotti agricoli, sono suddivise tra norme obbligatorie per settore o prodotto e menzioni riservate facoltative (art. 73). Le norme obbligatorie si applicano ai seguenti settori: a) olio di oliva e olive da tavola; b) ortofrutticoli; c) prodotti ortofrutticoli trasformati; d) banane; e) piante vive; f) uova; g) carni di pollame; h) grassi da spalmare destinati al consumo umano; i) luppolo; nonché a quello vitivinicolo (art. 75 c. 1 e 4 ). Le definizioni, designazioni e denominazioni di vendita si applicano ai settori o ai prodotti seguenti: a) carni bovine; b) prodotti vitivinicoli; c) latte e prodotti lattiero-caseari destinati al consumo umano; d) carni di pollame; e) uova; f) grassi da spalmare destinati al consumo umano; g) olio di oliva e olive da tavola. “2. Le definizioni, le designazioni o le denominazioni di vendita figuranti nell'allegato VII possono essere utilizzate nell'Unione solo per la commercializzazione di un prodotto conforme ai corrispondenti requisiti stabiliti nel medesimo allegato” (art. 78). A queste ultime disposizioni si riferisce la sentenza della Corte di Giustizia 14 giugno 2017 in causa 422/16, sull’uso corretto della denominazione “latte” non utilizzabile per prodotti di origine vegetale. LeGISLAzIone ed ATTUALITà 4. Prodotti ortofrutticoli. Una specifica sottosezione si occupa in particolare dei prodotti ortofrutticoli freschi e trasformati, per i quali vige il seguente regime di commercializzazione: "1. Inoltre, ove inerente alle norme di commercializzazione applicabili di cui all'articolo 75, i prodotti del settore degli ortofrutticoli destinati alla vendita al consumatore come prodotti freschi possono essere commercializzati soltanto se sono di qualità sana, leale e mercantile e se è indicato il paese di origine. 2. Le norme di commercializzazione di cui al paragrafo 1, ed eventuali norme di commercializzazione applicabili al settore degli ortofrutticoli stabilite conformemente alla presente sottosezione, si applicano a tutte le fasi della commercializzazione, compresi l'importazione e l'esportazione, e possono riguardare qualità, classificazione, peso, dimensioni, imballaggio, condizionamento, magazzinaggio, trasporto, presentazione e commercializzazione. 3. Il detentore di prodotti del settore degli ortofrutticoli per i quali sono state stabilite norme di commercializzazione non espone, mette in vendita, consegna o commercializza in alcun modo tali prodotti all'interno dell'Unione se non in conformità a dette norme ed è responsabile di tale conformità. 4. Al fine di assicurare la corretta applicazione dei requisiti stabiliti al paragrafo 1 del presente articolo e al fine di tenere conto di alcune situazioni peculiari, alla Commissione è conferito il potere di adottare atti delegati conformemente all'articolo 227 riguardanti deroghe specifiche al presente articolo necessarie per la sua corretta applicazione" (art. 76). A questo settore di prodotti si applica il reg. (Ce) 7 giugno 2011 n. 543/2011/Ue della Commissione, recante modalità di applicazione del regolamento (Ce) n. 1234/2007 nel settore degli ortofrutticoli freschi e trasformati, la cui disciplina si compone di una noma generale e di 10 norme specifiche per altrettanti prodotti (mele, pere, agrumi, pesche e nettarine, lattughe e invidia, peperoni dolci, uva da tavola, kiwi, pomodori). La norma generale è esplicata nell’Allegato I - parte A del regolamento suddetto e prescrive le caratteristiche minime di qualità, di maturazione, le tolleranze, le indicazioni esterne e il nome completo del paese di origine. Le norme specifiche sono descritte nella parte B del medesimo Allegato. Il sistema si completa con la previsione di appositi e puntuali controlli, selezionati sulla base di un’analisi di rischio e che possono intervenire “in tutte le fasi di commercializzazione” (art. 8 reg. n. 543/2011/Ue cit.). A tali fini tutti gli operatori del settore sono tenuti ad iscriversi nella Banca dati nazionale degli operatori ortofrutticoli (Bdnoo). 5. Finalità. La finalità delle norme di commercializzazione consiste nell’intento di favorire il commercio di prodotti destinati all’alimentazione, assicurandone la qualità e l’informazione. Pertanto lo scopo delle norme in questione è dichiaratamente quello di " garantire l'agevole approvvigionamento del mercato rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo - n. 2/2017 con prodotti di qualità normalizzata e soddisfacente ed è importante che le norme riguardino, in particolare, la definizione tecnica, la classificazione, la presentazione, la marchiatura e l'etichettatura, il condizionamento, il metodo di produzione, la conservazione, il magazzinaggio, il trasporto, i rispettivi documenti amministrativi, la certificazione e le scadenze, le restrizioni di uso e lo smaltimento " (71° Considerando del reg. (Ce) del Parlamento europeo e del Consiglio, 17 dicembre 2013 n. 1308/2013). L'articolo 74 (principio generale) dispone che " i prodotti per i quali sono stati stabilite norme di commercializzazione per settore o per prodotto conformemente alla presente sezione possono essere commercializzati nell'Unione solo se sono conformi a tali norme". Il successivo art. 75 prevede che le norme di commercializzazione tengono conto: “a) delle peculiarità del prodotto considerato; b) della necessità di assicurare le condizioni atte a facilitare l'immissione dei prodotti sul mercato; c) dell'interesse dei produttori a comunicare le caratteristiche dei prodotti e della produzione e dell'interesse dei consumatori a ricevere informazioni adeguate e trasparenti sui prodotti, compreso il luogo di produzione da stabilire caso per caso al livello geografico adeguato, dopo aver effettuato una valutazione, in particolare, dei costi e degli oneri amministrativi per gli operatori e dei benefici apportati ai produttori e ai consumatori finali; d) dei metodi disponibili per la determinazione delle caratteristiche fisiche, chimiche e organolettiche dei prodotti; e) delle raccomandazioni standardizzate adottate dalle organizzazioni internazionali; f) della necessità di preservare le caratteristiche naturali ed essenziali dei prodotti e di evitare che la composizione del prodotto subisca modifiche sostanziali”. Per quanto attiene ai prodotti ortofrutticoli freschi, il sistema si basa su due presupposti per poter raggiungere la propria finalità: i prodotti devono corrispondere a determinati requisiti di qualità e di commerciabilità (essere cioé di "qualità sana... e mercantile") e tali requisiti devono essere resi noti e conoscibili al consumatore (il commercio deve essere "leale"). È quindi elemento essenziale per l’operatività del sistema che i suddetti presupposti siano dichiarati e controllabili in ogni fase della commercializzazione compresa quella del loro trasporto, attraverso adeguate indicazioni esterne (v. 8° e 12° Considerando reg. (Ce) n. 543/2011/Ue). Infatti l'art. 5 del regolamento da ultimo citato impone le seguenti “Indicazioni esterne. 1. Le indicazioni previste dal presente capo sono riportate a caratteri leggibili e visibili su uno dei lati dell'imballaggio, mediante stampatura diretta indelebile o mediante etichetta integrata nell'imballaggio o fissata ad esso. 2. Per le merci spedite alla rinfusa, caricate direttamente su un mezzo di trasporto, le indicazioni di cui al paragrafo 1 sono riportate su un documento che accompagna la merce o su una scheda collocata in modo visibile all'interno del mezzo di trasporto. LeGISLAzIone ed ATTUALITà 3. nel caso dei contratti a distanza di cui all'articolo 2, par. 1, della direttiva 97/7/CE, del Parlamento europeo e del Consiglio, la conformità alle norme di commercializzazione richiede che le indicazioni esterne siano disponibili prima della conclusione del contratto. 4. Le fatture e i documenti di accompagnamento, escluse le ricevute per il consumatore, recano il nome e il paese di origine dei prodotti e, se del caso, la categoria, la varietà o il tipo commerciale se ciò è richiesto da una norma di commercializzazione specifica, oppure indicano che il prodotto è destinato alla trasformazione". Si è pertanto in presenza di un articolato corpus normativo volto a garantire la qualità commerciale dei prodotti e la conoscibilità delle loro principali caratteristiche, capaci di influenzare il consumatore al momento dell’acquisto e che quindi devono essere di percezione immediata (4). In questa ottica particolarmente importante è l’indicazione del Paese di origine, che a questi fini si atteggia come requisito di qualità, in grado di essere apprezzato dal pubblico, e non come elemento di tracciabilità, come impropriamente inteso invece dalle pronunce della Cassazione all’inizio menzionate. 6. Controlli. Per assicurare il raggiungimento della finalità perseguita è necessario che siano previsti adeguati controlli finalizzati alla verifica in concreto della corrispondenza della qualità dei prodotti, come esternata attraverso i documenti di trasporto, gli imballaggi, le etichette, i cartellini, i marchi, alla norma generale e a quelle specifiche di commercializzazione. Sono appunto i controlli di conformità alle norme di commercializzazione, generale e specifiche ove esistenti. L'art. 17 del reg. (Ce) n. 543/2011/Ue prescrive che i controlli di conformità si effettuano secondo i metodi descritti nell'allegato V e che in caso di non conformità, le merci oggetto di controllo negativo "non possono essere spostate", salvo possibilità di regolarizzazione o di avvio ad altra destinazione (alimentazione animale, trasformazione industriale, altri usi non alimentari). In base a tale allegato V: “Il controllo di conformità è eseguito mediante valutazione di campioni prelevati a caso in vari punti della partita da controllare. In linea di massima la qualità del campione si presume rappresentativa della qualità della partita. Il controllo di conformità può essere effettuato durante le operazioni di imballaggio, al punto di spedizione, durante il trasporto, al punto di ricevimento e a livello della vendita all'ingrosso e al dettaglio. nei casi in cui l'organismo di controllo non effettui il controllo di conformità nei propri locali, il detentore mette a disposizione strutture che consentano la realizzazione di un controllo di (4) Secondo Corte di Giustizia Ue, 4 giugno 2015, n. 195/14, l’etichettatura, tramite illustrazioni, non deve far credere che un ingrediente sia presente, non bastando ad informare correttamente il consumatore la sua assenza dall’elenco degli ingredienti. rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo - n. 2/2017 conformità. L'identificazione delle partite si basa sulle marcature o su altri criteri quali le diciture stabilite conformemente alla direttiva 89/396/CEE del Consiglio. Se la spedizione consta di più partite, l'ispettore ricava un'impressione generale della spedizione dai documenti di accompagnamento o dalle dichiarazioni. In base al controllo stabilisce quindi il grado di conformità delle partite con le indicazioni riportate su tali documenti. Se i prodotti sono stati o devono essere caricati su un mezzo di trasporto, il numero d'immatricolazione di quest'ultimo servirà a identificare la spedizione". Pertanto, il controllo documentale si accompagna al controllo fisico e deve essere condotto sui documenti che accompagnano la merce e sulle indicazioni esterne apposte sulla stessa. Se manca o è incompleta l'etichettatura o la fattura o il documento di accompagnamento, tale controllo è reso inefficace nell'immediato (si ricorda che si tratta di prodotti freschi, rapidamente deperibili) e anche a ritroso, risalendo la catena dei passaggi (potendo essere impossibile riconciliare quella specifica merce con la fattura generale di acquisto, in mancanza o per incompletezza del documento di uscita dalla piattaforma). L’importanza quindi delle indicazioni esterne e dei documenti di accompagnamento è evidente ed è inesatto sostenere la non necessità di questi ultimi, a seguito della abolizione (nel 1996) della bolla di accompagnamento, sia perchè questa è stata sostituita dal ddT, documento di trasporto facoltativo, ma necessario ai fini fiscali per potersi avvalere della fatturazione differita (art. 21 dPr n 633/1972) e per superare la presunzione di acquisto o vendita in caso di trasporto in conto terzi (art. 53 dPr cit.), sia perchè essa è resa necessaria per gli ortofrutticoli freschi dalla succitata regolamentazione comunitaria che la prevede in alternativa alla fattura, e serve anche a stabilire la destinazione dei prodotti a eventuali utilizzazioni diverse (non alimentare, trasformazione industriale ecc.) per le quali vigono apposite deroghe. ne consegue che una volta emesso, il documento accompagnatorio deve contenere oltre alla "descrizione della natura, della qualità e della quantità dei beni" (dPr 14 agosto 1996, n. 472, art. 1, c. 3) anche "il nome ed il paese di origine dei prodotti..., la categoria, la varietà o il tipo commerciale" (art. 5 reg. (Ce) n. 543/2011/Ue). e infatti l'allegato I al citato reg. dispone, in via generale, che sia indicata "B. origine nome completo del paese di origine. Per i prodotti originari di uno Stato membro, il nome deve essere indicato nella lingua del paese di origine o in ogni altra lingua comprensibile ai consumatori del paese di destinazione. Per gli altri prodotti, il nome deve essere indicato in una lingua comprensibile ai consumatori del paese di destinazione” nonché, per i singoli prodotti, eventualmente anche la zona di produzione, o la denominazione nazionale, regionale o locale (ad es., per mele, agrumi, kiwi, pere ecc.). LeGISLAzIone ed ATTUALITà Ai sensi degli articoli 11 e 13 del citato reg., lo Stato membro è chiamato a svolgere obbligatoriamente e sistematicamente i controlli di conformità anche nelle fasi di importazione e di esportazione: infatti i prodotti soggetti a norme di commercializzazione non possono essere esportati verso Paesi terzi senza che per ciascuna partita ne sia stata accertata la conformità, così come nessun prodotto può essere immesso nella Ue se non previamente controllato in dogana, mediante rilascio di apposito certificato di conformità da parte dell’organismo incaricato del controllo. In base al d.lgs. 29 marzo 2004, n. 99 e s.m.i., il coordinamento delle attività dei controlli di conformità spetta ad AGeA, che è anche l’autorità di contatto comunitario (art. 18). L’organismo responsabile dell’esecuzione dei controlli obbligatori di conformità alle norme di commercializzazione è Agecontrol spa, società interamente partecipata da Agea e istituita con dl. 27 ottobre 1986, n. 701, conv. in l. 23 dicembre 1986, n. 898, e s.m.i. e che è subentrata in tale attività nel 2005 all’ICe. Anche le regioni, ai sensi dell’art. 4-quater del d. lgs. n. 99/2004 cit. e del- l’art. 4 del decreto del ministro delle Politiche agricole alimentari e forestali n. 5462 del 3 agosto 2011, possono svolgere ulteriori controlli di conformità, avvalendosi della Banca dati nazionale e in adesione al manuale e alle disposizioni attuative emanate da Agea, dandone comunicazione a questa e al ministero (art. 4). Le attività di controllo si effettuano sulla base di un programma nazionale, per campagna, ripartito per prodotti, messo a punto da un Comitato misto costituito presso Agea (art. 4 d.m. citato). 7. Sanzioni. A presidio del sistema è posto un articolato complesso sanzionatorio speciale. Il d.lgs. 10 dicembre 2002, n. 306 prevede infatti tre tipi di violazione che colpiscono: -l'operatore non iscritto alla Banca nazionale dati o che apponga senza essere autorizzato l'etichetta di conformità (art. 2); -l'operatore che impedisce od ostacola le funzioni di controllo od omette di fornire le informazioni richieste o le fornisce in maniera difforme (art. 3); -chiunque viola le norme per gli ortofrutticoli freschi o movimenta prodotti che hanno riportato un attestato di non conformità (art. 4). Si tratta di sanzioni che colpiscono condotte formali diverse (ed eventualmente concorrenti) che prescindono dalla situazione sottostante, nel senso che è punita l'azione od omissione in sè, stante la finalità delle norme di commercializzazione ed il connesso onere informativo. Sono cioè illeciti amministrativi formali a protezione del commercio di detti prodotti e dell'obbligo di corretta informazione che deve accompagnare la commercializzazione degli stessi. rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo - n. 2/2017 In base al principio di specialità (art. 9 legge n. 689/1981) tali sanzioni amministrative prevalgono su eventuali disposizioni penali che punissero lo stesso fatto in sé. Conseguentemente, il mancato rispetto di alcuni adempimenti doverosi (apposizione dell'etichetta sull'imballaggio, mancanza del cartello, omissione o difformità delle indicazioni previste: categoria, varietà, paese di origine, numero iscrizione banca dati) configura l'illecito di violazione delle norme di commercializzazione di cui all'art. 4 del d.lgs. citato, a prescindere dalla sostanziale qualità dei prodotti trasportati o esitati o esposti, che può eventualmente integrare altre fattispecie di illegalità (di competenza di altre autorità), come tali soggette alle relative sanzioni e salva la possibilità della loro regolarizzazione. Infatti il recente reg. Ue 15 marzo 2017 n. 2017/625 del Parlamento europeo e del Consiglio, relativo ai controlli ufficiali per garantire l’applicazione della legislazione sugli alimenti, ha espressamente premesso che “(22) Per la verifica della conformità alle norme sull'organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli (seminativi, vino, olio d'oliva, ortofrutta, luppolo, latte e prodotti a base di latte, carne di manzo e di vitello, carni ovine e caprine e miele) esiste già un sistema consolidato e specifico di controlli. Il presente regolamento non dovrebbe quindi applicarsi alla verifica della conformità al regolamento (UE) n. 1308/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, che disciplina le organizzazioni comuni dei mercati dei prodotti agricoli, salvo qualora i controlli svolti in relazione alle norme di commercializzazione ai sensi del regolamento (UE) n. 1306/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio indichino possibili casi di pratiche fraudolente o ingannevoli” (22° Considerando). 8. Tutela penale degli alimenti. In effetti, come sopra accennato, le norme di commercializzazione riguardano solo un limitato numero di prodotti alimentari e possono concorrere con altri complessi normativi che pur avendo un distinto oggetto giuridico, indirettamente vengono a tutelare anche la commercializzazione di tali prodotti nel doppio aspetto della qualità e della correttezza dei rapporti (5). A livello comunitario, il fondamentale reg. Ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 28 gennaio 2002 n. 178, detta i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l’Autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa le procedure nel campo della sicurezza alimentare, tra cui quello della rintracciabilità: (5) PezzULLo m., La contraffazione alimentare. Disciplina, reati e sanzioni amministrative, in Disciplina del commercio e dei servizi, maggioli 2013, n. 2; mASInI S., Tutela del consumatore e profili penali della disciplina delle frodi alimentari, in agriregionieuropa, dicembre 2014, n. 39. LeGISLAzIone ed ATTUALITà “1. È disposta in tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione la rintracciabilità degli alimenti, dei mangimi, degli animali destinati alla produzione alimentare e di qualsiasi altra sostanza destinata o atta a entrare a far parte di un alimento o di un mangime. 2. Gli operatori del settore alimentare e dei mangimi devono essere in grado di individuare chi abbia fornito loro un alimento, un mangime, un animale destinato alla produzione alimentare o qualsiasi sostanza destinata o atta a entrare a far parte di un alimento o di un mangime. A tal fine detti operatori devono disporre di sistemi e di procedure che consentano di mettere a disposizione delle autorità competenti, che le richiedano, le informazioni al riguardo. 3. Gli operatori del settore alimentare e dei mangimi devono disporre di sistemi e procedure per individuare le imprese alle quali hanno fornito i propri prodotti. Le informazioni al riguardo sono messe a disposizione delle autorità competenti che le richiedano. 4. Gli alimenti o i mangimi che sono immessi sul mercato della Comunità o che probabilmente lo saranno devono essere adeguatamente etichettati o identificati per agevolarne la rintracciabilità, mediante documentazione o informazioni pertinenti secondo i requisiti previsti in materia da disposizioni più specifiche. 5. Le disposizioni per l'applicazione in settori specifici del presente articolo possono essere adottate secondo la procedura di cui all'articolo 58, paragrafo 2” (art. 18). nel diritto interno, la legge 30 aprile 1962 n. 283 (in parte depenalizzata dal d. lgs. n. 507/1999, ad esclusione degli artt. 5, 6, 9, 13) provvede alla tutela dell’igiene e della salute pubblica nella produzione e nel commercio degli alimenti. In particolare rilevano le disposizioni dell’art. 5 secondo cui “ È vietato impiegare nella preparazione di alimenti o bevande, vendere, detenere per vendere o somministrare come mercede ai propri dipendenti, o comunque distribuire per il consumo sostanze alimentari: a) private anche in parte dei propri elementi nutritivi o mescolate a sostanze di qualità inferiore o comunque trattate in modo da variarne la composizione naturale, salvo quanto disposto da leggi e regolamenti speciali; b) in cattivo stato di conservazione; c) con cariche microbiche superiori ai limiti che saranno stabiliti dal regolamento di esecuzione o da ordinanze ministeriali; d) insudiciate, invase da parassiti, in stato di alterazione o comunque nocive, ovvero sottoposte a lavorazioni o trattamenti diretti a mascherare un preesistente stato di alterazione; e) (abrogato); f) (abrogato); g) con aggiunta di additivi chimici di qualsiasi natura non autorizzati con decreto del ministro per la sanità o, nel caso che siano stati autorizzati, senza l'osservanza delle norme prescritte per il loro impiego. I decreti di autorizzazione sono soggetti a revisioni annuali; h) che contengano residui di prodotti, usati in agricoltura per la protezione delle piante e a difesa delle sostanze alimentari immagazzinate, tossici per l'uomo. Il ministro per la sanità, con propria ordinanza, stabilisce per ciascun prodotto, autorizzato all'impiego per tali scopi, i limiti di tolleranza e l'intervallo per tali scopi, i limiti di tolleranza e l'intervallo minimo che deve intercorrere tra l'ultimo trattamento e la raccolta e, per le sostanze alimentari immagazzinate tra l'ultimo trattamento e l'immissione al consumo”. Le disposizioni penali di questa legge prevalgono anche sulle sanzioni rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo - n. 2/2017 amministrative speciali in materia di produzione, commercio e igiene degli alimenti e delle bevande (art. 9, terzo comma, l. n. 689/1981). diverse pronunce della Cassazione si sono occupate del cattivo stato di conservazione dei prodotti in vendita o della loro esposizione ad agenti atmosferici inquinanti o della qualificazione di tali illeciti come reati di pericolo presunto (6). Altre leggi speciali prescrivono requisiti e adempimenti necessari per la produzione e la vendita di queste sostanze alimentari, ispirate a finalità diverse ma sempre rilevanti nel commercio, e ne sanzionano le violazioni. Si tratta fra le altre di: -quella sulle denominazioni di origine protetta (d. lgs. 8 aprile 2010 n. 61, d. lgs. 6 febbraio 2005 n. 30), sanzionata dall’art. 517 quater c.p.; -quella sul made in Italy (d. lgs. n. 135/2009, art. 16), sanzionata dall’art. 517 c.p.; - quella sui prodotti oGm (d. lgs. n. 224/2003, art. 54); - quella sui marchi (l. n. 350/2003, art. 4 bis, c. 49 bis, ter, quater); -quella sull’etichettatura e l’indicazione della scadenza (d. lgs. n. 109/1992, come modif. dal d. lgs. n. 281/2003). Completano tale apparato normativo le disposizioni del codice penale che puniscono come delitti la adulterazione e contraffazione di sostanze alimentari (art. 440), il commercio di sostanze alimentari contraffatte o adulterate (art. 442), o nocive (art. 444), la frode in commercio (art. 515), la vendita di sostanze alimentari non genuine come genuine (art. 516), la vendita di prodotti industriali con segni mendaci (art. 517), la fabbricazione e commercio di beni realizzati usurpando titoli di proprietà industriale (art. 517 ter), la contraffazione di indicazioni geografiche o denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari (517 quater). A tutti questi illeciti in materia alimentare si applicano le disposizioni di legge (d. lgs. n. 231/2001) che ne estendono la responsabilità penale alle società e agli enti collettivi (7). 9. Coordinamento dei controlli. La convergenza di tutte queste norme sui prodotti alimentari comporta la possibile concorrenza e interferenza di molteplici attività di controllo deputate ad una serie di differenti organi, ciascuno per la parte di sua spettanza (nAS, (6) Sul divieto di vendita di prodotti alimentari in cattivo stato di conservazione v. Trib. Campobasso, 29 marzo 2017; Cass. 5 maggio 2015 n. 40772; sui limiti della responsabilità del direttore del supermercato v. Cass. 10 settembre 2015 n. 44335, Cass. 9 giugno 2016 n. 31035. PISAneLLo d., alimenti insudiciati e alimenti in cattivo stato di conservazione: la Cassazione fa ordine, in Lex alimentaria, novembre 2014. (7) SAnTorIeLLo C., reati alimentari e responsabilità della persona giuridica, in www.giurisprudenza.unipg.it/files/generale/imPorT/.../01_reati-alimentari.pdf. LeGISLAzIone ed ATTUALITà noe, Camere di commercio, Polizie municipali, regioni, Agecontrol ecc.), che può gravemente intralciare la normale attività delle imprese. nel dichiarato intento di ridurre tale possibile inconveniente, è intervenuto il Legislatore prima con il d.l. n. 5/2012, conv. in l. n. 35/2012, e poi con il d.l. 24 giugno 2014 n. 91, conv. in l. n. 116/2014, disponendo che “al fine di assicurare l'esercizio unitario dell'attività ispettiva nei confronti delle imprese agricole e l'uniformità di comportamento degli organi di vigilanza, nonché di garantire il regolare esercizio dell'attività imprenditoriale, i controlli ispettivi nei confronti delle imprese agricole sono effettuati dagli organi di vigilanza in modo coordinato, tenuto conto del piano nazionale integrato di cui all'articolo 41 del regolamento (CE) n. 882/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, e delle Linee guida adottate ai sensi dell'articolo 14, comma 5, del decreto-legge 9 febbraio 2012, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 aprile 2012, n. 35, evitando sovrapposizioni e duplicazioni, garantendo l'accesso all'informazione sui controlli. i controlli sono predisposti anche utilizzando i dati contenuti nel registro di cui al comma 2. i controlli ispettivi esperiti nei confronti delle imprese agricole sono riportati in appositi verbali, da notificare anche nei casi di constatata regolarità. Nei casi di attestata regolarità, ovvero di regolarizzazione conseguente al controllo ispettivo eseguito, gli adempimenti relativi alle annualità sulle quali sono stati effettuati i controlli non possono essere oggetto di contestazioni in successive ispezioni relative alle stesse annualità e tipologie di controllo, salvo quelle determinate da comportamenti omissivi o irregolari dell'imprenditore, ovvero nel caso emergano atti, fatti o elementi non conosciuti al momento dell'ispezione. La presente disposizione si applica agli atti e documenti esaminati dagli ispettori ed indicati nel verbale del controllo ispettivo”. Conseguentemente è stato istituito il registro unico dei controlli per coordinare l’attività dei vari organi incaricati, stabilendo che i dati concernenti i controlli effettuati da parte di organi di polizia e dai competenti organi di vigilanza e di controllo, nonché da organismi privati autorizzati allo svolgimento di compiti di controllo dalle vigenti disposizioni a carico delle imprese agricole, siano resi disponibili tempestivamente in via telematica e rendicontati annualmente, anche ai fini della successiva riprogrammazione ai sensi dell'articolo 42 del regolamento (Ce) n. 882/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004, alle altre pubbliche amministrazioni secondo le modalità definite con Linee Guida tra le amministrazioni interessate sancite in sede di Conferenza Unificata il 24 gennaio 2013 (in G.U. n. 42 del 19 febbraio 2013), di applicazione generale, e quindi applicabili anche ai controlli di conformità alle norme di commercializzazione, nei limiti della loro compatibilità con le specificità (di luogo e di tempi) di tale attività. nel contempo, per le violazioni delle norme in materia agroalimentare rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo - n. 2/2017 sanzionate con la sola sanzione pecuniaria, commesse per la prima volta, è stata introdotta la diffida ad adempiere entro 20 giorni. 10. Sintesi conclusiva. Le sentenze sopracitate della Corte di Giustizia Ue vanno indubbiamente nella direzione di un rafforzamento del sistema delle norme di commercializzazione e della tutela del consumatore, sia per quanto riguarda l’interesse di questo a non essere fuorviato nelle proprie scelte da denominazioni generiche di prodotti non corrispondenti a quelle correnti accolte nei regolamenti comunitari (sent. C-422/16 sul latte e i prodotti caseari), sia nel senso di riconoscere all’Unione una propria autonomia nell’adottare norme di commercializzazione anche più rigorose di quelle Unece, nel rispetto dei principi di proporzionalità e di non discriminazione (sent. C-26/15 P). non altrettanto può dirsi dell’orientamento assunto dalla Suprema Corte sopra ricordato, che focalizzandosi su una presunta finalità di tracciabilità, che appare estranea allo scopo delle norme di commercializzazione (che come sopra dimostrato consiste nel garantire, nella fase del commercio, la qualità dei prodotti alimentari e l’informazione del consumatore), rischia di depotenziare i controlli di conformità dei prodotti commercializzati ai requisiti indicati nelle relative norme, generali e specifiche e non trova riscontro in alcuna deroga prevista nei regolamenti comunitari (8). (8) In tal senso, v. nota ddG3/g2/ddF/pmc(2017)216091p della Commissione Ue. LeGISLAzIone ed ATTUALITà Illegittimità della delibera consiliare con la quale vengono approvate le aliquote e le tariffe dei tributi comunali oltre il termine stabilito per l’approvazione del bilancio di previsione Daniele Sisca* Sommario: 1. i ricorsi proposti dal ministero dell’Economia e delle Finanze: analisi della normativa di riferimento -2. Sulla legittimazione ad agire del ministero -3. La posizione dei Tribunali amministrativi regionali e del Consiglio di Stato -4. Considerazioni conclusive. 1. i ricorsi proposti dal ministero dell’Economia e delle Finanze: analisi della normativa di riferimento. Tra gli adempimenti più importanti degli enti Locali in materia fiscale vi è l’approvazione - di anno in anno - delle aliquote e delle tariffe dei tributi di loro competenza. La disciplina - contenuta, principalmente, nell’art. 52, d.lgs. n. 446/1997 (1) e nelle altre disposizioni che di seguito esamineremo -prevede un iter dettagliato e puntuale, caratterizzato da una rigida sequenza di termini di natura quasi esclusivamente perentoria. La disposizione di maggior rilievo è l’art. 1, comma 169, l. n. 296/2006, la quale stabilisce che “gli enti locali deliberano le tariffe e le aliquote relative ai tributi di loro competenza entro la data fissata da norme statali per la deliberazione del bilancio di previsione” (2). Un’altra disposizione di analogo contenuto era già rinvenibile nella citata l. n. 446/1997, che, all’art. 54, prevede che “Le provincie e i comuni approvano le tariffe e i prezzi pubblici contestualmente all’approvazione del bilancio di previsione”. da ultimo, la l. n. 147/2013 (c.d. legge di stabilità 2014) ha ulteriormente ribadito detto termine (anche se in riferimento alle sole tariffe TArI e TASI), stabilendo - all’art. 1, comma 683 - che “il consiglio comunale deve appro- (*) dottore in Giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato di Catanzaro. (1) Ai sensi del quale “Le province ed i comuni possono disciplinare con regolamento le proprie entrate, anche tributarie, salvo per quanto attiene alla individuazione e definizione delle fattispecie imponibili, dei soggetti passivi e della aliquota massima dei singoli tributi, nel rispetto delle esigenze di semplificazione degli adempimenti dei contribuenti. Per quanto non regolamentato si applicano le disposizioni di legge vigenti. i regolamenti sono approvati con deliberazione del comune e della provincia non oltre il termine di approvazione del bilancio di previsione e non hanno effetto prima dell’1 gennaio dell’anno successivo. i regolamenti sulle entrate tributarie sono comunicati, unitamente alla relativa delibera comunale o provinciale al ministero delle finanze, entro trenta giorni dalla data in cui sono divenuti esecutivi e sono resi pubblici mediante avviso nella Gazzetta Ufficiale”. (2) La disposizione prosegue, stabilendo che “Dette deliberazioni, anche se approvate successivamente all’inizio dell’esercizio purché entro il termine innanzi indicato, hanno effetto dal 1° gennaio dell’anno di riferimento”. rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo - n. 2/2017 vare, entro il termine fissato da norme statali per l’approvazione del bilancio di previsione, le tariffe della Tari in conformità al piano finanziario del servizio di gestione dei rifiuti urbani … e le aliquote della TaSi …”. Tali disposizioni, dal tono letterale abbastanza chiaro, devono esser lette, ovviamente, in combinato disposto con l’art. 151, d.lgs. n. 267/2000, il quale prevede che gli enti Locali “deliberano il bilancio di previsione finanziario entro il 31 dicembre”, aggiungendo, si badi bene, che “i termini possono essere differiti con decreto del ministro dell’interno, d’intesa con il ministro dell’Economia e delle Finanze, sentita la Conferenza Stato-città ed autonomie locali, in presenza di motivate esigenze”. Quest’ultima ipotesi, invero, è di frequente ricorrenza; in particolare, riguardo all’anno cui fanno riferimento le sentenze in questa sede esaminate (2015), devono aggiungersi alla disamina delle disposizioni sopra richiamate ben tre decreti del ministero dell’Interno attraverso i quali il termine ordinario è stato differito dal 31 dicembre al 30 luglio 2015. nello specifico, il primo d.m. è stato emanato il 24 dicembre 2014 (pubblicato in Gazz. Uff., n. 301 del 30 dicembre 2014) e disponeva il differimento del termine al 31 marzo 2015; il secondo d.m., emanato il 16 marzo 2015 (pubblicato in Gazz. Uff., n. 67 del 21 marzo 2015) differiva ulteriormente il termine al 31 maggio 2015; infine, il terzo d.m., emanato in data 13 maggio 2015 (pubblicato in Gazz. Uff., n. 115 del 20 maggio 2015) stabiliva il termine definitivo di approvazione al 30 luglio 2015 (3). L’eventuale approvazione del bilancio di previsione oltre il termine stabilito non comporta uno slittamento del termine di approvazione delle aliquote tributarie, ciò anche nei casi in cui il Prefetto conceda un termine ai Comuni per l’approvazione del bilancio di previsione oltre il suddetto termine ordinario (4). risulta, quindi, chiaro che il termine di approvazione del bilancio di previsione è stato fissato per il 2015 al 30 luglio, con la conseguenza che, entro e non oltre tale termine, dovevano necessariamente essere approvate le aliquote e le tariffe inerenti i tributi comunali. (3) In questo caso il differimento veniva richiesto dall’Unione nazionale Comuni Italiani (A.n.C.I.) e dall’Unione delle Province d'Italia (U.P.I.) e motivato (nel terzo d.m.) nel senso che segue: “Considerato che gli enti locali in sede di predisposizione dei bilanci di previsione per l’anno 2015 non dispongono ancora in maniera completa di dati certi, sia in ordine alle risorse finanziarie disponibili a valere sul fondo di solidarietà comunale 2015, sia per la ridefinizione degli obiettivi del patto di stabilità interno 2015, che relativamente alle esigenze di rinegoziazione con la Cassa Depositi e Prestiti dei mutui già concessi, a seguito dell’emanazione delle circolari n. 1282 e n. 1283 della predetta Cassa, del 15 e 28 aprile 2015; Considerato inoltre che numerosi comuni sono contestualmente impegnati nel- l’ormai avviato procedimento elettorale per le elezioni regionali ed il rinnovo delle amministrazioni locali, operazioni che si potranno concludere il prossimo 31 maggio 2015, electionday, ovvero in coincidenza con il termine da prorogare; ritenuto pertanto necessario e urgente differire ulteriormente, per i suddetti motivi, il termine della deliberazione del bilancio di previsione degli enti locali per l’anno 2015”. (4) Sul punto si ritornerà al par. 3. LeGISLAzIone ed ATTUALITà Invero, dalla casistica giurisprudenziale esaminata è emerso che quasi tutti i Comuni hanno deliberato l’approvazione tardiva delle aliquote, in quanto hanno deliberato tardivamente anche l’approvazione del bilancio di previsione; attesa la connessione tra i due adempimenti, i Comuni hanno tentato di giustificare la tardività, evidenziando la circostanza secondo cui -non avendo provveduto ad approvare, entro il termine stabilito, il bilancio di previsione -gli stessi sarebbero stati, a loro dire, esonerati dall’approvazione delle aliquote tributarie prima dell’approvazione del medesimo bilancio. Tali argomentazioni non possono essere condivise. da un lato, difatti, la norma che stabilisce il termine ultimo di approvazione delle aliquote appare, senza dubbio, chiara e non rispondente ad una interpretazione estensiva in tal senso. In secondo luogo, anche la giurisprudenza in diverse pronunce ha avuto modo di confermare il dato letterale della norma, affermando l’impossibilità di differire ulteriormente il termine di approvazione delle aliquote nei casi in cui i Comuni procedano ad approvazione tardiva del bilancio di previsione (5). orbene, analizzando la situazione nell’anno 2015, v’è da rilevare che ben 373 comuni Italiani (6) hanno deliberato -almeno in riferimento ad un tributo comunale -l’approvazione delle aliquote e tariffe tributarie oltre la data di scadenza. Soltanto in Valle d’Aosta e in Trentino Alto Adige non vi sono comuni che non abbiano rispettato il termine imposto, mentre le prime in classifica risultano la Basilicata (17 Comuni ritardatari su 73 totali), seguita dalla Calabria (37 Comuni su 230), Campania (39 Comuni su 290) e il Lazio (32 Comuni su 238). Avverso gli atti deliberativi “tardivi” di tali Comuni, il ministero del- l’economia e delle Finanze ha proposto una serie di ricorsi finalizzati a chiedere al Tribunale Amministrativo regionale competente la sospensione e l’annullamento dei medesimi. (5) Cfr. T.a.r. Calabria, Catanzaro, sez. II, 6 marzo 2014, n. 366, in www.giustizia-amministrativa.it, la quale, richiamando Corte dei Conti, sez. reg. di controllo per la Calabria, 14 gennaio 2014, n. 4, inedita, afferma che “Né può condurre a differenti conclusioni il rilievo secondo cui, nella specie, l’approvazione del bilancio sia stata assunta a seguito di intimazione/diffida del Prefetto di Catanzaro, poiché l’ulteriore periodo di venti giorni, assegnato dal Prefetto, riguarda soltanto l’approvazione del bilancio preventivo, quale provvedimento funzionale, in caso di persistenza nell’inadempimento da parte del Comune di La- mezia Terme, allo scioglimento d’imperio (e quant’altro) del Consiglio Comunale dell’ente locale medesimo e non incide sul termine finale del 30.11.2013, per l’approvazione da parte degli Enti locali delle aliquote (e quant’altro) concernenti l’imposta municipale propria (imU) per il 2013, trattandosi di termine prestabilito dal legislatore a pena di decadenza, accompagnato da specifiche prescrizioni sanzionatorie, testualmente comminate per l’ipotesi di inosservanza. Nella medesima ottica, la delibera della Corte dei Conti nr. 263/2007, in relazione ad analoga fattispecie, ha espressamente stabilito che l’aumento delle tariffe e delle aliquote decise oltre il termine indicato dalle leggi Statali, anche se prorogato a seguito dei termini ulteriori concessi dal Prefetto per la sola approvazione del Bilancio di previsione, non hanno valore e, quindi, non possono essere applicate, producendo effetto solo le tariffe dell’anno precedente”. (6) dati estratti da www.finanzalocale.interno.it. rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo - n. 2/2017 I vizi denunciati con detti ricorsi sono, primo fra tutti, la violazione del combinato disposto dell’art. 1, comma 169, l. n. 296/2006 e dell’art. 151, comma 1, d.lgs. n. 267/2000, oltreché incompetenza, carenza di potere, violazione dell’art. 23 Cost., violazione dell’art. 53, comma 16, l. 23 dicembre 2000, n. 388, come sostituito dall’art. 27, comma 8, l. 28 dicembre 2001, n. 448. 2. Sulla legittimazione ad agire del ministero dell’Economia e Finanze. Secondo i principi generali, la legittimazione ad agire avverso gli atti deliberativi concernenti la determinazione delle aliquote tributarie spetterebbe, sicuramente, ad ogni singolo cittadino, in quanto destinatario di tali provvedimenti e in capo al quale si configura la lesione di una situazione giuridica tutelabile dalla quale sorge un interesse personale, concreto e attuale all’impugnazione. È solo il cittadino, infatti, che per via di tali provvedimenti sarebbe chiamato a versare in favore delle casse comunali una somma di denaro determinata in maniera illegittima; solo in capo allo stesso, dunque, che si configurerebbe l’interesse all’annullamento di tali provvedimenti. È, tuttavia, configurabile un’ipotesi di legittimazione ad agire straordinaria prevista dal citato art. 52, d.lgs. n. 446/1997, il quale, al comma 4, attribuisce al ministero dell’economia e delle Finanze la facoltà di “impugnare i regolamenti sulle entrate tributarie per vizi di legittimità avanti agli organi di giustizia amministrativa”. ovviamente tale legittimazione è stata prevista dal legislatore in funzione e a tutela degli interessi pubblici la cui cura è affidata al ministero stesso. Sarebbe implausibile, infatti, che i singoli cittadini dovessero ricorrere autonomamente per l’annullamento di tali provvedimenti (anche se non sono mancate tali circostanze (7)). Per quanto concerne le aliquote tributarie in riferimento all’anno 2015, i ricorsi sono statti proposti tutti dal m.e.F., la cui legittimazione è stata riconosciuta -con una sola eccezione -da tutti i Tribunali amministrativi regionali. Solo il T.a.r. Friuli Venezia Giulia, con la sentenza n. 148/2016 (8) (l’unica pronuncia “controcorrente” rinvenibile), ha dichiarato il difetto di legittimazione ad agire in capo al ministero ricorrente, con conseguente inammissibilità del ricorso. Secondo il citato T.a.r., pur sussistendo un’esplicita disposizione che attribuisce la legittimazione ad agire in capo al ministero avverso i provvedimenti di determinazione delle aliquote tributarie comunali, lo stesso non avrebbe provato l’utilità che avrebbe ottenuto in caso di annullamento delle delibere impugnate (9). (7) Cfr. T.a.r. Calabria, Catanzaro, n. 366/2014 cit., con cui è stato accolto il ricorso proposto da un gruppo di cittadini di Lamezia Terme avverso la delibera di consiglio comunale con la quale venivano rideterminate le aliquote ImU per l’anno 2013 in quanto adottata oltre il termine di approvazione del bilancio di previsione. (8) In www.giustizia-amministrativa.it. LeGISLAzIone ed ATTUALITà Tale interpretazione non rispecchia la ratio della norma attributiva della legittimazione in capo al ministero; infatti, tale legittimazione è riconosciuta in funzione e a tutela degli interessi pubblici e, pertanto, l’utilità che il ministero otterrebbe dall’annullamento degli atti è proprio la salvaguardia degli interessi dei cittadini, i quali, altrimenti, sarebbero costretti a pagare un tributo determinato illegittimamente (10). d’altronde, la lesione configurabile in capo al ministero in altro non consiste se non quella ipotizzabile in capo ai singoli cittadini, che, di riflesso, si ripercuote sul ministero quale rappresentante e curatore degli interessi di questi ultimi. L’affermazione contenuta nella sopra richiamata sentenza del T.a.r. Friuli Venezia Giulia, secondo cui “sarebbe del tutto inutile eliminare un provvedimento o modificarlo nel senso richiesto dal ricorrente se questi non possa trarne alcun beneficio concreto in relazione alla sua posizione legittimante”, non appare rilevante nella fattispecie in esame, in quanto, pur se trattasi di principio valido ed indiscusso, il beneficio che il ministero trarrebbe dall’annullamento dei provvedimenti è senza dubbio il soddisfacimento e la cura degli interesse dei cittadini. Tutte le altre pronunce hanno riconosciuto tale legittimazione senza fare riferimento ad alcuna lesione rinvenibile (neppure di riflesso) in capo al ministero. (9) Si legge nella sentenza, infatti, che “non risulta sufficiente l’astratta possibilità di impugnare una delibera per sostanziare in concreto l’interesse del ministero ricorrente, che deve risultare portatore nello specifico di un’utilità ricavabile dall’annullamento degli atti impugnati. infatti, in mancanza di ogni indicazione in ordine alla legittimazione e all'interesse ad agire, la domanda giudiziaria proposta innanzi al giudice amministrativo si traduce in una mera e inammissibile richiesta di ripristino della legalità violata (T.a.r. Napoli, sez. V, 06/07/2011, n. 3563). in particolare, il ministero non spiega i motivi per i quali le delibere gravate si presenterebbero lesive della sua sfera giuridica ovvero degli interessi pubblici di cui è portatore, omettendo di illustrare i meccanismi in forza dei quali, operando una rigorosa applicazione del rapporto causa-effetti, dall'annullamento di dette delibere potrebbero derivare effetti favorevoli per la propria sfera giuridica, limitandosi genericamente a denunciare una presunta loro difformità dalla legge, per quanto concerne la tempistica della loro approvazione. invero, secondo una nota e costante giurisprudenza: “Perché l'azione giurisdizionale possa dirsi ammissibile, l'interesse processuale deve presupporre, nella prospettazione della parte istante, una lesione concreta ed attuale dell'interesse sostanziale dedotto in giudizio, nonché l'idoneità del provvedimento richiesto al giudice a tutelare e soddisfare il medesimo interesse sostanziale, tale che in mancanza dell'uno o dell'altro requisito l'azione è inammissibile. Nell'ambito del processo amministrativo l'interesse a ricorrere deve, pertanto, intendersi caratterizzato dalla presenza dei medesimi requisiti sostanziali che qualificano l'interesse ad agire di cui all'art. 100 c.p.c. ovvero dalla prospettazione di una lesione concreta ed attuale della sfera giuridica del ricorrente e dall'effettiva utilità che potrebbe derivare a quest'ultimo dall'eventuale annullamento dell'atto impugnato. in tal senso, invero, sarebbe del tutto inutile eliminare un provvedimento o modificarlo nel senso richiesto dal ricorrente, se questi non possa trarne alcun beneficio concreto in relazione alla sua posizione legittimante (Consiglio di Stato, Sez. Vi, 3.9.2009, n. 5191). in altri termini, non si vede quale utilità potrebbe ottenere il ministero ricorrente dall’annullamento delle citate delibere, se non un mero ripristino della legalità, questione questa che non può di per sé fondare l’interesse al ricorso amministrativo sulla base dei principi del codice”. (10) La sentenza in discorso risulta in ogni caso appellata da parte del ministero e attualmente al vaglio del Consiglio di Stato, la cui prossima udienza per la discussione del merito è fissata per il prossimo 27 luglio 2017. rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo - n. 2/2017 È stato conformemente sostenuto, infatti, che tale legittimazione “prescinde necessariamente dall’esistenza di una lesione di una situazione giuridica tutelabile in capo ad esso, che determini l’insorgere di un interesse personale, concreto e attuale all’impugnazione, giacché l’attribuzione della legittimazione straordinaria è prevista dal legislatore esclusivamente in funzione e a tutela degli interessi pubblici la cui cura è affidata al ministero stesso” (11). 3. La posizione dei Tribunali amministratvi regionali e del Consiglio di Stato. Può passarsi ora all’esame della posizione assunta dai Tribunali amministrativi regionali e dal Consiglio di Stato sui ricorsi proposti dal m.e.F. V’è da dire, innanzitutto, che tutte le sentenze emesse in argomento non si diffondono eccessivamente (12), considerata la chiarezza delle norme che non richiede altro sforzo se non quello adoperato per confermare la sua portata letterale. Prima di esaminare le pronunce avverso i ricorsi proposti nel 2015, occorre evidenziare che, in precedenza, la medesima questione era già stata sottoposta all’attenzione del Giudice Amministrativo. Il Consiglio di Stato, infatti, chiamato a pronunciarsi su diversi appelli proposti da tre Comuni calabresi - tra cui il Comune di Lamezia Terme (13) ( i quali si erano visti annullare le delibere di approvazione delle aliquote dal T.a.r. Calabria (14)) -aveva già affermato la natura perentoria del termine previsto dal citato art. 1, comma 169, della legge n. 296 del 2006. In particolare, i Giudici di Palazzo Spada affermavano che “La perentorietà del termine previsto dall’art. 1, comma 169, della legge n. 296 del 2006 è desumibile dal dato testuale della disposizione […] il termine cui fa riferimento la citata disposizione è quello di approvazione della deliberazione del bilancio annuale di previsione degli enti locali, che per l’anno finanziario 2013 è stato fissato al 30 novembre 2013 dall’art. 8 del d.l. 31 agosto 2013, n. 102, convertito con modificazioni in l. 28 ottobre 2013, n. 124. Poiché la delibera di aumento delle aliquote è stata approvata successivamente al 30 novembre 2013, le nuove aliquote non sono applicabili all’anno 2013” (15). Su questa scia si collocano le ulteriori sentenze del Consiglio di Stato sempre in riferimento all’anno 2013 (16). Su tale questione si è espressa, altresì, la Corte dei Conti, sez. reg. con (11) Cfr., ex pluribus, T.a.r. Calabria, Catanzaro, sez. I, 29 settembre 2016, n. 1890, in www.giustizia-amministrativa.it. (12) numerose sono state infatti le sentenze emesse in forma semplificata ai sensi dell’art. 60 c.p.a. (13) Vedi sub nota 6. (14) Cfr. T.a.r. Calabria, Catanzaro, 21 marzo 2014, n. 473, in www.giustizia-amministrativa.it; id. n. 472, ivi; id. n. 366/2014 cit. (15) Così in Cons. St., sez. V, 17 luglio 2014, n. 3808, in www.giustizia-amministrativa.it. (16) Cfr. Cons. St., sez. V, 17 luglio 2014, n. 3817, in www.giustizia-amministrativa.it; id., 28 agosto 2014, n. 4409, ivi; id., 19 marzo 2015, n. 1495, ivi. LeGISLAzIone ed ATTUALITà trollo per la Calabria, la quale, con la delibera n. 4 del 14 gennaio 2014, ha evidenziato che la circostanza secondo cui il termine per l’approvazione delle aliquote e delle tariffe relative ai tributi locali - di cui al più volte citato art. 1, comma 169, l. n. 296/2006 - è apposto a pena di decadenza e risulta “espressamente dalle specifiche prescrizioni sanzionatorie testualmente previste dal legislatore in caso di inosservanza”, le quali, consistono nell’applicazione delle aliquote o delle tariffe stabilite per l’anno precedente. Le numerose sentenze emesse a definizione dei giudizi aventi ad oggetto le delibere di approvazione per l’anno 2015 (17) si mostrano ancora più stringenti e succinte, la cui parte motiva è caratterizzata quasi in toto dal mero accertamento dell’effettivo ritardo dell’approvazione, limitandosi, per il resto, a richiamare i principi già enucleati dal Consiglio di Stato con le precedenti pronunce. In altre parole, l’attività del g.a. si è limitata all’accertamento del ritardo della delibera e al semplice richiamo alla normativa di riferimento oltre che ai principi già espressi. Tali pronunce si soffermano, inoltre, sulla già accennata approvazione delle aliquote in sede di approvazione del bilancio di previsione oltre il termine stabilito dalla legge. Al riguardo è stato evidenziato che tale circostanza -non comportando (stante l’assetto delineato dalle norme del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267) l’immediata sanzione dello scioglimento del Consiglio Comunale - non inficia in nessun modo il principio della perentorietà del termine per la determinazione delle aliquote e delle tariffe. È ben vero, infatti, che l’organo consiliare può procedere ad approvare il bilancio dopo la scadenza del termine, ed eventualmente anche successivamente all’avvio della procedura di diffida prefettizia di cui al combinato disposto dell’art. 141, comma 2, d.lgs. n. 267/2000 e del- l’art. 1, comma 2, d.l. 22 febbraio 2002, n. 13, convertito dalla l. 24 aprile 2002, n. 75, ma ciò non implica che oltre tale termine il Consiglio possa modificare le aliquote e le tariffe relative ai tributi di propria competenza. In tal senso, il Consiglio di Stato ha affermato che le disposizioni concernenti l’approvazione del bilancio di previsione oltre il termine hanno natura eccezionale e sono finalizzate “ad evitare le gravi conseguenze che conseguono alla mancata approvazione del bilancio da parte dell’ente locale”. Pertanto, “in assenza di una specifica ulteriore disposizione di legge”, (17) T.a.r. Abruzzo, L’Aquila, 26 febbraio 2016, n. 59, in www.giustizia-amministrativa.it; id. 13 aprile 2016, n. 133, ivi; T.a.r. Calabria, Catanzaro, sez. I, 4 febbraio 2016, nn. 132 e 133, ivi; id. 17 febbraio, nn. 192 e 103, ivi; id., 8 aprile 2016, n. 392; id. 17 giugno, n. 1285, ivi; id. 20 giugno 2016, nn. 1293 e 1304, ivi; id., 29 giugno 1339 e 1340, ivi; T.a.r. Puglia, Bari, 3 dicembre 2015, n. 1575, ivi; id. 15 gennaio 2016, n. 49, ivi; id., 11 febbraio 2016, n. 69, ivi; id. 15 giugno 2016, n. 955, ivi; T.a.r. Campania, napoli, sez. VIII, 25 gennaio 2016, nn. 239 e 246, ivi; id. 11 febbraio 2016, n. 349, ivi; id., 23 febbraio 2016, n. 437, ivi; id., 5 maggio 2016, n. 1101, ivi; T.a.r. Basilicata, 12 agosto 2016, nn. 812, 813, 814, 816 e 817, ivi. rASSeGnA AVVoCATUrA deLLo STATo - n. 2/2017 l’autorizzazione del Prefetto ad approvare il bilancio oltre il termine previsto dalla norma “non comprende il termine per l’approvazione delle aliquote e delle tariffe, che trovano compiuta ed autonoma disciplina nel citato art. 1, comma 169, l. n. 296 del 2006 in materia di aliquote e tariffe, che contiene, peraltro, previsioni sanzionatorie, quale l’inapplicabilità delle nuove tariffe e aliquote, ove approvate dopo il termine del 30 novembre” (18). Alle medesime conclusioni è giunta, del resto, anche la Corte dei Conti, Sezione nella menzionata delibera n. 4/2014, chiarendo che “l’atto prefettizio non modifica il termine ultimativo … prestabilito dal legislatore statale per l’approvazione da parte degli Enti locali delle aliquote … concernenti l’imposta municipale propria (imU) per il 2013”. diversamente opinando, e quindi consentendo all’ente locale di procedere alla modifica delle aliquote e delle tariffe dei tributi anche dopo la scadenza del termine fissato per l’approvazione del bilancio - alla sola condizione che ciò avvenga contestualmente all’effettiva adozione dello stesso - si verificherebbe, d’altra parte, un’evidente violazione dei principi generali sanciti dalla l. 27 luglio 2000, n. 212, recante Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente, in quanto verrebbe a mancare qualsiasi riferimento temporale certo per l’individuazione delle aliquote e delle tariffe applicabili per ciascun anno di imposta. 4. Considerazioni conclusive. La principale conseguenza derivante dall’annullamento delle delibere di approvazione delle aliquote tributarie è racchiusa nello stesso art. 1, comma 169, l. n. 296/2006, il quale, oltre a prevedere il termine di approvazione, nel secondo periodo, afferma che “in caso di mancata approvazione entro il suddetto termine, le tariffe e le aliquote si intendono prorogate di anno in anno”. Tale disposizione, quindi, stabilisce che nel caso di approvazione tardiva l’applicazione delle aliquote tributarie non potrà applicarsi all’anno fiscale oggetto di delibera ma avrà effetto a decorrere dall’anno d’imposta successivo. dal che si desume che i Comuni avverso i quali è stata pronunciata sentenza di annullamento dei provvedimenti in discorso si sono trovati costretti ad adottare le aliquote e le tariffe stabilite per l’anno precedente con un inevitabile squilibrio tra quanto previsto nel bilancio previsionale e quanto poi realmente riscosso. ne consegue da ciò che l’interesse del ministero dell’economia e delle Finanza (oltre che di ogni singolo cittadino) ad impugnare detti provvedimenti, si configura solo nel momento in cui le aliquote approvate “illegittimamente” siano superiori rispetto a quelle dell’anno precedente. difatti, non avrebbe senso (ma sarebbe anche inammissibile per carenza (18) Cfr. Cons. St., 3808/2014 e 3817/2014 cit. LeGISLAzIone ed ATTUALITà di interesse) la proposizione di un’impugnativa di un provvedimento dal cui accoglimento deriverebbe lo stesso effetto contenuto nel provvedimento medesimo. Invero, il ministero dell’economia e delle Finanze, nella sfilza di ricorsi presentati nell’anno 2015, ha aggredito in sede giurisdizionale esclusivamente le delibere di approvazione dalle quali scaturiva un aumento di spesa per il cittadino, lasciando inoppugnati tutti quelli -seppur tardivi -che si limitavano a confermare le aliquote e le tariffe previste per l’anno precedente. Infine, allontanandoci dal piano prettamente giuridico-amministrativo, vi è da prendere atto dei non pochi problemi che tale situazione ha prodotto sulla finanza locale; si pensi innanzitutto alla spesa sostenuta per la proposizione dei numerosi ricorsi (come detto supra, ben 373), alla spesa sostenuta dai Comuni per la resistenza in giudizio e per gli appelli proposti avverso le sentenze sfavorevoli, oltre che la spesa derivante dalle numerose condanne al pagamento delle spese di lite a carico degli stessi Comuni. Inoltre, non può non farsi cenno alle conseguenze riversatesi sul regolare funzionamento degli uffici comunali, in particolar modo degli uffici finanziari e tributari, i quali avevano già calcolato le aliquote e le tariffe tributarie seguendo i criteri di determinazione adottati con le delibere successivamente annullate. Tale situazione, pertanto, con tutte le conseguenze che vi si riconnettono (dalla spesa sostenuta in giudizio all’ingorgo causato presso gli uffici), ha inciso, in maniera notevole, sul fondamentale principio di buon andamento della pubblica amministrazione. DOTTRINA Violazione del principio di gerarchia delle fonti del diritto: conseguenze, rilievo dell’antinomia. Rivisitazione dell’atto normativo Michele Gerardo* SOmmarIO: 1. Introduzione - 2. Gerarchia delle fonti del diritto - 3. antinomie e gerarchia delle fonti -4. ricadute ordinamentali di quanto ricostruito -5. rilievo del contrasto della norma con quella di rango superiore e rivisitazione dell’atto normativo -6. reviviscenza della norma abrogata. 1. Introduzione. l’oggetto del presente studio mira ad individuare la disciplina degli atti normativi in contrasto con atti normativi di efficacia superiore ed altresì ad individuare la disciplina della rivisitazione dell’atto normativo, specie ad opera del suo autore. Si vuole operare, quindi, una analisi delle fonti del diritto (1) sotto due particolari prospettive. (*) Avvocato dello Stato. (1) Per un quadro d’insieme sulla sterminata materia delle fonti del diritto si richiamano ex multis: V. CriSAfulli, Lezioni di diritto costituzionale, ii volume, CEDAM, V edizione, 1984, pp. 1 e ss.; T. MArTinES, Diritto costituzionale, Giuffrè, iii edizione, 1984, pp. 49 e ss.; r. Bin - G. PiTruzzEllA, Diritto costituzionale, Giappichelli, Viii edizione, 2007, pp. 277 e ss.; A. BArBErA - C. fuSAro, Corso di diritto costituzionale, il Mulino, ii edizione, 2014, pp. 101 e ss.; n. BoBBio, Teoria dell’ordinamento giuridico, Giappichelli, 1960, pp. 25 e ss.; f. MoDuGno, voce Fonti del Diritto in Digesto, 2010; M. luCiSAno, voce Fonti del Diritto in Il diritto. Enciclopedia Giuridica del Sole 24Ore, 2007, vol. 6, p. 469. Corollario della qualificazione di fonte del diritto è l’applicazione di una serie di principi, tra cui: a) iura novit curia; b) ignorantia legis non excusat; c) necessità della pubblicazione nei modi ufficiali previsti dall’ordinamento giuridico; d) applicazione dell’art. 12 della preleggi, in materia di interpretazione; e) la violazione e falsa applicazione della norma giuridica è censurabile in sede di legittimità (artt. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. e 606, co.1, lett. b, c.p.p.). rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 2. Gerarchia delle fonti del diritto. A colpi d’ascia, la gerarchia delle fonti nell’odierno ordinamento giuridico è, partendo dal grado più alto, la seguente: a) T.u.E. (Trattato dell’unione Europea); T.f.u.E. (Trattato sul funzionamento dell’unione Europea); Carta dei diritti fondamentali dell’unione Europea; regolamenti, direttive provviste di effetti diretti e decisioni del- l’unione Europea; sentenze interpretative della Corte di Giustizia del- l’unione Europea (2); b) Costituzione della repubblica italiana; leggi di revisione della Costituzione; altre leggi costituzionali; c) leggi ed atti aventi forza di legge dello Stato (decreto legislativo, decreto legge, sentenza della Corte Costituzionale dichiarativa della illegittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge, referendum abrogativo); statuti e leggi regionali; leggi delle Province di Trento e Bolzano; regolamenti parlamentari; d) regolamenti dello Stato (del Governo, ministeriali e interministeriali), degli enti territoriali e degli altri enti pubblici (3); e) consuetudini; f) contratti, atti amministrativi, sentenze. la gerarchia delle fonti postula l’esistenza di norme di diverso livello (ossia di almeno due livelli), uno dei quali superiore all’altro. la stessa comporta che una data norma non può porsi in contrasto con altra norma di livello superiore, pena la sua invalidità. una norma di livello inferiore non può abrogare o derogare una norma di livello superiore, mentre la norma superiore può sempre abrogare o derogare quella inferiore. nella descrizione della gerarchia delle fonti non si è tenuto conto, onde semplificare il discorso, delle ulteriori suddistinzioni operate dalla dottrina (fonti sub primarie, fonti rinforzate, fonti rafforzatissime, fonti atipiche, fonti (2) Costituisce ormai principio consolidato che il primato dell’ordinamento dell’u.E. rispetto a quello nazionale trova un limite nel necessario rispetto dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona umana. Sul rapporto tra l’ordinamento dell’unione Europea e quello italiano: u. VillAni, Istituzioni di diritto dell'Unione Europea, Cacucci Editore, iV edizione, 2016, pp. 417 e ss.; B. ConforTi, Diritto internazionale, Editoriale Scientifica, X edizione, 2015, pp. 377 e ss. (3) i regolamenti “Secondo una antica definizione, sono atti «amministrativi», dal punto di vista soggettivo e dal punto di vista formale (perché promananti da autorità del potere esecutivo e nella forma consueta di ogni altro loro atto), ma «legislativi», dal punto di vista materiale (perché costitutivi del diritto oggettivo)”: così V. CriSAfulli, cit., p. 122. G. zAnoBini, voce regolamento in Novissimo Digesto Italiano, XV, 1968, p. 241, precisa che “il regolamento non è soltanto un atto amministrativo generale, ma una norma giuridica”. Secondo V. oniDA, voce regolamenti regionali, in Enciclopedia Giuridica Treccani, XXVi, 1991, p. 5 “in tutta la nostra tradizione legislativa e amministrativa i regolamenti sono stati costantemente assimilati, quanto al trattamento e quindi anche alle condizioni per la revoca o l’abrogazione, ai provvedimenti amministrativi, ai quali sono accomunati dalla provenienza e, largamente, dalla forma”. DoTTrinA 213 interposte, diversità di forza tra regolamenti governativi e regolamenti di altri enti pubblici, etc.) e si è tenuto conto della costruzione a gradi dell’ordinamento giuridico, dello Stufenbau der rechtsordnung kelseniano, sicché sono stati ricondotti alle fonti del diritto anche il contratto, il mero atto amministrativo e la sentenza (4). A quest’ultimo proposito si precisa che la qualificazione del contratto, dell’atto amministrativo e della sentenza quali fonti è stata operata a livello sistematico, argomentativo, speculativo; si è coscienti che gli atti da ultimo indicati non sono “vere” fonti del diritto. 3. antinomie e gerarchia delle fonti. nell’ipotesi di antinomie - ossia di incompatibilità di precetti - tra norme appartenenti a livelli gerarchici diversi lex superior derogat legi inferiori, ossia prevale la norma di grado superiore, la quale non può essere derogata da quella di grado inferiore (5). Va indagato il concetto di prevalenza della norma superiore (e della conseguente non derogabilità da parte della norma inferiore). a) il contrasto tra norme di livello gerarchico diverso - adottate in tempi diversi - nel caso in cui la norma posteriore sia gerarchicamente superiore a quella anteriore implica la cessazione di efficacia della norma precedente a far data dalla operatività della norma di livello superiore. la prevalenza, in questa evenienza, implica l’applicazione della nuova norma e la cessazione di efficacia della vecchia (ciò, beninteso, a meno che la norma successiva - ove integrante una legge -non disponga la propria applicazione in via retroattiva). Analogo discorso vale nell’ipotesi in cui le norme antinomiche, adottate in tempi diversi, appartengano al medesimo livello gerarchico. Anche in questa evenienza la norma vecchia cessa di essere vigente a far data dall’entrata in vigore della nuova (lex posterior derogat priori). b) il contrasto tra norme di livello gerarchico diverso adottate nello stesso momento implica l’immediata prevalenza della fonte di grado superiore. c) il contrasto tra norme di livello gerarchico diverso adottate in tempi diversi, nel caso che la norma posteriore sia gerarchicamente inferiore a quella anteriore, implica la prevalenza della fonte superiore. ossia la fonte successiva, fin dalla sua emanazione, non può scalfire il dictum di quella precedente. la prevalenza è una conseguenza della gerarchia. la prevalenza determina, quindi, la “soccombenza” della fonte di grado inferiore contrastante con quella di grado superiore. utilizzando un termine diffuso nell’ambiente giuridico qualificheremo (4) Su tali concetti: H. KElSEn, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, 2000, pp. 95 e ss. (5) Sulla gerarchia delle fonti: G. TArEllo, L’interpretazione della legge, Giuffrè, 1980, pp. 313 e ss.; G. Pino, La gerarchia delle fonti del diritto. Costruzione, decostruzione, ricostruzione in annuario di ermeneutica giuridica, XVi, 2011, p. 19, anche per la distinzione tra gerarchie strutturali, materiali e assiologiche. rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 invalidità il vizio della norma contrastante con una norma superiore (6). in modo tralaticio si precisa che “Per invalidità di un atto si intende, in via generale, la difformità di tale atto dal diritto, alla quale consegue la sanzione dell’inefficacia definitiva dello stesso e quindi la sua inidoneità a produrre effetti giuridici. Tale sanzione può essere automatica, come nel caso della nullità, che opera di diritto, oppure può richiedere apposita dichiarazione giudiziale, come nel caso dell’annullabilità, pronunciata dal giudice su ricorso del privato ricorrente” (7). 4. ricadute ordinamentali di quanto ricostruito. Dall’esame dell’ordinamento giuridico italiano si evince che viene rispettato il modello teorico sopra esposto, con la precisazione che la evidenziata invalidità -nel caso di contrasto tra norme di livello gerarchico diverso -in alcune circostanze determina l’inefficacia automatica della vicenda riconducibile alla fonte di grado inferiore ed in altre circostanze la detta inefficacia è conseguente dell’accertamento di un soggetto. numerose disposizioni sono espressive del principio rilevato al punto a) del precedente paragrafo. All’uopo si richiama: -l’art. 30, comma 3, della Convenzione sul diritto dei trattati adottata a Vienna il 23 maggio 1969 (ratificata dall’italia con l. 12 febbraio 1974, n. 112), il quale recita: “Quando tutte le parti di un precedente trattato sono anche parti a un trattato posteriore […] il trattato anteriore si applica soltanto nella misura in cui le sue disposizioni sono compatibili con quelle del trattato posteriore”; -l’art. 15 delle preleggi, secondo cui “le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori” (8); -l’art. 682 c.c. per il quale “il testamento posteriore, che non revoca in modo espresso i precedenti, annulla [rectius: determina la cessazione dell’efficacia] in questi soltanto le disposizioni che sono con esso incompatibili”; -l’art. 395, n. 5 c.p.c. dal quale si ricava che la sentenza contraria ad altra precedente avente fra le parti autorità di cosa giudicata prevale su quest’ultima ove a sua volta sia passata in giudicato (9). (6) Ex plurimis: r. GuASTini, L’interpretazione dei documenti normativi, Giuffrè, 2004, p. 251. (7) Così S. foà, voce Invalidità (Dir. amm.) in Il diritto. Enciclopedia Giuridica del Sole 24Ore, 2007, vol. 8, p. 238. in senso analogo: C.M. BiAnCA, Diritto civile. III. Il contratto, Giuffrè, ii edizione, 2000, pp. 609-610. (8) “Coordinando la disposizione dell’art. 15 con quella del precedente art. 11 («la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo»), si ricava altresì il principio per cui - di regola - l’abrogazione opera ex nunc, vale a dire dal momento dell’entrata in vigore della nuova fonte o da quello - eventualmente diverso - da cui ha inizio l’efficacia delle norme da questa prodotte”: in tal senso V. CriSAfulli, cit., p. 188. (9) Per autorevole dottrina l’art. 395, n. 5 c.p.c. “dimostra come l’ordine giuridico si concreti, nell’ipotesi di due giudicati successivi, sul secondo di essi, e non sul primo. Se infatti la contrarietà non è fatta valere nel termine con l’impugnazione per revocazione, il secondo giudicato rimane la sola fonte DoTTrinA 215 Anche il principio evidenziato al punto c) del precedente paragrafo ha varie manifestazioni nell’ordinamento giuridico positivo, come dimostrato dalle fattispecie di seguito descritte. a) la sentenza in contrasto con una fonte superiore è temporaneamente efficace, ma cessa di produrre effetti ex tunc ove riformata all’esito di impugnazione (art. 336, comma 2, c.p.c.). la sentenza, in contrasto con una fonte superiore, che passi in giudicato, mantiene la sua efficacia nell’ordinamento giuridico per effetto tuttavia di una puntuale previsione legislativa, costituita dall’art. 324 c.p.c. b) il contratto in contrasto con una fonte superiore: -è inefficace nei casi di nullità (artt. 1422 -1424 c.c.). la nullità, poi, potrà essere accertata dal giudice (con sentenza) o dalle parti (con un negozio di accertamento); -è temporaneamente efficace, ma cessa di produrre effetti ex tunc (salvi i rapporti esauriti) nei casi di annullamento (artt. 1441 -1446 c.c.) o di rescissione (art. 1452 c.c.) dichiarati dal giudice (con sentenza) o dalle parti (con un negozio modificativo). c) l’atto amministrativo in contrasto con una fonte superiore: -è inefficace nei casi di nullità (art. 21 septies l. 7 agosto n. 241). la nullità, poi, potrà essere rilevata dal giudice o dalla P.A. autrice dell’atto. l’atto amministrativo nullo può essere altresì disapplicato dal giudice (art. 5 l. 20 marzo 1865 n. 2248, allegato E). la disapplicazione ha incidenza soltanto inter partes, cioè limitatamente alle parti del giudizio; -è temporaneamente efficace, ma cessa di produrre effetti ex tunc nei casi di annullamento (art. 21 octies l. n. 241/90 cit.) dichiarato dal giudice o dal- l’Amministrazione autrice dell’atto o altro abilitato (es. superiore gerarchico) in via di autotutela o nell’esercizio dei poteri di controllo o all’esito di un ricorso amministrativo. Atto amministrativo nullo, annullabile, disapplicabile e conseguenti ricadute in punto di giurisdizione costituiscono un tema ancora tormentato ed irrisolto nella esperienza giuridica (10). Convenzionalmente utilizziamo i seguenti truismi: regolatrice del concreto. Il primo sparisce”: così S. SATTA, Commentario al codice di procedura civile, Libro secondo, Processo di cognizione, Parte seconda, Vallardi, 1962, p. 331. (10) Per un diffuso orientamento giurisprudenziale il regolamento illegittimo - in quanto atto di natura normativa, e non meramente amministrativa, con portata generale ed astratta e capacità innovativa nell’ordinamento giuridico - può essere disapplicato dal giudice amministrativo, in quanto contrastante con norme di rango primario, anche in assenza di una specifica impugnazione; ciò in applicazione del principio di gerarchia delle fonti (Consiglio di Stato, sentenza 3 ottobre 2007 n. 5098; T.A.r. lombardia, Milano, sentenza 17 aprile 2009 n. 4064; T.A.r. Veneto, Venezia, sentenza 17 novembre 2011 n. 1700; Consiglio di Stato, sentenza 26 settembre 2013 n. 4778). Come è noto il regolamento illegittimo divenuto definitivo per mancata impugnazione può, pur sempre, essere disapplicato dalla Commissione Tributaria in relazione all’oggetto dedotto in giudizio (art. 7, comma 5, del D. l.vo 31 dicembre 1992 n. 546). rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 -nei casi di giurisdizione esclusiva - tanto del giudice ordinario quanto del giudice amministrativo - l’atto invalido può essere dichiarato nullo o annullabile a seconda dei suoi vizi; -negli ordinari riparti di giurisdizione la dichiarazione di nullità o di annullamento spetta al giudice amministrativo; il giudice ordinario può - in presenza dei vizi di nullità determinanti carenza di potere -dichiarare la disapplicazione dell’atto amministrativo; -in tutti i casi -sia in sede giurisdizionale che amministrativa -in cui viene in rilievo un atto amministrativo in contrasto con le fonti dell’unione Europea, il detto atto va disapplicato dagli operatori giuridici. l’invalidità si connota, quindi, come disapplicazione. Disapplicazione peculiare, conseguenza della primazia del diritto comunitario. d) l’uso in contrasto con la legge ed il regolamento è inefficace (art. 8, comma 1, preleggi). e) il regolamento amministrativo in contrasto con la fonte superiore ha la stessa disciplina dell’atto amministrativo delineata sopra al punto c) di questo paragrafo. Ciò alla luce della doppia natura del regolamento: tanto norma giuridica quanto atto amministrativo. f) la legge in contrasto con la Costituzione è temporaneamente efficace, ma cessa di produrre effetti ex tunc ove dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale (art. 136 Costituzione; art. 30 l. 11 marzo 1953, n. 87), salva la conservazione dei rapporti cd. esauriti. g) la Costituzione in contrasto con il diritto comunitario va disapplicata, salva la circostanza in cui il contrasto riguardi i principi fondamentali essenziali della repubblica italiana ovvero i diritti inalienabili garantiti nella Carta Costituzionale (11). h) Gli atti vincolanti delle istituzioni dell’unione Europea in contrasto con i trattati costitutivi dell’unione Europea e fonti equiparate (Carta dei diritti fondamentali dell’unione Europea, principi generali del diritto dell’unione Europea, norme del diritto internazionale generale, accordi internazionali conclusi dall’unione) sono temporaneamente efficaci, ma cessano di produrre effetti ex tunc ove dichiarata la loro nullità dal competente giudice dell’unione (artt. 263 -264 T.f.u.E.). Tutte le fonti ora descritte dai punti a) ad f) ove siano in contrasto con una fonte dell’unione Europea si disapplicano. Allorché un rapporto sia disciplinato da più fonti del diritto di diversa gerarchia, vale la disciplina contenuta nella fonte gerarchicamente più elevata. Ciò in applicazione di regole logiche, in virtù delle quali la superiorità gerarchica si riverbera anche nella qualificazione delle fattispecie. Quindi prevale (11) riassuntivamente - su tali criteri risolutori in caso di antinomia tra una norma comunitaria e una norma costituzionale - ex plurimis r. GuASTini, cit., p. 252. DoTTrinA 217 la qualificazione operata dalla fonte più alta in grado. la fonte -qualunque sia la sua posizione nella piramide gerarchica - in contrasto con una fonte superiore sarà invalida. Ad esempio, ove il provvedimento attuativo sia stato adottato in violazione del regolamento presupposto, a sua volta in contrasto con la legge, la conseguenza è che il detto atto applicativo è conforme a legge e quindi valido, laddove il regolamento è illegittimo (12). ulteriori corollari: l’atto amministrativo in violazione di legge è invalido, anche se conforme ad un regolamento amministrativo; l’atto amministrativo con prescrizioni antinomiche con quelle contenute nella Costituzione è egualmente invalido, anche se conforme ad una legge ordinaria. nella evenienza che una fonte (es. regolamento amministrativo) sia in contrasto tanto con norme dell’unione Europea quanto con norme legislative si applica, per quanto sopra esposto, il regime di qualificazione e rilevanza collegato alla fonte più alta in grado. Sicché il regolamento amministrativo in contrasto sia con le norme dell’unione Europea che con le norme legislative è (invalido e) disapplicabile. Egualmente disapplicabile è il regolamento amministrativo -o il provvedimento amministrativo -conforme alla legge, ma violativo di norma dell’unione Europea (13). (12) in tale circostanza si ammette la disapplicazione di un regolamento illegittimo non oggetto di specifica impugnazione (Consiglio di Stato, sentenza 4 marzo 2011 n. 1408, il quale precisa che “può prescindersi dalla proposizione e dalla celebrazione di una impugnazione tendente alla rimozione del- l’atto che abbia debordato dalla sua sfera di competenza, essendo sufficiente accertare che la norma non è «idonea ad innovare» l’ordinamento sul punto e quindi non può essere applicata”; T.A.r Campania, Salerno, sentenza 22 luglio 2015 n. 1611). (13) Sul punto si precisa in dottrina che: “sul regime del provvedimento amministrativo, emanato nel rispetto del diritto nazionale ma in violazione del diritto comunitario, sono state proposte due tesi: quella dell’illegittimità e quella della disapplicazione. La prima tesi tratta la violazione del diritto comunitario alla stregua della violazione del diritto interno. La seconda si basa, da un lato, sull’estensione ai provvedimenti amministrativi del regime tipico degli atti normativi interni contrastanti con il diritto comunitario (i quali devono, appunto, essere disapplicati, per applicare il diritto comunitario), dall’altro, sull’esigenza di evitare che atti contrari al diritto comunitario divengano inoppugnabili e, quindi, la violazione di quel diritto divenga definitiva. Lo schema della disapplicazione è di uso relativamente agevole per le fonti del diritto: si tratta semplicemente di stabilire quale norma applicare, in presenza di un contrasto. Per i provvedimenti amministrativi, invece, esso comporterebbe uno stravolgimento del loro regime processuale, facendo venir meno l’onere di impugnazione tempestiva e l’inoppugnabilità del provvedimento non impugnato tempestivamente: e, quindi, pregiudicando gli interessi alla certezza del diritto e alla conservazione dei valori giuridici che sono alla base di quel regime processuale. È per questo che la giurisprudenza ha decisamente optato per la prima tesi: se il provvedimento rispetta una norma nazionale, ma viola una norma comunitaria, occorre disapplicare la prima e, in applicazione della seconda, dichiarare illegittimo il provvedimento (Cons. St., V, n. 4263/2008; Cons. St., VI, n. 3621/2008; nel senso dell’applicazione delle regole processuali nazionali, si veda anche C. Giust. CE, sentenza i-21 Germany - arcor del 2006, in cause C-392/04 e C-422/04)” (così B.G. MATTArEllA in Istituzioni di diritto amministrativo a cura di S. CASSESE, Giuffrè, V edizione, 2015, p. 401). rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 5. rilievo del contrasto della norma con quella di rango superiore e rivisitazione dell’atto normativo. il soggetto legittimato al rilievo del contrasto della norma con quella di rango superiore è tanto l’autore della norma (o altro soggetto legittimato), quanto il giudice specificamente incaricato dall’ordinamento a rilevare l’antinomia. ove non sia possibile muovere alcun rilievo è comunque possibile una rivisitazione dell’atto da parte del suo autore o di soggetti legittimati. All’uopo si rileva quanto segue. a) l’invalidità della sentenza è pronunciata dall’autorità giudiziaria. il giudice può essere sia lo stesso che ha pronunciato la sentenza illegittima (come nel caso della revocazione, dell’opposizione di terzo e dell’actio nulli- tatis) che un giudice diverso (quello dell’impugnazione). Per i principi processuali l’inesistenza inibisce la formazione della cosa giudicata. in questa evenienza l’invalidità della sentenza causata da inesistenza può essere dichiarata dalle parti a mezzo del negozio di accertamento. “Il negozio di accertamento si ha quando le parti pongono in essere una manifestazione di volontà con la quale intendono eliminare l’incertezza relativa a una situazione giuridica tra loro preesistente, determinando l’esistenza (o, eventualmente, l’inesistenza), il contenuto e i limiti di un dato rapporto giuridico” (14). il negozio di accertamento è caratterizzato dalla funzione di fissare il contenuto di un rapporto giuridico preesistente, con effetto preclusivo di ogni ulteriore contestazione al riguardo, rendendo definitive ed immobili le situazioni già in stato di obiettiva incertezza, in quanto vincola le parti ad attribuire ad esse gli effetti che risultano dall’accertamento e preclude ogni loro pretesa, ragione ed azione in contrasto con esso (15). una volta passata in giudicato la sentenza “fa stato ad ogni effetto tra le parti” (art. 2909 c.c.), anche se -in ipotesi -illegittima, perché il giudicato facit de albo nigrum. Alle parti coinvolte nel rapporto processuale è possibile, tuttavia, disporre del giudicato. Difatti, con idonea convenzione (arg. ex art. 1974 c.c.) si può mettere in non cale il giudicato. b) l’invalidità del contratto è pronunciata dall’autorità giudiziaria. l’autonomia negoziale (art. 1322 c.c.) consente alle parti del negozio invalido di dichiarare la nullità o l’annullabilità o la rescindibilità. Ciò -nel caso della nullità -a mezzo del negozio di accertamento (art. 1321 c.c.: “regolare”). nel caso di annullamento o rescissione le parti dovranno - con negozio modificativo -oltrecché accertare l’invalidità anche disciplinare la vicenda degli effetti (14) in tal senso: l. Bozzi, voce accertamento (negozio di) in Il diritto. Enciclopedia giuridica del Sole 24 Ore, 2007, vol. i, pag. 27. (15) Ex plurimis: Cass. Civ., sez. lavoro, 20 maggio 2004, n. 9651; Cass. Civ., Sez. ii, 5 giugno 1997 n. 4994. DoTTrinA 219 (ex nunc o ex tunc) con portata inter partes, senza possibilità di incidere sulle situazioni soggettive dei terzi. il contratto carente di vizi, quindi valido, ove produca ancora effetti (contratto di durata: ad esecuzione continuata o periodica), può essere inciso dai contraenti a mezzo di un successivo negozio con il quale far cessare gli effetti (contratto estintivo ex art. 1321 c.c. o negozio unilaterale di recesso ex art. 1373 c.c., con effetti ex nunc). Ciò in forza dell’autonomia negoziale, la quale può prevedere espressamente una efficacia retroattiva alla fattispecie estintiva, salvo - beninteso - i diritti dei terzi. c) l’invalidità del provvedimento amministrativo è pronunciata dal giudice amministrativo (artt. 29 -31 D. l.vo 2 luglio 2010 n. 104) o dal giudice ordinario (nei casi di giurisdizione esclusiva o nella fattispecie della disapplicazione ex art. 5 l. 20 marzo 1865 n. 2248 Allegato E). l’invalidità può essere acclarata altresì dalla P.A. che ha emanato il provvedimento o da altro organo previsto dalla legge (annullamento d’ufficio ex art. 21 nonies l. n. 241/90; annullamento straordinario ex art. 2, comma 3 lett. q, l. 23 agosto 1988 n. 400; annullamento giustiziale in sede di ricorso amministrativo ex D.P.r. 24 novembre 1971 n. 1199; annullamento in sede di controllo). il provvedimento carente di vizi, quindi valido, ove produca ancora effetti (provvedimento ad efficacia duratura e non istantanea), può essere inciso dalla P.A. a mezzo di un successivo provvedimento, ossia a mezzo della revoca (art. 21 quinquies l. n. 241/90). Ciò in ossequio al principio di inesauribilità del pubblico potere per il quale la P.A. deve, in modo permanente, curare l’interesse pubblico che ha in attribuzione. l’autore dell’atto può ripensare circa il modo di curare l’interesse primario. la cessazione dell’efficacia è ex nunc. d) l’invalidità dell’uso è pronunciata dal giudice. Venendo in rilievo una fonte-fatto non è ipotizzabile un acclaramento ad opera dell’autore della fonte; e) il regolamento amministrativo in contrasto con la fonte superiore ha la stessa disciplina dell’atto amministrativo delineata sopra al punto c) del presente paragrafo. Ciò alla luce della doppia natura del regolamento: tanto norma quanto atto amministrativo. Quindi il regolamento può essere tanto annullato dal giudice quanto dalla P.A. autrice dell’atto; in quest’ultima evenienza, ovviamente, con una eguale fonte regolamentare (16). (16) Sull’ammissibilità dell’annullamento del regolamento illegittimo (beninteso con eguale fonte regolamentare) da parte dell’Amministrazione autrice della norma: T.A.r. Catania, sentenza 4 luglio 2012 n. 1666, (con il rilievo che la disposizione regolamentare illegittima per contrasto con una fonte superiore è automaticamente inefficace). A proposito della potestà di annullamento d’ufficio ad opera della P.A., si osserva che “Di regola nessuna specie di atti amministrativi può dirsi sottratta a tale misura, neppure quelli che contengono norme giuridiche come i regolamenti, gli statuti, ecc.”: in tal senso S. roMAno, voce annullamento degli atti amministrativi (voce aggiornata da G. MiElE), in Novissimo Digesto Italiano, i, 1957, p. 645. rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 nella fattispecie dell’annullamento d’ufficio del regolamento non si applica la disciplina contenuta nell’art. 21 nonies l. n. 241/1990 (sull’annullamento d’ufficio del provvedimento) atteso che quest’ultima disposizione, nel richiedere oneri di motivazione ed oneri procedimentali, si applica ai “meri” provvedimenti; la disciplina contenuta nel citato articolo 21 nonies è estranea a quella tipica per il regolamento (artt. 3 comma 2, 13 comma 1 e 24 comma 1 lett. b l. n. 241/1990); la detta disciplina si applicherà nella sola evenienza del regolamento-provvedimento, ossia del regolamento che contenga disposizioni particolari e concrete, aventi diretta lesività. Esaltando -eminentemente -il carattere di norma giuridica del regolamento si potrebbe ritenere che la P.A. che ha adottato il regolamento può solo abrogarlo, non anche annullarlo; l’annullamento in autotutela del regolamento, determinando una caducazione con effetto ex tunc, avrebbe una portata retroattiva; portata retroattiva non collegabile, ex artt. 10 e 11 delle preleggi, al regolamento caducatorio. Sul punto si è enunciato che: “La giurisprudenza amministrativa ha più volte posto in rilievo che la regola di irretroattività dell’ azione amministrativa è espressione dell’esigenza di garantire la certezza dei rapporti giuridici, oltreché del principio di legalità che, segnatamente in presenza di provvedimenti limitativi della sfera giuridica del privato (tali sono quelli introduttivi di prestazioni imposte), impedisce di incidere unilateralmente e con effetto “ex ante” sulle situazioni soggettive del privato (cfr. Cons. St., Sez. IV^, n. 1317 del 07.03.2001; Sez. VI^, n. 2045 del 01.12.1999; Sez. IV^, n. 502 del 30.03.1998). Ulteriore limite alla retroattività, in presenza di statuizioni provvedimentali che rivestono valenza regolamentare in quanto dirette a trovare applicazione ripetuta nel tempo ad un numero indeterminato di fattispecie, discende dalla regola di irretroattività degli atti a contenuto normativo dettata dall’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale. Detta regola può ricevere deroga per effetto di una disposizione di legge pari ordinata e non in sede di esercizio del potere regolamentare che è fonte normativa gerarchicamente subordinata. Pertanto solo in presenza di una norma di legge che a ciò abiliti gli atti e regolamenti amministrativi possono avere efficacia retroattiva” (17). (17) Così Consiglio di Stato, sentenza 9 settembre 2008 n. 4301. Per A. CErri, voce regolamenti in Enciclopedia Giuridica Treccani, XXVi, 1991, p. 6 “il potere regolamentare è soggetto ai principi generali del diritto, […]. Il regolamento, dunque, non può essere retroattivo, se non in casi «tipici» ([...] cfr. Cons. St., sez. V, 4 agosto 1988, n. 396, in Foro amm. 1988, 1351, sulla retroattività di norme, a carattere generale, «di ordine pubblico» contenute in regolamento comunale). Sul principio di irretroattività la giurisprudenza è vastissima: cfr., ad es., Cons. St., sez. VI, 30 ottobre 1981, n. 587, in Cons. St., 1981, 1115”. inoltre sulla questione, nel parere del Servizio affari istituzionali e locali, polizia locale e sicurezza della regione Autonoma friuli Venezia Giulia prot. 39898/1.3.17 del 19 dicembre 2012, si enuncia: “I regolamenti con cui ciascuna P.a., in base ai principi generali fissati dalla legge, stabilisce le linee fondamentali dell'organizzazione dei propri uffici, sono atti organizzativi formalmente amministrativi a contenuto normativo. Il 'ricambio' delle norme regolamentari avviene secondo le regole tipiche degli atti normativi, per abrogazione espressa o tacita operata da atti regolamentari successivi. L'abro DoTTrinA 221 la tesi negante alla P.A. - sul rilievo della irretroattività degli atti a contenuto normativo - la potestà di annullare il regolamento non è accoglibile per concorrenti ragioni: -da un punto di vista tecnico-formale nessuna norma giuridica esclude la potestà della P.A. di annullare il regolamento illegittimo adottato; -specularmente a quanto da ultimo rilevato, da un punto di vista tecnico- formale, nessuna norma giuridica prevede la potestà del giudice amministrativo di annullare il regolamento, ancorché questa potestà costituisca un dato pacifico nell’esperienza giuridica. l’oggetto della cognizione del giudice amministrativo è l’esercizio (o il mancato esercizio) del potere amministrativo (artt. 7, 13, 119,133, 134 e 135 D.l.vo 2 luglio 2010 n. 104). Dall’ordinamento giuridico può evidenziarsi - sistematicamente - che il giudice amministrativo può conoscere anche dei regolamenti (art. 13, comma 4 bis, D. l.vo 104/2010) laddove si parla di “atti normativi”. Tuttavia, la ragione fondante della cognizione dei regolamenti in via giurisdizionale è la caratteristica della doppia natura di questi: la natura anche amministrativa dei regolamenti porta seco la conseguente disciplina; -l’oggetto del ricorso straordinario al Capo dello Stato può essere costituito anche dal regolamento (arg. ex art. 14, comma 3, D.P.r. 24 novembre 1971 n. 1199, ove si fa riferimento all’“annullamento di atti amministrativi generali a contenuto normativo”), ancorché non venga in rilievo un ricorso giurisdizionale, ma un rimedio giustiziale riconducibile all’annullamento in autotutela; -l’effetto ex tunc del regolamento che annulla un precedente regolamento viziato da illegittimità non contrasta con il divieto di applicazione retroattiva delle fonti secondarie, ma costituisce un corollario della natura annullatoria; -il principio di economia dei mezzi giuridici e dell’economicità dei procedimenti implica che la P.A., a fronte di un proprio regolamento illegittimo, può intervenire annullandolo -evitando il consolidarsi di falsi affidamenti senza attendere l’annullamento in sede giurisdizionale. l’affermazione, ricorrente in giurisprudenza ed in dottrina, circa il divieto gazione delle norme regolamentari e loro eventuale sostituzione o modifica può operare soltanto per il futuro, stante la ritenuta inidoneità, in generale, della fonte regolamentare a porre disposizioni con efficacia retroattiva” (massima del parere); nella nota 12 del citato parere si enuncia altresì: “Peraltro, si registra la posizione di una dottrina secondo cui, atteso che l'art. 21 nonies, L. n. 241/1990, a seguito della novella recata dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15, prevede l'annullamento d'ufficio del 'provvedimento amministrativo' illegittimo, entro un termine ragionevole, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, proprio il riferimento testuale al provvedimento sembrerebbe escludere l'applicabilità della norma anche ai regolamenti. La stessa dottrina valuta, però, che un approccio meno rigoroso potrebbe essere suggerito dalla posizione dei regolamenti a 'mezza via' tra la portata normativa del loro contenuto e la natura amministrativa di chi li emana e si pone possibilista su un'iniziativa dell'amministrazione per l'eliminazione del regolamento con effetto ex tunc (Luigi Cossu, cit., p. 5033)”. rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 di applicazione retroattiva di norme secondarie - con la conseguente unica vicenda abrogativa ex art. 15 preleggi - ha quale sfondo, quale presupposto implicito, un pregresso atto valido, ossia un atto non in contrasto con una fonte superiore. in altri termini: va riconosciuta alla P.A. - allorché si acclari l’invalidità di un regolamento - la potestà di intervenire in autotutela annullando il detto atto. Ad es.: una Amministrazione locale -in casi non ammessi dalla legge nazionale o dal CCnl del settore -adotta un regolamento con il quale attribuisce un emolumento ai propri dipendenti (18). una volta acclarata la vicenda, la P.A. decide di intervenire per ripristinare la legalità. lo strumento dell’intervento non è certo una nuova norma regolamentare che abroga la precedente (con effetti ex nunc, determinante la validità medio termine, con esposizione dell’Amministrazione ad una pretesa illegittima dei dipendenti), ma l’annullamento del pregresso (con effetti ex tunc). f) l’invalidità della legge in contrasto con la Costituzione è pronunciata dalla Corte Costituzionale nel giudizio di costituzionalità, tanto in via principale, quanto in via incidentale. Può una legge invalida, in contrasto con la Costituzione, essere dichiarata invalida - con il conseguente corollario della portata retroattiva - con una successiva legge? A nostro giudizio sì. le tecniche per conseguire questo risultato sono due: -legge che dispone la abrogazione della legge precedente con previsione espressa di retroattività. una tale previsione non cozza con nessun principio, anzi attua il rispetto della gerarchia delle fonti; -legge che dichiara invalida una precedente legge con esplicitazione del contrasto con la Costituzione. una tale legge ha una naturale portata retroattiva, a prescindere dalla espressa previsione di retroattività. la legge carente di vizi, quindi valida, può essere incisa dal legislatore a mezzo di legge successiva, ossia a mezzo dell’abrogazione (art. 15 preleggi), con effetto ex nunc (art. 11 preleggi) a meno che non sia disposta l’applicazione retroattiva. l’abrogazione è conseguibile anche tramite referendum abrogativo (art. 75 della Costituzione). g) in tutti i casi di contrasto di una qualsivoglia fonte inferiore a quella comunitaria con una fonte dell’unione Europea vi è una invalidità della fonte sottordinata che determina la disapplicazione di questa. la disapplicazione è rilevabile da tutti gli operatori giuridici. inoltre l’autore della fonte inferiore potrà caducare quest’ultima. in tal modo si consegue anche la certezza delle relazioni giuridiche, eliminando una volta per tutte la fonte invalida. (18) Venendo in rilievo la materia dell’ordinamento civile (art. 117, comma 2, lett. l della Costituzione) l’attribuzione normativa spetta in via esclusiva allo Stato. DoTTrinA 223 6. reviviscenza della norma abrogata. ove la disposizione abrogativa sia a sua volta abrogata da una successiva disposizione o dichiarata incostituzionale, l’originaria disposizione riacquista vigore, con effetto ex nunc. Ciò è una conseguenza della portata ex nunc del- l’abrogazione. una legge disciplina una data materia; successivamente viene abrogata. l’abrogazione comporta che i rapporti svoltisi sotto l’imperio della legge abrogata restano validi; per il futuro -ossia dalla data di entrata in vigore della legge abrogatrice - i rapporti giuridici su quella data materia non sono più regolati dalla legge abrogata (saranno regolati dalla legge abrogatrice, ove contenga anche una nuova disciplina di quella data materia o da altra disciplina preesistente). ove la legge abrogatrice venga caducata, viene meno la relativa disciplina. Atteso che la disciplina riguardava la caducazione, la detta caducazione viene meno. Quindi si riapplica la originaria legge a far data dalla operatività della caducazione (della legge abrogatrice) conseguente alla nuova abrogazione o alla dichiarazione di illegittimità costituzionale. una conferma di tale principio si ricava dalla disposizione contenuta nell’art. 681 c.c. secondo cui “La revocazione totale o parziale di un testamento può essere a sua volta revocata sempre con le forme stabilite dall’articolo precedente. In tal caso rivivono le disposizioni revocate”. in senso contrario -nella evenienza di disposizione abrogativa a sua volta abrogata da una successiva disposizione -la Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri 2 maggio 2001, n.1/1.1.26/10888/9.92 “Guida alla redazione dei testi normativi” la quale al punto 3.5 enuncia “Se si intende fare rivivere una disposizione abrogata non è sufficiente abrogare la disposizione abrogativa, ma occorre specificare espressamente tale intento, abrogando la norma abrogatrice e richiamando esplicitamente la norma abrogata; ovvero, più semplicemente, abrogando la norma abrogatrice e riproponendo ex novo la disposizione già oggetto di abrogazione. In ogni caso, la reviviscenza ha effetto ex nunc”. Poi, secondo la giurisprudenza costituzionale (19) -nella evenienza di disposizione abrogativa dichiarata incostituzionale -il fenomeno della reviviscenza delle disposizioni e degli atti normativi abrogati non opera in via generale ed automatica, ma solo in ipotesi circoscritte, tra cui la fattispecie dell’annullamento giurisdizionale di norma espressamente abrogativa, con la conseguenza che le disposizioni illegittimamente abrogate tornano ad avere vigore ed applicazione. non devono ritenersi accoglibili le argomentazioni a favore delle tesi limitanti la revivescenza della disposizione abrogata. (19) Cfr. Corte Costituzionale, sentenze 27 giugno 2012 n. 162, 24 gennaio 2012 n. 13 e 23 aprile 1986 n. 108. rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 Difatti: -la reviviscenza, nella fattispecie in cui la rivisitazione venga effettuata dallo stesso autore dell’atto (abrogazione della disposizione abrogativa operata dall’autore di quest’ultima), è la conseguenza naturale degli atti delineati. lo specifico atto volitivo diretto ad abrogare una disposizione abrogatrice non ha alcun altro senso che quello di fare riespandere la forza della disposizione illo tempore abrogata; ove l’agente abbia un diverso intendimento deve esplicitarlo; -la reviviscenza, nella fattispecie di disposizione abrogativa dichiarata incostituzionale, è un effetto necessario della sentenza di illegittimità costituzionale: la legge dichiarata incostituzionale è inidonea a produrre effetti in quanto viziata, sicché consegue la permanenza in vigore della disposizione che la legge incostituzionale intendeva abrogare. DoTTrinA 225 Il sistema delle informative antimafia nei recenti arresti giurisprudenziali Alfonso Mezzotero* Salvatore Paolo Putrino Gallo** SOmmarIO: 1. Premessa -2. Finalità e ambito di applicazione -3. Profili procedimentali -4. Gli elementi sintomatici del tentativo di infiltrazione mafiosa -4.1. I c.d. «reati spia» quali esemplificazione codicistica di fattispecie aperte. Gli elementi di precedenti informative e l’informativa antimafia c.d. «atipica» - 4.2. Le vicende dell’impresa e dei soggetti ad essa riconducibili -4.3. I rapporti di parentela -4.4. Le frequentazioni -5. L’attualità del pericolo di infiltrazione mafiosa - 6. Profili processuali in materia di informative antimafia. La giurisdizione in materia di impugnazione del provvedimento prefettizio -6.1. (segue) Gli effetti dell’informativa antimafia sulla giurisdizione nelle controversie relative al recesso della stazione appaltante dal contratto già stipulato -6.2. (segue) Gli effetti dell’informativa antimafia sulla giurisdizione nelle controversie relative alla revoca dell’aggiudicazione - 6.3. (segue) La competenza - 6.4. (segue) Il rito applicabile - 7. Conclusioni. 1. Premessa. il contenzioso in materia di documentazione antimafia assume particolare rilievo nella giustizia amministrativa. la documentazione antimafia è uno strumento connotato da una incisiva capacità lesiva degli interessi imprenditoriali. Difatti, l’informazione interdittiva comporta uno stato di «incapacità legale a contrarre» dell’impresa con le pubbliche amministrazioni, comportante non solo l’impossibilità di partecipare alle gare d’appalto pubbliche (1) e l’obbligatorio recesso dai contratti già stipulati (2), ma anche l’esclusione o la decadenza da qualsiasi forma di erogazione di contributi pubblici. la comunicazione antimafia interdittiva, invece, impedisce che l’impresa attenzionata possa essere titolare di autorizzazioni o concessioni rilasciate dalla pubblica amministrazione. Tale bipartizione tra informazione antimafia e comunicazione antimafia, comunque, sembra stia venendo meno nelle volontà del legislatore. il tradizionale riparto, infatti, si è *) Avvocato dello Stato. (**) Dottore in Giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato di Catanzaro. (1) v. art. 94, comma 1, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159; si veda, anche, art. 80, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (c.d. «nuovo Codice degli appalti e delle concessioni»), “motivi di esclusione”: “2. Costituisce altresì motivo di esclusione la sussistenza di cause di decadenza, di sospensione o di divieto previste dall’articolo 67 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 o di un tentativo di infiltrazione mafiosa di cui all'articolo 84, comma 4, del medesimo decreto. resta fermo quanto previsto dagli articoli 88, comma 4-bis, e 92, commi 2 e 3, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, con riferimento rispettivamente alle comunicazioni antimafia e alle informazioni antimafia”. (2) v. art. 94, comma 2, d.lgs. n. 159/2011; si veda, anche, art. 109, d.lgs. n. 50/2016. rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 rilevato inadeguato “a fronte della sempre più frequente constatazione empirica che la mafia tende ad infiltrarsi, capillarmente, in tutte le attività economiche, anche quelle soggette a regime autorizzatorio” (3). la dicotomia tra informazione e comunicazione antimafia ha permesso alle associazioni mafiose di poter gestire, con imprese inquinate, attività economiche lucrose nei diversi settori dell’economia privata, “senza che l’ordinamento potesse efficacemente intervenire per contrastare tale infiltrazione, al di fuori delle ipotesi di comunicazioni antimafia emesse per misure di prevenzione definitive con effetto interdittivo” (4). Storicamente, l’interesse dell’ordinamento alla repressione del fenomeno mafioso, con particolare riguardo all’ambito socio-economico, risale alla l. 31 maggio 1965, n. 575, con la quale fu prevista la decadenza di diritto da licenze, concessioni e iscrizioni agli albi di appaltatori di opere o di forniture pubbliche per quei soggetti colpiti da una misura di prevenzione di cui alla l. 27 dicembre 1956, n. 1423 (5). Tuttavia, anche a causa dell’allarme sociale venutosi a creare in conseguenza del continuo espandersi negli anni ‘70 del fenomeno mafioso, infine, culminato con le eccellenti stragi del decennio successivo, si capì che la normativa citata non aveva sortito una grande efficacia, in quanto la sola decadenza dalle licenze già conseguite non impediva alla criminalità organizzata di continuare ad acquisirne di nuove (6) e, di conseguenza, di continuare ad accrescere le proprie fonti lecite di approvvigionamento. Pertanto, prima, con la l. 13 settembre 1982, n. 646 (c.d. «legge rognoni- la Torre») e, immediatamente dopo, con la l. 23 dicembre 1982, n. 936, si introdusse, mediante la sostituzione dell’art. 10 l. n. 575 del 1965, la prima disciplina procedimentale in materia di certificazione antimafia. A seguito di tali modifiche, con il novellato art. 10 cit. fu previsto che “ai fini dei procedimenti amministrativi concernenti le licenze, concessioni ed iscrizioni […], nonché della stipulazione ed approvazione dei contratti di appalto […] e delle autorizzazioni dei subappalti e cottimi di opere riguardanti la pubblica amministrazione, […] la certificazione di volta in volta occorrente circa la sussistenza o meno a carico dell’interessato di procedimenti o di provvedimenti per l’applicazione di una delle misure di prevenzione di cui all’articolo 3 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, […] è rilasciata, su richiesta dell’amministrazione o dell’ente pubblico competente, dalla prefettura nella cui circoscrizione gli atti vengono perfezionati”. l’originaria impostazione dell’istituto in esame ha subito una profonda (3) in questi termini, Cons. St., sez. iii, 9 febbraio 2017, n. 565; conforme Cons. St., sez. iii, 7 marzo 2017, n. 1080; id., 8 marzo 2017, n. 1109. (4) Idem. (5) P. PirruCCio, L’informativa antimafia prescinde dall’accertamento di fatti penalmente rilevanti, in Giur. merito, n. 2, 2009, Giuffrè, p. 504. (6) Idem. DoTTrinA 227 modifica con il d.lgs. 8 agosto 1994, n. 490, emanato in attuazione della legge delega n. 47 del 17 gennaio 1994 (7), successivamente modificato dal d.P.r. 3 giugno 1998, n. 252. la materia della documentazione antimafia, infine, è stata organicamente disciplinata dal d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (c.d. «Codice Antimafia »), emanato in attuazione della delega di cui alla legge 13 agosto 2010, n. 136. Con quest’ultimi provvedimenti e con i successivi decreti correttivi al codice antimafia, il legislatore ha attribuito una portata maggiore alle informazioni antimafia, estendendone l’operatività in ambiti in precedenza sconosciuti a questo istituto (8). nonostante la stratificata normativa in materia risulti, oggi, disciplinata dal citato d.lgs. n. 159/2011, sussiste ancora una certa complessità nella valutazione del rischio di infiltrazione mafiosa, stante “l’insidiosa pervasività e mutevolezza del fenomeno mafioso” (9), nonché la dimensione transnazionale delle attività imprenditoriali esercitate dalle diverse consorterie mafiose (10). 2. Finalità e ambito di applicazione. Con l’informazione antimafia il legislatore ha affiancato alle tradizionali misure di natura giurisdizionale uno strumento di natura amministrativa volto a rimuovere dal settore dei lavori e dei finanziamenti pubblici le imprese legate, anche indirettamente, ad organizzazioni mafiose (11). Stante la natura amministrativa dell’istituto, in materia di informazioni antimafia è riconosciuta al Prefetto un’ampia discrezionalità tecnica (12) nel valutare se, sulla base del compendio istruttorio acquisito, sussista, nella fattispecie concreta, il «pericolo» che la gestione imprenditoriale sia condizionata da organizzazioni di stampo mafioso, o, addirittura, agevoli attività criminali (13). È ormai chiarito che l’informazione antimafia interdittiva non è finalizzata a punire, neanche in modo indiretto, una condotta penalmente rilevante, non avendo natura “nemmeno latamente sanzionatoria” (14), costituendo, diversamente, una misura volta alla salvaguardia dell’ordine pubblico econo- (7) S. ruSCiCA, Le informazioni prefettizie antimafia: natura e criticità, in www.altalex.com, 2009. (8) cfr. Cons. St., sez. iii, n. 565/2017; id., 7 marzo 2017, n. 1080; id., 8 marzo 2017, n. 1109. (9) Cons. St., sez. iii, 3 maggio 2016, n. 1743. (10) Cons. St., sez. iii, n. 565/2017. (11) M. MinniTi - f. MinniTi, Le mire dei clan sulle imprese pulite. Così lo Stato combatte le infiltrazioni, in Dir. e giust., n. 37, 2006, Giuffrè, p. 105. (12) cfr. G. SiGiSMonDi, Il sindacato sulle valutazioni tecniche nella pratica delle Corti, in riv. trim. dir. pubbl., n. 2, 2015, Giuffrè, p. 705. (13) cfr. T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, 29 giugno 2016, n. 1330, secondo cui “un’ampia potestà discrezionale (è: n.d.r.) attribuita all’organo istruttore, cui spettano i compiti di polizia e di mantenimento dell’ordine pubblico, in relazione alla ricerca ed alla valutazione degli elementi da cui poter desumere eventuali connivenze e collegamenti di tipo mafioso”. (14) in questo senso, Cons. St., sez. iii, n. 1743/2016. rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 mico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica Amministrazione (15). Con gli strumenti attribuiti ai fini dell’accertamento di tentativi di infiltrazione mafiosa (16), il Prefetto, esaminando l’affidabilità dell’imprenditore, valuta la possibilità che lo stesso possa essere titolare di rapporti contrattuali con le pubbliche Amministrazioni o degli altri titoli abilitativi individuati dalla legge (17). l’ampia discrezionalità attribuita all’organo prefettizio comporta una serie di risvolti sia nell’attività volta all’emissione del provvedimento interdittivo, sia nella valutazione degli elementi idonei a ritenere sussistente un tentativo di infiltrazione mafiosa nell’impresa attenzionata. Anche a seguito della recente approvazione del nuovo codice appalti, indubbia rilevanza acquistano gli appalti c.d. «sotto soglia» (18), costituenti in ambito applicativo la gran parte dei contratti pubblici stipulati dalle stazioni appaltanti. A tal proposito, il nuovo codice dei contratti pubblici e delle concessioni (d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50), positivizzando un orientamento di natura pretoria, agli artt. 35 e 36 prevede, in sostanza, che le norme riguardanti i contratti oltre soglia si applicano anche ai contratti sotto soglia nei settori ordinari, salvo deroghe e specificazioni espressamente previste (19). È possibile, quindi, trovare anche un appiglio all’orientamento già consolidato in giurisprudenza secondo cui il Prefetto può interdire un’impresa dai rapporti con le pubbliche amministrazioni anche nel caso in cui l’informativa venga richiesta in ipotesi di contratti «sotto soglia». Sul punto, si è chiarito che “la circostanza che la normativa de qua sancisca l’obbligo di acquisire l’informazione esclusivamente nel caso di appalti di importo superiore alla soglia di rilevanza comunitaria non vale a fondare la tesi contraria relativamente agli appalti sotto soglia, per i quali, pertanto, l’informazione deve ritenersi valida” (20). in altri termini, pur non essendo previsto un obbligo di (15) cfr. Cons. St., sez. iii, 12 ottobre 2016, n. 4230; conforme, Cons. St., sez. iii, 10 ottobre 2016, n. 4170; id., 29 settembre 2016, n. 4030; id., 9 maggio 2016, n. 1846. (16) Sui poteri d’accesso e di accertamento, si veda art. 93, d.lgs. n. 159/2011. (17) cfr., da ultimo, Cons. St., sez. iii, 10 marzo 2017, n. 1131. (18) v. art. 36, d.lgs. n. 50/2016 (c.d. «nuovo Codice degli appalti e delle concessioni»). Al riguardo, anche, f. MAnGAnAro, Soglie di rilevanza comunitaria nel codice dei contratti pubblici, in Urb. app., n. 8/9, 2016, ipsoa, p. 948 ss. (19) r. GArofoli - G. fErrAri, manuale di Diritto amministrativo, 2016, nel Diritto Editore, p. 1301. (20) T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, 23 febbraio 2016, n. 377, ove si aggiunge che: “si tratta infatti di una legittima prerogativa della p.a., sebbene l’obbligo in argomento non sussista normativamente per gli appalti cc.dd. sotto soglia (Cons. Giust. amm., 17 gennaio 2011, n. 26), sicché legittimamente l’amministrazione può richiedere anche per essi le opportune informazioni antimafia al Prefetto. Né valgono ad accreditare la diversa tesi interpretativa, considerazioni di politica legislativa o di una presunta maggior efficienza dell’organizzazione amministrativa, che non trovano fondamento nel diritto positivo, specialmente a fronte della necessità di contrastare le infiltrazioni mafiose, sempre più frequenti DoTTrinA 229 acquisizione dell’informazioni antimafia nei contratti sotto soglia, nulla osta alla richiesta dell’Amministrazione o della stazione appaltante di informazioni relative all’impresa con la quale andrà a contrarre. l’ambito di applicazione dell’informativa antimafia, a seguito dell’introduzione dell’art. 89-bis, d.lgs. n. 159/2011 (21), risulta, oggi, molto più ampio. il sistema di repressione del fenomeno mafioso nel tessuto economico, tradizionalmente, era strutturato su un sistema parallelo: le infiltrazioni mafiose nel tessuto economico pubblico erano escluse, in via amministrativa, con lo strumento della documentazione antimafia; mentre, la repressione del medesimo fenomeno nell’economia privata era per lo più attribuita alla funzione giudiziaria. Tuttavia, lo Stato ha riconosciuto l’esistenza di un intreccio tra economia pubblica ed economia privata tanto profondo da dover ormai ritenere irrilevante e inidonea la distinzione tra i due concetti nel circoscrivere il fenomeno mafioso, soprattutto in alcuni settori quali quelli dell’edilizia, dello smaltimento dei rifiuti o del trasporto di materiali in discarica (22). Di conseguenza, come sopra rilevato, anche la distinzione tra comunicazione e informazione antimafia è ormai risultata obsoleta. Con lo strumento di cui all’art. 89-bis, d.lgs. n. 159/2011, pertanto, il legislatore ha previsto che l’ufficio prefettizio, all’esito di una richiesta di documentazione antimafia, ove ravvisi l’esistenza di un tentativo di infiltrazione mafiosa, dovrà emettere (23) un’informativa antimafia che “tiene luogo della comunicazione antimafia richiesta”. l’art. 89-bis cit., quindi, in primo luogo, ha ampliato l’ambito di applicazione dell’informazione antimafia ai regimi amministrativi a carattere autorizzatorio (24), come, ad esempio, quello sottoposto a S.C.i.A. (25), in precedenza oggetto della comunicazione antimafia; in secondo luogo, ha aperto uno spiraglio di accesso alle attività economiche private dello strumento interdittivo, in passato, relegato alle sole attività economiche pubbliche. e insidiose anche negli appalti di modesto valore economico. In altre parole la presenza di una situazione di obbligo e, quindi, di doverosità della richiesta per appalti superiori alla soglia, non esclude la situazione giuridica di facoltà o di potere della pubblica amministrazione in relazione alla richiesta in questione. Del tutto legittima, pertanto, è la richiesta di informazioni antimafia da parte della stazione appaltante al Prefetto, anche per gli appalti cc.dd. sottosoglia (Cons. St. 3874/2014), come del tutto legittimo è il rilascio di informazioni da parte del Prefetto circa il possibile rischio di infiltrazioni mafiose anche nelle imprese concorrenti a tali appalti”; da ultimo, cfr. Cons. St., sez. iii, 20 luglio 2016, n. 3300. (21) inserito dall’art. 2, comma 1, lett. d), d.lgs. 13 ottobre 2014, n. 153 (c.d. «correttivo al codice antimafia»). (22) Idem. Cons. St., sez. iii, n. 565/2017; id., n. 1080/2017. (23) Cons. St., sez. iii, n. 565/2017, ripresa, anche, da Cons. St., sez. iii, n. 1080/2017, diversamente, ritiene che l’emissione dell’informativa in luogo della comunicazione antimafia di cui all’art. 89-bis, d.lgs. n. 159/2011, costituisca una facoltà e non un obbligo del Prefetto. (24) Cons. St., sez. iii, n. 565/2017; id., n. 1080/2017. (25) cfr., T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, 27 febbraio 2017, n. 309. rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 3. Profili procedimentali. Quanto agli aspetti procedimentali, l’istruttoria si concretizza nell’acquisizione da parte del Prefetto di tutte le informazioni di cui le Autorità di pubblica sicurezza sono in possesso, al fine di un’obiettiva valutazione sulla possibilità di un eventuale utilizzo distorto dei finanziamenti pubblici destinati ad iniziative private o delle risorse pubbliche devolute al settore degli appalti pubblici (26). Stante la natura di provvedimento preventivo, esigenze di celerità e di riservatezza consentono di limitare la partecipazione del privato all’attività istruttoria volta all’emissione dell’informativa interdittiva. Da tale presupposto, la giurisprudenza giustifica l’insussistenza in capo all’ufficio prefettizio di un obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento ex art. 7, l. 7 agosto 1990, n. 241 (27). Già in vigenza dell’abrogato d.P.r. 3 giugno 1998, n. 252, con riferimento al procedimento di aggiornamento delle informative oggi previsto dall’art. 91, comma 5, d.lgs. n. 159/2011 -, il medesimo obbligo è escluso nel caso di procedimento attivato su iniziativa di parte, con la conseguenza che è precluso alla parte istante lamentare la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento cui ha dato impulso (28). nel corso dell’istruttoria, l’Amministrazione procedente potrà valutare il rischio di inquinamento mafioso secondo il criterio del «più probabile che non», “alla luce di una regola di giudizio che ben può essere integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali, qual è, anzitutto, anche quello mafioso” (29), non essendo necessario raggiungere il massimo grado di certezza probatoria tipico della logica penalistica (30). Sulla valutazione degli elementi raccolti in sede istruttoria, è chiarito che gli stessi dovranno essere valutati organicamente, laddove “una visione «parcellizzata » di un singolo elemento, o di più elementi, non può che far perdere ciascuno di essi la sua rilevanza nel suo legame sistematico con gli altri” (31), potendo acquistare rilevanza le relazioni di polizia contenenti elementi di si (26) E. lEoTTA, I poteri certificativi del Prefetto quali strumenti di contrasto alla criminalità organizzata: inquadramento sistematico ed aspetti problematici, in www.giustizia-amministrativa.it. (27) in questo senso, T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, 23 maggio 2016, n. 1078; id., 15 settembre 2016, n. 1804, secondo cui “riguardo all’informazione antimafia, ai fini dell’emissione di essa non è richiesta alcuna comunicazione di avvio, a causa delle esigenze di celerità che derivano dal carattere sostanzialmente cautelare di tale provvedimento e della necessaria riservatezza delle attività alla base di esso”. (28) A. MEzzoTEro, Le informative prefettizie antimafia: natura, tipologie ed effetti interdittivi, in Giur. merito, 4, 2009, Giuffrè, p. 1093. Per una definizione di «aggiornamento», si v. anche f. CAM- Polo, Il procedimento di “aggiornamento” dell’informazione antimafia interdittiva: effetti e natura dell’atto, in lexitalia.it. (29) T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, n. 1330/2016; Cons. St, sez. iii, n. 1743/2016. (30) Idem; cfr., anche, Cons. St., sez. iii, n. 1743/2016. (31) Idem. DoTTrinA 231 cura valenza indiziaria (32), o, anche, le dichiarazioni rese da «collaboratori di giustizia» nel corso di un procedimento penale (33). Sul punto, il Consiglio di Stato ha, inoltre, ritenuto che “la valutazione del provvedimento prefettizio si può ragionevolmente basare anche su un solo indizio, che comporti presunzione, qualora essa sia ritenuta di tale precisione e gravità da rendere inattendibile gli elementi di giudizio ad essa contrari” (34). Dall’ampia discrezionalità in materia di informazione interdittiva discende l’ulteriore corollario secondo cui il Prefetto non ha un obbligo di puntuale motivazione del provvedimento interdittivo, anche nel caso in cui l’istruttoria sia stata avviata su istanza di parte, come nel caso di richiesta di aggiornamento di una precedente informativa interdittiva (35). Al riguardo, si è chiarito che l’informazione interdittiva risulta sufficientemente motivata qualora dall’esame del provvedimento sia percepibile il percorso motivazionale attraverso cui l’Amministrazione procedente è giunta alla determinazione assunta (36), risultando idonea anche una motivazione per relationem, “se gli atti richiamati nel provvedimento prefettizio, emessi da organi giudiziari o amministrativi, già contengono specifiche valutazioni degli elementi emersi” (37). (32) Cons. St., sez. iii, 22 marzo 2017, n. 1321. (33) cfr. T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, 19 febbraio 2016, n. 355, ove sono state ritenute sufficienti “a rendere ragionevole ed attendibile la valutazione prognostica del “pericolo” (e non di esistenza certa) del condizionamento mafioso dell’attività di impresa” le dichiarazioni rese da un collaboratore di giustizia nel corso di un procedimento penale estraneo al soggetto attenzionato dal provvedimento interdittivo. (34) Cons. St., sez. iii, n. 1743/2016. (35) cfr. T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, 2 novembre 2016, n. 2069, ove, nel caso di specie, la società ricorrente, tra i diversi motivi di impugnazione dell’informazione interdittiva emessa a seguito dell’istanza di riesame di un precedente provvedimento prefettizio, ha dedotto l’assenza di una puntuale valutazione del Prefetto sulle argomentazioni svolte dalla medesima nel corso dell’istruttoria. (36) Idem. (37) T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, 16 giugno 2016, n. 1282, ove si chiarisce che “qualora i fatti riportati e valutati nelle indagini antimafia risultino chiari ed evidenti o quanto meno altamente plausibili (ad es. perché risultanti da articolati provvedimenti dell’autorità giudiziaria o da relazioni ben fatte nel corso del procedimento), il provvedimento prefettizio, che in tali casi assume quasi un carattere vincolato nell’ottica del legislatore, si può anche limitare a rimarcare la loro sussistenza, provvedendo di conseguenza; ove invece i fatti emersi nel corso del procedimento risultino in qualche modo marcatamente opinabili, e si debbano effettuare collegamenti e valutazioni, il provvedimento prefettizio deve motivatamente specificare quali elementi ritenga rilevanti e come essi si leghino tra loro; in altri termini, se gli atti richiamati nel provvedimento prefettizio, emessi da organi giudiziari o amministrativi, già contengono specifiche valutazioni degli elementi emersi, il provvedimento prefettizio si può intendere sufficientemente motivato per relationem, anche se fa ad essi riferimento; viceversa, se gli atti richiamati contengono una sommatoria di elementi eterogenei non ancora unitariamente considerati (ad es., perché si sono susseguite relazioni delle Forze dell’ordine indicanti meri dati di fatto), spetta al provvedimento prefettizio valutare tali elementi eterogenei”. rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 4. Gli elementi sintomatici del tentativo di infiltrazione mafiosa. una volta definiti la finalità, l’ambito di applicazione e i profili procedi- mentali dell’informazione antimafia, appare utile rassegnare i principali elementi ritenuti, in giurisprudenza, sintomatici del tentativo di infiltrazione mafiosa nell’impresa. 4.1. I c.d. «reati spia» quali esemplificazione codicistica di fattispecie aperte. Gli elementi di precedenti informative e l’informativa antimafia c.d. «atipica». nel giudizio prognostico volto alla valutazione dell’affidabilità dell’imprenditore nell’instaurazione di rapporti con la Pubblica Amministrazione, il Prefetto può «desumere» un tentativo di infiltrazione mafiosa nell’impresa dall’esistenza di provvedimenti penali in ordine ai c.d. «reati spia» indicati dall’art. 84, comma 4, d.lgs. n. 159/2011. in tale ipotesi, il provvedimento giurisdizionale può essere valutato nel suo valore estrinseco, ma il Prefetto “deve nel contempo effettuarne un autonomo apprezzamento, nel suo contenuto intrinseco, delle risultanze penali, senza istituire un automatismo tra l’emissione del provvedimento cautelare in sede penale e l’emissione dell’informativa ad effetto interdittivo” (38). Sulla natura dell’art. 84, d.lgs. n. 159/2011, si è ribadito che “la norma di cui all’art. 84, comma 4, del d.lgs. n. 159/2011 indica le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa che danno luogo all’adozione dell’informazione antimafia interdittiva, ma la relativa elencazione non ha la funzione di tipizzare in maniera tassativa fattispecie in cui può essere emesso un provvedimento interdittivo, come reso evidente dalla semplice lettura delle relative previsioni. accanto alle ipotesi di applicazione di misure cautelari, di condanna per determinati reati, di proposta di applicazione di misure di prevenzione, ve ne sono altre che sfuggono alla catalogazione quali fattispecie specifiche. Basti pensare alla previsione relativa agli accertamenti disposti dal prefetto anche avvalendosi dei poteri di accesso e di accertamento delegati dal ministro dell’Interno e agli accertamenti da effettuarsi in altra provincia” (39). in altri termini, le fattispecie elencate dall’art. 84 cit. non sono connotate dalla tassatività, svolgendo una funzione meramente esemplificativa. Al riguardo, il Supremo Consesso di giustizia amministrativa ha esaustivamente chiarito che “gli elementi di inquinamento mafioso, ben lungi dal costituire un numerus clausus, assumono forme e caratteristiche diverse secondo i tempi, i luoghi e le persone e sfuggono, per l’insidiosa pervasività e mutevolezza, anzitutto sul piano sociale, del fenomeno mafioso, ad un preciso inquadramento. Quello voluto dal legislatore ben consapevole di questo, è dunque un catalogo aperto di (38) Cons. St., sez. iii, 2 marzo 2017, n. 982. (39) T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, n. 1078/2016, la quale riprende Cons. St., sez. iii, n. 1743/2016. DoTTrinA 233 situazioni sintomatiche del condizionamento mafioso” (40). Tale osservazione è in linea con la già evidenziata natura preventiva dello strumento interdittivo. in relazione alla natura delle fattispecie elencate dall’art. 84 cit., in giurisprudenza si sono affrontate ulteriori questioni attinenti sia ai rapporti tra informative antimafia c.d. «tipiche» (o interdittive) e informative antimafia c.d. «atipiche» o «supplementari» (o «aggiuntive») (41), sia alla codificazione di fattispecie ante codice antimafia non tipizzate. Trattando unitamente i due aspetti, si è chiarito che non sussiste alcuna contraddittorietà del- l’azione amministrativa, qualora gli elementi posti a fondamento di un’informativa interdittiva siano i medesimi esaminati da una precedente informativa «atipica» (42), soprattutto nel caso in cui il mutato quadro normativo abbia tipizzato alcune fattispecie non previste, ma comunque valorizzate nel precedente provvedimento, attribuendo loro specifica e autonoma rilevanza ostativa (43). Profili di contraddittorietà (rectius, illegittimità) non si sono ravvisati neanche nella valorizzazione dei medesimi elementi posti a base di una precedente informativa annullata in sede giurisdizionale, il cui originario quadro indiziario risulta essere stato integrato nel corso della nuova istruttoria (44). (40) Cons. St., sez. iii, n. 1743/2016. (41) Per una definizione, in giurisprudenza, Cons. St., sez. iii, 31 dicembre 2014, n. 6465, in iusexplorer.it, con cui si chiarisce che “l’informativa antimafia c.d. atipica, a differenza di quella c.d. tipica, non ha carattere (direttamente) interdittivo, ma consente alla stazione appaltante l’attivazione di una valutazione discrezionale in ordine all’avvio o al prosieguo dei rapporti contrattuali, alla luce dell’idoneità morale del partecipante alla gara di assumere la posizione di contraente con la Pubblica amministrazione, sicché la sua efficacia interdittiva può eventualmente scaturire soltanto da una valutazione autonoma e discrezionale dell’amministrazione destinataria. In sostanza l’informativa antimafia atipica, ancorché non sia priva di effetti nei confronti delle amministrazioni, non ne comprime integralmente le capacità di apprezzamento, con la conseguenza che i provvedimenti di mantenimento o di risoluzione del rapporto devono essere comunque il frutto di una scelta motivata della stazione appaltante”. in dottrina, A. MEzzoTEro, op. cit., p. 1088 ss.; anche, r. AnTillo, La giurisdizione in materia di atti adottati in autotutela a seguito di certificazione antimafia a contenuto interdittivo. In particolare la revoca dei contributi. analisi in controtendenza, in www.diritto.it. Sulla sopravvivenza dell’istituto a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 159/2011, invece, B. MACrillò, Notazioni sulla supposta abrogazione dell’informativa antimafia atipica, in lexitalia.it. (42) cfr., da ultimo, Cons. St., sez. iii, n. 1321/2017. (43) cfr. T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, n. 2069/2016, ove, nel caso di specie, il Ministero dell’interno nelle proprie difese ha evidenziato come l’omessa denuncia all’Autorità Giudiziaria del reato di estorsione ex art. 629 c.p., a seguito dell’entrata in vigore del codice antimafia, abbia acquistato autonoma rilevanza (v. art. 84, d.lgs. n. 159/2011). in particolare, l’omessa denuncia del reato era scaturita dalla falsa testimonianza dell’amministratore della società interdetta in un procedimento penale, il quale aveva dichiarato di aver consegnato una somma di denaro agli imputati a titolo di mutuo, invece che a consumazione del reato estorsivo. (44) cfr., da ultimo, Cons. St., sez. iii, 10 novembre 2016, n. 4662, secondo cui “il fatto che alcuni [elementi: n.d.r.] siano stati considerati nell’interdittiva annullata perde rilievo una volta che gli stessi sono dedotti all’interno del nuovo quadro indiziario”. Cfr, anche, T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, n. 1078/2016. rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 4.2. Le vicende dell’impresa e dei soggetti ad essa riconducibili. Costituiscono elementi idonei ai fini della valutazione del tentativo di infiltrazione mafiosa nell’impresa le vicende penali, i procedimenti o processi penali che hanno attinto i titolari, i soci, gli amministratori, i direttori generali o i collaboratori dell’impresa, per uno dei «delitti spia» di cui all’art. 84, d.lgs. n. 159/2011 (45). Al riguardo, in giurisprudenza è stata ritenuta legittima l’informazione interdittiva che abbia tenuto conto dell’esistenza di un procedimento penale nei confronti del revisore legale della società per il reato di riciclaggio di cui all’art. 648-bis c.p. (46). rilevanza è stata attribuita, inoltre, al deferimento del socio accomandatario della società per alcuni dei «reati spia» (47), così come alla ricollegabilità dei dipendenti dell’impresa a sodalizi criminali (48). Sui fatti posti a fondamento del provvedimento interdittivo, si è ritenuto che “possono essere anche non penalmente rilevanti o non costituire oggetto di procedimenti o di processi penali o, addirittura e per converso, possono essere già stati oggetto del giudizio penale, con esito di proscioglimento o di assoluzione” (49). in particolare, sulle pronunce di proscioglimento o di assoluzione, il Consiglio di Stato ha precisato che la loro rilevanza emerge qualora dalla motivazione della sentenza si desume un condizionamento mafioso dell’impresa, anche incolpevole, “che pregiudichi le libere logiche imprenditoriali” (50). in ogni caso, non è sufficiente che il ricorrente offra in (45) Si veda, anche, art. 85, d.lgs. n. 159/2011. (46) cfr. T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, 15 settembre 2016, n. 1808, ove si è ritenuta priva di pregio la doglianza della società ricorrente relativa alla violazione del principio di irretroattività delle norme penali, dovuta alla valutazione delle vicende penali del revisore legale della società entrato in carica in una data antecedente alle modifiche apportate dal d.lgs. 15 novembre 2012, n. 218 all’art. 85, d.lgs. n. 159/2011, che ha esteso le verifiche antimafia ai membri del collegio sindacale. (47) cfr. T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, 15 aprile 2016, n. 791, ove, nel caso di specie, tra la “pluralità di elementi che, considerati nella loro globalità, costituiscono un quadro indiziario più che sufficiente a far ritenere la sussistenza di un condizionamento della società ricorrente da parte di organizzazioni malavitose” ha acquisito valore la circostanza del deferimento all’Autorità Giudiziaria del socio accomandatario della società. Si osserva, comunque, che nel corso del giudizio, il T.A.r. ha ordinato all’ufficio prefettizio di riferire sullo sviluppo e sugli esiti del deferimento del socio accomandatario. (48) cfr. T.A.r. Calabria, sez. i, 29 giugno 2016, n. 1328, ove si riferisce che “la peculiare valenza indiziaria dello stretto rapporto parentale della ricorrente con appartenenti al sodalizio mafioso […] è peraltro avvalorata dalla ulteriore circostanza che, tra i dipendenti assunti dalla azienda figuri un soggetto controindicato, a carico del quale sussistono precedenti di polizia per reati normalmente connessi a quello di associazione di stampo mafioso”; inoltre, id., n. 1282/2016 cit., in cui considerevole rilievo è stato attribuito alla circostanza relativa allo svolgimento, nel corso del tempo, di prestazioni di lavoro alle dipendenze della società ricorrente di soggetti legati da rapporti di parentela o di coniugio a soggetti ritenuti esponenti di spicco della consorteria insistente nel medesimo luogo ove ha sede l’impresa. (49) T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, n. 1330/2016; più esaustiva Cons. St., sez. iii, n. 1743/2016 secondo cui “le sentenze di proscioglimento o di assoluzione hanno una specifica rilevanza, ove dalla loro motivazione si desuma che titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa, pur essendo andati esenti da condanna, abbiano comunque subìto, ancorché incolpevolmente, un condizionamento mafioso che pregiudichi le libere logiche imprenditoriali”. DoTTrinA 235 giudizio solamente notizie di pronunce di proscioglimento, essendo necessario che lo stesso riesca a “dimostrare che l’emissione di esse possa implicare un vizio di manifesta illogicità o contraddittorietà o difetto di istruttoria” (51). Anche le vicende anomale dell’impresa possono essere sintomatiche di un tentativo di infiltrazione mafiosa. Costituiscono, infatti, elementi utili ai fini dell’emissione di interdittive antimafia le sostituzioni nella titolarità delle imprese individuali o delle quote societarie, che possono rilevare quale «vicenda anomala nella formale struttura dell’impresa», finalizzata ad eludere la normativa sulla documentazione antimafia, ovvero considerarsi quale «vicenda anomala nella concreta gestione dell’impresa» riconducibile, ad esempio, al fenomeno delle c.d. «teste di legno» (52). Tra le vicende anomale nella gestione dell’impresa sono da ricomprendere anche fenomeni di promiscuità di forze umane e di mezzi o la sussistenza di collaborazioni con imprese a loro volta colpite da interdittive antimafia, la cui intensità permette di considerare esistente una continuità dell’impresa attenzionata con quella già interdetta (53). Tale orientamento deve essere coordinato con quanto disposto dall’art. 95, d.lgs. n. 159/2011, secondo cui “se taluna delle situazioni da cui emerge un tentativo di infiltrazione mafiosa, di cui all’articolo 84, comma 4, ed all’articolo 91, comma 6, interessa un’impresa diversa da quella mandataria che partecipa ad un’associazione o raggruppamento temporaneo di imprese, le cause di divieto o di sospensione di cui all’articolo 67 non operano nei confronti delle altre imprese partecipanti quando la predetta impresa sia estromessa o sostituita anteriormente alla stipulazione del contratto. La sostituzione può essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione delle informazioni del prefetto qualora esse pervengano successivamente alla stipulazione del contratto”. Anche in ipotesi di avvalimento di cui all’art. 89, d.lgs. n. 50/2016 “gli obblighi previsti dalla normativa antimafia a carico del concorrente si applicano anche nei confronti del soggetto ausiliario, in ragione dell’importo del- l’appalto posto a base di gara”. infine, anche la commissione di atti intimidatori nei confronti di possibili (50) Cons. St., sez. iii, n. 1743/2016. (51) T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, n. 1078/2016. (52) cfr. T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, 29 agosto 2016, n. 1659; anche, Cons. St., sez. iii, n. 1743/2016. (53) cfr. T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, 23 febbraio 2016, n. 374, nella quale il T.A.r. ha ritenuto che “profili di gran lunga più significativi sono quelli inerenti i rapporti tra l’impresa del ricorrente e l’impresa dello zio […], raggiunto da misure interdittive dovute a pericoli di infiltrazione mafiosa. Si tratta di rapporti molto stretti, al punto che le due imprese, almeno in alcune occasioni, hanno anche operato unitariamente nell’attività nel settore boschivo, con forme di collaborazione che si sono manifestate anche con l’utilizzazione comune di mezzi e attrezzature”. rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 imprese concorrenti nella committenza pubblica (54) può costituire un sintomo di infiltrazione (rectius, di conduzione) mafiosa dell’impresa. Di contro, si è ritenuto che non possa costituire valida argomentazione caducatoria del provvedimento interdittivo il fatto che il titolare dell’impresa “sia stato, a suo tempo, vittima di intimidazioni, trattandosi di elementi che non escludono e non attenuano la possibilità che l’impresa risulti, secondo la valutazione discrezionale del prefetto, soggetta al rischio di infiltrazioni da parte della criminalità organizzata” (55). 4.3. I rapporti di parentela. l’analisi dei rapporti di parentela costituisce sicuramente un elemento imprescindibile nella valutazione del pericolo di infiltrazione mafiosa nel- l’impresa. Tale indagine, infatti, acquista notevole rilevanza soprattutto nel territorio calabrese, ove, com’è noto, le consorterie mafiose sono caratterizzate da una organizzazione su base parentale e dalla prevalente partecipazione alle stesse di soggetti facenti parte del medesimo nucleo familiare. Tuttavia, l’organo procedente deve prestare una particolare attenzione nella valutazione dei rapporti di parentela, al fine di non incorrere in vizi di eccesso di potere. infatti, è ormai consolidato il principio secondo cui dal mero rapporto di parentela non si può presumere che “il parente del mafioso sia an- ch’egli mafioso” (56), dovendo il Prefetto, di contro, valutare l’effettiva influenza, cointeressenza, copertura o solidarietà della famiglia nell’impresa. i rapporti di parentela tra titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e familiari che siano esponenti, affiliati, organici o contigui a consorterie mafiosa, quindi, non rilevano sic et simpliciter, bensì qualora “tale rapporto, per la sua natura, intensità, o per altre caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del «più probabile che non», che l’impresa abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare (di diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia mediante il contatto col proprio congiunto” (57). Pertanto, alcune circostanze obiettive quali la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento in fatti anche che non (54) cfr. T.A.r. Calabria, sez. i, n. 791/2016, ove, oltre il rilievo già evidenziato nella nota n. 25, nella valutazione complessiva dei vari elementi posti a fondamento del provvedimento interdittivo, il T.A.r. ha ritenuto correttamente valorizzata anche la denuncia nei confronti di un dipendente e del titolare dell’impresa, per aver gli stessi esploso colpi d’arma da fuoco all’interno di una azienda concorrente, al fine di inibirla dalla partecipazione ad una gara pubblica. (55) T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, 30 marzo 2016, n. 575. (56) Cons. St., sez. iii, n. 1743/2016. (57) T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, n. 1330/2016, ove si richiama quanto già compendiato da Cons. St., sez. iii, n. 1743/2016. DoTTrinA 237 abbiano dato luogo a condanne in sede penale, acquistano rilevanza nel giudizio prognostico cui è chiamata l’Amministrazione procedente. Sulla base di tale orientamento, si è considerato correttamente valutato il rapporto di filiazione della titolare di un’impresa con un soggetto ritenuto esponente di spicco della locale consorteria; circostanza avvalorata anche dall’assunzione alle dipendenze dell’impresa di alcuni familiari con precedenti per associazione di stampo mafioso (58). Si è ritenuto sintomo di infiltrazione mafiosa nell’impresa, anche, il rapporto di coniugio del titolare dell’impresa con un soggetto condannato “per tentata truffa in concorso ed inserita in un contesto familiare di cui fanno parte […] soggetti ritenuti appartenenti a cosca di ‘ndrangheta” (59). 4.4. Le frequentazioni. Anche la valutazione dei rapporti di frequentazione è connotata da una particolare difficoltà nell’indagine volta a verificare l’esistenza di infiltrazioni mafiose, soprattutto nell’ipotesi in cui l’impresa svolge la propria attività all’interno di un contesto sociale di modesta estensione. Sul punto, in giurisprudenza si è precisato che i rapporti di frequentazione, di conoscenza, di colleganza e di amicizia con soggetti raggiunti da provvedimenti penali o di prevenzione antimafia acquistano rilevanza qualora non siano frutto di casualità o di necessità. Di conseguenza, risultano correttamente valorizzabili i ripetuti contatti e/o le frequentazioni con soggetti riconducibili a sodalizi mafiosi, ovvero che risultino avere precedenti penali o che siano stati destinatari di misure di prevenzione (60). in tale ottica, ruolo fondamentale è svolto anche dalla consapevolezza del- l’imprenditore di intrattenere frequentazioni con soggetti mafiosi o, per altro verso, “di porsi su una pericolosa linea di confine tra legalità e illegalità” (61). nella casistica affrontata dalla giurisprudenza, si sono ritenuti elementi idonei da cui desumere l’esistenza di un pericolo di infiltrazione mafiosa i controlli effettuati dalle forze dell’ordine relativi a frequentazioni con precedenti per estorsione e ricettazione; la partecipazione a celebrazioni funebri di parenti di soggetti ritenuti elementi di spicco di famiglie mafiose e, per converso, a cerimonie funebri di soggetti mafiosi vittime di omicidio (62). 5. L’attualità del pericolo di infiltrazione mafiosa. una volta evidenziati i principali elementi indiziari idonei all’emissione (58) cfr. T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, n. 1328/2016; cfr., anche, T.A.r. Calabria, reggio Calabria, sez. dist., 15 novembre 2016, n. 1134. (59) T.A.r. Calabria, reggio Calabria, sez. dist., 14 novembre 2016, n. 1124. (60) in questo senso, cfr. Cons. St., sez. iii, n. 1743/2016. (61) Idem. (62) cfr., T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, n. 1808/2016. rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 del provvedimento interdittivo, risulta utile affrontare la questione dell’attualità del pericolo di infiltrazione mafiosa. Al riguardo, si rileva che è ormai consolidato in giurisprudenza l’orientamento secondo cui è possibile desumere tentativi di ingerenza anche da indizi risalenti nel tempo, come controlli delle forze dell’ordine relative alle frequentazioni del titolare, dei soci o degli amministratori dell’impresa; pronunce emesse a seguito di procedimenti penali definitisi nel tempo; elementi mutuati da altri precedenti provvedimenti interdittivi. Tali indizi, per risultare la conseguente valutazione esente da vizi di eccesso di potere, devono essere attualizzati, risultando necessario che, all’esito dell’istruttoria, emerga “«il filo rosso» che connette ad elementi concreti più antichi, altri dati istruttori più recenti” (63). Pertanto, gli elementi risalenti nel tempo, di per sé, non possono giustificare l’emissione di un provvedimento interdittivo, né risultare idonei alla reiterazione dello stesso, ma possono costituire, di contro, un valido supporto nell’analisi del rinnovato quadro indiziario finalizzato ad accertare l’affidabilità dell’impresa che intende intraprendere (o ha intrapreso) rapporti con la Pubblica Amministrazione. 6. Profili processuali in materia di informative antimafia. La giurisdizione in materia di impugnazione del provvedimento prefettizio. Come sopra rilevato, l’esercizio del potere autoritativo (64) in materia di informazione antimafia è connotato da discrezionalità tecnica dell’Autorità procedente. Dunque, le valutazioni svolte dal Prefetto con il provvedimento interdittivo sono sindacabili in ordine ai soli profili di manifesta illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti (65), sia con lo strumento del ricorso straordinario al Presidente della repubblica sia innanzi al giudice amministrativo, in sede di giurisdizione generale di legittimità, rimanendo, comunque, esclusa la possibilità “di svolgere un sindacato pieno e assoluto sugli esiti della stessa” (66). 6.1. (segue) Gli effetti dell’informativa antimafia sulla giurisdizione nelle controversie relative al recesso della stazione appaltante dal contratto già stipulato. (63) in questi termini, “relazione introduttiva del Presidente Vincenzo Salamone e dei magistrati Francesco Tallaro e Germana Lo Sapio in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2016”, in www.giustizia-amministrativa.it. Cfr., anche, Cons. St., sez. iii, 5 febbraio 2016, n. 463; T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, n. 1330/2016. (64) cfr. A. CErrETo, recesso della p.a. da un contratto di appalto di lavori pubblici per effetto di informativa antimafia e riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e amministrativo, con osservazioni alla sentenza Cass. S.U. 29 agosto 2008 n. 21928 e spiragli di razionalizzazione del sistema di riparto sulla sorte del contratto, in www.giustizia-amministrativa.it. (65) cfr. Cons. St., sez. iii, 31 agosto 2016, n. 3754; anche Cons. St., sez. iii, n. 1131/2017. (66) T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, n. 1078/2016; Cons. St., sez. iii, n. 1743/2016. DoTTrinA 239 l’informazione antimafia interdittiva produce effetti anche riguardo al giudice chiamato a dirimere le controversie inerenti le patologie del rapporto. Com’è noto, negli appalti pubblici, la giurisdizione in ordine alle controversie sorte successivamente alla stipula del contratto è attribuita al giudice ordinario; ciò, anche, nelle ipotesi di recesso ex art. 21-sexies, l. n. 241/1990, ove si ha l’esercizio di diritti potestativi ascrivibili all’autotutela di natura privatistica (67). Tuttavia, la regola su indicata viene meno qualora il recesso esercitato dalla stazione appaltante sia consequenziale all’emissione di una informativa antimafia. in questa fattispecie, le controversie in materia di recesso della p.a. sono attribuite alla giurisdizione del giudice amministrativo. Sul punto, la Corte di Cassazione, in sede di regolamento di giurisdizione, ha precisato che l’esercizio del recesso in esame “è espressione di un potere autoritativo di valutazione dei requisiti soggettivi del contraente, il cui esercizio è consentito anche nella fase di esecuzione del contratto dal D.P.r. n. 252 del 1998, art. 11, comma 2 [oggi, dagli artt. 92, comma 3, e 94, comma 2, d.lgs. n. 159/2011: n.d.r.], e che attiene alla scelta del contraente stesso. Tale potere è estraneo alla sfera del diritto privato, a differenza del recesso previsto dalla L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 345, all. F, (in relazione al quale spetta al Giudice ordinario verificarne la sussistenza dei presupposti: Cass. n. 10160/2003). Il recesso di cui si tratta, in altri termini, non trova fondamento in inadempienze verificatesi nella fase di esecuzione del contratto, ma è consequenziale all’informativa del Prefetto […] e quindi è espressione di un potere di valutazione di natura pubblicistica diretto a soddisfare l’esigenza di evitare la costituzione o il mantenimento di rapporti contrattuali fra i soggetti indicati nel cit. D.P.r. art. 1 [ossia, le pubbliche amministrazioni, gli enti pubblici, gli enti e le aziende vigilati dallo Stato o da altro ente pubblico e le società o imprese comunque controllate dallo Stato o da altro ente pubblico: n.d.r.] e imprese nei cui confronti emergono sospetti di collegamenti con la criminalità organizzata” (68). 6.2. (segue) Gli effetti dell’informativa antimafia sulla giurisdizione nelle controversie relative alla revoca dell’aggiudicazione. la giurisdizione del giudice amministrativo insiste anche nelle ipotesi di revoca dell’aggiudicazione; perfino successivamente alla stipula del contratto. Al riguardo, si è chiarito che l’informativa antimafia interdittiva sopravvenuta in corso di esecuzione di un contratto già stipulato non costituisce una sopravvenienza che impedisce la prosecuzione del contratto, ma l’accerta (67) cfr. Cons. St., sez. V, 22 maggio 2015, n. 2562. (68) in questi termini, Cass. civ., sez. un., 29 agosto 2008, n. 21928; conforme, Cass. civ., sez. un., 27 gennaio 2014, n. 1530. rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 mento dell’incapacità originaria del privato ad essere parte contrattuale della pubblica amministrazione (69). l’esercizio del potere di revoca dell’aggiudicazione, dunque, è stato ricondotto tra le ipotesi indicate dall’art. 133, comma 1, lett. e), n. 1, c.p.a., ai sensi del quale le controversie relative a procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture sono attribuite alla giurisdizione esclusiva al giudice amministrativo (70). 6.3. (segue) La competenza. Ai fini della definizione della competenza territoriale del giudice dell’impugnazione, preliminarmente, occorre accennare alle disposizioni (sostanziali) sulla competenza nell’emissione del provvedimento interdittivo. Ai sensi dell’art. 90, d.lgs. n. 159/2011, il Prefetto competente al rilascio dell’informazione antimafia è quello della provincia in cui le persone fisiche, le imprese, le associazioni o i consorzi risiedono o hanno la sede legale, ovvero quello della provincia in cui è stabilita una sede secondaria con rappresentanza stabile nel territorio dello Stato per le società estere. Ciò posto, nel caso di impugnazione del solo provvedimento interdittivo, il Tribunale Amministrativo regionale territorialmente competente per il giudizio sarà quello nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio prefettizio, in ossequio al c.d. «criterio della sede dell’organo» di cui all’art. 13, comma 1, c.p.a. (71). la competenza territoriale come su individuata insiste, anche, nell’ipotesi in cui il ricorrente impugni congiuntamente il provvedimento prefettizio e i conseguenti atti applicativi. Al riguardo, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha chiarito che giudice competente sarà quello previsto per l’impugnazione del primo provvedimento; diversamente, “sulla medesima informativa antimafia potrebbe variamente radicarsi la competenza di diversi TT.aa.rr. Infatti, nel caso in cui il ricorrente impugni la sola informativa sarebbe territorialmente competente il Tar del luogo ove ha sede la Prefettura che ha adottato l’atto; se il ricorrente impugnasse contestualmente (o con motivi aggiunti), anche gli atti successivi adottati dalla stazione appaltante diventerebbe funzionalmente competente il Tar del luogo ove ha sede tale stazione appaltante. In questo modo, pertanto, potrebbe essere il comportamento del ricorrente a determinare il giudice competente, creando un’occasione di “forum shopping” che il nuovo c.p.a. ha inteso evitare. Inoltre, nel caso di informative analoghe, rilasciate a differenti stazioni appaltanti dalla medesima Prefettura sulla base delle medesime risultanze acquisite, si radicherebbe la competenza funzionale di differenti TT.aa.rr. a seconda di dove abbiano sede le stazioni appaltanti (69) cfr. Cons. St., sez. iV, 20 luglio 2016, n. 3247. (70) Idem. (71) cfr. Cons. St., ad. plen., 31 luglio 2014, n. 17. DoTTrinA 241 i cui atti applicativi vengono impugnati, unitamente alle informative, con differenti ricorsi” (72). Dunque, ai fini della determinazione della competenza nel caso in esame, si dovrà tenere conto dell’interesse principale del ricorrente, che “è quello di contestare in radice la sussistenza dei presupposti che hanno condotto all’emissione dell’informativa, per cui il giudizio avente ad oggetto l’informativa avrebbe carattere principale e il giudizio avente ad oggetto l’atto applicativo avrebbe carattere accessorio. Pertanto, ritenendo applicabile, ex art. 39 c.p.a., l’art. 31 c.p.c. che disciplina i rapporti di connessione tra causa principale e causa accessoria si giunge a ritenere competente, in caso di contestuale impugnazione dell’informativa prefettizia e dell’atto applicativo, il giudice competente a conoscere della prima. Dispone infatti l’art. 31 c.p.c. che «la domanda accessoria può essere proposta al giudice territorialmente competente a conoscere per la domanda principale affinché sia decisa nello stesso processo»” (73). 6.4. (segue) Il rito applicabile. Quanto al rito applicabile, il giudizio di impugnazione dell’informazione antimafia interdittiva segue quello di annullamento di cui all’art. 29 c.p.a. Alcuni dubbi sono sorti, invece, in ordine al rito applicabile nell’ipotesi di impugnazione del provvedimento prefettizio e dei conseguenti atti delle stazioni appaltanti. Sul punto, il Consiglio di Stato ha chiarito che l’autonomia e la trasversalità dell’istituto, comportano l’assoggettamento dell’impugnazione del provvedimento al rito ex art 29 c.p.a. e non a quello di cui agli artt. 119 e 120 c.p.a., anche qualora l’informativa interdittiva abbia costituito il presupposto dell’esercizio del potere di recesso della stazione appaltante dal contratto già stipulato e lo stesso provvedimento prefettizio sia stato impugnato con autonomo giudizio, poi, riunito a quello proposto avverso il recesso (74). Tanto è giustificato dal fatto che “la risoluzione pubblicistica del rapporto eccezionalmente riconosciuto alla stazione appaltante dall’art. 92, comma 4, del d.lgs. n. 159 del 2011 […] non costituisce propriamente l’oggetto o l’effetto di uno degli «atti delle procedure di affidamento», ma è il contenuto di un atto vincolato della stazione appaltante, la conseguenza necessitata, a valle, di una valutazione compiuta dal Prefetto, a monte, in ordine ad un requisito fondamentale richiesto dall’ordinamento per la partecipazione alle gare o […] di una «indispensabile capacità giuridica»: l’impermeabilità mafiosa delle imprese concorrenti. L’accertamento di tale indispensabile capacità giuridica spetta al Prefetto con un atto tipica espressione di una ampia di (72) Idem. (73) Idem. (74) cfr. Cons. St., sez. iii, 26 gennaio 2017, n. 319. rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 screzionalità nell’esercizio di tale funzione connessa alla tutela dell’ordine pubblico e alla prevenzione antimafia e, proprio in quanto tale, non è corretto ricondurla e relegarla alla sola materia delle procedure di gara, che del resto non ne esaurisce il ben più vasto raggio applicativo, e alla relativa disciplina processuale, di cui quindi è errato invocare la ratio acceleratoria e la dimidiazione dei termini” (75). 7. Conclusioni. una volta rassegnati gli sviluppi giurisprudenziali in materia di informazioni antimafia, appare utile accennare anche ai recenti arresti normativi concernenti, seppur indirettamente, l’istituto in esame. Quanto alla normativa sugli appalti, se il precedente codice di cui al d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 non ha apportato alcuna modifica alla normativa antimafia (76), anche il suo successore ha mantenuto la stessa linea. in verità, nel nuovo codice degli appalti è assente una disposizione di rinvio (generale) esterno quale l’abrogato art. 247, d.lgs. n. 163/2006, che manteneva “ferme le vigenti disposizioni in materia di prevenzione della delinquenza di stampo mafioso e di comunicazioni e informazioni antimafia”, essendovi solo alcuni specifici richiami alla documentazione antimafia, come quello contenuto negli artt. 80, 108 e 109, d.lgs. n. 50/2016. il nuovo codice, inoltre, non ha apportato aggiornamenti ai richiami delle disposizioni antimafia al precedente codice appalti, risultando ancora rinvii all’abrogato d.lgs. n. 163/2006 (77). restano, pertanto, ferme le disposizioni in materia da ultimo modificate dal decreto correttivo al codice antimafia di cui al d.lgs. 13 ottobre 2014, n. 153. non si può non evidenziare, quindi, l’occasione persa dal legislatore delegato nel riordinare e semplificare la disciplina della documentazione antimafia. in primo luogo, si osserva che il novellato art. 92, rubricato “Termini per il rilascio delle informazioni”, riproduce (78), in parte, quanto già disposto (75) Idem. (76) cfr. A. MEzzoTEro, op. cit., p. 1076. (77) Si veda, a titolo esemplificativo, l’art. 83, comma 2, d.lgs. n. 159/2011, secondo cui “La disposizione di cui al comma 1 si applica ai contraenti generali di cui all’articolo 176 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, di seguito denominati «contraente generale»”. l’art. 176 cit. è stato sostanzialmente riprodotto nell’art. 194, d.lgs. n. 50/2016. (78) Art. 92, comma 3, d.lgs. n. 159/2011: “Decorso il termine di cui al comma 2, primo periodo, ovvero, nei casi di urgenza, immediatamente, i soggetti di cui all’articolo 83, commi 1 e 2, procedono anche in assenza dell’informazione antimafia. I contributi, i finanziamenti, le agevolazioni e le altre erogazioni di cui all’articolo 67 sono corrisposti sotto condizione risolutiva e i soggetti di cui all’articolo 83, commi 1 e 2, revocano le autorizzazioni e le concessioni o recedono dai contratti, fatto salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite”. il successivo comma 4 aggiunge: “La revoca e il recesso di cui al comma 3 si applicano anche quando gli elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa siano accertati successivamente alla stipula del contratto, alla concessione dei lavori o all’autorizzazione del subcontratto”. DoTTrinA 243 sostanzialmente -dall’art. 94 (“Effetti delle informazioni del prefetto”), comma 2, a tenore del quale “qualora il prefetto non rilasci l’informazione interdittiva entro i termini previsti, ovvero nel caso di lavori o forniture di somma urgenza di cui all’articolo 92, comma 3 qualora la sussistenza di una causa di divieto indicata nell’articolo 67 o gli elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa di cui all’articolo 84, comma 4, ed all’articolo 91, comma 6, siano accertati successivamente alla stipula del contratto, i soggetti di cui all’articolo 83, commi 1 e 2, salvo quanto previsto al comma 3, revocano le autorizzazioni e le concessioni o recedono dai contratti fatto salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite”. in disparte alla ripetizione delle disposizioni, si ritiene che l’inciso contenuto nell’art. 92, comma 3, secondo periodo, secondo cui “i soggetti di cui all’articolo 83, commi 1 e 2, revocano le autorizzazioni e le concessioni o recedono dai contratti […]”, così come il successivo comma 4 del medesimo articolo, avrebbero trovato una giusta collocazione sistematica nell’art. 94, disciplinante gli effetti delle informative interdittive. in secondo luogo, a seguito dell’introduzione dell’art. 89-bis, d.lgs. n. 159/2011, non si ravvisa alcuna utilità pratica nel mantenimento dell’attuale architettura della documentazione antimafia, fondata sulla bipartizione tra comunicazione e informazione antimafia. ragioni di semplificazione e di chiarezza normativa avrebbero dovuto indurre il legislatore delegato ad inglobare l’istituto della comunicazione antimafia in quello della informazione. Tra l’altro, si osserva che la definizione di informazione antimafia riproduce interamente quella della comunicazione antimafia, aggiungendo alla funzione di quest’ultima quella ulteriore di “attestazione della sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate”. inoltre, anche gli effetti dei due strumenti sono ormai coincidenti. la disposizione di cui all’art. 88, comma 4-bis, d.lgs. n. 159/2011, infatti, viene replicata al successivo art. 92, comma 3, d.lgs. n. 159/2011. in conclusione, è ormai evidente che, a causa dell’inutilità della distinzione tra i due istituti, soprattutto a seguito dell’introduzione dell’art. 89-bis cit., sarebbe consono un intervento di razionalizzazione della materia. Bibliografia. A. CErrETo, recesso della p.a. da un contratto di appalto di lavori pubblici per effetto di informativa antimafia e riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e amministrativo, con osservazioni alla sentenza Cass. S.U. 29 agosto 2008 n. 21928 e spiragli di razionalizzazione del sistema di riparto sulla sorte del contratto, in www.giustizia-amministrativa.it. r. GArofoli - G. fErrAri, manuale di Diritto amministrativo, 2016, nel Diritto Editore. rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 E. lEoTTA, I poteri certificativi del Prefetto quali strumenti di contrasto alla criminalità organizzata: inquadramento sistematico ed aspetti problematici, in www.giustizia-amministrativa.it. f. MAnGAnAro, Soglie di rilevanza comunitaria nel codice dei contratti pubblici, in Urb. app., n. 8/9, 2016, ipsoa. B. MACrillò, Notazioni sulla supposta abrogazione dell’informativa antimafia atipica, in lexitalia.it. A. MEzzoTEro, Le informative prefettizie antimafia: natura, tipologie ed effetti interdittivi, in Giur. merito, n. 4, 2009, Giuffrè. M. MinniTi - f. MinniTi, Le mire dei clan sulle imprese pulite. Così lo Stato combatte le infiltrazioni, in Dir. e giust., n. 37, 2006, Giuffrè. P. PirruCCio, L’informativa antimafia prescinde dall’accertamento di fatti penalmente rilevanti, in Giur. merito, n. 2, 2009, Giuffrè. S. ruSCiCA, Le informazioni prefettizie antimafia: natura e criticità, in www.altalex.com, 2009. G. SiGiSMonDi, Il sindacato sulle valutazioni tecniche nella pratica delle Corti, in riv. trim. dir. pubbl., n. 2, 2015, Giuffrè. Giurisprudenza. Cass. civ., sez. un., 29 agosto 2008, n. 21928; Cass. civ., sez. un., 27 gennaio 2014, n. 1530. Cons. St., ad. plen., 31 luglio 2014, n. 17; Cons. St., sez. iii, 31 dicembre 2014, n. 6465; Cons. St., sez. V, 22 maggio 2015, n. 2562; Cons. St., sez. iii, 5 febbraio 2016, n. 463; Cons. St., sez. iii, 3 maggio 2016, n. 1743; Cons. St., sez. iii, 9 maggio 2016, n. 1846; Cons. St., sez. iV, 20 luglio 2016, n. 3247; Cons. St., sez. iii, 20 luglio 2016, n. 3300; Cons. St., sez. iii, 31 agosto 2016, n. 3754: Cons. St., sez. iii, 29 settembre 2016, n. 4030; Cons. St., sez. iii, 10 ottobre 2016, n. 4170; Cons. St., sez. iii, 12 ottobre 2016, n. 4230; Cons. St., sez. iii, 10 novembre 2016, n. 4662; Cons. St., sez. iii, 26 gennaio 2017, n. 319; Cons. St., sez. iii, 9 febbraio 2017, n. 565; Cons. St., sez. iii, 2 marzo 2017, n. 982; Cons. St., sez. iii, 7 marzo 2017, n. 1080; Cons. St., sez. iii, 8 marzo 2017, n. 1109; Cons. St., sez. iii, 10 marzo 2017, n. 1131; Cons. St., sez. iii, 22 marzo 2017, n. 1321. T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, 19 febbraio 2016, n. 355; T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, 23 febbraio 2016, n. 374; T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, 23 febbraio 2016, n. 377; T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, 30 marzo 2016, n. 575; DoTTrinA 245 T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, 15 aprile 2016, n. 791; T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, 23 maggio 2016, n. 1078; T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, 16 giugno 2016, n. 1282; T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, 29 giugno 2016, n. 1328; T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, 29 giugno 2016, n. 1330; T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, 29 agosto 2016, n. 1659; T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, 15 settembre 2016, n. 1804; T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, 15 settembre 2016, n. 1808; T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, 2 novembre 2016, n. 2069; T.A.r. Calabria, Catanzaro, sez. i, 27 febbraio 2017, n. 309; T.A.r. Calabria, reggio Calabria, sez. dist., 14 novembre 2016, n. 1124; T.A.r. Calabria, reggio Calabria, sez. dist., 15 novembre 2016, n. 1134. rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 Sistemi elettorali e rappresentatività Glauco Nori* le sentenze della Corte Costituzionale in materia di legge elettorale registrano qualche vuoto di motivazione, come per esempio la sentenza n. 35/2017, perché su questioni di principio una motivazione troppo dettagliata può complicare le cose più che semplificarle. Ma a complicare le cose in tema di leggi elettorali e rappresentatività è la crescente astensione al voto. Vediamo perché. 1. la Corte costituzionale con la sentenza n. 1/2014 ha dichiarato la illegittimità costituzionale del premio di maggioranza, come allora era articolato, perché “dette norme producono una eccessiva divaricazione tra la composizione dell’organo di rappresentanza politica, che è al centro del sistema di democrazia rappresentativa e della forma di governo parlamentare prefigurati dalla Costituzione, e la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto, che costituisce il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare, secondo l’art. 1, secondo comma Cost.”. Ha, di conseguenza, dichiarato la illegittimità costituzionale delle nome impugnate perché “consentono una illimitata compressione della rappresentatività della assemblea parlamentare, incompatibile con i principi costituzionali in base ai quali le assemblee parlamentari sono sedi esclusive della ‘rappresentanza politica nazionale’ (art. 67 cost.)”. Secondo la Corte alla rappresentatività si può portare un correttivo ma non rovesciare “la ratio della formula elettorale prescelta”. Adottato il criterio proporzionale, si dovrebbe essere coerenti e non si potrebbe neutralizzarlo oltre i limiti della ragionevolezza. Diverso è il caso, e la Corte ha tenuto a precisarlo, quando si ricorre al collegio uninominale, non fondato sulla proporzionalità. 2. Da questa premessa è partita la Corte con la sentenza n. 35/2017 con la quale ha dichiarato la illegittimità costituzionale del ballottaggio, introdotto con la legge n. 52 del 2015: “ben può il legislatore innestare un premio di maggioranza in un sistema elettorale ispirato al criterio proporzionale dei seggi, purché tale meccanismo premiale non sia foriero di un’eccessiva sovrarappresentazione della lista di maggioranza relativa”. Per la specifica funzione e posizione costituzionale della Camera dei Deputati, che concede la fiducia al Governo ed è titolare di funzioni di indirizzo politico e di quella legislativa, “in una forma di governo parlamentare, ogni sistema elettorale… non può che essere primariamente destinato ad assicurare il valore costituzionale della rappresentatività”. C’è una certa risonanza della proposta fatta in Assemblea Costituente di (*) Già avvocato dello Stato, Presidente emerito del Comitato scientifico di questa rassegna. DoTTrinA 247 aggiungere “secondo il sistema proporzionale” al primo comma dell’art. 56 Cost., non accolta e tradotta poi in un ordine del giorno: “l’Assemblea Costituente ritiene che l’elezione dei membri della Camera dei deputati debba avvenire secondo il sistema proporzionale”. non fu considerato opportuno il richiamo nella Costituzione per evitare che, se si fosse voluto adottare un criterio diverso, si dovesse modificare la norma costituzionale. in vista della stabilità di governo si possono, dunque, adottare correttivi, ma nei limiti giustificati dalla proporzionalità e ragionevolezza, che non pregiudichino il bilanciamento dei due interessi, rappresentatività e funzione di governo, tutelati entrambi dalla Costituzione. 3. la Corte ha concluso con la verifica, resa necessaria dalla funzione della legge, che la normativa di risulta consentisse in ogni momento il rinnovo dell’organo elettivo. Dopo avere rilevato che una “sproporzionata divaricazione” tra la composizione della Camera dei Deputati e la volontà dei cittadini, espressa con il voto (“che costituisce il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare secondo l’articolo 1 della Costituzione”), finiva con l’incidere sulla sovranità popolare, garantita dal principio della rappresentatività. Sarebbe stato il caso di non trascurare un altro effetto prodotto dalla sentenza: si è arrivati ad una legge proporzionale pura non sorretta da una volontà sovrana, anzi non voluta dal Parlamento. Si ricava dal fatto che il ballottaggio sia stato previsto come correttivo di secondo grado per il caso che non si arrivasse al premio di maggioranza. i correttivi apportati sono risultati eccessivi: però, malgrado dovesse essere evidente che il Parlamento non volesse un sistema proporzionale puro, è proprio questo che è diventato applicabile. Apportare al ballottaggio i correttivi del caso “spetta all’ampia discrezionalità del legislatore… , al quale il giudice costituzionale, nel rigoroso rispetto dei propri limiti d’intervento, non può sostituirsi”. Dovrebbe essere questa la ragione per la quale la Corte si è fermata alla verifica funzionale, che “la normativa che resta in vigore… è idonea a garantire il rinnovo, in ogni momento, dell’organo costituzionale elettivo”, senza domandarsi se quella normativa trovasse il suo fondamento in una volontà legislativa corrispondente. la singolarità del risultato avrebbe richiesto la spiegazione di come si accordasse con la Costituzione. 4. Quando si affrontano questioni di principio può succedere che si incorra in qualche vuoto di motivazione anche perché una motivazione troppo dettagliata talvolta può complicare la situazione, invece di semplificarla. la sentenza n. 35/2017 ne è un esempio. Secondo la Corte il principio di proporzionalità e di ragionevolezza “impone di verificare… che il bilanciamento dei principi e degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da determinare rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 il sacrificio o la compressione di uno dei due in maniera eccessiva”. il ballottaggio tra le liste più votate provoca “uno sproporzionato sacrificio dei principi costituzionali di rappresentatività e di uguaglianza del voto, trasformando artificialmente una lista che vanta un consenso limitato, ed in ipotesi anche esiguo, in maggioranza assoluta”. la Corte non si è domandata se, per tutelare la rappresentatività, la normativa di risulta non provocasse la compressione eccessiva per l’altro dei due interessi costituzionalmente rilevanti. Per la stabilità di Governo la proporzionalità è la meno adatta, in particolare quando la situazione elettorale è come quella italiana attuale. Secondo la Corte ogni sistema elettorale non può che essere primariamente destinato ad assicurare il valore costituzionale della rappresentatività. È dal principio proporzionale che si dovrebbe, quindi, sempre partire. Se poi i correttivi per la stabilità del Governo sono eliminati perché eccessivi, anche in mancanza di una volontà corrispondente dell’elettorato, la rappresentatività si espanderebbe in tutta la sua portata indipendentemente dalla entità del pregiudizio alla funzione di Governo. Se sorge conflitto, dunque, la rappresentatività deve essere garantita a qualunque costo. 5. Dopo quanto si è sentito e letto negli ultimi tempi a proposito delle elezioni, sarebbe il caso che qualche approfondimento venisse da parte degli esperti a proposito del significato dell’astensione elettorale. Col cambiare delle situazioni politiche e delle sensibilità elettorali anche le astensioni potrebbero avere assunto un significato diverso. non è detto che sia così, ma non si dovrebbe dare per scontato il contrario. Dal punto di vista terminologico l’astensione ha un significato soltanto negativo: sta ad indicare che ci si astiene dal fare qualche cosa; sul perché è neutra. Per questa neutralità si presta ad assumere significati diversi, secondo l’orientamento dell’interprete. in italia, come nei Paesi c.d. più evoluti, l’astensione elettorale risulta in aumento. Qualcuno non partecipa perché non interessato alla politica o per difficoltà di ordine pratico. Secondo quanto si sa, il numero sarebbe esiguo. Per il resto sulle ragioni si possono fare solo ipotesi. Chi, distratto da altri interessi, resta disorientato, può scegliere di rimettersi a quello che decide la maggioranza, fidando sul metodo elettorale. Così si potrebbe spiegare perché l’astensione aumenti nei Paese con livello economico e culturale più elevato. Ma ci può essere anche chi preferisce non assumere responsabilità per quanto prevede che possano fare i partiti concorrenti sui quali non ha fiducia. Sono solo ipotesi di fronte all’unico dato sicuro del valore soltanto negativo dell’astensione. Soprattutto per la misura assunta negli ultimi tempi, è stata sostenuta qualche tesi che presupporrebbe che le astensioni costituiscano una autonoma maggioranza elettorale. nelle elezioni protagonisti sono i partiti o movimenti (come si definiscono DoTTrinA 249 da soli) che, secondo l’art. 49 Cost., “concorrono a determinare la politica nazionale”. Per concorrere debbono essere in grado di fare una proposta da mettere a confronto con le altre. una vera proposta non può ridursi a dire no a quello che propongono gli altri, ma deve avere un contenuto positivo, per quanto evanescente e indeterminato possa essere, dal quale desumere come la politica dovrebbe essere orientata. nessun contenuto positivo comune può essere desunto dalle astensioni che, anche se interpretate come un no ai programmi degli altri, lo sarebbero per ragioni diverse e talvolta incompatibili. Se gli astenuti non vogliono o non sono interessati ad essere rappresentati dai partiti in concorso, il loro numero non dovrebbe incidere sulla rappresentatività. Per il contrario, la rappresentatività andrebbe rapportata a tutto il corpo elettorale e non soltanto a chi vota; sarebbe come dire che la funzione rappresentativa sarebbe indipendente dalla volontà del rappresentato. Si potrebbe anche andare incontro al rischio di vedere nell’astensione una sorta di rappresentanza implicita data a chi riporterà la maggioranza. il risultato sarebbe che il partito vincente, in genere definito come rappresentante di una minoranza, sia pure maggiore delle altre, finirebbe con l’essere espressione di una maggioranza schiacciante. Per questo non sarebbe male che gli specialisti dessero qualche chiarimento. Come può l’astensione influire sulla valutazione della maggioranza? le astensioni non possono essere riportate in una specie di partito atipico, a formazione spontanea, perché senza un programma, richiesto dall’art. 49 Cost. Quello che sembra difficile è ricavare il valore di proposta da una posizione solo negativa. Secondo alcune argomentazioni ricorrenti le astensioni farebbero perdere di rappresentatività ai partiti e ai movimenti votati. la rappresentatività sarebbe coinvolta anche quando gli elettori dimostrano il loro disinteresse a vedersi rappresentati. Questo non significa che non abbia un suo valore perché sta a dimostrare che le proposte politiche del momento non convincono una parte dell’elettorato. Se si arrivasse ad un maggiore chiarimento, potrebbero forse semplificarsi anche alcune questioni di costituzionalità. rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 L’efficacia delle decisioni dell’AGCM nei giudizi follow on Vincenzo Tommaso Ciorra* SOmmarIO: 1. Introduzione -2. La decisione dell’aGCm nei giudizi civili follow on ante direttiva 104/2014/UE ovvero la graduale “erosione” dei diritti di difesa dell’impresa convenuta -3. La trasposizione della direttiva nell’ordinamento italiano: innovazioni e problemi di compatibilità con i principi fondamentali dell’ordinamento -4. Osservazioni conclusive con riferimento al perdurante problema del rispetto dei diritti di difesa. 1. Introduzione. Come affermato dal considerando n. 14 della direttiva 104/2014/uE (1) “le azioni per il risarcimento del danno causato da violazioni del diritto della concorrenza dell’unione o nazionale richiedono di norma una complessa analisi fattuale ed economica”. Tali azioni (di c.d. private enforcement) sono strutturalmente connotate, infatti, oltre che da un’asimmetria conoscitiva tra l’impresa danneggiante ed il soggetto danneggiato, dall’estrema tecnicità del presupposto di fatto, l’illecito anticoncorrenziale, che si riverbera nella difficoltà per il soggetto che si ritiene leso da una violazione delle regole della concorrenza di assolvere non solo all’onere della prova, ma financo a quello di allegazione degli elementi tipici dell’illecito civile (elemento soggettivo (2), fatto illecito, danno, nesso di causalità) (3). (*) Dottore in Giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura generale dello Stato. (1) Direttiva 2014/104/UE del parlamento europeo e del consiglio del 26 novembre 2014 relativa a determinate norme che regolano le azioni per il risarcimento del danno ai sensi del diritto nazionale per violazioni delle disposizioni del diritto della concorrenza degli Stati membri e dell'Unione europea, su www.juscivile.it/normativaeuropea/. (2) Per superare l’oggettiva difficoltà della prova dell’elemento soggettivo, maggior parte della dottrina (ex multis, CAiAzzo, L’azione risarcitoria, l’onere della prova gli strumenti processuali ai sensi del diritto italiano, in l.f. PACE (a cura di), Dizionario sistematico del diritto della concorrenza, Jovene Editore, 2013 p. 324), ascrivendo la fattispecie nell’alveo dell’art. 2043 c.c., ritiene possibile applicare in via analogica la previsione di cui all’art. 2600 c.c., secondo il quale “accertati gli atti di concorrenza, la colpa si presume”. Tale ragionamento appare, tuttavia, contradditorio. Bisogna rilevare come l’applicazione analogica di una norma giuridica presupponga una lacuna dell’ordinamento, che nulla prevede per una determinata fattispecie. Di contro, qualora si ascrivesse l’ipotesi di danno cagionato da condotte anticoncorrenziali all’art. 2043 c.c., non vi sarebbe alcuna lacuna, perché l’art. 2043 c.c. prevede che l’elemento soggettivo debba essere imputabile (almeno) a titolo di colpa. Per tali motivi sembra molto opportuno il rilievo di AlPA (Illecito e danno antitrust. Un dialogo tra le corti nazionali e la corte di giustizia dell'unione europea, in Contratto e Impr., 2016, 6, p. 1227), secondo cui il risarcimento del danno a fronte di violazioni delle norme antitrust sarebbe in realtà da intendersi come ipotesi tipica di responsabilità oggettiva, atteso che la colpa “consiste nella (semplice) violazione di norme che prescrivono un determinato comportamento”. Bisogna comunque rilevare che la giurisprudenza è consolidata nell’ascrivere la responsabilità dell’impresa per danni cagionati dal mancato rispetto della normativa antitrust all’art. 2043 c.c. (cfr., Cass. del 4 febbraio 2005, n. 2007, su www.pa.leggiditalia.it.). Da non condividere, invece, quella dottrina (CASTElli, Disciplina antitrust e illecito civile, Giuffrè, 2012, pp. DoTTrinA 251 Preso atto di tale realtà, gli sforzi del legislatore euro-unitario nell’elaborazione della direttiva 104/2014/uE, trasposta nell’ordinamento nazionale con il d.lgs n. 3 del 2017 (4), si sono precipuamente concentrati nel predisporre una serie di misure, in larga parte di tipo processuale, volte a “bilanciare” la disparità tra le parti del giudizio di private enforcement nei confronti dei fatti di causa e a rendere il diritto al risarcimento del danno cagionato da violazione delle norme antitrust, come aveva già sancito la giurisprudenza comunitaria (5), “effettivo” (6). 172-173) che con riferimento all’elemento soggettivo ritiene di applicare l’art. 2600 c.c. solo in via diretta quando il medesimo fatto integri, allo stesso tempo, sia una violazione delle norme antitrust che di quelle della concorrenza sleale, applicandosi l’art. 2043 c.c. qualora il fatto integri la violazione delle sole norme antitrust. (3) Che legislatore euro-unitario avesse piena considerazione delle difficoltà in cui incorre l’attore nei giudizi di risarcimento del danno causato da condotte anticoncorrenziali lo si può agevolmente comprendere dal sopracitato considerando 14 della Direttiva, che qui si riporta per intero, secondo il quale “le azioni per il risarcimento del danno causato da violazioni del diritto della concorrenza dell’unione o nazionale richiedono di norma una complessa analisi fattuale ed economica. Gli elementi di prova necessari per comprovare la fondatezza di una domanda di risarcimento del danno sono spesso detenuti esclusivamente dalla controparte o da terzi e non sono sufficientemente noti o accessibili all'attore. in tali circostanze, rigide disposizioni giuridiche che prevedano che gli attori debbano precisare dettagliatamente tutti i fatti relativi al proprio caso all'inizio di un'azione e presentare elementi di prova esattamente specificati possono impedire in maniera indebita l'esercizio efficace del diritto al risarcimento garantito dal TfuE”. inoltre, non si dimentichi come la relazione che ha accompagnato la proposta di direttiva in oggetto abbia avuto cura di sottolineare che tra gli ostacoli che si oppongono alla creazione di un sistema di risarcimento del danno vi fosse “l’ottenimento delle prove per dimostrare un caso” e “la mancanza di un chiaro valore probatorio delle decisioni delle AnC” (Proposta di direttiva del parlamento europeo e del consiglio relativa a determinate norme che regolamentano le azioni per il risarcimento del danno ai sensi della legislazione nazionale a seguito della violazione delle disposizioni del diritto della concorrenza degli stati membri e dell'unione europea, COm(2013) 404 finale, su eur-lex.europa. eu). Sulle difficoltà che incontra un processo civile in materia antitrust, DE CriSTofAro, Onere probatorio e disciplina delle prove quale presidio di efficienza del private antitrust enforcement, in aIDa, fasc. 1, 2015, p. 100. (4) Peraltro la giurisprudenza nazionale ha dimostrato di tenere in considerazione i principi della direttiva ben prima della trasposizione nell’ordinamento interno. la sentenza della Corte di Cassazione n. 11564 del 2015 (disponibile su DeJure), interpretando le disposizioni del processo civile alla luce della direttiva 104/2014/uE, ha affermato che “in tema di risarcimento del danno derivante da paventate violazioni agli artt. 2 e seguenti della legge 10 ottobre 1990, n. 287, il giudice non può decidere la causa applicando meccanicamente il principio dell'onere della prova, ma è chiamato a rendere effettiva la tutela dei privati che agiscono in giudizio, tenuto conto dell'asimmetria informativa esistente tra le parti nell'accesso alla prova, sicché, fermo restando l'onere dell'attore di indicare in modo sufficientemente plausibile seri indizi dimostrativi della fattispecie denunciata come idonea ad alterare la libertà di concorrenza e a ledere il suo diritto di godere del beneficio della competizione commerciale, il giudice è tenuto a valorizzare in modo opportuno gli strumenti di indagine e conoscenza che le norme processuali già prevedono, interpretando estensivamente le condizioni stabilite dal codice di procedura civile in tema di esibizione di documenti, richiesta di informazioni e consulenza tecnica d'ufficio, al fine di esercitare, anche officiosamente, quei poteri d'indagine, acquisizione e valutazione di dati e informazioni utili per ricostruire la fattispecie anticoncorrenziale denunciata”. Critico nei confronti delle argomentazioni della Suprema Corte PArDolESi, Disciplina della concorrenza, private enforcement e attivismo giudiziale: dopo la dottrina, il diritto delle corti?, in Il Foro Italiano, 2015, i, p. 2752. rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 Si badi, sebbene le norme introdotte dalla direttiva “tutel(i)no i diritti soggettivi garantiti dal diritto dell’unione nelle controversie tra privati” (7), non è stato questo l’unico intento del legislatore. Come già poteva desumersi dal landmark case in materia, la sentenza Courage c. Crehan (8), e come fa notare attenta dottrina (9) analizzando le disposizioni della direttiva (10), il convincimento di politica legislativa sotteso al considerato intervento è che il rispetto degli articoli 101 e 102 TfuE, ovvero il mantenimento di un livello di workable competition tra le imprese operanti nel mercato unico, passi non solo attraverso i procedimenti iniziati dalla Commissione Europea o dalle Autorità nazionali (c.d. public enforcement), ma anche attraverso l’efficacia deterrente (11) dell’iniziativa dei privati che incardinano dinanzi alle giurisdizioni nazionali domande di risarcimento del danno subito da una condotta anticoncorrenziale. Tra le varie misure introdotte dal legislatore euro-unitario in materia riveste peculiare importanza quella prevista dall’art. 9 della sopracitata direttiva, ai sensi del quale la decisione “definitiva” emanata da un’autorità nazionale della concorrenza o confermata dal “giudice del ricorso” che abbia accertato la violazione degli articoli 101 e 102 TfuE vincola il giudice nazionale nel successivo giudizio di risarcimento dei danni (c.d. azioni follow on, che si distinguono da quelle stand alone, intentate dall’attore senza che la violazione sia stata già accertata da un provvedimento dell’autorità garante). Anzitutto, bisogna precisare che la decisione vincola solamente il giudice della stessa nazionalità dell’autorità che ha emanato il provvedimento. Di contro, qualora si faccia questione dell’efficacia di un provvedimento emanato da un’autorità di uno stato membro diverso da quello dinanzi alle cui giurisdizioni (5) Corte Giust. uE, C-295/04 e C-298/04, Vincenzo manfredi e altri c. Lloyd adriatico assicurazioni e altri, su curia.europa.eu, dispositivo 2. (6) Proprio al concetto di effettività della tutela fa riferimento il Considerando n. 4 della Direttiva 104/2014/uE, secondo il quale “il diritto al risarcimento previsto dal diritto dell'unione per i danni derivanti dalle violazioni del diritto della concorrenza dell'unione e nazionale richiede che ciascuno Stato membro disponga di norme procedurali che garantiscano l'effettivo esercizio di tale diritto”. (7) Considerando n. 3, Direttiva 104/2014/uE. (8) Corte Giust. ue, C-453/99, Courage ltd. c. Bernard Crehan, su eur-lex.europa.eu. Tale arresto, riconoscendo per la prima volta l’esistenza di un diritto al risarcimento del danno in capo ai soggetti lesi dalle violazioni di norme antitrust, ha precisato come “un siffatto diritto rafforza, infatti, il carattere operativo delle regole di concorrenza comunitarie ed è tale da scoraggiare gli accordi o le pratiche, spesso dissimulati, idonei a restringere o falsare il gioco della concorrenza. in quest'ottica, le azioni di risarcimento danni dinanzi ai giudici nazionali possono contribuire sostanzialmente al mantenimento di un'effettiva concorrenza nella Comunità”. (9) Per tutti, CHiEPPA, Il recepimento in Italia della Dir. 2014/104/UE e la prospettiva dell'aGCm, in Dir. Industriale, 2016, 4, p. 314. (10) Segnatamente il Considerando n. 6 secondo il quale “i due canali (private e public enforcement n.d.r.) devono agire in modo da assicurare la massima efficacia delle regole della concorrenza”. (11) Deterrente ma non punitiva, come ci tiene a precisare l’art. 3 secondo il quale “il pieno risarcimento ai sensi della presente direttiva non conduce a una sovra-compensazione del danno subito, sia sotto forma di risarcimento punitivo che di risarcimento multiplo o di altra natura”. DoTTrinA 253 è stata incardinata la domanda di risarcimento del danno, gli stati membri provvedono a che la decisione abbia “almeno” l’efficacia di prova “prima facie”. Si deve subito rilevare come il legislatore nazionale (12), trasponendo la direttiva nel nostro ordinamento, abbia esteso la predetta disposizione anche alle decisioni che concernono le violazioni di cui agli artt. 2, 3 e 4 della legge 287/90 quando autonomamente applicati, a fronte di una direttiva che si era limitata a prevedere il vincolo solamente per le violazioni degli artt. 101 e 102 TfuE (quand’anche applicati parallelamente alle norme antitrust nazionali). insomma, il legislatore nazionale ha esteso il vincolo anche alle decisioni dell’AGCM che accertino la violazione di sole norme nazionali. l’art. 9 della Direttiva ha dotato le decisioni delle autorità antitrust nazionali della stessa efficacia di cui già godevano le decisioni della Commissione ai sensi dell’art. 16 del regolamento 1/2003, seppur con alcune differenze. Anzitutto, l’efficacia vincolante riguarda solamente i provvedimenti nazionali che hanno accertato una violazione del “diritto della concorrenza”; differentemente le decisioni della Commissione vincolano il giudice nazionale qualunque sia, in linea di massima (13), la loro natura. inoltre, le decisioni delle autorità nazionali vincolanti sarebbero solamente quelle “definitive”, mentre le decisioni della Commissione vincolano anche se non definitive (14). Sebbene l’articolo 16 del regolamento 1/2003 abbia posto non pochi problemi di coordinamento con l’ordinamento nazionale, le problematiche che schiude l’art. 9 della direttiva, oggi trasposto nell’art. 7 del d.lgs n. 3 del 2017, sono sensibilmente differenti. Pur non potendo dare conto delle ipotesi ricostruttive (15) elaborate dalla (12) Come auspicava gran parte della dottrina. Ex multis, VillA, La direttiva europea sul risarcimento del danno antitrust: riflessioni in vista dell'attuazione, in Corriere Giur., 2015, 3, p. 301; BruzzonE e SAJA, Verso il recepimento della direttiva sul private enforcement del diritto antitrust, in Concorrenza e mercato, 2014, p. 257. (13) Per una completa analisi dell’art. 16 del regolamento 1/2003 e della portata del vincolo da questo stabilito in relazione ai vari esiti del procedimento iniziato dalla Commissione Europea si rimanda a l.f. PACE (a cura di), Dizionario sistematico, cit., e più precisamente al cap. 4 (I rapporti tra public e private enforcement dei divieti antitrust), parte ii, dell’opera. (14) Anche se solo “contemplate” durante il procedimento. A tal fine il giudice nazionale può decidere, sempre ai sensi dell’art. 16, anche di sospendere il giudizio di risarcimento del danno in attesa della decisione della Commissione. (15) numerose voci in dottrina (nEGri, Procedimenti paralleli in materia antitrust: (ir)ragionevoli corollari processuali del vincolo dei giudici nazionali alle decisioni della commissione CE, in Int'l Lis, 2009, 3-4, p. 133; rorDorf, Il ruolo del giudice e quello dell'autorità nazionale della concorrenza e del mercato nel risarcimento del danno antitrust in Società, 2014, 7, p. 784; TroTTA, Il rapporto, cit., pp. 363-364) non hanno mancato di rilevare come l’art. 16 del regolamento 1/2003, rendendo vincolante per il giudice civile l’accertamento in punto di fatto e di diritto compiuto dalla Commissione, autorità amministrativa, porrebbe problemi di coordinamento con i principi fondamentali del nostro ordinamento sanciti dagli artt. 24, 101 e 102 della Costituzione, tanto da chiamare in causa la nota teoria dei “controlimiti” (valuta invece positivamente l’art. 16 del reg. 1/2003 liBErTini, Diritto della Concorrenza dell’Unione Europea, Giuffrè, 2014, pp. 459-461). Vi è anche chi (VASQuES, Private enforcement della rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 dottrina nazionale con riferimento al vincolo disposto dall’art. 16 del regolamento 1/2003, che esulerebbero dall’oggetto della presente analisi, ci si può qui limitare a constatare come la violazione da parte del giudice nazionale della decisione della Commissione possa contrastare, come rilevato dalla Sentenza masterfoods (16), col principio di leale collaborazione sancito dal- l’odierno art. 4 del TuE, atteso che l’efficacia vincolante delle decisioni della Commissione si giustifica col fine di garantire un’uniforme applicazione del diritto europeo della concorrenza. Tutte considerazioni che, a ben vedere, mal si attaglierebbero ai provvedimenti delle Autorità nazionali. Per quanto riguarda il nostro ordinamento, l’art. 9 della direttiva 104/2014/uE interviene su una giurisprudenza della Corte di Cassazione che, dopo iniziali tentennamenti, si era assestata nel riconoscere efficacia di “prova privilegiata” della violazione delle norme antitrust al provvedimento del- l’AGCM, sul quale, inoltre, veniva fondata anche la presunzione della sussistenza del danno e del nesso di causalità. un’efficacia probatoria dunque, suscettibile di una prova contraria che (seppur a maglie molto strette) veniva comunque riconosciuta all’impresa convenuta. obiettivo del presente lavoro è quello di analizzare la graduale evoluzione della giurisprudenza nazionale ante direttiva in materia al fine di provare a comprendere quale sarà il reale effetto innovatore del recente intervento operato dal legislatore europeo. Allo stesso tempo, cercheremo di identificare appigli normativi, se ve ne sono, in grado di coniugare il rispetto della normativa comunitaria ed i principi (anche costituzionali) che regolano il nostrano processo civile, i diritti dei soggetti danneggiati da una condotta anticoncorrenziale e i diritti di difesa dell’impresa convenuta. 2. La decisione dell’aGCm nei giudizi civili follow on ante direttiva 104/2014/UE ovvero la graduale “erosione” dei diritti di difesa dell’impresa convenuta. Prima dell’avvento della direttiva e della espressa previsione di vincolatività della decisione emanata dalle Autorità nazionali nel giudizio civile di ri- disciplina antitrust in italia: si può fare?, in Danno e resp., 2012, 8-9, p. 824), con l’intento di trovare una forma di compatibilità tra la norma in questione ed i sopracitati principi fondamentali, non ha ritenuto possibile attribuire efficacia vincolante alle decisioni della Commissione, che possono avere, al più, il valore di “prova particolarmente pregnante”. Secondo tale ordine di idee, i fatti accertati da una decisione della Commissione sarebbero suscettibili di essere sconfessati da prova contraria. Tale interpretazione dell’art. 16 del regolamento 1/2003 non convince appieno in quanto eccessivamente “creativa” e lontana dal tenore letterale della norma, che fa indubbio riferimento ad un vincolo che viene stabilito dalle decisioni della Commissione. (16) Corte Giust. uE, causa C-344/98, masterfoods ltd c. HB Ice cream ltd, su eur-lex.europa.eu, punto 49 “inoltre, dalla giurisprudenza della Corte emerge che l'obbligo, imposto agli Stati membri dal- l'art. 5 del Trattato, di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l'adempimento degli obblighi derivanti dal diritto euro-unitario e di astenersi dall'adottare i provvedimenti che possono mettere in pericolo la realizzazione degli scopi del Trattato vale per tutti gli organi degli Stati membri, ivi compresi, nell'ambito di loro competenza, quelli giurisdizionali”. DoTTrinA 255 sarcimento del danno, la Corte di Cassazione, partendo dal considerare la decisione dell’AGCM quale “prova privilegiata”, era arrivata nelle pronunce più recenti ad estendere notevolmente (forse eccessivamente) l’efficacia probatoria della decisione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, riducendo, da un lato, gli oneri di parte attrice ad una minimale allegazione e, dall’altro, rendendo soverchiamente difficile (se non praticamente impossibile) la difesa dell’impresa convenuta nei giudizi follow on. Anzitutto, il procedimento iniziato dall’Autorità Garante delle Concorrenza e del Mercato (così come la sua eventuale appendice giurisdizionale) ed il giudizio civile di risarcimento dal danno sono stati tradizionalmente ritenuti nel nostro ordinamento indipendenti l’uno dall’altro (17). Come rilevato anche dalla giurisprudenza (18), infatti, i due procedimenti hanno funzionalità differenti, seppur affini: l’AGCM cura l’interesse pubblico dato dal corretto funzionamento del mercato, mentre la cognizione del giudice civile ha ad oggetto il diritto al risarcimento del danno cagionato dalla lesione di un “interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del […] carattere competitivo del mercato, al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere” (19). insomma, il procedimento amministrativo ed il giudizio civile di risarcimento del danno hanno formalmente corso (almeno fino all’entra in vigore della direttiva) su due binari paralleli. non a caso veniva esclusa ogni forma di sospensione del processo civile in pendenza sia del procedimento amministrativo (20) che delle sue eventuali appendici giurisdizionali (21), a differenza (17) Sul punto frATEA, Il private enforcement del diritto della concorrenza dell’unione europea, EDi, 2015, pp. 213-215; rorDorf, Il ruolo del giudice, cit.; TroTTA, Il rapporto, cit., p. 363. (18) Cass., SS.uu., del 4 febbraio 2005, n. 2207, su www.pa.leggiditalia.it. Tale arresto delle Sezioni unite è di cruciale importanza perché i giudici di legittimità, cassando la sentenza di merito, hanno ritenuto legittimati attivi ex art. 33 legge n. 287/1990 non solo gli imprenditori danneggiati, ma anche i consumatori, atteso che “la legge antitrust non è la legge degli imprenditori soltanto, ma è la legge dei soggetti del mercato”. Par tali motivi, la Corte rileva come, mentre il giudizio innanzi al giudice civile sia volto alla tutela di un interesse individuale del danneggiato dalla condotta anticoncorrenziale, il procedimento amministrativo abbia come preminente obiettivo la tutela “di un più generale bene giuridico” costituito da “la struttura concorrenziale del mercato di riferimento”. Sulla diversità di presupposti e di fini del private enforcement rispetto al public enforcement e sulla consapevolezza di queste differenze da parte del legislatore euro-unitario nell’elaborazione della Direttiva in dottrina si veda MAlAGoli, Il risarcimento del danno da pratiche anticoncorrenziali alla luce della direttiva 104/2014/UE del 26 novembre 2014, in Contratto e Impresa. Europa, 1, 2015, p. 393. (19) Cass., SS.uu., del 4 febbraio 2005, n. 2207. (20) rorDorf, Il ruolo del giudice, cit.; liBErTini, Il ruolo del giudice nell'applicazione delle norme antitrust, in Giur. Comm., 1998, p. 659; TroTTA, Il rapporto, cit., p. 363; CASTElli, Disciplina antitrust, cit., pp. 104-111; nEGri, Giurisdizione e amministrazione nella tutela della concorrenza, Giappicchelli, 2006, pp. 141-145. in giurisprudenza si veda Cass. SS.uu. del 13 febbrario 2009, n. 3640, su www.pa.leggiditalia.it, che ha definito il giudizio di private enforcement “un binario percorribile in via autonoma rispetto alla tutela in via amministrativa”. (21) Su questo punto vi è però chi, (liBErTini, Il ruolo del giudice, cit.) ritenendo già prima della direttiva che il provvedimento dell’AGCM avesse efficacia vincolante nel processo civile conseguente, rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 di quanto previsto espressamente dall’art. 16 del regolamento 1/2003 che, con riferimento ai procedimenti iniziati dalla Commissione, si spinge fino a prevedere una peculiare ipotesi di sospensione facoltativa del giudizio civile in pendenza del procedimento amministrativo (22). in tale quadro normativo le Sezioni unite, avanzando nel solco già tracciato dalla sentenza n. 2207 del 2005 (23), hanno sancito con sentenza 3640 del 2009 (24) che la decisione dell’Autorità Garante delle Concorrenza e del Mercato (pur non definitiva) era da considerarsi quale “prova privilegiata della sussistenza del comportamento accertato o della posizione rivestita e del suo abuso”. la sentenza, nonostante la creazione della figura, dai contorni indefiniti, della prova atipica “privilegiata”, appariva tutto sommato abbastanza equilibrata e tarata sulle peculiarità del procedimento di private enforcement (25). la decisione dell’AGCM costituiva (soprattutto in virtù della natura estremamente tecnica dell’Autorità e dei suoi incisivi e penetranti poteri istruttori) prova privilegiata (26) del comportamento anticoncorrenziale, potendo l’A.g.o. solamente disapplicarlo, giungeva a riconoscere un rapporto di pregiudizialità/dipendenza tra il provvedimento amministrativo ed il giudizio follow on e, conseguentemente, a ritenere che in pendenza del giudizio amministrativo di impugnazione quello civile dovesse essere sospeso ex art. 295 c.p.c. Si ritiene di non condividere questa impostazione per due ordini di ragioni: innanzitutto, perché la legge nazionale non prevedeva alcun vincolo in capo al giudice civile, e, secondariamente, perché il fatto costitutivo del diritto al risarcimento del danno è costituito dalla violazione delle norme antitrust, oggetto di accertamento da parte del giudice civile, non dal provvedimento amministrativo. Per tali ragioni deve ritenersi che, almeno fino alla trasposizione della direttiva 104/2014/uE, nell’ordinamento nazionale non vi fosse alcuna “pregiudizialità amministrativa”. (22) c.f.r. nota n. 14. (23) Cass. SS.uu. del 4 febbraio 2005, n. 2207, su www.pa.leggiditalia.it., vedi nota n. 16. (24) Cass. SS.uu. del 13 febbrario 2009, n. 3640. (25) friGnAni, La cassazione prosegue l'erosione del diritto di difesa nelle cause risarcitorie antitrust follow on, in Diritto e fiscalità dell'assicurazione, fasc. 3, 2013, p. 291. l’Autore, nonostante critichi il concetto di prova privilegiata, riconosce in ogni modo che le conclusioni della Corte di Cassazione si rivelavano di grande equilibrio laddove avevano limitato l’efficacia del “privilegio” probatorio alla sola condotta; della stessa opinione nEGri, Giurisdizione e amministrazione nella tutela della concorrenza, Vol. ii, La tutela della concorrenza innanzi al giudice civile, Giappicchelli, 2012, pp. 306-307. (26) Vi è chi aveva concepito (CHiEPPA, Il recepimento, cit.; VillA, L’attuazione della direttiva sul risarcimento del danno per violazione delle norme sulla concorrenza, in Corriere Giur., 2017, 4, p. 441) la prova privilegiata alla stregua di una presunzione semplice. in realtà, era stato correttamente rilevato (CASTElli, Disciplina antitrust, cit., pp. 112-116) come la prova privilegiata non avrebbe potuto considerarsi una presunzione in quanto il fatto noto (la violazione delle norme antitrust) avrebbe avuto il medesimo contenuto del fatto ignoto da provare. in aggiunta, l’A. da ultimo citato, avendo accolto la distinzione tra oneri di allegazione e oneri probatori e avendo ricompreso la produzione della decisione dell’AGCM nell’ambito degli oneri di allegazione, considerava la prova privilegiata riconducibile alla figura della c.d. presunzione impropria o verità interinale, atteso che l’efficacia del provvedimento del- l’AGCM nel processo civile avrebbe fatto ritenere provato il comportamento anticoncorrenziale fino a prova contraria. Tale concezione avrebbe fatto riferimento, dunque, ad una regola di inversione dell’onere della prova, ovvero ad una deroga all’art. 2697 c.c., che potrebbe, in realtà, essere disposta solo dalla legge, non anche dal giudice. Al contempo, a prescindere dalla distinzione tra oneri di allegazione e oneri probatori non può non rilevarsi come il provvedimento dell’AGCM, nella lettura della Suprema DoTTrinA 257 ovvero prova dotata di un’efficacia logico -persuasiva maggiore rispetto alle prove “ordinarie” (27). Tale soluzione teneva conto dell’asimmetria informativa in cui si trova la parte attrice nei procedimenti di private enforcement, della natura degli atti dell’AGCM nonché dei diritti di difesa dell’impresa convenuta, considerato che la peculiare efficacia probatoria della decisione dell’AGCM veniva limitata al solo “comportamento” anticoncorrenziale e che le Sezioni unite avevano premura di precisare come “nel giudizio in sede civile è possibile offrire sia prove a sostegno di tale accertamento (quello dell’AGCM n.d.r), che riguardino più direttamente la posizione del singolo danneggiato, sia prove contrarie”. in definitiva, la “prova privilegiata” nel- l’ottica delle Sezioni unite del 2009 costituiva una prova particolarmente pregnante ma, comunque, superabile. in aggiunta, la Corte di Cassazione, già a partire dal 2007 (28) aveva fondato sul provvedimento dell’AGCM anche la presunzione (29) della sussistenza del danno e del nesso di causalità. Ad esempio, con riferimento ad un filone di pronunce del 2011 (30) concernenti domande di risarcimento del danno cagionato da un’intesa tra alcune compagnie assicurative, la Corte di Cassazione ha ritenuto che “il provvedimento sanzionatorio non ha accertato […] solo il carattere potenzialmente lesivo dei benefici della concorrenza e degli interessi economici dei consumatori, ma anche che tale comportamento ha prodotto un'ingente ed ingiustificata lievitazione dei premi sul mercato generale italiano delle polizze rCA” e che, dunque, “l'assicurato che agisca in risarcimento dei danni […] ha il diritto di avvalersi della presunzione che il premio sia stato indebitamente aumentato per effetto del comportamento collusivo” (31). Corte, restava pur sempre una prova, quindi soggetta al principio dispositivo ed espressione dell’art. 2697 c.c. Per un’analisi sui rapporti tra prova, presunzione e presunzione impropria si rinvia a PATTi, Probatio e praesumptio: attualità di un'antica contrapposizione, in riv. Dir. Civ., 2001, 4, p. 1047. (27) in realtà, come rileva la dottrina processualcivilistica, (ConSolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, ii, Giappichelli, Torino, 2014, pp. 294-295) identificare esattamente l’efficacia logico persuasiva di un singolo elemento di prova è cosa ardua. normalmente il giudice, in base al suo “prudente apprezzamento” considera alcune prove più o meno pregnanti di altre, secondo quelle che sono le circostanze di fatto e di diritto oggetto del giudizio. in definitiva, volendo dare una definizione di prova privilegiata, che non può non scontare un margine di approssimazione, potremmo dire che prova privilegiata è quella particolare prova che il giudice deve tenere in preminente considerazione ai fini del decidere, potendo essere superata solo da un insieme di prove che, unitamente considerate, siano idonee a superare il fatto così come accertato dall’AGCM. (28) Cass. del 2 febbraio 2007, n. 2305, su www.pa.leggiditalia.it. (29) Secondo nEGri (Giurisdizione e amministrazione, Vol. ii, cit., pp. 321-322) più che una presunzione la Suprema Corte avrebbe elaborato una prova prima facie, per mezzo di ciò si ritiene verosimile la sussistenza del nesso di causalità e del danno a fronte di un’ipotesi tipica costituita dell’accertamento dell’AGCM. Sulla prova prima facie c.f.r. nota n. 62. (30) Solo per citarne alcune, Cass. del 10 maggio 2001, n. 10211, su www.pa.leggiditalia.it; Cass. del 18 agosto 2011, n. 17362, su www.pa.leggiditalia.it; Cass. 22 settembre 2011, n. 19262, su www.pa.leggiditalia.it. rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 insomma, alla decisione dell’Autorità garante è stato attribuito, oltre che efficacia di “prova privilegiata” con riferimento alla condotta anticoncorrenziale dell’impresa, anche valore presuntivo della sussistenza del nesso causale e del danno. in aggiunta, non si dimentichi che la dottrina maggioritaria e la giurisprudenza ritenevano (e ritengono ancor oggi) di applicare per analogia ai giudizi di private enforcement l’art. 2600 c.c. (32), secondo il quale provato l’elemento oggettivo dell’illecito, quello soggettivo si presume. Ciò detto, può ben comprendersi come, di fatto, gli oneri di allegazione e di prova di parte attrice erano stati da quest’orientamento ridotti a ben poca cosa (33). E di questo “stato dell’arte” ne è stata ben consapevole la Corte di Cassazione quando, sempre con riferimento al caso rC auto, ha affermato che “Per ottenere il risarcimento dei danni l'assicurato ha (solamente n.d.r) l'onere di allegare la polizza assicurativa contratta (quale manifestazione della condotta finale del preteso danneggiante) e l'accertamento in sede amministrativa della partecipazione dell'assicuratore all'intesa anticoncorrenziale (quale condotta preparatoria)” (34), in quanto “il Provvedimento dell'AGCM offre tutti i dati probabilistici e presuntivi che, ai sensi della pronuncia n. 2305/2007 di questa Corte, valgono a dimostrare che il premio applicato in polizza all'assicurato, nel periodo in cui la compagnia è stata ritenuta partecipe del comportamento collusivo, è ingiustificatamente elevato, nella misura indicata” (35). il sistema sarebbe potuto sembrare comunque ben calibrato (atteso che, venendo comunque riconosciuta all’impresa la prova contraria, l’efficacia riconosciuta al provvedimento dell’AGCM era pur sempre superabile) (36) se non fosse che le stesse sentenze del 2011, intervenendo sulla misura della (31) nello specifico, Cass. del 18 agosto 2011, n. 17362, ripresa con formulazione analoga anche negli arresti citati nella precedente nota. (32) c.f.r. nota n. 2. (33) Con riferimento agli oneri di allegazione DE CriSTofAro (Onere probatorio e disciplina delle prove, cit.) fa notare come, anche a fronte di quanto disposto nella direttiva 104/2014/uE e viste le peculiarità del procedimento di private enforcement, si dovrebbe distinguere tra i vizi dell’atto di citazione che attengono alla assoluta mancanza di indicazione degli elementi di cui all’art. 163 n. 4, che rendono inintellegibile la domanda ed integrano un’ipotesi di nullità, e vizi di solo insufficiente indicazione della causa petendi, ai quali non dovrebbe conseguire la nullità della domanda, atteso che “la disciplina processuale deve infatti plasmarsi sulle peculiarità di un contenzioso che strutturalmente trova e ritrae proprio nel corso del processo - a valle e non a monte dell'istruttoria (di contro a quanto prefigurato dalla scansione delle memorie ex art. 183, co. 6, c.p.c.) - gli elementi individuatori delle condotte censurate su cui si dipanerà il contraddittorio: e ciò in grazia dello strutturale irrobustimento delle fonti di acquisizione probatoria dalla controparte e da terzi, ed altresì della necessaria “curvatura” proattiva che debbono assumere i tradizionali, e “limitati”, istituti processuali”. (34) Cass. del 2 febbraio 2007, n. 2305. (35) Cass. del 18 agosto 2011, n. 17362. (36) Come ha stabilito la sentenza n. 2305 del 2007 ritenendo che “quanto, poi, al nesso causale, il giudice potrà accertarne l'esistenza in termini probabilistici o presuntivi, ma […] dovrà consentire al- l'assicuratore di provare contro le presunzioni o contro la sequenza probabilistica posta a base del ragionamento che fa derivare il danno dall'intesa illecita”. DoTTrinA 259 prova contraria, giungevano a conclusioni che, oltre a non essere previste nemmeno implicitamente dal dato normativo, dimidiavano notevolmente (rectius eccessivamente) i diritti di difesa delle imprese convenute. Anzitutto, le sentenze del 2011, infatti, hanno affermato che “la prova dell’insussistenza del nesso causale non può essere tratta da considerazioni di carattere generale attinenti ai dati che influiscono sulla formazione dei premi nel mercato generale delle polizze assicurative, ma deve riguardare situazioni e comportamenti che siano specifici dell'impresa interessata: che attengano, cioè, alla singola impresa assicuratrice, al singolo assicurato od alla singola polizza, che siano tali da dimostrare che -nel caso oggetto di esame -il livello del premio non è stato determinato dalla partecipazione all'intesa illecita, ma da altri fattori” (37). Tale prima conclusione non avrebbe dovuto suscitare eccessive perplessità in dottrina (38) se solo si considera che, potendosi l’attore avvalere della presunzione del nesso di causalità data dall’accertamento della condotta anticoncorrenziale da parte dell’AGCM, la prova contraria del convenuto avrebbe dovuto vertere naturaliter su circostanze peculiari e relative alla specifica situazione di fatto tali da sconfessare il ragionamento inferenziale, di per sé generale ed astratto, ammesso dalle pronunce della Corte di Cassazione. foriero di maggiori problematiche è stato l’orientamento della Corte di Cassazione quando ha stabilito che, “Quanto all'efficacia probatoria degli accertamenti dell'AGCM, in primo luogo questa Corte ha rilevato che il ruolo di prova privilegiata degli atti del procedimento pubblicistico condotto dal- l'Autorità Garante, e poi in sede di giustizia amministrativa […] pur non precludendo la facoltà, per la compagnia assicuratrice, di fornire la prova contraria, impedisce che possano rimettersi in discussione proprio i fatti costitutivi dell'affermazione di sussistenza della violazione della normativa in tema di concorrenza, in base allo stesso materiale probatorio od alle stesse argomentazioni già disattesi in quella sede” (39). il ragionamento della corte di Cassazione pare abbastanza fariseo laddove, facendo formalmente salvo il diritto alla prova contraria dell’impresa convenuta, ritiene non possano rimettersi in discussione oltre alle valutazioni che l’Autorità Garante ha dato delle prove presentate in sede amministrativa, financo le argomentazioni della stessa. le conclusioni a cui giunge la Suprema Corte si sgretolano al vaglio dei principi che regolano il processo civile. (37) Per tutte, Cass. n. 10211 del 2011. (38) Secondo friGnAni (La cassazione, cit.) vi sarebbe nel ragionamento della corte un’accentuata sproporzione tra le prove “generiche” sufficienti ad accogliere la domanda dell’attore e le prove specifiche richieste al convenuto. (39) Cass. del 9 maggio 2012, n. 7039, in www.pa.leggiditalia.it. rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 Anzitutto, vengono gravemente pregiudicati i diritti di difesa della parte convenuta. Questa, non solo si trova parte in un procedimento in cui è sostanzialmente tenuta, più che a difendersi dalle argomentazioni e dalle prove fornite da parte attrice, a giocare “all’attacco”, dovendo in sostanza sconfessare le conclusioni dell’AGCM concernenti il comportamento anticoncorrenziale e dimostrare l’insussistenza del nesso di causalità, ma non può nemmeno avvalersi delle prove sulla base delle quali l’Autorità Garante ha già giudicato o rimettere in discussione le argomentazioni sulla base delle quali la stessa ha deciso. il provvedimento definitivo dell’AGCM configura in sede civile una sorta di “preclusione del dedotto” che non consente alla parte convenuta di esplicare a pieno i propri diritti di difesa (40). Da quanto detto consegue un’ulteriore considerazione: i risultati a cui giunge l’interpretazione della Corte di Cassazione, a meno di non voler cadere in un artificioso formalismo (41), pongono in capo al giudice civile un vincolo rispetto a quanto stabilito dall’AGCM. il giudice, infatti, non può discostarsi dalle conclusioni e dalle argomentazioni cui è giunta l’Autorità sulla base delle prove prodotte nel procedimento amministrativo. Potrebbe addivenire a risultati differenti, sempre in base a fatti nuovi o a nuove prove, ammesso e non concesso che l’impresa ne alleghi o ne produca. in definitiva, la Suprema Corte, già prima dell’entrata in vigore della direttiva e della sua trasposizione nell’ordinamento italiano, aveva di fatto riconosciuto al provvedimento definitivo dell’AGCM un’autorità che, al di là delle formule pedissequamente seguite dalla giurisprudenza, era ben più “ingombrante” di quella di prova privilegiata e presuntiva, addivenendo a sottrarre alla cognizione del giudice civile tutto ciò che era stato dedotto dinanzi all’AGCM. Quest’ultima, sebbene dotata di mezzi “tecnici” tali da rendere particolarmente pregnante un suo provvedimento, è pur sempre un’authority, non un giudice (42). in aggiunta, non si dimentichi che tale evoluzione si è affermata esclusivamente per via (40) Sollevando rilevanti problemi di compatibilità con i diritti di difesa e con i principi del giusto processo sanciti dalla Costituzione e dagli strumenti sovranazionali (art. 6 CEDu e artt. 47 e 48 della Carta di nizza) come rilevato da frATEA (Il private enforcement, cit.), p. 221; rorDorf (Il ruolo del giudice, cit.) non ha mancato di rilevare come l’orientamento della Suprema Corte non appaia “del tutto in linea col principio dell’autonomia decisionale del giudice, pur sempre formalmente richiamato anche nelle pronunce ora citate, ravvisandosi il rischio di trasformare impropriamente il procedimento che si svolge dinanzi all’autorità garante in una vera e propria fase del giudizio sulla responsabilità civile, idonea a generare preclusioni nel successivo processo giurisdizionale”. (41) Appare eccessivamente formale la lettura della citata giurisprudenza fornita da VASQuES (Private enforcement, cit.), secondo il quale la Cassazione non riconoscerebbe alcuna efficacia preclusiva alla decisione dell’AGCM applicando alle controversie follow on solo “le normali regole in tema di prove”. in realtà, come si cerca di dimostrare in questa pagine, le indicazioni della giurisprudenza di legittimità, calate nella materialità delle azioni follow on, producono un vincolo in capo al giudice civile e restringono al di là di ogni ragionevole misura i diritti di difesa della parte convenuta. (42) Sulla natura dell’AGCM si rinvia alle esaustive considerazioni di nEGri, Giurisdizione e amministrazione, pp. 1-20. DoTTrinA 261 pretorile, nulla dicendo la legge che per tale silenzio riconosceva l’autonomia del giudizio civile rispetto agli accertamenti dell’AGCM (43). A tal proposito si rivelano estremamente fondate le considerazioni di chi (44), in maniera molto realistica, aveva rilevato come nei giudizi follow on, salvo l’allegazione di nuovi fatti, il giudice civile fosse stato degradato a mero liquidatore di un danno già accertato altrove. la situazione della parte convenuta nei giudizi follow on appare ancor più penalizzante se solo si tiene in considerazione che, sebbene il provvedimento dell’AGCM possa essere impugnato dinanzi agli organi di giustizia amministrativa, questi svolgono sul provvedimento un sindacato c.d. “debole” che può portare il giudice a rimodulare la sanzione (45) ma non a sostituirsi all’Amministrazione con riferimento alle valutazioni connotate da un “margine di opinabilità” (46). Dunque, riannodando i fili di quanto detto, le valutazioni dotate di un “margine di opinabilità”, non possono essere sindacate né dal giudice amministrativo, né tantomeno da quello civile, ma vegono definite, in maniera incontestabile, dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, con buona pace dei diritti di difesa dei convenuti e della soggezione, solo alla legge, del giudice (47). (43) Per una veemente critica all’orientamento della Suprema Corte v. friGnAni, La cassazione, cit. (44) Ibidem. (45) l’art. 133, comma 1, lettera l del codice del processo amministrativo attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo “le controversie aventi ad oggetto tutti i provvedimenti, compresi quelli sanzionatori ed esclusi quelli inerenti ai rapporti d’impiego privatizzati, adottati […] dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato”. l’art. 134, comma 1, lettera c, estende la giurisdizione del giudice amministrativo al merito qualora si faccia oggetto delle “sanzioni pecuniarie la cui contestazione è devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo, comprese quelle applicate dalle Autorità amministrative indipendenti e quelle previste dall’articolo 123”. (46) Solo per citarne alcune, Cons. St., sez. Vi, 9 febbraio 2011, n. 926, su www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. Vi, 6 maggio 2014, n. 2302, su www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, sez. iV, 10 dicembre 2014, n. 6050, su www.giustizia-amministrativa.it, secondo il quale “il sindacato di legittimità del giudice amministrativo sui provvedimenti dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento del provvedimento impugnato e si estende anche ai profili tecnici, il cui esame sia necessario per giudicarne della legittimità, salvo non includano valutazioni ed apprezzamenti che presentano un oggettivo margine di opinabilità (come nel caso della definizione di mercato rilevante nell'accertamento di intese restrittive della concorrenza), nel qual caso il sindacato, oltre che in un controllo di ragionevolezza, logicità e coerenza della motivazione del provvedimento impugnato, è limitato alla verifica della non esorbitanza dai suddetti margini di opinabilità, non potendo il giudice sostituire il proprio apprezzamento a quello dell'Autorità Garante”. Sul punto si veda lEoni La tutela giurisdizionale contro gli atti dell’aGCm in materia antitrust, in l.f. PACE (a cura di), Dizionario sistematico, cit., p. 419. (47) Secondo SirAGuSA (L’effetto delle decisioni delle autorità nazionali della concorrenza nei giudizi per il risarcimento del danno: la proposta della commissione ed il suo impatto nell’ordinamento italiano, in Concorrenza e mercato, 2014, p. 297), “l’oggetto della prova ne esce a tal punto limitato che l’insieme delle considerazioni formulate dall’AGCM, a prescindere dalla loro effettiva rilevanza ai fini dell’accertamento dell’infrazione, vanno a comporre un impenetrabile reticolo da cui difficilmente rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 in aggiunta, le Sentenze del 2011 producono un corto circuito logico nella stessa giurisprudenza della Suprema Corte. infatti, mentre la sentenza n. 2305 del 2007 aveva escluso che l’accertamento dell’AGCM giustificasse la sussistenza del danno in re ipsa (la Cassazione definì tale conseguenza “aberrante”) (48), le sentenze del 2011 sostanzialmente lo ripropongono se si pensa che la parte convenuta può escludere la sua responsabilità solo introducendo nel giudizio civile prove “nuove”. il che, a contrario, equivale a dire che se la parte convenuta non ha disponibilità di queste prove (forse perché utilizzate nella difesa dinanzi all’AGCM), questa sarà sicuramente condannata a risarcire il danno. 3. La trasposizione della direttiva nell’ordinamento italiano: innovazioni e problemi di compatibilità con i principi fondamentali dell’ordinamento. Su tale stato dell’arte è intervenuta la direttiva europea 2014/104/uE, trasposta in italia nel d.lgs. n. 3 del 2017. È necessario definire la portata delle innovazioni introdotte dalla direttiva per ben comprendere come queste possano essere efficacemente fatte proprie dall’ordinamento nazionale. Anzitutto, l’art. 9 della direttiva (49) è stato trasposto, in termini sostanzialmente analoghi a quelli adottati dal legislatore europeo, nell’art. 7 del d.lgs. n. 3 del 2017, ai sensi del quale “Ai fini dell'azione per il risarcimento del danno si ritiene definitivamente accertata, nei confronti dell'autore, la violazione del diritto della concorrenza constatata da una decisione dell'autorità garante della concorrenza e del mercato di cui all'articolo 10 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, non più soggetta ad impugnazione (50) davanti al giudice del ricorso, o da una sentenza del giudice del ricorso passata in giudicato”. in il convenuto riuscirà a districarsi”. Considerazioni confermate da VillA, (La direttiva europea, cit.). Quest’ultimo autore, infatti, riconosce che il nostro sistema, seppur formalmente non dispone la vincolatività del provvedimento antitrust dinanzi al giudice civile di fatto “rende incontestabili le determinazioni dell’AGCM su alcune determinazioni del fatto illecito”. in aggiunta, in vista della trasposizione nell’ordinamento interno dell’art. 9 della Direttiva 104/2014/uE l’Autore non manca di rilevare come “È chiaro tuttavia che il valore vincolante della decisione si armonizza con le garanzie di tutela se, prima di approdare al giudizio risarcitorio, la parte ha la possibilità di sottoporre ad un controllo giurisdizionale esteso la decisione che diverrà insindacabile davanti al giudice civile; se il controllo mantiene limitazioni, le perplessità sollevate dalla Corte Europea dei Diritti dell'uomo nei due casi prima richiamati rischiano di minare la legittimità dell'intero impianto normativo. Siamo qui di fronte ad uno snodo centrale per l'attuazione della Direttiva, che coinvolge questioni di portata generale: solo una possibilità di difesa accordata al privato in termini ampi potrà consentire di ritenere vincolante il provvedimento senza generare il rischio di strappi al sistema costituzionale interno e alle garanzie riconosciute a livello continentale”. (48) Tale rilievo viene messo in luce da VozzA, rc auto e intese anticoncorrenziali: la presunzione legale del provvedimento sanzionatorio -il commento, in Danno e responsabilità, 2015, 2, p. 151; frA- TEA, Il private enforcement, cit., p. 221. (49) Alcuni stati membri come regno unito e Germania avevano già previsto prima dell'entrata in vigore della direttiva la vincolatività della decisione delle autorità nazionali nei processi civili. in Germania era stata addirittura prevista la vincolatività anche delle decisioni straniere. riguardo que- st’ultimo profilo si rinvia alle considerazioni di nEGri, Giurisdizione e amministrazione, cit., pp. 109120. DoTTrinA 263 aggiunta, in maniera molto accorta, il legislatore nazionale ha precisato che “Quanto previsto al primo periodo riguarda la natura della violazione e la sua portata materiale, personale, temporale e territoriale, ma non il nesso di causalità e l'esistenza del danno” (51). Ci si potrebbe chiedere se, nonostante il vincolo costituito della decisione dell’AGCM non si estenda né al nesso di causalità né all’esistenza del danno, possa comunque applicarsi quella giurisprudenza che ante direttiva aveva dotato la decisione dell’autorità garante di efficacia di prova presuntiva con riferimento ai suddetti elementi della fattispecie. Tale conclusione deve escludersi in quanto, laddove la direttiva ha voluto estendere l’efficacia della decisione dell’AGCM al nesso di causalità e al danno lo ha fatto, come all’art. 17, secondo il quale “Si presume che le violazioni consistenti in cartelli causino un danno. l'autore della violazione ha il diritto di fornire prova contraria a tale presunzione (52)” (in termini analoghi, l’art. 14 del d.lgs n. 3 del 2017). insomma, l’efficacia di prova presuntiva con riferimento al nesso di causalità ed al danno può valere con riferimento ai cartelli, ma non alle altre fattispecie anticoncorrenziali per le quali nulla è previsto (53). in aggiunta, non si dimentichi che ai sensi del considerando n. 47 “È opportuno limitare ai cartelli questa presunzione relativa, dato il loro carattere segreto che aumenta l'asimmetria informativa e rende più difficile per l'attore ottenere le prove necessarie per dimostrare il danno subito”. Ciò posto, si dubita vi siano consistenti ragioni giuridiche per discostarsi dalla valutazione di “opportunità” del considerando. (50) Accogliendo gli inviti di autorevole dottrina (ex multis CHiEPPA, Il recepimento, cit.) che riteneva come il riferimento dell’art. 9 della direttiva alla “decisione definitiva relativa ad un’infrazione” dovesse essere letta ricomprendendo non solo quelle decisioni divenute definitive per esaurimento dei mezzi di impugnazione ma anche quelle divenute inoppugnabili. (51) Parte della dottrina era già giunta a tali conclusioni interpretando l’art. 9 della direttiva. Ex multis, SirACuSA (L’effetto delle decisioni, cit.) non aveva mancato di rilevare come il vincolo disposto dall’art. 9 dovesse essere limitato “alle determinazioni dell’AnC concernenti gli elementi costitutivi dell’infrazione, quali la definizione di mercato rilevante, l’esistenza di un’intesa o di una posizione dominante, le parti coinvolte. Qualsiasi altra valutazione non essenziale ai fini della contestazione di un’infrazione, anche se inclusa nella decisione definitiva dell’AnC, dovrebbe essere considerata come «incidentale» e di conseguenza come irrilevante”. l’autore dimostra di accogliere la distinzione elaborata dai giudici del regno unito (dove già prima dell’entrata in vigore della direttiva era stata prevista la vincolatività della decisione dell’autorità nazionale della concorrenza, v. nota 49) tra accertamenti essenziali ai fini dell’accertamento dell’infrazione e accertamenti periferici o incidentali; CHiEPPA, (Il recepimento, cit.) secondo il quale, quandanche la decisione dell’AGCM si spinga a considerare gli effetti della condotta anticoncorrenziale “l'effetto vincolante si estenderà all'accertamento che l'illecito ha prodotto effetti ma non potrà ovviamente dilatarsi sino a comprendere la valutazione dello specifico nesso di causalità, né l'esistenza o la quantificazione del danno”. (52) Per un commento a questa norma, PArDolESi, Note minime in tema di nesso di causalità, in Concorrenza e mercato, 2014, p. 317. (53) Giunge alle stesse conclusioni VinCrE, La direttiva 2014/104/UE sulla domanda di risarcimento del danno per violazione delle norme antitrust nel processo civile, in riv. Dir. Proc., 2015, 4-5, p. 1153. rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 Conseguentemente, deve ritenersi definitivamente superata quella giurisprudenza della Corte di Cassazione (da rifiutarsi, per i motivi già esposti, già in assenza della direttiva) che aveva notevolmente ristretto le chances di prova contraria nei confronti della presunzione del nesso di causalità e del danno. Sia la direttiva che il decreto legislativo di attuazione, infatti, con riferimento ai cartelli fanno salvo il pieno diritto alla prova contraria dell’impresa. in aggiunta, la limitazione della prova contraria contrasterebbe con la lettera della direttiva atteso che questa limita espressamente il vincolo al giudice civile alla “violazione del diritto della concorrenza definitivamente constata da una decisione definitiva”. Ciò posto, qualora si accogliesse la giurisprudenza delle Sezioni unite del 2011 la latitudine del vincolo dell’AGCM si estenderebbe non solo alla violazione bensì anche agli accertamenti che hanno riguardato il nesso causale e il danno, contravvenendo sia all’art. 9 che all’art. 17 della direttiva, atteso che quest’ultimo articolo introduce, in realtà, solo una “ordinaria” presunzione relativa. A questo punto, atteso che la direttiva concerne unicamente le decisioni definitive dell’AGCM, ci si potrebbe chiedere se alle decisioni non definitive potrà riconoscersi (con esclusivo riferimento all’elemento oggettivo della violazione) quel valore di prova privilegiata che le era stato riconosciuto già prima dell’intervento del legislatore europeo. la questione, che dovrà essere risolta dalla giurisprudenza, risente comunque della nozione fluida ed indefinita di prova privilegiata. nulla osterebbe a che si continui a considerare la decisione dell’AGCM prova privilegiata. Allo stesso tempo però, anche qualora non si volesse condividere questa opinione non potrebbe comunque negarsi che, di fatto, quanto accertato dall’Autorità in sede amministrativa possa essere tenuto in preminente considerazione dal giudice civile investito di una domanda di risarcimento del danno, indipendentemente dall’etichettare o meno la decisione dell’AGCM come prova privilegiata (ammesso che ci si intenda, cosa molto difficile, riguardo al concetto di prova privilegiata) (54). Poste queste necessarie premesse, ci si deve a questo punto interrogare su che tipo di vincolo è stato introdotto in capo al giudice civile da parte della direttiva. orbene, prima di esaminare funditus tale questione, è necessario tenere a mente che, come è noto, le direttive europee fissano un risultato, e che spetta agli ordinamenti nazionali predisporre le forme ed i mezzi (o utilizzare quelli che vi sono) per conseguirlo. Ciò posto, ai sensi della direttiva 104/2014/uE gli ordinamenti nazionali devono assicurare che la decisione dell’AGCM vincoli il giudice civile nelle domande di risarcimento del danno follow on quanto all’accertamento della violazione delle norme della concorrenza. (54) c.f.r. nota n. 26. DoTTrinA 265 orbene, è ovvio che riconoscere efficacia di cosa giudicata alla decisioni decisive dell’AGCM, anche laddove confermate dal giudice amministrativo (55), potrebbe collidere con i principi costituzionali del nostro ordinamento (56) (primo fra tutti quello dell’indipendenza e della soggezione del giudice solo alla legge), fino a chiamare in causa la nota teoria dei “controlimiti ” (57). Ci si potrebbe chiedere, però, se alla decisione dell’AGCM possa essere riconosciuto valore di prova legale, atta a vincolare il giudice con riferimento al fatto costituito dalla condotta anticoncorrenziale prevista dalle norme antitrust (58). Tale ricostruzione, oltre al pregio di non configgere frontalmente con norme costituzionali, si rivelerebbe anche più vicina alla ratio del legislatore europeo. Con riferimento al profilo in oggetto, infatti, la relazione che ha accompagnato la proposta di direttiva (così come il libro Bianco (59) ed il libro Verde che avevano aperto il dibattito che ne ha poi portato all’adozione) ricomprendeva espressamente (60) tra gli obiettivi dell’intervento normativo (55) Si fa qui riferimento a quella tradizionale giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo la quale in caso di sentenza di rigetto il rapporto sostanziale rimane comunque regolato dall’atto amministrativo, non anche dalla sentenza passata in giudicato (solo formale). Ex multis, Cons. Stato, sez. Vi, n. 7725 del 2003; Cons. Stato, sez. Vi, n. 580 del 1996 secondo il quale “la portata precettiva della sentenza del giudice amministrativo va individuata con riferimento non solo delle statuizioni formali contenute nel dispositivo, ma anche delle enunciazioni della motivazione dirette in modo univoco all'accertamento delle posizioni delle parti, solo quando il dispositivo della decisione di merito contenga comunque una pronuncia di accertamento o di condanna, ma non è estensibile al caso di rigetto della domanda o del gravame”. (56) rorDorf, Il ruolo del giudice, cit. (57) Corte Cost., n. 183 del 1973 su DeJure; Corte Cost. n. 170 del 1984 su DeJure; GiuSSAni, Direttiva e principi del processo civile italiano, in aIDa, fasc. 1, 2015, p. 251, secondo il quale “Se si considera che la garanzia dell'azione e del contraddittorio e la regola della soggezione del giudice alla sola legge costituiscono principi fondamentali dell'ordinamento idonei a prevalere, in caso di contrasto fra valori costituzionali, persino sul diritto internazionale consuetudinario, sembra quindi ragionevole prevedere che la teoria dei c.d. contro-limiti possa attenuare l'impatto del dettato dell'art. 9, c. 1, della Direttiva, a dispetto delle recenti propensioni, condivise dal legislatore italiano oltre che da quello europeo, al “respingimento” di quanti aspirano alla pienezza della tutela giurisdizionale”. (58) Per via del d.lgs. n. 3 del 2017 il legislatore avrebbe predeterminato “in via generale e astratta il valore che a quella prova deve essere attribuito” in quanto “le regole di prova legale eliminano cioè l'eventualità di una valutazione discrezionale da parte del giudice in ordine all'efficacia che va attribuita alla prova. Di solito si tratta di regole in funzione delle quali l'esito della prova è pieno ed incontestabile, sicché la prova produce la «verità legale» sul fatto. Si tratta dunque di regole che appartengono alla disciplina giuridica della prova” (TAruffo, Prova (in generale) nel processo civile, in Dig. iV, disc. priv. sez. civ., XV, Torino, 1997, pp. 5 ss.). insomma, si può ben ritenere che la decisione divenuta definitiva dell’AGCM, in virtù della sua composizione estremamente tecnica possa essere portatrice di “verità legale” sul (solo) fatto costituito dalla violazione delle norme antitrust. (59) “la Commissione non vede alcuna ragione per cui una decisione definitiva adottata ai sensi dell'articolo 81 o 82 da un'autorità nazionale della rete europea della concorrenza (ECn) e una sentenza definitiva emessa da una corte d'appello, che conferma la decisione dell'autorità nazionale o che constata essa stessa un'infrazione, non debbano essere accettate in ogni Stato membro come prova inconfutabile dell'infrazione in successive cause civili per il risarcimento dei danni antitrust”. (60) Secondo il paragrafo 4.3.1. della relazione che ha accompagnato la proposta di direttiva in rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 quello di riconoscere alle decisioni delle autorità nazionali un “effetto probatorio” vincolante. l’obiettivo del legislatore euro-unitario è stato, dunque, quello di riequilibrare gli oneri probatori nei giudizi di private enforcement al fine di garantire un effettivo diritto al risarcimento del danno per i soggetti danneggiati dalla violazione di norme antitrust (61). ulteriore conferma del fatto che l’intervento riformatore si sia mosso in un ambito essenzialmente probatorio potrebbe essere il riconoscimento dell’efficacia di prova prima facie (62) alle decisioni definitive provenienti da autorità nazionali di altri stati membri. insomma, la direttiva avrebbe inteso alleviare gli oneri probatori di parte attrice nei giudizi follow on riconoscendo efficacia di prova legale alle decisioni nazionali ed efficacia di prova prima facie a quelle spiccate da autorità straniere (63). Tale imposta- titolato “Effetto probatorio delle decisioni nazionali”, “Ai sensi dell'articolo 16, paragrafo 1, del regolamento n. 1/2003, una decisione della Commissione relativa a un procedimento d'applicazione degli articoli 101 o 102 del trattato ha un effetto probatorio nelle azioni per il risarcimento del danno intentate successivamente, poiché la giurisdizione nazionale non può prendere decisioni che siano in contrasto con quanto statuito dalla Commissione. È opportuno conferire un effetto simile alle decisioni definitive relative a un’infrazione adottate dalle autorità nazionali garanti della concorrenza (o da un’istanza di ricorso nazionale). Se una decisione relativa a un’infrazione è già stata adottata ed è divenuta definitiva, sarebbe inutile, per l'impresa autrice dell'infrazione, adire nuovamente il giudice sulle stesse questioni intentando successive azioni. Ciò causerebbe inoltre incertezza del diritto e genererebbe costi superflui per tutte le parti coinvolte e per la giustizia”. (61) Tale era anche l’auspicio di VinCrE (La direttiva 2014/104/UE, cit.) che nelle more di attuazione della direttiva ha sostenuto come “sarebbe più opportuno, e maggiormente compatibile con i principi e con l’impianto sistematico del nostro ordinamento processuale, che il legislatore italiano, nel recepire il precetto contenuto nell’art. 9, § 1, riconoscesse a tali accertamenti non gli effetti propri di un decisum, quanto piuttosto degli effetti diversi, quali quelli che attengono al campo probatorio (in senso ampio) del processo”. (62) riguardo al valore di prova delle decisioni delle attività straniere deve ritenersi che l’art. 7, comma 2, d.lgs. n. 3 del 2017 (secondo il quale “la decisione definitiva con cui una autorità nazionale garante della concorrenza o il giudice del ricorso di altro Stato membro accerta una violazione del diritto della concorrenza costituisce prova, nei confronti dell'autore, della natura della violazione e della sua portata materiale, personale, temporale e territoriale, valutabile insieme ad altre prove”) segni l’accoglimento nel nostro ordinamento della nozione di prima facie evidence tipica degli ordinamenti di common law e analoga a quella della anscheinsbeweis germanica (per un’analisi del concetto anscheinsbeweis o anche prima-facie-beweis si rimanda alle puntuali considerazioni di nEGri, (Giurisdizione e amministrazione nella tutela della concorrenza, cit., pp. 149-152.) la prova prima facie comporta un abbassamento degli standard probatori richiesti alla parte attrice implicando che il giudice italiano potrà “assestarsi” su una valutazione di “verosimiglianza” della violazione delle norme antitrust (e non anche del più gravoso id quod plerumque accidit) qualora la parte attrice produca in giudizio la decisione dell’autorità straniera, fermo restando, ovviamente, il diritto di prova contraria della parte convenuta. (63) Bisogna precisare che la proposta originaria della Commissione prevedeva l’efficacia vincolante anche delle decisioni delle autorità straniere, poi esclusa. Bisogna valutare positivamente questa esclusione atteso che, come opportunamente rilevato da CHiEPPA (Il recepimento, cit.), tale previsione avrebbe posto seri problemi di coordinamento con la dottrina dei contro-limiti con riferimento alle decisioni provenienti da quegli stati membri in cui il controllo giurisdizionale degli atti dell’AGCM non soddisfa quegli standard individuati dalla Corte EDu nella Sentenza menarini. Sulla compatibilità del sindacato del giudice amministrativo all’art. 6 della CEDu infra. DoTTrinA 267 zione avrebbe il pregio di ricostruire in maniera organica e lineare l’intervento legislativo. Al tal proposito è stato rilevato (64) come il legislatore euro-unitario, sebbene intendesse preliminarmente agire sul piano della prova, si sia tuttavia spinto oltre nella stesura della direttiva, facendo riferimento ad una vera e propria efficacia di accertamento laddove afferma che la violazione delle norme antitrust constatata da un’autorità nazionale deve ritenersi “definitivamente accertata” da parte del giudice civile. Ebbene, tale obiezione può essere agevolmente superata laddove si consideri che l’interpretazione qui proposta, seppur forse non strettamente aderente al dato letterale, non determinerebbe comunque uno stravolgimento della lettera della norma ma sarebbe, al contrario, un utile adattamento di questa al fine di coniugare il rispetto del diritto euro-unitario ed i principi fondamentali del nostro ordinamento. in aggiunta, riconoscere efficacia di giudicato alla decisone dell’AGCM significherebbe ricostruire un rapporto di pregiudizialità/dipendenza tra questa ed il conseguente processo civile, con il corollario che laddove la decisione venga impugnata, il giudice civile sarebbe tenuto a sospendere il processo ai sensi dell’art. 295 c.p.c. Tale conclusione risulterebbe contraria alla direttiva che, oltre a non aver disposto alcuna ipotesi di sospensione in pendenza del procedimento amministrativo alla stregua di quanto disposto dall’art. 16 del regolamento 1/2003 con riferimento alle decisioni “contemplate” dalla Commissione, nulla dice anche con riferimento alla contestuale pendenza della fase giurisdizionale di impugnazione. Si pensi che la soluzione contraria minerebbe l’effettività della tutela stand alone, in quanto la parte che si ritiene danneggiata e che vorrebbe agire senza attendere la decisione dell’AGCM sarebbe tenuta ad aspettare il formarsi del giudicato formale sulla decisione (o che si concluda il giudizio di primo grado (65)). Tutto ciò in palese contrasto con gli obiettivi del legislatore euro- unitario che, come correttamente rilevato (66), ha inteso incoraggiare la proposizione delle azioni stand alone (si pensi solo alla previsione della innovativa disciplina della discovery agli artt. 5 e 6 della direttiva). in definitiva, la soluzione più razionale sembrerebbe quella di assicurare autonomia tra fase amministrativa (anche giurisdizionale) e civile, e di considerare le decisioni divenute definitive alla stregua di prove legali. ovviamente, resta inteso che la prova vincolante non ha ad oggetto la violazione in sé, che è un (giudizio di) disvalore e non un fatto, bensì il comportamento anticoncorrenziale come accertato dal provvedimento definitivo dell’AGCM. (64) VinCrE, La direttiva 2014/104/UE, cit. (65) Cass., SS.uu., del 19 giugno 2012, n. 10027, su DeJure. (66) VinCrE, La direttiva 2014/104/UE, cit. rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 4. Osservazioni conclusive con riferimento al perdurante problema del rispetto dei diritti di difesa. Sebbene il riconoscimento del vincolo di prova legale alle decisioni definitive dell’AGCM possa ritenersi un utile compromesso tra le esigenze comunitarie di applicazione della disciplina del private enforcement e quelle nazionali di rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento (dotato, come si è cercato di dimostrare, di consistenti appigli normativi), non può nascondersi come il vincolo dalla stessa disposto, qualunque sia lo strumento normativo utilizzato al fine di assicurarne il rispetto da parte dell’ordinamento nazionale, sollevi dubbi ancor più consistenti con riferimento alla compatibilità del c.d. “sindacato debole” sugli atti dell’AGCM con i diritti di difesa dell’impresa convenuta (67) e, segnatamente, con l’art. 6 della CEDu e l’art. 47 della Carta di nizza, secondo i quali ogni cittadino ha diritto che la propria causa vertente su diritti e doveri a carattere civile sia esaminata da un tribunale indipendente ed imparziale, costituito per legge. le conclusioni cui si era assestata la giurisprudenza amministrativa, infatti, risultano confermate dal legislatore, che accoglie espressamente il modello del sindacato debole all’art. 7 del d.lgs n. 3 del 2017, laddove afferma che “il sindacato del giudice del ricorso comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento della decisione impugnata e si estende anche ai profili tecnici che non presentano un oggettivo margine di opinabilità, il cui esame sia necessario per giudicare la legittimità della decisione medesima”. Sebbene la CEDu abbia già ritenuto il sindacato del giudice amministrativo conforme all’art. 6 (68), il sistema meriterebbe un ripensamento atteso che un controllo da parte degli organi di giustizia amministrativa delle valutazioni, anche quelle opinabili (69), dell’Amministrazione diventerebbe a que- (67) Su questo punto imprescindibili sono le puntuali osservazioni di SirAGuSA, L’effetto delle decisioni, cit., al quale si rinvia. (68) Corte EDu, causa a. menarini Diagnostic c. Italia, ricorso n. 43509/08, sentenza del 27 settembre 2011, su www.giustizia.it. (69) VillA (L’attuazione della direttiva, cit.) ha analizzato le formule delle sentenze del giudice amministrativo addivenendo alla conclusione che non vi sia un concetto chiaro e univoco di ciò che rientra nel margine di opinabilità. “Peraltro, in una situazione che è figlia della ripartizione tra la discrezionalità dell'amministrazione e l'operato del giudice, continuano a non essere sindacabili le scelte che abbiano margini di opinabilità, rinviando così ad un ambito, i cui confini non sono affatto chiari, se solo si analizzano le formule che al proposito sono impiegate nelle sentenze. Così si legge che il sindacato del giudice sui profili tecnici si arresta "quando in siffatti profili tecnici siano coinvolti valutazioni ed apprezzamenti che presentano un oggettivo margine di opinabilità, come nel caso della definizione di mercato rilevante nell'accertamento delle intese restrittive della concorrenza", dal momento che tale sindacato "oltre un controllo di ragionevolezza, logicità e coerenza della motivazione del provvedimento impugnato, è limitato alla verifica che quel medesimo provvedimento non abbia esorbitato dai margini di opinabilità sopra richiamati" . Da queste definizioni circolari, in cui in sostanza si richiede di stabilire quanto un giudizio opinabile sia opinabile, si passa ad un periodare di sapore esoterico quando si afferma, sempre con riferimento al mercato rilevante, che la sua determinazione "implica un accertamento di DoTTrinA 269 sto punto ineludibile considerato che le decisioni dell’AGCM, oltre che essere già state riconosciute dalla CEDu come “convenzionalmente” penali alla luce degli Engels criteria (70), acquistano oggi, a seguito della citata direttiva, efficacia vincolante anche nel processo civile. Altra soluzione potrebbe essere, de jure condendo, quella di devolvere alla giurisdizione del giudice civile le controversie inerenti all’impugnazione dei provvedimenti antitrust, condividendosi le opinioni di coloro (71) che ritengono che siano (tendenzialmente) di diritto soggettivo le situazioni giuridiche tipiche che si confrontano con il provvedimento dell’AGCM. Tale soluzione garantirebbe un effettivo controllo di tutte le valutazioni dell’Autorità sul modello, già sperimentato, del giudizio sulle sanzioni amministrative ex legge 689/1981 che si svolge, secondo tralatizia formula giurisprudenziale, “sul rapporto non sull’atto” (72). fatto cui segue l'applicazione ai fatti accertati delle norme giuridiche in tema di 'mercato rilevante' (...) che è sindacabile in sede di legittimità per violazione di norme di legge (...) nei limiti in cui la censura abbia ad oggetto l'operazione di 'contestualizzazione' delle norme, all'esito di una valutazione giuridica complessa che adatta al caso specifico concetti giuridici indeterminati, quali il 'mercato rilevante' e 'l'abuso di posizione dominante”. Secondo l’Autore, tale limite al sindacato del giudice amministrativo porrebbe problemi di costituzionalità con riferimento agli artt. 76 e 87 Cost. perché, oltre a non esser imposto dalla direttiva, “risulta estraneo ai principi fissati dalla legge-delega”. (70) Corte EDu, causa a. menarini Diagnostic c. Italia, cit. (71) nEGri, Giurisdizione e amministrazione, cit., pp. 247-288. Pur non condividendosi le conclusioni dell’A. laddove giunge ad auspicare la formazione di sorta di giurisdizione “esclusiva” del giudice ordinario nei confronti degli atti e dei provvedimenti dell’autorità garante, si condividono le sue argomentazioni laddove ritiene che “i principali provvedimenti antitrust, e segnatamente quelli di diffida cui spesso si accompagna la sanzione pecuniaria per violazione grave, in quanto non discrezionali in senso proprio siano inidonei a degradare il diritto soggettivo perfetto e costituzionalmente garantito alla libera iniziativa economica e perciò non possono ricondursi all’esercizio di poteri “autoritativi”; allora l’art. 33, primo comma, legge n. 287 del 1990 non può che risultare palesemente incompatibile con l’art. 103 Cost. secondo l’interpretazione fornitane dal giudice delle leggi: giacché certamente non appare conforme ai principi stabiliti dalla Consulta l’idea che l’intero settore di contenzioso relativo agli atti e provvedimenti dell’autorità garante delle concorrenza e del mercato possa essere ricondotto alla giurisdizione amministrativa per il solo fatto che tra quei provvedimenti ve ne sono alcuni, in concreto tut- t’altro che prevalenti (…..), che siano il frutto di potere discrezionale”. Bisogna comunque rilevare che la questione di legittimità costituzionale è stata ritenuta manifestamente infondata da Cass. SS.uu. n. 8882 del 2005, su DeJure. Al di là della questione di costituzionalità, è auspicabile l’attribuzione al giudice ordinario delle controversie nate dall’impugnazione degli atti dell’AGCM in tutti quei casi (e sono la netta maggioranza venendo esclusi solo quelli concernenti le autorizzazioni in deroga e le concentrazioni) nei quali si faccia questione di diritti soggettivi. (72) Cass. SS.uu. n. 1786 del 2010, su DeJure. rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 Contabilità nazionale e unità istituzionali. Interpretazione ed applicazione dei criteri dettati dal SEC 2010 per l’inserimento delle PP.AA. nell’Elenco delle unità istituzionali appartenenti al settore delle Amministrazioni Pubbliche di competenza dell’ISTAT Lucia Marzialetti* SOmmarIO: 1. Introduzione - 1.1. Premessa - 2. Cenni e storia - 3. I presupposti utili ai fini dell’inserimento delle unità istituzionali ed in particolare delle istituzioni senza scopo di lucro all’interno dell’Elenco Istat delle amministrazioni pubbliche - 3.1. Il test market/non market - 3.2. Il controllo pubblico - 4. Non causa pro causa. Le avverse tesi delle unità istituzionali ricorrenti - 5. Il problema. L’inquadramento sistematico e la natura giuridica delle quote associative - 6. Conclusioni. Cui prodest? 1. Introduzione. il tema della contabilità e della finanza pubblica è da sempre al centro di numerose diatribe incentrate sulla individuazione e determinazione della linea di demarcazione che divide organismi giuridici che possono (e devono) essere inseriti all’interno del conto economico consolidato, ed i soggetti che, invece, debbono esserne tenuti fuori, in ragione delle loro peculiari caratteristiche giuridiche ed economiche. la materia è delicata perché è regolata da principi di natura sia civilistica sia amministrativistica, ed involge obblighi sociali e finanziari costituzionalmente positivizzati, in una dimensione di "corresponsabilità", nel rispetto dei limiti della finanza pubblica nazionali e sopranazionali. la contabilità macroeconomica, o contabilità nazionale, si presenta sotto forma di un insieme coerente di conti che descrive quantitativamente e in termini monetari l'attività economica. l'insieme dei conti è retto da una serie di “relazioni di identità” e costituisce un supporto utile per lo studio delle caratteristiche strutturali e dinamiche di un sistema economico, rispondendo alle esigenze dell'analisi e della previsione, oltre che a quelle della politica economica lo scopo principale di un sistema di contabilità nazionale è quello di classificare la complessa attività economica, di sintetizzarla in un ristretto numero di categorie fondamentali e di esporla in un quadro organico d'insieme rappresentativo dei circuiti economici. l'esigenza di comparare gli indicatori economici di paesi diversi è particolarmente avvertita dall'unione europea, data la necessità di definire politiche comuni e di monitorare gli andamenti delle singole economie nell'ambito di (*) Dottoressa in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura Generale dello Stato, tirocinante presso l’istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni (iVASS). DoTTrinA 271 un quadro di regole di bilancio unitario e, per l'area euro, di una politica monetaria unica. l’elenco stilato dall’istat si inserisce perfettamente nel quadro dinanzi delineato. Esso enuclea annualmente le amministrazioni pubbliche (1) inserite nel conto consolidato dello Stato e, per tale ragione, è causa di controversie proposte da parte delle unità istituzionali, poiché dall’inserimento de quo derivano conseguenze in termini di spesa e di controllo ulteriori, cui spesso gli enti - di natura privatistica ma con finalità pubblicistiche - intendono sottrarsi. il problema si è posto in sede contenziosa soprattutto con riferimento alle federazioni Sportive nazionali minori e in relazione ad altri enti od organismi pubblici per i quali l’appartenenza al sistema di conto statale non appare così scontata. Diverse, infatti, sono le cause pendenti presso le varie autorità giudiziarie (TAr, Consiglio di Stato, Corte dei Conti, Corte di Cassazione), dove si dibatte essenzialmente in ordine alla corretta interpretazione dei criteri utili ai fini dell’inserimento dell’organismo nell’elenco istat, nonché in relazione all’inquadramento giuridico e sistematico che alcune voci di entrata debbono avere. la res controversa si articola in primis su un piano strettamente giuridico e di corretta interpretazione della normativa alla luce delle direttive europee e dei principi eurocomunitari; in secundis su un piano prettamente economico, che afferisce alla qualificazione contabile delle voci di entrata e di spesa in relazione ai parametri di calcolo finali adottati dall’istat. Con riferimento a questo specifico tema è stata proposta dall’Avvocatura Generale dello Stato innanzi alla Corte dei Conti SS.rr. la richiesta di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TfuE alla Corte di Giustizia dell’unione Europea (2), (1) Ai fini dell’applicazione delle disposizioni in materia di finanza pubblica, per amministrazioni pubbliche si intendono «per l'anno 2011, gli enti e i soggetti indicati a fini statistici nell'elenco oggetto del comunicato dell'Istituto nazionale di statistica (ISTaT) in data 24 luglio 2010, pubblicato in pari data nella Gazzetta Ufficiale della repubblica italiana n. 171, nonché a decorrere dall'anno 2012 gli enti e i soggetti indicati a fini statistici dal predetto Istituto nell'elenco oggetto del comunicato del medesimo Istituto in data 30 settembre 2011, pubblicato in pari data nella Gazzetta Ufficiale della repubblica italiana n. 228, e successivi aggiornamenti ai sensi del comma 3 del presente articolo, effettuati sulla base delle definizioni di cui agli specifici regolamenti dell'Unione europea, le autorità indipendenti e, comunque, le amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni. 3. La ricognizione delle amministrazioni pubbliche di cui al comma 2 è operata annualmente dall'ISTaT con proprio provvedimento e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale entro il 30 settembre». Art. 1 comma 2 e 3, l. 196/2009. Precisa poi il d.lgs. 165/2001, art. 1 comma 2 che «Per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale». (2) Causa rG.n. 539/Sr/riS, f.i.S.E. c/istat - CT. 46108/2016. rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 sì da risolvere uno specifico profilo -(la natura giuridico contabile delle quote di associazione) che, tra l’altro, è causa di numerose controversie -in ordine al quale attarda ad assestarsi un’interpretazione giurisprudenziale uniforme. Si è chiesto in particolare: 1) «Se le quote associative corrisposte ad una Federazione Sportiva debbano essere ritenute corrispettivi della vendita di beni o servizi ovvero se, in applicazione dei paragrafi 2.39 lett. d), 20.15 SEC2010, 20.16 SEC 2010, 20.19 -20.31 SEC2010 del regolamento 549/2013 UE, debba correttamente intendersi che le quote associative, seppure di fonte privata, siano equiparabili ai trasferimenti pubblici con natura, causa e finalità pubblicistiche, e rientrino, pertanto, tra gli indicatori del controllo pubblico rilevanti ai fini dell’inserimento di un ente Federazione Sportiva nell’Elenco delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato ed individuate ai sensi dell'articolo 1, comma 3 della legge 31 dicembre 2009, n. 196 attuativa del citato reg. (CE), n. 549/2013 relativo al Sistema europeo dei conti nazionali e regionali nell'Unione europea»; 2) «se le disposizioni contenute al paragrafo 2.39 lett. d), 20.15 comma 1 lett. d), 20.15 comma 2 dell’allegato a al reg. UE n. 549/2013 (SEC 2010) debbano essere interpretate nel senso che il solo indicatore del grado di finanziamento (pubblico) debba ritenersi prevalente ed assorbente rispetto agli altri indici di controllo pubblico previsti dal SEC 2010, oppure se l’esistenza di altri indicatori, fra cui in particolare quello relativo all’autonomia finanziaria dell’unità istituzionale, possa di per sé escludere la sussistenza di una situazione di controllo da parte della pubblica amministrazione». 1.1. Premessa. il SEC (Sistema Europeo dei Conti nazionali e regionali) è un sistema composto dall’insieme di relazioni economiche, concetti, definizioni e regole contabili adottati uniformemente nei diversi Paesi dell’unione Europea. l’adozione di criteri uniformi nelle regole contabili ha l’obiettivo di agevolare la comparazione fra le tendenze dei diversi Stati europei, favorendo le decisioni della politica economica e il raccordo con le altre fonti statistiche. Esso risulta coerente con gli standard internazionali definiti dal System of National accounts (SnA) realizzato, sotto il coordinamento dell’onu, dai maggiori organismi statistici internazionali (fMi, Eurostat, oCSE, Banca Mondiale). in particolare il SEC è strutturato secondo due ambiti di conti. I conti dei settori istituzionali -famiglie, società finanziarie e non, pubblica amministrazione, resto del mondo -si riferiscono ai differenti stadi del processo economico: produzione, generazione e distribuzione del reddito; usi del reddito e risparmi; variazioni delle attività e delle passività dei diversi settori. I conti settoriali e le matrici input-output, invece, forniscono un maggiore dettaglio del processo produttivo (costi, redditi, occupazione) e dei DoTTrinA 273 flussi di beni e servizi (produzione, importazioni, esportazioni e componenti della domanda). Ci occuperemo in questa sede dei conti relativi ai settori istituzionali, con riferimento in particolare alla pubblica amministrazione. 2. Cenni e storia. nel 1970 l'istituto Statistico delle Comunità Europee (Eurostat) ha adottato un sistema armonizzato dei conti, attraverso l’analisi dei diversi sistemi di contabilità nazionale, con particolare riferimento al modello francese. una seconda edizione del SEC fu pubblicata nel 1971. Applicato dapprima in via sperimentale, il SEC è stato recepito da tutti i paesi membri della Comunità europea, tra cui anche l’italia a partire dal 1974. l'adozione da parte della Commissione statistica delle nazioni unite nel 1993 del nuovo sistema dei conti nazionali (SnA 1993) - redatto dall'onu e da altre istituzioni internazionali, quali lo stesso Eurostat - indusse ad una revisione del sistema che diede vita al SEC 95, approvato come regolamento comunitario il 25 giugno 1996 (regolamento del Consiglio CE 2223). Tale sistema permetteva una descrizione quantitativa completa e comparabile dell'economia dei paesi membri dell'unione europea, attraverso un sistema integrato di conti di flussi e di conti patrimoniali definiti per l'intera economia e per raggruppamenti di operatori economici (settori istituzionali). Successivamente nel 2009 la Commissione Statistica dei Conti nazionali ha emanato una versione aggiornata del Sistema dei Conti nazionali (SnA 2008) volta ad adeguare i conti nazionali al nuovo contesto economico, ai progressi della ricerca metodologica e alle esigenze degli utilizzatori. Si è reso conseguentemente necessario prevedere un nuovo sistema europeo dei conti nazionali e regionali che recepisse le novità. il nuovo sistema Sec 2010, definito nel regolamento ue n. 549/2013 relativo al Sistema europeo dei conti nazionali e regionali nell'unione europea -di seguito, SEC 2010 -pubblicato il 26 giugno 2013, è il risultato di una stretta collaborazione fra l’ufficio statistico della Commissione (Eurostat) e i contabili nazionali degli Stati membri. il Sec 2010, in particolare, definisce i principi e i metodi di contabilità nazionale a livello europeo e fissa in maniera sistematica e dettagliata il modo in cui si misurano le grandezze che descrivono il funzionamento di una economia, in accordo con le linee guida internazionali stabilite nel Sistema dei conti nazionali delle nazioni unite (2008 SnA). rispetto alla precedente versione del 1995 (in vigore per l’italia dal 1999), il Sec 2010 presenta alcune importanti differenze inerenti sia l’ambito di applicazione sia le nozioni e le definizioni. Esso riflette, infatti, gli sviluppi e i progressi metodologici conseguiti nella misurazione delle economie moderne che si sono consolidati a livello rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 internazionale e, allo stesso tempo, viene incontro alle esigenze degli utilizzatori, migliorando in alcuni casi la tempestività nella diffusione dei risultati. il meccanismo è assicurato dalla presenza di organismi a livello nazionale che garantiscono l’affidabilità, la veridicità, la completezza e la corrispondenza delle informazioni e dei dati raccolti. Con specifico riferimento al nostro paese, infatti, ai sensi del reg. (CE) 21 maggio 2013 n. 549 questo compito è affidato all’istituto nazionale di Statistica (istat), chiamato a predisporre annualmente il conto economico consolidato delle Amministrazioni Pubbliche nell’ambito della Procedura sui Deficit Eccessivi regolata dal Trattato di Maastricht. l’elaborazione del conto economico consolidato si basa sulla corretta individuazione delle unità istituzionali che fanno parte del Settore “Amministrazioni Pubbliche”, denominato S13, secondo i criteri fissati dal citato regolamento SEC 2010, che ha sostituito il previgente regolamento uE n. 2223/96, SEC95. Al riguardo, il legislatore nazionale, introducendo, dapprima con la legge finanziaria 2005 e successivamente con la l. 31 dicembre 2009 n. 196 (legge di contabilità e finanza pubblica), un limite all'incremento delle spese delle pubbliche amministrazioni, ha prescritto che, ai fini dell’applicazione delle disposizioni di finanza pubblica, per amministrazioni pubbliche debbano intendersi, i soggetti che costituiscono il predetto settore istituzionale, individuati a fini statistici dall'istat sulla base delle definizioni di cui agli specifici regolamenti comunitari (cfr. artt. 1 comma 5, l. n. 311/2004; 1, comma 2, l. n. 196/2009, come modificato dall'art. 5, comma 7, D.l. n. 16/2012 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 44/2012) (3). Allo scopo di ridurre al minimo la discrezionalità nella valutazione e nella collocazione delle unità istituzionali, il manual on Government Deficit and Debt -Implementation of ESa 2010, pubblicato da Eurostat il 29 agosto 2014, definisce precise regole operative di applicazione del SEC2010. in particolare, al concetto di “controllo pubblico” è riservato il par. i.2.3 dell’MGDD, con un approfondimento dedicato al controllo delle istituzioni non (3) Dottrina e giurisprudenza ritengono pacificamente che si sia di fronte ad un fenomeno di “legificazione degli Elenchi Istat” (cfr. ex multis T.A.r. lazio roma Sez. iii, 12 giugno 2013, n. 5938), quale concetto applicabile anno per anno, essendo, sia l’Elenco istat sia le leggi finanziarie che lo richiamano, emanati con cadenza annuale. invero, il fatto che le finanziarie e le altre leggi in materia amministrativo- contabile, nel riferirsi alle PP.AA. identifichino queste ultime nelle «unità istituzionali di cui all’Elenco Istat delle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico consolidato», di fatto opererebbe una “legificazione” dello stesso dell’Elenco de quo, il cui contenuto diventa pertanto cristallizzato fino ad assurgere al rango di norma dichiarativa. inoltre, corroborerebbe la predetta tesi il fatto che le stesse leggi finanziarie rinvengano nell’Elenco la fonte individuativa delle PP.AA. assoggettate ai vincoli contabili e finanziari con efficacia nazionale. Così ragionando, dunque, l’Elenco non sarebbe nemmeno autonomamente impugnabile, perché assorbito dalla legge, partecipando della natura giuridica della norma che lo richiama. DoTTrinA 275 profit che -riprendendo puntualmente quanto definito nello SnA 2008 (4.92) (System of national Accounts, Sistema di contabilità nazionale) -rende espliciti i cinque indicatori descritti nel par. 20.15 del SEC2010, di cui si dirà infra. l’accertamento statistico che prelude all’inserimento degli enti nel- l’elenco de quo presuppone lo svolgimento di un’attività di natura metodologica e a carattere tecnico-statistico in ragione della quale l’istat provvede a verificare, in un’ottica pluriennale e anno per anno (4), il possesso dei requisiti necessari all’inclusione nel settore delle amministrazioni pubbliche S13, le quali, secondo il SEC 2010, sono costituite dalle unità istituzionali pubbliche che siano produttrici di beni e servizi non destinabili alla vendita. Su questa base gli enti vengono inseriti oppure esclusi dal settore delle amministrazioni pubbliche e conseguentemente dall’Elenco istat. 3. I presupposti utili ai fini dell’inserimento delle unità istituzionali ed in particolare delle istituzioni senza scopo di lucro all’interno dell’Elenco Istat delle amministrazioni pubbliche. il regolamento europeo SEC 2010, rispetto al suo antecedente, stabilisce un nuovo percorso di classificazione delle istituzioni senza scopo di lucro all’interno del settore delle Amministrazioni pubbliche S13: in generale, esso tende, in misura maggiore del SEC95, ad includere unità istituzionali per le quali sussista una condizione sostanziale di “pubblicisticità” e controllo pubblico. la nuova classificazione delle unità istituzionali senza scopo di lucro prevede, infatti, la verifica del criterio del 50% di copertura dei costi con le vendite tramite il test market/non market (par. 20.16 SEC 2010) e l’accertamento della ricorrenza del “controllo pubblico” sull’unità istituzionale, attraverso l’esame di elementi che descrivano i caratteri specifici del “rapporto” organico che lega l’istituzione all’amministrazione pubblica (par. 20.15 SEC2010). Specificamente il SEC 2010, al citato par. 20.15, dispone che «il controllo di un’istituzione senza scopo di lucro è definito come la capacità di determinare la politica generale o il programma dell’unità. L’intervento pubblico in forma di regolamentazione generale applicabile a tutte le unità che svolgono la stessa attività non è rilevante per decidere se una singola unità sia controllata dall’amministrazione pubblica. Per stabilire se un’istituzione senza scopo (4) il Tar del lazio, infatti, da tempo ritiene “irrilevanti, al fine del decidere sulla legittimità del- l’elenco ISTaT relativo all’anno 2010, le classificazioni dallo stesso Istituto compiute per gli anni precedenti. Ed invero, una volta incontestato che ogni elenco ha una valenza annuale e che l’Istituto ha il potere dovere di sottoporlo a revisione periodica in presenza di fatti sopravvenuti o anche per effetto di un ripensamento in ordine alle determinazioni in precedenza assunte, la materia del contendere trova il suo limite naturale nelle classificazioni operate per l’anno di riferimento, le sole impugnate che sono anche le sole per le quali sussiste un interesse concreto ed attuale a provocare un intervento annullatorio del giudice della legittimità” (cfr., ex plurimis, TAr lazio roma, Sez. iii, 12 luglio 2011 n. 6212). rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 di lucro sia controllata dall’amministrazione pubblica occorre considerare i seguenti cinque indicatori di controllo: 1) la nomina dei funzionari; 2) altre disposizioni riguardanti gli obblighi contenuti nello statuto dell’istituzione senza scopo di lucro; 3) gli accordi contrattuali; 4) il grado di finanziamento; 5) l’esposizione al rischio. Un unico indicatore può essere sufficiente per stabilire il controllo. Tuttavia, se un’istituzione senza scopo di lucro finanziata principalmente dal- l’amministrazione pubblica conserva in misura significativa la capacità di determinare la sua politica o il suo programma per gli aspetti definiti dagli altri indicatori, non viene considerata controllata dall’amministrazione pubblica. Nella maggior parte dei casi l’esistenza del controllo sarà messa in evidenza da diversi indicatori. Una decisione basata su questi indicatori implica, per sua natura, un giudizio soggettivo». È necessario verificare, altresì, la caratteristica di produttore “non market” dell’unità istituzionale, come indicato nel par. 20.16 del SEC2010, a norma del quale «la caratteristica di produttore di beni e servizi non destinabili alla vendita di un’istituzione senza scopo di lucro è determinata come per le altre unità delle amministrazioni pubbliche», cioè a dirsi mediante l’applicazione del test del 50% (test market/non market), che ha la funzione di verificare in quale percentuale il ricavo delle vendite copra i costi di produzione dell’unità istituzionale considerata. A questa stregua, come si chiarirà meglio oltre, allorché le vendite coprano più del 50% dei costi di produzione (per un periodo congruo di tempo, di solito quantificato in un triennio), l’unità è considerata di tipo “market”, cioè produttore di beni e servizi destinabili alla vendita e dunque non classificabile all’interno del settore delle Pubbliche Amministrazioni (par. 20.19 20.31 SEC2010). 3.1. Il test market/non market. la classificazione delle unità istituzionali redatta sulla base del test mar- ket/non market si basa sulla tassonomia dei dati contabili consolidata e definita a livello normativo. Se i ricavi delle vendite coprono almeno il 50 per cento dei costi di produzione, l'unità è considerata di tipo "market", cioè produttore di beni e servizi destinabili alla vendita. Se, viceversa, i ricavi delle vendite risultano inferiori al 50 per cento dei costi di produzione, l'unità è di tipo "non market". A tal fine è il caso di osservare che l'istat effettua il test market/non market per un arco di tempo pluriennale, come previsto dal regolamento europeo (paragrafo 3.3 del reg. ue n. 549/2013). Tutte le censure sollevate dalle unità istituzionali ricorrenti, e di cui si approfondirà infra, sono soventi prive di fondamento, perché basate su un’errata DoTTrinA 277 interpretazione e conseguente inesatta applicazione della disciplina sia nazionale sia comunitaria così come enunciata. Si rileva, infatti e contrariamente a quanto spesso sostenuto dagli organismi ricorrenti, che i "ricavi propri" di una unità istituzionale sono costituiti unicamente dalle entrate derivanti dall'attività caratteristica e specifica, cioè dai ricavi provenienti dalle vendite o da prestazioni di servizi tipiche dell'ente, mentre devono ritenersi non significativi a tale fine le quote associative, i contributi o sponsorizzazioni o altre provvidenze in conto esercizio erogati da operatori pubblici. Sul punto, peraltro, la Corte dei Conti in speciale composizione aveva già statuito che «i "ricavi propri" di una unità istituzionale sono costituiti unicamente dalle entrate derivanti dall'attività caratteristica e specifica, cioè dai ricavi provenienti da vendite o da prestazioni di servizi tipiche dell'ente, mentre devono ritenersi non significativi, ai fini del test, le cd. quote associative, i contributi o altre provvidenze in conto esercizio erogati da operatori pubblici » (cfr. Sent. n. 48/2015/riS). È proprio la finalità (pubblicistica), a ben vedere, ad escludere che i proventi derivanti dalle c.d. quote associative e dai tesseramenti possano essere considerati assimilabili ad entrate provenienti da “vendite di beni e servizi” ai fini della verifica del test market/non market. Correttamente inquadrando, infatti, le predette fonti di entrata, devrebbe concludersi che, qualora il calcolo del rapporto tra il totale dei ricavi e il totale dei costi, sia al di sotto del 50% - come sovente si verifica - le unità istituzionali, tra cui le federazioni Sportive nazionali e gli altri organismi di diritto pubblico, saranno inquadrabili in una situazione “non market”. Ciò impone, con tutta evidenza, l’inserimento della stessa nell’elenco istat delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1 della legge n. 196/2009. 3.2. Il controllo pubblico. Si evidenzia, peraltro, che l’esito negativo del risultato test market / non market vale, inoltre e di per sè, ad integrare l’ulteriore presupposto utile ai fini dell’inserimento delle unità istituzionali nell’Elenco de quo. infatti, la circostanza per cui l’esito del test di cui sopra abbia dato risultato negativo comporta, quale necessaria e logica conseguenza, la presenza di una consistente parte di finanziamento pubblico in capo all’unità istituzionale stessa. Questo elemento integra, a ben vedere, proprio uno degli indicatori della esistenza del controllo pubblico. Per la definizione del criterio del controllo pubblico il Sec 2010 individua, infatti, cinque indicatori: la nomina dei funzionari; la messa a disposizione di strumenti che consentano l'operatività ovvero la presenza di altre disposizioni come gli obblighi contenuti nello statuto; la sussistenza di accordi contrattuali; il grado di finanziamento; l'esposizione al rischio dell'amministrazione pubblica. rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 l’ultimo periodo del paragrafo 20.15 del Sec 2010, aggiunge poi che “un unico indicatore può essere sufficiente per stabilire il controllo”. Pertanto, ai fini della riconduzione delle unità istituzionali ricorrenti nell’Elenco de quo, già sarebbe sufficiente il requisito del finanziamento pubblico, desumibile con tutta evidenza dall’esito, spesso negativo, del test mar- ket/non market. ove ciò non bastasse si rileva che in ogni caso spesso si registra la presenza anche di un altro indicatore del controllo, un ulteriore requisito idoneo a confermare la legittimità dell’inserimento della federazione fra le pubbliche amministrazioni di cui all’Elenco impugnato: il “controllo” strictu senso inteso. Spesso, infatti, alle unità istituzionali de quibus sono sovraordinati organismi di diritto pubblico ed enti pubblici, i quali esercitano un potere di controllo, vigilanza e verifica della rispondenza dell’attività posta in essere con le finalità pubbliche e pubblicistiche. Siffatta impostazione è corroborata dalla presenza, all’interno degli Statuti -delle unità istituzionali e degli organi di vertice cui le predette unità fanno riferimento - di clausole che regolano le forme di vigilanza giuridica e finanziaria sulla gestione. Ad esempio, per ciò che concerne le federazioni Sportive -in relazioni alle quali si registra il maggior numero di contenzioso -forme di controllo pubblico possono ravvisarsi nei compiti del Coni (5), l’inquadramento della cui natura giuridica appare dirimente ai fini dell’esatta qualificazione della vicenda in esame. le fSn sono, infatti, “organi del Coni” (6), ed in ordine a questo specifico (5) il Coni è un ente pubblico nazionale (istituito con d.lgs. 23 luglio 1999 n. 242 e ss.mm.ii) appartenente al core delle amministrazioni pubbliche ed è perciò classificato nel settore istituzionale S13 (cfr. par. 20.09 e 20.10 del SEC2010 e par. 2.69 del SEC95). il legislatore, intervenendo nel 2004, ha voluto qualificare l’ente anche come “confederazione delle federazioni sportive nazionali” e “delle discipline associate”, rafforzandone il ruolo di istituzione centrale di tutta l’organizzazione sportiva. le modalità di esercizio del controllo del Coni sulle federazioni sono stabilite nelle norme, e più specificamente nello Statuto del Coni nel quale sono stati individuati elementi “caratteristici” del controllo pubblico descritti nel SEC2010 e nel Manuale operativo. il legame organico delle federazioni sportive con l’ente controllante è stato, a sua volta, verificato negli statuti delle singole federazioni, “speculari” alle prescrizioni statutarie del Coni. Al Coni la legge, infatti, assegna il compito di curare l’organizzazione, la valorizzazione dello sport nazionale e la regolazione di tutti gli organismi che agiscono nel settore sportivo tra cui le federazioni sportive nazionali. (6) “Le Federazioni sportive nazionali sono associazioni senza fini di lucro con personalità giuridica di diritto privato; […] sono rette da norme statutarie e regolamentari in armonia con l’ordinamento sportivo nazionale ed internazionale e sono ispirate al principio democratico e al principio di partecipazione all’attività sportiva da parte di chiunque in condizioni di uguaglianza e di pari opportunità […]; svolgono l’attività sportiva e le relative attività di promozione, in armonia con le deliberazioni e gli indirizzi del CIO e del CONI, anche in considerazione della rilevanza pubblicistica di specifici aspetti di tale attività. Nell’ambito dell’ordinamento sportivo, alle Federazioni sportive nazionali è riconosciuta l’autonomia tecnica, organizzativa e di gestione, sotto la vigilanza del CONI. Le Federazioni sportive nazionali svolgono l’attività sportiva in armonia con le deliberazioni e gli indirizzi della rispettiva Federazione internazionale, purché non siano in contrasto con le deliberazioni e gli indirizzi del CIO e del CONI” (art. 20 Statuto del Coni). DoTTrinA 279 profilo le SSrr della Corte dei Conti in speciale composizione giurisdizionale, hanno inizialmente statuito che “la sussistenza del requisito del controllo (così come inteso dai regolamenti europei) non presuppone necessariamente che l’amministrazione pubblica eserciti una supervisione generale sull’unità istituzionale, essendo sufficiente che l’ingerenza dell’amministrazione pubblica sia tale da influenzare la gestione di tale unità in modo significativo” (sentenza, n. 7/2013/riS). Va da sé che, alla luce di questa limpida statuizione (successivamente però smentita dalla stessa Corte dei conti), i poteri di controllo sulle federazioni sportive che la legge e lo Statuto attribuiscono al Coni integrano, senza dubbio, quell’“ingerenza dell’amministrazione pubblica tale da influenzare la gestione dell’unità in modo significativo”, in cui la giurisprudenza contabile ha correttamente individuato il “controllo pubblico rilevante” ai fini dell’inserimento di un ente nell’elenco oggetto del contendere. Si consideri, inoltre, che anche secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, “le federazioni sportive, pur sorgendo come soggetti privati (associazioni non riconosciute), in presenza di determinati presupposti assumono la qualifica di "organi del Coni" e partecipano alla natura pubblica di questo...” (in questi termini, ex plurimis, Cons. Stato Sez. Vi, 10 ottobre 2002, n. 5442). Ed invero, sulla avvenuta privatizzazione delle federazioni Sportive nonché sul rapporto delle stesse con il Coni, anche il Giudice contabile ha statuito che “… non sembra sussistere alcun dubbio sulla permanenza, anche a seguito dell'entrata in vigore del decreto legislativo n. 242/1999, come modificato dal decreto legislativo n. 15/2004, di un evidente connotato pubblicistico che caratterizza il rapporto di servizio fra federazioni sportive e CONI, per la valenza pubblicistica dell'attività svolta, per la natura pubblica dei finanziamenti del CONI, per la somma dei poteri di ingerenza della parte pubblica, talmente intensi da arrivare alla misura estrema del commissariamento, e che si esplicano normalmente attraverso atti di riconoscimento, di indirizzo, di controllo dei bilanci, della gestione, dell'attività sportiva. Tale configurazione, peraltro, non risulta venuta meno neppure a seguito dell'entrata in vigore del D.L. n. 138/2002, conv. in l. 8 luglio 2002 n. 178, in quanto l'art. 8, che ha disposto il riassetto del CONI istituendo la CONI Servizi s.p.a., non ha fatto venire meno nè le finalità pubbliche perseguite nè il carattere pubblico delle risorse impiegate al tal fine” (in questi termini, Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la regione lazio, 25 gennaio 2008 n. 120; cfr. altresì, ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. Vi, sent. 9 febbraio 2006 n. 527). A ben vedere, la significativa capacità di autodeterminazione di cui al par. 20.15 del SEC 2010, non può consistere nella mera autonomia decisionale dell’ente. invero, l’autonomia decisionale è senza dubbio un requisito costitutivo delle unità istituzionali, -come chiaramente enuncia il paragrafo 2.12 del rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 Sec2010, il quale dispone che: “un'unità istituzionale è un'entità economica caratterizzata da autonomia di decisione nell'esercizio della propria funzione principale” -, tuttavia, non si tratta di un elemento idoneo a determinare l’esclusione del controllo pubblico, oppure a degradare lo stesso a mera supervisione. Tutte le unità istituzionali, infatti, ivi comprese quelle soggette al controllo pubblico, hanno pur sempre (e devono avere) taluni margini di autonomia decisionale, altrimenti non potrebbero essere considerate tali! lo stesso discorso ben può essere esteso agli organismi istituzionali con finalità pubblicistiche, quali enti di cultura, enti con finalità sociali, enti culturali, etc. il requisito del controllo pubblico viene accertato sulla base degli indicatori previsti dal SEC2010 ed esplicitati dal manual on Government Deficit and Debt -Implementation of ESa 2010: le disposizioni normative e statutarie; il finanziamento pubblico prevalente, da intendersi non solo come erogazione direttamente proveniente dalla casse dello Stato, ma più generalmente come qualsiasi entrata che sia sorretta da una causa e da una giustificazione di stampo pubblicistico. Da ultimo, la procedura di erogazione dei “contributi diretti” alle predette unità istituzionali da parte degli enti pubblici sovraordinati consente di individuare una ulteriore forma di controllo sostanziale sulle stesse, rafforzandone il concetto stesso. Si tratta, infatti, di finanziamenti vincolati a specifiche voci di costo, nella gestione delle quali le unità devono attenersi agli indirizzi ed alle linee guida fissati dagli organi di vertice, nel rispetto della finalità pubblicistica e nel perseguimento degli obiettivi di carattere pubblico, quali salute, sport, cultura, etc. Corrobora le tesi fin qui esposte il fatto che, data la rilevanza degli interessi perseguiti, tale controllo, ove si riscontri una grave violazione dei principi fondamentali dell’ordinamento (come nel caso di cattivo funzionamento degli organi di gestione), può financo determinare il commissariamento dell’unità istituzionale, al fine di ripristinare una gestione ordinata al rispetto delle finalità. Dati gli elementi fin qui descritti si può concludere che una tale forma del controllo, rinvenibile nella penetrante attività di indirizzo e verifica del corretto funzionamento delle attività, nonché nel monitoraggio costante nel tempo sulle modalità di spesa, integra il requisito del controllo di cui al SEC 2010. 4. Non causa pro causa. Le avverse tesi delle unità istituzionali ricorrenti. le difese sostenute dalle unità istituzionali ricorrenti innanzi alle diverse autorità giudiziarie si sono tutte contraddistinte per una linea difensiva pressoché comune. Preliminarmente le argomentazioni a sostegno della illegittimità dell’inserimento nell’Elenco citato si incentrano sul vizio procedimentale che affliggerebbe lo stesso Elenco, in qualità di atto amministrativo. DoTTrinA 281 lamentano, infatti, le unità istituzionali ricorrenti l’esistenza di vizi di natura istruttoria, eccesso di potere, difetto di motivazione. Si rileva sul punto che dottrina e giurisprudenza sono ormai concordi nel ritenere che l’elenco de quo non integri un provvedimento amministrativo, bensì un documento statistico in funzione meramente certificativa. Di talché perdono di fondamento le doglianze inerenti il mancato rispetto del procedimento amministrativo nella sua stesura. nel merito le unità istituzionali ricorrenti contestano, invece, l’inserimento nell’Elenco de quo in ragione della carenza dei profili sia economici sia più specificamente giuridici. Argomentano, infatti, i ricorrenti che mancherebbe sia una forma di controllo pubblico - ancorché si tratti di esercizio di attività con finalità pubblicistiche -, nonché una qualsiasi forma di finanziamento che superi la percentuale del 50%, escludendo, quindi, che possa determinarsi un esito negativo del test market/non market come prima delineato. Con specifico riferimento al controllo pubblico, le unità istituzionali rilevano sovente che non potrebbe ravvisarsi alcuna forma di controllo pubblico da parte degli Enti pubblici “supervisori” in quanto la gestione delle finanze e degli aspetti regolamentari e giuridici sarebbe caratterizzata da una piena autonomia decisionale. Si è già detto che questo solo rilievo non vale ad escludere una forma di controllo pubblico, in quanto si tratta di una caratteristica propria, se non essenziale, di ogni unità istituzionale, la quale per essere tale deve conservare i margini di autonomia nelle scelte decisionali e nel modus operandi. Ciò che le differenzia dalle unità meramente privatistiche è, tuttavia, la finalità cui la loro attività è preordinata, trattandosi infatti di scopi ed obbiettivi connotati da una spiccata natura pubblicistica (salute, cultura, sport, etc). Peraltro, così agendo, le suddette unità si arrogano un potere a loro non spettante: la valutazione tecnica e l’attività classificatoria competono, infatti, per legge al solo istat, non potendo in alcun modo le amministrazioni procedere ad una autonoma qualificazione. Sul punto si richiama nuovamente la recente sentenza delle Sezioni riunite della Corte dei Conti n. 12 del 2015 (confermata dalle successive sentt. 35 e 48 del 2015) con la quale è stato affermato che: «il concetto di “controllo” può essere inteso come segue. anzitutto, come già precisato in precedenza (cfr. supra, motivi della decisione, § 3.2), l’individuazione del concetto di “controllo” va effettuata sulla base delle norme del SEC, ai sensi dell’espressa previsione dell’art. 1, commi 1 e 2, L. n. 196 del 31 dicembre 2009. Orbene, in forza dei principi ermeneutici fissati dallo stesso SEC (cfr. sopra, motivi della decisione, § 4.1), i concetti del SEC non vanno intesi in senso giuridico- amministrativo, ma in senso economico-fattuale; e quindi il controllo va inteso non nel senso recepito dall’ordinamento giuridico nazionale (che in ambito rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 amministrativo intende di solito il controllo come verifica di atti e attività o come vigilanza o tutela su organi, da parte di altri organi esterni o interni al soggetto controllato), bensì come concreto potere di indirizzare le scelte del- l’ente (“capacità di determinare la politica generale o il programma di una unità istituzionale”: cfr. sopra, motivi della decisione, § 4.6 e § 4.6.1), ovvero come “la capacità di influire in modo determinante sulla amministrazione attiva” (SS.rr. sent. n.7/2013/rIS) o di “stabilire gli obiettivi che essa è chiamata a raggiungere e le modalità che deve seguire per realizzarli” (SS.rr. sent. n. 13/2014/rIS). […] 4.6.3 - Tale definizione di controllo risulta per definizione abbastanza ampia ed indeterminata, e quindi può portare a difficoltà di accertamento del controllo nel caso concreto; ragion per cui il SEC individua circostanze sintomatiche di un “potere di indirizzo” pubblicistico sulle istituzioni private, ovvero tipizza una serie tassativa di “indicatori” significativi dell’esistenza del controllo (cfr. supra, sub § 4.6.1) ... di norma per affermare l’esistenza del “controllo” si richiede la presenza di più indicatori concorrenti, anche se talvolta uno solo di essi può essere di tale significatività da essere sufficiente a tal fine». Con riferimento, invece, al più discusso profilo economico-contabile, le unità ricorrenti lamentano spesso incongruità, erroneità e abusi di potere che scaturirebbero dall’attività di calcolo posta in essere dall’istat ai fini della determinazione dell’area market o non market in cui ascrivere l’unità istituzionale. Si ricorda che, nella predisposizione dell’Elenco, l’istat agisce sulla base dei prospetti di rilevazione offerti in comunicazione dalle stesse unità istituzionali, che riproducono lo schema del bilancio civilistico previsto dal codice civile, di talché sono prive di pregio le doglianze che lamentino asserite incongruenze della scheda di rilevazione. Siffatti bilanci consuntivi (rilevati tramite riDDCuE (7)) vengono poi sottoposti al test del 50% ai fini della pubblicazione in Gazzetta ufficiale che, ai sensi dell’art. 1 della legge n. 169/2009, deve avvenire il 30 settembre di ogni anno. Si tratta, a ben vedere, di un’attività meramente matematica e priva di qualsivoglia forma di discrezionalità che spesso le unità istituzionali ricorrenti tentano di ascrivere all’istat. il contenzioso in questa materia è perlopiù generato dal diverso inquadramento sistematico e dalla diversa qualificazione giuridica che le parti in causa attribuiscono alle quote associative, il vero ago della bilancia dell’esito - negativo o positivo - del test market/non market. Mentre le unità istituzionali ricorrenti mettono erroneamente a confronto i suddetti proventi con i finanziamenti derivanti da pubbliche amministrazioni, (7) rilevazione di informazioni, Dati e Documenti necessari alla Classificazione di unità Economiche nei settori istituzionali stabiliti dal Sistema Europeo dei Conti 2010 (SEC 2010). DoTTrinA 283 ritenendoli ben altra cosa rispetto ai finanziamenti di natura pubblica, ed anzi qualificandole come “autonome entrate finanziarie”; l’Amministrazione, invece, proprio in ragione della rilevanza pubblicistica sia della causa dell’entrata, sia del suo scopo, li ascrive fra i finanziamenti pubblici, ribaltando l’esito del test. la soluzione al quesito è tutt’altro che pacifica, e si attende in merito la risposta della Corte di Giustizia dell’uE. Si auspica, tuttavia e sin da ora, in primis che le SSrr della Corte dei conti accolgano la domanda di rinvio pregiudiziale, ed in secundis che la risposta della Corte europea si snodi sulle linee interpretative che si argomenteranno infra, logiche e coerenti -sia giuridicamente sia economicamente nonché maggiormente rispondenti ai principi di contabilità nazionale. 5. Il problema. L’inquadramento sistematico e la natura giuridica delle quote associative. Si è anticipato che il cuore della questione attiene alla natura giuridica ed al conseguente inquadramento sistematico delle quote associative o “tesseramenti”. la questione è antica e sul punto si registrano posizioni diverse, sia in dottrina sia in giurisprudenza, tuttavia, troppo generali ed ondivaghe perché si formi sul punto un orientamento meritevole di seguito. Se, infatti, ai fini dell’inserimento delle unità istituzionali all’interno dell’Elenco predisposto dall’istat appare essere dirimente l’esito del test mar- ket/non market -che ove negativo, importa la conseguente realizzazione anche del successivo requisito del controllo pubblico - le Corti spesso hanno evitato di pronunciarsi sullo specifico punto, esaminando il solo profilo inerente il controllo, con pronunce talvolta discordanti. Talvolta ritenendo “pubbliche” le sole entrate provenienti dalle casse pubbliche, talaltra estendendo, invece, il concetto a tutte le somme richieste a titolo in ogni caso pubblicistico. in questo perimetro la questione inerente alla esatta qualificazione delle quote associative è spesso trattata incidentalmente e non è mai posta a fondamento dell’una o dell’altra tesi. Anche due recentissime pronunce della Corte di Cassazione a Sezioni unite (8), pur accogliendo le tesi erariali, e quindi legittimando l’inclusione (8) invero le sentenze citate Cass. civ. SS.uu. nn. 12496/2017 e 12504/2017 sono di importanza fondamentale in ordine agli altri profili sollevati dalle unità istituzionali che lamentino l’illegittimo inserimento nell’Elenco istat. in particolare la Suprema Corte si è espressa negativamente in primis in ordine alla sollevata questione di legittimità costituzionale dei poteri giurisdizionali della corte dei conti in siffatta materia, ritenendo la questione manifestamente infondata rivestendo le SSrr «una mera articolazione interna del plesso giurisdizionale della magistratura contabile, ... peraltro, non essendo ravvisabile alcuna riserva di generale giurisdizione sulla legittimità degli atti amministrativi a tutela di rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 delle predette unità all’interno dell’Elenco controverso, nulla dicono - ma ciò in ragione della natura del giudizio (9) - in ordine alla natura ed al ruolo eco- nomico-giuridico che sarebbe ascrivibile alle quote associative, vero ago della bilancia nel calcolo del test market/non market e conseguentemente dell’appartenenza degli organismi de quibus al settore S 13 del SEC 2010. Sul punto inoltre, ma in un obiter dictum, le SSrr della Corte dei Conti in speciale composizione avevano statuito che «i "ricavi propri" di una unità istituzionale sono costituiti unicamente dalle entrate derivanti dall'attività caratteristica e specifica, cioè dai ricavi provenienti da vendite o da prestazioni di servizi tipiche dell'ente, mentre devono ritenersi non significativi, ai fini del test, le cd. quote associative, i contributi o altre provvidenze in conto esercizio erogati da operatori pubblici» (Sent. n. 48/2015/riS). È proprio quest’ultima finalità (pubblicistica) che deve portare ad escludere che i proventi derivanti dalle c.d. quote associative e dai tesseramenti possano essere considerati assimilabili ad entrate provenienti da “vendite di beni e servizi” al fine della verifica del test market/non market. le unità istituzionali ricorrenti, invece, considerando le quote versate dagli associati come provento derivante dalla propria attività di vendita di prodotti e servizi non destinati al mercato, qualificano dette quote quali “entrate derivanti dai proventi privati”, quando, invece, la loro natura giuridica appartiene alla voce “finanziamenti di natura pubblicistica”, di cui al SEC 2010. la caratteristica di produttore “non market” dell’unità istituzionale è indicata nel par. 20.16 del SEC2010 a norma del quale “la caratteristica di produttore di beni e servizi non destinabili alla vendita di un’istituzione senza scopo di lucro è determinata come per le altre unità delle amministrazioni pubbliche”, cioè a dirsi mediante l’applicazione del test del 50% (test market/non market), che ha la funzione di verificare in quale percentuale il ricavo delle vendite copra i costi di produzione dell’unità istituzionale considerata. Specificatamente, peraltro, il regolamento 549 del 2013 così cristallizza i concetti di beni o servizi “destinabili alla vendita” e “non destinabili alla vendita” - par. da 20.18 a 20.22. «Distinzione tra «destinabile alla vendita» e «non destinabile alla ven- posizioni giuridiche soggettive». In secundis, richiamandosi alle tesi già argomentate dalla Corte dei Conti SSrr, in ordine alla supposta inesistenza del requisito del controllo pubblico, le SS.uu. hanno ribadito che in proposito deve essere abbracciata la più ampia nozione di controllo pubblico, siccome delineata dall’uE, per la quale assume fondamentale rilevanza «non l’egemonia da parte dell’organo sovraordinato», ma una mera influenza gestionale e istituzionale. (9) il ricorso per Cassazione contro la decisione della Corte dei Conti è consentito, infatti, soltanto per motivi inerenti alla giurisdizione, sicché il controllo della Suprema Corte di Cassazione è circoscritto all’osservanza dei meri limiti esterni della giurisdizione, non estendendosi ad asserite violazioni di legge sostanziale o processuale concernenti il modo di esercizio della giurisdizione speciale (cfr. ex multis, Cass. SS.uu. n. 325/1999, Cass. n. 526/1998). DoTTrinA 285 dita» - Concetto di prezzi economicamente significativi par. 20.19: «I produttori di beni e servizi non destinabili alla vendita offrono tutta la loro produzione o la maggior parte di essa gratuitamente o a prezzi economicamente non significativi. Per prezzi economicamente significativi s'intendono i prezzi che esercitano un'influenza sostanziale sulla quantità di prodotto che i produttori sono disposti a fornire e sulla quantità di prodotto che gli acquirenti desiderano acquistare. Si tratta del criterio utilizzato per classificare la produzione come destinabile o non destinabile alla vendita e i produttori come produttori di beni e servizi destinabili o non destinabili alla vendita, e stabilire pertanto se un'unità istituzionale in cui un'amministrazione pubblica detiene una partecipazione di controllo debba essere definita come un produttore di beni o servizi non destinabili alla vendita e pertanto classificata nel settore delle amministrazioni pubbliche, oppure come un produttore di beni e servizi destinabili alla vendita e pertanto classificata come società pubblica». Ai par. ss. 20.20. si legge poi «mentre la valutazione di un prezzo come economicamente significativo viene effettuata al livello di ciascuna singola produzione, il criterio per determinare la natura di produttore di beni e servizi destinabili alla vendita o non destinabili alla vendita di un'unità si applica al livello di singola unità». 20.21 «Quando i produttori sono società private, si può presumere che i prezzi siano economicamente significativi. al contrario, in presenza di un controllo pubblico i prezzi dell'unità possono essere stabiliti o modificati per fini di politica pubblica, il che può creare difficoltà nello stabilire se i prezzi siano economicamente significativi. Spesso le società pubbliche sono costituite dalle amministrazioni pubbliche per fornire beni e servizi che il mercato non produrrebbe in quantità o a prezzi rispondenti alle politiche governative. Nel caso di tali unità che godono del sostegno delle amministrazioni pubbliche, le vendite possono coprire una quota consistente dei costi, ma la loro risposta alle forze di mercato sarà diversa rispetto alle società private». Con tutta evidenza, dal momento che la quota associativa corrisposta a codeste unità istituzionali è, com’è noto, fissa ed annualmente stabilita, la stessa: 1) non esercita “un'influenza sostanziale sulla quantità di prodotto” fornito; 2) non “si applica a livello di singola unità” di bene o servizio; 3) non risponde “alle forze di mercato” manca, in poche parole, il requisito della commutatività e corrispettività! in relazione ai servizi connessi ad una determinata attività, sportiva o culturale che sia, non si verifica, infatti, una vendita di beni e servizi ai tesserati/soci da parte dell’organismo, risultando il detto versamento un mero e formale presupposto per l’esercizio o la frequentazione dell’attività sportiva agonistica, culturale, etc. Conseguentemente e come già ampiamente argomentato, la finalità pub rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 blicistica perseguita dagli enti deve fare escludere che i proventi derivanti dalle c.d. quote associative e dai tesseramenti possano essere considerati assimilabili ad entrate provenienti da “vendite di beni e servizi” al fine della verifica del test market/non market. Si noti, peraltro, che il pagamento della quota associativa è spesso obbligatoriamente imposto da norme di legge - cfr. il caso delle fSn, dove il pagamento è imposto nei confronti non solo degli sportivi “professionisti” ma anche dei non “professionisti” che volessero praticare lo sport a livello agonistico (10) -, il che impone imprescindibilmente di considerare dette entrate come «contributi parafiscali». infatti, pur se il pagamento della quota è stabilito dallo Statuto di un ente nelle forme di diritto privato, l’obbligo di adesione all’ente stesso per alcune categorie di cittadini, indubbiamente, qualifica detti trasferimenti in senso pubblicistico. in questo contesto, dunque, il fatto che il contributo non sia previsto direttamente dalla legge statale, non vale ad escludere la natura pubblicistica del contributo, perché è la stessa legge che indirettamente ne impone il versamento ai singoli cittadini. Di qui la natura parafiscale e contributiva della quota associativa de qua. il provento derivante dalla quota pagata dal cittadino che voglia associarsi o tesserarsi non può, quindi, in alcun modo essere ascritto tra “ricavi da vendite e prestazioni di servizi tipiche dell’ente” né tra gli “altri ricavi e proventi”, sempre connotati da una caratterizzazione privatistica. Sul punto la Corte dei Conti SSrr in Speciale Composizione aveva, peraltro, già affermato che «occorre distinguere ... tra voci che nell'ambito delle quote associative sono riconducibili più propriamente a ricavi da vendite (quote di iscrizione a corsi), giacché connotate del requisito della corrispettività e che nella specie non coprono i costi della produzione e voci (quote di affiliazione, quote di tesseramento, multe e tasse di gara, diritti di segreteria, quote di licenza) che non sono assimilabili a ricavi da vendite, le quali, secondo quanto più volte precisato da queste Sezioni riunite (sentenze nn. 23/2015/rIS, 34/2015/rIS), sono versate non in funzione diretta ed esclusiva di una controprestazione» (Cfr. ex plurimis sentenze nn. 23/2015/riS, 34/2015/riS, 48/2015/riS). Con tutta evidenza, lo si ribadisce, le quote associative non possono essere inserite fra i ricavi propri, con la conseguenza di ritenere maggioritario l’ap- (10) nel caso specifico le federazioni Sportive nazionali agiscono, a ben vedere, in situazione di monopolio: non è, infatti, possibile per federazioni sportive non riconosciute e sovvenzionate dal Coni, far partecipare i propri iscritti alle gare valide, per esempio, per il Comitato olimpico internazionale. Pertanto, chiunque voglia svolgere l’attività sportiva agonistica, soprattutto a livello internazionale, deve necessariamente aderire all’unica federazione riconosciuta dal Coni e da quest’ultimo sovvenzionata con fondi pubblici e pagare obbligatoriamente il contributo associativo previsto, il cd. tesseramento. DoTTrinA 287 porto del finanziamento di stampo pubblicistico, posto che anche le dette quote sono versate nell’ambito di una finalità sempre di natura pubblica e normativamente protetta. l’accoglimento di una opposta conclusione violerebbe, peraltro, i principi comunitari ispirati ad una nozione ampia di pubblica amministrazione, volta a ricomprendere nel perimetro molteplici soggetti di spesa, pur nelle diversità dei rispettivi regimi giuridici che ne connotano la struttura, l’organizzazione, i fini operativi e l’azione. Violerebbe, altresì, l’obbligo sancito a livello eurocomunitario di conformare i conti nazionali al nuovo contesto economico, nonché l'obbligo di contribuire all'andamento della finanza pubblica in una dimensione solidale nel rispetto dei prefissati obiettivi nazionali e sopranazionali. 6. Conclusioni. Cui prodest? l’esito negativo del test market/non market, il conseguente grado di finanziamento di natura pubblica prevalente, nonché la presenza di un rilevante controllo da parte di un ente pubblico, rende legittimo l’inserimento delle unità istituzionali che presentino le descritte caratteristiche nell’Elenco istat. Si rileva, peraltro, che sia la normativa europea sia la legislazione nazionale hanno abbracciato una nozione lata di pubblica amministrazione, tale per cui molteplici soggetti di spesa, pur nelle diversità dei rispettivi regimi giuridici che ne connotano struttura organizzativa, fini operativi ed azione, hanno tutti in comune tra di loro un elemento di indiscusso e cogente rilievo normativo: l'obbligo costituzionalmente positivizzato di contribuire all'andamento della finanza pubblica in una dimensione di "corresponsabilità" quanto al rispetto di prefissati obiettivi nazionali e sopranazionali (cfr. Cost. artt. 23, 41, 53, 100, 72 comma 4, 75 comma 2, 81). E ciò al fine di conformare i conti nazionali al nuovo contesto economico, ai progressi della ricerca metodologica e alle esigenze degli utilizzatori, come chiaramente emerge dai Considerando del rEG. uE 549/2013. la materia di cui trattasi, peraltro, lungi dal comportare irreparabili pregiudizi od ingiuste sofferente economiche in capo alle unità istituzionali ricorrenti (11), è esclusivamente finalizzata alla buona amministrazione della res publica. l’inclusione delle predette unità nell’elenco iSTAT è, infatti, prettamente di natura ricognitiva e statistica, volta ad accertare, monitorare e verificare la (11) Gli unici adempimenti ai quali le unità sarebbero chiamate prevedono il rispetto dei termini di adozione e approvazione del bilancio e del budget (ex art. 24 d.lgs. 91/2011), obblighi di comunicazione dei dati di bilancio e finanziari al MEf (ex art. 18 D.l. 78/2009), obblighi di fatturazione elettronica (ex art. 25 D.l. 66/2014), obblighi connessi al monitoraggio e alla certificazione dei debiti (art. 27 D.l. 66/2014). Con tutta evidenza si tratta di oneri imposti al fine di pervenire ad una più completa, veritiera ed attendibile panoramica della contabilità nazionale in un’ottica di trasparenza e legittimità. rASSEGnA AVVoCATurA DEllo STATo - n. 2/2017 gestione delle risorse pubbliche in conformità con gli obblighi, gli impegni e i progetti sia nazionali sia eurocomunitari. la ridefinizione della res controversa in esame innanzi alla Corte di giustizia dell’unione Europea avrebbe, pertanto, ricadute sia sul valore del Pil sia sui principali indicatori di finanza pubblica, quali, ad esempio, l'indebitamento netto ed il debito pubblico. Di qui l’importanza fondamentale della questione sinora esaminata. nell’attesa che le SSrr della Corte dei Conti rimettano la questione in seno alla Corte Europea di Giustizia, al fine di definire un perimetro comune di azione sul piano interpretativo-applicativo, per l’affermazione del generale principio della regolarità, trasparenza e correttezza della contabilità nazionale. RECENSIONI GuGlielmo BernaBei, Giacomo montanari, “Autonomie e Finanza Locale”, con il contributo di Andrea Ferri, Giorgio Macciotta, Pasquale Mirto, Giovambattista Palumbo, Giancarlo Pola, Francesco Tuccio. (cleup editore -università di Padova, 2017, pp. 278) In occasione della presentazione di un precedente lavoro, all’interno di un convegno appositamente organizzato nel luglio 2016 a Roma, presso la Camera dei deputati, ci chiedevamo quanto fosse ardua la ricerca di un equilibrio in tema di finanza locale. Con questo nuovo studio si vuole fornire una prospettiva compiuta sul difficile tema del decentramento amministrativo e della finanza locale. I tributi locali immobiliari e i tributi locali ambientali avrebbero dovuto costituire nelle intenzioni, sia del legislatore sia della dottrina, gli ambiti privilegiati di finanziamento dei Comuni. Negli ultimi anni l’imposizione immobiliare in Italia è stata oggetto di molti, troppi, cambiamenti, avvenuti sotto la pressione del rientro del deficit pubblico. L’ultimo approdo, di un percorso faticoso e confuso, è stata la legge di Stabilità 2016, la quale ha previsto l’abolizione dell’imposta sulla proprietà della abitazione principale, in modo che, oggi, la prima casa è libera da prelievi, sia ai fini Imu/Tasi, sia ai fini Irpef. L’imposizione immobiliare è, quindi, basata solo sulle seconde case, sottoposte a Imu, se sfitte e non situate nello stesso Guglielmo Bernabei, dottore di ricerca e cultore della materia in Diritto costituzionale, Diritto regionale e degli Enti locali. Giacomo Montanari, giurista d’impresa, specializzato presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali dell’Università di Padova ed esperto di Diritto tributario degli Enti locali e di finanza locale. Andrea Ferri, responsabile del Dipartimento di Finanza locale della Fondazione Ifel/Anci. Giorgio Macciotta, componente del Comitato Direttivo della Fondazione Astrid e già Sottosegretario di Stato per il tesoro, il bilancio e la programmazione economica. Pasquale Mirto, responsabile del servizio tributi dell’Unione Comuni Modenesi, consulente Anci Emilia Romagna e condirettore della rivista “Finanza e tributi locali”. Giovambattista Palumbo, direttore dell’Osservatorie di politiche fiscali di Eurispes. Giancarlo Pola, Professore Eminente di Scienza delle Finanze nell’Università di Ferrara. Francesco Tuccio, Presidente Anutel (Associazione Nazionale Uffici Tributi Enti Locali). RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2017 Comune dell’abitazione principale, e sottoposte a Imu, Irpef e regime della cedolare secca negli altri casi. Concettualmente, si è a lungo sostenuto che l’introduzione di una imposta sulla prima casa non avrebbe finalità distributive, ma di service tax. L’analisi della distribuzione delle abitazioni principali, per condizioni economiche e familiari, fornisce alcune utili indicazioni sulle tipologie di nuclei familiari potenzialmente più favoriti dall’eliminazione dell’imposta sulla prima casa. L’incidenza di nuclei familiari proprietari di prima casa è piuttosto elevata, circa il 69%. In termini di composizione risulta che il 58,4% dei nuclei familiari proprietari di abitazione principale appartiene al 50% più ricco di reddito familiare. Anche il valore della rendita catastale della prima casa, che costituisce la base imponibile dell’imposizione immobiliare, è legata al reddito disponibile familiare; il valore medio della rendita catastale del- l’abitazione di residenza, infatti, varia tra i 542 e i 902 euro. Dunque, l’analisi della distribuzione del patrimonio per condizioni economiche familiari evidenzia come, dall’abolizione dell’imposizione sulla prima casa, traggono vantaggio, in termini di numerosità e di base imponibile, più i nuclei familiari agiati rispetto ad altri. Complessivamente, il gettito perso in seguito alla mancata tassazione della prima casa è pari a circa 6,5 miliardi di euro, di cui 3,9 provenienti dall’Imu sulla prima casa e 2,5 dalla deduzione dal reddito legato all’Irpef. Rispettivamente il 70% e il 72% del risparmio di imposta derivante dall’abolizione dell’imposizione sulla prima casa e dalla deduzione Irpef favorisce il 50% dei nuclei più ricchi di reddito familiare. Ne consegue che l’unica componente del patrimonio immobiliare soggetta sia a Imu sia a Irpef è data dalle abitazioni diverse dalla prima casa, con una distribuzione molto più sperequata rispetto all’abitazione principale. Tuttavia, in Italia è molto diffusa la proprietà delle seconde case, anche tra le classi di reddito più basse. La quota di nuclei familiari proprietari di seconde case è pari al 27% del totale; il 67% dei nuclei familiari proprietari di seconde case appartiene alla metà più ricca della popolazione. Va, inoltre, considerato che le seconde case possono essere affittate o tenute a disposizione. In Italia, circa il 46% delle seconde case è locata; la percentuale di nuclei familiari con seconde case affittate si aggira attorno al 12,5%, un dato rilevante in termini assoluti. In tema di imposizione immobiliare sulle seconde case i cambiamenti più importanti intervenuti nel recente passato sono il passaggio dall’Ici all’Imu e la scelta di non tassare, ai fini Irpef, quelle non locate. Nel 2011, infatti, con la sostituzione dell’Ici con l’Imu si è stabilito che le seconde case soggette a Imu non sono imponibili per l’Irpef, mentre lo erano con l’Ici. Sul punto, si è ritenuto che la decisione di escludere dall’Irpef le case sfitte potesse costituire un disincentivo all’emersione degli affitti in nero, grave piaga sociale. Nell’intento di correggere, almeno in parte, questa deriva, la legge di Stabilità 2014 ha disposto alcune eccezioni alla regola dell’alternatività tra Imu e Irpef, prevedendo la reintroduzione, nell’imponibile per l’Irpef, delle seconde case sfitte collocate nello stesso Comune dell’abitazione principale del proprietario, ma solo per un valore pari al 50% delle rendite catastali. Restano, poi, escluse dall’Irpef le seconde case sfitte poste in un Comune diverso da quello dell’abitazione principale del proprietario. La distribuzione della proprietà, anche a causa di politiche che hanno incentivato il ricorso all’abitazione come bene rifugio, è tale per cui le classi di reddito più basse sono soggette al pagamento di imposte significative, trovandosi, inoltre, nell’impossibilità di mettere sul mercato il patrimonio immobiliare. In questo contesto, va sottolineato il rinvio della riforma del catasto, mirata a riallineare RECENSIONI 291 le rendite catastali con il valore commerciale. Sotto il profilo dell’equità, la modifica del catasto pone il tema dell’invarianza di gettito e, quindi, della distribuzione territoriale dei nuovi carichi fiscali che, in alcuni casi, potrebbero essere di entità molto consistente. A questa situazione si aggiunge il fatto che i processi di federalismo fiscale, avviati e non conclusi, non hanno concretamente determinato significativi rafforzamenti dello spazio di autonomia finanziaria locale. Al contrario, è facilmente rilevabile che si è proceduto ad una semplice trasformazione delle modalità e degli strumenti attraverso i quali lo Stato esercita le proprie prerogative in materia di controllo finanziario sugli enti locali. Il percorso di attuazione della riforma del Titolo V, avviata nell’ormai lontano 2001, non ha mai trovato piena applicazione. I diversi decreti delegati che si sono susseguiti negli ultimi anni si sono mossi prevalentemente su un piano ancora troppo generale, rinviando ad altri provvedimenti, poi non adottati, di natura amministrativa e regolamentare, la disciplina di procedure di notevole rilevanza nell’ottica del raggiungimento delle finalità della riforma. Inoltre, le rigorose misure di finanza pubblica, realizzate con atti di decretazione d’urgenza a partire dal 2011, in un contesto di grave crisi economica, hanno avuto un impatto negativo sul piano dell’attuazione della legge delega n. 42 del 2009, restringendo gli spazi di autonomia finanziaria e tributaria che faticosamente gli enti locali si erano ritagliati nel corso del decennio precedente. I decreti sulla cosiddetta spending review hanno, poi, rappresentato uno strumento di forte impatto sul controllo della spesa pubblica nei confronti di tutti gli enti territoriali. In sede di legge di Stabilità, a partire dal 2013, si è verificata una progressiva riduzione dei trasferimenti dallo Stato centrale agli enti locali. Sottrazione di risorse economiche che hanno creato non poche difficoltà nel funzionamento dell’ente locale stesso e nella gestione del territorio da esso governato. Gli interventi normativi non hanno tenuto nella giusta considerazione le differenziazioni a livello dimensionale e territoriale degli enti locali. Il livello e la composizione delle entrate e delle spese dei Comuni presenta, infatti, una forte variabilità legata all’eterogeneità delle loro caratteristiche orografiche, demografiche, economiche e sociali. Queste sono alla base di domande differenziate di servizi da parte dei cittadini e, nello stesso tempo, condizionano i costi della fornitura dei medesimi servizi. La definizione di una autentica forma di service tax sembra abbandonata, venendo meno quel collegamento con il costo dei servizi indivisibili forniti dai Comuni, i cui primi utilizzatori sono sicuramente i titolari di abitazione principale. Accanto ai tributi immobiliari locali, poi, è interessante concentrare l'attenzione sul tema della finanza locale ambientale, le cui peculiarità hanno assunto, con il passare del tempo, una rilevanza che potrebbe definirsi esponenziale. Per una analisi di sistema, appare sempre necessario riferirsi alla riforma costituzionale del 2001 che, nella generale rivisitazione del Titolo V, ha di fatto riformulato l'attribuzione delle competenze e la ripartizione delle stesse tra i vari livelli di governo. Sicuramente, vanno tenuti distinti i principi fondamentali di coordinamento, considerati espressamente dagli artt. 117, comma 3, e 119, comma 2, della Costituzione, dai principi generali del sistema tributario, cui gli statuti delle Regioni fanno riferimento, in cui incanalare l'esercizio della potestà normativa di imposizione delle Regioni. I principi fondamentali di coordinamento sono sostanzialmente gli unici principi che consentono allo Stato, quale garante della legalità repubblicana e della unitarietà dell'ordinamento, di intervenire nella materia tri RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2017 butaria attribuita alla competenza esclusiva delle Regioni. Dovendo appunto, svolgere una funzione di coordinamento, essi dovrebbero essere stabili, univoci e ricavabili da parametri costituzionali, oltre che avere di mira la tutela dell'unità dell'ordinamento. A causa della lunga latitanza del legislatore statale in materia di principi di coordinamento, questi ultimi, piuttosto che avere la funzione di consentire allo Stato di disegnare le linee del sistema tributario nel suo complesso ed essere regole di indirizzo che si associano a quelle, costituzionali, tendono a ridursi a norme ordinarie, che hanno sì un qualche carattere di generalità, ma che, rimangono pur sempre regole di fattispecie e sicuramente non di indirizzo. L'attuazione di una politica tributaria ambientale non è facile in quanto la proposizione in generale di un tributo non è cosa gradita né per i privati e né per le imprese e tantomeno quando il tributo non riesce a modellarsi sui canoni di una tariffa, non essendo, in realtà, nella accezione propria del termine, né una tariffa né una tassa. La funzione tributaria ha un carattere essenzialmente strumentale e non attiene alla cura diretta degli interessi dell'ente locale, ma serve ad assicurare i mezzi per poter assolvere ai compiti a questo assegnati. Da ciò ne consegue che, ove l'ente locale abbia il potere di istituire tributi, ossia di autodeterminarsi in relazione ai mezzi necessari per lo svolgimento delle proprie funzioni, le scelte da questo operate potranno risultare più o meno condivisibili o razionali, ma ovviamente gli enti locali non dovranno mai esorbitare dalla propria sfera di competenza. Necessaria è, quindi, la nascita di una politica tributaria come strumento regolatorio della materia ambientale che possa, mediante la leva fiscale e con la previsione di idonei controlli, assicurare l'utilizzo eco-compatibile dell'ambiente in un equilibrio complessivo degli interessi nella logica valutativa delle esternalità positive e negative. Il fatto che la tassazione sia funzionale alla tutela di un bene di competenza legislativa esclusiva statale, quale l'ambiente, non dovrebbe, dunque, opporsi a che le Regioni svolgano il loro potere primario di imposizione, assumendo, in diretta applicazione del quarto comma dell'art. 117 Cost., alcuni eventi dannosi che si producono in modo fisso nel loro territorio quali elementi materiali dei presupposti dei tributi regionali e locali propri. L’importante è che: a) il presupposto prescelto dalla Regione non duplichi quello dei tributi erariali e la sua previsione risponda a criteri di adeguatezza, proporzionalità e coerenza, b) siano rispettati i principi fondamentali di coordinamento fissati dallo Stato in materia, c) sussista una effettiva connessione di tali tributi con il territorio e con l’interesse regionale o locale. Lo sviluppo della fiscalità ambientale - intesa nell'accezione ampia - si configura, ai diversi livelli di governo, come una metamorfosi del sistema, che presuppone il passaggio da alcune forme di prelievo ad altre. Il sistema viene orientato in senso ambientalista attraverso l'imposizione di tributi con funzione disincentivante/redistributrice o con funzione di reperimento di risorse, oppure attraverso le misure di agevolazione fiscale. Al riguardo, si segnala la nuova disciplina comunitaria degli aiuti di Stato per la tutela ambientale, che determina obiettivi e modalità del controllo di compatibilità comunitaria delle misure nazionali, sul presupposto che gli aiuti di Stato, a determinate condizioni, non solo consentono di correggere i fallimenti del mercato, migliorandone il funzionamento e rafforzando la competitività, ma possono contribuire a promuovere lo sviluppo sostenibile. La ricerca di nuovi equilibri fiscali, che garantiscano la sostenibilità politica e di bilancio delle politiche di imposizione o di agevolazione con finalità ambientale, presuppone sempre l'assunzione di una prospettiva di sistema. Se finora l'imposizione ambientale si è essenzialmente tradotta in disposizioni frammentarie, in futuro dovrebbe prevalere un approccio diverso, che sappia combinare interventi additivi di tributi RECENSIONI 293 ambientali o con funzione ambientale e interventi riduttivi di altri tributi esistenti, per evitare stratificazioni di prelievo insostenibili. Si tratta di profili strategici particolarmente sensibili per gli enti più vicini ai cittadini, nella logica del principio di sussidiarietà. E anche vero però che il tributo ambientale in senso stretto, quanto più funziona tanto meno produce gettito. Vi è, dunque, una correlazione inversa tra effetti comportamentali ed effetti fiscali: la massimizzazione degli uni si traduce in minimizzazione degli altri e viceversa. Ciò rende il prelievo ambientale "puro" poco funzionale alle sole esigenze di cassa. Al contrario, i tributi con funzione ambientale, o tributi ambientali in senso ampio, hanno prevalenti finalità di cassa: tanto è vero che, spesso, l'ispirazione ambientale si riduce a pretesto per rendere più accettabile il prelievo ai contribuenti. Appare ormai necessaria una effettiva rimodulazione del sistema fiscale coerente con altri obiettivi in campo economico e sociale. In tale direzione non è da trascurare la possibilità che ciò avvenga coinvolgendo, in maniera significativa, il contesto locale e il processo di decentramento fiscale. Dunque, la politica ambientale può intrecciarsi positivamente con l’autonomia tributaria locale e con le regole di responsabilità e di sussidiarietà che essa esprime. Nonostante i buoni propositi, la fiscalità ambientale non è stata esplicitamente contemplata dal D.lgs. 14 marzo 2011, n. 23, in tema di federalismo fiscale municipale, né dal D.lgs. 6 maggio 2011, n. 68. Tuttavia, appare ancora possibile una previsione ecologicamente orientata, che si sostanzi in un sistema di prelievi locali a carattere ambientale, strettamente correlati all'allocazione delle fonti inquinanti, per quanto in uno spazio operativo più angusto rispetto alle premesse della legge delega 42/2009. Inoltre, data l’ampia articolazione delle tematiche trattate, il presente studio è arricchito dall’apporto di autorevoli studiosi e operatori del settore, tra i massimi esperti in materia di decentramento amministrativo e finanza locale. Ad Andrea Ferri, Giorgio Macciotta, Pasquale Mirto, Giovambattista Palumbo, Giancarlo Pola e Francesco Tuccio, va un sentito ringraziamento per le indicazioni suggerite nella stesura di questo lavoro. La ricerca è stata condotta con il sostegno e la promozione di ANUTEL, Associazione Nazionale degli Uffici Tributi degli Enti Locali, di Fondazione IFEL, Istituto per la Finanza e l’Economia Locale, Fondazione istituita dall’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani (ANCI), di Centro Studi dei Comuni italiani, di Fondazione ASTRID, Fondazione per l’Analisi, gli Studi e le Ricerche sulla Riforma delle Istituzioni Democratiche e di Cleup editore Università di Padova. Finito di stampare nel mese di ottobre 2017 Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo S.p.A. Vicolo della Guardiola n. 22 - 00186 Roma