ANNO LXVIII - N. 4 OTTOBRE - DICEMBRE 2016 RASSEGNA AV V O C AT U R A DELLO STATO PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO COMITATO SCIENTIfICO: Presidente: Michele Dipace. Componenti: Franco Coppi - Giuseppe Guarino - Natalino Irti - Eugenio Picozza - Franco Gaetano Scoca. DIRETTORE RESPONSABILE: Giuseppe Fiengo -CONDIRETTORI: Maurizio Borgo, Danilo Del Gaizo e Stefano Varone. COMITATO DI REDAZIONE: Giacomo Aiello -Lorenzo D’Ascia -Gianni De Bellis -Francesco De Luca - Wally Ferrante -Sergio Fiorentino -Paolo Gentili -Maria Vittoria Lumetti -Francesco Meloncelli Marina Russo. CORRISPONDENTI DELLE AVVOCATURE DISTRETTUALI: Andrea Michele Caridi -Stefano Maria Cerillo - Pierfrancesco La Spina -Marco Meloni -Maria Assunta Mercati -Alfonso Mezzotero -Riccardo Montagnoli -Domenico Mutino -Nicola Parri -Adele Quattrone -Pietro Vitullo. HANNO COLLABORATO INOLTRE AL PRESENTE fASCICOLO: Giuseppe Albenzio, Giuseppe Arpaia, Carlo Bellesini, Guglielmo Bernabei, Chiara Bianco, Antonio Blandini, Emanuela Brugiotti, Federico Casu, Nicolò Cocci, Alfonso Contaldo, Gianna Maria De Socio, Paolo Del Vecchio, Marinella Di Cave, Ruggero Di Martino, Giulia Fabrizi, Michele Gorga, Andrea Lepore, Umberto Maiello, Lucia Marzialetti, Massimo Massella Ducci Teri, Flaviano Peluso, Gabrile Pepe, Ida Perna, Francesco Radicetti, Martina Strazzeri, Ivan Michele Triolo, Sabrina Trivelloni, Nicola Usai. Email giuseppe.fiengo@avvocaturastato.it maurizio.borgo@avvocaturastato.it danilodelgaizo@avvocaturastato.it stefanovarone@avvocaturastato.it ABBONAMENTO ANNUO ..............................................................................€ 40,00 UN NUMERO .............................................................................................. € 12,00 Per abbonamenti ed acquisti inviare copia della quietanza di versamento di bonifico bancario o postale a favore della Tesoreria dello Stato specificando codice IBAN: IT 42Q 01000 03245 348 0 10 2368 05, causale di versamento, indirizzo ove effettuare la spedizione, codice fiscale del versante. I destinatari della rivista sono pregati di comunicare eventuali variazioni di indirizzo AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO RASSEGNA - Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma E-mail: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it Stampato in Italia - Printed in Italy Autorizzazione Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 indice -sommario TEMI ISTITUZIONALI Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato, avv. Massimo Massella Ducci Teri, in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2017 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1 Intervento del Vice Avvocato Generale, avv. Giuseppe Albenzio, in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2017, Corte di appello di Roma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 4 Diritto di accesso a dati e documenti - Art. 5 d.lgs. n. 33/2013, come modificato dall’art. 6 del d.lgs. n. 97/2016. Regime provvisorio ai fini delle esclusioni e dei limiti all’accesso generalizzato, Circolare S.G. prot. 607158 del 23 dicembre 2016 n. 61 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 8 Decreto del Presidente del Consiglio di Stato concernente disciplina dei criteri di redazione e limiti dimensionali dei ricorsi e degli altri atti difensivi nel processo amministrativo, Circolare S.G. prot. 11857 del 11 gennaio 2017 n. 1 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 10 CONTENZIOSO NAZIONALE Ivan Michele Triolo, Canoni del demanio marittimo: il secondo atto della Consulta sulla rideterminazione in forza della Legge finanziaria 2007 (C. Cost., sent. 27 gennaio 2017 n. 29) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 15 Nicola Usai, I mobili confini applicativi dell’Irap alla luce delle recenti statuizioni delle Sezioni Unite (Cass. civ., Sez. Un., sentt. 14 aprile 2016 n. 7371 e 10 maggio 2016 n. 9451) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 23 Lucia Marzialetti, Il regime di esenzione I.V.A. delle operazioni in coassicurazione: l’interpretezione restrittiva entra dalla porta ed esce dalla finestra. La ricondicibilità nell’alveo delle “operazioni di assicurazione” delle prestazioni svolte in esecuzione di clausola di delega nell’ambito di un contratto di coassicurazione (Cass. civ., Sez. V, sent. 4 novembre 2016 n. 22429) ›› 34 federico Casu, Ancora sull’associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico. Brevi considerazioni (Cass. pen., Sez. V, sent. 14 novembre 2016 n. 48001) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 58 Marinella Di Cave, In tema di demanialità marittima (Le Valli da pesca della laguna di Venezia) (Cass. civ., Sez. II, sent. 21 dicembre 2016 n. 6616) ›› 66 Giulia fabrizi, Scissione ope legis del rapporto organico e responsabilità del funzionario per il contratto stipulato in violazione delle norme di contabilità pubblica dell’Ente. Improponibilità dell’azione ex art. 2041 cod. civ. nei confornti della P.A. (Cass. civ., Sez. I, sent. 4 gennaio 2017 n. 80) ›› 79 Emanuela Brugiotti, La Procura Generale presso la Corte di appello non è legittimata ad impugnare le sentenze di primo grado in materia di adozione, nè quelle di adozione in casi particolari (C. app. Roma, Sez. Minorenni, sent. 23 novembre 2016) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ›› 90 Giuseppe Arpaia, Il danno ricevuto dai medici specializzandi ante d.lgs 257/1991 ed il relativo onere della prova (C. app. Napoli, I Sez. civ., sent. 2 dicembre 2016 n. 4282). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Martina Strazzeri, Incremento dell’importo delle borse di studio percepite dai medici specializzandi iscritti anteriormente all’anno accademico 2006/2007: inquadrameno sistematico alla luce di una recente sentenza del Giudice del lavoro di Catania (Trib. Catania, Sez. lav., sent. 26 aprile 2016 n. 1793) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Chiara Bianco, francesco Radicetti, Profili normativi e problematici dell’Accesso civico (Cons. St., Sez. IV, sent. 14 luglio 2016 n. 3631). . . LEGISLAZIONE ED ATTUALITà Alfonso Contaldo, flaviano Peluso, La Posta Elettronica Certificata nella pratica amministrativa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Alfonso Contaldo, Michele Gorga, Le novità della disciplina del Processo Civile Telematico (PTC) anche con riguardo alla recente disciplina del Codice dell’Amministrazione Digitale (CAD) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Nicolò Cocci, Il risarcimento del danno da fumo di sigarette nel diritto vivente. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . CONTRIBUTI DI DOTTRINA Gianna Maria De Socio, Le conseguenze dell’inosservanza del contraddittorio alla luce del raffronto fra i valori costituzionali sottesi all’istituto del contraddittorio e quelli sottesi all’esercizio dell’azione impositiva. . Carlo Bellesini, L’articolo 21 bis della legge n. 287 del 1990 e la legittimazione ad agire nel processo amministrativo dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Gabrile Pepe, Brevi considerazioni sulla natura giuridica delle Federazioni sportive nazionali. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ida Perna, L’annullamento “atipico” del provvedimento tipico e le interferenze con la regolazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Sabrina Trivelloni, Attività di protezione civile tra contratti di appalto, affidamenti in house ed accordi fra pubbliche amministrazioni ex art. 15 legge 7 agosto 1990, n. 241 ed art. 6 legge 24 febbraio 1992, n. 225, alla luce dell’entrata in vigore del D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50 . . . . . . . . . . RECENSIONI “Codice di giustizia sportiva F.I.G.C. annotato con la dottrina e la giurisprudenza” a cura di Antonio Blandini, Paolo Del Vecchio, Andrea Lepore e Umberto Maiello -Edizioni Scientifiche Italiane, 2016 . . . . . . . . Guglielmo Bernabei, Carattere provvedimentale della decretazione d’urgenza. L’amministrazione con forza di legge, Wolters Kluwer / Cedam, 2017 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 99 ›› 110 ›› 129 ›› 147 ›› 166 ›› 195 ›› 219 ›› 239 ›› 264 ›› 274 ›› 290 ›› 307 ›› 312 TEMIISTITUZIONALI CERIMONIA DI INAUGURAZIONE DELL’ANNO GIUDIZIARIO 2017 Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato Avv. Massimo Massella Ducci Teri Signor Presidente della Repubblica, Autorità, Signor Primo Presidente della Corte di Cassazione, Signor Procuratore Generale, Signore e Signori È con vivo piacere che, anche quest’anno, prendo la parola in questa solenne Cerimonia di inaugurazione per porgere il saluto dell’Istituto che ho l’onore di dirigere. Nella sua approfondita ed ampia relazione il Primo Presidente ha riferito in modo analitico sui risultati raggiunti dalla Suprema Corte nell’anno 2016 e non può che esprimersi vivo apprezzamento e gratitudine per il grandissimo impegno profuso dai magistrati e dal personale amministrativo che vi operano. 1. Questi risultati confermano, inoltre, l’efficacia del disegno riformistico che si è avviato nel corso della presente legislatura, e che ha sicuramente prodotto i suoi frutti in termini di una notevole riduzione dei tempi dei processi civili e, conseguentemente, delle pendenze civili, come evidenziato anche dal Ministro Orlando nella relazione alle Camere sullo stato della Giustizia in Italia. In questa direzione va anche la recentissima riforma del giudizio di legittimità introdotta dall’art. 1-bis del decreto legge n. 168 del 2016, cui ha fatto immediatamente seguito la firma del Protocollo d’Intesa tra la Corte di Cassazione, il Consiglio Nazionale Forense e l’Avvocatura dello Stato. In sostanza, i tre principali protagonisti del processo davanti alla Corte hanno concordato sulle modalità di gestione delle udienze, interpretando in modo condiviso le nuove regole che il legislatore ha introdotto per cercare di ridurre il gravoso peso dell’arretrato civile davanti alla Suprema Corte. rASSEGNA AvvOCAturA DELLO StAtO - N. 4/2016 La lodevole iniziativa del Primo Presidente non poteva essere più opportuna. Ed invero l’accurata scelta di opzioni interpretative intelligenti e costituzionalmente orientate, consente di delineare un quadro di certezze da cui non potrà che derivare giovamento allo sforzo che la Corte sta affrontando. Può sembrare forse solo un piccolo passo, ma il nuovo Protocollo si aggiunge a quello tra la Corte e la Procura Generale sul medesimo oggetto del 18 novembre 2016, ma soprattutto al precedente Protocollo d’intesa sulla redazione dei motivi di ricorso sottoscritto un anno prima tra la Corte ed il Consiglio Nazionale Forense, al quale l’Avvocatura conta di dare, quanto prima, la propria adesione. Si tratta in realtà di passi importanti per ridurre i tempi della giustizia e per consentire alla Corte di poter esercitare con sempre maggiore efficacia la sua indispensabile funzione di nomofilachia. Funzione essenziale per garantire la prevedibilità delle decisioni e, conseguentemente, la certezza del diritto. Quella certezza che sempre più deve diventare l’obiettivo della nostra giustizia; e ciò sia per una evidente esigenza di parità di trattamento tra tutti i cittadini, sia per contribuire -anche per tale via -alla deflazione del contenzioso in atto. Di ciò credo che dovremmo essere grati alla Corte, per avere coraggiosamente intrapreso questa strada, che speriamo possa essere percorsa anche in altre successive occasioni, nelle quali l’Avvocatura dello Stato non farà mai mancare il suo contributo. 2. D’altro canto l’esigenza di una costante e proficua collaborazione del- l’Avvocatura dello Stato con la Suprema Corte è resa viepiù necessaria dal numero dei contenziosi che vedono le Amministrazioni patrocinate quali parti: solo nel 2016 tale numero ha superato i 9.000 affari. Il contenzioso dello Stato rappresenta oltre un terzo di tutto quello all’esame della Suprema Corte in sede civile e, di questo terzo, circa il 90% è costituito dal contenzioso tributario. 3. Sempre in chiave di accelerazione dei processi ricordo, inoltre, il lavoro svolto dall’Avvocatura dello Stato nell’avvio e nell’implementazione del processo civile telematico, fornendo il proprio contributo nei tavoli istituiti presso il Ministero della giustizia per la elaborazione di proposte normative, regolamentari ed organizzative, sia sul piano generale che in relazione alle peculiarità del contenzioso erariale. Si tratta del resto di attività assolutamente necessarie per il nostro Istituto che deve confrontarsi con una considerevole mole di lavoro. Non intendo, certo, tediare l’uditorio con tabelle e dati statistici: tuttavia, alcuni numeri è opportuno che vengano conosciuti, perché sono sempre particolarmente significativi. Nel 2016 l’impegno dell’Avvocatura dello Stato nella sua attività di patrocinio e consulenza in favore delle Amministrazioni, delle Autorità indipendenti e degli altri Enti pubblici, ha registrato un incremento, a livello nazionale, del 7,5%, passando ad oltre 165.000 affari nuovi. Essi si aggiungono a quelli pendenti, per un totale di circa un milione di affari. tEMI IStItuzIONALI Si tratta di una mole di lavoro imponente, destinata, peraltro, ad aumentare nell’anno in corso in ragione dell’attribuzione all’Avvocatura dello Stato del patrocinio della neo istituita Agenzia delle Entrate-riscossione, chiamata a esercitare i compiti fin’ora svolti dalla soppressa Equitalia. L’Avvocatura dello Stato subentrerà solo in una parte di tale contenzioso (che raggiunge anch’esso la considerevole cifra di circa 150.000 affari nuovi l’anno), ma esso si aggiungerà a quello sopra richiamato. È, quindi, evidente la gravosità del lavoro per tutti i componenti della Avvocatura dello Stato, che lo affrontano con impegno e dedizione. In questa prospettiva non posso non ricordare, ed esprimere il mio personale riconoscimento al Governo, per averci consentito l’assunzione di 17 nuovi avvocati dello Stato e di 24 procuratori e di aver autorizzato l’indizione di un ulteriore concorso per procuratori dello Stato. 4. Concludo osservando che il particolare momento che il Paese sta attraversando richiede a tutte le Istituzioni ed a tutti noi di continuare a profondere il massimo impegno nell’esercizio dei compiti che ci sono affidati. Sono certo di poterLe assicurare, Signor Presidente della repubblica, che l’Avvocatura dello Stato e i suoi componenti continueranno a fare ogni possibile sforzo per essere all’altezza delle rilevanti funzioni assegnate, e di non deludere la fiducia che quotidianamente viene in noi riposta. Grazie, Signor Presidente della repubblica, grazie a tutti per l’attenzione che avete prestato alle mie parole. Roma, 26 gennaio 2017 Palazzo di Giustizia, Aula Magna rASSEGNA AvvOCAturA DELLO StAtO - N. 4/2016 CORTE DI APPELLO DI ROMA, CERIMONIA DI INAUGURAZIONE DELL’ANNO GIUDIZIARIO 2017 Intervento del Vice Avvocato Generale Avv. Giuseppe Albenzio Signor Presidente della Corte d’Appello di Roma, Signor Procuratore Generale, Autorità, Giudici e Colleghi, porto il saluto dell'Avvocatura dello Stato e mio personale in questa solenne cerimonia. L'Avvocatura dello Stato è impegnata su tutti i fronti del diritto e dell'interesse pubblico, il suo coinvolgimento nella trattazione degli affari che interessano l'attività riconducibile alla Pubblica Amministrazione è totale e si esercita dinanzi a tutte le Autorità Giudiziarie nazionali ed internazionali, nei giudizi sulla costituzionalità delle leggi, nei processi dinanzi alla Corte di Giustizia dell'unione europea e in quelli dinanzi alla Corte europea dei diritti del- l'uomo di Strasburgo. In particolare, l'Avvocatura dello Stato è presente nei settori di contenzioso più critici che sono stati menzionati dal Presidente e dal Procuratore Generale nelle loro relazioni: mafia, migranti, carceri... tutto viene affrontato con soli 355 avvocati e procuratori in servizio, distribuiti fra 25 sedi in Italia e con 165.000 affari nuovi arrivati nel solo 2016, che si aggiungono a quelli pendenti, che sono circa un milione! A questi affari si aggiungeranno, nel corso del 2017, quelli della nuova Agenzia delle Entrate- riscossione, cioè altre 150.000 cause! Peraltro, ci dobbiamo occupare anche della gestione degli impiegati e della struttura amministrativa di supporto, mancando nei ruoli del personale dell'Avvocatura il livello dirigenziale. Ma non sono venuto qui a lamentarmi bensì a portare la testimonianza di un metodo di lavoro, di buon lavoro, che l'Avvocatura cerca di attuare nel- l'espletamento dei suoi compiti istituzionali, ponendosi non come mera "controparte" nei contenziosi dove è chiamata ad intervenire ma come "parte rappresentativa della collettività e dei suoi interessi", a fianco delle altre Autorità, giudiziarie e amministrative, che perseguono la tutela di quegli interessi. Porto ad esempio due settori che sono di grande impatto nelle cronache quotidiane e di positivo riscontro per i risultati ottenuti. Mi riferisco, in primo luogo, all'attività di recupero dei beni culturali illegittimamente trafugati ed esportati dal territorio italiano. L'Avvocatura interviene in ambito civile, penale ed amministrativo, oltre che assistere il Ministero anche nelle operazioni internazionali di diplomazia tEMI IStItuzIONALI culturale con musei ed istituti culturali stranieri, operazioni che hanno portato al rientro in Italia di numerosi reperti. Ad esempio, da ultimo, nel mese di dicembre il museo archeologico di Copenaghen ha restituito, a conclusione di un lungo e complesso negoziato, il preziosissimo corredo etrusco del "Carro sabino". L'Avvocatura, come si diceva, patrocina le amministrazioni competenti sia in campo civile che in campo penale. In ambito penale l'Avvocatura interviene al fianco del Pubblico Ministero per richiedere sistematicamente la confisca dei reperti esportati illecitamente, anche quando il reato -come purtroppo avviene nella stragrande maggioranza dei casi - si è orami prescritto. La prescrizione è spesso fisiologica per quei reperti archeologici scavati illecitamente e pervenuti presso musei stranieri, reperti che proprio in quanto frutto di scavo clandestino, sono sconosciuti alle autorità competenti e alla comunità scientifica se non quando appaiono nei musei. L'attività di localizzazione di reperti mai conosciuti è particolarmente ardua e dispersiva e, nel momento in cui si realizza, il reato è ormai prescritto. Ma la prescrizione non è ostativa e non può essere ostativa alla confisca e quindi al recupero di una res extra commercium che era e sarà sempre di proprietà dello Stato italiano. In questo l'Avvocatura sta svolgendo una intensa attività difensiva per far affermare in tutte le sedi la intangibilità della confisca, forte del principio ribadito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 49/2015, ove è precisato che nel nostro ordinamento non vi è alcuna limitazione allo strumento della confisca anche in caso di prescrizione del reato. La confisca ha un valore strategico perché è spesso lo strumento più efficace per tentare un'attività di recupero quando i beni si trovino illecitamente all'estero e l'unico modo per farli rientrare è portare ad esecuzione una sentenza che, in forza delle convenzioni internazionali in materia, può essere richiesta più agevolmente alle autorità dello Stato in cui il bene è stato abusivamente esportato. Questa iniziativa processuale, portata avanti in proficua collaborazione con gli uffici della Procura della repubblica presso i tribunali, si affianca all'altra del negoziato con le istituzioni culturali estere ed i soggetti stranieri che detengono il bene, al quale partecipa attivamente l'Avvocatura dello Stato, conducendo le complesse trattative che portano alla sottoscrizione degli accordi conclusivi. I risultati positivi che si raggiungono (e dei quali leggiamo spesso sui giornali) sono il frutto del rapporto di collaborazione che è stato promosso dall'Avvocatura dello Stato, da un lato, con le Autorità Giudiziarie competenti (come sopra abbiamo detto a proposito della confisca dei beni artistici e archeologici) e, dall'altro lato, con il Nucleo per la tutela del Patrimonio Culturale dei Carabinieri e con la Direzione generale Archeologia Belle Arti e rASSEGNA AvvOCAturA DELLO StAtO - N. 4/2016 Paesaggio del Ministero dei Beni e Attività Culturali, con i quali è stato creato un apposito comitato di coordinamento. Il secondo settore di intervento dell'Avvocatura dello Stato che voglio qui portare a testimonianza della complessità e rilevanza del nostro lavoro è quello della gestione del vasto contenzioso connesso all'immigrazione. Solo alcuni numeri per dare la misura dell'impegno che le istituzioni coinvolte affrontano: le domande di protezione internazionale presentate nel primo semestre 2016 sono state più di 50.000 (soltanto a roma più di 10.000), con una percentuale di diniego del 60% circa; le previsioni danno questi dati in aumento, nel 2017, di circa il 32%, con esponenziale aumento del contenzioso, anche perché i ricorrenti non affrontano spese legali, essendo ammessi al gratuito patrocinio a spese dello Stato (istituto legittimo ma ampiamente abusato, con la proposizione di azioni nulle, inammissibili, basate su dati falsi o, comunque, infondate). In quest'ultimo campo, l'impegno dell'Avvocatura dello Stato è anche nel senso di opporsi alla concessione di patrocini gratuiti per attività processuali che non li giustificano. Sempre nel campo dell'immigrazione, un posto rilevante per l'impegno che richiedono all'Avvocatura dello Stato, oltre che agli uffici amministrativi competenti e alla Magistratura, sono le richieste di permesso di soggiorno per coesione familiare e di cittadinanza: negli ultimi anni le istanze sono passate dalle 30.000 dell'anno 2006 alle oltre 130.000 del 2016 e sono in costante aumento, parallelamente all'incremento del fenomeno dell'immigrazione. Anche in questi settori il nostro impegno è al massimo delle nostre forze, consapevoli che è in gioco la sicurezza nazionale e la tranquillità sociale degli italiani. Dobbiamo dare atto che i positivi risultati che raggiungiamo sono possibili anche per il metodo di lavoro in collaborazione con le altre pubbliche istituzioni coinvolte, in particolare con la Procura Generale della repubblica presso la Corte d'Appello di roma, con la quale abbiamo concordato uno scambio costante e tempestivo di informazioni e documentazione per la migliore gestione del contenzioso, e con le altre Procure della repubblica presso i tribunali di tutta l'Italia, con le quali lavoriamo in stretto contatto per la gestione del contenzioso conseguente alla tenuta dei registri di stato civile ed alle trascrizioni degli atti di matrimonio e adozione, anche in relazione a provvedimenti acquisiti all'estero. Il messaggio che intendo lasciare a conclusione di questo mio intervento è sulla utilità di una collaborazione fra le istituzioni pubbliche per il più efficace e tempestivo adempimento delle funzioni a ciascuno affidate e, in particolare, per rendere giustizia nel rispetto dei diritti di tutti i soggetti coinvolti, pubblici e privati. tEMI IStItuzIONALI Grazie per l'attenzione e buon lavoro a tutti nel nuovo anno giudiziario che oggi si apre. Roma, 28 gennaio 2017 rASSEGNA AvvOCAturA DELLO StAtO - N. 4/2016 Avvocatura Generaledello Stato CIrColAre n. 61/2016 oggetto: Diritto di accesso a dati e documenti - Art. 5 d.lgs. 33/2013, come modificato dall'art. 6 del d.lgs. n. 97/2016. regime provvisorio ai fini delle esclusioni e dei limiti all'accesso generalizzato. A decorrere dalla data del 23 dicembre 2016 entra in vigore, per effetto delle disposizioni transitorie di cui all'art. 42 del d.lgs. n. 97/2016, la nuova disciplina del "Diritto di accesso a dati e documenti" (Capo I-bis, artt. 5, 5-bis e 5-ter del novellato d.lgs. n. 33/2013). La più rilevante innovazione è costituita dalla nuova tipologia di accesso delineata dal- l'art. 5, comma 2, ai sensi della quale "chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai sensi del presente decreto, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi pubblici e privati giuridicamente rilevanti, secondo quanto previsto dall'art. 5-bis". L'ANAC ha recentemente definito uno schema di Linee Guida, di prossima adozione, che si allega [omissis], nelle quali tale istituto viene denominato "accesso generalizzato", distinguendosi dall'"accesso civico", che riguarda le informazioni e i documenti per i quali vige l'obbligo di pubblicazione, e dall'"accesso documentale", già conosciuto come "diritto di accesso" ai sensi della Legge n. 241/1990. L'accesso generalizzato realizza il principio della trasparenza e del diritto all'informazione non sottoposti ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente, "allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico". La norma pone, peraltro, esclusioni e limiti a tale diritto, indicati nell'art. 5-bis. A tale proposito 1'ANAC definisce le esclusioni "eccezioni assolute", che ricorrono in caso di segreto di Stato e negli altri casi di divieto di accesso o divulgazione previsti dalla legge, ivi compresi i casi in cui l'accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche modalità o limiti, inclusi quelli di cui all'art. 24, comma 1, della legge n. 241 del 1990. Con riferimento a quest'ultima indicazione normativa, l'Autorità richiama alcune disposizioni, tra le quali il D.P.C.M. 26 novembre 1996, n. 200 (regolamento recante norme per la disciplina di categorie di documenti formati o comunque rientranti nell'ambito delle attribuzioni dell'Avvocatura dello Stato sottratti al diritto di accesso), confermando l'esclusione per segreto professionale e sui "pareri legali" che attengono al diritto di difesa in un procedimento contenzioso. Al di fuori dei casi sopra indicati, possono ricorrere, invece, limiti, che I'ANAC definisce "eccezioni relative o qualificate", posti a tutela di interessi pubblici e privati di particolare rilievo giuridico elencati ai commi 1 e 2 dell'art. 5-bis del decreto trasparenza, sui quali il legislatore non opera, come nel caso delle eccezioni assolute, una generale e preventiva individuazione di esclusioni all’accesso generalizzato, ma rinvia a una attività valutativa che deve essere effettuata dalle amministrazioni con la tecnica del bilanciamento, caso per caso, tra l'interesse pubblico alla disclosure generalizzata e la tutela di altrettanto validi interessi considerati dall'ordinamento. L'amministrazione, cioè, è tenuta a verificare, una volta accertata l'assenza di eccezioni tEMI IStItuzIONALI assolute, se l'ostensione degli atti possa determinare un pregiudizio concreto e probabile agli interessi indicati dal legislatore. Sotto il profilo dell'ambito oggettivo, l'accesso civico generalizzato è esercitabile relativamente "ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ", ossia per i quali non sussista uno specifico obbligo di pubblicazione; "l'istanza di accesso civico identifica i dati, le informazioni o i documenti richiesti"; pertanto non è ammissibile una richiesta meramente esplorativa, volta semplicemente a "scoprire" di quali informazioni l'amministrazione dispone. Le richieste, inoltre, non devono essere generiche, ma consentire l'individuazione del dato, del documento o dell'informazione. Poiché la richiesta di accesso civico generalizzato riguarda i dati e i documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni (art. 5, comma 2 del decreto trasparenza), resta escluso che -per rispondere a tale richiesta - l'amministrazione sia tenuta a formare o raccogliere o altrimenti procurarsi informazioni che non siano già in suo possesso. Pertanto, l'amministrazione non ha l'obbligo di rielaborare i dati ai fini dell'accesso generalizzato, ma solo a consentire l'accesso ai documenti nei quali siano contenute le informazioni già detenute e gestite dal- l'amministrazione stessa. Se l'accesso civico ha ad oggetto dati, informazioni o documenti oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi del d.lgs. n. 33/2013, l'istanza deve essere presentata al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, i cui riferimenti sono indicati nella Sezione "Amministrazione trasparente" del sito web istituzionale. Negli altri casi, l'istanza di accesso civico può essere indirizzata direttamente all'ufficio che detiene i dati, le informazioni o i documenti. Si vorrà informare la Segreteria Generale delle richieste pervenute e delle determinazioni assunte in proposito. IL SEGrEtArIO GENErALE avv. ruggero Di Martino rASSEGNA AvvOCAturA DELLO StAtO - N. 4/2016 Avvocatura Generaledello Stato CIrColAre n. 1/2017 oggetto: Disciplina dei criteri di redazione e limiti dimensionali dei ricorsi e degli altri atti difensivi nel processo amministrativo. Si comunica che, nella Gazzetta ufficiale del 3 gennaio 2017, n. 2, è stato pubblicato l’allegato decreto del Presidente del Consiglio di Stato, che disciplina i criteri di redazione e i limiti dimensionali dei ricorsi e degli altri atti difensivi nel processo amministrativo. Il decreto trova applicazione per le controversie il cui termine di proposizione del ricorso di primo grado o di impugnazione inizi a decorrere trascorsi trenta giorni dalla pubblicazione del decreto medesimo in Gazzetta ufficiale. IL SEGrEtArIO GENErALE avv. ruggero Di Martino DeCReto n. 167 ConSIGlIo DI STATo Il PreSIDenTe visto l'articolo 13-ter dell'allegato II al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, secondo cui al fine di consentire lo spedito svolgimento del giudizio in coerenza con i principi di sinteticità e chiarezza di cui all'articolo 3, comma 2, del codice del processo amministrativo, le parti redigono il ricorso e gli altri atti difensivi secondo i criteri e nei limiti dimensionali stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio di Stato, da adottare entro il 31 dicembre 2016; Sentito il Consiglio nazionale forense in data 24 novembre 2016; Sentito l'Avvocato generale dello Stato in data 24 novembre 2016; Sentite le associazioni degli avvocati amministrativisti in via preliminare in data 24 novembre 2016; viste le osservazioni del CNF in data 25 novembre 2016; viste le osservazioni dell'Avvocato dello Stato in data 29 novembre 2016; viste le osservazioni dell'uNAEP (unione nazionale avvocati enti pubblici) in data 28 novembre 2016 e in data 12 dicembre 2016; viste le osservazioni dell'uNAA (unione nazionale degli avvocati amministrativisti) in data 29 novembre 2016 e in data 12 dicembre 2016; viste le osservazioni della SIAA (società italiana degli avvocati amministrativisti) in data 12 dicembre 2016; visto il parere del Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa espresso nella seduta del 16 dicembre 2016; Decreta: Articolo 1 (oggetto) I. Il presente decreto disciplina i criteri di redazione e i limiti dimensionali dei ricorsi e degli altri atti difensivi nel processo amministrativo. Articolo 2 tEMI IStItuzIONALI (Criteri di redazione degli atti processuali di parte) 1. Fermo quanto disposto dagli articoli 40 e 101 del codice del processo amministrativo, gli atti introduttivi del giudizio, in primo grado o in sede di impugnazione, i ricorsi e le impugnazioni incidentali, i motivi aggiunti, l'atto di intervento volontario: a) recano distintamente la esposizione dei fatti e dei motivi, in parti specificamente rubricate (si raccomanda la ripartizione in: Fatto/Diritto; Fatto/Motivi; Fatto e svolgimento dei pregressi gradi di giudizio/Motivi); b) recano in distinti paragrafi, specificamente titolati, le eccezioni di rito e di merito, le richieste di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia uE, le richieste di rinvio alla Corte costituzionale, le istanze istruttorie e processuali (es. di sospensione, interruzione, riunione); c) recano i motivi e le specifiche domande formulate in paragrafi numerati e muniti di titolo; d) evitano, se non è strettamente necessario, la riproduzione pedissequa di parti del provvedimento amministrativo o giurisdizionale impugnato, di documenti e di atti di precedenti gradi di giudizio mediante "copia e incolta"; in caso di riproduzione, riportano la parte riprodotta tra virgolette, e/o in corsivo, o con altra modalità atta ad evidenziarla e differenziarla dall'atto difensivo; e) recano in modo chiaro, in calce alle conclusioni dell'atto processuale o in atto allegato evidenziato nell'indice della produzione documentale, l'eventuale istanza di oscuramento dei dati personali ai sensi dell'articolo 52, d.lgs. n. 196/2003 e altre istanze su cui il giudice sia tenuto a pronunciarsi; f) ai fini di cui all'articolo 4 del presente decreto, recano, ove possibile, una impaginazione dell'atto che consenta di inserire la parte di atto rilevante ai fini dei limiti dimensionali in pagine distinte rispetto a quelle contenenti le parti non rilevanti; g) se soggetti al regime del processo amministrativo telematico, quando menzionano documenti o altri atti processuali, possono contenere collegamenti ipertestuali a detti documenti e atti; h) quando eccedono i limiti dimensionali ordinari di cui all'articolo 3, recano, dopo l'intestazione e l'epigrafe, una sintesi e, ove possibile, un sommario. 2. Gli atti di intervento per ordine del giudice, le memorie, le repliche, indicano il numero di ruolo del processo a cui si riferiscono, e recano in modo chiaro e separato gli argomenti giuridici, nonché, in appositi e distinti paragrafi, specificamente titolati, le eccezioni di rito e di merito, le richieste di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia uE, le richieste di rinvio alla Corte costituzionale, le istanze di oscuramento dei dati personali e le altre richieste su cui il giudice debba pronunciarsi. Le memorie uniche relative a più ricorsi e impugnazioni contro atti plurimi recano distintamente le questioni comuni e le questioni specifiche relative ai singoli ricorsi o impugnazioni. Articolo 3 (Limiti dimensionali degli atti processuali di parte) 1. Salvo quanto previsto agli articoli 4 e 5, le dimensioni dell'atto introduttivo del giudizio, del ricorso incidentale, dei motivi aggiunti, degli atti di impugnazione principale ed incidentale della pronuncia di primo grado, della revocazione e dell'opposizione di terzo proposti avverso la sentenza di secondo grado, dell'atto di costituzione, dell'atto di intervento, del regolamento di competenza, delle memorie e di ogni altro atto difensivo non espressamente disciplinato dai commi seguenti, sono contenute, per ciascuno di tali atti, nel numero massimo di caratteri, in conformità alle specifiche tecniche di cui all'articolo 8, indicati di seguito per ciascun rito: a) nei riti dell'accesso, del silenzio, del decreto ingiuntivo (sia ricorso che opposizione), elettorale di cui all'articolo 129 del codice del processo amministrativo, dell'ottemperanza per decisioni rese nell'ambito dei suddetti riti, dell'ottemperanza a decisioni del giudice ordinario, e rASSEGNA AvvOCAturA DELLO StAtO - N. 4/2016 in ogni altro rito speciale non espressamente menzionato nel presente comma, 30.000 caratteri (corrispondenti a circa 15 pagine nel formato di cui all'articolo 8); b) nel rito ordinario, nel rito abbreviato comune di cui all'art. 119, nel rito appalti, nel rito elettorale di cui all'articolo 130 e seguenti del codice del processo amministrativo, e nei giudizi di ottemperanza a decisioni rese nell'ambito di tali riti, 70.000 caratteri (corrispondenti a circa 35 pagine nel formato di cui all'articolo 8); c) la memoria di costituzione unica relativa a un numero di ricorsi o impugnazioni superiori a due, proposti contro un atto plurimo, non può eccedere le dimensioni della somma delle singole memorie diviso due. 2. La domanda di misure cautelari autonomamente proposta successivamente al ricorso e quella di cui all'articolo 111 del codice del processo amministrativo sono contenute, per ciascuno di tali atti, nel numero massimo di caratteri 10.000 (corrispondenti a circa 5 pagine nel formato di cui all'articolo 8) e 20.000 (corrispondenti a circa 10 pagine nel formato di cui all'articolo 8), rispettivamente nei riti di cui al comma 1, lett. a) e b). 3. Le memorie di replica sono contenute, ciascuna, nel numero massimo di caratteri 10.000 (corrispondenti a circa 5 pagine nel formato di cui all'articolo 8) e 20.000 (corrispondenti a circa 10 pagine nel formato di cui all'articolo 8), rispettivamente nei riti di cui al comma 1, lett. a) e b). Articolo 4 (esclusioni dai limiti dimensionali) 1. Dai limiti di cui all'articolo 3, sono escluse le intestazioni e le altre indicazioni formali del- l'atto, comprendenti, in particolare: - l'epigrafe dell'atto; - l'indicazione delle parti e dei difensori e relative formalità; - l'individuazione dell'atto impugnato; -il riassunto preliminare, di lunghezza non eccedente 4.000 caratteri (corrispondenti a circa 2 pagine nel formato di cui all'articolo 8), che sintetizza i motivi dell'atto processuale; - l'indice dei motivi e delle questioni; -le ragioni, indicate in non oltre 4.000 caratteri (corrispondenti a circa 2 pagine nel formato di cui all'articolo 8), per le quali l'atto processuale rientri nelle ipotesi di cui all'articolo 5 e la relativa istanza ai fini di quanto previsto dall'articolo 6; - le conclusioni dell'atto; -le dichiarazioni concernenti il contributo unificato e le altre dichiarazioni richieste o consentite dalla legge, ivi compresa l'eventuale istanza di oscuramento dei dati personali ai sensi dell'articolo 52, d.lgs. n. 196/2003; - la data e luogo e le sottoscrizioni delle parti e dei difensori; - l'indice degli allegati; - le procure a rappresentare le parti in giudizio; - le relazioni di notifica e le relative richieste e dichiarazioni. Articolo 5 (Deroghe ai limiti dimensionali) 1. Con il decreto di cui all'articolo 6 possono essere autorizzati limiti dimensionali non superiori, nel massimo, a caratteri 50.000 (corrispondenti a circa 25 pagine nel formato di cui all'articolo 8), e 100.000 (corrispondenti a circa 50 pagine nel formato di cui all'articolo 8), per tEMI IStItuzIONALI gli atti indicati all'articolo 3, comma 1, e rispettivamente nei riti di cui al all'articolo 3, comma 1, lett. a) e b) e a caratteri 16.000 (corrispondenti a circa 8 pagine nel formato di cui all'articolo 8) e 30.000 (corrispondenti a circa 15 pagine nel formato di cui all'articolo 8), per gli atti indicati all'articolo 3, commi 2 e 3, e rispettivamente nei riti di cui all'articolo 3, comma 1, lett. a) e b), qualora la controversia presenti questioni tecniche, giuridiche o di fatto particolarmente complesse ovvero attenga ad interessi sostanziali perseguiti di particolare rilievo anche economico, politico e sociale, o alla tutela di diritti civili, sociali e politici; a tal fine vengono valutati, esemplificativamente, il valore della causa, ove comunque non inferiore a 50 milioni di euro nel rito appalti, determinato secondo i criteri relativi al contributo unificato; il numero e l'ampiezza degli atti e provvedimenti effettivamente impugnati, la dimensione della sentenza gravata, l'esigenza di riproposizione di motivi dichiarati assorbiti ovvero di domande od eccezioni non esaminate, la necessità di dedurre distintamente motivi rescindenti e motivi rescissori, l'avvenuto riconoscimento della presenza dei presupposti di cui al presente articolo nel precedente grado del giudizio, la rilevanza della controversia in relazione allo stato economico dell'impresa; l'attinenza della causa, nel rito appalti, a taluna delle opere di cui all'articolo 125 del codice del processo amministrativo. 2. Con il decreto di cui all'articolo 6 può essere consentito un numero di caratteri superiore a quelli indicati al comma 1, qualora i presupposti di cui al medesimo comma 1 siano di straordinario rilievo, tale da non permettere una adeguata tutela nel rispetto dei limiti dimensionali da esso previsti. 3. Nei casi di cui ai commi 1 e 2, è sempre redatto il riassunto preliminare dei motivi proposti. Articolo 6 (Procedimento di autorizzazione al superamento dei limiti dimensionali) 1. La valutazione in ordine alla sussistenza dei presupposti di cui all'articolo 5 è effettuata dal Presidente, rispettivamente, del Consiglio di Stato, del Consiglio di giustizia amministrativa per la regione Siciliana, del tribunale amministrativo regionale, del tribunale regionale di giustizia amministrativa - sezione autonoma di trento o di Bolzano adito, o dal magistrato a ciò delegato. 2. A tal fine il ricorrente, principale o incidentale, formula in calce allo schema di ricorso, istanza motivata, sulla quale il Presidente o il magistrato delegato si pronuncia con decreto entro i tre giorni successivi. Nell'ambito del processo amministrativo telematico detto decreto è automaticamente indirizzato, dopo la firma elettronica del magistrato e del segretario, all'indirizzo PEC della parte istante. 3. In caso di mancanza o di tardività della pronuncia l'istanza si intende accolta nei limiti di cui all'articolo 5 comma 1. 4. Il decreto favorevole ovvero l'attestazione di segreteria o l'autodichiarazione del difensore circa l'avvenuto decorso del termine in assenza dell'adozione del decreto sono notificati alle controparti unitamente al ricorso. 5. I successivi atti difensivi di tutte le parti seguono, nel relativo grado di giudizio, il medesimo regime dimensionale. 6. Analoga istanza può essere formulata da una parte diversa dal ricorrente principale, limitatamente alla memoria di costituzione, in calce allo schema di atto processuale, su cui si provvede con il procedimento del presente comma. In tal caso il decreto favorevole, ovvero l'attestazione di segreteria o l'autodichiarazione dei difensore circa l'avvenuto decorso del termine in assenza dell'adozione del decreto, sono depositati unitamente alla memoria di costi rASSEGNA AvvOCAturA DELLO StAtO - N. 4/2016 tuzione, e di essi si fa menzione espressa in calce alla memoria di costituzione; gli atti difensivi successivi alla memoria di costituzione, di tutte le parti, seguono il medesimo regime dimensionale nel relativo grado di giudizio. Articolo 7 (Autorizzazione successiva del superamento dei limiti dimensionali) 1. In caso di superamento dei limiti dimensionali non autorizzato preventivamente ai sensi dell'articolo 6, per gravi e giustificati motivi il giudice, su istanza della parte interessata, può successivamente autorizzare, in tutto o in parte, l'avvenuto superamento dei limiti dimensionali; è in ogni caso fatta salva la facoltà della parte di indicare gli argomenti o i motivi cui intende rinunciare. Articolo 8 (Specifiche tecniche) 1. Ai fini delle disposizioni precedenti; a) nel conteggio del numero massimo di caratteri non si computano gli spazi; b) fermo restando il numero massimo di caratteri, gli atti sono ordinariamente redatti sul- l'equivalente digitale di foglio A4 nonché su foglio A4 per le copie o gli originali cartacei prescritti dalle disposizioni vigenti, mediante caratteri di tipo corrente e di agevole lettura (ad es. times New roman, Courier, Garamond) e preferibilmente di dimensioni di 14 pt, con un'interlinea di 1,5 e margini orizzontali e verticali di cm. 2,5 (in alto, in basso, a sinistra e a destra della pagina). Non sono consentite note a piè di pagina. 2. In caso di utilizzo di caratteri, spaziature e formati diversi da quelli indicati al comma 1, ne deve essere possibile la conversione in conformità alle specifiche tecniche sopra indicate, e resta fermo il limite massimo di caratteri calcolato con i criteri di cui al comma 1. Articolo 9 (Disciplina transitoria) 1. Il presente decreto si applica alle controversie il cui termine di proposizione del ricorso di primo grado o di impugnazione inizi a decorrere trascorsi trenta giorni dalla pubblicazione del decreto medesimo sulla Gazzetta ufficiale. Articolo 10 (Monitoraggio) 1. Ai sensi dell'articolo 13-ter, comma 4, dell'allegato II al codice del processo amministrativo, il presente decreto sarà aggiornato periodicamente in relazione agli esiti del monitoraggio disposto dal Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa. 2. In prima applicazione, l'aggiornamento del presente decreto sarà comunque disposto entro un anno dalla sua pubblicazione in Gazzetta ufficiale. Il presente decreto sarà pubblicato nella Gazzetta ufficiale della repubblica italiana. roma, 22/12/2016 Alessandro Pajno ContenziosonazionaLe Canoni del demanio marittimo: il secondo atto della Consulta sulla rideterminazione in forza della Legge finanziaria 2007 Nota a Corte CostituzioNale, seNteNza 27 geNNaio 2017 N. 29 Ivan Michele Triolo* La Corte costituzionale, con sentenza n. 29 del 27 gennaio 2017, è tornata a pronunciarsi sull’ormai annosa questione della rideterminazione dei canoni del demanio marittimo per effetto della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria 2007). Trattasi, com’è noto, della previsione legislativa (art. 1, commi 251-252, legge cit.) che ha modificato i criteri di calcolo dei canoni dovuti dai concessionari di beni demaniali, al fine di garantire maggiori entrate allo Stato e - soprattutto - di allineare la posizione dei concessionari a quelle dei locatari privati, ridimensionando l’indebita posizione di vantaggio che per anni ha contraddistinto i primi sul piano economico. Il nuovo meccanismo di quantificazione dei canoni, basato sui valori indicati dall’Osservatorio del Mercato Immobiliare, si è ben presto rivelato fonte di un cospicuo contenzioso che ha visto contrapporsi -da un lato -i concessionari e -dall’altro -l’Agenzia del Demanio, i Comuni costieri e, in alcuni casi, le Regioni (1). (*) Dottore in Giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato di Bologna. (1) L’art. 105 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, ha conferito alle Regioni la competenza al rilascio delle concessioni di beni del demanio marittimo e di zone del mare territoriale per finalità diverse da quelle di approvvigionamento di fonti di energia, esclusi i porti finalizzati alla difesa militare e alla sicurezza dello Stato, i porti di rilevanza economica nazionale ed internazionale, nonché le aree di preminente interesse nazionale individuate con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Sulla base di tale conferimento, diverse Regioni hanno poi provveduto a delegare le relative funzioni amministrative ai Comuni, che risultano quindi competenti in materia di gestione dei beni demaniali, ivi compresi il rilascio delle concessioni e la quantificazione dei canoni. RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 In tale contesto, la Corte costituzionale si è pronunciata, per la prima volta, con la nota sentenza n. 302 del 22 ottobre 2010, la quale - rigettando le questioni di costituzionalità sollevate dai rimettenti - ha sancito la legittimità, in riferimento agli artt. 3, 53 e 97 Cost., dei nuovi criteri di calcolo previsti dall’art. 1, comma 251, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, anche relativamente ai rapporti concessori in corso. La disposizione in esame - secondo la Corte - «[...] lungi dal ledere i principi dell'affidamento dei cittadini nella sicurezza dei rapporti giuridici, si inserisce in una precisa linea evolutiva della disciplina dell'utilizzazione dei beni demaniali, volta, in conformità degli art. 3 e 97 Cost., ad avvicinare i valori di tali beni a quelli di mercato, sulla base cioè delle potenzialità degli stessi di produrre reddito in un contesto specifico, in modo da consentire allo stato una maggiorazione delle entrate e di rendere i canoni più equilibrati rispetto a quelli pagati in favore di locatori privati, nell'interesse della generalità dei cittadini, diminuendo proporzionalmente i vantaggi dei soggetti particolari che assumono la veste di concessionari». Inoltre - concludeva la Consulta -«[...] deve escludersi la denunciata lesione dell'affidamento dei cittadini nella sicurezza dei rapporti giuridici, che deriverebbe dall'incidenza sui rapporti in corso dei nuovi criteri di determinazione dei canoni concessori, così come non sussiste né la lamentata discriminazione tra utilizzatori di pertinenze demaniali marittime e soggetti locatari di aree di proprietà privata, giacché l'intervenuto aumento dei canoni riduce l'ingiustificata posizione di vantaggio di chi possa, nel medesimo contesto territoriale, usufruire di concessioni demaniali rispetto a chi, invece, sia costretto a rivolgersi al mercato immobiliare». Con la sentenza n. 29 del 27 gennaio 2017, la Corte costituzionale è tornata nuovamente a pronunciarsi sulla questione controversa della rideterminazione dei canoni con riferimento ai rapporti in essere alla data di entrata in vigore della Legge finanziaria 2007, vagliando questa volta la legittimità della disposizione di cui all’art. 1, comma 252, della legge cit., riguardo alle strutture dedicate alla nautica da diporto (2). La Consulta ha rigettato le questioni di costituzionalità rimesse, con riferimento agli artt. 3 e 41 Cost., dal Consiglio di Stato e dal T.A.R. Toscana. In particolare, i rimettenti censuravano la disposizione sopra indicata ravvisando -in relazione all’art. 3 Cost. - la lesione dell’affidamento ingenerato rispetto ai rapporti in corso e l’irragionevole equiparazione di questi ultimi alle nuove concessioni, nonché - sotto il profilo dell’art. 41 Cost. - l’irragionevole frustrazione delle scelte imprenditoriali programmate precedentemente all’entrata in vigore dei nuovi criteri di calcolo. Sul primo punto, invero, la Corte costituzionale ha più volte affermato che il Legislatore, qualora interessi pubblici (2) Trattasi dei c.d. porti turistici. Sula classificazione dei porti, si veda G. TeLLARInI, i porti e le classificazioni, in riv. dir. econ. trasp. ambiente (rivista online), VI, 2008. COnTenzIOSO nAzIOnALe sopravvenuti lo richiedano, può emanare disposizioni che incidano finanche in senso sfavorevole sulla disciplina dei rapporti di durata, essendo unicamente necessario che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irragionevole che frusti l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, e che sia rispettato l’ovvio limite della proporzionalità di siffatta incisione rispetto agli obiettivi di interesse pubblico perseguiti (ex multis, in materia di canoni, si veda Corte cost., 7 luglio 2005, n. 264). Ferma restando la perdurante validità dei principi espressi con la sentenza n. 302 del 22 ottobre 2010 (a cui si rinvia per brevità), la Corte ha tuttavia fornito un’interpretazione costituzionalmente conforme del comma 252 dell’art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296, che «[...] porta ad escludere l’applicabilità, generale ed indifferenziata, dei canoni commisurati ai valori di mercato a tutte le concessioni di strutture dedicate alla nautica da diporto, rilasciate prima della entrata in vigore della disposizione in esame». nello specifico, la Consulta muove dal disposto dell’art. 3 del d.l. 5 ottobre 1993, n. 400 (come modificato dall’art. 1, comma 251, della legge 27 dicembre 2006, n. 296), secondo cui i nuovi criteri di calcolo si applicano alle concessioni demaniali marittime comprensive di strutture permanenti, costituenti pertinenze demaniali, destinate ad attività commerciali, terziario-direzionali e di produzione di beni e servizi. Il tenore letterale della norma, ad avviso dei Giudici costituzionali, fa dunque espresso riferimento alle opere che già appartengono allo Stato. Com’è noto, la proprietà statale sui beni di difficile rimozione edificati su suolo demaniale marittimo dato in concessione si costituisce solo alla scadenza della concessione stessa, con il c.d. incameramento dei beni de qui- bus ai sensi dell’art. 49, comma 1 (3), cod. nav. Pertanto, conclude la Corte, «[...] nelle concessioni che prevedono la realizzazione di infrastrutture da parte del concessionario, il pagamento del canone riguarda soltanto l’utilizzo del suolo e non anche i manufatti, sui quali medio tempore insiste la proprietà superficiaria dei concessionari e lo stato non vanta alcun diritto di superficie ». Ciò, in definitiva, comporta l’applicabilità della rideterminazione dei canoni solo con riferimento al suolo ed alle pertinenze già esistenti alla data del rilascio della concessione, con esclusione delle strutture permanenti realizzate dai concessionari in forza degli stessi atti concessori. (3) «salvo che sia diversamente stabilito nell'atto di concessione, quando venga a cessare la concessione, le opere non amovibili, costruite sulla zona demaniale, restano acquisite allo stato, senza alcun compenso o rimborso, salva la facoltà dell'autorità concedente di ordinarne la demolizione con la restituzione del bene demaniale nel pristino stato». RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 Corte costituzionale, sentenza 27 gennaio 2017, n. 29 -Pres. Grossi, red. Amato -Giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 252, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)», promosso dal Consiglio di Stato con ordinanza del 30 gennaio 2015 e dal Tribunale amministrativo regionale per la Toscana con ordinanze dell'8 maggio 2015 e del 30 giugno 2015. Considerato in diritto 1.– Il Consiglio di Stato ed il Tribunale amministrativo regionale per la Toscana hanno sollevato - in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost. - questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 252, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)», nella parte in cui determina - anche con riferimento ai rapporti concessori in corso - la misura dei canoni per le concessioni di beni del demanio marittimo per la realizzazione e la gestione di strutture dedicate alla nautica da diporto. 2.– Le tre ordinanze di rimessione pongono questioni identiche, o tra loro strettamente connesse, in relazione alla normativa censurata. ed invero, tutti i giudici rimettenti -ravvisando la violazione dei medesimi parametri costituzionali -censurano la disposizione sopra indicata, che disciplina la misura dei canoni per le concessioni di beni del demanio marittimo, nella parte in cui essa si applica anche ai rapporti in corso. I giudizi, pertanto, vanno riuniti per essere congiuntamente esaminati e decisi con unica pronuncia. (...) 4.– Va, inoltre, rilevata l’inammissibilità delle deduzioni svolte dalla difesa della Pro.Mo.Mar. spa, in riferimento alla violazione dell’art. 97 Cost., e dalla difesa della Marina di Punta Ala spa, in riferimento al contrasto con il principio di non discriminazione stabilito dall’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea - proclamata a nizza il 7 dicembre 2000, e con i principi stabiliti dal Trattato sul funzionamento dell’unione europea (TFue), sottoscritto a Roma il 25 marzo 1957, ed in particolare con l’art. 18 (non discriminazione), l’art. 49 (libertà di stabilimento) e l’art. 56 (libertà di prestazione dei servizi). Tali censure sono inammissibili, in quanto volte ad estendere il thema decidendum, quale definito nelle ordinanze di rimessione. Infatti, per costante giurisprudenza di questa Corte, l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione; non possono, pertanto, essere presi in considerazione, oltre i limiti in queste fissati, ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a quo, sia volti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze (ex plurimis, sentenze n. 96 del 2016; n. 231 e n. 83 del 2015). 5.– La questione sollevata in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost. non è fondata. 5.1.– La disposizione censurata sostituisce il previgente comma 3 dell’art. 3 del decreto- legge 5 ottobre 1993, n. 400 (Disposizioni per la determinazione dei canoni relativi a concessioni demaniali marittime), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 1993, n. 494. essa prevede che: «3. Le misure dei canoni di cui al comma 1, lettera b), si applicano, a decorrere dal 1° gennaio 2007, anche alle concessioni dei beni del demanio marittimo e di zone del mare territoriale aventi ad oggetto la realizzazione e la gestione di strutture dedicate alla nautica da diporto». Vengono, quindi, estesi alle concessioni di strutture per la nautica da COnTenzIOSO nAzIOnALe diporto i medesimi criteri di determinazione dei canoni dettati per le concessioni aventi finalità turistico-ricreative. 5.2.– I giudici a quibus dubitano della legittimità costituzionale di siffatta estensione, ravvisando il contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della lesione dell’affidamento ingenerato rispetto ai rapporti concessori in corso, per l’incremento rilevante e repentino della misura dei canoni delle concessioni per la realizzazione e la gestione di infrastrutture per la nautica. È, inoltre, denunciata l’irragionevole equiparazione delle concessioni già rilasciate a quelle nuove, nonché delle concessioni di strutture per la nautica da diporto a quelle per finalità turistico-ricreative. Ad avviso dei giudici rimettenti, la disposizione in esame si porrebbe, altresì, in contrasto con l’art. 41 Cost., poiché determinerebbe «l’effetto irragionevole di frustrare le scelte imprenditoriali modificando gli elementi costitutivi dei relativi rapporti contrattuali in essere». 5.3.– Va, innanzitutto, rilevato che la nuova disciplina dettata dalla legge finanziaria 2007 modifica il precedente impianto normativo, contenuto nell’art. 3 del decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 400 (Disposizioni per la determinazione dei canoni relativi a concessioni demaniali marittime), prevedendo una nuova modulazione dei criteri di quantificazione dei canoni. Accanto al canone cosiddetto tabellare, che continua ad applicarsi per le concessioni previste dall’art. 03, comma 1, lettera b), n. 1, è introdotto un canone commisurato al valore di mercato, sia pure mitigato da alcuni accorgimenti e abbattimenti (art. 03, comma 1, lettera b, n. 2.1). La previsione del canone commisurato al valore di mercato costituisce un elemento di novità, particolarmente significativo, introdotto dai commi 251 e 252 della legge n. 296 del 2006. Come già osservato nella sentenza n. 302 del 2010, la ratio di tale innovazione consiste nel perseguimento di obiettivi di equità e razionalizzazione dell’uso dei beni demaniali, senza trascurare determinate categorie di utilizzatori, per le quali sono previste specifiche misure agevolative (art. 3, comma l, lettera c, del d.l. n. 400 del 1993). In particolare, sono soggette all’applicazione del canone commisurato al valore di mercato le concessioni comprensive di strutture costituenti «pertinenze demaniali marittime destinate ad attività commerciali, terziario-direzionali e di produzione di beni e servizi» (art. 3, comma 1, lettera b, n. 2.1, del d.l. n. 400 del 1993). Il riferimento testuale è, pertanto, alle opere costituenti pertinenze demaniali marittime, come qualificate dall’art. 29 del codice della navigazione. 5.4.- nel sostenere la censura di irragionevolezza dell’estensione di tale disciplina alle concessioni per la nautica da diporto, le tre ordinanze di rimessione si fondano su comuni presupposti ermeneutici, i quali debbono essere sottoposti a verifica. In primo luogo, i rimettenti ritengono che i nuovi canoni commisurati ai valori di mercato debbano essere applicati anche ai rapporti concessori in corso alla data di entrata in vigore della legge n. 296 del 2006. L’impostazione dei giudici rimettenti fa leva, inoltre, su un ulteriore assunto, relativo al- l’applicabilità dei medesimi canoni anche alle opere realizzate dal concessionario in esecuzione del rapporto concessorio, prima che le stesse siano acquisite in proprietà da parte dello Stato e abbiano, quindi, formalmente assunto la qualità di pertinenze del demanio marittimo. Tuttavia, nella loro assolutezza, gli assunti sui quali si fondano l’interpretazione dei rimettenti e la denunciata illegittimità costituzionale non possono essere condivisi. 5.5.– Va preliminarmente evidenziato che - con riferimento alle concessioni demaniali per attività turistico-ricreative - la legittimità dei nuovi criteri di calcolo dei canoni è già stata riconosciuta da questa Corte nella sentenza n. 302 del 2010. In questa pronuncia è stato rilevato, in particolare, che «gli interventi legislativi, volti ad adeguare i canoni di godimento dei beni pubblici, hanno lo scopo, conforme agli artt. 3 e 97 RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 Cost., di consentire allo Stato una maggiorazione delle entrate e di rendere i canoni più equilibrati rispetto a quelli pagati in favore di locatori privati (sentenza n. 88 del 1997). Del resto, un consistente aumento dei canoni in questione era già stato disposto dall’art. 32, commi 21, 22 e 23, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 24 novembre 2003, n. 326. La concreta applicazione degli aumenti disposti dalle norme citate è stata successivamente rinviata sino a quando la legge finanziaria del 2007 (art. 1, comma 256) ha disposto la loro abrogazione, mentre contestualmente introduceva i nuovi criteri di calcolo. Questi ultimi hanno sostituito gli aumenti generalizzati dei canoni annui per concessioni demaniali marittime, disposti con il citato d.l. n. 269 del 2003, con un nuovo meccanismo, che incide soprattutto sulle aree maggiormente produttive di reddito, cioè quelle su cui insistono pertinenze destinate ad attività commerciali, terziario- direzionali e di produzione di beni e servizi. non si può dire pertanto che l’aumento dei canoni, disposto dalla previsione legislativa censurata, sia giunto inaspettato, giacché esso si è sostituito ad un precedente aumento, di notevole entità, non applicato per effetto di successive proroghe, ma rimasto tuttavia in vigore sino ad essere rimosso, a favore di quello vigente, dalla norma oggetto di censura. né l’incremento può essere considerato frutto di irragionevole arbitrio del legislatore, tale da indurre questa Corte a sindacare una scelta di indirizzo politico-economico, che sfugge, in via generale, ad una valutazione di legittimità costituzionale». La possibilità di trasferire tali principi, la cui perdurante validità non è neppure in discussione, alle concessioni per la nautica da diporto è esclusa dai rimettenti, i quali evidenziano l’«ontologica differenza» delle stesse, rispetto a quelle per attività turistico-ricreative, già esaminate dalla sentenza ora richiamata. Gli elementi differenziali delle prime sarebbero costituiti dalla maggiore durata di tali rapporti, dalla loro consistenza numericamente limitata e -soprattutto -dalla notevole entità degli investimenti sostenuti dal concessionario per la realizzazione delle opere che ne costituiscono l’oggetto. Tali elementi varrebbero ad escludere la ragionevolezza dell’equiparazione, introdotta dalla disposizione censurata, delle due tipologie concessorie ai fini dell’applicabilità dei nuovi criteri di determinazione dei canoni. 5.6.- Al riguardo, va osservato che i primi due elementi (maggiore durata e numero limitato di tali concessioni) appaiono ininfluenti ai fini della valutazione della censurata irragionevolezza. Da un lato, la maggiore durata del rapporto concessorio, in quanto volta a consentire di ammortizzare l’investimento del concessionario su un orizzonte temporale più ampio, vale a bilanciare, diluendoli nel tempo, gli effetti dell’incremento degli oneri a carico dei concessionari. Dall’altro lato, il numero relativamente esiguo delle concessioni per la nautica da diporto appare circostanza in sé estranea alla valutazione in ordine alla ragionevolezza dell’incremento dei canoni, in quanto incidente sull’equilibrio economico finanziario del rapporto. Pertanto, seguendo la prospettazione dei giudici a quibus, l’unico tratto distintivo rilevante delle due tipologie di concessioni interessate dagli aumenti introdotti dalla legge n. 296 del 2006 è rappresentato dall’entità degli investimenti richiesti (soprattutto, ma non in via esclusiva) ai titolari di concessioni per la nautica da diporto, laddove queste abbiano ad oggetto opere che debbano essere realizzate a cura del concessionario. Gli effetti discriminatori ed irragionevoli censurati attengono, infatti, alla modifica del calcolo di convenienza economica derivante dall’incremento dei canoni, in quanto applicati a quelle opere che il concessionario si sia impegnato a realizzare in epoca antecedente all’entrata in vigore della nuova disciplina. COnTenzIOSO nAzIOnALe 5.7.- Tuttavia, con riferimento a tale specifica categoria di rapporti concessori, risulta possibile e doverosa un’interpretazione della disposizione del comma 252 che porta ad escludere l’applicabilità, generale ed indifferenziata, dei canoni commisurati ai valori di mercato a tutte le concessioni di strutture dedicate alla nautica da diporto, rilasciate prima della entrata in vigore della disposizione in esame. Si lamenta, infatti, che, per effetto dell’applicazione dei canoni indicati anche ai rapporti concessori in corso, verrebbe onerato del medesimo canone, sia chi abbia ricevuto un bene demaniale, sul quale realizzi a proprie spese un’infrastruttura o un impianto di difficile rimozione, sia chi, invece, abbia ricevuto in concessione un bene su cui insista una struttura già realizzata da terzi. Tuttavia, l’irragionevolezza insita in tale prospettazione è esclusa laddove la commisurazione del canone venga parametrata alle concrete caratteristiche dei rapporti concessori, nonché dei beni demaniali che ne formano l’oggetto. Invero, l’art. 3 del d.l. n. 400, nel testo sostituito dall’art. 1, comma 251, della legge n. 296 del 2006, prevede che il criterio della media dei valori indicati dall’Osservatorio del mercato immobiliare si applica alle concessioni demaniali marittime comprensive di strutture permanenti costituenti «pertinenze demaniali marittime destinate ad attività commerciali, terziario- direzionali e di produzione di beni e servizi». nel delimitare l’ambito applicativo dei nuovi canoni commisurati ai valori di mercato, il tenore letterale della disposizione in esame fa espresso riferimento, dunque, ad opere costituenti pertinenze demaniali marittime che, pertanto, già appartengono allo Stato. Al fine di stabilire la proprietà statale dei beni di difficile rimozione edificati su suolo demaniale marittimo in concessione, è determinante la scadenza della concessione, essendo questo il momento in cui il bene realizzato dal concessionario acquista la qualità demaniale. I criteri di calcolo dei canoni commisurati ai valori di mercato, in quanto riferiti alle opere realizzate sul bene e non solo alla sua superficie, risultano applicabili, quindi, soltanto a quelle che già appartengano allo Stato e che già possiedano la qualità di beni demaniali. nelle concessioni di opere da realizzare a cura del concessionario, ciò può avvenire solo al termine della concessione, e non già nel corso della medesima. La stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato ha riconosciuto che «non tutti i manufatti insistenti su aree demaniali partecipano della natura pubblica - e dell’inerente qualificazione demaniale - della titolarità del sedime, poiché solo ad alcuni, nella stessa dizione della legge, appartiene la natura pertinenziale. Per gli altri (che la legge indica come impianti di difficile o non difficile rimozione: definizione che appare inadatta a stabilire una differenza di categoria, dato che anche gli immobili pertinenziali sono o possono essere, di per sé, rimovibili con facilità o con difficoltà) si deve allora riconoscere, per esclusione, la qualificazione di cose immobili di proprietà privata fino a tutta la durata della concessione, evidentemente in forza di un implicito diritto di superficie» (Consiglio di Stato, sez. VI, 13 giugno 2013, n. 3308; nello stesso senso, Consiglio di Stato, sez. VI, 13 giugno 2013, n. 3307 e Consiglio di Stato, sez. VI, 10 giugno 2013, n. 3196). Come osservato anche dalla difesa statale, nelle concessioni che prevedono la realizzazione di infrastrutture da parte del concessionario, il pagamento del canone riguarda soltanto l’utilizzo del suolo e non anche i manufatti, sui quali medio tempore insiste la proprietà superficiaria dei concessionari e lo Stato non vanta alcun diritto di proprietà. un’interpretazione costituzionalmente corretta della disposizione in esame impone, quindi, la necessità di considerare la natura e le caratteristiche dei beni oggetto di concessione, quali RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 erano all’avvio del rapporto concessorio, nonché delle modifiche successivamente intervenute a cura e spese dell’amministrazione concedente. Mentre con riferimento agli aumenti dei canoni tabellari (art. 3, comma 1, lettera b, n. 1, del d.l. n. 400 del 1993) valgono i principi affermati nella sentenza n. 302 del 2010, viceversa va esclusa l’applicabilità dei nuovi criteri commisurati al valore di mercato alle concessioni non ancora scadute che prevedano la realizzazione di impianti ed infrastrutture da parte del concessionario, ivi incluse quelle rilasciate prima del 2007. In definitiva, la non adeguata utilizzazione dei poteri interpretativi che la legge riconosce al giudice rimettente porta a ritenere la non fondatezza della presente questione di legittimità costituzionale (sentenze n. 219, n. 95 e n. 45 del 2016; n. 262 e n. 221 del 2015). PeR QueSTI MOTIVI LA CORTe COSTITuzIOnALe riuniti i giudizi, 1) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 252, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)», promossa dal Consiglio di Stato e dal Tribunale amministrativo regionale per la Toscana con le ordinanze indicate in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 gennaio 2017. COnTenzIOSO nAzIOnALe i mobili confini applicativi dell’irap alla luce delle recenti statuizioni delle sezioni Unite Nota a CassazioNe Civile, sezioNi uNite, seNteNze 14 aPrile 2016 N. 7371 e 10 maggio 2016 N. 9451 Nicola Usai* L’Imposta regionale sulle attività produttive è un’imposta c.d. reale che individua quale indice di capacità contributiva un fatto economico diverso dal reddito, consistente nel valore aggiunto prodotto dalle attività imprenditoriali o professionali autonomamente organizzate (1). nell’introdurre la nuova norma impositiva, l’obiettivo dichiarato dal legislatore consisteva nella semplificazione del sistema fiscale mediante la soppressione di diversi tributi e contributi (tra gli altri, i contributi per il SSn, l’Ilor, l’imposta comunale per l’esercizio di imprese e di arti e professioni, la tassa sulla concessione governativa per l’attribuzione del numero di partita, l’imposta sul patrimonio netto delle imprese). nonostante questo, l’Irap è stata accolta con diffidenza dagli operatori economici e dai commentatori, soprattutto in relazione alla sua caratteristica di essere suscettibile di applicazione anche nei confronti di soggetti in perdita nel periodo d’imposta. non solo, da più parti sono stati sollevati dubbi di costituzionalità in relazione all’inclusione dei liberi professionisti tra i soggetti passivi di cui all’art. 3 del D.Lgs. 446/1997 (2). (*) Dottore in Giurisprudenza, già praticante forense presso l’Avvocatura dello Stato di Bologna; diploma di specializzazione presso la Scuola di Specializzazione in Studi sull’Amministrazione Pubblica “SP.I.S.A.”. (1) L’originaria formulazione della prima parte dell’art. 2 del D.Lgs. 446/1997 individuava il presupposto dell’imposta nell’«esercizio abituale di una attività diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi». A pochi mesi dell’entrata in vigore della disposizione, il D.Lgs. 137/1998 ha riformulato la norma precisando che l’attività di scambio di beni o prestazione di servizi esercitata abitualmente dovesse essere «autonomamente organizzata». (2) Si è pure posto il problema se l’Irap, andando a colpire “il valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate”, non rappresentasse una duplicazione dell’Iva, incompatibile con l’art. 33 della VI Direttiva Cee del 10 maggio 1977, n. 77/388 (poi abrogata e sostituita dalla Direttiva Ce del 28 novembre 2006, n. 112). Investita della questione, la Corte di Giustizia europea, 3 ottobre 2006, n. 475/03, ha affermato che un’imposta con le caratteristiche dell’Irap si distingue dall’Iva in modo tale non poter essere considerata un’imposta sulla cifra d’affari ai sensi dell’art. 33 citato. La Corte ha dunque posto in rilievo le differenze tra le due imposte: «Mentre l’Iva, attraverso il sistema della detrazione dell’imposta previsto dagli artt. 17-20 della VI Direttiva, grava unicamente sul consumatore finale ed è perfettamente neutrale nei confronti dei soggetti passivi che intervengono nel processo di produzione e di distribuzione che precede la fase di imposizione finale, indipendentemente dal numero di operazioni avvenute, lo stesso non vale per quanto riguarda l’Irap. Da un lato, infatti, un soggetto passivo non può determinare con precisione l’importo dell’Irap già compreso nel prezzo di acquisto dei RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 La Corte Costituzionale (10 maggio 2001, n. 156), rigettando tutte le eccezioni sollevate, ha anzitutto riaffermato la discrezionalità del legislatore nella determinazione e qualificazione di quei fatti espressivi di capacità contributiva, desumibili da qualsiasi indice rilevatore di ricchezza e non solo dal reddito, cui l’art. 53 della Costituzione collega l’insorgere dell’obbligo di concorso alle spese pubbliche. nella stessa pronuncia ha riconosciuto la legittimità dell’inclusione degli esercenti arti e professioni tra i soggetti passivi, pur ribadendo che solo il «valore aggiunto prodotto dalle singole unità organizzative» costituisse «un indice di capacità contributiva capace di giustificare l’imposizione sia nei confronti delle imprese che dei lavoratori autonomi». La Consulta, in particolare, osservava che mentre l’elemento organizzativo è connaturato all’esercizio di un’attività d’impresa, non altrettanto può dirsi per le attività professionali, ancorché svolte con carattere di abitualità, che debbono considerarsi escluse dall’ambito di applicazione dell’Irap in assenza di elementi idonei a rivelare una autonomia organizzativa, il cui accertamento - secondo quanto affermato dal Giudice delle leggi - va operato sul piano fattuale caso per caso. Il presupposto applicativo dell’Irap, si è detto, è rappresentato dall’esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi, fermo che l’attività esercitata da società, enti e amministrazioni pubbliche, costituisce in ogni caso presupposto di imposta ex lege. Sulla portata del concetto di “autonoma organizzazione”, stante la sua non immediata definibilità, è tuttavia emerso più di un dubbio interpretativo, non avendo la pronuncia del 2001 indicato in concreto quali fossero gli elementi idonei ad individuare la presenza o l’assenza di quell’organizzazione di capitali e di lavoro necessari per far scattare il presupposto impositivo. La giurisprudenza di merito, prima, e quella di legittimità, poi, si è di conseguenza trovata ad affrontare una serie di questioni ermeneutiche di rilevante portata. A partire dalle pronunce dell’Irap-day della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione (nn. 3672-3682 del 16 febbraio 2007), il ruolo dei giudici si è fatto sempre più evidente nel disegnare gli esatti confini dell’ambito applicativo dell’imposta. beni e dei servizi. Dall’altro, se un soggetto passivo potesse includere tale costo nel prezzo di vendita, al fine di ripercuotere l’importo dell’imposta dovuta per le sue attività sulla fase successiva del processo di distribuzione o di consumo, la base imponibile dell’Irap comprenderebbe di conseguenza non solo il valore aggiunto, ma anche l’imposta stessa, cosicché l’Irap sarebbe calcolata su un importo determinato a partire da un prezzo di vendita comprendente, in anticipo, l’imposta da pagare. non tutti i soggetti passivi si trovano nella condizione di poter così ripercuotere il carico dell’imposta, o di poterlo ripercuotere nella sua interezza. In base alla disciplina dell’Irap, tale imposta non è stata concepita per ripercuotersi sul consumatore finale nel modo tipico dell’Iva». COnTenzIOSO nAzIOnALe Precisato che in presenza di un’attività di lavoro autonomo l’Irap è dovuta solo quando sussista un apparato organizzativo autonomo rispetto alla figura e al lavoro del professionista, le sentenze del febbraio 2007 hanno affermato che tale condizione si verifica quando ricorrano i seguenti presupposti da accertate in concreto: i) il contribuente sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; ii) il contribuente utilizzi beni strumentali eccedenti, per quantità o valore, le risorse minime necessarie (id quod plerumque accidit) allo svolgimento dell’attività, ovvero impieghi, in modo non occasionale lavoro altrui. Successivamente, le Sezioni unite (26 maggio 2009, n. 12108) hanno fornito una definizione generale del «fondamentale requisito della “autonoma organizzazione” », qualificabile «come insieme di risorse, mezzi, capitali e lavoro altrui, di carattere abituale, organizzati dal soggetto passivo con modalità suscettibili di conferire il quid pluris di capacità contributiva oggetto dell’Irap». Dovendosi applicare tali generali criteri interpretativi, negli anni si sono registrate vistose discordanze tra Amministrazione finanziaria e contribuenti, in primis, nonché tra gli stessi organi di giustizia tributaria, investiti dei relativi contenziosi. Ancora una volta si è reso necessario il fondamentale apporto della -seppur spesso disarmonica -giurisprudenza di legittimità (3). Da un lato, è stato definitivamente statuito che elementi quali il possesso di un reddito elevato, la sussistenza di una vasta clientela, l’ottenimento di linee di credito da istituti bancari non costituiscono condizione sufficiente per l’assoggettamento ad imposta (Cass., 10 settembre 2009, n. 19515; Cass., 10 marzo 2009, n. 6371) (4); dall’altro, diverse pronunce hanno sancito che l’esercizio di professioni in forma societaria o associata costituisce ex lege presupposto impositivo, senza necessità di valutare in concreto la sussistenza di un’autonoma organizzazione, e senza che assuma alcun rilievo la diversità delle competenze e professioni esercitate dagli associati, così come la diversità e autonomia della fonte dei rispettivi redditi degli associati (ex multis, Cass., Sez. V, 16 luglio 2010, n. 16784, in relazione all’esercizio in forma associata della professione di commercialista; Cass., Sez. V, 28 novembre 2014, n. 25313, in relazione all’esercizio in forma (3) Sul ruolo decisivo assunto dalla giurisprudenza di legittimità e sugli ondivaghi pronunciamenti, cfr. G. FeRRAnTI, irap dei piccoli, l’intervento non è più rinviabile, in Quotidiano del Fisco, n. 7/2015; M. GRISInI, sull’organizzazione giudici disallineati, in guida al diritto, n. 3/2015, pp. 64 ss. (4) Si è dunque «sancito che la rilevazione della pura e semplice “componente capitalistica”, desunta dal costo elevato delle attrezzature tecniche e delle locazioni finanziarie, senza opportuno raffronto con i compensi dichiarati e senza analisi del valore minimo di ciò che è normalmente ritenuto indispensabile per l’esercizio della specifica attività presa in considerazione, non è di per sé idonea a provare l’esistenza della autonoma organizzazione» (S. CASTeneTTI, irap e professionisti, in la settimana Fiscale, n. 12/2016, p. 44). RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 associata della professione forense; orientamento definitivamente consacrato dalla pronuncia delle Sezioni unite del 14 aprile 2016, n. 7371) (5). Pure il requisito attinente l’impiego in modo non occasionale di lavoro altrui, ai fini della configurabilità della autonoma organizzazione, è stato oggetto di non trascurabili divergenze, sia nelle pronunce di merito che in quelle di legittimità. In primo luogo va ricordato come sia stato più volte affermato l’assoggettamento ad Irap del professionista che eroghi elevati compensi a terzi per attività inerenti la propria professione, e ciò anche a prescindere dall’impiego di lavoratori dipendenti (Cass., Sez. V, 24 ottobre 2014, n. 22674; Cass., Sez. V, 12 giugno 2015, n. 12287). Tuttavia, in numerose sentenze si è sancita l’assoggettabilità ad imposta del lavoratore autonomo allorquando questi si serva di un collaboratore stabile, anche uno solo e anche part time, sul presupposto che la presenza di un dipendente configuri comunque organizzazione di lavoro altrui, e ciò a prescindere dalla funzione svolta nell’ambito dell’attività libero professionale e dalla retribuzione a lui riconosciuta (ex multis, Cass., Sez. V, 10 settembre 2014, n. 19072). Altre pronunce hanno invece mostrato una posizione più rigorosa, richiedendo una verifica delle mansioni effettivamente svolte dal dipendente ed escludendo che il ricorso a un collaboratore con funzioni meramente esecutive o accessorie (quali, ad esempio, le attività di segreteria) potesse configurare automaticamente la presenza di una autonoma organizzazione (tra le altre, Cass., Sez. VI, 25 settembre 2013, n. 22019). La questione è stata di recente demandata alle Sezioni unite, le quali hanno avvallato il secondo degli orientamenti citati. I giudici (Cass., Sez. unite, 10 maggio 2016, n. 9451) hanno affermato che, rispetto alla presenza di un collaboratore la cui opera concorre e si combina «con quel che è il proprium della specifica (professionalità espressa nella) “attività diretta allo scambio di beni e servizi”», assume diversa incidenza «l’avvalersi in modo non occasionale di lavoro altrui quando questo si concreti nell’espletamento di mansioni di segreteria o generiche o meramente esecutive, che rechino all’attività svolta dal contribuente un apporto del tutto mediato o, appunto generico». (5) La tesi delle Sezioni unite 7371/2016 non è unanimemente condivisa, si è infatti osservato come si tratti di una presunzione «che il professionista dovrebbe poter superare dimostrando che, pur svolgendo la professione nell’ambito dello studio associato, il tipo di struttura non è sinonimo di un incremento del valore della produzione. e il giudice di merito dovrebbe poter accertare - quanto meno nel caso di professionisti con competenze diverse -l’entità e l’incidenza ai fini reddituali della condivisione con altri professionisti dello svolgimento di parte dell’attività professionale dello studio e dichiarare la debenza o meno dell’imposta» (M. COnIGLIARO, studio associato ed irap: partita chiusa a favore del Fisco?, in guida ai controlli fiscali, n. 11/2016, p. 39). COnTenzIOSO nAzIOnALe Il risvolto pratico della pronuncia, consiste nel fatto che l’Amministrazione finanziaria non potrà accertare come dovuta l’imposta in capo al libero professionista, prescindendo dalla verifica della mansione effettivamente svolta dal dipendente. Il contribuente, per canto suo, «avrà più margine di difesa in caso di accertamento, tramite la produzione di documentazione attestante il suo ruolo di responsabile dell’organizzazione e, di contro, il ruolo meramente marginale ed esecutivo svolto dal proprio dipendente oltre a fornire tutti i documenti contabili necessari al fine di giustificare l’impiego di beni strumentali non eccedenti il minimo indispensabile» (6). In definitiva, ad avviso della Suprema Corte «lo stesso limite segnato in relazione ai beni strumentali - “eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione” -non può che valere, armonicamente, per il fattore lavoro, la cui soglia minimale si arresta all’impiego di un collaboratore» che esplichi mansioni meramente esecutive. Cassazione civile, sezioni Unite, sentenza 14 aprile 2016 n. 7371 -Pres. M. Cicala, rel. A. Greco, P.m. u. Apice (difforme) -Agenzia delle entrate (avv. gen. Sato) c. Studio P. S.S. (avv. A. Buccico). SVOLGIMenTO DeL PROCeSSO L'Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione, con due motivi, nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale dell'emilia Romagna che, accogliendone solo parzialmente l'appello, ha riconosciuto il diritto della società semplice Studio P., svolgente attività di amministratore condominiale, al rimborso dell'imposta regionale sulle attività produttive versata per gli anni dal 1998 al 2002, e non anche per il 2003, il cui importo di euro 609 era stato portato in compensazione l'anno successivo. Il giudice d'appello, infatti, premesso che l' art. 2 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, stabilisce al primo periodo che "presupposto dell'imposta è l'esercizio abituale di un'attività autonomamente organizzata diretta alla produzione e allo scambio di beni, ovvero alla prestazione di servizi", e rilevato che ai sensi del secondo periodo "l'attività esercitata dalle società e dagli enti è da considerare in ogni caso presupposto d'imposta", ha ritenuto che nella specie "la sussistenza delle circostanze che legittimano l'applicazione del tributo deve essere riscontrata attraverso un'analisi economica e qualitativa dell'attività esercitata, potendo esistere attività autonome svolte in assenza di organizzazione di capitali e lavoro altrui, che a parere di questa Commissione sussiste in questo caso, in quanto il contribuente ha sufficientemente provato e documentato nel ricorso introduttivo tale assenza, avendo esercitato la propria attività autonoma in via quasi esclusivamente personale, senza l'ausilio di personale dipendente e/o di ingenti cespiti", sicchè "manca il presupposto impositivo previsto dal D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 2". (6) Cfr. G. ACCIARO -P. CORReDDu, imponibilità irap: novità in tema di autonoma organizzazione, in guida ai Controlli Fiscali, n. 6/2016, p. 5. RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 La società contribuente resiste con controricorso. Con il primo motivo, denunciando violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 2, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, l'amministrazione ricorrente censura la decisione per aver ravvisato l'insussistenza dell'autonoma organizzazione in presenza di un'attività svolta in forma associata/societaria, come ammesso dalla stessa contribuente, laddove non solo l'attività svolta in forma associata rientrerebbe nella fattispecie impositiva, ma in ogni caso la struttura tipica degli studi associati renderebbe evidente l'esistenza di un'organizzazione di mezzi e persone volta al raggiungimento di uno scopo, e quindi la piena assoggettabilità alla norma; con il secondo motivo, formulato in via subordinata, denuncia insufficiente e contraddittoria motivazione, in relazione all'art. 360 cod. proc. civ., per avere la sentenza impugnata omesso di considerare, e non aver motivato la ragione di tale omissione, il fatto decisivo che la contribuente svolgesse attività in forma societaria/associata. Fissato per la discussione, a seguito di ordinanza interlocutoria della sesta sezione civile, nell'articolazione della quinta sezione - tributaria (ord. 3870/2015), il ricorso è stato rimesso a queste Sezioni unite per l'esame di questione di massima di particolare importanza. MOTIVI DeLLA DeCISIOne Viene rimessa alle Sezioni unite di questa Corte la questione "se, in applicazione del combinato disposto del D.Lgs. n. 446 del 1997, artt. 2 e 3, debba essere sottoposto ad IRAP il "valore aggiunto prodotto nel territorio regionale" da attività di tipo professionale espletate nella veste giuridica societaria, ed in particolare di società semplice, anche quando il giudice valuti non sussistente una "autonoma organizzazione" dei fattori produttivi. Osserva il Collegio che il D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, istitutivo dell'imposta regionale sulle attività produttive, stabilisce all'art. 2, primo periodo, che presupposto dell'imposta è l'esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi. A tenore del secondo periodo dell'art. 2, "costituisce in ogni caso presupposto d'imposta l'attività esercitata dalle società e dagli enti, compresi gli organi e le amministrazioni dello Stato". Il requisito della autonoma organizzazione dell'attività non è quindi richiesto in relazione all'attività delle società e degli enti, compresi gli organi e le amministrazioni dello Stato, in quanto l'attività esercitata da tali soggetti, a mente del secondo periodo dello stesso art. 2, costituisce in ogni caso presupposto d'imposta. Il successivo art. 3, rendendo esplicito il catalogo dei soggetti passivi dell'imposta - che "sono coloro che esercitano una o più delle attività di cui all'art. 2" -, in particolare individua espressamente, al comma 1, lett. c), le società semplici esercenti arti e professioni e quelle ad esse equiparate a norma ("ai fini delle imposte sui redditi") del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 5, comma 3, vale a dire "le associazioni senza personalità giuridica costituite fra persone fisiche per l'esercizio in forma associata di arti e professioni" di cui al successivo art. 49 (redditi di lavoro autonomo), nella vecchia numerazione, dello stesso D.P.R. n. 917 del 1996. In questo senso la sezione tributaria si è espressa con Cass. n. 16784 del 2010, in relazione all'esercizio in forma associata della professione di dottore commercialista, individuando la ratio della previsione in esame nel fatto che "l'attività esercitata da tali soggetti, strutturalmente organizzati per la forma nella quale l'attività è svolta, costituisce pertanto ex lege presupposto d'imposta"; con Cass. n 25313 del 2014, in relazione all'esercizio in forma associata della professione forense; con Cass. n. 25315 del 2014, che chiaramente afferma che l'esercizio COnTenzIOSO nAzIOnALe in forma associata, per il tramite di una società in nome collettivo, dell'attività di agente di commercio "esclude la necessità di accertare la sussistenza di un'autonoma organizzazione". Ad analoghe conclusioni giungeva la sezione con il più risalente orientamento rappresentato da Cass. n. 13570 del 2007, n. 17136 del 2008, n. 24058 del 2009 e n. 1575 del 2014 che, pur a fronte della drastica formula impiegata dal legislatore - "costituisce in ogni caso presupposto d'imposta" -, tuttavia è andata pronunciandosi nel senso che l'esercizio in forma associata di una professione liberale era "circostanza di per sè idonea a far presumere l'esistenza di una autonoma organizzazione di struttura e mezzi..". un siffatto indirizzo non sembra dare adeguato rilievo al fatto che la "prova contraria" può avere qui ad oggetto non l'insussistenza dell'autonoma organizzazione nell'esercizio in forma associata dell'attività, ma piuttosto l'insussistenza dell'esercizio in forma associata dell'attività stessa. Dall'accertamento in concreto dell'autonoma organizzazione non si è ritenuta dispensata Cass. n. 21326 del 2013 -richiamata nell'ordinanza interlocutoria -, che, pur consapevole che "solo l'attività esercitata dalle società e dagli enti, compresi gli organi e le amministrazioni dello Stato, costituisce in ogni caso presupposto di imposta, in base alla seconda parte" del detto art. 2, ha nondimeno ritenuto applicabile l'imposta a numerosi tassisti "organizzati in società cooperativa, in ragione delle specifiche modalità di esercizio dell'attività, integrata dall'apporto qualificante della predetta stabile struttura societaria, che assicura al singolo tassista, in via tipica e costante, continuità di lavoro, migliori condizioni economico-professionali, centralizzazione della raccolta pubblicitaria, assistenza amministrativa e fiscale": ma ciò, sembra di capire, in ragione della formulazione dei motivi del ricorso, uno dei quali "non aveva dato conto della descritta sussistenza, in capo ai tassisti, di una posizione contrattuale ed organizzativa collegata in modo essenziale -già ai fini di censirne l'intrinseca modalità di effettuazione -con i plurimi servizi della cooperativa di cui essi sono soci, dunque in una funzione collaborativa ben censita come contributo determinante per la produzione globale lorda del reddito dei contribuenti". Alla luce delle considerazioni che precedono, può affermarsi pertanto il seguente principio di diritto: "presupposto dell'imposta regionale sulle attività produttive è l'esercizio abituale di un'attività autonomamente organizzata diretta alla produzione e allo scambio ovvero alla prestazione di servizi; ma quando l'attività è esercitata dalle società e dagli enti, che siano soggetti passivi dell'imposta a norma del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 3, comprese quindi le società semplici e le associazioni senza personalità giuridica costituite fra persone fisiche per l'esercizio in forma associata di arti e professioni - essa, in quanto esercitata da tali soggetti, strutturalmente organizzati per la forma nella quale l'attività è svolta, costituisce ex lege, in ogni caso, presupposto d'imposta, dovendosi perciò escludere la necessità di ogni accertamento in ordine alla sussistenza dell'autonoma organizzazione". La decisione impugnata si pone in contrasto con il principio di diritto enunciato. Il primo motivo del ricorso deve essere perciò accolto, assorbito l'esame del secondo motivo, la sentenza impugnata deve essere cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, con il rigetto del ricorso introduttivo della contribuente. La non univocità dei precedenti giurisprudenziali sul punto giustifica la compensazione delle spese dell'intero giudizio. non sussistono i presupposti, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis. RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 P.Q.M. La Corte di cassazione, a sezioni unite, accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo della contribuente. Dichiara compensate fra le parti le spese dell'intero giudizio. non sussistono i presupposti, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis. Così deciso in Roma, il 6 ottobre 2015. Cassazione civile, sezioni Unite, sentenza 10 maggio 2016 n. 9451 -Pres. M. Cicala, rel. A. Greco, P.m. u. Apice (difforme) - Ricorso Agenzia delle entrate (avv. gen. Stato) c. C.n. (avv. M. Chianese). SVOLGIMenTO DeL PROCeSSO L'Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione con un motivo, illustrato con successiva memoria, nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania che, rigettandone l'appello, ha riconosciuto a C.n., avvocato, il diritto al rimborso dell'IRAP versata per gli anni dal 2000 al 2004. Il giudice d'appello, rilevato che nello svolgimento dell'attività professionale il contribuente si avvaleva "solo di un lavoratore dipendente con mansioni di segretario e di beni strumentali minimi", ha ritenuto che "la presenza minimale di strumenti e di collaborazione non costituiva autonoma organizzazione" ai sensi del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 446, art. 2. C.n. resiste con controricorso, illustrato con successiva memoria. Con l'unico motivo, denunciando "violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 447, art. 2, comma 1, e art. 3, lettera c)", l'amministrazione ricorrente critica la sentenza impugnata perchè, pur avendo riconosciuto la presenza di un dipendente e di beni strumentali ha escluso il requisito dell'autonoma organizzazione ai fini dell'IRAP, laddove, secondo le disposizioni in rubrica, tale requisito ricorrerebbe allorchè il contribuente sia, sotto qualsiasi forma il responsabile dell'organizzazione e si avvalga del lavoro anche di un solo dipendente. Il contribuente resiste con controricorso, illustrato con successiva memoria. Fissato per la discussione, a seguito di ordinanza interlocutoria della sezione tributaria (ord. 5040/15), il ricorso è stato rimesso a queste Sezioni unite per l'esame di questione di massima di particolare importanza. L'Agenzia delle entrate ha depositato memoria. MOTIVI DeLLA DeCISIOne 1.- Con l'ordinanza del gennaio 2015 la sezione tributaria ha ravvisato nella giurisprudenza della Corte di cassazione, con riguardo al presupposto dell'imposta regionale sulle attività produttive, fissato dal D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 2, e segnatamente al concetto di "autonoma organizzazione", un contrasto fra un orientamento più radicato - di cui costituisce espressione Cass. n. 3676 del 2007 -, secondo cui la presenza anche di un solo dipendente, anche se part time ovvero addetto a mansioni generiche, determinerebbe di per sè l'assoggettamento all'imposta, ed un orientamento più recente, secondo cui sarebbe invece COnTenzIOSO nAzIOnALe necessario accertare in punto di fatto l'attitudine del lavoro svolto dal dipendente a potenziare l'attività produttiva al fine di verificare la ricorrenza del presupposto stesso. Osserva il Collegio che la sentenza n. 3676 del 2007, menzionata come significativa dell'indirizzo più risalente, e decisamente maggioritario, rappresenta, con alcune pronunce coeve, il punto di approdo di una prima fase dell'elaborazione giurisprudenziale di questa Corte sull'IRAP, incentrata sul presupposto dell'imposta, regolato dal D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, artt. 2 e 1, istitutivo del tributo, mentre la seconda fase è stata piuttosto caratterizzata dalla definizione dei contorni della platea dei soggetti passivi. 2.-Con la sentenza 16 febbraio 2007, n. 3676, dunque, la sezione tributaria aveva in primo luogo posto in luce che il D.Lgs. n. 446 del 1997, aveva stabilito all'art. 2 che il presupposto del tributo è costituito dall'esercizio di un'attività "autonomamente organizzata" (cosi dopo la novella recata dal D.Lgs. 10 aprile 1998, n. 137) diretta alla produzione o allo scambio di beni o servizi, ribadendo al successivo art. 3, che i soggetti passivi dell'IRAP sono quelli che svolgono una delle attività di cui all'art. 2 e, "pertanto", anche le persone fisiche e le società semplici (od equiparate) che esercitano un'arte o una professione ai sensi dell'art. 49, comma 1 (nella vecchia numerazione) del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, che, come chiarito dalla lettera a) del comma 2 all'epoca vigente, ricomprendeva nella categoria tutti coloro che, per professione abituale, svolgevano un'attività di lavoro autonomo non classificabile come impresa o come collaborazione coordinata o continuativa e, cioè, come prestazione di servizi senza impiego di organizzazione propria. Aveva quindi rilevato come la Corte costituzionale, con la sentenza n. 156 del 2001 avesse puntualizzato che l'IRAP non operava nessuna indebita equiparazione dei redditi di lavoro autonomo a quelli d'impresa, essendo un'imposta volta ad incidere su di un fatto economico diverso dal reddito, ossia sul valore aggiunto prodotto dalle singole unità organizzative, che ove sussistente, costituiva un indice di capacità contributiva capace di giustificare l'imposizione sia nei confronti delle imprese che dei lavoratori autonomi: ciò non voleva certamente dire che questi ultimi rientravano sempre tra i soggetti passivi dell'imposta perchè se quello organizzativo costituiva un elemento connaturato alla nozione stessa d'impresa, non altrettanto poteva dirsi per le arti e le professioni, riguardo alle quali non era impossibile escludere in assoluto che l'attività potesse essere svolta anche in assenza di un'organizzazione di capitali e/o lavoro altrui. Ma la ipotizzabilità di un'evenienza del genere, il cui accertamento costituiva una questione di mnero fatto, non valeva a dimostrare la denunciata illegittimità dell'IRAP, ma soltanto la sua inapplicabilità per quei lavoratori autonomi che non si fossero giovati di alcun supporto organizzativo. In tal modo, la Corte costituzionale "aveva in definitiva affermato che l'IRAP può ed, anzi, deve essere applicata pure ai lavoratori autonomi, tenendo però presente che non si tratta di una regola assoluta, ma solo dell'ipotesi ordinaria, nel senso che l'assoggettamento all'imposta costituisce la norma per ogni tipo di professionista, mentre l'esenzione rappresenta l'eccezione valevole soltanto per quelli privi di qualunque apparato produttivo. Vero è che l'interpretazione che di una norma sottoposta a scrutinio di costituzionalità offre la Corte costituzionale in una sentenza di non fondatezza non costituisce un vincolo per il giudice chiamato successivamente ad applicarla, ma è altrettanto vero che quella interpretazione, se non altro per l'autorevolezza della fonte da cui proviene, rappresenta un fondamentale contributo ermeneutico che non può essere disconosciuto senza l'esistenza di una valida ragione". Secondo la sezione tributaria, "il D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 2, richiede unicamente la presenza di un'organizzazione autonoma senza fissare alcun limite quantitativo diverso da quello insito nel concetto stesso evocato dalle parole usate che, a loro volta, postulano soltanto RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 l'esistenza di uno o più elementi suscettibili di combinarsi con il lavoro dell'interessato, potenziandone le possibilità. non occorre, quindi, che si tratti di una struttura d'importanza prevalente rispetto al lavoro del titolare o addirittura in grado di generare profitti anche senza di lui, ma è sufficiente che vi sia un insieme tale da porre il professionista in una condizione più favorevole di quella in cui si sarebbe trovato senza di esso. La maggiore o minore consistenza di tale insieme non è dunque importante purchè, ben s'intende, si tratti di fattori che non siano tutto sommato trascurabili, bensì capaci di fornire un effettivo qualcosa in più al lavoratore autonomo. L'indagine sull'esistenza di tale qualcosa in più costituisce senza dubbio un accertamento di fatto che il giudice di merito dovrà compiere caso per caso sulla base di una valutazione di natura non soltanto logica, ma anche socio-economica perchè l'assenza di un struttura produttiva non può essere intesa nel senso radicale di totale mancanza di qualsiasi supporto, ma neppure in quello di particolare rilevanza o, peggio, di prevalenza dei beni e/o del lavoro altrui su quello del titolare. Per far sorgere l'obbligo di pagamento del tributo basta infatti, l'esistenza di un apparato che non sia sostanzialmente ininfluente, ovverosia di un quid pluris che secondo il comune sentire, del quale il giudice di merito è portatore ed interprete, sia in grado di fornire un apprezzabile apporto al professionista. Si deve cioè trattare di un qualcosa in più la cui disponibilità non sia, in definitiva, irrilevante perchè capace, come lo studio o i collaboratori, di rendere più efficace o produttiva l'attività. non varrebbe in contrario replicare che così ragionando si giunge a fare dei professionisti una categoria indefettitalnente assoggettata all'IRAP perchè, nell'attuale realtà, è quasi impossibile esercitare l'attività senza l'ausilio di uno studio e/o di uno o più collaboratori o dipendenti. È infatti proprio per questo che il D.Lgs. n. 446 del 1997, ha inserito gli autonomi fra i soggetti passivi dell'imposta, in quanto anch'essi sì avvalgono normalmente di quella struttura organizzativa che costituisce il presupposto dell'imposta. ed è sempre per lo stesso motivo che... il D.Lgs. n. 446 del 1997, ha, fra l'altro, abrogato l'ICIAP, essendo l'IRAP destinata normalmente a colpire coloro che in precedenza pagavano l'ICIAP che, a sua volta, gravava sui professionisti indipendentemente dalla consistenza della organizzazione da essi predisposta". In considerazione di quanto sopra, va pertanto enunciato il seguente principio di diritto: "A norma del combinato disposto del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 2, primo periodo, e art. 3, comma 1, lett. c), l'esercizio delle attività di lavoro autonomo di cui all'art. 49, comma 1 (nella versione vigente fino al 31/12/2003), ovvero al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 53, comma 1, (nella versione vigente dal 1/1/2004), è escluso dall'applicazione dell'imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) solo qualora si tratti di attività non autonomamente organizzata. I1 requisito dell'autonoma organizzazione, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell'organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l'id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l'esercizio dell'attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui. Costituisce onere del contribuente che chieda il rimborso del- l'imposta asseritamente non dovuta dare la prova dell'assenza delle condizioni sopraelencate. 3.-Queste Sezioni unite, con riguardo al requisito dell'autonoma organizzazione nel presupposto dell'IRAP, condividono i principi e, più complessivamente, l'impianto ricostruttivo fornito allora con la sentenza capofila dell'orientamento maturato nel 2007 nella sezione tributaria, della quale si è dato conto sopra, e tuttavia ritengono che essi meritino, più che una rivalutazione, delle precisazioni concernenti il fattore lavoro. COnTenzIOSO nAzIOnALe Se fra "gli elementi suscettibili di combinarsi con il lavoro dell'interessato, potenziandone le possibilità necessarie", accanto ai beni strumentali vi sono i mezzi "personali" di cui egli può avvalersi per lo svolgimento dell'attività, perchè questi davvero rechino ad essa un apporto significativo occorre che le mansioni svolte dal collaboratore non occasionale concorrano o si combinino con quel che è il proprium della specifica (professionalità espressa nella) "attività diretta allo scambio di beni o di servizi", di cui fa discorso il D.Lgs. n. 946 del 1997, art. 2, e ciò vale tanto per il professionista che per l'esercente l'arte, come, più in generale, per il lavoratore autonomo ovvero per le figure "di confine" individuate nel corso degli anni dalla giurisprudenza di questa Corte. È infatti in tali casi che può parlarsi, per usare l'espressione del giudice delle leggi, di "valore aggiunto" o, per dirla con le pronunce della sezione tributaria del 2007, di "quel qualcosa in più". Diversa incidenza assume perciò l'avvalersi in modo non occasionale di lavoro altrui quando questo si concreti nell'espletamento di mansioni di segreteria o generiche o meramente esecutive, che rechino all'attività svolta dal contribuente un apporto del tutto mediato o, appunto, generico. Lo stesso limite segnato in relazione ai beni strumentali "eccedenti, secondo l'id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l'esercizio dell'attività in assenza di organizzazione" - non può che valere, armonicamente, per il fattore lavoro, la cui soglia minimale si arresta all'impiego di un collaboratore. Va pertanto enunciato il seguente principio di diritto: "con riguardo al presupposto del- l'IRAP, il requisito dell'autonoma organizzazione - previsto dal D.Lgs. 15 settembre 1997, n. 496, art. 2, -, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell'organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l'id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l'esercizio dell'attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui che superi la soglia dell'impiego di un collaboratore che esplichi mansioni di segreteria ovvero meramente esecutive". Il ricorso dell'Agenzia delle entrate deve essere rigettato. Le spese del giudizio vanno compensate fra le parti, in considerazione del carattere controverso della questione in sede di legittimità. P.Q.M. La Corte di cassazione, a sezioni unite, rigetta il ricorso. Dichiara compensate fra le parti le spese del giudizio. Così deciso in Roma, il 6 ottobre 2015. RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 il regime di esenzione iVa delle operazioni in coassicurazione: l’interpretazione restrittiva entra dalla porta ed esce dalla finestra. La riconducibilità nell’alveo delle “operazioni di assicurazione” delle prestazioni svolte in esecuzione di clausola di delega nell’ambito di un contratto di coassicurazione Nota a CassazioNe Civile, sezioNe v, seNteNza 4 Novembre 2016 N. 22429 Lucia Marzialetti * sommario: 1. Premessa. i termini della questione -2. l’iter logico seguito dalla suprema Corte - 3. Critica. i profili problematici - 4. Considerazioni conclusive. 1. Premessa. i termini della questione. La Suprema Corte di cassazione con la sentenza in commento, per la prima volta si trova a dover esaminare e (tentare di) risolvere l’annosa questione in ordine ai profili problematici che presenta l’applicabilità della disciplina di esenzione Iva ai “costi di liquidazione” o “costi di delega” corrisposti dalla delegante alla delegataria nell’ambito di un rapporto di coassicurazione in presenza di una clausola di delega. nel caso in esame la controversia traeva origine dall’impugnazione del- l’avviso di accertamento emesso dall’Amministrazione finanziaria a carico della società resistente, operante nel settore assicurativo del ramo danni, e con il quale veniva recuperata a tassazione l’omessa fatturazione di operazioni imponibili IVA (1) in riferimento ai contratti di coassicurazione stipulati con altri soggetti assicuratori. Tramite l’avviso di accertamento l’ufficio recuperava a tassazione gli addebiti, sia delle spese esterne sia delle spese interne, «affermando che questi costi -quantificati nei cd. diritti di liquidazione -venivano conseguiti dalla delegataria a titolo di compenso per la autonoma attività svolta nel- l'interesse delle altre coassicuratrici e, quindi, dovevano essere assoggettate ad iva. tale contestazione era fondata anche sulla considerazione che il (*) Dottore in giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura Generale dello Stato e tirocinante presso l’Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni (IVASS). (1) In particolare le violazioni riscontrate dall’agenzia si riferivano all'omessa fatturazione di prestazioni imponibili ai fini Iva, inerenti le commissioni di delega (o diritti di liquidazione per le spese sostenute) che, nei contratti di coassicurazione, rappresenterebbero il corrispettivo per le prestazioni di servizio effettuate dall'impresa coassicuratrice delegataria nei confronti delle altre coassicuratrici deleganti, per la gestione di un contratto assicurativo unitario. Dalla stessa ricostruzione dei fatti, pacifica fra le parti, i “diritti di liquidazione” consisterebbero in «importi calcolati in percentuale dell’indennizzo complessivo, conformemente ad apposite tabelle pubblicate dall’associazione di categoria AnIA». La modalità di corresponsione dell’addebito attraverso un meccanismo di forfetizzazione avvalora, a bene vedere, la natura di compensi delle somme sì percepite. COnTenzIOSO nAzIOnALe rapporto tra le assicuratrici era costituito da un “mandato senza rappresentanza” » (§ 2). La società si difendeva, sia in primo sia in secondo grado, contestando la ricostruzione operata dall’Amministrazione e sostenendo che le prestazioni de quibus dovevano piuttosto inserirsi «nell'esecuzione del contratto principale di assicurazione, dal quale non sono oggettivamente scindibili», sicché «i relativi compensi rientrano nell'esenzione delle operazioni di assicurazione prevista dal D.P.r. n. 633 del 1972, art. 10, comma 1, n. 2» (§ 1.3). I giudici dei precedenti gradi di giudizio accoglievano interamente le ricostruzioni proposte dalla società di assicurazione. L’Amministrazione finanziaria ricorreva, quindi, alla Suprema Corte di cassazione lamentando in primo luogo la violazione e falsa applicazione dell'art. 1911 c.c. e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 3, commi 1 e 3, art. 10, comma 1, n. 2, art. 12, art. 15, comma 1, n. 3, art. 19, comma 5, art. 36 bis (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) (2); in secondo luogo la omessa o insufficiente motivazione su punti di fatto decisivi per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5). Con la sentenza che si offre in commento la Suprema Corte di cassazione è stata, dunque, chiamata ad occuparsi, per la prima volta, del problema del- l’inquadramento fiscale delle operazioni poste in essere dalle imprese delegatarie in esecuzione delle obbligazioni nascenti dalle clausole di delega. Se inizialmente le osservazioni e le argomentazioni svolte in limine litis dalla Corte, anche attraverso numerosi richiami alla giurisprudenza comunitaria, sembrano avvalorare le tesi erariali, successivamente, si avverte un inaspettato cambio di rotta. Infatti, con un iter logico non univoco, la Suprema Corte conclude respingendo il primo motivo di ricorso, accogliendo il secondo e cassando la sentenza con rinvio. La Suprema Corte invita, dunque, il giudice del rinvio ad attenersi ai principi di diritto statuiti nella pronuncia in commento, chiedendo altresì di accertare se nel presente caso ricorra “l’unicità economica dell’operazione di assicurazione” ovvero “prestazioni indipendenti” o “prestazioni accessorie” a quella assicurativa sotto il profilo della “idoneità delle diverse prestazioni o attività ad integrare il servizio assicurativo sotto il profilo economico” e dell’ “esistenza di un vincolo contrattuale tra il prestatore del servizio e l’assicurato, che ricorre nel rapporto con l’assicuratore”. (2) Le doglianze dell’Amministrazione finanziaria ricorrente si rivolgevano in particolare contro quattro punti della impugnata sentenza della CTR di Genova (n. 11/2010), contestando le ricostruzioni operate dai giudici tributari in punto di: Ricostruzione del rapporto tra delegante e delegataria come mandato con rappresentanza; Riconduzione delle prestazioni svolte fra le operazioni di assicurazione esentate iva ai sensi dell’art. 10 comma 1 n. 2; Illegittimità della doppia imposizione generata dalla tassazione del ribaltamento dei costi pro quota sulle deleganti; Accessorietà delle prestazioni svolte dalla delegataria rispetto alle principali operazioni di assicurazione. RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 2. l’iter logico seguito dalla suprema Corte. La Suprema Corte di cassazione, dopo aver brevemente ricostruito i fatti di causa dai quali origina la controversia, esamina nel merito la questione. Preliminarmente ripercorre la normativa applicabile; successivamente analizza il ragionamento svolto dalla CTR di Genova, e, ritenendolo corretto, riporta a tal fine la giurisprudenza comunitaria in materia; infine risolve la questione, procedendo all’inquadramento sistematico dell’istituto giuridico ai fini sia del diritto civile sia, più specificamente, ai fini del diritto tributario. In merito al primo motivo di illegittimità sollevato dall’Amministrazione ricorrente, la Suprema Corte di cassazione si è espressa in termini di rigetto, reputando il motivo di ricorso infondato ed inammissibile. La Suprema Corte osserva che, contrariamente a quanto sostenuto dal- l’Agenzia, la CTR non ha invocato a fondamento della propria decisione né l’art. 15 comma 1, n. 3, né l’art. 12, ma unicamente l’art. 10 DPR 633/1972. La Corte mostra di condividere il ragionamento svolto dalla CTR secondo cui le prestazioni svolte dalla delegataria, pur ponendosi in rapporto di accessorietà rispetto alle principali prestazioni di assicurazione svolte a favore del soggetto assicurato, devono considerarsi sul piano fiscale «un unicum identificato nella più ampia nozione di operazione di assicurazione» (§ 4.2.7). Osserva la Corte che proprio per tale motivo la CTR, in linea con la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’ue, «volutamente non ha valutato separatamente le singole operazioni messe in atto per l'espletamento della delega, ma si è soffermata sul complesso dell'attività svolta dalla delegataria per conto delle deleganti ed ha ritenuto, in ragione di ciò, che tutte le operazioni relative alla gestione ed all'esecuzione del rapporto assicurativo rientrassero nella nozione di "operazioni di assicurazione"» (§ 4.2.3). Ciò posto la Suprema Corte, a sostegno delle proprie argomentazioni, richiama una copiosa giurisprudenza eurocomunitaria che ritiene a tal fine «dirimente». Ad avviso dei giudici di legittimità, infatti, nella materia delle assicurazioni, le nozioni proprie del diritto comunitario devono prevalere sulle discipline civilistiche nazionali. Con siffatte premesse, a partire dal § 4.3 e fino al § 4.5.7 vengono, pertanto, riportati i passi di una serie di pronunce della CGue (3), più o meno recenti, aventi ad oggetto, ad avviso della Corte, la materia di cui si discute e che potrebbero, quindi, (ma di questo si dubita) essere estese al caso di specie. Si osserva, infatti, che le pronunce così richiamate, se da un lato sembrano indiscutibilmente corroborare le tesi dell’Amministrazione in ordine all’autonomia negoziale delle prestazioni della delegataria e alla natura di compenso (3) In particolare la Corte riferisce alcuni passi rilevanti delle seguenti cause: C-349/96 Card Protection Plan ltd; C-42/14 Wojskowa agencja mieszkaniowa w Warszawie; C-472/03 arthur andersen; C-224/11 bg2 leasing; C-8/01 taksatorringen; C-44/11 Deutsche bank; C-124/07 J.C.m. beheer. COnTenzIOSO nAzIOnALe imponibile IVA degli addebiti (cfr. §§ 4.4.2, 4.4.3, 4.5.4), dall’altro sono del tutto inconferenti rispetto al caso di specie. Pur, infatti, statuendo principi di diritto che possono ritenersi latamente estensibili al caso di specie (4), queste risolvevano questioni alla cui base vi erano rapporti negoziali ben diversi da quello di coassicurazione al- l’esame della Corte. Si trattava, infatti, di rapporti di riassicurazione, intermediazione, mediazione, tutte figure negoziali ed istituti giuridici ben diversi dall’istituto della coassicurazione di cui all’art. 1911 c.c. La Corte, in particolare, considera di speciale rilevanza per la risoluzione della fattispecie la recente sentenza resa nella causa C-40/15 aspiro sa. Sul punto, infatti, dopo aver ripercorso il ragionamento svolto dalla CGue, nonché i principali profili giuridici e di diritto in essa contenuti, la Corte, inaspettatamente, dichiara che il caso ivi esaminato (e da essa stessa posta a fondamento delle proprie tesi) è «significativamente diverso da quello oggetto del presente giudizio» (§ 4.5.2). A ben vedere la Corte di legittimità estrapola la sola parte della sentenza de qua - le definizioni date dalla CGue in punto di “operazioni di assicurazioni” e di “Prestazioni di servizi relative a dette operazioni, effettuate dai mediatori e dagli intermediari di assicurazione" -utile al fine di risolvere la controversia in linea con il proprio convincimento. La Corte, erroneamente, considera, quindi, applicabile al caso di specie la fattispecie della Prestazione di servizi effettuata da mediatori e intermediari di assicurazione, la quale, tuttavia, esula sia giuridicamente sia logicamente dalla figura oggetto della controversia. Si tratta, infatti, con tutta evidenza dell’istituto della coassicurazione ulteriormente qualificato dalla clausola di delega. Le conclusioni alle quali perviene il Supremo Collegio appaiono, pertanto, non coerenti. In maniera ingiustificata e non del tutto chiara, infatti, la Cassazione ritiene che sia inutile entrare nel merito dei rapporti interni intercorrenti tra le imprese in coassicurazione, reputando la questione irrilevante ai fini della risoluzione del caso di specie, «in quanto non si riverberano sul tema della uni (4) La Cassazione sembra, infatti, inizialmente aderire integralmente alle tesi erariali circa: l’impossibilità di considerare le prestazioni di delega quali operazioni di assicurazione in senso proprio (essendo quindi inapplicabile l’esenzione prevista dall’art. 10 comma 1 n. 2) d.P.R. 633/72), e altresì l’inapplicabilità dell’esenzione di cui all’art. 10 comma 1 n. 9 d.P.R. 633/72 relativa alle operazioni di “mandato, mediazione e intermediazione relative alle operazioni di assicurazione, convenendo con l’amministrazione circa il difetto, in capo alla compagnia assicuratrice della necessaria qualifica soggettiva di intermediario di assicurazione”. Successivamente, però, la sentenza ritiene decisivi alcuni concetti quali “esistenza di un rapporto contrattuale tra il prestatore del servizio di assicurazione e l’assicurato”, “unicità del servizio sotto il profilo economico” e “accessorietà”, i quali (lo si evidenzierà meglio in prosieguo) non sembrerebbero propriamente applicabili al caso in esame. RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 cità della prestazione sul piano economico e funzionale, come elaborato dalla Cgue, e come sostanzialmente applicato dalla Commissione territoriale, né sul quello del rapporto contrattuale con l'assicurato» (§ 4.5.9). Così ragionando la Corte ritiene di condividere la pronuncia dell’impugnata sentenza, che, avendo valorizzato «l’unicità della funzione economica che accomuna le diverse attività e la esistenza del rapporto contrattuale tra la coassicuratrice e l'assicurato» (§ 4.6.2), qualificava conseguentemente le prestazioni come “operazioni di assicurazione” e per l’effetto affermava che i compensi percepiti per le stesse non dovevano essere assoggettati ad IVA, in quanto esenti ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, comma 1, n. 2. Il ragionamento della Corte, incentrato unicamente sul concetto di unitarietà economica delle operazioni di cui si discute, suscita indubbiamente numerose perplessità. A chiusura di siffatte argomentazioni la Corte esprime, quindi, il seguente principio di diritto: “in tema di iva, il regime di esenzione previsto dal D.P.r. n. 633 del 1972, art. 10, comma 1, n. 2, per le "operazioni di assicurazione", da interpretare restrittivamente in quanto derogatorio al regime ordinario di imponibilità, si estende - in considerazione di quanto stabilito dalla Corte di giustizia, tra le altre, con le sentenze emesse nelle cause C-349/96, C-472/03 e C- 40/15 - alla pluralità di prestazioni idonee ad integrare il servizio assicurativo sotto il profilo economico, per cui occorre individuare gli elementi caratteristici dell'operazione di cui trattasi per stabilire, se il soggetto passivo fornisca all'assicurato, considerato come consumatore medio, attraverso la pluralità di attività poste in essere, più prestazioni principali distinte o un'unica prestazione, sempre che il prestatore di servizi si sia impegnato esso stesso nei confronti dell'assicurato a garantire a quest'ultimo la copertura di un rischio e sia vincolato all'assicurato da un rapporto contrattuale. spetta al giudice della controversia accertare, alla luce di questi elementi d'interpretazione, se l'operazione controversa debba essere considerata ai fini del- l'iva, unitariamente come "operazione di assicurazione", ovvero come costituita da prestazioni indipendenti, ovvero se ricorrano prestazioni accessorie. tale principio si applica anche quando il contratto assicurativo sia stato concluso in coassicurazione con una pluralità dei soggetti obbligati pro quota alla copertura del rischio dell'assicurato e uno dei coassicuratori sia stato delegato dagli altri alla gestione ed all'esecuzione del rapporto assicurativo. la regolamentazione dei rapporti interni tra coassicuratori, mediante la cd. clausola di delega, e le concrete modalità di esecuzione dei compiti delegati, con o senza la spendita del nome dei coassicuratori, non ha, infatti, incidenza sulla nozione di "operazione di assicurazione", così come definita sul piano fiscale dalla normativa comunitaria e dalla elaborazione giurisprudenziale della Cgeu, che risulta radicata su due specifici elementi: la idoneità delle diverse prestazioni o attività ad integrare il servizio assicurativo sotto il profilo COnTenzIOSO nAzIOnALe economico; l'esistenza di un vincolo contrattuale tra il prestatore del servizio e l'assicurato, che ricorre nel rapporto con il coassicuratore”. In ordine poi al secondo motivo di ricorso, la Corte accoglie la doglianza sollevata dall’Amministrazione ricorrente, non avendo la CTR motivato ed illustrato «con adeguata puntualità e completezza gli elementi di fatto ed il percorso logico/giuridico seguito per ricondurre tutte le attività in discussione ad unitarietà economica e per valutare la idoneità delle stesse ad integrare delle componenti essenziali dell'operazione di assicurazione» (§ 5.3). Conseguentemente rinvia la causa nel merito, mandando al giudice del rinvio di accertare se nel presente caso ricorra “l’unicità economica dell’operazione di assicurazione” ovvero “prestazioni indipendenti” o “prestazioni accessorie” a quella assicurativa sotto il profilo della “idoneità delle diverse prestazioni o attività ad integrare il servizio assicurativo sotto il profilo economico” e dell’“esistenza di un vincolo contrattuale tra il prestatore del servizio e l’assicurato, che ricorre nel rapporto con l’assicuratore”. 3. Critica. i profili problematici. A parere di chi scrive, le considerazioni espresse dalla Suprema Corte con la sentenza che ivi si commenta ed in particolare con il principio di diritto (§ 4.6.1) presentano alcuni profili di criticità e non appaiono immuni da critiche. La questione, pacifica fra le parti in punto di fatto, verte solamente su profili di diritto, ed in particolare - ad avviso del giudice di legittimità - esclusivamente sulla riconducibilità delle attività oggetto di contestazione nel novero delle operazioni di assicurazione. La Suprema Corte, in ragione delle argomentazioni suesposte, perviene a stabilire in primo luogo la natura di operazioni di assicurazione delle prestazioni poste in essere dalla delegataria; in secondo luogo e per l’effetto che le commissioni di delega corrisposte dalle deleganti alla delegataria siano esenti alla luce dell’“unicità economica dell’operazione di assicurazione” e sotto il profilo della “accessorietà delle prestazioni di delega”. La pronuncia appare censurabile sotto diversi profili. Si rileva anzitutto l’erronea commistione operata dalla Corte tra le cause e gli oggetti del rapporto assicurativo alla base della fattispecie, e che di fatto condiziona, inficiandolo, il ragionamento complessivo. La fattispecie all’esame della Suprema Corte di Cassazione è, infatti, sistematicamente inquadrabile nell’alveo del contratto di coassicurazione (5) (5) Il contratto di coassicurazione è disciplinato dall’art. 1911 c.c. secondo cui “qualora la medesima assicurazione o l’assicurazione di rischi relativi alle stesse cose sia ripartita tra gli assicuratori per quote determinate, ciascun assicuratore è tenuto al pagamento dell’indennità assicurata soltanto in proporzione della rispettiva quota, anche se unico è il contratto sottoscritto da tutti gli assicuratori”. Col contratto di coassicurazione, l’assicurato instaura, quindi, con ciascuna impresa, rapporti giuridici RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 ulteriormente qualificato dalla presenza di una clausola di delega (6). (Si rimanda alle note per un breve excursus sulla disciplina giuridica). Appaiono, quindi, inconferenti rispetto alla soluzione della fattispecie in esame le sentenze eurocomunitarie richiamate dalla Suprema Corte, in quanto disciplinanti casi (mediazione, riassicurazione, intermediazione assicurativa) diversi da quello oggetto della controversia in esame (coassicurazione con delega). diversi, in base ai quali ogni compagnia è titolare di distinte posizioni soggettive sia sostanziali sia processuali ed assume obbligazioni autonome (ex multis Cass. n. 2709/2012, n. 1754/2005, n. 4799/2001, n. 1712/2000, n. 1830/1999, n. 667/1988, nonché SS.uu. n. 5119/2002). Le modalità di conclusione del contratto di coassicurazione possono essere essenzialmente due: 1. mediante più contratti, uno per ciascun assicuratore, ad ognuno dei quali corrisponde il rilascio di una specifica polizza. È il caso della cd. “coassicurazione indiretta” di cui all’art. 1910 c.c. ove è lo stesso assicurato che contratta e stipula separatamente più rapporti assicurativi presso diverse imprese. 2. Attraverso un unico contratto, al quale intervengono tutti gli assicuratori interessati, con rilascio di un’unica polizza, ove la somma complessivamente assicurata viene divisa pro quota. È il caso della cd. “coassicurazione diretta” di cui all’art. 1911 c.c. ove l’attività assicurativa viene realizzata da una pluralità di compagnie, le quali sono tenute al pagamento dell’indennità assicurata soltanto in proporzione della rispettiva quota, anche se il contratto è unico. L’emissione di un’unica polizza comporta la stipula di un contratto solo formalmente unico, ma che contempla una molteplicità di vincoli obbligatori e di autonomi rapporti giuridici. In ogni caso, il rapporto coassicurativo non ha natura unitaria: anche quando viene stipulato con un unico contratto, per definizione, comprende diverse obbligazioni parziarie, facenti capo ai singoli coassicuratori. nella generalità dei casi, gli assicuratori, attraverso convenzioni interne, conferiscono mandato ad un solo coassicuratore, il quale intrattiene, in nome e per conto degli altri, il rapporto col contraente. (6) nella prassi di settore accade spesso che, con la cd. “clausola di delega”, la massa delle imprese coassicuratrici ceda, dietro compenso, ad una di esse, la gestione del contratto di coassicurazione, al fine di semplificare i rapporti tra i vari soggetti, evitando una duplicazione di attività gestorie e consentendo un risparmio di costi. All’evidenza, si tratta di un comune mandato con rappresentanza, in forza del quale il soggetto designato come delegatario diventa l’unico interlocutore dell’assicurato e, nei confronti di quest’ultimo, può agire per conto ed in nome dei deleganti, gestendo ogni fase negoziale del contratto di coassicurazione, tra cui l’esazione del premio, la ricezione delle comunicazioni dell’assicurato inerenti il contratto di coassicurazione, la gestione del sinistro. Da quanto dedotto emerge come la clausola di delega sia un elemento accidentale ed autonomo, non solo della coassicurazione, ma anche di qualsiasi altro contratto a parti plurime, nel senso che essa può essere prevista, ma ben può anche non essere prevista, senza alcun pregiudizio né dello schema né della causa del negozio e neppure del normale svolgimento del rapporto giuridico, il quale, in assenza, verrà gestito da ciascuno dei soggetti contraenti, pro quota. Si sottolinea che, in questi casi, l’assicurato rimane terzo rispetto alla clausola di delega, pattuita dai coassicuratori, beneficiari delle prestazioni delegate: non è, infatti, l’assicurato a conferire la delega. Quando l’assicurato sottoscrive la polizza contenente la clausola di delega, si limita a prendere atto del mandato conferito dalle altre coassicuratrice, non certo ad attribuire lui stesso l’incarico -che, peraltro, tenuto conto della funzione della delega, non avrebbe il potere di conferire -. Dunque, la delega ad una compagnia è giustificata dalla necessità di semplificare i rapporti fra l’assicurato e le società di assicurazione, ma non influisce sulla natura del contratto di coassicurazione (Cass. n. 12610/1997). Se è vero che, attraverso la clausola di delega, la delegataria gestisce il rapporto assicurativo, non è altrettanto vero che la clausola di delega costituisce un tutt’uno col contratto di coassicurazione. Ciò che distingue il rapporto di coassicurazione dalla clausola di delega è il consenso dell’assicurato: per stipulare un contratto di coassicurazione è necessario, difatti, che l’assicurato, in qualità di parte contrattuale, esprima il proprio assenso alla suddivisione del rischio tra più imprese. La clausola di delega, invece, non necessita del consenso dell’assicurato. Da quanto esposto si deduce che la clausola di delega non è parte integrante del rapporto di coassicurazione. COnTenzIOSO nAzIOnALe L’istituto di cui si tratta costituisce una species del genus contratto di assicurazione e viene adottato allorché vi sia l’esigenza di coprire rischi di cui sia sconosciuta la probabilità di accadimento o per i quali il rischio sia molto elevato o che richiedano un impegno economico di copertura difficilmente sostenibile da parte di un unico assicuratore. Il fine specifico della coassicurazione è, quindi, la ripartizione e l'omogeneizzazione del rischio attraverso il preventivo accordo tra le parti e l'esclusione della sovrapposizione delle garanzie assicurative. Ciascuna società risponde, infatti, solo della sua quota, (indipendentemente dal fatto che venga sottoscritta un’unica polizza), è, pertanto, assente il vincolo solidale tra i coassicuratori: l’obbligazione ha sempre natura parziaria ex art. 1314 c.c. In ragione della complessità della gestione assicurativa dell’obbligazione all’interno della compagine delle imprese coassicuratrici, sovente gli assicuratori preferiscono regolare i rapporti tra di loro attraverso la cosiddetta “clausola di delega". In particolare affidano ad una di loro - che assume in tal caso la qualifica di delegataria - alcuni compiti di gestione del contratto, dietro la corresponsione di un compenso (7). L’esigenza cui risponde una tale rete di rapporti è pertanto di semplificazione, al fine di evitare una duplicazione di attività gestorie e consentire un risparmio di costi. Le peculiarità dei rapporti che intercorrono tra le imprese, in ragione soprattutto della presenza della clausola di delega, hanno portato la giurisprudenza e la dottrina ad interrogarsi sulla natura giuridica del contratto di coassicurazione (8). (7) L’apposita “convenzione di delega” solitamente prevede che, alla delegataria, sia riconosciuto un corrispettivo comunemente denominato «commissione di delega». Tale compenso è, normalmente, commisurato - come anche nel caso di specie (cfr. §1.2) - all’importo dell’indennizzo corrisposto all’assicurato ed alle spese sostenute dalla delegataria. Le commissioni di delega corrispondono, pertanto, alla remunerazione dovuta, alla delegataria, per la gestione del contratto di coassicurazione e sono erogate dalle altre imprese. Dunque, i servizi di gestione dei rapporti di coassicurazione procurano, alla delegataria, ricavi ulteriori e diversi rispetto a quelli derivanti dalle prestazioni assicurative svolte. Specularmente, ai suddetti ricavi della delegataria, conseguenti alla gestione del contratto di coassicurazione, corrispondono costi di gestione indiretta, a carico delle deleganti. (8) In merito si legga in dottrina POSAReLLI-RISTuCCIA-TReMATeRRA, “il riaddebito dei costi nel- l’ambito del mandato e l’iva: le problematiche del riaddebito di spese effettuato dalle compagnie di assicurazione del ramo trasporti”, in “il fisco” n. 40/2005, dove si afferma che “l’attività oggetto di delega, in particolare quella di gestione del sinistro - sia pure funzionale al rapporto assicuratore/assicurato, in quanto evita una duplicazione di attività gestorie e consente un risparmio di costi -non possa considerarsi attratta e inglobata nel rapporto principale ed assuma invece una natura autonoma. tale posizione si fonda sulle considerazioni di seguito esposte. È evidente che l’essenza della coassicurazione è quella espressa dal codice civile ovvero la mancanza di un vincolo solidale tra gli assicuratori, indipendentemente dal fatto che la copertura assicurativa sia realizzata con un’unica polizza. sostenere che la coassicurazione comporti necessariamente il mandato alla gestione unitaria del contratto nei confronti della delegataria, in assenza del quale altrimenti la stessa coassicurazione (che, ricordiamo, significa assenza di vincolo solidale) non potrebbe realizzarsi sarebbe, a parere degli scriventi, l’esasperazione di un’interpretazione che non trova riscontro normativo”. RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 Il dato dirimente ai fini dell’inquadramento sistematico dell’istituto di cui si discute sembra, pertanto, ruotare intorno al concetto di “diritto di liquidazione” o “costo di delega”, che a sua volta poggia sul concetto di «operazioni di assicurazione» e sull’ampiezza che si ritiene di dover attribuire a detta nozione. La questione della portata applicativa di una operazione fiscalmente rilevante riveste, infatti, una particolare importanza, sotto il profilo dell'IVA, sia per individuare il luogo delle prestazioni di servizi, sia, soprattutto, per l'applicazione dell'aliquota d'imposta o, come nella fattispecie, delle disposizioni relative all'esenzione. Sul punto la Corte di Cassazione, statuisce che: «in tema di iva, il regime di esenzione previsto dal D.P.r. n. 633 del 1972, art. 10, comma 1, n. 2, per le "operazioni di assicurazione", da interpretare restrittivamente in quanto derogatorio al regime ordinario di imponibilità, si estende -in considerazione di quanto stabilito dalla Corte di giustizia, tra le altre, con le sentenze emesse nelle cause C-349/96, C-472/03 e C-40/15 -alla pluralità di prestazioni idonee ad integrare il servizio assicurativo sotto il profilo economico, per cui occorre individuare gli elementi caratteristici dell'operazione di cui trattasi per stabilire, se il soggetto passivo fornisca all'assicurato, considerato come consumatore medio, attraverso la pluralità di attività poste in essere, più prestazioni principali distinte o un'unica prestazione, sempre che il prestatore di servizi si sia impegnato esso stesso nei confronti dell'assicurato a garantire a quest'ultimo la copertura di un rischio e sia vincolato all'assicurato da un rapporto contrattuale. spetta al giudice della controversia accertare, alla luce di questi elementi d'interpretazione, se l'operazione controversa debba essere considerata ai fini dell'iva, unitariamente come "operazione di assicurazione", ovvero come costituita da prestazioni indipendenti, ovvero se ricorrano prestazioni accessorie. tale principio si applica anche quando il contratto assicurativo sia stato concluso in coassicurazione con una pluralità dei soggetti obbligati pro quota alla copertura del rischio dell'assicurato e uno dei coassicuratori sia stato delegato dagli altri alla gestione ed all'esecuzione del rapporto assicurativo» A ben vedere, pur preliminarmente sostenendo che in materia di operazioni di assicurazione esenti debba necessariamente proporsi una interpretazione restrittiva, successivamente la Suprema Corte opera un’estensione del novero di operazioni che possono essere ricondotte entro tale concetto. Ritenendo, infatti, “dirimente” ai fini della ricostruzione della fattispecie il solo profilo economico, di fatto apre la porta ad una serie di operazioni che, pur non essendo giuridicamente collegate e qualificabili come operazioni di assicurazione, tuttavia, in ragione di quel vincolo di unitarietà economica, finiscono per esservi ricomprese. Sembra che la Corte voglia dire, con una ovvietà ingannevole, che ove COnTenzIOSO nAzIOnALe l’operazione posta in essere da un prestatore di servizio, legato con l’assicurato da un contratto di assicurazione, sia in qualche modo economicamente orientata all’esecuzione di detto contratto, allora la prestazione, in qualsiasi modo è posta in essere, dovrà ascriversi nel novero delle operazioni di assicurazione, e, quindi, beneficiare della esenzione. una siffatta ricostruzione appare illogica ed infondata. Infatti, se è indubbio che tutte le prestazioni che la delegataria svolge siano effettuate nel più generale disegno del contratto di assicurazione principale, tuttavia, ciò di cui la Corte non tiene conto è il diverso titolo, la diversa fonte giuridica, in ragione della quale le attività sono poste in essere. Le prestazioni sono, infatti, svolte dalle delegatarie in esecuzione della clausola accessoria di delega contenuta nel contratto di coassicurazione e non quale obbligazione derivante dal contratto di assicurazione stipulato con l’assicurato. Tuttavia, il fatto che le operazioni poste in essere dalle compagnie in coassicurazione (inevitabilmente) siano funzionalmente ed economicamente collegate all’esecuzione del contratto di assicurazione, ciò non può elidere l’autonoma rilevanza che i rapporti tra le imprese necessariamente conservano, nonché l’autonoma qualificazione delle prestazioni che effettivamente sono poste in essere dalle imprese. L’attività svolta dalla delegataria, in forza del mandato (9) ricevuto dalle (9) La riconducibilità della delega in parola ad un contratto di mandato è confermata dall’art. 162 comma 2 del Codice delle Assicurazioni Private di cui al D.Lgs. 209/2005 che, in attuazione della Direttiva n. 78/473/Cee, si riferisce, specificamente, alla cd. “coassicurazione comunitaria” (intercorrente tra compagnie che hanno la sede legale non solo in Italia, ma anche in altri Stati membri, quando i rischi da coprire siano quelli rientranti tra i c.d. “grandi rischi”) nonché dall’art. 2 comma 1 lett. b) del provvedimento del 6 febbraio 2008 dell’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private e di interesse collettivo - ISVAP. In particolare, si tratta di un mandato con rappresentanza collettivo, conferito da più soggetti, anche in rem propriam, ossia per la realizzazione di un affare di comune interesse del mandatario o di un terzo (art. 1723 comma 2 c.c.). La delegataria, infatti, nel gestire il rapporto assicurativo, produce effetti diretti tanto sulla situazione giuridica delle coassicuratrici (mandanti) quanto su se stessa (mandataria) e sull’assicurato (soggetto terzo). nel contratto di mandato il mandatario pone in essere gli atti “per conto altrui”, nel senso che altri (e non il mandatario stesso) è il destinatario finale dei vantaggi e degli svantaggi economici dell’attività esercitata (cd. “attività gestoria”). Com’è noto, l’atto o gli atti giuridici compiuti dal mandatario, nei limiti dei poteri attribuitigli dal mandante, sono immediatamente riferibili a quest’ultimo e producono direttamente i loro effetti nei confronti del mandante medesimo. L’elemento che caratterizza il mandato con rappresentanza è poi la spendita del nome del mandante, debitamente autorizzata (cd. “contemplatio domini”). Ciò posto, dal punto di vista fiscale, l’art. 3 comma 1 D.P.R. 633/1972 statuisce che “costituiscono prestazioni di servizi le prestazioni verso corrispettivo dipendenti da contratti d’opera, appalto, trasporto, mandato, spedizione, agenzia, mediazione, deposito e in genere da obbligazioni di fare, di non fare e di permettere quale ne sia la fonte”. In base all’art. 15 comma 1 n. 3 D.P.R. 633/1972, “non concorrono a formare la base imponibile … le somme dovute a titolo di rimborso delle anticipazioni fatte in nome e per conto della controparte, purché regolarmente documentate”. In base alla normativa citata, i servizi resi verso compenso, dipendenti da rapporti di mandato con rappresentanza, sono prestazioni di servizi a titolo oneroso e, come tali, sono imponibili ai fini dell’IVA. Il mandatario è, quindi, tenuto ad emettere fattura nei confronti del mandante relativamente al corrispettivo percepito, che va assoggettato ad IVA. In conclusione, la clausola di delega, RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 coassicuratrici, non può essere confusa con l’attività che la stessa società svolge, in prima persona, come società assicuratrice. Correttamente, pertanto, è necessario distinguere, all’interno del generale rapporto assicurativo, da un lato il regime di coassicurazione fra le imprese arricchito dalla presenza di una clausola di delega -, dall’altro il rapporto intercorrente tra le imprese assicuratrici e il privato, che è regolato dal solo contratto di assicurazione (danni, nel caso di specie). Laddove, pertanto, i giudici di legittimità hanno rinvenuto un rapporto “unitario”, sussistono, invece, due rapporti autonomi e due piani giuridici (quello assicurativo e quello scaturente dalla clausola di delega) distinti per soggetti, oggetto e causa. Da un lato il piano giuridico-assicurativo, che obbliga sia l’assicurato sia ogni coassicuratrice limitatamente alla propria quota, e che ha ad oggetto l’assicurazione di un rischio. Per esso l’assicurato ha già pagato un premio assicurativo, della cui esenzione non si discute. Dall’altro il piano giuridico scaturente dalla clausola di delega, che obbliga impresa assicuratrice delegataria e imprese assicuratrici deleganti, e ha ad oggetto l’accollo da parte della delegataria di prestazioni operative dietro un corrispettivo chiamato “commissione di delega”, che non ha causa assicurativa (il corrispettivo non è pagato per l’assicurazione di un rischio) e non è esente in quanto non è assicurativo, non riguarda soggetti mediatori e non è accessorio. La Corte sembra, indubbiamente, confondere questi due piani quando, ritenendo irrilevante la natura dei rapporti intercorrenti tra le imprese, valorizza la sola unicità della funzione economica che accomuna le attività e che ricondurrebbe ad unità l’insieme delle prestazioni svolte sotto la dizione di “operazioni assicurative”. Il fatto che tra le prestazioni possano essere previste quelle da compiere nei confronti dell’assicurato, non conferisce affatto natura assicurativa o accessoria a tali prestazioni! È, pertanto, fuorviante l’enfasi posta dalla Corte sul dato secondo cui le prestazioni vengono effettuate “verso il cliente” e/o “nei confronti e nell’interesse dell’assicurato”. nel caso che qui ci occupa destinatario delle prestazioni de quibus non è l'assicurato, ma le società di assicurazione che hanno delegato alla società delegataria la gestione del rapporto assicurativo con l'assicurato. ne discende che le operazioni delegate non possono essere considerate che si distingue nettamente, dal contratto di coassicurazione, va qualificata come mandato con rappresentanza. I compensi che ne derivano non sono esenti dall’IVA, in quanto non scaturiscono, direttamente, dal rapporto di coassicurazione, ma dal distinto contratto di mandato con rappresentanza, concluso dalle altre società di assicurazione. COnTenzIOSO nAzIOnALe esenti dall’IVA per il solo fatto di essere dipendenti dal rapporto di coassicurazione (10). La clausola di delega, infatti, non rappresenta un servizio con causa assicurativa, perché nessuna società di assicurazione “riassicura l’altra”. essa interviene, invece, a regolare un rapporto contrattuale autonomo e distinto rispetto a quello di assicurazione, permanendo in una sfera separata rispetto alla gestione dei rapporti con l’assicurato. Peraltro, l'art. 135 della Direttiva del Consiglio europeo n. 112/2006, che ha sostituito l'art. 13 parte B lett. a), della VI Direttiva n. 77/388/Cee, si limita, infatti a citare fra le prestazioni relative ad operazioni assicurative che godono dell'esenzione IVA solo le prestazioni dei mediatori e degli intermediari di assicurazioni escludendo il mandato. Le “operazioni di assicurazione” esenti sono, dunque, soltanto quelle aventi ad oggetto le prestazioni tipiche ed essenziali del contratto di assicurazione, vale a dire la prestazione della copertura indennitaria verso il pagamento di un premio. Conseguentemente, i costi di delega o diritti di liquidazio ne, inerente alle prestazioni di servizi in questione ed ultronee rispetto alle operazioni propriamente assicurative, devono più propriamente essere inquadrati come compensi corrisposti alla compagnia (co)assicuratrice delegataria per l’attività ad essa demandata, e sono quindi imponibili IVA, in quanto le prestazioni rese non rientrano tra quelle di cui all’art. 10, 1° co., n. 2) del DPR 633/1972 (11). Diversamente ragionando, a ben vedere, si opererebbe una illegittima esenzione. Infatti, mentre per i costi di servizio dell’operazione propriamente di assicurazione, il regime di esenzione IVA si giustifica in ragione dell’autonoma assoggettabilità alla specifica imposta prevista dalla legge n. 1216/1961; nel caso di specie, trattandosi di costi derivanti da prestazioni di servizi - autonomamente rilevanti nei rapporti interni tra le imprese -, una siffatta esenzione non troverebbe alcuna giustificazione e sarebbe, invero, illegittima. La legge de qua, infatti, non annovera il compenso in esame nella base imponibile, con la conseguenza che vi sarebbe una esenzione totale del compenso. Le norme di esenzione, del resto, come ribadito dalla stessa Suprema Corte nella sentenza in commento, sono di interpretazione stretta. Pertanto, allorché l’art. 10 c. 1 n. 2 cit. esenta “le operazioni di assicura (10) L’attività di gestione e liquidazione dei sinistri ben potrebbe essere eseguita anche da un soggetto privo della qualifica di assicuratore (ad esempio, dai cd. “centri di liquidazione danni”). In questo caso, non vi sarebbero dubbi nell’assoggettare ad IVA le operazioni in parola. non si comprende, allora, il motivo, in base al quale non si dovrebbe pervenire alla stessa soluzione nel caso in esame, ove i medesimi servizi sono resi da una compagnia di assicurazione. (11) In tal senso cfr. PROCOPIO, in “rapporti tra coassicuratori ed imposta sul valore aggiunto”, in rassegna tributaria n. 3/2004 e, recentemente, VATTOVAnI, in “Coassicurazioni: imponibilità i.v.a. versus esenzione dal tributo delle commissioni di delega” pubblicato su www.diritto.it. RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 zione”, in questa definizione si debbono includere soltanto le prestazioni tipiche del contratto di assicurazione, e non anche - come invece, vorrebbe la Suprema Corte -tutte quelle prestazioni che presentino un mero collegamento economico o strumentale con l’obbligazione principale. 4. Considerazioni conclusive. In conclusione può affermarsi che la delegataria non compie alcuna prestazione ascrivibile alla definizione di «operazione di assicurazione» nei termini delineati dalla menzionata giurisprudenza comunitaria, in quanto fornisce servizi a beneficio delle altre coassicuratrici (servizi che possono consistere anche nell’accollo di operazioni da compiere nei confronti dell’assicurato), senza assumere alcun ulteriore rischio assicurativo nei confronti dell’assicurato. Le attività effettuate dalla delegataria sono, pertanto, prestazioni distinte dalle operazioni assicurative vere e proprie, come disciplinate agli artt. 1882 ss. c.c. Inoltre, dal momento che le parti della convenzione di delega sono le diverse imprese di assicurazione e non l’assicurato, i servizi delegati non possono essere qualificati quali operazioni assicurative, né quali prestazione di servizi relative a dette operazioni eseguite dai mediatori ed intermediari. In definitiva, la clausola di delega contenuta in un contratto di coassicurazione, non incidendo sulla struttura del rapporto tra assicuratori ed assicurato, non costituisce un’attività assicurativa ai sensi della normativa sia nazionale sia europea; di conseguenza, non gode del regime di esenzione previsto dall’art. 10 comma 1 n. 2 D.P.R. 633/1972. Ciò posto, a parere di scrive, non appare, quindi, condivisibile il ragionamento della Corte secondo cui « ... la regolamentazione dei rapporti interni tra coassicuratori, mediante la cd. clausola di delega, e le concrete modalità di esecuzione dei compiti delegati, con o senza la spendita del nome dei coassicuratori, non ha, infatti, incidenza sulla nozione di "operazione di assicurazione", così come definita sul piano fiscale dalla normativa comunitaria e dalla elaborazione giurisprudenziale della Cgeu, che risulta radicata su due specifici elementi: la idoneità delle diverse prestazioni o attività ad integrare il servizio assicurativo sotto il profilo economico; l'esistenza di un vincolo contrattuale tra il prestatore del servizio e l'assicurato, che ricorre nel rapporto con il coassicuratore». In tal modo, infatti, i giudici di legittimità, pur statuendo che l’interpretazione del concetto di operazioni di assicurazione deve essere restrittiva, di fatto comportano un indebito ed indiretto ampliamento nei confronti di tutte le prestazioni a qualsiasi titolo poste in essere che abbiano quel collegamento economico con il contratto assicurativo principale. Inoltre, così stabilendo, si opera una indebita confusione tra i servizi che la delegataria rende all'assicurato in virtù del contratto di coassicurazione e le prestazioni rese dalla delegataria alle deleganti che, configurandosi quali ope COnTenzIOSO nAzIOnALe razioni di mandato imponibili ai sensi dell'art. 3 del DPR 633/1972, esulano dall'ambito assicurativo. Pertanto e in conclusione, è imprescindibile la valutazione in ordine alla natura del rapporto interno che lega le coassicuratrici per mezzo della clausola di delega, nonché la sua incidenza sulla qualificazione come operazione di assicurazione oppure come prestazione di servizi delle attività di volta in volta poste in essere dalla delegataria. Il quadro sul punto appare ancora avvolto nella nebbia generata dalla commistione di più istituti e dalla sempre più massiccia spinta all’elusione fiscale. non essendovi chiarezza né a livello nazionale né a livello eurocomunitario, il contenzioso in materia appare fitto e seriale. Si auspica, alla luce delle considerazioni svolte, che la individuazione di una soluzione chiara e univoca in materia passi preliminarmente attraverso il superamento della confusione tra i piani giuridici che caratterizzano il rapporto di coassicurazione da un lato e il rapporto scaturente dalla clausola di delega, dall’altro, così da rispettare quell’interpretazione restrittiva delle norme di esenzione dall’ IVA in conformità con la giurisprudenza comunitaria. Cassazione civile, sez. V, sentenza 4 novembre 2016 n. 22429 -Pres. F. Tirelli, rel. L. Tricomi, P.m. F. Sorrentino (conforme) - Agenzia delle entrate (Avv. gen. Stato) c. uMS Immobiliare Genova S.p.A. (avv.ti R. Allegrucci, C. Carano, G. escalar). RITenuTO In FATTO 1. Con la sentenza n. 11/01/2010, depositata il 22.02.2010 e non notificata, la CTR della Liguria, confermava la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso proposto dalla società uMS Immobiliare Genova SPA (di seguito uMS), operante nel settore assicurativo del ramo danni, in parte gestiti in coassicurazione attraverso il frazionamento del rischio tra più imprese assicuratrici (art. 1191 c.c. ), avverso l'avviso di accertamento n. R4C060101643 per IVA relativa all'anno di imposta 2003. 2. L'accertamento aveva riguardato proprio i rapporti in coassicurazione. La società contribuente, coassicuratrice, con la cd. "clausola di delega" era stata autorizzata a effettuare attività nell'interesse comune delle altre società coassicuratrici, attività consistenti, tra l'altro, nella stipula del contratto, nella riscossione del premio e nella determinazione ed eventuale liquidazione del danno, in ragione delle quali venivano riaddebitati pro quota alle altre coassicuratrici, sia i costi sostenuti dalla delegataria, relativi alle attività propedeutiche al rapporto di assicurazione, sia quelli per la gestione interna del contratto, in dipendenza del mandato ricevuto. nel caso di specie la società contribuente aveva sostenuto spese esterne (spese per professionisti, periti, legali, liquidatori, etc.), spese interne (costi del personale, ammortamenti, spese telefoniche, postali, cancelleria, etc.) e la quota parte dell'indennizzo spettante all'assicurato ed aveva riaddebitato pro quota alle coassicuratrici le spese esterne e le spese interne. L'ufficio aveva contestato la mancata applicazione dell'IVA sugli addebiti, sia delle "spese esterne", sia delle "spese interne", affermando che questi costi - quantificati nei cd. "diritti di RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 liquidazione" -venivano conseguiti dalla delegataria a titolo di compenso per la autonoma attività svolta nell'interesse delle altre coassicuratrici e, quindi, dovevano essere assoggettate ad IVA. Tale contestazione era fondata anche sulla considerazione che il rapporto tra le assicuratrici era costituito da un "mandato senza rappresentanza". Con il conseguente avviso di accertamento erano stati, pertanto, accertati maggiori ricavi ed una maggiore IVA sulla scorta delle seguenti contestazioni: omessa fatturazione di corrispettivi relativi a "spese esterne" per euro 3.200.177,29; omessa fatturazione di corrispettivi relativi a "diritti di liquidazione" per euro 521.851,03. 3. nel respingere l'appello, la CTR affermava che, contrariamente a quanto sostenuto dall'ufficio, il rapporto tra l'impresa delegataria e l'impresa coassicuratrice si configurava come un "mandato con rappresentanza", sia per effetto dell'indicazione del nome delle altre imprese coassicuratrici nel contratto di coassicurazione, che prevedeva la ripartizione del rischio e teneva luogo della spendita del nome, sia perchè l'attività svolta dalla delegataria per conto altrui si configurava come rappresentanza diretta; evidenziava quindi che i corrispettivi percepiti per le prestazioni rese in qualità di delegataria non dovevano essere assoggettate ad IVA, in quanto esenti ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, comma 1, n. 2), relativo al complesso delle operazioni di assicurazione, ed osservava che una differente opzione avrebbe comportato una illegittima doppia imposizione; sosteneva che si ravvisava nelle attività svolte un unicum con il contratto di assicurazione, quali prestazioni accessorie dello stesso, agendo la delegataria in virtù di un mandato con rappresentanza, e non già come una prestazione resa da mandatario senza rappresentanza e rientrante - secondo la prospettazione dell'ufficio - nel campo di applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 3, comma 3, ultima parte. 4. La Agenzia delle entrate ricorre su due motivi, ai quali replica la contribuente con contro- ricorso, corredato da memoria ex art. 378 c.p.c. MOTIVI DeLLA DeCISIOne 1.1. È necessario premettere che i fatti di causa, come riconosciuto dalle parti, sono pacifici. Le posizioni divergono in diritto. 1.2. I fatti. La società assicuratrice uMS ha sostenuto spese "esterne" per l'acquisizione di consulenze tecniche, assistenza legale ed altri servizi professionali connessi alla liquidazione dei sinistri dalla stessa assicurati in regime di coassicurazione con altre compagnie; le prestazioni sono state fatturate dai professionisti incaricati, con addebito dell'IVA, al nome della sola uMS, che ha ribaltato i costi sulle altre compagnie assicuratrici in proporzione alla percentuale del rischio complessivo da ciascuna di esse assunta a proprio carico. La uMS inoltre ha utilizzato le proprie strutture interne di personale e mezzi per gestire le polizze in coassicurazione ed i relativi sinistri: in particolare per acquisire l'assicurato, per riscuotere premi, per corrispondere l'indennizzo (v. ricorso fol. 31), e ciò ha fatto sostenendo spese non solo nel proprio interesse, ma anche delle coassicuratrici, sempre basandosi sulla clausola di delega del contratto di coassicurazione. L'adibizione delle proprie strutture alla gestione del contratto nell'interesse anche delle coassicuratrici, è stato addebitato dalla uMS a queste, in occasione della liquidazione di ciascun sinistro, nella forma dei cd. diritti di liquidazione, vale a dire degli importi calcolati in percentuale dell'indennizzo complessivo, conformemente ad apposite tabelle pubblicate dall'associazione di categoria AnIA. 1.3. Le posizioni delle parti sul piano del diritto. Secondo l'ufficio le prestazioni di esecuzione della clausola di delega, tanto "esterne", quanto COnTenzIOSO nAzIOnALe "interne", sono da considerare come prestazioni di un mandatario senza rappresentanza, che ha agito in nome proprio, ma per conto anche delle altre coassicuratrici nel gestire il contratto e la liquidazione dei sinistri; ne consegue che il compenso corrisposto dalle coassicuratrici per queste prestazioni (cd. riaddebito) va assoggettato ad IVA, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 3, comma 3. Secondo la società queste prestazioni si inseriscono a pieno titolo nell'esecuzione del contratto principale di assicurazione, dal quale non sono oggettivamente scindibili, ed i relativi compensi rientrano nell'esenzione delle operazioni di assicurazione prevista dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, comma 1, n. 2. 2.1. Con il primo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 1911 c.c. e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 3, commi 1 e 3, art. 10, comma 1, n. 2, art. 12, art. 15, comma 1, n. 3, art. 19, comma 5, art. 36 bis (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3). 2.2. La doglianza è rivolta avverso i seguenti quattro punti della sentenza impugnata, sostanzialmente trattati dalla ricorrente come autonome rationes decidendi: a) la società contribuente ha agito, in virtù della clausola di delega, in regime di mandato con rappresentanza; b) le prestazioni rese dalla delegata rientrano nel novero delle "operazioni di assicurazione" esentate D.P.R. n. 633 del 1972 , ex art. 10, comma 1, n. 2; c) il ribaltamento dei costi sulle deleganti pro quota, qualora venisse assoggettato ad IVA, comporterebbe una illegittima doppia imposizione; d) le operazioni svolte in qualità di delegata sono accessorie D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 12 rispetto alle operazioni principali di assicurazione e, quindi, anch'esse esenti. 2.3.1. Quanto alla affermazione contenuta in sentenza secondo la quale la coassicuratrice che agisce in virtù della clausola di delega, opera sempre in regime di mandato con rappresentanza delle imprese delegatarie (a), la Agenzia ritiene che consegua ad una falsa applicazione dell'art. 1191 c.c. e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 15, comma 1, n. 3. La Agenzia sostiene che la clausola di delega comporta la rappresentanza in nome e per conto degli altri assicuratori solo nei confronti dell'assicurato e che la CTR ha applicato falsamente le norme laddove ha ritenuto che l'inserimento della clausola di delega comportasse necessariamente che l'impresa delegata avesse operato come mandatario con rappresentanza in tutte le distinte relazioni negoziali che si radunano sotto il nome della coassicurazione e, quindi, non solo nelle relazioni con l'assicurato, ma anche nelle varie attività strumentali alla determinazione dell'indennizzo, come quelle volte ad ottenere da terzi professionisti servizi di tipo tecnico o per le prestazioni che avevano dato luogo alle spese interne compensate con i "diritti di liquidazione". 2.3.2. Di seguito la Agenzia denuncia la violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, comma 1, n. 2, nella parte in cui esenta da IVA "le operazioni di assicurazione", sostenendo che la CTR ha errato nel ritenere che vi sarebbe unicità tra le attività negoziali e materiali generatrici delle spese, tanto interne che esterne, e l'oggetto tipico del contratto di assicurazione (b), da individuare, invece nel solo servizio di copertura del rischio fornito dall'impresa all'assicurato. A parere della ricorrente, trattandosi di norma di stretta interpretazione, nella nozione di "operazioni di assicurazione" si debbono includere soltanto le prestazioni tipiche del contratto di assicurazione, vale a direi il servizio di copertura dei rischi fornito all'assicurato, mentre le prestazioni in questione vanno considerate estranee a quest'ambito ben circoscritto, attenendo a prestazioni tecniche ed amministrative collaterali alla liquidazione dell'indennizzo. 2.3.3. Quanto al rischio di incorrere in una doppia imposizione (c), in ragione della possibile difficoltà a portare in detrazione l'IVA, l'Agenzia fa osservare che tale eventualità sarebbe da ascrivere ad una scelta operativa della contribuente e che le difficoltà ad operare la detrazione RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 non possono assurgere a causa di non imponibilità, in violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 36 bis e art. 19, comma 5. 2.3.4. In merito al quarto punto (d) la Agenzia sostiene che le operazioni come quelle in esame non possono essere considerate accessorie alle operazioni di assicurazione, poichè -a suo dire -"le prestazioni in questione, tanto "esterne" quanto "interne" non costituivano un mezzo perseguito dall'assicurato per fruire nelle migliori condizioni del servizio principale offerto dal prestatore (...) al contrario rilevavano esclusivamente nei rapporti tra l'assicuratore delegato e gli altri coassicuratori, mentre erano del tutto indifferenti, e forse anche ignorate, dall'assicurato" (fol. 43 del ricorso). L'Agenzia prospetta la autonomia del rapporto di prestazione di servizi in esame e la imponibilità dello stesso ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 3, commi 1 e 3. 3.1. Con il secondo motivo si denuncia la omessa o insufficiente motivazione su punti di fatto decisivi per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) per la parte in cui la sentenza ha stabilito che le prestazioni rese dalla uMS costituivano un unicum rispetto alle prestazioni principali di assicurazione, senza considerare come invece rimarcato dall'ufficio -che la spendita del nome delle coassicuratrici avveniva solo nei confronti degli assicurati, ai fini della stipula del contratto, mentre non risultava alcuna spendita del nome delle coassicuratrici nei confronti dei terzi incaricati delle prestazioni esterne, nè nella fatturazione delle loro prestazioni fatta a nome della sola uMS. 4.1. Le principali norme richiamate sono le seguenti: L'art. 1911 c.c. detta "Qualora la medesima assicurazione o l'assicurazione di rischi relativi alle stesse cose sia ripartita tra più assicuratori per quote determinate, ciascun assicuratore è tenuto al pagamento dell'indennità assicurata soltanto in proporzione della rispettiva quota, anche se unico è il contratto sottoscritto da tutti gli assicuratori". Il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 3, commi 1 e 3, stabilisce "1. Costituiscono prestazioni di servizi le prestazioni verso corrispettivo dipendenti da contratti d'opera, appalto, trasporto, mandato, spedizione, agenzia, mediazione, deposito e in genere da obbligazioni di fare, di non fare e di permettere quale ne sia la fonte. (...) 3. (...) le prestazioni di servizi rese o ricevute dai mandatari senza rappresentanza sono considerate prestazioni di servizi anche nei rapporti tra il mandante e il mandatario". Il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, comma 1, n. 2, stabilisce "sono esenti dall'imposta: (...) 2) le operazioni di assicurazione, di riassicurazione e di vitalizio; (...) 9) le prestazioni di mandato, mediazione e intermediazione relative alle operazioni di cui ai numeri da 1) a 7), nonchè quelle relative all'oro e alle valute estere, compresi i depositi anche in conto corrente, effettuate in relazione ad operazioni poste in essere dalla banca d'italia e dall'ufficio italiano dei cambi, ai sensi dell'articolo 4, quinto comma, del presente decreto". Il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 12 prevede "il trasporto, la posa in opera, l'imballaggio, il confezionamento, la fornitura di recipienti o contenitori e le altre cessioni o prestazioni accessorie ad una cessione di beni o ad una prestazione di servizi, effettuati direttamente dal cedente o prestatore ovvero per suo conto e a sue spese, non sono soggetti autonomamente all'imposta nei rapporti fra le parti dell'operazione principale. 2. se la cessione o prestazione principale è soggetta all'imposta, i corrispettivi delle cessioni o prestazioni accessorie imponibili concorrono a formarne la base imponibile". Il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 15, comma 1, n. 3, prevede "Non concorrono a formare la base imponibile: (...) 3) le somme dovute a titolo di rimborso delle anticipazioni fatte in nome e per conto della controparte, purchè regolarmente documentate". Il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, comma 5, prevede "5. ai contribuenti che esercitano sia attività che danno luogo ad operazioni che conferiscono il diritto alla detrazione sia attività COnTenzIOSO nAzIOnALe che danno luogo ad operazioni esenti ai sensi dell'art. 10, il diritto alla detrazione dell'imposta spetta in misura proporzionale alla prima categoria di operazioni e il relativo ammontare è determinato applicando la percentuale di detrazione di cui all'art. 19-bis. Nel corso dell'anno la detrazione provvisoriamente operata con l'applicazione della percentuale di detrazione dell'anno precedente, salvo conguaglio alla fine dell'anno. i soggetti che iniziano l'attività operano la detrazione in base ad una percentuale di detrazione determinata presuntivamente, salvo conguaglio alla fine dell'anno". Il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 36 bis prevede "il contribuente che ne abbia data preventiva comunicazione all'ufficio è dispensato dagli obblighi di fatturazione e di registrazione relativamente alle operazioni esenti da imposta ai sensi dell'art. 10, tranne quelle indicate ai numeri 11), 18) e 19) dello stesso articolo, fermi restando l'obbligo di fatturazione e registrazione delle altre operazioni eventualmente effettuate, l'obbligo di registrazione degli acquisti e gli altri obblighi stabiliti dal presente decreto, ivi compreso l'obbligo di rilasciare la fattura quando sia richiesta dal cliente. 2. Nell'ipotesi di cui al precedente comma il contribuente non è ammesso a detrarre dall'imposta eventualmente dovuta quella relativa agli acquisti e alle importazioni e deve presentare la dichiarazione annuale, compilando l'elenco dei fornitori, ancorchè non abbia effettuato operazioni imponibili. 3. la comunicazione di avvalersi della dispensa dagli adempimenti relativi alle operazioni esenti deve essere fatta nella dichiarazione annuale relativa all'anno precedente o nella dichiarazione di inizio dell'attività ed ha effetto fino a quando non sia revocata e in ogni caso per almeno un triennio. la revoca deve essere comunicata all'ufficio nella dichiarazione annuale ed ha effetto dall'anno in corso". 4.2.1. Tanto premesso, il primo motivo va respinto perchè infondato, oltre che inammissibile nei termini di seguito precisati. 4.2.2. La doglianza è inammissibile, quanto al primo, al terzo ed al quarto profilo (v. 2.3.1., 2.3.3. e 2.3.4.), perchè non coglie nel segno ed estrapola dei passaggi della sentenza di appello che costituiscono snodi argomentativi privi di autonoma rilevanza motivazionale. 4.2.3. Invero la CTR, nel ricostruire la clausola di delega come un mandato con rappresentanza diretta, volutamente non ha valutato separatamente le singole operazioni messe in atto per l'espletamento della delega, ma si è soffermata sul complesso dell'attività svolta dalla delegataria per conto delle deleganti ed ha ritenuto, in ragione di ciò, che tutte le operazioni relative alla gestione ed all'esecuzione del rapporto assicurativo rientrassero nella nozione di "operazioni di assicurazione". 4.2.4. Ciò è evidenziato proprio dal successivo passaggio argomentativo - ove è collocata la vera ratio decidendi -: la CTR, infatti, dopo avere qualificato le prestazioni rese in qualità di delegata per la gestione e la esecuzione del rapporto assicurativo come "operazioni di assicurazione", ha affermato che i compensi percepiti per le stesse non devono essere assoggettati ad IVA in quanto esenti ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, comma 1, n. 2. 4.2.5. Tale ricostruzione trova diretta conferma nella circostanza che, contrariamente a quanto sostenuto dall'Agenzia, la sentenza impugnata non invoca a fondamento della decisione il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 15, comma 1, n. 3, ma solo il cit. art. 10, riservando alla questione del mandato con rappresentanza la funzione di argomento a sostegno, privo di autonoma rilevanza, così come ne è privo l'argomento ad adiuvandum relativo al rischio di pervenire ad una ingiusta doppia tassazione, inferente la possibile violazione del principio di neutralità fiscale, censurato con il terzo profilo (v. 2.3.3.). 4.2.6. Anche il quarto profilo della doglianza confonde con una autonoma ratio un ulteriore argomento svolto dalla CTR a conforto di quanto statuito nel passaggio motivazionale cen RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 trale, secondo il quale le prestazioni rese in qualità di delegata per la gestione e l'esecuzione del rapporto assicurativo sono "operazioni di assicurazione" e sono, perciò, esenti. 4.2.7. Invero, la CTR, lungi da ricorrere all'applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 12, che disciplina la applicazione dell'IVA alle prestazioni accessorie, come sostenuto nella censura dalla ricorrente, valorizza - questa volta sul piano civilistico ed a valenza interpretativa -il rapporto di accessorietà tra le prestazioni di cui si tratta ed il "contratto di assicurazione", ribadendo però nuovamente che tutte le prestazioni sul piano fiscale costituiscono un unicum identificato nella più ampia nozione di "operazione di assicurazione", alla stregua di un criterio interpretativo che, come meglio di seguito illustrato, appare conforme al dettato della Corte di Giustizia dell'unione europea (v. sub 4.4.1. e ss). 4.3. Dichiarata l'inammissibilità della censura svolta nei profili primo, terzo e quarto, è necessario procedere all'esame del secondo profilo, che risulta infondato. In materia sono dirimenti le pronunce della CGue culminate nelle statuizioni della recente sentenza emessa in data 17.03.2016 nella causa C-40/15 (Aspiro SA). 4.4.1. Innanzi tutto si deve ricordare che - come chiarito dalla CGue anche nella sentenza citata dalla ricorrente, emessa in data 25.02.1999, C-349/96 (Card Protection Plan Ltd) -le esenzioni previste dall'art. 13 della Sesta direttiva costituiscono nozioni autonome del diritto comunitario, che mirano ad evitare divergenze nell'applicazione da uno Stato membro all'altro del sistema dell'IVA (punto 15) e pertanto vanno ricostruite alla luce del sistema comunitario: ne discende che la disciplina civilistica ex art. 1911 c.c. in tema di coassicurazione, invocata dalla ricorrente col primo profilo di doglianza (2.2.1.), non può prevalere o condizionare la nozione comunitaria di "operazioni di assicurazione" ai fini fiscali. 4.4.2. Va altresì rammentato che, sul fronte della pluralità delle attività e delle spese esterne ed interne svolte dalla delegata, sempre la citata sentenza C-349/96 (punti 29 e ss.), indica i giusti criteri per decidere, ai fini dell'IVA, se un'operazione composta da più elementi debba essere considerata come una prestazione unica o come due o più prestazioni autonome, che devono essere valutate separatamente e, quindi, in questa seconda ipotesi, se tra le stesse ricorra un rapporto di accessorietà o meno. 4.4.3. Invero la questione relativa alla portata di un'operazione riveste una particolare importanza, sotto il profilo dell'IVA, tanto per individuare il luogo delle prestazioni di servizi, quanto per l'applicazione dell'aliquota d'imposta o, come nella fattispecie, delle disposizioni relative all'esenzione contenute nella sesta direttiva e del DPR IVA. 4.4.4. La CGue, sul punto, ha rimarcato la duplice circostanza che, da un lato, dall'art. 2, n. 1, della sesta direttiva, discende che ciascuna prestazione di servizio dev'essere considerata di regola come autonoma e indipendente e che, dall'altro, la prestazione costituita da un unico servizio sotto il profilo economico non dev'essere artificialmente divisa in più parti per non alterare la funzionalità del sistema dell'IVA, per cui occorre individuare gli elementi caratteristici dell'operazione di cui trattasi per stabilire, in concreto, se il soggetto passivo fornisca al consumatore, considerato come consumatore medio, più prestazioni principali distinte o un'unica prestazione. Sul piano interpretativo ha, quindi, sottolineato che si configura una prestazione unica, in particolare, nel caso in cui uno o più elementi confluiscono nella prestazione principale, mentre una prestazione dev'essere considerata accessoria ad una prestazione principale quando essa non costituisce per la clientela un fine a sè stante, bensì il mezzo per fruire nelle migliori condizioni del servizio principale offerto dal prestatore, di guisa che anche la fatturazione di un unico prezzo non potrebbe escludere la autonomia delle prestazioni (punto 30). COnTenzIOSO nAzIOnALe ed ha concluso che spetta al giudice della controversia accertare, alla luce di questi elementi d'interpretazione, se l'operazione controversa debba essere considerata ai fini dell'IVA, come un'unica prestazione, ovvero come costituita da prestazioni indipendenti, vale a dire una prestazione assicurativa esente da imposta e una prestazione imponibile che integra un diverso servizio sotto il profilo economico, o se una di dette due prestazioni sia la prestazione principale della quale l'altra è accessoria, di modo che a questa si applica la stessa disciplina tributaria della prestazione principale. 4.4.5. Questi principi sono stati di recente confermati dalla CGue nella sentenza emessa in data 16.04.2015 nella causa C-42/14 (Wojskowa Agencja Mieszkaniowa w Warszawie) (punti 31 e 32), anche se in campo non assicurativo, ove è ribadito, che per giurisprudenza costante della Corte, in taluni casi, più prestazioni formalmente distinte, che potrebbero essere fornite separatamente e dar così luogo, separatamente, a imposizione o a esenzione, devono essere considerate come un'unica operazione quando non sono indipendenti: "Si tratta di un'operazione unica, in particolare, quando due o più elementi o atti forniti dal soggetto passivo sono strettamente connessi a tal punto da formare, oggettivamente, una sola prestazione economica indissociabile, la cui scomposizione avrebbe carattere artificioso. Ciò accade anche nel caso in cui una o più prestazioni costituiscano una prestazione principale, mentre la o le altre prestazioni costituiscono una o più prestazioni accessorie cui si applica la stessa disciplina tributaria della prestazione principale. In particolare, una prestazione dev'essere considerata accessoria e non principale quando non costituisce per la clientela un fine a sè stante, bensì il mezzo per fruire al meglio del servizio principale offerto dal prestatore". È stato quindi rimarcato che, al fine di stabilire se le prestazioni fornite costituiscano più prestazioni indipendenti o una prestazione unica, occorre individuare gli elementi caratteristici dell'operazione di cui trattasi. 4.4.6. Orbene, la CTR nel pervenire alle sue conclusioni, ha sostanzialmente seguito i criteri interpretativi indicati dalla CGue - salvo a verificarne la sufficienza motivazionale alla luce della seconda censura - volti a considerare non solo il contenuto delle singole prestazioni, ma la loro idoneità ad integrare un unico servizio sotto il profilo economico, ed ha ricondotto nel- l'ambito delle "operazioni di assicurazione" tutte le prestazioni ed attività considerandole relative alla gestione ed all'esecuzione del rapporto assicurativo, anche se poste in essere con terzi ed in nome proprio, e le ha riconnesse all'esercizio della clausola di delega, qualificandole sul piano fiscale come un unicum. 4.5.1. La decisione impugnata risulta immune da vizi sul piano del diritto anche alla luce della più recente sentenza della CGeu, emessa in data 17.03.2016 nella causa C-40/15 (Aspiro SA), in tema di "esenzione in materia di assicurazioni, nozioni di operazioni di "assicurazione" e di "prestazioni di servizi relative a dette operazioni, effettuate dai mediatori e dagli intermediari di assicurazione" -servizi di liquidazione dei sinistri forniti in nome e per conto di un assicuratore", che ha ribadito alcuni principi già affermati, principalmente nel solco della sentenza emessa in data 03.03.2005 nella causa C-472/03 (Arthur Andersen), e che ha illustrato con maggiore dovizia gli elementi in concreto necessari a qualificare delle prestazioni come "operazioni di assicurazione" ovvero come "prestazioni accessorie di operazioni di assicurazione", elementi che appaiono di rilievo per la soluzione della controversia in esame. 4.5.2. Il caso esaminato dalla CGue, significativamente diverso da quello oggetto del presente giudizio, ha visto coinvolta la società Aspiro che, senza essere impresa assicuratrice, nè mediatore nè intermediario di assicurazione, e senza essere responsabile nei confronti degli assicurati, effettuava l'insieme dei servizi relativi alla liquidazione dei sinistri in nome e per RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 conto di un'impresa assicuratrice (sulla base di un mandato con rappresentanza) e riceveva un corrispettivo forfettario, in funzione dello specifico tipo di sinistro. La Corte unionale, chiamata a stabilire se tale attività ricadesse nell'esenzione prevista dall'art. 135, par. 1, lett. a) della direttiva Iva per le "operazioni di assicurazione e di riassicurazione, comprese le prestazioni di servizi relative a dette operazioni, effettuate dai mediatori e dagli intermediari di assicurazione" è pervenuta alla conclusione che detta norma deve essere interpretata "nel senso che servizi di liquidazione di sinistri, come quelli di cui al procedimento principale, forniti da un terzo in nome e per conto di un'impresa di assicurazione, non rientrano nell'esenzione prevista da tale disposizione". 4.5.3. La disposizione esaminata trova corrispondenza nel diritto interno al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, comma 1, n. 2, che stabilisce "Sono esenti dall'imposta: (...) 2) le operazioni di assicurazione, di riassicurazione e di vitalizio; (...) 9) le prestazioni di mandato, mediazione e intermediazione relative alle operazioni di cui ai numeri da 1) a 7), (...)". 4.5.4. nello sviluppare il suo articolato percorso logico giuridico, la CGue innanzi tutto ha riaffermato che le esenzioni dall'IVA vanno interpretate restrittivamente poichè derogano al principio generale secondo il quale l'IVA è riscossa per ogni prestazione di servizi effettuata a titolo oneroso da un soggetto passivo (v. sentenza BGz Leasing, C-224/11, eu:C:2013:15, punto 56) (punto 20, 26). 4.5.5. È passata quindi a meglio definire le nozioni di "operazioni di assicurazione" e di "prestazioni di servizi relative a dette operazioni, effettuate dai mediatori e dagli intermediari di assicurazione", che costituiscono il perimetro entro il quale trova applicazione l'esenzione, nei termini che è opportuno di seguito riepilogare, anche se nel caso in esame la questione controversa riguarda esclusivamente la riconducibilità delle attività oggetto di contestazione nelle operazioni di assicurazione: A) "Operazioni di assicurazione". -le "operazioni di assicurazione" implicano, per loro natura, che esista un rapporto contrattuale tra il prestatore del servizio di assicurazione e il soggetto i cui rischi sono coperti dall'assicurazione, ossia l'assicurato (v. sentenza Taksatorringen, C-8/01, punti 40 e 41) (punti 22/23), anche se il novero può essere esteso anche alla copertura assicurativa fornita da un soggetto passivo che non sia direttamente assicuratore, ma che, nell'ambito di un'assicurazione collettiva, procuri ai suoi clienti siffatta copertura avvalendosi delle prestazioni di un assicuratore che si assume l'onere del rischio assicurato; -la liquidazione dei sinistri benchè costituisca una componente essenziale dell'operazione di assicurazione non può configurare un'operazione di assicurazione ai sensi della direttiva IVA, nel caso in cui il prestatore di servizi non si è impegnato esso stesso nei confronti dell'assicurato a garantire a quest'ultimo la copertura di un rischio e non è in alcun modo vincolato all'assicurato da un rapporto contrattuale (punto 24/25); -l'esenzione IVA è riservata solo alle operazioni assicurative propriamente dette, senza che possa essere invocata una analogia con la disciplina in tema di servizi finanziari (punto 29, 30); -il principio di neutralità fiscale non consente di ampliare l'ambito di applicazione di un'esenzione in assenza di una disposizione non inequivoca, poichè non è una regola di diritto primario che può incidere sulla validità di un'esenzione, ma un principio di interpretazione che deve essere applicato unitamente al principio di interpretazione restrittiva delle esenzioni (v., in tal senso, sentenza Deutsche Bank, C-44/11, eu:C:2012:484, punto 45) (punto 31). B) "Prestazioni di servizi relative a dette operazioni, effettuate dai mediatori e dagli intermediari di assicurazione". COnTenzIOSO nAzIOnALe -in proposito la Corte scinde la definizione e osserva che le "prestazioni di servizi relative a operazioni di assicurazione", costituiscono una nozione sufficientemente ampia da ricomprendere diverse prestazioni che concorrono alla realizzazione di operazioni di assicurazione e, segnatamente, anche la liquidazione di sinistri, la quale costituisce una delle parti essenziali di tali operazioni. -quanto al requisito che le prestazioni in questione debbano essere "effettuate dai mediatori e dagli intermediari di assicurazione", la CGue sottolinea la necessità di esaminare in concreto il contenuto dell'attività di cui trattasi, per determinare se la stessa rientri o meno nell'ambito di applicazione dell'esenzione, a prescindere dal possesso o meno della qualifica formale di mediatore o di intermediario di assicurazione (punto 35). -le condizioni in concreto richieste sono due (punto 37): 1) "il prestatore dev'essere in rapporto con l'assicuratore e con l'assicurato (sentenza Taksatorringen, C-8/01, punto 44). Tale rapporto può essere unicamente indiretto, se il prestatore è un subappaltatore del mediatore o dell'intermediario"; 2) "la sua attività deve ricomprendere aspetti essenziali della funzione di intermediario di assicurazione, come ricercare i potenziali clienti e metterli in relazione con l'assicuratore". 4.5.6. Applicando tali principi ed indici rivelatori, la CGue giunge alla conclusione che un prestatore come l'Aspiro soddisfa la prima di tali condizioni, perchè intrattiene rapporti diretti con l'impresa di assicurazione, giacchè esercita la propria attività in nome e per conto di quest'ultima, e rapporti indiretti con l'assicurato, nell'ambito dell'esame e della gestione dei sinistri; non soddisfa invece la seconda di dette condizioni, relativa alle prestazioni effettuate dai mediatori e dagli intermediari di assicurazione o dai loro subappaltatori, poichè queste ultime devono essere connesse alla natura stessa del mestiere di mediatore o di intermediario di assicurazione, il quale consiste nella ricerca di clienti e nel mettere questi ultimi in relazione con l'assicuratore, in vista della conclusione di contratti di assicurazione (v., in particolare, le sentenze richiamate al punto 37: Taksatorringen, C-8/01, punto 45; Arthur Andersen, C472/ 03, punto 36, e J.C.M. Beheer, C-124/07, punto 18), di guisa che una siffatta attività non rientra tra le prestazioni "effettuate dai mediatori e dagli intermediari di assicurazione", ai sensi dell'art. 135, paragrafo 1, lett. a), della direttiva IVA, poichè non è in alcun modo connessa al fatto di ricercare potenziali clienti e metterli in relazione con l'assicuratore in vista della conclusione di contratti di assicurazione. 4.5.7. Tale approdo costituisce la coerente evoluzione di quanto già affermato nella sentenza emessa in data 03.03.2005 in causa C-472/03, Arthur Andersen, ove era stato escluso che le attività di back offices, consistenti "nel trattare domande di assicurazione, valutare i rischi da assicurare, valutare la necessità di un accertamento medico, decidere l'accettazione del rischio qualora un siffatto esame non si renda necessario, procedere all'emissione, alla gestione e alla cessazione delle polizze assicurative nonchè a modifiche tariffarie e contrattuali, incassare i premi, gestire i sinistri, fissare e pagare le commissioni degli intermediari di assicurazione e assicurare il seguito dei contatti con questi ultimi, trattare aspetti relativi alla riassicurazione e fornire informazioni ai contraenti come pure agli intermediari di assicurazione nonchè ad altri soggetti interessati come le autorità tributarie" (punto 33), svolte dalla società ACMC in base ad un contratto di collaborazione con la società assicuratrice uL, potessero costituire operazioni di assicurazione perchè, pur contribuendo al contenuto essenziale delle attività di una impresa di assicurazioni, non costituivano operazioni di assicurazione in quanto la ACMC non intratteneva alcun rapporto contrattuale con gli assicurati, poichè i contratti di assicurazione venivano sottoscritti a nome della uL (punti 33, 34). 4.5.8. In sintesi, quindi, alla luce della giurisprudenza comunitaria richiamata, si deve affermare RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 -sul piano oggettivo -che un'operazione è unica sul piano fiscale quando due o più elementi o atti forniti dal soggetto passivo sono strettamente connessi a tal punto da formare una sola prestazione economica indissociabile la cui scomposizione avrebbe carattere artificioso, e ciò anche quando la pluralità degli atti necessari a completare la prestazione possa coinvolgere anche soggetti estranei al rapporto contrattuale; per le "operazioni di assicurazione" è, inoltre, necessario -sul piano soggettivo -che vi sia un rapporto contrattuale tra il prestatore del servizio di assicurazione e il soggetto i cui rischi sono coperti dall'assicurazione, ossia l'assicurato. Invero, in via esemplificativa - sul piano oggettivo - come riconosciuto dalla stessa CGue, la liquidazione dei sinistri costituisce una componente essenziale dell'operazione di assicurazione, così come le attività di back office contribuiscono al contenuto essenziale delle attività di una impresa di assicurazioni, ma non possono tuttavia configurare un' "operazione di assicurazione" esente ai sensi della direttiva IVA nel caso in cui - sul piano soggettivo - il prestatore di servizi non si è impegnato esso stesso nei confronti dell'assicurato a garantire a quest'ultimo la copertura di un rischio e non è in alcun modo vincolato all'assicurato da un rapporto contrattuale (C-40/15, punto 24/25). 4.5.9. ne consegue la non decisività delle questioni introdotte in merito alla ricorrenza di prestazioni eseguite in ragione di un mandato con rappresentanza (stipula del contratto assicurativo, etc.) ovvero di prestazioni eseguite senza la spendita del nome (incarichi a terzi professionisti per la attività connesse alla liquidazione di sinistri) in quanto non si riverberano sul tema della unicità della prestazione sul piano economico e funzionale, come elaborato dalla CGue, e come sostanzialmente applicato dalla Commissione territoriale, nè sul quello del rapporto contrattuale con l'assicurato. 4.6.1. nel caso in esame si deve osservare che - come già chiarito (v. sub 4.2.6. e 4.2.7.) - la fattispecie concreta di cui si discute è stata ricondotta dalla CTR alle "operazioni di assicurazione" e, quindi, la correttezza dell'applicazione normativa dell'esenzione va vagliata alla luce dei pertinenti parametri come ricostruiti dalla CGue, che possono essere trasfusi nel seguente principio di diritto: "In tema di IVA, il regime di esenzione previsto dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, comma 1, n. 2, per le "operazioni di assicurazione", da interpretare restrittivamente in quanto derogatorio al regime ordinario di imponibilità, si estende - in considerazione di quanto stabilito dalla Corte di giustizia, tra le altre, con le sentenze emesse nelle cause C- 349/96, C- 472/03 e C-40/15 -alla pluralità di prestazioni idonee ad integrare il servizio assicurativo sotto il profilo economico, per cui occorre individuare gli elementi caratteristici dell'operazione di cui trattasi per stabilire, se il soggetto passivo fornisca all'assicurato, considerato come consumatore medio, attraverso la pluralità di attività poste in essere, più prestazioni principali distinte o un'unica prestazione, sempre che il prestatore di servizi si sia impegnato esso stesso nei confronti dell'assicurato a garantire a quest'ultimo la copertura di un rischio e sia vincolato all'assicurato da un rapporto contrattuale. Spetta al giudice della controversia accertare, alla luce di questi elementi d'interpretazione, se l'operazione controversa debba essere considerata ai fini dell'IVA, unitariamente come "operazione di assicurazione", ovvero come costituita da prestazioni indipendenti, ovvero se ricorrano prestazioni accessorie. Tale principio si applica anche quando il contratto assicurativo sia stato concluso in coassicurazione con una pluralità dei soggetti obbligati pro quota alla copertura del rischio dell'assicurato e uno dei coassicuratori sia stato delegato dagli altri alla gestione ed all'esecuzione del rapporto assicurativo. La regolamentazione dei rapporti interni tra coassicuratori, mediante la cd. clausola di delega, e le concrete modalità di esecuzione dei compiti delegati, con o senza COnTenzIOSO nAzIOnALe la spendita del nome dei coassicuratori, non ha, infatti, incidenza sulla nozione di "operazione di assicurazione", così come definita sul piano fiscale dalla normativa comunitaria e dalla elaborazione giurisprudenziale della CGeu, che risulta radicata su due specifici elementi: la idoneità delle diverse prestazioni o attività ad integrare il servizio assicurativo sotto il profilo economico; l'esistenza di un vincolo contrattuale tra il prestatore del servizio e l'assicurato, che ricorre nel rapporto con il coassicuratore". 4.6.2. La decisione impugnata, nella quale è stata valorizzata l'unicità della funzione economica che accomuna le diverse attività e la esistenza del rapporto contrattuale tra la coassicuratrice e l'assicurato, appare pertanto immune dai vizi denunciati con il primo motivo sul piano del diritto. 5.1. Il secondo motivo è fondato e va accolto per quanto di ragione, considerata anche la rilevabilità ex officio delle questioni che involgono l'applicazione del diritto ue al fine di evitare possibili contrasti fra diritto interno e diritto sovranazionale (Cass. nn. 13065/2006, 16130/2007; Cass. SSuu n. 26984/2006). 5.2. Ricorda la Corte che la motivazione omessa o insufficiente è configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l'obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento (cfr. Cass. Su n. 24148/2013). 5.3. nel caso in esame, esclusa la decisività della questione del mandato con o senza rappresentanza per le ragioni già illustrate (v. sub 4.5.8 - 4.5.9.), la doglianza appare fondata, alla luce delle sentenze della CGue in campo assicurativo prima esaminate, per la parte in cui la CTR ha mancato di illustrare con adeguata puntualità e completezza gli elementi di fatto ed il percorso logico/giuridico seguito per ricondurre tutte le attività in discussione ad unitarietà economica e per valutare la idoneità delle stesse ad integrare delle componenti essenziali del- l'operazione di assicurazione, attesa la estrema sinteticità della motivazione che avrebbe meglio dovuto illustrare tali elementi, posto che l'esistenza del rapporto contrattuale tra coassicuratrice ed assicurato è indiscussa. 5.4. Il secondo motivo va accolto in questi termini e la causa, non potendo essere decisa nel merito, va rinviata alla CTR della Liguria, in altra composizione, che, dovrà provvedere ad una compiuta motivazione tenendo conto degli elementi di fatto e di diritto forniti in giudizio dall'Agenzia delle entrate a sostegno della supposta non essenzialità delle differenti attività, e dalla società contribuente a sostegno della unicità economica dell'operazione di assicurazione, attenendosi al principio di diritto esposto sub 4.6.1. 6.1. In conclusione il ricorso va accolto sul secondo motivo nei termini di cui sopra, infondato il primo; la sentenza impugnata va cassata e la causa va rinviata alla CTR della Liguria in altra composizione per l'applicazione del principio di diritto illustrato nell'esame degli elementi sottoposti alla sua valutazione dalle parti, oltre che per la statuizione sulle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte Suprema di cassazione: - accoglie il ricorso sul secondo motivo, infondato il primo; -cassa l'impugnata sentenza e rinvia alla CTR della Liguria in altra composizione per il riesame alla luce dei principi espressi e la statuizione anche sulle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 12 settembre 2016. RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 ancora sull’associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico brevi CoNsiDerazioNi a CassazioNe PeNale, sez. v, seNteNza 14 Novembre 2016 N. 48001 Federico Casu* una recente sentenza della V Sezione penale della Corte di Cassazione (1) è tornata sull’analisi dell’art. 270 bis c.p. (2) e lo ha fatto in relazione ad una vicenda che ha visto condannati in appello dei soggetti accusati di condividere “..un comune programma criminoso, avente ad oggetto l’avviamento di correligionari islamici verso una radicalizzazione tendente a renderli dei combattenti disponibili al martirio, inteso come esaltazione e ricerca della morte insieme al maggior numero possibile di infedeli..” (3). Dalle conversazioni intercettate, la Corte territoriale aveva ricavato il riferimento ad un “gruppo”, l’utilizzo di una moschea come luogo di indottrinamento e le condotte riscontrate all’interno di un call center, gestito da uno degli imputati, e consistenti nell’utilizzo dei computer ivi installati per la connessione a siti riconducibili all’area jihadista e lo scaricamento “..di filmati su attentati e scene di guerra e documenti illustrativi della preparazione di armi ed esplosivi e delle modalità per raggiungere luoghi di combattimento e trasmettere in rete messaggi criptati..” (4). La pronuncia è interessante perché prosegue nel lavoro della giurisprudenza teso a delineare i confini applicativi dell’art. 270 bis con particolare riferimento all’elemento oggettivo analizzato sotto il profilo della tassativitàoffensività della relativa fattispecie incriminatrice. Più nello specifico, per i (*) Viceprefetto Aggiunto. (1) n. 48001, ud. del 14 luglio 2016, dep. il 14 novembre 2916. La pronuncia è reperibile sul sito della Corte di Cassazione: www.cortedicassazione.it. (2) Che com’è noto disciplina il reato di “associazione con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico”. Senza pretesa di esaustività cfr. ALBAneSe D., Partecipazione all’associazione con finalità di terrorismo islamico: una pronuncia di condanna della Corte d’assise di milano. Corte d’Assise di Milano, sent. 25 maggio 2016 (dep. 28 luglio 2016), Pres. Ilio Mannucci Pacini, Giud. est. Ilaria Simi de Burgis, in Rivista on line Diritto Penale Contemporaneo; BeRTOLeSI R., il “Caso Fathima” e le condotte di supporto ad un’organizzazione terroristica. nota a GuP Milano, 23 febbraio 2016, n. 598, in Rivista on line Diritto Penale Contemporaneo; FALCIneLLI D., PenALe - terrorismo (profili sostanziali), in Digesto disc. pen. Aggiornamento (***), t. II, uTeT, Torino, 2005, p. 1604 ss.; ROSI e., PenALe - terrorismo internazionale, in Digesto disc. pen., Terza appendice, Tomo II, uTeT, Torino, 2005, pp. 1628 ss. Più in generale si veda, altresì, CReSPI A., FORTI G., zuCCALà G., Commentario breve al Codice Penale, breviaria iuris fondati da CIAn G. - TRABuCChI A., Cedam, Padova, 2012, pp. 1194-1200; PeLISSeRO M. (a cura di), reati contro la personalità dello stato e contro l’ordine pubblico, trattato teorico/pratico di diritto penale diretto da FRAnCeSCO PALAzzO e Carlo Paliero, Giappichelli, Torino, 2010, pp. 159-212. (3) Cass. pen., Sez. V, sent. 14 novembre 2016 n. 48001. (4) Cass. pen., Sez. V, sent. 14 novembre 2016 n. 48001. COnTenzIOSO nAzIOnALe giudici di Piazza Cavour, detto articolo configura un reato di pericolo presunto che fa perno su due elementi necessari, ovvero sull’individuazione di atti terroristici e sulla capacità della struttura associativa di dare agli stessi effettiva realizzazione. Di qui il problema se l’attività di mero indottrinamento “..finalizzata ad indurre nei destinatari una generica disponibilità ad unirsi ai combattenti per la causa islamica e ad immolarsi per la stessa…” (5) dia o meno la necessaria consistenza ai suddetti elementi, ovvero alla capacità, da configurarsi in termini di concreta possibilità, dell’associazione di compiere atti di violenza terroristica; dunque di costituire un concreto pericolo “..di un grave danno per uno stato nei termini di un reale impatto intimidatorio sulla popolazione dello stesso, tale da ripercuotersi sulle condizioni di vita e sulla sicurezza dell’intera collettività…, ovvero di un determinante esito costrittivo o destabilizzante nei confronti dei pubblici poteri…” (6). ebbene, la risposta dei giudici è negativa (7) e si fonda proprio sulla motivazione che l’attività di proselitismo e di indottrinamento è “..una precondizione, quale base ideologica, per la costituzione di un’associazione effettivamente funzionale al compimento di atti terroristici, ma che non integra gli estremi perché tale risultato possa dirsi conseguito; al più realizzando presupposti di pericolosità dei soggetti interessati valutabili ai fini dell’applicazione di misure di prevenzione…” (8). Se in quest’ultime righe sembra riecheggiare quella giurisprudenza, senz’altro garantista, che, nel tentativo di operare un recupero di una reale offensività dei reti di istigazione o di apologia, ha valorizzato il diritto costituzionale alla libera manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.) (9), la pronuncia, tuttavia, si mostra ancorata ad un percorso argomentativo che potrebbe non essere più adeguato alle nuove sfide che l’organizzazione terroristica denominata Daesh o IS (10) ha imposto al mondo intero. un’organizzazione, per struttura e metodologia operativa, diversa da al Qaeda e, ancor più, da sodalizi nostrani che invece i giudici della V Sezione richiamano indirettamente attraverso la citazione di quella giurisprudenza di legittimità che sull’art. 270 bis e, più in generale, sui reati di terrorismo, si è andata delineando proprio sulla formazione di Osama bin Laden (11) o su vi (5) Cass. pen., Sez. V, sent. 14 novembre 2016 n. 48001. (6) Cass. pen., Sez. V, sent. 14 novembre 2016 n. 48001. (7) Tant’è che, limitatamente all’art. 270 bis, si opta per l’annullamento senza rinvio della sentenza d’appello per insussistenza del fatto. (8) Cass. pen., Sez. V, sent. 14 novembre 2016 n. 48001. (9) Si pensi, ad esempio, a Corte cost., n. 108/1974 o a Cassazione penale, Sez. I, 3 luglio 2001. (10) Acronimo dell’autoproclamatosi Stato Islamico. (11) È il caso della sentenza VI, n. 46308/2012 (citata dalla pronuncia in commento) o della sentenza II, n. 669/2005 (citata dalla pronuncia in commento). RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 cende tutte italiane quali i movimenti di protesta violenta contro il progetto dell’alta velocità ferroviaria (TAV) (12). Detto in altro modo, la sentenza ha avallato una ricostruzione dell’articolo in questione che si è andata evolvendosi, quasi per un processo di stratificazione, con riferimento a realtà associative diverse l’una dall’altra e che ha prodotto il risultato, per certi versi paradossale, di irrigidire eccessivamente i suoi presupposti applicativi. Ora, e senza entrare nei dettagli di un’analisi storico-giuridica relativa alle dinamiche terroristiche nazionali e internazionali, che condurrebbe lontano rispetto al limitato campo d’indagine di questo scritto, può essere, comunque, interessante evidenziare come Daesh, rispetto ad al Qaeda, abbia particolarmente sfruttato i canali che oggi la tecnologia mediatica mette a disposizione per -usando la terminologia della pronuncia in commento -condurre opera di proselitismo e di indottrinamento e ciò non già solo, come nel passato, per creare una base di consenso e sostegno anche finanziario o per arruolare nelle proprie fila mujaheddin disposti alla jihad (13), ma per spingere chiunque voglia aderire alla causa, in qualunque parte del mondo esso si trovi e di qualunque cittadinanza egli sia, ad auto-radicalizzarsi e a divenire un c.d. “lupo solitario”. un’opera che va oltre la pubblica istigazione e apologia (14), essendo connaturata alla mission associativa di Daesh e delle cellule sue affiliate; un’opera che è uno strumento privilegiato per creare proprio quella concreta possibilità di un danno grave, per giunta non prevedibile, a quei beni giuridici che l’art. 270 bis è volto a tutelare. e che il proselitismo e l’indottrinamento non siano, come invece sostiene la Cassazione, una “..precondizione, quale base ideologica, per la costituzione di un’associazione effettivamente funzionale al compimento di atti terroristici..”, ma viceversa una precisa condizione attraverso cui Daesh opera per favorire concreti atti di violenza con finalità di terrorismo, lo dimostrano i numerosi appelli ai lupi solitari rilanciati anche di recente dagli organi di informazione e facilmente rinvenibili attraverso qualsiasi motore di ricerca; appelli che un call center o una predicazione perseguita in forme violente contribuiscono a rendere più insidiosi e che chiunque, come è già accaduto, può raccogliere e mettere in pratica (15). Davvero, dunque, ricondurre il proselitismo e l’indottrinamento all’art. 270 bis rischierebbe di posizionare tale fattispecie oltre il crinale della legittimità costituzionale per violazione, quanto meno, degli artt. 25 e 21 della Costituzione? ed (12) Il riferimento è alle sentenze I, n. 47479/2015 (citata dalla sentenza in commento) e VI, n. 28009/2014 (citata sempre dalla sentenza in commento). (13) Per usare un frasario caro ai terroristi cui gli stessi ricorrono impropriamente, se si pensa che la parola jihad può avere connotazioni non violente e limitate al solo ambito religioso. (14) Cfr. art. 303 c.p. (15) Si pensi all’aggressione operata, a luglio del 2016, da un ragazzo di origine afgana ai danni dei passeggeri di un treno locale diretto a Wurzburg, nella Germania del sud. COnTenzIOSO nAzIOnALe ancora, saremmo nel campo dell’interpretazione estensiva o di quella analogica? In attesa di eventuali nuovi sviluppi giurisprudenziali e/o normativi sul- l’argomento, restano gli utilissimi strumenti preventivi, cui la sentenza in commento fa peraltro cenno, e che di fatto valorizzano tutta quell’attività info-investigativa che, quand’anche non abbia la forza di sostenere un valido impianto accusatorio, è tuttavia in grado di giustificare, ad esempio, un decreto di espulsione del Ministro dell’interno per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato (16) o, tutt’al più, del prefetto (17). e in tale contesto si conferma essenziale la collaborazione tra la magistratura inquirente e i prefetti ed il ruolo svolto dalle Forze di polizia che sono un vero e proprio collante che tiene unita la sfera preventiva con quella repressiva poste a presidio della pubblica sicurezza. Cassazione penale, sezione V, sentenza 14 novembre 2016 n. 48001 -Pres. G. Lapalorcia, rel. C. zaza, P.m. S. Tocci (difforme) -Ricorsi proposti da h.h.B.h., ha.Mo., I.n., C.h., (avv. V. Plati) avverso la sentenza del 27 ottobre 2015 della Corte d'Assise d'Appello di Bari. RITenuTO In FATTO Con la sentenza impugnata, in parziale riforma della sentenza del Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Bari del 24 settembre 2014, veniva confermata l'affermazione di responsabilità di h.B.h.h., M.h., n.I. e h.C. per il reato di cui all'art. 270-bis c.p., commesso dall' h. dirigendo ed organizzando e dagli altri partecipando ad un'associazione di matrice islamica, operante dal 2008 in Andria e altrove, e finalizzata al compimento di atti di terrorismo in Italia e all'estero, e dell' h. inoltre per il reato di cui alla L. 13 ottobre 1975, n. 654, art. 3, lett. B, commesso fino al marzo del 2009 istigando all'odio ed alla violenza nei confronti del popolo ebraico. La sentenza di primo grado era riformata con la rideterminazione della pena nei confronti del C. Gli imputati ricorrenti deducono violazione di legge e vizio motivazionale sull'affermazione di responsabilità per il reato di cui all'art. 270-bis c.p.; il ricorrente C. lamenta che, escludendo la rilevanza delle circostanze per le quali le intercettazioni risalivano a cinque anni prima dell'arresto, da quella data non risultavano ulteriori contatti fra gli imputati, il C. conosceva solo un tale Alì che lo tempestava di telefonate deliranti e, essendo cittadino italiano, si recava più volte nel Paese di origine nei menzionati cinque anni senza commettere alcun fatto illecito, la Corte territoriale avrebbe di fatto affermato il principio, contrario a quelli stabiliti dalla giurisprudenza, per il quale un legame associativo di matrice islamica non verrebbe mai a cessare e non necessiterebbe di concretezza ed effettività; secondo quanto dedotto dagli altri ricorrenti, la configurabilità del reato richiederebbe l'esistenza di una struttura organizzata la cui effettività renda quanto meno possibile l'attuazione del pro( 16) Art. 13, comma 1, del d.lgs 25 luglio 1998 n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione giuridica dello straniero). (17) Art. 13, comma 2, d.lgs. 286/1998. RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 getto criminoso, e una partecipazione all'associazione che non si limiti a un'adesione ideale al programma criminoso, ma si traduca nell'assunzione di un ruolo concreto nel sodalizio; la ricorrenza di questi elementi non emergerebbe dalla motivazione della sentenza impugnata, non risultando in particolare la condivisione di programmi di associazioni terroristiche riconosciute a livello internazionale, un'organizzazione con un grado di effettività tale da attuare il programma, identificato nell'avviamento alla radicalizzazione di persone destinate a divenire aspiranti combattenti, l'idoneità di tale radicalizzazione al compimento di atti terroristici e la predisposizione di mezzi idonei; neppure vi sarebbe motivazione sul contributo concreto degli imputati e sul tempo trascorso fra le conversazioni intercettate, risalenti al 2009, e l'arresto degli imputati nel 2013; non sarebbe stata valutata l'esistenza di alcuna delle condizioni previste dalla norma incriminatrice per la ravvisabilità della finalità di terrorismo, ossia l'idoneità della condotta a cagionare un grave danno ad uno Stato o ad una organizzazione internazionale, l'intimidazione delle popolazioni, la costrizione dei poteri o delle organizzazioni pubbliche a compiere determinati atti e la destabilizzazione o la distruzione di strutture politiche. COnSIDeRATO In DIRITTO I ricorsi sono fondati. I reati previsti dall'art. 270-bis c.p., lo si rammenta, si configurano nelle condotte di promozione, costituzione, organizzazione, direzione, finanziamento o partecipazione ad associazioni che si propongono il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico; finalità di terrorismo, in particolare e per quanto qui specificamente interessa, che il terzo comma dell'articolo identifica anche nelle condotte dirette contro Stati esteri ovvero istituzioni o organismi internazionali. Tenuto conto di questa disposizione estensiva, i criteri dettati dal successivo art. 270-sexies per la riconducibilità di una condotta alla finalità terroristica sono riferiti anche a Stati esteri o organizzazioni internazionali. Criteri indicati nella potenzialità della condotta, per la natura o il contesto della stessa, ad arrecare grave danno ad uno Stato o ad un'organizzazione internazionale; nella riconducibilità della condotta a taluno degli scopi indicati dalla norma in termini di intimidazione della popolazione di quello Stato, di costrizione dei poteri pubblici dello stesso o dell'organizzazione a compiere o ad astenersi dal compiere determinati atti e di distruzione o destabilizzazione delle strutture costituzionali, politiche, economiche e sociali dello Stato o dell'organizzazione; e, in alternativa alle condizioni appena indicate, nell'espressa definizione della condotta come terroristica in convenzioni o altre norme di diritto internazionali vincolanti per lo Stato italiano. I dati descritti connotano indubbiamente i delitti in esame come reati di pericolo presunto. Questa Corte Suprema ha avuto tuttavia modo di precisare che la ravvisabilità della condotta associativa, se non richiede la predisposizione di un programma di azioni terroristiche, necessita tuttavia della costituzione di una struttura organizzativa con un livello di effettività che renda possibile la realizzazione del progetto criminoso (Sez. 5, n. 2651 del 08/10/2015, dep. 2016, nasr Osama, Rv. 265924; Sez. 6, n. 46308 del 12/07/2012, Chabchoub, Rv. 253943). È determinante in tal senso il fatto che, nella previsione normativa, la rilevanza penale dell'associazione sia legata non alla generica tensione della stessa verso la finalità terroristica o eversiva, ma al proporsi il sodalizio la realizzazione di atti violenti qualificati da detta finalità. Costituiscono pertanto elementi necessari, per l'esistenza del reato, in primo luogo l'individuazione di atti terroristici posti come obiettivo dell'associazione, quanto meno COnTenzIOSO nAzIOnALe nella loro tipologia; e, in secondo luogo, la capacità della struttura associativa di dare agli atti stessi effettiva realizzazione. Tanto premesso, dalla lettura della sentenza impugnata risulta che la Corte territoriale traeva, dall'esame delle conversazioni intercettate, la conclusione del coinvolgimento degli imputati in un comune programma criminoso, avente ad oggetto l'avviamento di correligionari islamici verso una radicalizzazione tendente a renderli dei combattenti disponibili al martirio, inteso come esaltazione e ricerca della morte insieme al maggior numero possibile di infedeli. Del contenuto di tali conversazioni, dettagliatamente riportato, si evidenziavano in particolare i riferimenti ad un "gruppo"; la destinazione all'indottrinamento, nei termini appena descritti, di luoghi nella disponibilità dell'imputato h., segnatamente la moschea di Andria ove il predetto svolgeva la propria predicazione ed il call center dello stesso gestito; l'utilizzazione dei computers installati in quest'ultimo esercizio commerciale, allorchè nello stesso si trovavano i componenti del gruppo, per la connessione con siti riconducibili all'area jihadista e lo scaricamento dagli stessi di filmati su attentati e scene di guerra e documenti illustrativi della preparazione di armi ed esplosivi e delle modalità per raggiungere luoghi di combattimento e trasmettere in rete messaggi criptati; la disponibilità di documenti falsi destinati a consentire la permanenza illegale di immigrati clandestini in Italia; la manifestazione di odio verso la popolazione ebraica, l'ambiente di vita in Italia e l'attività ivi svolta dagli immigrati di fede islamica; e le cautele manifestate dall' h. nell'invio ad un conoscente milanese di documentazione di apparente natura religiosa. A questo proposito, i giudici di merito richiamavano anche le dichiarazioni del collaboratore R.J., a suo tempo militante in contesti radicali gravitanti intorno alla mosche milanese di Viale (OMISSIS), in quanto interpretative del lessico consueto a tali ambienti con riguardo sia all'uso del termine "gruppo" per denotare le cellule delle organizzazioni terroristiche islamiche, sia all'esaltazione della morte, come inevitabile conclusione di una vita terrena da ripudiarsi per tale ragione, e del martirio in quanto funzionale alla causa jihadista. Posto che tali conclusioni si fondano essenzialmente sui contenuti delle intercettazioni testualmente trascritti nella sentenza impugnata, e che la valutazione della coerenza logica di tale procedimento argomentativo non può prescindere da un confronto fra tali contenuti e i risultati esposti, risulta innanzitutto non privo di peso il rilievo proposto dal ricorrente C., ma valido anche per le altre posizioni, per il quale buona parte dei dialoghi intercettati vede non solo come interlocutore, ma come protagonista maggiormente attivo delle conversazioni un personaggio non identificato, indicato solo come Alì, il quale si distingueva per il tenore particolarmente cruento delle proprie espressioni, non sempre immediatamente comprese dagli altri soggetti dialoganti. La Corte territoriale, per il vero, si faceva carico di tale critica, osservando che, a prescindere dal ruolo svolto nella vicenda dal tale Alì, i contenuti centrali del programma criminoso, ovvero l'esaltazione del martirio per la causa islamica e l'aspirazione a raggiungere i luoghi di combattimento per conseguire tale obiettivo, emergevano negli interventi di tutti gli imputati. La fonte della prova della sussistenza del vincolo associativo ne veniva tuttavia traslata dalla diretta rappresentazione, nelle intercettazioni, di comportamenti materiali in tal senso concludenti, alla impervia metodologia indiziaria della desunzione di tale vincolo dall'esistenza di una visione ideale comune agli imputati e dalla frequentazione, da parte degli stessi, di luoghi nei quali avveniva la consultazione del materiale informativo sopra specificato. Ma, a voler ritenere che tale problematicità non integri un vizio di illogicità motivazionale rilevabile in questa sede, da tanto risulta in ogni caso confermato che la qualificazione criminosa della ritenuta associazione veniva fatta dipendere unicamente da un progetto di avviamento dei soggetti coinvolti alla ricerca del combattimento e del martirio per la RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 causa islamica; aspetto, questo, peraltro già chiaramente lumeggiato dalla precedente esposizione degli elementi considerati nella sentenza impugnata come significativi. Orbene, se tali sono le connotazioni del programma criminoso individuato dalla Corte territoriale, le stesse non corrispondono ai requisiti indicati in premessa come indispensabili per la configurabilità di una struttura associativa riconducibile alla fattispecie di cui all'art. 270-bis c.p. L'attività di indottrinamento, finalizzata ad indurre nei destinatari una generica disponibilità ad unirsi ai combattenti per la causa islamica e ad immolarsi per la stessa, non dà in primo luogo la necessaria consistenza a quegli atti di violenza terroristica o eversiva il cui compimento, per quanto detto, deve costituire specifico oggetto dell'associazione in esame. Alla vocazione al martirio è stata invero attribuita significatività ai fini della ravvisabilità del reato; ciò, tuttavia, ai limitati fini della valutazione sulla sussistenza di gravi indizi per l'adozione di misure cautelari nei confronti del singolo partecipante ad una cellula terroristica, della quale sia stata aliunde riconosciuta l'effettiva operatività (Sez. 2, n. 669 del 21/12/2004, dep. 2005, Ragoubi, Rv. 230431), e, comunque, laddove alle attività di indottrinamento e reclutamento sia affiancata quella di addestramento al martirio di adepti da inviare nei luoghi di combattimento (Sez. 6, n. 46308 del 12/07/2012, Chabchoub, Rv. 253944), che attribuisca all'esaltazione della morte, in nome della guerra santa contro gli infedeli, caratteristiche di materialità che realizzino la condizione per la quale possa dirsi che l'associazione, secondo il dettato normativo già ricordato, "si propone il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo". nè atti del genere sono ravvisabili negli ulteriori riferimenti della sentenza impugnata ai contenuti delle intercettazioni; essendo il procacciamento e la visione di filmati e documenti propagandistici attività strumentali all'indottrinamento, e non diversamente potendo concludersi in ordine alle accennate condotte di falsificazione di documenti. In secondo luogo, e comunque, non emerge dalle conversazioni riportate nella sentenza impugnata, nè è peraltro evidenziato nella stessa alcun elemento indicativo della effettiva capacità del gruppo di realizzare atti anche astrattamente definibili come terroristici secondo la previsione dell'art. 270-sexies c.p.; atti, cioè, che creino la concreta possibilità di un grave danno per uno Stato, nei termini di un reale impatto intimidatorio sulla popolazione dello stesso, tale da ripercuotersi sulle condizioni di vita e sulla sicurezza dell'intera collettività (Sez. 1, n. 47479 del 16/07/2015, Alberti, Rv. 265405), ovvero di un determinante esito costrittivo o destabilizzante nei confronti dei pubblici poteri (Sez. 6, n. 28009 del 15/05/2014, Alberto, Rv. 260076). La Corte territoriale, viceversa, non poteva che dare atto della circostanza di segno evidentemente contrario, indicata dalla difesa e riproposta nei ricorsi, costituita dal decorso del tempo dall'epoca delle intercettazioni, risalenti al 2009, senza che risultasse il compimento di alcun atto terroristico attribuibile all'associazione, anche nella forma minima, e forse neppure sufficiente, della partenza di taluno degli adepti per le zone interessate da combattimenti riferibili alla guerra santa di matrice islamica; e la spiegazione fornita in proposito dai giudici di merito era affidata a considerazioni sulla possibilità che ciò fosse dovuto ad eventi indipendenti dalla volontà degli imputati, meramente congetturali e comunque tali semmai da ulteriormente confermare l'incapacità del gruppo di raggiungere un livello organizzativo tale da affrontare le contingenti e non certo imprevedibili difficoltà di un'attività terroristica di carattere internazionale. Gli stessi elementi considerati dai giudici di merito, in altre parole, danno conto della limitazione dell'operatività del gruppo, del quale gli imputati erano ritenuti componenti, ad un'attività di proselitismo e indottrinamento, finalizzata ad inculcare una visione positiva del COnTenzIOSO nAzIOnALe combattimento per l'affermazione dell'islamismo e della morte per tale causa. Attività che può costituire senza dubbio una precondizione, quale base ideologica, per la costituzione di un'associazione effettivamente funzionale al compimento di atti terroristici, ma che non integra gli estremi perchè tale risultato possa dirsi conseguito; al più realizzando presupposti di pericolosità dei soggetti interessati valutabili ai fini dell'applicazione di misure di prevenzione. La completezza della sentenza impugnata nel riportare le risultanze acquisite esclude che un nuovo esame degli atti possa portare all'individuazione di elementi ulteriori ed al conseguimento di risultati diversi. La sentenza deve pertanto essere annullata senza rinvio limitatamente al reato associativo, ascritto a tutti gli imputati ricorrenti, perchè il fatto non sussiste, con effetto estensivo nei confronti del coimputato non ricorrente R.B.C.K.; e con rinvio per la rideterminazione della pena nei confronti dell'imputato h. in ordine al residuo reato di cui alla L. n. 654 del 1975, art. 3, comma 3, lett. B, non oggetto del ricorso. ne segue l'immediata liberazione dei predetti imputati se non detenuti per altra causa. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata relativamente al reato di cui all'art. 270-bis c.p. nei confronti degli imputati ricorrenti e, per l'effetto estensivo, nei confronti di K.R.B.C., perchè il fatto non sussiste e rinvia ad altra Sezione della Corte d'Assise d'Appello di Bari per la rideterminazione della pena nei confronti di h.h.B.h. per il residuo reato di cui alla L. n. 654 del 1975, art. 3, comma 3, lett. B. Ordina l'immediata liberazione del predetto h., di ha.Mo., di I.n. e di K.R.B.C. se non detenuti per altra causa. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 626 c.p.p. Così deciso in Roma, il 14 luglio 2016. RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 in tema di demanialità marittima (Le Valli da pesca della laguna di Venezia) CassazioNe Civile, sezioNe seCoNDa, seNteNza 21 DiCembre 2016 N. 26616 (*) La delicata questione (analoga a quella che si è posta in analoghi contenziosi) è quella della natura privata o di demanio marittimo degli specchi acquei salmastri facenti parte della laguna di Venezia denominati Valli da pesca. In allegato una delle 12 sentenze (le altre per altre Valli sono dello stesso tenore) con cui la Corte di Cassazione Sez. II civile, in esito alle discussioni all’udienza del 7 dicembre 2016, ha rigettato il ricorso delle parti private e ribadito la demanialità marittima della Valli da pesca (e quindi, in totale, di circa un sesto della Laguna di Venezia). L’Avvocatura ha evidenziato, nella discussione, l’irrilevanza ai fini del decidere dell’intervento, medio tempore, della sentenza del 23 settembre 2014 resa dalla CeDu, Sezione Seconda, che ha accolto parzialmente il ricorso della società Valle Pierimpiè. Infatti, la CeDu ha motivato la propria decisione evidenziando: 1) che la ricorrente era titolare, se non di un diritto di proprietà sulla valle da pesca (non ritenendo la Corte di sostituire una propria valutazione a quella che il giudice nazionale, in tre gradi di giudizio, ha definitivamente assunto), di un interesse sostanziale protetto dalla Convenzione (vista la nozione ampia di “bene” ai fini dell’art. 1, Protocollo n. 1), ossia un’aspettativa legittima, connessa ad interessi patrimoniali, sufficientemente importante (v. § 46); 2) che la statuizione (confermata in Cassazione) di demanialità della valle da pesca ha trovato nel diritto italiano una base legale sufficiente (§ 65); 3) che la declaratoria di demanialità ha perseguito una legittima finalità d’interesse generale (§ 67); 4) che tuttavia non è stato assicurato un giusto equilibrio tra gli interessi pubblici e l’interesse privato di parte ricorrente, gravato di un peso eccessivo ed esorbitante costituito non solo dalla privazione del godimento del bene, ma anche dalla condanna al pagamento di una considerevole somma di denaro a titolo d’indennizzo per occupazione abusiva. Per quanto concerne la richiesta di risarcimento del danno patrimoniale avanzata dalla ricorrente, la Corte si è riservata di decidere, invitando il Governo e la parte ricorrente a raggiungere entro sei mesi un accordo su una forma di riparazione equa del danno conseguito all’ingerenza dello Stato sul “bene” del ricorrente, costituito dal suo interesse a proseguire nel godimento del bene, accordo -per quanto consta alla Scrivente -in corso di perfezionamento. (*) Segnalazione e annotazione della sentenza dell’avvocato dello Stato Marinella Di Cave - inviata per email ai colleghi. COnTenzIOSO nAzIOnALe La Corte ha precisato che nel caso in esame un ristoro non integrale non renderebbe illegittimo l’intervento dello Stato sul “bene” della ricorrente (§ 74), rilevando però che allo stato non è stato offerto alcun indennizzo alla ricorrente, condannata, anzi, al pagamento di un indennizzo per l’abusiva occupazione. Tanto premesso, la Sezione II della Corte di Cassazione non ha ritenuto di discostarsi dalle pronunce delle Sezioni unite del 2011 (tra tutte n. 3665/2011; n. 3811/2011; n. 3813/2011) e da alcune successive a Sezioni semplici (n. 13519/15; n. 7564/12), ritenendo - contrariamente a quanto assunto da parte ricorrente - che la pronuncia medio tempore della CeDu non abbia affatto smentito ma anzi confermato la legittimità della qualificazione da parte della magistratura italiana della porzione di laguna di Venezia in questione come demanio marittimo (unica questione all’esame della Corte di Cassazione nel presente giudizio), anche se ha invitato lo Stato italiano ad assicurare un più equo equilibrio tra interessi pubblici e interessi privati quanto alla possibilità di godimento del bene a fini imprenditoriali per il futuro (che si può assicurare ad esempio mediante concessione) e quanto alle pretese patrimoniali per l’abusiva occupazione negli anni passati. In proposito la Cassazione, con la decisione che si allega, mentre ha confermato anche nel presente caso la natura di demanio marittimo della Valle, ha chiarito che il presente giudizio è stato “essenzialmente incentrato sulla sola questione della demanialità del compendio vallivo, demanialità che, come si è detto, non è stata smentita dalla Corte di strasburgo e che non pregiudica la questione di cui si è invece occupata la sentenza della CeDu, relativa alla spettanza di un indennizzo/risarcimento per la misura di ingerenza adottata dall’amministrazione: costituendone anzi l’indispensabile presupposto”. Verosimilmente si procederà a breve con transazioni con i proprietari privati delle Valli, come è avvenuto con i proprietari della Valle Perimpiè che hanno adito la CeDu. marinella Di Cave Cassazione civile, seconda sezione, sentenza 21 dicembre 2016 n. 26616 -Pres. e. Bucciante, Cons. rel. A. Giusti, P.m. A. Pepe (rimessione alle Sez. un. e rigetto ricorso) - eredi u.A. (avv.ti u. Ruffolo, G. Orsoni, L.M. Benvenuti) c. Ministero economia e finanze, Ministero infrastrutture e trasporti, Agenzia del Demanio (avv. gen. Stato). Fatti di causa 1. -Con atto di citazione notificato il 14 luglio 1994, u.A. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Venezia il Ministero delle finanze, il Ministero dei lavori pubblici e il Ministero dei trasporti e della navigazione per sentire accertare la sua proprietà del complesso vallivo denominato "valle Musestre", costituito da terreni emersi e barene, nell'ambito della parte nord orientale della Laguna di Venezia, contraddistinto nel nuovo catasto terreni nel Comune RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 di Venezia -Burano, particella 2734, acquistato con atto notarile 16 settembre 1964 e 26 aprile 1973, e per sentire accertare l'invalidità degli atti di diffida e di intimazione inviati dalle Amministrazioni convenute nonchè l'illecito comportamento tenuto dalle stesse, e dunque per sentirle condannare al risarcimento dei danni derivati dalle infondate richieste delle stesse, ancorate alla pretesa natura demaniale della valle. Le predette Amministrazioni si costituivano chiedendo il rigetto delle domande nonchè, in via riconvenzionale, l'accertamento della demanialità della valle, con condanna dell'attore al rilascio del bene ed al pagamento dell'indennità per l'occupazione senza titolo, da liquidarsi in separato giudizio. espletata la disposta c.t.u. ed intervenuta in giudizio l'Agenzia del demanio (divenuta titolare dei rapporti già facenti capo al Ministero delle finanze), il Tribunale di Venezia, con sentenza in data 2 agosto 2004, dichiarato il difetto di legittimazione passiva del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, dichiarava la piena proprietà in capo all'attore del complesso immobiliare di cui alla partita catastale 2734 sita in Venezia - Burano, dichiarando pertanto infondate le intimazioni di pagamento di pretese, e condannava le Amministrazioni statali alla rifusioni delle spese di lite. Il Tribunale rigettava invece la domanda di risarcimento del danno avanzata contro le Amministrazioni, le quali avevano solo esercitato un atto dovuto. 2. Avverso detta pronuncia l'Amministrazione dell'economia e delle finanze, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e l'Agenzia del demanio proponevano appello. A.u. si costituiva, insistendo per il rigetto del gravame ed in via di appello incidentale instando per la parziale riforma dell'impugnata sentenza relativamente al mancato riconoscimento del risarcimento del danno correlato all'illecito comportamento tenuto dalle Amministrazioni nella vicenda de qua e alla carenza di legittimazione passiva del Ministero dei trasporti. Il processo, dichiarato interrotto per il decesso di A.u., veniva riassunto nei confronti dei di lui eredi, M.A. ed altri, che si costituivano in giudizio. Con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 27 novembre 2008, la Corte d'appello di Venezia, in parziale riforma della pronuncia appellata, ha accertato la natura demaniale necessaria degli spazi acquei presenti nella valle Musestre, così come individuati nella relazione del c.t.u. ing. Luigi D’Alpaos del 18 settembre 2002; ha condannato gli eredi di A.u. a rilasciare detti bacini acquei; li ha condannati inoltre, in via generica, a rifondere il danno a favore dell'Amministrazione dell'economia e delle finanze e dell'Agenzia del demanio, nella misura da liquidare in separato giudizio; ha rigettato l'appello incidentale; ha compensato per intero tra le parti le spese dei due gradi, mentre ha posto definitivamente a carico degli appellati le competenze di c.t.u., nella misura già liquidata dal primo giudice. La Corte territoriale ha evidenziato che le valli da pesca, costituenti parte del sistema lagunare a carattere unitario, erano di natura demaniale già in base alla normativa preunitaria, ed in specie al regolamento di polizia lagunare del 1841, rimasto in vigore fino al R.D.L. n. 1853 del 1936 , natura confermata dalla L. n. 366 del 1963, ed ha affermato che l'area in contesa fa parte del demanio marittimo necessario, ex art. 28 cod .nav., lett. b), sia per la sua conformazione -trattandosi di bacini di acqua salsa o salmastra, comunicanti con il mare seppure con l'ausilio di meccanismi idraulici - sia perchè idonea ad essere utilizzata per la pesca e per la navigazione, con piccoli natanti. 3. - Per la cassazione della sentenza della Corte d'appello A.e. e gli altri litisconsorti indicati in epigrafe, eredi di A.u., hanno proposto ricorso, con atto notificato l'11 gennaio 2010, sulla base di tredici motivi e di un ulteriore mezzo con cui si prospetta un'eccezione di illegittimità costituzionale. COnTenzIOSO nAzIOnALe Il Ministero dell'economia e delle finanze, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e l'Agenzia del demanio hanno resistito con controricorso. In prossimità dell'udienza la parte ricorrente ha depositato una istanza di differimento di udienza e di assegnazione del giudizio alle Sezioni unite; ha depositato, altresì, una memoria illustrativa. ragioni della decisione 1. -Con il primo motivo la parte ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 11 e 12 preleggi, nonchè dell'art. 822 c.c. e ss. e art. 28 cod. nav. e ss., anche in quanto applicati in collegamento con il regolamento austriaco del 20 dicembre 1841 ("regolamento per impedire i danni che vengono recati alla laguna di Venezia"), con i paragrafi 285, 287, 290, 311, 355, 1455, 1454, 1456 e 1472 c.c. austriaco all'epoca vigente, con la L. n. 3706 del 1877, artt. 1 e 16 con gli artt. 76 e 80 del regolamento per la pesca marittima, approvato con R.D. 13 novembre 1882, n. 1090, con il R.D. 22 settembre 1905, n. 546, con il R.D.L. 18 giugno 1936, n. 1853, artt. 6 e 41 con la L. 31 ottobre 1942, n. 1471, con la L. n. 366 del 1963, art. 9. Secondo i ricorrenti, la demanialità del bene non può essere desunta dall'asserita demanialità alla stregua di altro ordinamento precedentemente vigente; in ogni caso, nel diritto austriaco vigente nel Veneto preunitario, i beni oggetto di proprietà pubblica potevano essere suscettibili di legittima acquisizione da parte dei privati, non vigendo un regime dei beni demaniali equivalente a quello del nostro ordinamento positivo; il regolamento austriaco del 20 dicembre 1841 deve essere interpretato nel senso che lo stesso non stabilisce la demanialità della laguna di Venezia, limitandosi a dettare una mera disciplina di polizia lagunare. 1.1. - Il motivo è infondato. La Corte di Venezia ha rilevato "come già all'epoca del regolamento approvato dal competente organo dell'Impero (giusta dispaccio 8 ottobre 1841 della cancelleria aulica e pubblicato con notificazione 20 dicembre 1841), la laguna era considerata demanio pubblico, nel senso attuale di bene appartenente al demanio marittimo necessario che l'art. 28 c.n. individua in beni di origine naturale, la cui proprietà non può che essere pubblica, e quindi distinti da quelli per i quali la demanialità è condizionata dalla loro appartenenza allo Stato". In detto regolamento -precisa la Corte territoriale - "risulta, invero, espressamente affermata la demanialità della laguna, concepita quale sistema comprendente anche le valli da pesca; la laguna difatti è descritta quale "seno di acqua salsa che si estende dalla foce del Sile alla Conca di Brondolo, che è compreso tra il mare e la terrafermà e presenta, quindi, quelle caratteristiche di unitarietà che non consentono di enucleare singoli beni acquei in esso ricadenti, al fine di farne risultare caratteristiche differenti". Tanto premesso, la doglianza con cui si deduce il vizio di violazione e falsa applicazione di legge in riferimento a normativa preunitaria, e comunque non più in vigore, non coglie la ratio decidendi, perchè la Corte d'appello non è affatto venuta meno al dovere di compiere l'indagine in ordine al carattere demaniale della valle Musestre in riferimento all'art. 28 cod. nav., lett. b). L'impugnata sentenza ha affermato la natura demaniale della laguna di Venezia anche muovendo dalle disposizioni del regolamento di polizia adottato dal competente organo del- l'Impero austroungarico nel 1841, in conformità dei p.p. 287 e 1455 c.c. austriaco, e questa affermazione ha già superato il vaglio delle Sezioni unite di questa Corte (Cass., Sez. u., 18 febbraio 2011, n. 3937); a ciò aggiungasi che a tale riferimento deve attribuirsi un valore meramente storico-ricostruttivo - essendo il regolamento rimasto in vigore fino all'emanazione della L. n. 191 del 1937 - nel senso di avere evidenziato come, già in base alla normativa pre RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 vigente, la laguna, e le valli da pesca in essa ricadenti, erano considerate demanio pubblico nel senso attuale di bene appartenente al demanio marittimo necessario, che l'art. 28 c.n. individua in beni di origine naturale, la cui proprietà non può che essere pubblica, e perciò distinti da quelli per i quali la demanialità è condizionata dalla loro appartenenza allo Stato. La notazione della Corte di Venezia rileva, invero, sul piano fattuale, nel senso che dalla stessa si desume che, anche nel diciannovesimo secolo, le valli da pesca appartenevano, sotto il profilo geofisico, al sistema lagunare di carattere unitario, sistema che, nel preambolo del citato regolamento, veniva appunto descritto quale "seno di acqua salsa che si estende dalla foce del Sile alla Conca di Brondolo, che è compreso tra il mare e la terraferma". La sentenza impugnata afferma infatti, in particolare, che, in detto regolamento, la laguna presenta "quelle caratteristiche di unitarietà che non consentono di enucleare singoli beni acquei in esso ricadenti, al fine di farne risultare caratteristiche differenti". Come già osservato da questa Corte in vicenda similare (Cass., Sez. 1, 28 gennaio 2016, n. 1619), la ricostruzione di natura storico-giuridica appare funzionale all'affermazione della nullità, derivante dall'accertata natura demaniale, degli atti di disposizione relativi ai beni in questione, nonchè all'esclusione di un eventuale carattere espropriativo dell'art. 28 cod. nav., lett. b). In ogni caso, anche le specifiche previsioni del regolamento richiamate in ricorso non appaiono in grado di confutare la natura pubblica demaniale delle valli da pesca, in quanto deve ritenersi che, là dove si fa riferimento alla qualità del proprietario, si abbia riguardo a quelle porzioni della laguna non costituite da spazi acquei, e che, là dove si richiamano i diritti o titoli legittimi, lungi dal sottintendere il rinvio al diritto di proprietà, si intenda in realtà riferirsi all'attribuzione di un diritto di sfruttamento esclusivo, che ben può derivare da provvedimenti aventi carattere concessorio, come tali presupponenti, a monte, la natura pubblica del bene suscettibile di fornire particolari utilità. 2. - Il secondo mezzo (ulteriore violazione e falsa applicazione dell'art. 822 c.c. e ss. e art. 28 c.n. e ss., anche in relazione alla pregressa condizione giuridica dei luoghi quale risultante dal regolamento austriaco del 20 dicembre 1841, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione con riferimento all'accertamento in concreto delle caratteristiche fisiche della valle da pesca oggetto del giudizio che avrebbero determinato la demanialità degli specchi acquei della medesima) contesta la legittimità dell'interpretazione seguita dalla Corte d'appello, comportante, di fatto, la perdita della privata proprietà di un bene da parte di chi è stato sempre considerato (in forza dei titoli di acquisto risalenti nei secoli, del possesso pacifico ed incontestato nel tempo, dei conformi dati catastali - di catasti aventi anche valore reale -, con atti e provvedimenti della P.A. e mediante l'esazione di tasse sulla proprietà) legittimo proprietario; deduce, altresì, la contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata, che da una parte afferma la necessità di un accertamento in concreto delle caratteristiche fisiche dello specifico bene ai fini della sua qualificazione come demaniale e, dall'altra, con riferimento all'accertamento della demanialità degli specchi acquei di cui ai fossi e al canale di causa, omette del tutto tale accertamento, affermandone la demanialità in quanto facenti parte "normativamente" della laguna di Venezia, per di più contraddittoriamente indentificandoli come "valle da pesca". Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione dei principi attinenti all'operatività, nel caso di specie, dell'istituto dell'immemorabile, e la nullità della sentenza per omessa pronuncia con riferimento alla medesima questione. Il quarto motivo lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 28 c.n. in relazione all'appartenenza dei beni in questione alle categorie di beni elencati in detta disposizione. Pre COnTenzIOSO nAzIOnALe messo che la valutazione sull'esistenza dei caratteri della demanialità andava effettuata con riguardo alla situazione di fatto attuale, e non con riguardo a situazioni passate e non più corrispondenti alla realtà al momento dell'operare delle norme costitutive della demanialità, e rilevato che le norme sulla conterminazione della laguna non attengono alla delimitazione della demanialità, ma determinano unicamente l'area entro la quale si applicano le norme di polizia idraulica dettate per la laguna di Venezia, i ricorrenti ritengono violato l'art. 28 c.n., perchè la sentenza: (a) ha interpretato il requisito della libera comunicazione con il mare nel senso che la stessa possa riscontrarsi in presenza di una mera permeabilità delle strutture di conterminazione degli specchi acquei la cui demanialità è contestata, pur se questi sono caratterizzati da requisiti fisici - quali la salinità, profondità e temperatura - che ne differenziano sostanzialmente l'ambiente da quello della laguna aperta; (b) ha affermato l'indispensabile elemento fisico-morfologico della comunicazione con il mare di un bene di cui è contestata la demanialità, separatamente e non in connessione alla sua attitudine ai pubblici usi del mare, ovvero, senza accertare il requisito fisico-morfologico della libera comunicazione con il mare in senso finalistico-funzionale, e, cioè, nel senso che la comunicazione con il mare determini la sua attitudine ai pubblici usi del mare. Con il quinto motivo si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 28 c.n. e ss. con riferimento all'accertamento della idoneità degli specchi acquei del compendio immobiliare oggetto di causa agli usi pubblici del mare, nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione sul punto decisivo della controversia attinente sempre all'accertamento della pretesa attitudine degli specchi acquei del richiamato compendio immobiliare ai pubblici usi del mare. erroneamente la Corte d'appello avrebbe accertato la demanialità dei beni in contestazione, benchè essi siano estraniati dalle acque lagunari da prima della entrata in vigore delle norme sulla demanialità e alimentati da acqua dolce e non vi sia in atto neppure una attività di vallicultura, comunque diversa dalla pesca vagantiva. erroneamente, inoltre, la demanialità sarebbe stata accertata sulla scorta della loro pretesa attitudine alla navigazione, intesa quale pubblico uso del mare, considerando tale anche quella praticata in acque poco profonde di un canale completamente chiuso ed arginato. Ad avviso dei ricorrenti, l'accertamento della demanialità sarebbe in aperto contrasto con gli esiti della c.t.u. Con il sesto motivo si denuncia la nullità della sentenza della Corte d'appello per indeterminatezza dell'oggetto nella parte in cui genericamente dichiara la demanialità degli spazi acquei della valle Musestre, omettendo di individuarne le singole particelle catastali. Il settimo motivo è rubricato violazione e falsa applicazione di norme di diritto con riferimento all'art. 2697 c.c., art. 115 c.p.c. e art. 28 cod. nav. In assenza di alcun elemento probatorio circa la effettiva comunicazione con il mare degli specchi acquei della valle e la loro attitudine agli usi pubblici del mare, la Corte di Venezia avrebbe fondato la propria pronuncia su una asserzione (la possibile comunicazione degli specchi acquei con la laguna) in contrasto con gli stessi esiti della espletata c.t.u., senza motivare le ragioni in forza delle quali ha ritenuto di doversi discostare dagli stessi. Ad avviso della parte ricorrente, inoltre, nel decidere la controversia, i giudici del merito avrebbero omesso di valutare le prove addotte a sostegno della privata proprietà dei beni controversi in ragione della pretesa demanialità degli stessi fondata non su un concreto esame delle caratteristiche fisiche, bensì sulla sola contestata interpretazione del regolamento austriaco del 20 dicembre 1841. Con l'ottavo motivo ci si duole della violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c. e art. 28 c.n. nella parte in cui la sentenza impugnata ha deciso sulla base di una causa petendi non prospettata da alcuna delle parti con riguardo alla pretesa demanialità della valle perchè "in RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 collegamento con la laguna aperta" e perchè idonea alla pesca ed alla navigazione (trattandosi di causa petendi mai prospettata, ed ancor meno provata, dalla P.A. agente in riconvenzionale). Il nono motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 822, 823 e 948 c.c , art. 28 c.n., lett. b), artt. 32 e 35 c.n., della L. n. 191 del 1937 e della L. n. 1471 del 1942, in particolare agli artt. 66 e 67, errata interpretazione e violazione della L. n. 366 del 1963, artt. 2 e 24 e violazione dell'art. 42 Cost. in relazione alle normative sopra richiamate con riferimento al regime speciale per la Laguna di Venezia. I ricorrenti si dolgono che la Corte distrettuale abbia affermato la demanialità degli specchi acquei interni ad un compendio legittimamente chiuso, malgrado le richiamate norme ne presuppongano la proprietà privata. 2.1. - I motivi dal secondo al nono - da esaminare congiuntamente, stante la stretta connessione - sono infondati. L'impugnata sentenza ha accertato - con congruo e motivato apprezzamento delle risultanze di causa - la natura demaniale della Valle Musestre alla stregua dell'art. 28 c.n., lett. b), secondo cui fanno parte del demanio marittimo "le lagune, le foci dei fiumi che sboccano in mare, i bacini di acqua salsa o salmastra che almeno durante una parte dell'anno comunicano liberamente col mare". Gli specchi acquei in contesa -ha rilevato la Corte d'appello -sono bacini di acqua salsa o salmastra che almeno durante una parte dell'anno ben possono comunicare liberamente con il mare, seppure con l'azionamento dei meccanismi idraulici approntati dai privati, e per i quali permane anche l'idoneità a soddisfare gli usi marittimi, in particolare la pesca e la navigazione (sia pure solo con modeste imbarcazioni). nello specifico la Corte territoriale ha accertato che si tratta di un bacino acqueo rimasto pur sempre in collegamento con la restante laguna e quindi con il mare, nonostante la realizzazione di sbarramenti più efficienti rispetto agli antichi argini, e ha precisato che i terreni sono situati sul litorale del Cavallino in adiacenza al canale Pordelio e ricadono in parte in laguna e sono sommersi dalle maree ordinarie, in parte sono marginati rispetto alla laguna aperta da un muro perimetrale continuo in calcestruzzo la cui sommità si colloca ovunque al di sopra delle maree ordinarie ma anche delle massime maree di acqua alta registrate a Punta della Salute. Lo stato dei luoghi - ha aggiunto la Corte di Venezia - si presenta diverso dal punto di vista morfologico rispetto al passato, cioè caratterizzato "da un complesso reticolo di fossi scavato dall'uomo che è ben evidenziato nella Carta Laguna del 1932, fossi che sono stati solo successivamente sottratti alla loro originale funzione (stagni da pesca)... e tuttora con valore di salinità che porta a classificare la loro acqua come salata e comunque costruiti per praticarvi la pesca". All'interno della perimetrazione - ha sottolineato la Corte distrettuale permane ancora oggi, così come si evince dallo stesso elaborato tecnico, una comunicazione con la laguna: sull'area contrassegnata dalla partita catastale 2734 sono infatti attualmente riscontrabili il canale presidiato verso la laguna ed alcuni relitti degli originari fossati non destinati più alla originaria funzione di stagni da pesca e che invece hanno ora il compito di raccogliere le acque meteoriche per immetterle nel canale al quale è affidato lo scolo delle acque stesse in laguna. La Corte d'appello ha quindi accertato la demanialità dei menzionati beni acquei tanto in relazione alle caratteristiche fisiche dell'area quanto in funzione della loro attitudine a realizzare gli interessi che attengono ai pubblici usi del mare, in particolare la pesca (che allo stato non è radicalmente esclusa, ma è resa problematica per effetto degli interventi umani di abusiva perimetrazione con la finalità di sottrarli alle maree) e la navigazione (quest'ultima, ovviamente, solo con modeste imbarcazioni). COnTenzIOSO nAzIOnALe Tale accertamento di fatto, riservato al giudice del merito, resiste alle critiche che ad esso sono state rivolte dalla ricorrente, avendo la Corte distrettuale reso ampia e adeguata motivazione sui punti rilevanti ai fini dell'accertamento della demanialità (cfr., in vicenda analoga, Cass., Sez. 1^, 1 luglio 2015, n. 13519), avendo accertato che si è di fronte a bacini acquei che sarebbero rimasti, in assenza dell'intervento dell'uomo, pur sempre in collegamento con la laguna aperta e quindi con il mare, e per i quali permane l'idoneità a soddisfare gli usi marittimi, in particolare la pesca e, nei termini suindicati, la navigazione. e si tratta di un accertamento che la Corte di Venezia ha compiuto avendo riguardo anche all'attuale situazione: nel pieno rispetto dell'insegnamento secondo cui la sussistenza delle caratteristiche in concreto previste dal legislatore deve essere verificata all'"attualità" (Cass., Sez. u., 18 febbraio 2011, n. 3937, cit.). Deve, al riguardo, condividersi la considerazione secondo cui la natura demaniale di un bene non può cessare per effetto di mere attività materiali eseguite da soggetti privati. e le Sezioni unite di questa Corte, nella citata sentenza n. 3937 del 2011, hanno già convalidato l'affermazione del giudice del merito, resa in una vicenda similare, secondo cui la chiusura della valle con la costruzione di argini con chiaviche non è idonea a determinare un'effettiva separazione dal resto della laguna, in quanto la demanialità naturalmente acquisita da tempo immemorabile con l'espandersi delle acque lagunari non può cessare per effetto di mere attività materiali eseguite da soggetti privati, sia pure nell'inerzia o con la tolleranza degli organi pubblici. In sostanza, gli ostacoli non naturali frapposti alla libera espansione del mare non sono idonei, ex se, a trasformare il demanio in allodio. D'altra parte, non sono decisivi in senso contrario la presenza di titoli di acquisto dei beni acquei in questione, l'esercizio, su di essi, del "possesso" da parte di privati, il fatto che tali beni siano stati riportati nei registri catastali e che per essi la P.A. abbia esatto tasse sulla proprietà. Infatti -a differenza di quanto previsto dall'art. 829 c.c., che attribuisce natura dichiarativa al passaggio di un bene dal demanio al patrimonio -per i beni appartenenti al demanio marittimo non è possibile che si realizzi la sdemanializzazione in forma tacita, essendo necessaria, ai sensi dell'art. 35 c.n., l'adozione di un espresso e formale provvedimento della competente autorità amministrativa, avente carattere costitutivo: di talchè nella specie non può neppure giovare l'invocato istituto dell'immemorabile o l'inerzia dell'ente proprietario (Cass., Sez. 2, 11 maggio 2009, n. 10817). I titoli di proprietà e le ragioni di possesso, nonchè le iscrizioni e le descrizioni catastali, cedono rispetto al fatto della demanialità naturale marittima. Sotto altro profilo, il Collegio deve senz'altro ribadire il principio secondo cui l'indispensabile elemento fisico morfologico della comunicazione con il mare non costituisce di per sè solo il fattore decisivo e qualificante della demanialità, ma deve essere accertato e valutato in senso finalistico-funzionale, in quanto, cioè, si presenti tale da estendere al bacino di acqua salmastra le stesse utilizzazioni cui può adempiere il mare, rilevando la complessiva idoneità del bene, secondo la sua oggettiva conformazione fisica, a servire ai pubblici usi del mare (Cass., Sez. 1, 28 gennaio 2016, n. 1619; Cass., Sez. 1, 19 maggio 2016, n. 10337). Se, dunque, è l'attitudine a servire agli usi del mare a costituire il criterio delimitativo del- l'estensione dei beni demaniali marittimi e tale funzione costituisce la ratio e il limite per l'affermazione del loro carattere demaniale, tale carattere è rimasto in conclusione accertato. Si è infatti in presenza di bacini di acqua salsa o salmastra che almeno durante una parte dell'anno ben possono comunicare liberamente con il mare (seppure con l'azionamento dei meccanismi idraulici approntati dai privati), dove permane l'idoneità a soddisfare gli usi marittimi, in particolare la pesca e la navigazione (v., in fattispecie similare, Cass., Sez. u., 18 febbraio 2011, n. 3936). RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 Le valutazioni espresse dal giudice del merito, con congruo e motivato apprezzamento e tenendo conto della situazione dei luoghi emergente dalle risultanze probatorie, circa l'utilizzabilità degli specchi d'acqua vallivi in questione per l'attività della pesca e per la navigazione con piccoli natanti si risolvono in accertamenti di fatto qui non ulteriormente sindacabili. La parte ricorrente, pur lamentando formalmente una plurima violazione di legge e un decisivo difetto di motivazione, tende, in realtà, ad una (non ammissibile in sede di legittimità) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze ormai definitivamente accertati in sede di merito. Sotto questo profilo la parte ricorrente, lungi dal prospettare a questa Corte vizi della sentenza rilevanti ai sensi dell'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, invoca, piuttosto, una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertate e ricostruite dalla Corte territoriale, muovendo così all'impugnata sentenza censure che non possono trovare ingresso in questa sede, perchè la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle fra esse ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involge apprezzamenti di fatti riservati in via esclusiva al giudice del merito. non sussiste neppure la lamentata nullità della sentenza per indeterminatezza dell'oggetto della demanialità. La sentenza impugnata si dà infatti cura di precisare che l'accertata demanialità della valle da pesca riguarda i beni vallivi da intendersi in senso stretto, ossia tutti gli spazi occupati dalle acque, con esclusione delle terre emerse (e di quanto sulle stesse edificato), le quali all'evidenza non costituiscono bacini lagunari di acqua salsa o salmastra in senso stretto. nè sussiste il lamentato vizio di extrapetizione, prospettato dai ricorrenti sulla base di una presunta diversità tra demanialità lagunare e demanialità marittima. Va poi rilevato, conclusivamente, che, proprio in relazione alle valli da pesca della laguna di Venezia, le Sezioni unite di questa Corte, in fattispecie sovrapponibili a quella oggetto del presente giudizio, hanno respinto censure corrispondenti a quelle qui riproposte (sentenza 14 febbraio 2011, n. 3665; sentenza 16 febbraio 2011, n. 3811; sentenza 18 febbraio 2011, n. 3936; sentenza 18 febbraio 2011, n. 3937), con argomentazioni fondate anche sui principi costituzionali relativi alla tutela del paesaggio e dell'ambiente. 3. - Con il decimo motivo si censura violazione e falsa applicazione di norme di diritto, là dove la Corte di Venezia ha condannato i ricorrenti al pagamento dell'indennità di occupazione del suolo richiesta in via riconvenzionale. Vi sarebbe violazione degli artt. 112 e 167 c.p.c. e art. 24 Cost. perchè la Corte d'appello, pronunciando una condanna generica, avrebbe omesso di decidere sulla eccepita nullità ed inammissibilità della relativa domanda riconvenzionale per assoluta indeterminatezza della stessa, ritenendo sufficiente, per la pronuncia di condanna generica, non un effettivo accertamento dei presupposti di fatto e di diritto per l'accoglimento della relativa domanda, ma, semplicemente, il mero accertamento di una potenziale idoneità di produrre un danno. La Corte di Venezia avrebbe omesso di pronunciarsi sulla eccepita assenza dei requisiti essenziali della condanna generica, ivi compreso l'elemento soggettivo, rinviando alla successiva fase di liquidazione gli accertamenti relativi alla esistenza concreta del danno, della sua reale entità e del rapporto di causalità. 3.1. - Il motivo non è fondato. non sussiste la denunciata inammissibilità o nullità della domanda riconvenzionale, giacchè questa è stata formulata con una precisa causa petendi, essendo stata la domanda di condanna al pagamento di una indennità risarcitoria per l'occupazione senza titolo della valle prospettata in ragione della natura demaniale del compendio. e non v'è dubbio, d'altra parte, che la privazione del possesso conseguente all'occupazione senza titolo degli specchi acquei appartenenti al demanio necessario costituisce un fatto potenzialmente causativo di effetti pregiudizievoli. COnTenzIOSO nAzIOnALe Inoltre, ai fini della pronuncia di condanna generica al pagamento della chiesta indennità è sufficiente l'accertamento della potenzialità lesiva derivante dalla concreta totale sottrazione da parte del privato degli spazi acquei del compendio vallivo (cfr. Cass., Sez. 2, 13 settembre 2012, n. 15335), mentre la prova dell'esistenza concreta del danno (in riferimento a tutti i suoi presupposti, compresa la ricorrenza dell'elemento psicologico), della reale entità di esso e del rapporto di causalità è riservata alla successiva fase di liquidazione (Cass., Sez. 1, 12 ottobre 2007, n. 21428; Cass., Sez. 1, 19 maggio 2016, n. 10337, cit.). 4. - Con l'undicesimo motivo la parte ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c., in relazione ad atti di diffida al pagamento di somme di denaro e contestativi della altrui proprietà, illegittimi, e comunque, in relazione alla L. n. 1034 del 1971, art. 3 per violazione della L. n. 241 del 1990, artt. 7, 8 e 10 per eccesso di potere, per assoluto difetto di istruttoria ed insufficiente motivazione, oltre che con riferimento al principio di buona ed efficiente azione amministrativa e a quello generale del divieto di venire contra factum proprium. Il quesito che correda il motivo è se violi l'art. 112 c.p.c. la sentenza impugnata nella parte in cui ha preso in esame gli atti di diffida al pagamento di somme di denaro e contestativi dell'altrui proprietà, apoditticamente giudicandoli leciti e omettendo di giudicare su una presentata domanda di accertamento della loro illegittimità in relazione alla L. n. 1034 del 1971, art. 3 per violazione della L. n. 241 del 1990, artt. 7, 8 e 10 per eccesso di potere, per assoluto difetto di istruttoria e di insufficiente motivazione oltre che per violazione del principio di buona ed efficiente azione amministrativa e di quello generale del divieto di venire contra factum proprium. 4.1. - Il motivo è infondato. non sussiste la lamentata omessa pronuncia, perchè la Corte d'appello ha correttamente affermato che la condotta della P.A. per l'invio di diffide dirette ad ottenere il rilascio dell'area e il relativo risarcimento del danno è legittima, essendo fondata sul presupposto della demanialità del terreno. D'altra parte, ogni questione sulla effettività del danno è definibile in sede civilistica solo nel separato giudizio avente ad oggetto la quantificazione del danno. 5. -Il dodicesimo motivo denuncia violazione dell'art. 112 c.p.c. e nullità della sentenza per omessa motivazione in relazione alla omessa pronuncia su una domanda degli odierni ricorrenti, nonchè violazione degli artt. 822, 948 e 2043 c.c., artt. 28 e 32 c.n., della L. n. 191 del 1937, artt. 4, 66 e 67, della L. n. 366 del 1963, artt. 2, 9 e 24 chiedendosi se sia meritevole di tutela, anche risarcitoria, la lamentata lesione dell'affidamento ingenerato dalla condotta della P.A. resistente, mediante fatti, atti e provvedimenti amministrativi, sulla legittimità del titolo e possesso della ricorrente sui beni dichiarati demaniali dalla Corte d'appello. 5.1. - Il motivo è infondato. Il rigetto dell'appello incidentale si sottrae alle censure formulate, stante l'insussistenza di alcun illecito nell'attività delle Amministrazioni volta a far valere, ed in ogni tempo, il diritto dello Stato sugli specchi acquei del compendio vallivo, costituenti bene demaniale, ed essendo privo di effetto, nei confronti dell'Amministrazione, il possesso di beni appartenenti al demanio marittimo. Il rigetto della domanda degli A. è conseguente all'accertamento della natura demaniale della valle e alla esclusione della sua natura privata. 6. -Con il tredicesimo motivo si prospetta violazione di legge per omessa pronuncia con riferimento al proposto appello incidentale avverso la sentenza di primo grado nella parte in cui ha dichiarato la carenza di legittimazione passiva dell'Amministrazione delle infrastrutture e dei trasporti, già Amministrazione dei lavori pubblici, dei trasporti e della navigazione. 6.1. - Il motivo è inammissibile per difetto di interesse. Poichè tanto la domanda di ac RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 certamento della proprietà privata quanto quella di risarcimento del danno nei confronti della P.A. sono state dichiarate infondate dal giudice del merito con statuizioni che resistono alle censure articolate con il ricorso per cassazione, i ricorrenti non hanno un interesse concreto ed attuale a che il contraddittorio sia instaurato anche nei confronti dell'Amministrazione delle infrastrutture e dei trasporti. 7. - Infine, la parte ricorrente eccepisce, in riferimento agli artt. 3, 42, 43 e 97 Cost., l'illegittimità costituzionale dell'art. 28 c.n. nonchè della L. n. 366 del 1963, nella parte in cui non prevedono la corresponsione di alcun indennizzo nell'ipotesi di sdemanializzazione di beni già in proprietà dei privati e nella parte in cui "espropriano" pur in carenza di un corrispondente adeguato interesse pubblico e sociale. 7.1. -All'esame del motivo occorre premettere che l'accertamento della natura demaniale della valle non si pone in contrasto con la decisione della Corte europea dei diritti dell'uomo, resa il 23 settembre 2014 nella controversia Valle Pierimpiè Società Agricola S.p.a. c. Italia. ed, infatti, la Corte eDu non smentisce affatto la demanialità della valle da pesca, affermata dalle Sezioni unite, nella citata sentenza 18 febbraio 2011, n. 3937. Al contrario, la CeDu espressamente afferma (par. 65) che "nel caso di specie, dopo aver studiato, alla luce delle relazioni peritali, le caratteristiche morfologiche e funzionali della Valle Pierimpiè, i giudici interni hanno concluso che quest'ultima era un bacino d'acqua che comunicava con il mare ed era idoneo agli usi pubblici di quest'ultimo, e che faceva dunque parte del demanio pubblico marittimo in virtù dell'art. 28 c.n. (par. 9, 10, 14, 15 e 21). La dichiarazione di demanialità del bene della ricorrente aveva dunque una base legale sufficiente nel diritto italiano"; ed aggiunge (par. 45) di non poter sostituire, in assenza di una manifesta arbitrarietà, la propria valutazione a quella dei tribunali interni. Semplicemente, la Corte di Strasburgo ne prescinde: muovendo dal presupposto (par. 37) che "la nozione di "beni" evocata nella prima parte dell'art. 1 del Protocollo n. 1 ha una portata autonoma che non si limita alla proprietà di beni materiali ed è indipendente dalle qualificazioni formali del diritto interno", ritiene (par. 46) che la questione della demanialità della valle da pesca "non sia determinante ai fini dell'applicabilità dell'art. 1 del Protocollo n. 1", per esser "possibile avere un "bene" nel senso di questa stessa disposizione in caso di revoca di un titolo di proprietà, a condizione che la situazione di fatto e di diritto precedente a questa revoca abbia conferito al ricorrente un'aspettativa legittima, collegata a interessi patrimoniali, sufficientemente importante per costituire un interesse sostanziale tutelato dalla Convenzione". Quindi, dopo aver evidenziato che l'ingerenza effettuata dall'amministrazione pubblica "soddisfaceva la condizione di legalità e non era arbitraria", la Corte ha affermato, in relazione a parecchi elementi non contestati dal Governo (indicati al par. 46), la sussistenza della titolarità in capo alla parte ricorrente di un interesse del tipo enunciato, e ha, quindi, stabilito esservi stata violazione dell'art. 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione, evidenziando esser dovuto un risarcimento per la misura di ingerenza (privazione del bene -nell'accezione anzidetta -in assenza di alcun indennizzo), onde mantenere un "giusto equilibrio" tra le esigenze dell'interesse generale della comunità e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo. La misura risarcitoria per il conseguimento di detto giusto equilibrio - la cui richiesta nella fattispecie dovrebbe ricavarsi implicitamente dal dedotto diritto di proprietà privata sui beni in contestazione da parte degli A., comportante il diritto alla gestione economica delle valli da pesca - non può, tuttavia, esser oggetto di dibattito in questa sede. Il Collegio rileva che il riconoscimento di detta misura presuppone, in base alla menzionata sentenza, anzitutto, lo svolgimento, in contraddittorio con le Amministrazioni con COnTenzIOSO nAzIOnALe tro-ricorrenti (art. 111 Cost. e art. 6 Convenzione eDu), di indagini di fatto inerenti l'accertamento della titolarità in capo alla parte ricorrente "di un'aspettativa legittima collegata ad interessi patrimoniali" tutelata dalla Convenzione, indagini che i paragrafi 46 e segg. della sentenza indicano: a) nell'esistenza di un titolo formale di proprietà, ricevuto da un notaio e registrato nei registri immobiliari; b) nella prassi esistente da lunga data, che consiste nel riconoscere ai privati dei titoli di proprietà sulle valli da pesca e nel tollerare da parte loro un possesso e un utilizzo continui di questi beni; c) nel pagamento delle imposte fondiarie; d) nell'attività di impresa svolta nel sito dalla ricorrente. Queste indagini non sono state compiute nei pregressi gradi di merito; e soprattutto involgono la deduzione di una diversa causa petendi: fondata non già, come avvenuto nella presente controversia, sulla responsabilità da fatto illecito in ragione della illegittima affermazione della demanialità di un compendio di proprietà privata, ma, piuttosto, sulla dannosità della legittima ingerenza dell'Amministrazione, per avere questa, nel quadro di una lecita richiesta di accertamento e rivendicazione della demanialità del bene pubblico, tuttavia imposto al privato un onere sproporzionato ed eccessivo, non riconoscendo in favore dello stesso alcun indennizzo per la privazione della legittima aspettativa radicatasi nel tempo e non adottando alcuna misura per ridurre l'impatto economico dell'ingerenza. Resta fermo ed impregiudicato il diritto della parte ricorrente di chiedere nelle competenti sedi il riconoscimento di una prestazione economica per il conseguimento di detto giusto equilibrio, e di documentarne tutti i presupposti richiesti dalla Corte europea al fine di averne riconosciuta la spettanza: e ciò sia con un giudizio autonomo, avente appunto una diversa causa petendi, sia in quello, eventuale, conseguente alle statuizioni adottate in questo, con cui le Amministrazioni chiedano la concreta liquidazione dei danni sofferti per avere avuto sottratta la disponibilità delle valli da pesca in oggetto. A tale stregua, il dubbio di costituzionalità dell'art. 28 c.n. e delle norme collegate, in riferimento agli artt. 3, 42, 43 e 97 Cost., risulta privo di rilevanza nel presente giudizio. Questo giudizio è infatti essenzialmente incentrato sulla questione della demanialità del compendio vallivo, demanialità che, come si è detto, non è stata affatto smentita dalla Corte di Strasburgo e che non pregiudica la questione di cui si è invece occupata la sentenza della CeDu, relativa alla spettanza di un indennizzo per la misura di ingerenza adottata dall'Amministrazione: costituendone anzi l'indispensabile presupposto, individuato dalla stessa Corte europea proprio nella circostanza che "la dichiarazione di demanialità del "bene della ricorrente aveva dunque una base legale sufficiente nel diritto italiano" (par. 65 cit.) e conseguentemente nel rilievo che "l'ingerenza in questione soddisfaceva la condizione di legalità e non era arbitraria" (par. 74) (in questi stessi termini, Cass., Sez. I, 19 maggio 2016, n. 10337, cit.). non è pertanto condivisibile quanto sostenuto dalla difesa dei ricorrenti nella memoria in prossimità dell'udienza e in sede di discussione, che cioè la sentenza della Corte di Strasburgo investirebbe e condizionerebbe il momento attributivo della demanialità, la quale non sarebbe più tale naturalmente e automaticamente, ma abbisognerebbe -attraverso un adeguamento del- l'art. 28 c.n. e delle norme collegate per mezzo di una pronuncia di illegittimità costituzionale per contrasto con l'art. 117 Cost. -di una dichiarazione costituiva ed ablativa quanto meno nelle situazioni nelle quali si è creato un legittimo, ed opposto, affidamento del privato. Va infatti al riguardo ribadito che il giusto equilibrio richiesto dalla pronuncia della Corte eDu si colloca per così dire a valle della demanialità accertata e dichiarata secondo la disciplina interna (art. 28 c.n., in relazione all'art. 822 c.c.), la quale in sè soddisfa la condizione di legalità e di non arbitrarietà dell'ingerenza. RASSeGnA AVVOCATuRA DeLLO STATO - n. 4/2016 8. - Resta da aggiungere che, essendo la statuizione sulla natura demaniale della valle da pesca coerente con i principi posti dalla giurisprudenza delle Sezioni unite di questa Corte, sopra menzionata, giurisprudenza in sè non superata, per gli aspetti che vengono in rilievo nel presente giudizio, dalla pronuncia della CeDu nel caso Valle Pierimpiè (Cass., Sez. 1, 19 maggio 2016, n. 10337, cit.), la richiesta di rimessione a detto consesso - inoltrata al Primo Presidente della Corte e reiterata, da ultimo, in sede di memoria ex art. 378 c.p.c., e nel- l'udienza di discussione - deve essere disattesa. Parimenti non può essere accolta la richiesta avanzata dal pubblico ministero di investire le Sezioni unite perchè forniscano un chiarimento sul requisito dell'accertamento all'"attualità" delle caratteristiche che gli specchi acquei devono presentare per poter essere ricompresi nel demanio pubblico marittimo: si tratta infatti di un profilo in ordine al quale non è ravvisabile contrasto nella giurisprudenza di questa Corte. egualmente - stante la pendenza del ricorso in cassazione da quasi sette anni - non può essere accolta l'istanza di differimento per facilitare una chiusura conciliativa della vertenza, chiusura che allo stato neppure è data per imminente. 9. - Il ricorso è rigettato. La complessità delle questioni trattate giustifica l'integrale compensazione delle spese di legittimità. PeR QueSTI MOTIVI La Corte rigetta il ricorso e dichiara compensate tra le parti le spese del giudizio di cassazione. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda civile, il 7 dicembre 2016. CoNTENzIoSo NAzIoNALE Scissione ope legis del rapporto organico e responsabilità del funzionario per il contratto stipulato in violazione delle norme di contabilità pubblica dell’Ente. Improponibilità dell’azione ex art. 2041 cod. civ. nei confronti della P.A. Nota a CassazioNe Civile, sez. i, seNteNza 4 geNNaio 2017 N. 80 Giulia Fabrizi* Relativamente all'attività contrattuale condotta dall'amministratore o funzionario in violazione delle regole di contabilità in merito alla gestione degli enti locali, si applica l’art. 23 del d.lgs. n. 66/1989 (oggi confluito nell’art. 191 del TUEL, d.lgs. n. 267/2000) che prevede l’imputazione dei relativi effetti alla sfera giuridica del funzionario e non dell’Ente comunale. Si realizza una vera e propria frattura o scissione ope legis del rapporto di immedesimazione organica tra i suddetti agenti e la Pubblica Amministrazione, con conseguente esclusione della riferibilità a quest'ultima delle iniziative adottate al di fuori delle norme di contabilità pubblica. Da ciò deriva l’improponibilità dell’azione di ingiustificato arricchimento ex art. 2041 cod. civ. nei confronti del Comune. Con la sentenza in commento, la prima sezione della Corte è intervenuta sul tema dell’imputazione degli effetti dell’attività contrattuale condotta da dipendente pubblico in violazione delle regole di contabilità pubblica preposte alla gestione dell’Ente. la vicenda giudiziaria. Nel caso di specie, l’attore -R.G., quale titolare della ditta FEP -aveva inviato al Comune di Venezia, in forza di una delibera della Giunta comunale, successivamente non ratificata, materiale informatico utilizzato nell'ambito del- l'informatizzazione dei servizi cimiteriali, la cui gestione era stata affidata, anche mediante consegna di detti beni, ad un’azienda comunale. Chiedeva, pertanto, che il Comune e l'Azienda fossero condannati al pagamento delle somme corrispondenti all'indebito arricchimento conseguito da detta utilizzazione. Il Tribunale respingeva la domanda attorea e argomentava che, alla stregua della natura sussidiaria dell’azione di ingiustificato arricchimento, qualificata dal Legislatore come extrema ratio, il danneggiato avrebbe potuto avvalersene unicamente in caso di assenza di rimedi alternativi. Invero, ad avviso dei giudici di prime cure, l’attore avrebbe potuto agire in rivendica al fine di ottenere la consegna dei materiali forniti. Per contro, la Corte d’Appello accoglieva la domanda de qua, rilevando che, pur in assenza di un valido contratto, l'amministrazione comunale - che (*) Dottoressa in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura Generale dello Stato. RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 aveva per altro pagato la fornitura solo di parte del materiale inviato - si era indebitamente arricchita grazie all’utilizzazione dei materiali forniti. Affermava inoltre l’estraneità dell’Azienda alla res controversa. Il Comune ricorreva alla Suprema Corte dolendosi della violazione degli artt. 2041 e 2042 cod. civ., argomentando in base all’assenza, nel caso di specie, del requisito di sussidiarietà, idoneo a giustificare il rimedio dell’indebito arricchimento. Il ricorso del Comune è stato accolto con la sentenza de qua, esplicando, tuttavia, la quaestio juris con motivazioni affatto diverse rispetto a quelle addotte dal ricorrente, operando una sintesi dei principi espressi a riguardo e offrendo una valida, seppur sintetica, ricomposizione della fattispecie. Brevi cenni in tema di indebito arricchimento della P.a. La dottrina (1) è concorde nel qualificare l’azione de qua come espressione di un principio generale di equità, tale per cui, chi si sia arricchito senza giusta causa a danno di un terzo, sia tenuto a corrispondere a quest’ultimo un indennizzo, teso a ristabilire l’equilibrio tra le sfere patrimoniali dei soggetti coinvolti. L’ordinamento giuridico è informato al principio di necessaria causalità delle attribuzioni patrimoniali, per cui non tollera trasferimenti di ricchezza da un soggetto ad un altro, in assenza di valida giustificazione. Non può essere questa l’occasione per dar conto compiutamente di ogni elemento costitutivo della fattispecie, tuttavia giova trattare concisamente del requisito di cui si fa menzione nella sentenza in commento, vale a dire la sussidiarietà, di cui, tra l’altro, la Suprema Corte non sembra avvalersi per dirimere la quaestio juris di cui supra. La dottrina è divisa in ordine alla interpretazione del requisito della sussidiarietà. L’orientamento tradizionale, dottrinale e giurisprudenziale (2), per (1) TRAbUCChI, arricchimento (diritto civile), in ED., 1958, 64 ss.; SChLESINGER, arricchimento (azione di) (diritto civile), in Noviss. Di, Torino, 1958, 1004 ss; bRECCIA, l’arricchimento senza causa, in trattato di di. Priv., dietto da P. RESCIGNo IX, obbligazioni e contratti, Torino, 1984, 811 ss; GALLo, arricchimento senza causa e quasi contratti (i rimedi restitutori), in trattato di dir. Civ., Torino, 1996, 28 ss. (2) bIANCA, l’azione generale di arricchimento, in Diritto Civile, Giuffré, 834 ss.; TRAbUCChI, arricchimento (diritto civile), in ED., 1958, 64 ss.; PRUSSIANI, l'azione di arricchimento senza causa nei rapporti tra la pubblica amministrazione ed il professionista: Riconoscimento dell'utilitas e criteri di quantificazione dell'indennizzo, in Corr. giur., 2012, 1219 ss.; ALbANESE, le prestazioni compiute in favore della pubblica amministrazione in esecuzione di contratti irregolari, in Corr. giur., 2007, 265 ss.; VIoLA, l'arricchimento senza causa della pubblica amministrazione, Cedam, 2002; TomEI, l'ingiustificato arricchimento dei confronti della pubblica amministrazione, Giappichelli, 2000. In giurisprudenza, Cass. civ. 5 marzo 1991, n. 2283, “l'azione di arricchimento senza causa è proponibile soltanto nel caso in cui non sia prevista altra azione a tutela di colui che lamenta il depauperamento, ovvero quando la domanda sia stata respinta sotto il profilo della carenza ad origine dell'azione proposta, e non anche nel caso in cui sia stata infruttuosamente sperimentata nel merito la domanda volta al soddisfacimento della pretesa”. CoNTENzIoSo NAzIoNALE esigenze di certezza dei rapporti giuridici, propende per l’astrattezza della stessa, nel senso di escludere la proponibilità dell’azione ex art. 2041 cod. civ. qualora sia astrattamente previsto un rimedio alternativo, a prescindere dalla sua concreta proponibilità. Per contro, parte della giurisprudenza (3), incline ad una maggior tutela del depauperato, consente l’esperibilità dell’actio de in rem verso anche nella denegata ipotesi di azionabilità concreta di rimedi equipollenti, pur previsti in astratto, ma privi di un qualche requisito fondamentale. Solo in tempi recenti la giurisprudenza (4) è giunta ad attribuire pacificamente all’azione di arricchimento senza causa nei confronti della P.A., una connotazione analoga a quella ordinaria tra privati. Superando l’orientamento a lungo dominante (5) che esigeva nel caso di specie sia l’elemento oggettivo della prestazione vantaggiosa per l’ente pubblico, sia il c.d. riconoscimento - esplicito o implicito - dell’utilitas percepita da parte dell’amministrazione stessa, - la configurabilità di un arricchimento (3) Cass. civ. 24 febbraio 2010, n. 4492, “il carattere sussidiario dell'azione generale di arricchimento e la conseguente non proponibilità di essa da parte del danneggiato che abbia altro rimedio per farsi indennizzare del pregiudizio subito, non precludono la possibilità di introdurre l'azione stessa in via subordinata, per il caso in cui l'azione tipica proposta in via principale abbia esito negativo per carenza del titolo posto a suo fondamento”. (4) Cass. S.U., 26 maggio 2015, n. 10798, “il riconoscimento dell'utilità non costituisce requisito dell'azione di indebito arricchimento, anche quando la stessa viene esperita nei confronti della p.a., che, ove il suo oggettivo arricchimento sia provato dal depauperato, sfugge alla condanna soltanto se dimostra di non averlo voluto o di non esserne stata consapevole”. (5) Cass. civ. 14 ottobe 2008, n. 25156, secondo cui il riconoscimento dell’utilitas da parte della P.A. può sia avvenire sia con atto formale che essere desunto implicitamente da atti o comportamenti della P.A., “l'azione di indebito arricchimento nei confronti della P.a. differisce da quella ordinaria, in quanto presuppone non solo il fatto materiale dell'esecuzione di un'opera o di una prestazione vantaggiosa per l'amministrazione stessa, ma anche il riconoscimento, da parte di questa, dell'utilità dell'opera o della prestazione. tale riconoscimento, che sostituisce il requisito dell'arricchimento previsto dall'art. 2041 c.c. nei rapporti tra privati, può avvenire in maniera esplicita, cioè con un atto formale, oppure può risultare in modo implicito da atti o comportamenti della P.a. dai quali si desuma inequivocabilmente un effettuato giudizio positivo circa il vantaggio o l'utilità della prestazione promanante da organi rappresentativi dell'amministrazione interessata, mentre non può essere desunta dalla mera acquisizione e successiva utilizzazione della prestazione stessa; siffatto giudizio positivo, in ragione dei limiti posti dall'art. 4 della legge n. 2248 all. e del 1865, é riservato esclusivamente alla P.a. e non può essere effettuato dal giudice ordinario, che può solo accertare se e in quale misura l'opera o la prestazione del terzo siano state effettivamente utilizzate”; per un riconoscimento implicito, Cass. Civ. 12 febbraio 2010, n. 3992, secondo cui il riconoscimento può avvenire anche mediante la sola utilizzazione dell’opera da parte della PA, “l'azione generale di arricchimento senza causa nei confronti della P.a. presuppone, oltre al fatto materiale dell'esecuzione di una prestazione economicamente vantaggiosa per l'ente pubblico, anche il riconoscimento dell'utilità della stessa da parte dell'ente, il quale può avvenire anche in modo implicito, cioè mediante l'utilizzazione dell'opera o della prestazione secondo una destinazione oggettivamente rilevabile ed equivalente nel risultato ad un esplicito riconoscimento di utilità, posta in essere senza il rispetto delle prescritte formalità da parte di detto organo, ovvero in comportamenti di quest'ultimo dai quali si desuma inequivocabilmente un giudizio positivo circa il vantaggio dell'opera o della prestazione ricevuta dall'ente rappresentato”. RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 senza causa era condizionata alla valutazione discrezionale della sola amministrazione, preclusa al G.o. ai sensi dell’art. 4 della L. 2248/1865 all. E -, le Sezioni Unite della Cassazione (6) sono recentemente intervenute operando una lettura dell’istituto più aderente ai principi specifici della materia meno gravosa per il depauperato e meno vantaggiosa per l’ente pubblico. L’arricchimento è attualmente considerato un fatto patrimonialmente oggettivo (7), sottratto alla sfera discrezionale dell’amministrazione e sindacabile dal G.o., senza incorrere nelle preclusioni fissate dall’art. 4 della L. 2248/1865 all. E. L’attore ex art. 2041 cod. civ. dovrà, dunque, provare unicamente il fatto dell’arricchimento, non essendo ad oggi più consentito alla PA opporre il mancato riconoscimento dello stesso. l’analisi della suprema Corte. orbene, nella sentenza in esame, la Suprema Corte non mostra di far applicazione dei principi generali in tema di indebito arricchimento per dirimere la quaestio juris, ma piuttosto si avvale di una lex specialis. occorre fare applicazione dell'art. 23 d.l. n. 66/1989 applicabile ratione temporis, convertito nella L. n. 144 del 1989, ed oggi confluito nel d.lgs. n. 267 del 2000, art. 191, secondo cui tutte le amministrazioni provinciali, i Comuni e le comunità montane non possono effettuare spese se non esclusivamente laddove «sussistano la deliberazione autorizzativa nelle forme previste dalla legge e divenuta o dichiarata esecutiva, nonché l'impegno contabile registrato dal ragioniere o dal segretario, ove non esista il ragioniere, sul competente capitolo del bilancio di previsione, da comunicare ai terzi interessati». Qualora le norme di contabilità pubblica non vengano rispettate, il comma 4 dell’articolo, che la Corte applica nel caso di specie, «nel caso in cui vi sia stata l'acquisizione di beni o servizi in violazione dell'obbligo indicato nel comma 3, il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della controprestazione e per ogni altro effetto di legge tra il privato fornitore e l'amministratore o il funzionario che abbiano consentita la fornitura. Detto effetto si estende per le esecuzioni reiterate o continuative a tutti coloro che abbiano reso possibili le singole prestazioni». Nel caso di specie, i beni posti a fondamento della pretesa attorea erano stati consegnati in assenza di un valido rapporto contrattuale al di fuori della previsione della delibera della Giunta in data 30 aprile 1990, con la quale, venne stanziata la spesa di Lire 71.400.000, e che, benché inidonea, di per sé, alla costituzione di un rapporto obbligatorio, comportò, previa ratifica da parte del Consiglio comunale, il successivo pagamento di tale somma da parte del- l'ente territoriale nell'anno 2000. (6) Cass. S.U., 26 maggio 2015, n. 10798, cit. (7) GALLo, arricchimento senza causa, nel Commentario schlesinger, Giuffrè, 2003, sub artt. 2041-2042. CoNTENzIoSo NAzIoNALE Richiamandosi a pregresse recenti pronunce (8), la sezione ravvisa nella normativa di cui supra un principio volto a limitare le ipotesi di ascrizione di responsabilità alla P.A per illecita attività contrattuale condotta dal suo dipendente in violazione delle regole contabili stabilite in seno all’Ente stesso. Da ciò, l’imputazione alla sfera giuridica diretta e personale dell'amministratore o funzionario degli effetti dell'attività contrattuale relativamente ai beni ed ai servizi acquisiti. Si realizza così una vera e propria frattura o scissione ope legis del rapporto di immedesimazione organica tra i suddetti agenti e la Pubblica Amministrazione, con conseguente esclusione della riferibilità a quest'ultima delle iniziative adottate al di fuori dello schema procedimentale previsto dalle norme c.d. ad evidenza pubblica. Non essendo, dunque, alla stregua della lex specialis richiamata, l’attività contrattuale riferibile all’Ente, la Corte esclude che il depauperato - nel caso di specie la società attrice - possa avvalersi dell’azione di ingiustificato arricchimento ex art. 2041 cod. civ. In ordine alla sorte del vincolo contrattuale sorto in ragione dell’attività predetta, il pregresso regime di nullità (9), viene sostituito con quello della piena efficacia tra agente in proprio e fornitore, alla stregua di una sorta di novazione soggettiva ex lege dell'originario rapporto obbligatorio che avrebbe dovuto intercorrere con l'ente pubblico di cui l'agente è organo. La Corte, quindi, valorizza il reale incontro di volontà tra il privato contraente, che accetta di eseguire l'incarico conferitogli contra legem e che verosimilmente non può ignorare che il rapporto contrattuale debba intendersi intercorso con il funzionario o l'amministratore, e quest’ultimo, che, nell'attribuirlo o nel consentirlo, si assume un obbligo personale diretto verso il terzo contraente per gli impegni assunti al di fuori od in violazione del procedimento contabile previsto dalla legge. Si precisa, inoltre, che la condotta del funzionario, idonea a giustificare tale scissione ex lege del rapporto organico con la PA, non debba necessariamente qualificarsi come attiva, ma possa piuttosto consistere anche nel mero consenso all’acquisizione della prestazione o della fornitura. Il legislatore è chiaro nell’utilizzare il verbo “consentire” per descrivere l’attività dell’agente, (8) Cass. civ. sez. I, 21 settembre 2015, n. 18567, secondo cui “il funzionario pubblico che abbia attivato un impegno di spesa per l'ente locale senza l'osservanza dei controlli contabili relativi alla gestione degli enti medesimi, risponde - ai sensi dell'art. 23, commi 3 e 4, del d.l. n. 66 del 1989, conv., con modif., dalla l. n. 144 del 1989, applicabile "ratione temporis" - degli effetti di tale attività di spesa verso il terzo contraente, il quale è, pertanto, tenuto ad agire direttamente e personalmente nei suoi confronti e non già in danno dell'ente, rispetto al quale è preclusa anche l'azione di ingiustificato arricchimento per carenza del necessario requisito della sussidiarietà, che è esclusa quando esista altra azione esperibile non solo contro l'arricchito, ma anche verso persona diversa”. (9) Cass. civ., 23 gennaio 2014, n. 1391. RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 escludendo la necessità di un ruolo attivo in capo al funzionario e delineando estensivamente il comportamento di chi, pur privo di un effettivo potere decisionale, ometta di manifestare il proprio dissenso e presti invece la sua opera come in presenza di una valida ed impegnativa obbligazione dell'ente locale. La ratio della norma non è da ricercare nella volontà del legislatore di introdurre una tutela supplementare a favore del privato contraente, quanto nella necessità di sanzionare le azioni anomale e le omissioni poste in essere dagli amministratori e dai funzionari in violazione delle disposizioni in materia. In altre parole, lo scopo della disposizione è essenzialmente quello di impedire un'irregolare attività negoziale, realizzata da un soggetto astrattamente idoneo ad impegnare l'Ente in virtù del rapporto di servizio e/o di rappresentanza, evitando quindi che detto anomalo comportamento possa determinare l'insorgenza di un'obbligazione giuridica a carico dell'Ente stesso. Si precisa che già l’articolo 252 del Testo Unico, R.D. n. 383 del 1934, prevedeva una disposizione non dissimile, che sanzionava la condotta del- l’amministratore, ma che prevedeva, tuttavia, una sua responsabilità solidale con quella dell’ente. (“gli amministratori che ordinano spese non autorizzate in bilancio, o non deliberate nei modi e nelle forme di legge, oppure ne contraggono l'impegno o danno esecuzione a provvedimenti non deliberati ed approvati nei modi di legge, ne rispondono in proprio ed in solido. Nello stesso modo rispondono gli amministratori che, avendo adottate ed eseguite deliberazioni da essi dichiarate d'urgenza o immediatamente esecutive, non ne abbiano poi ottenuto la ratifica o l'approvazione nei modi di legge”). Da un lato la disciplina del 1934 già anticipava la successiva del 1989 prevedendo, agli artt. 284 e 288, la nullità del contratto concluso dall’amministratore/ funzionario nel caso di nullità (10) (art. 284, secondo cui “le deliberazioni dei comuni, delle province e dei consorzi, che importino spese, devono indicare l'ammontare di esse e i mezzi per farvi fronte” e art. 288 secondo cui “sono nulle le deliberazioni prese in adunanze illegali, o adottate sopra oggetti estranei alle attribuzioni degli organi deliberanti, o che contengano violazioni di legge”) della delibera comunale o provinciale per mancata previsione del compenso dovuto al professionista; dall’altro l’art. 252 non conteneva analoga disciplina in relazione alla responsabilità del- l’amministratore. Sotto la sua vigenza, invero, nella ipotesi di nullità della (10) Cass. civ. S.U., 10 giugno 2005, n. 12195, “Nel vigore del combinato disposto degli art. 284 e 288 r.d. 383/34 (testo unico della legge comunale e provinciale), la delibera con la quale i competenti organi comunali o provinciali affidano ad un professionista privato l'incarico per la progettazione di un'opera pubblica, è valida e vincolante nei confronti dell'ente locale soltanto se contenga la previsione dell'ammontare del compenso dovuto al professionista e dei mezzi per farvi fronte. l'inosservanza di tali prescrizioni determina la nullità della delibera, nullità che si estende al contratto di prestazione d'opera professionale poi stipulato con il professionista, escludendone l'idoneità a costituire titolo per il compenso”. CoNTENzIoSo NAzIoNALE delibera e del successivo contratto per mancanza della copertura finanziaria, il soggetto che avesse effettuato la prestazione avrebbe potuto esperire nei confronti della P.A., che ne avesse riconosciuto l'utilitas, l'azione di indebito arricchimento di cui all'art. 2041 c.c. La proponibilità dell’actio de in rem verso è, invece, attualmente esclusa dall’art. 23 -applicabile al caso in esame ratione temporis, ma oggi trasfuso nell’art. 191 del TUEL -atteso che, essendo un'azione di carattere sussidiario che, come tale, presuppone l’impossibilità di esperire altro mezzo di tutela, la sua azionabilità deve escludersi in ragione della nuovo sistema di imputazione giuridica previsto dalla norma di cui supra. Conclusioni. Se i Giudici di primo e secondo grado avevano desunto le rispettive pronunzie dai principi generali in tema di azione di ingiustificato arricchimento -il Tribunale ne aveva escluso l’azionabilità sulla base dell’assenza del requisito di sussidiarietà, la Corte d’Appello aveva invece ammesso il rimedio sulla base del vantaggio ingiustificatamente percepito dall’Ente -, la Suprema Corte, nella sentenza in commento, pur operando una lettura completa della fattispecie, ha taciuto riguardo la lex generalis e la sua operatività nel caso di specie, disattendendo le motivazioni addotte dalle parti, ma avvalendosi piuttosto di un’operazione ermeneutica della disciplina normativa di dettaglio a tutela dell’integrità della finanza pubblica. La Corte dirime compiutamente la quaestio juris affidatale, tralasciando, tuttavia, di affrontare compiutamente i profili attinenti il titolo di responsabilità gravante sul funzionario, ad esempio sulla sua responsabilità amministrativa per il pagamento dell’acconto, le eventuali ripercussioni sul rapporto funzionario- ente, le concrete possibilità di tutela offerte al creditore insoddisfatto, lo spazio di intervento della giurisdizione contabile (11). Si auspica, dunque, (11) Chiarimenti si rinvengono nella giurisprudenza contabile. Corte dei Conti, reg., (Lombardia), sez. giurisd., 6 marzo 2003, n. 323, “la giurisprudenza contabile in materia di spese irregolari ruota, relativamente agli enti locali, intorno alla norma di cui all'art. 23 del d.lgs. n. 66/89, conv. con modificazioni nella legge n. 144/89 (la disposizione è stata riprodotta nell'art. 35 del d.lgs. n. 77/95 che disciplina l'ordinamento contabile degli enti locali e, in seguito, negli artt. 191 e ss. del t.U. approvato con d.lgs. n. 267/2000). la norma prevede che l'effettuazione di qualsiasi spesa è consentita se sussistano la deliberazione autorizzata nelle forme previste dalla legge e l'impegno contabile registrato dal ragioniere o dal segretario sul competente capitolo di bilancio di previsione. la procedura contabile di spesa delineata dalla suddetta norma è dunque la seguente: le spese dei Comuni debbono necessariamente essere precedute da delibera di autorizzazione, che deve essere adottata prima della nascita del vincolo, deve avere superato i controlli previsti e le procedure di pubblicazione e infine deve essere corredata dell'impegno contabile relativo sia all'attestazione della capienza dello specifico capitolo di bilancio, sia all'apprezzamento della copertura finanziaria consistente nella valutazione dell'incidenza della spesa sull'equilibrio generale di bilancio. Ciò non di meno, il pagamento dei c.d. "debiti fuori bilancio" non è impedito quando dalla controprestazione sia derivata un'utilità (utiliter coeptum) per l'ente, in ragione dell'ingiustificato arricchimento che altrimenti ne deriverebbe, ancorché tale pagamento non RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 un intervento che chiarisca e meglio argomenti i vari profili ancora poco chiari della fattispecie. Cassazione civile, Sezione I, sentenza 4 gennaio 2017 n. 80 -Pres. S. Salvago, Rel. P. Campanile, P.g. I. zeno (inammissibilità e/o rigetto del ricorso) - Comune di Venezia (avv.ti N. Paoletti, G. Guidoni, A. Iannotta, m. ballarin, N. ongaro e G. Venezian) c. R.G. (avv.ti m.T. barbantini Fedeli, G. Altieri). svolgimento del processo 1. Con sentenza depositata in data 1 agosto 2002 il Tribunale di Venezia rigettava la domanda avanzata da R.G., contitolare dell'impresa FEP, già dichiarata fallita e poi tornata in bonis, con la quale, premesso di aver inviato al Comune di Venezia in forza di una delibera della Giunta comunale, successivamente non ratificata, del materiale informatico, che era stato utilizzato, unitamente al software, nell'ambito dell'informatizzazione dei servizi cimiteriali, la cui gestione era stata affidata, anche mediante consegna di detti beni, all'AmAV, aveva chiesto che il Comune e l'Amav fossero condannati al pagamento delle somme corrispondenti all'indebito arricchimento conseguito da detta utilizzazione. 1.1. Il Tribunale fondava il rigetto della domanda sul rilievo della carenza del requisito della sussidiarietà, in quanto la R. avrebbe potuto esercitare l'azione di rivendicazione dei materiali consegnati. 1.2. Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Venezia, affermata l'estraneità al rapporto dell'Azienda Amav Vesta, in parziale accoglimento del gravame della R., ha condannato l'ente territoriale al pagamento della somma di Euro 57.833,77, oltre interessi, rilevando che, pur in assenza di un valido contratto, l'amministrazione comunale - che aveva per altro pagato la fornitura di parte del materiale inviato - aveva tratto un vantaggio dall'utilizzazione dei materiali e programmi ricevuti, traendo un arricchimento, da farsi valere con una domanda che non trovava corrispondenza in alcuna altra azione esperibile. interrompa il nesso di causalità nell'azione di responsabilità nei confronti di chi abbia deliberato l'acquisizione del servizio (cfr. sez. Campania, n. 30 del 28 aprile 2000 che, in questi casi, ritiene che il danno vada individuato nella quota dell'importo erogato al terzo che ecceda l'indebito arricchimento, ovvero, come nel caso di specie, nell'onere finanziario sostenuto dall'ente per interessi e spese giudiziali). su tali esborsi aggiuntivi si è pronunciata di recente la ii sezione Centrale, con la sentenza n. 85/a avanti richiamata, dalla quale si evince che l'ordinazione irregolare di spese prive di impegno contabile, che comporti l'impossibilità di un tempestivo pagamento in ragione della necessità di seguire una procedura di riconoscimento di debiti fuori bilancio, costituisce per un amministratore comunale una violazione di così elementari doveri di servizio, da doversi ritenere in re ipsa la connotazione di una colpa di rilevante gravità. Ne consegue, a mente della citata sentenza, l'emersione, a seguito di vittorioso giudizio monitorio avviato dal creditore insoddisfatto, di danni pubblici corrispondenti alle spese aggiuntive per oneri accessori del credito e per la rifusione delle spese legali, che non possono, quindi, non fare carico all'irregolare ordinatore di spesa e che sono, d'altra parte, prive di una qualche utilità per l'ente locale e per la stessa comunità amministrata” Corte Conti reg., (Emilia-Romagna), sez. giurisd., 27 gennaio 2000, n. 166, “sussiste danno erariale per il Comune in relazione alle somme eccedenti l'utilità conseguita dall'ente e corrispondenti all'utile di impresa, ove talune prestazioni siano state effettuate da una ditta a favore dell'amministrazione, senza la preventiva deliberazione ed il relativo impegno contabile, in violazione dell'art. 23 d.l. n. 66 del 1989 conv. in l. n. 144 del 1989”. CoNTENzIoSo NAzIoNALE 1.3. Per la cassazione di tale decisione il Comune di Venezia propone ricorso, affidato a tre motivi, cui la R. resiste con controricorso. Le parti hanno depositato memorie ai sensi dell'art. 378 c.p.c. Motivi della decisione 2. Con il primo motivo, si deduce violazione degli artt. 2041 e 2042 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Si sostiene che i beni inviati al Comune, e solo per errore dallo stesso trasmessi ad Amav, erano rimasti nella mera detenzione dell'ente ricorrente, ragion per cui, indipendentemente dall'inerzia della Fep e della curatela fallimentare, la possibilità di rivendicarli escludeva l'esperibilità dell'azione di indebito arricchimento. 2.1. Con il secondo si denuncia motivazione insufficiente e contraddittoria in relazione agli aspetti sopra evidenziati. 2.2. La terza censura attiene alla violazione dell'art. 2041 c.c., comma 2, in quanto, avendo l'arricchimento ad oggetto cose determinate, il Comune era eventualmente tenuto soltanto alla restituzione dei beni mai ordinati, e consegnati soltanto "a titolo di visione e prova". 3 -Il ricorso è fondato, per le ragioni, non del tutto coincidenti con quelle addotte dal Comune di Venezia, di seguito esposte. 3.1. Vale bene ribadire, in proposito, il principio secondo cui, in ragione della funzione del giudizio di legittimità di garantire l'osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, nonchè per omologia con quanto prevede la norma di cui all'art. 384 c.p.c., comma 2, deve ritenersi che, nell'esercizio del potere di qualificazione in diritto dei fatti, la Corte di cassazione può ritenere fondata la questione, sollevata dal ricorso, per una ragione giuridica diversa da quella specificamente indicata dalla parte e individuata d'ufficio, con il solo limite che tale individuazione deve avvenire sulla base dei fatti per come accertalinelle fasi di merito ed esposti nel ricorso per cassazione e nella stessa sentenza impugnata, senza cioè che sia necessario l'esperimento di ulteriori indagini di fatto, fermo restando, peraltro, che l'esercizio del potere di qualificazione non deve inoltre confliggere con il principio del monopolio della parte nell'esercizio della domanda e delle eccezioni in senso stretto, con la conseguenza che resta escluso che la Corte possa rilevare l'efficacia giuridica di un fatto se ciò comporta la modifica della domanda per come definita nelle fasi di merito o l'integrazione di una eccezione in senso stretto (Cass., 14 febbraio 2014, n. 3437; Cass., 17 maggio 2011, n. 10841; Cass., 22 marzo 2007, n. 6935). 3.2. Il tema della sussidiarietà dell'azione di indebito arricchimento, proposto dell'ente ricorrente sotto il profilo della possibilità di rivendicare i beni mobili a suo tempo consegnati non priva di aspetti problematici, in relazione, a tacer d'altro, alla già avvenuta assegnazione degli stessi da parte del Comune all'Amav -deve essere esaminato alla stregua della normativa, applicabile ratione temporis, di cui al D.L. n. 66 del 1989, art. 23, convertito nella L. n. 144 del 1989 , ed oggi rifluito nel D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 191. 3.3. Come risulta pacificamente, i beni posti a fondamento della pretesa della R. vennero consegnati in assenza di un valido rapporto contratioe al di fuori della previsione della delibera della Giunta in data 30 aprile 1990, con la quale, venne stanziata la spesa di Lire 71.400.000, e che, benchè inidonea, di per sè, alla costituzione di un rapporto obbligatorio, comportò, previa ratifica da parte del Consiglio comunale, il successivo pagamento di tale somma da parte dell'ente territoriale nell'anno 2000. Come si dà atto nell'impugnata decisione, il materiale in questione "tra cui mobili di ufficio e stampanti, mai ordinato e inviato solo a titolo di visione e prova", venne consegnato tra il 26 novembre 1990 ed il 26 giugno 1991. RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 4. Deve quindi ribadirsi il contenuto e la finalità della normativa sopra richiamata, la quale, secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass., 21 settembre 2015, n. 18567, Cass., 30 gennaio 2013, n. 24478; Cass., 27 marzo 2008, n. 7966), ha previsto un innovativo sistema di imputazione alla sfera giuridica diretta e personale dell'amministratore o funzionario degli effetti dell'attività contrattuale dallo stesso condotta in violazione delle regole contabili in merito alla gestione degli enti locali, comportante relativamente ai beni ed ai servizi acquisiti, una vera e propria frattura o scissione ope legis del rapporto di immedesimazione organica tra i suddetti agenti e la Pubblica Amministrazione, con conseguente esclusione della riferibilità a quest'ultima delle iniziative adottate al di fuori dello schema procedimentale previsto dalle norme c.d. ad evidenza pubblica. 4.1. La normativa in esame ha poi comportato la sostituzione del pregresso regime di nullità del contratto per effetto delle norme regolataci della sua formazione con quello della sua piena validità ed efficacia tra agente in proprio e fornitore (del quale sotto questo profilo viene incrementata la tutela) per via di una sorta di novazione soggettiva (di fonte normativa) dell'originario rapporto obbligatorio che avrebbe dovuto intercorrere con l'ente pubblico di cui l'agente è organo, con l'introduzione di una nuova disciplina del rapporto tra gli enti medesimi e i soggetti agenti, nonchè tra questi ultimi e i privati contraenti improntata a schemi privatistici. È stato quindi valorizzato, sia ai fini della controprestazione, che per ogni altro effetto di legge, il reale incontro di volontà tra il privato contraente (che nell'accettare di eseguire l'incarico conferitogli contra legem non possa ignorare che il rapporto contrattuale deve intendersi intercorso con il funzionario o l'amministratore ed assumere, quindi, volontariamente il rischio conseguente alla definitiva individuazione della parte contraente e patrimonialmente responsabile) e quest'ultimo, che, nell'attribuirlo o nel consentirlo, accetta, per converso, la propria responsabilità personale diretta verso il terzo contraente per gli impegni assunti al di fuori od in violazione del procedimento contabile previsto dalla legge. 4.2. A entrambi i contraenti, infine, non è consentito invocare la disposizione contenuta nell'art. 28 Cost. , che, nel contemplare la responsabilità dell'amministrazione accanto a quella degli agenti pubblici presuppone, in via di principio, che si tratti di attività riferibile all'ente stesso (Cass., 31 maggio 2005, n. 11597). 4.3. L' art. 23, comma 4, del citato D.L. n. 66 del 1989, poi riprodotto nel D.Lgs. n. 77 del 1995, art. 35, così dispone: "Nel caso in cui vi sia stata l'acquisizione di beni o servizi in violazione dell'obbligo indicato nel comma 3, il rapporto obbligatorio intercorre, ai fini della controprestazione e per ogni altro effetto di legge tra il privato fornitore e l'amministratore o il funzionario che abbiano consentita la fornitura. Detto effetto si estende per le esecuzioni reiterate o continuative a tutti coloro che abbiano reso possibili le singole prestazioni". L'interpretazione di tale disposizione, in relazione al senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse ( art. 12 preleggi ) e alla finalità della normativa, indiscutibilmente volta a prevenire il formarsi di debiti fuori bilancio a carico delle amministrazioni, esclude la necessità di un ruolo attivo in capo al funzionario. Infatti, l'uso del verbo "consentire" descrive il comportamento di chi, trovandosi privo del potere decisionale sul conferimento dell'incarico o l'acquisizione del bene, nell'esercizio delle sue funzioni permetta che avvenga l'acquisizione della prestazione o della fornitura, senza opporvisi per quanto dovuto nei limiti delle sue attribuzioni. Il disposto normativo è volto a far sì che un contrationon perfezionatosi secondo legge non pervenga alla fase esecutiva. A questo fine viene responsabilizzato l'amministratore o il funzionario che, chiamato ad ope CoNTENzIoSo NAzIoNALE rare, a cagione del suo ufficio, per la conclusione e l'attuazione del contratto, cooperi, lasci che la prestazione venga eseguita (così Cass., 9 ottobre 2014, n. 21340). 5. L'assenza di qualsiasi vincolo contrattuale e di una previsione di spesa rende la prestazione comunque resa dalla FEP assolutamente avulsa dal paradigma sopra evidenziato, e non può in alcun modo, essendo prevista la responsabilità del funzionario o dell'amministratore che la consentì, rendere predicabile l'esperimento dell'azione di indebito arricchimento nei confronti del Comune. 6. L'impugnata decisione, pertanto, deve essere cassata, ricorrendo, per altro, i presupposti, non essendo necessarie ulteriori acquisizioni, per la decisione nel merito, nel senso del rigetto della pretesa attorea. 7 - L'alternanza delle decisioni e il rilievo, indipendentemente dalle ragioni sostenute nel ricorso, dell'infondatezza della domanda, consigliano la compensazione delle spese processuali relative all'intero procedimento. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda proposta da R.G., nella qualità di titolare della ditta FEP, nei confronti del Comune di Venezia e di VESTA S.p.a., ora Veritas. Compensa interamente fra le parti le spese dell'intero giudizio. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Prima Civile, il 8 giugno 2016. RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 La Procura Generale presso la Corte di Appello non è legittimata ad impugnare le sentenze di primo grado in materia di adozione, nè quelle di adozione in casi particolari Nota a CoRte D’aPPello Di RoMa, sezioNe MiNoReNNi, seNteNza 23 NoveMBRe 2016 Emanuela Brugiotti* Con sentenza depositata il 23 novembre 2016 la Corte d’Appello di Roma, sezione minorenni, ha dichiarato inammissibile l’appello proposto dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Roma avverso la sentenza del Tribunale per i minorenni di Roma, n. 366 del 14 dicembre 2015, depositata in data 23 dicembre 2015, con visto del Pubblico ministero minorile in data 19 gennaio 2016. La vicenda giudiziaria trae origine dalla richiesta presentata ai sensi del- l’art. 44 lett. d) della l. n. 183/84 da parte di un cittadino italiano di adottare il figlio minore del proprio compagno. A seguito di un’approfondita analisi da parte dei Servizi Sociali, il Tribunale per i minorenni di Roma ha accolto la domanda, ritenendo nell’interesse del minore l’adozione, ed ha ordinato la comunicazione per esteso al Pubblico ministero minorile in sede. Questo non ha impugnato la sentenza, che pertanto ai sensi di legge è divenuta definitiva ed esecutiva, con conseguente trascrizione nel registro dello Stato Civile. Il 21 marzo 2016 la notizia è stata divulgata dai media nazionali ed è di- venuta di dominio pubblico, in un periodo in cui la tematica dell’adozione da parte delle coppie omosessuali era al centro di un acceso dibattito politico e sociale, anche per la concomitanza della discussione in Parlamento della legge sulle unioni omosessuali (approvata poi con la legge 20 maggio 2016 n. 76). Avverso tale sentenza e ben oltre i termini di legge ha fatto ricorso il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Roma, chiedendo di dichiarare nulla l’adozione speciale. A sostegno dell’impugnazione ed in particolare della legittimazione a proporre appello concorrente o in luogo di quella del Pubblico ministero presso il giudice a quo è stato argomentato che la denominazione di P.m. indicata nella normativa di riferimento sarebbe dovuta essere interpretata come riferita sia al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale sia al Procuratore Generale presso la Corte d’Appello sia al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione. Secondo la Procura, infatti, le regole generali relative al ruolo ed ai poteri del P.m. nei giudizi civili sono da rinvenire negli artt. 69 e ss. del c.p.c. e segnatamente nell’art. 72 c.p.c., in cui per le cause matrimoniali diverse dalle cause di separazione personale sarebbe prevista la legitti(*) Avv., Dottore di ricerca in Giustizia costituzionale e tutela dei diritti fondamentali (Università di Pisa), già praticante presso l’Avvocatura Generale dello Stato. CoNTENzIoSo NAzIoNALE mazione a proporre appello sia per il P.m. presso il giudice a quo sia per quello presso il giudice ad quem. La legge sulle adozioni non conterrebbe alcuna limitazione in tal senso. La Procura non ha taciuto l’esistenza di una giurisprudenza della Corte di Cassazione che esplicitamente ha ricondotto la competenza esclusivamente in capo al pubblico ministero presso il giudice che adottato il provvedimento impugnabile (Corte di Cassazione n. 6856 del 17 giugno 1995), tuttavia ha ritenuto che questa fosse superabile perché - a suo dire - datata e non suffragata da una motivazione sufficiente. Quanto al tempo dell’impugnazione, l’appellante ha eccepito che nei suoi confronti non era decorso il termine per impugnare, avendo avuto comunicazione della sentenza solo il 30 marzo 2016. Nel merito, invece, è stato eccepito: “1-carente e apparente motivazione, nullità del procedimento per difetto di istruttoria e indagine della situazione e composizione familiare; 2- nullità per omessa nomina di un curatore speciale del minore ai sensi dell’art. 78 c.p.c; 3-errore nell’applicazione dell’art. 44 lett. d) della l. 184/83; 4- mancata valutazione della sussistenza dell’interesse del minore”. In questa nota ci si soffermerà sull’eccezione processuale, relativa alla legittimità in capo al Procuratore Generale, perché è quella su cui ha deciso la Corte d’Appello con la sentenza in oggetto. Tuttavia, incidenter tantum, non può esser taciuto che con ogni probabilità anche le motivazioni di merito non avrebbero avuto sorte migliore, in considerazione della giurisprudenza sul punto (ci si riferisce, fra le tante, segnatamente alle sentenze della Corte d’Appello di Roma 23 dicembre 2015 e della Cass. n. 12962 del 26 maggio 2016, ma si vedano anche Corte di Cassazione n. 13525 del 5 aprile 2016, Corte di Cassazione n. 19599 del 30 settembre 2016 e Corte Costituzionale n. 225 del 5 ottobre 2016 -quest’ultima sul diritto del “genitore sociale” a mantenere rapporti con il minore) e le numerose pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo (v. infra). Venendo, quindi, all’eccezione pregiudiziale, questa appare per la verità nel complesso un tentativo tardivo, (ci sia consentito) piuttosto maldestro giuridicamente, di porre rimedio ad una decisione evidentemente non condivisa -di non impugnare - fatta dal Pubblico ministero minorile presso il Tribunale per i minorenni di Roma. Infatti, diversamente dal processo penale -in cui al P.m. è attribuita la titolarità della correlativa azione nell'interesse dello Stato -nel processo civile, che è processo privato di parti, la presenza del P.m. ha carattere eccezionale, perché derogatoria del potere dispositivo delle parti stesse, risultando normativamente prevista solo in ipotesi peculiari di controversie coinvolgenti anche un "interesse pubblico". Proprio in correlazione al rilievo che in determinate tipologie di giudizi è attribuito "pubblico interesse", le funzioni del P.m. in sede civile sono graduate dal legislatore nelle forme dell'intervento volontario (art. 70, comma RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 terzo, c.p.c.), dell'intervento necessario (nelle cause davanti alla Corte di Cassazione e nelle cause, tra l'altro, relative allo "stato e capacità delle persone", di cui, rispettivamente, ai commi secondo e primo, n. 3, del citato art. 70 c.p.c.) oppure anche del potere di azione, ove questo, ai sensi del precedente art. 69 del codice di procedura civile, sia espressamente previsto dalla legge (come nei casi, ad esempio, delle azioni per la nomina di un curatore speciale all'incapace, per la sostituzione dell'amministratore del patrimonio familiare, per l'apposizione di sigilli relativamente a beni ereditari, di cui agli artt. 79, 735, 754 c.p.c., oppure in relazione alle azioni per l'annullamento di deliberazioni sociali illegittime, per la nomina di un curatore allo scomparso, per la dichiarazione di assenza e di morte presunta, per la dichiarazione di interdizione, di cui, rispettivamente, agli artt. 23, 48, 50, 58, 85 cod. civ., ecc.). Il potere di impugnazione del P.m. è poi specificamente disciplinato (come ancor più penetrante in forma di suo coinvolgimento nel processo civile) dal- l'art. 72 c.p.c. che, testualmente, lo limita alle "sentenze relative a cause matrimoniali" (escluse quelle di separazione) ed alle "sentenze che dichiarino l'efficacia o l'inefficacia di sentenze straniere relative a cause matrimoniali". Per esegesi giurisprudenziale la facoltà di impugnazione è stata per altro riconosciuta al P.m. anche in relazione alle cause che (ex art. 69 c.p.c.) egli avrebbe potuto proporre, sul rilievo che il potere di azione trovi il suo naturale complemento in quello, appunto, di appello della sentenza che abbia deciso in senso difforme alla prospettazione dell'attore. È altrettanto fermo, però, nella stessa giurisprudenza il principio per cui, fuori di tali ipotesi, - e quindi anche nelle cause in cui il P.m. pur deve intervenire a pena di nullità - egli non è, comunque, legittimato all’impugnazione (cfr. Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, n. 27145 del 13 novembre 2008, Pres. Carbone, Rel. morelli). Pertanto, nel processo civile il potere di impugnazione del pubblico ministero riveste carattere eccezionale ed è esercitabile solo nei casi espressamente previsti dalla legge (cfr. Corte di Cassazione n. 487 del 13 gennaio 2014; Corte di Cassazione n. 13281 del 7 giugno 2006). Il quinto comma dell’art. 72 c.p.c. stabilisce, inoltre, che il potere di proporre appello spetta in concreto -nelle cause di cui ai commi terzo e quarto e soltanto in quelle -“sia al pubblico ministero presso il giudice che ha pronunciato la sentenza e sia a quello presso il giudice competente a decidere sull’impugnazione”. Nelle altre cause, invece, il potere spetta solo al P.m. presso il Giudice che ha pronunciato la sentenza, spettando invece al P.m. presso il Giudice dell’impugnazione il potere di compiere gli atti del giudizio impugnatorio. Inoltre, ai sensi dell'articolo 70 primo comma dell’ordinamento giudiziario (R.D. 30 gennaio 1941, n. 12): “le funzioni del pubblico ministero sono esercitate dal procuratore generale presso la corte di cassazione, dai procuratori generali della Repubblica presso le corti di appello, dai procuratori CoNTENzIoSo NAzIoNALE della Repubblica presso i tribunali per i minorenni e dai procuratori della Repubblica presso i tribunali ordinari”. La disposizione riconduce espressamente i poteri e le facoltà inerenti le funzioni di pubblico ministero all’ufficio funzionante presso il giudice procedente, salva diversa indicazione fornita dalla legge. Pertanto, in applicazione di quanto disposto dal sistema normativo e con motivazione chiara ed esauriente la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6856 del 17 giugno 1995, ha statuito che: “Dal disposto dell'art. 70 dell'ordinamento giudiziario, approvato con R.D. 30 gennaio 1941, n. 12 - a norma del quale le funzioni del pubblico ministero presso la Corte suprema di Cassazione e presso le corti d'appello sono esercitate da procuratori generali della Repubblica e presso i tribunali da procuratori della Repubblica -deriva che la legittimazione dell'ufficio del pubblico ministero si determina con riferimento al giudice competente a conoscere della domanda e spetta a quello funzionante presso tale giudice, e che la legittimazione ad operare nel singolo processo si trasferisce, nelle fasi d'impugnazione, all'ufficio del pubblico ministero funzionante presso il giudice del gravame. Pertanto, salvo deroghe espressamente previste (il ricorso nell'interesse della legge e le impugnazioni nei casi previsti dai commi terzo e quarto dell'art. 72 c.p.c.), legittimato a proporre l'impugnazione è l'ufficio funzionante presso il giudice che ha pronunciato la sentenza, anche se, proposta l'impugnazione, chi deve poi compiere i relativi atti nella fase di gravame è l'ufficio funzionante presso il giudice del- l'impugnazione” (Nella specie, la S.C., in applicazione dell'enunciato principio, ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione proposto dal procuratore della Repubblica presso il tribunale avverso una sentenza della corte d'appello in tema di atti dello stato civile). Il principio è stato poi ribadito anche dalla sentenza Cass. n. 7416 del 5 luglio 1995, secondo la quale il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale che ha emesso la sentenza impugnata è il solo pubblico ministero titolare del potere di impugnare la decisione di primo grado. Non solo, ma il fatto che non sia possibile interpretare l'indicazione del P.m. come facente riferimento indifferentemente sia a quello presso il giudice a quo che a quello presso il giudice ad quem è confermato anche dalla costante giurisprudenza di legittimità che mantiene distinti i rispettivi uffici. Si veda, ad esempio, la sentenza della Corte di Cassazione n. 23379 del 9 novembre 2007, la quale ha affermato che nel procedimento di divorzio con figli minori o incapaci ai sensi della legge 898/70 il P.m. è litisconsorte necessario insieme alle parti private ed è titolare di un autonomo potere di impugnazione in relazione agli interessi patrimoniali degli stessi figli. Conseguentemente secondo la Corte, se uno dei coniugi ha proposto appello avverso un capo della sentenza di primo grado, riguardante i predetti interessi, il relativo atto di appello deve essere notificato anche al P.m. presso il Tribu RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 nale e, in difetto di notifica, il giudice di secondo grado deve disporre l'integrazione del contraddittorio nei suoi confronti a norma dell'art. 331 c.p.c.; tale integrazione è necessaria anche quando nel giudizio sia ritualmente intervenuto il P.G. presso la Corte d'Appello, atteso che il P.m. presso il giudice ad quem non ha il potere di impugnare la sentenza di primo grado, e, pertanto, dal suo intervento non possono conseguire gli effetti cui è intesa l'integrazione del contraddittorio, ai sensi dell'articolo del c.p.c. suddetto. Nella sentenza della Corte d’Appello di Roma del 23 novembre 2016, qui in commento, il Collegio ha prima individuato le norme applicabili alla fattispecie e cioè l’art. 56 della legge sulle adozioni (L. n. 184/1983), che a sua volta rinvia alla disciplina prevista dagli artt. 313 e 314 del c.c. sull’adozione dei maggiorenni. Successivamente, in perfetta sintonia con il quadro giuridico sopra delineato, ha interpretato la legittimazione all’impugnazione del pubblico ministero ai sensi dell’art. 313 c.c. come riferibile esclusivamente a quello presso il giudice a quo. La cd doppia impugnazione, precisa la Corte, è infatti una scelta fatta dal legislatore solo in determinate materie, “ma in presenza di una disposizione che attribuisca la facoltà di impugnazione al “pubblico ministero” senza altro aggiungere o precisare deve trovare applicazione il principio generale desumibile dall’art. 72, 1 comma c.p.c. (…) secondo il quale il diritto di impugnazione spetta esclusivamente al pubblico ministero presso il giudice a quo, perché egli soltanto si pone nella veste di attore o di interventore nella fase processuale che si è conclusa con la pronuncia impugnata ed è conseguenzialmente equiparabile alle parti private. Dunque, in linea generale nel processo civile il Pg può impugnare solo ed esclusivamente le sentenze di primo grado in materia matrimoniale ai sensi dell’art. 72, v comma c.p.c, con esclusione di tutte le altre”. Quindi, in materia di adozione e a maggior ragione nei procedimenti di adozione in casi particolari, in cui non è neanche previsto un potere di iniziativa processuale del pubblico ministero minorile di primo grado, il Procuratore Generale non è legittimato a proporre impugnazione. D’altronde questo principio di diritto è stato sempre applicato sul territorio nazionale, in primis dalla stessa Procura Generale presso la Corte d’Appello di Roma. Sarebbe abbastanza contraddittorio che il Procuratore, pur ritenendo tale interpretazione contra legem, l’abbia esso stesso “tollerata”. Infatti, l’interesse pubblico alla verifica della sussistenza dell’interesse del minore al riconoscimento giuridico di un rapporto di fatto già esistente con il richiedente l’adozione è presente in tutti i procedimenti di adozione in casi particolari. Ciò nonostante, solo in questa specifica fattispecie la Procura Generale ha ritenuto dovesse essere applicata un’interpretazione differente della normativa. In tal modo, sostanzialmente identificando nell’orientamento sessuale dell’adottante e del padre biologico del minore l’elemento differenziale rispetto gli altri casi, tale da giustificare la sua proposizione del gravame. CoNTENzIoSo NAzIoNALE Tuttavia, tale ricostruzione, non solo si discosta come indicato dal quadro normativo disciplinante il potere di impugnazione del P.G., ma viola altresì l’art. 2 Cost. che tutela i diritti fondamentali della persona sia come singolo sia nelle formazioni sociali (e in queste rientrano anche le unioni omosessuali, si vedano le sentenze della Corte Costituzionale n. 138 del 14 aprile 2010 e n. 170 dell’11 giugno 2014 e l’art. 1, comma 1 Legge 71 del 20 maggio 2016 sulle Unioni civili), il principio di uguaglianza ed il principio del giusto processo sanciti dalla Costituzione (artt. 3 e 111). In particolare, al primo comma dell’art. 3 della Costituzione sono indicate una serie di discriminazioni tipiche vietate dalla Costituzione. Si tratta di un elenco che, seppur non tassativo, indica il cd “nucleo forte” del principio di uguaglianza, cioè una serie di qualità (sesso, razza, lingua, religione ecc.) che il legislatore e l’interprete del diritto sono tenuti a non considerare come eventuali presupposti giustificativi per operare scelte legislative/interpretative differenziate. Si crea dunque una “presunzione di incostituzionalità” della legge o delle interpretazioni di questa che introducessero un trattamento normativo differenziato in ragione di uno di detti profili, con onere -sindacabile -del legislatore o dell’interprete di provarne la legittimità dimostrandone la non arbitrarietà, razionalità e congruenza con il sistema normativo nell’ambito del bilanciamento tra i diversi principi costituzionali coinvolti. Tale scrutinio di ragionevolezza “deve essere tanto più intenso e più rigoroso quanto è più rilevante, come nella specie, il diritto su cui incide” (Corte costituzionale n. 519 del 1995). In questo caso, in mancanza di adeguata motivazione si incorrerebbe in un’inammissibile valutazione negativa fondata esclusivamente sull’orientamento sessuale (cfr. Cassazione, sent. n. 12926 del 26 maggio 2016), violando non solo, il testo costituzionale, ma anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 21) e la Convezione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (artt. 6, 8 e14). Il principio di non discriminazione, sancito dall’art. 3 Cost., è ormai inserito, infatti, in un “sistema multilivello” di garanzia (cfr. Corte costituzionale n. 317 del 2009). La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, i cui principi sono stati recepiti dall’art. 6 del Trattato sull’Unione europea che le attribuisce lo stesso valore giuridico dei Trattati, ha cancellato la diversità di sesso dai requisiti per la legittima costituzione di una famiglia (art. 9) e ha vietato ogni discriminazione basata su “l’orientamento sessuale” (art. 21). È poi giurisprudenza consolidata della Corte Edu quella secondo cui una disparità di trattamento fondata sull’orientamento sessuale degli interessati, per risultare ammissibile, richiede giustificazioni particolarmente chiare e circostanziate (si vedano fra le altre vallianatos e altri contro grecia, Grande Camera, del 7 novembre 2013 -Ricorsi n. 29381/09 e n. 32684/09, § 77; e.B. contro Francia, Grande camera, del 22 gennaio 2008, ricorso n. 43546/02 § 9). RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 Le medesime considerazioni sono svolte dalla Corte EDU per quanto riguarda il combinato disposto dell’art. 14 e dell’art. 6, comma 1 CEDU. Come ribadito, ad esempio, nel caso Paraskeva todorova c. Bulgaria, sentenza del 26 marzo 2010, ricorso n. 37193/07, pur non rientrando fra i compiti della Corte sostituirsi alle giurisdizioni interne nella valutazione dei fatti di causa e nel- l’interpretazione del diritto interno, questa è tenuta comunque a garantire che la procedura seguita nella trattazione del caso sia stata equa, anche sotto il punto di vista del divieto di discriminazione previsto dall’art. 14 CEDU. Questo, infatti, come già indicato, vieta qualsiasi differenza ingiustificata nel godimento dei diritti e delle libertà garantiti dalla Convenzione sulla base dei criteri, non esaustivi, indicati nello stesso articolo, fra cui rientra l’orientamento sessuale. Per quanto riguarda l’art. 8 della CEDU è sufficiente in questa sede indicare la recente sentenza oliari e altri c. italia del 21 luglio 2015, ricorsi nn. 18766/11 e 36030/11, nella quale la Corte EDU richiama la propria recente giurisprudenza in tema di diritti delle coppie same sex (schalk and Kopf e vallianatos) e ribadisce che le coppie formate da persone dello stesso sesso hanno la medesima capacità di dare vita ad una relazione stabile tutelata dall’art. 8 della Convenzione. Nella fattispecie oggetto della presente nota, quindi, l’interpretazione della normativa che rispetti la disciplina prevista dalla legge sui poteri del P.G., la Costituzione e le norme sovranazionali non può che essere quella stabilita dalla Corte d’Appello con la sentenza del 23 novembre 2016. Non sussiste alcun ragionevole motivo, per cui in questo caso ci si debba discostare dal quadro giuridico vigente, introducendo di fatto una discriminazione illegittima, oltre che un’evidente violazione di legge. Corte di appello di Roma, Sezione Minorenni, sentenza 23 novembre 2016 -Pres. est. Rosaria Ricciardi -Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d'Appello di Roma c. (...) (avv.ti Figone e menichetti). in fatto e in diritto Con sentenza ... il Tribunale per i minorenni di Roma, previo parere sfavorevole del P.m.m., su ricorso di ..., visto l'art. 44 lett. d) della legge n. 184/1983 come modificato dalla Legge 149/2001 ha dichiarato farsi luogo all'adozione di ... da parte di ... disponendo che il minore aggiunga il cognome dell'adottante al proprio e si denomini ..., ha ordinato la comunicazione per esteso al ricorrente, a1 padre del minore, al municipio Roma, una volta divenuta esecutiva all'Ufficiale dello Stato civile del Comune di Roma per la trascrizione di rito. Avverso tale sentenza con ricorso ha proposto appello il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Roma ed ha chiesto dichiarare nulla l'adozione speciale di .... nei confronti del minore non ricorrendone i presupposti di legge. L'appellante ha dedotto a sostegno dell'appello, quanto alla legittimazione attiva del Procuratore Generale presso la Corte d'Appello a proporre appello concorrente o in luogo di quella del Pmm di primo grado, che con la denominazione di Pm devono identificarsi sia il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale -Pmm -sia il Procuratore Generale presso la CoNTENzIoSo NAzIoNALE Corte d' Appello, sia il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione e che le regole generali del ruolo del Pm nel processo civile sono dettate dagli artt. 69 e segg. c.p.c. ed in specie prevedendo l'art. 72 c.p.c. per le cause matrimoniali diverse dalla separazione personale che possa presentare appello sia il Pm del giudice a quo, sia il Pm del giudice ad quem, laddove nella legge sulle adozioni non era contenuta alcuna limitazione della facoltà di impugnare in appello al solo Pm di primo grado e la contraria sentenza della S.C. n. 6856/1995 che indica invece una competenza riservata al solo ufficio del Pm presso il giudice a quo, oltre ad esser alquanto datata non era sorretta da esauriente motivazione. L'appellante ha dedotto, altresi, quanto al tempo dell'impugnazione che la cancelleria del Tm aveva apposto la dicitura dell'irrevocabilità per il decorso dei termini per impugnare dalla notifica per esteso alle parti, tuttavia per l'ufficio del PG presso la Corte d'Appello il termine per impugnare non era decorso non essendo stata effettuata la notifica della sentenza se non all'esito di espressa richiesta inoltrata dallo stesso ufficio del PG alla cancelleria la quale vi aveva provveduto in data 30 marzo 2016 con la trasmisione di copia della sentenza. Né in proposito valeva al riguardo la circostanza che le prassi degli uffici, Tm e Procura Generale, erano state finora di non notificare le sentenze di adozione, prassi tollerata dal secondo. L'appellante ha dedotto nel merito: 1-carente e apparente motivazione, nullità del procedimento per difetto di istruttoria, e indagine non approfondita della situazione e composizione familiare; 2-nullità per omessa nomina di un curatore speciale del minore ai sensi dell'art. 78 c.p.c.; 3-errore nell'applicazione dell'art. 44 lett. d) L. 184/1983; 4-mancata valutazione della sussistenza dell'interesse del minore. Si sono costituiti ... con separate comparse ed hanno eccepito in via preliminare l'inammissibilità dell'appello per difetto di legittimazione attiva del Procuratore Generale presso la Corte d'Appello, inammissibilità dell'appello per inosservanza dei termini per impugnare scaduti il 18 febbraio 2016, inammissibilità dell'appello per il passaggio in giudicato della sentenza e conseguente già intervenuta annotazione allo Stato civile. In subordine nel merito hanno chiesto il rigetto per infondatezza dei motivi sia in fatto, sia in diritto con vittoria di spese competenze ed onorari. All'udienza dell'8 novembre 2016, presenti le parti personalmente, sulle conclusioni delle parti la Corte ha riservato la decisione. osserva la Corte. È preliminare ed assorbente su ogni altra questione prospettata dalle parti l'esame della eccezione di difetto di legittimazione attiva ad impugnare del Procuratore Generale presso la Corte d'Appello. L'eccezione è fondata. La sentenza impugnata ha ad oggetto la dichiarazione di farsi luogo all'adozione nei casi particolari ... da parte di ... disciplinata nel titolo IV della legge 183/1984 dagli art. 44 lett. D e seg. Dunque, la norma che regola l'impugnazione avverso la sentenza è l'art. 56 della legge citata che richiama gli art. 313 e 314 cod.civ. L'art. 313 cod. civ. al secondo comma indica i soggetti legittimati ad impugnare la sentenza entro 30 giorni dalla comunicazione: l'adottante, il pubblico ministero, l'adottando. L'art. 314 cod. civ. attiene alla pubblicità della sentenza di adozione e alla sua trascrizione e annotazione a cura dell'ufficiale di stato civile. La tesi del PG appellante il quale sostiene che il Pm deve identificarsi sia nel Pm presso il giudice a quo - Pmm - sia nel Pm presso la Corte di appello - PG - non è condivisibile. Come ha chiarito la giurisprudenza di legittimità la c.d. doppia impugnazione è una scelta RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 normativa fatta dal legislatore in determinate materie (ad es. nelle cause matrimoniali ai sensi dell'art. 72 5 comma c.p.c., ove si statuisce che "nelle ipotesi prevedute nei commi terzo e quarto la facoltà di impugnazione spetta tanto al pubblico ministero presso il giudice che ha pronunciato la sentenza quanto a quello presso il giudice competente a decidere sull'impugnazione"), ma in presenza di una disposizione che attribuisca la facoltà di impugnazione al "pubblico ministero" senza altro aggiungere o precisare, deve trovare applicazione il principio generale desumibile dall'art. 72 1 comma c.p.c. ("il pubblico ministero che interviene nelle cause che avrebbe potuto proporre ha gli stessi poteri che competono alle parti e li esercita nelle forme che la legge stabilisce per queste ultime"), secondo il quale diritto di impugnazione spetta esclusivamente al pubblico ministero presso il giudice a quo, poiché egli soltanto si pone nella veste di attore o di interventore nella fase processuale che si è conclusa con la pronuncia impugnata ed è conseguezialmente equiparabile alle parti private. Dunque in linea generate nel processo civile il PG può impugnare solo ed esclusivamente le sentenze di primo grado in materia matrimoniale ai sensi dell'art. 72 V comma c.pc., con esclusione di tutte le altre. Tali principi sono stati più volte affermati dalla giurisprudenza della SC, vuoi nella sentenza indicata dal PG (Cass. 6856/1995), vuoi con sentenza successiva: "la legittimazione a proporre impugnazione da parte dell'ufficio del Pubblico Ministero si determina avendo riguardo all’ufficio funzionante presso il giudice che ha pronunciato la sentenza, salvo deroghe espresse: anche se, proposta l'impugnazione stessa, legittimato a compiere i relativi atti nella fase di gravame è l’ufficio funzionante presso il giudice dell'impugnazione" (così: Cass. i 2236/2003). A nulla giova che nel processo penale sia prevista la titolarità della correlativa azione nell'interesse dello Stato, con legittimazione concorrente del Pm presso il giudice a quo e del PG presso il giudice ad quem e autonoma del PG ex art. 570 c.p.p. in quanto nel processo civile, che è processo privato delle parti, la presenza del Pm ha carattere eccezionale perché derogatoria del potere dispositivo delle parti stesse, risultando normativamente prevista solo in ipotesi peculiari di controversie coinvolgenti anche un “interesse pubblico" (cosi Cass. Sez. Un. 27145/2008). Da tanto consegue come in mancanza di una previsione contraria che abiliti anche il PG presso la Corte di Appelto all’impugnazione delle sentenze in materia adozionale pronunciate in primo grado non potrà che trovare applicazione la regola generale precedentemente esposta di cui al quinto comma dell'art. 72 cpc, ovvero il PG ha la legittimazione concorrente con il Pm all'impugnazione delle sentenze di primo grado solo ed esclusivamente rese nella materia matrimoniale. Ne discende che il PG dunque non è legittimato ad impugnare sentenze in materia di adozione, né a fortiori quelle di adozione nei casi particolari (per le quali tra l'altro non è neppure previsto il potere del Pmm di iniziativa processuale in primo grado). L'appello va dichiarato inammissibile. Nulla sulle spese, stante la qualità di parte in senso solo formale del Procuratore Generale (così Cass. già citata 27145/2008 e Cass. 12962/2016). P.Q.m. La Corte pronunciando sull'appello proposto dal Procuratore Generale presso la Corte d'Appello avverso la sentenza n. 366/2015 del Tribunale per i minorenni di Roma, così provvede: - dichiara l’inammissìbilità dell’appello. - nulla sulle spese. Così deciso nella camera di consiglio dell’8.11.2016. CoNTENzIoSo NAzIoNALE Il danno ricevuto dai medici specializzandi ante d.lgs. 257/1991 ed il relativo onere della prova Nota a CoRte Di aPPello Di NaPoli, PRiMa sezioNe Civile, seNteNza 2 DiCeMBRe 2016 N. 4282 Giuseppe Arpaia* il danno ricevuto da un medico specializzato ante 1991 per non avere percepito la borsa di studio a causa del ritardo da parte del legislatore italiano nella attuazione delle Direttive comunitarie non può presumersi, per avere lo stesso seguito un corso di specializzazione rientrante tra quelli previsti dalla direttiva 75/362/Cee, nonché in base all'indizio presuntivo che lo specializzando lo avrebbe ragionevolmente frequentato anche nel diverso regime conforme alle prescrizioni comunitarie, ma va, al contrario, provato; tale danno, considerato che la partecipazione al corso di specializzazione ante 1991 era compatibile con lo svolgimento di altre attività professionali, da cui lo specializzando poteva ricavare lucro, può essere costituito dal mancato svolgimento di queste ultime per avere il predetto frequentato a tempo pieno la specializzazione e la prova su tale modalità di frequenza, costituente il danno, grava sullo specializzato, diversamente da quanto affermato dal giudice di primo grado, che aveva ritenuto fosse onere dell'amministrazione, quale soggetto inadempiente, provare che lo specializzando avesse percepito altri introiti (cd. aliunde perceptum). la prova del tempo pieno deve risultare da documentazione di provenienza dall'Università attestante la frequenza del corso da parte dello specializzando e le modalità orarie con cui il corso era organizzato. La sentenza della Corte di Appello di Napoli, che si commenta, ha accolto l’impugnazione proposta dall’Avvocatura di Stato avverso la sentenza n. 1072/13 del 24 gennaio 2013, resa dal Tribunale di Napoli, che aveva ritenuto meritevole di accoglimento la domanda risarcitoria avanzata da un medico, che aveva frequentato dal 1983 al 1987 la scuola di specializzazione in Pediatria, per inadempienza dello Stato Italiano nell'attuazione tempestiva delle direttive comunitarie, consistente nella mancata remunerazione dell'attività professionale espletata dal predetto durante il corso di specializzazione, quantificando il danno in via equitativa secondo i criteri desumibili dall'art. 11 della l. n. 370/99. la sentenza di primo grado. Il Tribunale di Napoli con la sentenza n. 1072 del 24 gennaio 2013 aveva affermato, in sintesi, che dal mancato tempestivo adeguamento della legislazione interna alle direttive comunitarie n. 362 del 1975 e n. 76 del 1982 discendeva, in conformità al principio affermato dalla Corte di Giustizia con la sentenza del 25 febbario 1999 (secondo il quale "il diritto comunitario impone agli stati membri di risarcire i danni causati ai singoli dalla mancata attua (*) Avvocato dello Stato. RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 zione di una direttiva purché siano soddisfatte tre condizioni, vale a dire la norma violata abbia lo scopo di attribuire diritti a favore dei singoli il cui contenuto possa essere identificato, che la violazione sia sufficientemente grave e che esista un nesso di causalità diretta tra la violazione dell'obbligo imposto allo stato e il danno subito dal soggetto leso”), che unico rimedio concesso agli interessati era l'azione di risarcimento del danno, consistente nella perdita di chance di ottenere i benefici resi possibili dalla tempestiva attuazione delle predette direttive e ciò in linea con quanto affermato dalla Corte di Cassazione (Cass. 10 marzo 2010, n. 5842; Cass. SS.UU. 17 aprile 2009, n. 9147) secondo cui le direttive in questione erano idonee a conferire alla pretesa del medico specializzando la consistenza di diritto soggettivo dalla cui lesione sorge l'obbligo di risarcire tutti i danni che ne sono conseguiti, tra cui quello della mancata percezione della retribuzione. Tuttavia, aveva rilevato il Tribunale, l'obbligazione in parola si distingueva da quella risarcitoria ex art. 2043 c.c. per la peculiarità della sua fonte, essendo il contenuto solo lato sensu risarcitorio: al danneggiato doveva riconoscersi un credito di natura indennitaria alla riparazione del pregiudizio subito per effetto del cd. fatto illecito del legislatore rivolto a compensare, senza che operino i criteri di imputabilità per dolo o colpa, l'avente diritto della perdita subita in conseguenza del ritardo oggettivamente apprezzabile. Nella fattispecie, la domanda risarcitoria poteva essere accolta, in quanto la specializzazione frequentata dall'attore rientrava tra quelle menzionate nella Direttiva 75/362/CEE e tale frequenza costituiva indizio presuntivo che lo stesso avrebbe frequentato anche una scuola sotto- posta al regime conforme alle prescrizioni comunitarie: requisito quest'ultimo che integrava l'esistenza della prova di un danno effettivo subito dall'attore, non potendo il medico essere gravato della prova di non avere percepito, durante la formazione, altre remunerazioni o borse di studio, trattandosi di circostanze eventualmente rilevanti a titolo di aliunde perceptum il cui onere della prova andava posto a carico del soggetto inadempiente (cfr. Cass. 27 gennaio 2012, n. 1182). Pertanto, il Giudice di prime cure aveva condannato la Presidenza del Consiglio dei ministri alla liquidazione del danno. i motivi di impugnazione. La predetta pronuncia é stata oggetto di impugnazione, in quanto dal- l'inadempienza dello Stato italiano nell'attuazione tempestiva delle direttive riguardanti le scuole di specializzazione medica essa ha tratto la conclusione che sia derivato un danno all'attore solo per avere lo stesso frequentato una specializzazione nominalisticamente rientrante tra quelle menzionate agli articoli 5 e 7 della direttiva 75/362/CEE, mentre da un comportamento inadempiente non discende necessariamente l'esistenza di un danno e se questo in concreto esiste deve essere provato. CoNTENzIoSo NAzIoNALE La sentenza è stata censurata in quanto si é posta in contraddizione con le norme di legge in materia di responsabilità civile, che richiedono tanto in caso di responsabilità contrattuale che aquiliana non solo la prova del fatto illecito, bensì anche del danno effettivo che si lamenta esserne derivato. E tale danno non poteva essere desunto dalla frequentazione ad un corso di specializzazione nominalisticamente rientrante tra quelle elencate nella sopra citata direttiva, in quanto queste ultime, a seguito della attuazione della normativa comunitaria, erano state integralmente riorganizzate con la previsione di un tempo pieno e l'esclusione di possibili impegni ulteriori nell'ambito privato e/o del Servizio Sanitario Nazionale. Pertanto, doveva ritenersi del tutto inutile la prova per presunzione del- l'esistenza del danno che l'attore avrebbe frequentato, se fosse esistita, una scuola con obbligo del tempo pieno. Infatti, ciò che rileva ai fini della prova del danno subito non era ciò che il medico avrebbe scelto di fare se nel periodo di frequenza alla specializzazione vi fossero state scuole con l'obbligo del tempo pieno, bensì se l'attore avesse subito un danno effettivo in ragione delle scelte che aveva compiuto (o era stato costretto a compiere) in presenza di una legislazione che non imponeva alle scuole di specializzazione l'obbligo del tempo pieno e del conseguente regime di incompatibilità con lo svolgimento di altre attività professionali. Ne discende che il danno nascente per l'attore da una situazione di inadempimento del legislatore italiano alle direttive comunitarie poteva essere costituito dalla prova di avere dovuto frequentare a tempo pieno il corso di specializzazione, perché tale prova costituiva circostanza che rendeva incompatibile di fatto la possibilità di svolgimento di altra attività remunerativa. In tal modo dalla situazione di inadempimento del legislatore italiano nell'attuare le direttive poteva discendere un danno per l'attore, che oltre a non avere percepito un'adeguata remunerazione in termini di borsa di studio, non aveva potuto neppure fruire di introiti sostitutivi. Pertanto, oggetto di prova era costituito non già dall'aliunde perceptum, il cui onere era ritenuto a carico dell'Amministrazione inadempiente alle direttive (vera probatio diabolica), bensì dalla avvenuta frequentazione della specializzazione ante 1991 a tempo pieno, il cui onere della prova era a carico dell'attore sia per il principio della vicinanza della prova, trattandosi di fatti molto risalenti nel tempo, sia per i principi generali in tema di risarcimento del danno. la sentenza della Corte di appello di Napoli. La Corte di Appello con la sentenza che si commenta ha accolto l'impugnazione riformando radicalmente la pronuncia di primo grado, condividendo la necessità di una prova rigorosa del danno costituito dalla frequenza a tempo pieno del corso di specializzazione. RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 Essa ha richiamato le sentenze della Corte di Cassazione, secondo le quali "la frequenza a tali corsi (ossia quelli ante 1991), in mancanza dell'adeguamento alle direttive, si concretava nella impossibilità di conseguire l'adeguata remunerazione, per cui il medico, nell'individuare e provare la pretesa risarcitoria conseguente all'inadempimento statuale non aveva altro onere che dimostrare detta frequenza. essa, congiunta all'inadempimento statuale per come sopra indicato, integrava i fatti costitutivi dell'obbligo risarcitorio dello stato nei termini indicati dalla sentenza n. 9147 del 2009 e, quindi della relativa domanda" (cfr. Cass. 2357/11); al riguardo la Corte Partenopea ha ritenuto idonea documentazione ai fini della prova il certificato del direttore della scuola attestante la frequenza del medico al corso di specializzazione e delle modalità orarie con cui il corso era organizzato, richiamando sul punto la sentenza della Suprema Corte n. 1182/2012. La Corte di Appello di Napoli ha affermato la necessità della prova del danno da parte del medico che frequentò la specializzazione, senza affrontare la questione della natura giuridica dell'obbligazione dello Stato italiano nascente dalla ritardata attuazione delle direttive comunitarie. Come é noto, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza del 17 aprile 2009, n. 9147 hanno affermato il principio, poi ribadito dalla successiva giurisprudenza, secondo il quale, in caso di omessa o tardiva trasposizione da parte del legislatore italiano delle direttive comunitarie (nella specie, le direttive n. 75/362/CEE e n. 82/76/CEE non autoesecutive), sorge, conformemente ai principi affermati dalla Corte di Giustizia, il diritto degli interessati al risarcimento dei danni, che va ricondotto allo schema della responsabilità per inadempimento dell'obbligazione ex lege dello Stato, di natura indennitaria, per attività non antigiuridica, ritenendosi che la condotta dello Stato inadempiente sia suscettibile di essere qualificata come antigiuridica nell'ordinamento comunitario, ma non anche alla stregua dell'ordinamento interno. La qualificazione dell'obbligazione come indennitaria deriva dalla considerazione che la giurisprudenza della Corte di Giustizia esige che l'obbligazione risarcitoria dello Stato non sia condizionata al requisito della colpa, per cui le Sezioni Unite hanno collocato la responsabilità dello Stato nell'ambito della norma generale dell'art. 1173 c.c., svincolandola dai presupposti soggettivi dell'art. 2043 c.c. Dalla natura indennitaria e non risarcitoria dell'obbligazione dello Stato la giurisprudenza ha ritenuto che ai fini della relativa quantificazione vada scelto un parametro equitativo, quale quello desumibile dalla legge 19 ottobre 1999, n. 370, in quanto fondato sul criterio di parità di trattamento per situazioni analoghe (cfr. Corte di Cassazione 18 ottobre 2011, n. 21498). Ritenere sussistente una responsabilità contrattuale dello Stato per ritardata attuazione delle direttive comunitarie finisce, tuttavia, con agevolare la prova del danno da parte dei medici, che diviene quasi presunto, potendosi li CoNTENzIoSo NAzIoNALE mitare gli interessati a dover provare di avere frequentato genericamente nel periodo 1983-1991 una scuola di specializzazione solo nominalisticamente corrispondente ad una di quelle elencate agli articoli 5 e 7 della direttiva 75/362/CEE, per sentirsi riconoscere l'indennizzo, senza che gli stessi siano gravati dalla prova di avere in concreto subito un danno per non avere percepito altre remunerazioni, durante il periodo di formazione. La pronuncia della Corte di Appello, che si commenta, nell'affermare la sussistenza dell'onere di una rigorosa prova del danno subito da parte del medico attore, costituito dalla frequenza a tempo pieno, ad avviso di chi scrive, viene a superare le conseguenze che scaturiscono dalla ritenuta natura indennitaria dell’obbligazione dello Stato. Il tempo dirà se vi sarà un ripensamento da parte della giurisprudenza sulla ritenuta natura contrattuale dell'obbligazione dello Stato nei confronti dei medici specializzati in questione, che, se approfondita, potrebbe condurre a qualificare la responsabilità dello Stato per mancato recepimento delle direttive in materia di specializzazioni mediche in termini extracontrattuali, così come prevede in via generale l'art. 4, co. 43, della legge 12 novembre 2011, n. 183. Come è noto, la previsione di legge ultima citata é ritenuta inapplicabile dalla giurisprudenza al contenzioso dei medici specializzati in questione, trattandosi di fattispecie realizzatasi anteriormente alla entrata in vigore della predetta legge, che è stata qualificata dalla Corte di Cassazione, come norma innovativa e non interpretativa (cfr. e pluribus, sentenze 29 marzo 2012, n. 5065, 26 marzo 2012, n. 4785, 9 febbraio 2012, n. 1917). Corte di appello di Napoli, Prima Sezione Civile, sentenza 2 dicembre 2016 n. 4282 - Pres. m.R. Cultrera, Cons. rel. A. Tabarro - Presidenza del Consiglio dei ministri, ministero dell’Istruzione, della Università e della Ricerca, Università degli Studi di Napoli “Federico II” (avv. Stato G. Arpaia) c. m.T. (avv. m. Villa). RAGIoNI DI FATTo E DI DIRITTo DELLA DECISIoNE Con atto di citazione ritualmente notificato m.T. conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Napoli la Presidenza del Consiglio dei ministri, il ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, nonchè l'Università degli Studi di Napoli "Federico II" per sentir condannare il mIUR e/o la Federico II al pagamento in suo favore della somma di € 11.000,00 per ciascun anno di frequenza della scuola di specializzazione in Pediatria istituita presso la Facoltà di medicina e Chirurgia della predetta Università a far data dall'anno 1983 sino a tutto il 1987 per un importo complessivo di € 44.000,00, oltre accessori di legge; in via subordinata condannarsi la PCDm al risarcimento dei danni subiti da esso istante per la violazione delle norme comunitarie da parte del legislatore italiano a causa della mancata attuazione delle direttive CEE 75/632 e 82/76 da liquidarsi nell'importo di € 11.000,00 per ogni anno di frequenza della scuola di specializzazione in oggetto per un totale di € 44.000,00 oltre accessori; in via ancor RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 più gradata condannarsi le parti convenute, singolarmente o con vincolo di solidarietà al pagamento in favore di esso istante, a titolo di indebito arricchimento, della somma di € 30.000,00 ovvero del diverso importo ritenuto di giustizia, con vittoria di spese. Si costituivano in giudizio i convenuti eccependo che unico soggetto legittimato passivo era la PCDm, nonchè la prescrizione del diritto azionato e nel merito l'infondatezza della domanda chiedendone il rigetto, il tutto con vittoria di spese ed onorari di giudizio. Il Tribunale di Napoli, con sentenza emessa in data 24 gennaio 2013, condannava la Presidenza del Consiglio dei ministri, al pagamento della somma di € 34.147,82, oltre interessi al tasso legale dalla data della presente decisione sino all'effettivo soddisfo nonchè della somma di € 9.982,17, senza ulteriori interessi; rigettava la domanda proposta nei confronti del ministero dell'Istruzione, dell'Università e Ricerca nonchè dell'Università degli studi di Napoli Federico II, condannando la PCDm al pagamento delle spese processuali sostenute dal m. e dichiarandole compensate tra l'attore e gli altri convenuti. Avverso detta sentenza hanno proposto appello la PCDm, il ministero delle Università della Ricerca e l'università degli Studi di Napoli "Federico II" fondandolo sui motivi di seguito indicati chiedendo, in riforma della sentenza impugnata, il rigetto delle domande del m. in quanto prescritte o infondate, il tutto con vittoria di spese e competenze del doppio grado di giudizio. Si è costituito in giudizio m.T. contestando la fondatezza dell'appello chiedendone il rigetto con vittoria di spese anche del giudizio di secondo grado, con attribuzione. All'esito di alcuni rinvii, all'udienza del 22 giugno 2016 la causa è stata riservata in decisione con il termine di gg. 50 per lo scambio delle comparse conclusionali e successivo termine di gg. 20 per il deposito delle memorie di replica. Il Tribunale di Napoli, nella sentenza impugnata, ha preliminarmente disatteso l'eccezione di prescrizione ritenendo non applicabile l'art. 4 comma 43 legge 183/11 in quanto norma che spiega i propri effetti solo rispetto ai fatti verificatisi successivamente alla sua entrata in vigore (1 gennaio 2012), ritenendo decorrente il dies a quo del termine di prescrizione dalla data del- l'entrata in vigore, 27 ottobre 1999, dell'art. 11 legge 370/99, in quanto, a seguito del tardivo recepimento nell'ordinamento interno delle direttive comunitarie 75/362/CEE e n. 82/76/CEE, relative al compenso in favore dei medici ammessi ai corsi di specializzazione universitari, realizzata solo con il D.lgs. 257/91, era rimasta inalterata la situazione di inadempienza dello stato italiano per i soggetti che avessero maturato i necessari requisiti per il periodo in questione, mentre la lacuna era stata parzialmente colmata dell'art.11 legge 370/99 che aveva riconosciuto il diritto ad una borsa di studio solo per coloro che fossero stati beneficiari di un giudicato amministrativo. ha ritenuto, quindi, fondata l'eccezione di difetto di legittimazione sollevata dalle amministrazioni convenute affermando che lo Sato italiano era unico soggetto legittimato in ordine alla domanda del m. Dopo aver, poi, proceduto alla qualificazione della domanda de qua come risarcitoria avente fonte legale e quindi, non riconducibile alla norma di cui all'art. 2043 c.c. e della responsabilità dello stato italiano come responsabilità operante senza i criteri di imputabilità del fatto illecito per dolo o colpa, ha accolto la domanda nel quantum indicato in applicazione dell'art. 11 L. n. 370/99, a partire dall'anno accademico 1983-1984, ritenendo provato il danno sul rilievo che la frequentazione dei corsi di specializzazione nelle modalità con le quali erano organizzati precedentemente al 1991 costituiva indizio presuntivo che esso li avrebbe ragionevolmente CoNTENzIoSo NAzIoNALE frequentati anche nel diverso regime conforme alle prescrizioni comunitarie, nonchè sul rilievo della prova fornita dal m. di aver seguito il corso di specializzazione in Pediatria, superando l'esame di diploma in data 23 luglio 1987 aggiungendo che essa rientrava, senz'altro, in quelle previste dall'art. 5 della direttiva 75/362/CEE. Con il primo motivo di appello gli appellanti lamentano l'erroneità della sentenza impugnata laddove ha disatteso l'eccezione di prescrizione, previa affermazione della natura contrattuale della responsabilità dello Stato italiano per l'inadempimento dell'obbligo di recepimento delle direttive comunitarie de quibus, deducendo la violazione dell'art. 4 comma 43 della legge 183/11, erroneamente ritenuta non applicabile dal primo giudice perchè avente contenuto di portata meramente innovativa e non interpretativa, come affermato da una parte della giurisprudenza di merito. hanno, quindi, dedotto che, a differenza di quanto affermato da Cass. 10813/11, il dies a quo del termine prescrizionale non poteva essere posticipato oltre il 31 agosto 1991, data di entrata in vigore del d.lgs. 257/91, non potendosi interpretare il d.lgs. n. 257/91 come adempimento parziale da parte dello stato italiano, dovendosi ritenere che già dal 1991 lo stato poteva ritenersi definitivamente inadempiente. hanno aggiunto che l'orientamento espresso dalla Cassazione n. 10813/11, seguito dal primo giudice, violava il principio di certezza del diritto per cui esso poteva avere rilevanza solo per i giudizi introdotti successivamente alla sua pronuncia in ossequio a quegli orientamenti giurisprudenziali che, in caso di ovverruling, tutelano il principio di certezza del diritto, essendo pacifico, prima di tale sentenza che il dies a quo della prescrizione di crediti risarcitori quali quelli per cui è causa, fosse coincidente con il 31 agosto 1991. Ragionare altrimenti, e, quindi, aderendo al nuovo orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte del 2011, avrebbe comportato la rimessione in termini di 13 anni dei medici specializzandi, conclusione inaccettabile posto che i predetti, immatricolatisi prima del 1991-1992, avrebbero dovuto avere contezza del diritto vivente ratione temporis applicabile ed in base al principio di correttezza, compiere atti giudiziali o stragiudiziali di interruzione della prescrizione entro 5 anni dal 31 agosto 1991. D'altro canto, hanno aggiunto gli appellanti, doveva ritenersi legittimo il comportamento dello Stato italiano che del tutto legittimamente aveva confidato nella prescrizione del proprio debito che non poteva essere vanificato da una rimessione in termini di quei medici specializzandi che non erano stati diligenti nell'azionare tempestivamente le proprie pretese. Il motivo è infondato. Deve premettersi che le Direttive comunitarie richiamate in atto di citazione sono state recepite nell'ordinamento italiano con il d.lgs.n. 257/91 (poi abrogato per effetto dell'art. 46 del d.lgs. n. 368/99), applicabile a decorrere dall'anno accademico 1991-1992, che -sul presupposto che la formazione specialistica dei medici ammessi alle scuole universitarie di specializzazione in medicina e chirurgia, di tipologia e durata conformi alle norme della comunità europea e comuni a due o più Stati membri, si svolgesse a tempo pieno - prevedeva che agli ammessi alle scuole di specializzazione dovesse essere corrisposta una borsa di studio determinata per l'anno 1991 in L. 21.500.000, da corrispondersi in sei rate bimestrali posticipate dalle Università di appartenenza delle scuole di specializzazione. Prevedeva, inoltre, che la formazione del medico specialista a tempo pieno implicasse la partecipazione alla totalità delle attività mediche del servizio di cui facevano parte le strutture nelle quali essa si effettuava, ivi comprese le guardie e l'attività operatoria per le discipline chirurgiche, nonché la graduale assunzione dei compiti assistenziali in modo che lo specializzando RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 dedicasse alla formazione pratica e teorica tutta la sua attività professionale per l'intero anno (art. 4); che gli specializzandi dovessero essere utilizzati in attività di assistenza per il tirocinio pratico connesso alla specializzazione (art. 4, 2° comma); che l'ammissione e la frequenza alla scuola non determinassero la costituzione di alcun rapporto di impiego (art. 4, 3° comma); che l'impegno richiesto per la formazione specialista dovesse essere almeno pari a quello previsto per il personale medico del Servizio Sanitario Nazionale a tempo pieno; che le modalità di svolgimento delle attività teoriche e pratiche degli specializzandi, nonché il numero e la tipologia degli interventi pratici erano determinate nei regolamenti didattici di cui all'art. 11 della L. 19 novembre 1990 n. 341; che per la durata della formazione fosse inibito l'esercizio di attività professionali esterne alle strutture assistenziali in cui si effettuava la specializzazione ed ogni rapporto anche convenzionale o precario con il Servizio Sanitario Nazionale. Nulla era previsto per i laureati ammessi ai corsi di specializzazione anteriormente all'anno accademico 1991-1992, venendosi a creare un vuoto normativo tra l'epoca della formulazione delle direttive europee e la data di recepimento delle stesse da parte dello Stato italiano, precisamente dall'anno 1983 all'anno 1991. Successivamente, a seguito delle sentenze della Corte di Giustizia Europea del 25 febbraio 1999 n. 131 e del 3 ottobre 2000 n. 371, che affermavano che le direttive comunitarie andavano interpretate nel senso che l'obbligo di retribuzione era incondizionato anche se il giudice nazionale non potesse identificare l'organo debitore e l'importo della retribuzione, il legislatore italiano emetteva la legge n. 370 del 19 ottobre 1999 con cui all'art. 11 espressamente riconosceva il diritto alla remunerazione dei medici specializzandi iscritti ai corsi tenutisi dall'anno 1983 all'anno 1991, determinandone la misura con l'importo di L. 13.000.000 annue (e non L. 21.500.000), sempreché essi avessero svolto l'attività a tempo pieno, avessero conseguito il diploma di specializzazione senza sospensioni e senza aver usufruito di altre borse di studio; limitava però l'applicabilità di tale disciplina ai soggetti che avessero ottenuto sentenze favorevoli dal TAR, così creando una discriminazione contraria al carattere di generalità della legge nazionale. Per i soggetti non appartenenti a tale categoria, occorre, quindi, far diretto riferimento alle direttive europee contenenti precetti incondizionati e sufficientemente precisi (cosiddetta disciplina autoesecutiva), che il giudice italiano deve applicare direttamente, disapplicando la legge nazionale, senza bisogno di ricorrere alla Corte Costituzionale; nel caso in cui le direttive comunitarie, pur non essendo self-executing, riconoscano in modo sufficientemente specifico un diritto all'attuazione nell'ordinamento interno, non può negarsi in favore dei medici specializzati (nella specie in un periodo compreso tra il 1983 e il 1991) -che a causa della tardiva trasposizione nell'ordinamento interno delle direttive comunitarie nn. 363/75 e 76/82 (trasposizione intervenuta solo nel 1991 col decreto legislativo n. 257) non hanno potuto godere del diritto ad una adeguata remunerazione per il periodo di frequenza della scuola di specializzazione, quale beneficio previsto dalle puntuali e precise disposizioni sovrannazionali (nei termini precisati dalla sentenza 25 febbraio 1999 della Corte Europea di Giustizia) -il diritto al risarcimento del danno immediatamente e direttamente correlato alla predetta mancata tempestiva attuazione delle citate direttive nell'ordinamento interno (vedi Cass. 12 febbraio 2008 n. 3283). Sul punto è intervenuta inoltre la Cassazione a Sezioni Unite (Cass. S.U. 17 aprile 2009 n. 9147) che ha precisato che il diritto al risarcimento del danno subito dal medico specializzato deve essere ricondotto -anche a prescindere dall'esistenza di uno specifico intervento legislativo accompagnato da una previsione risarcitoria -allo schema della responsabilità per ina CoNTENzIoSo NAzIoNALE dempimento di una obbligazione "ex lege" dello Stato, di natura indennitaria per attività che, sebbene da considerare antigiuridica per l'ordinamento comunitario, non lo sia per l'ordinamento interno; che pertanto il risarcimento dovuto non è subordinato né alla sussistenza del dolo o della colpa e deve essere determinato con i mezzi offerti dall'ordinamento interno in modo da assicurare al danneggiato un'idonea compensazione della perdita subita in ragione del ritardo oggettivamente apprezzabile; che, stante la natura dell'obbligazione "ex lege" dello Stato Italiano di adeguarsi e di dare attuazione alla direttive CEE e la conseguente natura della sua responsabilità in caso di inadempimento o ritardato adempimento, la pretesa risarcitoria in tali fattispecie è assoggettata all'ordinario termine decennale di prescrizione, in quanto la detta pretesa è diretta all'adempimento di una obbligazione "ex lege" riconducibile all'area della responsabilità contrattuale. Tali principi sono stati, da ultimo, precisati e confermati dalla medesima Corte di Cassazione che, con la recente sentenza 17 maggio 2011 n. 10813 (ed altre tre pronunce coeve nn. 10814, 10815 e n. 10816), che questa Corte ritiene di condividere, ha ribadito che l'inadempimento statuale alla direttiva determina una condotta idonea a cagionare in modo permanente un obbligo di risarcimento danni a favore dei soggetti che successivamente si vengono a trovare in condizioni di fatto tali che, se la direttiva fosse stata adempiuta, avrebbero acquisito il diritto o i diritti da essa riconosciuti, con la conseguenza che la prescrizione decennale del relativo diritto risarcitorio non corre perché la condotta di inadempimento statuale cagiona l'obbligo risarcitorio de die in die. In particolare in ordine al termine di prescrizione entro cui far valere la pretesa risarcitoria ha precisato che il termine di prescrizione dell'azione risarcitoria nei confronti dello Stato, conseguente alla carente trasposizione di una direttiva, comincia a decorrere dalla data in cui i primi effetti lesivi di detta mancata trasposizione si siano verificati e ne siano prevedibili altri. Pertanto, gli specializzati che non sì trovano nelle condizioni previste dall'art. 11 della legge n. 370 dei 1999 (per non essere beneficiari di sentenze irrevocabili emesse dal giudice amministrativo) e che non possono invocare l'applicazione di tale normativa ma che hanno comunque titolo e diritto ad ottenere il compenso sotto forma di risarcimento del pregiudizio economico subito per effetto della tardiva ed incompleta trasposizione nell'ordinamento interno delle cennate direttive comunitarie, hanno avuto - dal momento dell'emanazione della legge nazionale n. 370/1999 - la ragionevole certezza che lo Stato non avrebbe più emanato altri atti di adempimento alla normativa europea. Pertanto, nei confronti di costoro, la prescrizione decennale della pretesa risarcitoria comincia a decorrere dal 27 ottobre 1999, data di entrata in vigore del menzionato art. 11 (vedi pure Cass. 18 agosto 2011 n. 17350 conf.). Con il secondo motivo si contesta l'affermata fondatezza della domanda del m. deducendosi che il primo giudice avrebbe trascurato di valutare che il diritto alla borsa di specializzazione previsto dalle direttive comunitarie aveva come condizione che la formazione specialistica dei medici avesse determinate caratteristiche, ossia la partecipazione del medico specializzando alla totalità delle attività mediche per l'intera durata della normale settimana lavorativa e per tutta la durata dell'anno, dovendosi conformare ai criteri del tempo pieno. Per l'attività degli specializzandi, anteriore al 1991, invece, non era richiesto il tempo pieno, per cui in maniera del tutto contraddittoria il primo giudice aveva da un lato affermato la responsabilità dello stato italiano per non aver corrisposto la borsa di studio all'appellato e dal- l'altro che il diritto alla borsa di studio spettava solo per una formazione a tempo pieno. Pertanto la sentenza impugnata andava censurata non essendovi la prova del danno effettivo subito dal m., per la considerazione che il corso di specializzazione ante 1991, per le caratte RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 ristiche che presentava era compatibile con lo svolgimento di altre attività professionali dalle quali lo specializzando avrebbe potuto ricavare un lucro. A ciò doveva aggiungersi, hanno continuato gli appellanti, l'assenza di prova da parte del m. che la frequentazione alla scuola di specializzazione era stata conforme a quanto previsto dalle norme comunitarie, prova che doveva essere fornita dall'attore in primo grado, aggiungendo che del tutto erroneamente il primo giudice aveva ritenuto che la frequentazione del corso di specializzazione costituisse indizio presuntivo che esso (lo specializzando) lo avrebbe ragionevolmente frequentato anche nel diverso regime conforme alle prescrizioni comunitarie. Lamentano, quindi, la mancata prova della frequentazione a tempo pieno da parte dell'appellato e, quindi, di non aver percepito altri introiti, cd. aliunde perceptum, ritenendo che tale prova non spettasse alla PCDm come affermato dal primo giudice. Il motivo è fondato. Si evince dalla sentenza impugnata che “il M. ha allegato e provato di aver seguito il corso quadriennale di specializzazione in Pediatria, superando l'esame di diploma in data 23 luglio 1987 occorrendo, peraltro notare che detta specializzazione rientra fra quelle previste dall'art. 5 della direttiva 75/362/Cee del Consiglio, ossia quelle comuni a tutti gli stati membri". Sulla base di tale materiale probatorio, quindi, il primo giudice, ha quindi ritenuto provata la frequentazione ed in via meramente presuntiva che il m. la avrebbe ragionevolmente frequentata anche nel diverso regime conforme alle prescrizioni comunitarie, ritenendo che lo stesso non fosse onerato della prova di non aver percepito durante il periodo di formazione, altre remunerazioni o borse di studio, trattandosi di circostanze rilevanti sotto il profilo dell'aliunde perceptum, come affermato dalla Suprema Corte nella sent. 1182/12. Ciò posto osserva la Corte che erroneamente il primo giudice ha fatto discendere dalla documentazione prodotta dal m. la prova del danno da esso subito. Risulta dagli atti che il m., nel corso del giudizio di primo grado, produceva a sostegno della propria domanda: 1) la certificazione attestante il superamento dell'esame di diploma di specialista in pediatria, certificato attestante il superamento degli esami annuali, certificato di immatricolazione all'anno accademico 1983/1984 e l'iscrizione agli anni successivi, nonchè certificazione attestante la durata legale del corso di studi ed infine, un'autocertificazione attestante il mancato svolgimento di attività libero professionale privata e l'assenza di qualsiasi rapporto anche precario, con strutture pubbliche o convenzionate con il S.S.N. durante il periodo 1983/1988 di frequenza continuativa della scuola di specializzazione e relativa documentazione fiscale. manca, invece, osserva la Corte una documentazione di provenienza dall'Università attestante la frequenza del corso di specializzazione da parte del m. e delle modalità orarie con cui il corso era organizzato, poichè come anche recentemente affermato dalla Suprema Corte:"la frequenza di tali corsi (ossia quelli ante 1991), in mancanza dell'adeguamento alle direttive, si concretava nella impossibilità di conseguire l'adeguata remunerazione, per cui il medico, nell'individuare e provare la pretesa risarcitoria conseguente all'inadempimento statuale non aveva altro onere che dimostrare detta frequenza. essa, congiunta all'inadempimento statuale per come sopra indicato, integrava i fatti costituivi dell'obbligo risarcitorio dello stato nei termini indicati dalla sentenza n. 9147 del 2009 e, quindi, della relativa domanda" (cfr. Cass. 2357/11), e documentazione idonea deve ritenersi il certificato del direttore della scuola attestante la sua ottemperanza a tutti gli obblighi di frequenza per le attività teoriche e pratiche dello statuto all'epoca vigente secondo il regolamento didattico predisposto dall'istituto universitario (cfr. Cass. 1182/12). CoNTENzIoSo NAzIoNALE In conclusione in accoglimento del motivo di appello in esame, assorbito l'ulteriore motivo di gravame -con il quale si è censurata la misura del quantum debeatur affermato in sentenza in quanto non poteva essere ragguagliato all'importo previsto per gli specializzandi dall'art. 6 del D.lgs 257/91 perchè la formazione svolta dai medici specializzandi ante 1991 non rispettava necessariamente i requisiti in esso previsti in mancanza all'epoca di una normativa che precludeva agli specializzandi lo svolgimento a titolo privato di un'attività professionale retribuita -la sentenza impugnata va riformata e conseguentemente la domanda del m. va disattesa. Per rigore di soccombenza l'appellato va condannato al pagamento delle spese processuali del doppio grado di giudizio che si liquidano in dispositivo. PQm La Corte, definitivamente pronunciando sull'appello proposto dagli enti epigrafati nei confronti di m.T., così provvede: 1) accoglie l'appello ed in riforma della sentenza impugnata, rigetta la domanda proposta da m.T.; 2) Condanna l'appellato al pagamento delle spese processuali sostenute dagli appellanti che liquida in complessivi € 3.000,00, oltre rimborso forfettario nella misura del 15% del compenso totale, IVA e CPA come per legge, per il primo grado, ed in complessivi € 4.500,00, oltre rimborso forfettario nella misura del 15% del compenso totale, IVA e CPA come per legge per il presente grado di giudizio. Così deciso in Napoli nella camera di consiglio del 26 ottobre 2016. RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 Incremento dell'importo delle borse di studio percepite dai medici specializzandi iscritti anteriormente all’anno accademico 2006/2007: inquadramento sistematico alla luce di una recente sentenza del Giudice del lavoro di Catania Nota a tRiBUNale Di CataNia, sezioNe lavoRo, seNteNza 26 aPRile 2016 N. 1793 Martina Strazzeri* In tema di incrementi delle borse di studio percepite dai medici specializzandi iscritti anteriormente all’anno accademico 2006/2007, il Tribunale di Catania, Sezione Lavoro, con la sentenza in rassegna, ha proceduto ad una puntuale ricostruzione della normativa di riferimento, all’esito della quale ha stabilito la spettanza della rideterminazione triennale della borsa di studio in funzione dei miglioramenti stipendiali tabellari minimi previsti dal CCNL del Servizio Sanitario Nazionale per i medici, limitatamente al periodo 1 gennaio 1994 - 31 dicembre 1997 (1). La pronuncia opera una corretta analisi degli istituti in trattazione, in piena adesione ai principi ermeneutici espressi dalla giurisprudenza di legittimità, ed è interessante poiché si discosta dai più recenti approdi di pur autorevole giurisprudenza di merito, viceversa incline a riconoscere l’esistenza di una responsabilità indennitaria dello Stato per inesatto recepimento della Direttiva 93/16 per il periodo anteriore all’anno accademico 2006/2007. Nell’esaminare la questione, appare opportuno, in primo luogo, ripercorrere gli sviluppi evolutivi della normativa di riferimento. La prima disposizione che viene in rilievo è l’art. 6, comma 1, del D.Lgs. 257/1991, che stabilisce: “agli ammessi alle scuole di specializzazione nei limiti definiti dalla programmazione di cui all'art. 2, comma 2 in relazione all'attuazione dell'impegno a tempo pieno la loro formazione, è corrisposta, per tutta la durata del corso, ad esclusione dei periodi di sospensione della formazione specialistica, una borsa di studio determinata per l'anno 1991 in l. 21.500.000. tale importo viene annualmente, a partire dal 1° gennaio 1992, incrementato del tasso programmato d'inflazione ed è rideterminato, ogni triennio, con decreto del Ministro della sanità, di concerto con i Ministri dell'università e della ricerca scientifica e tecnologica e del tesoro, in funzione del miglioramento sti (*) Dottoressa in giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato, sede distrettuale di Catania. (1) Ed ha conseguentemente condannato il ministero della Salute, il ministero dell’Economia e delle Finanze, il ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e l’Università degli Studi di Catania, in solido tra loro, a pagare, in favore del ricorrente, esclusivamente le differenze maturate, negli anni di frequenza del corso di specializzazione (2004/2005 e 2005/2006), in conseguenza della mancata rideterminazione triennale della borsa di studio. CoNTENzIoSo NAzIoNALE pendiale tabellare minimo previsto dalla contrattazione relativa al personale medico dipendente del servizio sanitario nazionale”. La norma prevede due forme di adeguamento delle borse di studio: l’incremento annuale sulla base del tasso programmato di inflazione e la rideterminazione triennale in funzione del miglioramento stipendiale tabellare previsto dalla contrattazione collettiva del personale medico. Quanto al primo meccanismo di adeguamento, a partire dall’istituzione delle borse di studio e per gli anni successivi (fino a quando, a decorrere dal 2007, è divenuto operativo il nuovo contratto di specializzazione di cui all’art. 37 del D.Lgs. 368/89), sono intervenute disposizioni, contenute nelle Leggi Finanziarie (2), che, nell’ambito di una più ampia manovra volta a contenere la spesa pubblica, hanno bloccato l’incremento annuale in relazione alla variazione del costo della vita previsto dall’art. 6, comma 1. Al riguardo, la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi circa la legittimità costituzionale di tale blocco, ha affermato l’infondatezza della questione, ritenendo che “in una logica di bilanciamento con le fondamentali scelte di politica economica, (…) la difesa dell’aumento del costo della vita è da affidarsi precipuamente alle dinamiche contrattuali, in particolar modo alla contrattazione collettiva, piuttosto che a strumenti legislativi di adeguamento automatico. sotto questo profilo, va rilevato che la legislazione vigente prevede per i medici specializzandi, pur nella peculiarità della loro posizione, un meccanismo di collegamento dell'importo delle borse di studio ai miglioramenti stipendiali del personale medico dipendente dal servizio sanitario nazionale (art. 6 del D.P.R. 8 agosto 1991, n. 257). Pertanto la disposizione censurata, escludendo per le predette borse di studio, in via eccezionale e per un ristretto arco temporale, l'incremento automatico del tasso di inflazione, non appare affatto irragionevole o discriminatoria, ma invece si inserisce in un ampio complesso di norme che perseguono, anche nel settore della sanità, il fine di impedire, per lo stesso periodo di tempo, tutti gli incrementi retributivi consequenziali ad automatismi stipendiali” (Corte Costituzionale, sentenza n. 432 del 23 dicembre 1997) (3). Riguardo, invece, la seconda modalità di adeguamento prevista dall’art. 6, comma 1, del D.Lgs. 257/1991 e consistente nella rideterminazione triennale in funzione del miglioramento stipendiale tabellare previsto dalla con (2) Tra le altre, la Legge n. 549/1995, recante misure di razionalizzazione della finanza pubblica, il cui art. 1, comma 33, ha esteso le disposizioni dell'art. 7, commi 5 e 6, del D.L. 384/1992 (misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali) - convertito nella Legge n. 438/1992 - alle borse di studio di cui all'art. 6 del D.Lgs. 257/1991. (3) Per altro verso, la Corte di Cassazione, sempre con riferimento a tale sospensione, ha affermato che essa non contrasta con la Direttiva 82/76/CEE in quanto in detta disciplina comunitaria non è rinvenibile una definizione di retribuzione adeguata, né sono posti i criteri per la determinazione della stessa (Cass. S.U., n. 29345 del 16 dicembre 2008; Cass. Civ. Sez. Lav., n. 11565 del 26 maggio 2011; Cass. Civ. Sez. Lav., n. 1536 del 24 luglio 2014). RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 trattazione collettiva del personale medico, premesso che essa deve essere tenuta distinta da quella indicata nella prima parte dell’art. 6, comma 1 (così Cass. n. 18562/2012 e n. 16385/2008), deve procedersi ad un’autonoma verifica in ordine ai periodi di tempo per i quali siano eventualmente intervenuti provvedimenti che abbiano bloccato tale meccanismo di incremento. orbene, dalla disamina della normativa in materia, emerge che l’art. 7, comma 1, del D.L. 384/1992, recante “misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali”, convertito con L. 438/1992, ha previsto che “resta ferma sino al 31 dicembre 1993 la vigente disciplina emanata sulla base degli accordi di comparto di cui alla legge 29 marzo 1983, n. 93 (4), e successive modificazioni e integrazioni. i nuovi accordi avranno effetto dal 1° gennaio 1994”. Ne deriva che, non essendo efficaci i nuovi accordi contrattuali relativi al personale medico dipendente del Servizio Sanitario Nazionale fino al 31 dicembre 1993, per l’anno 1993 nessuna rideterminazione triennale del compenso è dovuta ai medici specializzandi. Per gli anni successivi, invece, nessun provvedimento di blocco è riscontrabile per il periodo 1 gennaio 1994 -31 dicembre 1997, mentre, dall’1 gennaio 1998 e fino al 2007 (momento in cui è stato reso operativo il contratto di specializzazione di cui al D.Lgs. n. 368/1999), il blocco della rideterminazione triennale è avvenuto ad opera dell’art. 32, comma 12, della L. n. 449 del 27 dicembre 1997 (5) e dell’art. 36, comma 1, della L. n. 289 del 27 dicembre 2002 (6). In particolare, la prima disposizione ha previsto che “a partire dal 1998 resta consolidata in lire 315 miliardi la quota del Fondo sanitario nazionale destinata al finanziamento delle borse di studio per la formazione dei medici specialisti di cui al decreto legislativo 8 agosto 1991, n. 257; conseguentemente non si applicano per il triennio 1998-2000 gli aggiornamenti di cui all'articolo 6, comma 1, del predetto decreto legislativo n. 257 del 1991”, con riferimento, pertanto, ad entrambi i meccanismi di adeguamento di cui all’art. 6, comma 1, del D.Lgs. n. 275/1991. Tale blocco è poi stato confermato per effetto dell’art. 36, comma 1, della L. n. 289/2002 che, nella prima parte, ha confermato il blocco degli adeguamenti connessi alle variazioni del costo della vita e, nella seconda parte, ha stabilito che “tale divieto si applica anche agli emolumenti, indennità, compensi e rimborsi spese erogati, anche ad estranei, per l'espletamento di particolari incarichi e per l'esercizio di specifiche funzioni per i quali è comunque previsto il periodico aggiornamento dei relativi importi nonché, fino alla sti( 4) Legge quadro sul pubblico impiego. (5) misure per la stabilizzazione della finanza pubblica. (6) Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge finanziaria 2003). CoNTENzIoSo NAzIoNALE pula del contratto annuale di formazione e lavoro previsto dall'articolo 37 del decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 368, alle borse di studio corrisposte ai medici in formazione specialistica ai sensi del decreto legislativo 8 agosto 1991, n. 257, il cui ammontare a carico del Fondo sanitario nazionale rimane consolidato nell'importo previsto dall'articolo 32, comma 12, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, e successive modificazioni”. Posta tale ricostruzione della normativa di riferimento e rilevato che nel periodo 1 gennaio 1994 - 31 dicembre 1997 vi sono stati interventi della contrattazione collettiva sulla dinamica salariale del personale medico del Servizio Sanitario Nazionale, il Giudice del Lavoro del Tribunale di Catania ha affermato che il meccanismo di adeguamento del compenso dei medici specializzandi, consistente nella rideterminazione triennale in funzione del miglioramento stipendiale tabellare previsto dal CCNL del personale medico, è applicabile limitatamente al periodo 1 gennaio 1994 - 31 dicembre 1997. Con la specificazione, infine, che il criterio della rideterminazione triennale non può che essere inteso quale aggancio dell’importo della borsa di studio alla dinamica stipendiale contrattuale prevista per il personale medico del SSN, nel senso che, accertata una determinata percentuale di incremento dello stipendio tabellare minimo del personale medico per effetto della contrattazione collettiva, la medesima percentuale deve essere applicata -ogni triennio - all’importo della borsa di studio corrisposta agli specializzandi. La sentenza in rassegna si segnala per una corretta e quindi condivisibile ricostruzione della normativa di riferimento, puntualmente interpretata alla luce dei principi ermeneutici espressi dalla giurisprudenza di legittimità. La statuizione appare particolarmente interessante per il suo discostarsi dai più recenti approdi di pur autorevole giurisprudenza di merito (tra gli altri, Corte d’Appello Roma, sent. n. 1628 del 18 febbraio 2014; Corte d’Appello di milano, sent. n. 4832 del 24 luglio 2013), viceversa tendente a riconoscere l’esistenza di una responsabilità indennitaria dello Stato per inesatto recepimento della Direttiva 93/16 - con riferimento alla misura dell’ “adeguata remunerazione” prevista dalla direttiva - e a quantificare tale l’indennizzo dovuto dallo Stato in misura pari alla differenza tra il trattamento economico concretamente percepito, incrementato della rideterminazione triennale, e quello riconosciuto in base al D.Lgs. n. 368 del 1999 a partire dal 2007. Pronunce di tal sorta si fondano sull’equivoco che solo con la Legge n. 368/1999 e con i relativi Decreti attuativi del Presidente del Consiglio dei ministri del 2007 lo Stato italiano abbia dato compiuta e completa attuazione alle direttive comunitarie in materia, mentre, in realtà, è da ritenersi pacifico anche alla luce delle statuizioni della Corte di Giustizia europea - che lo Stato abbia dato piena attuazione alle direttive europee già con il D.Lgs. n. 257/1991. L’equivoco si fonda, in particolare, sulla circostanza che il legislatore italiano con il D.Lgs. n. 368 del 1999 ha disposto un migliore trattamento con RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 trattuale, economico e previdenziale per i medici specializzandi a decorrere dall’anno accademico 2006/2007. In virtù di ciò, gli specializzandi iscritti tra il 1991 ed il 2006 hanno ritenuto di rivendicare le differenze retributive rispetto a coloro che in epoca successiva, beneficiando del nuovo regime, hanno percepito somme maggiori. Tali pretese sono, in realtà, infondate. La Direttiva europea del 26 gennaio 1982 n. 82/76/CEE, infatti, ha prescritto agli Stati membri di corrispondere un’adeguata remunerazione agli specializzandi, imponendo quindi l'obbligo di corrispondere un compenso, senza tuttavia individuare -come riconosciuto dalla Corte di Giustizia nelle sentenze Carbonari e gozza (sentenze 25 febbraio 1999 causa C-131/97 Carbonari/ Università di bologna e 3 ottobre 2000 causa C-371/97 Gozza/ Università di Padova) - l'importo dello stesso. Pertanto, la prevalente giurisprudenza interna si è assestata nell’affermare che il principio dell’adeguata remunerazione previsto dalla normativa sovranazionale è da ritenersi rispettato purché l’erogazione non sia meramente simbolica (così, Trib. Civ. Roma, n. 8411/2015; Trib. Civ. Roma, n. 5909/2015; contra: C. Appello Roma, Sez. Lav., 18 febbraio 2014 n. 1628). A ciò la Suprema Corte ha aggiunto - con sentenza n. 27481 del 19 novembre 1998 - che all’attività degli specializzandi presso le strutture ospedaliere non è applicabile l’art. 36 Cost. e il principio di adeguatezza della retribuzione in esso contenuto, in quanto l’attività svolta è finalizzata precipuamente alla formazione teorica e pratica e non è inquadrabile nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, né tra le ipotesi di parasubordinazione, non essendo ravvisabile una relazione sinallagmatica di scambio tra l’attività degli stessi e gli emolumenti previsti dalla legge. Sulla scorta di tali considerazioni, è evidente come non abbia carattere simbolico la borsa di studio prevista dall’art. 6, comma 1, del D.Lgs. 257/1991, a prescindere dai meccanismi di adeguamento dell’importo dalla stessa disposizione previsti. Ciò posto, deve in secondo luogo osservarsi che nessuna disparità di trattamento è stata posta in essere dalla disciplina di cui al D.Lgs. n. 368/1999, così come modificato dalla L. n. 266/2005, nei confronti degli specializzandi medici iscritti alle scuole di specializzazione a decorrere dall’anno accademico 1991-1992, rispetto a quelli iscritti a decorrere dall’anno 2006-2007. Si tratta infatti, di una disciplina successiva recante trattamenti economici di maggior favore, con riferimento alla quale la giurisprudenza di legittimità, in via generale e non soltanto con riferimento alla fattispecie che ci occupa, saldamente esclude l’illegittimità, affermando che la variazione nel tempo delle discipline eventualmente favorevoli ad alcune categorie di soggetti appartiene alla discrezionalità del legislatore, senza che ciò possa rivestire aspetti discriminatori alla luce dei parametri costituzionali (7) CoNTENzIoSo NAzIoNALE Anche la Corte Costituzionale ha più volte affermato che l’elemento temporale può essere legittimo criterio di discrimine se intervenga a delimitare l’applicazione di norme nell’ambito del riordino complessivo della disciplina attinente ad una determinata materia (8). In adesione a tali orientamenti, i Giudici di merito hanno ritenuto che la questione di legittimità costituzionale delle norme in questione non sia dotata di quella non manifesta infondatezza necessaria affinché di essa possa essere investita la Corte Costituzionale (Trib. Civ. Roma, sez. 2, sent. n. 4226/2015; Trib. Civ. Roma, sez. 2, sent. n. 4644/2015) ed hanno altresì escluso che sussistano i presupposti per il rinvio pregiudiziale necessario alla Corte di Giustizia europea, avendo quest’ultima più volte evidenziato (cause C-131/97 e 371/97) che le direttive europee “non contengono alcuna definizione comunitaria della remunerazione da considerarsi adeguata, né dei metodi di fissazione di tale remunerazione”, rientrando pertanto questi ultimi nella competenza degli Stati membri (Trib. Civ. Roma, sent. n. 4226/2015; Trib. Civ. Roma, sent. n. 6710/2015). In virtù di ciò, la circostanza che il D.Lgs. n. 368/1999 abbia riconosciuto un maggior importo a titolo di adeguata remunerazione costituisce il risultato di una scelta discrezionale esclusivamente riservata al legislatore nazionale e in nessun modo vincolata da obblighi d’adeguamento alla normativa comunitaria (9). Il Decreto delegato in esame non costituisce quindi norma che ha dato attuazione a direttive comunitarie in materia di medici specializzandi, nella parte in cui queste prescrivevano specifici obblighi cui il legislatore nazionale avrebbe dovuto adempiere. Deve, pertanto, escludersi che lo Stato Italiano, nell’attribuire un trattamento più favorevole soltanto ai medici che hanno iniziato la frequenza del corso di specializzazione nell’anno accademico 20062007, abbia disciplinato la materia in maniera non conforme alle direttive comunitarie, non ravvisandosi perciò alcun inadempimento agli obblighi imposti dalla direttiva europea (10). (7) Cfr. Cass., sez. I, sent. n. 20543 del 28 luglio 2008, in materia criteri di liquidazione del danno da occupazione acquisitiva della PA; Cass., sez. V, sent. n. 11176 del 26 maggio 2005, in tema di agevolazioni tributarie. (8) Cfr. sent. n. 430 del 29 dicembre 2004, in materia di perequazione di trattamenti pensionistici; sent. n. 276 del 12 maggio 2005, in materia di diversa valutazione di anzianità pregresse ai fini pensionistici. (9) Per analoghe motivazioni, si è ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 46, comma 2, del D.Lgs. n. 368/1999, come sostituito dall’art. 1, comma 300, della L. n. 266/2005, per contrasto con artt. 2, 3 e 36 Cost., nella parte in cui ha sospeso fino al 2007 l’entrata in vigore degli artt. da 37 a 39 del Decreto stesso. Non sussiste, infatti, alcuna irragionevole disparità di trattamento tra gli specializzandi iscritti ai corsi di specializzazione a decorrere dall’anno 2006-2007 e quelli frequentanti i corsi nei precedenti anni accademici, ben potendo il legislatore, per costante giurisprudenza costituzionale, differire nel tempo gli effetti di una riforma, senza che, per ciò solo, ne possa derivare una disparità di trattamento tra soggetti che, in ragione dell’applicazione differente nel tempo della normativa in questione, ricevano trattamenti diversi. RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 Sulla scorta di tali considerazioni, deve pertanto riconoscersi che ai medici specializzandi iscritti tra il 1991 e l’anno accademico 2006/2007, spetti esclusivamente - come correttamente statuito dalla Sezione Lavoro del Tribunale di Catania - una somma pari alla differenza maturata, negli anni di frequenza del corso di specializzazione, in conseguenza della mancata rideterminazione triennale della borsa di studio, sia pur limitatamente al periodo 1 gennaio 1994 -31 dicembre 1997, in quanto solo con riferimento a tale periodo di tempo, da una parte, non vi sono stati blocchi ad opera di fonti normative e, d’altra parte, vi sono stati interventi della contrattazione collettiva sulla dinamica salariale del personale medico del Servizio Sanitario Nazionale, cui la rideterminazione triennale è agganciata. Con la precisazione, infine, che il termine di prescrizione applicabile alla domanda di accertamento del diritto alla rideterminazione triennale del compenso ex D.Lgs. n. 257/1991 è quello quinquennale di cui all’art. 2948 n. 4 c.c., decorrente da ogni bimestre, trattandosi di compenso da corrispondersi periodicamente (11). Tribunale di Catania, Sezione Lavoro, sentenza 26 aprile 2016 n. 1793 -giud. P. mirenda -F.V. (avv. F. mauceri) c. min. Istruzione Università e Ricerca, Presidenza del Consiglio dei ministri, min. Economia e Finanze, min. Salute, Assessorato Sanità Regione Sicilia (tutti patrocinati ex lege dall’avv. distrett. Stato Catania); Università degli Studi di Catania (avv.ti V. Reina e D.Impallomeni); Azienda ospedaliera Universitaria Policlinico Vittorio Emanuele di Catania (avv. C. Currao). RAGIoNI IN FATTo E IN DIRITTo DELLA DECISIoNE Con ricorso depositato in data 5 novembre 2010 il ricorrente in epigrafe indicato esponeva di aver conseguito presso l'Università degli Studi di Catania la laurea in medicina e Chirurgia e di essere stato ammesso al corso di specializzazione in radiodiagnostica presso la stessa Università ove aveva frequentato i primi due anni della scuola, negli anni accademici 2004/2005 e 2005/2006, completando poi la scuola di specializzazione presso l'Università di milano ove aveva ottenuto il relativo diploma il 3 novembre 2008. Assumeva la sussistenza di un effettivo rapporto di lavoro subordinato per effetto del suo inserimento nell'organizzazione sanitaria della clinica universitaria e dell'impegno lavorativo profuso, in tutto analogo, per quantità e qualità, a quello dei medici dipendenti strutturati a tempo pieno presso il servizio sanitario nazionale. Si doleva di essere stato retribuito per i primi due anni della scuola di specializzazione mediante una borsa di studio in sei rate bimestrali posticipate in conformità al D.Lgs. n. 257/1991 di € (10) In questo senso: Cass. Civ., Sez. Lav., 4 luglio 2014 n. 15362; C. App. Roma, Sez. Lav., 28 febbraio 2014 nn. 1628 e 1629; Trib. Roma, n. 4226/2015, n. 6831/2014, n. 21655/2014, n. 9244/2014, n. 18793/2014, n. 12426/2014, n. 17608/2013, 898/2013, n. 1780/2013, n. 16659/2011 e n. 10960/2011. (11) Trib. Roma, n. 4226/2015, n. 4644/2015 e n. 8411/2015. CoNTENzIoSo NAzIoNALE 11.603,50 annui e che per essi non gli era stato corrisposto il trattamento economico determinato dal D.Lgs. n. 368/1999 come modificato dalla L. n. 266/2005 e attuato dal D.P.C.m. del 7 marzo 2007 e del 6 luglio 2007, giacchè soltanto a partire dall'anno accademico 2006/2007 era stato applicato il regime patrimoniale in ossequio a quanto stabilito dalla Direttiva europea. Deduceva, in particolare, che il D.Lgs. n. 368199 aveva previsto la determinazione del trattamento economico sino all'emanazione dei provvedimenti attuativi e che tale adozione era avvenuta soltanto a distanza di 13 anni, dapprima con la previsione contenuta nella L. n. 266/2005 e poi con il DPCm del 7/3/2007, che ne avevano disposto l'applicazione soltanto a partire dal- l'anno accademico 2006/2007 e che pertanto, a causa dell'inadempimento dello Stato Italiano, per omessa, tardiva ed inesatta trasposizione della direttiva CEE, aveva percepito un trattamento economico inferiore alla remunerazione adeguata per tutta la durata del corso. In ogni caso assumeva di aver diritto all'adeguamento del reddito percepito sotto forma di borsa di studio mediante la rideterminazione triennale e la indicizzazione annuale della borsa di studio come previsto dall'art. 6 del D.Lgs. 257/1991. Ciò posto, adiva questo Tribunale in funzione di giudice del lavoro per sentire accogliere nei confronti dei convenuti le seguenti conclusioni: "in via principale accertare l'insufficienza e l'inadeguatezza, anche ai sensi dell'art. 36 della Costituzione, di quanto percepito dal ricorrente negli anni di frequenza del corso di specializzazione in radiodiagnostica dal 2004/05 al 2005/06 (euro 23.207,00) e, per l'effetto condannare i resistenti, in via alternativa e/o solidale o ciascuna per la parte di propria spettanza, alla corresponsione in di lui favore delle differenze retributive dovutegli ovvero del trattamento economico normativo e previdenziale previsto per i contratti di formazione lavoro dalle norme sopra richiamate ovvero dalla contrattazione collettiva per i medici strutturali a tempo pieno dipendenti del servizio nazionale quantificando le somme dovute nei termini di cui al d.p.c.m. 7 marzo del 2007- e, cioè nella somma di curo 22.700, 00 per anno di specializzazione ed, in aggiunta, di altra retribuzione variabile, di curo 2.300, 00 per ciascuno dei primi due anni e di euro 3.300,00 per ogni anno successivo al secondo, decurtando le somme già percepite dal ricorrente a titolo di borsa di studio (curo 23.207,00) o nella maggiore o minore somma ritenuta di giustizia anche all'esito di apposita consulenza tecnica d'ufficio. in via principale o subordinata in applicazione (anche retroattiva) della normativa nazionale e comunitaria richiamata in narrativa e ritenuta anche l'immediata e diretta applicabilità della normativa comunitaria di interesse per le caratteristiche evidenziare, accertare -anche disapplicando, ove necessario, ogni atto o disposizione preclusiva di quanto richiesto - il diritto del ricorrente ad essere inquadrato con il contratto di formazione specialistica (formazione- lavoro) per gli anni accademici della di lui frequenza del corso di specializzazione in radiodiagnostica e/o a percepire da parte delle amministrazioni resistenti in via alternativa e/o solidale o ciascuna per la parte di propria spettanza per il detto periodo una adeguata remunerazione ovvero il trattamento economico normativo e previdenziale per le somme maturate e non percepite per l'attività di formazione specialistica espletata: per l'effetto condannare gli enti resistenti [.] alla corresponsione dei compensi retributivi dovutigli quantificandoli nei termini di cui al d.p.c.m. 7 marzo 2007 previsti per gli specializzandi a far tempo dall’ottobre 2006 e cioè nella somma di euro 22.7000, 00 per anno di specializzazione e in aggiunta di altra retribuzione variabile di curo 2.300. 00 per ciascuno dei primi due anni e di curo 3.300,00 per ogni anno successivo al secondo decurtando le somme già percepite dalla ricorrente a titolo di borsa di studio (euro 23.207,00) o nella somma maggiore o minore ritenuta di giustizia ovvero del trattamento economico, normativo e previdenziale RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 previsto dalle norme sopra richiamate e dalla contrattazione collettiva per i medici strutturali a tempo pieno dipendente del servizio sanitario nazionale [.j. in subordine accertati pur sempre l'inadempimento delle amministrazioni resistenti [..] per la mancata e/o ritardata attuazione delle direttive meglio descritte in merito e segnatamente delle direttive Cee 362-363/1975 e 76/1982, ovvero la insufficienza e la inadeguatezza della retribuzione percepita dal ricorrente negli anni accademici di frequenza della specializzazione in Catania (anni 2004/05 e 2005/06) condannare le amministrazioni resistenti [..] al risarcimento dei danni patiti dalla ricorrente per la responsabilità dello stato (di natura extracontrattuale o per perdita di chance ovvero contrattuale nel senso sopra specficalo), derivante dalla mancata o dalla ritardata attuazione delle direttive predette, liquidandolo: in via principale nell'importo determinato secondo le disposizioni di cui al d.p.c.m. 7 marzio 2007 e cioè nella somma di euro 22.7000,00 per anno di specializzazione e in aggiunta di altra retribuzione variabile di euro 2.300,00 per ciascuno dei primi due anni e di euro 3.300,00 per ogni anno successivo al secondo decurtando le somme già percepite dal ricorrente a titolo di borsa di studio (euro 23.207.00; in subordine nella misura maggiore o minore di quella indicata che sarà ritenuta dovuta [.] in via ulteriormente subordinata, applicata la disciplina dettata dal d.lgs. n. 257/1991 condannare gli enti convenuti ciascuno per il titolo o spettanza [..] al pagamento in favore del ricorrente di quanto non percepito negli anni 2004/05 e 2005/06 a titolo di rideterminazione triennale in funzione di miglioramento stipendiale tabellare minimo previsto dal CCNl del servizio sanitario nazionale per i medici neoassunhi e di indicizzazione annuale della borsa di studio [..] sempre ed in ogni caso condannare gli enti resistenti [.] al pagamento degli interessi sulle somme dovute e debitamente rivalutate nonché al risarcimento dei danni per la mancata fruizione da parte della ricorrente di ferie e festività per la di lei mancata regolarizzazione previdenziale ed assicurativa liquidando i detti danni nelle somme che saranno ritenute dovute [.] Si costituivano le Amministrazioni resistenti eccependo, ciascuna per quanto di ragione, il proprio difetto di legittimazione passiva e deducendo l’infondatezza delle domande avversarie. Autorizzato il deposito di note difensive, all'udienza odierna la causa veniva discussa e decisa nelle forme dell'art. 429, comma I, c.p.c., mediante lettura del dispositivo e della esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. Ciò posto, e venendo alle ragioni della decisione, deve, preliminarmente, essere rigettata l'eccezione di incompetenza funzionale del Tribunale adito in funzione di giudice del lavoro, in proposito dovendosi osservare che la detta eccezione non appare fondata assumendo rilievo, alla stregua della prospettazione di parte ricorrente, la sola circostanza che questa abbia chiesto dichiararsi la sussistenza di un rapporto di lavoro di natura subordinata. Parte ricorrente ha infatti, chiesto di accertarsi l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato con condanna dei convenuti, in solido tra loro o ciascuno per quanto di spettanza, al pagamento del trattamento retributivo proporzionato e sufficiente ex art. 36 della Costituzione e ciò proprio sul presupposto della natura, oltre che formativa, anche lavorativa dell'attività svolta in presenza degli elementi tipici della subordinazione (vincoli di orario, di subordinazione gerarchica e stipendio fisso): ne discende la competenza del giudice del lavoro secondo quanto previsto dall'articolo 409 c.p.c. In relazione. poi, alla domanda di risarcimento del danno e alla prospettata incompetenza per territorio di questo Tribunale per essere competente il Tribunale di Roma, reputa il decidente di dover richiamare quanto osservato in seno alla ordinanza del 13 marzo 2014, le ragioni ivi evidenziate e alle quali interamente si rimanda apparendo sufficienti anche in questa sede a CoNTENzIoSo NAzIoNALE dar conto dei motivi per cui anche in relazione alla domanda subordinata competente per territorio sia questo Tribunale. Né da ciò può conseguire l'incompetenza per materia di questo giudice del lavoro, restando attratta la detta domanda al rito speciale previsto per le controversie in materia di lavoro ai sensi dell'art. 40 c.p.c. Quanto alla legittimazione passiva del convenuto, deve osservarsi che attiene al merito la questione con la quale si deduca la propria estraneità ossia la mancanza di titolarità, affermata invece da parte ricorrente, dal lato passivo dell'obbligazione dedotta. La legittimazione passiva riguarda, invece, il dovere del convenuto di subire il giudizio instaurato dall'attore secondo una determinata prospettazione del rapporto oggetto della controversia, indipendentemente dalla effettiva sussistenza o titolarità del rapporto stesso. Da ciò consegue che, sempre stando alla prospettazione di parte ricorrente, non difettano di legittimazione passiva l'Università degli Studi di Catania, l'Azienda ospedaliera convenuta o la Regione Sicilia, Assessorato della Sanità, in ordine alle pretese discendenti dal dedotto contratto di formazione in virtù del quale l'Azienda sanitaria ha ricevuto le prestazioni dello specializzando e non ignora questo giudice che la Suprema Corte ha ritenuto che "in tema di formazione dei medici specialisti, il contralto di specializzazione ex art. 37 del D.lgs. n.368 del 1999 non dà luogo ad un rapporto plurisoggellivo fra medico specializzando, università ove ha sede la scuola di specializzazione e regione titolare delle strutture sanitarie prevalenti nella rete formativa, atteso che la gestione, organizzativa ed economica del rapporto è rimessa dalla legge unicamente all'università" (cfr. Cass., sez. lav. 20 marzo 2012 n. 4412), ma ciò, tuttavia, attiene alla titolarità dal lato passivo della obbligazione dedotta e, dunque, al merito. Ancora, stando sempre alla prospettazione di parte ricorrente, difettano di legittimazione passiva, ad eccezione della Presidenza del Consiglio dei ministri, gli altri soggetti in ordine alla domanda di risarcimento del danno conseguente alla mancata o tardiva attuazione della direttiva; infine, rispetto alla pretesa avente ad oggetto la remunerazione adeguata, è legittimata passivamente l'Università, giacchè il D.Lgs. n. 257 del 1991, art. 6. comma 2, prevede che la borsa di studio "viene corrisposta, in sei rate bimestrali posticipate, dalle università presso cui operano le scuole di specializzazione riconosciute" e lo sono, altresì, i ministeri convenuti, atteso che l’art. 6 comma 3 del D.Lgs. cit. pone a carico del ministero del Tesoro, su proposta dei ministri della Sanità e dell'Università, l'assegnazione e la ripartizione dei fondi alle Università alle quali compete la concreta erogazione (sul punto è sufficiente richiamare Cass. 16507/12008). Tanto premesso, e venendo al merito, deve darsi atto che questo Tribunale, in fattispecie in parte analoghe a quella qui in esame, ha avuto modo di pronunciarsi (cfr. sentenza del 29 novembre 2012, giudice dott.ssa Cristiana Delfa; sentenza del 5 luglio 2013, giudice dott.ssa Claudia Cottini; sentenza del 17 aprile 2014. giudice musumeci; sentenza del 29 aprile 2015, giudice dott.ssa Valentina maria Scardillo) risolvendo le questioni dibattute - ad eccezione di quella avente ad oggetto l'adeguamento del reddito percepito sotto forma dì borsa di studio in senso sfavorevole alla tesi prospettata da parte ricorrente. Questo giudice ritiene di condividere l'orientamento enunciato in dette pronunce e di richiamare le argomentazioni ivi svolte alle quali conviene premettere il quadro normativo di riferimento. L'art. 13 della direttiva CEE n. 76 del 1982 in materia di formazione dei medici specialisti, prevedeva che la formazione stessa si effettuasse in posti specifici riconosciuti dalle autorità competenti e che implicasse la partecipazione alla totalità delle attività mediche del servizio nel quale si effettuava la formazione, comprese le guardie, in modo che lo specialista in via di formazione potesse dedicare a tale formazione pratica e teorica tutta la sua attività professionale per l'intera durata della normale settimana lavorativa e per tutta la durata dell'anno, RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 secondo le modalità fissate dalle autorità competenti. Inoltre, la direttiva prevedeva che tale formazione costituisse oggetto di una adeguata remunerazione. Recitava testualmente l'art. 13, che inseriva l'allegato I alla direttiva comunitaria 75/363: "Caratteristiche della formazione a tempo pieno e della formazione a tempo ridotto dei medici specialisti: i. Formazione a tempo pieno dei medici specialisti. essa si effettua in posti di formazione specifici riconosciuti dalle autorità competenti. essa implica la partecipazione alla totalità delle attività mediche del servizio nel quale si effettua la formazione, comprese le guardie, in modo che lo specialista in via di formazione dedichi a tale formazione pratica e teorica tutta la sua attività professionale per l'intera durata della normale settimana lavorativa e per tutta la durata dell'anno, secondo le modalità fissate dalle autorità competenti. tale formazione forma pertanto oggetto di una adeguata rimunerazione”. Detti principi sono stati ribaditi dalla successiva direttiva CEE n. 16 del 1993 che, per quanto attiene alla formazione dei medici specialisti, non ha apportato alcuna modifica di significativo rilievo, tanto che l'allegato I che disciplina le caratteristiche della formazione riproduce esattamente il testo sopra trascritto dell'allegato I alla direttiva 75/363, come modificato dal richiamato art. 13. Il d.lgs. 8 agosto 1991 n. 257 ha dato attuazione alla direttiva n. 76 del 1982 prevedendo che la formazione del medico specialista a tempo pieno dovesse implicare la partecipazione alla totalità delle attività mediche del servizio di cui fanno parte le strutture nelle quali essa si effettua, ivi comprese le guardie e l'attività operatoria per le discipline chirurgiche, nonché la graduale assunzione dei compiti assistenziali in modo che lo specializzando dedicasse alla formazione pratica e teorica tutta la sua attività professionale per l'intero anno (art. 4) e che agli ammessi alle scuole di specializzazione nei limiti definiti dalla programmazione di cui all'art. 2, comma 2 in relazione all'attuazione dell'impegno a tempo pieno la loro formazione, venisse corrisposta, per tutta la durata del corso, ad esclusione dei periodi di sospensione della formazione specialistica, una borsa di studio determinata per l'anno 1991 in Lire 21.500.000. Successivamente la materia è stata nuovamente disciplinata dal D.Lgs. 17 agosto 1999 n. 368 che, agli artt. 37-39, ha previsto che, all’atto dell’iscrizione alle scuole universitarie di specializzazione in medicina e chirurgia, il medico stipuli uno specifico contratto annuale di formazione- lavoro, disciplinato dal detto decreto legislativo e dalla normativa per essi vigente, per quanto non previsto o comunque per quanto compatibile con le disposizioni di cui al decreto legislativo. Il contratto è finalizzato esclusivamente all'acquisizione delle capacità professionali inerenti al titolo di specialista, mediante la frequenza programmata delle attività didattiche formali e lo svolgimento di attività assistenziali funzionali alla progressiva acquisizione delle competenze previste dall'ordinamento didattico delle singole scuole, in conformità alle indicazioni dell'Unione europea. Il contratto non dà diritto all'accesso ai ruoli del Servizio sanitario nazionale e dell'università o ad alcun rapporto di lavoro con gli enti predetti (art. 37). Per quanto interessa maggiormente la presente controversia, la norma ha ridefinito il trattamento economico dei medici specializzandi, prevedendo che al medico in formazione specialistica, per tutta la durata legale del corso, sia corrisposto un trattamento economico annuo onnicomprensivo. Il trattamento economico è determinato, ogni tre anni, con il decreto di cui all'articolo 35. comma I. nei limiti dei fondi previsti dall'articolo 6, comma 2, della legge 29 dicembre 1990, n. 428, e delle quote del Fondo sanitario nazionale destinate al finanziamento della formazione dei medici specialisti. Il trattamento stesso è costituito da una parte fissa, uguale per tutte le specializzazioni e per tutta la durata del corso di specializzazione, e da una parte variabile, differenziata per tipologie di specializzazioni, per la loro durata e per anno di CoNTENzIoSo NAzIoNALE corso. Il trattamento economico è corrisposto mensilmente dalle università presso cui operano le scuole di specializzazione (art. 39). Tuttavia, tale normativa non ha trovato immediata applicazione in quanto l'ari. 46 dello stesso provvedimento ha disposto "agli oneri recati dai titolo vi del presente decreto legislativo si provvede nei limiti delle risorse previste dall'art. 6. comma 2, della legge 29 dicembre 1990. n. 428, delle quote del Fondo sanitario nazionale destinate al finanziamento della formazione dei medici specialisti, nonché delle ulteriori risorse autorizzate da apposito provvedimento legislativo. le disposizioni di cui agli articoli 39 e 41 si applicano dall'entrata in vigore del provvedimento di cui al comma 1; fino all'entrata in vigore del predetto provvedimento continuano ad applicarsi le disposizioni di cui all'art. 6 del decreto legislativo 8 agosto 1991, n. 257". Infine, l'art. 1, comma 300 della legge 23 dicembre 2005 n. 266 ha apportato ulteriori modifiche al decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 368, sostituendo all'articolo 37 le parole "diformazione- lavoro" con le parole "di formazione specialistica" e rideterminando i profili attinenti al trattamento economico, prevedendo in particolare che il trattamento economico è costituito da una parte fissa, uguale per tutte le specializzazioni e per tutta la durata del corso, e da una parte variabile, ed è determinato annualmente con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca, di concerto con il ministro della salute e con il ministro dell'economia e delle finanze, avuto riguardo preferibilmente al percorso formativo degli ultimi tre anni. La norma, inoltre, prevede espressamente che tale diverso assetto retributivo si applichi a decorrere dall'anno accademico 2006-2007, ribadendo che tino all'anno accademico 2005-2006 rimane operante la disciplina dettata dal decreto legislativo 8 agosto 1991, n. 257. ora, è incontroverso che, nella specie, l'Università di Catania abbia, appunto, applicato detta ultima normativa, e ciò ha fatto nel rispetto della volontà del legislatore nazionale, quale emerge dalla ricostruzione degli interventi succedutesi nel tempo. Non resta, a questo punto, che prendere in esame le domande spiegate in ricorso secondo il seguente ordine logico. Quanto alla domanda volta ad ottenere l'accertamento che l'attività svolta dagli specializzandi possa configurarsi come rapporto di lavoro subordinato, reputa il Tribunale che la tesi pro- spettata da parte ricorrente non possa essere condivisa. Sul punto, infatti, è sufficiente evidenziare che la Corte di Cassazione ha escluso, con orientamento ormai consolidato e reiteratamente espresso, che l'attività degli specializzandi possa essere ricondotta nell'ambito della subordinazione di fatto ed è stato evidenziato come il contratto previsto dall'art. 37 citato prevede "un peculiare tipo di rapporto dejìniio, appunto, "specifico contratto annuale di formazione lavoro disciplinato dal presente decreto legislativo e dalla normativa per esso vigente. ": si tratta, quindi, di uno specifico "contralto di formazione- lavoro" regolato da una particolareggiata disciplina che sfugge alla generale distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo in quanto le prestazioni degli interessati sono volte soprattutto alla formazione teorica e pratica e non invece a procacciare utilità alle strutture sanitarie (Cass. 9789/1995). in particolare, il fine della direttiva Cee n. 76 del 1982 contenente il riferimento ad un'adeguata remunerazione era ed è quello di coordinare le condizioni di formazione nella Comunità europea dei medici specializzandi e detta direttiva vincolo gli stati membri solo in merito al risultato da conseguire. le prestazioni dei medici interessati non sono volte a conseguire, come detto, un'utilità per l'Università parte in causa e così non vi è il requisito della destinazione ad altri del risultato in relazione a cui è svolta la prestazione lavorativa, come accade invece nel lavoro subordinato; le prestazioni stesse RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 mirano in realtà alla formazione degli aventi diritto con il conseguimento, al fine corso, di un titolo abilitante (Cass. 6089/1998)" (così già Cass. 20403/2009: e in seguito in seno conforme Cass. Sez. Lav. Sentenza n. 15362/2014). Alla luce di quanto osservato rileva il Tribunale come l'art. 36 della Costituzione, richiamato da parte ricorrente al fine dell'adeguamento retributivo, non può trovare applicazione essendo del tutto estraneo alla fattispecie in esame. Neppure possono trovare accoglimento la domanda volta ad ottenere la disapplicazione della normativa interna nella parte in cui non prevede l'estensione retroattiva della nuova disciplina perché in contrasto, secondo la prospettazione di parte ricorrente, con la direttiva Comunitaria self executing in materia, e quella di risarcimento del danno conseguente al tardivo o inesatto recepimento delle direttive comunitarie, In proposito il decidente, condividendoli, reputa sufficiente richiamare gli argomenti già espressi da questo Tribunale nelle pronunce sopra citate, evidenziando quanto segue. Si è già rilevato che la direttiva CEE 82/76 (poi recepita con L. n. 428/1990 e d.lgs. n. 257/1991) prevedeva soltanto "l'adeguata remunerazione" per la partecipazione alle scuole di specializzazione afferenti alle Facoltà di medicina, che comportasse lo svolgimento delle attività mediche del servizio in cui si effettuava la specializzazione, comprese le guardie, con dedizione a tale formazione pratica e teorica per l'intera settimana lavorativa e per tutta la durata dell'anno. Sebbene il principio dell'adeguata remunerazione fosse incondizionato e sufficientemente dettagliato (cfr. Cass. 4/2/2005 n. 2203), la medesima direttiva lasciava testualmente alle autorità competenti di ciascuno Stato membro la scelta politica di individuare le disposizioni più idonee ad assicurare questa "adeguata remunerazione" (Cass. n. 9842/2002 cit.). Nessun vincolo, dunque, nasceva da quella direttiva per il legislatore nazionale nel senso di configurare necessariamente il rapporto come di lavoro subordinato (o parasubordinato: Cass. n. 6089/1998). Pertanto si configurava come conforme alle direttive il D.Lgs. n. 257/1991. che prevedeva soltanto una borsa di studio di importo determinato, senza alcun aggancio a prestazioni rese da soggetti del tutto diversi (medici del servizio sanitario nazionale) nell'ambito di un rapporto giuridico del tutto diverso (pubblico impiego, oppure convenizionamento con medici cc.dd, parasubordinati). La situazione normativa non muta - ai fini in questa sede rilevanti - a seguito della successiva direttiva CEE 93/16, giacché quest'ultima prevede nuovamente la partecipazione del medico alla totalità delle attività mediche del servizio nel quale si effettua la formazione, comprese le guardie, in modo che lo specialista in via di formazione dedichi a tale formazione, pratica e teorica, tutta la sua attività professionale per l'intera durata della normale settimana lavorativa e per tutta la durata dell'anno. Inoltre, anche questa direttiva ribadisce il principio dell'adeguata remunerazione, ma rinvia nuovamente alle autorità nazionali competenti per la determinazione delle modalità più idonee ad assicurare la formazione adeguatamente remunerata. Di talchè. anche a seguito della direttiva del 1993 è rimasta confermata la discrezionalità politica di ciascuno Stato membro di scegliere il mezzo giuridico più opportuno per assicurare i risultati dell'idoneità della formazione medica, da un lato, dell'adeguata remunerazione, dall'altro. mette conto in proposito rilevare che la Corte di Cassazione ha escluso che il legislatore nazionale si sia reso inadempiente rispetto agli obblighi comunitari per aver differito l'entrata in vigore del d.lgs 368/1999, ed ha evidenziato che, in realtà, detti obblighi erano già stati assolti attraverso il D.Lgs. n. 257/1991 che ha disciplinato i rapporti delle Università con gli specializzandi (Cass. 22 settembre 2009 n. 20403). CoNTENzIoSo NAzIoNALE Le argomentazioni espresse da questo Tribunale e fin qui richiamate sono suffragate da quanto statuito dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 15362 del 2014 con la quale il ricorso è stato rigettato per le motivazioni che appare opportuno riportare: "la deduzione per cui lo stesso legislatore italiano avrebbe mutato la legislazione del 91 con l'introduzione di una nuova normativa del 99 incentrata sullo schema della "formazione-lavoro" non appare di per sè decisiva: anche ammettendo che tale schema fosse più pertinente per disciplinare la specifica attività dei medici specializzandi (comunque entrata in concreto in vigore solo nel 2007) questo non prova che la precedente esperienza non fosse idonea in ordine al recepimento delle direttive ed a dare una tutela al diritto ivi affermato dell’"adeguata retribuzione". la discrezionalità di cui disponeva il nostro paese nel dare esecuzione agli obblighi europei è stata esercitata nel 91 attraverso un meccanismo di remunerazione incentrato su "borse lavoro" che poi è stato sostituito da altro sistema, in ipotesi più efficiente e più razionale. il presupposto in verità di tutte le doglianze sviluppate nel ricorso è che possa sussistere un'analogia tra l'attività dei medici specializzandi, presupposto reso esplicito ed evidente dal richiamo in entrambi i motivi qui in esame all'art. 36 Cosi., e quella tipica del lavoro subordinato già esclusa da questa Corte che ha affermato che "non è inquadrabile nell'ambito del rapporto di lavoro subordinato, ne' del lavoro autonomo l'attività svolta dai medici iscritti alle scuole di specializzazione che costituisce una particolare ipotesi di "contratto di formazione- lavoro", oggetto di specifica disciplina, rispetto alla quale non può essere ravvisala una relazione sinallagmaiica di scambio tra l'attività suddetta e la remunerazione prevista dalla legge a favore degli specializzandi in quanto tali emolumenti sono destinati a sopperire alle esigenze materiali per l'impegno a tempo pieno degli interessati nell'attività rivolta alla loro formazione non costituiscono, quindi, il corrispettivo delle prestazioni svolte, le quali non sono rivolte ad un vantaggio per l'Università, ma alla formazione teorica e pratica degli stessi specializzandi ed al conseguimento, alfine corso, di un titolo abilitante" (Cass. n. 20403/09; Cass. n. 27481/2008). Pertanto il richiamo al rispetto di un orario di lavoro ed alla assimilabilità tra l'attività svolta dai ricorrenti e quella dei medici a pieno titolo nelle strutture ospedaliere appare non pertinente ed irrilevante e svela la pretesa di considerare lavoro subordinato tout court un'attività che, viceversa, anche sotto il profilo della responsabilità professionale, appare invece fortemente connotata da preminenti esigenze di ordine formativo nell'interesse prioritario dell'interessato...". In definitiva, deve essere esclusa la dedotta violazione del diritto comunitario e ciò tanto con riguardo alla chiesta disapplicazione della normativa interna sia con riguardo alla asserita responsabilità di natura indennitaria dello Stato italiano per mancata o parziale trasposizione della direttiva. Venendo al diritto alla rideterminazione triennale e alla indicizzazione annuale della borsa di studio, deve osservarsi quanto segue. Premesso il difetto di legittimazione passiva della Presidenza del Consiglio dei ministri, la presenza in giudizio di tale soggetto essendo giustificata in relazione ai pretesi effetti conseguenti alla mancata attuazione, da parte dello Stato Italiano, della direttiva comunitaria, ed essendo del tutto estranea alla pretesa diretta ad ottenere le differenze retributive derivanti dall'applicazione dei meccanismi dì adeguamento previsti dall'art. 6, comma 1. D.Lgs. 257/91, sempre in via preliminare, va esaminata l'eccezione di prescrizione tempestivamente proposta dall'Università degli Studi di Catania e dai ministeri tenuti in solido con la prima. L'eccezione non è fondata. Innanzitutto, in considerazione del titolo delle pretese, di carattere retributivo, si rende appli RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 cabile la prescrizione quinquennale. Si discute, infatti, di componenti di un compenso da corrispondersi periodicamente sicchè il regime prescrizionale è quello quinquennale di cui all'art. 2948 n. 4 c.c. Il ricorrente ha chiesto la rideterminazione dei compensi relativi agli anni accademici 2004/2005 e 2005/2006 e il primo atto interruttivo è costituito dalla richiesta per tentativo di conciliazione, datato 29 gennaio 2009 e ricevuto dall'Università e dai ministeri menzionati in data 19 febbraio 2009. È evidente che il termine di prescrizione quinquennale non era spirato all'atto della notificazione della richiesta per tentativo di conciliazione. L'articolo 6, comma I. D.Lgs. 257/91 prevede quanto segue: "agli ammessi alle scuole di specializzazione nei limiti definiti dalla programmazione di cui all 'art.2, comma 2 in relazione all'attuazione dell'impegno a tempo pieno la loro formazione, è corrisposta, per tutta la durata del corso, ad esclusione dei periodi di sospensione della formazione specialistica, una borsa di studio determinata per l'anno 1991 in l. 21.500.000. tale importo viene annualmente, a partire dal 1 ° gennaio 1992, incrementato del tasso d'inflazione ed è rideterminato, ogni triennio, con decreto del Ministro della sanità, di concerto con i Ministri dell'Università e della ricerca scientifica e tecnologica e del tesoro, in funzione del miglioramento stipendiale tabellare minimo previsto dalla contrattazione relativa al personale medico dipendente del servizio sanitario nazionale". Come emerge dalla formulazione letterale, la disposizione contempla due forme di adeguamento dell'importo delle borse di studio: un incremento annuale, decorrente dall'1 gennaio 1992, effettuato sulla base del tasso programmato d'inflazione ed una rideterminazione triennale, con decreto ministeriale, in funzione del miglioramento stipendiale tabellare prevista dalla contrattazione collettiva del personale medico. In ordine alla prima forma di adeguamento, considerato che a partire dall'anno 1993 e per gli anni successivi erano intervenute disposizioni (contenute nelle Leggi Finanziarie) che avevano disposto il "blocco" dell'incremento annuale previsto dall'art. 6 comma 1 e che, in assenza di pronunce di illegittimità costituzionale, non poteva essere accordato l'adeguamento preteso dai medici specializzandi, questo giudice si è già espresso in senso sfavorevole (cfr. sentenza 9/7/2015 resa nella causa iscritta al n. 2614/2010 R.G.), in particolare osservando quanto segue. Come evidenziato dalla Corte Costituzionale la ratio della previsione del blocco della stessa è da rinvenirsi nella esigenza di evitare un automatica incremento disposto normativamente, inidoneo a rispecchiare l'effettivo costo della vita. Ed infatti, la Corte costituzionale con sentenza numero n. 432/1997 ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione all'art. 1 comma 33 della Legge 28 dicembre 1995, n. 549 affermando che "la norma impugnata, invero, non persegue affatto l'intento di discriminare irragionevolmente i medici ammessi alle scuole di specializzazione, ma, in una logica di bilanciamento con le fondamentali scelte di politica economica (sentenza n. 245 del 1997) e, inserendosi in un più ampio complesso di norme ispirate alla stessa ratio, adegua la loro situazione ad un diverso principio, generalizzatosi tanto nel settore privato, quanto in quello pubblico. si tratta del principio secondo il quale la difesa dall'aumento del costo della vita è da affidarsi precipuamente alle dinamiche contrattuali, in particolar modo alla contrattazione collettiva, piuttosto che a strumenti legislativi di adeguamento automatico. sotto questo profilo, va rilevato che la legislazione vigente prevede per i medici specializzandi, pur nella peculiarità della loro posizione, un meccanismo di collegamento dell'importo delle borse di studio ai miglioramenti stipendiali del personale medico dipendente dal servizio sanitario nazionale (art. 6 CoNTENzIoSo NAzIoNALE del d.P.R. 8 agosto 1991, n. 257). Pertanto la disposizione censurata, escludendo per le predette borse di studio, in via eccezionale e per un ristretto arco temporale, l'incremento automatico del tasso di inflazione, non appare affatto irragionevole o discriminatoria, ma invece si inserisce in un ampio complesso di norme che perseguono, anche nei settore della sanità, il fine di impedire, per lo stesso periodo di tempo, tutti gli incrementi retributivi conseguenziali ad automatismi stipendiai". Più precisamente deve rilevarsi che la mancata indicizzazione rientrava in un blocco generale adottato dal legislatore ai fini del contenimento della spesa pubblica. In proposito è utile riportare quanto osservato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 29345/2008 secondo cui "la l. 2 dicembre 1995, n. 549, (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), all'art. 1, comma 33, interpretando autenticamente le disposizioni di cui al D.l. 19 settembre 1992, n 384, art. 7, commi 5 e 6, convertito, con modificazioni dalla l. 14 novembre 1992, n. 438, ha stabilito che le suddette disposizioni debbano essere interpretate nel senso che tra le indennità, compensi, gratifiche ed emolumenti di qualsiasi genere, da corrispondere nella misura prevista per l'anno 1992 siano comprese le borse di studio di cui al D.lgs. 8 agosto 1991, n. 257, art. 6. in base alla l. 23 dicembre 1999. n. 488, art. 22, (legge Finanziaria 2000), la disposizione così interpretata continua ad applicarsi anche nel triennio 2000 -2002. 11 divieto di periodico aggiornamento delle borse di studio di cui si tratta è stato peraltro ancora confermato dalla l. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 36, (legge Finanziaria 2003) il quale ha disposto che sino alla stipula del contratto annuale di formazione lavoro previsto dal D.lgs. 17 agosto 1999, n. 368, art. 37, la misura delle borse di studio corrisposle ai medici informazione specialistica, ai sensi del D.lgs. 8 agosto 1991, n. 257, rimane consolidata in quella stabilita dalla l. 27 dicembre 1997, n. 449, art. 32, comma 12". Ancora la suprema Corte (cfr. Cass. 11565/2011 così massimata "in tema di trattamento economico dei medici specializzandi e con riferimento alla domanda risarcitoria per non adeguata remunerazione, l'importo della borsa di studio prevista dall'art. 6 del d.lgs. 8 agosto 1991, n. 257 non è soggetto ad incremento in relazione alla variazione del costo della vita per l'anno 1992, in applicazione di quanto disposto dall'art. 1, comma 33, della legge 2 dicembre 1955 n. 549, trattandosi di misura, (v. sentenza Corte cost. n. 432 del 1997) non irragionevole nè discriminatoria, perchè riferita ad un arco temporale limitato e coerente rispetto al "corpus" normativo, in cui è stata inserita, volto ad impedire, anche nel settore della sanità, gli incrementi retributivi consequenziali ad automatismi stipendiali: la predetta sospensione, inoltre, non contrasta con la Direttiva 82/76/Cee del Consiglio del 26 gennaio 1982 (recepita con il predetto d.lgs. n. 257 dei 1991, in attuazione della legge 29 dicembre 1990, n.428) in quanto in detta disciplina comunitaria non è rinvenibile una definizione di retribuzione adeguata, nè sono posti i criteri per la determinazione della stessa") ha evidenziato come il blocco degli incrementi della borsa di studio dovuti al tasso di inflazione si inserisce in una manovra di politica economica riguardante la generalità degli emolumenti retributivi in senso lato erogati dallo Stato, come riconosciuto dalla Corte Cost. con la sopra richiamata sentenza n. 432/1997. In altri termini a partire dall'anno 1993 e per gli anni successivi erano intervenute disposizioni (contenute nelle Leggi Finanziarie) che avevano disposto il "blocco" dell'incremento annuale previsto dall'art. 6 comma 1 e, in assenza di pronunce di illegittimità costituzionale, non poteva essere accordato l'adeguamento preteso dai medici specializzandi. Questo decidente ritiene di dover riconfermare le argomentazioni già espresse e, per esigenze RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 di sintesi, è sufficiente riportare di seguito la concatenazione delle norme che ha protratto il blocco dell'incremento annuale per tutto il periodo considerato in causa: -l'art. 7, comma 5, D.L. 384/92, conv. con L. 438/92, blocca tutte "le indennità, compensi, gratfiche ed emolumenti di qualsiasi genere, comprensivi, per disposizione di legge o atto amministrativo previsto dalla legge o per disposizione contrattuale, di una quota di indennità integrativa speciale di cui alla legge 27 maggio 1959, n. 324 e successive modificazioni, o dell’indennità di contingenza prevista per il settore privato o che siano, comunque, rivalutabili in relazione alla variazione del costo della vita", prevedend/195, con norma di interpretazione, ha previsto che fra le indennità compensi, gratifiche ed emolumenti di qualsiasi genere di cui all'art. 7, comma 5 siano comprese anche le borse di studio di cui all'art. 6 D. Lgs. 257191; -il blocco è stato confermato per gli anni 1994 - 1996 dall'art. 3 L.537/93, per gli anni 1997 -1999 dall'art. 1 L. 662/96, per gli anni 2000 - 2002 dall'art. 22, comma 1, L. 488/99, per gli anni 2003 2005 dall'art.36, comma 1 L.289/2002, per gli anni 2006 - 2008 dall'art. 1, comma 212 L. 266/05. In sostanza, per effetto della concatenazione di norme sopra riportate, si deve ritenere che, a partire dall'istituzione delle borse di studio di cui si tratta e fino a quando, a decorrere dal 2007, è divenuto operativo il nuovo contratto di specializzazione ex art. 37 D. Lgs. 368/99, non è stato consentito, per effetto del blocco normativamente disposto, l'incremento annuale del tasso di inflazione programmato previsto dall'art. 6, comma 1. occorre ora esaminare la pretesa del medico specializzando con riferimento alla forma di adeguamento previsto dalla seconda parte del comma 1 citato. Il citato precedente di questo decidente non aveva rimarcato la distinzione tra le due forme di adeguamento, che è stata annotata da due pronunce della Suprema Corte (17 giugno 2008 n. 16385 e 29 ottobre 2012 n. 18562). occorre subito precisare che le citate decisioni di legittimità non prendono in esame l'intera fattispecie che qui viene esaminata; la Corte di Cassazione evidenzia che i giudici di merito non hanno distinto fra le due forme di adeguamento previste dall'art. 6, comma 1 D.Lgs. 257/91, rileva che la rideterminazione/adeguamento triennale risulta anch'essa oggetto di blocco, seppure solo per l'anno 1993 (art. 7, comma 1 D.L. 384/92) e rinvia alla corte territoriale per una nuova disamina alla luce dei principi espressi. Ebbene, ritiene questo giudice che sia configurabile il diritto soggettivo, seppure condizionato, dei medici specializzandi alla rideterminazione triennale dei compenso "in funzione del miglioramento stipendiate tabellare minimo previsto dalla contrattazione relativa al personale medico dipendente del servizio sanitario nazionale". Infatti il citato disposto normativo non può che essere inteso come un 'aggancio' dell'importo della borsa di studio alla dinamica stipendiale contrattuale prevista per il personale medico del SSN, nel senso che, accertata una determinata percentuale di incremento dello stipendio tabellare minimo del personale medico per effetto della contrattazione collettiva, la medesima percentuale deve essere applicata (ogni triennio) all'importo della borsa di studio corrisposta agli specializzandi. Tanto premesso, occorre verificare se e con quali scansioni temporali siano intervenuti provvedimenti di 'blocco' anche con riferimento all'adeguamento triennale in oggetto. Come si ricava dalle citate pronunce della Suprema Corte, sicuramente il blocco è intervenuto per l'anno 1993, posto che l'art. 7, comma 1 D.L. 384/92, conv. con L. 438/92, prevede che "Resta ferma sino al 31 dicembre 1993 la vigente disciplina emanata sulla base degli accordi CoNTENzIoSo NAzIoNALE di comparlo di cui alla legge 29 marzo 1983, n. 93, e successive modificazioni e integrazioni. i nuovi accordi avranno effetto dal 1° gennaio 1994". Per gli anni successivi va evidenziato che, mentre non sembra riscontrabile alcun provvedimento di blocco per il periodo I gennaio 1994 -31 dicembre 1997, deve ritenersi che il blocco intervenga nuovamente a decorrere dall'1 gennaio 1998 e fino al 2007, quando viene reso operativo il contratto di specializzazione di cui al D.Lgs. 368/99 (per tale posizione cfr. Corte d'Appello di Torino, sentenza resa nella causa n. 594/2014) e ciò alla stregua delle previsioni di cui all'art. 32, comma 12 della L. 27 dicembre 1997, n. 449 e dall'art. 36, comma 1 della L 27 dicembre 2002, n. 289. La prima prevede che "a partire dal 1998 resta consolidata in lire 313 miliardi la quota del Fondo sanitario nazionale destinata al finanziamento delle borse di studio per la formazione dei medici specialisti di cui al decreto legislativo 8 agosto 1991, n. 257: conseguentemente non si applicano per il triennio 1998-2000 gli aggiornamenti di cui all'articolo 6, comma 1, del predetto decreto legislativo n. 257 del 1991". Come si ricava dai riferimenti alla quota del fondo sanitario nazionale ed agli "aggiornamenti di cui all'articolo 6, comma 1", la norma ha per oggetto l'adeguamento derivante dalla ride- terminazione triennale, anche perché l'incremento annuale, come sopra evidenziato, risulta bloccato per effetto di altra normativa. In ogni caso il blocco è confermato per effetto dell'art. 36, comma 1 della Legge 289/2002 che, dopo avere, nella prima parte, confermato il blocco degli aumenti connessi con variazioni del costo della vita, nella seconda parte prevede quanto segue: "tale divieto si applica anche agli emolumenti, indennità, compensi e rimborsi spese erogali, anche ad estranei, per l'espletamento di particolari incarichi e per l'esercizio di specifiche funzioni per i quali è comunque previsto il periodico aggiornamento dei relativi importi nonché, fino alla stipula del contratto annuale di formazione e lavoro previsto dall’art. 37 del decreto legislativo 17 agosto 1999, n. 368, alle borse di studio corrisposte ai medici in formazione specialistica ai sensi del decreto legislativo 8 agosto 1991, n. 257, il cui ammontare a carico del Fondo sanitario nazionale rimane consolidato nell'importo previsto dall'art. 32, comma 12, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, e successive mo4ficazioni". Dal momento che le disposizioni in tema di contratto annuale di formazione specialistica di cui al D.Lgs. 368/1999 sono divenute operative solo a decorrere dall'anno accademico 2006/2007 (cfr. art. 46 D.Lgs. 368/1999), il blocco dell'incremento triennale si è protratto a decorrere dall'1 gennaio 1997 e per l'intero periodo considerato in causa. Per le considerazioni esposte e risultando che nel quadriennio 1994-1997 vi sono stati interventi della contrattazione collettiva sulla dinamica salariale del personale medico del servizio sanitario nazionale, la domanda diretta ad ottenere l'incremento triennale di cui alla seconda parte del comma 1 art. 6 D.Lgs. 257/1991 merita accoglimento limitatamente al periodo I gennaio 1994 - 31 dicembre 1997. Per quanto sopra, le parti resistenti, esclusi l'Assessorato alla Sanità della Regione Sicilia, l'Azienda ospedaliera convenuta e la Presidenza del Consiglio dei ministri, devono essere condannate in solido al pagamento in favore del ricorrente delle differenze con quanto percepito oltre gli interessi legali dal dovuto al saldo in ragione del dichiarato diritto alla rideterminazione triennale della borsa di studio in conseguenza degli incrementi contrattuali per il personale medico dipendente dal servizio sanitario nazionale. Ricorrono eccezionali ragioni, avuto riguardo alla complessità delle questioni trattate e alle non univoche soluzioni adottate dalla giurisprudenza di merito, per compensare integralmente tra le parti le spese di lite. RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 P.Q.m. Il Tribunale di Catania, in persona del giudice unico dott.ssa Patrizia mirenda, in finzione di giudice del lavoro, definitivamente decidendo nella causa iscritta al n. 9671/2010 R.G., così statuisce: In parziale accoglimento del ricorso, condanna il ministero della Salute, il ministero dell'Economia e delle Finanze, il ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca e l'Università degli Studi di Catania, in solido fra loro, a pagare in favore di F.V. le differenze maturate, negli anni 2004/2005 e 2005/2006 di frequenza del corso di specializzazione, in conseguenza della mancata rideterminazione triennale ex art. 6 D.Lgs. 257/1991 della borsa di studio fruita in funzione dei miglioramenti stipendiali tabellari minimi previsti dalla contrattazione collettiva relativa al personale medico dipendente del SSN intervenuti nel periodo 1 gennaio 1994 - 3 dicembre 1997, oltre interessi di legge. Rigetta nel resto il ricorso. Compensa le spese. Cosi deciso in Catania all'udienza del 26 aprile 2016. CoNTENzIoSo NAzIoNALE Profili normativi e problematici dell’Accesso civico Nota a CoNs. st., sez. iv, seNteNza 12 agosto 2016 N. 3631 Chiara Bianco, Francesco Radicetti* soMMaRio: 1. Cenni sull’origine dell’istituto e sulla sua introduzione nell’ordinamento italiano - 2. Diritto d’accesso e accesso civico: presupposti e coesistenza dei due istituti - 3. Profili problematici per l’individuazione dei limiti all’accesso civico e rinvio al soft law quale possibile strumento di soluzione - 4. Possibile evoluzione dell’istituto. 1. Cenni sull’origine dell’istituto e sulla sua introduzione nell’ordinamento italiano. È possibile rinvenire una prima traccia di disciplina in materia di trasparenza e di accessibilità a favore dei cittadini rispetto ai dati in possesso dell’autorità statuale già nel 1766 nell’allora Regno di Svezia che fu la prima, fra le nazioni d’Europa, ad avere una legge sulla libertà di stampa (tryckfrihetsförordningen) emanata dal Re Adolfo Federico di Svezia, la quale, all’articolo 10, recitava che “..Deve essere concesso libero accesso a tutti gli archivi". La legge ebbe comunque una vita alquanto breve, poiché il ritorno della monarchia assoluta ne segnò la sorte appena sei anni più tardi. Tuttavia il dato storico assume una particolare significatività in quanto la legge sulla libertà di stampa, oltre a tornare in vigore nel secolo successivo conseguentemente al crollo della monarchia, oggi è tutt’ora vigente -pur se ovviamente integrata e modificata -ed assurge a rilievo di carattere costituzionale. Il principio che viene stabilito è che tutte le informazioni o i documenti generati e custoditi presso una pubblica amministrazione debbono essere resi accessibili a chiunque e che tale accessibilità sia realizzata nel minor tempo possibile. Il principio enucleato dalla tryckfrihetsförordningen statuiva allora, e conferma oggi, che tutte le informazioni ed i documenti che una Amministrazione produce attraverso il proprio agire, o detenga ai propri fini istituzionali, siano resi accessibili a chiunque. ovviamente un diritto, per essere tale e non sconfinare nell’arbitrio, deve anche essere necessariamente circoscritto e in questo ambito, anche nell’ordinamento svedese, furono codificate alcune limitazioni, alcune delle quali risalgono al 1980, anno di adozione della “legge sul segreto” (sekretesslag). Le limitazioni all’accesso operano in questo caso su due piani: quello temporale e quello oggettivo. Per quanto attiene alla dimensione temporale, le limitazioni all’accesso non possono superare i 70 anni; sul piano delle materie, (*) Chiara bianco, Dottore in Giurisprudenza, già praticante forense presso l’Avvocatura dello Stato; Francesco Radicetti, Ufficiale superiore dell’Esercito italiano - Ufficio legislativo min. difesa. RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 invece, limitazioni sono previste in materia di sicurezza nazionale, di prevenzione e la repressione criminale, come pure di tutela ambientale. Un ulteriore specifico presidio, infine, è stato introdotto negli anni ’90 in tema di tutela della riservatezza dei singoli cittadini. Dalla seconda metà del secolo scorso il concetto di open government si è ampiamente diffuso a partire dall’area scandinava (Finlandia nel 1951, Norvegia nel 1970), fino ad estendersi, ma non rapidamente, in tutto l’occidente. Se l’esempio più noto e originale è quello statunitense del Freedom of information act del 1966, anche in Europa si sono sviluppati dei modelli di diritto di accesso da parte dei privati, nei confronti dei documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, pur se con caratteri e modalità assai differenti. Nel modello francese, ad esempio, oggetto dell’accesso è il documento amministrativo e non la mera informazione, conseguentemente l’amministrazione sarà tenuta (ed autorizzata) alla semplice esibizione del documento ed all’eventuale rilascio di copia dello stesso. Secondo tale modello l’unica informazione fruibile è quella contenuta nel documento e non già quella che potrebbe essere desunta, laddove richiesto, anche attraverso un interpretazione analitico-sistematica di più documenti o di diversi dati in possesso della medesima amministrazione. Il modello di accesso francese, analogamente a quello che in Italia è stato introdotto con la legge 7 agosto 1990, n. 241, non prevede un accesso generalizzato ai documenti amministrativi, ma prevede una specifica qualificazione giuridica in capo al richiedente. Tale impostazione risente, a ben vedere, da quella del primo modello statunitense contenuto nell’administrative Procedure act del 1946 secondo il quale poteva accedere ai documenti e alle informazioni solamente colui il quale risultasse properly and directly concerned, ovvero il soggetto latore di un interesse qualificato in ordine all’oggetto della richiesta di accesso. La riforma del Governo federale USA del 1966, attraverso il citato Freedom of information act ribalta completamente la precedente impostazione: si passa dalla necessità della presenza di un interesse qualificato in capo al richiedente, ad un accesso open to all. Fatte salve alcune limitazioni introdotte da taluni Stati dell’Unione con riguardo alle qualità dei soggetti richiedenti le informazioni (reclusi o ex detenuti), la regola generale dunque, e soprattutto quella federale, è di una generale disclosure, il che comporta che l’onere di motivare un eventuale diniego all’accesso è posto in capo all’Amministrazione, atteso che il cittadino non è più tenuto a dimostrare di avere un particolare interesse verso una data informazione o un determinato documento. Nel nostro ordinamento si arriva ad ideare una configurazione ordinamentale dell’istituto dell’accesso civico solamente attraverso la previsione contenuta all’articolo 7 della legge 7 agosto 2015, n. 124, recante “Deleghe al governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”, in materia di pubblicità, tra CoNTENzIoSo NAzIoNALE sparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni. Il provvedimento attuativo della citata delega, concretizzatosi con il decreto legislativo n. 97 del 2016, è finalizzato a rafforzare la trasparenza amministrativa, favorendo forme diffuse di controllo da parte dei cittadini, avendo come modello gli standards internazionali. In particolare, il citato provvedimento normativo, che nel complesso apporta significative modifiche alle previgenti disposizioni in materia di trasparenza, disciplinate dal decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, persegue l’obiettivo di: ridefinire l’ambito di applicazione degli obblighi e delle misure in materia di trasparenza; prevedere misure organizzative per la pubblicazione di alcune informazioni e per la concentrazione e la riduzione degli oneri gravanti in capo alle amministrazioni pubbliche; razionalizzare e precisare gli obblighi di pubblicazione; individuare i soggetti competenti all’irrogazione delle sanzioni per la violazione degli obblighi di trasparenza. ma soprattutto, in particolare, è introdotta una nuova forma di accesso civico ai dati e ai documenti pubblici, equivalente a quella dei sistemi anglosassoni sopra descritta e definita Freedom of information act (Foia). L’accesso civico consente, a chiunque, indipendentemente dalla titolarità di situazioni giuridicamente rilevanti, di accedere a tutti i dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, nel rispetto di alcuni limiti tassativamente indicati dalla legge. Si tratta, dunque, di un regime di accesso più ampio di quello già previsto e si distingue dalla disciplina in materia di accesso ai documenti amministrativi di cui agli articoli 22 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241. Sotto il profilo soggettivo, infatti, la richiesta di accesso civico non richiede alcuna qualificazione e motivazione, per cui il richiedente non deve dimostrare di essere titolare di un «interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso», così come stabilito invece per l'accesso ai sensi della legge sul procedimento amministrativo. Dal punto di vista oggettivo, invece, i limiti applicabili alla nuova forma di accesso civico (di cui al nuovo articolo 5-bis del decreto legislativo n. 33 del 2013) sono più ampi e dettagliati rispetto a quelli indicati dall'articolo 24 della legge n. 241 del 1990, consentendo alle amministrazioni di impedire l'accesso nei casi in cui questo possa compromettere alcuni rilevanti interessi pubblici generali. 2. Diritto d’accesso e accesso civico: presupposti e coesistenza dei due istituti. Le prime tracce di un "diritto di accesso" ai documenti amministrativi si possono rinvenire, nell'ordinamento italiano, nell'articolo 31, comma 9, della legge urbanistica del 1942, così come modificato dalla legge 6 agosto 1967, n. 765 (c.d. Legge Ponte). La novella introdotta prevedeva, per la prima volta RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 nell'ambito di un procedimento amministrativo, e precisamente in quello per il rilascio della concessione della licenza edilizia, che "Chiunque può prendere visione presso gli uffici comunali, della licenza edilizia e dei relativi atti di progetto e ricorrere contro il rilascio della licenza edilizia in quanto in contrasto con le disposizioni di leggi o dei regolamenti o con le prescrizioni di piano regolatore generale e dei piani particolareggiati di esecuzione". Analoghi interventi normativi furono replicati anche negli anni seguenti; tra questi si segnala, in materia ambientale, il particolare istituto, antesignano del diritto di accesso, introdotto dalla legge 8 luglio 1986, n. 349, recante “istituzione del Ministero dell'ambiente e norme in materia di danno ambientale”, tutt’ora vigente, che all’articolo 14 comma 3, prevede che "Qualsiasi cittadino ha diritto di accesso alle informazioni sullo stato dell'ambiente disponibili, in conformità delle leggi vigenti, presso gli uffici della pubblica amministrazione, e può ottenere copia previo rimborso delle spese di riproduzione e delle spese effettive di ufficio il cui importo e` stabilito con atto dell'amministrazione interessata". La norma -anche se solo per subiecta materia -possiede ante litteram i tratti distintivi che appartengono oggi all’accesso civico introdotto dal decreto legislativo n. 97 del 2016. È infatti l’utilizzo del chiunque che segna un importante passo in avanti: attribuisce il potere di acquisire copie di atti, di documenti e informazioni dall’amministrazione senza la necessaria presenza, in capo al richiedente, di una specifica situazione legittimante quale invece sarà poi richiesta dalla legge 241 del 1990. “Chiunque”, infatti, è il quisque de populo, un soggetto non suscettibile di qualificazione, ed è diverso dal “chiunque” dell’articolo 31 della legge urbanistica del 1942 laddove l’accesso è consentito, ma prefigura pur sempre la possibilità di “ricorrere con il rilascio della licenza edilizia”. Limitando l’esame della legge 241 del 1990 agli aspetti che qui maggiormente interessano, ovvero quelli attinenti il diritto d’accesso, osserviamo che il Legislatore, consapevolmente, conferisce a tale istituto una particolare dignità, ovvero quella di governare i rapporti tra amministrazione e privati sia nell'ambito del procedimento amministrativo declinato dall'articolo 10 della legge 241 del 1990, che fuori di esso, ovvero riconoscendo, anche qui, a “chiunque vi abbia interesse per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti” una posizione particolare nei confronti dell'ordinamento, tanto da legittimare una richiesta di accedere a documenti detenuti dell'Amministrazione. Nella legge sul procedimento, dunque, coesistono due distinte qualificazioni giuridiche soggettive che consentono al privato di esercitare il diritto di accesso nei confronti dell'Amministrazione: la prima, declinata dall'articolo 10 della citata legge, è relativa all'esercizio di un potere procedimentale limitato al soggetto (che sarà) destinatario di un provvedimento adottato dall’Amministrazione procedente; la seconda, invece, declinata dall'articolo 22 della legge sul procedimento, individua nella formulazione attuale, ovvero quella dopo la riforma del 2005, tutti quei soggetti privati, compresi quelli portatori CoNTENzIoSo NAzIoNALE di interessi diffusi, che abbiano un interesse che definisce diretto concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento del quale è richiesto l'accesso. Siamo dunque in presenza, nell'ambito della legge 241 del 1990 di situazioni giuridicamente rilevanti collegate da soggetti individuati o individuabili nel perimetro di una fase procedimentale; si tratta, quindi, di una situazione giuridica predeterminata dalla legge, in cui il soggetto attivo legittimato si muove all'interno di aspettative ed obblighi connessi al corretto esercizio di una particolare attività dell'Amministrazione, posta in essere nell'ambito del procedimento e funzionalmente collegata ai documenti per i quali il diritto di accesso è esercitato, al punto da costituire un’espressione di una rapporto dialettico esclusivo tra i due soggetti (pubblico e privato). occorre preliminarmente evidenziare che i principi di trasparenza e di democraticità che la legge 241 del 90 descrive sono posti dal Legislatore come valori fondamentali da salvaguardare, costituenti l'attuazione del principio costituzionale di imparzialità, di trasparenza e di democraticità individuati nel- l’articolo 97 Cost. In questa ottica non si può negare come la costruzione della partecipazione al procedimento da parte del Legislatore sia diventata il perno attorno al quale l’Amministrazione concretizza i principi sottesi al citato articolo 97 Cost. e ciò nonostante nel testo costituzionale vigente manchi un espresso principio al diritto di accesso. occorre evidenziare che la riforma del procedimento amministrativo, intervenuta con il decreto legislativo n. 80 del 2005, ha apportato modifiche significative in ordine alla qualità dei soggetti titolari del diritto di accesso. Seppur non si possa parlare di “passo indietro” è una dato oggettivo che la nuova formulazione dell’articolo 22 della legge sul procedimento non faccia più riferimento “a chiunque vi abbia interesse per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti”, quanto, invece, a “tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegato al documento del quale è chiesto l’accesso”. A tal riguardo è di palmare evidenza che la prospettiva che il Legislatore del 2005 ha voluto introdurre è sostanzialmente di natura pre-processualistica: vale a dire che il diritto di accesso può essere esercitato solo dal soggetto che accede ad informazioni e/o documenti al fine di tutelare una situazione giuridica (attuale, concreta e diretta) in un momento antecedente rispetto a quello processuale, che attraverso il rapporto dialettico tra il privato e l’amministrazione si cerca di evitare. Quelli dati al privato latore di un interesse qualificato sono strumenti funzionali al raggiungimento di un bilanciamento degli interessi contrapposti che ben possa prevenire la rimessione “dell’affare” alla cognizione del giudice amministrativo. RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 Con il decreto legislativo 97 del 2016, che ha novellato il decreto legislativo 33 del 2013 recante “Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusioni di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni” novellando l’articolo 5, si introduce dunque l’accesso civico a dati e documenti. Il Legislatore, con questo strumento, ha compiuto un passo importante in materia di trasparenza amministrativa, prevedendo che “chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni”. Tale forma di accesso è dichiaratamente finalizzata a “… favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico…”. È evidente che la disciplina dell’accesso civico non si sostituisce all’accesso qualificato della legge sul procedimento, ma supera -di fatto e di diritto -la necessaria qualificazione giuridica del soggetto attivo ai fini dell’accesso a ogni informazione, dato o documento di cui l’Amministrazione sia detentrice. La terminologia usata al comma 2 dell’articolo 5, ovvero l’esclusivo riferimento a forme diffuse di controllo dell’operato della PA e lo stimolo alla partecipazione al dibattito sembra escludere che le informazioni, i dati e i documenti ottenuti tramite questo istituto siano utilizzabili in sede giurisdizionale. D’altro canto, la mancata previsione di un onere motivazionale in capo al richiedente induce a ritenere che quanto assunto sia spendibile in qualsiasi sede, dal pubblico dibattito allo scranno del giudice. Peraltro non si può sostenere che l’ostensione di informazioni, dati e documenti potrebbe essere diversa a seconda dell’uso che il soggetto richiedente dichiari eventualmente di farne. A dirimere ogni dubbio, o forse ad alimentarne altri, c’è poi la previsione di cui al comma 3 del citato articolo 5, che espressamente esclude la necessità di una qualsivoglia legittimazione soggettiva del richiedente. occorre dunque interrogarsi su quale residuale utilità permanga in capo all’istituto del diritto di accesso di cui all’articolo 10 della legge 241 del 1990. Sotto il profilo del contesto giuridico nel quale il richiamato istituto opera non v’è dubbio che sia quello del procedimento amministrativo, in ordine al quale la partecipazione è garantita ai soggetti che nel procedimento abbiano un interesse (attivo o passivo, da cui la relativa e conseguente legittimazione). Tuttavia è altrettanto evidente che il tenore dell’articolo 5 del decreto legislativo 33 del 2013 è tale da consentire a chiunque, se non di partecipare al procedimento (partecipazione intesa quale capacità di presentare memorie o documenti che potrebbero essere utilizzati dalla PA per definire il contenuto del provvedimento finale del procedimento), sicuramente di acquisire le stesse informazioni di un soggetto qualificato ai sensi dell’articolo 10 della legge 241/90. Conseguenziale è poi la considerazione circa la maggiore utilità che il ri CoNTENzIoSo NAzIoNALE corso all’istituto dell’accesso civico potrebbe fornire rispetto al ricorso al diritto di accesso. Poniamo il caso di un procedimento amministrativo per il rilascio di una concessione edilizia o di un’attività di impresa industriale. E poniamo il caso che tale attività sia strategica, oltre che per l’imprenditore, anche per la collettività in vista delle possibili ricadute positive (occupazionali, sociali, economiche etc.), ma che sussistano interessi di carattere ambientale e paesaggistico che collidono con l’ubicazione e l’avvio dell’attività industriale. Quale strategia potrebbe essere la più utile da seguire per chi sostiene la causa economico sociale dell’impresa e per chi, invece, sostiene la causa ambientalistico- ecologica? Partecipare al procedimento attraverso gli strumenti dialettici previsti dalle legge 241/90 o, piuttosto, acquisire i medesimi dati e informazioni per sviluppare un dibattito pubblico che sposti il baricentro della questione da quello tecnico-giuridico della legittimità a quello dell’opportunità (o della convenienza) politica? Quale ruolo potranno ricavarsi gli stakeholders attraverso un sagace utilizzo dell’accesso civico? A tali domande, al momento, non c’è alcuna risposta. Probabilmente il dubbio rimarrà tale fintanto che non saranno pubblicate, da parte dell’ANAC, le Linee guida previste per l’attuazione da parte delle Amministrazioni interessate della nuova disciplina. Certamente gli ambiti operativi del diritto d’accesso e dell’accesso civico sono diversi, e tali resteranno, ma la nuova declinazione del rapporto tra PA e privato sono tali da consentire a quest’ultimo di spostare la soluzione di eventuali conflitti dal piano procedimentale, e quindi legale, a quello dell’opportunità politica, a tutto svantaggio della certezza del diritto. 3. Profili problematici per l’individuazione dei limiti all’accesso civico e rinvio al soft law quale possibile strumento di soluzione. La disciplina dei limiti all’accesso civico è regolata all’articolo 5-bis del decreto legislativo n. 33 del 2013 e rappresenta una conseguenza dell’estensione recata al principio di trasparenza a seguito dell’introduzione di una posizione giuridica di libertà totale. Ribaltato il punto di vista sino ad ora adottato, il nuovo istituto non è più caratterizzato dalla centralità degli obblighi dell’Amministrazione quanto da una posizione giuridica soggettiva di libertà di accesso ai “dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni”. Il meccanismo dei limiti, che impone un’attività di bilanciamento degli interessi “pubblici e privati giuridicamente rilevanti”, da una parte, pone una similitudine con il parallelo istituto del diritto di accesso, dall’altra si differenzia dal meccanismo degli obblighi di pubblicità (1) relativi ad un elenco tassativo (1) In Dottrina non si è mancato di dire che l’introduzione dell’accesso civico in base alla legge n. 33/2013 avrebbe risolto il problema interpretativo relativo alla relazione che lega la nozione di pub RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 di dati e documenti. Il diritto di accesso regolato alla legge n. 241 del 1990 presenta infatti una complessa disciplina delle esclusioni all’accesso a supporto dell’attività di bilanciamento degli interessi rilevanti. Anche se il principio di trasparenza sembra aver raggiunto la massima estensione per effetto dell’introduzione dell’accesso civico, non risulta affatto superata la considerazione secondo la quale “nell'operazione di bilanciamento degli opposti interessi la P.a. stessa deve determinare la linea di confine tra la conoscenza necessaria, che impone la possibilità dell'accesso, e la conoscenza non necessaria, rispetto alla quale l'accesso può essere legittimamente negato” (2). Allo stesso modo il Consiglio di Stato (3) ha affermato che l’accesso civico si pone “nel quadro di un delicato meccanismo di contrappesi che vede, da un lato, l’imposizione di limiti e cause di esclusione più ampi e stringenti alla generale accessibilità, dall’altro significative misure di semplificazione e di alleggerimento circa gli oneri di pubblicazione che gravano sulle amministrazioni. Un delicato, e sicuramente apprezzabile, lavoro di bilanciamento di interessi contrapposti, o comunque non sempre collimanti”. L'articolo 5-bis individua, in base alla tecnica dell’elencazione, gli interessi pubblici e privati rilevanti ai fini dell’esclusione tra i quali figura la sicurezza pubblica, la sicurezza nazionale, la difesa e le questioni militari (4); quanto agli interessi privati, si segnala l’interesse alla protezione dei dati personali (5). Uno specifico limite è stato poi individuato nei casi di “segreto di stato e negli altri casi di divieti di accesso o divulgazione previsti dalla legge”. La categoria dei limiti risulta infine ampliata per effetto del meccanismo del rinvio, in base al quale “l’accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti, inclusi quelli di cui all’articolo 24, comma 1, della legge n. 241 del 1990 ”(6). L’articolo 5-bis, pertanto, blicità al principio di trasparenza. Ponendo l’obbligo di pubblicazione informativa per garantire la conoscibilità di talune categorie di dati, il legislatore avrebbe infatti chiarito che il principio di pubblicità sia distinto ed autonomo rispetto al principio di trasparenza. In particolare, il primo sarebbe posto a guarentigia della conoscibilità di un elenco tassativo di dati rilevanti; il secondo, che si concretizza nella libertà di accesso totale dei dati e dei documenti, di fatto tutela la piena conoscenza anche dei dati rilevanti che l’Amministrazione non abbia reso pubblici. Il principio di trasparenza peraltro avrebbe carattere generale: in caso di mancata attuazione dell’obbligo di pubblicità stabilito dalla novella, la conoscenza dei dati risulterebbe comunque garantita dall’istituto dell’accesso civico che, in sintesi, attuerebbe il principio di trasparenza nell’ordinamento italiano. A. SImoNATI, la trasparenza amministrativa e il legislatore: un caso di entropia normativa?, Diritto amministrativo, fasc. 4, 2013, pag. 749. (2) Sentenza del Consiglio di Stato, del 15 marzo 2010 n. 1493, che ha analizzato il rapporto tra accesso, riservatezza dei terzi e segreto d'ufficio. (3) Nell’ambito del parere consultivo n. 343 del 18 febbraio 2016. (4) Nonché: “le relazioni internazionali; la politica e la stabilità finanziaria ed economica dello stato; la conduzione di indagini sui reati e il loro perseguimento; il regolare svolgimento di attività ispettive”. (5) Figurano inoltre “la libertà e la segretezza della corrispondenza; gli interessi economici e commerciali di una persona fisica o giuridica, ivi compresi la proprietà intellettuale, il diritto d’autore e i segreti commerciali”. CoNTENzIoSo NAzIoNALE illustra le tipologie di interessi rilevanti ai fini dell’esclusione, la cui puntuale definizione è attribuita alla competenza dell’Autorità nazionale anticorruzione (7) che adotta “linee guida recanti indicazioni operative”. Se gli interessi pubblici e privati contrapposti sono stati tassativamente individuati dalla legge, la concreta definizione dei casi di esclusione all’accesso è ora demandata ad un provvedimento di soft law; le esclusioni al diritto di accesso, invece, erano state invece definite con il D.P.R 27 giugno 1992, n. 352. Emerge una differenza, di carattere formale, che attenua il legame tra i due strumenti attuativi del principio di trasparenza e trova ragione nella volontà del Legislatore di recare una tutela unitaria al preminente interesse del contrasto ai fenomeni corruttivi e della trasparenza (8). L’attribuzione della competenza in questione al potere regolamentare dell’ANAC è quindi funzionale alla realizzazione di una missione istituzionale, la cui realizzazione impone il sacrificio delle questioni formali (9). Quanto al profilo sostanziale, il Consiglio di Stato stesso ha evidenziato che “i limiti applicabili alla nuova forma di accesso civico (…) risultano più ampi e incisivi rispetto a quelli indicati dall'articolo 24 della legge n. 241 del 1990”, quale effetto dell’introduzione di una inedita posizione giuridica del cittadino configurata in termini di libertà totale di accesso. La complessa attività di individuazione di un equilibrio tra le ragioni della trasparenza, da una parte, e gli interessi pubblici e privati non sacrificabili ha alimentato “le perplessità circa la concreta efficacia del provvedimento in esame. in mancanza di criteri più dettagliati per la valutazione del pregiudizio che la pubblicazione (6) In base a tale rinvio, l’accesso civico è escluso “per i documenti coperti da segreto di stato ai sensi della legge 24 ottobre 1977, n. 801, e successive modificazioni, e nei casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge, dal regolamento governativo di cui al comma 6 e dalle pubbliche amministrazioni ai sensi del comma 2 del presente articolo; nei procedimenti tributari, per i quali restano ferme le particolari norme che li regolano; nei confronti dell'attività della pubblica amministrazione diretta all'emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, per i quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione; nei procedimenti selettivi, nei confronti dei documenti amministrativi contenenti informazioni di carattere psico attitudinale relativi a terzi”. (7) “D’intesa con il garante per la protezione dei dati personali e sentita la Conferenza Unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281”. (8) “il diritto di accesso ... è collegato a una riforma di fondo dell' amministrazione, ispirata ai principi di democrazia partecipativa, della pubblicità e trasparenza dell'azione amministrativa desumibili dall'art. 97 Cost., che s'inserisce a livello comunitario nel più generale diritto all'informazione dei cittadini rispetto all'organizzazione e alla attività... amministrativa quale strumento di prevenzione e contrasto sociale ad abusi e illegalità...” (Cons. Stato. Sent. n. 14 luglio 2016 n. 3631). (9) Tuttavia, in astratto, potrebbe porsi un problema di confronto fra le diverse normative in materia di limiti, si pensi al caso in cui, “una volta esercitata la facoltà di avvalersi esclusivamente di uno degli istituti sopraindicati mediante la presentazione della relativa specifica istanza, non è possibile poi far valere, con la pretesa automaticità, le prerogative di tutela previste per l'altro procedimento, siccome giammai attivato dal soggetto interessato (tuttavia possono di fatto verificarsi casi di contrasto normativo)” T.A.R. Campania Napoli Sez. VI, Sent., 14 gennaio 2016, n. 188. RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 potrebbe arrecare agli interessi tutelati, le amministrazioni, infatti, potrebbero essere indotte ad utilizzare la propria discrezionalità nella maniera più ampia, al fine di estendere gli ambiti non aperti alla trasparenza, e sicuramente la genericità di alcune previsioni, pur riferite a tematiche “sensibili” (come, a titolo di esempio, le “questioni militari” o le “relazioni internazionali”) potrebbe essere motivo dell’insorgenza di ulteriore contenzioso”. All’ANAC è attribuita la delicata attività di elaborazione delle esclusioni alla disclosure per attribuire chiarezza ad una materia dai confini incerti. Il contesto applicativo sembra essere il punto di vista dal quale analizzare la materia: le Linee guida dovrebbero garantire all’operatore -pur nell’ottica della maggiore trasparenza -una dinamica di individuazione delle esclusioni che sia aperta alle esigenze del caso. In altre parole, non si può prescindere dalla considerazione delle difficoltà che caratterizzano l’ambito applicativo, lo spazio giuridico entro il quale il valore della trasparenza esprimerà il suo proprio carattere relazionale. L’accesso civico e la legge 241/1990, oltre ad essere parallelamente vigenti, sono connessi per effetto del rinvio contenuto all’articolo 5 bis che il Consiglio di Stato ha ritenuto “particolarmente opportuno”. Si tratta di un’indicazione metodologica: ai fini della redazione delle Linee guida risulta necessaria la ricognizione e la conseguente catalogazione della normativa preesistente composta dall'articolo 8 del D.P.R 27 giugno 1992, n. 352 nonché dalla costellazione dei relativi regolamenti ministeriali. L’ANAC è chiamata pertanto ad individuare la più efficace tecnica normativa di attuazione, in concreto, del collegamento. L’elencazione dei casi di esclusione già previsti per il diritto di accesso sembra la soluzione più accurata, nella consapevolezza che le Linee guida non sono abilitate a produrre anche un effetto ulteriore, quale la modificazione - in termini di aggiornamento e di abrogazione - delle fonti secondarie preesistenti. La tecnica del mero rinvio oppure il ricorso al procedimento analogico, invece, dilaterebbero non poco lo spazio interpretativo della fase applicativa. Alla scelta della più efficiente modalità di catalogazione delle esclusioni già esistenti si aggiunge la delicata competenza relativa all’elaborazione di un contenuto ulteriore, riferibile esclusivamente all’accesso civico. La definizione di un ulteriore ambito di esclusione dovrebbe essere guidata dal criterio valutativo del pregiudizio concreto agli interessi protetti dal Legislatore. Tale contenuto potrebbe essere dedicato alla catalogazione dei casi di "esclusione indiretta" che, ad esempio, si verificano quando il documento potrebbe essere indicatore di fattori ulteriori suscettibili di esclusione. L’equiparazione della disciplina relativa ai limiti del diritto di accesso non è pertanto automatica: l’attribuzione di una posizione giuridica di libertà totale, per l’effetto, è stata bilanciata dall’elencazione di limiti più ampi. Ad ogni modo, dalla ratio del testo novellato emerge il criterio interpretativo della sempre maggiore trasparenza, con la funzione di uniformare un sistema com CoNTENzIoSo NAzIoNALE plesso, costituito dalle esclusioni vigenti (il livello minimo di tutela degli interessi opponibili) e dal nuovo contenuto ulteriore. Il sistema dell’accesso civico si struttura sul collegamento dei limiti al sistema delle esclusioni, configurando un’endiadi. Si tratterebbe pertanto di un complesso unitario di senso nell’ambito del quale il limite avrebbe la funzione di delimitare il contesto operativo mentre l’esclusione, rappresentando il profilo dinamico, qualificherebbe l’effetto atteso in conseguenza della valutazione operativa. Da una tale interpretazione conseguirebbe che il maggior rigore mostrato dal Legislatore con l'individuazione dei limiti dovrebbe essere bilanciato dalla predisposizione di forme di esclusione elaborate in termini aperti per abbracciare le ipotesi applicative in parte già esistenti. Se il criterio della tassatività sembra conferire rigidità alla materia, appare invece coerente la più ampia considerazione del criterio della determinatezza, quale limite espresso all’attività discrezionale dell’Amministrazione. Il richiamo alla determinatezza, che esprime del resto l’esigenza di chiarezza cui l’ordinamento giuridico deve generalmente tendere, appare in linea con l’auspicato consolidamento del valore della trasparenza. Quale effetto esterno, la determinatezza delimiterebbe poi la posizione del cittadino che -in via di principio -appare dilatata alla massima estensione mentre, di fatto, non può che essere compressa. Nonostante l’affermazione programmatica di una libertà totale, la delimitazione della nozione di conoscibilità dei dati e dei documenti non sembra completata. Allo stato attuale, soltanto il sistema dei tassativi obblighi di pubblicità può ritenersi depositario della pura trasparenza, quale completa forma di assimilazione dell’ordinamento italiano al F.o.I.A. L’attività di convergenza dell’ordinamento italiano ai sistemi anglosassoni ha in sostanza determinato la separazione, semantica ed operativa, del principio di pubblicità dal principio di trasparenza ma non ha sancito la piena attuazione del valore della trasparenza. 4. Possibile evoluzione dell’istituto. In attesa della piena operatività del sistema, le questioni che emergono dalla novità dell’istituto possono essere affrontate analizzando, in un’ottica comparatistica, i sistemi giuridici in cui il valore della trasparenza risulti già radicato. L’interpretazione del quadro normativo nazionale fornita dalle pronunce in materia di trasparenza costituisce poi uno strumento, nei limiti che di seguito saranno chiariti. Il sistema trasparenza, ad oggi, risulta caratterizzato dalla coesistenza di istituti diversi in ordine al grado di apertura che si intende garantire. Ai fini di una corretta estensione dei principi e dell’interpretazione giurisprudenziale, deve pertanto essere considerato in via preliminare quale sia l’ambito del sistema trasparenza in cui il principio sia stato affermato; soltanto nel caso di un’affinità in ordine all’intensità della trasparenza così garantita sarà possibile effettuare l’estensione del principio. In tale senso RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 risultano estendibili all’accesso civico le pronunce in materia di accesso ambientale, in quanto rappresenta un meccanismo di accesso, sostanzialmente, totale. Una specifica forma di accesso totale era già stata configurata inoltre nell’ambito dell’articolo 24 della legge 241/1990; in particolare "deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici" (art. 24, comma 7)” (10). L’istituto di cui al d.lgs. n. 33/2013 rappresenta invece il primo tentativo di introduzione del F.o.I.A, concretizzato in specifici oneri di pubblicità in relazione ad un elenco tassativo di informazioni rilevanti. Più che l’attuazione del principio di trasparenza, il primo tentativo di predisposizione dell’accesso civico ha di fatto sancito la separazione operativa degli obblighi di pubblicità dalla nozione di trasparenza. Il testo novellato ha invece ribaltato il punto di vista adottato garantendo, in via generale, l’accesso a qualsiasi dato o documento ed ha tracciato poi il confine degli interessi pubblici e privati opponibili. Le pronunce in materia di accesso civico in base al d.lgs. n. 33/2013 non sembrano pertanto automaticamente estendibili al nuovo accesso civico, che pure rappresenta lo strumento residuale di attuazione degli obblighi di pubblicità che l’Amministrazione non abbia tempestivamente considerato. In ragione della diversità strutturale dei due istituti, le pronunce riferibili al testo del 2013 non possono essere acriticamente richiamate ma rappresentano un elemento interpretativo del sistema in senso complessivo, in cui il principio di trasparenza può avere una funzione uniformante. Tanto sembra aver chiarito il Consiglio di Stato (11) osservando che “Diversi (10) “in altri termini, il legislatore ha già operato all'origine un bilanciamento degli interessi, affermando la cedevolezza delle esigenze connesse alla segretezza a fronte di quelle alla difesa degli interessi dell'istante, quando i documenti richiesti risultino a tal fine necessari” (Consiglio di Stato, sez. IV, 13 aprile 2016, n. 1435). (11) Sez. IV, Sent., 14 luglio 2016, n. 3631. Il Consiglio di Stato ha trovato l’occasione di pronunciarsi, per la prima volta, in merito all’accesso civico novellato nell’ambito di un contenzioso in materia di diritto di accesso qualificato. In breve, l’interessato, giornalista di un noto periodico, presentava al ministero dell’economia e finanze formale richiesta di accesso, in base all’articolo 22 della legge 241/1990, a documenti riguardanti contratti in derivati conclusi con istituti finanziari stranieri. Riconduceva il proprio interesse qualificato al diritto di cronaca (art. 21 della Costituzione). L’Amministrazione rimaneva inerte, pertanto il giornalista adiva il TAR, con il ricorso n. 6692/2015 RG, al fine d'accedere ai documenti in questione e per sentir dichiarare il proprio diritto ad ottenerne l'ostensione e l'esibizione ex art. 116, c. 4, c.p.a. Il TAR, con sentenza n. 13250 del 24 novembre 2015, rigettava il ricorso, non riscontrando elementi sufficienti a fondare una legittimazione qualificata all'accesso ed in quanto “l'effetto di tale divulgazione è pregiudizievole sulle attività in derivati, con svantaggio competitivo di stato ed istituti nel mercato relativo”. L’interessato proponeva appello, deducendo -tra gli altri motivi -l'erroneità dell'impugnata sentenza per non aver riconosciuto un interesse rilevante e differenziato all’accesso. Resisteva in giudizio il ministero intimato che insisteva per il difetto di legittimazione all'accesso e per l'infondatezza del presente gravame. All'udienza camerale del 14 luglio 2016, su conforme richiesta delle parti, il ricorso in epigrafe veniva assunto in decisione dal Collegio che riteneva l’appello fondato limitatamente alla statuizione sulle spese del giudizio, “per il resto non potendo esser condiviso, anche se la sentenza del tribunale amministrativo merita, in punto di motivazione,” precisazioni. CoNTENzIoSo NAzIoNALE sono i presupposti che connotano i casi di c.d. "accesso civico" ex art. 5 del D.lgs. n. 33 del 2013 (anche nel testo previgente alla novella del 2016), che tuttavia presuppongono la sussistenza di un obbligo di pubblicazione (cfr. funditus Cons. st., vi, 20 novembre 2013 n. 5515). e ancora diversi sono i presupposti che disciplinano l'accesso ai sensi del decreto legislativo n. 97 del 2016, che svincola il diritto di accesso da una posizione legittimante differenziata (art. 5 del decreto n. 33 del 2013 nel testo novellato)”. La materia dei limiti all’accesso civico pone un collegamento al parallelo istituto del diritto di accesso: non è un caso che il Consiglio di Stato abbia già trovato occasione (12), nell’ambito di un contenzioso relativo al diritto di accesso, di pronunciarsi, seppure in via incidentale, proprio in materia di limiti all’accesso civico. ha così fornito dei criteri che, data la novità dell’istituto, sono destinati a delineare i tratti della nuova visione operativa del diritto di accesso. In materia di accesso civico infatti “la P.a. intimata dovrà in concreto valutare, se i limiti ivi enunciati siano da ritenere in concreto sussistenti, nel rispetto dei canoni di proporzionalità e ragionevolezza, a garanzia degli interessi ivi previsti e non potrà non tener conto, nella suddetta valutazione, anche le peculiarità della posizione legittimante del richiedente”. L’orizzonte applicativo dell’istituto pertanto non può prescindere dai “principi architettonici” (13) di proporzionalità e ragionevolezza che, per effetto di tale novità legislativa, acquisiscono un ruolo preminente nella definizione di un nuovo spazio giuridico quale è l’accesso civico. Tali criteri, che dovrebbero essere orientati alla delimitazione delle aree di esclusione, potrebbero rappresentare uno strumento ulteriore in funzione della più adeguata elaborazione delle Linee guida. Consiglio di Stato, Sezione Quarta, sentenza 12 agosto 2016 n. 3631 -Pres. F. Patroni Griffi, est. S.m. Russo -G.R. (avv.ti E. belisaro e G. Scorza) c. ministero economia e finanze (avv. gen. Stato). FATTo e DIRITTo 1. – Il dott. G.R. assume d’esser giornalista e data business editor del periodico Wired, per il quale cura vari articoli ed inchieste sulla finanza pubblica. In tal sua qualità, in data 23 marzo 2015, egli ha chiesto al ministero dell’economia e delle (12) Come illustrato, infatti, il gravame è stato accolto limitatamente alla statuizione sulle spese del giudizio ma il Consiglio di Stato ha trovato in tale caso occasione per definire la relazione esistente tra i diversi meccanismi di accesso. In particolare, la richiesta formulata in base al più rigoroso articolo 22 della legge 241/1990 non può essere valutata in considerazione della successiva evoluzione della disciplina normativa in materia di trasparenza. Evidenziato, in via di principio, che i due strumenti non sono osmotici, il Consiglio di Stato ha poi esaminato il sistema trasparenza in senso complessivo, valorizzando il ruolo uniformante dei principi di ragionevolezza e proporzionalità. (13) D. CANALI, teorie dell'interpretazione giuridica e teorie del significato, Materiali per una storia della cultura giuridica, n. 1 Giugno 2012. RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 finanze di accedere ed estrarre copia di «… tutti i contratti isDa Master agreement, Master service agreement e Mandate agreement, … “contratti in derivati”, relativi term sheet e qualsiasi altro documento connesso, attualmente in essere…» tra l’Italia e diciannove istituti di credito stranieri. In subordine, egli ha chiesto d’accedere ai «… 13 contratti in derivati attualmente in vigore tra lo stato italiano… e banche e istituti finanziari…, per i quali è ancora presenta la clausola di recesso anticipato…». Tanto perché la testata Wired, tenuto conto sia dell’inchiesta parlamentare in corso e dell’attualità di esso, ha deciso di «… avviare un’inchiesta giornalistica… sul tema…». A suo dire, sussiste l’interesse ad accedere ai documenti stessi per esercitare il diritto di cronaca ex art. 21 Cost., mentre questi «… sono necessari al fine di divulgare informazioni di utilità sociale… (e) … non sono tra quelli considerati riservati… » da tal P.A. 2. – Il ministero è rimasto inerte sull’istanza attorea. Sicché il dott. R. ha adito il TAR Lazio, a seguito del silenzio così serbato e con il ricorso n. 6692/2015 RG, al fine d’accedere ai citati documenti e di accertare e dichiarare il proprio diritto ad ottenerne l’ostensione e l’esibizione ex art. 116, c. 4, c.p.a. Il dott. R., premettendo cenni su tali contratti in derivati tra Stato e istituti finanziari e sulla trasparenza dei dati sulla spesa pubblica, deduce l’assenza di divieti, nella fonte primaria e nel combinato disposto del- l’art. 7 del Dm 5 gennaio 2012 e dell’art. 3 del Dm 13 ottobre 1995 n. 561, all’accesso di tali atti o alla loro divulgazione. L’adito TAR, con sentenza n. 13250 del 24 novembre 2015, ha respinto la pretesa attorea, con la condanna alle spese di lite. In particolare, il TAR ha ritenuto che: a) la posizione di giornalista del dott. R. e l’interesse dei potenziali lettori ad una maggior informazione sui contratti in derivati non sono elementi sufficienti a fondare una legittimazione qualificata all’accesso; b) l’effetto di tale divulgazione è pregiudizievole sulle attività in derivati, con svantaggio competitivo di Stato ed istituti nel mercato relativo. 3. – Appella quindi il dott. R., con il ricorso in epigrafe, deducendo l’erroneità dell’impugnata sentenza per: A) non aver riconosciuto, in capo a lui, un interesse rilevante e differenziato a tal accesso (strumentale alla libertà d’informazione garantita e riconosciuta agli organi di stampa) nonché in considerazione degli obblighi di buona fede e di collaborazione cui è tenuta la P.A. verso il privato; b) la falsa rappresentazione dei fatti di causa, essendo stato chiesto un numero delimitato di atti (individuati in modo specifico secondo quanto già reso pubblico in esito a detta indagine parlamentare), non preordinato ad un controllo generalizzato dell’attività amministrativa; C) l’illegittimità del diniego tacito circa taluni affermati e non dimostrati effetti pregiudizievoli sulle attività in derivati; D) l’illegittima condanna alle spese di lite. Resiste in giudizio il ministero intimato, che insiste per il difetto di legittimazione dell’appellante all’accesso e per l’infondatezza del presente gravame. All’udienza camerale del 14 luglio 2016, su conforme richiesta delle parti, il ricorso in epigrafe è assunto in decisione dal Collegio. 4. – L’appello è fondato limitatamente alla statuizione sulle spese del giudizio, per il resto non potendo esser condiviso, anche se la sentenza del Tribunale amministrativo merita, in punto di motivazione, le precisazioni che si esporranno. 4.1 In primo luogo, occorre sgomberare il campo da argomentazioni che, ad avviso del Collegio, non riguardano in maniera decisiva il thema decidendum. Per quanto riguarda le controdeduzioni dell’Amministrazione appellata, si rammenti che, nel caso in esame, l’odierno appellante ha agito a seguito del silenzio serbato dalla P.A. sulla sua istanza d’accesso. Sicché non dura fatica il Collegio a reputare l’assunto della difesa erariale, CoNTENzIoSo NAzIoNALE sullo scopo dell’accesso per svolgere un controllo generalizzato dell’azione amministrativa e sull’effetto pregiudizievole dell’eventuale ostensione dei richiesti contratti in derivati sul mercato relativo, nulla più che un argomento difensionale. ma ciò si risolve nella inammissibile -secondo ricevuti princìpi - sostituzione d’un concreto provvedimento di diniego, mai emanato, con uno scritto difensivo che, volto a surrogare una inespressa volontà della P.A., che potrebbe pure avere opinioni più articolate al riguardo. Per altro verso, con riguardo a quanto deduce l’appellante, è ben noto al Collegio, ma altrettanto non pertinente ai presenti fini, l’arresto di questo Consiglio (cfr. Cons. St., V, 17 marzo 2015 n. 1370), secondo cui «… il diritto di accesso … è collegato a una riforma di fondo dell’ amministrazione, ispirata ai principi di democrazia partecipativa, della pubblicità e trasparenza dell’azione amministrativa desumibili dall’art. 97 Cost., che s’inserisce a livello comunitario nel più generale diritto all’informazione dei cittadini rispetto all’organizzazione e alla attività… amministrativa quale strumento di prevenzione e contrasto sociale ad abusi e illegalità…», poiché nella specie si controverte non sulla ratio generale dell’accesso, ma della sua utilizzabilità da parte dell’appellante nella concreta situazione per cui è causa e nel contesto normativo della legge n. 241, invocato dall’appellante medesimo. Invero, il punto centrale della presente controversia è e resta, avendo voluto l’appellante adoperare proprio lo strumento ex artt. 22 e ss. della l. 7 agosto 1990 n. 241 deducendo la propria libertà di informarsi per informare, la soggezione del diritto di accesso, come ivi delineato, alle stringenti regole colà previste e, quindi, la legittimazione dell’appellante al loro uso e, di conseguenza, ai rimedi che l’ordinamento appresta a garanzia di questo. Di ciò il TAR ha dato buona contezza, laddove ha precisato che, se fosse «… sufficiente l’esercizio dell’attività giornalistica ed il fine di svolgere un’inchiesta… su una determinata tematica per ritenere, per ciò solo, il richiedente autorizzato ad accedere a documenti in possesso… (della P.A.) …, sol perché genericamente riconducibili all’oggetto di detta “inchiesta”, si finirebbe per introdurre una sorta di inammissibile azione popolare sulla trasparenza del- l’azione amministrativa che la normativa sull’accesso non conosce…». 4.2 In altri termini, l’istanza di accesso proposta in via amministrativa dall’appellante e la conseguente domanda giudiziale vanno valutate, per saggiare la legittimità del diniego (rectius: silenzio) opposto dall’Amministrazione alla luce dell’invocato disposto normativo, senza poter prendere in considerazione la successiva evoluzione della disciplina normativa in materia di trasparenza delle pubbliche amministrazioni e di conoscenza dei relativi atti. Non sfugge al Collegio come dottrina e giurisprudenza abbiano svolto un'opera di ridefinizione della formula dell'art. 21 Cost., giungendo a configurare una libertà di cronaca ed una più ampia libertà d’informare. Ciò ha comportato da tempo il consolidamento dell'autonomia della libertà di informazione, in sé e rispetto alla libertà di opinione e di stampa, ma soprattutto la maturazione della differenza tra profilo attivo e profilo passivo della libertà stessa. In particolare, per quel che qui concerne, il primo profilo si sostanzia nella libertà d’informare (cioè di comunicare e diffondere idee e notizie), il secondo, che attiene ai destinatari dell’informazione, si specifica nella libertà di esser informati, ma, si badi, come mero risvolto passivo della libertà d’informare, oltre che nella libertà di accedere alle informazioni. L'elaborazione più significativa, cui ha dato luogo l'interpretazione evolutiva dell'art. 21 Cost., si rinviene senz'altro sul profilo passivo della libertà d’informazione. Al riguardo, l’attenzione s’è incentrata anzitutto sulle posizioni soggettive inerenti alla libertà di informarsi, con particolare riguardo sia all'interesse a ricevere le notizie in circolazione e non coperte da segreto o da riservatezza, sia all'interesse a ricercare le notizie. Tralasciando RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 il primo interesse, poiché esula dall’oggetto del presente giudizio, più complessa è la fisionomia dell'interesse a ricercare le notizie, che l’appellante in sostanza ha azionato in questa sede. V’è, per vero, una stretta interdipendenza tra quell'interesse e l'attività di chi divulga le informazioni, tant’è che la giurisprudenza, anche antica, di questa Sezione si è espressa (cfr. Cons. St., IV, 6 maggio 1996 n. 570; cfr., più di recente, id., 22 settembre 2014 n. 4748) sulla posizione qualificata e differenziata degli organi di stampa (e, quindi, dei giornalisti) circa la conoscenza (del contenuto) degli atti detenuti dalla P.A. Si richiama, da ultimo, anche il nuovo approdo «… dell’ordinamento comunitario in subjecta materia circa una compiuta evoluzione verso una società dell’ informazione e della conoscenza (cfr. Direttiva 2003/98/Ce)». 4.3 Tuttavia, se è vera la relazione giuridica tra chi informa e chi viene informato, non solo non si può legittimamente predicare l’esistenza d’un diritto soggettivo in capo ai destinatari tale addirittura da condizionare la posizione di chi informa pure nei contenuti e nel risultato, ma non si ravvisa, nel corpo dello stesso art. 21 Cost., il fondamento di un generale diritto di accesso alle fonti notiziali, al di là del concreto regime normativo che, di volta in volta e nel- l’equilibrio dei molteplici e talvolta non conciliabili interessi in gioco, regolano tal accesso. In altre parole, occorre evitare ogni generalizzazione sul rapporto tra diritto d’accesso e libertà di informare. Il nesso di strumentalità tra le due figure, che pure esiste, si sostanzia non già reputando, come fa l’appellante, il diritto di accesso qual presupposto necessario della libertà d’informare, ma nel suo esatto opposto. È il riconoscimento giuridico di questa che, in base alla concreta regolazione del primo, diviene il presupposto di fatto affinché si realizzi la libertà d’informarsi. Sicché, come ha a suo tempo detto la Sezione, è pur vero che «… in linea di principio non si può equiparare la posizione di una testata giornalistica o di un operatore della stampa a quella di un qualunque soggetto giuridico per quanto attiene al diritto di accesso ai documenti amministrativi…». Tuttavia, «… occorre… pur sempre tener presente l’ambito soggettivo e quello oggettivo prescritti dalla legge entro i quali va riconosciuta la tutela sottesa all’accesso, presupponendo… un interesse personale e concreto, strumentale all’accesso…». Pertanto «… non è consentito dilatare l’ambito applicativo della normativa garantista di cui al citato art. 22 della legge n. 241…». Ciò non significa che v’è un diniego generale al diritto di accesso alle fonti per l’informazione, né che il diritto ad essere informati si esaurisca nella libertà d’informarsi come mero risvolto fattuale della libertà d’informare. Vuol dire piuttosto che va condotta un'indagine circa la consistenza della situazione legittimante all’accesso e che la relativa valutazione va articolata a seconda della disciplina normativa di riferimento, che varia in significative parti sia con riguardo ai caratteri della posizione legittimante (l’interesse “diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata” di cui alla legge n. 241), sia dei vari presidi che la legge pone verso l’accesso generalizzato (non collegato, cioè, ad un interesse qualificato e differenziato o comunque volto a un controllo diffuso sull’attività dei pubblici poteri). In particolare sul versante dei rapporti con i pubblici poteri, il legislatore non sconta limiti generali nel prevedere in favore dei cittadini una serie più o meno ampia di diritti ad essere informati, come avviene, per esempio, con le regole di pubblicità ex art. 29 del Dlg 14 marzo 2013 n. 33. È fondamentale sottolineare, al riguardo, che l'evoluzione della legislazione in materia, che pure è via via sempre più aperta alle esigenze di trasparenza dell'azione pubblica, ha portato a configurare le diverse forme di accesso più che a guisa di un unico e globale diritto soggettivo di accesso agli atti e documenti in possesso dei pubblici poteri, come un insieme di sistemi CoNTENzIoSo NAzIoNALE di garanzia per la trasparenza, tra loro diversificati pur con inevitabili sovrapposizioni. Sicché s’avrà una maggiore o minore estensione della legittimazione soggettiva, a seconda della più o meno diretta strumentalità della conoscenza, incorporata negli atti e documenti oggetto d’accesso, rispetto ad un interesse protetto e differenziato, diverso dalla mera curiosità del dato, di colui che esprime sì il bisogno di accedere, ma con le modalità previste dalla specifica disciplina normativa invocata. In altri termini, è da considerare che il sistema nel suo complesso dà luogo a vari tipi d’accesso, con diverse finalità e metodi d’approccio alla conoscenza ed altrettanti livelli soggettivi di pretesa alla trasparenza dei pubblici poteri. Tali livelli, nel sistema della legge n. 241 -che costituisce il parametro normativo di riferimento nel presente giudizio -saranno più ampi quando riguardano la partecipazione di un soggetto ad un procedimento amministrativo (art. 7, c. 1; art. 8, c. 2, lett. b; art. 10, lett. a) della l. 241/1990) o ad un processo amministrativo già in atto (art. 116, c. 2, c.p.a.: cfr., p. es., Cons. St., III, 14 marzo 2013 n. 1533), oppure quando l’accesso riguardi «… documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici…» (art. 24, c. 7 della legge n. 241); ma richiederanno pur sempre, nel sistema della legge n. 241, una posizione legittimante nei termini richiesti da quella disciplina. È allora ben chiaro che il diritto d’accesso ex legge n. 241 agli atti amministrativi non è connotato da caratteri di assolutezza e soggiace, oltre che ai limiti di cui all’art. 24 della l. 241/1990, alla rigorosa disamina della posizione legittimante del richiedente, il quale deve dimostrare un proprio e personale interesse (non di terzi, non della collettività indifferenziata) a conoscere gli atti e i documenti richiesti. Come si è detto, il diritto di cronaca è presupposto fattuale del diritto ad esser informati ma non è di per sé solo la posizione che legittima l’appellante all’accesso invocato ai sensi della legge n. 241. Né sembri tutto ciò in contrasto con la c.d. “società dell’informazione” cui a livello europeo tende (cfr. considerando n. 2) la dir. n. 2003/98/CE, poiché, al di là dell’enfasi così manifestata, tale fonte comunque non esclude, nei ben noti ed ovvi limiti di ragionevolezza e proporzionalità, regimi nazionali che possano delimitare l’accesso anche con riferimento alla titolarità di una posizione legittimante). Diversi sono i presupposti che connotano i casi di c.d. “accesso civico” ex art. 5 del Dlg 33/2013 (anche nel testo previgente alla novella del 2016), che tuttavia presuppongono la sussistenza di un obbligo di pubblicazione (cfr. funditus Cons. St., VI, 20 novembre 2013 n. 5515). E ancora diversi sono i presupposti che disciplinano l’accesso ai sensi del decreto legislativo n. 97 del 2016, che svincola il diritto di accesso da una posizione legittimante differenziata (art. 5 del decreto n. 33 del 2013 nel testo novellato) e, al contempo, sottopone l’accesso ai limiti previsti dall’articolo 5 bis. In tal caso, la P.A. intimata dovrà in concreto valutare, se i limiti ivi enunciati siano da ritenere in concreto sussistenti, nel rispetto dei canoni di proporzionalità e ragionevolezza, a garanzia degli interessi ivi previsti e non potrà non tener conto, nella suddetta valutazione, anche le peculiairtà della posizione legittimante del richiedente. In conclusione, l’appello è da respingere per la non dimostrata sussistenza, nel caso di specie, da parte dell’appellante di una posizione legittimante ai sensi e nei termini di cui alla legge n. 241. 5. – Viceversa, l’appello è da condividere, laddove è diretto contro la condanna alle spese di giudizio di primo grado. Infatti, sul punto la statuizione del TAR non può essere condivisa, e ciò per due ordini di ra RASSEGNA AVVoCATURA DELLo STATo - N. 4/2016 gioni. Il primo: è stata l’inerzia del ministero intimato a provocare la lite, su un’iniziativa d’accesso che lo stesso TAR ha definito «… ispirata all’apprezzabile fine di svolgere attività di informazione a vantaggio della pubblica opinione…», dunque non pretestuosa. Il secondo: l’infondatezza della pretesa azionata discende non ictu oculi, ma da una vicenda in sé normativamente complessa e connotata da arresti di giurisprudenza e da avvisi della dottrina non univoci e tuttora in divenire, inerenti ad aspetti seri e delicati a rilevanza costituzionale. Per l’una ragione e per l’altra, quindi, sussistevano fin dall’inizio i giustificati motivi per compensare integralmente dette spese, donde la riforma della sentenza appellata sul punto. 6. – L’appello va accolto in tali limiti, ma la complessità della questione e la parziale soccombenza suggeriscono l’integrale compensazione, tra le parti, pure delle spese del presente giudizio. P.Q.m. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sez. IV), definitivamente pronunciando sull'appello (ricorso n. 52/2016 RG in epigrafe), lo accoglie limitatamene al capo della sentenza di primo grado relativo alla condanna alle spese, che sul punto va riformata, e lo respinge per il resto con la conferma della sentenza di primo grado e con le precisazioni di cui alla presente sentenza. Spese del doppio grado compensate. ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio del 14 luglio 2016. LEgisLazionEEdattuaLità La Posta Elettronica Certificata nella pratica amministrativa Alfonso Contaldo* Flaviano Peluso** Sommario: 1. introduzione -2. La Pec nell’ordinamento giuridico -2.1. Cenni sulla PEC nell’evoluzione della digitalizzazione della P.a. - 2.2. alcune problematiche giuridiche della PEC - 3. La Posta Elettronica Certificata nell’ambito internazionale - 4. il funzionamento del sitema di Posta Elettronica Certificata -5. i vantaggi derivanti dall’uso della PEC. 1. introduzione. Negli ultimi anni si è andato affermando un nuovo modello di società che, oramai, poggia sull’uso massivo di strumenti elettronici per l’espletamento di ogni attività umana. In questo contesto di progressiva ed inarrestabile informatizzazione del quotidiano, si è assistito alla introduzione, nel lessico e nelle procedure giuridico- amministrative, di terminologie e soprattutto metodologie tecnocentriche. Tutto ciò è chiaramente frutto del processo di rivoluzione delle normative nella direzione di semplificazione e sviluppo del c.d. smart working (1). Uno degli strumenti, figlio della innovazione tecnologica della pubblica amministrazione, è la posta elettronica certificata legittimata nel nostro ordi (*) Docente di Diritto dell’informazione e della comunicazione digitale nella Accademia delle Belle Arti di Roma. (**) Docente a contratto di Informatica giuridica nell’Università degli studi di Perugia. (1) Lo smart working può essere definito come la modalità di lavoro che, sedimentandosi sul- l’adozione di strumenti tecnologicamente avanzati, permette l’efficientamento delle prestazioni lavorative modificando il concetto di organizzazione di spazi ed orari di lavoro. In sostanza diventerebbero indispensabili tre pilastri: a) la flessibilità di orari lavorativi; b) l’adozione di strumenti ICT (tecnologie dell’informazione e della comunicazione); c) rimodulazione degli spazi lavorativi permettendo di lavorare anche da casa riducendo in maniera cospicua il costo strutturale. RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 namento con il D.P.R. 68/2005 ossia il “regolamento recante disposizioni per l'utilizzo della posta elettronica certificata, a norma dell'articolo 27 della legge 16 gennaio 2003, n. 3”. Oramai la posta elettronica (2) è divenuta de facto lo strumento di maggiore uso per le comunicazioni, riuscendo a scalzare il primato detenuto per secoli della corrispondenza cartacea. Sicché la posta elettronica è divenuto il mezzo di comunicazione per i rapporti commerciali. Infatti grazie alle precipue caratteristiche di semplicità, immediatezza ed efficacia, nonché alla possibilità di includere nei messaggi immagini, audio, video o qualsiasi altro tipo di file, la posta elettronica, ha avuto una enorme e rapida diffusione in tutti gli ambiti anche quelli applicati alle questioni di diritto. La posta elettronica (la c.d. e-mail) ha però delle intrinseche debolezze che ne pregiudicherebbero l’utilizzo nell’ambito delle dinamiche dello scambio documentale, così come dei rapporti fra e con la pubblica Amministrazione, quali ad esempio, la possibilità di falsificare il mittente o l'orario di invio. Queste motivazioni hanno portato il legislatore alla definizione di regole, nel nostro ordinamento come di seguito dettagliato, che rendono la “comune” posta elettronica, “certificata”. L’aggettivo “certificata” si traduce quindi nella possibilità di garantire l’invio, l’integrità e l’avvenuta consegna del messaggio scambiato fra il gestore di PEC (posta elettronica certificata) del mittente e quello del destinatario, fornendo agli utenti la certezza, a pieno valore legale, dell’avvenuto recapito dei messaggi. La PEC, tuttavia, ha un quid in più rispetto alle normali comunicazioni a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento. Infatti la raccomandata è garanzia di ricezione ma non può certificare il contenuto del testo scritto o la genuinità degli eventuali allegati. Inoltre, la raccomandata normale non permette neppure di avere certezza assoluta che il mittente sia la persona indicata nella busta. Tutti questi problemi possono essere agevolmente risolti con l’utilizzo di un altro strumento che vedremo a breve: la firma digitale. 2. La PEC nell’ordinamento giuridico. L’alveo legislativo che costituisce la legittimazione giuridica del sistema di posta elettronica certificata si compone, oltre che dal già citato D.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68, “regolamento recante disposizioni per l'utilizzo della (2) La nascita della posta elettronica si fa risalire al 1971, con la realizzazione del primo programma ad opera dell’ingegnere informatico Ray Tomlinson, il quale è anche colui che l’anno successivo sceglie quello che è divenuto poi il simbolo della posta elettronica ovvero la famosa chiocciola "@". Il simbolo @, seppure scelto quasi a caso, aveva anche il vantaggio di essere utilizzato per indicare “at” (cioè presso) in inglese. Per molti anni ci sono stati separatori diversi per gli indirizzi di posta elettronica: la chiocciola è diventata lo standard mondiale alla fine degli anni '80. LEgISLAzIONE ED ATTUALITà posta elettronica certificata, a norma dell'articolo 27 della legge 16 gennaio 2003, n. 3” (3), anche di altre disposizioni quali: • Decreto Legislativo 7 marzo 2005, n. 82 (4); • Decreto Ministeriale 2 novembre 2005, “regole tecniche per la formazione, la trasmissione e la validazione, anche temporale, della posta elettronica certificata” (5); • Circolare CNIPA (6) CR/49 24 novembre 2005, “Modalità per la presentazione delle domande di iscrizione all’elenco pubblico dei gestori di posta elettronica certificata” (7); • Circolare 7 dicembre 2006, n. 51, “Espletamento della vigilanza e del controllo sulle attività esercitate dagli iscritti nell'elenco dei gestori di posta elettronica certificata (PEC), di cui all'articolo 14 del decreto del Presidente della repubblica 11 febbraio 2005, n. 68, «regolamento recante disposizioni per l'utilizzo della posta elettronica certificata, a norma dell'articolo 27 della legge 16 gennaio 2003, n. 3»”. • Decreto Legge 29 novembre 2008, n. 185 (8) recante “misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione ed impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale” convertito nella Legge 28 gennaio 2009, n. 2, più noto come “decreto anticrisi”, ha reso obbligatoria per imprese e professionisti la PEC. • Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 6 maggio 2009 (9), “Disposizioni in materia di rilascio e di uso della casella di posta elettronica certificata assegnata ai cittadini”. • Legge 18 giugno 2009, n. 69 “Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile” (10). • Decreto legislativo 30 dicembre 2010, n. 235 (11). (3) Pubblicato in g.U. del 28 aprile 2005, n. 97. (4) Pubblicato in g.U. del 16 maggio 2005, n. 93. (5) Pubblicato in g.U. del 14 novembre 2005, n. 265. (6) Con il D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, fu istituito il Centro Nazionale per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione, CNIPA, che sostituì l’AIPA. In seguito, ai sensi del D.Lgs. 1º dicembre 2009, n. 177 derubricato “riorganizzazione del Centro nazionale per l'informatica nella pubblica amministrazione, a norma dell'articolo 24 della legge 18 giugno 2009, n. 69” è stato modificato il nome dell’ente in DigitPA. Successivamente, intervenne una nuova trasformazione prevista dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83 “misure urgenti per la crescita del Paese” (convertito con Legge 7 agosto 2012, n. 134) con cui, l’ente DigitPA, venne soppresso unitamente all’Agenzia per la diffusione delle tecnologie per l'innovazione tecnologica. In sostituzione fu istituito l’AgID, l'Agenzia per l'Italia digitale a cui furono trasferite le funzioni di tali enti. Tuttavia la funzione di Centrale di committenza svolta da DigitPA per conto delle Pubbliche Amministrazioni, fu affidata all’ente CONSIP, acronimo di Concessionaria Servizi Informativi Pubblici. (7) Pubblicata in g.U. 5 dicembre 2005, n. 283 (8) Pubblicato in g.U. del 29 novembre 2008, n. 280, supplemento ordinario 263/L. (9) Pubblicato in g.U. del 25 maggio 2009, n. 119. (10) Pubblicata in g.U. del 19 giugno 2009 n. 140, Supplemento ordinario n. 95. (11) Pubblicato in g.U. Serie gen. del 10 gennaio 2011, n. 6 - Supplemento ordinario n. 8/L. RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 • Legge 17 dicembre 2012, n. 221. Conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, recante ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese (12). • D.L. 21 giugno 2013 n. 69 convertito con modificazioni dalla L. 9 agosto 2013, n. 98 “Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia” (13). • Decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 179 che ha aggiornato il Codice dell’amministrazione digitale (14). Quanto riportato alle righe precedenti, costituisce il quadro asettico di una attività di legiferazione in realtà sostanzialmente corposa anche se confusa, che affonda le radici dai primi anni 90 dello scorso secolo. volendone tracciare una breve digressione storica, che non ha la pretesa di essere esaustiva, si può indicare con il D.Lgs. 12 febbraio 1993, n. 39 (15) il momento del “big bang” giuridico-legislativo. In esso, recependo le primi autorevoli teorizzazioni in materia di attività amministrativa in forma elettronica, si statuì, che le amministrazioni pubbliche dovessero svolgere la loro attività di diritto pubblico per mezzo di sistemi informativi automatizzati (art. 3), ed inoltre si chiarì, in particolare, che il governo avrebbe dovuto individuare, per mezzo della sua potestà regolamentare, ex art. 17 della L. 400/88, specifiche modalità di applicazione nel processo dei principi in esso affermati (art. 16). Saltando di qualche anno si annovera la L. 15 marzo 1997 n. 59 “Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa” (16) la quale all'art. 15, comma 2, disponeva: “Gli atti, dati e documenti formati dalla pubblica amministrazione e dai privati con strumenti informatici o telematici, i contratti stipulati nelle medesime forme, nonché la loro archiviazione e trasmissione con strumenti informatici, sono validi e rilevanti a tutti gli effetti di legge”. In questa norma si confermò la tendenza alla azione di de-materializzazione dei documenti cartacei, un passo epocale in un ambito culturalmente poco avvezzo a considerare valido qualcosa che non sia in forma scritta e/o cartacea. Nel 1999 l’Unione Europea emanò la direttiva nr. 93, il cui art. 2 esplicava le definizioni di firma elettronica e di firma elettronica avanzata, quest’ultima ha particolare rilevanza nel contesto della legittimazione giuridica della posta elettronica certificata, come si vedrà meglio nel proseguo della presente trattazione. (12) Pubblicata in g.U. Serie gen. del 18 dicembre 2012, n. 294. (13) Pubblicato in g.U. Serie gen. del 21 giugno 2013, n. 144 - Suppl. Ordinario n. 50. (14) Pubblicato in g.U. Serie gen. Del 13 settembre 2016, n. 214. (15) Recante “Norme in materia di sistemi informativi automatizzati delle amministrazioni pubbliche”, pubblicato in g.U. del 20 febbraio 1993, n. 42. (16) Pubblicata in g.U. del 17 marzo 1997, n. 63. LEgISLAzIONE ED ATTUALITà Nel 2000 venne emanato il D.P.R n. 445 recante la disciplina del “testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa”, con questa norma fu previsto che, a partire dal primo gennaio 2004, le pubbliche amministrazioni, richiamate nell’art.1 comma 1 del D.Lgs. 165/01 “Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”, avrebbero dovuto revisionare i propri sistemi informativi automatizzati finalizzati alla gestione dei procedimenti amministrativi. L’intento del legislatore era quello di dare disciplina all’intero ciclo di vita del documento, dalla sua formazione alla archiviazione. Per quello che riguarda l’aspetto precipuo della trattazione di questo elaborato, sembra utile richiamare l’art. 14 (17), articolo poi abrogato dal Decreto Legislativo 7 marzo 2005, n. 82. Nell’articolo in parola, si rinvengono molti dei concetti che saranno poi ripresi nella stesura del D.P.R. 68/2005, anche se non è in alcun punto menzionato. Nel processo di avvicinamento al D.P.R. 68/2005, un ruolo di primaria importanza lo riveste anche l’articolo 27 della legge 16 gennaio 2003 n. 3, “Disposizioni ordinamentali in materia di pubblica amministrazione”. Quest’ultimo oltre a varie disposizioni relative alla innovazione tecnologica nella P.A., ed alla previsione di soppressione dell’AIPA (18) e della Agenzia Nazionale per l’innovazione tecnologica (19), costituisce il viatico alla legiferazione introdotta con D.P.R. 68/2005. Continuando in questa ipotetica cavalcata negli anni, si arriva all’atto di nascita della posta elettronica certifica, ovvero del D.P.R. 68/2005 datato 11 febbraio 2005. Continuando la rassegna normativa fino alla data odierna, non può essere omesso il Decreto Legislativo 7 marzo 2005, n. 82 (20), ossia il “Codice del- l’amministrazione digitale” (21). (17) Il quale prevede che “il documento informatico trasmesso per via telematica si intende spedito dal mittente se inviato al proprio gestore, e si intende consegnato al destinatario se reso disponibile all'indirizzo elettronico da questi dichiarato, nella casella di posta elettronica del destinatario messa a disposizione dal gestore. La data e l'ora di formazione, di trasmissione o di ricezione di un documento informatico, redatto in conformità alle disposizioni del presente testo unico e alle regole tecniche di cui agli articoli 8, comma 2 e 9, comma 4, sono opponibili ai terzi. La trasmissione del documento informatico per via telematica, con modalità che assicurino l'avvenuta consegna, equivale alla notificazione per mezzo della posta nei casi consentiti dalla legge”. (18) L'Autorità per l'informatica nella Pubblica Amministrazione, è stata una autorità indipendente istituita dal decreto legislativo n. 39 del 12 febbraio 1993 e successivamente soppressa con la creazione dell’AgID nel 2012. (19) Anch’essa soppressa nel 2012 con la nascita dell’AgID. (20) Pubblicato in g.U. del 16 maggio 2005, n. 93. (21) Nel proseguo della trattazione CAD. RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 Nel CAD troviamo riferimenti a strumenti fondanti per il processo di innovazione della P.A. quali, ad esempio, il documento informatico (art. 17 e segg.; art. 37; art. 42 e segg.; art. 46), oppure i siti per le pubbliche amministrazioni (artt. 56-57) nonché richiami alla firma digitale (vedasi tabella 1) vera protagonista del processo di innovazione, in specie per quanto concerne l’attività notarile. tabella 1 - La Firma digitale La Firma Digitale è il risultato finale di un complesso algoritmo matematico che permette di firmare un documento informatico con la stessa validità di una firma autografa. Il processo di Firma Digitale si basa sulla crittografia asimmetrica: ogni titolare dispone di una coppia di chiavi, una privata - segreta e custodita sulla Smart Card e protetta da un codice di accesso (PIN) - l'altra pubblica - custodita e pubblicata dall'Ente Certificatore - che viene usata per la verifica della firma. Le due chiavi sono correlate in maniera univoca, tuttavia dalla chiave pubblica è impossibile risalire a quella privata. Il funzionamento del sistema è garantito dalla presenza della terza parte fidata - l'Ente Certificatore che assicura l'associazione univoca tra la chiave pubblica da usare per la verifica e il titolare della corrispondente chiave privata. Tale associazione si basa sull'emissione di un certificato digitale, che avviene solo dopo l'identificazione e registrazione certa del richiedente. L’Ente certificatore gestisce l'intero ciclo di vita del certificato compresa la sospensione temporanea della sua validità o la sua revoca definitiva. Con il CAD si ribadisce il principio del “diritto all’uso delle tecnologie”, come si evince subito da una delle norme, l’art. 3, che forse più di tutte manifesta l’intento programmatico del nuovo codice: “i cittadini e le imprese hanno diritto a richiedere ed ottenere l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione nei rapporti con le pubbliche amministrazioni centrali e con i gestori di pubblici servizi statali nei limiti di quanto previsto nel presente decreto”. Per quanto riguarda la posta elettronica certificata il CAD vi si riferisce con gli artt. 6 (22), 47 (23) e 48 (24). (22) Il testo del 1° co., novellato dalla lettera a) del comma 1 dell'art. 5, D.Lgs. 30 dicembre 2010, n. 235, prevede che “per le comunicazioni di cui all' articolo 48, comma 1 [ovvero comunicazioni che necessitano di una ricevuta di invio e di una ricevuta di consegna], con i soggetti che hanno preventivamente dichiarato il proprio indirizzo ai sensi della vigente normativa tecnica, le pubbliche amministrazioni utilizzano la posta elettronica certificata. La dichiarazione dell'indirizzo vincola solo il dichiarante e rappresenta espressa accettazione dell'invio, tramite posta elettronica certificata, da parte delle pubbliche amministrazioni, degli atti e dei provvedimenti che lo riguardano”. (23) Il cui testo, modificato da ultimo dal D.L. 21 giugno 2013 n 69 convertito con modificazioni LEgISLAzIONE ED ATTUALITà È giusto il caso di ricordare che, alla luce di quanto stabilito dalla corte di cassazione con la sentenza nr. 10021 del 12 maggio 2005 (25), la raccomandata postale, garantisce la corretta consegna del documento ma non certifica il contenuto al contrario della PEC. Nel 2005 fu emanato il D.P.R. 11 febbraio 2005, il cui art. 14 (vedasi tabella 2) stabilisce i requisiti per i gestori di PEC. tabella 2 - requisiti specifici richiesti al gestore di PEC a) dimostrare l'affidabilità organizzativa e tecnica necessaria per svolgere il servizio di posta elettronica certificata; b) impiegare personale dotato delle conoscenze specifiche, dell'esperienza e delle competenze necessarie per i servizi forniti, in particolare della competenza a livello gestionale, della conoscenza specifica nel settore della tecnologia della posta elettronica e della dimestichezza con procedure di sicurezza appropriate; dalla L. 9 agosto 2013, n. 98, prevede che “le comunicazioni di documenti tra le pubbliche amministrazioni avvengono mediante l'utilizzo della posta elettronica o in cooperazione applicativa; esse sono valide ai fini del procedimento amministrativo una volta che ne sia verificata la provenienza. 1-bis. L'inosservanza della disposizione di cui al comma 1, ferma restando l'eventuale responsabilità per danno erariale, comporta responsabilità dirigenziale e responsabilità disciplinare. 2. ai fini della verifica della provenienza le comunicazioni sono valide se: a) sono sottoscritte con firma digitale o altro tipo di firma elettronica qualificata; b) ovvero sono dotate di segnatura di protocollo di cui all'articolo 55 del decreto del Presidente della repubblica 28 dicembre 2000, n. 445; c) ovvero è comunque possibile accertarne altrimenti la provenienza, secondo quanto previsto dalla normativa vigente o dalle regole tecniche di cui all'articolo 71. È in ogni caso esclusa la trasmissione di documenti a mezzo fax; d) ovvero trasmesse attraverso sistemi di posta elettronica certificata di cui al decreto del Presidente della repubblica 11 febbraio 2005, n. 68. Le pubbliche amministrazioni e gli altri soggetti di cui all' articolo 2, comma 2, provvedono ad istituire e pubblicare nell'indice Pa almeno una casella di posta elettronica certificata per ciascun registro di protocollo. Le pubbliche amministrazioni utilizzano per le comunicazioni tra l'amministrazione ed i propri dipendenti la posta elettronica o altri strumenti informatici di comunicazione nel rispetto delle norme in materia di protezione dei dati personali e previa informativa agli interessati in merito al grado di riservatezza degli strumenti utilizzati”. (24) Il cui testo prevede che “La trasmissione telematica di comunicazioni che necessitano di una ricevuta di invio e di una ricevuta di consegna avviene mediante la posta elettronica certificata ai sensi del decreto del Presidente della repubblica 11 febbraio 2005, n. 68, o mediante altre soluzioni tecnologiche individuate con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, sentito DigitPa [comma 2 dell'art. 3, D.P.C.M. 2 marzo 2011]. La trasmissione del documento informatico per via telematica, effettuata ai sensi del comma 1, equivale, salvo che la legge disponga diversamente, alla notificazione per mezzo della posta. La data e l'ora di trasmissione e di ricezione di un documento informatico trasmesso ai sensi del comma 1 sono opponibili ai terzi se conformi alle disposizioni di cui al decreto del Presidente della repubblica 11 febbraio 2005, n. 68, ed alle relative regole tecniche, ovvero conformi al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri di cui al comma 1”. (25) La sentenza numero 10021 del 12 maggio 2005 della S.C. ha stabilito che la ricezione della busta raccomandata, da parte del destinatario, non costituisce prova del recapito del suo contenuto della medesima. RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 c) rispettare le norme del presente regolamento e le regole tecniche di cui all'articolo 17; d) applicare procedure e metodi amministrativi e di gestione adeguati e tecniche consolidate; e) utilizzare per la firma elettronica, di cui all'articolo 9, dispositivi che garantiscono la sicurezza delle informazioni gestite in conformità a criteri riconosciuti in ambito europeo o internazionale; f) adottare adeguate misure per garantire l'integrità e la sicurezza del servizio di posta elettronica certificata; g) prevedere servizi di emergenza che assicurano in ogni caso il completamento della trasmissione; h) fornire, entro i dodici mesi successivi all'iscrizione nell'elenco dei gestori di posta elettronica certificata, dichiarazione di conformità del proprio sistema di qualità alle norme ISO 9000, successive evoluzioni o a norme equivalenti, relative al processo di erogazione di posta elettronica certificata; i) fornire copia di una polizza assicurativa di copertura dei rischi dell'attività e dei danni causati a terzi. Nel 2008 con la legge finanziaria, si pose l’obiettivo di un rafforzamento dell’impiego della posta elettronica, stabilendo che il mancato adeguamento alle predette disposizioni in misura superiore al 50% del totale della corrispondenza inviata, certificato dall’allora ente CNIPA, avrebbe comportato, per le pubbliche amministrazioni dello Stato inadempienti, la decurtazione del 30% delle risorse stanziate per spese di invio della corrispondenza cartacea. Nello stesso anno vene emanato il D.L. 29 novembre 2008, n. 185 c.d. “decreto anticrisi” poi convertito in Legge 28 gennaio 2009, n. 2. Codesto testo normativo prevedeva che, le imprese costituite in forma societaria, devono indicare nella domanda di iscrizione al registro delle imprese, il proprio indirizzo PEC. Analogamente i professionisti iscritti in albi ed elenchi istituiti dalla legge dello Stato comunicano ai rispettivi Ordini o Collegi il proprio indirizzo di PEC. Tuttavia la novità di maggiore portata innovativa riguardava l’attività notarile. Infatti già l'art. 21 del Codice dell'amministrazione digitale, prevedeva che il documento informatico, sottoscritto con firma digitale o con un altro tipo di firma elettronica qualificata, ha l'efficacia prevista dall'articolo 2702 c.c., vale cioè come una normale scrittura privata. Nel 2010 venne emanato il D.Lgs. 30 dicembre 2010, n. 235 con cui vennero apportate modifiche e correzioni all’impianto preesistente senza particolari stravolgimenti ma, al contrario, modifiche mirate a rendere più efficiente e funzionale il processo di digitalizzazione. LEgISLAzIONE ED ATTUALITà 2.1 Cenni sulla PEC nell’evoluzione della digitalizzazione della P.a. Il passaggio successivo fu il D.L. 18 ottobre 2012, n. 179 convertito con modificazioni in L. 17 dicembre 2012, n. 221 noto come decreto crescita 2.0. Questo corpo normativo si è prefigurato l’intento di dare attuazione all’Agenda Digitale (26). Analizzando gli aspetti più rilevanti del decreto crescita 2.0 (27) possiamo vedere che l’art. 2 introduce meccanismi più efficienti per le comunicazioni anagrafiche di morte fra i medici accertatori ed i comuni, infatti queste trasmissioni di informazioni ora devono essere effettuate solo a mezzo telematico. Altre importanti innovazioni sono previste dall’art. 4 che introduce, nel Codice dell’Amministrazione Digitale (28), il riconoscimento del domicilio digitale (29). L’art. 5 ha esteso anche alle imprese individuali l’obbligo, già vigente per le imprese societarie ed i professionisti in forza del co. 6 dell’art. 16 del D.L. 29 novembre 2008, n. 185, di dotarsi di un indirizzo di posta elettronica certificata. La sezione II della norma in commento ha esteso l’ambito di applicabilità delle comunicazioni, a valenza legale, effettuate a mezzo PEC. Così oggi è possibile una molteplicità di attività tramite PEC: per la PA, effettuare contratti (26) La stessa nasce da iniziativa dell’Unione Europea che mira a incentivare l’innovazione tecnologica come strumento per rilanciare la crescita e lo sviluppo grazie all’individuazione di sette pilastri: a) Il Mercato unico digitale. Infatti l’Europa è un mosaico di mercati online nazionali frammentati dove spesso servizi commerciali e culturali faticano a superare i confini nazionali. Queste barriere possono essere superate agevolando le fatturazioni e i pagamenti elettronici, nonché rafforzare la tutela del cyberberspazio disseminati in vari documenti giuridici complessi; b) Interoperabilità e standard comuni. In tal modo sarà possibile permettere l’offerta di prodotti e servizi accessibili grazie a differenti dispositivi ed applicazioni delle tecnologie dell'informazione; c) Fiducia e sicurezza. Aumentare la sicurezza dei cittadini europei contro i computer crimes ed i cyber crimes grazie a tecnologie di protezione crittografica dei dati, certificati di sicurezza e protezione dall’incontrollata diffusione dei dati personali; d) Accesso ad internet veloce e superveloce. La realizzazione di infrastrutture quali la banda larga e l’abbattimento dei costi delle connessioni che permettano, entro il 2020, di avere almeno metà della popolazione europea con connessioni internet sopra i 100 Mbps; e) Ricerca e innovazione. La tecnologia dell’informazione e della comunicazione contribuiscono al valore aggiunto totale nei comparti industriali europei più rilevanti, fra cui quello automobilistico (25%), quello dei dispositivi di largo consumo (41%) o il settore medico-sanitario (33%); f) Competenze informatiche, alfabetizzazione digitale ed “e-inclusione”. Sviluppare le conoscenze informatiche può favorire i processi di inserimento sociale, aumentare le possibilità lavorative in particolar modo per le persone diversamente abili; g) vantaggi delle TIC per la società. L'uso intelligente della tecnologia e lo sfruttamento delle informazioni ci aiuteranno ad affrontare le sfide che attendono la nostra società, fra cui i cambiamenti climatici e l'invecchiamento della popolazione grazie alla diminuzione di inquinamento derivante dal trasporto privato e una migliore assistenza sanitaria ai cittadini. (27) Si informa il lettore che la disposizione in commento, per mantenere la continuità espositiva, verrà trattata unicamente per quel che riguarda la PEC e settori strettamente connessi. (28) D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82. (29) Pertanto nel Codice è stato inserito l’art. 3 bis che al 1° co. prevede “al fine di facilitare la comunicazione tra pubbliche amministrazioni e cittadini, è facoltà di ogni persona fisica indicare al comune di residenza un proprio domicilio digitale”. RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 stipulati telematicamente; i dipendenti pubblici e privati ora devono effettuare le trasmissioni di certificazioni di malattia con strumenti telematici (art. 7); l’adozione di biglietti elettronici e servizi informativi per i sistemi di trasporto (art. 8); utilizzare dati in formato aperto (art. 9). La sezione III introduce elementi per l’istruzione e la cultura digitale con interventi mirati a livello scolastico quali: il fascicolo elettronico dello studente (1° co. art. 10); l’adozione di modalità informatiche per i procedimenti relativi allo stato giuridico ed economico dei rapporti di lavoro del personale del comparto scuola (9° co. art. 10); la previsione di libri digitali per le scuole (art. 11). La sezione Iv dà vita al fascicolo sanitario elettronico (art. 12), alle prescrizioni mediche ed alle cartelle cliniche digitali (art. 13). La sezione v, oltre ad aver previsto lo stanziamento di 150 milioni di euro per il 2013 per la banda larga ed altre disposizioni per la sua applicazione concreta, ha permesso la pubblicità dei lavori parlamentari attraverso sistemi digitali (art. 14-bis). Ulteriormente si è ampliata la possibilità di pagamento con moneta elettronica anche verso la PA (art. 15), sono stati introdotti aspetti importanti per il processo civile telematico come il pieno riconoscimento delle comunicazioni di cancelleria e le notifiche telematiche (artt. 16 e 16-bis). Infine la sezione vI è interamente dedicata alla giustizia digitale, specificando le modalità di applicazione della stessa nel processo civile telematico e nel processo esecutivo telematico. Il passaggio successivo si è avuto con la L. 9 agosto 2013, n. 98 che dedica il capo II alle misure per il potenziamento dell’Agenda digitale italiana. In questo caso sono state introdotte misure per rafforzare la governance del- l’Agenda digitale italiana con la predisposizione di una cabina di regia dedicata a proporre innovazioni (art. 13). Sono state anche previste disposizioni per favorire la concorrenza, anche a mezzo piattaforme open source, per gli acquisti di beni e servizi per la PA (art. 13-bis); oltre a misure per favorire la diffusione del domicilio digitale quale l’assegnazione di una casella PEC al cittadino che fa richiesta di cambio di residenza (art. 14). Sono state rafforzate le possibilità di accesso alle banche dati pubbliche (art. 16-bis) oltre a favorire l’utilizzo dei fascicoli sanitari elettronici. Tuttavia la più importante innovazione è certamente quella del sistema pubblico di identità digitale SPID (art. 17-ter) che consente di accedere a tutti i servizi on-line con la medesima identità digitale. In questo modo diventa possibile prenotare prestazioni sanitarie, iscrizioni scolastiche, controllare la situazione contributiva, pratiche commerciali. Quindi qualunque servizio pubblico o privato che necessiti autenticazione. Da ultimo è stato approvato il recentissimo D.Lgs. 26 agosto 2016, n. 179 recante “modifiche ed integrazioni al Codice dell’amministrazione digitale, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”. Il quale introduce l’art. 3-bis dedicato al domicilio digitale quale strumento preferenziale per le comunicazioni fra cittadino e PA. Altra significativa innovazione è stata la crea LEgISLAzIONE ED ATTUALITà zione dell’indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica INI-PEC (art. 6bis) che è liberamente consultabile. Inoltre ora è previsto esplicitamente che i dati ed i documenti pubblicati dalla PA sono rilasciati come dati aperti (art. 52). Degne di nota sono le introduzioni dell’Anagrafe nazionale della popolazione residente ANPR e dell’anagrafe della popolazione italiana residente all'estero AIRE (art. 62) che consentono la possibilità di fornire nuovi servizi. Innovativo è anche il servizio dell’Anagrafe nazionale degli assistiti ANA che permette sia ai cittadini oggetto di assistenza che alla PA di monitorare i servizi (art. 62-ter). 2.2 alcune problematiche giuridiche della PEC. È importante ricordare che l’art. 6 del D.P.R. 68/2005 comma 5, il quale disciplina il momento del rilascio della ricevuta di avvenuta consegna della PEC, prevede che la stessa è rilasciata contestualmente alla consegna del messaggio nella casella di posta elettronica del destinatario indipendentemente dall'avvenuta lettura da parte del destinatario medesimo. Il destinatario, pertanto, ha l'onere di consultare la propria casella di posta per prendere effettiva conoscenza di ciò che legalmente gli risulta trasmesso, visto che la presunzione di conoscenza si forma già al momento della messa a disposizione del plico informatico presso la casella di posta certificata del destinatario prescindendo dall'effettiva lettura (Motivo per cui, a giudizio di chi scrive, saranno pochi i privati cittadini che richiederanno un indirizzo PEC). Ultimo aspetto da tenere in conto riguardo, al Decreto in argomento, è l’obbligo per le Pubbliche Amministrazioni ad utilizzare unicamente la PEC per le comunicazioni e le notificazioni che hanno come destinatari i dipendenti della stessa o di un’altra Amministrazione Pubblica. Si ribadisce e si amplia, in tal modo, a tutti i dipendenti pubblici l’obbligo già previsto per le Amministrazioni dalla lett. b del comma 3, dell’art. 47 del D.Lgs. n. 82/2005. L’introduzione di quanto previsto dal D.L. 185/2008 ha fatto nascere delle singolarità ad esempio: fra i professionisti che devono fare uso della PEC ci sono anche gli avvocati che devono comunicarla al proprio Consiglio dell’Ordine. Il D.P.R. 13 febbraio 2001, n. 123 ha individuato alcuni aspetti di rilievo nell’uso della PEC nel Processo Civile Telematico PCT. In particolare si segnala: • 1° co. art. 6 “Le comunicazioni con biglietto di cancelleria, nonché la notificazione degli atti, effettuata quest'ultima come documento informatico sottoscritto con firma digitale, possono essere eseguite per via telematica”. • 1° co. art. 9 “La parte che procede all'iscrizione a ruolo o alla costituzione in giudizio per via telematica trasmette con il medesimo mezzo i documenti probatori come documenti informatici o le copie informatiche dei documenti probatori su supporto cartaceo”. RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 • Art. 10 “Se la procura alle liti è stata conferita su supporto cartaceo, il difensore, che si costituisce per via telematica, trasmette la copia informatica della procura medesima, asseverata come conforme all'originale mediante sottoscrizione con firma digitale”. • Artt. 12 e 13 riguardanti il fascicolo informatico. • Artt. 14 e 15 sulla produzione degli atti e dei documenti probatori su supporto informatico ed il deposito della relazione del CTU. • Art. 17 riguardante la trasmissione della sentenza in formato informatico. Riguardo la valenza legale della PEC sono necessarie alcune delucidazioni di rilievo. Come noto, all’interno del processo civile le prove precostituite (30) hanno la caratteristica di crearsi prima dell’esperienza processuale. Nel novero delle stesse vi sono, ovviamente gli atti pubblici (31), la scrittura privata (32), le riproduzioni meccaniche (33). Tuttavia le PEC si configurano con la valenza della scrittura privata ma, laddove fossero accompagnate da firma digitale (vedi tabella 3), assurgono ad una valenza ben più alta (34). tabella 3 - Firma elettronica e firma digitale Non esiste un singolo tipo di “firma elettronica” in realtà si può dire che si possono individuare varie tipologie di firma. 1) La firma elettronica: è l’insieme di dati in forma elettronica, allegati o (30) Per approfondimenti vedi: LEANzA P., Le prove civili, Torino, giappichelli, 2012; COMOgLIO L., Le prove civili, UTET giuridica, 2010. (31) L’art. 2699 c. c. prevede che “l'atto pubblico è il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l'atto è formato”. Dunque sul piano probatorio l’atto pubblico fa piena prova salvo il caso di querela di falso. La cui proposizione introduce un procedimento previsto dagli artt. 221 -227 c.p.c. dove, in nuovo giudizio “consiste nell’accertare la genuinità di un documento, la sua effettiva provenienza o attribuzione alla persona che se ne dichiara autore, al fine di predisporre uno strumento probatorio irrefutabile” cit. Cass. Civ. sent. 28 luglio 1972, n. 2591. (32) L’art. 2702 c.c. stabilisce che “La scrittura privata fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi l'ha sottoscritta, se colui contro il quale la scrittura è pro- dotta ne riconosce la sottoscrizione, ovvero se questa è legalmente considerata come riconosciuta”. È giusto il caso di ricordare che l’efficacia probatoria della scrittura privata non disconosciuta si limita alla provenienza della dichiarazione e non al contenuto della stessa, vedi Cass. Civ. sent. 14 luglio 1988, n. 4611. (33) L’art. 2712 c.c. chiarisce che “Le riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime”. Tuttavia la S.C. ha avuto modo di chiarire che in ordine all’assunta contestazione dei dati del sistema informatico, è da osservare preliminarmente che, per l’art. 2712, la contestazione esclude il pieno valore probatorio della riproduzione meccanica, ove abbia per oggetto il rapporto di corrispondenza tra la realtà e la riproduzione meccanica. ove la contestazione vi sia stata, la riproduzione, pur perdendo il suo pieno valore probatorio, conserva tuttavia il minor valore di un semplice elemento di prova che può essere integrato da ulteriori elementi” così Cass. Civ. sent. 11 maggio 2005, n. 9884. (34) Per approfondimenti vedi: ghIRARDINI A., FAggIOLI g., Digital Forensics, Milano, Apogeo, 2013 pag. 17 e ss. LEgISLAzIONE ED ATTUALITà connessi attraverso una associazione logica ad altri dati elettronici, utilizzati quale metodo di identificazione. 2) La firma elettronica avanzata: è l’insieme di dati in forma elettronica, allegati o connessi ad un documento informatico che permettono l’identificazione e la connessione univoca fra firmatario e documento. 3) La firma elettronica qualificata: è una tipologia di firma elettronica avanzata che, ulteriormente alla precedente, prevede l’utilizzo di un dispositivo di sicurezza nella creazione della firma. 4) La firma digitale: è una tipologia di firma elettronica avanzata che è stata implementata con sistemi di certificazione sia della provenienza che dell’integrità del contenuto del documento e dei metadati connessi ad esso. Inoltre prevede un sistema di protezione con doppia chiave asimmetrica, dove quella pubblica è libera e disponibile per tutti e quella privata è univocamente riconducibile al titolare. 3. La Posta Elettronica Certificata nell’ambito internazionale. Non molti sanno che, nonostante ci sia l’insana usanza di bistrattare le innovazioni italiane in favore di una idolatrazione assoluta di ciò che viene importato da altri stati, nel caso della PEC, l’esperienza italiana è stata assolutamente all’avanguardia. Anzi l’Italia è stato il primo paese al mondo a dare piena valenza legale al sistema di comunicazioni telematiche. Così negli ultimi anni abbiamo assistito alla comparsa di molteplici soluzioni analoghe al sistema di Posta Elettronica Certificata, ad opera di governi, operatori postali o privati. Queste soluzioni vengono tipicamente classificate con il generico nome “Certified Electronic Email” CEM. Ogni CEM ha cercato autonome soluzioni tecniche e giuridiche per lo sviluppo dello stesso. L’indipendenza di ciascuna cellula organizzativa nazionale, di contro altare, ha impedito la strutturazione di sistemi standard comuni e condivisi a livello internazionale. “Un sistema CEm è definito sulla base di specifiche tecniche (regole Tecniche), documenti che descrivono con sufficiente chiarezza (senza ambiguità) le funzioni del sistema tali da permettere lo sviluppo di software conforme a dette regole da parte degli interessati. Quando queste regole Tecniche sono emanate da un governo rappresentano uno “standard nazionale”. a titolo di esempio questo è il caso dell’italia (PEC) o della Germania (Demail), dove la definizione e l’uso del sistema sono regolate per legge” (35). L’Universal Postal Union UPU (36) ha individuato la necessità che la co (35) Cit. gENNAI F., L’evoluzione della PEC e prospettive in ambito internazionale in Atti del convegno PEC 2012 “La posta Elettronica Certificata: opportunità e sfide nell’internet del futuro” ISTI - CNR Pisa, 8 maggio 2012. (36) Si tratta di una agenzia specializzata dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che svolge il ruolo di coordinamento delle politiche postali dei paesi membri. In realtà l’UPU è più antica rispetto alle stesse Nazioni Unite. È bene ricordare che nel 1874 a Berna si stipulò un trattato che riuscì a unificare RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 munità internazionale indirizzi anche i sistemi di comunicazione elettronica verso protocolli condivisi che permettano interoperabilità. “Particolarmente importante è il ciclo continuo di test a cui sono sottoposti i Provider PEC per assicurare la loro interoperabilità. Un sistema sviluppato all’iSTi, che fa uso della piattaforma iSTi-PEC, gestisce in modo semiautomatico i 226 test di un ciclo. attraverso questa collaborazione DigitPa sostiene anche la partecipazione di giovani e motivati ricercatori, ai gruppi di lavoro di uno dei più importanti e fondamentali organismi di standardizzazione internazionale: internet Engineering Task Force iETF. Nell’ambito delle attività iETF, il gruppo di lavoro DigitPa-CNr, ha pubblicato un documento che descrive l’architettura del sistema italiano di Posta Elettronica Certificata” (37) (38). Si segnala che neppure in ambito Europeo, almeno ad oggi, non sono presenti standard condivisi fra gli stati membri in tema di strumenti di comunicazione elettronica con valenza legale. Il panorama europeo appare frammentato in una dozzina di sistemi, tecnicamente basati su metodologie applicative diverse fra loro ma che, nella sostanza, prendono spunto dalla PEC italiana. Nel 2014 un Regolamento europeo 910/2014 (39) in materia di identificazione elettronica e servizi fiduciari per le transazioni elettroniche nel mercato interno e che abroga la direttiva 1999/93/CE ha introdotto i servizi elettronici di recapito certificato mediante il c.d. eIDAS (40) che si prefiggono di portare alla interoperabilità a livello comunitario. L’art. 43 della stessa prevede che “ai dati inviati e ricevuti mediante un servizio elettronico di recapito certificato non sono negati gli effetti giuridici e l’ammissibilità come prova in procedimenti giudiziali per il solo motivo della loro forma elettronica o perché non soddisfano i requisiti del servizio elettronico di recapito certificato qualificato. 2. i dati inviati e ricevuti mediante servizio elettronico di recapito certificato qualificato godono della presunzione di integrità dei dati, dell’invio di tali dati da parte del mittente identificato, della loro ricezione da parte del destinatario identificato e di accuratezza un intricato e contraddittorio sistema di servizi postali e regolamentazioni nazionali in un solo territorio postale di scambio reciproco di oggetti postali. I paesi che parteciparono alla conferenza ridussero il numero di tariffe postali da 1200 a una tariffa per tutti. (37) Cit. gENNAI F., op. cit. (38) Per approfondimenti sull’evoluzione della Posta Certificata Italiana vedi: http://datatracker.ietf.org/doc/rfc6109/ (39) Pubblicato in g. U. dell’Unione Europea del 28 agosto 2014 Fonte: http://eur-lex.europa.eu/legal-content/iT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32014r0910&from=iT (40) L’Ectronic IDentification Authentication and Signature è un processo di identificazione elettronica in base al quale i dati di autenticazione personale sono in forma elettronica. Laddove, ai sensi dell’art. 3 del Regolamento UE n. 910/2014 per “«identificazione elettronica», [si intende] il processo per cui si fa uso di dati di identificazione personale in forma elettronica che rappresentano un’unica persona fisica o giuridica, o un’unica persona fisica che rappresenta una persona giuridica; [mentre per] «mezzi di identificazione elettronica», un’unità materiale e/o immateriale contenente dati di identificazione personale e utilizzata per l’autenticazione per un servizio online”. LEgISLAzIONE ED ATTUALITà della data e dell’ora dell’invio e della ricezione indicate dal servizio elettronico di recapito certificato qualificato”. Mentre l’art. 44 individua i requisiti per i servizi elettronici di recapito certificato qualificato “i servizi elettronici di recapito certificato qualificati soddisfano i requisiti seguenti: a) sono forniti da uno o più prestatori di servizi fiduciari qualificati; b) garantiscono con un elevato livello di sicurezza l’identificazione del mittente; c) garantiscono l’identificazione del destinatario prima della trasmissione dei dati; d) l’invio e la ricezione dei dati sono garantiti da una firma elettronica avanzata o da un sigillo elettronico avanzato di un prestatore di servizi fiduciari qualificato in modo da escludere la possibilità di modifiche non rilevabili dei dati; e) qualsiasi modifica ai dati necessaria al fine di inviarli o riceverli è chiaramente indicata al mittente e al destinatario dei dati stessi; f) la data e l’ora di invio e di ricezione e qualsiasi modifica dei dati sono indicate da una validazione temporale elettronica qualificata. Qualora i dati siano trasferiti fra due o più prestatori di servizi fiduciari qualificati, i requisiti di cui alle lettere da a) a f) si applicano a tutti i prestatori di servizi fiduciari qualificati”. 4. il funzionamento del sistema di Posta Elettronica Certificata. Il funzionamento del servizio di PEC non si differenzia dal normale funzionamento della posta elettronica cui comunemente utilizziamo, se non per la gestione delle ricevute collegate al messaggio originale ed ai dati di certificazione, che nello specifico consistono nella: • Firma elettronica certificata dai gestori come, disposto dell’art. 1, D.P.R. del n. 445/2000; • Indicazione temporale di riferimento opponibile ai terzi. Il documento informatico trasmesso per via telematica si intende spedito dal mittente se inviato al proprio gestore, e si intende consegnato al destinatario se reso disponibile all’indirizzo elettronico da questi dichiarato, nella casella di posta elettronica del destinatario messa a disposizione dal gestore. I sistemi di gestione di PEC, durante i passaggi intermedi dal mittente al destinatario finale, anche nel caso in cui il mittente ed il destinatario appartengono allo stesso dominio di posta elettronica certificata, generano dei messaggi specifici (conformi allo standard internazionale S/MINE) (41) elaborati in base alla tipologia di messaggio e distinti in tre categorie: le ricevute, gli avvisi e le buste. (41) S/MIME è basato sullo standard MIME, il cui scopo è di permettere di includere nei messaggi elettronici dei file allegati diversi dai file di testo. È cosi grazie allo standard MIME che è possibile aggiungere degli allegati di ogni tipo ai messaggi elettronici. RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 Con la certificazione delle fasi del servizio di PEC il mittente riceve dal gestore di posta una ricevuta, che costituisce prova legale dell’avvenuta spedizione del messaggio e dell’eventuale documentazione allegata. Ai fini della validità della trasmissione e della ricezione del messaggio di Posta Elettronica Certificata vengono rilasciate, rispettivamente: a) ricevuta di accettazione, proveniente dal proprio gestore di posta, che attesta l’avvenuto invio della mail (l’attestazione riguarda anche la presenza di eventuali allegati inoltrati insieme alla mail certificata); b) ricevuta di presa in carico che attesta il passaggio di responsabilità dall’utente al gestore; c) ricevuta di avvenuta consegna completa, breve, sintetica proveniente dal gestore di posta del destinatario, che certifica che quest’ultimo abbia ricevuto la comunicazione. Tale certificazione sarà resa nel momento in cui il destinatario avrà disponibilità del messaggio (ossia al momento del ricevimento), indipendentemente dal fatto che egli lo abbia letto o meno. gli avvisi generati dal sistema di posta elettronica certificata possono essere: a) avviso di non accettazione (per eccezioni formali o virus informatici); b) avviso di mancata consegna in caso di un’eventuale mancata ricezione da parte del destinatario, il gestore di posta del destinatario informerà il mittente qualora entro 24 ore non sarà riuscito ad effettuare la consegna del messaggio. Ad esempio (per il superamento dei tempi massimi previsti o per virus informatici; c) avviso di rilevazione di virus. Le tipologie di buste create dal sistema possono essere: a) busta di trasporto (contenente il messaggio originario, i dati di certificazione e la firma del gestore); b) busta di anomalia (contenente il messaggio errato e la firma del gestore). Tutte le tipologie di messaggi generati dal sistema PEC sono sottoscritti dai gestori di posta elettronica certificata mediante la firma. I certificati di firma di cui il gestore deve disporre ai fini della validità della certificazione del messaggio “sono rilasciati da DiGiTpa (già CNiPa) al momento del- l’iscrizione nell’elenco pubblico dei gestori di posta elettronica certificata e sino ad un numero massimo di dieci firme per ciascun gestore. Sempre il D.P.r. n. 68/2005 detta norme per il caso di smarrimento delle ricevute in questo caso un apposito archivio informatico custodito dai gestori di posta elettronica certificata ha il compito di conservare, per un periodo di trenta mesi, le tracce informatiche caratterizzate dallo stesso valore giuridico. Nel caso in cui ci siano problemi nella consultazione dei messaggi notificati, potrà essere richiesta una copia al gestore di posta” (42). S/MIME è stato messo a punto all'origine dalla società RSA Data Security. Ratificato nel luglio 1999 dall'IETF, S/MIME è diventato uno standard, le cui specificazioni sono contenute nei RFC 3369, 3370, 3850 e 3851. (42) Cit. CONTALDO A., gORgA M., il processo telematico, Torino, giappichelli, 2012, pag. 195. LEgISLAzIONE ED ATTUALITà Il percorso dal mittente al destinatario finale del messaggio di PEC è di seguito schematizzato attraverso una sequenza che illustra le fasi del passaggio dal mittente al rispettivo gestore e dal gestore del destinatario al destinatario stesso: dominio di PostaCertificata Mittentedominio di PostaCertificata DestinatarioBusta diTrasporto(firmata) gestore di PECdel Mittentegestore di PECdel Destinatariomailricevutamboxmboxpunto di accessopunto di consegna12345Mittentedestinatariopunto di ricezione In caso di un’eventuale mancata ricezione da parte del destinatario il gestore di posta del destinatario informerà il mittente qualora entro 24 ore non sia riuscito ad effettuare la consegna del messaggio. Inoltre, i gestori sono tenuti (non obbligati) a verificare che il messaggio di posta elettronica non sia contagiato da virus e ad adottare i comportamenti disciplinati all’art. 12 del D.P.R. 68/2005. 5. i vantaggi derivanti dall’uso della PEC. L’uso della PEC introduce vantaggi che sono di carattere economico principalmente, ma anche in ordine alla sicurezza della trasmissione: a) invio dei messaggi ha costi di gran lunga inferiori quello delle raccomandate; b) confidenzialità ed integrità dei dati; c) possibilità di invio multiplo, cioè a più destinatari contemporaneamente, con conseguente vantaggio in termini economici; d) tracciabilità della casella mittente e quindi del suo titolare; e) possibilità di consultazione ed uso anche da postazioni diverse da quella del proprio ufficio o abitazione (grazie alla persistenza del messaggio nella casella postale assicurata dal gestore di PEC, basta un qualsiasi dispositivo, non solo PC, connesso ad Internet e un normale browser web); f) certificazione del RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 l’avvenuta consegna del messaggio nella casella di posta del destinatario del messaggio e dei suoi contenuti, quindi di quanto allegato (43); g) l’obbligo da parte del gestore di archiviare sia i Log dei messaggi PEC che gli allegati, per un periodo di trenta mesi conservando traccia di ogni singola operazione, in modo tale che il mittente che abbia smarrito le ricevute, possa comunque ricostruire le operazioni effettuate (secondo quanto stabilito dagli artt. 6, comma 7 e 11 del D.P.R. 68). Nel lavoro di ricerca, di lettura ed analisi dell’ordinamento relativo alla posta elettronica certificata, si sono evidenziate problematiche che mettono in dubbio la legittimazione giuridica del sistema di posta e/o la sua usabilità, problematiche derivanti da un confuso e disorganico processo di produzione normativa, con l’obiettivo solo di ottenere risparmi economici e non volto alla evoluzione tecnologica, fatto di abrogazioni e rinvii -del quale sembra rimasto vittima lo stesso legislatore. Un esempio emblematico è rappresentato dalla applicazione di quanto previsto dalla direttiva comunitaria n. 93/99/CE che disciplina tra l’altro la firma elettronica. Essa prevede soltanto due tipi di firma elettronica: a) la firma elettronica (art. 2, n. 1) e b) la firma elettronica avanzata (art. 2, n. 2). Detta direttiva è stata recepita nel nostro ordinamento con il D.Lgs. n. 10/2002 ma quest'ultimo provvedimento è stato abrogato con l'avvento del codice dell'amministrazione digitale. Nel processo di evoluzione normativa sono cambiate le firme elettroniche: il CAD (D.Lgs. n. 82/2005) ha aggiunto alla sola firma elettronica la firma elettronica qualificata e la firma digitale. Attualmente, quindi, secondo le disposizioni vigenti (solo il CAD) esistono tre firme tra cui non è contemplata quella elettronica avanzata. Tuttavia, l’art. 9 comma 1 d.P.R. n. 68 del 2005, dispone che: “le ricevute rilasciate dai gestori di posta elettronica certificata sono sottoscritte dai medesimi mediante una firma elettronica avanzata” ed al comma 2 che “la busta di trasporto è sottoscritta con una firma elettronica di cui al comma 1”. In sostanza, per la validità della posta elettronica certificata -ai sensi dell'art. 4, ultimo comma, è necessario che i gestori firmino le ricevute (di invio e di consegna) con la firma elettronica avanzata che non è presente nel nostro ordinamento. Altra problematica è in relazione alla interoperabilità della PEC in ambito internazionale. Ed infatti l’art. 16 decreto legge n. 185 del 2009 prevede che vi sia un analogo indirizzo di posta elettronica basato su tecnologie che certifichino data e ora dell’invio e della ricezione delle comunicazioni e l’integrità del contenuto delle stesse, garantendo l’interoperabilità con analoghi sistemi internazionali. (43) Le caselle PEC in commercio hanno una dimensione non inferiore ad 1 giga per cui consentono di mantenere in giacenza quasi 5.000 mail in questo modo diventa possibile ricevere allegati di grandi dimensioni o gestire una quantità superiore di messaggi rispetto alle normali caselle. Inoltre può permettere l’invio ad un gran numero di destinatari contemporaneamente (fino a 250). LEgISLAzIONE ED ATTUALITà Si denota come il contenuto prescrittivo dell’art. 16 sembri scisso in due parti molto diverse sotto il profilo tecnologico, da una parte si obbliga di adottare la PEC (quindi un sistema di posta molto preciso e regolamentato a livello nazionale) dall’altra un altro indirizzo di posta con alcune caratteristiche indicate abbastanza genericamente (“basato su tecnologie che certifichino data e ora dell’invio e della ricezione delle comunicazioni e l’integrità del contenuto delle stesse, garantendo l’interoperabilità con analoghi sistemi internazionali”), ma senza che si faccia riferimento a standard o requisiti tecnici specifici. Il motivo di tale previsione pare si debba ricercare nel fatto che l’introduzione e la regolamentazione della PEC in Italia è apparsa gravata da un serio limite: il non tenere in debito conto il requisito della neutralità tecnologica delle prescrizioni normative, applicazione del principio del libero mercato, che è come noto principio fondante dell’Unione europea. A seguito quindi del coro di polemiche e forse, del già citato ricorso alla commissione europea, con l’obiettivo di evitare ogni possibile irrigidimento verso soluzioni monopolistiche o di ostacolo alla libera concorrenza, viene introdotta dal comma 6 una clausola "di apertura" del legislatore verso altre soluzioni di posta elettronica con caratteristiche analoghe ma non così rigorosamente predeterminate. Questo tipo di previsione normativa è dunque una sorta di riconoscimento tributato ai principi del libero mercato europeo. Una norma così concepita, pur rispettosa del criterio di neutralità tecnologica, potrebbe però determinare una situazione per un certo periodo molto confusa, in attesa di un regolamento tecnico chiarificatore da cui potrebbe discendere una lettura della norma, da parte dei soggetti indicati dal decreto come programmatica piuttosto che prescrittiva. RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 Le novità della disciplina del Processo Civile telematico (PCt) anche con riguardo alla recente disciplina del Codice dell’amministrazione digitale (Cad) Alfonso Contaldo* Michele Gorga** Sommario: 1. Sistema Pubblico di identità Digitale - 2. il deposito telematico degli atti nel processo civile - 3. La nuova disciplina delle copie informatiche dei documenti analogici -4. Le fonti normative del Processo Civile Telematico - 5. il punto di accesso, funzioni ed abilitazioni, i delegati dell’avvocato e gli ausiliari del giudice - 6. il deposito degli atti alla luce del d.m.g. 21 febbraio 2011, n. 44 e del CaD - 6.1. registro generale degli indirizzi elettronici nel previgente sistema e nel nuovo decreto -7. La rilevanza del documento informatico nel processo civile telematico - 8. il valore probatorio della firma digitale e di quella elettronica nel processo civile telematico. 1. Sistema Pubblico di identità Digitale. Con l’inserimento della previsione dell’adeguamento alle modalità di identificazione ed autenticazione degli utenti tramite SPID - previsione che si è materializzata nell’art. 2 comma 6 decreto legislativo 26 agosto 2016 n. 179 dove è stato previsto che il CAD si applichi anche al processo telematico civile (1) se non diversamente disposto e all’art. 50, sempre del decreto in esame, dove è stato previsto che un atto giuridico può essere posto in essere da un soggetto identificato mediante SPID, nell'ambito di un sistema informatico avente i requisiti fissati nelle regole tecniche adottate ai sensi dell'articolo 71, attraverso processi idonei a garantire, in maniera manifesta e inequivoca, l'acquisizione della sua volontà -anche con l’identità digitale è diventato oggi possibile accedere ai servizi del PCT tramite la metodologia SPID. Nell’ambito delle fonti normative italiane, il primo diretto riferimento al- l’Identità Digitale, e nello specifico al Sistema Pubblico di Identità Digitale, si ha con il comma 2-sexies dell'art. 64 del D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82 recante le (*) Alfonso Contaldo, docente a contratto di Diritto dell’informazione e della comunicazione digitale nell’Accademia delle Belle Arti di Roma. (**) Michele gorga, avvocato cassazionista, giudice ausiliare della Corte di Appello di Roma. (1) vedi al riguardo BUFFA F., il processo civile telematico: la giustizia informatizzata, Milano, 2002, 42 ss.; BRESCIA S.,LICCARDO P., voce Processo telematico, in Enc. giur., XXIv, Roma, 2005; IN- TRAvIA P., il Processo Telematico: disciplina normativa e infrastruttura tecnologica, in AA.vv., Elementi di informatica giuridica, a cura di JORI M.,Torino, 2006, 213 ss.; CONTALDO A., gORgA M., E-law. Le professioni legali, la digitalizzazione delle informazioni giuridiche e il processo telematico, Soveria Mannelli (Cz), 2006; CONTALDO A., gORgA M., il processo civile telematico, Torino, 2012, 62 ss.; vIL- LECCO A., il processo civile telematico, Torino, 2011; vILLECCO A., AgASSI E., BONINI M., il processo telematico, Milano, 2013, 23 ss. LEgISLAzIONE ED ATTUALITà disposizioni sul Codice dell'Amministrazione Digitale, così come modificato dal co. 2 dell'art.17-ter del D.L. 21 giugno 2013 n. 69 convertito con modificazioni dalla L. 9 agosto 2013, n. 98. Analizzando detta norma vi si possono individuare le caratteristiche necessarie a garanzia dei modelli di protezione di SPID individuandole in riferimento: “a) al modello architetturale e organizzativo del sistema; b) alle modalità e ai requisiti necessari per l'accreditamento dei gestori dell'identità digitale; c) agli standard tecnologici e alle soluzioni tecniche e organizzative da adottare anche al fine di garantire l'interoperabilità delle credenziali e degli strumenti di accesso resi disponibili dai gestori del- l'identità digitale nei riguardi di cittadini e imprese; d) alle modalità di adesione da parte di cittadini e imprese in qualità di utenti di servizi in rete; e) ai tempi e alle modalità di adozione da parte delle pubbliche amministrazioni -ed imprese interessate -in qualità di erogatori di servizi in rete”. Dunque, si può dire che, la funzione dell’Identità Digitale dettata dalla normativa italiana, può essere inquadrata nel costrutto identificato dal comma 2-bis dell’art. 64 del CAD che prevede, per favorire la diffusione di servizi in rete e agevolare l'accesso agli stessi ai cittadini e alle imprese, anche in mobilità, che il sistema pubblico per la gestione dell'identità digitale è a cura dell'Agenzia per l'Italia digitale. Così definito, il Sistema Pubblico di Identità Digitale, appare come un sistema di login che, grazie al riconoscimento dell’utente sullo schema di differenti livelli di sicurezza, consente l’accesso ad una vasta gamma di servizi on-line della pubblica amministrazione o di privati aderenti. La normativa europea di riferimento in materia di identificazione elettronica e servizi fiduciari per le transazioni elettroniche è il Regolamento 910/2014 del Parlamento Europeo del Consiglio del 23 luglio 2014 che ha esplicitamente abrogato la preesistente direttiva 1999/93/CE. Il regolamento in commento, è conosciuto con l’acronimo di eIDAS (electronic iDentification authentication and Signature) e si è posto l’obbiettivo di fornire una base normativa europea che possa garantire strumenti per rafforzare la fiducia nelle transazioni elettroniche e favorire l’interazione fra cittadini, imprese e la pubblica amministrazione. In particolare si deve segnalare che l’art. 1 del Regolamento chiarisce che, ai fini del raggiungimento degli scopi “a) fissa le condizioni a cui gli Stati membri riconoscono i mezzi di identificazione elettronica delle persone fisiche e giuridiche che rientrano in un regime notificato di identificazione elettronica di un altro Stato membro, b) stabilisce le norme relative ai servizi fiduciari, in particolare per le transazioni elettroniche; e c) istituisce un quadro giuridico per le firme elettroniche, i sigilli elettronici, le validazioni temporali elettroniche, i documenti elettronici, i servizi elettronici di recapito certificato e i servizi relativi ai certificati di autenticazione di siti web”. Per supportare codesta finalità, acquisisce vitale importanza la piena interoperabilità a livello comunitario di particolari tipologie di firme elettroniche RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 e dei sistemi di validazione temporale. Elementi noti in Italia con le definizioni di firma digitale e marca temporale. Il regolamento eIDAS, visto nel suo complesso, non si discosta in modo significativo dalla disciplina giuridica introdotta nell’ordinamento italiano dal D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82 recante la disciplina del “Codice dell’Amministrazione Digitale”. Regolamento, infatti, che conferma a livello comunitario il principio di neutralità tecnologica e garantisce un adeguato livello di sicurezza dei mezzi di identificazione elettronica e dei servizi fiduciari. Il n. 1 dell’art. 3 del Regolamento eIDAS definisce “«identificazione elettronica » il processo per cui si fa uso di dati di identificazione personale in forma elettronica che rappresentano un’unica persona fisica o giuridica, o un’unica persona fisica che rappresenta una persona giuridica”. Risulta rilevante anche il testo dell’art. 6 il quale stabilisce che “Ove il diritto o la prassi amministrativa nazionale richiedano l’impiego di un’identificazione elettronica mediante mezzi di identificazione e autenticazione elettroniche per accedere a un servizio prestato da un organismo del settore pubblico online in uno Stato membro, i mezzi di identificazione elettronica rilasciati in un altro Stato membro sono riconosciuti nel primo Stato membro ai fini dell’autenticazione transfrontaliera di tale servizio online, purché soddisfino le seguenti condizioni: a) i mezzi di identificazione elettronica sono rilasciati nell’ambito di un regime di identificazione elettronica compreso nell’elenco pubblicato dalla Commissione a norma dell’articolo 9; b) il livello di garanzia dei mezzi di identificazione elettronica corrisponde a un livello di garanzia pari o superiore al livello di garanzia richiesto dall’organismo del settore pubblico competente per accedere al servizio online in questione nel primo Stato membro, sempre che il livello di garanzia di tali mezzi di identificazione elettronica corrisponda al livello di garanzia significativo o elevato; c) l’organismo del settore pubblico competente usa il livello di garanzia significativo o elevato in relazione all’accesso a tale servizio online”. Dunque, i cittadini possono avvalersi della loro identificazione elettronica anche in un altro Stato membro, purché i regimi nazionali di identificazione elettronica del loro paese siano riconosciuti nello Stato membro, e che il procedimento di identificazione sia effettuato nel rispetto dei principi relativi alla protezione dei dati personali ai sensi della direttiva 95/46/CE. Si segnala che dallo scorso 1° luglio 2016, con l’entrata in vigore del Regolamento 910/2014, tutte le pubbliche amministrazioni hanno l’obbligo di accettare firme digitali o qualificate così come definite dal 3° co. dell’art. 25 del Regolamento medesimo “Una firma elettronica qualificata basata su un certificato qualificato rilasciato in uno Stato membro è riconosciuta quale firma elettronica qualificata in tutti gli altri Stati membri”. LEgISLAzIONE ED ATTUALITà L’Italia, oltre ad esser stata il primo stato europeo ad adottare un sistema di autenticazione legalmente riconosciuto per le comunicazioni telematiche, grazie all’adozione della firma digitale, ha intrapreso un cammino di modernizzazione della macchina burocratica. È chiaro che il percorso è molto lungo, complesso e necessiterà di molti interventi che verranno dilazionati nel tempo. Tuttavia un passo importante verso la realizzazione di un meccanismo efficiente di e-government (2) passa, indubbiamente, attraverso l’adozione del Sistema Pubblico di Identità Digitale. Come si è detto in precedenza, i servizi offerti attraverso l’uso di SPID possono essere innumerevoli e di variegata natura dalle prenotazione sanitarie, alle iscrizioni scolastiche ovvero dall’accesso alla rete wi-fi pubblica fino alle pratiche anagrafiche. In realtà, però, i servizi collegati sono decisamente molto più numerosi e riguardano anche la possibilità di effettuare pagamenti di tasse e tributi, l’accesso ai servizi INAIL ed INPS, l’accesso al fascicolo sanitario elettronico, l’accesso allo sportello unico delle attività produttive ecc. Questa vasta gamma non esaustiva di servizi che, comunque, sarà implementata nel prossimo futuro, comporta una importante differenziazione in ambito di esigenze di sicurezza e di trattamento dei dati personali. Sicché l’impostazione voluta è stata quella di graduare i livelli di protezione richiesti per l’erogazione dei singoli servizi e, congiuntamente, di fornire all’utente quanto necessario per avere il controllo dei propri dati, fermo restando che, in ogni caso, non vi sarà alcuna attività di profilazione. Alla luce di quanto testé chiarito, il Sistema Pubblico per l’Identità Digitale definisce tre livelli di sicurezza, corrispondenti ad altrettante categorie previste nella norma internazionale ISO-IEC 29115 e dall’art. 6 del DPCM 24 ottobre 2014 recante “Definizione delle caratteristiche del sistema pubblico per la gestione dell'identità digitale di cittadini e imprese (SPID), nonché dei tempi e delle modalità di adozione del sistema SPID da parte delle pubbliche amministrazioni e delle imprese”: a) Il primo livello garantisce, con un buon grado di affidabilità, l’identità accertata nel corso dell’attività di autenticazione. A tale livello è associato un rischio moderato e compatibile con l’impiego di un sistema autenticazione a singolo fattore (password associata alla digitazione di una UseriD). Questo livello è tipicamente associato ad attività che, comunque, non siano particolarmente pericolose ed il danno causato, da un utilizzo indebito dell’identità digitale, possa avere un basso impatto per le attività del cittadino, dell’impresa o della pubblica amministrazione. Per il livello 1 la credenziale di accesso sarà, dunque, una password di almeno 8 caratteri, da rinnovarsi ogni 180 giorni, formulata secondo i consueti criteri di sicurezza. (2) vedi al riguardo CARLONI E., L’amministrazione aperta. regole strumenti limiti dell’open government, Rimini, 2014, 82 ss. ed alla bibliografia colà citata. RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 b) Il secondo livello garantisce con un alto grado di affidabilità l’identità accertata nel corso dell’attività di autenticazione attraverso l’adozione di un duplice sistema di autenticazione. Infatti, tale livello è associato ad operazioni con un rischio maggiore e, pertanto, è compatibile con l’impiego di un sistema di autenticazione informatica a due fattori, non necessariamente basato su certificati digitali (password e one Time Password associati alla digitazione di una UseriD). c) Il terzo livello garantisce con un altissimo grado di affidabilità l’identità accertata nel corso dell’attività di autenticazione. In questo caso vi è un altissimo rischio e, pertanto, è richiesto un sistema di autenticazione informatica a due fattori basato su certificati digitali e criteri di custodia delle chiavi private su dispositivi che soddisfano i requisiti dell’Allegato 3 della Direttiva 1999/93/CE. Quindi richiede l’utilizzo della firma digitale come strumento di ulteriore garanzia. Occorre anche dire che codesti tre distinti livelli di sicurezza, a ben vedere, trovano spunto nel Regolamento eIDAS. Il cui 2° co. dell’art. 8 prevede tre livelli: “il livello di garanzia basso si riferisce a mezzi di identificazione elettronica nel contesto di un regime di identificazione elettronica che fornisce un grado di sicurezza limitato riguardo all’identità pretesa o dichiarata di una persona ed è caratterizzato in riferimento a specifiche, norme e procedure tecniche a esso pertinenti, compresi controlli tecnici, il cui scopo è quello di ridurre il rischio di uso abusivo o alterazione dell’identità; b) il livello di garanzia significativo si riferisce a mezzi di identificazione elettronica nel contesto di un regime di identificazione elettronica che fornisce un grado di sicurezza significativo riguardo all’identità pretesa o dichiarata di una persona ed è caratterizzato in riferimento a specifiche, norme e procedure tecniche a esso pertinenti, compresi controlli tecnici, il cui scopo è quello di ridurre significativamente il rischio di uso abusivo o alterazione dell’identità; c) il livello di garanzia elevato si riferisce a un mezzo di identificazione elettronica nel contesto di un regime di identificazione elettronica che fornisce riguardo all’identità pretesa o dichiarata di una persona un grado di sicurezza più elevato dei mezzi di identificazione elettronica aventi un livello di garanzia significativo ed è caratterizzato in riferimento a specifiche, norme e procedure tecniche a esso pertinenti, compresi controlli tecnici, il cui scopo è quello di impedire l’uso abusivo o l’alterazione dell’identità”. A quanto fin qui detto occorre aggiungere il disposto del successivo 3° co. dell’art. 8 del Regolamento eIDAS che, coerentemente con le esigenze di garanzia di procedure tecniche di sicurezza, specifica “procedure tecniche minime sono fissate facendo riferimento all’affidabilità e alla qualità dei seguenti elementi: a) della procedura di controllo e verifica dell’identità delle persone fisiche o giuridiche che chiedono il rilascio dei mezzi di identificazione elettronica; b) della procedura di rilascio dei mezzi di identificazione elettronica LEgISLAzIONE ED ATTUALITà richiesti; c) del meccanismo di autenticazione mediante il quale la persona fisica o giuridica usa i mezzi di identificazione elettronica per confermare la propria identità a una parte facente affidamento sulla certificazione; d) del- l’entità che rilascia i mezzi di identificazione elettronica; e) di qualsiasi altro organismo implicato nella domanda di rilascio dei mezzi di identificazione elettronica; e f) delle specifiche tecniche e di sicurezza dei mezzi di identificazione elettronica rilasciati”. Il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 24 ottobre 2014 è venuto a delineare l’impianto generale e le modalità di funzionamento di SPID. L’art. 3 della norma citata individua in modo preciso i soggetti, che come vedremo, possono essere sia pubblici che privati. Dalla lettura dell’art. 3 emergono i seguenti soggetti coinvolti nel funzionamento di SPID “i gestori dell'identità digitale; b) i gestori degli attributi qualificati; c) i fornitori di servizi; d) l'Agenzia [per l’Italia Digitale]; e) gli utenti”. Seguendo la struttura del decreto, l’art. 4 individua le funzioni svolte dall’AgID che è chiamata a tre attività distinte: a) gestire l’accreditamento delle imprese o delle Pubbliche Amministrazioni che opereranno come fornitori dei servizi on-line; b) curare l’aggiornamento del registro SPID con possibilità di verificare, attraverso il gestore, i dati identificativi dell’utente e le modalità di rilascio delle identità digitali; c) stipula di convenzioni con soggetti che attestino la validità degli attributi identificativi. La definizione di gestori dell’identità digitale è fornita dalla lettera L) dell’art. 1 del medesimo DPCM e stabilisce che siano le “persone giuridiche accreditate allo SPID che, in qualità di gestori di servizio pubblico, previa identificazione certa dell'utente, assegnano, rendono disponibili e gestiscono gli attributi utilizzati dal medesimo utente al fine della sua identificazione informatica”. Quanto ai gestori degli attributi qualificati si può dire che, ai sensi della lettera M) dell’art. 1 sono “i soggetti accreditati ai sensi dell'art. 16 che hanno il potere di attestare il possesso e la validità di attributi qualificati, su richiesta dei fornitori di servizi”. In altre parole sono gli identity provider che, previo un pregresso accreditamento e la successiva richiesta di iscrizione a SPID da parte dell’utente richiedente, provvedono a verificare l'identità ed il tipo di afferenza senza interagire direttamente con l'utente. La risorsa infatti reindirizzerà la richiesta di autenticazione all'identity provider di riferimento dell'utente. In questo modo sarà possibile gestire tutte le informazioni sensibili direttamente sui sistemi del servizio richiesto, evitandone il transito in rete o verso servizi di ignota affidabilità. I fornitori di servizi, invece, non vengono identificati in modo particolarmente preciso dalla DPCM 24 ottobre 2014 che, infatti, si limita a porre in essere richiami ad altre disposizioni di legge. In particolare si fa riferimento alla lettera A) del 1° co. dell’art. 2 del D.Lgs. 9 aprile 2003, n. 70 e, quest’ultimo, a sua volta, rimanda alla lettera B) del 1° co. dell’art. 1 della L. 21 giugno RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 1986, n. 317 che stabilisce come servizio della società dell’informazione “qualsiasi servizio della società dell'informazione, vale a dire qualsiasi servizio prestato normalmente dietro retribuzione, a distanza, per via elettronica e a richiesta individuale di un destinatario di servizi. Ai fini della presente definizione si intende: per «servizio a distanza» un servizio fornito senza la presenza simultanea delle parti; per «servizio per via elettronica» un servizio inviato all'origine e ricevuto a destinazione mediante attrezzature elettroniche di trattamento, compresa la compressione digitale e di memorizzazione di dati e che è interamente trasmesso, inoltrato e ricevuto mediante fili, radio, mezzi ottici od altri mezzi elettromagnetici; per «servizio a richiesta individuale di un destinatario di servizi» un servizio fornito mediante trasmissione di dati su richiesta individuale”. Il DPCM 24 ottobre 2014 si occupa, inoltre, di indicare le modalità di gestione e di rilascio delle Identità Digitali. Sempre nell’ottica di garantire la sicurezza nel trattamento dei dati, è stato anche previsto che le informazioni che sono state autorizzate in sede di registrazione, non siano conservate dal sistema dal Provider fornitore del servizio. Pertanto, i dati identificativi di ogni singola ID saranno, detenuti unicamente in via provvisoria per il tempo strettamente necessario alla gestione del servizio. Benché apparentemente sembrerebbe poca cosa, ciò consente di evitare la stratificazione di imponenti quantità di dati in grado di generare big data. Resta ora da espungere l’annoso problema della tutela dell’identità digitale e le modalità di applicazione del data protection. Come noto l'identità personale è costituita da quel complesso di risultanze anagrafiche che servono a identificare univocamente il soggetto nei suoi rapporti con i poteri pubblici e a distinguerlo dagli altri consociati. Dunque, secondo un principio ormai consolidato, appartiene al novero di quei diritti, definiti “inviolabili”, protetti dall'art. 2 della Costituzione. È, quindi, deducibili per analogia, dalla disciplina prevista per il diritto al nome, il diritto all’identità personale, quale interesse, giuridicamente meritevole di tutele. Il diritto all’identità personale ha ricevuto molti riconoscimenti giurisprudenziali, la Corte Costituzionale, ad esempio, configura il diritto all'identità personale come “il diritto ad essere se stesso, inteso come rispetto dell'immagine di partecipe alla vita associata, con le acquisizioni di idee ed esperienze, con le convinzioni ideologiche, religiose, morali e sociali che differenziano, ed al tempo stesso qualificano, l'individuo” . Maggiori punti di contatto si evidenziano tra il diritto all’identità personale e il diritto al nome (si veda Corte cost., sent. n. 297/1996), riconosciuto e tutelato dal codice civile (artt. 6 e 7), in cui si dispone che la persona a cui viene contestato il diritto all’uso del proprio nome, o che possa subire un danno dal suo impiego indebito da parte di altri, “può chiedere giudizialmente la cessazione del fatto lesivo, salvo il risarcimento del danno” . LEgISLAzIONE ED ATTUALITà Tuttavia, parlando di tutela dell’identità personale, la norma cardine è la L. 675/1996 “Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali” seguita dal D.Lgs. n. 196/2003, recante “il Codice in materia di protezione dei dati personali”. La nozione di Identità Digitale, fino all’entrata in vigore del Regolamento eIDAS, non aveva precisi e specifici riscontri normativi, tuttavia era comunque entrata a far parte dell'ambiente giuridico anche se declinata in diversi modi. In una prima, e più ampia accezione, l'espressione era utilizzata come sinonimo d’identità virtuale, essendo impiegata per spiegare la possibilità di assumere diverse identità personali in rete. Tuttavia la corretta accezione dovrebbe essere di “identità informatica” impiegata per designare, quindi, l'insieme delle informazioni e delle risorse concesse da un sistema informatico ad un particolare utilizzatore dello stesso e protette da un sistema di autenticazione. Infatti, non si può parlare di identità digitale se non collegandola alla presenza di tecniche d’identificazione ovvero autenticazione del soggetto che utilizza gli strumenti informatici. 2. il deposito telematico degli atti nel processo civile. Il deposito telematico degli atti nel processo civile è stato previsto dall' art. 16-bis del decreto legge 18 ottobre 2012 n. 179, convertito con modificazioni dalla legge 17 dicembre 2012 n. 221, norma che ha sancito l'obbligatorietà del deposito telematico degli atti processuali e dei documenti, a decorrere dal 30 giugno 2014, nei procedimenti civili, contenziosi o di volontaria giurisdizione, innanzi al tribunale, da parte dei difensori delle parti precedentemente costituite (3) e dei loro consulenti. Questa norma ha subito varie modifiche e integrazioni che spaziano dal- l’introduzione dell’obbligatorietà del deposito telematico, a far data dal 30 giugno 2015, di tutti gli atti del processo civile presso le Corti di Appello della Repubblica, a quello dell’obbligatorietà delle notifiche a mezzo PEC. Per quanto riguarda il deposito telematico degli atti questo nella sua prima fase di applicazione, ha posto non pochi problemi alla dottrina e si è posta il problema di verificare se, alla stregua del diritto vigente, il deposito telematico in giu (3) Per poter depositare atti nel processo telematico è necessario che si sia procuratori costituiti ciò è possibile solo se si accede al PolisWeb del Tribunale di riferimento. Il deposito telematico degli atti nel processo può avvenire tramite due modalità distinte e separate. La prima è quella che consente il deposito degli atti senza utilizzare la relativa funzione del software redattore ma tramite invio con PEC alla PEC del Tribunale. Se il Tribunale destinatario ha attivato i servizi della piattaforma per il PCT occorre verificare se il tribunale è stato autorizzato, con il decreto ministeriale, a consentire e ricevere la tipologia dell’atto da depositare. Diversamente in assenza dei decreti autorizzativi si procederà come sempre fatto. Sul portale dei servizi telematici (PST) occorre rintracciare la PEC tribunale da copiare nel software della PEC dell’avvocato e allegare la busta (es. memoria) al messaggio. Si invia e dopo l’invio si attende il messaggio accettazione per il buon fine della spedizione. RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 dizio della comparsa, e dei documenti ad essa allegati, potesse ritenersi valido anche in mancanza del decreto abilitativo emesso dalla DgSIA ex art. 35 d.m. 21 febbraio 2011, n. 44 posto che nessuna norma processuale ricollega la sanzione dell’inammissibilità all’ipotesi d’irregolarità nel deposito telematico di atti giudiziari. Si è, altresì, evidenziato che la DgSIA è priva del potere di individuare il novero degli atti che comportano la possibilità di essere depositati telematicamente, nonché la tipologia dei procedimenti rispetto ai quali è esercitabile la facoltà di deposito digitale, ed in merito è stato ritenuto, anche in giurisprudenza, che sarebbe comunque sempre rimessa unicamente al giudice, sulla base della normativa processuale vigente, la possibilità di verificare se nello specifico il deposito telematico dell’atto ha raggiunto o meno lo scopo al quale era finalizzato (4). Tra questi contrasti interpretativi e necessità di raccordo, tra norme primarie e regolamentari, una risposta chiara è intervenuta con il d.l. 27 giugno 2015 n. 83, con il quale è stato introdotto il comma 1-bis all’art. 16-bis del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, con il quale si è estesa la possibilità di deposito telematico - già previsto per gli atti delle parti precedentemente costituite in giudizio -, anche all’atto introduttivo, al primo atto difensivo e a tutti i documenti offerti in comunicazione specificandosi che in questi casi il deposito degli atti si perfeziona esclusivamente con la modalità telematica. A tale obbligo sono tenuti non solo le parti ma anche i soggetti nominati o delegati dall’autorità giudiziaria e il deposito è previsto anche per i procedimenti esecutivi ma solo per gli atti successivi al pignoramento, per le procedure concorsuali nonché per tutti gli atti del curatore, del commissario giudiziale, del liquidatore, del commissario liquidatore e del commissario straordinario. La novella, quindi, riconosce la facoltà di depositare in via telematica gli atti introduttivi in tutti i Tribunali e Corti d'Appello, e chiarisce la portata delle precedenti integrazioni alla normativa quando l’obbligatorio era stato limitato solo ad alcuni atti endoprocessuali. Nessun obbligo, invece, introduce per i procedimenti avanti ai giudici di Pace. Altra novità che va segnalata, che si aggiunge a quelle dell’art. 16, è che è stato generalizzato il regime delle comunicazioni e delle notificazioni di cancelleria, già previsto dall'art. 51 d.l. n. 112/2008, reso possibile anche per i soggetti privati diversi, quindi, dalle imprese e dai professionisti con la possibilità di notificare personalmente alla parte, che si vuole portare in giudizio, (4) In tal senso si è espresso il Tribunale di Roma, laddove invece il Tribunale di Milano aveva ritenuto che la memoria depositata solo in forma telematica, senza il deposito cartaceo della copia di "cortesia", giustificava la condanna e il pagamento di una penale. Il Tribunale di genova ha ritenuto valido il deposito telematico del ricorso introduttivo e ciò anche in mancanza del decreto abilitativo emesso dalla DgSIA ex art. 35 d. m. 21 febbraio 2011, n. 44, i Tribunali di Lodi e di Torino hanno ritenuto invece che il PCT non consente il deposito dell’atto introduttivo e che non sarebbero neppure applicabili i principi di libertà delle forme e di salvezza dell’atto per il raggiungimento dello scopo. LEgISLAzIONE ED ATTUALITà se questa è dotata di casella di posta elettronica certificata. Queste innovazioni si aggiungono a quelle esistenti che già consentivano a tutte le parti del processo di eleggere domicilio digitale, e dell’obbligo della comunicazione "integrale" del provvedimento e per le pubbliche amministrazioni, di indicare un unico indirizzo di Posta Elettronica Certificata per ricevere le comunicazioni e notificazioni di cancelleria. L'art.16-quater ha, poi, modificato la legge n. 53/1994, rendendo sostanzialmente possibili le notificazioni via PEC da parte degli avvocati. L' art. 17 ha apportato significativi cambiamenti alla legge fallimentare prevedendo: a) un nuovo regime di instaurazione del contraddittorio in sede prefallimentare basato sulla notificazione (a cura della Cancelleria) all'indirizzo PEC dell'imprenditore risultante dal registro delle imprese o dal- l'Indice generale degli indirizzi; b) un nuovo regime di comunicazioni endoprocedimentali basato sulla posta elettronica certificata; c) un nuovo regime di insinuazione allo stato passivo basato esclusivamente sull'uso della PEC e non più gestito dalle cancellerie. L’art. 52 del decreto legge n. 90/2014 ha aggiunto anche l’art. 16-sexies al D.L. n. 179/2012 per cui, salvo quanto previsto dall’art. 366 c.p.c., la legge prevede che le notifiche di atti in materia civile siano eseguite al difensore, ad istanza di parte, presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario -alla notifica in cancelleria può procedersi quando non sia possibile, per causa imputabile al destinatario, la notifica presso l’indirizzo PEC, risultante da INIPEC e REgINDE. 3. La nuova disciplina delle copie informatiche dei documenti analogici. La disciplina delle copie informatiche e dei documenti analogici risulta essere stata ampiamente modificata con l’entrata in vigore dell’art. 15 del d.lgs. 30 dicembre 2010, n. 235, di modifica dell’art. 22 del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82 in tema di copie informatiche di documenti analogici. Prevede la novella che i documenti informatici contenenti copie di atti pubblici, di scritture private e di documenti in genere -compresi gli atti e documenti amministrativi di ogni tipo formati in origine su supporto analogico -, spediti o rilasciati dai depositari pubblici autorizzati -e dai pubblici ufficiali, hanno piena efficacia, ai sensi degli artt. 2714 e 2715 c.c., se ad essi è apposta o associata, da parte di colui che li spedisce o rilascia, una firma digitale o altra firma elettronica qualificata. In questi casi, per le predette copie di documenti, la loro esibizione e la loro produzione sostituisce quella dei relativi originali. Per quanto attiene, invece, le copie per immagine su supporto informatico di documenti originali formati in origine su supporto analogico, si è stabilito che le stesse copie hanno la medesima efficacia probatoria degli originali da cui esse sono estratte, se la loro conformità è attestata da un notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato, con dichiarazione allegata al documento informatico e asseverata secondo le regole tecniche stabilite ai sensi dell'art. 71. Inoltre è stato espressamente previsto che le copie per RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 immagine su supporto informatico dei documenti originali formati in origine su supporto analogico, sempre nel rispetto delle regole tecniche di cui all'art. 71, hanno, invece, la stessa efficacia probatoria degli originali da cui sono tratte se la loro conformità all'originale, però, non è espressamente disconosciuta. Tutte le copie formate secondo i modi anzi descritti sostituiscono, quindi, ad ogni effetto di legge gli originali formati in origine su supporto analogico, e sono idonee ad assolvere gli obblighi di conservazione previsti dalla legge, fatte salve quelle particolari categorie di documenti -da individuarsi con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri -che quali particolari tipologie di documenti analogici originali unici, in ragione di esigenze di natura pubblicistica, permane l'obbligo della conservazione del- l'originale analogico oppure, in caso di conservazione sostitutiva, la loro conformità all'originale sia autenticata da un notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato con dichiarazione firmata digitalmente da allegare al documento informatico. In ogni caso si tenga presente che sia per i documenti da conservare in originale o con le modalità determinate nell’apposito DPCM, sia per i documenti analogici originali unici permane l'obbligo della conservazione dell'originale analogico oppure, per i casi di conservazione sostitutiva, la loro conformità all'originale dovrà essere autenticata da un notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato con dichiarazione da questi firmata digitalmente ed allegata al documento informatico. Per le copie analogiche di documenti informatici, l’art. 16 della medesima novella legislativa ha modificato l’art. 23 d.lgs. 7 marzo 2005 n. 82, prevedendo che le copie su supporto analogico di documento informatico, anche sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale, hanno la stessa efficacia probatoria dell'originale da cui sono tratte se la loro conformità all'originale in tutte le sue componenti è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato. Le copie e gli estratti su supporto analogico del documento informatico, conformi alle vigenti regole tecniche, hanno, perciò, la stessa efficacia probatoria dell'originale se la loro conformità non è espressamente disconosciuta. Resta fermo, ove previsto l'obbligo di conservazione dell'originale informatico. Dopo l'art. 23 è stato, infine, inserito l’art. 23-bis in tema di duplicati e copie informatiche di documenti informatici e si è stabilito che i duplicati informatici hanno il medesimo valore giuridico, a ogni effetto di legge, del documento informatico da cui sono tratti, sempre se prodotti in conformità alle regole tecniche di cui all'art. 71. Inoltre che le copie e gli estratti informatici del documento informatico, se prodotti in conformità alle regole tecniche ex art. 71, hanno la stessa efficacia probatoria dell'originale da cui sono tratte se la loro conformità all’originale, in tutti le sue componenti, è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato o se la conformità non è espressamente disconosciuta, ma che resta sempre fermo, ove previsto, l'obbligo di conservazione dell'originale informatico. In merito alle LEgISLAzIONE ED ATTUALITà copie informatiche l’art. 52, d.l. n. 90/2014, innovando in modo significativo, ha attribuito importanti poteri di autentica sia ai difensori che al consulente tecnico nonché al professionista delegato, al curatore e commissario giudiziale prevedendo che questi possano estrarre, con modalità telematiche, copie analogiche o informatiche degli atti e dei provvedimenti, in cui sono costituiti, e attestarne la conformità ai corrispondenti atti contenuti nel fascicolo informatico. Queste previsioni, di ordine generale, hanno subito modifiche, in tema di atti processuali, in quanto con il d.l. 27 giugno 2015 n. 83 sono state introdotte, in ordine alle modalità di attestazione di conformità degli atti processuali notificati da parte del difensore, rilevanti novità. Il potere di autentica ai difensori e agli ausiliari del giudice era già stato introdotto con il comma 9-bis dell’articolo 16-bis del d.l. n. 179/2012, con il quale si stabiliva innanzitutto che le copie informatiche, anche per immagine, di atti processuali di parte e degli ausiliari del giudice, nonché dei provvedimenti di quest’ultimo (quindi, decreti, ordinanze e sentenze), presenti nei fascicoli informatici dei procedimenti civili, contenziosi o di volontaria giurisdizione, equivalgono all’originale anche se prive della firma digitale del cancelliere. Inoltre, che il difensore, il consulente tecnico, il professionista delegato, il curatore e il commissario giudiziale possono autonomamente estrarre, con modalità telematiche duplicati, copie analogiche o informatiche di tali atti e provvedimenti, attestandone la conformità delle copie estratte ai corrispondenti atti contenuti nel fascicolo informatico. Pertanto, tali copie -analogiche e informatiche, anche per immagine -estratte dal fascicolo informatico e munite dell'attestazione di conformità da parte degli avvocati e degli altri soggetti menzionati, equivalgono all'originale. Per i duplicati, rimaneva, invece, fermo quanto previsto dall'art. 23-bis, comma 1, d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82. Con i nuovi articoli 16-decies e 16-undecies introdotti con il d.l. 27 giugno 2015 n. 83 è stato previsto che il difensore, o uno degli altri soggetti autorizzati, può attestare, ai fini del deposito, la conformità della copia informatica, anche per immagine, di un atto formato su supporto analogico e notificato “con modalità non telematiche”. La norma non richiama, in merito il CAD né le Regole tecniche sulla formazione del documento informatico -di cui al DPCM 13 novembre 2014 -che contemplano disposizioni dedicate proprio alla corretta attestazione di conformità delle copie informatiche di documento informatico o analogico e delle copie analogiche di documento informatico. È quindi da ritenere che quest’ultima norma, quale lex specialis, attribuisce uno speciale potere certificativo agli gli avvocati limitatamente agli atti da essi stessi prodotti, potere non molto dissimile da quello tradizionalmente riconosciuto ed esercitato dagli avvocati per le copie cartacee da notificare quando la conformità è data formalmente dall’ufficiale giudiziario o dall’Ufficio postale. RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 4. Le fonti normative del Processo Civile Telematico. Pietre miliari del “processo telematico” sono la legge 15 marzo 1997 n. 59 e il d.P.R. 10 novembre 1997 n. 513, con i quali sono state introdotte le norme relative al documento informatico sottoscritto con firma digitale. Nel- l’ambito delle fonti merita una citazione a parte, perché ne ha rappresento un’accelerazione decisiva a proposito della sua concreta possibilità di realizzazione, il d.lgs. 7 maggio 2005 n. 82, meglio conosciuto come Codice del- l’Amministrazione Digitale (CAD). Ma nell’ambito delle fonti quella che dobbiamo ritenere normativa fondante nel senso che ne ha costituito, sino alla sua abrogazione, l’ossatura portante in ordine alle modalità di svolgimento per via telematica di alcuni atti e passaggi processuali, è sicuramente il d.P.R. n. 123 del 2001 al quale si associavano le regole tecniche-operative del d.m. 17 luglio 2008. Con il primo provvedimento erano state dettate le regole per l’uso degli strumenti informatici e telematici nel processo civile, nel processo amministrativo e nei processi innanzi alle sezioni giurisdizionali della Corte dei Conti e ben possiamo dire che detta normativa aveva attuato, in concreto, il fascicolo informatico e gli altri atti redatti in forma informatica in tanto possibili in quanto siglati con la firma digitale. Con le stesse norme sono state possibili, poi, anche le notifiche e le comunicazioni alle parti via e-mail. Il regolamento che aveva dettato norme per il processo civile e quindi in una materia non più coperta da “riserva di legge”, ha rappresentato anche una vera novità occasionata dalla delegificazione introdotta dal 2 co. dell’art. 15 legge 15 marzo 1997, n. 59 (cosiddetta "Bassanini- uno") e dal successivo regolamento approvato con d.P.R. n. 513 del 1997. Con il d.m.g. 14 ottobre 2004 furono poi stabilite le regole tecnico-operative relative alla conservazione e all’archiviazione dei documenti informatici, conformemente alle prescrizioni di cui all’articolo 2, comma 15, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, e all’articolo 18 del D.P.R. 10 novembre 1997, n. 513. Questo decreto è stato abrogato dal decreto 17 luglio 2008, a sua volta, abrogato dal decreto del Ministero della giustizia 21 febbraio 2011 n. 44, che all’art. 37 prevede la sua vigenza per il trentesimo giorno successivo dalla sua pubblicazione nella gazzetta Ufficiale facendo cessare da tale data l’efficacia nel processo civile le disposizioni del d.P.R. 13 febbraio 2001, n. 123. vediamo quali sono le innovazioni che il decreto introduce rispetto al sistema previgente. Il primo elemento è il superamento dello schema dell’architettura del Processo Civile Telematico con la diversa regolamentazione del “Punto d’accesso” che è l’unico canale di interazione con l’amministrazione giudiziaria. Il “Punto d’accesso” è stato integrato con altri strumenti di larga diffusione e di facile accesso individuati nella posta elettronica certificata e nel portale Web. Con quest’ultimo si supera la progettazione del “sito vetrina” per passare al “portale interattivo” con accesso ai servizi in modo on line. Tramite il “Portale dei servizi telematici,“ sono disponibili nuovi servizi centra LEgISLAzIONE ED ATTUALITà lizzati che si affiancano a quelli erogati dal Punto di accesso (5) disponibili anche per i cittadini che in forma anonima raccolgono informazioni essenziali sullo stato dei procedimenti pendenti. Sullo stesso postale Web sono pubblicate sia le specifiche tecniche, stabilite dal responsabile per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia, utili per l’utilizzazione dei modelli da usare per interagire con il sistema del PCT, sia le regole tecnico-operative aggiornate ogni due anni in base all’evoluzione scientifica e tecnologica. L’aspetto che, più degli altri, ha rivoluzionato l’originario progetto e architettura del processo telematico è quello relativo alle modalità di accesso, rappresentato dall’introduzione della posta elettronica certificata (PEC) quale strumento “ordinario” deputato alla comunicazione tra l’amministrazione giudiziaria e i soggetti abilitati, la quale subentra a quella che era la casella di posta elettronica certificata per il processo civile telematico (CPECPCT). La PEC è attribuita alla generalità dei cittadini come strumento che ha fatto venir meno, in radice, tutta la precedente architettura del processo telematico. Altra novità di grande rilievo è quella relativa al fascicolo informatico. È, infatti, a carico dell’amministrazione della giustizia, e quindi con onere per le cancellerie, la tenuta e la conservazione del fascicolo in modalità informatica, con esonero di quello cartaceo. Inoltre i documenti probatori e gli allegati devono essere depositati, in formato non elettronico, e devono essere scansionati dalla cancelleria o dalla segreteria dell’ufficio giudiziario, senza limitazioni in ordine alla consistenza o costo di trasformazione. L’architettura del sistema viene semplificata con l’eliminazione della componente denominata “gestore centrale” e con la rimozione del requisito di cifratura degli atti allegati alle comunicazioni di cancelleria inviate telematicamente dagli uffici giudiziari ai destinatari. In merito è stato previsto che si considerano sufficienti le protezioni standard della PEC, fatta eccezione per quei documenti contenenti dati sensibili, in relazione agli atti giudiziari, specie in materia penale, si pone il problema della loro identificazione, e per i quali è previsto il download previa autenticazione forte. Con la gazzetta Ufficiale n. 175 del 29 luglio 2011 è stato pubblicato poi per estratto il Provvedimento del Responsabile per i Sistemi Informativi Automatizzati del Ministero della giustizia recante le specifiche tecniche visionabili integralmente sul sito istituzionale del Ministero della giustizia. Queste in uno al decreto legislativo n. 44 del 2011, al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, in materia di protezione dei dati personali, al decreto del Presidente della Repubblica 11 febbraio (5) Il punto di accesso è la struttura tecnologica-organizzativa che fornisce ai soggetti abilitati esterni al dominio giustizia i servizi di connessione al portale dei servizi telematici, secondo le regole tecnico-operative riportate nella normativa di riferimento. Il punto di accesso pubblico del Ministero della giustizia: pst.giustizia.it. RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 2005, n. 68, relativamente all'utilizzo della posta elettronica certificata e al decreto ministeriale (Ministro della giustizia) 27 aprile 2009, in materia di tenuta dei registri informatizzati dell'amministrazione della giustizia, e al decreto Presidente Consiglio dei Ministri 6 maggio 2009, in ordine al rilascio e di uso della casella di posta elettronica certificata, rappresentano l’architettura normativa del PCT e le sue fonti di riferimento. Con Provvedimento del 16 aprile 2014 il Responsabile per i sistemi informativi automatizzati, della Direzione generale del Ministero della giustizia in ossequio a quanto previsto dall`art. 34 D.M. n. 44 del 2011, ha emanato le nuove specifiche tecniche per il processo civile che dal 15 maggio 2014 -data di entrata in vigore del nuovo provvedimento - sostituiscono quelle emanate il 18 luglio 2011. Le nuove specifiche tecniche, art. 2 a 6, prevedono nuove modalità di autenticazione ossia l’"autenticazione a due fattori", il quale è un metodo che si basa sull`utilizzo congiunto di due metodi di autenticazione individuale, combinando un`informazione nota, ad esempio un nome utente e una password, con un oggetto a disposizione quale potrebbe essere una carta di credito o telefono cellulare. Ai sensi dell’art. 9-bis poi le Pubbliche amministrazioni devono comunicare il proprio indirizzo PEC, ai fini della ricezione delle comunicazioni e notificazioni, inserendo tale indirizzo sul portale dei servizi telematici del Ministero della giustizia. È previsto al n. 2 dell’art. 12 l’introduzione di una nuova modalità di firma denominata PAdES-BES (o PAdES Part 3) oltre a quella già prevista dalle precedenti specifiche tecniche del 2011. Inoltre le specifiche prevedono anche i formati dei documenti informatici allegati consentiti nonché che il gestore dei servizi telematici provvede ad inviare le comunicazioni o le notificazioni per via telematica, provenienti dall’ufficio giudiziario, alla casella di PEC del soggetto abilitato esterno o dell’utente privato destinatario. viene precisato che l`atto da notificarsi tramite PEC dovrà avere, come unico formato consentito, quello PDF; è consentito l`accesso a soggetti delegati, purché il soggetto delegante abbia predisposto un atto di delega, sottoscritto con firma digitale. 5. il punto di accesso, funzioni ed abilitazioni, i delegati dell’avvocato e gli ausiliari del giudice. Il Processo Civile Telematico era disciplinato, come detto, dalla specifica normativa ora sostituita con quella del d.m. n. 44/2011 e relative specifiche tecniche. Con la precedente normativa era stata realizzata l’interoperabilità tra utenti esterni quali: avvocati, ausiliari del giudice, altre pubbliche amministrazioni e utenti interni quali: magistrati, cancellieri, personale di cancelleria e dell’UNEP. L’architettura prevedeva che gli utenti esterni interagissero con il sistema previa autenticazione con un punto di accesso esterno, autorizzato dal Ministero della giustizia. I punti di accesso LEgISLAzIONE ED ATTUALITà erano collegati al gestore centrale, attualmente non previsto dalla nuova normativa. Il punto di accesso, quindi, come per la vecchia architettura, anche per la nuova è l’unica porta di accesso al sistema del dominio giustizia ossia al sistema informatico della giustizia civile. I principali punti di forza del- l’architettura sono, nella nuova normativa, da individuare nella esternalizzazione della responsabilità di autenticare l’utente, e nella certificazione dello status del difensore. Il “punto di accesso” è definito nel nuovo d.m. n. 44/2011, come la struttura tecnologica-organizzativa che fornisce ai soggetti abilitati esterni al dominio giustizia i servizi di connessione al portale dei servizi telematici, secondo le regole tecnico-operative riportate nel decreto stesso. Esso fornisce un’adeguata qualità dei servizi, dei processi informatici e dei relativi prodotti, idonea a garantire la sicurezza del sistema, nel rispetto dei requisiti tecnici previsti. L’accesso, infatti, ai servizi di consultazione delle informazioni rese disponibili dal Dominio giustizia avviene mediante autenticazione sul punto di accesso o sul portale dei servizi telematici. Il punto stabilisce la connessione con il portale dei servizi telematici mediante un collegamento sicuro con mutua autenticazione, il tutto secondo le specifiche tecniche stabilite dal responsabile per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia. A seguito dell’autenticazione viene in ogni caso trasmesso al gestore dei servizi telematici il codice fiscale del soggetto che effettua l’accesso. Il “punto di accesso” garantisce, inoltre, un’adeguata sicurezza del sistema secondo le modalità tecniche specificate in un apposito piano depositato unitamente al modello dal richiedente, a pena di inammissibilità, e con le modalità stabilite dal responsabile per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia con apposito decreto. Anche nel nuovo sistema il “punto di accesso” fornisce adeguati servizi di formazione e assistenza ai propri utenti, anche relativamente ai profili tecnici. La violazione da parte del gestore di un punto di accesso dei livelli di sicurezza e di servizio comporta la sospensione dell’autorizzazione ad erogare i servizi fino al ripristino degli stessi livelli ed all’uopo sono disposte ispezioni tecniche, anche a campione, per verificare l’attuazione delle prescrizioni di sicurezza. Il punto di accesso può essere attivato e gestito esclusivamente da soggetti determinati. Questi possono essere: i consigli degli ordini professionali, limitatamente ai propri iscritti; il Consiglio nazionale forense, ove delegato da uno o più consigli degli ordini degli avvocati e sempre limitatamente agli iscritti del consiglio delegante; il Consiglio nazionale del notariato, limitatamente ai propri iscritti; l’Avvocatura dello Stato. Possono attivare, altresì, punti di accesso: le amministrazioni statali o equiparate e gli enti pubblici, limitatamente ai loro iscritti e dipendenti; le Regioni; le città metropolitane; le provincie ed i Comuni, o enti consorziati allo scopo. Sempre le Camere di Commercio, per le imprese costituite in forma societaria iscritte nel relativo registro. Tutti questi soggetti si noti bene possono RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 gestire uno o più punti, così come punti di accesso possono essere gestiti da società per azioni in possesso di un capitale sociale e dei requisiti di onorabilità di cui all’art. 25, comma 1, d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385. L’elenco pubblico dei punti attivi presso il Ministero della giustizia contiene le informazioni relative all’identificativo del punto di accesso. Il soggetto che intende costituire un punto di accesso deve inoltrare la domanda di iscrizione nell’elenco pubblico dei punti di accesso secondo il modello e con le modalità stabilite, con apposito decreto, dal responsabile per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia. Ad eccezione della fase che disciplina l’aspetto del processo telematico penale, relativamente alla fase delle indagini preliminari, il dominio giustizia consente, quindi solo per il processo civile telematico, al soggetto abilitato esterno, l’accesso alle informazioni contenute nei fascicoli dei procedimenti in cui è costituito o svolge attività di esperto o ausiliario. L’utente privato, invece, può accedere alle informazioni contenute nei fascicoli dei procedimenti in cui è parte mediante il portale dei servizi telematici e mediante i punti di accesso attivati dalle Regioni, oppure dalle città metropolitane, provincie, Comuni o loro consorzi, ovvero tramite le Camere di Commercio. È sempre consentito l’accesso alle informazioni necessarie per la costituzione o l’intervento in giudizio in modo tale da garantire la riservatezza dei nomi delle parti e limitatamente ai dati identificativi del procedimento. Com’è noto, con atto ricevuto dal cancelliere del tribunale o della Corte d’appello, da comunicarsi in copia al Consiglio dell’Ordine, il procuratore legale (avvocato) può, sotto la sua responsabilità, procedere alla nomina di sostituti, in numero non superiore a tre, fra i pro- curatori compresi nell’albo in cui egli è iscritto. In questo caso il Dominio giustizia consente l’accesso alle informazioni contenute nei fascicoli dei procedimenti patrocinati dal delegante, previa comunicazione, a cura di parte, di copia della delega stessa al responsabile dell’ufficio giudiziario, che provvede ai conseguenti adempimenti. L’accesso è consentito fino alla comunicazione della revoca della delega. La delega, sottoscritta con firma digitale, è rilasciata in conformità alle specifiche di strutturazione dei modelli informatici definite con decreto del responsabile per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia e pubblicate nell’area pubblica del portale dei servizi telematici. gli esperti e gli ausiliari del giudice accedono ai servizi di consultazione nel limite dell’incarico ricevuto e dell’autorizzazione concessa dal giudice. È sempre consentito l’accesso alle informazioni necessarie per la costituzione o l’intervento in giudizio in modo tale da garantire la riservatezza dei nomi delle parti e limitatamente ai dati identificativi del procedimento. gli avvocati ed i procuratori dello Stato accedono alle informazioni contenute nei fascicoli dei procedimenti in cui è parte una pubblica amministrazione per la quale si sono costituiti. L’accesso ai servizi di consultazione resi disponibili dal dominio giustizia si ottiene LEgISLAzIONE ED ATTUALITà previa registrazione presso il punto di accesso (6) autorizzato o presso il por- tale dei servizi telematici, secondo le specifiche tecniche stabilite dal responsabile per i sistemi informativi del Ministro della giustizia, sentito Agid e il garante per la protezione dei dati personali. Il punto di accesso si occupa, oltre che della sua completa gestione, di realizzare una connessione direttamente al sito PolisWeb, la mutua autenticazione (SSL3), basata su certificato server e certificato cliente. 6. il deposito degli atti alla luce del d.m.g. 21 febbraio 2011, n. 44 e del CaD. Relativamente al deposito degli atti, il d.lgs n. 179 del 2016 prevede interventi finalizzati a: a) individuare le modalità di deposito telematico degli atti processuali e dei documenti; b) rilasciare l’attestazione di avvenuto deposito in via automatica da parte del sistema informatico al momento del caricamento degli atti processuali e dei documenti; c) individuare i casi in cui il giudice assicura il deposito telematico dei propri provvedimenti, in particolare al fine di consentire le rilevazioni statistiche o per evitare il pericolo di falsificazione dei provvedimenti di autorizzazione al prelievo di somme di denaro vincolate all'ordine del giudice. Il sistema del Processo Civile Telematico prevedeva, del resto, tre nodi: il punto di accesso (PdA), il gestore Centrale (gC) e il gestore Locale (gL). I singoli legali - nella posizione di attore o di convenuto - dopo aver compiuto l’attività di redazione dell’atto, della sua segnatura e cifratura ed imbustamento -attività certificata mediante smart-card -accedevano, tramite internet, al punto di accesso del sistema. Dal punto di accesso che faceva parte della rete privata del sistema, la cartella dei documenti firmati arrivava al gestore centrale che le inviava al gestore locale del singolo tribunale della cancelleria interessata. Qui il gestore locale della rete provvedeva ad autenticare i soggetti interni che potevano accedere alla rete ed il contesto applicativo prevedeva l’interazione tra i Soggetti Abilitati Esterni (7), vale a dire avvocati e ausiliari (6) Il Punto d’Accesso al Processo Civile Telematico è il servizio che consente agli avvocati di depositare gli atti presso gli Uffici giudiziari, di ricevere Biglietti di Cancelleria, di inviare e ricevere Notifiche e di consultare i dati (eventi in agenda, Fascicoli, ecc.) presso gli U.g. Inoltre è possibile accedere alle funzionalità del redattore per il confezionamento delle buste telematiche utili al deposito. (7) Soggetto abilitato esterno che poteva: redigere e firmare l’atto di parte; a tal fine si avvaleva di uno o più strumenti per la redazione, la firma, la cifratura e l’imbustamento; poteva depositare l’atto di parte, ricevendo in risposta la relativa attestazione temporale e successivamente le ricevute elettroniche di avvenuta presa in carico da parte dell’Ufficio giudiziario e di inserimento nel fascicolo informatico; poteva ricevere comunicazioni da parte dell’Ufficio giudiziario nella propria “Casella di Posta Elettronica Certificata del Processo Telematico” CPECPT; effettuare consultazioni dei fascicoli di propria pertinenza tramite i servizi di consultazione esposti dai gestori Locali presso gli Uffici giudiziari. L’avvocato interagiva con il SICI necessariamente per il tramite di un Punto di Accesso Esterno (PdA), presso cui era registrato come utente. Il PdA che era, ed è, l’unico fornitore dei servizi di interfacciamento del dominio giustizia per gli avvocati, autorizzato in quanto offriva, ed offre, ai propri Utenti una schermatura dei protocolli e dei formati di interfaccia previsti dal PCT per il colloquio con gli Uffici giudiziari RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 del giudice, ed i Sistemi di gestione dei Registri (SgR) installati presso gli uffici giudiziari civili di primo e secondo grado. Il nuovo d.m. n. 44/2011 detta norme specifiche anche in relazione al deposito degli atti sul presupposto di quelle che abbiamo già enunciato come modifiche sostanziali all’architettura del PCT e ciò sia grazie alle modifiche apportate al CAD in materia di documento informatico, sia in ordine al deposito dell’atto del processo da parte dei magistrati, del personale interno alle cancellerie e degli uffici UNEP. Per tutti detti soggetti è stato previsto che l’atto del processo, redatto in formato elettronico e sottoscritto con firma digitale, sia depositato nel fascicolo informatico, previa attestazione del deposito da parte dell’ausiliario mediante apposizione della data e della propria firma digitale. Il provvedimento del Ministero della giustizia del 16 febbraio 2014 all’art. 34 del D.M. 44 del 21 febbraio 2011, reca le specifiche tecniche del Processo Civile Telematico (PCT) ed in particolare, all’art. 12, comma 2, stabilisce, riguardo alla trasmissione di atti e documenti informatici, il formato da utilizzare per la firma digitale. gli utenti, sia esterni (avvocati ed ausiliari del giudice) che interni (magistrati e cancellieri), possono utilizzare per la sottoscrizione digitale dei documenti informatici lo standard PAdES oppure in alternativa il CAdES. È tuttavia evidente che, potendo il PAdES essere utilizzato unicamente per firmare digitalmente file PDF, solo il CAdES potrà essere usato per la sottoscrizione di tutti i restanti tipi di file previsti dall’art. 13 del Provvedimento (rtf, txt, jgp, gif, tiff, xml, eml, msg, zip, rar, arj). I medesimi formati di firma sono previsti per le notificazione in proprio degli avvocati a mezzo PEC con legge n. 53/1994 e successive modifiche, rimandando l’art. 19 bis delle menzionate specifiche tecniche al già menzionato art. 12, comma 2. La maggior parte dei software PCT dedicati ad avvocati ed ausiliari del giudice, così come allo stesso modo i più diffusi programmi per la firma digitale (es. ArubaSign, Dike, Firma Certa) consentono di scegliere alternativamente tra PAdES e CAdES per la sottoscrizione di documenti informatici, producendo come già specificato documenti altrettanto validi giuridicamente. Esistono tuttavia diversi casi in cui per motivi pratici un formato può essere (Ug), salvaguardando i principi di sicurezza e di riservatezza, tramite autenticazione forte. Presso il PdA è attiva un’apposita anagrafica alla quale si accede in fase di autenticazione, in fase di prelievo o consultazione dei messaggi provenienti dal SIC ed in fase di deposito degli atti, per eseguire, se in possesso dell’albo elettronico del Consiglio dell’Ordine di appartenenza dell’avvocato, la certificazione dello status del professionista e relativamente alla ricezione di comunicazioni di cancelleria, il PdA forniva all’avvocato una casella di posta elettronica certificata del Processo Telematico (CPECPT). Opposto il processo inverso ad esempio di comunicazione del provvedimento per mezzo del biglietto di cancelleria che dal gestore locale era trasmesso al centrale e quindi al punto di accesso locale da dove mediante la rete internet perveniva allo studio legale. LEgISLAzIONE ED ATTUALITà preferibile all’altro. Si riportano due casi concreti in cui, a parere dello scrivente, l’uso del formato PAdES è preferibile: a) notificazione in proprio a mezzo PEC (ex Legge 53/1994): l’atto ed i documenti notificati se firmati in PAdES, sono immediatamente visualizzabili dal destinatario utilizzando qualsiasi software per la lettura dei file PDF; b) procura alle liti speciale nativa digitale ex art. 83 c.p.c. 3° comma: il cliente, può sottoscriverla con la sua firma digitale, senza necessità di programmi specifici, utilizzando una versione recente di Adobe Reader, che integra al suo interno le funzioni di firma, aggiungendovi la rappresentazione grafica della stessa. Quando a depositare è un organo collegiale, l’originale del provvedimento è sottoscritto con firma digitale anche dal Presidente. Con la sentenza n. 22871 del 10 novembre 2015 la Corte di Cassazione, Sez. I, si è pronunciata per la prima volta su un tema fondamentale per il processo civile telematico, ovvero se sia affetta da inesistenza giuridica la sentenza contenente la sola firma digitale del giudice e non la sottoscrizione di costui ai sensi dell’art. 132 n. 5 c.p.c. Il caso posto all’esame della Suprema Corte parte dalla considerazione che la firma digitale non è una sottoscrizione, come si può (e ancor prima: si può?) conciliare la stessa con il disposto di cui all’art. 132 c.p.c., che presuppone invece come obbligatoria la sottoscrizione da parte dell’autore della sentenza. La Corte esplicita che “la sottoscrizione della sentenza... deve essere costituita da un segno grafico che abbia caratteristiche di specificità sufficienti e possa quindi svolgere funzioni identitarie e di riferibilità soggettiva, pur nella sua eventuale illegibilità... se sussistono adeguati elementi per il collegamento del segno grafico con un’indicazione nominativa contenuta nell’atto. Si desume da quest’ultimo indirizzo... che la sottoscrizione della sentenza è elemento essenziale perché la sentenza sia riconoscibile come tale e ne sia resa palese la provenienza dal giudice che l’ha deliberata”. Tale premessa è di importanza fondamentale innanzitutto in chiave evolutiva; il Supremo Collegio ci dice infatti una cosa molto chiara e cioè che la funzione della sottoscrizione prevista dall’art. 132 c.p.c. è, in sostanza, quella di far comprendere chi sia l’autore di quella determinata sentenza. Bene, a fronte di tale condivisibile affermazione non è difficile fare un passo in avanti e ipotizzare la possibilità che addirittura, in futuro, si possa fare a meno anche della stessa firma digitale, laddove la sentenza (o altro provvedimento giudiziale) sia resa all’interno di un sistema informatico che assicuri l’esistenza di un’area alla quale può accedere solo il giudice. Tutti questi soggetti abilitati interni utilizzano appositi strumenti per la redazione degli atti del processo in forma di documento informatico e per la loro trasmissione alla cancelleria od alla segreteria dell’ufficio giudiziario. L’atto è inserito nella medesima busta telematica ossia un file in formato MIME che riporta tutti i dati necessari per l’elaborazione da parte del sistema ricevente (gestore dei servizi telematici). Per l’accesso ai sistemi dall’interno RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 degli uffici giudiziari, l’identificazione è effettuata mediante coppia di credenziali “nome utente/password ” ovvero mediante identificazione informatica sul portale dei servizi telematici mediante carta d’identità elettronica o carta nazionale dei servizi e sul punto di accesso mediante token crittografico, smart card, chiavetta USB o altro dispositivo sicuro. Sempre il magistrato avrà sulla “console” il ruolo laddove va ad aprire il programma per la relativa attività della lista dei fascicoli per il periodo selezionato dello stato della causa e delle attività da compiersi. viene consentita al magistrato la visione di tutti i fascicoli da trattare all’udienza selezionata, in modo tale da poterli disciplinare in base all’agenda immediatamente consultabile. Potrà, quindi, visionare il contenuto dei fascicoli, fare ricerche, scrivere il relativo provvedimento ed inserirlo immediatamente nel fascicolo. All’interno del fascicolo il magistrato potrà avere una visione completa ed unitaria dello stesso e non solo dei dati delle parti e dell’oggetto, ma anche della nota di iscrizione a ruolo, della procura, degli allegati e dei provvedimenti adottati. Mediante poi la funzione dell’agenda il magistrato avrà un quadro completo dello scadenzario giornaliero dei termini assegnati dei provvedimenti in minuta. Potrà navigare in tutti i fascicoli, vederne le statistiche ed esaminare le cartelle condivise. Il d.m. n. 44/2011 prevede, poi, per la trasmissione dei documenti da parte dei difensori delle parti private, degli avvocati iscritti negli elenchi speciali, degli esperti e gli ausiliari del giudice e per l’impresa e il cittadino, quando non operano come soggetti abilitati esterni, che i documenti informatici, come atti del processo o allegati agli atti del processo, siano trasmessi da parte di questi mediante l’indirizzo di posta elettronica certificata risultante dal registro generale degli indirizzi elettronici, all’indirizzo di posta elettronica certificata dell’ufficio destinatario. In questi casi i documenti informatici come atti del processo, o allegati agli atti del processo, si intendono ricevuti dal dominio giustizia nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del Ministero della giustizia. Si intendono ricevuti dal dominio giustizia quando la ricevuta di avvenuta consegna attesta, altresì, l’avvenuto deposito dell’atto o del documento presso l’ufficio giudiziario competente. Quando la ricevuta è rilasciata dopo le ore 14, il deposito si considera effettuato il giorno feriale immediatamente successivo. L’atto del processo in forma di documento informatico, la nota di iscrizione a ruolo ed i documenti informatici allegati all’atto del processo sono trasmessi, quindi, anche da parte dei soggetti abilitati esterni e degli utenti privati mediante l’utilizzo dell’indirizzo di posta elettronica certificata risultante dal registro generale degli indirizzi elettronici, all’indirizzo di posta elettronica certificata dell’ufficio destinatario, nella cosiddetta “busta telematica”, ossia in quel file in formato MIME che riporta tutti i dati necessari per l’elaborazione da parte del sistema ricevente ossia dal gestore dei servizi telematici. In particolare la busta contiene il file “Atto.enc”, ottenuto dalla cifratura del file LEgISLAzIONE ED ATTUALITà “Atto.msg”, il quale contiene a sua volta altre indicazioni. Ai fini dello scambio previsto dall’art. 170 c.p.c., quarto comma, il quale consente che le comparse e le memorie annesse dal giudice si comunicano mediante deposito in cancelleria oppure mediante notificazione o scambio documentato con l’apposizione sull’originale, in calce o a margine del visto della parte o del procuratore, ed inoltre che il giudice può autorizzare per singoli atti, in qualunque stato e grado del giudizio, che lo scambio o la comunicazione possa avvenire anche a mezzo telefax o posta elettronica nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici e teletrasmessi, si è stabilito che la parte che procede al deposito deve inviare ai procuratori delle parti costituite copia informatica dell’atto e dei documenti allegati con le modalità previste per la notifica di atti tra avvocati nel rispetto della disciplina di cui all’art. 4 della legge 21 gennaio 1994, n. 53. Fuori del caso di rifiuto per omessa sottoscrizione, il rigetto del deposito, della “Busta telematica” da parte dell’ufficio non impedisce il successivo deposito entro i termini assegnati o previsti dal codice di procedura civile. La certificazione dei professionisti abilitati e dei soggetti abilitati esterni pubblici è effettuata dal gestore dei servizi telematici sulla base dei dati presenti nel registro generale degli indirizzi elettronici, secondo le specifiche tecniche stabilite dal responsabile per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia, sentito DigitPa (oggi AgID) e il garante per la protezione dei dati personali. Al fine di garantire la riservatezza dei documenti da trasmettere, il soggetto abilitato esterno utilizza un meccanismo di crittografia. Il gestore dei servizi telematici restituisce al mittente l’esito dei controlli effettuati dal dominio giustizia nonché dagli operatori della cancelleria o della segreteria. 6.1 registro generale degli indirizzi elettronici nel previgente sistema e nel nuovo decreto. Ai sensi dell’art. 7 d.P.R. n. 123/2001, le comunicazioni e le notificazioni con biglietto di cancelleria, nonché le notificazione degli atti, effettuata come documento informatico, sottoscritto con firma digitale, potevano essere eseguite per via telematica, oltre che attraverso il sistema informatico civile, anche all’indirizzo elettronico dichiarato, ossia all’indirizzo elettronico del difensore comunicato al Consiglio dell’ordine e da quest’ultimo reso disponibile al Ministero della giustizia. Per gli esperti e gli ausiliari del giudice, l’indirizzo elettronico era quello comunicato dai medesimi ai propri ordini professionali od all’albo dei consulenti presso il tribunale. Per tutti i soggetti diversi da questi ultimi, l’indirizzo elettronico era quello dichiarato al certificatore della firma digitale al momento della richiesta di attivazione della procedura informatica di certificazione della firma, ove reso disponibile nel certificato. gli indirizzi elettronici dovevano, poi, nel previgente sistema essere comunicati tempesti RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 vamente dagli ordini professionali al Ministero della giustizia. Il d.m. n. 44/2011 in materia prevede, sempre all’art. 7, che il registro generale degli indirizzi elettronici (RegIndE), gestito dal Ministero della giustizia, contiene i dati identificativi e l’indirizzo di posta elettronica certificata dei soggetti abilitati esterni non iscritti negli albi ed elenchi istituiti con legge dello Stato e così parimenti per le persone fisiche, quali utenti privati, che non operano nelle qualità di liberi professionisti. Per i professionisti, invece, iscritti in albi ed elenchi istituiti con legge dello Stato, il registro generale degli indirizzi elettronici è costituito per mezzo dei dati contenuti negli elenchi riservati di cui all’art. 16, comma 7, d.l. 29 novembre 2008, n. 185, convertito nella legge 28 gennaio 2009, n. 2, inviati al Ministero della giustizia secondo le specifiche tecniche che qui adesso analizziamo. Per i soggetti abilitati esterni non iscritti negli albi od elenchi riconosciuti, il registro generale degli indirizzi è conforme alle stesse specifiche tecniche. Per le persone fisiche, quali utenti privati, che non operano nelle qualità di liberi professionisti o come abilitati esterni non iscritti negli albi dei professionisti, gli indirizzi sono consultabili, invece, ai sensi dell’art. 7 d.P.C.M. 6 maggio 2009. Per le imprese, gli indirizzi sono consultabili, senza oneri, ai sensi dell’art. 16, comma 6, d.l. 29 novembre 2008, n. 185, convertito nella legge 28 gennaio 2009, n. 2, con le modalità di cui al comma 10 del medesimo. Il Registro generale degli Indirizzi Elettronici (RegIndE) contiene altresì gli indirizzi di PEC dei soggetti abilitati esterni che intendono fruire dei servizi telematici. Lo stesso, naturalmente, interagisce con la gestione informatizzata dei registri di cancelleria e ciò al fine di evitare ogni possibilità di inserimento manuale dei dati, rigidità che pone non pochi problemi pratici agli operatori delle cancellerie e del diritto. Il RegIndE è alimentato dal profilo anagrafico dei soggetti e degli enti che possiamo distinguere per categoria secondo che i soggetti appartenenti ad un ente pubblico svolgano anche uno specifico ruolo nell’ambito di procedimenti: ad esempio avvocati e funzionari dell’INPS e dell’Avvocatura dello Stato; avvocati e funzionari delle PP.AA.; professionisti iscritti in albi ed elenchi istituiti con legge: ad esempio consiglio dell’ordine degli avvocati o consiglio nazionale del Notariato; professionisti non iscritti ad alcun albo, ad esempio tutti quei soggetti nominati dal giudice come consulenti tecnici d’ufficio, o più in generale ausiliari del giudice non appartenenti ad un ordine di categoria o che appartengono ad ente/ordine professionale che non abbia ancora inviato l’albo al Ministero della giustizia. Il RegIndE è direttamente accessibile dai sistemi interni al dominio giustizia, attraverso un apposito web service, ed è consultabile dai soggetti abilitati esterni tramite il proprio punto di accesso o tramite l’area riservata del Portale dei Servizi Telematici. L’alimentazione del RegIndE avviene previo invio al responsabile per i sistemi informativi automatizzati di un documento di censimento, contenente le informazioni necessarie ad identificare l’ente attraverso il codice ente e la sua descrizione. Terminate le ope LEgISLAzIONE ED ATTUALITà razioni di censimento da parte del responsabile per i sistemi informativi automatizzati, l’ente mittente del documento di censimento riceve una risposta; in caso di esito positivo, l’ente può procedere all’invio dell’albo secondo le vigenti specifiche. Il mancato rispetto di uno o più dei vincoli di cui alle prescrizioni delle specifiche tecniche comporta la generazione di un messaggio automatico di esito negativo e pertanto ad ogni inoltro di messaggi corrisponde, da parte del sistema, una risposta tramite PEC. Ad ogni nuovo indirizzo di PEC registrato nelle anagrafiche a seguito dell’inserimento di un nuovo soggetto o di modifica di uno esistente, viene inviato un messaggio di PEC di cortesia in cui si attesta l’avvenuta registrazione. I professionisti non iscritti all’albo, oppure per i quali il proprio ordine di appartenenza non abbia provveduto all’invio di copia dell’albo (ad eccezione degli avvocati), si possono registrare al RegIndE attraverso un punto di accesso (PdA) o attraverso il Portale dei Servizi Telematici, previa loro identificazione, inserendo il file che contiene copia informatica, in formato PDF, dell’incarico di nomina da parte del giudice. Quest’ultimo file deve essere sottoscritto con firma digitale o firma elettronica qualificata dal soggetto che intende iscriversi. Il PdA provvede a trasmettere l’avvenuta registrazione con le medesime modalità di cui abbiamo innanzi detto con la differenza che il file ComunicazioniSoggetti.xml è digitalmente sottoscritto con firma digitale o firma elettronica qualificata dal PdA. Qualora il professionista s’iscriva ad un albo, oppure pervenga copia dell’albo da parte dell’ordine di appartenenza, prevalgono i dati trasmessi dall’ordine stesso. 7. La rilevanza del documento informatico nel processo civile telematico. Con il d.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445, all’art. 1 lett. a) il “documento amministrativo” è stato definito, invece, come “ogni rappresentazione, comunque formata, del contenuto di atti, anche interni, delle pubbliche amministrazioni o, comunque, utilizzati ai fini dell'attività amministrativa” quindi con un‘eccezione molto più ampia rispetto a quella precedente e con la possibilità di ricomprendervi anche le rappresentazioni sonore o visive di atti interni o utilizzati dalla P.A., e con la sola restrizione in ordine al soggetto che produce il documento amministrativo. Identica è poi la definizione data sia all’art. 1 lettera a) d.P.R. 13 febbraio 2001 n. 123, dove, il documento informatico, è definito come la “la rappresentazione informatica del contenuto di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti ai sensi del decreto del Presidente della repubblica 10 novembre 1997, n. 513” sia all’art. 1 lettera p) d.lgs n. 85/2005 dove pure è definito come “la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti” e al successivo art. 20 co. 1, come modificato dall'art. 8, d.lgs. 4 aprile 2006, n. 159, viene definito come documento “da chiunque formato”, quindi sia essa autorità pubblica o mero privato, registrato su supporto informatico trasmesso con strumenti telematici conformi alle regole tec RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 niche previste nello stesso CAD. Orbene con questa previsione di documento informatico come documento da “chiunque formato” è da ritenere che il legislatore non abbia inteso limitare la definizione alla sola natura pubblica o privata del soggetto agente ma che abbia aperto alla piena, e già quindi riconosciuta, giuridicità dei “documenti cibernetici”, ossia alla creazione cibernetica di uno scritto originale, cioè non copiato, ma prodotto “ex novo” dal computer e di cui, quindi non esiste un originale formato dall’uomo. E proprio la creazione “cibernetica” degli scritti “originali”, possibile solo a proposito della scrittura informatica, è la più grande rivoluzione nella scrittura perché, prima dell’avvento del computer solo all’uomo è stato possibile creare uno scritto, espressione del suo pensiero e della sua cosciente volontà, mentre con lo ”scritto cibernetico” ciò sarà possibile anche al computer. Proprio in relazione a ciò deve essere letta un'altra fondamentale norma qual è quella dell’art. 40, co. 1, Codice dell’Amministrazione Digitale che prevede: “Le P.A., che dispongono di idonee risorse tecnologiche, “formano gli originali” dei propri documenti con mezzi informatici secondo le disposizioni del presente codice e le regole tecniche di cui all’art. 71”, norma modificata dall’art. 27 d.lgs. 30 dicembre 2010 n. 235, che ha soppresso l’inciso “che dispongono di idonee risorse tecnologiche” e abrogato il 2 co., dello stesso articolo, sicché la nuova formulazione della norma è nel senso che “Le P.A. “formano gli originali” dei propri documenti con mezzi informatici secondo le disposizioni del presente codice e le regole tecniche di cui all’art. 71”. È quindi legittimo e corretto ritenere che il CAD con l’art. 40 detta le linee d’azione per la P.A. nella formazione dei documenti amministrativi informatici, ordinariamente, attraverso atti cibernetici. Non diversa dalla nozione in esame e la nozione di documento amministrativo informatico che il legislatore ha specificato con una dizione molto ampia ed estesa e che è restrittiva solo in ordine al requisito soggettivo della P.A., indipendentemente dal contenuto della disciplina sostanziale e per il quale dobbiamo intendere, in forza della legge 11 febbraio 2005 n. 15, di modifica dell’art. 22 legge n. 241 del 1990 e della relativa lettera d), come “ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale”. A tale nozione, poi, precede l’art. 3-bis, in ordine alla necessità dell’uso della telematica nei rapporti interni, tra pubbliche amministrazioni e tra queste e i privati, e ciò al fine di conseguire una maggiore efficienza dell’attività. Previsione quest’ultima ulteriormente sviluppata con la disposta eliminazione dei documenti cartacei, con la prevista obbligatorietà della pubblicazione sui siti informatici dal 1 gennaio 2010 e con la perdita, ex art. 32 legge 18 giugno 2009 n. 69, di ogni valore legale per la pubblicazione cartacea dal 1 gennaio LEgISLAzIONE ED ATTUALITà 2013. Inoltre, l’art. 16 d.lgs. 30 dicembre 2010 n. 235 ha introdotto il nuovo articolo il 23-ter in forza del quale gli atti formati dalle pubbliche amministrazioni con strumenti informatici, nonché i dati e i documenti informatici detenuti dalle stesse, costituiscono informazione primaria ed originale da cui è possibile effettuare, su diversi o identici tipi di supporto, duplicazioni e copie per gli usi consentiti dalla legge. Inoltre è stabilito che idocumenti costituenti atti amministrativi con rilevanza interna al procedimento amministrativo sottoscritti con firma elettronica avanzata hanno l'efficacia prevista dall'art. 2702 c.c. Disciplina particolare è poi riservata alle copie su supporto informatico dei documenti formati dalla pubblica amministrazione in origine su supporto analogico ovvero dalla stessa detenuti. Qui si è stabilito che essi hanno il medesimo valore giuridico, ad ogni effetto di legge, degli originali da cui sono tratte, se, però, la loro conformità, all'originale, è assicurata dal funzionario a ciò delegato nell'ambito dell'ordinamento proprio dell'amministrazione di appartenenza, mediante l'utilizzo della firma digitale o di altra firma elettronica qualificata, purché nel rispetto delle regole tecniche stabilite ex art. 71. Per quest’ultima ipotesi si è stabilito che l'obbligo di conservazione dell'originale del documento è soddisfatto con la conservazione della copia su supporto informatico (8). Per quanto attiene poi alle regole tecniche in materia di formazione e conservazione dei documenti informatici delle pubbliche amministrazioni si è stabilito che queste saranno definite con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri o del Ministro delegato per la pubblica amministrazione e l'innovazione, di concerto con il Ministro per i beni e le attività culturali, nonché d'intesa con la Conferenza unificata di cui all'art. 8 d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281, e sentiti AgID (già DigitPA) e il garante per la protezione dei dati personali. Esigenza particolare, meritevole di tutela, è apparsa poi quella di garantire, in modo obiettivo ed automatico, la conformità del documento analogico a quello informatico (9) sia in ordine alla sua provenienza che in ordine alla sua conformità all'originale dei predetti documenti informatici sicché in vista di questa necessità si è stabilito che sulle copie analogiche dei documenti informatici è apposto, a stampa, sulla base dei criteri definiti con linee guida emanate da AgID (ex DigitPA), un contrassegno generato elettronicamente, formato nel rispetto delle regole tecniche stabilite ai sensi dell'art. 71. L’art. 19-ter del Provvedimento DgSIA del Ministero della giustizia del (8) Copia informatica di documento informatico. La copia informatica di documento informatico, come stabilito dal Decreto Legislativo 7 marzo 2005, n. 82 Codice dell'amministrazione digitale, è il documento informatico avente contenuto identico a quello del documento da cui è tratto su supporto informatico con diversa sequenza di valori binari. (9) Copia informatica di documento analogico. La copia informatica di documento analogico, come precisato dal Decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82 Codice dell'amministrazione digitale, è il documento informatico avente contenuto identico a quello del documento analogico da cui è tratto. RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 28 dicembre prevede che quando si deve procedere ad attestare la conformità di una copia informatica, anche per immagine, ai sensi del terzo comma del- l'art. 16-undecies del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con modificazioni dalla legge 17 dicembre 2012, n. 212, l'attestazione è inserita in un documento informatico in formato PDF e contiene una sintetica descrizione del documento di cui si sta attestando la conformità nonché il relativo nome del file. Il documento informatico contenente l'attestazione è sottoscritto dal soggetto che compie l'attestazione con firma digitale o firma elettronica qualificata. Se la copia informatica è destinata ad essere depositata secondo le regole tecniche previste dall'art. 4 del decreto-legge 29 dicembre 2009, n. 193, convertito con modificazioni dalla legge 22 febbraio 2010, n. 24, il documento informatico contenente l'attestazione è inserito come allegato nella "busta telematica" di cui all'art. 14; i dati identificativi del documento informatico contenente l'attestazione, nonché del documento cui essa si riferisce, sono anche inseriti nel file DatiAtto.xml di cui all'art. 12, comma 1, lett. e). Se la copia informatica è destinata ad essere notificata ai sensi dell'art. 3-bis della legge 21 gennaio 1994, n. 53, gli elementi indicati al primo comma, sono inseriti nella relazione di notificazione. In merito alle copie informatiche l’art. 52 d.l. n. 90/2014, innovando in modo significativo, come detto, ha attribuito importanti poteri di autentica sia ai difensori che al consulente tecnico nonché al professionista delegato, al curatore e commissario giudiziale prevedendo che questi possano estrarre, con modalità telematiche, copie analogiche o informatiche degli atti e dei provvedimenti, in cui sono costituiti, e attestarne la conformità ai corrispondenti atti contenuti nel fascicolo informatico. Quest’ultimo potere di attestazione non è soggetto al pagamento di diritti di copia, ma la norma in esame non si applica agli atti processuali che contengono provvedimenti giudiziali che autorizzano il prelievo di somme di denaro vincolate all’ordine del giudice. 8. il valore probatorio della firma digitale e di quella elettronica nel processo civile telematico. L’art. 20 co. 2 CAD, - attualmente abrogato - prevedeva in ordine al valore probatorio del documento informatico sottoscritto con firma elettronica la libera valutazione del giudice, fattispecie molto diversa da quella introdotta con l’inserimento del comma 1-bis allo stesso art. 20, che ora prevede, invece, l'idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta ed il valore probatorio che va valutato liberamente in giudizio, tenuto conto delle caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità e non modificabilità, fermo restando quanto disposto dall’art. 21. In sede di valore probatorio, quindi, il documento informatico ex art. 21, come modificato dall’art. 9 del d.lgs. 4 aprile 2006 n. 159, e come risulta dall’art. 14 co. 2 del decreto LEgISLAzIONE ED ATTUALITà legislativo n. 235 del 30 dicembre 2010, cui è apposta una firma elettronica qualificata, avanzata o digitale non può essere liberamente valutato in giudizio come avveniva nella versione ante riforma, ma ha, per legge, l’efficacia prevista dall’articolo 2702 c.c. e si presume riconducibile al titolare del dispositivo di firma, salvo che questi dia prova contraria. Orbene in relazione al fatto che gli atti formati con strumenti informatici, i dati e i documenti informatici delle pubbliche amministrazioni, costituiscono informazione primaria ed originale da cui è possibile effettuare, su diversi tipi di supporto, riproduzioni e copie per gli usi consentiti dalla legge, e che le copie su supporto informatico di documenti formati in origine su altro tipo di supporto sostituiscono, ed in seguito alla riforma hanno “valenza”, agli effetti di legge, degli stessi originali da cui sono tratti, appare evidente che la parificazione degli originali e delle copie degli atti su supporto informatico (sia esso elettronico, magnetico o ottico) corrispondono esattamente a quelle sul tradizionale supporto cartaceo. Tuttavia prevedeva l’art. 23 CAD, così come modificato dal d.lgs. 4 aprile 2006 n. 159 e dal d.l. 29 novembre 2008 n. 185, che i duplicati, le copie, gli estratti del documento informatico, anche se riprodotti su diversi tipi di supporto, erano validi a tutti gli effetti di legge, se conformi alle regole tecniche. Inoltre che quelli contenenti copia o riproduzione di atti pubblici, scritture private e documenti in genere, compresi gli atti ed i documenti amministrativi di ogni tipo, spediti o rilasciati dai depositari pubblici autorizzati e dai pubblici ufficiali, avevano piena efficacia, ai sensi degli artt. 2714 e 2715 c.c., se ad essi era apposta o associata, da parte di colui che li spediva o rilasciava, una firma digitale o altra firma elettronica qualificata (10). Con l’art. 16 d.lgs. 30 (10) La giurisprudenza della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato al riguardo è nutrita. vedasi Corte Cass. Sez. lav. sentenza, 12 dicembre 1997 n. 12949; Corte Cass, Sez. lav. sentenza 20 gennaio 1998, n. 476; Corte Cass, Sez. lav. sentenza 6 settembre 2001 n. 11445; Corte Cass. Sez. lav., sentenza 24 marzo 2003, n. 4297; Corte Cass, sez. III civ., sentenza 10 settembre 1997 n. 8901. Cons. Stato, sez. cons. atti amministrativi, parere 7 febbraio 2005, n. 11995, per il quale i tipi di firma sono solo due, la firma elettronica pura e semplice e quella qualificata, di cui la firma digitale e un tipo; Cons. Stato, Iv sez., decisione 11 aprile 2007, n. 1653 per tale decisione la firma digitale costituisce soltanto una modalità diversa rispetto alla sottoscrizione tradizionale per iscritto e quindi essa non va ad alterare la struttura dei documenti generati in via telematica. In tal senso vedi Corte Cass., 1 sez., sentenza 24 settembre 1997 n. 9394; Corte Cass., I sez., sentenza 14 novembre 2003 n. 17186; Corte Cass. sez., sentenza 31 maggio 2005 n. 11499. Corte Cass. Sez. II civ, - ord. 19 giugno 2009 n. 14520. Cons. Stato, Sez. v decisione del 9 marzo 2009 n. 1361. Cassazione SS.UU., sentenza 22 novembre 1994 n. 9968, con la quale la Corte ha dichiarato inammissibile un ricorso perché la procura era apposta su un foglio aggiunto e non su una pagina occupata dal testo dell’atto. In seguito Le Sezioni Unite con sentenza del 30 marzo 1999 n. 3034 hanno ritenuto valida il rilascio della procura su un foglio aggiunto, purché il foglio aggiunto fosse materialmente unito e numerato all’atto al quale si riferiva, e con sentenza del 24 gennaio 1997 n. 571 ne ha stabilito la regolarità purché non vi fossero tra la stessa ed il testo spazi vuoti intermedi. La Corte di Cassazione SS.UU. con sentenza del 10 marzo 1998 n. 2642 ha affermato la validità del mandato su foglio spillato anche se redatto in termini generici. La Corte di Cassazione sez. I, sentenza 4 gennaio 2000 n. 11, ha affermato che la procura rilasciata su foglio congiunto è equiparabile a quella apposta subito dopo l’ultimo rigo dell’ultima pagina dell’atto, mentre Corte Cass., RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 dicembre 2010 n. 235, modificando l’art. 23 CAD, prevede che le copie su supporto analogico di documento informatico, anche sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale, abbiano la stessa efficacia probatoria dell'originale da cui sono tratte se la loro conformità all'originale in tutte le sue componenti è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato. Le copie e gli estratti su supporto analogico del documento informatico, conformi alle vigenti regole tecniche, hanno la stessa efficacia probatoria dell'originale se la loro conformità non è espressamente disconosciuta e resta fermo, ove previsto, l'obbligo di conservazione dell'originale informatico. L’art. 17 d.lgs. 30 dicembre 2010 n. 235, che modifica l’art. 25 d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, in materia di firma autentica, prevede inoltre che si abbia per riconosciuta, ai sensi dell'art. 2703 c.c., la firma elettronica o qualsiasi altro tipo di firma avanzata autenticata dal notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato. Inoltre è stato previsto che l'autenticazione della firma elettronica, anche mediante l'acquisizione digitale della sottoscrizione autografa, o di qualsiasi altro tipo di firma elettronica avanzata, si sostanzia nell'attestato, da parte del pubblico ufficiale, che la firma sia stata apposta in sua presenza dal titolare, e che la sottoscrizione sia avvenuta previo accertamento della sua identità personale, della validità dell'eventuale certificato elettronico utilizzato e del fatto che il documento sottoscritto non è in contrasto con l'ordinamento giuridico. In merito si tenga poi conto che l'apposizione della firma digitale da parte del pubblico ufficiale abbia l'efficacia e sostituisca l'apposizione di sigilli, punzoni, timbri, contrassegni e marchi di qualsiasi genere ad ogni fine previsto dalla normativa vigente. Se al documento informatico autenticato deve essere allegato altro documento formato in originale su altro tipo di supporto, il pubblico ufficiale può allegare copia informatica autenticata dell'originale, secondo quanto sarà previsto con apposito decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Con quest’ultimo provvedimento saranno anche individuate le particolari tipologie di documenti analogici originali unici per i quali, in ragione di esigenze di natura pubblicistica, permane l'obbligo della conservazione del- l'originale analogico oppure, in caso di conservazione ottica sostitutiva, la conformità all'originale dovrà essere autenticata da un notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato con dichiarazione da questi firmata digitalmente ed allegata al documento informatico. I sez. civ. 30 agosto 2002 n. 12709, più acutamente, ha ritenuto sufficiente ogni forma di congiunzione a patto che la procura fosse collocata nell’atto prima della relazione di notifica. LEgISLAzIONE ED ATTUALITà il risarcimento del danno da fumo di sigarette nel diritto vivente Nicolò Cocci* Sommario: introduzione - 1. oltre il prodotto difettoso: il danno da prodotto conforme -2. Produzione, commercializzazione e distribuzione delle sigarette tra norme comunitarie e responsabilità oggettiva - 3. il caso Stalteri - 4. La riapertura in italia della questione della “tobacco litigation” - 5. Brevi considerazioni di analisi economica del diritto. introduzione. Il presente articolo si propone di trattare in modo sistematico il risarcimento del danno da fumo di sigarette, prendendo in considerazione sia i riferimenti normativi positivi che la dottrina e giurisprudenza più innovative, indagando quelle che, a parere di chi scrive, sono le migliori soluzioni applicate e pensate da giudici e giuristi. Si vedrà, infatti, che le posizioni prese da questi non percorrono una strada unitaria, bensì prestano il fianco ad una pluralità di possibili rilievi critici, essendo ben lontani ancora da una soluzione giuridica della questione. Il d.lgs. n. 6 del 16 gennaio 2016, in tema di lavorazione, presentazione e vendita dei prodotti del tabacco e correlati in attuazione della direttiva 2014/40/UE ha nuovamente riaperto la discussione inerente alle warnings, le oramai celebri avvertenze sulla disassuefazione da fumo contenute sulla superficie dei pacchetti di sigarette; il Capo II del Titolo I rubricato “Etichettatura e confezionamento” adegua a riguardo la normativa italiana a quella europea. L’attuazione del decreto, raggiunta a maggio scorso, ha permesso al nostro ordinamento di eguagliare lo standard comunitario (1) che consisteva in avvertenze combinate con scritte e fotografie sulla nocività del fumo. Per comprendere l’impatto che ciò potrebbe avere sulla cosiddetta “tobacco litigation” è necessario affrontare l’argomento da un punto di vista giuridico e storico. Problema di non poco momento è la collocazione dell’attività di produzione e distribuzione di sigarette all’interno del novero delle attività pericolose di cui all’art. 2050 c.c. ovvero al di fuori di questo, con notevoli conseguenze dal punto di vista pratico; la soluzione è tutt’altro che scontata, (*) Dottore in giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato di Bologna. (1) In specie al punto 4 dell’art. 9 del d.lgs. n. 6/2016 si legge “Le avvertenze relative alla salute rimangono intatte all’apertura della confezione unitaria, eccetto per le confezioni con chiusura di tipo flip-top, ove le avvertenze possano essere separate all’apertura della confezione, ma solo in modo da garantire l’integrità e la visibilità del testo, delle fotografie e delle informazioni sulla disassuefazione da fumo”. RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 se non si vuole prescindere da una nutrita fetta di dottrina e giurisprudenza (2) che vede la pericolosità come carattere inerente all’attività di produzione e non del prodotto finale. A seguito dell’industrializzazione della società, con conseguente aumento di pericoli e sinistri, il criterio di imputazione oggettiva del danno è diventato da eccezione al 2043 c.c. a fattispecie maggiormente utilizzata, trasformando l’eccezione al brocardo giusnaturalista nulla poena sine culpa in lex generalis, in regola. L’etichetta di “pericolosa” attribuita all’attività di produzione e distribuzione di sigarette concederebbe un notevole vantaggio ai danneggiati che, una volta provata la correlazione causale fra evento e danno, non si vedrebbero altresì gravati dell’onere di provare la colpa del danneggiante, essendo proprio quest’ultimo a dover invece dar prova dell’utilizzo di tutte le misure idonee ad evitare il danno. L’ingresso nella scena giuridica delle warnings, risalenti al 1991 (3), fu un punto di svolta per le controversie attinenti alle attività connesse al tabacco, ponendo da una parte legittimi interrogativi sulla condotta del danneggiato in merito al concorso del fatto colposo del creditore ex art. 1227 c.c., dall’altro mitigando la responsabilità del danneggiante, produttore e distributore di tabacco in merito all’utilizzo di tutte le misure idonee ad evitare il danno. Se per i casi di assuefazione da fumo emersi prima della l. n. 428/1990 si poteva parlare di un’inconsapevolezza del consumatore circa gli effetti nocivi del prodotto (e prescindendo dalla seppur nota consapevolezza sociale relativa ai danni) in ragione della circostanza per cui tali informazioni non provenivano direttamente dal produttore, ciò non fu più possibile in seguito: con la celebre etichettatura “il fumo uccide”, il creditore poté essere considerato danneggiante esso stesso, con una conseguente diminuzione o esclusione del risarcimento. E ciò viene precisato dalla recente giurisprudenza milanese che ha posto l’accento su tale data giudicando “venti volte” più grave la condotta del danneggiante antecedente alle warnings (4). (2) Trib. Roma, 4 aprile 1997, in Danno e resp., 1997, p. 750, con nota di CAFAggI, secondo cui “non è configurabile una responsabilità per esercizio di attività pericolosa del produttore di sigarette, dal momento che l’ambito della norma di cui all’art. 2050 c.c. è limitato ai danni ricollegabili ad attività che, nel loro svolgimento, creino situazioni di pericolo o rendano possibile il verificarsi di incidenti”; Trib. Roma, 11 febbraio 2000, in Giur. it, 2001, p. 1643, con nota di gIACChERO secondo cui: “l’attività di produzione di sigarette non configura un’attività pericolosa ai sensi dell’articolo 2050 c.c., in quanto la potenzialità dannosa non deriva in maniera immediata dalle modalità del processo produttivo né da una intrinseca potenzialità lesiva del prodotto stesso bensì dall’uso reiterato nel tempo da parte del consumatore”; Trib. Roma, 4 aprile 2005, in De Jure, www.iusexplorer.it, con conferma dei propri precedenti reiettivi delle pretese attoree nonostante il contrario orientamento della Corte d’Appello, Sezione I, sentenza 7 marzo 2005, in De Jure, www.iusexplorer.it. (3) Obblighi di avvertenza circa i rischi, mediante scritte stampate sulla etichettatura del prodotto, sono stati introdotti con l’art. 46 della l. n. 428/1990 e poi dall’art. 6 del d.lgs. n. 184/2003. LEgISLAzIONE ED ATTUALITà Lo comprova il dato che la pressoché totale giurisprudenza inerente al risarcimento del danno da fumo di sigarette riguardi casi di assuefazione precedenti al 1991, con l’evidente difficoltà per gli attori di dimostrare l’obbligo giuridico di produttori e distributori di adottare standard tecnici volti ad evitare il danno. Di fatto, la responsabilità per condotta omissiva imputabile al produttore trova forza giuridica nel principio dell’art. 40 del codice penale, a tenore del quale non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di evitare, equivale a cagionarlo. Si vedrà, nelle parti del presente articolo dedicate alla giurisprudenza, come nel noto caso Stalteri i giudici abbiano trovato nella Costituzione la fonte degli obblighi gravanti sui produttori (5). Una volta ammesso che il carattere pericoloso possa trasmigrare dall’attività al prodotto, rendendo dunque possibile l’applicazione dell’art. 2050 c.c., diviene ardua la delimitazione dei confini tra la disciplina contenuta in detta norma e quella introdotta dalla Direttiva sui prodotti difettosi (6), attuata con d.P.R. n. 224/1988 e poi trasfuso negli artt. 114 e seguenti del codice del consumo. La dottrina non ha mancato di chiedersi se l’omissione delle avvertenze potesse essere valutata alla stregua di difetto del prodotto, con conseguente applicazione della direttiva, ovvero se, ritenuta impercorribile tale strada, la questione sia da ricomprendere nell’area del danno da prodotto conforme (7). I giudici milanesi hanno osservato che le sigarette sono prodotti pericolosi in relazione all’uso normale che se ne fa, ma non costituiscono prodotti pericolosi in quanto difettosi; quindi non verrebbe in gioco la disciplina consumeristica. Come è stato sostenuto in dottrina (8), il problema deve essere affrontato con estrema cura dal momento che l’art. 2050 c.c. regola una forma di responsabilità che non è stata concepita per dare risposta al problema dei danni correlati alla produzione di massa, ma che è stata ad esso adattata in un momento in cui occorreva colmare la lacuna dipesa dall’assenza di una specifica regolamentazione. D’altra parte l’affermazione della conformità del prodotto apre nuovi scenari, il cui esame deve essere condotto anche facendo riferimento alla più esperta e pronta scuola americana. In tale prospettiva, si può rilevare come uno standard di sicurezza, anche se espressamente previsto, come nel caso delle avvertenze del 1991, non sia identificabile come rimedio massimo, bensì (4) Trib. di Milano, 11 luglio 2014, n. 9235, in De Jure, www.iusexplorer.it. (5) Corte d’Appello di Roma, 7 marzo 2005, n. 1015, in De Jure, www.iusexplorer.it: “E poiché quella insidia aveva come bersaglio la salute, ossia un bene primario dell’uomo, tutelato dalla Carta Costituzionale come diritto fondamentale del cittadino, l’Ente era obbligato ad usare ogni cautela per evitare che il rischio si tramutasse in danno completo”. (6) Ci si riferisce alla direttiva 85/374/CEE. (7) In tale senso MONTINARO R., “il tormentato percorso della giurisprudenza sul tema dei danni da fumo attivo”, in resp. civ. e prev., 2015, p. 588. (8) MONTINARO R., ibidem. RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 come standard minimo, condizione necessaria ma non sufficiente ad escludere la responsabilità del danneggiante (9): in tale senso si suole parlare di prodotti conformi agli standard tecnici ma ad ogni modo idonei a cagionare danni. Sulla base di tali premesse, a parere di chi scrive, sono notevoli le conseguenze del d.lgs. n. 6/2016 che, innovando le avvertenze con la combinazione di scritte e fotografie, implicitamente sancisce l’inadeguatezza di quelle precedenti, legittimando il dubbio sul loro livello di sicurezza. Anche per i casi di assuefazione da fumo successivi al 1991 si potrebbe, in astratto, configurare una responsabilità del produttore-distributore. Nel celebre caso Stalteri, giurisprudenza da cui non si può prescindere stante la portata pioneristica della fattispecie, i congiunti della vittima fumatrice chiesero il risarcimento del danno per la morte causata dalla neoplasia. In occasione della morte, infatti, da una parte si trasmettono iure successionis le pretese risarcitorie già entrate nel patrimonio del de cuius, e quindi, con riferimento all’evento morte, il danno alla salute che sia sorto quando vi sia un “apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni subite dalla vittima del danno e la morte causata dalle stesse” (10). Dall’altra, in capo ai congiunti si crea un insieme di diritti soggettivi al risarcimento del danno patrimoniale e non, vantati iure proprio, quale conseguenza della diminuzione patrimoniale o morale subita per effetto dell’illecito. In conclusione si vorrà analizzare il fenomeno della responsabilità civile nella sua accezione più ampia ovvero nella sua dimensione sociale, ricercando quali siano le possibili soluzioni economicamente più efficienti in tema di distribuzione di rischi, appartenenti anche ad altri settori. L’inadeguatezza della responsabilità oggettiva ha indotto la dottrina a chiedersi se non fossero più efficaci sistemi stragiudiziali di indennizzo garantiti, come quello di Blum e Kalven di cui parla guido Calabresi già nel 1975, che avrebbe tutelato tutte le vittime di sinistri stradali, offrendo un risarcimento anche a coloro che non vi avrebbero avuto diritto, purché il costo addizionale di tale estensione venisse posto a carico delle entrate tributarie dello Stato (11). Si tratterebbe di dare positività e certezza a tutti i casi di danno da fumo di sigarette, superando le incertezze che ancora caratterizzano giurisprudenza e dottrina nella ricerca di un criterio normativo per il risarcimento in favore, ad esempio, di una distribuzione del costo degli incidenti a carico di tutti i consumatori e produttori, da cui trarre un sicuro indennizzo per i danneggiati. (9) In tale senso vedi AL MUREDEN E., “il danno da prodotto conforme. Le soluzioni europee e statunitensi nella prospettiva del T.T.i.P.”, in Contratto e impresa, 2015, p. 388. (10) Cass. civ., 26 settembre 1997, n. 9470, in De Jure, www.iusexplorer.it, che aveva giudicato insufficiente un’agonia rispettivamente di tre giorni e di alcune ore; v. anche Cass. Civ., 2 aprile 2001, n. 4783, in De Jure, www.iusexplorer.it. (11) CALABRESI g., il costo degli incidenti, Milano, 1975 (rist. 2015), p. 29. LEgISLAzIONE ED ATTUALITà 1. oltre il prodotto difettoso: il danno da prodotto conforme. Il fenomeno del risarcimento del danno da fumo di sigarette è una questione dalle numerose sfaccettature: da un lato, come già accennato, esiste un orientamento giurisprudenziale che lo colloca nella fattispecie prevista dall’art. 2050 c.c.; dall’altro, parte della dottrina ne ha ravvisato la difformità dagli standard inserendolo nel grande capitolo dei danni da prodotti difettosi; da altro punto di vista, alcuni Autori ne hanno tentato l’accostamento al danno da prodotto conforme elaborato dalla scuola americana. Risulta dunque evidente che la collocazione giuridica del danno da fumo di sigarette è tutt’altro che scontata: la produzione di sigarette costituisce del resto uno degli esempi di massificazione dei danni, ossia di quel fenomeno generato dalla dannosità dei prodotti che è conseguenza di una loro non conformità ad uno stato dell’arte ideale, ovvero quale dannosità insita in re ipsa, seppure non etichettabile quale difettosa. già dagli anni Sessanta la dottrina aveva evidenziato la necessità di leggere la responsabilità civile facente riferimento alla grande produzione sia con la lente della responsabilità oggettiva, sia facendone derivare un ragionamento di costi da suddividere tra produttore e consumatore: “ove il sistema giuridico non attribuisca all’imprenditore il costo del rischio che egli crea, può accadere che imprese marginali o settori marginali di impresa siano attivi dal punto di vista del singolo imprenditore, laddove dal punto di vista sociale siano passivi, distruggendo un valore maggiore di quello che producono, e si mantengano in vita solo in quanto una parte del loro passivo sociale, e cioè il costo del rischio di esse introdotto nella società, venga pagato dal pubblico” (12). Negli anni Settanta la Commissione europea propose l’approvazione di una direttiva sul danno da prodotti difettosi, non già innovando le prassi dottrinali e giurisprudenziali dell’epoca, ma attenendosi a quella che era una oramai comune visione degli Stati membri di intendere la responsabilità del produttore quale oggettiva (13). gli imprenditori mostrarono una forte pre (12) TRIMARChI P., rischio e responsabilità oggettiva, Milano, 1961, p. 35; PACChIONI g., Delitti e quasi-delitti, Padova, 1940, p. 214, nella quale si legge: “Nel campo economico l’attività individuale ha per effetto di modificare continuamente i patrimoni dei singoli, diminuendoli o aumentandoli, ma il senso dell’interesse comune decide se la diminuzione di un patrimonio causata da unito individuale altrui, debba essere definitiva (cioè non risarcita), o temporanea soltanto (cioè risarcita). Ove l’attività che ha causato il danno sia pura attività biologica, il danno sarà definitivo, cioè irrisarcibile, purché al- l’agente non si possa addebitare negligenza nei rapporti dei consociati; ove invece l’attività sia intesa a procurare un aumento del patrimonio dell’agente e, per raggiungere questo fine, debba anche, senza colpa dell’agente, recare danni a terzi, questi danni vanno risarciti perché rappresentano il passivo dei vantaggi che vanno esclusivamente all’agente. Costui non potrà invocare la sua assenza di colpa per non risarcire i danni arrecati con la sua attività”. (13) In tale senso, CASTRONOvO C., Problema e sistema del danno da prodotti, Milano, 1979, p. 523, nella quale si legge: “L’analisi di quest’ultimo aspetto è stata condotta utilmente da Trimarchi, che ha utilizzato sul punto procedimenti ermeneutici da lui stesso già sperimentati in tema di illecito civile. RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 occupazione, temendo l’addivenire di un sistema pressoché simile a quello americano, a tal punto da spingere la Commissione negli anni Ottanta a “rassicurare” l’industria sulle differenze tra il sistema americano e quello “europeo”, che già vedeva un’improvvisa impennata dei costi alla voce responsabilità civile; si riporta una delle rassicurazioni ai fini di una migliore comprensione: “La preoccupazione dell’industria nei confronti della Direttiva è in parte dovuta all’esistenza di storie scoraggianti provenienti dagli Stati Uniti, dove la responsabilità oggettiva esiste già. molte di queste storie erano apocrife. inoltre, il sistema legale negli Stati Uniti è molto differente da quello della Comunità e dei suoi Stati membri. Negli Stati Uniti, i giuristi operano sulla base di contingency fees, spesso in azioni di classe, in maniera tale che l’attore possa adire le corti senza pensare troppo al costo del contenzioso [...] in aggiunta, negli Stati Uniti i danni sono attribuiti dalle giurie [... e] talvolta vengono accordati danni punitivi. L’esperienza americana è una guida poco affidabile sul problema delle conseguenze sulla direttiva CEE per l’industria” (14). Parallelamente ad una diffusa commercializzazione in tutti gli Stati membri di taluni prodotti, l’intenzione del legislatore europeo fu quella di armonizzare il diritto privato degli Stati membri in modo da garantire una tutela pressoché comune su tutto il suolo europeo. Proprio la recentissima direttiva (15) in materia di produzione di sigarette, che disciplina altresì le novelle avvertenze combinate (immagini e testo), conferma non solo quanto fosse giusto raggiungere l’uniformità di tutela ma anche l’utilità dello strumento della direttiva per diffondere a macchia d’olio i nuovi obiettivi in tema di danno da prodotti. Nota questo autore che il concetto stesso di colpa, quando si tratta di prestazioni di impresa, è inteso dalla giurisprudenza con particolare rigore; il che significa che ogni disfunzione, che sia oggettivamente evitabile attraverso particolari misure tecniche ed organizzative, viene considerata colpevole e fonte di responsabilità. In ultima analisi la responsabilità finisce per essere esclusa solo quando l’inadempimento sia dovuto a cause estranee alla sfera di controllo e di pianificazione dell’imprenditore. L’implicazione teorica è in re ipsa: una sedicente responsabilità per colpa affermata in questi termini cambia sostanzialmente natura e diventa responsabilità oggettiva”; TRIMARChI P., ibidem. (14) Il passo è così riportato da PARSOLESI R. e CARUSO D., Per una storia della direttiva 1985/374/CEE, in ENRICO AL MUREDEN (a cura di), La sicurezza dei prodotti e la responsabilità del produttore, Torino, 2015, p. 40; per uno sguardo generale sulla direttiva e la sua nascita cfr. vILLANI L., il danno da prodotto tra la direttiva CEE n. 374/1985, il d.P.r. n. 224/1988 ed il Codice del Consumo, in resp. civile e prev., pp. 1238-1248, nel quale si legge: “Prima della direttiva 85/374/CEE mancava una normativa speciale che disciplinasse la responsabilità del produttore per il danno derivante dalla circolazione di prodotti difettosi. La tutela del consumatore era affidata alla disciplina comune della vendita e della responsabilità civile. La Direttiva (trasposta in Italia nel d.P.R. 22471988) ha profondamente innovato nella materia e ciò si coglie fin dall’art. 1 Codice del Consumo (nel quale a sua volta è stato trasposto il d.P.R. 224/1988) il quale prevede che il produttore sia responsabile per i danni causati da difetti del suo prodotto attraverso il criterio della responsabilità oggettiva”; cfr. anche gALgANO F., responsabilità del produttore, in Contratto e impresa, 1986, pp. 995-1012. (15) Ci si riferisce alla direttiva 2014/40/UE. LEgISLAzIONE ED ATTUALITà L’approvazione con voto unanime degli Stati membri della direttiva 1984/374/CEE, come da previsione, non portò a cambiamenti notevoli, proprio per la sua funzione di cristallizzazione dei già consolidati orientamenti degli Stati Membri confinando la responsabilità in capo ai produttori e rimanendo distante dal modello americano, soprattuto in riferimento alle class action. A distanza di tre anni, il nostro ordinamento recepì la direttiva con il d.P.R. n. 224/1988, ora confluito nel Codice del consumo. L’articolo 114 del cod. cons. prevede che “il produttore è responsabile del danno cagionato da difetti del suo prodotto”: si tratta dunque di strict liability proprio in ragione della scelta del legislatore di prescindere dall’inserimento della colpa quale criterio di imputazione, sia in tale sede che nelle cause di esclusione della responsabilità disciplinate all’art. 118. Un prodotto è considerato difettoso quando non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto delle circostanze, tra cui vengono annoverati “il modo in cui è stato messo in circolazione, la sua presentazione, le sue caratteristiche palesi, le istruzioni e le avvertenze fornite”, “l’uso al quale il prodotto può essere ragionevolmente destinato e i comportamenti che, in relazione ad esso, si possono legittimamente prevedere” e “il tempo in cui il prodotto è stato messo in circolazione” (16). La direttiva ha dunque sancito la regola secondo cui la responsabilità del produttore si fonda sulla prova del- l’esistenza del nesso causale tra il danno subito e l’utilizzo del prodotto. Una variazione testuale si riscontra tra la direttiva e il d.P.R. n. 224/1988: la prima parla di “difetto” mentre il nostro legislatore ha utilizzato il termine al plurale, con l’intenzione di rimandare alle varie tipologie di difetti quali quelli di costruzione, fabbricazione e quelli che tali risultano in seguito allo sviluppo scientifico e tecnico successivo alla messa in circolazione del prodotto; un quarto tipo si trova accostato ai precedenti ed è quello dei prodotti non accompagnati da adeguate istruzioni per l’uso e dalle avvertenze necessarie a prevenire inconvenienti che dall’uso possano derivare (17). La prima legge sulle warnings nel nostro ordinamento risale al 1990, la n. 428 del 29 dicembre, risultando prima di allora inesistente qualsiasi comunicazione da parte del produttore-distributore circa la nocività del fumo; tuttavia già allora, come sottolineato a più riprese dai convenuti nelle controversie di tobacco litigation, era fatto notorio che “il fumo uccide”. Prima di tale data è dunque configurabile il prodotto come non difettoso, in ragione della mancanza di un norma positiva che obbligasse il produttore-distributore ad inserire le avvertenze; successivamente la questione divenne invece più complicata. (16) Si tratta dell’articolo 117 del cod. cons.: lettere a), b) e c). (17) CASTRONOvO C., La nuova responsabilità civile, op. cit., p. 689; per gli ultimi aggiornamenti in materia di prodotto difettoso cfr. BITETTO A., “Product lability”: la prova del difetto nella sicurezza disattesa, in Danno e resp., 2016, pp. 17-21. RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 L’ordinamento europeo, così come quello statunitense, ha visto una sempre maggiore diffusione di normazione tecnica che definisce gli standards di sicurezza dei prodotti sui quali circostanziare la “sicurezza che il consumatore si può legittimamente attendere”: ciò non ha interessato tutti i prodotti e di fatto per alcuni rimane sic et simpliciter il principio per cui il livello di sicurezza richiesto è quello che il consumatore può legittimamente attendersi, mentre per altri, come le sigarette, il legislatore europeo ha provveduto a introdurre norme giuridiche riferite a standards tecnici obbligatori; proprio l’ultimo d.l. n. 6/2016, recependo la direttiva 2014/40/UE sul riavvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative alla lavorazione, presentazione e vendita del tabacco e correlati, presenta al Titolo II, Capo I e II, standards tecnici riguardanti rispettivamente “ingredienti ed emissioni” e “Etichettatura e confezionamento”. Oggi non solo sono presenti warnings scritte, bensì c’è la necessaria correlazione di queste ad immagini, proprio al fine di evitare dubbi circa la consapevolezza di dannosità nel consumatore di tabacco: ogni pacchetto di sigarette messo in commercio nel rispetto del decreto legge sopra citato potrà a rigor di logica essere etichettato quale “conforme”. Nonostante la conformità alle prescrizioni legali tecniche, numerosi prodotti, tra i quali di certo le sigarette, mantengono il loro grado di dannosità e sotto tale profilo assume un importante ruolo la distinzione tra prodotto difettoso e prodotto dannoso: le due categorie non solo non sempre coincidono ma non c’è stato nel nostro ordinamento uno studio appurato di tali casi né a livello giurisprudenziale né a livello interpretativo (18). La dottrina (19) ha suggerito perciò di fare riferimento, quale possibile modello, alla disciplina contenuta nel restatement Second e restatement third statunitense: in tale ambito se da un lato, come accade nel nostro ordinamento, il prodotto che non rispetta gli standards è difettoso, dall’altro non si può affermare che il prodotto conforme a leggi e regolamenti sia senz’altro sicuro; le norme sulla sicurezza dei prodotti, statali o federali, devono essere in linea di massima intese cioè come minimum standards. Se dovessimo applicare tali assunti alla produzione e distribuzione di sigarette si potrebbe arrivare ad affermare, a parere di chi scrive, che le warnings della legge del 1991, proprio per la loro susseguente modificazione (20) ovvero per la presenza di avvertenze combinate negli altri Paesi già da prima dell’ultimo d.l., assurgano a rango di minimum standards, il rispetto dei quali è condizione necessaria ma non sufficiente ad escludere l’ipotesi di risarcimento del danno. (18) Così AL MUREDEN E., La responsabilità del fabbricante nella prospettiva della standardizzazione delle regole sulla sicurezza dei prodotti, in op. cit. (19) ibidem. (20) Il riferimento è sempre alla direttiva 2014/40/UE attuata con il decreto legislativo n. 6 del 16 gennaio 2016. LEgISLAzIONE ED ATTUALITà Nell’analisi giurisprudenziale italiana il problema del “danno da prodotto conforme” non viene delineato con chiarezza, soprattutto per quanto riguarda la considerazione dei cosiddetti standards armonizzati, rendendo difficile individuare regole generali che consentano di affermare se sussista o meno una responsabilità del produttore anche qualora i danni cagionati provengano da oggetto conforme alla normativa tecnica. In materia di danno da prodotti possono individuarsi tre categorie di decisioni: una prima raccolta parametra il carattere difettoso del prodotto sulla base della “sicurezza che il consumatore può legittimamente attendere”, una seconda ha applicato la disciplina della responsabilità oggettiva per attività pericolosa di cui all’art. 2050 c.c. in luogo del Codice del consumo (suscitando perplessità in dottrina anche con riferimento alla preemption del diritto europeo), mentre solo in un ristrettissimo numero di casi è stata ravvisata la necessità di risolvere il problema della responsabilità del produttore basando il giudizio di difettosità del prodotto sugli standards (21). La responsabilità del produttore per i danni cagionati da un prodotto conforme alla normativa tecnica è stata affermata in una sentenza riguardante i danni cagionati da un motoveicolo conforme sia agli standards europei (ECE) che americani (FMvSS), conformità che era condizione necessaria per ottenere l’omologazione del veicolo, ma ritenuta non sufficiente ad escludere la responsabilità del fabbricante (22). Del resto, il comma 4 dell’art. 105 cod. cons. prevede la possibilità che le Autorità Competenti ordinino il ritiro dal mercato del prodotto nonostante la sua conformità a standards tecnici, se questo si rivela comunque pericoloso per la sicurezza del consumatore: la nostra disciplina positiva prevede quindi la possibilità di un prodotto conforme agli standards tecnici e tuttavia dannoso. Altre decisioni relative a danni da cosmetici o apparecchiature mediche conformi agli standards legislativi, e tuttavia fonti di danni, porterebbero invece ad escludere la responsabilità del produttore per i danni provocati da (21) AL MUREDEN E., La responsabilità del fabbricante nella prospettiva della standardizzazione delle regole sulla sicurezza dei prodotti, in op. cit. (22) Trib. di Pisa, 16 marzo 2011, con commento di BITETTO A., Dal biscotto al pan carrè: il tortuoso percorso della responsabilità da prodotto, in Danno e resp., 2011, p. 67 e ss.: il caso riguardò il ciclomotore Piaggio gilera Runner FXR che, divampato a seguito della collisione del veicolo con il muro di protezione della strada statale Aurelia, provocò gravissime lesioni al conducente: le pretese attoree si basarono sulla difettosità del prodotto circostanziata ad uso “normale” della cosa, tenuto conto dei criteri specificati dall’articolo 117 cod. cons. con riferimento specifico ai difetti di progettazione. In particolare il difetto di progettazione consisterebbe nel posizionamento del serbatoio, incastrato tra i tubolari del telaio, con la conseguenza che ogni deformazione del telaio si trasmette al serbatoio; inoltre dal momento che i sinistri stradali costituiscono eventi non eccezionali, tanto che i crash test sono obbligatori per la messa in circolazione dei ciclomotori, non può dirsi interrotto il nesso di causalità tra il difetto di progettazione e l’evento lesivo. Nonostante l’omologazione del ciclomotore agli standards europei ed americani, il giudice dichiarò sussistente il nesso di causalità tra difetto di progettazione ed evento lesivo accogliendo le pretese risarcitorie attoree. RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 prodotti non difettosi. L’eterogeneità delle soluzioni non consente quindi di individuare un principio univoco in base al quale venga affermata o meno la responsabilità del produttore: è in tale contesto che si insinuano le sentenze in materia di risarcimento del danno da fumo di sigarette basata sul- l’art. 2050 del c.c. Tali pronunce, oltre a complicare notevolmente l’assetto sino ad ora delineato, hanno anche posto dubbi in dottrina circa la corretta applicazione delle norme di diritto interno sulla responsabilità civile a scapito di quelle comunitarie, in particolare della direttiva sul danno da prodotti difettosi: un Autore (23) infatti, in commento al noto obiter del 2009 (24) della Cassazione in materia di pubblicità ingannevole relativo alla dicitura light sui pacchetti di sigarette, ha sottolineato che la preemption del diritto comunitario vorrebbe che la fattispecie fosse disciplinata unicamente dalle direttive comunitarie in materia. 2. Produzione, commercializzazione e distribuzione delle sigarette tra norme comunitarie e responsabilità oggettiva. A seguito delle considerazioni sopra effettuate è pacifico affermare che produrre o distribuire sigarette vuole dire mettere in circolazione un prodotto che, nonostante la possibile conformità agli standards tecnici di volta in volta introdotti, mantiene comunque un’elevata dannosità, rimanendo un costo per la società. La giurisprudenza, nei casi in cui ha deciso di accogliere le pretese attoree di riparazione verso il danneggiato o i familiari di questo per i danni da fumo di sigarette, ha catalogato la produzione-distribuzione di sigarette quale attività pericolosa alla stregua dell’art. 2050 c.c. grazie al suo carattere oggettivo: così il danneggiato non deve provare la presenza dell’intentio ov (23) MONATERI P.g., La cassazione e i danni da fumo: evitare un ennesimo caso di isolamento, in op. cit., p. 57 e ss. (24) Converrà prendere le mosse dalla sentenza del giudice di Pace di Napoli sulla quale nel 2009 poi la Suprema Corte ha esercitato il giudizio di legittimità: il giudice di pace condannò la British American Tobacco Italia al pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno, per aver colpevolmente prodotto e commercializzato pacchetti di sigarette con l’utilizzo della dicitura “light”, idonea ad indurre il consumatore a credere che il tabacco contenutovi fosse meno dannoso di quello dei pacchetti “normali”; errore nel quale, a parere del giudice, incorse l’attore, il quale subì il danno da perdita di chance di scegliere una soluzione alternativa e il conseguente danno esistenziale per peggioramento della qualità della vita a causa dello stress e del turbamento provocati dal possibile verificarsi di gravi danni all’apparato cardiovascolare o respiratorio. va inoltre specificato, in quanto di grande inerenza a ciò che verrà poi detto in merito all’obiter della Cassazione del 2009, che gli attori lamentarono il risarcimento del danno sulla base dell’art. 2043 c.c. mentre il giudice di pace lo concesse a titolo del- l’art. 2050 c.c. disciplinante responsabilità per esercizio di attività pericolosa. La BAT (British American Tobacco) propose ricorso in Cassazione che ribaltò l’esito della sentenza cassandola con rinvio tuttavia esprimendosi in obiter dictum a favore dell’applicabilità dell’art. 2050 c.c. al risarcimento di danno da fumo riprese quella voce di pensiero che, dal caso Stalteri nel 2005, era rimasta sopita rischiando di rimanere un caso isolato. LEgISLAzIONE ED ATTUALITà vero di negligenza, imprudenza e imperizia del danneggiante (25). L’affermazione dei giudici porta con sé qualche dubbio, in quanto abbraccia una tesi seguita sì da autorevole dottrina ma anche da una frazione minoritaria della giurisprudenza: secondo tale teoria infatti il carattere pericoloso non riguarderebbe solo l’attività di produzione, bensì anche il prodotto stesso e la “pericolosità” trasmigrerebbe quindi nei beni che ne sono risultato (26); in altre parole l’aggettivo “pericolo” in tal frangente riguarda non l’attività di produzione delle sigarette ma la sigaretta stessa. Il primo quesito sorge spontaneo: può tale carattere trasmigrare dall’attività di fabbricazione al risultato di questa? è pacifico affermare che l’art. 2050 c.c. (27) riguarda l’attività pericolosa svolta nell’organizzazione imprenditoriale: dalle parole della norma, intesa come rubrica e testo, si evince che il legislatore voglia intendere quale contesto della “attività pericolosa” una situazione dinamica e non anche il momento statico del danno derivante da cosa pericolosa; sorge quindi una necessaria correlazione con l’art. 2051 c.c. rubricato “Danno da cose in custodia” nel quale si legge: “Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”. Autorevole dottrina (28) sostiene che sia doveroso limitare l’applicazione dell’art. 2050 c.c. al momento dinamico dell’esercizio effettivo dell’attività pericolosa, applicando invece l’articolo 2051 c.c. alle ipotesi di danni causati direttamente da cose, macchine et cetera; a conferma di tale necessità è il riscontrato difetto di una visione unitaria di dottrina e giurisprudenza dominante. Affinché l’aggettivo “pericoloso” assuma il significato proprio di cui all’art. 2050 c.c., occorre che l’attività che lo riguardi sia suscettibile di produrre frequenti danni a terzi sulla base di rilievi statistici: non una mera possibilità bensì una grave probabilità; in base alla dicitura dell’articolo in questione l’attività è da giudicarsi come pericolosa “per la sua natura” o per “la natura dei mezzi adoperati”. La giurisprudenza ha tuttavia compreso nella fattispecie dell’art. 2050 c.c. anche il pericolo riguardante direttamente il prodotto o l’oggetto dell’attività, purché il danno si ricolleghi all’attività stessa (29): la Suprema Corte ha infatti precisato che l’esercizio di attività pericolosa ex art. 2050 c.c. ben può prescindere dall’attività in sé allorquando il pericolo si sia mate( 25) Due esempi sono: Corte D’app. Roma, 7 marzo 2005, n. 1015, in De Jure, www.iusexplorer.it; cfr. in dottrina gLIATTA g., il danno da fumo, in La resp. civile, 2007, pp. 556-560; Trib. Milano, 11 luglio 2014, n. 9235, in De Jure, www.iuexplorer.it; DI DONNA L., La responsabilità del produttore per i danni provocati dal fumo, in Contratto e impresa, 2012, pp. 1526-1548. (26) Così MONTANARO R., il tormentato percorso della giurisprudenza sui danni da fumo attivo, cit., p. 588. (27) Per un ulteriore approfondimento dell’art. 2050 c.c. si veda ROSSETTI M., responsabilità per l’esercizio di attività pericolosa, in Commentario del codice civile, Fatti illeciti, Torino, 2011, p. 198 e ss. (28) Così COMPORTI M., Fatti illeciti: le responsabilità oggettive, in il codice civile, Commentario, Milano, 2009, p. 167 e ss.; BIANCA M., Trattato di diritto civile, vol. v, op. cit., p. 707 e ss. (29) ibidem. RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 rializzato e trasfuso negli oggetti dell’attività pericolosa medesima con la condizione tuttavia che il pericolo si materializzi, seppure in una fase successiva, ma in dipendenza sufficientemente mediata all’attività di produzione (30). Ad una prima lettura potrebbe apparire che la pronuncia sopra menzionata legittimi le sentenze in materia di danno da fumo di sigarette che hanno trovato nell’articolo riguardante l’esercizio di attività pericolosa il fondamento normativo per condannare il produttore-distributore di sigarette alla riparazione dei danni: tuttavia, si sottolinea che per la Corte di Cassazione è necessario che il pericolo, seppure materializzato in una fase successiva a quella della produzione, sia comunque in stretta connessione con questa: ciò può apparire vero per ciò che concerne le “bombole di gas” che non sono state fabbricate per esplodere, ma tale considerazione non è altrettanto vera per le sigarette. Infatti, a essere dannoso è l’uso normale delle sigarette. In secondo luogo le sentenze in materia di risarcimento del danno da fumo riguardano non la produzione bensì l’etichettatura ed il confezionamento, ritenute non adeguate ad avvertire sulla nocività del consumo di tabacco in quanto non includevano sulla loro superficie le warnings: esaminando il noto caso Stalteri emerge che i giudici della Corte d’Appello di Roma addebitarono all’Ente Tabacchi Italiani, ora BAT, l’esercizio di attività pericolosa “per la ragione che i tabacchi, avendo quale unica destinazione il consumo mediante il fumo, contenevano in sé, per loro stessa natura e per loro composizione biochimica, una potenziale carica di nocività, potendo dal fumo derivare danno alla salute e, in molti casi, il peggiore dei mali, il cancro ai polmoni”. Tuttavia, non si può fare a meno di rilevare che il fatto che le sigarette siano nocive, dato incontrovertibile, non è in stretta connessione alla pericolosità della loro produzione alla stregua dell’art. 2050 c.c. A sostegno di questo assunto ci sono i commenti della dottrina, come già riportati nella premessa a tale articolo, alle sentenze che hanno invece qualificato come non pericolosa l’attività di produzione di sigarette: in particolare un Autore (31) ha affermato la non configurabilità di responsabilità per l’esercizio di attività pericolosa dal momento che l’art. 2050 c.c. è limitato ai danni ricollegabili ad attività che, nel loro svolgimento, creino situazioni di pericolo mentre nella produzione di sigarette la potenzialità dannosa non deriva in maniera immediata dal processo produttivo né da una intrinseca potenzialità lesiva bensì dall’uso reiterato nel tempo del tabacco. La sentenza del Tribunale di Roma che decise il primo grado (32) di giudizio del noto caso Stalteri, oltre ad aver negato la sussistenza del nesso causale tra consumo di sigarette e malattia tumorale, ha affermato che non fosse ravvisabile una (30) Cass. civ., 30 agosto 2004, n. 17369, in Foro it., 2004. (31) Trib. Roma, 11 febbraio 2000, in Giur. it., 2000, c. 1643, con nota di gIACChERO R. (32) Trib. Roma, 4 aprile 1997, n., in Danno e resp., con nota di CAFAggI F. LEgISLAzIONE ED ATTUALITà responsabilità ex art. 2050 c.c. in quanto il danno previsto dalla norma è quello causato dall’esercizio di attività; nella fattispecie, sostengono i giudici, il danno non è collegato alla produzione di sigarette ma al consumo successivo del prodotto ed inoltre non si può affermare che le sigarette contengano una potenzialità lesiva collegata allo svolgimento dell’attività di cui costituiscono il risultato. La dottrina (33) che commenta la sentenza da una parte muove una forte critica alla presa di posizione dei giudici in merito al nesso di causalità, affermando che l’accertata correlazione tra fumo di sigarette e neoplasia risale a studi americani degli anni Sessanta, dall’altra opera due considerazioni in ordine all’applicazione dell’art. 2050 c.c.: in primo luogo sostiene che la mancata applicazione del d.P.R. n. 224/1988 a favore della disciplina del codice è dovuta al fatto che l’assuefazione da fumo in questione risale ad anni antecedenti l’uscita della direttiva sul difetto da prodotti; in secondo luogo muove una critica alla scelta dei giudici di non ritenere applicabile l’articolo 2050 c.c., dal momento che ciò contraddice una giurisprudenza consolidata della Suprema Corte che ha ritenuto applicabile al produttore tale disciplina (34); si sottolinea che, ancora una volta, la giurisprudenza (35) a cui l’Autore fa riferimento riguarda la fattispecie delle bombole di gas, con le riflessioni già esposte che da ciò derivano. Di notevole importanza è invece la considerazione secondo la quale il d.P.R. n. 224/1998 in materia di prodotti difettosi non è stato utilizzato in quanto la fattispecie oggetto della sentenza risale ad un’epoca antecedente alla positivizzazione della direttiva sul danno da prodotti: ad oggi ogni caso simile dovrebbe quindi essere invece letto altresì alla luce della normativa europea sul danno da prodotti, in ossequio alla preemption del diritto comunitario; comprensibili sono le parole del giurista che, in commento all’obiter dictum (36) della Cassazione del 2009, afferma che la Suprema Corte non affronta il punto decisivo, ovvero l’inserimento del danno da fumo di sigarette nel danno da prodotti attraverso l’applicazione della direttiva europea. (33) CAFAggI F., nota a sent., cit. (34) ibidem. (35) Cass., 1 gennaio 1995, n. 567, in Foro it. rep., 1996, voce resp. civile, nn. 173-174, nella quale si legge che la norma (2050 c.c.) è stata ritenuta applicabile al produttore-distributore di bombole di gas anche nella ipotesi in cui il danno sia occorso successivamente alla perdita di disponibilità della cosa: “La presunzione, prevista dall’art. 2050 c.c. di responsabilità per i danni cagionati nello svolgimento di un’attività pericolosa, opera a carico di chi esercita l’attività di raccolta e distribuzione di gas in bombole, anche allorché la bombola, essendo stata consegnata all’utente è passata nella disponibilità di costui”. (36) MONATERI P.g., La cassazione e i danni da fumo: evitare un ennesimo isolamento italiano, in op. cit., p. 57 e ss., nel quale l’autore ricorda che le considerazioni svolte dalla S.C. in tale modo non costituiscono un precedente tecnico: “In senso tecnico abbiamo quindi una sorta di creazione pretoria al quadrato: una opinion resa obiter dall’estensore su una questione diversa da quella del giudizio di primo grado, che si trasfonde in un principio di diritto vincolante per il giudice del rinvio, laddove il primo giudizio diviene mera «occasione» della Juris dictio. In senso tecnico, quindi, le considerazioni svolte nella sentenza della Cassazione costituiscono un obiter dictum, e come tali non possono costituire un precedente in senso tecnico”. RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 Da quanto sopra esposto deduciamo che per le fattispecie nelle quali l’assuefazione si è maturata prima dell’entrata in vigore della direttiva 85/374/CEE la soluzione normativa deve essere ricercata all’interno delle norme in materia di responsabilità civile dettate dal nostro Codice Civile, con le opportune valutazioni sopra effettuate in merito alla catalogazione della produzione di sigaretta quale attività pericolosa o meno, mentre per i casi di danno da fumo la cui assuefazione risulta successiva all’ingresso in vigore della direttiva, questi devono essere regolati, a causa della preemption europea, secondo le norme del Codice del Consumo. Tuttavia non si può non tenere conto del fatto che una volta ammesso (37), anche se non condiviso dalla maggior parte della dottrina, che il carattere pericoloso può trasmigrare dalla “attività al prodotto”, complessa è la delimitazione dell’applicazione dell’art. 2050 c.c. e della direttiva 85/374/CEE; a riguardo c’è chi (38) ne fa derivare una diversa qualificazione giuridica del prodotto: la risposta fornita andrebbe quindi ricercata nella pericolosità della sigaretta in base all’uso normale che se ne fa, con conseguente mancata qualificazione del prodotto quale difettoso e non venendo quindi in considerazione la disciplina consumeristica. La constatazione della pericolosità della sigaretta per il suo uso normale conduce quindi a considerarla prodotto conforme: oggi la vera domanda che il giurista deve porsi è se sia corretto o meno qualificare la sigaretta alla stregua di un prodotto difettoso. Occorre ricordare un dato di carattere temporale prima di procedere all’analisi del Codice del Consumo: i casi di assuefazione assoggettabili a tale tipo di disciplina sono quelli successivi all’anno 1988, data di ingresso in vigore del decreto di attuazione della direttiva in materia di danno da prodotti, mentre l’obbligo di apporre le warnings è risalente alla l. n. 428 del 1990. Il primo articolo del d.P.R. n. 224/1988 (ora art. 114 cod. cons., d.lgs. n. 206/2005) prevede che “il produttore è responsabile del danno cagionato da difetti del suo prodotto”. La prima definizione utile che ci viene offerta dal Codice in questione è quella di “prodotto” ove per certo, risultandone addirittura superflua anche la specificazione, rientra la sigaretta in quanto all’art. 115 si legge che prodotto “è ogni bene mobile, anche se incorporato in altro bene mobile o immobile”. Le parole sembrano coincidere con la definizione di bene mobile offerta dal nostro Codice Civile, tuttavia il comma va letto alla luce delle precisazioni che seguono immediatamente, con l’aggiunta sottintesa: “che sia il risultato di un’attività professionale” (39). Centrale per l’oggetto della presente ricerca è l’art. 117 cod. cons. (40) che disciplina quale difettoso il prodotto che non offre al consumatore la si (37) Cass., 30 agosto 2004, n. 17369, in op. cit. (38) MONTINARO R., il tormentato percorso della giurisprudenza sul tema dei danni da fumo attivo, in op.cit.; BIANCA M., Trattato di diritto civile, vol. v, op. cit., p. 745 e ss. LEgISLAzIONE ED ATTUALITà curezza che ci si può legittimamente attendere: tra le circostanze di cui è doveroso tenere conto vi è il modo in cui il prodotto viene presentato, le sue caratteristiche palesi, le istruzioni e le avvertenze fornite (41). Tra le legittime aspettative che un consumatore può attendersi vi è certamente quella del rispetto degli standards di sicurezza; senza addentrarci nel merito delle normative tecniche risulta utile ricordare che cosa sono gli standards: il contenuto di una legislazione di settore, riferita cioè a prodotti specifici, che enumera i requisiti di sicurezza che deve avere il prodotto, spingendo il consumatore a fare legittimo affidamento sul fatto che ciò che ha acquistato presenti tutte le caratteristiche necessarie (42). Esempio di normativa tecnica riferita ad un prodotto specifico è la direttiva 2014/40/UE che disciplina i prodotti da tabacco sia nelle loro caratteristiche chimiche che nell’etichettatura e confezionamento, inserendo le cosiddette avvertenze combinate: saranno quindi certamente prodotti difettosi i pacchetti di sigarette che non contengano insieme al testo le immagini sulle nocività causate dal consumo di tabacco. Come già accennato, prima di tale novella vi era il solo obbligo di warnings consistenti in messaggi testuali, mentre prima del 1990 non vi era alcun tipo di normazione positiva che obbligasse i produttori alle avvertenze, tanto che, seppure nel contesto del 2050 c.c., i giudici che hanno voluto concedere il risarcimento del danno da fumo di sigarette hanno dovuto far discendere l’obbligo di adottare tutte le misure idonee ad evitare il danno dalla Costituzione: in particolare dall’articolo 32 Cost., tutelante il diritto alla salute (43). Con la positivizzazione dell’obbligo per il produttore di apporre avvertenze sui pacchetti, occorre chiedersi se le normative tecniche di settore, in particolare con riferimento alla l. n. 428/1990, siano qualificabili come standards minimi ovvero come standards massimi: per tali considerazioni si rimanda alla prima parte in merito a quanto si è detto in materia di danno da prodotto conforme. (39) CASTRONOvO C., La nuova responsabilità civile, op. cit., p. 688; BIANCA M., ibidem; gALgANO F., Trattato di diritto civile, vol. III, op. cit., p. 239 e ss. (40) BUSONI F., Commento all’art. 117 cod. cons., in Codice del Consumo Commentario, Padova, 2007, p. 835 e ss., nel quale si legge: “L’articolo riferisce, dunque, la difettosità alla legittima aspettativa di sicurezza, nozione quest’utlima che per quanto omessa dal d.P.R. 224/88, può oggi evincersi in via di interpretazione dall’attuale art. 103 C.d.C., comma 1 lett. a) - giacché riproduttivo dell’art. 2 D.L.vo 115/1995 in un medesimo corpo normativo - dal quale emerge il livello di rischio esigibile in raffronto al parametro dell’elevato livello di sicurezza per la salute”. (41) gALgANO F., Trattato di diritto civile, vol. III, op. cit., p. 248; BIANCA M., Trattato di diritto civile, vol. v, op. cit., p. 745-753. (42) CARNEvALI U., La norma tecnica da regola di esperienza a norma giuridicamente rilevante ricognizione storica e sistemazione teorica ruolo dell’UNi e del CEi, in ENRICO AL MUREDEN, (a cura di), La sicurezza dei prodotti e la responsabilità del produttore, op. cit., p. 62 e ss. (43) Così si sono espressi i giudici della Corte d’Appello di Roma nel noto caso Stalteri. RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 3. il caso Stalteri. Nel giudizio di primo grado del caso Stalteri il Tribunale aveva, come visto, negato l’applicabilità dell’art. 2050 c.c. alla produzione-commercializzazione delle sigarette: il secondo grado di giudizio ha invece ribaltato completamente la prima pronuncia, rendendo nota la fattispecie anche ai non addetti ai lavori e dando clamore mediatico al tema. gli eredi del signor Stalteri infatti proposero appello avverso la sentenza di primo grado deducendo che dovesse ritenersi provato il rapporto tra il cancro ai polmoni e la pratica del fumo e che l’obbligo di apporre le avvertenze sulla nocività del fumo, seppure in assenza di legge, traesse forza giuridica dalla tutela del diritto alla salute da parte della nostra Costituzione ed insistendo infine sulla catalogazione della fattispecie nell’ambito della responsabilità per esercizio di attività pericolosa alla stregua dell’art. 2050 c.c. (44). Con comparsa di risposta si costituiva in luogo del Monopolio l’Ente Tabacchi Italiani, successore a titolo particolare e subentrato nella produzione e commercio di tabacchi, facendo proprie le precedenti difese. Superata la questione pregiudiziale sollevata dall’E.T.I., in merito alla di questa sedicente mancata legittimazione passiva della causa e risoltasi a favore degli attori, i giudici si sono in ordine occupati della sussistenza del nesso di causalità, dell’applicabilità dell’art. 2050 c.c. ed infine del capitolo riguardante le warnings. in primis, la Corte d’appello di Roma ha dovuto analizzare la sequenza causale, ossia se la neoplasia polmonare potesse essere configurata quale effetto normale del fumo di sigaretta, ponendosi questa nelle normali linee di sviluppo della serie causale, secondo il criterio della probabilità scientifica; al fine di fare chiarezza sulla sussistenza o meno del nesso è stata espletata una consulenza medico-legale collegiale che ha concluso per la presenza della correlazione causale, scelta fortemente contestata dai consulenti tecnici dell’E.T.I. Successivamente la Corte si occupa, in poche righe, dell’applicabilità del- l’art. 2050 c.c. alla fattispecie, nelle quali viene sostenuta la pericolosità del- l’attività di produzione-commercializzazione di tabacchi da parte dell’E.T.I. per la ragione che i tabacchi, essendo destinati unicamente al fumo, contenevano in sé per loro natura e composizione bio-chimica una potenziale carica di nocività. Risulta utile nella valutazione delle parole della Corte ricordare la teoria generale sopra esposta sull’art. 2050 c.c.: la valutazione effettuata dalla dottrina in merito alla semantica dell’articolo vuole che l’utilizzo nella rubrica del termine “esercizio”, di certo contenente eco dell’articolo 2082 c.c., sia da leggere come riferimento della “pericolosità”, relativa dunque alle tecniche di produzione utilizzate dall’imprenditore e risultando di conseguenza marginale la nocività in sé del prodotto (45). (44) Corte d’Appello di Roma, 7 marzo 2005, cit. LEgISLAzIONE ED ATTUALITà La dottrina in commento alla sentenza ha specificato poi che si rivengono solo due sentenze che rinvengono nell’attività di produzione di sigarette il carattere della pericolosità richiesto dall’art. 2050 c.c.: la pronuncia sul caso Stalteri oggetto d’esame, appunto, e il noto obiter della Cassazione del 2009; unitamente a queste è doverosa l’aggiunta della sentenza del Tribunale di Milano del 2014 che ha concesso il risarcimento del danno da fumo di sigarette, seppure con una riduzione del 20% in ragione del concorso colposo del danneggiato alla stregua dell’art. 1227 c.c. (46). Infine, in merito alle warnings la Corte d’Appello di Roma afferma che già molti anni prima dell’entrata in vigore della l. n. 428/1990 si avvertiva la necessità di informare i consumatori sul carattere altamente nocivo delle sigarette ed esercitando l’E.T.I., in virtù proprio di tale nocività, attività pericolosa alla stregua dell’art. 2050 c.c., questa avesse a tenore della norma l’obbligo di utilizzare tutte le misure idonee ad evitare il danno: obbligo che sicuramene all’epoca del fatto non era rintracciabile in una norma di rango ordinario ma, poiché la produzione di tabacco aveva come insidia proprio la salute, andava ricercato proprio nella tutela alla salute da parte della nostra Costituzione (47). Un autore (48) che sovente e a più riprese si è occupato di risarcimento del danno da fumo di sigarette, in sede di commento all’obiter della Suprema Corte del 2009, ha dedicato poche parole anche al caso Stalteri: questo, criticando dapprima la qualificazione dell’attività di produzione di sigarette quale pericolosa, ha poi affermato che far discendere l’obbligo di apporre le warnings dalla tutela alla salute dell’art. 32 Cost. dovrebbe di fatto comportare un divieto assoluto di commercializzazione delle sigarette e non una responsabilità del produttore: a parere dell’Autore quindi non saremmo all’interno delle categorie Calabresiane della Lability ma della inalienability. Il caso in esame non vide mai una pronuncia della Corte di Cassazione che, interpellata, non fece altro che constatare l’intervenuta cessazione della materia del contendere: la mancata revisione della Suprema Corte non permise dunque il formarsi di alcun tipo di precedente. (45) COMPORTI M., Fatti illeciti: le responsabilità oggettive, in op. cit., p. 173, nella quale si legge: “Si dice che la rubrica della norma corrisponderebbe maggiormente all’effettiva intenzione del legislatore, in quanto avrebbe riferimento all’attività esercitata nell’ambito dell’impresa, ossia ad una successione continuata e ripetuta di atti che si sviluppa nel tempo e coordinata nei fini”. (46) BULCANI E., Danni da fumo attivo: la responsabilità dei produttori di sigarette, in resp. civile e prev., 2013, p. 757 e ss. (47) Corte d’App. di Roma, 7 marzo 2005, cit., p. 476 e ss. (48) MONATERI P.g., La Cassazione e i danni da fumo: evitare un ennesimo caso di “isolamento italiano”, in op. cit., pp. 59-60. RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 4. La riapertura in italia della questione della “tobacco litigation”. L’ultimo paragrafo del presente elaborato è dedicato ad una recente sentenza (49) che, dopo nove anni dal caso Stalteri, ha riaperto nel nostro ordinamento la questione della tobacco litigation. La fattispecie vede quali attori i prossimi congiunti di An. Sc., deceduto il 23 novembre 2014, lamentare il risarcimento del danno per la morte del de cuius a causa di una neoplasia polmonare riconducibile al “consistente” consumo di sigarette operato dalla vittima sin dall’età di 15 anni ossia a decorrere dal 1965. I convenuti della domanda sono la British American Tobacco Italia (già Ente Tabacchi Italiani s.p.a.) e la Philip Morris Italia s.r.l. L’assuefazione risultò maturata in tempi ampiamente antecedenti sia al 1991, anno di ingresso in vigore delle warnings, sia al 1988, anno di entrata in vigore della direttiva 85/374/CEE sul danno da prodotti, con le relative conseguenze. Come per il caso Stalteri il Collegio ha affrontato, in ordine, il problema del nesso di causalità, della qualificazione della produzione-commercializzazione di sigarette alla stregua dell’art. 2050 c.c., del concorso di colpa del danneggiato e ha infine stabilito il quantum del risarcimento. Per quanto riguarda il nesso di causalità tra fumo di sigaretta e neoplasia polmonare, altrimenti detto tumore ai polmoni, i CTU hanno considerato da una parte i rilievi scientifici riguardanti la primitività del cancro, dall’altra le testimonianze dei familiari nonché del medico di famiglia della vittima a conferma dell’ingente numero (due pacchetti all’incirca) di sigarette fumate quotidianamente dal 1965 al 2004, anno della morte: di fatto i CTU affrontando il primo punto in discussione confermarono in virtù di “considerazioni insuperabili” la diagnosi del carcinoma primitivamente polmonare, che confermava la possibile correlazione, così come per il caso Stalteri, tra il fumo di sigarette e la patologia. I CTU aggiunsero inoltre che non risultavano altri potenziali elementi di rischio cancerogeno idonei alla stregua dell’art. 41 c.p. sufficienti a causare, da soli, la neoplasia polmonare. Quanto alla collocazione temporale del danno, e dunque dell’inquadramento giuridico, i giudici hanno affermato che i 26-27 anni in cui la vittima ebbe a fumare prima dell’entrata in vigore della l. n. 428/1990 sono per ciò molto più rilevanti dei 13-14 anni del periodo successivo: ciò ha rilevato primariamente nell’applicazione del primo comma dell’art. 1227 c.c. sul concorso colposo del danneggiato. La sentenza in esame ha collocato nuovamente l’attività di produzione- distribuzione di sigarette nell’alveo della responsabilità per esercizio di attività pericolose, a conferma della pronuncia sul caso Stalteri e dell’obiter dictum (49) Trib. Milano, 11 luglio 2014, in De Jure, www.iusexplorer.it LEgISLAzIONE ED ATTUALITà della Cassazione del 2009, creando tra i tre casi giurisprudenziali un fil rouge tale da poter essere identificato quale filone giurisprudenziale giudicante la produzione-distribuzione di sigarette attività pericolosa. Del resto i giudici del Tribunale di Milano innanzitutto hanno citato le due sentenze sopra menzionate, per poi affermare di ritenere quale attività pericolosa anche quella finalizzata al commercio e volta all’uso da parte del consumatore di un prodotto idoneo a cagionare un danno, in quanto l’attività che diffonde pericolo nel pubblico deve per sua natura definirsi pericolosa, ancor più se il pericolo deriva dall’uso normale che se ne fa del prodotto. Sulla qualificazione della produzione di sigarette quale attività pericolosa si ripropongono le perplessità fatte presenti in tutta la ricerca, dato che neppure l’ennesima stringente motivazione in materia, quale quella del Tribunale meneghino, è riuscita a convincere fino in fondo. La Corte ha ulteriormente argomentato che la scelta di applicare l’art. 2050 c.c. è oggettiva, non rilevando la conoscenza in quanto fatto notorio della nocività del fumo: a essere dirimente è la scelta da parte dell’ordinamento di imputare il costo del danno al soggetto che si trova nella migliore posizione per evitarlo, oltre che a chi ne può sopportare il peso economico nel migliore dei modi; si tratta, per lo meno in via parziale, dell’utilizzo dell’analisi economica del diritto, area in cui vengono meno le regole della responsabilità civile in favore di una distribuzione dei costi che riposa su altri criteri. Ovviamente non si vuole con questo affermare che i giudici hanno preso una decisione prescindendo dalle norme provenienti dal nostro codice civile del 1942, bensì che certamente si siano resi conto che a causa dell’evoluzione della nostra società è necessaria un’indagine diversa per certi tipi di fattispecie. Infine, in applicazione dell’art. 1227 c.c., il Tribunale ha poi ridotto il quantum debeatur dei convenuti dalla somma di Euro 970.000 a Euro 776.000, proprio perché è stata ritenuta decisiva in tale “gradino” successivo la condotta del fumatore che, anche a seguito delle warnings della l. n. 428/1990, ha continuato a fumare contribuendo a danneggiare se stesso; la sua condotta rileva alla stregua del comma 1 dell’art. 1227 c.c. come concorso colposo del danneggiato idoneo ad una mera riduzione del quantum in suo favore, in base alla gravità della colpa, non comportando l’esclusione del risarcimento nell’an. Quanto alla domanda rivolta nei confronti di Philip Morris Italia s.r.l., è risultata decisiva la circostanza per cui l’odierna società fu costituita nel 2001 e pertanto nessun significativo apporto causale della neoplasia può essere imputato alla società: l’unica responsabilità a venire in rilievo è quella della British American Tobacco Italia, già Ente Tabacchi italiani. Nel commentare la sentenza in esame, autorevole dottrina (50) ricorda (50) PONzANELLI g., i danni da fumo: la nuova giurisprudenza milanese, in Corr. giur., 2014, p. 1361 e ss. RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 che molte pronunce hanno escluso invece la responsabilità del produttore-distributore in virtù della giuridicizzazione del principio di buon senso “chi è causa del suo mal pianga se stesso”, valorizzando quella forma di auto-responsabilità di cui non si può escludere l’influenza per lo meno dal 1991 in poi; avverte tuttavia che è doveroso considerare il lungo spazio temporale antecedente al 1991, in cui i fabbricanti o distributori, pur consapevoli dell’alta dannosità del prodotto che immettevano nel commercio, non avevano informato in modo adeguato, ovvero in alcun modo, i consumatori. Relativamente al- l’applicazione della responsabilità per esercizio di attività pericolose ai sensi dell’art. 2050 c.c. alla nostra fattispecie, afferma l’Autore che per riconoscere l’applicabilità del menzionato articolo alla produzione-distribuzione di sigarette è antecedentemente doveroso ritenere possibile il fenomeno della “trasmigrazione della pericolosità” dall’attività al prodotto, che si rinviene nei riscontri giurisprudenziali sulla distribuzione di gas in bombola ma la cui estensione analogica alla fattispecie dei danni da fumo desta, a parere dell’Autore e come più volte ripetuto, alcune perplessità (51). La pronuncia del tribunale meneghino enuncia nuovamente il principio della responsabilità del convenuto produttore-distributore di sigarette per non avere avvertito i consumatori dei rischi collegati all’uso di sigarette alla stregua dell’art. 2050 c.c.: il Tribunale di Milano, assieme alla Corte d’Appello di Roma, ha preso una posizione netta ma, alla luce degli elementi analizzati in tutto l’elaborato, risulta assai difficile, se non impossibile, cercare di capire cosa accadrà in futuro nelle fattispecie di danno da fumo di sigarette. 5. Brevi considerazioni di analisi economica del diritto. Spostando l’attenzione sugli standards, emerge che il costo marginale di un prodotto, ovvero il prezzo per ogni unità aggiuntiva, è formato altresì dal rispetto della normativa tecnica; questo sia che ciò avvenga in modo diretto che indiretto: per costo diretto si intende il prezzo che ciascun imprenditore affronta per adeguarsi di volta in volta ai nuovi standards che vengono imposti a livello federale nel caso americano e comunitario nel caso europeo, mentre per costo indiretto si intende quel prezzo che l’imprenditore affronta a causa degli standards, quali il calo delle vendite a seguito delle avvertenze obbligatorie per determinati prodotti. Prendendo in considerazione il fumo di sigarette, la novella di gennaio 2016 che obbliga alle avvertenze combinate ha certamente comportato un aumento dei costi diretti relativi al prezzo della stampa delle immagini e soprattutto un costo indiretto consistente nella diminuzione degli utili derivante dal calo delle vendite in ragione dell’effetto deterrente delle nuove avvertenze combinate (52). (51) FUSARO A., attività pericolose e dintorni. Nuove applicazioni dell’art. 2050 c.c., in riv. dir. civ., 2013, p. 1337 e ss. LEgISLAzIONE ED ATTUALITà Del resto più il costo di investimento in sicurezza e prevenzione sostenuto da parte dell’imprenditore sale, più il costo per la società in termini di danni da prodotto tende a diminuire, sancendo un rapporto inversamente proporzionale dei costs tra produttore-distributore e consumatore conducente inevitabilmente a un “conflitto” che vede come attore principale il prezzo, e che pertanto non è risolvibile nel modo economicamente più efficiente con i soli strumenti offerti dal diritto. Un approccio di diverso tipo è quello offerto dalla scuola dell’analisi economica del diritto (53), che si propone quale obiettivo la risoluzione dei problemi giuridici mediante una comparazione tra i diversi gradi di efficienza economica delle soluzioni ipotizzabili: il massimo esponente di tale scuola è guido Calabresi (54), autore nei primi anni Settanta di un’opera intitolata “The cost of accidents” scaturita dalla necessità di studiare il tema dell’allocazione dei costi in occasione della diffusione dei veicoli, che tosto si allargò a quella della responsabilità del fabbricante di automobili ed alla standardizzazione delle regole in tema di sicurezza dei veicoli; a rendere attuale il presente manuale, tanto da comportarne una recente ristampa, è, come sostenuto in dottrina (55), una “dimensione nuova” del sistema giuridico nazionale, nella prospettiva dell’armonizzazione di importanti settori del diritto dei Paesi dell’Unione Europea, in particolare dei rapporti di diritto privato inerenti alla produzione all’interno del mercato comune. Negli anni della pubblicazione dell’opera di Calabresi, il nostro ordinamento (seppure non vanno taciuti alcuni contributi in tal senso, come quello di Trimarchi (56) che, nell’analisi dell’articolo 2050 c.c., interpreta la scelta (52) In tale senso anche la previsione del legislatore, come si evince dalla lettura della Relazione al decreto di attuazione alla direttiva 2014/40/UE, ove si legge: “Secondo stime della Commissione, la direttiva 2014/40/UE potrebbe determinare un calo del 2% dei consumi, in un periodo di 5 anni. Ciò equivale a circa 2,4 milioni di fumatori in meno nell’UE, con un risparmio annuale sul piano dell'assistenza sanitaria pari a 506 milioni di euro. Il tabacco, infatti, è la più grande minaccia, evitabile, per la salute e responsabile di quasi 700.000 morti ogni anno”, in http://www.governo.it/sites/governo.it/files/rELaZioNE_iLLUSTraTiVa_11.pdf. (53) CALABRESI g., Cos’è l’analisi economica del diritto?, in rivista del diritto finanziario e scienza delle finanze, 2007, pp. 343-347, nelle quali in merito all’importanza della scuola dell’analisi economica del diritto si legge: “E dopo tanti anni i fatti mi hanno dato ragione: quello che negli anni sessanta a certi non sembrava studio serio del diritto lo è diventato ai nostri giorni, a tal punto che negli Stati Uniti alcuni pensano che l’approccio economico sia il solo metodo serio di studio del diritto”. (54) PERRONE A., SEMEghINI D., intervista a Guido Calabresi, in Europa e diritto privato, 2013, pp. 747-760. (55) AL MUREDEN E., Presentazione, in Costo degli incidenti e responsabilità civile, CALABRESI g., Milano, 1975 (ed. rist. 2015). (56) TRIMARChI P., rischio e responsabilità oggettiva, op. cit., pp. 35 e 277; proprio in riferimento ai contributi innovatori di Trimarchi risulta opportuno ricordare le parole spese in merito da guido Calabresi in PERRONE A., SEMEghINI D., intervista a Guido Calabresi, cit., p. 749, nella quale si legge: “Invece Trimarchi - proprio perché era uno che non poteva non fare bene in tutto - ha voluto studiare l’economia che il piano degli studi gli diceva di affrontare insieme al diritto. E così, per una ragione molto diversa, si è trovato ad avere la stessa visione di Coase e mia”. RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 dell’ordinamento di addossare all’imprenditore il costo del rischio che egli crea come un sistema per non rendere alcuni settori d’impresa attivi dal punto di vista economico e passivi dal lato sociale, sulla base del brocardo latino ubi commoda, ibi incommoda; in seguito precisa inoltre che le misure di sicurezza, doverose a norma dell’art. 2050 c.c., trovano il loro limite proprio nei costi, escludendo la responsabilità dell’imprenditore per quelle che risultino a tal punto costose da paralizzare l’attività economica dell’esercente attività) era ben lontano da una prospettiva sistematica di tal genere: senza enumerare le tendenze innovative in tema di responsabilità civile affrontate nel primo capitolo del manuale di Calabresi, inerenti soprattutto alla RC Auto, sarà opportuno cercare di comprendere, per quanto risulti possibile per il presente articolo, il sistema di analisi della responsabilità civile che l’Autore prospetta nel corso della trattazione. già nella prefazione l’Autore avverte dell’intenzione di indagare quali siano le mire di formule come “distribuzione del rischio” e “distribuzione delle risorse”, della loro coerenza e fino a che punto un sistema di negligence sia in grado di idare risposte: il risultato dell’analisi, continua l’Autore, non è di certo un progetto di riforma valido per tutti i tipi di sinistri, ciò che rimane è un metodo di analisi avanguardista per una migliore lettura della responsabilità civile (57). L’Autore intende sgomberare il terreno da alcuni errori frequenti: in primo luogo, la società non vuole evitare i sinistri a tutti i costi; le leggi economiche non forniscono risposte assolute; prosegue poi con la disambiguazione della perifrasi distribuzione del rischio riconducendola a tre significati, rectius metodi, tra loro differenti, quali il frazionamento dei danni, l’imputazione dei danni in capo ai soggetti che sono in grado di sostenerli e l’imputazione del danno a quelle attività che li causano, che è sistema per rimuovere i costi primari dei sinistri; in ultimo afferma che si tratti di un “mito” il postulato per cui vi debba essere una connessione finanziaria tra chi subisce il danno e chi lo arreca, criticando il sistema della colpa quale identificata dal 2043 c.c.: la scelta di chi deve pagare i costi dovrebbe essere rimessa ad una ponderazione più “alta”, sulla base della funzione che si vuole attribuire alla responsabilità civile. A conferma del “primo errore” si può citare proprio la produzione e commercializzazione di sigarette, attività causante di certo numerosi sinistri, ma altresì attività che di sicuro l’ordinamento non intende proibire per il suo notevole apporto economico e risultando quindi decisivo, data la mancata intenzione di eliminare i sinistri, il metodo che adotterà per alleggerirne il costo gravante sulla società. Le funzioni della responsabilità civile, chiamate goals, sono in primo luogo il suo tendere sempre alla giustizia ed in secondo luogo l’obiettivo della riduzione del costo degli incidenti; i fini di tale seconda funzione, chiamati sub-goals, sono costituiti dalla riduzione del numero e della (57) CALABRESI g., Costo degli incidenti e responsabilità civile, op. cit., p. 33. LEgISLAzIONE ED ATTUALITà gravità dei sinistri e la riduzione che il costo degli incidenti causano alla società rispettivamente etichettati quali costo primario e secondario. I metodi per la riduzione della gravità e del numero dei sinistri, ovvero del costo primario, possono consistere nella proibizione di certe attività ovvero nel renderle più costose, mentre per alleviare la società dal costo che gli incidenti causano a questa, l’Autore propone quello del “deep pocket” e del “frazionamento dei danni”: in base al metodo della “tasca profonda”, il sistema migliore per ridurre i costi secondari è quello di trasferirli su categorie di persone la cui posizione economica meno ne risentirebbe: ciò poggia le basi sulla teoria dell’utilità marginale del denaro secondo la quale togliere la stessa quantità di denaro ad un “povero” o ad un “ricco” non ha eguali effetti, avendo un riscontro minore per quest’ultimo. Tecniche invece di frazionamento dei danni sono l’assicurazione sociale, l’assicurazione privata volontaria e quella della responsabilità aziendale che si snoda nell’imporre il carico delle perdite a chi è in grado di sostenerle nel tempo, ovvero imputare i danni a chi è in grado di trasferirli, almeno in parte, sugli acquirenti dei propri prodotti; l’assicurazione sociale è un tipo di assicurazione generalizzata per tutti i tipi di sinistri a carico dello Stato, la cui ripartizione dei premi per il mantenimento del fondo assicurativo sarebbe diversa a seconda che si tendesse al frazionamento totale ovvero al criterio della “tasca profonda”. In conclusione, l’Autore afferma di non aver cercato di suggerire un sistema alternativo a quello della colpa, in quanto qualunque degli approcci prospettati si preferisca potrebbe fornire risposte ancora più negative di quello fondato sulla negligence, bensì di voler dimostrare la “premessa più generale” ossia che è possibile sviluppare un sistema misto che sotto ogni profilo sia migliore (58). La nuova direttiva in materia di tabacco, la 2014/40/UE, aumentando il livello di standards richiesto ai produttori-distributori di sigarette, ha di certo agito in materia di costo primario, proprio perché riducendosi grazie a questi il consumo di tabacco, si dovrebbe avere una riduzione del numero e della gravità dei sinistri; la direttiva europea sul danno da prodotti invece, che presenta un sistema di responsabilità oggettiva, ha imputato il costo degli incidenti a quella categoria, i produttori, che possono evitare gli incidenti nel modo più economico possibile, come del resto già la giurisprudenza italiana aveva tentato di fare qualificando l’attività di sigarette come “pericolosa” alla stregua dell’art. 2050 c.c. Nel sistema vigente, il rispetto da parte dell’imprenditore della normativa tecnica garantisce la qualificazione del prodotto come non difettoso, escludendo la risarcibilità del danno prodotto; ma se gli standards antecedenti a questi ultimi, le prime warnings del 1991, fossero considerate alla stregua (58) CALABRESI g., Costo degli incidenti e responsabilità civile, op. cit., passim. RASSEgNA AvvOCATURA DELLO STATO - N. 4/2016 dell’ordinamento statunitense, ossia unicamente quali elementi di prova non idonei ad escludere certamente la risarcibilità a causa della loro qualificazione quali minimum standards, risulterebbero risarciti i costi alla società per la contrazione delle neoplasie? Sono necessari due ordini di considerazioni: la prima di ordine procedurale, in quanto per i consumatori si paventerebbe la difficoltà di non poter agire collettivamente a causa di un’inadeguata introduzione della class-action; la seconda di ordine concettuale, per cui nonostante il progressivo miglioramento degli standards risulterebbe impossibile eliminare i costi per la società, ciò perché l’ordinamento stesso, come ci avverte Calabresi nella sezione dedicata agli “Errori più frequenti”, non vuole evitare i sinistri a tutti i costi. Ciò vuole dire che la società, o meglio i consumatori, dovranno sempre sostenere dei costi non paragonabili a quelli dei produttori, essendo quelli dei secondi relegati alla mera sfera economica: tutto questo potrebbe suggerire l’adozione di un approccio diverso, quale quello dell’assicurazione sociale letta attraverso la lente della cosiddetta “deep pocket”: l’attuazione consiste nella formazione di un fondo assicurativo, che venga alimentato attraverso il pagamento dei premi sotto forma di contributi erariali allo Stato da parte di consumatori e produttori di sigarette, con la maggiore partecipazione di questi ultimi, che permetterebbe di indennizzare le vittime dell’assuefazione e i rispettivi familiari. La visione sopra prospettata riposa nella convinzione che un approccio prettamente giuridico al problema consistente nell’addossare i costi all’uno o all’altro attore non condurrebbe comunque ad una soddisfacente risoluzione della questione per le motivazioni sopra delineate; prescindendo poi dalla responsabilità e scivolando nello stragiudiziale, si passerebbe da un incerto risarcimento a favore di qualche vittima ad un sicuro indennizzo a favore di tutte (59). (59) Sulla possibilità di ricercare soluzioni alternative STALTERI M.D., il problema della responsabilità del produttore di sigarette e il caso Cipollone: l’“assalto alla cittadella” è realmente cominciato?, in riv. dir. civile, 1994, pp. 231-232, nel quale si legge: “I noti meccanismi di loss-spreading potrebbero addirittura operare, in tali casi, mediante la tassazione del prodotto (o della materia prima) che ha provocato quegli incidenti; le somme così raccolte confluirebbero tutte in un fondo monetario, dal quale le future vittime potrebbero attingere per un risarcimento. Questi ultimi sviluppi sono ben noti all’ordinamento statunitense: si pensi al National Childhood Vaccine injury act, approvato nel 1986, il quale prevede un sistema di risarcimento no-fault (cioè a prescindere da qualsiasi colpa del produttore), finanziato tassando il prodotto. Il risarcimento verrà destinato a tutti coloro che, anche a distanza di tempo, contraggano una delle malattie eziologicamente ricollegabili, a rigor di scienza, all’uso di un vaccino”. Contributididottrina Le conseguenze dell’inosservanza del contraddittorio alla luce del raffronto fra i valori costituzionali sottesi all’istituto del contraddittorio e quelli sottesi all’esercizio dell’azione impositiva (Primo ciclo di seminari di aPProfondimento di temi tributari. Quarto incontro: “le deduzioni difensive nel Procedimento e la conformazione degli obblighi dell’amministrazione”, corte di cassazione, aula magna, 20 ottobre 2016) Gianna Maria De Socio* sommario: 1. le varie forme di tutela del contraddittorio nel diritto positivo e conseguenze della loro violazione. a) Partecipazione obbligatoria del contribuente al procedimento con obbligo dell'amministrazione di motivare sulle ragioni addotte dal contribuente (c.d. motivazione rafforzata). b) Partecipazione obbligatoria del contribuente al procedimento di verifica, ma senza obbligo di motivazione rafforzata da parte dell'amministrazione (accertamenti sintetici ex art. 38 co. 7 d.P.r. 600/1973). c) Partecipazione “eventuale” al procedimento (rimessa alla discrezionalità dei verificatori). d) Partecipazione “extra procedimentale”, ossia dopo la chiusura della verifica, ma prima dell'atto impositivo. e) la partecipazione dopo l'adozione dell’atto (ma prima della sua definitività): l'accertamento con adesione. f) interpello preventivo: partecipazione anticipata rispetto alla stessa operazione economica -2. contraddittorio endoprocedimentale. duplice regime giuridico. Possibili spunti per il superamento della dicotomia - 3. conclusione. 1. le varie forme di tutela del contraddittorio nel diritto positivo e conseguenze della loro violazione. Il coinvolgimento del contribuente nelle varie fasi del procedimento tri (*) Avvocato dello Stato. Le opinioni espresse nel presente intervento rappresentano il pensiero dell’Autrice e non necessariamente quello della Istituzione presso la quale presta servizio. RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 butario, sempre più utilizzato dal legislatore negli ultimi anni, ha portato alla progressiva trasformazione del modello tradizionale, tipicamente autoritativo, in forme nuove caratterizzate dal contraddittorio (talvolta necessario) con l'Amministrazione. In alcuni casi la partecipazione del contribuente è indispensabile per la valida utilizzazione di alcuni strumenti accertativi previsti dalla legge (soprattutto quelli fondati su dati statistici o valori di mercato). La rilevanza che il legislatore attribuisce alla partecipazione è espressa dalla gravità delle conseguenze connesse alla mancata attivazione del contraddittorio, che possono arrivare in alcuni casi anche alla nullità dell'atto. Tuttavia la partecipazione al contraddittorio non genera solo diritti, ma in alcuni casi anche oneri, essendo previste dalla legge conseguenze pregiudizievoli a carico del contribuente che, invitato a fornire notizie o documenti, non vi ottemperi (1). Tale aspetto non può essere trascurato, laddove l'interprete sia chiamato a valutare l'estensione di particolari forme di contraddittorio al fuori dai casi espressamente previsti. Il diritto positivo pone in luce l'esistenza di una pluralità di modi di partecipazione del contribuente al procedimento volto alla adozione dell'atto tributario. Passando in rapida rassegna le principali forme di “partecipazione” si può delineare un sistema a tutele decrescenti, che possono essere ricondotte ai seguenti tipi essenziali: a) Partecipazione obbligatoria del contribuente al procedimento con obbligo dell'amministrazione di motivare sulle ragioni addotte dal contribuente (c.d. motivazione rafforzata). Tale tipo di partecipazione (obbligatoria) si riscontra nel caso degli accertamenti fondati sugli studi di settore e su accertamenti parametrici, in relazione ai quali la Corte di legittimità (2) ha affermato che lo studio di settore o l'accertamento parametrico -“essendo un'estrapolazione statistica a campione di una platea omogenea di contribuenti” -“soffre delle incertezze da approssimazione dei risultati proprie di ogni strumento statistico”, sicchè richiede un adattamento alla concreta realtà reddituale del contribuente. Il contraddittorio è “l'elemento determinante per adeguare alla concreta realtà economica del singolo contribuente l'ipotesi dello studio di settore”. (1) È il caso della disposizione contenuta nell'art. 32 co. 7 D.P.R. 600/1973, secondo cui “le notizie ed i dati non addotti e gli atti, i documenti, i libri ed i registri non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti dell'ufficio non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, ai fini del- l'accertamento in sede amministrativa e contenziosa. di ciò l'ufficio deve informare il contribuente contestualmente alla richiesta”. ConTRIbuTI DI DoTTRInA L’invito al contraddittorio è finalizzato, dunque, ad acquisire le ragioni del contribuente, in ordine alle quali l’Amministrazione è tenuta a pronunciarsi specificamente (3). In tutti questi casi la partecipazione necessaria del contribuente (a pena di nullità dell'atto) si giustifica in funzione della “labilità” degli elementi che fondano l'avviso (presunzioni semplici). L'omesso invito al contraddittorio o la mancata motivazione delle ragioni specifiche per le quali l'Amministrazione ritiene di non accogliere le difese del contribuente comporta, per costante giurisprudenza della Corte di legittimità, la nullità dell'avviso (4). ove ciò si verifichi il contribuente è esonerato dal provare l'infondatezza della pretesa, assorbita dalla questione della invalidità dell'atto impositivo. Analoga modalità partecipativa è prevista con riferimento alla contestazione di abuso del diritto. Tanto nella vecchia formulazione prevista dall'art. 37 bis del D.P.R. 600/1973 (5), quanto nella attuale formulazione prevista ora dall'art. 10-bis, (2) L'orientamento trae origina da Cass. SS.uu. 26635/2009, emessa sulla scia dei principi affermati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 105/03. (3) In un procedimento accertativo, come quello degli studi di settore, la motivazione dell'atto non è più solo lo strumento con cui l'Amministrazione si limita a “manifestare all'esterno” le ragioni per le quali ritiene di esercitare il suo potere autoritativo tradizionale (svolgendo la classica funzione di provocatio ad opponendum), come potrebbe essere per un accertamento a tavolino, ma esprime in una valutazione di sintesi l'esito della partecipazione del contribuente al procedimento, dando conto delle ragioni per le quali -proprio in accoglimento delle osservazioni del contribuente -l'accertamento viene ridotto o rettificato. (4) viceversa se è il contribuente a non sfruttare l'opportunità di contraddittorio che gli viene offerta dalla legge in fase procedimentale, la giurisprudenza della Cassazione ritiene che non vi sia un pregiudizio in termini di esercizio della successiva difesa giurisdizionale (Cass. civ. Sez. v, Sent., 30 settembre 2016, n. 19518), in quanto il giudice tributario può “liberamente valutare tanto l'applicabilità degli standard al caso concreto, da dimostrarsi dall'ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all'invito al contraddittorio in sede amministrativa”. (5) In relazione all'art. 37 bis (che regolava la figura dell'abuso del diritto prima della riforma) la problematica posta era quella della distinzione tra ipotesi tipizzate (quelle previste nel terzo comma del- l'art. 37 bis, per le quali era prevista l'adozione dell'avviso dopo 60 giorni dalla segnalazione al contribuente della verifica a suo carico e la motivazione “rafforzata” ) e le ipotesi innominate, di matrice giurisprudenziale sulla sicia della sentenza halifax della Corte di giustizia causa C-255/2002 per le quali - a stretto rigore - non era previsto il rispetto dell'iter previsto dal 4° comma. Com'è noto, la questione era stata rimessa alla Corte Cost. proprio dalla v sezione della Cassazione che aveva valorizzato la natura sovranazionale dell'istituto e la sua preminenza nell'ordinamento anche interno il che ne giustificava la rilevabilità anche d'ufficio, il che sembrava contrastante con articolate garanzie procedimentali prescritte dal 4° comma dell'art. 37 bis. La Corte Costituzionale (sentenza n. 132/2015) però ha deciso la controversia solo dopo che la Cassazione (con 25759/2014 e 406/15,) si era già pronunciata nel senso di ritenere applicabile alle ipotesi di abuso innominate le garanzie di cui all'art. 12 co. 7 L. 212/2012, sicchè la Corte costituzionale ha ritenuto che la parità di trattamento, di cui dubitava il giudice remittente, fosse salvata non già in virtù della eliminazione della regola del contraddittorio per le ipotesi nominate, ma ritenendo estesa la regola del contraddittorio prevista dall'art. 12 co. 7 L. 212/2000 alle ipotesi innominate. RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 L. 27 luglio 2000, n. 212, (disciplina dell'abuso del diritto o elusione fiscale), in vigore dal 1 gennaio 2016, si prevede il contraddittorio necessario e la motivazione “rafforzata” (6). In queste ipotesi la necessità del contraddittorio e della motivazione rafforzata si spiega in considerazione dell'esigenza di “limitare il rischio di una indiscriminata applicazione della figura dell'abuso del diritto a qualsiasi fattispecie negoziale, in modo da evitare la insorgenza di controversie tributarie su accertamenti fiscali che potrebbero presentare elevati rischi di aleatorietà per l'ufficio finanziario” (7). b) Partecipazione obbligatoria del contribuente al procedimento di verifica, ma senza obbligo di motivazione rafforzata da parte dell'amministrazione (accertamenti sintetici ex art. 38 co. 7 d.P.r. 600/1973). In base al comma 7 dell'art. 38 D.P.R. 600/1973 l'ufficio che procede alla determinazione sintetica del reddito complessivo ha l'obbligo di invitare il contribuente a comparire di persona o per mezzo di rappresentanti per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell'accertamento (oltre che di avviare il procedimento di accertamento con adesione ai sensi dell'articolo 5 del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218). In questi casi il contraddittorio è dunque obbligatorio (a pena di nullità), ma non vi è un onere specifico di motivare sulle ragioni dedotte, dunque le censure attinenti la motivazione recedono da vizio di legittimità a vizio di merito. c) Partecipazione “eventuale” al procedimento (rimessa alla discrezionalità dei verificatori). Si tratta di una partecipazione eventuale e non obbligatoria. Le ipotesi sono quelle previste dalle varie fattispecie dall'art. 32 D.P.R. 600/1973, che prevede - su impulso dell'ufficio - varie forme di coinvolgimento del contribuente nella fase di verifica (dall'invito a comparire di persona o a mezzo rappresentanti, all'invito ad esibire o trasmettere atti o documenti, o ancora a rispondere a questionari). Si tratta di un coinvolgimento del contribuente previsto solo quale facoltà rimessa agli uffici, i quali “possono” avvalersi di tale partecipazione (8). (6) In particolare il comma 8 del richiamato art. 10 bis, che “l'atto impositivo è specificamente motivato, a pena di nullità, in relazione alla condotta abusiva, alle norme o ai principi elusi, agli indebiti vantaggi fiscali realizzati, nonché ai chiarimenti forniti dal contribuente nel termine di cui al comma 6”. (7) Cosi Cass. civ. Sez. v, Sent., 5 settembre 2014, n. 25759. (8) In base all'art. 32 co. 1 D.P.R. 600/1973 (Poteri degli uffici) “Per l'adempimento dei loro compiti gli uffici delle imposte possono: … 2) invitare i contribuenti, indicandone il motivo, a comparire di persona o per mezzo di rappresentanti per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell'accertamento nei loro confronti, ... 3) invitare i contribuenti, indicandone il motivo, a esibire o trasmettere atti e documenti rilevanti ai fini dell'accertamento nei loro confronti, ... 4) inviare ai contribuenti questionari relativi a dati e notizie di carattere specifico ...”. ConTRIbuTI DI DoTTRInA In base all'art. 32 n. 2) D.P.R. 600/1973, il peso dato al contraddittorio può rilevare in modo anche decisivo ai fini della concreta formulazione della contestazione (9), la quale potrebbe essere ridimensionata o del tutto abbandonata se la parte fornisce giustificazioni ritenute adeguate a confutare gli elementi presuntivi addotti dall'ufficio. Ma il coinvolgimento del contribuente non è previsto quale necessario (salvo che non vi siano stati accessi, ispezioni o verifiche, nel qual caso opererebbe la diversa norma di cui all'art. 12 co. 7 L. 212/2000, su cui v. infra), costituendo l'invito a comparire una mera facoltà dell'ufficio e non un obbligo. L'eventuale difetto di questo tipo di contraddittorio (non obbligatorio) provoca conseguenze asimmetriche. Se è l'ufficio che trascura di avvalersi di questo tipo di contraddittorio, la legittimità della rettifica non è compromessa (10) (si ritiene, ad esempio, che l'utilizzazione a fini fiscali della documentazione bancaria non imponga la convocazione del contribuente affinché giustifichi le operazioni verificate, in quanto “nessuna norma impone tale contestazione in sede amministrativa prima dell'accertamento” (11)). Se è invece il contribuente a non avvalersi della facoltà di partecipazione proposta dall'ufficio, vi sono a suo carico conseguenze onerose delineate dal comma 4 del medesimo art. 32 (12), in base alla quale le notizie non addotte e gli atti e documenti non esibiti in risposta agli inviti dell'ufficio “non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, ai fini dell'accertamento in sede amministrativa e contenziosa”. L'interpretazione che di tale norma ha fornito la giurisprudenza di legittimità è stata (ed è tuttora) oscillante, passandosi da letture di maggior rigore (secondo cui l'inutilizzabilità dei documenti non forniti tempestivamente va affermata “a prescindere dalle ragioni determinanti l'omissione” (13)), a let (9) Infatti, in base al n. 2) del richiamato art. 32 D.P.R. 600/1973, se il contribuente riesce a dimostrare che i dati e degli elementi acquisiti dall'ufficio, anche in sede di accertamenti bancari, sono stati tenuti presenti nella determinazione del reddito o che non hanno rilevanza, l'ufficio non può porre i predetti dati ed elementi alla base delle rettifiche e degli accertamenti presuntivi (di cui agli artt. 38, 39, 40 e 41 del medesimo D.P.R. 600). (10) Dunque, diversamente da quanto avviene nel caso degli accertamenti fondati su studi di settore ed indici parametrici, la mancata instaurazione del contraddittorio non degrada gli elementi rilevati (ad esempio dati bancari) a presunzioni semplice, ma ne mantiene fermo il valore presuntivo rimanendo a carico del contribuente l'onere della prova contraria da fornire in giudizio. (11) Cosi Cass. 6094/2009 che richiama Cass. n. 267/2001. (12) In base a tale norma: “le notizie ed i dati non addotti e gli atti, i documenti, i libri ed i registri non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti dell'ufficio non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, ai fini dell'accertamento in sede amministrativa e contenziosa”. (13) In tal senso Cass. Sez. v Sent., 30 dicembre 2009, n. 28049, ma più recentemente v. anche Cass. civ. Sez. v, 14 maggio 2014, n. 10489, secondo cui l'inutilizzabilità consegue solo alla intenzionale volontà del contribuente di sottrarre alla verifica documenti rilevanti, il che postula che l'Amministrazione abbia fissato un termine minimo per l'adempimento delle richieste e che abbia avvertito delle conseguenze pregiudizievoli che derivano dall'inottemperanza alle stesse. RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 ture più morbide (14); in ogni caso, comunque, il contraddittorio costituisce per il contribuente, un onere, la cui mancata ottemperanza può determinare conseguenze pregiudizievoli che possono riverberarsi irrimediabilmente anche nel seguito giudiziale della controversia. Le conseguenze dell'omissione del contraddittorio (a seconda che sia riferibile al mancato invito dell'Amministrazione ovvero alla mancata ottemperanza del contribuente) presentano simmetrie rovesciate rispetto a quelle previste nei casi di accertamenti parametrici o fondati su studi di settore. negli accertamenti d cui all’art. 32, infatti, “l'onere” di utilizzare proficuamente il contraddittorio avviato dall'ufficio grava sul contribuente, il quale se rimane inerte rischia di subire (con la sanzione dell'inutilizzabilità dei documenti di cui all'art. 32 co. 4 del D.P.R. 600/1973) le conseguenze della eventuale sua inottemperanza all'invito. La situazione dunque appare invertita rispetto al caso di accertamenti parametrici o fondati su studi di settore, dove il contribuente, secondo la giurisprudenza di legittimità, “non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all'invito al contraddittorio in sede amministrativa” (15). Questo diverso regime di contrappesi non è irrazionale e si spiega alla luce della diversa natura degli elementi posti alla base delle rettifiche, elementi che, in caso di accertamenti parametrici, consistono in dati di natura statistica (integranti, dunque, mere presunzioni semplici), mentre nei casi previsti dal- l'art. 32, sono elementi comunque idonei a fondare un accertamento presuntivo ai sensi degli artt. 38, 39, 40 e 41 D.P.R. 600/1973. Per la stessa ragione si spiega il perché negli accertamenti di cui all’art. 32 n. 2) D.P.R. 600/1973 non sia prevista la necessità di inserire nell’avviso di accertamento una motivazione specifica delle ragioni per le quali non siano ritenuti condivisibili o sufficienti gli elementi eventualmente addotti dal contribuente che abbia risposto al contraddittorio (16). L’eventuale lacuna motivazionale dell’avviso sulle ragioni della parte, non determina l’illegittimità dell’avviso (diversamente dai casi in cui è previsto l’obbligo di motivazione rafforzata) ma è evidente che tali ragioni saranno verosimilmente riproposte in sede giudiziale divenendo oggetto dell’apprezzamento di merito del giudice tributario. (14) In tal senso Cass. Sez. v, 27 settembre 2013, n. 22126. (15) La giurisprudenza di legittimità ritiene, inoltre che l'esito del contraddittorio non comprometta l'esercizio della difesa giurisdizionale, e non condiziona l'impugnabilità dell'accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l'applicabilità degli standard al caso concreto, da dimostrarsi dall'ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente (Cass. civ. Sez. v, Sent., 30 setttembre 2016, n. 19518). (16) Ancorchè, infatti, le richieste fatte e le risposte ricevute ex art. 32 n. 2) D.P.R. 600/1973 debbano risultare da verbale sottoscritto anche dal contribuente o dal suo rappresentante, non vi è un obbligo espresso di motivare in ordine a tali risposte, sanzionato dalla illegittimità dell'atto. ConTRIbuTI DI DoTTRInA d) Partecipazione “extra procedimentale”, ossia dopo la chiusura della verifica, ma prima dell'atto impositivo. Si tratta dell'ipotesi prevista dall'art. 12 co. 7 della L. 212/2000 (17), che prevede il decorso di un termine dilatorio di 60 giorni tra il rilascio della copia del processo verbale di constatazione e la notifica dell'avviso, al fine di consentire al contribuente di formulare le proprie osservazioni. Analoga forma di contraddittorio anticipato è stata poi prevista, per effetto del d.lgs. 32/2001, anche con riferimento alle cartelle emesse sulla base dei controlli formali ai sensi dell'art. 36 bis e 36 ter D.P.R. 600/1973, nonché alle liquidazioni ex art. 54 bis D.P.R. 633/1973, come disposto anche dall'art. 6 co. 5 della L. 212/2000, che prevede l'avviso bonario prima dell'emanazione delle cartelle, a pena espressa di nullità (18). È da notare che, mentre in relazione all’avviso bonario prodromico all’emanazione delle cartelle esattoriali, la giurisprudenza si è attestata, senza particolari incertezze interpretative, su una lettura “sostanzialista” delle norme (ravvisando la necessità dell’avviso bonario soltanto "qualora sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione", ma non in caso di controlli di dati contabili direttamente riportati in dichiarazione), non altrettanto è avvenuto con riferimento all’art. 12 co. 7 L. 212/2000, la cui applicazione ha dato luogo ad una elaborazione ermeneutica lunga e faticosa da parte della Corte di legittimità. Le principali questioni sorte intorno alla norma suddetta sono state affrontate in modo spesso divergente dalle Sezioni Semplici della Corte di Cassazione e hanno dato luogo a più rimessioni alle Sezioni unite, le quali hanno sciolto i principali nodi ermeneutici assumendo soluzioni interpretative sofferte, ma non sempre risolutive, comunque non tali da evitare la ripetuta sottoposizione della norma anche al vaglio della Corte Costituzionale sotto vari profili. (17) La disposizione predetta prevede che: “nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori. l'avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza”. (18) La giurisprudenza della Cassazione ha dato una lettura sostanzialista delle norme suddette rilevando che il mancato invio dell’avviso bonario non genera nullità quando l’ iscrizione a ruolo sia volta semplicemente a recuperate gli importi dichiarati dal contribuente e non versati, senza che nella dichiarazione nè ricorrano incertezze (L. n. 212 del 2000, art. 6, comma 5) nè siano stati rilevati errori (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis e D.P.R. n. 333 del 1972, art. 54 bis). È stato infatti precisato che l’art. 6, comma 5, non impone l'obbligo del contraddittorio preventivo in tutti i casi in cui si debba procedere ad iscrizione a ruolo, ai sensi dell’art. 36 bis D.P.R. 600/1973, ma soltanto "qualora sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione", situazione, quest'ultima, che non ricorre necessariamente nei casi soggetti al controllo automatizzato, che implica un controllo di tipo documentale sui dati contabili direttamente riportati in dichiarazione, senza margini di tipo interpretativo. Sulla base di tali principi dunque la Corte esclude la necessità dell’invio dell’invito bonario nei casi di omesso o insufficiente versamento di imposte dirette e indirette dovute in base alla dichiarazione presentata (tra tante Cass. 18 marzo 2015, n. 5334, che richiama Cass. 26361/10). RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 I principali aspetti trattati dalla Suprema Corte sono i seguenti: a) la definizione delle conseguenze della mancata osservanza del termine; b) la delimitazione dei casi di “particolare e motivata urgenza” che giustificano il mancato rispetto del termine dilatorio; c) l’estensione della norma anche ai casi di verifiche effettuate senza “rilascio di copia del processo verbale”, dunque nei casi di accertamento c.d. “a tavolino” eseguiti senza accessi, ispezioni o verifiche nei luoghi del contribuente. La prima delle questioni rimesse alle Sezioni unite della Corte concerne le conseguenze della mancata osservanza del termine dilatorio di 60 giorni. In proposito la Corte -valorizzando le finalità perseguite dalla norma (rispetto del principio di cooperazione e buona fede tra amministrazione e contribuente), e dando risalto al contraddittorio procedimentale, quale “strumento ... diretto non solo a garantire il contribuente, ma anche ad assicurare il migliore esercizio della potestà impositiva … nell'interesse anche dell'ente impositore, … anche in termini di deflazione del contenzioso se non, ancor prima, nel senso di indurre l'amministrazione ad astenersi da pretese tributarie ritenute alfine in- fondate” (19) -ha optato per la soluzione della invalidità, ritenendo che il mancato rispetto della norma determini “di per sé” l’illegittimità dell'atto impositivo (20). La Cassazione, tuttavia, consapevole che si tratta di una “invalidità introdotta per via ermeneutica”, ha ritenuto di dare una connotazione “sostanzialista” (e non formale) ai motivi esonerativi (“casi di particolare e motivata urgenza”), stabilendo che l’invalidità non consiste nella mera omessa enunciazione nell'atto dei motivi di urgenza che ne hanno determinato l'emissione anticipata, bensì “nell'effettiva assenza di detto requisito (esonerativo dall'osservanza del termine), la cui ricorrenza, nella concreta fattispecie e all'epoca di tale emissione, deve essere provata dall'ufficio" (21). (19) Cosi Cass. unite, Sent., 29 luglio 2013, n. 18184. (20) È stato infatti affermato nella richiamata sentenza n. 18184/2013 che il mancato rispetto del termine “determina di per sè, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, la illegittimità dell'atto impositivo emesso ante tempus, poichè detto termine è posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva”. (21) Cosi Cass. unite, Sent., 29 luglio 2013, n. 18184. Al proposito è stato affermato che l’approssimarsi del termine non possa giovare di per sé dovendo essere invece verificate la particolari ragioni (sostanziali) per le quali l’Amministrazione si è trovata in tale situazione, ragioni che devono consistere in fatti oggettivi esterni all'Amministrazione. È stato dunque affermato che l’imminente approssimarsi del termine non possa giovare di per sé ove “sia dovuta esclusivamente ad ingiustificata inerzia o negligenza dell'ufficio” (Cass. n. 9424 del 2014), ovvero “sia dipesa da fatti o condotte ad essa ... imputabili a titolo di incuria, negligenza od inefficienza” (Cass. n. 3142 del 2014). La circostanza che il PvC sia pervenuto dalla guardia di Finanza solo a ridosso della scadenza del termine di accertamento è stata ritenuta, del pari, inidonea a giustificare il mancato rispetto del termine dilatorio, in base alla ritenuta appartenenza della guardia di Finanza e dell’Agenzia delle entrate ad un medesimo apparato amministrativo, sicchè le eventuali vicende afferenti a problematiche organizzative meramente interne non sono idonee a giustificare il mancato rispetto del termine (Cass. Sez. v, 20 aprile 2016, n. 7914). ConTRIbuTI DI DoTTRInA In tale contesto giurisprudenziale si è innestata l’ulteriore delicata questione concernente la possibilità di estendere il disposto dell’art. 12 co. 7 a casi ivi non espressamente previsti, segnatamente ai casi di accertamenti c.d. “a tavolino”, ossia non preceduti da accessi, ispezioni e verifiche (i soli per i quali è prevista l’adozione di un processo verbale di constatazione (22)). Sul punto occorre segnalare che un primo pronunciamento delle Sezioni unite è stato nel senso di configurare il contraddittorio endoprocedimentale quale principio generale immanente all'ordinamento operante in rapporto a qualsiasi atto dell'Amministrazione fiscale lesivo dei diritti e degli interessi del contribuente, indipendentemente dal fatto che la necessità del contraddittorio sia specificamente sancita da norma positiva (23). Tale pronuncia, però, vista la spiccata peculiarità dell’atto oggetto della fattispecie esaminata (iscrizione ipotecaria regolata dall’art. 77 D.P.R. n. 602 del 1973), non ha impedito alle sezioni semplici di assumere un diverso orientamento, ampiamente condiviso, secondo cui l'ambito di applicazione dell’art. 12 co. 7 L. 212 del 2000 deve essere circoscritto agli accertamenti conseguenti ad "accessi", "ispezioni" e "verifiche" fiscali nei locali del contribuente. Le Sezioni unite della Corte di Cassazione -chiamate nuovamente ad intervenire sulla questione -hanno concluso nel senso della non applicabilità della disposizione di cui all’art. 12 co. 7 L. 212/2000 a casi non espressamente previsti. ed è in tale contesto che è stata affermato dalla Corte il principio secondo cui nell’ordinamento positivo il contraddittorio endoprocedimentale non esiste quale principio generale immanente sganciato da espresse previsione di legge (24). (22) le ipotesi di emanazione del processo verbale sono previste nell’art. 12 co. 4 in combinato disposto con il co. 1 dell'art. 12 l. 212/2000 (dunque non nel comma 7 che prevede il termine dilatorio); si tratta di disposizioni confermative di quanto già disposto dall'art. 52 co. 6 del d.P.r. 633/1972, richiamato dall'art. 33 del d.P.r. 600/1973, (secondo cui “di ogni accesso deve essere redatto processo verbale da cui risultino le ispezioni e le rilevazioni eseguite, le richieste fatte al contribuente o a chi lo rappresenta e le risposte ricevute nei casi di accessi, ispezioni o verifiche nei luoghi di attività dell'imprenditore”) e, in materia di imposta di registro, dal d.P.r. n. 131 del 1986, art. 53 bis. (23) Si tratta della sentenza Cass. SS.uu. 19667/14 (e della gemella 19668/14); la controversia riguardava una iscrizione ipotecaria adottata ai sensi dell’art. 77 D.P.R. n. 602 del 1973. (24) Si tratta della sentenza Cass. civ. Sez. unite del 9 dicembre 2015, n. 24823. La predetta pronuncia ha affermato che l’ordinamento interno “allo stato della legislazione, non pone in capo all'amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica prescrizione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l'invalidità dell'atto”. ne consegue che “l'obbligo dell'amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l'invalidità dell'atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito”. Dunque l'art. 12 co. 7 non può essere esteso al di fuori dei casi ivi previsti, in particolare non può essere esteso al di fuori dei casi di accessi ispezioni e verifiche nei locali del contribuente. D’altro lato le Sezioni unite si sono preoccupate di effettuare una attenta ricognizione dei vari orientamenti della giurisprudenza di legittimità e costituzionale intervenuti in materia, ricognizione al cui esito sono pervenute a ridimensionare il valore e la portata di alcuni precedenti giurisprudenziali spesso ritenuti espressivi della tesi opposta, evidenziando che si trattava di principi affermati in riferimento a fattispecie peculiari ovvero nelle quali il contraddittorio trovava fondamento in disposizioni di legge positive. RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 Considerata da alcuni commentatori come “occasione mancata” per favorire l'adesione del diritto interno ai principi europei e agli stessi principi costituzionali (e ciò spiega le numerose ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale che si sono recentemente susseguite in relazione all’art. 12 co. 7 L. 212/2000 (25)), si può invece ritenere che la posizione assunta dalle Sezioni unite della Cassazione rispecchia e rispetta la logica di un sistema normativo incentrato sulla complessità. Tale scelta ermeneutica, a ben vedere, lungi dal costituire un “sacrificio” del principio del contraddittorio, si traduce in un riconoscimento della complessità del vigente sistema normativo che che, come si è visto, attua la partecipazione del contribuente al procedimento tributario secondo modalità differenziate in funzione degli interessi coinvolti. In effetti una applicazione generalizzata della disciplina prevista dall'art. 12 co. 7 L. 212/2000 a casi ivi non previsti, esclusa dalle Sezioni unite Cassazione, avrebbe tradito la logica polimorfa sottesa al diritto positivo, comportando il possibile scompenso di un complesso sistema normativo incentrato su forme modulari di partecipazione del contribuente al procedimento gradate in funzione degli interessi in gioco. D'altra parte il contraddittorio, come sopra si è visto, non è solo oggetto di diritti per il contribuente, ma pone anche degli oneri (tra cui quello posto dal quarto comma dell'art. 32 D.P.R. 600/1973), la cui mancata ottemperanza può determinare conseguenze pregiudizievoli che possono riverberarsi irrimediabilmente anche nel seguito giudiziale della controversia (infatti i documenti non prodotti “non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, ai fini dell'accertamento in sede amministrativa e contenziosa”). Questi profili non possono essere trascurati dall'interprete laddove sia chiamato a valutare l'estensione di particolari forme di contraddittorio fuori dai casi espressamente previsti. (25) Si segnala, ad esempio, l’ordinanza di rimessione della Commissione tributaria Regionale di Firenze n. 736/1/2015, l’ordinanza della Commissione Tributaria di Siracusa n. 565/16, o ancora l’ordinanza della Commissione Tributaria Regionale di napoli n. 950/2016: le questioni rimesse alla Corte costituzionale attengono non tanto alla diversità di regime giuridico che si è venuto a creare tra tributi “armonizzati” e tributi “non armonizzati”, ma piuttosto - nell’ambito dei tributi “non armonizzati” tra accertamenti “a tavolino”, per i quali non opera la garanzia del contraddittorio endoprocedimentale, e accertamenti su “accessi, ispezioni e verifiche” per i quali opera invece il predetto contraddittorio giusta disposto dell’art. 12 co. 7 L. 212/2000. Si aggiunge, tra le questione prospettate, un profilo di asserita incompatibilità con i principi costituzionali (segnatamente con gli artt. 111 e 24 Cost.) di un sistema quale quello incentrato sulla attuale formulazione dell’art. 12 co. 7 l. 212/2000 che, negando il contraddittorio nel caso di accertamenti c.d. a tavolino, priverebbe il contribuente della possibilità di raccogliere e far verbalizzare le dichiarazioni (a lui eventualmente favorevoli) di persone informate dei fatti raccolte sicchè -visti i limiti probatori tipici del processo tributario -si verificherebbe una sostanziale violazione del principio di parità delle armi e della stessa effettività della tutela giudiziale del contribuente. ConTRIbuTI DI DoTTRInA e) la partecipazione dopo l'adozione dell’atto (ma prima della sua definitività): l'accertamento con adesione. La norma di riferimento è l'art. 6 del D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218 (disposizioni in materia di accertamento con adesione e di conciliazione giudiziale) (26), che prevede la possibilità per il contribuente di formulare una propria proposta di accertamento ai fini della eventuale definizione. Si tratta, in sostanza, di un accertamento concordato tra le parti con valenza transattiva, in quanto l’accertamento da un lato non è impugnabile dal contribuente, e dall’altro non è integrabile o modificabile da parte dell'ufficio (anche se la definizione non esclude l'esercizio dell'ulteriore azione accertatrice). L’attivazione della procedura sospende tutti i termini, non solo quello di impugnazione, ma anche quello per il pagamento dell’IvA e per l’iscrizione a ruolo provvisoria ai sensi dell’art. 15 D.P.R. 600/1973. Proprio tali aspetti della disciplina conferiscono all’istituto un ruolo significativo nel quadro delle forme di partecipazione del contribuente al procedimento fiscale. È interessante rilevare che, anche nel quadro della giurisprudenza comunitaria in cui il contraddittorio è configurato come principio generale, la Corte di giustizia ammette che il contraddittorio possa essere validamente esercitato anche dopo l’emanazione dell’atto (non dunque necessariamente prima di esso), se la normativa nazionale consente ai destinatari di siffatte intimazioni, anche in eventuale sede di reclamo amministrativo, “di ottenere la sospensione della loro esecuzione fino alla loro eventuale riforma” (27). L’istituto in esame, dunque, avrebbe potuto essere meglio indagato quale strumento idoneo a realizzare un possibile “ravvicinamento” nella dicotomia di regimi giuridici (quello proprio dei tributi armonizzati e quello relativo ai tributi non armonizzati) di cui prima si è detto. occorre comunque tener presente che, secondo la giurisprudenza di legittimità, le conseguenze della mancata attivazione della procedura non sono invalidanti; infatti la mancata convocazione del contribuente, a seguito della presentazione ex art. 6 del D.Lgs. 16 giugno 1997, n. 218, non comporta la (26) In base al richiamato art. 6 D.lgs. 218/1997 “il contribuente nei cui confronti sono stati effettuati accessi, ispezioni o verifiche … può chiedere all'ufficio, con apposita istanza in carta libera, la formulazione della proposta di accertamento ai fini dell'eventuale definizione”. In tal caso sono sospesi sia il termine per l’impugnazione e sia quello per il pagamento dell’imposta. All'atto del perfezionamento della definizione, l'avviso originario perde efficacia, ma la definizione non esclude l'esercizio dell'ulteriore azione accertatrice. (27) In tal senso v. Kamino international logistics (cause C129/13 e C130/13). ed infatti la Corte di Cassazione, in una vertenza concernente tributi doganali (armonizzati), ha sintetizzato i principi comunitari espressi dalla richiamata sentenza Kamino precisando che il contraddittorio è validamente esercitabile anche post actum in eventuale sede di reclamo amministrativo, purchè però la sospensione dell'atto intervenga come “conseguenza normale” dell'impugnazione, e proprio su tale punto ha rimesso la questione alla Corte di giustizia (Cass, ord. n. 9278 del 6 maggio 2016). RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 nullità del procedimento di accertamento adottato dagli uffici, non essendo tale sanzione prevista dalla legge (28). f) interpello preventivo: partecipazione anticipata rispetto alla stessa operazione economica. L’ultima forma di partecipazione del contribuente al procedimento volto all’adozione di un atto tributario è rappresentato dall’interpello preventivo, che comporta una forma (facoltativa) di partecipazione al procedimento tributario, prima ancora della adozione della condotta che costituisce il presupposto impositivo. La disciplina è contenuta nell'art. 11 L. 27 luglio 2000, n. 212, che nel testo in vigore dal 1 gennaio 2016, consente al contribuente di interpellare l'amministrazione per ottenere una risposta riguardante fattispecie concrete e personali, con riferimento, tra l'altro all'applicazione delle disposizioni tributarie, “quando vi sono condizioni di obiettiva incertezza sulla corretta interpretazione di tali disposizioni” (art. 11 co. 1 lett. a), ovvero all'applicazione della disciplina sull'abuso del diritto ad una specifica fattispecie (art. 11 co. 1 lett. c). Analoga disposizione è prevista con riferimento alle società di comodo dall'art. 30 della L. 724/1994. Trattandosi di una forma procedimentale che precede qualsiasi azione accertativa del fisco, la questione che si pone non riguarda tanto le conseguenze della mancata attivazione di tale partecipazione (che è facoltativa), ma piuttosto le conseguenze della risposta all’interpello, ove attivato, e, in particolare, la natura vincolante o meno della posizione assunta dall’Amministrazione. Al proposito la giurisprudenza di legittimità non è concorde, affermando talvolta che la risposta negativa ad un interpello (in specie nel caso di diniego di disapplicazione di norme antielusive), non è atto rientrante nelle tipologie elencate dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, sicchè non sussiste l’obbligo di impugnativa (29); talaltra che costituisce atto impugnabile configurandosi (28) Analogamente, in tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, è stato ritenuto che l'omessa comunicazione dell'invito al pagamento prima dell'iscrizione a ruolo, con la riduzione e per gli effetti previsti dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 2, comma 2 non determina la nullità di tale iscrizione e degli atti successivi, ma una mera irregolarità, inidonea ad incidere sull'efficacia dell'atto, sia perchè non si tratta di condizione di validità, stante la mancata espressa sanzione della nullità, avendo il previo invito al pagamento l'unica funzione di dare al contribuente la possibilità di attenuare le conseguenze sanzionatorie dell'omissione di versamento, sia perchè l'interessato può comunque pagare, per estinguere la pretesa fiscale, con riduzione della sanzione, una volta ricevuta la notifica della cartella (tra altre, v. Cass. 1 giugno 2016, n. 11438, Cass. n. 5334/2015, Cass. 3366/13). (29) Cass. civ. Sez. v, 28 maggio 2014, n. 11929, in cui si afferma la risposta ad interpello è solo provvedimento con cui l'Amministrazione porta a conoscenza del contribuente, pur senza efficacia vincolante per questi, il proprio convincimento in ordine ad un determinato rapporto tributario, ciò escludendo che rientri nel novero degli atti di cui all’art. 19 D.lgs. 546/1992. ConTRIbuTI DI DoTTRInA quale diniego di agevolazione, sicchè la mancata impugnativa pregiudica il contribuente che non potrà più contestare la situazione accertata (30). In definitiva, anche in questo caso, si può osservare in via generale che (come rilevato in relazione all’art. 32 co. 4 del D.P.R. 600/1973) l’applicazione del principio del contraddittorio può comportare non solo vantaggi, ma anche oneri per il contribuente. 2. contraddittorio endoprocedimentale. duplice regime giuridico. Possibili spunti per il superamento della dicotomia. Come si è visto la Corte di Cassazione, dopo lungo e travagliato percorso, è giunta alla affermazione che nell’ordinamento positivo il contraddittorio endoprocedimentale non esiste quale principio generale immanente sganciato da espresse previsioni di legge (31). Tale scelta (normativa prima e giurisprudenziale poi) si pone in linea di discontinuità rispetto all’ordinamento comunitario, in cui invece la partecipazione al contraddittorio da parte del cittadino viene affermata quale principio generale immanente sganciato da espresse previsione di legge in relazione a qualsiasi procedimento amministrativo (32). A livello di sistema la divergenza potrebbe apparire sfumata, infatti anche nel diritto interno il principio si ritrova benchè attuato in forme “eterogenee”. (30) Cass. civ. Sez. v, 15 aprile 2011, n. 8663, in cui si arriva ad affermare che “la mancata impugnazione del diniego da parte del contribuente rende incontestabile la situazione, per cui la natura non elusiva dell'operazione non potrà più essere censurata mediante l'impugnazione di atti successivi” (Cass. civ. Sez. v, 15 aprile 2011, n. 8663). (31) Si tratta della sentenza Cass. civ. Sez. unite del 9 dicembre 2015, n. 24823, sopra richiamata in nota 24. (32) Corte giust. 18 dicembre 2008 (sopropè, C-349/07) ha riconosciuto al diritto di essere ascoltasti il valore di principio fondamentale del diritto dell'unione europea in "qualsiasi procedimento" anche in assenza di norme specifiche (sent., sopropè, cit., punto 38; nonchè Corte giust., C-383/13, g. e r., PPu, punto 32) individuandone lo specifico fondamento non solo negli artt. 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell'unione europea che garantiscono il rispetto dei diritti della difesa nonchè il diritto ad un processo equo in qualsiasi procedimento giurisdizionale, ma anche nell'art. 41 di quest'ultima, il quale garantisce il diritto ad una buona amministrazione (cfr. Corte giust. 21 dicembre 2011, C-27/09 P, repubblica francese, p. 65) che tuttavia non si applica agli Stati membri, ma soltanto alle istituzioni, agli organi e agli organismi dell'unione (v. in tal senso, Corte giust., 21 dicembre 2011, cicala, C-482/10, punto 28; Corte giust., 17 luglio 2014, Ys e altri, C-141/12 e C-372/12, punto 67, nonchè Corte giust., 5 novembre 2014, mukarubega, C-166/13, punto 44; Corte di giustizia, 11 dicembre 2014, boudjlida, C-249/13, p. 32). Secondo la Corte europea, il diritto al contraddittorio si applica a qualsiasi procedimento che possa sfociare in un atto lesivo (v., in particolare, Corte giust. 23 ottobre 1974, transocean marine Paint association/ commissione, causa C-17/74, punto 15; Corte giust., Krombach, cit., punto 42, e sopropè, cit., punto 36, sent. m.m., cit., p. 85) e garantisce a chiunque la possibilità di manifestare, utilmente ed efficacemente, il suo punto di vista durante il procedimento amministrativo prima dell'adozione di qualsiasi decisione che possa incidere in modo negativo sui suoi interessi (v., in particolare, Corte giust. 9 giugno 2005, spagna/commissione, C-287/02, punto 37; sopropè, cit., punto 37; Corte giust. 1 ottobre 2009, foshan shunde Yongjian housewares & hardware/consiglio, C-141/08 P, punto 83; Corte giust. 21 dicembre 2011, francia/Peoplès mojahedin organization of iran, C-27/09 P punti 64 e 65). RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 È sul piano pratico però che tale “duplicità di regime giuridico” può comportare le più vistose criticità applicative. basti pensare al comune caso in cui, con unico avviso di accertamento emanato all’esito di un unico procedimento amministrativo, sono recuperati a tassazione sia tributi diretti (“non armonizzati”) e sia l’IvA (“tributo armonizzato”), sicchè l'atto potrebbe essere considerato invalido quanto ai tributi “armonizzati” e valido quanto ai tributi “non armonizzati” (33). La divaricazione dei due regimi appare ancora più accentuata laddove si passi a considerare il “tipo” di invalidità che consegue al mancato rispetto del contraddittorio. nella giurisprudenza della Corte di giustizia l'invalidità è tradizionalmente intesa in senso “sostanziale” e non assoluto, infatti si applica il principio secondo cui “una violazione dei diritti della difesa, in particolare del diritto di essere sentiti, determina l'annullamento del provvedimento adottato al termine del procedimento amministrativo di cui trattasi soltanto se, in mancanza di tale irregolarità, tale procedimento avrebbe potuto comportare un risultato diverso” (34) (c.d. temperamento Kamino). nel diritto interno le Sezioni unite della Cassazione sembrano inclini a ritenere che i principi comunitari (compresi quelli affermati nella sentenza Kamino) non si applichino ai tributi non armonizzati (35). (33) Le difficoltà applicative connesse a tali circostanze fattuali erano, del resto, ben note alla Corte di Cassazione, la quale (nella sentenza Cass. civ. Sez. v, Sent., 5 dicembre 2014, n. 25759) ha avuto modo di sottolineare che “… considerata, pertanto, la necessaria unicità dell'accertamento del vizio di invalidità in questione, in quanto afferente ad una identica fase del procedimento amministrativo definito con la emissione dell'avviso (non essendo logicamente predicabile che il medesimo unitario procedimento risulti viziato da illegittimità o meno in relazione alla mera natura del tributo richiesto con l'atto impositivo contestato), le censure formulate dalla parte ricorrente vengono a coinvolgere l'atto impositivo nella sua interezza, comprensivo sia della pretesa concernente le imposte dirette (in ordine alle quali la commissione tributaria ha ritenuto sussistere l'abuso del diritto), quanto della pretesa concernente l'iva (in relazione alla quale, invece la commissione tributaria ha annullato l'avviso non ravvisando la configurabilità di un indebito vantaggio fiscale)”. (34) v., in tal senso, sentenze francia/commissione, C-301/87, punto 31; germania/commissione, C-288/96, punto 101; foshan shunde Yongjian housewares & hardware/consiglio, C-141/08 P, punto 94; storck/uami, C-96/11 P, punto 80, nonché C-129 e C-130/13, Kamino international logistics, punti 78-82). (35) Le Sezioni unite della Cassazione (SS.uu. 24823/2015) escludono la diretta rilevanza nel- l’ordinamento dei principi comunitari rilevando che, da un lato, ai tributi non armonizzati, estranei alle competenze dell'unione, non si applica il diritto europeo (v. Corte giust. 3 luglio 2014, in causa C-129 e C-130/13, Kamino international logistics; 22 ottobre 2013, in causa C-276/12, Jiri sabou; 26 febbraio 2013, in causa 617/10, akeberg fransson; 26 settembre 13, in causa C-418/11, texdata software; 18 dicembre 2008, in causa C-349/07, sopropè); d’altro lato l'art. 41 della Carta dei diritti fondamentali del- l'unione europea, (che garantisce il principio del contraddittorio) avendo assunto il medesimo valore giuridico dei Trattati, solo con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona avvenuta l'1 dicembre 2009, è, di per sè, ratione temporis, applicabile solo ai procedimenti amministrativi conclusisi con provvedimenti successivi alla data suddetta. Si afferma infatti nella citata sentenza 24823/2015 che “ai suddetti tributi, estranei alle competenze dell'unione, non si applica, invero, il diritto europeo (v. corte giust. 3 luglio 2014, in causa c-129 e ConTRIbuTI DI DoTTRInA Questa conclusione può comportare conseguenze paradossali, ancor più della constatazione della diversa latitudine (generale o tipizzata) che i due ordinamenti attribuiscono al principio del contraddittorio. Si pensi al caso di un avviso di accertamento emesso in seguito ad “accessi, ispezioni o verifiche”, per il quale, dunque, si applica il principio del contraddittorio endoprocedimentale ai sensi dell’art. 12 co. 7 L. 212/2000. Qualora non sia stato rispettato il termine dilatorio nell’emanazione dell’avviso di accertamento, l’applicazione del c.d. temperamento Kamino alla sola pretesa concernente il tributo “armonizzato”, potrebbe comportare la conservazione dell’atto quanto all’IvA e la sua invalidazione quanto alle imposte dirette (36). Tale situazione potrebbe avere effetti tanto più perversi nei casi di evasione conclamata. Le Sezioni unite della Cassazione, pur consapevoli di tali criticità (37), hanno però ritenuto insuperabile tale “duplicità del regime giuridico”, affermando che l'appianamento di detto contrasto “non può essere realizzato in via interpretativa” (38), e hanno rimesso al legislatore “l'assorbimento della dicotomia” (Cass. SS.uu. n. 24823/2015). un intervento del legislatore (39) potrebbe essere di certo una auspicabile occasione di chiarificazione della portata degli istituti in analisi; nondimeno c-130/13, Kamino international logistics; 22 ottobre 2013, in causa c-276/12, Jiri sabou; 26 febbraio 2013, in causa 617/10, akeberg fransson; 26 settembre 2013, in causa c-418/11, texdata software; 18 dicembre 2008, in causa c-349/07, sopropè)”. (36) Analoga discrasia (ma in termini di forse minore gravità) potrebbe verificarsi nel caso in un accertamento c.d. a tavolino avente ad oggetto sia IvA che imposte dirette. Per queste ultime non si potrebbe profilare un vizio di legittimità in quanto l’art. 12 co. 7 L. 212/2000 non opera per gli accertamenti c.d. a tavolino; per l’IvA invece il mancato rispetto del contraddittorio potrebbe portare il contribuente a sollevare una censura di nullità dell’atto. In un simile caso peraltro il c.d. temperamento Kamino applicabile all’IvA potrebbe consentire al giudice tributario di valorizzare gli aspetti sostanziali della controversia, il che potrebbe limitare i casi di invalidazione parziale della pretesa tributaria in funzione del tipo di tributo. (37) v. riferimenti riportati in nota 33. (38) Le Sezioni unite della Cassazione (SS.uu. 24823/2015) hanno infatti escluso la diretta rilevanza nell’ordinamento dei principi comunitari rilevando che, da un lato, ai tributi non armonizzati, estranei alle competenze dell'unione, non si applica il diritto europeo (v. Corte giust. 3 luglio 2014, in causa C-129 e C/130/13, Kamino international logistics; 22 ottobre 2013, in causa C-276/12, Jiri sabou; 26 febbraio 2013, in causa 617/10, akeberg fransson; 26 settembre 2013, in causa C-418/11, texdata software; 18 dicembre 2008, in causa C-349/07, sopropè); d’altro lato l'art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell'unione europea, (che garantisce il principio del contraddittorio) avendo assunto il medesimo valore giuridico dei Trattati, solo con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona avvenuta l'1 dicembre 2009, è, di per sè, ratione temporis, applicabile solo ai procedimenti amministrativi conclusisi con provvedimenti successivi alla data suddetta). (39) L’intervento del legislatore potrebbe essere agevolato dal fatto che la L. 11 marzo 2014 n. 23, di delega al governo per la riforma del sistema fiscale, inserisce tra i principi e criteri direttivi della delega la "previsione di forme di contraddittorio propedeutiche alla adozione degli atti di accertamento dei tributi" (cfr. l'art. 1, comma 1, lett. b), nonchè il rafforzamento del "contraddittorio nella fase di indagine e la subordinazione dei successivi atti di accertamento e di liquidazione all'esaurimento del contraddittorio procedimentale" (v. l'art. 9, comma 1, lett. b). RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 vale la pena di considerare e valorizzare gli spunti ermeneutici che de jure condito il diritto positivo già offre. A parere di chi scrive, gli elementi interpretativi presenti nell'ordinamento interno, pur se inidonei ad attribuire latitudine generalizzata al principio del contraddittorio nel diritto interno, consentirebbero quanto meno di dare una lettura “sostanzialista” all’art. 12 co. 7 L. 212/2000, coerente con i principi affermati nel diritto comunitario per effetto del c.d. temperamento Kamino. A tale risultato si può pervenire in base a ragioni non comunitarie ma endogene al sistema nazionale. gli spunti esegetici che possono essere utilizzati in favore di questa tesi sono molteplici. Il più forte è quello che si fonda su una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 12 co. 7. Come precisato dalla Corte di Cassazione il contraddittorio costituisce applicazione dei principi costituzionali di collaborazione e buona fede, a loro volta afferenti ai principi di buon andamento e imparzialità dell'Amministrazione (artt. 97 e 3 Cost.) non del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. (40) L’esatta identificazione dei principi costituzionali di riferimento non è senza rilievo sul piano ermeneutico. Come ha ben spiegato la Corte d Cassazione occorre “distinguere il principio del contraddittorio inteso come espressione del diritto di difesa nel processo … dall'intervento del privato nel procedimento amministrativo, inteso invece come facoltà di introduzione di ulteriori elementi in fatto e diritto a completamento della fattispecie concreta sulla quale la P.a. è chiamata a provvedere in funzione dell'attuazione dell'interesse pubblico, e dunque come "collaborazione" del privato -nella fase istruttoria -diretta all'acquisizione di tutti gli elementi conoscitivi e valutativi indispensabili all'esercizio della potestà autoritativa” (41). ora, nell’art. 12 co. 7, ciò che viene in rilievo non è il “diritto di difesa” ma il principio di buona amministrazione, principio che rispecchia un interesse, seppur costituzionalmente rilevante, certamente non preminente - nella gerarchia dei valori costituzionali - rispetto al principio della capacità contributiva che verrebbe violato da una interpretazione eccessivamente formalista della necessità del contraddittorio anticipato. (40) La Corte di Cassazione ha già avuto modo di sottolineare «l'inconferenza degli artt. 24 e 111 cost., quali evocati parametri di costituzionalità... infatti, la norma censurata, essendo diretta a regolare il procedimento di accertamento tributario, non ha natura processuale ed è, quindi, estranea all'ambito di applicazione dei suddetti parametri costituzionali (ex plurimis, sentenza n. 20 del 2009; ordinanze n. 211 e n. 13 del 2008, n. 180 del 2007; nonché, con particolare riferimento all'art. 24 cost., ordinanze n. 940 e n. 21 del 1988, n. 324 del 1987)» (ordinanza, 24 luglio 2009, n. 244). Il parametro costituzionale di riferimento è stato invece rinvenuto nell’art. 97 della Costituzione. (41) Cass. 3 agosto 2012 n. 14026, Cass. n. 3142 del 2014. ConTRIbuTI DI DoTTRInA Annullare l’atto impositivo nei casi in cui il contribuente non avrebbe avuto alcun valido argomento per indurre l'amministrazione ad emettere un atto con un contenuto “differente", porterebbe alla aberrante conseguenza che -anche nei casi di evasione conclamata - sarebbero posti nel nulla avvisi di accertamento (peraltro rispettosi del termine di cui all’art. 43 D.P.R. 600/1973) per il solo fatto che non sono decorsi 60 giorni tra la conclusione della verifica e l'emanazione dell'avviso. una lettura in senso “formalista” dell'art. 12 co. 7 L. 212/2000 da un lato non sarebbe giustificata dal richiamo al diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost. (che, come detto, non viene in rilievo in materia di contraddittorio endoprocedimentale), e dall'altro sarebbe in contrasto con il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 12 co. 7 impone invece di ritenere che non ogni atto emesso ante tempus possa essere sanzionato con la nullità, ma solo quelli in relazione ai quali effettivamente un contraddittorio “anticipato” avrebbe portato a prevenire una pretesa fiscale che sarebbe stata evitabile o diversa in base ad elementi non conosciuti dall’Amministrazione. D'altra parte una lettura “sostanzialista” dell'art. 12 co. 7 L. 212/2000 sembra quella più coerente con vari principi già affermati non solo dalla Cassazione, ma anche dalla stessa Corte Costituzionale in materia di contraddittorio endoprecedimentale. Appare rilevante considerare che la sentenza n. 132/2015 della Corte Costituzionale ha ricostruito l’istituto del contraddittorio in termini di “effettività” in tal modo introducendo una valenza fattuale e sostanziale, e non meramente formale dell'istituto. Ad analoghe conclusioni si perviene tenendo conto della lettura “sostanzialista” che la Corte di Cassazione ha formulato con riferimento alla deroga al principio del contraddittorio (“casi di particolare e motivata urgenza” ), prevista dal medesimo art. 12 co. 7 quale situazione esonerativa dal rispetto del termine. La Cassazione ha escluso che possano rilevare (quale valida ragione esonerativa) gli eventuali comportamenti dell'Amministrazione dilatori o “pretestuosi” tali da ridurre il termine avvalendosi in modo indebito della deroga (42). Ma allora un certo principio di simmetria imporrebbe di applicare lo stesso parametro ermeneutico “sostanzialista” anche con riferimento ai comportamenti del contribuente, escludendo che egli possa avvantaggiarsi di una violazione formale del termine dilatorio, il cui eventuale rispetto da parte dell’Amministrazione non avrebbe portato ad un risultato diverso. Ciò sarebbe in perfetta linea con il dovere reciproco di buona fede di cui all'art. 10 dello Statuto del Contribuente. (42) Cass. civ. Sez. v, 05 dicembre 2014, n. 25759. RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 Al fine di una interpretazione “sostanzialista”, e non “formalista”, dell'art. 12 co. 7 militano anche altre disposizioni esistenti nell'ordinamento. Tra queste l'art. 21 octies l. 241/1990 (43). Ancorchè sul punto sia stato registrato un contrasto nella giurisprudenza di legittimità (44), occorre sottolineare che a partire dal 2013 un durevole orientamento della Corte di Cassazione ha, più volte, affermato che l'art. 21 octies della L. 241/1990 si applica anche al procedimento tributario (45). D'altra parte la sanzione della nullità non è mai stata considerata quale precetto assoluto nell'ordinamento. In effetti non sono rare le ipotesi di nullità “disapplicate” in funzione del raggiungimento dello scopo. Il principale campo di applicazione di tale principio è il diritto processuale, ma anche con specifico riferimento al campo tributario è stato affermato che la regola della tassatività delle nullità non ha valore assoluto, ma il giudice è tenuto ad effettuare la c.d. "prova di non resistenza" e cioè a “verificare se senza quella irregolarità il procedimento avrebbe potuto avere un esito diverso, sulla base delle allegazioni del contribuente che nel caso di specie non sono neppure graficamente prospettate nel ricorso” (46). (43) In base all’art. 21-octies L. 241/1990 (annullabilità del provvedimento) : “1. È annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza. 2. Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”. (44) Infatti in senso contrario all'applicabilità dell'art. 21 co. octies L. 241 in ambito tributario si sono pronunciate Cass. civ. Sez. v, Sent., 9 novembre 2015, n. 22800 e Cass. civ. Sez. vI -5 ordinanza, 12 maggio 2016, n. 9736. (45) Cass. 12 luglio 2013, n. 17251 negli stessi termini anche Cass. civ. Sez. v, 19 marzo 2014, n. 6395 Cass. civ. Sez. v, Sent., 24 giugno 2015, n. 13024. (46) In ordine alla nullità prevista in difetto di motivazione della cartella esattoriale la Corte ha affermato (Cass. civ. 25 febbraio 2016, n. 3707) che il difetto di motivazione della cartella esattoriale, che faccia rinvio ad altro atto costituente il presupposto dell'imposizione senza indicarne i relativi estremi di notificazione o di pubblicazione, non può condurre alla dichiarazione di nullità, allorché la cartella sia stata impugnata dal contribuente che abbia dimostrato in tal modo di avere piena conoscenza dei presupposti. una applicazione “sostanzialista” della norma è stata già operata dalla Corte di Cassazione in almeno due fattispecie. La prima riguardava il recupero di agevolazioni fiscali, eseguita dal centro operativo di Pescara (Cass. civ. Sez. v, Sent., 21 settembre 2016, n. 18450). Si trattava di revoca del credito di imposta per incrementi occupazionali riconosciuto alle piccole e medie imprese in una fattispecie in cui il Centro di servizio di Pescara, non aveva comunicato all'impresa l'avvio del procedimento di revoca. In tale causa è stato affermato quanto segue: “... con riferimento al caso in esame, il rilievo che l'obbligo informativo di cui al D.M. n. 331 del 1998, art. 8, non sia previsto a pena di nullità, non esime di certo il giudice dal verificare -non avendo valore assoluto, in ambito tributario, la regola della tassatività delle nullità (Cass. n. 5518 del 2013) ConTRIbuTI DI DoTTRInA Tali considerazioni appaiono tanto più rilevanti nel caso in esame, tenendo conto che quella di cui all’art. 12 co. 7 è una “invalidità introdotta per via ermeneutica” (47), e non introdotta esplicitamente dal legislatore. 3. conclusione. Alla luce delle esposte considerazioni si può dunque pervenire ad affermare la piena legittimità, già a diritto vigente, di una interpretazione “sostanzialista” dell’art. 12 co. 7 L. 212/2000 in forza della quale (analogamente a quanto avviene per i tributi “armonizzati” in applicazione del c.d. temperamento Kamino), anche per i tributi “non armonizzati” la violazione del con -se la violazione di legge abbia comportato soltanto una mera irregolarità dell'atto (o della procedura) ovvero se abbia determinato l'invalidità dello stesso (cass. n. 992 citata). Verifica da effettuarsi applicando il criterio della strumentalità delle forme, sulla base del quale la trasgressione di una prescrizione che si riferisca ad una formalità o circostanza essenziale per il raggiungimento dello scopo cui l'atto è teso, comporta la nullità dell'atto, ancorchè tale sanzione non sia espressamente prevista da una specifica disposizione di legge (cass. n. 5518 citata). Da ciò deriva che il giudice è tenuto ad effettuare la c.d. "prova di non resistenza" (arg. da Cass. n. 23050 del 2015), e cioè a verificare se senza quella irregolarità il procedimento avrebbe potuto avere un esito diverso, sulla base delle allegazioni del contribuente che nel caso di specie non sono neppure graficamente prospettate nel ricorso (conf. cass. n. 16036 del 2015 e n. 6232 del 2015), non essendo consentito a questa corte, in ragione del tipo di vizio dedotto, esaminare gli atti processuali dei giudizi di merito per verificare se il contribuente vi avesse provveduto in quelle fasi. Pertanto, dovendosi concludere nel senso della ineludibile emissione dell'atto di revoca del credito d'imposta anche a seguito di preventiva informativa datane alla contribuente, il primo motivo di ricorso va rigettato”. La tesi “sostanzialista” si trova significativamente affermata anche nella sentenza della Cassazione del 28 settembre 2016 n. 19219 che, in materia di sanzioni comminate dalla banca d'Italia, ha affermato il principio secondo cui “la rilevanza della doglianza (concernente la violazione del diritto al contraddittorio n.d.r.) presuppone la deduzione di una lesione concreta ed effettiva del diritto di difesa specificamente conculcato o compresso nel procedimento sanzionatorio. detto principio, ... si colloca nella medesima prospettiva ermeneutica ancora di recente indicata dalle medesime sezioni unite con la sentenza n. 24823/15, ove, in tema di contraddittorio nel procedimento tributario, si è affermato che "la violazione del diritto al contraddittorio comporta l'invalidità dell'atto purchè il contribuente abbia assolto all'onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere". Tale affermazione, sostenuta in particolare da cass. n. 4725/16 cit., correttamente privilegia una lettura sostanzialistica (della tutela del) del diritto al contraddittorio, ed appare in linea con gli approdi della giurisprudenza elaborata dalla Corte di giustizia sull'art. 41 della Carta dei diritti fondamentali (cfr. cgeu senti. 3.7.2014, Kamino international logistics, ove si afferma che la violazione dei diritti di difesa, in particolare del diritto ad essere sentiti prima dell'adozione di provvedimento lesivo, determina l'annullamento dell'atto adottato al termine del procedimento amministrativo soltanto se, in mancanza di tale irregolarità, detto procedimento "avrebbe potuto comportare un risultato diverso"; nello stesso senso, si veda anche la sentenza 26 settembre 2013, texdata software). sicchè non avendo i ricorrenti specificato quale concreto vulnus la lesione del contraddittorio avrebbe arrecato alla possibilità di far valere le proprie ragioni nel procedimento sanzionatorio a loro carico apparendo del tutto generiche le indicazioni in tal senso offerte dagli interessati, si conferma l'infondatezza della censura proposta”. (47) Cosi espressamente Cass. SS.uu. 24823/2015. Alla tesi secondo cui la violazione del termine dilatoria è sanzionta con la nullità dell’atto, si è arrivati infatti per via interpretativa, dopo un faticoso contrasto interno alla Corte, sciolto da SS.uu. 18184 /2013. Quindi questa genesi dell'istituto, di matrice giurisprudenziale, non è priva di valore nella determinazione del criterio ermeneutico da adottare. RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 traddittorio endoprocedimentale di cui all’art. 12 co. 7 L. 212/2000 può comportare la sanzione demolitoria solo se, laddove il contraddittorio fosse stato rispettato, il procedimento avrebbe potuto avere un esito diverso, sulla base delle allegazioni del contribuente (48). In mancanza di tale condizione, l’avviso di accertamento non merita di essere annullato. Detta lettura “sostanzialista” consente di superare (almeno parzialmente) la “distonia” del regime di accertamento dei tributi “non armonizzati”, rispetto a quelli “armonizzati”, favorendo - almeno tendenzialmente - una soluzione unitaria del contenzioso ed evitando il paradosso che un unico avviso di accertamento eseguito in violazione del contraddittorio necessario possa essere confermato con riferimento all’IvA (in virtù del c.d. temperamento Kamino) ed annullato con riferimento alle imposte dirette. . (48) una sanzione non demolitoria per la violazione dell'art. 12 co. 7 potrebbe consistere nella condanna alle spese per responsabilità aggravata. ConTRIbuTI DI DoTTRInA L’articolo 21 bis della legge n. 287 del 1990 e la legittimazione ad agire nel processo amministrativo della autorità Garante della Concorrenza e del Mercato Carlo Bellesini* L’articolo 21 bis della legge n. 287 del 1990 introduce nell’ordinamento giuridico italiano la legittimazione ad agire dinanzi al giudice amministrativo dell’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato per l’annullamento di un provvedimento della P.A. che si assume lesivo della concorrenza. Con il presente articolo s’intendono ripercorrere i plurimi contributi dottrinari ed i recenti interventi giurisprudenziali sorti sullo specifico tema rilevandone le problematicità tanto di ordine pratico quanto di carattere sistematico. sommario: i. la natura della legittimazione ad agire dell’agcm nelle recenti elaborazioni dottrinarie e giurisprudenziali - ii. le peculiarità del ricorso - iii. Profili procedurali e processuali - iv. (segue) il rilascio del parere motivato quale condizione di ammissibilità del ricorso dell’agcm - v. (segue) il dies a quo per l’emissione del parere interlocutorio e la sua rilevanza - vi. (segue) la decorrenza del termine di proposizione del ricorso. i. la natura della legittimazione ad agire dell’agcm nelle recenti elaborazioni dottrinarie e giurisprudenziali. L’art. 35 del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, cd. decreto “salva italia”, come modificato dalla legge di conversione 22 dicembre 2011, n. 214, ha introdotto nella legge n. 287 del 1990 l’articolo 21 bis il quale al I comma pone in capo all’AgCM “la legittimazione ad agire in giudizio contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica in contrasto con le norme a tutela della concorrenza e del mercato”. Con il presente articolo, si intendono affrontare i molteplici temi di natura pratica e sistematica sollevati dall’introduzione del potere di impugnare gli atti amministrativi (presunti) anticoncorrenziali da parte dell’Antitrust. Dottrina e giurisprudenza (1) si sono cimentate nel difficile compito di (*) Avvocato e dottore di ricerca in diritto amministrativo presso la facoltà di giurisprudenza dell’università La Sapienza di Roma, già praticante forense presso l’Avvocatura dello Stato. (1) Per una ricostruzione di carattere sistematico della legittimazione ad agire nel processo amministrativo si consiglia R. gIovAgnoLI, atti amministrativi e tutela della concorrenza. il potere di legittimazione a ricorrere dell’agcm nell’art. 21-bis legge n. 287/1990 - relazione al convegno tenutosi presso l’università degli studi di Milano il 27 settembre 2012 in www giustizia-amministrativa.it; v. CeRuLLI IReLLI, legittimazione “soggettiva” e legittimazione “oggettiva” ad agire nel processo amministrativo in diritto processuale amministrativo, 2014. Peraltro, si segnalano F. CInTIoLI, osservazioni sul ricorso giurisdizionale dell’autorità garante della concorrenza e del mercato (art. 21 bis l. n. 287 del 1990) in giust. amm.it, 2013; M.A.SAnDuLLI, introduzione a un dibattito sul nuovo potere di legittimazione al ricorso dell’agcm nell’art. 21 bis l. n. 287 del 1990, in www.federalismi.it, 2012 e R. CI- FAReLLI, verso un nuovo protagonismo delle autorità indipendenti? spunti di riflessione intorno all’art. RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 colmare alcuni vuoti lasciati dal Legislatore, sia in relazione alla tenuta sistematica e costituzionale di siffatta legittimazione ad agire sia in relazione alle numerose criticità sorte in sede di applicazione ed esecuzione. in primis, è sorta la questione della riconducibilità nell’alveo della giurisdizione amministrativa, così come delineata dall’ordinamento giuridico italiano, del potere di impugnare atti amministrativi in capo all’AgCM a tutela di un interesse generale. Com’è noto, la Costituzione italiana imprime al processo amministrativo un carattere marcatamente soggettivo, strumentale alla tutela di situazioni giuridiche dei singoli nei confronti della pubblica autorità. Diritti soggettivi e, nei casi espressamente previsti dalla legge, interessi legittimi devono trovare tutela dinanzi agli organi della giurisdizione amministrativa senza limiti nei mezzi e nell’oggetto (artt. 103 e 113, Cost.). Ciò è espressione del fondamentale diritto alla difesa di cui all’articolo 24 della Costituzione, laddove tutti coloro i quali vantino come “propri” diritti ed interessi legittimi meritano (hanno il diritto di ottenere) tutela dinanzi all’autorità giurisdizionale, la quale ha l’obbligo di provvedere a tale funzione (2). Risulta oramai superata la lettura del processo amministrativo quale luogo per ripristinare la legalità dell’Amministrazione, dove l’interesse di parte fungeva esclusivamente da impulso per l’attività giurisdizionale. A seguito dei progressi della dottrina e della giurisprudenza l’ordinamento è giunto ad assi 21-bis della legge n. 287 del 1990, in www.amministrazioneincammino.luiss.it, 2012; g. uRbAno, i nuovi poteri processuali delle autorità indipendenti, in giorn. dir. amm., 2012; n. PeCChIoLI, “teologia della concorrenza” o crisi di cooperazione? note critiche sulla legittimazione dell’agcm ad impugnare atti amministrativi e regolamenti, in giustamm.it, 2012. Per una lettura delle criticità di ordine pratico sollevate dalla nuova legittimazione ad agire dell’AgCM si consiglia M. CAPPAI, il problema della legittimazione a ricorrere dell’autorità garante della concorrenza e del mercato nella prima giurisprudenza amministrativa in foro amm. tar, 2013, 5, 1607, che riporta compiutamente i recenti interventi giurisprudenziali sulle maggiori criticità sollevate dalla norma in esame, specialmente di natura procedimentale, relative alla natura del parere emesso dall’AgCM ed alla sua qualità di requisito di ammissibilità del ricorso, nonchè alla tempestività del ricorso e al dies a quo del decorso dei termini. Si vd. M. CLARICh, “i poteri di impugnativa dell’agcm ai sensi del nuovo art. 21-bis l. 287/90” in Atti del Convegno organizzato dall’Autorita` garante della Concorrenza e del Mercato su: “evoluzioni del ruolo e delle competenze delle autorità antitrust” Roma, 27 marzo 2013. In giurisprudenza, TAR Lazio, III ter, 15 marzo 2013, n. 2720; TAR Lazio, II, 6 maggio 2013 n. 4451, Corte cost. n. 20/2013. (2) Sul punto si vd. v. CeRuLLI IReLLI, la giurisdizione amministrativa nella costituzione in astrid e v. CeRuLLI IReLLI, giurisdizione amministrativa e pluralità delle azioni (dalla costituzione al codice del processo amministrativo) in dir. proc. amm. 2012, 02, 436. Per un approfondimento sulla giustizia amministrativa nella Costituzione, si consigliano altresì, bACheLeT v., la giustizia amministrativa nella costituzione italiana, Milano, 1966; e ripubb. in scritti giuridici, II, Milano, 1981, ChITI M.P., l’influenza dei valori costituzionali sul diritto processuale amministrativo, in dir. proc. amm., 1984; beRTI g., commento art. 113, in commentario alla costituzione a cura di g. bRAnCA, bologna 1987; SILveSTRI g., giudici ordinari, giudici speciali e unità della giurisdizione nella costituzione italiana, in scritti in onore di m.s. giannini, Milano, 1988; SoRRenTIno F., Profili costituzionali della giurisdizione amministrativa, in dir. proc. amm., 1990; ReSCIgno g.u., la tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi secondo la costituzione italiana, in dir. pubbl., 2006. ConTRIbuTI DI DoTTRInA curare la piena tutela giurisdizionale di tutte le situazioni protette nei rapporti tra cives e Pubblica Amministrazione. Dimostrazione di tale evoluzione risulta dal codice del processo amministrativo (d.lvo n. 104/2010), il quale con più disposizioni fornisce al ricorrente una gamma di strumenti (azioni di annullamento, condanna, accertamento, cautelare), idonei ad assicurare una tutela effettiva dinanzi ad ogni manifestazione della P.A. (si veda l’art. 7 del c.p.a., che contempla “l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi, comportamenti”) (3). Con riferimento all’articolo 21 bis della legge n. 287 del 1990, è apparsa tra gli interpreti la preoccupazione che un’ipotesi di legittimazione ad agire a tutela di interessi generali potesse violare un limite implicito della Costituzione, secondo cui il legislatore non potrebbe prevedere che azioni processuali - e relative legittimazioni - volte a garantire diritti ed interessi legittimi. Secondo l’orientamento maggioritario in dottrina (4), tuttavia, l’articolo (3) Sul punto, v. CeRuLLI IReLLI, giurisdizione amministrativa e pluralità delle azioni (dalla costituzione al codice del processo amministrativo), in dir. Proc. amm., 2012, il quale ricostruisce l’evoluzione della giustizia amministrativa dalla Costituzione sino all’emanazione del codice del processo amministrativo. In generale, alcuni commentari del codice, A. QuARAnTA, v. LoPILATo (a cura di), il processo amministrativo, Milano, 2011; M. SAnIno (a cura di), codice del processo amministrativo, Torino, 2011; b. SASSAnI, R. vILLATA (a cura di), il codice del processo amministrativo, Torino, 2012; F. MeRuSI, il codice del giusto processo amministrativo, in dir. proc. amm., 2011, pp. 1 ss.; A. PAjno, la giustizia amministrativa all’appuntamento con la codificazione, in dir. proc. amm., 2010, pp. 119 ss.; M. LIPARI, l'effettività della decisione tra cognizione e ottemperanza, in Atti del 56° Convegno di varenna, Milano, 2011, pp. 95 ss.; F. LuCIAnI, Processo amministrativo e disciplina delle azioni: nuove opportunità, vecchi problemi e qualche lacuna nella tutela dell’interesse legittimo, in dir. proc. amm. 2012. (4) Si vd.no ex multis R. gIovAgnoLI, atti amministrativi e tutela della concorrenza. il potere di legittimazione a ricorrere dell’agcm nell’art. 21-bis legge n. 287/1990 -relazione al convegno tenutosi presso l’università degli studi di Milano il 27 settembre 2012 in www giustizia-amministrativa.it ; M.A. SAnDuLLI, introduzione a un dibattito sul nuovo potere di legittimazione al ricorso dell’agcm nell’art. 21 bis l. n. 287 del 1990, in www.federalismi.it, 2012 e R. CIFAReLLI, verso un nuovo protagonismo delle autorità indipendenti? spunti di riflessione intorno all’art. 21-bis della legge n. 287 del 1990, in www.amministrazioneincammino.luiss.it, 2012. Per completezza, ex adverso è emersa in dottrina una lettura dell’articolo 21 bis che qualifica la legittimazione dell’AgCM in senso “oggettivo”, dimostrando come tale ricostruzione trovi evidenti conferme nel quadro costituzionale ed ordinamentale italiano. Come noto, la Costituzione assicura la tutela delle situazioni giuridiche protette dinanzi all’esercizio dell’autorità pubblica, così plasmando la natura “soggettiva” della giurisdizione amministrativa, in ossequio ad uno dei capisaldi dello Stato di diritto moderno. La garanzia costituzionale del cittadino dinanzi agli abusi del potere pubblico non può sfociare “in un divieto posto al legislatore di prevedere casi di legittimazione “oggettiva” (cioè a tutela di interessi generali piuttosto che a tutela di situazioni soggettive protette)”, poiché “in materia di giurisdizione sussiste riserva di legge, non riserva di Costituzione”. Si vd.no i casi di azione popolare di cui al decreto legislativo 18 agosto del 2000, n. 267, contenente il Testo unico delle Leggi sull’ordinamento degli enti Locali (cd. TueL). In particolare, l'art. 9 del TueL prevede che ciascun elettore può far valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al comune e alla provincia. L’articolo 70 del TueL dispone, altresì, che la decadenza dalla carica di sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale, provinciale o circoscrizionale può essere promossa in prima istanza da qualsiasi cittadino elettore del comune, o da chiunque altro vi abbia interesse davanti al tribunale civile. L’art. 6, comma 10, della l. 9 maggio 1989 n. 168 prevede un’ipotesi di giurisdizione og RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 21 bis della legge n. 287 del 1990 non può leggersi se non qualificando la legittimazione ad agire in giudizio dell’AgCM quale espressione della titolarità in capo a quest’ultima di una situazione giuridica soggettiva, personale e differenziata, che si assume lesa. In particolare, la concorrenza deve intendersi quale bene della vita giuridicamente rilevante, normalmente adespota che, tuttavia, ai sensi dell’articolo 21 bis della lg. n. 287/1990, il legislatore soggetti- vizza in capo all’AgCM, seguendo uno schema simile a quanto accade per gli interessi diffusi (5). Diversamente argomentando si approderebbe ad una lettura della norma contraria alla Costituzione, delineante il carattere “soggettivo” della giurisdizione amministrativa, chiamata alla tutela degli interessi legittimi e, nei casi di giurisdizione esclusiva, dei diritti soggettivi (artt. 24 e 103 Cost.). Tale tesi s’ispira a quella giurisprudenza (6) che riconosce nella gettiva conferendo al Ministero dell’Istruzione, dell’università e della Ricerca la legittimazione ex lege a ricorrere al giudice amministrativo per vizi di legittimità degli statuti adottati dalle università oltre i limiti della propria autonomia in contrapposizione ai rilievi del Ministero stesso. e l’art. 52, comma 4, del d.lgs. 15 dicembre 1997 n. 446 e ss. mm. pone in capo al Ministero dell’economia e delle Finanze la legittimazione ad impugnare dinanzi alla giustizia amministrativa per vizi di illegittimità i regolamenti con cui le Province ed i Comuni hanno provveduto a disciplinare le entrate locali nei limiti delle proprie competenze. Da ultimo, l’art. 36, 2° co., lett. n), d.l. n. 1/12, conv. in l. n. 27/12 attribuisce espressamente all’Autorità di regolazione dei trasporti una legittimazione a ricorrere (quanto alla materia: servizio taxi) al TAR del Lazio, a tutela del diritto di mobilità degli utenti, in ordine ad atti generali e particolari adottati da enti locali sulla gestione di detto servizio. ulteriori ipotesi di legittimazione oggettiva si hanno con le azioni a tutela ambientale di cui al decreto legislativo n. 152 del 2006 (cd. codice dell’ambiente). In particolare, dal combinato disposto degli artt. 309 e 310 del codice dell’ambiente le regioni, le province autonome e gli enti locali, anche associati, e le organizzazioni non governative che promuovono la protezione dell'ambiente, di cui all'articolo 13 della legge 8 luglio 1986, n. 349 sono legittimati ad agire per l'annullamento degli atti e dei provvedimenti adottati in violazione delle norme a tutela ambientale nonché avverso il silenzio inadempimento del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e per il risarcimento del danno subito a causa del ritardo nell'attivazione, da parte del medesimo Ministro, delle misure di precauzione, di prevenzione o di contenimento del danno ambientale. Pertanto, la legittimazione ad agire dell’AgCM si ascrive dunque a tali ipotesi di legittimazione “oggettiva” e, più precisamente, di legittimazione ex lege a tutela di un interesse pubblico: ciò in piena conformità ai dati offerti dall’ordinamento sia a livello costituzionale che sistematico. L’Autorità tutela l’interesse generale della collettività al corretto andamento del mercato, difficilmente riducibile ad una situazione giuridica autonoma e differenziata, pena lo svuotamento della sua stessa essenza. v. CeRuLLI IReLLI, legittimazione “soggettiva” e legittimazione “oggettiva” ad agire nel processo amministrativo in diritto processuale amministrativo, 2014; P. DuReT, la legittimazione ex lege nel processo amministrativo in dir. proc. amm. n. 1/1999. (5) In particolare, si vd. R. gIovAgnoLI, op. cit., il quale ritiene che il corretto funzionamento del mercato ed il libero esplicarsi in esso della libertà di iniziativa economica debbano identificarsi quale bene della vita, distinto dall’interesse di mero fatto al ripristino della legalità violata e protetto a livello costituzionale e comunitario nonché riconosciuto dalla giurisprudenza. Si tratta, prosegue la suddetta dottrina, di un interesse certamente “giuridicizzato”, tuttavia difficilmente “soggettivizzabile” in tutti quei casi in cui la lesione del mercato non si traduce anche in una lesione particolare della sfera giuridica del privato (impresa, consumatore, associazione di categoria). In altre parole, la soluzione pro- spettata è l’assimilazione dell’interesse alla concorrenza e al mercato ad un interesse diffuso e la sua trasformazione in interesse collettivo di cui diventa titolare l’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato, quale ente esponenziale del gruppo, dotato dei necessari requisiti di rappresentatività. (6) Cfr. ex multis, Cass. Sez. un. 4 febbraio 2005 n. 2207. ConTRIbuTI DI DoTTRInA concorrenza un “bene della vita” da salvaguardare al fine di assicurare la piena esplicazione della libertà di iniziativa economica privata, quale “pretesa di autoaffermazione economica della persona attraverso l'esercizio dell’impresa”. Secondo questa tesi, le norme anticoncorrenziali si muovono a tutela di interessi individuali, concreti e qualificati, e fondano situazioni giuridiche soggettive in capo a tutti coloro che agiscono sul mercato, imprese e consumatori, la cui violazione consente l'attivazione dei rimedi giurisdizionali. La tutela della concorrenza e del mercato rispecchia un interesse meritevole di tutela da parte dell’ordinamento giuridico, in quanto proprio della generalità dei consociati. L’AgCM risulta così l’ente per legge affidatario della cura di tale interesse (sostanziale, differenziato e qualificato), legittimato ad adire l’autorità giurisdizionale per ottenere tutela in caso di lesione (7). In altre parole, tale orientamento ricollega il potere di impugnare provvedimenti lesivi della concorrenza alla tutela di un interesse proprio dell’Autorità rapportandola ad un interesse legittimo. Si è rilevato come tale modello sarebbe simile a quello della legittimazione della Commissione ue ad impugnare atti amministrativi nazionali davanti alla Corte di giustizia per illegittimità comunitaria ex art. 108 TFue (8). La legittimazione ad agire dell’AgCM rappresenterebbe uno strumento di sindacato sulla legittimità dell’azione amministrativa analogo al modello comunitario della procedura di infrazione. Più in generale, si sostiene che ciascun soggetto istituito per la tutela di un determinato interesse pubblico sarebbe a sua volta titolare di una situazione giuridica personale, specifica e qualificata nell’ipotesi di violazione delle regole poste a tutela del medesimo interesse (interesse legittimo). (7) Cfr. TAR Lazio, III ter, 15 marzo 2013, n. 2720, che aderendo a tali ricostruzioni, rileva che: “l'interesse di cui l'autorità è portatrice è interesse pubblico, benché individuale e differenziato rispetto all'interesse generale o all'interesse diffuso in maniera indistinta sulla collettività: e si specifica come interesse pubblico alla promozione della concorrenza e alla garanzia del corretto esplicarsi delle dinamiche competitive, come condizione e strumento per il benessere sociale”. In altre parole, secondo il TAR, “la creazione di un’autorità amministrativa indipendente rimane comunque il frutto di una scelta politica discrezionale che conferisce a tale organismo non già diritti, bensì potestà amministrative, sia pure non consistenti nella tutela di un interesse pubblico tradizionale quanto nella garanzia di un bene comune, perseguito attraverso la regolazione neutrale degli interessi di imprese, consumatori, utenti”. (8) Sul punto, M.A. SAnDuLLI, op. cit., la quale in particolare riprende le tesi di g. gReCo ne il modello comunitario della procedura di infrazione e il deficit di sindacato di legittimità dell’azione amministrativa in italia, in riv. it. dir. pubbl. comun., 2010 secondo cui “così come la commissione ue è legittimata a proporre ricorso per far accertare la violazione da parte degli stati degli obblighi comunitari, così dovrebbe ritenersi che anche nell’ordinamento nazionale ciascuna autorità pubblica possa attivare il controllo giurisdizionale, anche nei confronti di altri enti pubblici, per far accertare la violazione delle norme che ne delimitano prerogative e sfere di competenza in ossequio all’obbligo di leale cooperazione di cui all’art. 120, comma 2, cost.: l’adozione di un atto illegittimo comporterebbe la violazione dell’obbligo di leale collaborazione nei confronti dell’ente la cui normativa è stata violata, potendo allora individuarsi in capo a questo ente la lesione di un interesse personale, specifico e qualificato, con conseguente legittimazione all’impugnazione dell’atto che quell’obbligo ha violato”. RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 Tale dottrina evidenzia come la novità legislativa in esame si innesti in un solco più volte arato a livello comunitario che vede l’AgCM quale “amicus curiae” (9). Ci si riferisce al potere riconosciuto all'agcm dall'art. 15 del reg. ce n. 3/2001 secondo cui “le autorità degli stati membri possono intervenire in un giudizio pendente dinanzi alle giurisdizioni nazionali, presentando osservazioni scritte o, previa autorizzazione del giudice, anche orali, in applicazione degli art. 101 e 102 tfue”. Pertanto, con la legittimazione ad agire del- l’AgCM l’Autorità si trasformerebbe da mera “interveniente” a “parte processuale che agisce in giudizio”, con evidente potenziamento della tutela al corretto funzionamento del Mercato. Secondo tale interpretazione, l'art. 21 bis presenta forti “analogie” con la procedura d'infrazione disciplinata dagli artt. 258-259 TFue, rappresentando “la trasposizione interna di un procedimento previsto dalla normativa dell'unione quale il ricorso per inadempimento promosso dalla commissione europea dinanzi alla corte di giustizia contro lo stato che violi gli obblighi derivanti dal diritto dell'unione (art. 258 tfue)” (10). Si profilano due facce della tutela dell’interesse ad un mercato in libera concorrenza, rappresentate da un lato dalle garanzie giurisdizionali assicurate per i singoli soggetti economici e dall’altro dal potere dell'AgCM di agire in giudizio per l'annullamento di provvedimenti amministrativi ritenuti anticoncorrenziali. e la giurisprudenza ad oggi prevalente sembra aver condiviso tale tesi (11). Il nuovo potere dell'AgCM, più che come potere di azione nell'interesse generale della legge in uno specifico settore, effettivamente di difficile riconduzione all'interesse legittimo, è per scelta del legislatore, uno degli strumenti volti a garantire l'attuazione dell'interesse pubblico, quest’ultimo pur sempre particolare e differenziato, alla migliore attuazione del valore “concorrenza”, di cui è specifica affidataria l'autorità. e ciò anche in possibile contrasto con gli ulteriori interessi, pubblici o privati, di altri soggetti che operano sul mercato, come situazione giuridica comunque lesa dalla violazione delle norme a tutela della libertà di concorrenza, e dunque direttamente soddisfatta dal ripristino della legalità violata. Pertanto, si ritiene l’istituto de quo come volto al "potenziamento" del ruolo del soggetto affidatario della tutela di un interesse pubblico particolare, fino al punto di essere legittimato ad agire direttamente in giudizio contro gli atti e i comportamenti che, violando la legge, ne integrino una lesione, in aggiunta a quella dei diritti e degli interessi degli operatori, pubblici o privati, specificamente coinvolti (12). (9) Il rilievo è mutuato da M.A. SAnDuLLI, introduzione a un dibattito cit. (10) Il rilievo è mutuato da M.A. SAnDuLLI, introduzione a un dibattito cit. (11) TAR LAZIo sentenza n. 2720/2013, T.A.R. Lazio Roma Sez. II, sent., 6 maggio 2013, n. 4451, Consiglio di Stato - sez. v - sentenza 30 aprile 2014 n. 2246 e, da ultimo, Cons. Stato Sez. Iv, 28 gennaio 2016, n. 323. ConTRIbuTI DI DoTTRInA Secondo tale posizione il nuovo potere dell'Autorità andrebbe quindi inquadrato come azione a tutela di una situazione giuridica differenziata e qualificata. Assumerebbe specifico peso a tale riguardo, l'interesse alla migliore attuazione del valore "concorrenza", che secondo detta ricostruzione non andrebbe ricondotto ad una declinazione del mero interesse generale al rispetto della legge, quanto piuttosto ad un interesse particolare e differenziato di cui l'autorità sarebbe diretta portatrice; una declinazione di interesse legittimo soggettivizzato in capo all'Autorità e per la cui tutela essa risulterebbe legittimata ex lege a rivolgersi al giudice amministrativo (13). Sarebbe infatti "proprio la natura indipendente dell'autorità e la specifica missione ad essa affidata (tutela dello specifico interesse pubblico, sotteso ad un mercato concorrenziale, che, per le forti implicazioni economiche e sovranazionali, si vuole sottratta all'apparato governativo)" a giustificare la scelta legislativa di attribuire in primis a tale soggetto, la legittimazione processuale ad agire per assicurarne la tutela (14). ii. le peculiarità del ricorso. Sul tema dell’oggetto del ricorso dell’Antitrust per l’annullamento del- l’atto anticoncorrenziale si rinvengono interessanti orientamenti in dottrina e giurisprudenza (15). gli interpreti si sono in particolare mossi nel cercare di (12) T.A.R. Lazio Roma Sez. II, sent., 6 maggio 2013, n. 4451. (13) Sul punto, anche la Corte cost. (sentenza n. 20 del 14 febbraio 2013). In particolare, a fronte dell’impugnativa della Regione veneto -la quale lamentava, tra l'altro, la circostanza secondo cui l'art. 21 bis finirebbe "col sottoporre gli atti regolamentari ed amministrativi regionali ad un nuovo e generalizzato controllo di legittimità, su iniziativa di un'autorità statale", così travalicando i limiti desumibili dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 64 del 2005 e violando altresì gli artt. 117, sesto comma, e 118, primo e secondo comma, Cost., -la Corte ha osservato che è inesatto parlare di "nuovo e generalizzato controllo di legittimità", là dove la norma -integrando i poteri conoscitivi e consultivi già attribuiti all'Autorità garante dagli artt. 21 e seguenti della L. n. 287 del 1990 -prevede un potere di iniziativa finalizzato a contribuire ad una più completa tutela della concorrenza e del corretto funzionamento del mercato (art. 21, comma 1, della legge citata) e, comunque, certamente non generalizzato, perché operante soltanto in ordine agli atti amministrativi "che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato". (14) Consiglio di Stato - sez. v - sentenza 30 aprile 2014 n. 2246. (15) Sul tema si consiglia la lettura di F. CInTIoLI, osservazioni sul ricorso giurisdizionale del- l’autorità garante della concorrenza e del mercato (art. 21 bis l. n. 287 del 1990) in giust. amm.it, 2013; R. gIovAgnoLI, atti amministrativi e tutela della concorrenza. il potere di legittimazione a ricorrere dell’agcm nell’art. 21-bis legge n. 287/1990 - relazione al convegno tenutosi presso l’università degli studi di Milano il 27 settembre 2012 in www giustizia-amministrativa.it; g. uRbAno, i nuovi poteri processuali delle autorità indipendenti, in giorn. dir. amm., n. 10/2012, 1022-1031; R. CIFAReLLI, verso un nuovo protagonismo delle autorità indipendenti? spunti di riflessione intorno all'art. 21-bis della legge n. 287 del 1990, in www.amministrazioneincammino.luiss.it, del 12 luglio 2012; M. LIbeRTInI, i nuovi poteri dell'autorità antitrust (art. 35 d.l. 201/2011), in www.federalismi.it, del 14 dicembre 2011, 2; R. PoLITI, ricadute processuali a fronte dell'esercizio dei nuovi poteri rimessi all'agcm ex art. 21bis della l. 287/1990. legittimazione al ricorso ed individuazione dell'interesse alla sollecitazione del sindacato. ovvero: prime riflessioni sul nuovo protagonismo processuale dell'autorità antitrust, tra il minosse di dante ed il giudice di de andré, in www.federalismi.it, del 5 giugno 2012; F. ARenA, atti amministrativi e restrizioni della concorrenza: i nuovi poteri dell'autorità antitrust italiana, contributo RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 individuare tanto l’esatto provvedimento nei cui confronti l’impugnativa deve rivolgersi quanto il contenuto di quest’ultima, ossia la gamma di vizi sollevabili. Le ricostruzioni restrittive vengono preferite da quanti ritengono la legittimazione ad agire dell’AgCM un ipotesi di giurisdizione di diritto oggettivo, così limitando l’applicabilità della norma entro indicazioni normative puntuali e precise nel tentativo di recuperarne la tenuta costituzionale. Posizione che risulterebbe tuttavia superata guardando all’orientamento (si vd. prima par. III) che riconduce la legittimazione “oggettiva” dell’Antitrust nell’alveo di una giurisdizione “soggettiva” (16). gli interpreti si sono cimentati nell’individuare l’oggetto del ricorso chiedendosi se esso debba rivolgersi verso il provvedimento amministrativo che si assume originariamente lesivo della concorrenza e del buon funzionamento del mercato o, viceversa, nei confronti della determinazione (o dell’eventuale silenzio-inadempimento) assunta dalla P.A. interessata a seguito della fase interlocutoria introdotta dal parere dell’AgCM ai sensi del II comma dell’art. 21 bis - secondo cui: “l'autorità garante della concorrenza e del mercato, se ritiene che una pubblica amministrazione abbia emanato un atto in violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato, emette, entro sessanta giorni, un parere motivato, nel quale indica gli specifici profili delle violazioni riscontrate. se la pubblica amministrazione non si conforma nei sessanta giorni successivi alla comunicazione del parere, l'autorità può presentare, tramite l'avvocatura dello stato, il ricorso, entro i successivi trenta giorni”-. nella risoluzione del quesito riposa la conseguenza pratica dell'ammissibilità o meno (per carenza di interesse) del ricorso principale in caso di eventuale mancata impugnazione da parte dell’Antitrust dell’uno o dell’altro atto. un primo filone dottrinario (17) ritiene il parere dell’Autorità come un invito rivolto all’Amministrazione interessata ad agire in autotutela per ottenere l’annullamento d’ufficio del provvedimento lesivo della concorrenza e per la X edizione del Convegno «antitrust fra diritto nazionale e diritto dell'unione europea », Treviso 17-18 maggio 2012; M.A.SAnDuLLI, introduzione a un dibattito sul nuovo potere di legittimazione al ricorso dell’agcm nell’art. 21 bis l. n. 287 del 1990, in www.federalismi.it, 2012; M. CAPPAI, il problema della legittimazione a ricorrere dell’autorità garante della concorrenza e del mercato nella prima giurisprudenza amministrativa in foro amm. tar, 2013, 5, 1607. In giurisprudenza, per le complesse ricadute processuali dell’articolo 21 bis della legge n. 287 del 1990, si veda TAR Lazio, III ter, 15 marzo 2013, n. 2720; TAR Lazio, II, 6 maggio 2013 n. 4451 in www.giustizia-amministrativa.it. (16) Per la legittimazione oggettiva dell’AgCM, si vd. v. CeRuLLI IReLLI, legittimazione “soggettiva” e legittimazione “oggettiva” ad agire nel processo amministrativo in diritto processuale amministrativo, 2014. Sulla stessa falsariga sembrerebbero TAR Lazio, II, 6 maggio 2013 n. 4451, Corte cost. n. 20/2013. (17) Cfr. F. CInTIoLI, osservazioni sul ricorso giurisdizionale cit., 11-14; g. uRbAno, i nuovi poteri processuali cit., p. 1028; M. LIbeRTInI, i nuovi poteri dell'autorità cit., 2; F. ARenA, atti amministrativi e restrizioni cit.; n. PeCChIoLI, «teologia della concorrenza» cit., 2, nt. 1. In particolare, g. uRbAno, i nuovi poteri processuali cit., 1028, rileva “come un atto di indirizzo volto a sollecitare al- l'amministrazione l'esercizio del potere in autotutela”. ConTRIbuTI DI DoTTRInA del mercato ai sensi dell’articolo 21 nonies, l. n. 241 del 1990. Pertanto, l’oggetto del ricorso consisterebbe nell'atto di diniego motivato o di silenzio-inadempimento dell’Amministrazione invitata con il parere ad esercitare i poteri di autotutela decisoria (18). Si sostiene l’importanza di assoggettare il contenuto del ricorso dell’AgCM ai presupposti dell’annullamento d’ufficio, per ragioni sistematiche e di principio. In particolare, in tal modo l’Autorità dovrebbe in ogni caso vagliare il legittimo esercizio del potere di autotutela da parte dell’Amministrazione intimata, con riferimento non solo ai vizi d'illegittimità del provvedimento ex art. 21 octies lg. n. 241/90 (violazione di legge, eccesso di potere, incompetenza), ma anche alla sussistenza di ragioni d'interesse pubblico, della ragionevolezza del termine entro il quale interviene l'annullamento e dell’eventuale pregiudizio subito da terzi. Si tratta, come noto, della “necessaria ponderazione dell'interesse pubblico attuale e concreto ad annullare ” (19). Secondo tale tesi, in questo modo il potere di impugnare dell’AgCM sarebbe assoggettato a più stringenti presupposti, con maggiore garanzia del principio costituzionale di separazione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) e diminuzione del rischio d’invasioni nel merito amministrativo (20). Alla circostanza per cui la P.A. valuterà quale interesse concreto ed attuale alla conservazione o meno del provvedimento impugnato un bene presumibilmente diverso da quello della concorrenza, l’orientamento in esame replica che diversamente si dovrebbe accettare “l'originale idea che l'ordinamento voglia dare alla concorrenza una sorta di inedito primato su tutti gli altri interessi generali del sistema” (21). Tutto ciò troverebbe conferme nella facoltatività (e non doverosità) dell’esercizio del potere di impugnare a seguito della conclusione della fase consultiva (l’AgCM non impugnerebbe l’atto qualora ritenesse fondate le ragioni addotte dalla P.A. per il mancato esercizio del potere di autotutela o si verificassero sopravvenienze - di fatto o di diritto -tali da garantire la legittimità del provvedimento in relazione alle norme poste a tutela della concorrenza e del mercato). D’altro canto, un secondo orientamento (22) sostiene che l’oggetto del ri (18) Questa ricostruzione, si è affermato, dovrebbe essere preferita “per necessità di ordine sistematico e di coerenza con i principi generali”, si vd. F. CInTIoLI, osservazioni sul ricorso giurisdizionale cit., 11. (19) Cit. F. CInTIoLI, osservazioni sul ricorso giurisdizionale cit., 11. (20) Cit. F. CInTIoLI, osservazioni sul ricorso giurisdizionale cit., 11. “se riteniamo il conformarsi dell'amministrazione destinataria del parere come fenomeno di autotutela decisoria avremo che, una volta accertato che non esistono i presupposti di legge per il suo esercizio, anche il potere di ricorso agcm dovrà arrestarsi di fronte a questo dato” (…) “anche se vi sia stata, a suo tempo, una violazione delle predette norme... altrimenti avremmo riconosciuto alla speciale legittimazione dell'autorità una forza che nessun'altra forma di ricorso possiede e che oltretutto sarebbe in evidente distonia con irrinunciabili esigenze d'interpretazione sistematica”. (21) Cit. F. CInTIoLI, osservazioni sul ricorso giurisdizionale cit., 11. (22) Cfr. R. PoLITI, ricadute processuali cit., 26-29; R. gIovAgnoLI, ricadute processuali a fronte dell'esercizio dei nuovi poteri cit., 16-17; g. uRbAno, i nuovi poteri processuali cit., 1029. RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 corso sia esclusivamente l’atto originario ritenuto illegittimo, mentre la determinazione dell’Amministrazione interessata a seguito del parere interlocutorio avrebbe valore endoprocedimentale. Tale argomento si muove dal dato testuale e dalla chiarezza del dispositivo di cui all’articolo 21 bis secondo comma, che “non individuerebbe l'oggetto del giudizio ma si limiterebbe a fissare le modalità procedimentali per l'esercizio del descritto potere d'azione” (23). In tal modo, l’autorità giurisdizionale si troverebbe nelle condizioni di esercitare il solo scrutinio di legittimità alla luce dei vizi sollevati dall’AgCM con esclusivo riferimento alla violazione delle norme a tutela di concorrenza e buon funzionamento del mercato ed in ossequio al principio della domanda (24). La giurisprudenza (25) sembra aver accolto tale orientamento, rilevando come “l'atto impugnabile è l'atto ritenuto lesivo della concorrenza, e non l'atto successivo con il quale l'amministrazione decida di non conformarsi al parere interlocutorio dell'autorità. (…) il secondo comma ... non individua l'oggetto del giudizio, limitandosi ... a dettare le regole procedimentali per l'esercizio del potere di azione in sede giurisdizionale”. La Corte costituzionale ha sulla stessa falsariga osservato come l’introduzione della legittimazione ad agire dell’AgCM veda la realizzazione nell’ordinamento di “un momento di interlocuzione preventiva dell'autorità con l'amministrazione emanante l'atto ritenuto anticoncorrenziale, allo scopo di stimolare uno spontaneo adeguamento della fattispecie ai principi in materia di libertà di con (23) Cit. R. gIovAgnoLI, ricadute processuali a fronte dell'esercizio dei nuovi poteri cit. Tuttavia, un opposto orientamento ritiene che “in mancanza di alcuna espressa manifestazione di volontà (completamente) adesiva rispetto al parere, l'impugnazione prevista dalla norma debba rivolgersi avverso l'originario atto dell'amministrazione” cit. R. PoLITI, ricadute processuali cit., 26. (24) Sul principio della domanda e le ipotesi di legittimazione oggettiva nel processo amministativo si vd. ampliamente v. CeRuLLI IReLLI, legittimazione “soggettiva” e legittimazione “oggettiva” ad agire nel processo amministrativo in diritto processuale amministrativo, 2014; in tal modo si assicura una maggiore ampiezza del sindacato del g.a. nel verificare la liceità del provvedimento impugnato rispetto alle norme della concorrenza, il tutto nei limiti del principio dispositivo. Peraltro, se oggetto è l’atto originario, ci si chiede se in concreto il contenuto del ricorso debba essere limitato dai vizi segnalati nel parere o se l'AgCM, in sede di ricorso “non soffra alcun limite, con pienezza devolutiva involgente anche aspetti diversi rispetto a quelli già rappresentati”. Secondo un orientamento consolidato delle Corti amministrative in materia di impugnativa di decisioni gerarchiche, sembrerebbe preferibile una limitazione delle censure a quelle originariamente rilevate in sede amministrativa (si vd. Cons. di St., sez. Iv, 5 settembre 2008 n. 4231), per evitare l’elusione del termine di decadenza dell’azione d’annullamento in sede giurisdizionale (Cfr., ex plurimis, Cons. St., sez. Iv, 11 aprile 2007 n. 1603; Tar Lazio, sez. III-bis, 22 maggio 2008 n. 4804; Tar Lazio, Latina, 26 luglio 2005 n. 629). Sul punto, si rimanda a R. PoLITI, ricadute processuali cit., 26-27. Per ciò, la determinazione dell’AgCM in seguito alla fase interlocutoria risulterebbe esercizio di uno “speciale potere di ritornare sui propri atti, ove dall'agcm ritenuti lesivi di norme a tutela della concorrenza e del mercato, anche a prescindere dai presupposti dell'autotutela decisoria” cit. R. gIovAgnoLI, ricadute processuali a fronte dell'esercizio dei nuovi poteri cit. (25) Cfr. Tar Lazio, Sez. III bis, n. 2720 del 2013, il quale peraltro rileva come “l'atto attraverso il quale la P.a. decide di non conformarsi al parere emesso dall'autorità ha natura endoprocedimentale, pertanto l'oggetto del ricorso instaurato per iniziativa dell'agcm è costituito dall'atto originario, ritenuto dalla stessa anticoncorrenziale e in quanto tale colpito dal parere”. ConTRIbuTI DI DoTTRInA correnza in esito ad un confronto dialettico che costituisca espressione del principio di leale collaborazione fra pubbliche amministrazioni” (26). Diversamente argomentando e dando rilevanza esterna alle determinazioni endoprocedimentali dell’Amministrazione si mortificherebbe la ratio dell’istituto, che mira ad una soluzione deflattiva del contenzioso attraverso un momento di cooperazione tra Pubbliche Amministrazioni. Peraltro, osserva la magistratura come vincolare il potere di impugnare dell’AgCM ai presupposti dell’articolo 21 novies della legge n. 241 del 1990 contrasterebbe con la finalità, di vocazione comunitaria, di contrasto agli atti anticoncorrenziali e lesivi del buon funzionamento del mercato per “la primazia della tutela della libertà di concorrenza, espressione di valori costituzionali e comunitari e strumento di attuazione del benessere sociale” (27). In definitiva, si asserisce l’esistenza in capo all'Amministrazione di un “obbligo di conformare la propria azione alla salvaguardia dei principi in materia di concorrenza”, in caso di fondatezza dei rilievi dell’AgCM, senza che ciò posa essere ostacolato dalla mancanza di uno dei presupposti dell'annullamento d'ufficio come esimente della propria inottemperanza (28). È opportuno infine riportare un ultimo orientamento (29) secondo cui il parere in questione non sarebbe equiparabile ai pareri che esprime l’AgCM in funzione consultiva ai sensi dell’art. 22 della legge n. 287/1990, ma avrebbe “natura sostanziale di un atto di diffida”, riconducibile all’articolo 15 della legge 287 del 1990. Si parla delle diffide, con fissazione di un termine per l’eliminazione dell’infrazione, che l’Autorita` puo` indirizzare ai soggetti privati nei casi di violazione delle disposizioni in materia di intese restrittive della concorrenza e di abuso di posizione dominante, in conseguenza delle quali sorge in capo al destinatario un obbligo di conformazione (30). Si evidenzia in particolare come l’art. 21 bis, nel prevedere la legittimazione ad agire del- l’AgCM “se la pubblica amministrazione non si conforma” al parere, confe (26) Cfr. Corte cost. n. 20/2013. (27) vd. Tar Lazio, Sez. III bis, n. 2720 del 2013, rileva che “l'amministrazione non potrà, pur riconoscendo la violazione delle norme a tutela della concorrenza, decidere di non rimuovere o di non modificare l'atto originariamente adottato in ragione dell'asserito difetto dei presupposti di cui all'art. 21 nonies della legge n. 241/90”. (28) Si vd. ancora Tar Lazio, Sez. III bis, n. 2720 del 2013. (29) Si vd. M. CLARICh, “i poteri di impugnativa dell’agcm ai sensi del nuovo art. 21-bis l. 287/90” in Atti del Convegno organizzato dall’Autorita` garante della Concorrenza e del Mercato su: “evoluzioni del ruolo e delle competenze delle autorita` antitrust” Roma, 27 marzo 2013. (30) Mutano le conseguenze dell’inottemperanza che consistono nel caso di intese retrittive nel potere di proporre un ricorso innanzi al giudice amministrativo, nel caso di abuso di posizione dominante nel potere di irrogare una sanzione amministrativa pecuniaria fino al 10% del fatturato. M. CLARICh, op. cit. rileva come “sotto il profilo procedurale va rilevato il paradosso che mentre la diffida può` essere deliberata nei confronti dell’impresa privata soltanto all’esito di un’istruttoria nell’ambito della quale vi è spazio per un contraddittorio procedimentale (art. 14), il parere-diffida puo` essere indirizzato a un’amministrazione senza alcun tipo di interlocuzione preliminare”. RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 risce a quest’ultimo la medesima efficacia conformativa di cui alle diffide ex art. 15 (31). Tale orientamento ritiene il parere-diffida immediatamente impugnabile da parte del destinatario, in quanto provvedimento idoneo a ledere la sua situazione giuridica (in virtù dell’obbligo conformativo da esso nascente). Tale tesi avrebbe il pregio di anticipare il controllo giurisdizionale sulla legittimità` del provvedimento originario che si assume lesivo della concorrenza, poiché´ il parere-diffida deve essere motivato, deve cioe` indicare “gli specifici profili delle violazioni riscontrate” (art. 21-bis secondo comma), il ricorso proposto dall’amministrazione deve essere formulato con la proposizione di motivi volti a contestare ciascuna delle violazioni. Rileva tale orientamento come il ricorso proposto dall’Autorità` contro il provvedimento dell’amministrazione nel caso in cui l’amministrazione non ottemperi al parere-diffida contenga in realta` gli stessi vizi-motivi. nel giudizio di impugnazione del parere- diffida, quindi, l’Autorita` ben potrà impugnare in via incidentale il provvedimento dell’amministrazione (32). In dottrina si è approfondito il tema del contenuto del ricorso giurisdizionale che l’AgCM è legittimata a proporre ex art. 21 bis (33). L’Autorità sem (31) M. CLARICh, op. cit. richiama sul punto la legge 20 marzo 1865, n. 2248 All. e) nella parte in cui prevede che le autorità amministrative, “si conformeranno al giudicato dei tribunali in quanto riguarda il caso deciso” (art. 4, secondo comma) e che impone alle amministrazioni, com’e` pacifico, un vero e proprio obbligo il cui inadempimento può essere contestato e superato attivando il giudizio di ottemperanza. (32) Per una lettura approfondita di tale orientamento si rimanda ancora a M. CLARICh, op. cit. (33) utile guardare ai primi contenziosi sul punto, per individuare l’oggetto dei ricorsi dell’AgCM ex art. 21 bis. nel caso affrontato dalla sentenza del Tar Lazio, Sez. III bis, sent. n. 2720 del 2013, già richiamata nell'osservatorio di giurisprudenza sulla giustizia amministrativa, a cura di M.A. SAnDuLLI e M. LIPARI, in foro amm. tar, 2013, l'AgCM aveva proposto ricorso contro il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ed il Ministero dello Sviluppo economico, per l'annullamento degli atti emanati dall'osservatorio sulle attività di autotrasporto in attuazione dell'art. 83 bis, d.l. n. 112 del 2008, convertito in l. n. 133 del 2008 e s.m.i. La determinazione, nella parte in cui prevede l’imposizione coattiva dei costi minimi di esercizio con la fissazione di un sistema di tariffe unitario, sarebbe per la ricorrente illegittima “per violazione dei principi del diritto dell'ue in materia di concorrenza e di libera circolazione delle imprese, violazione degli articoli 49 e 56 tfue in materia di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi, nonché dell'art. 96 tfue, violazione dell'art. 43 tue e dell'art. 101 tfue ”,e “per violazione degli artt. 3 e 41 cost., 11 e 117 comma primo cost., nonché per violazione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità ”; pertanto l'Autorità, con il medesimo ricorso, ha sollevato incidentalmente questione di legittimità costituzionale con riferimento all'art. 83 bis, d.l. n. 112 del 2008. nella fattispecie della pronuncia del Tar Lazio, Sez. II, sent. n. 4451 del 2013, in osservatorio, cit., 2013, l'AgCM, omettendo il preventivo espletamento della fase procedimentale avviata dal parere motivato, ha esercitato il potere di impugnativa di cui all'art. 21 bis direttamente impugnando la delibera di Roma Capitale n. 282 del 4 ottobre 2012, recante “regolamentazione dell'accesso dei titolari di autorizzazioni di noleggio con conducente rilasciate da altri comuni all'interno delle zone a traffico limitato di roma capitale”. In particolare, secondo l'Autorità, il provvedimento risulterebbe illegittimo nella parte in cui prevede “l'obbligo di preventiva comunicazione e preventivo pagamento di un pedaggio per l'ingresso nella zona a traffico limitato, solo per i servizi di noleggio con conducente (n.c.c.) autorizzati da enti diversi da roma capitale”, in quanto sproporzionato rispetto alla asserita finalità di contenere l'inquinamento atmosferico e di tutelare al contempo la salute dei cittadini e l'integrità del patrimonio artistico-archeologico della città ed allo stesso tempo discriminatorio per i soggetti operanti in settori economici destinatari della previsione restrittiva. ConTRIbuTI DI DoTTRInA brerebbe limitata, a pena di inammissibilità del ricorso stesso, a dedurre i soli vizi attinenti alla violazione delle norme di legge a tutela della concorrenza e del mercato. Sul punto, si è posto allora il quesito se tale motivo potesse incorporare anche le ipotesi di eccesso di potere. In particolare, il crescente avvicinamento tra il vizio di violazione di legge e quello di eccesso di potere come contrasto con principi generali, quali la ragionevolezza e la proporzionalità, ha portato alcuni a paventare il rischio che il sindacato giurisdizionale sollevato dall’AgCM possa così toccare le corde del merito amministrativo. e ciò accadrebbe qualora le succitate regole generali si qualifichino al contempo quali violazione dei principi attinenti la concorrenza ed il buon andamento del mercato (34). Si evince allora la delicatezza del tema e l’importanza di circoscrivere la gamma di vizi di legittimità ricompresi nell’inciso dell’articolo 21 bis, attinenti le norme di legge a tutela della concorrenza e del mercato. In ossequio al principio della domanda, essi delimiteranno il sindacato del giudice adito in relazione a quanto dedotto dalla ricorrente AgCM. In principio, si individuano quali elementi di orientamento gli artt. 101 e 102 del Trattato sul funzionamento ue, i quali, disciplinando rispettivamente l’intesa anticoncorrenziale e l’abuso di posizione dominante, insieme ai principi ed interpretazioni giurisprudenziali della Corte di giustizia ue, ben potrebbero guidare l’interprete nel “delineare la tipologia di violazioni e di comportamenti che sono rilevanti per l’interesse generale alla concorrenza” (35). Si tratta di linee guida, prosegue tale orientamento, non sufficienti da sole ad individuare la portata del vizio azionabile ex art. 21 bis, poiché tali illeciti anticoncorrenziali trovano già piena tutela nell’ordinamento comunitario e nazionale. (34) Sul punto, interessanti considerazioni in F. CInTIoLI, osservazioni sul ricorso giurisdizionale cit., secondo cui: “parrebbe che esso corrisponda ad un sottotipo di uno dei tre generali vizi di legittimità, ossia ad un sottotipo della violazione di legge. sicchè sarebbe estraneo all’impugnazione in questione quel particolare vizio che consiste nell’eccesso di potere. tuttavia, nell’ambito del concetto di legge sono compresi anche i principi generali, parte integrante del diritto positivo. ne segue che anche la loro violazione, quando possa nel contempo qualificarsi alla stregua della violazione di norme a tutela della concorrenza e del mercato, dovrebbe poter esser ricompresa nel vizio-motivo a disposizione dell’autorita`. Questo assunto finisce, a ben vedere, per avvicinare potenzialmente questo tipo di doglianza all’eccesso di potere. Questo è anche conseguenza della progressiva erosione della linea di discrimine tra i due vizi di legittimità, in atto da molto tempo, e soprattutto della tendenziale assimilazione dell’eccesso di potere al vizio consistente nella violazione dei parametri generali di ragionevolezza e proporzionalità dell’azione amministrativa. in breve, nonostante la puntualizzazione legislativa, per la via dei principi generali il sindacato richiesto da agcm potrebbe anche finire per lambire la sfera del merito e sovrapporsi a profili che tradizionalmente appartengono alla figura dell’eccesso di potere”. (35) F. CInTIoLI, osservazioni sul ricorso giurisdizionale, op. cit., rileva come “ovviamente, ciò non può bastare, poiché i comportamenti che violano tali norme, i cd. illeciti antitrust, trovano tutela puntuale nell’ordinamento comunitario e nazionale. sul piano dei rapporti contrattuali e dell’illecito civile è prevista la giurisdizione del g.o. dall’art. 33 l. n. 287 del 1990. sul piano del public enforcement, invece, l’autorità è chiamata, nel quadro del network disciplinato dal regolamento n. 1 del 2003, ad attivare i suoi poteri di accertamento e sanzionatori, sicché non v’è spazio per inserirvi una simile impugnazione”. RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 Sul punto, interessante la tesi che vuole ricondurre nel potere di impugnare dell’AgCM i vizi per violazione del divieto di aiuti di Stato di cui agli artt. 107 e ss. del Trattato. Stante la competenza esclusiva della Commissione a valutare la compatibilità dell’intervento statale con la disciplina degli aiuti di Stato, ci si sofferma esclusivamente alle ipotesi nelle quali l’accertamento di incompatibilità` dell’aiuto sia stato già` effettuato dalla Commissione e siano successivamente stati adottati atti amministrativi con esso contrastanti: più specificatamente, atti amministrativi contrastanti con obblighi di recupero sanciti dalla Commissione, evidentemente violativi di norme a tutela della concorrenza e pertanto annullabili in via giurisdizionale. Si ritiene di scarsa utilità tale ricorso giurisdizionale stante l’efficacia riconosciuta dalla Cgue alle decisioni della Commissione in tema di aiuti di Stato, capace di superare anche il giudicato (36). Tuttavia, l’attenzione viene posta su quelle ipotesi suscettibili di applicazione immediata, a prescindere dall’intervento della Commissione. Ci si riferisce alla clausola di sospensione di cui all’art. 108, comma 3 TFue, cd. obbligo di standstill, secondo la quale: “alla commissione sono comunicati, in tempo utile perché presenti le sue osservazioni, i progetti diretti a istituire o modificare aiuti. se ritiene che un progetto non sia compatibile con il mercato comune a norma dell’art. 107, la commissione inizia senza indugio la procedura prevista dal paragrafo 2. lo stato membro interessato non può dare esecuzione alle misure progettate prima che tale procedura abbia condotto a una decisione finale”. Secondo le Corti europee, l’efficacia diretta di tale disposizione fa sorgere diritti individuali azionabili dalle parti interessate, tra cui i concorrenti del beneficiario, i quali possono quindi ricorrere davanti al giudice nazionale dello Stato membro che abbia concesso gli aiuti, anche prima dell’intervento della Commissione sulla natura lecita o meno dell’aiuto in contestazione (37). Seconda questa tesi, (36) Sempre, F. CInTIoLI, op. cit. rileva come “a proposito di questa ipotesi di applicazione del- l’art. 21 bis al caso degli aiuti di stato, v’è però da ricordare che la forza della decisione di recupero è tale da imporsi, di per sé, sino in fondo nell’ordinamento nazionale, al punto di poter resistere persino alla eventuale formazione del giudicato, così come affermato dalla corte di giustizia nella nota sentenza lucchini, corte di giustizia ce 18 luglio 2007, c-119/05, in riv. it. dir. pubbl. com., 2007, 1075. l’utilità di una impugnazione davanti al tar del provvedimento amministrativo che ponesse un ostacolo sulla via del recupero dell’aiuto potrebbe dirsi, allora, piuttosto lieve, dato che tale provvedimento comunque non può produrre un effetto stabile che osti in via definitiva al recupero stesso”. (37) una disamina delle pronunce su questo tema in comunicazione della commissione ue relativa all’applicazione delle norme sugli aiuti di stato da parte dei giudici nazionali, 2009/c 85/01. Sul punto, cfr. F. CInTIoLI, op. cit., C. SChePISI (a cura di), la modernizzazione della disciplina sugli aiuti di stato, Torino, 2011. La Comunicazione in esame offre tre strumenti di tutela nei casi de quibus: la sospensione del pagamento dell’aiuto illegale; il risarcimento dei danni a concorrenti e terzi interessati; il recupero dell’aiuto, a prescindere dalla sua incompatibilità. Come rilevato da F. CInTIoLI, op. cit., rileva come la necessità della previa notifica alla Commissione dell’aiuto e le lungaggini del difficile procedimento atto a valutare la competenza di quest’ultimo con l’ordinamento comunitario, fanno sorgere un’esigenza di tutela immediata per tutti quegli aiuti (o perché´ ancora oggetto di valutazione o perché non notificati) che sono già efficaci e rispetto ai quali la commissione non ha alcun potere di intervento. ed il rimedio cautelare e provvisorio risulta la sospensiva ex art. 108, comma III TFue. ConTRIbuTI DI DoTTRInA l’AgCM potrebbe così contribuire all’enforcement di tale norma, a tutela del generale interesse alla concorrenza, ricorrendo al TAR per l’annullamento dell’atto amministrativo nazionale che concede l’aiuto di Stato illegale nel periodo di standstill. Si segnalano in particolare anche i casi in cui l’utilità derivante dall’aiuto di Stato venga non tanto prodotta, quanto consolidata da un intervento dell’autorità amministrativa, quale potrebbe essere un provvedimento di aggiudicazione di un appalto, a cui l’impresa ha avuto accesso per aver goduto di un aiuto di Stato (38). Ai sensi dell’articolo 108, comma III, TFue si può agire altresì davanti al giudice nazionale al fine di ottenere il recupero dell’aiuto effettuato durante l’obbligo di standstill, sempre a prescindere da un giudizio di compatibilità`incompatibilita` ancora da compiersi da parte della Commissione. e allora si ipotizza che l’intervento dell’AgCM possa avere ad oggetto non solo la demolizione dell’atto amministrativo, ma anche il recupero delle somme illecitamente devolute, sempre a tutela della concorrenza e del mercato (39). escludere il poter dell’AgCM di impugnare provvedimenti lesivi delle disposizioni a tutela della concorrenza di cui all’articolo 108, III co. TFue, violerebbe il principio comunitario di effettività della tutela che, com’e` noto, richiede tra l’altro l’equivalenza tra strumenti di garanzia dei diritti di fonte comunitaria e nazionale. Senza contare che annullato il provvedimento a seguito dell’iniziativa dell’Antitrust, potrebbero seguire azioni dei privati (38) F. CInTIoLI, op. cit., rileva sul punto: “si potrebbe anche pensare che l’utilità economica sia stata già conseguita dal beneficiario dell’aiuto e che però questa utilità venga in qualche modo consolidata e/o resa effettivamente profittevole grazie ad un atto amministrativo nazionale. una delle ipotesi potrebbe essere quella della partecipazione ad un procedimento di gara (per esser selezionato come contraente di una p.a.) di una impresa che abbia fruito di un aiuto di stato illegittimo e sempre che tale aiuto sia rilevante per la predisposizione della sua offerta; se, in un tal caso, la stazione appaltante non ritenesse di escludere l’impresa in questione alla luce dell’effetto viziante che sull’offerta è prodotto dall’aiuto di stato illegale, si potrebbe ritenere che gli altri partecipanti siano legittimati ad impugnare l’eventuale aggiudicazione facendo valere un tale vizio”. Sul punto cfr. la sentenza del Tribunal de com- merce di bruxelles 13 febbraio 1995, caso breda, in T. bALLARIno, diritto dell’unione europea, Padova, 2010, 361. non a caso, F. CInTIoLI, op. cit., evidenzia come l’ordinamento conosce di tali evenienze, così disciplinando all’art. 87, comma 5, del d. lgs. n. 163 del 2006 (c.d. codice dei contratti pubblici): “la stazione appaltante che accerta che un’offerta è anormalmente bassa in quanto l’offerente ha ottenuto un aiuto di stato, può respingere tale offerta per questo solo motivo unicamente se, consultato l’offerente, quest’ultimo non è in grado di dimostrare, entro un termine stabilito dall’amministrazione e non inferiore a quindici giorni, che l’aiuto in questione era stato concesso legalmente. Quando la stazione appaltante respinge un’offerta in tali circostanze, ne informa tempestivamente la commissione”. (39) F. CInTIoLI, op. cit., secondo cui a diversa conclusione non può condurre il fatto che l’articolo 108 TFue sembra far sorgere diritti solo ai concorrenti della gara eventualmente lesi dal beneficiario dell’aiuto. in primis, l’A. rileva come la Commissione (vd. Comunicazione testè cit.) abbia più volte ribadito come le norme nazionali non possono limitare la legittimazione ad agire soltanto ai concorrenti del beneficiario e che anche i terzi che non sono lesi dalla distorsione di concorrenza derivante dalla misura di aiuto possono del pari avere un sufficiente interesse giuridico di differente carattere ad adire un giudice nazionale. in secundiis, si evidenzia come è la legge stessa a dar corso a tale possibilità ossia dall’articolo 21 bis che pone in capo all’AgCM una legittimazione ad agire per interessi generali. RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 volte ad ottenere il risarcimento del danno subito per via del provvedimento. Peraltro, la dottrina si è posta il problema se il concetto di tutela della concorrenza di cui all’articolo 21 bis debba allargarsi a tutti gli interventi di legge volti alla promozione della concorrenza, i quali operano secondo una logica ex ante. Cioè a dire, se debbano superarsi i confini dell’intervento ex post, caratterizzante la disciplina della repressione degli illeciti antitrust, abbracciandosi così la vasta gamma della disciplina regolatoria volta a promuovere e ad instaurare la concorrenza nei luoghi dove questa non si sia ancora affermata. e ciò sembrerebbe confermato nell’inciso dell’articolo 21 bis, il quale si riferisce al contrasto con le norme a tutela non solo della concorrenza ma anche del mercato nel suo complesso (40). Seguendo tale impostazione, il potere di impugnazione dell’AgCM includerebbe anche gli atti con i quali gli enti locali, disattendendo gli indirizzi della giurisprudenza comunitaria (41), confermano gli affidamenti diretti a società` “in house providing” delle concessioni per la gestione di servizi pubblici di rilevanza economica. Si ritiene così che l’AgCM sia allora legittimata ad agire anche in presenza di violazioni che non abbiano ad oggetto norme volte alla sola liberalizzazione ma anche alla privatizzazione obbligatoria di un certo mercato, stante la loro tendenziale affinità con obiettivi pro-concorrenziali (42). Infine, l’orientamento in esame prende in considerazione la violazione di norme che prevedano liberalizzazioni tout court (43) di settori del Mercato (40) L’espansione verso la violazione di norme di regolazione e di promozione della concorrenza è un obiettivo dichiarato nei lavori preparatori e nel dibattito che ha accompagnato questa novità legislativa in dossier Atto Camera: 4829 Disegno di legge: "conversione in legge del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, recante disposizioni urgenti per la crescita, l'equità e il consolidamento dei conti pubblici" cd. “salva italia” in www.camera.it. (41) Sul punto si rileva come a seguito della declaratoria d’incostituzionalità che ha colpito l’art. 4, commi 3 e 4, del d.l. n. 138 del 2011, come novellato dall’art. 25 del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, da parte della sentenza della C. cost. n. 199/2012, gli orientamenti della Cgue risultano essere il punto di riferimento per valutare la liceità comunitaria degli affidamenti in house relativi a servizi pubblici locali, secondo i noti criteri del controllo analogo dell’ente pubblico sulla società e la realizzazione della parte più importante del servizio nei confronti dell’ente controllante (Cgue C-107/98 teckal; C-26/03, stadt halle, cdst. Ad, Pl. n. 8 del 2001). (42) F. CInTIoLI, op. cit. rileva infatti come ricomprendere nell’ambito della legittimazione ad agire dell’AgCM gli affidamenti in house anticoncorrenziali allargherebbe assai la portata applicativa dell’art. 21 bis. In particolare, secondo l’A. l’ostilità espressa in questi ultimi anni dal legislatore nazionale verso gli affidamenti in house dei servizi pubblici locali non è il frutto di una politica di liberalizzazione tout court, ma di una spinta verso la loro privatizzazione. Le norme volte alla privatizzazione possono avere effetti indiretti pro-concorrenziali nella parte in cui introducono il congegno della gara e della concorrenza per il mercato nella selezione del privato od essere strumentali alla futura apertura di determinati mercati e quindi alla effettiva loro liberalizzazione, sì da evitare che il portato della loro efficacia sia unicamente la sostituzione di un monopolista pubblico con uno privato. L’A. paventa tuttavia la possibilità di tale allargamento applicativo dell’art. 21 bis, stante la sua natura eccezionale ed il rischio che essa introduca una giurisdizione oggettiva. D’altro canto, tali preoccupazioni sembrano superate alla luce dell’orientamento condivisibile che legga la legittimazione oggettiva dell’AgCM all’interno di una giurisdizione pienamente soggettiva e nella disponibilità esclusiva della domanda di parte. Sul punto, v. CeRuLLI IReLLI, op. cit., 2014. ConTRIbuTI DI DoTTRInA prima soggetti a regolazione pubblica. In quanto considerabili norme a tutela della concorrenza e del mercato ai fini dell’art. 21 bis, l’AgCM dovrebbe pertanto poter impugnare atti generali o regolamentari ovvero anche puntuali in contrasto con siffatte norme. Sul punto, parte della dottrina rileva come l’Autorità potrebbe impiegare lo strumento del parere-diffida di cui all’articolo 21 bis, non soltanto nel caso di emanazione di provvedimenti adottati in violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato, ma anche in quello della mancata emanazione di provvedimenti volti ad aprire determinati mercati alla concorrenza prevista dalle varie leggi di liberalizzazione (si porta l’esempio di un regolamento comunale che non modifichi le disposizioni restrittive in materia di orari di apertura degli esercizi commerciali). In questi casi, si ritiene che l’Autorità ben possa far seguire al proprio parere-diffida un’azione di accertamento del dovere di provvedere e, nel caso in cui si tratti di atti avente contenuto vincolato, di condanna dell’amministrazione ad emanare il provvedimento (azione di adempimento, ora espressamente introdotta nel Codice), così ampliando la legittimazione ad agire oltre la sola tutela caducatoria (44). Per altro verso, interventi di regolazione di autorità indipendenti diverse dall’AgCM possono risultare in contrasto con le norme sulla tutela della concorrenza e del mercato e per questo venire impugnate ex art. 21 bis, sia in quanto violativi degli artt. 101 e 102 del TFue sia in quanto eccedenti rispetto ai limiti posti al regolatore dai principi a tutela del mercato (45). Infine, si ritiene che il potere di impugnare dell’AgCM non possa estendersi anche agli atti delle procedure di evidenza pubblica ed in particolare, alle clausole dei bandi di gara. Seppur questo settore abbia negli anni dimostrato una marcata attenzione alle norme della concorrenza e del mercato, la sua disciplina mira nel complesso a tutelare ulteriori e fondamentali interessi pubblici e generali, quali l’imparzialità dell’azione amministrativa ed il buon (43) F. CInTIoLI, op. cit. si riferisce a quelle norme che abbiano previsto l’apertura completa al libero mercato per attività` (e corrispondenti mercati) in precedenza gestiti mediante atti di concessione od autorizzazione. Si pensi per esempio all’art. 34 del d. l. n. 2012/2011 che ha codificato il principio di libertà di accesso, di organizzazione e di svolgimento delle attivita` economiche. gli atti idonei a reintrodurre barriere in tali settori sarebbero quindi contrastanti con la tutela del mercato e pertanto impugnabili dall’AgCM ex art. 21 bis. non a caso in tali ipotesi l’Autorità interviene spesso nell’esercizio delle sue funzioni consultive e di proposta: es. il trasporto cittadino su bus turistici, cfr. TAR Lazio, sez. I, 30 gennaio 2012, n. 977, in www.giustizia-amministrativa.it.; l’attivita` di recupero della gestione dei rifiuti, che non è sottoposta al regime di privativa che contraddistingue le fasi precedenti del servizio integrato di gestione dei rifiuti urbani. (44) Si vd. M. CLARICh, op. cit. (45) F. CInTIoLI, op. cit. pone l’attenzione sul caso CIF (Consorzio Italiano Fiammiferi) deciso dalla Corte di giustizia Ce con sentenza del 9 settembre 2003, C-198/01, in urb. e app., 2004, 151. Il provvedimento dell’Autorita` garante della concorrenza e del mercato era stato impugnato davanti al T.A.R. del Lazio, che ha sollevato la questione pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia circa i rapporti tra regolazione delle autorità indipendenti e rispetto degli artt. 101 e 102 del TFue; si veda anche T.A.R. Lazio, sez. I, ord. 24 gennaio - 4 aprile 2001, n. 2919, ivi, 566. RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 andamento nei suoi precipitati dell’economicità e della razionale utilizzazione delle risorse pubbliche (46). La tutela della concorrenza in materia di appalti pubblici deve essere pertanto contemperata con altrettanti valori fondamentali dell’ordinamento, non potendo assurgere ad unico interesse apprezzabile (47). Senza contare, poi, l’importanza che il settore degli appalti pubblici copre nell’economia nazionale. Di qui, i frequenti interventi del legislatore volti ad impedire che il contenzioso amministrativo possa pregiudicare interessi superiori, come nel caso della dimidiazione dei termini di proposizione del ricorso, in recepimento della direttiva ue n. 66/2007. Riconoscere all’AgCM il potere di impugnare i bandi di gara contrasterebbe altresì con l’attività` regolatoria già svolta dall’Autorita` di vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (48). iii. Profili procedurali e processuali. La novella legislativa introdotta dall’articolo 21 bis in commento ha creato alcuni problemi di natura non solo sistematica ma anche pratica. Ciò è apparso tanto in dottrina quanto nelle prime pronunce giurisprudenziali le quali si sono affannate a risolvere alcune evidenti criticità (49). (46) F. CInTIoLI, op. cit., rileva come le norme disciplinanti la fase dell’evidenza pubblica, volta alla scelta del contraente della P.A., vengano interpretate alla luce del principio della concorrenza - così come il codice dei contratti pubblici (d. lgs. n. 163 del 2006) viene definito un testo di legge che si occupa di tutelare la concorrenza - per alcune ragioni di fondo di seguito sintetizzate: A) l’ampliamento applicativo della disciplina comunitaria nel settore in esame - sul punto cfr. F. FRACChIA, ordinamento comunitario, mercato e contratti della pubblica amministrazione, napoli 2010 -b) le norme sulla scelta del contraente nei contratti pubblici hanno abbandonato la scelta sottesa alla disciplina contabilistica degli anni ’20, che tutelava in primo luogo l’interesse dell’amministrazione, guardando ormai alla protezione di tutti i soggetti che prendono parte a questi procedimenti e, quindi, anzitutto dei privati partecipanti in competizione tra di loro -sul punto, R. CAvALLo PeRIn -g.M. RACCA, la concorrenza nell’esecuzione dei contratti pubblici, dir. amm., 2010, 325 e ss.; g.D. CoMPoRTI, introduzione: dal potere discrezionale alle scelte -C) La Corte costituzionale, nello stabilire se il codice dei contratti pubblici avesse sconfinato nella competenza delle regioni, ha ricondotto le norme in esso contenute alla materia statale esclusiva della tutela della concorrenza ai sensi dell’articolo 117 Cost.; vd. Corte cost., sent. n. 401 del 2007. L’Autore nota tuttavia come tali tendenze interpretative possano portare ad un allargamento “sorprendente” della portata applicativa dell’art. 21 bis di difficile attuazione. (47) Sul punto, vd. FRACChIA, ordinamento comunitario, mercato e contratti della pubblica amministrazione cit.; ; M. D’ALbeRTI, interesse pubblico e concorrenza nel codice dei contratti pubblici, dir. amm., 2008, 297 e ss. (48) Cfr. F. CInTIoLI, op. cit.; sulla fase consultiva e precontenziosa prevista dinanzi all’Autorità` di vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, si vd. S.S. SCoCA, l’autorita` per la vigilanza sui contratti pubblici, in i contratti con la Pubblica amministrazione, a cura di C. FRAnChInI, II, Torino, 2007, 1343 e ss.; S. vInTI, limiti alla soluzione stragiudiziale delle controversie nelle procedure di evidenza pubblica. discrezionalità e conservazione dell’atto illegittimo, riv. trim. app., 2007, 189 e ss.; A. CLARIZIA, il c.d. precontenzioso tra deflazione dei processi ed effettività dei poteri dell’autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, www.giustamm.it, 28 gennaio 2008. (49) Sul tema si consiglia la lettura di F. CInTIoLI, op. cit.; R. gIovAgnoLI, op. cit.; ; M. CAPPAI, op. cit. ConTRIbuTI DI DoTTRInA iv. (segue) il rilascio del parere motivato quale condizione di ammissibilità del ricorso dell’agcm. la struttura bifasica del procedimento. in primis, ci si è interrogati sul rapporto intercorrente tra il parere motivato rilasciato dall’AgCM e la legittimazione ad agire nell’iter procedimentale delineato dalla norma. In particolare, l'art. 21-bis, l. n. 287 del 1990, comma secondo, prevede che “l'autorità emette entro sessanta giorni un parere motivato, nel quale indica gli specifici profili delle violazioni riscontrate. se la pubblica amministrazione non si conforma nei sessanta giorni successivi alla comunicazione del parere, l'autorità può presentare, tramite l'avvocatura dello stato, il ricorso, entro i successivi trenta giorni”. Si rileva come il primo comma dell’articolo 21 bis preveda il generale potere di impugnare atti amministrativi che si assumono lesivi della concorrenza. Pertanto, è sorto un dibattito tra gli interpreti in relazione alla corretta lettura dei due commi per superare possibili incongruenze (50). Da un lato, si è profilata la tesi della lettura combinata dei due disposti, dall’altra quella dell’autonomia precettiva del primo comma e dell’alternatività tra i due procedimenti. In altre parole, alcuni predicano la previa emissione del parere ai sensi del secondo comma quale presupposto di ammissibilità o procedibilità del ricorso (51), mentre altri sostengono l’alternatività tra l’instaurazione di una fase interlocutoria tra P.A. interessata e AgCM e il ricorso diretto al TAR avverso l’atto che si assume lesivo della concorrenza (52). I fautori della tesi dell’alternatività pongono l’accento su due ordini di considerazioni. La prima, attiene alla configurabilità di una tutela cautelare giudiziale ante/sine parere a favore dell'Autorità, che sarebbe possibile solo in caso di ricorso immediato e rimanendo esclusa la tutela cautelare amministrativa di cui all'art. 14 bis l. 287/1990 e stante l’inefficacia sospensiva del parere (53). Pertanto, il ricorso diretto al Tar consentirebbe una maggior fles (50) Si vd. relazione annuale AgCM sull'attività svolta, del 31 marzo 2012, 22. (51) Cfr. A. ARgenTATI, concorrenza e liberalizzazioni: i nuovi poteri dell'autorità garante della concorrenza e del mercato, in riv. trim. dir. ec., n. 1/2012, 37-38; F. CInTIoLI, osservazioni sul ricorso giurisdizionale cit., 11 e 14; F. ARenA, atti amministrativi e restrizioni cit; n. PeCChIoLI «teologia della concorrenza» cit., 20. (52) Si vd. M. LIbeRTInI, i nuovi poteri dell'autorità antitrust (Art. 35 d.l. 201/2011), in www.federalismi.it, del 14 dicembre 2011, 2; M.A. SAnDuLLI, introduzione a un dibattito cit., 17-18; R. gIovAgnoLI, ricadute processuali a fronte dell'esercizio dei nuovi poteri cit.; g. uRbAno, i nuovi poteri processuali cit., 1029. (53) Cfr. M. LIbeRTInI, i nuovi poteri dell'autorità cit., 2; g. uRbAno, i nuovi poteri processuali cit., 1029. Secondo M. CLARICh, op. cit., un potere cautelare di tipo sostanziale in capo all’Autorità potrebbe dedursi estendendo in via interpretativa il campo di applicazione dell’art. 14-bis della legge n. 287/1990, inserito nel capo II relativo ai poteri dell’Autorità in materia di intese restrittive della concorrenza e di abuso di posizione dominante, che attribuisce appunto un siffatto potere nei confronti delle imprese. visto che il primo comma dell’art. 14-bis si riferisce all’ipotesi che l’Autorità constati ad un primo sommario esame “la sussistenza di un’infrazione”, senza richiamare specificamente i divieti stabiliti negli artt. 2 e 3 della legge n. 287 (riferiti appunto alle intese restrittive e agli abusi), come fanno RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 sibilità garantendo all’AgCM di ottenere tutela cautelare immediata nei casi più gravi ed eviterebbe una disparità di trattamento con gli enti esponenziali di interessi diffusi di natura privatistica, la cui azione non è sottoposta ad alcun presupposto di ammissibilità o procedibilità. Secondo altro orientamento, da ritenersi ad oggi prevalente, la tesi del- l’alternatività non sembra coerente con l'effettiva intenzione del legislatore. In particolare, come sostenuto dalla giurisprudenza, dal dato letterale espresso dal complessivo disposto dell’articolo 21 bis, emerge come la volontà del legislatore sia favorire attraverso il parere “un momento di interlocuzione preventiva dell'autorità con l'amministrazione emanante l'atto ritenuto anti- concorrenziale, allo scopo di stimolare uno spontaneo adeguamento della fattispecie ai principi in materia di libertà di concorrenza” (54). Pertanto, il rimedio giurisdizionale sembra essere l’estrema ratio, percorribile solo in caso di crisi di cooperazione tra AgCM e P.A. interessata. La Corte costituzionale, nella sentenza n. 20 del 2013, ha per l’appunto rilevato come la legittimazione ad agire dell’antitrust “si esterna in una prima fase a carattere consultivo (parere motivato nel quale sono indicati gli specifici profili delle violazioni riscontrate), e in una seconda (eventuale) fase di impugnativa in sede giurisdizionale, qualora la pubblica amministrazione non si conformi al parere stesso” (55). Del resto, il TAR ha evidenziato: “la previsione di un termine speciale dimezzato, di trenta giorni, per la proposizione del ricorso - come anche l'applicazione di un rito processuale speciale accelerato (Il comma 3 dell'art. 21 bis rinvia alla disciplina contenuta nel Libro Iv, Titolo v del c.p.a., che regola lo speciale rito di cui all'art. 119 - controversie insorte in determinate materie -e lo specialissimo rito di cui all'art. 120 - controversie insorte in materia di appalti -) si giustifica proprio in considerazione del fatto che l'iniziativa giurisdizionale è preceduta dalla fase procedimentale di interlocuzione con l'amministrazione emanante l'atto oggetto di contestazione” (56). Peraltro, la “collocazione sistematica” dell’articolo 21 bis nel Titolo III invece tutte le altre disposizioni contenute nel Capo II (art. 12, comma 1, art. 14, comma 1, art. 14-ter, art. 15, comma 1). Il primo comma dell’art. 14-bis potrebbe così essere letto come una disposizione avente carattere generale applicabile anche al di là del contesto specifico del Capo II. (54) In giurisprudenza si è affermato che la previa espressione del parere costituisce un presupposto per l'ammissibilità o la procedibilità del ricorso principale dell'agcm” (Tar Lazio, Sez. III bis, n. 2720 del 2013; Tar Lazio, Sez. II, n. 4451 del 2013), “ma non anche per la formulazione di motivi aggiunti” (Tar Lazio, Sez. III bis, n. 2720 del 2013). Il TAR sembra aver aderito alle indicazioni della dottrina. Si vd. M. LIbeRTInI, i nuovi poteri dell'autorità antitrust (Art. 35 d.l. 201/2011), in www.federalismi.it, del 14 dicembre 2011, 2; M.A. SAnDuLLI, introduzione a un dibattito cit., 17-18; R. gIovAgnoLI, ricadute processuali a fronte dell'esercizio dei nuovi poteri cit.; g. uRbAno, i nuovi poteri processuali cit., 1029. (55) Cfr. Corte cost. n. 20/2013. (56) Cfr. Tar Lazio, Sez. III bis, n. 2720 del 2013. ConTRIbuTI DI DoTTRInA della leg. n. 287 del 1990, relativo ai poteri conoscitivi e consultivi dell’Antitrust, ovvero della cd. competition advocacy, consentirebbe all'Autorità di agire con “veri e propri effetti costitutivi, sia pure conseguibili in via mediata attraverso lo scrutinio giurisdizionale” per concorrere alla “formazione, e al mantenimento, di un complessivo quadro legale atto a favorire le dinamiche della concorrenza, promuovendo il sindacato del g.a., indipendentemente dal- l'esistenza (o dall'iniziativa) di soggetti portatori di interessi, individuali e/o collettivi, lesi dall'attività amministrativa” (57). La pervasività degli effetti prodotti dall’esercizio del nuovo potere di impugnativa necessita dunque una forte procedimentalizzazione, così come nei settori delle intese e degli abusi di posizione dominante i poteri decisori e sanzionatori dell'Autorità sono preceduti da un contraddittorio con le imprese, al fine di contestualizzare e procedimentalizzare la propria valutazione circa la regola giuridica da applicare al caso concreto. La necessarietà del previo parere motivato di cui al II comma dell’articolo 21 bis, non creerebbe problemi in punto di impraticabilità del rimedio cautelare, in quanto, nelle ipotesi de quibus difficilmente si potrebbe individuare il periculum in mora con riferimento al pregiudizio concorrenziale che non si manifesta in termini soggettivi ma come “danno alla struttura concorrenziale in senso oggettivo” (come precedentemente rilevato con riferimento all’interesse ad agire in tali circostanze in par. III), e senza contare che “a differenza delle parti private, l'autorità, attraverso l'espressione del parere, può esercitare una forma di moral suasion che, se tempestivamente attivata, è potenzialmente in grado di condurre all'eliminazione della situazione distorsiva negli stessi tempi di un giudizio cautelare” (58). Infine, si è evidenziato come nessuna disparità di trattamento potrebbe profilarsi tra la disciplina dell’art. 21 bis e quella dei ricorsi degli enti esponenziali, in quanto non si tratterebbe di situazioni omogenee, poiché mentre le associazioni portatrici di interessi diffusi “preesistono al diritto positivo e non sono conformati da esso”, le Autorità Amministrative Indipendenti rappresentano “il frutto di una scelta politica discrezionale che conferisce a tale organismo non già diritti, bensì potestà amministrative, sia pure non consistenti nella tutela di un interesse pubblico tradizionale quanto nella garanzia di un bene comune, perseguito attraverso la regolazione neutrale degli interessi di imprese, consumatori, utenti” (59). Allo stesso modo, il Consiglio di Stato -sez. v -sentenza 30 aprile 2014 n. 2246, ha evidenziato come dall’esame della norma si evinca il fondamentale e innovativo ruolo attribuito all’Autorità circa il controllo sull’effettivo ed efficace dispiegarsi della libertà della concorrenza e del mercato impone (57) Cfr. Tar Lazio, Sez. II, n. 4451 del 2013. (58) Cfr. Tar Lazio, Sez. II, n. 4451 del 2013. (59) Cfr. Tar Lazio, Sez. II, n. 4451 del 2013. RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 che il potere di agire in giudizio contro gli atti lesivi di tali principi sia preceduto da una fase precontenziosa, caratterizzata dall’emissione, da parte dell’Autorità, di un parere motivato rivolto alla pubblica amministrazione, parere in cui ragionevolmente sono segnalate le violazioni riscontrate e sono indicati i rimedi per eliminarle e ripristinare il corretto funzionamento della concorrenza e del mercato. Prosegue la succitata pronuncia rilevando come lo scopo del predetto parere motivato sia plurimo. in primis, esso mira a sollecitare la pubblica amministrazione a rivedere le proprie determinazioni e a conformarsi agli indirizzi dell’Autorità, attraverso uno speciale esercizio del potere di autotutela giustificato proprio dalla particolare rilevanza dell’interesse pubblico in gioco, in tal modo auspicando che la tutela di quest’ultimo sia assicurata innanzitutto all’interno della stessa pubblica amministrazione e restando pertanto il ricorso all’autorità giudiziaria amministrativa l’extrema ratio (non essendo stata d’altra parte dotata l’Autorità di poteri coercitivi nei confronti dell’amministrazione pubblica che non intenda conformarsi al predetto parere motivato); in secundis, la fase precontenziosa e il relativo parere, in coerenza con i principi comunitari, sono stati ragionevolmente concepiti anche come significativo strumento di deflazione del contenzioso, potendo ammettersi che il legislatore guardi con disfavore le situazioni in cui due soggetti pubblici si rivolgano direttamente (ed esclusivamente) al giudice per la tutela di un interesse pubblico. Recentemente, il Cons. Stato Sez. Iv, 28 gennaio 2016, n. 323 ha infatti definitivamente affermato come ai sensi dell'art. 21-bis della l. n. 287/90, il ricorso dell'autorità garante della concorrenza e del mercato al giudice amministrativo, contro atti che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato, deve essere preceduto, a pena d'inammissibilità, da un parere motivato diretto all'amministrazione interessata. Per completezza, è altresì emersa la problematicità circa l’ammissibilità dei motivi aggiunti presentati dall’AgCM senza previa riedizione della fase interlocutoria, ossia senza prima emanare un nuovo parere avente ad oggetto il secondo atto consequenziale impugnato ai sensi dell’art. 42 c.p.a. A riguardo, la soluzione sembra pacifica in giurisprudenza, laddove non si richiede la riedizione della fase consultiva, in quanto l’oggetto dei motivi aggiunti è per espressa previsione normativa un atto strettamente collegato (connessione oggettiva e soggettiva) e consequenziale a quello già impugnato. In altre parole, la riproposizione della fase interlocutoria comporterebbe l’introduzione di una fase inutile ed antieconomica in contrasto con la ratio dei motivi aggiunti, ispirata a principi di celerità ed immediatezza, volti ad instaurare il simultaneus processus su cause comuni (60). (60) Cfr. Tar Lazio 4451/2013 e C. di St., sez. v, 21 novembre 2003. ConTRIbuTI DI DoTTRInA v. (segue) il dies a quo per l’emissione del parere interlocutorio. un altro degli aspetti procedimentali su cui si è discusso risulta essere il dies a quo da cui decorre il termine di sessanta giorni per l’emanazione del parere interlocutorio previsto dal II comma dell’articolo 21 bis. Secondo la tesi maggioritaria, è opportuno guardare alla disciplina ordinaria dei termini di decadenza delle azioni proponibili dinanzi al TAR: in particolare, a quanto previsto nell'art. 41 comma 2 c.p.a. Pertanto, si ritiene che il termine debba decorrere, ogniqualvolta la legge sottoponga a pubblicazione la determinata categoria cui è ascrivibile l'atto amministrativo censurato, dalla data di pubblicazione dell'atto stesso e, nei restanti casi, dalla data della notificazione, della comunicazione o di piena conoscenza dell'atto (61). Tuttavia, una tesi minoritaria propone di sganciare il termine in esame dalla pubblicazione dell’atto da impugnare, per evitare che l’AgCM debba svolgere un controllo continuo ed “a tappeto” degli atti anticoncorrenziali adottati da ogni Amministrazione (62). Il rischio è che l’AgCM possa rilasciare il parere in ogni momento, così rischiando di introdurre uno strumento per contestare l’attività amministrativa sganciato da qualsiasi limite temporale e legato alla sola presenza di un interesse attuale, con inevitabile pregiudizio ai principi di ragionevolezza, di certezza dei rapporti giuridici e, finanche, di buon andamento dell'azione amministrativa (63). Secondo un’altra tesi, le problematicità anzidette sarebbero tuttavia superate interpretando il parere ex art. 21 bis come invito ad agire in autotutela decisoria rivolto dall’AgCM alla Amministrazione interessata, così consentendo l’applicazione del criterio della «ragionevolezza » del termine entro il quale l'annullamento stesso dovrà intervenire ai sensi dell’art. 21 novies della lg. n. 241/90 (64). La giurisprudenza sembra comunque aver concluso la questione rilevando come il decorso del termine di sessanta giorni per l’emissione del parere debba decorrere dal momento della conoscenza effettiva dell’atto impugnato, che deve essere esclusivamente l’atto originario che si assume lesivo della concorrenza, come rilevato nei precedenti paragrafi (65). (61) Cfr. R. gIovAgnoLI, ricadute processuali a fronte dell'esercizio dei nuovi poteri cit.; n. PeC- ChoLI, “teologia della concorrenza” cit., 2, nt. 1. (62) F. ARenA, atti amministrativi e restrizioni cit. (63) La Regione veneto nel sollevare questione di legittimità costituzionale in via principale dell’art. 21 bis (risolta negativamente dalla Corte cost. n. 20/2013) aveva rilevato come in tal modo “sembrerebbe che l'autorità possa emettere il parere in ogni momento, purché ci sia ancora un interesse attuale a correggere ... l'atto contestato”. idem, M. LIbeRTInI, i nuovi poteri dell'autorità cit., che ritiene come tale facoltà di impugnare per l’AgCM potrebbe comunque considerarsi preclusa laddove l'Autorità abbia fatto inutilmente decorrere il termine ordinario di sessanta giorni per presentare ricorso in via immediata. (64) F. CInTIoLI, osservazioni sul ricorso giurisdizionale cit., secondo cui “il ricorso al regime dell'annullamento d'ufficio consentirebbe di sostituire il predetto termine ragionevole al termine di decadenza processuale e per questa via si troverebbe una comunque indispensabile armonia sistematica”. (65) Si vd. Tar Lazio, Sez. III bis, n. 2720 del 2013, per cui “dalla formulazione letterale della RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 vi. (segue) la decorrenza del termine di proposizione del ricorso. ulteriore questione è sorta circa l’individuazione del dies a quo per il decorso del termine di trenta giorni per la proposizione del ricorso con precipuo riferimento al caso in cui la determinazione negativa dell’Amministrazione a seguito del parere interlocutorio dell’AgCM intervenga prima del termine di sessanta giorni previsto dal II comma dell’articolo 21 bis. e la risoluzione del caso comporta evidente ricadute in punto di ricevibilità o meno dell’azione stessa. Secondo un primo orientamento giurisprudenziale, partendo dall’assunto che oggetto del ricorso rimane l’atto originariamente considerato lesivo della concorrenza, si rileva come non si possa far decorrere il termine di trenta giorni che dal momento in cui scadono i sessanta giorni entro i quali si deve svolgere la fase partecipativa (il cui esito ha valore esclusivamente interno) (66). In altre parole, non può calcolarsi il termine di decadenza dell’azione caducatoria dalla conoscenza di un atto con valore endoprocedimentale (la determinazione negativa dell’Amministrazione interessata a seguito del parere interlocutorio), diverso da quello con efficacia esterna che si andrà ad impugnare. Peraltro, il procedimento previsto dal II comma dell'art. 21 bis vuole instaurare un momento di confronto costruttivo tra AgCM ed Amministrazione interessata, relegando il rimedio giurisdizionale ad extrema ratio (67). Altrimenti, evidenzia la giurisprudenza come si rischierebbe di mortificare tale logica cooperativa risultando “ben possibile che, anche a seguito dell'adozione di una determinazione negativa, nel termine di sessanta giorni possano intervenire ulteriori norma di cui al secondo comma dell’art. 21 bis emerge ... con chiarezza che il decorso del termine di sessanta giorni per l'emissione del parere è riferito alla conoscenza dello specifico atto, ritenuto anti- concorrenziale, e che sarà oggetto dell'eventuale ricorso giurisdizionale all'esito della fase precontenziosa (…) pur costituendo l'espletamento della fase precontenziosa condizione per l'esercizio dell'azione giurisdizionale, non sembra potersi ritenere, in mancanza di espressa previsione normativa in tal senso, che l'eventuale tardività del parere rispetto alla scadenza del termine di sessanta giorni previsto possa implicare la decadenza del potere di azione e la conseguente inammissibilità del ricorso giurisdizionale proposto direttamente avverso l'atto anticoncorrenziale. ciò anche in quanto oggetto del giudizio... è in maniera diretta l'atto ritenuto anticoncorrenziale. il decorso del termine di sessanta giorni per l'emissione del parere è riferito alla conoscenza dello specifico atto ritenuto anticoncorrenziale e, in mancanza di espressa previsione normativa in tal senso, l'eventuale tardività del parere rispetto alla scadenza di tale termine non implica la decadenza dal potere di azione e la conseguente inammissibilità del ricorso proposto”. In tal senso si erano espressi R. gIovAgnoLI, ricadute processuali a fronte dell'esercizio dei nuovi poteri cit.; n. PeCChIoLI, “teologia della concorrenza” cit., 2, nt. 1. (66) Cfr. Tar Lazio, Sez. III bis, n. 2720 del 2013, secondo cui “la tempestività del ricorso principale rispetto alla scadenza del termine di trenta giorni è valutata con decorrenza dalla data in cui spira il termine di sessanta giorni entro il quale la P.a. può presentare le proprie osservazioni, anche se la determinazione a tal fine assunta dall'amministrazione sia stata comunicata all'autorità in un momento precedente”. (67) Al fine di realizzare quella “leale collaborazione” che trova un fondamento normativo sia comunitario che costituzionale (art. 4, III Tue; art. 120 comma 2 Cost.), osserva il TAR come “la scansione temporale di detto procedimento risponde, nel suo complesso, al fine di garantire una sollecita conformazione dell'azione amministrativa alla preminente esigenza di garanzia e tutela dei principi concorrenziali ”, cfr. Tar Lazio, Sez. III bis, n. 2720 del 2013. ConTRIbuTI DI DoTTRInA diverse determinazioni della stessa amministrazione, all'interno di un processo di confronto dialettico con l'autorità” (68). Recentemente, tuttavia, tale orientamento è stato superato da una recente sentenza del Cons. di Stato (Sez. Iv, 28 gennaio 2016, n. 323), secondo cui il termine di trenta giorni per l'impugnazione del provvedimento ritenuto anti- concorrenziale da parte dell'autorità garante della concorrenza e del mercato ai sensi dell'art. 21-bis della l. n. 287/90 decorre o dalla comunicazione del- l'atto definitivo di non conformazione o, in caso di inerzia dell'amministrazione interessata, dal sessantesimo giorno dalla comunicazione del parere motivato. Il suesposto art. 21-bis, c. 2, prevede infatti che "...se la pubblica amministrazione non si conforma nei sessanta giorni successivi alla comunicazione del parere, l'autorità può presentare, tramite l'avvocatura dello stato, il ricorso, entro i successivi trenta giorni...". ebbene, per il Consiglio di Stato, da una pacifica lettura della norma de qua si evincerebbe come l’adizione del g.A., da parte dell’AgCM debba essere necessariamente preceduta, a pena d'inammissibilità, da una fase precontenziosa caratterizzata dall'emanazione, da parte sua, di un parere motivato rivolto alla P.a. i cui atti sono sospettati di tal lesione. nel parere sono infatti segnalate le violazioni riscontrate e sono indicati i rimedi per eliminarli e ripristinare il corretto funzionamento della concorrenza e del mercato, donde la duplice funzione di esso: a) da un lato serve a sollecitare la P.a. a rivedere quanto statuito, mercé la conformazione di questa agli indirizzi dell'autorità, se del caso con uno speciale esercizio della funzione d'autotutela giustificato dalla particolare rilevanza dell'interesse pubblico così coinvolto; b) dall'altro, mira a tutelare quest'ultimo anzitutto all'interno della stessa P.a., sì da concepire il ricorso a questo giudice quale extrema ratio nella risoluzione del conflitto tra due soggetti pubblici. sicché la fase precontenziosa costituisce un significativo strumento di deflazione del contenzioso, essendo ragionevole ritenere che il legislatore guardi con disfavore le situazioni in cui due soggetti pubblici si rivolgano direttamente e solo al giudice per la tutela di un interesse pubblico primario, comune ad entrambi. Tuttavia, conclude condivisibilmente il Consiglio di Stato, “né il dato testuale, né la ratio testé evidenziata autorizzano a concludere che solo lo spirare del termine di sessanta giorni assurga, sempre e di per sé solo, a dies a quo affinché l'agcm possa adire questo giudice. infatti, tale termine inizia a decorrere, come in qualunque altro caso in cui alla P.a. ne sia assegnato uno per statuire in modo espresso, o dall'atto definitivo di non conformazione (dunque in sé lesivo, quand'anche immotivato o pretestuoso), o dal silenzio della P.a. stessa in caso di sua inerzia a fronte del parere negativo”. (68) vd. Tar Lazio, Sez. III bis, n. 2720 del 2013. RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 brevi considerazioni sulla natura giuridica delle Federazioni sportive nazionali Gabriele Pepe* Il tema della natura giuridica delle Federazioni sportive nazionali si inquadra nel più ampio fenomeno della organizzazione giuridica dello sport nell’ambito dell’ordinamento italiano (1); una organizzazione che nel corso dei decenni ha subito trasformazioni in ragione dei plurimi interventi di riforma che hanno interessato il Comitato olimpico nazionale italiano (ConI) e le Federazioni sportive. nella originaria previsione della legge 16 febbraio 1942, n. 426, il ConI veniva prefigurato quale ente a struttura associativa con personalità di diritto pubblico (2), costituito appunto dalle Federazioni e dalle associazioni e società sportive ad esso affiliate. In particolare, la legge del ’42 denominava espressamente le Federazioni organi del ConI (3), a sua volta definito Confederazione delle Federazioni nazionali e delle discipline sportive associate (4). Il ConI rappresentava, pertanto, un ente esponenziale di un gruppo sociale. La configurazione del ConI in termini di ente pubblico a struttura associativa ha, inevitabilmente, determinato una “pubblicizzazione” delle Federazioni sportive nazionali con l’attribuzione ad esse di compiti amministrativi da espletarsi sotto la vigilanza, l’indirizzo ed il controllo proprio del Comitato olimpico (5). La natura pubblica del ConI veniva, altresì, desunta da alcuni (*) Avv., Ricercatore di Diritto Amministrativo presso l’università degli Studi guglielmo Marconi. (1) esemplare in tal senso Corte cost., 25 marzo 1976, n. 57, in www.cortecostituzionale.it: “lo sport è un’attività umana cui si riconosce un interesse pubblico tale da richiederne la protezione e l’incoraggiamento da parte dello stato”. (2) g. RoSSI, enti pubblici associativi: aspetti del rapporto fra gruppi sociali e pubblico potere, napoli, 1979, pp. 114 ss.; g. ALPA, l’ordinamento sportivo in nuoviss. giur. civ. comm., 1986, II, pp. 321 ss. (3) C. ALvISI, autonomia privata e autodisciplina sportiva. il coni e la regolamentazione dello sport, Milano, 2000, p. 5. Secondo l’Autrice “con la stessa legge le federazioni sportive nazionali vennero definite organi del coni e vennero assoggettati all’approvazione del coni sia gli statuti delle federazioni di nuova costituzione, sia i regolamenti interni contenenti le norme tecniche ed amministrative per il loro funzionamento, sia i regolamenti federali contenenti le norme sportive per l’esercizio dello sport controllato”. La qualificazione delle Federazioni sportive quali organi del ConI ha rappresentato per molto tempo l’argumentum principis per il riconoscimento della natura giuridica pubblica delle Federazioni. In giurisprudenza, esemplare, Tar Lazio, sez. III, 13 ottobre 1980, n. 882, in riv. dir. sport. 1981, p. 57, secondo cui “le federazioni sportive nazionali sono organi del coni ed in tale qualità partecipano della natura pubblica di quest’ultimo”. (4) In proposito g. MoRbIDeLLI, gli enti dell’ordinamento sportivo, in dir. amm. 1993, pp. 321 ss. (5) La pubblicizzazione del ConI ha, a sua volta, determinato una estensione dei poteri pubblicistici delle Federazioni sportive. In giurisprudenza la natura pubblica delle Federazioni sportive è stata tradizionalmente riconosciuta da Cass. civ. Sez. un., 19 giugno 1968, n. 2028, in www.cortedicassazione.it. ConTRIbuTI DI DoTTRInA indici rivelatori tra cui la vigilanza dell’autorità ministeriale, la generalità degli interessi perseguiti, la percezione di finanziamenti statali, il peculiare regime fiscale e contabile (6); inoltre, riceveva conferma sul piano normativo dalla legge 20 marzo 1975, n. 70 che etichettava espressamente il ConI ente pubblico necessario (7), assimilandolo agli enti strumentali ed ausiliari dello Stato. Di tale natura pubblica partecipavano, altresì, le Federazioni sportive nazionali, in qualità di suoi organi. Il problema della qualificazione giuridica delle Federazioni sportive è riemerso a partire dalla legge 23 marzo 1981, n. 91 che se, da un lato, elimina ogni riferimento al concetto di organo, dall’altro, riconosce alle Federazioni un’autonomia tecnica, organizzativa e di gestione sia pure sotto la vigilanza del ConI (art. 14 II co.). L’intervento legislativo introduce, così, “un nuovo indice positivo destinato ad influenzare il dibattito in ordine alla natura giuridica delle federazioni” (8), attraverso il rafforzamento dalla c.d. tesi privatistica (9). Del resto, l’attribuzione di peculiari forme di autonomia viene a rappresentare un argomento decisivo per il riconoscimento alle Federazioni sportive di una soggettività di diritto privato, separata da quella del ConI, e regolata dalle norme del codice civile. La dialettica tra i sostenitori rispettivamente della tesi privatistica e della tesi pubblicistica conduce, successivamente, alla elaborazione di una tesi intermedia costruita sulla natura ibrida o mista delle Federazioni sportive. Secondo tale tesi, infatti, le Federazioni assumerebbero una duplice veste giuridica, l’una privatistica, quali associazioni private che svolgono attività di tipo tecnico, organizzativo e gestionale; l’altra pubblicistica in quanto organi del ConI che operano nell’esercizio di attività funzionalizzate al perseguimento degli interessi sportivi (10). Del resto, come sostenuto dalla giurispru- Tar Lazio, sez. III, 13 ottobre 1980, n. 882, op. cit., p. 57. Cass. civ. Sez. un., 16 giugno 1983, n. 4108, in giust. civ. 1983, p. 2931. Tar Lazio, sez. III, 15 novembre 1983, n. 878, in foro amm. 1984, p. 732. Tar Lazio, sez. III, 16 gennaio 1984, n. 4, in foro amm. 1984, p. 1274. (6) S.n. CALZone, il coni ente pubblico nella legislazione vigente, in riv. dir. sport. 1997, p. 439. (7) M. SAnIno, voce sport, in enc. giur. treccani, vol. XXX, Roma, 1993, pp. 1-6. (8) C. ALvISI, autonomia privata e autodisciplina sportiva. il coni e la regolamentazione dello sport, op. cit., p. 16. (9) La tesi veniva sostenuta in dottrina da S. CASSeSe, sulla natura giuridica delle federazioni sportive e sull’applicazione ad esse della disciplina del parastato, in riv. dir. sport., 1979, pp. 117 ss. A. CLARIZIA, la natura giuridica delle federazioni sportive anche alla luce della legge del 23 marzo 1981 n. 91, in riv. dir. sport., 1983, spec. p. 208. M. SenSALe, la legge 23 marzo 1981, n. 91 e la natura giuridica delle federazioni sportive, in riv. dir. sport., 1984, pp. 490 ss. A. QuARAnTA, sulla natura giuridica delle federazioni sportive nazionali, in riv. dir. sport, 1986, pp. 174 ss. (10) In giurisprudenza, di significativo rilievo, Cass. civ. Sez. un., 9 maggio 1991, n. 5181, in rep. foro it. 1991. In dottrina, per la natura giuridica ibrida o mista delle Federazioni sportive nazionali, R. CAPRIoLI, le federazioni sportive nazionali fra diritto pubblico e diritto privato, in dir. e giur., 1989, p. 10. R. FRASCARoLI, voce sport, (dir. pubbl. e priv.), vol. XLIII, in enc. dir., Milano, 1990, p. 519. g. MoRbIDeLLI, gli enti dell’ordinamento sportivo, in dir. amm., op. cit., p. 334. F. FRACChIA, voce sport, RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 denza, l’agire in qualità di organi del ConI non esclude affatto la natura privata delle Federazioni sportive (11). La tesi intermedia sembra svelare, forse meglio delle altre, la complessità del fenomeno investigato anche nella prospettiva di analizzare la tipologia di atti adottati dalle Federazioni nonché la natura delle situazioni soggettive in rilievo e per individuare, da ultimo, il giudice competente. Il dibattito sulla natura giuridica delle Federazioni è, poi, ravvivato dal d.lgs. 23 luglio 1999, n. 242 che, nel ridefinire l’assetto organizzativo dello sport italiano, interviene a riformare la normativa vigente (12). Il decreto, per un verso, conferma la personalità giuridica di diritto pubblico del ConI (13), e per altro verso, attribuisce alle Federazioni sportive personalità di diritto privato, munendole di autonomia (statutaria, tecnica, organizzativa, gestionale) ed assoggettandole, salvo deroghe, alla disciplina del codice civile (14). ne discende, di conseguenza, un quadro composito e variegato che pone all’interprete il problema della ricostruzione dei differenti profili di un simile giano bifronte (15). non può sottacersi, infatti, come le Federazioni sportive, pur es in dig. disc. pubbl., vol. XIv, Torino, 1999, pp. 470-471. M. SAnIno - F. veRDe, il diritto sportivo, Iv ed., Padova, 2015, p. 119. Per gli Autori “si era formato un orientamento qualificabile come unanime e secondo il quale le federazioni sportive presentano un duplice aspetto, l’uno di natura pubblicistica, riconducibile all’esercizio in senso lato di funzioni pubbliche proprie del coni, l’altro di natura privatistica collegato alle specifiche attività delle federazioni medesime, attività che in quanto autonome sono separate dalle attività di natura pubblica e fanno capo soltanto alle dette federazioni”. (11) Cass. civ. Sez. un., 9 maggio 1986, n. 3092, in foro. it. 1986, p. 1257. (12) L’art. 19 del d.lgs. 23 luglio 1999, n. 242 ha abrogato l’intera legge 426/1942 e l’art. 14 della legge 91/1981. (13) L’art. 1 del d.lgs. 23 luglio 1999, n. 242, così recita: “il comitato olimpico nazionale italiano, di seguito denominato coni, ha personalità giuridica di diritto pubblico, ha sede in roma ed è posto sotto la vigilanza del ministero per i beni culturali ed ambientali”. In dottrina si rinvia ai commenti di g. nAPoLITAno, la nuova disciplina dell’organizzazione sportiva italiana: prime considerazioni sul decreto legislativo 23 luglio 1999, n. 242, di “riordino” del c.o.n.i., in riv. dir. sport. 1999, pp. 617 ss. C. FRAnChInI, il riordino del coni, in gior. dir. amm. 2003, pp. 1209 ss. b. MARCheTTI, voce lo sport (agg.), in trattato di diritto amministrativo. diritto amministrativo speciale, a cura di S. CASSeSe, Milano, 2003, pp. 937 ss. (14) L’art. 15 del d.lgs. 23 luglio 1999, n. 242 in proposito statuisce: “le federazioni sportive nazionali svolgono l'attività sportiva in armonia con le deliberazioni e gli indirizzi del cio e del coni, anche in considerazione della valenza pubblicistica di specifici aspetti di tale attività. (…). le federazioni sportive nazionali hanno natura di associazione con personalità giuridica di diritto privato. esse non perseguono fini di lucro e sono disciplinate, per quanto non espressamente previsto nel presente decreto, dal codice civile e dalle disposizioni di attuazione del medesimo”. La disposizione sembra costruire le Federazioni sportive alla stregua di un giano bifronte: da un lato persone giuridiche di diritto privato, sottoposte al diritto comune, dall’altro, soggetti con funzioni pubbliche, incardinati nell’ordinamento sportivo e sottoposti ai poteri di vigilanza e controllo del ConI. (15) Per una ricostruzione del dibattito sulla natura giuridica delle Federazioni sportive F. LuISo, la giustizia sportiva, Milano, 1975, pp. 90, 125 e 198 ss. S. CASSeSe, sulla natura giuridica delle federazioni sportive e sull’applicazione ad esse della disciplina del parastato, in riv. dir. sport., op. cit., pp. 117 ss. g. RoSSI, enti pubblici associativi: aspetti del rapporto fra gruppi sociali e pubblico potere, op. cit., p. 120 ss. A. CLARIZIA, la natura giuridica delle federazioni sportive anche alla luce della legge del 23 marzo 1981 n. 91, in riv. dir. sport., op. cit., spec. p. 208. M. SenSALe, la legge 23 marzo 1981, ConTRIbuTI DI DoTTRInA sendo associazioni di diritto privato, siano inserite nell’ambito dell’ordinamento sportivo che conferisce ad esse poteri autoritativi per il perseguimento di finalità pubblicistiche (16). Se per certi atti e per taluni effetti le Federazioni operano come organi del ConI con imputazione ad esso delle relative fattispecie, per altre attività agiscono come soggetti privati nell’esercizio di poteri di autonomia negoziale (17). Ciò detto, la difficile convivenza tra natura privatistica e funzioni pubblicistiche solleva problemi applicativi in ordine alla individuazione, caso per caso, del tipo di atto compiuto (e del regime giuridico), delle situazioni soggettive in rilievo e del giudice competente a conoscere le relative controversie. È chiaro, dunque, che “alla diversa qualificazione giuridica degli atti e delle attività delle autorità sportive corrisponde una diversificata incidenza su situazioni soggettive che si conformano nell’ordinamento statale come diritti soggettivi, come interessi legittimi” (18). Con particolare riferimento al problema del riparto di giurisdizione occorre far ricorso ad un criterio funzionale che si fondi, a monte, sulla natura (paritetica od autoritativa) (19) dell’atto posto in essere e, a valle, sulla correlata situazione soggettiva incisa (interesse legittimo o diritto soggettivo). va osservato, poi, come agli albori del Terzo Millennio la vexata quaestio n. 91 e la natura giuridica delle federazioni sportive, in riv. dir. sport., op. cit., pp. 490 ss.. A. QuARAnTA, sulla natura giuridica delle federazioni sportive nazionali, in riv. dir. sport, op. cit., pp. 174 ss. R. FRA- SCARoLI, voce sport, (dir. pubbl. e priv.), vol. XLIII, in enc. dir., op. cit., pp. 513 ss. L. TRIveLLATo, considerazioni sulla natura giuridica delle federazioni sportive, in dir. e soc. 1991, pp. 141 ss. g. MoRbIDeLLI, gli enti dell’ordinamento sportivo, in dir. amm., op. cit., pp. 321 ss. R. CAPRIoLI, l’autonomia normativa delle federazioni sportive nazionali nel diritto privato, napoli, 1997, pp. 1 ss. F. FRACChIA, voce sport, in dig. disc. pubbl., vol. XIv, Torino, 1999, pp. 470-471. C. ALvISI, autonomia privata e autodisciplina sportiva. il coni e la regolamentazione dello sport, Milano, 2000, pp. 57 ss. L. DI neLLA, le federazioni sportive nazionali dopo la riforma, in riv. dir. sport, 2000, pp. 53 ss. A. MALTonI, il conferimento di potestà pubbliche ai privati, Torino, 2005, pp. 215-230. g. nAPoLITAno, voce sport, in diz. dir. pubbl., diretto da S. CASSeSe, vol. vI, Milano, 2006, pp. 5678-5685. L. CoLAnTuonI, diritto sportivo, Torino, 2009. F. PAvAnI, le federazioni sportive, in giur. it., 2010, pp. 1474 ss. g. ZoPPI, diritto sportivo, Roma, 2012. S. CuSTuReRI, la natura giuridica delle federazioni sportive nazionali, enti pubblici o associazioni di diritto privato?, in www.amministrativamente.com, fasc. 3-4, 2015. M. SAnIno -F. veRDe, il diritto sportivo, Iv ed., op. cit., pp. 118 ss. (16) Le Federazioni sportive nazionali, pur qualificate associazioni di diritto privato, risultano in ogni caso incardinate in un sistema pubblicistico. occorre, pertanto, distinguere nelle Federazioni il momento genetico di matrice privatistica dal compresente momento funzionale di natura pubblicistica riconducibile al collegamento con il ConI. (17) Sulla distinzione tra compiti privatistici e compiti pubblicistici, in dottrina, R. CAPRIoLI, le federazioni sportive nazionali tra diritto pubblico e diritto privato, in dir. e giur., op. cit., pp. 1 ss. In giurisprudenza già Cass. Sez. un., 9 maggio 1986 n. 3092, in foro it., op. cit., p. 1254. (18) C. ALvISI, autonomia privata e autodisciplina sportiva. il coni e la regolamentazione dello sport, op. cit., p. 59 e p. 309. Secondo l’Autrice dalla tesi della natura pubblica delle Federazioni è possibile argomentare “l’emersione al livello statuale della loro disciplina interna e di corrispondenti posizioni di interesse legittimo in capo agli associati”. (19) In giurisprudenza, di particolare rilievo, Tar Lazio, sez. III, 8 febbraio 1988, n. 135, in foro amm. 1988, pp. 761 ss. RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 in ordine alla natura giuridica delle Federazioni sia resa ancor più complessa dalla c.d. eclissi della soggettività giuridica (20). Infatti, la nota ripartizione dei soggetti, in pubblici e privati, va sfumandosi unitamente al ridimensionarsi del tradizionale paradigma della soggettività formale. Di conseguenza, l’interprete nell’attività di indagine è chiamato a focalizzarsi, più che sul nomen iuris, sulla dimensione oggettiva dei fenomeni investigati ai fini di una corretta ricostruzione del regime giuridico applicabile. Si fa presente, poi, come al dato formale della soggettività, pubblica o privata, non corrisponda più necessariamente la disciplina predeterminata del tipo di riferimento; coerentemente, allora, l’interprete dovrà effettuare un’esegesi ricostruttiva, muovendo dalla natura giuridica del soggetto, per poi spingersi ad esaminare in concreto l’attività svolta e gli interessi perseguiti (21). nonostante la natura privatistica, espressamente riconosciuta dalla legge, le Federazioni sportive godono di autarchia, esercitando potestà amministrative ed emanando atti autoritativi ed imperativi. Si pensi alla potestà di adottare statuti, regolamenti interni (22), norme sanitarie ed atti applicativi (23); alle attività di controllo sanitario sugli sportivi professionisti, ai provvedimenti di affiliazione, revoca e controllo sulle società e sulle associazioni sportive; alle attività di tutela sanitaria, assicurativa e previdenziale degli atleti; infine, agli atti di repressione del doping. A riguardo il d.lgs. 8 gennaio 2004, n. 15 affida allo Statuto del ConI l’individuazione tassativa delle attività di rilievo pubblicistico delle Federazioni sportive (24); attività che non sono suscettibili di applicazione estensiva da parte della giurisprudenza costituendo un numerus clausus. (20) Si rinvia, in argomento, ai significativi contributi di g.P. CIRILLo, la società pubblica e la neutralità delle forme giuridiche soggettive, in www.giustizia-amministrativa.it. n. LIPARI, le categorie del diritto civile, Milano, 2013, pp. 50-88. (21) R. CAPRIoLI, le federazioni sportive nazionali tra diritto pubblico e diritto privato, in dir. e giur., op. cit., pp. 1 ss. C. ALvISI, autonomia privata e autodisciplina sportiva. il coni e la regolamentazione dello sport, op. cit., p. 313. P. PIZZA, l’attività delle federazioni sportive tra diritto pubblico e privato, in foro amm. c.d.s. 2002, pp. 3255 ss. (22) A riguardo g. vIDIRI, natura giuridica e potere regolamentare delle federazioni sportive nazionali, in foro it., 1994, p. 136. Secondo la giurisprudenza il perseguimento di finalità pubblicistiche, riconducibili alla promozione e alla tutela dello sport, attrae in molti casi, le Federazioni nell’orbita del ConI; soprattutto ove tali associazioni privatistiche adottino norme regolamentari a contenuto organizzatorio per il raggiungimento dei fini istituzionali del ConI nell’ambito della singola disciplina sportiva di riferimento (In giurisprudenza Cass. civ. Sez. un., 26 ottobre 1989 n. 4399, in riv. dir. sport. 1990, p. 57. Cass. civ. Sez. un., 25 febbraio 2000, n. 46, in guida dir., 2000, pp. 68 ss.). (23) g. MoRbIDeLLI, gli enti dell’ordinamento sportivo, in dir. amm., op. cit., pp. 344 ss. (24) Ai sensi dell’art. 23 co. I dello Statuto del ConI “hanno valenza pubblicistica esclusivamente le attività delle federazioni sportive nazionali relative all’ammissione e all’affiliazione di società, di associazioni sportive e di singoli tesserati; alla revoca a qualsiasi titolo e alla modificazione dei provvedimenti di ammissione o di affiliazione; al controllo in ordine al regolare svolgimento delle competizioni e dei campionati sportivi professionistici; all’utilizzazione di contributi pubblici, alla prevenzione e repressione del doping, nonché alle attività relative alla preparazione olimpica e all’altro livello, alla formazione dei tecnici e alla gestione degli impianti sportivi pubblici”. ConTRIbuTI DI DoTTRInA L’agire come organi del ConI nell’esercizio di potestà pubbliche non compromette la soggettività giuridica delle Federazioni sportive, le quali vanno in ogni caso considerate autonomi centri di imputazione di diritti e obblighi (25); trattasi di una soggettività giuridica di tipo privatistico che si sviluppa, appunto, secondo le regole del codice civile. Di conseguenza, “la qualità di organo si aggiunge alle altre e vale a certi fini e a certi effetti, e non per tutta l’attività delle federazioni” (26). Del resto, come associazioni con personalità giuridica, le Federazioni compiono in prevalenza atti di autonomia privata disciplinati dal diritto comune. La compresenza di elementi propri del diritto privato e del diritto pubblico ha indotto la giurisprudenza ad aderire alla tesi della natura ibrida o mista delle Federazioni sportive (27); una tesi che nasce dalla combinazione della tesi pubblicistica con la tesi privatistica. In tal senso le Federazioni sportive verrebbero delineate alla stregua di un giano bifronte, svolgendo ora “compiti (e connessi atti) di diritto privato, sottoposti alle regole che disciplinano i comuni rapporti tra i consociati e compiti (e connessi atti) di diritto pubblico, che all’opposto soggiacciono alle regole che si confanno ai rapporti autoritari speciali tra cives e Pubblica amministrazione” (28). Le Federazioni sarebbero, così, soggetti geneticamente privati ma funzionalmente pubblici per taluni atti e finalità (29), con conseguente applicazione di una speciale disciplina innestata su norme di diritto privato. Da un tale regime giuridico, così composito e variegato, deriverebbe “una sostanziale doppia personalità delle federazioni: una pubblica per la quale agiscono come organi del coni, sono finanziate dal coni e sono soggette al potere di sorveglianza di esso; l’altra privata, che deriva dall’atto di nascita, costituito addirittura dalla collocazione legislativa nell’ambito dei soggetti con personalità giuridica di diritto privato e che si sostanzia nell’autonomia tecnica, organizzativa e di gestione delle federazioni” nonché “nella capacità di agire come ente privato in mancanza di una specifica disciplina” (30). (25) S. CASSeSe, sulla natura giuridica delle federazioni sportive e sull’applicazione ad esse della disciplina del parastato, op. cit., p. 121. (26) R. FRASCARoLI voce sport, (dir. pubbl. e priv.), vol. XLIII, in enc. dir., op. cit., pp. 519. (27) In giurisprudenza, Tar Lazio, sez. III, 20 agosto 1987, n. 1449, in riv. dir. sport, 1987, p. 682. Cons. Stato, sez. vI, 20 dicembre 1993, n. 1167, in riv. dir. sport 1994, p. 49. Cass. civ. Sez. un., 11 ottobre 2002, n. 14530, in www.cortedicassazione.it. Cons. Stato, sez. vI, 10 ottobre 2002, n. 5442, in www.giustizia-amministrativa.it. (28) g. bACoSI, ordinamento sportivo e giurisdizione. il ruolo “storico” delle federazioni, in www.giustizia-amministrativa.it, 2008-9. In argomento anche R. CAPRIoLI le federazioni sportive nazionali tra diritto pubblico e diritto privato, in dir. e giur., op. cit., pp. 1 ss. (29) In giurisprudenza, ex plurimis, Tar Lazio, sez. III, 8 febbraio 1988, n. 135, in tar, 1988, I, p. 761. Tar Lazio, sez. III, 23 giugno 1994, n. 1361, in tar, 1994, I, p. 2399. (30) In dottrina M. SAnIno - F. veRDe, il diritto sportivo, op. cit., pp. 119 ss. Sulla duplice natura giuridica delle Federazioni, in giurisprudenza, di rilevo, Tar Calabria, sez. II, 18 settembre 2006, n. 984, in www.giustizia-amministrativa.it. RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 Pur avendo l’indiscutibile merito di svelare la complessità del fenomeno, la tesi che sostiene la natura ibrida o mista pare non soddisfare l’esigenza di un compiuto inquadramento dogmatico delle Federazioni sportive, anche alla luce del dettato legislativo. Il problema della natura giuridica delle Federazioni va risolto muovendo dalla lettera dell’art. 15 d.lgs. 23 luglio 1999, n. 242 che qualifica espressamente le Federazioni quali associazioni con personalità giuridica di diritto privato. Dunque, soggetti privati che, alle volte, sono chiamati ad esercitare, oltre ai normali poteri di autonomia privata, anche potestà amministrative (31); tuttavia, il rilievo pubblicistico di alcune attività non è in grado di trasformare la natura giuridica delle Federazioni, pur avendo ricadute applicative sul tipo di atti compiuti, sulle situazioni soggettive in rilievo e sul giudice competente. Pertanto, le Federazioni sportive hanno natura privatistica in conformità al dettato legislativo. Ciononostante, nell’analisi del fenomeno occorre tener conto della odierna crisi della soggettività giuridica che frantuma la rigida relazione fra natura del soggetto, tipologia di atti compiuti e disciplina applicabile. venute meno le storiche barriere tra il diritto pubblico ed il diritto privato, si rilevano oggi osmosi e commistioni sempre più frequenti tra discipline un tempo distanti. In un tale contesto è coerente e ragionevole che un soggetto privato, nel caso di specie una Federazione sportiva, possa svolgere funzioni amministrative. D’altronde, tale assunto trova conferma nel fenomeno del c.d. esercizio privato di pubbliche funzioni che, valorizzando il profilo sostanziale dell’attività realizzata, prescrive l’applicazione di una disciplina pubblicistica, nonostante la natura privata del soggetto. In senso conforme la giurisprudenza afferma che qualora l’esercizio privato di pubbliche funzioni riguardi attività amministrativa in senso stretto esso “non può compiersi che tramite atti sostanzialmente amministrativi” che radicano la giurisdizione sulle relative controversie in capo al giudice amministrativo, trattandosi di atti provenienti da organi che si sostituiscono all’amministrazione (32). Tali atti, oggettivamente amministrativi, in quanto estrinsecazione di un potere di supremazia speciale, (31) In dottrina, a riguardo, SAnIno M. - veRDe F., il diritto sportivo, op. cit., p. 459, spec. nota 80. In giurisprudenza, ex multis, Cons. giust. Amm., 9 ottobre 1993, n. 536, in cons. stato, 1993, I, p. 1339. Cons. Stato, sez. vI, 31 dicembre 1993, n. 1112, in foro amm., 1993, p. 2480. Ad avviso del Supremo Consesso amministrativo le Federazioni sportive “aventi geneticamente natura privatistica di associazioni non riconosciute, assumono la veste di organi del coni e partecipano della natura pubblicistico- autoritativa (e non economica) di quest’ultimo, allorché operano all’esercizio di poteri di organizzazione e disciplina delle attività sportive inerenti alle finalità del coni”. In proposito anche Cons. Stato, sez. vI, 3 dicembre 1998, n. 1662, in giur. it., 1999, p. 1317. Cons. Stato, sez. vI, 13 gennaio 1999, n. 12, in cons. stato, 1999, I, p. 94. (32) Cass. civ. Sez. un., 29 dicembre 1990, n. 12221, in www.cortedicassazione.it. In dottrina, a riguardo, g. MoRbIDeLLI, gli enti dell’ordinamento sportivo, in dir. amm., op. cit., p. 337. F. FRACChIA voce sport, in dig. disc. pubbl., op. cit., p. 471. ConTRIbuTI DI DoTTRInA soggiacciono al medesimo regime giuridico degli atti formalmente amministrativi (33), con la conseguenza che sono sindacabili dal giudice amministrativo per incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere. Ciononostante, l’applicazione della disciplina di diritto amministrativo sembrerebbe preclusa dall’art. 23 dello Statuto del ConI secondo il quale il rilievo pubblicistico di alcune attività delle Federazioni “non modifica l’ordinario regime di diritto privato dei singoli atti e delle situazioni giuridiche soggettive connesse”; la disposizione pare ripristinare l’anacronistico binomio tra soggettività privata e disciplina di diritto comune, non tenendo conto della natura oggettivamente amministrativa di molti atti delle Federazioni sportive. In senso adesivo una parte della dottrina ritiene che la rilevanza pubblicistica di alcune attività non determini necessariamente “la soggezione degli atti adottati nell’esercizio di queste al regime proprio del diritto amministrativo a cominciare dalle regole sul procedimento contenute nella l. n. 241/1990” (34). un simile orientamento non convince appieno, in quanto, con un approccio meramente formalistico, oblitera il dato sostanziale della natura oggettivamente amministrativa di molte attività poste in essere dalle Federazioni per il perseguimento di interessi pubblici; attività che non possono che sottostare alla disciplina prevista per gli atti formalmente amministrativi. La previsione dello Statuto del ConI è, poi, disattesa da una fonte di rango superiore, quale l’art. 133 lett. z) d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 che attribuisce al giudice amministrativo, in sede esclusiva, la giurisdizione sulle controversie relative agli atti delle Federazioni sportive “non riservate agli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo ed escluse quelle inerenti i rapporti patrimoniali tra società, associazioni e atleti”. Tale disposizione normativa, prevedendo tre distinte forme di giurisdizione (ordinaria, amministrativa e sportiva) con eterogenee discipline processuali, implica che le Federazioni possano compiere differenti tipi di atti, privatistici o pubblicistici, aventi ciascuno la propria peculiare disciplina sostanziale. Inoltre, l’ordinamento italiano riconosce da tempo la possibilità di applicare norme pubblicistiche ad atti ed attività compiuti da soggetti privati. Si pensi, ad esempio, ai principi e alle regole dell’evidenza pubblica nelle procedure di affidamento indette da un organismo di diritto pubblico (35). Tale (33) Sulla natura oggettivamente amministrativa di molti atti delle Federazioni sportive Tar Puglia, sez. I, 11 settembre 2001, n. 3477, in www.giustizia-amministrativa.it. (34) g. nAPoLITAno, voce sport, in diz. dir. pubbl., diretto da S. CASSeSe, op. cit., p. 5683. Con riferimento alla disciplina applicabile, l’Autore esclude la soggezione degli atti delle Federazioni al diritto amministrativo, sostenendo che per la cura degli interessi pubblici sarebbero sufficienti gli atti di indirizzo e controllo del ConI, in modo da avere una funzionalizzazione per principi inidonea ad alterare il regime privatistico degli atti federali previsto dalla normativa vigente. (35) M. CoLuCCI (a cura di), lo sport e il diritto. Profili istituzionali e regolamentazione giuridica, napoli, 2004, p. 15. RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 figura, di origine europea, è stata recepita dal legislatore italiano nell’intento di far osservare le regole della concorrenza anche ad operatori che, seppur formalmente privati, risultino partecipati, finanziati o controllati dalla mano pubblica. Si è, dunque, in presenza di un soggetto privato ma che per certi atti e per taluni effetti viene considerato dall’ordinamento alla stregua di un soggetto pubblico, con applicazione di una disciplina derogatoria rispetto al diritto comune. L’ordinamento dimostra, così, di far prevalere la sostanza sulla forma. I requisiti dell’organismo di diritto pubblico, come noto, sono tre: a) l’essere istituito per soddisfare bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale; b) avere personalità giuridica di diritto privato; c) essere finanziato o controllato dalla mano pubblica. Tali requisiti si riscontrano perfettamente nelle Federazioni sportive le quali sono associazioni con personalità giuridica di diritto privato, che non perseguono scopo di lucro (36) e soggiacciono ai poteri di indirizzo, vigilanza e controllo del ConI (37). Il richiamo alla figura dell’organismo di diritto pubblico conferma, quindi, la tesi che legittima le Federazioni, quali associazioni privatistiche, a compiere atti amministrativi, con conseguente applicazione in parte qua di un regime giuridico, sostanziale e processuale, di tipo pubblicistico. Si pensi, per esempio, al diritto di accesso ex art. 22 legge 7 agosto 1990, n. 241 (38) limitatamente alle attività autoritative delle Federazioni. In definitiva occorre sottolineare come l’individuazione della natura giuridica delle Federazioni non sia di per sé dirimente ai fini dell’accertamento della natura degli atti compiuti, delle situazioni soggettive in rilievo e del riparto di giurisdizione. Del resto, nella conclamata crisi della soggettività alla natura giuridica di un soggetto non corrisponde più necessariamente un’unica e predeterminata disciplina, dovendo l’interprete procedere ad un’opera di ritaglio calibrata sull’attività concretamente realizzata e sugli interessi perseguiti. ne discende come le Federazioni sportive siano da considerare a pieno (36) In giurisprudenza, ex multis, Cass. civ. Sez. un., 26 ottobre 1989 n. 4399, in riv. dir. sport. 1990, I, p. 57. Cass. civ. Sez. un., 25 febbraio 2000, n. 46, in guida dir., 2000, pp. 68 ss. (37) A riguardo C. ALvISI, autonomia privata e autodisciplina sportiva. il coni e la regolamentazione dello sport, op. cit., pp. 250-251: “l’assoggettamento dell’autonomia tecnica, organizzativa e di gestione delle federazioni sportive nazionali a procedure legali intese a consentire il controllo e la vigilanza del coni sui fini perseguiti vale dunque a garantire la funzionalizzazione della loro autonomia privata al perseguimento di interessi valutati dal legislatore di pubblico rilievo”. Tali poteri sono stati rafforzati dal d.lgs. 23 luglio 1999, n. 242. Si pensi, a titolo esemplificativo, al potere riconosciuto al ConI di commissariare le Federazioni, con esercizio di poteri sostitutivi, in caso di gravi irregolarità di gestione, gravi violazioni dell’ordinamento sportivo oppure nell’ipotesi di impossibilità di funzionamento. (38) Tar Toscana, sez. I, 19 giugno 1998, n. 411, in foro amm. 1999, p. 833. ConTRIbuTI DI DoTTRInA titolo soggetti di diritto privato, inquadrati in un sistema pubblicistico, che esercitano ora poteri di autonomia privata ora potestà amministrative, con applicazione di regimi giuridici differenti in ragione della natura dell’atto di volta in volta in rilievo. non esiste, infatti, alcuna preclusione a che nella medesima figura soggettiva coesistano momenti di autonomia privata e momenti di discrezionalità amministrativa. Dunque, il tradizionale rilievo pubblicistico delle Federazioni sportive può dirsi, oggi, definitivamente transitato dal profilo formale della natura giuridica del soggetto al profilo sostanziale dell’attività svolta e degli interessi perseguiti (39). (39) g. nAPoLITAno, voce sport, in diz. dir. pubbl., diretto da S. CASSeSe, op. cit., p. 5683. RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 L’annullamento “atipico” del provvedimento tipico e le interferenze con la regolazione Ida Perna* sommario: 1. Premessa - 2. lo “sdoganamento” della modulazione degli effetti della sentenza di annullamento -3. l’annullamento “atipico” del provvedimento tipico -4. il trend giurisprudenziale adesivo -5. le interferenze dell’annullamento “atipico” con la regolazione. 1. Premessa. L’evoluzione della giustizia amministrativa è stata ed è costantemente orientata dal perseguimento dell’obiettivo di una tutela giurisdizionale piena ed effettiva (1); non a caso, ma coerentemente con la frequente prassi della positivizzazione delle acquisizioni giurisprudenziali, il codice recante le norme in tema di processo amministrativo esordisce con l’affermazione del principio della effettività della protezione attingibile dai cittadini amministrati attraverso l’esperimento delle azioni giudiziali dinanzi agli organi giurisdizionali amministrativi (2). Tuttavia, com’è stato efficacemente osservato, il principio di effettività della tutela non può e non deve essere inteso genericamente, bensì deve porsi nei termini propri del processo amministrativo, teleologicamente e costituzionalmente orientato a garantire le posizioni soggettive dedotte in giudizio (3). (*) Dottore di ricerca in diritto amministrativo presso l’università degli Studi di napoli “Federico II”. (1) Che sia così è ampiamente e diffusamente illustrato in letteratura: cfr., ex multis, SAnDuLLI A., diritto processuale amministrativo, in CASSeSe S., corso di diritto amministrativo, Milano, 2013, passim. (2) L’art. 1 del codice del processo amministrativo, rubricato “effettività”, prevede che “La giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo”. giova del resto osservare che il codice predetto è recato dal decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, adottato in adempimento della delega di cui all’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, che, fra i corrispondenti principi e criteri direttivi, enunciava proprio la garanzia della “snellezza, concentrazione ed effettività della tutela, anche al fine di garantire la ragionevole durata del processo […]” (art. 44, comma 2, lett. a)). (3) CARbone A., azione di annullamento, ricorso incidentale e perplessità applicative della modulazione degli effetti caducatori, in dir. proc. amm., 4/2013, 428 ss. Per vero, con due recenti e importanti pronunciamenti, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha ribadito la natura soggettiva della giurisdizione amministrativa. In particolare, con la sentenza 13 aprile 2015, n. 4, il Massimo Consesso di giustizia amministrativa ha negato la possibilità di convertire ex officio una domanda di annullamento di un provvedimento illegittimo in una di risarcimento del danno, e ciò proprio in ragione della circostanza che le tutele apprestate dalla giurisdizione amministrativa sono espressione di una giurisdizione di tipo soggettivo, retta - pertanto - dal principio della domanda [deponendo in tal senso: il disposto di cui all’art. 29 c.p.a., che prevede come sanzione tipica per gli atti illegittimi, impugnati innanzi al giudice amministrativo, la pronuncia di annullamento; il precetto recato dall’art. 34, primo comma, primo capoverso, c.p.a., che sancisce espressamente che le pronunce di accoglimento del giudice amministrativo ConTRIbuTI DI DoTTRInA Alla luce di tali coordinate debbono scrutinarsi gli approdi della giurisprudenza in tema di modulazione degli effetti caducatori della sentenza di annullamento, quale potere ad oggi nella disponibilità (limitata, come meglio infra) dell’Autorità giusdicente e necessariamente incidente sull’esercizio del potere amministrativo, qual è quello regolatorio (4). sono rese “nei limiti della domanda”, vale a dire nel rispetto del principio dispositivo (art. 99 c.p.c.) e del suo corollario della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.), che devono quindi ritenersi ricompresi nel rinvio esterno ai principi generali recati dal codice di procedura civile ex art. 39 c.p.a.; la differenza strutturale intercorrente fra l’azione di annullamento e quella riparatoria: la ragione su cui si fonda la pretesa demolitoria è l’illegittimità dell’atto e la pronuncia richiesta è la sua caducazione, mentre la causa petendi di un’azione di risarcimento risiede nell’illiceità del fatto della Pubblica Amministrazione e nelle sue conseguenze dannose per il ricorrente e il petitum è costituito dalla condanna al risarcimento; valga sottolineare che l’Adunanza Plenaria “con il punto fermo costituito dal principio dispositivo […] affronta poi, uno dopo l'altro, confutandoli, gli argomenti spesi dall’ordinanza di rimessione o dalla richiamata pronuncia della Sesta Sezione, n. 2755/2011”, invero citata quale “precedente non pertinente” a sostegno dell’ammissibilità della predetta mutatio libelli: cfr. SILveSTRI M., il principio della domanda nel processo amministrativo. l’adunanza plenaria n. 4 del 2015, in foro amm.cds, 9/2015, 2207]; con la quasi coeva decisione 27 aprile 2015, n. 5, il Massimo Consesso, chiamato a pronunciarsi sul tema della graduazione dei motivi di ricorso, ha nuovamente precisato che “[…] il processo amministrativo è certamente un processo di parte governato, in linea generale e salvo quanto si dirà in prosieguo, dal principio della domanda nella duplice accezione di principio dispositivo sostanziale - inteso quale espressione del potere esclusivo della parte di disporre del suo interesse materiale sotto ogni aspetto compresa la scelta di richiedere o meno la tutela giurisdizionale - e di principio dispositivo istruttorio (sia pure con i temperamenti enucleabili dagli artt. 63 e 64 c.p.a., in relazione al processo impugnatorio, ed ispirati al c.d. sistema dispositivo con metodo acquisitivo). Sul punto non può che ribadirsi quanto più volte enunciato da questa stessa Adunanza plenaria (cfr. da ultimo n. 4 del 2015; n. 9 del 2014, n. 7 del 2013, n. 4 del 2011), in ordine all’impossibilità di considerare quella amministrativa una giurisdizione di diritto oggettivo e su come tale approdo sia coerente con il significato che assume il principio della domanda nel dettato dell’art. 24, co. 1, Cost. che affianca, sia pure prendendo atto per ciò solo della loro diversità, le due situazioni soggettive attive del diritto soggettivo e dell’interesse legittimo quali presupposti per l’esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale intesa come principio fondamentale costitutivo dell’ordine pubblico costituzionale (cfr. da ultimo le fondamentali conclusioni cui è pervenuta Corte cost. 22 ottobre 2014, n. 238). È assodato, pertanto, che il principio della domanda e quello della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, hanno dignità di generalklausel nel processo civile (cfr. Sez. un., nn. 26242 e 26243 del 2014 cit.) ed in quello amministrativo (cfr. Ad. plen. n. 4 del 2015, n. 9 del 2014 e n. 4 del 2011). A queste prime conclusioni si saldano le ulteriori considerazioni - che contribuiscono alla migliore comprensione del fenomeno nella sua portata teorica e nelle conseguenti soluzioni operative -sul ruolo del giudice amministrativo come giudice naturale degli interessi legittimi in virtù di diretta attribuzione costituzionale di tale competenza (art. 103 co. 1, Cost.); sulle peculiari modalità di erogazione della tutela giurisdizionale dell’interesse legittimo attraverso il controllo necessario sull’esercizio (o il mancato esercizio) della funzione pubblica financo all’interno dell'amministrazione (art. 100, co. 1, Cost.); sull’importanza strategica dell’iniziativa della persona che agisce in giudizio, nella logica del private enforcement, perché, sia pure nei limiti della domanda, concorre a (e rende possibile la) tutela dell’interesse pubblico mediante il ripristino della legalità violata” (Cfr. Cons. St., Ad. Plen. 27 aprile 2015, n. 5, in www.giustizia-amminnistrativa.it). (4) La funzione regolatoria è prerogativa costante dei pubblici poteri; per vero, lo Stato e, prima di esso gli ordinamenti generali, hanno sempre disciplinato fatti afferenti all’economia, assumendo ciò come “una delle loro attribuzioni fondamentali”: cfr. gIAnnInI M.S., diritto pubblico dell’economia, bologna, 1996, 20. Tuttavia, il concetto di regolazione non sfugge a una caratterizzazione storicamente determinata (cfr. MARCou g., esiste una nozione giuridica di regolazione?, in rass. di dir. pubbl. eur., 1/2006, 19); del resto, è dato rinvenire diverse ricostruzioni della suddetta nozione, tra le quali la più RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 2. lo “sdoganamento” della modulazione degli effetti della sentenza di annullamento. Com’è noto, lo “sdoganamento” della possibile modulazione degli effetti della decisione di annullamento risale alla pronuncia della Sesta Sezione del Consiglio di Stato 10 maggio 2011, n. 2755 (5), che ha abilitato il giudice amministrativo a derogare alla generale regola per cui l’accoglimento di un ricorso per la caducazione di un provvedimento lesivo comporta l’eliminazione integrale degli effetti dell’atto stesso “quando la sua applicazione risulterebbe incongrua e manifestamente ingiusta”, e ciò mediante “la limitazione parziale diffusa - che riconduce la “regolamentazione” o “regolazione” all’intervento pubblico in economia cosiddetto indiretto (cfr. SPAgnuoLo vIgoRITA v., attività economica privata e potere amministrativo, napoli, 1962, 10 ss.; IRTI n., l’ordine giuridico del mercato, Roma-bari, 2003, 107) - evidenzia come il potere di regolazione non possa prescindere dal suo collegamento funzionale con la concorrenza, posto che il diritto regolatorio tende a correggere e/o ripristinare il funzionamento del mercato: cfr. ZoPPInI A., autonomia contrattuale, regolazione del mercato, diritto della concorrenza, in ZoPPInI A., oLIvIeRI g. (a cura di), contratto e antitrust, Roma, 2008, passim. (5) Cons. St., Sez. vI, 10 maggio 2011, n. 2755 con note e commenti di TRAvI A., accoglimento dell’impugnazione di un provvedimento e “non annullamento” dell’atto illegittimo, in urb. e app., 2011, 936 ss.; QuInTo P., la specificità della giurisdizione amministrativa ed una sentenza di “ buon senso ”, in giustamm.it, 2011; SAPIo M., un caso di sospensione degli effetti caducatori del giudicato amministrativo in applicazione della rilevanza del diritto europeo sul diritto processuale amministrativo nazionale, ivi; MACChIA M., l’efficacia temporale delle sentenze del giudice amministrativo: prove di imitazione, in giorn. dir. amm., 2011, 1310 ss.; FoLLIeRI e., l’ingegneria processuale del consiglio di stato, in giur. it., 2012, 439 ss.; LoRIA e., accertata l’illegittimità dell’atto impugnato il giudice può decidere della non retroattività, in guida dir., 26/2011, 103 ss.; FonDeRICo g., nota a cons. st., sez. vi, 10 maggio 2011, n. 2755, in guida dir. dossier, 9/2011, 32; PoLITI R., atipicità delle azioni e chirurgia giurisprudenziale dell’azione di annullamento: la “sovrascrittura del programma”, in foro amm.-tar, 2011, 1071 ss.; FeLIZIAnI C., oltre le colonne d’ercole. Può il giudice amministrativo non annullare un provvedimento illegittimo?, in foro amm.-cds, 2012, 427 ss.; gALLo C.e., i poteri del giudice amministrativo in ordine agli effetti delle proprie sentenze di annullamento, in dir. proc. amm., 2012, 280 ss.; gIuSTI A., la “nuova” sentenza di annullamento nella recente giurisprudenza del consiglio di stato, ivi, 293 ss.; beRTonAZZI L., sentenza che accoglie l’azione di annullamento amputata dell’effetto eliminatorio?, ivi, 1128 ss.; CARIngeLLA F., il sistema delle tutele dell’interesse legittimo alla luce del codice e del decreto correttivo, in urb. e app., 2012, 17 ss.; DIPACe R., l’annullamento tra tradizione e innovazione: la problematica flessibilità dei poteri del giudice amministrativo, in dir. proc. amm., 4/2012, 1273 ss.; FoRnACIARI M., ultimissime dal consiglio di stato: l’annullamento ... che non annulla!, ivi, 1662 ss. Il menzionato leading case riguardava il ricorso proposto da un’associazione ambientalista avverso l’approvazione del piano faunistico venatorio regionale pugliese 2009-2014, in particolare impugnato per la mancata attivazione del procedimento sulla valutazione ambientale strategica prevista dalla legislazione statale; i giudici di Palazzo Spada hanno accolto la tesi dell’appellante e hanno riformato la sentenza di primo grado che aveva respinto la domanda di annullamento. Il Consiglio di Stato ha affermato la necessità di attivare il procedimento di valutazione ambientale strategica anche per il sopracitato piano faunistico, ma non ne ha disposto la caducazione, né la rimozione dei relativi effetti, in quanto ciò avrebbe determinato il venir meno del piano e la conseguente libertà di cacciare, eliminando ogni tutela della fauna selvatica per cui aveva agito l’associazione ambientalista: in caso di eliminazione del piano si sarebbe conseguito un risultato contrario all’interesse fatto valere, sicché la sentenza ha stabilito la perdurante efficacia del piano impugnato e illegittimo, fino all’adozione da parte della Regione del nuovo piano faunistico (e assegnando il termine di dieci mesi per l’acquisizione della valutazione ambientale strategica). ConTRIbuTI DI DoTTRInA della retroattività degli effetti, o con la loro decorrenza ex nunc ovvero ancora escludendo del tutto gli effetti dell’annullamento e disponendo esclusivamente gli effetti conformativi”. giova brevemente ripercorrere gli argomenti posti a fondamento di siffatto indirizzo: anzitutto, i giudici di Palazzo Spada richiamano il principio di effettività della tutela giurisdizionale e di atipicità delle azioni; in secondo luogo, la decisione menzionata riferisce il disposto di cui all’art. 34, comma terzo, c.p.a., ove si prevede la scissione fra l’illegittimità dell’atto e la sua annullabilità (6); si citano, altresì, le norme recate dal codice del processo amministrativo sul rito speciale negli appalti, allorché legittimano l’autorità giurisdizionale, che abbia annullato un’aggiudicazione, a dichiarare o meno l’inefficacia del contratto stipulato ovvero a modularne l’inefficacia (artt. 121 e 122 c.p.a.) (7); ancora, si osserva l’assenza nell’ordinamento di prescrizioni ostative alla citata modulazione e si rimanda, per contro, alle norme di cui alla legge generale sul procedimento amministrativo - quali quelle recate dall’art. 21-nonies (8) - che, espressamente, contemplano la possibilità che un atto pur illegittimo non venga annullato; infine, si menziona l’orientamento della giu (6) In particolare, l’art. 34 del codice del processo amministrativo, rubricato “Sentenze di merito”, al terzo comma così prevede: “Quando, nel corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori”. (7) La questione delle conseguenze cagionate dall’annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione sulla sorte del contratto medio tempore stipulato dall’Amministrazione, prima dell’abrogazione a far data dal 19 aprile 2016 - rinveniva una sua espressa disciplina negli artt. 245-bis e 245-ter del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (cosiddetto codice degli appalti), che contenevano delle mere norme di rinvio a quelle dettate sul punto dal codice del processo amministrativo: in particolare, il suddetto rimando è agli artt. 121 e 122 c.p.a., i quali, a loro volta, riproducono il testo degli stessi artt. 245bis e 245-ter del codice degli appalti, così come riscritti dal legislatore a seguito del recepimento della direttiva ricorsi operata con il decreto legislativo 20 marzo 2010, n. 53. Cfr., al riguardo, MeZZoTeRo A., RoMeI D., gli effetti dell’annullamento dell’aggiudicazione sul contratto, in rassegna avvocatura dello stato, 2/2016, 253 ss. (8) L’art. 21-nonies della legge 7 agosto 1990, n. 241, intitolato “Annullamento d’ufficio”, così dispone: “1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo. 2. È fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole. 2-bis. I provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall’amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo vI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”. RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 risprudenza comunitaria che, sulla base di quanto stabilito dall’art. 264, par. 2, TFue (9), ha ammesso la derogabilità del principio della retroattività degli effetti della sentenza di annullamento (10). A seguito della citata pronuncia, la letteratura non ha mancato di porre in risalto i profili critici dell’esposta opzione interpretativa. In particolare, è stato osservato che, ad ammettere la modulabilità dell’efficacia della pronuncia di annullamento, si pone il giudice nelle condizioni di disporre dell’effetto caducatorio che, invece, è conseguenza tipica e necessaria della statuizione di annullamento (11); si è pure precisato che non vi è norma che abiliti l’autorità giurisdizionale a tale modulazione e che, per converso, vi sono disposizioni puntuali che prevedono la non annullabilità di un provvedimento illegittimo (12), sicché ubi lex non dixit, noluit, soprattutto alla luce della tipicità del- l’azione di annullamento ex art. 113, comma terzo, Cost. (13); si è qualificato come inappropriato il richiamo all’art. 21-nonies legge 7 agosto 1990, n. 241, che, infatti, disciplina l’esercizio di un potere amministrativo discrezionale, ontologicamente diverso dalla funzione giurisdizionale (14), così come si è esclusa la pertinenza del rimando alle norme del tutto speciali in tema di appalti (15), peraltro relative alla modulazione degli effetti di un contratto (e non di una pronuncia giurisdizionale) all’esito dell’avvenuta caducazione di un’ag (9) Alla stregua di tale disposizione la Corte dichiara nullo o non avvenuto l’atto impugnato e, “ove lo reputi necessario, precisa gli effetti dell’atto annullato che devono essere considerati definitivi”. (10) Secondo l’orientamento invalso presso i giudici europei la sentenza di accoglimento di un ricorso per l’annullamento di un atto sottoposto al controllo di legittimità della Corte di giustizia del- l’unione europea (ex art. 263 TFue) può limitare la retroattività dei suoi effetti, fissando la relativa decorrenza dal momento dell’emanazione della pronuncia ovvero da uno al medesimo antecedente, nonché può persino escludere la caducazione dell’atto, prescrivendo la permanenza della sua efficacia sino all’adozione di un atto successivo: cfr., in tal senso, C.g.C.e., 5 giugno 1973, causa 81/72, commissione c. consiglio, in raccolta, 1973. (11) FoLLIeRI e., l’ingegneria processuale del consiglio di stato, cit., 440 e 441; TRAvI A., accoglimento dell’impugnazione di un provvedimento e “non annullamento” dell’atto illegittimo, cit., 937. (12) Come quella recata dall’art. 21-octies legge 7 agosto 1990, n. 241: cfr. CARbone A., azione di annullamento, ricorso incidentale e perplessità applicative della modulazione degli effetti caducatori, cit. (13) Cfr. TRAvI A., accoglimento dell’impugnazione di un provvedimento e “non annullamento” dell’atto illegittimo, cit., 938. nondimeno, è stato sottolineato come la formula dell'art. 113 Cost. sia stata introdotta per ripartire i compiti tra le giurisdizioni, sicché scopo della legge sarebbe quello di “determinare i casi in cui è possibile annullare, mentre resta indifferente stabilire quando tale annullamento non è necessario”: cfr. MACChIA M., l'efficacia temporale delle sentenze del giudice amministrativo, cit., 1314. (14) Com’è noto, il terzo comma della nostra Carta fondamentale prevede che “La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa”. Cfr. CARbone A., azione di annullamento, ricorso incidentale e perplessità applicative della modulazione degli effetti caducatori, cit. (15) La specialità delle norme summenzionate ne preclude l’applicazione analogica; cfr. gIuSTI A., la “nuova” sentenza di annullamento nella recente giurisprudenza del consiglio di stato, cit., 307309; FeLIZIAnI C., oltre le colonne d’ercole. Può il giudice amministrativo non annullare un provvedimento illegittimo? cit., 450. ConTRIbuTI DI DoTTRInA giudicazione (16); nemmeno persuade il riferimento alla giurisprudenza comunitaria, che àncora il proprio orientamento ad un preciso addentellato normativo, che non è dato rinvenire nel nostro sistema (17). Inoltre, si è rilevato che il giudice amministrativo, allorquando dispone degli effetti della sentenza di annullamento, pare “imitare” la Corte costituzionale (18) e la corrispondente prassi giurisprudenziale volta alla modulazione degli effetti temporali delle sentenze di accoglimento (19); tuttavia, è (16) osserva DIPACe R., l’annullamento tra tradizione e innovazione, cit., 1377-1378: “se è vero che il giudice può operare alcune valutazioni in ordine alla inefficacia o meno del contratto, la circostanza rilevante è che alla base di tale valutazione vi è sempre una sentenza di annullamento. Infatti, la valutazione della sorte del contratto interviene solo a seguito dell’eliminazione retroattiva della aggiudicazione, ossia un annullamento giurisdizionale con efficacia retroattiva”. In altri termini, “nelle controversie sui contratti, la decisione si “estende” alla dichiarazione di inefficacia del contratto a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione. La sentenza non prescinde dall’effetto demolitorio tipico dell’azione di annullamento che è, anzi, il presupposto necessario e indispensabile per le successive determinazioni del Collegio sulla vicenda negoziale. La decisione sulle sorti del contratto rientra nel contenuto conformativo della sentenza di annullamento, nella logica già affermata dalla Adunanza Plenaria n. 9 de 30 luglio 2008. Il giudice estende la propria decisione sul contratto perché si pronuncia innanzitutto sull’aggiudicazione definitiva; la sentenza modula sì, con efficacia ex nunc o ex tunc, gli effetti dell’accoglimento del ricorso, ma senza mai eliminarli in toto”: così gIuSTI A., il contenuto conformativo della sentenza del giudice amministrativo, napoli, 2012, 207 e 208. (17) Invero, è stato obiettato che “[…] la modulazione degli effetti dell’annullamento nel caso del diritto comunitario è fondata su presupposti peculiari e non si può certamente considerare una regola applicabile anche al processo amministrativo nazionale. Infatti, tale modulazione, fino ad arrivare al- l’esclusione della caducazione dell’atto, almeno fino al momento della riedizione del potere, si ha nel- l’ipotesi in cui il vizio sia solo formale o in cui vi è un interesse particolarmente forte al mantenimento in vita dell’atto. Per la Corte di giustizia, tuttavia, tale potere deve essere utilizzato con estrema parsimonia, nella consapevolezza che si potrebbe trattare di fattispecie in cui viene sacrificata l'esigenza di tutela piena ed effettiva del privato, derogando a quanto da esso richiesto con il ricorso”: così, ancora, DIPACe R., l’annullamento tra tradizione e innovazione, cit. In tal senso depongono anche le osservazioni di gIuSTI A., il contenuto conformativo della sentenza del giudice amministrativo, cit., 209, ove l’Autrice, a riprova della validità delle sue considerazioni, cita C.g.C.e., sentenza 7 luglio 1992, Causa C295/ 90, Parlamento c. consiglio, in raccolta, 1992, I-4193, nonché individua nel modello sovranazionale descritto “una fattispecie di “non annullamento” tipizzata”. (18) MACChIA M., l’efficacia temporale delle sentenze del giudice amministrativo: prove di imitazione, cit., 1313. (19) Cfr. in ordine al potere della Corte di regolare gli effetti delle proprie decisioni e ai relativi limiti la recente pronuncia con cui il giudice delle leggi ha temporalmente modulato gli effetti della sua decisione e ha così statuito: “La cessazione degli effetti delle norme dichiarate illegittime dal solo giorno della pubblicazione della decisione nella gazzetta ufficiale della Repubblica risulta costituzionalmente necessaria allo scopo di contemperare tutti i principi e i diritti in gioco, in modo da impedire “alterazioni della disponibilità economica a svantaggio di alcuni contribuenti ed a vantaggio di altri garantendo il rispetto dei principi di uguaglianza e di solidarietà, che, per il loro carattere fondante, occupano una posizione privilegiata nel bilanciamento con gli altri valori costituzionali” (Corte cost., 11 febbraio 2015, n. 10). La dottrina sull’argomento ha più in generale precisato che “La limitazione temporale degli effetti poteva essere dovuta a una illegittimità sopravvenuta o successiva per cui una determinata disciplina conforme a Costituzione al momento della sua entrata in vigore, può diventare incostituzionale successivamente al sopravvenire di fatti nuovi, come un mutamento legislativo. In questo caso solo da quel momento deve decorrere l’effetto della dichiarazione di incostituzionalità. ulteriore ipotesi era quella della decisione di accoglimento non retroattiva o parzialmente retroattiva dovuta al c.d. bilanciamento RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 stato precisato che tale modulazione, “anche al di là di una specifica previsione di legge, nel caso della Corte costituzionale si giustifica in base al ruolo che la stessa svolge nel nostro ordinamento democratico […]. Mentre la Corte, nell’opera di individuazione del punto di minor sofferenza tra i valori costituzionali in gioco, non sembra mai essersi sostituita all’organo legislativo invadendone il campo, il giudice amministrativo, allorché utilizza l’autoproclamato potere di modulazione degli effetti dell’annullamento, lo fa proprio in chiave sostitutoria della pubblica amministrazione, operando una valutazione sulla opportunità o meno del mantenimento degli effetti per tutelare un interesse pubblico. Ma questo non è il ruolo che l’ordinamento ha assegnato al giudice amministrativo, almeno, non è il ruolo che gli è stato assegnato all’interno del processo di annullamento” (20). Le riflessioni suesposte rivelano la sussistenza di un pericolo atavico nella riconosciuta “flessibilità” degli effetti dell’annullamento giurisdizionale: la sovrapposizione dell’esercizio delle funzioni di iusdicere a quelle di amministrazione attiva. 3. l’annullamento “atipico” del provvedimento tipico. È fuor di dubbio che l’impostazione fatta propria dalla Sesta Sezione del Massimo Consesso di giustizia amministrativa abbia ridefinito la tradizionale fisionomia dell’azione di annullamento del provvedimento amministrativo, a sua volta connotato da tipicità (21), e, in particolare, della relativa decisione. È noto che, fin dall’istituzione della Quarta Sezione del Consiglio di Stato (22), l’azione costitutiva di annullamento dell’atto impugnato ha costituito l’“azione principe” innanzi al giudice amministrativo in sede di giurisdizione generale di legittimità, mediante la quale -in caso di positivo esperimento della iniziativa processuale - si produce l’effetto demolitorio, ossia l’elimina di valori. L’operazione che in questo caso svolge la Corte è quella di non far retroagire gli effetti del- l’annullamento poiché, per tutelare un valore costituzionale, si provocherebbero danni rispetto a un altro valore ugualmente protetto dalla Carta fondamentale. Qui il giudice tenta di individuare il punto di minore sofferenza per entrambi i valori costituzionali in gioco, anche attraverso l'utilizzo delle c.d. sentenze monitorie”: così DIPACe R., l’annullamento tra tradizione e innovazione: la problematica flessibilità dei poteri del giudice amministrativo, cit. (20) ID., ibidem. (21) “[…] ultimi due caratteri del provvedimento amministrativo sono quelli di tipicità e nominatività, corollari applicativi del principio di legalità dell’azione amministrativa. In forza del principio di tipicità, i provvedimenti devono essere previsti dalla legge che ne deve individuare funzione e contenuto: ogni provvedimento risponde, infatti, ad una causa tipica prevista dalla norma (la stessa causa che giustifica l’attribuzione del potere amministrativo in capo ad un soggetto pubblico), che ne definisce il contenuto”: così gARoFoLI R., FeRRARI g., manuale di diritto amministrativo, Roma, 2016, 845. (22) La legge 31 marzo 1889, n. 5992 istituì la Quarta Sezione del Consiglio di Stato con competenza generale sulle controversie tra le autorità statali ed i privati nelle quali si faceva questione di interessi legittimi (fino a quel momento devolute alla competenza della stessa Amministrazione); all’esito di tale intervento legislativo residuavano alla magistratura ordinaria le questioni fra cittadini e Amministrazione inerenti a diritti soggettivi. ConTRIbuTI DI DoTTRInA zione dell’atto gravato dal mondo giuridico con cessazione dei relativi effetti: ciò si ritiene non comporti indebite ingerenze negli ambiti riservati all’Amministrazione, in ragione della impossibilità per l’autorità giurisdizionale di dettare una regolamentazione diretta degli interessi in contesa, demandata alla P.A. tenuta ad emanare un atto amministrativo in sostituzione di quello giudicato illegittimo (23). Il principale effetto dell’annullamento si traduce, quindi, nell’estinzione delle situazioni giuridiche create dall’atto annullato (effetto distruttivo), nonché nella ricostruzione delle situazioni giuridiche soggettive preesistenti (effetto ripristinatorio). A questi si affianca l’effetto preclusivo, che può essere così inteso: se nel tempo intermedio tra l’adozione dell’atto e l’annullamento si avvera un fatto a effetto preclusivo, l’effetto rispristinatorio non si dispiega (24). L’azione di annullamento produce anche l’effetto conformativo, volto a disciplinare l’attività successiva dell’Amministrazione ed esecutiva della pronuncia (25). L’annullamento che consegue alla rilevazione del vizio opera di regola ex tunc, privando l’atto dell’efficacia interinale che aveva dispiegato e imponendo l’obbligo della restitutio in integrum con riguardo alle situazioni soggettive eventualmente compromesse. Se, invece, l’annullamento non comportasse l’eliminazione retroattiva dell’atto, si assisterebbe a un fenomeno riconducibile al diverso istituto della disapplicazione dell’atto amministrativo a seguito dell’accertamento della sua illegittimità; invero, l’annullamento consiste nella eliminazione della rilevanza ed efficacia giuridica attribuite a un atto inficiato da un vizio che non ne produce la inesistenza giuridica, ma che lo rende precario, sicché l’ordinamento, concorrendo alcuni presupposti, può far venir meno la rilevanza e l’efficacia dell’atto stesso, il quale sopravvive unicamente come dichiarazione, fenomeno psicologico e non più giuridico (26). Pertanto, l’effetto eliminatorio è conseguenza indefettibile dell’accoglimento dell’azione di annullamento di un atto illegittimo: è un effetto indisponibile sia da parte del ricorrente promotore della domanda caducatoria, che da parte del giudice. Alla luce di siffatta constatazione e come anticipato, in dottrina si è ritenuto non condivisibile l’orientamento espresso dalla Sesta Sezione del Consiglio di Stato con la menzionata decisione 10 maggio 2011, n. 2755, che ha legittimato il giudice investito della domanda di demolizione di un provvedimento amministrativo a non decretarne l’eliminazione, quando ciò (23) FoLLIeRI e., le azioni costitutive, in SCoCA F.g. (a cura di), giustizia amministrativa, Torino, 2013, 183 e 184. (24) DIPACe R., l’annullamento tra tradizione e innovazione: la problematica flessibilità dei poteri del giudice amministrativo, cit. (25) FoLLIeRI e., le azioni costitutive, cit., 187. (26) DIPACe R., l’annullamento tra tradizione e innovazione: la problematica flessibilità dei poteri del giudice amministrativo, cit. RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 sia utile alle esigenze di salvaguardia delle posizioni del privato, e ciò perché “l’azione di annullamento è tipica ed il suo effetto necessario è il venir meno dell’atto impugnato ritenuto illegittimo, non disponibile da parte del giudice” (27). Per converso, questa stessa impostazione considera disponibili l’effetto conformativo, nonché - in peculiari ipotesi - la decorrenza degli effetti di annullamento (28). Alla stregua di quanto osservato l’“atipicità” dell’annullamento giurisdizionale come delineata dalla succitata pronuncia del maggio 2011 si coglie, non nella possibile, quantunque straordinaria, modulazione temporale della corrispondente efficacia caducante, bensì nella parte in cui non elimina un atto di cui accerta e riconosce l’illegittimità. Il “non annullamento” giurisdizionale dell’atto illegittimo, soprattutto allorché quest’ultimo sia espressivo di peculiari funzioni in titolarità dell’Amministrazione, come quella di regolazione, ripropone l’eterno problema della violazione del principio di separazione dei poteri per effetto dello sconfinamento dell’esercizio di quello giurisdizionale nell’ambito riservato a quello amministrativo. Ma, a ben vedere, anche quando la sentenza di annullamento disponga una particolare modulazione temporale della sua efficacia, non minori sono le interferenze apprezzabili fra l’esercizio dei poteri facenti capo, rispettivamente, all’autorità giurisdizionale e a quella amministrativa. 4. il trend giurisprudenziale adesivo. D’altronde, nonostante le criticità evidenziate e prontamente sottolineate dalla dottrina, l’orientamento favorevole alla flessibilità degli effetti eliminatori di una pronuncia caducatoria ha trovato applicazione significativa nella giurisprudenza, sia di merito che di legittimità. Di talché, occorre verificare l’impatto di tale diffusa opzione esegetica sull’esercizio dei poteri spettanti all’Amministrazione. Invero, i Tribunali amministrativi regionali non hanno esitato ad applicare i principi statuiti dalla Sesta Sezione del Consiglio di Stato, talvolta anche in mancanza della sussistenza dei presupposti all’uopo enucleati dai giudici di Palazzo Spada. In tal senso rilevano, esemplificativamente, quei pronunciamenti resi dal (27) FoLLIeRI e., le azioni costitutive, 188. (28) ID., ibidem. In dettaglio, le situazioni che secondo l’Autore legittimano la modulazione temporale degli effetti della sentenza di annullamento sono le seguenti: “a) quando il “fatto”, frattanto determinatosi, non sia ripristinabile (diniego di rilascio di passaporto che impedisca di partecipare ad un convegno in un Paese estero e che si sia già tenuto quando interviene la decisione del giudice); b) quando è nell’interesse del ricorrente che l’annullamento non comporti la retroazione totale o parziale degli effetti; c) quando il giudice ritenga che gli effetti ex tunc, parziali o totali, non soddisfino l’interesse del ricorrente e, anzi, si risolvano in una lesione del suo interesse. Il primo caso è una conseguenza del factum infectum fieri nequit; il secondo ed il terzo sono funzionali alle esigenze di tutela del ricorrente e nella disponibilità di quest’ultimo e del giudice”. ConTRIbuTI DI DoTTRInA T.A.R. Abruzzo e dal T.A.R. Lazio, che si pongono nel solco interpretativo tracciato dall’Alto Consesso di giustizia amministrativa il 10 maggio 2011 (29). In particolare, il giudice abbruzzese ha applicato i principi suddetti nel- l’ambito di una vicenda riguardante il richiesto annullamento di strumenti di pianificazione urbanistica adottati da un ente comunale, sino a pervenire all’accoglimento della domanda demolitoria e, al contempo, a modulare temporalmente gli effetti della conseguente sentenza (30); il Tribunale laziale ha calibrato gli effetti della tutela costitutiva con riferimento ad una controversia attinente alla gara per l’affidamento in concessione del servizio pubblico di distribuzione del gas (31). Di recente, anche il Tribunale amministrativo della Regione molisana ha ribadito la possibilità di modulare la retroattività degli effetti della sentenza di annullamento “in casi specifici” (32). Fra questi si situa, emblematicamente, quello che è stato oggetto di cognizione e recente decisione ad opera del T.A.R. ligure, investito della domanda di caducazione di una serie di atti relativi alla mancata ammissione alla classe successiva di un’alunna di un liceo scientifico savonese, conseguita alla negativa valutazione riportata nello scrutinio di giugno prima e in quello “di riparazione” di agosto poi, nelle sole materie di matematica e fisica: orbene, il giudice amministrativo ha ritenuto fondate le doglianze proposte, ammettendo la “flessibilizzazione” dell’efficacia della (29) Trattasi delle pronunce seguenti: T.A.R. Abruzzo, Pescara, 13 dicembre 2011, n. 693; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II-ter, 13 luglio 2012, n. 6418. (30) Difatti, il T.A.R. Abruzzo, Pescara, 13 dicembre 2011, n. 693, così ha statuito: “annulla le norme tecniche di attuazione nella parte che nelle aree della parte ricorrente impone lo strumento attuativo, a far tempo dall’adozione; annulla in toto dette norme tecniche di attuazione a partire dal momento -successivo all’adozione, la quale conserva quindi il suo valore anche in salvaguardia -in cui è mancata la sottoposizione alla valutazione ambientale strategica e alla verifica di conformità alla pianificazione sovraordinata, come visto necessarie nel caso; il Comune in relazione all’intera variante in questione (a parte le parti annullate già dall’adozione) dovrà sottoporla alla valutazione ambientale e di conformità alla pianificazione superiore, eventualmente riesaminarla in toto nella sua discrezionalità, usufruendo delle norme di salvaguardia, entro un tempo massimo di mesi otto dalla notificazione o comunicazione della presente sentenza, trascorso il quale la variante stessa perderà efficacia in toto con riviviscenza della precedente normativa e obbligo di rideterminarsi”. (31) Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, con la sentenza 13 luglio 2012, n. 6418 cit., ha così deciso: “respinte le eccezioni preliminari di irricevibilità e improcedibilità, accoglie il ricorso incidentale […] e, per l’effetto, annulla con efficacia ex nunc l’azione amministrativa nella parte in cui non aveva escluso dalla gara la ricorrente principale […], la cui offerta tecnica conteneva anche elementi dell’offerta economica [..]”. (32) Cfr. T.A.R. Molise, Campobasso, Sez. I, 4 maggio 2015, n. 187, secondo cui: “[…] con il ricorso introduttivo, in coerenza con la strutturazione impugnatoria del processo amministrativo, il ricorrente ha chiesto l’annullamento del provvedimento di diniego del riconoscimento della causa di servizio e del parere vincolante del Comitato di verifica su cui esso si fonda, con la conseguenza che l’eventuale accoglimento della domanda non determinerebbe unicamente un esito di accertamento, ma radicherebbe in capo all’Amministrazione un obbligo di provvedere nuovamente sull’istanza di riconoscimento della dipendenza da causa di servizio, dovendosi ritenere i provvedimenti oggetto di annullamento giurisdizionale tamquam non esset, salvo la possibilità di modulare la retroattività degli effetti riconosciuta in casi specifici dalla recente giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, Sez. vI., 10 maggio 2011, n. 2755)”. RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 pronuncia caducatoria, poiché “[…] l’annullamento retroattivo degli atti impugnati non gioverebbe alla ricorrente, che nelle more del giudizio ha proseguito la carriera scolastica e frequenta attualmente il quinto anno del liceo scientifico” e atteso che “l’eventuale pronuncia d’annullamento sic et simpliciter degli atti impugnati non solo sarebbe inutiliter data, ma potrebbe addirittura mettere in dubbio la validità della carriera scolastica percorsa dalla ricorrente nelle more del giudizio”; invero, “[…] per garantire l’effettività di tutela, anche in vista dell’eventuale domanda di ristoro dei danni sofferti, il collegio ritiene -richiamando l’arresto giurisprudenziale (cfr. C.S., vI, 10 maggio 2011 n. 2755) che, in ragione della pretesa sostanziale dedotta in giudizio, ammette una opportuna “modulazione” del tipo e degli effetti della sentenza d’accoglimento -di dichiarare l’illegittimità degli atti impugnati e di annullarli solo con effetto ex nunc, fatta salva la successiva carriera scolastica della ricorrente” (33). I giudici del Consiglio di Stato, del pari, hanno dato continuità all’impostazione favorevole alla modulazione dell’efficacia della pronuncia di annullamento. La Quinta Sezione del citato Consesso, significativamente, seppure attraverso un obiter dictum, ha chiarito come sia doveroso annullare atti autoritativi ritualmente impugnati e risultati illegittimi, a meno che sussistano le ragioni ostative “individuate dalla giurisprudenza di questo Consiglio: v. Sez. vI, 10 maggio 2011, n. 2755” (34). Detta continuità, per quanto qui interessa, si apprezza anche con riguardo ad ambiti particolarmente rilevanti sul piano socio-economico, quali sono i comparti vigilati e presidiati dalle Autorità amministrative indipendenti. In particolare, il Consiglio di Stato, modulando gli effetti delle decisioni caducatorie di provvedimenti regolatori adottati dai garanti e giudicati illegittimi, è talvolta intervenuto a preservarne gli effetti al dichiarato fine di evitare vuoti regolamentari. emblematica di siffatta tendenza risulta una sentenza emessa nell’anno 2012 dalla Terza Sezione (35), che, confermando la pronuncia del giudice di primo grado, ha dichiarato illegittimo l’art. 5 della delibera n. 366/10/ConS adottata dal garante delle Comunicazioni, avente ad oggetto il piano di numerazione automatica dei canali della televisione digitale terrestre in chiaro e a pagamento, le modalità di attribuzione dei numeri ai fornitori di servizi (33) T.A.R., Liguria, genova, Sez. II, 22 gennaio 2014, n. 102. (34) Cons. St., Sez. v, 11 febbraio 2014, n. 645. (35) Cons. St., Sez. III, 31 agosto 2012, n. 4658, su cui si segnala la nota di TAgLIAneTTI g., i limiti del sindacato giurisdizionale amministrativo sulle valutazioni tecniche complesse delle autorità indipendenti: punti fermi e perduranti incertezze, in foro amm.-cds, 11/2012, 2817, ove l’Autore esplicitamente afferma che la prefata sentenza del 2012, “sviluppando spunti già offerti dalla sesta sezione del Consiglio di Stato n. 2755/2011, ha voluto evitare che si determinasse un’assenza di regolamentazione”. ConTRIbuTI DI DoTTRInA media audiovisivi autorizzati alla diffusione di contenuti audiovisivi in tecnica digitale terrestre e le corrispondenti condizioni di utilizzo; la suddetta delibera prevedeva l’utilizzazione delle graduatorie Corecom come criterio per l’assegnazione automatica dei canali alle emittenti locali. I giudici di Palazzo Spada, con la citata pronuncia, hanno ritenuto i criteri stabiliti dal garante non pienamente conformi al dettato legislativo. Pertanto, il Consiglio di Stato ha condannato l’Autorità per le garanzie nelle Comunicazioni ad adottare nuove determinazioni per l’assegnazione automatica dei canali sul telecomando delle emittenti locali, impiegando un metodo più adeguato per accertare le abitudini e le preferenze degli utenti, quale criterio prescritto dalla legge; nondimeno, allo scopo di evitare lacune regolamentari nella programmazione delle emittenti, la medesima decisione ha prorogato gli effetti del piano di numerazione automatica dei canali televisivi, mantenendo ferma nelle more l’efficacia del menzionato provvedimento amministrativo - quantunque giudicato illegittimo - e, dunque, differendo gli effetti del disposto annullamento giurisdizionale. Coerente con siffatto trend risulta pure la pronuncia 7 gennaio 2013, n. 21, emanata ancora dalla Terza Sezione del Consiglio di Stato e anche allora con riferimento a una vicenda che vedeva coinvolto il garante delle Comunicazioni: con riguardo a talune delibere adottate dall’Agcom per la regolamentazione degli obblighi di cui all’art. 50 del codice delle comunicazioni elettroniche (36), il Supremo Consesso ha statuito che “al fine di prevenire (36) L’art. 50 del codice delle comunicazioni elettroniche, di cui al decreto legislativo 1 agosto 2003, n. 259, nel Titolo II (“Reti e servizi di comunicazione elettronica ad uso pubblico”) e, in particolare, nel Capo III (“Accesso ed interconnessione”), nell’ambito della Sezione II (“obblighi degli operatori e procedure di riesame del mercato”), pone gli “obblighi in materia di controllo dei prezzi e di contabilità dei costi”, così prevedendo: “1. Ai sensi dell'articolo 45, per determinati tipi di interconnessione e di accesso l’Autorità può imporre obblighi in materia di recupero dei costi e controlli dei prezzi, tra cui l’obbligo che i prezzi siano orientati ai costi, nonché l’obbligo di disporre di un sistema di contabilità dei costi, qualora l’analisi del mercato riveli che l’assenza di un’effettiva concorrenza comporta che l’operatore interessato potrebbe mantenere prezzi ad un livello eccessivamente elevato o comprimerli a danno dell’utenza finale. Per incoraggiare gli investimenti effettuati dall’operatore anche nelle reti di prossima generazione, l’Autorità tiene conto degli investimenti effettuati dall’operatore e gli consente un’equa remunerazione del capitale investito, purché congruo, in considerazione di eventuali rischi specifici di un nuovo progetto particolare di investimento nella rete. 2. L’Autorità provvede affinché tutti i meccanismi di recupero dei costi o metodi di determinazione dei prezzi resi obbligatori servano a promuovere l’efficienza e la concorrenza sostenibile ed ottimizzino i vantaggi per i consumatori. Al riguardo l’Autorità può anche tener conto dei prezzi applicati in mercati concorrenziali comparabili. 3. Qualora un operatore abbia l’obbligo di orientare i propri prezzi ai costi, ha l’onere della prova che il prezzo applicato si basa sui costi, maggiorati di un ragionevole margine di profitto sugli investimenti. Per determinare i costi di un’efficiente fornitura di servizi, l’Autorità può approntare una metodologia di contabilità dei costi indipendente da quella usata dagli operatori. L’Autorità può esigere che un operatore giustifichi pienamente i propri prezzi e, ove necessario, li adegui. 4. L’Autorità provvede affinché, qualora sia imposto un sistema di contabilità dei costi a sostegno di una misura di controllo dei prezzi, sia pubblicata una descrizione, che illustri quanto meno le categorie principali di costi e le regole di ripartizione degli stessi. La conformità al sistema di contabilità dei costi è verificata da un organismo indi RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 possibili difficoltà in sede esecutiva ed in osservanza del principio di buon andamento, appare opportuno consentire in via straordinaria all’Autorità per le garanzie nelle Comunicazioni di disporre il mantenimento degli effetti della delibera (446/08/ConS) annullata, peraltro già storicamente sterilizzati”. In ragione di tali dicta si rende evidente il contatto fra l’esercizio della funzione giurisdizionale del giudice amministrativo e l’attuazione dei poteri di regolazione spettanti all’authority. Siffatta interferenza, nel pronunciamento reso il 21 gennaio 2013, emerge nitidamente anche dalla indicazione rivolta al garante dai giudici di Palazzo Spada circa le concrete modalità mediante le quali l’Autorità avrebbe dovuto adempiere all’obbligo di prestare ottemperanza alla pronuncia di annullamento menzionata: il Consiglio di Stato “suggerisce” ad Agcom, oltre al “ripristino della situazione anteriore”, la “rinnovazione del procedimento, ora per allora, emendato dai vizi riscontrati”. 5. le interferenze dell’annullamento “atipico” con la regolazione. Di talché, non è dubbio, oggi, che le decisioni giudiziarie impattino sul potere regolatorio e, per tal via, sul mercato, che, dunque, viene conformato non più solo dai Regolatori, bensì anche dal giudice, in quanto titolare di una giurisdizione piena e assoluta. Per vero, nei mercati regolati, in cui il fisiologico dispiegarsi dell’iniziativa economica è sottoposto a funzioni di regolazione, vigilanza, controllo e repressione, demandate ad Autorità settoriali e indipendenti dal potere esecutivo, il modello della giurisdizione esclusiva -forgiata sulle direttrici disegnate dalla Corte Costituzionale con le note pronunce del 2004 e del 2006, trova la sua “più congeniale modalità di applicazione”: l’art. 133, comma 1, lett. l), c.p.a. attribuisce al giudice amministrativo una giurisdizione “piena” con riferimento a tutte le possibili esplicazioni delle ampie e pervasive prerogative delle Autorità di garanzia (37). Inoltre, leggendo la norma suddetta in combipendente dalle parti interessate, avente specifiche competenze, incaricato dall’Autorità. È pubblicata annualmente una dichiarazione di conformità al sistema. I costi relativi alle verifiche rientrano tra quelli coperti ai sensi dall’articolo 34”. (37) L’art. 133, comma 1, lett. l), c.p.a. devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie “aventi ad oggetto tutti i provvedimenti, compresi quelli sanzionatori ed esclusi quelli inerenti ai rapporti di impiego privatizzati, adottati dalla banca d’Italia, dagli organismi di cui agli articoli 112-bis, 113 e 128-duodecies del decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385, [dalla Commissione nazionale per le società e la borsa,] dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas, e dalle altre Autorità istituite ai sensi della legge 14 novembre 1995, n. 481, dall’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, dalla Commissione vigilanza fondi pensione, dalla Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità della pubblica amministrazione, dall’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private, comprese le controversie relative ai ricorsi avverso gli atti che applicano le sanzioni ai sensi dell’articolo 326 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209”. La Corte Costituzionale, con sentenza 27 giugno 2012, n. 162 (in gazz. uff., 4 luglio, n. 27), ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della presente lettera nella parte in cui attribuisce alla giurisdizione esclusiva ConTRIbuTI DI DoTTRInA nato disposto con l’art. 134, comma 1, lett c.), c.p.a., che devolve alla giurisdizione di merito del giudice amministrativo anche le controversie aventi ad oggetto le sanzioni pecuniarie comminate dalle authorities, si giunge a ritenere che nella materia predetta il giudice eserciti contemporaneamente i poteri della giurisdizione esclusiva estesa anche ai diritti soggettivi, nonché poteri decisori integralmente sostitutivi, che rappresentano il carattere costitutivo della giurisdizione di merito; tanto, oltre a delineare una giurisdizione amministrativa assoluta, che cumula e in sé esaurisce la cognizione su tutte le modalità di tutela nei riguardi dell’uso autoritativo del potere in quei particolari settori, positivizza e definisce la fisionomia di un plesso giurisdizionale così specializzato da essere in grado di esercitare in via surrogatoria poteri tipici di amministrazione attiva, quale quello di rideterminare le sanzioni pecuniarie irrogate dai garanti nell’esercizio delle funzioni di vigilanza e controllo dei comparti loro affidati (38). Le riferite osservazioni sono corroborate dalle riflessioni di autorevole dottrina, che ha precisato come uno degli sviluppi della nuova costituzione economica, che si riflette, oggi, nello “Stato-regolatore”, sia la possibile identificazione dei giudici amministrativi con “regolatori di ultima istanza”, e ciò in ragione della depoliticizzazione del controllo pubblico dell’industria (39). Del resto, il legame fra diritto amministrativo ed economia è strutturale: il diritto amministrativo origina dall’esigenza di fronteggiare la limitatezza dei beni e di regolare l’accesso dei consociati ad un bene che è scarso; anzi, a ben vedere, la relazione necessaria con l’economia riguarda non solo il diritto amministrativo, ma il diritto tout court ed il processo giurisdizionale: “[…] Il rapporto tra economia, diritto e giurisdizione è condizionato anche dalle scelte economiche di fondo che vengono compiute, e, a volte, i profili di criticità dei sistemi processuali dipendono anche dalle scelte di politica economica che in via indiretta hanno contribuito a generarli. È in questo spazio […] che si colloca il problema del rapporto fra economia e giustizia amministrativa; di quella forma di giustizia, cioè, nella quale le relazioni con l’economia si fanno più strette e vanno alla radice del funzionamento delle moderne società capitali- del giudice amministrativo con cognizione estesa al merito e alla competenza funzionale del T.A.R. Lazio - sede di Roma, le controversie in materia di sanzioni irrogate dalla Commissione nazionale per le società e la borsa (ConSob). Successivamente, la presente lettera è stata nuovamente modificata dall’articolo 1, comma 1, lettera t), numero 1), del decreto legislativo 14 settembre 2012, n. 160. Da ultimo, la Corte Costituzionale, con sentenza 15 aprile 2014, n. 94 (in gazz. uff., 23 aprile, n. 18), ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della presente lettera, nella parte in cui attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, con cognizione estesa al merito, e alla competenza funzionale del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio - sede di Roma le controversie in materia di sanzioni irrogate dalla banca d’Italia. (38) gARoFoLI R., FeRRARI g., codice del processo amministrativo, sub artt. 133 e 134, Roma, 2012. (39) CASSeSe S. (a cura di), la nuova costituzione economica, bari, 2015, 323. RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 stiche, proprio perché in esse convergono, si mischiano e si incontrano le questioni dell’azione amministrativa e della tutela giurisdizionale, e l’economia assume anche la forma del potere pubblico, sul quale viene direttamente ad incidere il sindacato giurisdizionale” (40). Invero, il collegamento fra economia e giustizia amministrativa è duplice: in quest’ultima, “da una parte, l’economia si fa potere, anzi potere pubblico, e costituisce una delle parti necessarie del processo, un soggetto indispensabile di esso, la parte pubblica che incarna le scelte di politica economica; dall’altra l’economia si fa oggetto del potere e del suo esercizio, oggetto di regolazione, conformazione, promozione, ovvero attività protesa al conseguimento di una utilità in relazione all’erogazione di prestazioni contrattuali riguardanti opere o servizi. Il sindacato del giudice amministrativo viene, di conseguenza, esercitato sia sulle scelte riguardanti l’esercizio del potere economico, sia esso un potere di regolazione o di autorizzazione di attività economiche, sia invece un potere di promozione di fattori di sviluppo, quali possono essere la concessione di incentivi, la realizzazione di infrastrutture strategiche, la conformazione del territorio; sia, infine, sulle iniziative imprenditoriali ed a tutela di queste” (41). Il nesso che intercorre fra economia e giustizia amministrativa si coglie, quindi, anche considerando le interferenze fra l’annullamento giurisdizionale e l’esercizio del potere amministrativo di regolazione: la modulazione degli effetti della pronuncia caducatoria colma gli spazi lasciati vuoti dalla regolamentazione illegittima. D’altronde, in dottrina è stato evidenziato come il controllo giurisdizionale sugli atti espressivi del potere di regolazione si caratterizzi anche per la sua capacità di rendere il giudice amministrativo giudice “dell’interesse pubblico nell’economia” (42). In realtà, in letteratura è stato sottolineato come la riconosciuta modulabilità dell’efficacia della tutela costitutiva lasci trasparire una lacuna del sistema, ossia la mancanza della possibilità di esperire un’autonoma azione di condanna ad un facere specifico nei confronti della Pubblica Amministrazione al di fuori delle ipotesi di giurisdizione esclusiva ovvero dell’azione risarcitoria (43). Per vero, se si verte in materia di giurisdizione esclusiva e si è in presenza (40) PAjIno A., giustizia amministrativa ed economia, in dir. Proc. amm., 3/2015, 952. (41) ID., ibidem. (42) In tal senso PReTo A., CARoTTI b., il sindacato giurisdizionale sulle autorità indipendenti: il caso dell’agcom, in riv. trim. di dir. Pubbl., 1/2016, 123. (43) ex art. 30, comma 1, c.p.a. Difatti, la legislazione vigente, mentre abilita all’attivazione di un’azione di condanna pubblicistica a struttura complessa ex art. artt. 30, comma 1, e 34, lett. c), c.p.a. pel “rilascio di un provvedimento richiesto”, non legittima la proposizione di una domanda giudiziale di condanna della P.A. tesa all’ottenimento di un atto che i pubblici poteri avrebbero dovuto emanare ex officio. D’altronde, qualora non vi sia alcun legame procedimentale tra la parte ricorrente e il provvedimento lesivo “neppure vi sarà un’istanza rimasta disattesa, in relazione alla quale l’azione di annullamento o il ricorso avverso il silenzio rinvengono la loro ragion d’essere”: così CARbone A., azione di annullamento, ricorso incidentale e perplessità applicative della modulazione degli effetti caducatori, cit. ConTRIbuTI DI DoTTRInA di un atto difforme da quello prescritto dalla relativa normativa, quale ben può essere una delibera espressiva del potere di regolazione spettante ad un’Autorità amministrativa indipendente, è possibile esperire un’azione autonoma di condanna, così compulsando l’Amministrazione al (corretto) esercizio della funzione. Per tal via, dunque, il giudice amministrativo eroga la tutela richiestagli coerentemente con la domanda formulata dal ricorrente e, più in generale, con la connotazione soggettiva della sua giurisdizione (44), sicché l’eventuale modulazione degli effetti di una pronuncia caducatoria di un provvedimento regolatorio illegittimo vale, nella specie, a consentire la salvaguardia effettiva delle posizioni del cittadino (ex art. 1 c.p.a.) frattanto venga rieditato il potere amministrativo. In tal senso l’esercizio della funzione giurisdizionale, mantenuto nei limiti di un sindacato sì “intrinseco” e, dunque, esitante in una decisione dalla più intesa attitudine conformativa e vincolante (45), ma comunque “debole” e, quindi, non sostitutivo (46), interferisce (ma non s’ingerisce) con l’esercizio della funzione amministrativo-regolatoria. (44) e ciò conformemente alle autorevoli statuizioni della giurisprudenza amministrativa ricordate sub nota 2, cui sia consentito rinviare. (45) Cfr. gARoFoLI R., FeRARI g., manuale di diritto amministrativo, cit., 814. (46) “Il limite del sindacato giurisdizionale sulla c.d. discrezionalità tecnica, al di là dell’ormai sclerotizzata antinomia forte/debole, deve attestarsi sulla linea di un controllo che, senza ingerirsi nelle scelte discrezionali della Pubblica autorità, assicuri la legalità sostanziale del suo agire, per la sua intrinseca coerenza, anche e soprattutto in materie connotate da un elevato tecnicismo, per le quali vengano in rilievo poteri regolatori con i quali l’Autorità detta le regole del gioco”: così Cons. St., Sez. III, 2 aprile 2013, n. 1856. Del pari, Cass. civ., S.u., 20 gennaio 2014, n. 1013 ha rimarcato la non estensione al merito del sindacato giurisdizionale sugli atti dei garanti. La dottrina che ha indagato il tema del sindacato giurisdizionale sulle valutazioni tecniche complesse proprie delle Autorità amministrative indipendenti pure ha chiarito che “il giudice si attiene… alla valutazione operata dall’Autorità, salvo che non risulti smentita sul piano logico-giuridico, e non si spinge fino al punto di verificare direttamente “in positivo”, se essa sia stata ben svolta sotto il profilo tecnico-scientifico”: così LIguoRI F., la funzione amministrativa. aspetti di una trasformazione, napoli, 2013, 151. RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 attività di protezione civile tra contratti di appalto, affidamenti in house ed accordi fra pubbliche amministrazioni ex art. 15, L. 7 agosto 1990, n. 241 ed art. 6 L. 24 febbraio 1992, n. 225, alla luce dell’entrata in vigore del d.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50 Sabrina Trivelloni* sommario: Premessa -1. onerosità della prestazione -2. requisito soggettivo: nozione di operatore economico -3. requisito oggettivo. la deroga di cui agli artt. 17, 9 e 158 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 -4. in house providing -5. la cooperazione tra soggetti pubblici. Premessa. Il presente studio prende le mosse dal contributo (1) - curato dalla scrivente ed apparso tempo fa sulla presente rivista - avente ad oggetto l’analisi critica delle questioni giuridiche connesse all’espletamento delle attività di protezione civile, così come delineate dall’art. 3 della legge 24 febbraio 1992, n. 225, attraverso lo strumento della convenzione. Ai sensi dell’art. 6, comma 1, della legge 24 febbraio 1992, n. 225 (2), infatti, l’attuazione dell’attività di protezione civile, da parte delle strutture nazionali e locali di protezione civile, è garantita attraverso la stipula di apposite “convenzioni con soggetti pubblici e privati”. nel pregresso studio, si è ritenuto che il richiamato art. 6, comma 1, nella parte in cui prevede la stipula di convenzioni con soggetti pubblici, debba ragionevolmente interpretarsi quale norma speciale, applicabile alla sola materia di protezione civile, rispetto alla disciplina generale di cui all’art. 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241 che consente alle pubbliche amministrazioni di concludere tra loro accordi finalizzati a disciplinare l’espletamento in collaborazione di attività di interesse comune. Tali convenzioni, stipulate tra soggetti pubblici, possono configurare, qualora ne possiedano i relativi requisiti, un’ipotesi di cooperazione pubblico -pubblico cosiddetta “non istituzionale/orizzontale”, (*) Dottore in giurisprudenza, già praticante forense presso l’Avvocatura generale dello Stato. (1) TRIveLLonI, S., attività di protezione civile tra contratti di appalto, affidamenti in house ed accordi fra pubbliche amministrazioni ex art. 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241 ed art. 6 della legge 24 febbraio 1992, n. 225, alla luce delle pronunce della corte di giustizia dell’unione europea e della giurisprudenza nazionale. interpretazione della sentenza della corte di giustizia ue del 19 dicembre 2012, c-159/11 in rassegna dell’avvocatura dello stato, anno LXv - n. 2, Aprile-giugno 2013. (2) Ai sensi dell’art. 6, comma 1, della legge 225/1992, “all'attuazione delle attività di protezione civile provvedono, secondo i rispettivi ordinamenti e le rispettive competenze, le amministrazioni dello stato, le regioni, le province, i comuni e le comunità montane, e vi concorrono gli enti pubblici, gli istituti ed i gruppi di ricerca scientifica con finalità di protezione civile, nonché ogni altra istituzione ed organizzazione anche privata. a tal fine le strutture nazionali e locali di protezione civile possono stipulare convenzioni con soggetti pubblici e privati”. ConTRIbuTI DI DoTTRInA annoverata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia ue e dalla giurisprudenza nazionale tra le ipotesi di espletamento di servizi esclusi dall’ambito di applicazione della normativa in materia di appalti pubblici. È stato sostenuto, invece, che la parte dell’art. 6, comma 1, la quale prevede la conclusione delle citate convenzioni con soggetti privati, necessiti di un’interpretazione “comunitariamente orientata” qualora la convenzione, formalmente stipulata ai sensi della disposizione de qua, integri nella sostanza i requisiti di un appalto di servizi, come tale soggetto alle direttive dell’ue recepite dal legislatore nazionale. Al momento della pubblicazione del richiamato contributo, la normativa interna di derivazione europea in materia di appalti pubblici era costituita dal D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, attualmente abrogato dal D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50. In particolare, con riferimento alla fattispecie dell’in house providing e della cooperazione tra soggetti pubblici, difettava una disciplina europea e nazionale che ne disciplinasse i relativi elementi costitutivi, con la conseguenza che l’interprete, al fine di verificare la sussistenza di affidamenti in house o di accordi di cooperazione orizzontale, era costretto a riferirsi ai principi espressi dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’ue, come interpretati dalla giurisprudenza nazionale. Il presente studio, pertanto, intende esaminare le problematiche connesse all’espletamento dell’attività di protezione civile secondo il modello della convenzione delineato dal richiamato art. 6, comma 1, della legge 225/1992, alla luce dell’entrata in vigore del D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (3) che introduce rilevanti novità soprattutto con riferimento all’istituto dell’in house providing oltre che alla cooperazione tra soggetti pubblici. Si valuterà, pertanto, l’impatto delle citate novità normative sulle convenzioni che, in attuazione del richiamato art. 6, comma 1, il Dipartimento della Protezione civile stipula con i Centri di Competenza -ovvero con le componenti del Servizio nazionale di protezione civile titolari della funzione di fornire informazioni, dati, elaborazioni e contributi tecnico scientifici, ognuno per definiti ambiti di specializzazione, in relazione alle diverse tipologie di rischio -individuati dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 14 settembre 2012, recante “definizione dei principi per l'individuazione ed il funzionamento dei centri di competenza”, adottato in attuazione dell’art. 3 bis, comma 2, della legge 24 febbraio 1992, n. 225. Con la precisazione che, sebbene la maggior parte delle convenzioni in materia di protezione civile siano stipulate con i Centri di Competenza, le conclusioni a cui il presente studio perverrà sono (3) D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, recante “attuazione delle direttive 2014/23/ue, 2014/24/ue e 2014/25/ue sull'aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture” che come noto, ha sostituito il D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163. RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 suscettibili di applicazione alla totalità delle convenzioni stipulate con le Componenti del servizio nazionale di protezione civile di cui al richiamato art. 6 della legge istitutiva del Servizio nazionale della protezione civile. nel procedere alla suddetta analisi, si ripercorrerà lo schema di indagine seguito nello studio già pubblicato, al fine di mettere in luce gli elementi innovativi introdotti dall’entrata in vigore del D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50. Ciò premesso, si rende preliminarmente necessario individuare la nozione di appalto pubblico di servizi così come delineata dalla nuova disciplina di cui all’art. 3, comma 1, lett. ii) e ss) del D.Lgs.18 aprile 2016, n. 50 che ha recepito fedelmente l’art. 2, comma 1, punti 5) e 9) della direttiva 2014/24/ue. Ai sensi del combinato disposto di cui alle citate lettere ii) e ss), per appalti pubblici di servizi si intendono i contratti a titolo oneroso, stipulati per iscritto tra una o più stazioni appaltanti e uno o più operatori economici, aventi per oggetto l'esecuzione di servizi diversi da quelli di cui alla lettera ll), ovvero da quelli che, secondo il medesimo articolo, configurano appalti di lavori. 1. onerosità della prestazione. Il primo requisito richiesto ai fini della qualificazione di una convenzione in termini di appalto pubblico è l’onerosità della prestazione di servizi, già prevista dalla definizione di appalto contenuta nell’abrogato art. 3, comma 6, del D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163. La recente giurisprudenza della Corte di giustizia dell’ue (4), seppur intervenuta in un lasso temporale antecedente all’adozione della direttiva 2014/24/ue (5), ribadisce l’orientamento per cui “un contratto deve essere considerato a titolo oneroso anche se il corrispettivo previsto è limitato al rimborso delle spese sostenute per fornire il servizio convenuto”, sul presupposto per cui l’onerosità della prestazione consiste in ogni vantaggio economicamente valutabile che deriva al prestatore dall’affidamento del servizio. Del medesimo avviso il Consiglio di Stato (6), confermato da una recente deliberazione dell’Autorità nazionale Anticorruzione (7). (4) Sentenza 13 giugno 2013, C-386/11, Piepenbrock dienstleistungen gmbh & co Kg/Kreis duren; ordinanza 16 maggio 2013, C-564/11, consulta regionale ordine degli ingegneri della lombardia/ comune di Pavia; ordinanza 20 giugno 2013, C-352/12, consiglio nazionale degli ingegneri/comune di castelvecchio subequo. (5) Deve sottolinearsi come a nulla rilevi il fatto che le descritte pronunce della Corte di giustizia dell’ue e del Consiglio di Stato siano state emesse in costanza della vigenza dell’abrogata normativa, tenuto conto che la nuova disciplina, sotto il profilo dell’onerosità, recepisce integralmente il dettato dalla precedente. (6) Cons. Stato, Sez. v, 15 luglio 2013, n. 3849; parere Cons. Stato, Sez. II, 22 aprile 2015, n. 1178. (7) Deliberazione n. 5 del 22 gennaio 2015 (Adunanza dell’8 gennaio 2015) relativa ad un’ipotesi di accordi di programma stipulati, in assenza di gara, dal Ministero dell’Interno e dall’università Tor vergata finalizzati allo “sviluppo sperimentale e di applicazione di tecnologie innovative nei settori della i.t. inerenti ai servizi demografici e per il progetto cie”. ConTRIbuTI DI DoTTRInA In applicazione del suddetto requisito, come interpretato dalla giurisprudenza europea e nazionale, deve ritenersi che una convenzione non possa esulare dalla nozione di appalto pubblico per il solo fatto che la remunerazione in essa prevista sia limitata al mero rimborso delle spese sostenute per fornire il servizio convenuto. 2. requisito soggettivo: nozione di operatore economico. Ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. p) del D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, per operatore economico si intende qualsiasi persona fisica o giuridica, sia di natura privatistica che pubblicistica che “offre sul mercato la realizzazione di lavori o opere, la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi”. La nozione fatta propria dalla disposizione de qua appare in linea con l’orientamento della giurisprudenza europea volta ad ampliare l’ambito soggettivo di applicazione della normativa in materia di appalti a garanzia dei principi di imparzialità e concorrenza. In particolare, per quanto interessa ai fini del presente studio, la Corte di giustizia dell’ue (8), conformemente al primo precedente (sentenza 23 dicembre 2009, C-305/08, conisma) include nel concetto di operatore economico, qualunque persona fisica o giuridica che offra sul mercato la realizzazione di servizi a prescindere dalla struttura imprenditoriale, dallo scopo di lucro e dalla presenza continua sul mercato, così includendovi anche le università che, ai sensi della normativa nazionale, sono autorizzate a fornire prestazioni di ricerca e consulenza ad enti pubblici o privati, purché tale attività non comprometta la loro funzione didattica. Ciò premesso, l’art. 2, comma 2, del citato DPCM del 14 settembre 2012 individua i centri di competenza: 1) nelle strutture operative di cui all’art. 11 della legge 225/1992 (Corpo nazionale dei vigili del fuoco, Forze di Polizia, Corpo Forestale dello Stato, Servizi tecnici nazionali, gruppi nazionali di ricerca scientifica, l’Istituto nazionale di geofisica, Croce rossa Italiana, Strutture del Servizio sanitario nazionale, organizzazioni di volontariato e Corpo nazionale soccorso alpino); 2) nei soggetti pubblici di cui all’art. 1, comma 3, della legge 196/2009 deputati a svolgere attività, ricerche e studi in forza di leggi e provvedimenti per il perseguimento di fini istituzionali; 3) nei soggetti partecipati da componenti del Servizio nazionale di protezione civile, istituiti con lo scopo di promuovere lo sviluppo tecnologico e l’alta formazione, laddove il medesimo soggetto sia a totale partecipazione pubblica, svolga la propria attività prioritariamente in favore del Servizio na (8) ordinanza 16 maggio 2013, C-564/11, consulta regionale ordine degli ingegneri della lombardia/ comune di Pavia; ordinanza 20 giugno 2013, C-352/12, consiglio nazionale degli ingegneri/comune di castelvecchio subequo. RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 zionale di protezione civile e sia soggetto a vigilanza da parte del Dipartimento della protezione civile; 4) nelle università, Dipartimenti universitari e Centri di ricerca. Alla luce delle suesposte considerazioni, si confermano le conclusioni già rese nel pregresso articolo, per cui, “a prescindere dalle università, le quali sono state espressamente definite operatori economici dalla corte di giustizia dell’ue, non può escludersi, in linea di principio, che anche gli altri soggetti pubblici e privati individuati dal suddetto d.P.c.m possano essere inclusi nell’ampia nozione delineata dalla giurisprudenza europea, laddove la normativa nazionale gli consenta di prestare servizi sul mercato”. 3. requisito oggettivo. la deroga di cui agli artt. 17, 9 e 158 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50. Con riferimento all’ambito oggettivo di applicazione della normativa in materia di appalti, l’art. 17, comma 1, lett. h) del D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50 ne prevede l’esclusione per gli appalti aventi ad oggetto servizi di “protezione civile”. Se, ad una prima lettura, potrebbe ritenersi che i servizi oggetto delle suddette convenzioni ex art. 6, comma 1, legge 225/1992 rientrino in tale generica nozione di “protezione civile”, un’attenta lettura della disposizione impone di limitare la deroga ai soli servizi, identificati dai CPv ivi previsti, forniti da organizzazioni ed associazioni senza scopo di lucro, quali i servizi dei vigili del fuoco, i servizi di lotta e prevenzione contro gli incendi, i servizi di salvataggio, nonché i servizi di ambulanza ad eccezione dei servizi di trasporto dei pazienti in ambulanza. Tale deroga viene giustificata dalla stessa direttiva 2014/24/ue, al considerando n. 28, in ragione del carattere peculiare delle organizzazioni ed associazioni senza scopo di lucro “che sarebbe difficile preservare qualora i prestatori dovessero esser scelti secondo le procedure imposte dalla direttiva”. Al di fuori, pertanto, delle ipotesi in cui le convenzioni abbiano ad oggetto i servizi di “protezione civile” identificati con i codici CPv dal citato art. 17, comma 1, lett. h) -espressamente esclusi dall’ambito di applicazione del D.Lgs. 50/2016 - dovrà verificarsi se le attività realizzate dai Centri di Competenza possano integrare dei servizi rilevati ai fini dell’applicazione della disciplina in materia di appalti, secondo la definizione contenuta all’art. 3, comma 1, lettere ii) e ss) del D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50. Al riguardo, l’art. 1, comma 1 del D.P.C.M. del 14 settembre 2012 prevede che i centri di competenza “forniscono informazioni, dati, elaborazioni e contribuiti tecnico-scientifici, ognuno per i definiti ambiti di specializzazione di interesse del servizio nazionale di protezione civile, in relazione alle diverse tipologie di rischio che interessano il territorio”. Tali servizi potrebbero rientrare tra i “servizi di ricerca e sviluppo” (ricerca di base, ricerca applicata e sviluppo sperimentale) disciplinati dall’art. ConTRIbuTI DI DoTTRInA 158 del D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, il quale ne esclude l’assoggettamento alla disciplina codicistica tranne che per i servizi identificati dai CPv previsti dalla stessa disposizione. Tali ultimi servizi risultano esclusi dall’ambito di applicazione del codice solo qualora siano soddisfatte due condizioni: a) i risultati della ricerca e dello sviluppo non appartengono esclusivamente all’amministrazione aggiudicatrice o all’ente aggiudicatore che li utilizza nell’esercizio della sua attività; b) la prestazione del servizio non è interamente retribuita dall’amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore. La ratio sottesa a tale disciplina si riviene nel considerando n. 42 della direttiva 2014/25/ue, secondo cui “è opportuno incoraggiare il cofinanziamento di programmi di ricerca e sviluppo (r&s) da parte di fonti del settore industriale. È pertanto opportuno precisare che la presente direttiva si applica solo in assenza di tale cofinanziamento e qualora i risultati delle attività di r&s siano destinati all’ente aggiudicatore interessato”. Sulla base della citata norma, i servizi di ricerca e sviluppo prestati dai Centri di competenza non sarebbero soggetti alla disciplina codicistica; per i servizi identificati dai CPv previsti dal citato comma 1 dell’art. 158, l’esclusione si applicherebbe solo qualora essi perseguano finalità tecnico-scientifiche i cui risultati siano diretti a vantaggio dell’intera collettività, sempre che la prestazione degli stessi non sia interamente retribuita dal Dipartimento della Protezione civile. Deve rilevarsi, tuttavia, come, ai sensi dell’art. 4 del D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, l'affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture, esclusi, in tutto o in parte, dall'ambito di applicazione oggettiva del codice, deve avvenire nel rispetto dei “principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed efficienza energetica”. Sebbene la disposizione, a differenza dell’abrogato art. 27 del D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, non preveda espressamente l’obbligo di consultare almeno cinque operatori economici prima di procedere all’affidamento, non può non ritenersi che la scelta del contraente debba essere comunque preceduta da una procedura di valutazione comparativa volta a garantire il rispetto dei principi indicati al citato art. 4. Altra deroga all’applicazione della disciplina codicistica, che ricalca fedelmente quella contenuta nell’abrogato art. 19, comma 2, 12 aprile 2006, n. 163, è contenuta all’art. 9, comma 1, del D.Lgs. 50/2016, ai sensi della quale “le disposizioni del presente codice non si applicano agli appalti pubblici di servizi aggiudicati da un’amministrazione aggiudicatrice ad un’altra amministrazione aggiudicatrice o ad un’associazione di amministrazioni aggiudicatrici, in base ad un diritto esclusivo di cui esse beneficiano in virtù di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative pubblicate, purché tali disposizioni siano compatibili con il trattato sul funzionamento dell’unione europea”. RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 In applicazione della disposizione de qua, potrebbe in linea di principio sostenersi l’esistenza di un diritto esclusivo dei centri di competenza, previsto dall’art. 6 delle legge 225/92, ad espletare le attività oggetto di convenzione, ovvero le attività di protezione civile. In merito, non si ravvisano motivi per discostarsi dalle conclusioni già rese (9), per cui “siffatta tesi pare difficilmente percorribile, tenuto conto che l’eccesiva genericità dell’art. 6 della legge 225/1992, che si riferisce ad una vasta platea di soggetti (“le amministrazioni dello stato, le regioni, le province, i comuni e le comunità montane, gli enti pubblici, gli istituti ed i gruppi di ricerca scientifica con finalità di protezione civile nonché ogni altra istituzione ed organizzazione anche privata”), esclude di per sé la possibilità di individuare un soggetto titolare del citato diritto esclusivo allo svolgimento del servizio”. Ad ogni modo, si ritiene che anche tali affidamenti dovrebbero essere preceduti da una procedura semplificata di valutazione comparativa, in applicazione del citato art. 4 del D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50. 4. in house providing. Come già esposto, l’art. 2, comma 2, n. 3, del citato DPCM del 14 settembre 2012 individua i centri di competenza “nei soggetti partecipati da componenti del servizio nazionale di protezione civile, istituiti con lo scopo di promuovere lo sviluppo tecnologico e l’alta formazione, laddove il medesimo soggetto sia a totale partecipazione pubblica, svolga la propria attività prioritariamente in favore del servizio nazionale di protezione civile e sia soggetto a vigilanza da parte del dipartimento della protezione civile”. Proprio con riferimento ai soggetti de quibus, si rende necessario verificare se, in concreto, sussistano i presupposti richiesti affinché si configuri l’affidamento in house che esclude la sussistenza stessa dell’appalto di servizi, essendo il soggetto affidatario un’articolazione di quello affidante anziché un soggetto distinto. In merito, assume rilievo l’art. 5 del D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50 che, ai commi 1, 2, 3, 4, 5, 7, 8 , 9, si mostra particolarmente innovativo nel positivizzare l’istituto dell’in house providing - frutto dell’elaborazione della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’ue - i cui requisiti, prima dell’entrata (9) nel richiamato articolo, si citava, peraltro, una pronuncia del Consiglio di Stato (n. 4452 del 25 luglio 2011) che ha escluso l’applicazione della suddetta disposizione al servizio di elaborazione informatica e di notificazione dei verbali relativi alle sanzioni amministrative affidato dal Comune di Casoria a Società Poste Italiane sul presupposto che se “non è contestato che alla società Poste italiane sia riservata ex lege la notificazione degli atti a mezzo del servizio postale in quanto concessionaria del servizio postale universale ai sensi dell’art. 23 del d.lgs. 261/1999”, esorbitano, invece, “dal raggio di azione di tali diritti esclusivi i servizi, pure oggetto dell’affidamento, relativi alla fornitura di software e hardware e le attività di archiviazione”. ConTRIbuTI DI DoTTRInA in vigore del nuovo codice, erano esclusivamente delineati dalla giurisprudenza europea e nazionale. In tale opera di codificazione, l’istituto dell’in house providing viene correttamente previsto all’interno del suddetto art. 5 dedicato ai “Principi comuni in materia di esclusione per concessioni, appalti pubblici e accordi tra enti e amministrazioni aggiudicazioni nell’ambito del settore pubblico”, trattandosi di un’ipotesi di autoproduzione di servizi da parte della stessa amministrazione, la quale sceglie di non esternalizzare il servizio di cui necessita, sul presupposto per cui nessuna disposizione della direttiva 2014/24/ue “obbliga gli stati membri ad affidare a terzi o ad esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva” (10). Le direttive dell’ue (2014/24/ue, 2014/25/ue e 2014/23/ue), recepite dal legislatore delegato, codificano i requisiti già individuati dalla giurisprudenza europea ai fini del configurarsi dell’affidamento in house (11). Al riguardo, il primo elemento del “controllo analogo” è stato previsto al comma 1, lettera a) del citato art. 5 in termini conformi all’insegnamento della Corte di giustizia dell’ue, la quale richiedeva l’esercizio, da parte del- l’amministrazione affidante, di un controllo sulla persona giuridica affidataria analogo a quello che la stessa amministrazione esercita sui propri servizi. La rilevante novità, invece, è costituita dalla previsione, di cui alla lettera c) della medesimo comma 1, della possibilità di una partecipazione privata diretta al capitale della società in house, seppur subordinata alla sussistenza di determinate condizioni fissate dal legislatore. Secondo, infatti, il costante e pacifico insegnamento della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’ue (12) antecedente alle citate direttive del 2014, la partecipazione pubblica totalitaria dell’ente in house è “conditio sine qua non” della sussistenza del controllo analogo, sebbene essa non sia da sola sufficiente ad integrare il requisito de quo, essendo necessaria la verifica in concreto in ordine all’esercizio, da parte dell’amministrazione affidante, di una “influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della persona giuridica controllata”, condizione codificata al comma 2 dell’art. 1 del citato D.Lgs. 50/2016. (10) Direttiva 2014/24/ue, considerando 6 e 7. (11) Per l’analisi dei requisiti individuati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’ue si rinvia a TRIveLLonI, S., attività di protezione civile tra contratti di appalto, affidamenti in house ed accordi fra pubbliche amministrazioni ex art. 15 della legge 7 agosto 1990, n. 241 ed art. 6 della legge 24 febbraio 1992, n. 225, alla luce delle pronunce della corte di giustizia dell’unione europea e della giurisprudenza nazionale. interpretazione della sentenza della corte di giustizia ue del 19 dicembre 2012, c- 159/11 in rass. avv. stato, anno LXv, n. 2, Aprile -giugno 2013, p. 54 ss. (12) ex multis, sentenza 11 maggio 2006, C-340/04, carbotermo; sentenza 13 ottobre 2005, C458/ 03, Parking brixen. Da ultimo, sentenza 19 giugno 2014, C-574/12, centro hospitalar. RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 In realtà, una parziale apertura alla partecipazione di capitali privati era stata ammessa da un orientamento minoritario della Corte (13) a condizione che, al momento della stipula del contratto tra ente affidante e società in house, la partecipazione pubblica fosse totalitaria, di modo che l’ingresso del privato nella società si configurasse esclusivamente in termini futuri e potenziali. Di contrario avviso la giurisprudenza nazionale che si è sempre mostrata contraria ad ammettere forme private di partecipazione anche successivamente all’affidamento del contratto (14) -richiedendo che l’ipotetico ingresso dei privati fosse escluso a monte dallo statuto dell’ente in house (15) o dalla previsione di clausole risolutive espresse negli atti prodromici all’affidamento (16) -sul presupposto dell’incompatibilità degli obiettivi perseguiti dall’impresa privata con l’interesse pubblico oltre che in ragione dell’indebito vantaggio offerto dal privato partecipante alla società in house rispetto ai suoi concorrenti (17). Il legislatore delegato, in attuazione delle citate direttive, ha ammesso forme di partecipazione di capitali privati subordinate alla sussistenza di un doppio requisito: la partecipazione del privato deve essere prevista dalla legislazione nazionale, in conformità dei trattati, e non deve comportare l’esercizio, da parte del privato, di un'influenza determinante sulla persona giuridica controllata (art. 5, comma 1, lett. c) del D.Lgs. 50/2016). Deve rilevarsi come il considerando n. 32 della direttiva n. 2014/24/Ce si riferisca all’ipotesi in cui la partecipazione privata sia imposta dalla legge in conformità ai Trattati, sul presupposto per cui “date le particolari caratteristiche degli organismi pubblici con partecipazione obbligatoria, quali le organizzazioni responsabili della gestione o dell’esercizio di taluni servizi pubblici”, il requisito della totalità pubblica del capitale dell’ente controllato “non dovrebbe valere nei casi in cui la partecipazione di determinati operatori economici privati al capitale della persona giuridica controllata è resa obbligatoria da una disposizione legislativa nazionale in conformità dei trattati, a condizione che si tratti di una partecipazione che non comporta controllo o potere di veto e che non conferisca un’influenza determinante sulle decisioni della persona giuridica controllata”. Il legislatore italiano, pertanto, utilizzando il termine “previste” non sembrerebbe aver recepito del tutto correttamente la direttiva europea che, come si evince dal citato considerando n. 32, si riferisce all’obbligo ex lege della partecipazione privata al capitale dell’ente in house e non anche alla mera facoltà che sembrerebbe insita nella sua generica previsione. (13) Sentenza 17 luglio 2008, C-371/05, comm./italia; sentenza 10 settembre 2009, C-573/07, sea. (14) Cons. Stato, Sez. vI, 17 gennaio 2014, n. 221; Cons. Stato, Sez. v, 3 febbraio 2009, n. 591. (15) Cons. Stato, Sez. v, 30 agosto 2006, 5072. (16) Tar Puglia, Lecce, Sez. II, 11 febbraio 2008, n. 432. (17) Cons. Stato, Sez. v, 14 ottobre 2014, n. 5080; Cons. Stato, Sez. vI, 26 maggio 2015, n. 2660. ConTRIbuTI DI DoTTRInA Ciò premesso, al fine di interpretare il requisito in parola, appare utile esaminare un’interessante parere (18) ed una pronuncia (19), rispettivamente della II e della vI sezione del Consiglio di Stato, adottati con riferimento all’affidamento diretto di servizi informatici al Cineca (Consorzio Interuniversitario) da parte di suoi enti consorziati. La questione in ordine alla legittimità di tale affidamento diretto -peraltro risolta in maniera antitetica dal citato parere e dalla richiamata sentenza traeva origine dall’intervenuto mutamento della composizione del CIneCA, che, inizialmente composto da soli soggetti pubblici (Miur, università, enti di ricerca nazionali), per effetto della fusione con altri consorzi universitari prevista dal legislatore con finalità di riduzione della spesa pubblica, risultava composto anche da soggetti privati, quali l’università Commerciale L. bocconi e l’università Iulm. nel citato parere, il Consiglio di Stato ha concluso per la legittimità del- l’affidamento sul presupposto per cui il Cineca non risulterebbe controllato da capitale privato “tanto meno in posizione di influenza dominante”, in ragione del fatto che è stabilmente partecipato al 98% da soggetti pubblici e “soltanto in minima parte da persone giuridiche private”, le quali “non hanno certamente potere di veto o di condizionamento alcuno, ma che svolgono a loro volta un pubblico servizio nel settore dell’istruzione superiore e/o della ricerca scientifica”. Con la predetta pronuncia, invece, il Consiglio di Stato, ha fornito un’interpretazione rigorosa del presupposto relativo alla previsione della partecipazione del privato da parte della legislazione nazionale in conformità dei trattati, escludendo che il requisito de quo possa ritenersi integrato in presenza della norma che ha previsto l’accorpamento dei tre consorzi interuniversitari così determinando l’ingresso delle università private nel Cineca. Ad avviso del Consiglio di Stato, infatti, la norma che ha disposto il suddetto accorpamento non può considerarsi la previsione legislativa che ha anche previsto la partecipazione di università private al Cineca, tenuto conto che “la partecipazione al cineca di soggetti privati…è solo una conseguenza di fatto prodotta dalla fusione per incorporazione (questa si oggetto di espressa previsione legislativa) del cineca con i consorzi cilea e caspur”. Il Consiglio di Stato (20) ha ritenuto, peraltro, mancante anche il requisito del controllo analogo nei confronti del Consorzio da parte dell’università affidante a causa della “posizione di indiscussa primazia riconosciuta al miur nell’ambito dell’organizzazione e del funzionamento del cineca”. Così statuendo, il giudice nazionale si è soffermato sui requisiti necessari (18) Parere Cons. Stato, Sez. II, 30 gennaio 2015, n. 298. (19) Cons. Stato, Sez. vI, 26 maggio 2015, n. 2660. (20) Cons. Stato, Sez. vI, 26 maggio 2015, n. 2660. RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 per la sussistenza di un controllo analogo in forma congiunta, figura già elaborata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’ue (21) oltre che dalla giurisprudenza nazionale (22) e positivizzata al comma 5 del richiamato art. 5 del D.Lgs. 50/2016, che ne subordina la sussistenza alla presenza delle condizioni ivi descritte, ovvero “a. gli organi decisionali della persona giuridica controllata sono composti da rappresentanti di tutte le amministrazioni aggiudicatrici partecipanti; b. tali amministrazioni aggiudicatrici sono in grado di esercitare un’influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative di detta persona giuridica; c. la persona giuridica controllata non persegue interessi contrari a quelli delle amministrazioni aggiudicatrici”. Il comma 2, ultimo periodo prevede, peraltro, la figura del “controllo analogo indiretto” che si verifica quando tale controllo viene esercitato da una persona giuridica differente dall’amministrazione affidante purché da essa controllata allo stesso modo, come nel caso in cui l’amministrazione A esercita un controllo analogo sull’amministrazione b e questa esercita a sua volta un controllo analogo sul soggetto C: è ammesso l’affidamento diretto da parte di A nei confronti di C anche se non sussiste una relazione diretta fra i due soggetti. Al comma 3 viene, invece, disciplinato l’“in house invertito” che si verifica quando è la persona giuridica controllata -che è un’amministrazione aggiudicatrice o un ente aggiudicatore -ad affidare direttamente l’appalto all’amministrazione controllante o ad altro soggetto giuridico controllato dalla stessa amministrazione. Tutto ciò esposto in materia di controllo analogo, si sottolinea come la lettera c), comma 1 del medesimo articolo 5 codifichi il secondo requisito elaborato dalla giurisprudenza europea, ovvero l’espletamento, da parte del soggetto in house, della propria attività prevalentemente nei confronti del soggetto affidante. L’aspetto innovativo, rispetto agli orientamenti giurisprudenziali, è rappresentato dalla previsione della soglia percentuale di rilevanza superiore all’80% . Si tratta, a ben vedere di una previsione di maggior favore per l’ente in house rispetto all’insegnamento della giurisprudenza della Corte di giustizia ue (23) e del Consiglio di Stato (24) che ammetteva la fornitura di servizi, da parte dell’ente controllato, a soggetti diversi dall’ente controllante solo in misura quantitativamente irrisoria e qualitativamente irrilevante. Tale requisito deve essere valutato secondo i criteri di cui al comma 7 del (21) Sentenza 13 novembre 2008, C-324/07, coditel bradant sa; sentenza 29 novembre 2012, C-182/11 e C-183/11, econord s.p.a. (22) Cons. Stato, Sez. v, 8 marzo 2011, n. 1447; Cons. Stato, Sez. v, 24 settembre 2010, n. 7092. (23) ex multis, Sentenza 17 luglio 2008, C-371/05, commissione/italia. (24) Cons. Stato, Sez. vI, 20 dicembre 2012, n. 6565; Cons. Stato, Sez. v, 7 aprile 2011, n. 2151; Cons. Stato, Sez. vI, 26 maggio 2015, n. 2660. ConTRIbuTI DI DoTTRInA l’art. 5 de quo, ovvero facendo riferimento al fatturato totale medio o ad altra idonea misura alternativa basata sull’attività, quale, ad esempio, i costi sostenuti dalla persona giuridica nei settori dei servizi, delle forniture e dei lavori per i tre anni antecedenti all’aggiudicazione dell’appalto; qualora a causa dell’inizio dell’attività della persona giuridica o della riorganizzazione della sua attività non sia possibile far riferimento ai predetti criteri, sarà sufficiente dimostrare “in base a proiezioni dell’attività, che la misura dell’attività è credibile”. Alla luce delle riferite considerazioni, pertanto, deve valutarsi la previsione contenuta all’art. 1, comma 2, lettera b) del D.P.C.M. del 14 settembre 2012 che individua i Centri di Competenza anche nei “soggetti partecipati da componenti del servizio nazionale di protezione civile, istituiti con lo scopo di promuovere lo sviluppo tecnologico e l’alta formazione, laddove il medesimo soggetto sia a totale partecipazione pubblica, svolga la propria attività prioritariamente in favore del servizio nazionale di protezione civile e sia soggetto a vigilanza da parte del dipartimento della protezione civile”. In applicazione della descritta disciplina, il centro di competenza in house -a cui è affidato il servizio in forza della convenzione stipulata con il Dipartimento della Protezione civile -potrà esser partecipato direttamente dal Dipartimento della Protezione civile anche solo in parte (controllo analogo congiunto) o potrà anche esser partecipato da altre componenti del Servizio nazionale su cui il Dipartimento esercita un controllo analogo (in house indiretto). Sebbene la disposizione del predetto D.P.C.M. si riferisca alla partecipazione pubblica totalitaria del soggetto partecipato, essa deve essere interpretata in maniera conforme alle nuove direttive europee, recepite dall’art. 5 del D.Lgs. 50/2016, nel senso che è ammessa anche la partecipazione di privati al Centro di Competenza in house purché alle condizioni indicate al comma 1, lettera c) della medesima disposizione. Dovrà, pertanto, verificarsi, caso per caso, se sussiste una previsione legislativa che preveda tale partecipazione in conformità ai trattati, ovvero in maniera da non falsare la concorrenza, sempre che tale partecipazione non determini un’influenza dominante da parte del privato sull’ente in house. Anche la sussistenza dei residui requisiti previsti dall’art. 1, comma 2, lettera b) del D.P.C.M. del 14 settembre 2012 dovranno essere verificati alla luce delle indicazioni contenute nell’art. 5 del D.Lgs. 50/2016; di modo che “la vigilanza da parte del dipartimento della protezione civile” dovrà essere intesa quale controllo analogo ai sensi del comma 2 e comma 4 dell’art. 5 del codice e “la propria attività prioritariamente in favore del servizio nazionale di protezione civile” dovrà esser valutata ai sensi del comma 1, lett. b) del medesimo articolo. Appaiono superate, invece, le preoccupazioni espresse nel pubblicato studio sotto la vigenza del D.Lgs. 163/2006 in merito alla possibilità di utilizzare RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 il modello dell’in house in assenza di un’apposita disposizione normativa che lo preveda, sul presupposto per cui l’in house non costituisse un principio generale, prevalente sulla normativa interna, quanto un principio derogatorio di carattere eccezionale che consenta e non obblighi i legislatori nazionali a prevedere tale forma di affidamento (Cons. stato, sez. vI, 3 aprile 2007, n. 1514; Cons. Stato, sez. vI, 25 novembre 2008, n. 5781) (25). Proprio, alla luce di tali considerazioni, si era ipotizzato che l’art. 6, legge n. 225/1992, nella parte in cui prevede la possibilità per le componenti del Servizio nazionale di protezione civile di stipulare convenzioni con soggetti privati, potrebbe esser interpretato quale previsione legislativa espressa che, in materia di attività di protezione civile, autorizzi il ricorso all’in house in presenza dei presupposti richiesti dalla giurisprudenza. La descritta problematica appare allo stato superata dalla delineata previsione codicistica che, recependo le direttive europee, ha codificato l’in house quale modello generale di organizzazione della pubblica amministrazione che sceglie di autoprodurre il servizio, in alternativa al reperimento sul mercato mediante affidamento a terzi. Deve, infine, segnalarsi come risulti ancora vigente l’art. 4, comma 6 del D.L. 95/2012, convertito con modificazioni nella legge di conversione 7 agosto 2012, n. 135, che vieta alle pubbliche amministrazioni, a partire dal 1° gennaio 2013, l’affidamento diretto in house agli enti privati di cui agli artt. da 13 a 42, c.c. (associazioni anche non riconosciute, fondazioni e comitati) di servizi a titolo oneroso, imponendo l’espletamento delle procedure di gara previste dalla normativa nazionale in conformità con quella comunitaria. Fanno eccezione a questo divieto gli affidamenti a soggetti in house rientranti in categorie tassativamente elencate, tra cui le fondazioni di ricerca, ovvero istituite con lo scopo di promuovere lo sviluppo tecnologico e l’alta formazione tecnologica, e gli enti di volontariato. (25) nel citato articolo, si legge che “nella medesima pronuncia, il consiglio di stato ha ricordato come una norma di carattere generale sia stata proposta nel primo schema del codice degli appalti, per poi essere espunta dal testo finale del d.lgs. n. 163/2006, a conferma della volontà del legislatore di non generalizzare il modello dell’in house a qualsiasi forma di affidamento di lavori, servizi e forniture. nel caso di specie, occorre dunque verificare se possa configurarsi una disposizione espressa che riconosca la possibilità, anche nell’ambito dell’attività statale di protezione civile, di affidamento diretto di un servizio ad un soggetto interamente partecipato dall’amministrazione aggiudicante. tale verifica potrebbe dar luogo a un esito positivo, facendo leva proprio sull’art. 6, legge n. 225/1992, nella parte in cui prevede che “le strutture nazionali e locali di protezione civile possono stipulare convenzioni con soggetti pubblici e privati”, così ammettendo anche l’istituto dell’in house in detto settore, pur omettendo il riferimento ai requisiti comunitari del controllo analogo ed all’attività svolta prevalentemente a favore dell’ente affidante. Potrebbe sostenersi che l’art. 6 della legge n. 225/1992, nel silenzio del legislatore, debba essere interpretato nel senso che siano ammesse convenzioni concluse senza procedura di evidenza pubblica con soggetti c.d. in house, ma con le limitazioni di una interpretazione “comunitariamente” orientata, ovvero sempre a condizione che sussistano i citati presupposti necessari per il configurarsi della fattispecie dell’in house”. ConTRIbuTI DI DoTTRInA Infine, sotto un mero profilo procedurale, si rileva come l’art. 192 del D.Lgs. 50/2016 subordini gli affidamenti in house ad alcuni specifici adempimenti consistenti: 1. nell’iscrizione, in un apposito elenco istituito dal- l’Anac, dei soggetti che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di propri enti in house; 2. nella previa valutazione di congruità economica dell’offerta dei soggetti in house rispetto alle condizioni disponibili sul mercato unitamente all’obbligo di motivazione circa le ragioni del mancato ricorso al mercato; 3. nell’obbligo di pubblicazione degli affidamenti diretti sul profilo del committente. Tali vincoli procedurali dovranno essere osservati dal Dipartimento della Protezione civile ai fini degli affidamenti di servizi ai propri enti in house, ai sensi dell’art. 6, comma 1 della legge 225/1992. 5. la cooperazione tra soggetti pubblici. Come già espresso, l’art. 5, comma 6, del D.Lgs. 50/2016 positivizza un'altra figura di elaborazione della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’ue, ovvero gli accordi di cooperazione tra pubbliche amministrazioni che, al pari degli affidamenti in house, costituiscono un’ipotesi di esclusione dall’ambito di applicazione della normativa in materia di appalti pubblici, in ragione della riconosciuta “libertà delle autorità pubbliche di svolgere i compiti di servizio pubblico affidati loro utilizzando le loro stesse risorse, compresa la possibilità di cooperare con altre autorità pubbliche” (26). A livello nazionale, la facoltà delle amministrazioni di concludere accordi finalizzati a svolgere in collaborazione attività di interesse comune è prevista genericamente dall’art. 15 della legge 241/1990, oltre che, per quanto qui interessa, dall’art. 6, comma 1, della legge 225/1992 in materia di protezione civile. Il D.Lgs. 50/2016, al citato comma 6 dell’art. 5, recependo le direttive del 2014, mostra di discostarsi parzialmente dai principi elaborati dalla Corte di giustizia dell’ue, affermati nella sentenza del 19 dicembre 2012, C-159/11 e confermati dalle successive pronunce europee (27) e nazionali (28) che subordinavano la sussistenza di un accordo di cooperazione alle seguenti condizioni: “a) il contratto stipulato tra enti pubblici deve perseguire il fine di garantire l’adempimento di una funzione di servizio pubblico comune agli enti medesimi, b) deve essere retto unicamente da considerazioni ed esigenze connesse al perseguimento di obiettivi d’interesse generale, c) deve essere tale da non porre un prestatore privato in una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti”. (26) Considerando 31 della direttiva 2014/24/ue. (27) Sentenza del 19 dicembre 2012, C-159/11; Sentenza 13 giugno 2013, C-386/11, Piepenbrock dienstleistungen gmbh & co Kg/Kreis duren; ordinanza 16 maggio 2013, C-564/11, consulta regionale ordine degli ingegneri della lombardia/comune di Pavia; ordinanza 20 giugno 2013, C-352/12, consiglio nazionale degli ingegneri/comune di castelvecchio subequo. (28) Cons. Stato, Sez. v, 15 luglio 2013, n. 3849; Cons. Stato, 13 settembre 2016, n. 3861. RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 Come può notarsi, il comma 6 dell’art. 5 non codifica la condizione per cui l’accordo non debba avvantaggiare un prestatore privato rispetto ai suoi concorrenti; prevede, invece, un requisito ulteriore rispetto a quelli richiesti dalla citata giurisprudenza, ovvero l’espletamento, da parte delle amministrazioni partecipanti, sul mercato aperto di una percentuale inferiore al 20% delle attività interessate dalla cooperazione, da calcolare secondo i medesimi criteri previsti al comma 7 per l’affidamento in house. Con riferimento al requisito non recepito, deve sottolinearsi come la direttiva 2004/24/ue, al considerando n. 31, afferma che “si dovrebbe garantire che una qualsiasi cooperazione pubblico-pubblico esentata non dia luogo a una distorsione della concorrenza nei confronti di operatori economici privati nella misura in cui pone un fornitore privato di servizi in una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti”, ed, al considerando n. 33, riconosce che “i contratti per la fornitura congiunta di servizi pubblici non dovrebbero essere soggetti all’applicazione delle norme stabilite nella presente direttiva, a condizione che siano conclusi esclusivamente tra amministrazioni aggiudicatrici, che l’attuazione di tale cooperazione sia dettata solo da considerazioni legate al pubblico interesse e che nessun fornitore privato di servizi goda di una posizione di vantaggio rispetto ai suoi concorrenti”. Pertanto, ad avviso di chi scrive, pur nel silenzio di un’espressa previsione normativa, non può prescindersi da una verifica volta ad accertare che la cooperazione tra pubbliche amministrazione non abbia posto un prestatore privato in una posizione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti, in ossequio ai principi di concorrenza e di garanzia della par condicio tra operatori economici a cui è informata l’intera normativa in materia di appalti (29). Si ritiene, quindi, di dover confermare le conclusioni già rese in merito all’interpretazione dell’art. 3, comma 6, del richiamato D.P.C.M. del 14 settembre 2012, che consente ai Centri di competenza di avvalersi, per l’espletamento delle attività ed essi affidate, di altri soggetti tecnico-scientifici, nel rispetto della normativa vigente in materia di acquisizione di beni e servizi. Al fine di scongiurare il rischio di realizzare un’indebita posizione di privilegio per un prestatore privato, si ritiene, infatti, che il Centro di competenza, parte della convezione conclusa con il Dipartimento della Protezione civile ai sensi del comma 1 dell’art. 6 della legge 225/1992, debba espletare una procedura di evidenza pubblica “a valle” per il reclutamento dei soggetti tecnico- scientifici di cui avvalersi. Con riferimento, invece, al requisito dell’espletamento sul mercato di (29) La Corte di giustizia ue, con la sentenza 13 giugno 2013, C-386/11, ha escluso che l’affidamento diretto del servizio potesse configurarsi in termini di accordo di cooperazione anche in considerazione del fatto che “detto contratto consente di ricorrere ad un terzo per l’espletamento della missione che esso contempla, di modo che tale terzo potrebbe trovarsi avvantaggiato rispetto alle altre imprese attive sul medesimo mercato”. ConTRIbuTI DI DoTTRInA una percentuale inferiore al 20% delle attività interessate dalla cooperazione, si rileva come tale condizione, pur rappresentando una novità rispetto ai principi giurisprudenziali, appaia in linea con la ratio sottesa alla cooperazione pubblico -pubblico, così come delineata dalla stessa giurisprudenza europea e nazionale. La logica di tale cooperazione, infatti, è sintetizzata all’art. 5, comma 6, lett. a) e b), per cui “a. il contratto stabilisce o realizza una cooperazione tra le amministrazioni aggiudicatrici partecipanti, finalizzata a garantire che i servizi pubblici che esse sono tenute a svolgere siano prestati nell’ottica di conseguire gli obiettivi che esse hanno in comune; b) l’attuazione di tale cooperazione è retta esclusivamente da considerazioni inerenti al- l’interesse pubblico”. La direttiva 2014/24/ue, al considerando n. 33, chiarisce che la cooperazione “potrebbe riguardare tutti i tipi di attività connesse alla prestazione di servizi e alle responsabilità affidati alle amministrazioni partecipanti o da esse assunti, quali i compiti obbligatori o facoltativi di enti pubblici territoriali o i servizi affidati a organismi specifici dal diritto pubblico. i servizi forniti dalle diverse amministrazioni partecipanti non devono necessariamente essere identici; potrebbero anche essere complementari”. Conformemente, il Consiglio di Stato (30) aveva riconosciuto come il requisito dell’interesse comune non avrebbe potuto essere inteso in termini di identità ontologica del fine pubblico delle amministrazioni partecipanti, tenuto conto che, così opinando, si sarebbe determinata un’arbitraria limitazione delle forme di cooperazione a quelle concluse tra enti appartenenti alla medesima branca amministrativa. Al contrario, sarebbe sufficiente la sussistenza di una “sinergica convergenza su attività di interesse comune, pur nella diversità di fine pubblico perseguito da ciascuna amministrazione”. In tale ottica, sono stati ritenuti legittimi gli accordi di gestione del patrimonio immobiliare pubblico che l’Agenzia del Demanio conclude con altri soggetti pubblici, tra cui amministrazioni centrali e periferiche, enti territoriali, nonché ogni altro ente pubblico, tenuto conto che il fine comune di tali amministrazioni è ravvisabile “nell’esigenza di valorizzare economicamente e socialmente il territorio attraverso il miglior utilizzo degli immobili” (31). Si confermano, pertanto, le conclusioni, esposte nel precedente contributo, secondo cui la cooperazione è configurabile sia nell’ipotesi di coordinamento reciproco di enti portatori della medesima funzione di servizio, che nell’ipotesi di coordinamento di enti titolari di funzioni in rapporto di strumentalità anche non reciproca. (30) Cons.Stato, Sez. v, 15 luglio 2013, n. 3849. (31) Parere Cons. Stato, Sez. II, 22 aprile 2015, n. 1178; nello stesso senso Cons. Stato, 13 settembre 2016, n. 3861. RASSegnA AvvoCATuRA DeLLo STATo - n. 4/2016 Si rileva, infine, che, come correttamente evidenziato (32), la cooperazione si differenzia dal contratto proprio in ragione dell’estraneità dalla logica dello scambio tra prestazione e controprestazione, ovvero dalla previsione di un corrispettivo, salvi i rimborsi dei costi sostenuti per l’espletamento dell’attività oggetto dell’accordo. Alla luce delle suddette considerazioni, deve ritenersi che le convenzioni stipulate dal Dipartimento della Protezione civile con i centri di competenza, i quali hanno veste di soggetto pubblico, possono qualificarsi come accordi tra pubbliche amministrazioni qualora integrino i descritti requisiti previsti dal citato art. 5, comma 6. Ai sensi dell’art. 6 della legge 225/1992, infatti, il Dipartimento ed i centri di competenza di natura pubblicistica sono titolari della funzione pubblica di protezione civile; la medesima disposizione prevede lo strumento delle convenzioni quale modulo organizzativo ideale per il coordinamento di detti soggetti nell’espletamento della loro funzione pubblica, ovvero l’attuazione dell’attività di protezione civile. (32) Cons. Stato, Sez. v, 30 settembre 2013, n. 4832. RECENSIONI Codice di giustizia sportiva F.I.G.C. annotato con la dottrina e la giurisprudenza, a cura di ANTONIO BLANDINI, PAOLO DEL VECCHIO, ANDREA LEPORE E UMBERTO MAIELLO. (Edizioni SciEntifichE italianE, 2016, p. 656) ai nostri Maestri di Vita e di diritto «l’anima la si incontra nell’amore, nella natura, nell’agonismo, nell’ideale, nella fantasia, nel superamento dei limiti, nella bellezza» (V.m. romAno, il terzo millennio di penelope) l’opera è destinata a chi voglia conoscere lo stato della dottrina e della giurisprudenza sul- l’interpretazione delle disposizioni del codice di giustizia sportiva FiGc. i commenti, realizzati da esperti della materia, sono caratterizzati da un’analisi completa e critica delle principali questioni in tema di processo sportivo. l’obiettivo è rileggere le norme federali all’interno dell’ordinamento giuridico nel suo complesso, senza pregiudizi di sorta, in un confronto dialettico con le fonti del sistema italo-europeo, mediante una concreta applicazione nel fenomeno sportivo sia del principio costituzionale di sussidiarietà (art. 118, comma 4, cost.), sia del principio di specificità di matrice comunitaria (art. 165, comma 2, tFUe). PreSentAzione l'opera si inserisce nella collana di legislazione commentata destinata ad annotare le norme più significative del sistema italo-europeo delle fonti. tuttavia, per la prima volta, si è tentato di porre l'esperienza di un gruppo di Antonio BlAndini, professore ordinario di diritto commerciale nell’Università degli Studi di napoli “Federico ii”. PAolo del Vecchio, avvocato dello Stato e componente della corte sportiva d’appello nazionale FiGc. AndreA lePore, professore associato di diritto privato nella Seconda Università degli Studi di napoli e componente della corte sportiva d’appello nazionale FiGc. UmBerto mAiello, consigliere del tAr campania e componente della corte federale d’appello FiGc. rASSeGnA AVVocAtUrA dello StAto - n. 4/2016 giuristi, con alle spalle percorsi professionali diversi, al servizio di un volume che avesse ad oggetto non un tradizionale atto legislativo della repubblica, quanto, piuttosto, una regolamentazione federale di grande rilevanza nel mondo sportivo: il codice di giustizia sportiva della FiGc. "Un'opera prima" dunque, che, come altre dello stesso lignaggio, si propone di fornire uno strumento agli studiosi ed agli operatori del settore -e non solo - utile per comprendere sotto il profilo funzionale ed applicativo istituti tipici del diritto sportivo, troppo spesso negletti. come è stato ricordato, «il problema dello sport per il vecchio giurista si poneva già nei confronti del gioco, un'attività rispetto alla quale lo sport assume l'aspetto di un fenomeno qualificato, sul piano sociale e quindi dal diritto che lo prende in considerazione come meritevole di disciplina o almeno di interessamento da parte del- l'ordinamento giuridico» (P. reSciGno, presentazione, in AA.VV., fenomeno sportivo e ordinamento giuridico, Atti del 3° convegno nazionale SiSdic, napoli, 2009, p. 11). Gli Autori di questo commentario si sono prefissi l'obiettivo di rileggere le norme sportive all'interno del sistema giuridico nel suo complesso, senza pregiudizi di sorta, in un confronto dialettico con le fonti dell'ordinamento, mediante una concreta applicazione nel fenomeno sportivo sia del principio costituzionale di sussidiarietà (art. 118, comma 4, cost.), sia del principio di specificità di matrice comunitaria (art. 165, comma 2, tFUe). È, infatti, grazie alla sussidiarietà ed alla specificità dello sport che è possibile selezionare gli interessi meritevoli di tutela per l'ordinamento espressi dai regolamenti federali, e sanzionare quelli che, invece, si pongono in contrasto con esso. Un dato acquisito di valore normativo, ribadito con forza anche dal diritto comunitario - si pensi al recente intervento del Parlamento europeo sulla vicenda Fifa-Blatter -, di cui bisogna tenere conto in virtù del principio di legalità, a prescindere dalla prospettiva metodologica adottata. da qui i richiami in tutti i contributi alla legislazione ordinaria e comunitaria, alla giurisprudenza -sportiva e di diritto comune -, e alla letteratura accademica, di settore e non. il confronto dialettico tra i vari diversi sistemi normativi e giustiziali è stato fortemente voluto dai curatori di quest'opera, al fine di offrire al lettore una fotografia quanto più dettagliata possibile della regolametazione federale, di là dal freddo dato normativo, in modo da proporre all'operatore del diritto uno strumento accurato e utile. disporre di regole efficaci e aggiornate è oramai requisito imprescindibile per ogni Federazione, indispensabile per garantire il rispetto delle identità e delle culture in base ai principi di pari dignità e di lealtà. lo sport programmatico si basa sulla qualità dei propri regolamenti tecnici delle singole discipline e su un condiviso nucleo assiologico. conseguentemente, «se in potenza lo sport si identifica con le sue regole, esso diviene atto tramite il loro rispetto» (P. PerlinGieri e l. di nellA, Edi recenSioni 309 toriale - le ragioni di una rivista, in radeS, 2006, p. 1). le regole tecniche divengono allora regole di comportamento, che non si limitano a permettere o a vietare semplici condotte di gioco, ma esprimono valori. tra questi si stagliano quelli dell'etica e della lealtà sportiva, del rispetto dell'avversario nella competizione agonistica, e coinvolgono non soltanto gli atleti, ma anche e soprattutto i sodalizi, i dirigenti sportivi e gli organi federali, istituzionali e di giustizia. lo sport è «un fenomeno dell'uomo e per l'uomo», è strumento di realizzazione della personalità del singolo e di esaltazione dei valori della collettività locale e nazionale. l'opera si prefigge l'obiettivo di essere non un contributo scientifico e pratico concluso, ma una sorta di laboratorio aperto, un percorso conoscitivo appena intrapreso, dove le esperienze e le competenze di diversi interpreti possano incontrarsi e dibattere. All'interno del commentario si è così cercato costantemente di garantire pluralismo metodologico, indipendenza, libertà di opinioni, dialogo interdisciplinare, respiro internazionale. Un confronto serrato tra studiosi e operatori del mondo dello sport al fine di rendere più chiari istituti sostanziali e processuali dibattuti talora con poca attenzione e consapevolezza. le ragioni che hanno spinto i curatori e gli Autori tutti a intraprendere questa strada irta e piena di ostacoli sono di due tipi. la prima risiede nella necessità di contribuire alla promozione di un rinascimento della cultura dello sport. la seconda è rappresentata dal tentativo di spingere la dottrina, i giudici e gli avvocati - che a vario titolo hanno collaborato alla stesura di questo volume - a cimentarsi in un confronto su temi eterogenei, che le fredde e meccaniche banche dati e le raccolte legislative sportive non possono offrire. Una sorta di «adunata generale» di Amici appassionati del diritto e dello sport, in un connubio peculiare, ma avvincente. Si apre un vasto e interessante campo di indagine, all'interno del quale la letteratura e parte della giurisprudenza hanno già prodotto qualche buon frutto. ma non basta. Fondamentale è che i diversi operatori del diritto, ognuno con le proprie competenze, contribuiscano in maniera maggiore, soprattutto oggi -come viene ricordato autorevolmente -che «si discorre di sussidiarietà, la quale non può essere realizzata se non attraverso l'esercizio delle autonomie, ma nel rispetto pur sempre dei valori portanti dell'ordinamento» (P. Perlin- Gieri, Riflessioni conclusive, in AA.VV., fenomeno sportivo e ordinamento giuridico, cit., p. 718). l'opera segue nella topografia il codice di giustizia sportiva FiGc, ed è, dunque, articolata in sette “titoli”: le fonti della disciplina, le norme di comportamento, le sanzioni, gli organi della giustizia sportiva, le norme generali del procedimento, il procedimento per illecito sportivo e per violazioni in materia gestionale ed economica, la disciplina sportiva in àmbito regionale della lnd e del settore per l'attività giovanile e scolastica. in essi vengono affrontati temi controversi e di grandissima attualità, quali il rapporto tra legislazione rASSeGnA AVVocAtUrA dello StAto - n. 4/2016 statale e sportiva, l'illecito disciplinare sportivo, la responsabilità oggettiva delle società sportive, la violenza negli stadi e tutte le diverse fasi nelle quali è articolato il processo sportivo. ciascuna disposizione è corredata non soltanto da un'annotazione che contiene un insieme di dati come nota esplicativa, ma da orientamenti giurisprudenziali e dottrinali di commento o critici. l'annotazione dell'articolo singolo è preceduta da un sommario, quale ausilio alla consultazione. il sommario è articolato in brevi paragrafi in modo da contribuire all'individuazione del tema trattato. le annotazioni sono funzionali a sottolineare le applicazioni e la casistica con una terminologia rigorosa e puntuale, evitando tendenzialmente le disquisizioni puramente teoriche e l'uso di nozioni prettamente concettuali. Sono poste in rilievo le questioni più dibattute, sottolineando le conformità e/o le discordanze di posizioni sia in seno alla dottrina e alla giurisprudenza, che tra letteratura e giurisprudenza. nelle annotazioni si è evitato di riprodurre pedissequamente le massime giurisprudenziali e con riferimento alle singole decisioni si è specificato, là dove è stato possibile, se si tratti di giurisprudenza pacifica, condivisa o isolata. le opinioni dei giudici sono per lo più espresse mediante le sentenze della corte di cassazione, della corte costituzionale e delle diverse corti federali FiGc-lnd. Particolare attenzione è stata rivolta anche alle decisioni della corte di giustizia dell'Unione europea e alla legislazione europea di profondo impatto nel fenomeno sportivo. Per la dottrina, invece, si è tentato di individuare coloro che hanno posto le basi delle teorie maggiormente accreditate, senza dimenticare le opinioni contrastanti più meritevoli e recenti. il volume consta dell'elenco generale degli articoli di legge, con indicazioni sui rispettivi annotatori, di un indice analitico, nonché un indice bibliografico formulato per l'ordine alfabetico degli autori citati, limitatamente agli studi che compaiono in forma abbreviata nei commenti. Un ringraziamento particolare va rivolto a coloro i quali hanno contribuito alla realizzazione del commentario. in primo luogo agli Autori, di grande esperienza, competenza, e sempre disponibili a tornare ripetutamente sui contributi, in considerazione degli aggiornamenti regolamentari di sovente sopravvenuti in corso d'opera, nonché a chi ha partecipato all'organizzazione e alla stesura dei commenti: raffaele cangiano, marco cardito, marco mennella e marcello Sangiorgio, enrico locascio Aliperti; e ai giovani praticanti dell'Avvocatura distrettuale dello Stato di napoli che hanno, dal primo momento, condiviso con entusiasmo il progetto editoriale: Filippo Borriello, diego Boscarelli, Sara cesareo, Antonio de rosa, Annapiera diodato, raffaella dolente, corrado elia, Giulia Jannelli, Antonella memeo, Giovanna montanino, Francesco mutarelli, Giovanna nicolais, maria orefice, Francesca Vetrano. Un sentito ringraziamento, inoltre, abbiamo il dovere di esprimere anche a coloro i quali hanno collaborato al comitato editoriale -coordinati con grande professionalità da roberta landi -, che hanno svolto con scrupolo l'attività di composizione e di collazione di queste pagine, nonché un delicato e arduo lavoro di controllo, spesso non soltanto redazionale: erica Adamo, tiziana Baratta, Giuseppe liccardo e Alessia redi. Senza il loro appassionato e ri recenSioni 311 goroso contributo l'opera avrebbe avuto ancóra più disarmonie di quelle che il lettore - inevitabilmente -potrà cogliere. l'indice bibliografico è stato curato da roberta landi, l'indice analitico da Giuseppe liccardo. Un giornalista chiese alla teologa tedesca dorothee Solle: «come spiegherebbe a un bambino che cosa è la felicità?». «non glielo spiegherei», rispose. «Gli darei un pallone per farlo giocare». napoli, luglio 2016 i cUrAtori rASSeGnA AVVocAtUrA dello StAto - n. 4/2016 GUGLIELMO BERNABEI (*), Carattere provvedimentale della decretazione d’urgenza. L’amministrazione con forza di legge. (WoltERS KluWER / cEdaM, 2017, p. 104) l’indagine svolta si concentra sul problema della collocazione dello strumento della decretazione d’urgenza non soltanto con riguardo alla sua posizione nel sistema delle fonti del diritto, ma altresì con riferimento alla natura del potere governativo con esso esercitato. Sotto quest’ultimo profilo, il lavoro, fin dal suo titolo, rende evidente la sua tesi di fondo, che consiste nel riconoscere al decreto-legge una natura provvedimentale attraverso la sua qualificazione come atto di amministrazione, ed in particolare di “alta amministrazione”, dotato di forza di legge. Questo inquadramento forma, in qualche modo, il “filo rosso” del lavoro proposto. dedicati alla illustrazione della richiamata tesi di fondo del lavoro sono l’introduzione ed il primo capitolo; i capitoli ii e iii sono dedicati ad una rassegna -anche con richiami alla giurisprudenza costituzionale -di taluni dei problemi “classici” affrontati dalla dottrina in ordine alla decretazione d’urgenza (il problema della individuazione e delle istanze di controllo sulla sussistenza dei presupposti di necessità e di urgenza richiamati dall’art. 77 cost. -cap. ii; il problema del rapporto sussistente, ai sensi della richiamata disposizione costituzionale tra il decreto-legge e la legge di conversione - cap. iii). Più immediatamente ricollegati alla tesi della natura amministrativa/provvedimentale del decreto-legge sono i contenuti dei capitoli iV e V dedicati rispettivamente alla tematica del rapporto tra decreto legge e potere di ordinanza (cap. iV) ed al tema delle leggi provvedimento, di cui si contesta la legittimità anche alla luce della ricostruzione proposta in ordine allo strumento della decretazione d’urgenza (cap. V). Gli ultimi due capitoli, che precedono le considerazioni conclusive, sono dedicati rispettivamente al tentativo di un’elaborazione tipologica dei decreti legge, con la classificazione degli atti di esercizio dei poteri di urgenza, anche mediante un’analisi, alla luce della tesi di fondo del lavoro, delle concrete (*) dottore di ricerca in diritto costituzionale, regionale e degli enti locali. Attualmente svolge attività di ricerca nell'ambito del diritto pubblico, con particolare riferimento alle tematiche connesse alle fonti del diritto, alla pubblica amministrazione, alla autonomia e finanza locale. Autore di monografie e volumi collettanei, nonché di numerosi saggi, articoli e note pubblicati sulle principali riviste giuridiche del settore, è consulente giuridico di enti pubblici ed istituzionali. il volume, pubblicato con il contributo del consiglio regionale Assemblea legislativa della liguria, raccoglie la monografia vincitrice della Settima edizione della rassegna nazionale di studi giuridici in memoria del Prof. Fausto cuocolo. recenSioni 313 esperienze di uso dello strumento (cap. Vi) ed infine ad una ricostruzione delle questioni relative ai limiti del decreto-legge (cap. Vii). con riguardo al punto da ultimo citato, il lavoro tende a ricostruire la complessiva rete di limiti da riconoscere al decreto-legge data la sua natura provvedimentale, applicando allo strumento di cui all’art. 77 taluni dei parametri alla luce dei quali si valuta la legittimità degli atti amministrativi (si pensi ad es. all’estensione al decreto legge del vizio dell’eccesso di potere). come si è già segnalato, sul piano del metodo il lavoro è costruito come una ricerca, per così dire, “a tesi”, rivolta a ricercare conferme ad una tesi che è enunciata in apertura e che dimostra di incidere sulla complessiva architettura della ricerca, nella quale i problemi più comunemente trattati in dottrina in ordine allo strumento della decretazione d’urgenza sono traguardati alla luce della natura provvedimentale che si attribuisce al decreto-legge, e la ricostruzione dei limiti dello strumento, del quale si auspica una riduzione ed una “normalizzazione”, sono almeno in parte ricalcati sui presupposti di legittimità degli atti amministrativi. ciò fa raggiungere al lavoro conclusioni (sia in ordine alla natura del decreto legge, che ai suoi limiti, che alla stessa configurazione ed ai limiti della legge parlamentare di conversione) che in parte trovano conferma nelle recenti tendenze verso uno scrutinio più stretto della decretazione d’urgenza; in parte si pongono in contrasto con la configurazione dello strumento nettamente prevalente nella pratica. Finito di stampare nel mese di marzo 2017 Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo S.p.A. Vicolo della Guardiola n. 22 - 00186 Roma