ANNO LXVIII - N. 3 LUGLIO - SETTEMBRE 2016 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO COMITATO SCIENTIFICO: Presidente: Michele Dipace. Componenti: Franco Coppi - Giuseppe Guarino - Natalino Irti - Eugenio Picozza - Franco Gaetano Scoca. DIRETTORE RESPONSABILE: Giuseppe Fiengo - CONDIRETTORI: Maurizio Borgo, Danilo Del Gaizo e Stefano Varone. COMITATO DI REDAZIONE: Giacomo Aiello - Lorenzo D’Ascia - Gianni De Bellis - Francesco De Luca - Wally Ferrante - Sergio Fiorentino - Paolo Gentili - Maria Vittoria Lumetti - Francesco Meloncelli - Marina Russo. CORRISPONDENTI DELLE AVVOCATURE DISTRETTUALI: Andrea Michele Caridi - Stefano Maria Cerillo - Pierfrancesco La Spina - Marco Meloni - Maria Assunta Mercati - Alfonso Mezzotero - Riccardo Montagnoli - Domenico Mutino - Nicola Parri - Adele Quattrone - Pietro Vitullo. HANNO COLLABORATO INOLTRE AL PRESENTE FASCICOLO: Giuseppe Albenzio, Anna Andolfi, Guglielmo Bernabei, Carla Colelli, Ettore Figliolia, Gianna Galluzzo, Giuliano Gambardella, Michele Gerardo, Daniela Giacobbe, Leonardo Lippolis, Michele Madonna, Massimo Massella Ducci Teri, Ciro Alessio Mauro, Giacomo Montanari, Alessio Muciaccia, Luciano Musselli, Paola Palmieri, Gabriele Pepe, Mario Antonio Scino, Francesco Sclafani, Daniele Sisca, Agnese Soldani, Claudio Tricò, Angelo Vitale. Email giuseppe.fiengo@avvocaturastato.it maurizio.borgo@avvocaturastato.it danilodelgaizo@avvocaturastato.it stefanovarone@avvocaturastato.it ABBONAMENTO ANNUO ..............................................................................€ 40,00 UN NUMERO .............................................................................................. € 12,00 Per abbonamenti ed acquisti inviare copia della quietanza di versamento di bonifico bancario o postale a favore della Tesoreria dello Stato specificando codice IBAN: IT 42Q 01000 03245 348 0 10 2368 05, causale di versamento, indirizzo ove effettuare la spedizione, codice fiscale del versante. I destinatari della rivista sono pregati di comunicare eventuali variazioni di indirizzo AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO RASSEGNA - Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma E-mail: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it Stampato in Italia - Printed in Italy Autorizzazione Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 INDICE - SOMMARIO TEMI ISTITUZIONALI Contenzioso relativo ai precari della Scuola. Sentenza n. 187/2016 della Corte Costituzionale, Circolare AGS prot. 396563 del 1 settembre 2016 Paola Palmieri, Conflitto tra due amministrazioni (Istituto scolastico e Autorità indipendente) e patrocinio erariale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Uno scambio di email sulla giurisprudenza di merito e di legittimità in punto di ius postulandi dell’Avvocatura dello Stato come parte civile . . CONTENZIOSO NAZIONALE Leonardo Lippolis, Ne bis in idem ed illeciti finanziari: un’analisi alla luce di Corte Costituzionale 102/2016 e della nuova disciplina eurounitaria sul market abuse . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Mario Antonio Scino, Le memorie illustrative per la Presidenza del Consiglio dei Ministri (C. Cost., sent. 12 maggio 2016 n. 102) . . . . . . . . . . . Gabriele Pepe, La solidarietà intergenerazionale quale strumento di giustizia redistributiva. Commento a Corte Costituzionale n. 173 del 2016 (C. Cost., sent. 13 luglio 2016 n. 173) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Alessio Muciaccia, L’obbligo di taratura periodica degli autovelox: uno excursus della giurisprudenza fino alla pronuncia della Corte Costituzionale 113 del 2015 (C. Cost., sent. 18 giugno 2015 n. 113) . . . . . . . . . Anna Andolfi, Nuovi limiti alle parti in ordine alla proponibilità, quale motivo di appello, del difetto di giurisdizione (Cass. civ., Sez. Un., sent. 20 ottobre 2016 n. 21260) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Claudio Tricò, La liquidazione delle astreintes e le ragioni ostative ex art. 114 c.p.a. alla luce della legge di stabilità per il 2016 (Cons. St., Sez. IV, sent. 13 aprile 2016 n. 1444) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO Sergio Fiorentino, Angelo Vitale, Il giudice competente e il diritto applicabile sul Programma “Iniziativa PMI” ai sensi dell’art. 39 del Regolamento (EU) n. 1303/2013 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Agnese Soldani, Spending review: la riduzione del 15% dei canoni per le locazioni passive anche alle ipotesi in cui proprietario dell’immobile sia una p.a. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Paola Palmieri, Il trattamento dei costi delle società costituite nell’ambito della ricerca sul modello “spin-off”. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Giacomo Aiello, La revisione dei prezzi negli appalti di servizi . . . . . . . Paola Palmieri, Edilizia residenziale pubblica e condizioni applicabili alle alienazioni di immobili già assegnati ai sensi dell’art. 18, D.L. n. 152/1991 pag. 1 ›› 9 ›› 13 ›› 33 ›› 60 ›› 91 ›› 111 ›› 125 ›› 139 ›› 153 ›› 158 ›› 162 ›› 172 ›› 177 Ettore Figliolia, Sul Programma sperimentale di edilizia residenziale denominato “20.000 abitazioni in affitto” (D.M. 2523/2001). . . . . . . . . . . Giuseppe Albenzio, Trasformazione di enti collettivi: sul passaggio diretto da associazione a fondazione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Mario Antonio Scino, Applicabilità e misura della penale contrattuale in caso di informazione di interdittiva antimafia sopravvenuta nel corso dell’esecuzione o a ultimazione dei lavori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Giacomo Aiello, Possibilità e condizioni per il recesso da una società per azioni in liquidazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Daniela Giacobbe, Azioni di responsabilità nei confronti di amministratori di una società incorporata in un ente pubblico economico: spettanza al ministero all’epoca socio unico o all’ente incorporante . . . . . . . . . . . . . Gianna Galluzzo, Procedimento per il pagamento dei debiti fuori bilancio di Roma Capitale di compenteza della Gestione Commissariale . . . . . . Danilo Del Gaizo, Immobili strumentali locati a pubbliche amministrazioni ed esercizio opzione I.V.A. in caso di subentro di un terzo in qualità di locatore. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Francesco Sclafani, Incarichi soggetti agli obblighi di pubblicazione e regime di trasparenza per gli enti di diritto pubblico . . . . . . . . . . . . . . . . . LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ Michele Gerardo, Anticorruzione e trasparenza nella pubblica amministrazione. Profili giuridici, economici ed informatici . . . . . . . . . . . . . . . Daniele Sisca, La successione degli Enti Pubblici: il caso controverso del Commissario delegato per l’emergenza ambientale nel territorio della Regione Calabria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . CONTRIBUTI DI DOTTRINA Guglielmo Bernabei, L’amministrazione con forza di legge . . . . . . . . . . Giuliano Gambardella, Ciro Alessio Mauro, Il soccorso istruttorio dopo l’entrata in vigore del d.lgs n. 50 del 18 aprile 2016. Vecchie e nuove problematiche (Segue ordinanza CGUE in causa C-140/16 con annotazione di Carla Colelli) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . RECENSIONI Luciano Musselli, Società civile e società religiosa tra diritto e storia, Wolters Kluwer/Cedam, 2016 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Luciano Muselli, Islam ed ordinamento italiano. Riflessioni per un primo approccio al problema . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Luciano Muselli, Dalla conclusione del contratto per stretta di mano alla firma elettronica: considerazioni minime sulle trasformazioni del diritto. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Guglielmo Bernabei, Giacomo Montanari, Fiscalità locale. Ricerca di un difficile equilibrio, Aracne Editrice, 2016 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 182 ›› 184 ›› 189 ›› 198 ›› 202 ›› 205 ›› 210 ›› 215 ›› 219 ›› 244 ›› 259 ›› 284 ›› 309 ›› 311 ›› 330 ›› 332 TEMI ISTITUZIONALI Avvocatura Generale dello Stato CIRCOLARE N. 42/2016 Oggetto: Contenzioso relativo ai precari della Scuola. Sentenza n. 187/2016 della Corte Costituzionale. Si comunica che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 187, depositata il 20 luglio 2016, ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale, nei sensi e limiti di cui in motivazione, dell’art. 4, commi 1 e 11 della legge 3 maggio 1999, n. 124 (Disposizioni urgenti in materia di personale scolastico) nella parte in cui autorizza, in mancanza di limiti effettivi alla durata massima totale dei rapporti di lavoro successivi, il rinnovo potenzialmente illimitato di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti, nonché di personale amministrativo, tecnico e ausiliario, senza che ragioni obiettive lo giustifichino”. La declaratoria di illegittimità costituzionale consegue alla nota sentenza del 26 novembre 2014 (resa nelle cause riunite C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13, Mascolo ed altri) della Corte di Giustizia, adita, in sede di rinvio pregiudiziale, dalla medesima Corte Costituzionale per l’interpretazione del parametro interposto costituito dalla clausola 5, punto 1 dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, allegato alla Direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE, norma priva di efficacia diretta. Per quanto riguarda le ricadute sanzionatorie derivanti dalla pronuncia di incostituzionalità, la stessa Consulta, integrando il dictum del giudice comunitario, ha affermato che il legislatore, con la normativa sopravvenuta di cui alla legge 13 luglio 2015, n. 107 (Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti) ha “cancellato” l’illecito costituito dalla violazione del diritto dell’UE, adottando una serie di misure aventi “natura riparatoria. Nella prospettiva dell’ordinamento comunitario, quel che conta è che di fatto ne possano beneficiare i soggetti lesi: è dunque indubbia la rilevanza di misure anche sopravvenute”, pienamente “rispondenti ai requisiti richiesti dalla Corte di Giustizia”. La Corte ha, quindi distinto, “quanto alle situazioni pregresse... a seconda del personale interessato”. In particolare, per i docenti, la strada della loro stabilizzazione con il piano straordinario (scelta definita espressamente “più lungimirante a quella del risarcimento”), è idonea a ga- 2 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 rantire “all’intera massa di... precari la possibilità di fruire di un accesso privilegiato al pubblico impiego fino al totale scorrimento delle graduatorie ad esaurimento...”. Per il personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (ATA), invece, la legge 107 del 2015 non ha previsto alcun piano straordinario di assunzioni, e, pertanto, afferma la Corte Costituzionale, “nei suoi confronti deve trovare applicazione la misura ordinaria del risarcimento del danno, misura del resto prevista... dal comma 132 dell’art. 1 della legge n. 107 del 2015, che quindi anche per questo aspetto deve ritenersi in linea con la normativa comunitaria”. In relazione a tali principi, in attesa che il Comitato Consultivo esprima il proprio definitivo avviso, eventualmente all’esito dei giudizi pendenti in Cassazione, è necessario, per quanto riguarda il personale docente, che vengano impugnate tutte le decisioni di condanna al risarcimento del danno anche nel caso in cui la misura risarcitoria consegua alla stipulazione, oltre il triennio, delle supplenze su organico di diritto (e, cioè, ai sensi dell’art. 4, comma 1 della legge 124 del 1999, per posti vacanti e disponibili) non limitando, quindi, le impugnazioni alle sole ipotesi di supplenze reiterate su organico di fatto, di cui ai successivi commi 2 (per posti non vacanti ma disponibili) e 3 (supplenze temporanee) del medesimo art. 4, legge n. 124 del 1999, come si era ritenuto a seguito della sentenza della Corte di Giustizia (secondo la quale, com’è noto, quest’ultima tipologia di incarichi trova la sua, giustificazione nella riconosciuta “esigenza di particolare flessibilità” del sistema scolastico). L’impugnazione dovrà essere, tuttavia, preceduta dalla necessaria istruttoria, da parte dell’Amministrazione scolastica, in ordine all’effettiva posizione lavorativa del ricorrente/docente (se questi sia stato, cioè, destinatario del piano di assunzioni straordinario di cui alla legge n. 107 del 2015). Per quanto riguarda il personale ATA - nei cui confronti si applica, ai sensi dell’art. 4, comma 11 della legge n. 124 del 1999, il regime delle supplenze previsto per il personale docente - in mancanza di un piano straordinario di assunzioni analogo a quello disposto per i docenti, sembra opportuno, nel caso in cui la stipulazione di contratti a termine per oltre un triennio sia avvenuta per la copertura di posti su organico di diritto, prestare acquiescenza alle sentenze di condanna al risarcimento dei danni; si proseguirà, invece, come in genere già praticato, nella predisposizione delle impugnazioni ove la condanna risarcitoria riguardi supplenze temporanee (anche annuali) o brevi, reiterate oltre il triennio per posti su organico di fatto. L'AVVOCATO GENERALE DELLO STATO Massimo Massella Ducci Teri Corte costituzionale, sentenza 20 luglio 2016 n. 187 - Pres. P. Grossi, Red. G. Coraggio - Giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 4, commi 1 e 11, della legge 3 maggio 1999, n. 124 (Disposizioni urgenti in materia di personale scolastico), promossi dal Tribunale ordinario di Roma, con due ordinanze del 2 maggio 2012 e dal Tribunale ordinario di Lamezia Terme, con due ordinanze del 30 maggio 2012. Considerato in diritto 1.- Il Tribunale ordinario di Roma e il Tribunale ordinario di Lamezia Terme, in più giudizi promossi da docenti e personale amministrativo, tecnico e ausiliario (ATA), che hanno svolto la propria attività in favore del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca TEMI ISTITUZIONALI 3 (MIUR) in ragione di successivi contratti a tempo determinato, con distinte ordinanze, iscritte ai nn. 143, 144, 248 e 249 del registro ordinanze 2012, hanno sollevato, nel complesso, questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, commi 1 e 11, della legge 3 maggio 1999, n. 124 (Disposizioni urgenti in materia di personale scolastico), in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione alla clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE (Direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato). 2.- La disposizione di cui all’art. 4, comma 1, è censurata dai rimettenti nella parte in cui consente la copertura delle cattedre e dei posti di insegnamento che risultino effettivamente vacanti e disponibili entro la data del 31 dicembre e che rimangano prevedibilmente tali per l’intero anno scolastico, mediante il conferimento di supplenze annuali, in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali per l’assunzione di personale docente di ruolo, così da determinare una successione potenzialmente illimitata di contratti a tempo determinato, e comunque svincolata dall’indicazione di ragioni obiettive e/o dalla predeterminazione di una durata massima o di un certo numero di rinnovi. Il comma 11 del medesimo art. 4 estende l’applicazione del comma 1 al personale ATA. I giudici a quibus si sono adeguati al principio affermato dalla giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 348 del 2007), secondo cui il parametro costituito dall’art. 117, primo comma, Cost., diventa concretamente operativo solo se vengono determinati gli “obblighi internazionali” che vincolano la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni. 3.- Questa Corte, con l’ordinanza n. 207 del 2013, ha disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, per chiarire la portata del parametro comunitario interposto, fermo lo scrutinio di costituzionalità della norma interna, necessario proprio in ragione della mancanza di effetto diretto della disposizione dell’accordo quadro che viene in rilievo (ordinanza n. 207 del 2013). La Corte, ha così ritenuto di avere legittimazione a disporre il rinvio pregiudiziale sull’interpretazione del diritto comunitario, anche nei giudizi incidentali, in relazione a norme prive di efficacia diretta (nell’ordinanza n. 103 del 2008 aveva già affermata la sussistenza delle condizioni perché, quale giurisdizione nazionale, potesse effettuare il rinvio pregiudiziale). 4.- La Corte di giustizia, con la sentenza 26 novembre 2014 resa nelle cause riunite C- 22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13, Mascolo ed altri, anche sul rinvio pregiudiziale effettuato dalla Corte costituzionale, ha statuito: «La clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura nell’allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, quale quella di cui trattasi nei procedimenti principali, che autorizzi, in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali per l’assunzione di personale di ruolo delle scuole statali, il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonché di personale amministrativo, tecnico e ausiliario, senza indicare tempi certi per l’espletamento di dette procedure concorsuali ed escludendo qualsiasi possibilità, per tali docenti e detto personale, di ottenere il risarcimento del danno eventualmente subito a causa di un siffatto rinnovo». La Corte di giustizia ha di seguito rilevato che «Risulta, infatti, che tale normativa, fatte salve le necessarie verifiche da parte dei giudici del rinvio, da un lato, non consente di definire criteri obiettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo di tali contratti risponda effettivamente ad un’esigenza reale, sia idoneo a conseguire l’obiettivo perseguito e sia necessario 4 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 a tal fine, e, dall’altro, non prevede nessun’altra misura diretta a prevenire e a sanzionare il ricorso abusivo ad una successione di contratti di lavoro a tempo determinato». 5.- Alla sentenza della Corte di giustizia europea interpretativa del diritto dell’Unione deve seguire quella di questa Corte, che ha effettuato il rinvio pregiudiziale; né è di impedimento alla pronuncia la legislazione sopravvenuta [legge 13 luglio 2015, n. 107 (Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti)], atteso che tale normativa, pur rilevante ad altri effetti - come si vedrà - non esclude che la norma da applicare nei giudizi a quibus rimanga quella oggetto della questione di costituzionalità. 6.- I giudizi possono essere riuniti per essere decisi con un’unica pronuncia, data l’identità delle questioni. (...) 8.- Nel merito la questione è fondata nei sensi e nei limiti che saranno di seguito precisati. 9.- Il giudizio va condotto alla stregua del parametro costituzionale come integrato dall’accordo quadro, e in particolare della clausola 5, punto 1, del medesimo, secondo l’interpretazione data dalla Corte di giustizia con la sentenza 26 novembre 2014, nelle cause riunite C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13, Mascolo ed altri. La questione di pregiudizialità comunitaria è oggetto di specifico esame nei paragrafi 72 e seguenti della motivazione della sentenza Mascolo, a conclusione dei quali, premesso che è compito esclusivo del giudice del rinvio pronunciarsi sull’interpretazione delle disposizioni del diritto interno, si forniscono precisazioni dirette a orientare il giudice nazionale nella sua valutazione della disciplina dei contratti di lavoro a tempo determinato alla luce del diritto europeo (paragrafi 84-113). La Corte di giustizia afferma che le esigenze di continuità didattica che inducono ad assunzioni temporanee di dipendenti nel comparto scuola possono costituire una ragione obiettiva ai sensi della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro, che giustifica sia la durata determinata dei contratti conclusi con il personale supplente, sia il rinnovo di tali contratti in funzione delle esigenze di continuità didattica, fatto salvo il rispetto dei requisiti fissati al riguardo dall’accordo quadro. Tuttavia ritiene che nel caso in esame il rinnovo di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato al fine di soddisfare queste esigenze abbia, di fatto, un carattere non provvisorio, ma, al contrario, permanente e durevole, e non sia giustificato ai sensi della lettera a), del punto 1, della clausola citata. Conclusivamente, la Corte di giustizia afferma che la disciplina in esame, sebbene limiti formalmente il ricorso ai contratti di lavoro a tempo determinato per provvedere a supplenze annuali per posti vacanti e disponibili nelle scuole statali solo per un periodo temporaneo fino all’espletamento delle procedure concorsuali, non consente di garantire che l’applicazione concreta di tale ragione obiettiva, in considerazione delle particolarità dell’attività di cui trattasi e delle condizioni del suo esercizio, sia conforme ai requisiti dell’accordo quadro. 10.- La pronuncia della Corte di giustizia sul punto è univoca: da ciò consegue la illegittimità costituzionale, dell’art. 4, commi 1 e 11, della legge n. 124 del 1999, per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alla clausola 5, comma 1, dell’accordo quadro più volte citato, nella parte in cui autorizza, in mancanza di limiti effettivi alla durata massima totale dei rapporti di lavoro successivi, il rinnovo potenzialmente illimitato di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonché di personale amministrativo, tecnico e ausiliario, senza che ragioni obiettive lo giustifichino. TEMI ISTITUZIONALI 5 11.- La questione di legittimità costituzionale non si esaurisce, tuttavia, in quella oggetto del rinvio pregiudiziale. Il primato del diritto comunitario e la esclusività della giurisdizione costituzionale nazionale, in un sistema accentrato di controllo di costituzionalità, impongono delicati equilibri, evidenziati anche nell’ordinanza del rinvio pregiudiziale, in cui questa Corte ha posto in evidenza i principi costituzionali che vengono in rilievo nella materia in esame, e cioè l’accesso mediante pubblico concorso agli impieghi pubblici (art. 97, quarto comma, Cost.), e il diritto all’istruzione (art. 34 Cost.). Al riguardo, la disciplina comunitaria in questione non si pone in contrasto con nessuno dei due principi, e la statuizione della Corte del Lussemburgo, al contrario, appare rispettosa delle competenze degli Stati membri, cui riconosce espressamente spazi di autonomia. 12.- Tali spazi riguardano in particolare le ricadute sanzionatorie dell’illecito. Anche di tali ricadute si è occupata la Corte di giustizia, ma la pronuncia a questo proposito dà atto che la normativa comunitaria in materia non prevede misure specifiche, rimettendone l’individuazione alle autorità nazionali e limitandosi a definirne i caratteri essenziali (dissuasività, proporzionalità, effettività). Molto chiari, al riguardo, i paragrafi 77 e 79 della sentenza Mascolo. Nel primo in particolare si legge: «[…] quando, come nel caso di specie, il diritto dell’Unione non prevede sanzioni specifiche nell’ipotesi in cui vengano nondimeno accertati abusi, spetta alle autorità nazionali adottare misure che devono rivestire un carattere non solo proporzionato, ma anche sufficientemente energico e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate in applicazione dell’accordo quadro […]». La sentenza, dunque, anche se ritiene di precisare alcune delle misure che possono essere adottate (procedure di assunzione certe, anche nel tempo, e risarcimento del danno), non ne esclude altre purché rispondenti ai requisiti ricordati. In tal modo, tuttavia, essa non dà risposta alla questione della necessità o meno del riconoscimento del diritto al risarcimento in capo ai soggetti che abbiano subito un danno a seguito dell’inadempimento dello Stato italiano, questione che costituisce l’oggetto reale dei giudizi a quibus. 12.1.- Sull’esercizio di tale discrezionalità s’impone una integrazione del dictum del giudice comunitario, che non può che competere a questa Corte. 13.- La questione, se esaminata alla luce della sola normativa vigente all’epoca della sua sollevazione, dovrebbe essere risolta in senso positivo; sennonché viene a questo punto in rilievo la normativa sopravvenuta prima ricordata, con le misure che il legislatore ha inteso adottare con l’evidente finalità di garantire la corretta applicazione dell’accordo quadro. La verifica della incidenza della nuova disciplina sulla questione in esame, diversamente da quanto avviene nei giudizi di costituzionalità meramente interni, in cui è necessario il rinvio al giudice a quo per una sua ulteriore delibazione, costituisce parte integrante della pronuncia di questa Corte. Difatti, le misure in questione, oltre a svolgere la funzione tipica preventiva-punitiva delle sanzioni, nell’interpretazione del Giudice dell’Unione rifluiscono sull’illecito “cancellandolo” (paragrafo 79), attesa la loro natura riparatoria. Nella prospettiva dell’ordinamento comunitario quel che conta è che di fatto ne possano beneficiare i soggetti lesi: è dunque indubbia la rilevanza di misure anche sopravvenute. 14.- Venendo all’esame della legge n. 107 del 2015, le sue finalità sono chiaramente indicate con riguardo alla disposizione che, nell’originario disegno di legge (Atto Camera 2994, XVII legislatura), prevedeva la durata dei contratti di lavoro a tempo determinato della scuola 6 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 (art. 12 del citato d.d.l.). Nella relazione illustrativa si precisava, infatti, che: «La disposizione intende adeguare la normativa nazionale a quella europea, al fine di evitare l’abuso nella successione dei contratti di lavoro a tempo determinato per il personale docente e non docente della scuola pubblica. Ciò a seguito della pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione europea del 26 novembre 2014 […]. In proposito la Corte di giustizia dell’Unione europea nella citata sentenza ha evidenziato il contrasto delle norme italiane in materia di contratti a tempo determinato nel settore scolastico con quanto previsto dalla clausola 5 della direttiva 1999/70/CE. Si introduce il limite temporale di trentasei mesi come durata massima per i rapporti di lavoro a tempo determinato del personale scolastico (docente, educativo, amministrativo tecnico e ausiliario) per la copertura di posti vacanti e disponibili presso le istituzioni scolastiche ed educative statali da considerarsi complessivamente, anche non continuativi». 14.1.- La disposizione è stata poi trasfusa nel comma 131 dell’art. 1 della legge n. 107 del 2015, secondo cui «A decorrere dal 1º settembre 2016, i contratti di lavoro a tempo determinato stipulati con il personale docente, educativo, amministrativo, tecnico e ausiliario presso le istituzioni scolastiche ed educative statali, per la copertura di posti vacanti e disponibili, non possono superare la durata complessiva di trentasei mesi, anche non continuativi». 14.2.- La durata complessiva dei contratti a termine è poi assunta dal legislatore quale parametro di operatività del fondo istituito dal successivo comma 132 dell’art. 1 della legge n. 107 del 2015. Tale ultima disposizione, infatti, stabilisce che nello stato di previsione del MIUR è istituito un fondo per i pagamenti in esecuzione di provvedimenti giurisdizionali aventi ad oggetto il risarcimento dei danni conseguenti alla reiterazione di contratti a termine per una durata complessiva superiore a trentasei mesi, anche non continuativi, su posti vacanti e disponibili, con la dotazione di euro 10 milioni per ciascuno degli anni 2015 e 2016. 14.3.- La medesima legge, all’art. 1, comma 113, ha modificato l’art. 400 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado), norma che regola il reclutamento del personale docente ed educativo, e concorre a comporre la disciplina delle procedure concorsuali, richiamata, sia pure senza espresso riferimento normativo, nell’art. 4, comma 1, della legge n. 124 del 1999, norma impugnata. Si prevede, tra l’altro, modificandosi il primo periodo del comma 01 dell’art. 400 del d.lgs. n. 297 del 1994, che «I concorsi per titoli ed esami sono nazionali e sono indetti su base regionale, con cadenza triennale, per tutti i posti vacanti e disponibili, nei limiti delle risorse finanziarie disponibili, nonché per i posti che si rendano tali nel triennio. Le relative graduatorie hanno validità triennale a decorrere dall’anno scolastico successivo a quello di approvazione delle stesse e perdono efficacia con la pubblicazione delle graduatorie del concorso successivo e comunque alla scadenza del predetto triennio». La nuova normativa ha dunque confermato la cadenza triennale dei concorsi, già prevista dal testo previgente. Infine, ai sensi del comma 109 dell’art. 1 della legge n. 107 del 2015, l’accesso ai ruoli a tempo indeterminato del personale docente educativo della scuola statale, fermo il piano straordinario di assunzioni, avverrà mediante concorsi pubblici nazionali su base regionale per titoli ed esami, ai sensi del suddetto art. 400 del d.lgs. n. 297 del 1994, come modificato. 14.4.- A tale normativa a regime si aggiungono rilevanti disposizioni transitorie. È infatti stabilito (art. 1, comma 95, della stessa legge) che: «Per l’anno scolastico 2015/2016, il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca è autorizzato ad attuare TEMI ISTITUZIONALI 7 un piano straordinario di assunzioni a tempo indeterminato di personale docente per le istituzioni scolastiche statali di ogni ordine e grado, per la copertura di tutti i posti comuni e di sostegno dell’organico di diritto, rimasti vacanti e disponibili all’esito delle operazioni di immissione in ruolo effettuate per il medesimo anno scolastico ai sensi dell’articolo 399 del testo unico di cui al decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297, al termine delle quali sono soppresse le graduatorie dei concorsi per titoli ed esami banditi anteriormente al 2012». È poi previsto, sempre dal comma 109, lettera c), della citata legge n. 107 del 2015, che l’art. 399, del d.lgs. n. 297 del 1994, secondo cui l’accesso ai ruoli ha luogo anche attingendo alle graduatorie permanenti, continua ad applicarsi fino a totale scorrimento delle relative graduatorie ad esaurimento. 15.- Ebbene, si è già detto della pluralità delle misure autorizzate dalla normativa comunitaria che qui viene in rilievo; occorre ora precisare che tali misure sono fra loro alternative e che quindi si deve ritenere sufficiente l’applicazione di una sola di esse. Ciò si desume in particolare al paragrafo 79 della motivazione, secondo cui «quando si è verificato un ricorso abusivo a una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato, si deve poter applicare una misura che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori al fine di sanzionare debitamente tale abuso e cancellare le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione»: dunque, è solo una la misura da applicare, purché presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela. Nello stesso senso sono i precedenti della Corte di giustizia che, sempre a proposito della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro, affermano che rientra nel potere discrezionale degli Stati membri ricorrere, al fine di prevenire l’utilizzo abusivo di contratti di lavoro a tempo determinato, ad una o più tra le misure enunciate in tale clausola o, ancora, a norme equivalenti in vigore, purché tengano conto delle esigenze di settori e/o di categorie specifici di lavoratori (sentenza 15 aprile 2008, nella causa C-268/06, Impact; sentenza 23 aprile 2009, nelle cause riunite da C-378/07 a C-380/07, Angelidaki ed altri). L’alternatività è del resto implicita nell’identica efficacia delle due misure espressamente individuate dalla Corte, entrambe idonee «a cancellare le conseguenze della violazione» (sempre nel paragrafo 79). Tale efficacia è indubbiamente tipica della sanzione generale del risarcimento, desunta dai principi della normativa comunitaria e non richiede approfondimenti; non diversa, tuttavia, è l’efficacia dell’altra misura, che sostanzialmente costituisce anch’essa un risarcimento, ma in forma specifica. Ciò sarebbe ancor più evidente se la sanzione alternativa consistesse nella trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato, ma la Corte di giustizia dell’Unione europea, prendendo atto del principio del concorso pubblico, ricordato anche nell’ordinanza n. 207 del 2013, ritiene sufficiente una disciplina che garantisca serie chances di stabilizzazione del rapporto. 16.- Ebbene, dalla combinazione dei vari interventi, sia a regime che transitori, effettuati dal legislatore nel 2015, emerge l’esistenza in tutti i casi che vengono in rilievo di una delle misure rispondenti ai requisiti richiesti dalla Corte di giustizia. E tale conclusione trova una indiretta ma autorevole conferma in quella cui è pervenuta la Commissione U.E. a proposito della procedura di infrazione aperta nei confronti del nostro Paese per la violazione della stessa normativa dell’Unione: essa è stata archiviata senza sanzioni a seguito della difesa dell’Italia, argomentata con riferimento alla normativa sopravvenuta. 17.- Viene anzitutto introdotto un termine effettivo di durata dei contratti a tempo deter- 8 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 minato, il cui rispetto è garantito dal risarcimento del danno. E questo, configura quella sanzione dissuasiva che la normativa comunitaria ritiene indispensabile. 18.- Quanto alle situazioni pregresse, occorre distinguere a seconda del personale interessato. 18.1.- Per i docenti, si è scelta la strada della loro stabilizzazione con il piano straordinario destinato alla «copertura di tutti i posti comuni e di sostegno dell’organico di diritto». Esso è volto a garantire all’intera massa di docenti precari la possibilità di fruire di un accesso privilegiato al pubblico impiego fino al totale scorrimento delle graduatorie ad esaurimento, secondo quanto previsto dal comma 109 dell’art. 1 della legge n. 107 del 2015, permettendo loro di ottenere la stabilizzazione grazie o a meri automatismi (le graduatorie) ovvero a selezioni blande (concorsi riservati). In tal modo vengono attribuite serie e indiscutibili chances di immissione in ruolo a tutto il personale interessato, secondo una delle alternative espressamente prese in considerazione dalla Corte di giustizia. La scelta è più lungimirante rispetto a quella del risarcimento, che avrebbe lasciato il sistema scolastico nell’attuale incertezza organizzativa e il personale in uno stato di provvisorietà perenne; una scelta che - va sottolineato - richiede uno sforzo organizzativo e finanziario estremamente impegnativo e che comporta un’attuazione invero peculiare di un principio basilare del pubblico impiego (l’accesso con concorso pubblico), volto a garantire non solo l’imparzialità ma anche l’efficienza dell’amministrazione (art. 97 Cost.). 18.2.- Per il personale ATA, invece, non è previsto alcun piano straordinario di assunzione e pertanto nei suoi confronti deve trovare applicazione la misura ordinaria del risarcimento del danno, misura del resto prevista - lo si è più volte ricordato - dal comma 132 dell’art. 1 della legge n. 107 del 2015, che quindi anche per questo aspetto deve ritenersi in linea con la normativa comunitaria. 19.- Si deve pertanto concludere nel senso che lo Stato italiano si è reso responsabile della violazione del diritto dell’U.E., ma anche che il conseguente illecito è stato “cancellato” con la previsione di adeguati ristori al personale interessato. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara l’illegittimità costituzionale, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione, dell’art. 4, commi 1 e 11, della legge 3 maggio 1999, n. 124 (Disposizioni urgenti in materia di personale scolastico), nella parte in cui autorizza, in mancanza di limiti effettivi alla durata massima totale dei rapporti di lavoro successivi, il rinnovo potenzialmente illimitato di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonché di personale amministrativo, tecnico e ausiliario, senza che ragioni obiettive lo giustifichino. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 giugno 2016. TEMI ISTITUZIONALI 9 Conflitto tra due amministrazioni (Istituto scolastico e Autorità indipendente) e patrocinio erariale PARERE DEL 11/07/2016 - 330282, AL 14471/16, AVV. PAOLA PALMIERI Con la nota che si riscontra codesta Distrettuale, in seguito alla richiesta di patrocinio da parte di un Istituto scolastico coinvolto nel procedimento sanzionatorio avviato dall’Autorità per la Privacy, ha rappresentato la possibile situazione di conflitto, in sede di eventuale giudizio di opposizione a sanzione amministrativa, tra l’Istituto medesimo - amministrazione soggetta al patrocinio obbligatorio - e l’Autorità Garante della Privacy, per la quale il regolamento interno prevede il patrocinio facoltativo. Segnala, al riguardo, codesta Distrettuale che, mentre nel caso delle istituzioni scolastiche, nonostante la loro autonomia soggettiva e la personalità giuridica autonoma, la giurisprudenza è orientata nel senso del patrocinio erariale ex art. 1 del R.D. n. 1611 del 1933, nel caso del Garante, la giurisprudenza parrebbe orientata in senso contrario, in considerazione del rinvio operato dal Regolamento interno n. 1/2000 all’art. 43 del R.D. 1611 del 1933, con conseguente riconoscimento del patrocinio autorizzato. La norma del regolamento interno, tuttavia, si legge nella richiesta di parere, potrebbe ritenersi superata dalla generale assimilazione delle Autorità alla persona giuridica-Stato, oltre che non essere ritenuta suscettibile di derogare alla norma primaria, in quanto contenuta in una fonte secondaria interna. a) Con riferimento alle istituzioni scolastiche osserva innanzitutto la Scrivente che queste, anche in seguito alla riforma di cui alla l. n. 59 del 1997, seguitano a svolgere funzioni e finalità di competenza dello Stato, continuando ad operare come organi statali anche se, attraverso l’attribuzione di personalità giuridica e di autonomia di cui all’art. 21 l. n. 59/1997, le stesse sono divenute autonomo centro di imputazione. Per esse, dunque, rimane fermo il principio secondo cui le Istituzioni in esame godono del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, da esercitare nelle forme di cui all’art. 1 del R.D. 30 ottobre 1933 n. 1611, come affermato più volte dalla giurisprudenza in materia. Il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato risulta, del resto, anche successivamente confermato dall’art. 1 bis, lett. b), del D.P.R. 4 agosto 2001 n. 325 (Regolamento recante modifiche al decreto del Presidente della repubblica 8 marzo 1999, n. 275, in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche), che, introducendo l’art. 7 bis, ha disposto espressamente nel senso che “L’Avvocatura dello Stato continua ad assumere la rappresentanza e la difesa nei giudizi attivi e passivi davanti alle Autorità giudiziarie, i collegi arbitrali e le giurisdizioni amministrative e speciali di tutte le istituzioni scolastiche cui è stata attribuita l’autonomia e la personalità giuridica ai sensi dell’art. 21 della legge 15 marzo 1997, n. 59” (Nel senso del patrocinio obbligatorio delle 10 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 istituzioni scolastiche: Cass., Sez. III, ord. 13 luglio 2004 n. 12977; Cons. di Stato, Sez. VI, ord. 20 giugno 2012 n. 2370; Cons. di Stato, Sez. II, 27 settembre 2000 n. 1021). Alla luce di tali considerazioni, dunque, non può che essere ribadito il riconoscimento alle istituzioni scolastiche del patrocinio obbligatorio proprio delle Amministrazioni statali, i cui tratti distintivi sono riconducibili, essenzialmente, alla non necessità del mandato, alla impossibilità di richiedere l’assistenza di avvocati del libero foro salvo casi eccezionali e previo parere dell’Avvocato Generale, alla individuazione del foro dello Stato ed, infine, all’obbligo di notifica presso l’Avvocatura dello Stato. b) Quanto al Garante della Privacy osserva la Scrivente, in parziale difformità rispetto a quanto si legge nella richiesta di parere che, in seguito alla istituzione del Garante per la protezione dei dati personali avvenuta con la legge 31 dicembre 1996, n. 675, il relativo regolamento di organizzazione, approvato con DPR 31 marzo 1998, n. 501, ha demandato all’Avvocatura dello Stato l’assunzione della rappresentanza in giudizio ai sensi dell’art. 43 del R.D. 1611/ 1933, con evidente riferimento ad una forma di patrocinio autorizzato (art. 22). La disposizione di cui al richiamato DPR, inoltre, non risulta espressamente abrogata dal Codice per la protezione dei dati personali (D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196), il cui art. 183 dispone l’abrogazione di tutte le norme incompatibili con la nuova configurazione dell’Autorità delineata dall’art. 153 del Codice, lasciando, tuttavia, in vigore le restanti norme (tra cui, appunto, l’art. 22 sulla rappresentanza e difesa). La disposizione sul patrocinio autorizzato è stata poi confermata dal regolamento interno di organizzazione del Garante n. 1 del 2000, il quale di nuovo rinvia all’art. 43 del R.D. 1611/1933. In tal senso Cass. 24 giugno 2014 n. 14326: “Per espressa previsione normativa, contenuta nell'art. 17 del regolamento del Garante per la protezione dei dati personali n. 1 del 2000 sull'organizzazione e il funzionamento dell'Ufficio, fermo restando quanto previsto dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 23, ai giudizi in cui è parte tale Autorità indipendente, la quale riveste una posizione particolare nell'ambito dello Stato-comunità, la rappresentanza e la difesa in giudizio è assunta dall'Avvocatura dello Stato ai sensi dell'art. 43 del testo unico delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato, approvato con il R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611 (Cass., Sez. 1, 15 luglio 2005, n. 15076)”. È pur vero che le disposizioni in esame, nel riconoscere al Garante un patrocinio di tipo autorizzato si pongono in distonia rispetto all’orientamento giurisprudenziale che tende ad attribuire alle Autorità indipendenti, in ragione degli interessi pubblici particolarmente rilevanti da esse tutelati, natura di organi statali (in particolare, TAR Calabria sez. II, 13 febbraio 2007, n. TEMI ISTITUZIONALI 11 53 a proposito dell’AVCP ma anche Cons. di Stato, VI, 25 novembre 1994, n. 1716: Il disposto dell'art. 1 comma 1 del r.d. n. 1611 del 1933, prevede che spetti all'Avvocatura di Stato la rappresentanza, l'assistenza e il patrocinio in giudizio delle amministrazioni dello Stato, anche se organizzate ad ordinamento autonomo, tra le quali si annovera appunto l'Autorità garante della concorrenza e del mercato; per il patrocinio obbligatorio ai sensi dell’art. 1 del R.D. n. 1611 del 1933, dell’Autorità per l’energia elettrica ed il gas: TAR Lombardia, sez. III, 14 novembre 2013, n. 2527; TAR Lombardia, sez. III, 10 aprile 2009, n. 3239). Tuttavia, anche a prescindere dal fatto che la norma di conferimento del patrocinio contenuta in un DPR appare difficilmente superabile e che, nei giudizi di interesse dell’Autorità Garante, il patrocinio è sempre stato ritenuto come attribuito ai sensi dell’art. 43 del R.D. n. 1611/1933, si osserva, in ogni caso, che, nella prassi di questo G.U., in caso di conflitto tra un’Amministrazione statale ed un’Autorità indipendente, si è sempre ritenuto opportuno conferire il patrocinio all’Amministrazione statale, consentendo all’Autorità di avvalersi di avvocati del libero foro (In tal senso, rispetto all’AGCM v. il caso esaminato da Cons. di Stato, sez. IV, 28 gennaio 2016, n. 323; parere Avv. Gen. 14 dicembre 2011 in relazione a vertenza tra AGCOM e PCM). *** In sintesi, nella fattispecie sottoposta all’attenzione di questo G.U. da codesta Avvocatura Distrettuale, si ritiene che nell’eventuale giudizio di opposizione avverso sanzione irrogata dal Garante per la Privacy, debba essere riconosciuto il patrocinio in favore dell’Istituzione scolastica interessata, in quanto Amministrazione statale che gode di patrocinio obbligatorio nonché tenuto conto del disposto di cui all’art. 43, terzo comma, ultimo inciso, del R.D. n. 1611/1933 (con riferimento all’ipotesi di “conflitto di interessi con lo Stato”). Peraltro, al di là della conclusione sulla questione giuridica sottoposta al parere di questo G.U., si osserva che, al fine di prevenire il verificarsi di ipotesi di conflitto, anche in applicazione del principio di leale collaborazione, può ritenersi quanto mai utile ed opportuno che l’Avvocatura dello Stato affianchi l’istituzione scolastica, non solo ai fini della difesa dell’Amministrazione in giudizio ma anche della possibile composizione degli interessi in gioco secondo la soluzione giuridicamente più corretta, previo coinvolgimento, da parte del singolo istituto, dell’Amministrazione centrale, affinché il singolo caso di violazione della Privacy, anche per i riflessi che lo stesso comporta sulla tutela dei diritti fondamentali della persona, sia considerato, fin dalla fase amministrativa che precede il giudizio, in un’ottica di unitarietà e parità di trattamento, nonché alla luce delle eventuali direttive dettate dal Ministero in materia. *** 12 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Coinvolgendo questioni di massima, il presente parere è stato sottoposto all’esame del Comitato consultivo, ai sensi dell’art. 26 della legge 3 aprile 1979, n. 103, che si è espresso in conformità nella seduta del 27 giugno 2016. TEMI ISTITUZIONALI 13 Uno scambio di email sulla giurisprudenza di merito e legittimità in punto di ius postulandi dell’Avvocatura dello Stato come parte civile Da: Carlo Maria Pisana Inviato: mercoledì 21 settembre 2016 18:09 A: Avvocati_tutti Oggetto: ius postulandi dell'Avvocatura come parte civile Cari colleghi penalisti, mi riferisco alla non recente, ma comunque preoccupante, pronuncia della Cassazione penale che, discostandosi dall’orientamento risalente agli anni ’90, afferma l’autonomia del regime processuale penale quanto alla rappresentanza della parte civile da quello civilistico e da quello speciale del r.d. 1611-33. Siete a conoscenza di altre pronunce successive, anche di merito, sul tema? (...) Ecco il brano della sentenza della Cassazione penale del 2014 a cui mi riferivo. Si tratta di una costituzione di parte civile dell’Autorità portuale di Genova, la cui inammissibilità era stata eccepita in ragione dell’obbligo di farsi rappresentare dall’Avvocatura dello Stato a cui, evidentemente, l’ente non aveva ottemperato. Il Giudice penale sembra aver colto l’occasione per affermare un principio. Infatti, avrebbe anche potuto ammettere la costituzione di pc in base all’art. 43 in ragione della delibera espressa dell’ente, se esistente, o anche concludere che l’esistenza della delibera afferisce a un rapporto interno. Invece ha proprio voluto dichiarare l’indipendenza dell’ordinamento processuale penalistico da ogni altra disciplina. Se la prima parte del discorso, in cui si afferma l’autonomia dell’ordinamento processuale penale da quello civile, è condivisibile, non lo è invece, dove afferma l’autonomia riguardo al regime della rappresentanza dello Stato e degli enti. Tale regime è infatti posto da norme speciali rivolte a regolare la rappresentanza in giudizio di tali soggetti in ogni tipo di processo e non solo in quello civile. 11. Infondate, preliminarmente, devono ritenersi le doglianze difensive prospettate da taluni ricorrenti (ossia, da N.G. G., C.S.M. e C.A.) con riferimento alla mancata estromissione della parte civile Autorità portuale di Genova in ragione del conferimento del mandato difensivo ad un avvocato del libero foro, anzichè all'Avvocatura dello Stato, cui dovrebbe riconoscersi ex lege ed in via automatica lo ius postulandi nei confronti dell'Autorità Portuale, a norma del su menzionato R.D. 30 dicembre 1993, n. 1611, art. 43 e del d.p.c.m. 4 dicembre 1997. Al riguardo, infatti, deve ribadirsi l'insegnamento giurisprudenziale, da tempo espresso da questa Suprema Corte (Sez. 5^, n. 2518 del 04/12/1998, dep. 25/02/1999, Rv. 212730; Sez. 5^, n. 10317 del 12/12/2000, dep. 13/03/2001, Rv. 218519), secondo cui l'esercizio dell'azione 14 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 civile nel processo penale è disciplinato dalla legge processuale, e per la rappresentanza della parte civile non è operato dalla normativa processuale penale alcun rinvio a quella civile ai fini della disciplina applicabile in relazione a tale materia. Ne consegue, secondo tale linea interpretativa, l'ulteriore regola in base alla quale, essendo la rappresentanza processuale della parte civile disciplinata dall'art. 100 c.p.p., comma 1, che prevede il "ministero di un difensore", questi ben può essere un avvocato esercente fuori del distretto, non iscritto, quindi, nell'albo degli avvocati e procuratori del distretto della Corte di appello nell'ambito del quale si trova l'ufficio giudiziario presso il quale egli rappresenta la parte civile. Seguendo tale regola di piena autonomia rispetto alla possibile incidenza delle diverse forme procedimentali al riguardo delineate in altri settori dell'ordinamento, l'art. 100 c.p.p. enuclea un precetto che disciplina la rappresentanza tecnica obbligatoria della parte civile nel processo penale, conferendo non ad essa personalmente ma al professionista a ciò incaricato con la procura ad litem il potere di compiere un'attività processuale non espressamente riservata alla parte (ex art. 100, comma 4, cit.). La Corte d'appello, sul punto, ha correttamente ritenuto soddisfatta la condizione normativa richiesta dalla su indicata disposizione processuale, chiarendo come fosse del tutto pacifica, e comunque non revocata in dubbio dalle parti, la sussistenza della effettiva volontà manifestata dal Presidente dell'Autorità portuale di Genova - che ne ha la rappresentanza L. 28 gennaio 1994, n. 84 , ex art. 8 - di costituirsi parte civile nel processo penale conferendo la relativa procura speciale ad un avvocato del libero foro, anzichè all'Avvocatura dello Stato. In tal senso, la motivazione della relativa Delib., assunta dal Presidente con il su citato decreto n. 465 del 6 maggio 2009, ha chiaramente evidenziato, infatti, le ragioni giustificative della scelta dell'ente di costituirsi parte civile con le forme e modalità sopra indicate. Nessun rinvio, parimenti, viene effettuato dal codice di rito alle regole in tema di rappresentanza e difesa delle amministrazioni pubbliche non statali previste da disposizioni speciali quali quelle evocate dai ricorrenti (R.D. 30 dicembre 1933, n. 1611, art. 43), con la conseguenza che eventuali vizi ravvisabili nel rapporto sottostante tra l'ente pubblico e l'organo di vigilanza chiamato ad approvarne o ratificarne le scelte relative all'esercizio dei suoi poteri di rappresentanza possono, tutt'al più, rilevare sul piano delle conseguenze amministrative del modus operandi seguito dall'ente, non certo sui profili attinenti alla validità dell'atto di costituzione di parte civile all'interno del processo penale, che deve rispettare le diverse formalità ivi autonomamente contemplate negli artt. 78 c.p.p. e ss. Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 13/03/2014) 21-07-2014, n. 32237 Carlo Maria Pisana (Avvocatura Generale dello Stato) TEMI ISTITUZIONALI 15 Da: Antonio Ferrara [mailto:antonio.ferrara@avvocaturastato.it] Inviato: Thursday 22 September 2016 12:21 A: 'Carlo Maria Pisana'; 'Giannuzzi Massimo' Cc: 'avvocati_tutti' Oggetto: R: ius postulandi dell'Avvocatura come parte civile Cari Colleghi, segnalo Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 04/11/2009) 11-02- 2010, n. 5447 che sul punto si è così pronunciata “2a- In ogni caso, deve ribadirsi che l'Avvocatura dello Stato, derivando il suo ius postulandi direttamente dalla legge (R.D. n. 1611 del 1933, art. 1), non ha bisogno, per costituirsi parte civile nel processo penale, del conferimento di una procura da parte dell'Amministrazione statale rappresentata in giudizio e non è neppure onerata della produzione della documentazione attestante la volontà della stessa Amministrazione di procedere giudizialmente. Il rapporto sottostante a quello di mandato ex lege tra l'Amministrazione pubblica e l'Avvocatura dello Stato e relativo alla gestione della lite costituisce, infatti, un rapporto meramente interno con l'Amministrazione medesima, senza alcuna necessità che questa deliberi, con atti di rilievo esterno, la sua volontà di agire o di resistere in giudizio (cfr. Cass. sez. 18/11/2007 n. 4060)”. Comunque, non è il caso di complicarsi troppo la vita. Basta allegare all’atto di costituzione, facendone menzione nell’atto stesso, l’autorizzazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri e, per gli enti, la determina o la delibera dell’organo competente in base alla legge o allo statuto. Si tratta di un adempimento che non ci costa nulla e che ci pone al riparo da eventuali eccezioni. Io mi sono sempre regolato così e non ho mai avuto problemi, nel senso che qualche sporadica opposizione alla costituzione di parte civile è stata sempre respinta. Antonio Ferrara (Avvocatura dello Stato di Reggio Calabria) Da: Avv. Alfonso Mezzotero Inviato: giovedì 22 settembre 2016 12:45 A: Ferrara Antonio; Pisana Carlo Maria; Giannuzzi Massimo Cc: Avvocati_tutti Oggetto: R: ius postulandi dell'Avvocatura come parte civile Allego, sul tema, il lavoro in oggetto, che ricostruisce i termini della questione. Sulla prevalenza delle norme codistiche rispetto alle disposizioni contenute nel R.d. n. 1611/1933 non mi risultano pronunce successive a quella del 2014. 16 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Resta prevalente il principio affermato nella sentenza riportata dal Collega Ferrara. Alfonso Mezzotero (Avvocatura dello Stato di Catanzaro) La difesa delle Amministrazioni dello Stato nel processo penale (*) A seguito dell’emanazione del nuovo codice di rito penale del 1988 (il cui nuovo art. 74 fa espresso riferimento al “soggetto al quale il reato ha recato danno”, riferendosi, dunque, inequivocabilmente sia alle persone fisiche che a quelle giuridiche) nessun dubbio sussiste in ordine alla possibilità di ammettere la costituzione di parte civile nel processo penale anche per le amministrazioni pubbliche (nonché per le persone giuridiche di diritto privato) che abbiano patito un danno patrimoniale o non patrimoniale come conseguenza diretta della condotta criminosa (1). Pertanto, qualora un’Amministrazione dello Stato subisca un danno derivante dal reato, potrà esercitare la relativa azione civile restitutoria o risarcitoria attraverso la costituzione di parte civile. A differenza di quanto accade per i giudizi introdotti innanzi alle altre Autorità giurisdizionali, per la costituzione di parte civile nel processo penale il legislatore richiede un quid pluris, rappresentato dalla necessità della previa autorizzazione espressa dal Presidente del Consiglio dei Ministri (art. 1, comma 4, l. 3 gennaio 1991, n. 3) (2). L’autorizzazione viene concessa, previo parere dell’ufficio dell’Avvocatura competente (3), qualora vengano in considerazione interessi pubblici, patrimoniali e non patrimoniali, di rilevanza tale da ritenersi opportuno affiancare il Pubblico Ministero nel processo penale (4). Anche nel giudizio penale trovano applicazione i principi dettati dal r.d. n. 1611/1933 per l’esercizio dell’azione in giudizio da parte della Amministrazioni erariale, fatta salva la necessità delle previa autorizzazione del Presidente del Consiglio. In particolare, con riferimento alla questione dell’applicabilità all’Avvocatura dello Stato delle norme codicistiche che impongono il mandato speciale e la produzione in giudizio della deliberazione attestante la volontà dell’Amministrazione di esercitare l’azione civile in sede penale, nonostante (*) Estratto da ALFONSO MEZZOTERO - DAVID ROMEI, Il patrocinio delle Pubbliche Amministrazioni. La Difesa innanzi alle Giurisdizioni Ordinarie e Speciali, CSA Editrice, 2016 (ndr). (1) Si veda sul punto, per quanto qui interessa, AA.VV., La costituzione di parte civile nel processo penale, in Rass. avv. St., 2002, 1, 1 e ss. (2) Secondo BRUNI - PALATIELLO, La difesa dello Stato nel processo, Utet, 2011, 66, la norma si giustifica, più che per ragioni di ordine sostanziale, in considerazione dell’esiguo personale togato dell’Avvocatura ed al fine di consentire l’indirizzo unitario della difesa in sede penale, evitando dispersioni settoriali. (3) Generalmente l’autorizzazione è riferita genericamente allo Stato. L’esatta individuazione delle singole Amministrazioni legittimate ad agire in giudizio viene, invece, demandata all’Avvocatura dello Stato competente. (4) Cfr., in ordine alla natura e tipologia di interessi che giustificano l’intervento dell’Amministrazione erariale nel processo penale, BRUNI - PALATIELLO, op. cit., 66 e ss.; MEZZOTERO - MATARESE, L’ammissibilità della costituzione di parte civile nell’interesse dello Stato nei processi di mafia. Alla ricerca del bene giuridico oggetto della pretesa risarcitoria (Tribunale di Paola, in composizione collegiale, in sede penale, ordinanza 13 dicembre 2005), in Rass. avv. St., 2005, 4, 145 e ss. TEMI ISTITUZIONALI 17 qualche (risalente) pronuncia di segno contrario (5), deve, ormai, ritenersi acquisito all’elaborazione giurisprudenziale il principio dell’inapplicabilità della disciplina generale di cui all’art. 122, comma 2, c.p.p., in quanto derogata dalla normativa speciale dettata dall’art. 1, comma 2, r.d. n. 1611/1933. Difatti, gli avvocati dello Stato - non abbisognando il loro ius postulandi di conferimento di procura, che deriva direttamente dalla legge - hanno la capacità di compiere tutti gli atti processuali consentiti al difensore munito di mandato, con la sola esclusione, in mancanza del conferimento del relativo potere, di quelli che importano disposizioni del diritto in contesa. Solo per gli atti di questo tipo è necessaria una apposita procura speciale. Gli avvocati dello Stato, peraltro, non sono neppure onerati della produzione della documentazione attestante la volontà della P.A. di procedere giudizialmente: il rapporto sottostante a quello di mandato ex lege fra amministrazione e avvocato e relativo alla gestione della lite ha natura meramente interna all’Amministrazione medesima, senza alcuna necessità che questa deliberi, con atti di rilievo esterno, la sua volontà di agire o di resistere in giudizio nei vari gradi e fasi di esso (6). Anche nei giudizi penali il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato è organico, obbligatorio ed esclusivo per come si desume dal combinato di cui agli artt. 5, comma 1, e 43, comma 4, r.d. n. 1611/1933 (7). (5) Cfr. Cass. pen., sez. VI, 17 giugno 1995, n. 6980, in Rass. avv. St., 1995, 2, 304, con nota critica di FERRANTE. (6) Cfr., testualmente, Cass. pen., sez. VI, 4 novembre 2009, n. 5447, in Guida al dir., 2010, 15, 86 e in Cass. pen., 2011, 4, 1521, ove si afferma che: “l’Avvocatura dello Stato, derivando il suo ius postulandi direttamente dalla legge (R.D. n. 1611 del 1933, art. 1), non ha bisogno, per costituirsi parte civile nel processo penale, del conferimento di una procura da parte dell’Amministrazione statale rappresentata in giudizio e non è neppure onerata della produzione della documentazione attestante la volontà della stessa Amministrazione di procedere giudizialmente. Il rapporto sottostante a quello di mandato ex lege tra l’Amministrazione pubblica e l’Avvocatura dello Stato e relativo alla gestione della lite costituisce, infatti, un rapporto meramente interno con l’Amministrazione medesima, senza alcuna necessità che questa deliberi, con atti di rilievo esterno, la sua volontà di agire o di resistere in giudizio (cfr. Cass. sez. 18/11/2007 n. 4060; sez. 5^ 27/3/1999 n. 11441)”; nello stesso senso, Cass. pen., sez. II, 24 novembre 2009, n. 1364, in Banca Dati De Jure; id., sez. I, 8 novembre 2007, n. 4060, ivi, 2008, 11, 4040; id., sez. V, 7 ottobre 1999, n. 1441, ivi, 2000, 2341 e in Rass. avv. St., 1999, 3, 526 e ss., con nota di DI TARSIA DI BELMONTE, Procura speciale agli avvocati dello Stato ex art. 122 c.p.p.? Del tutto minoritario e superato è l’opinione che ritiene necessaria la produzione in giudizio dell’autorizzazione del Presidente del Consiglio dei Ministri: in senso affermativo, sul punto, Trib. Bologna, Ufficio G.I.P., 5 ottobre 2004, in Giur. merito, 2005, 655. Per approfondimenti, si vedano BRUNI - PALATIELLO, op. cit., 68 e ss.; MEZZOTERO - MATARESE, op. cit., 145; CHILIBERTI, Azione civile e nuovo processo penale, Milano, 2006, 335 e ss. (7) In senso contrario si vedano, però, Cass. pen., sez. VI, 13 marzo 2014, n. 32237, in Cass. pen., 2015, 4, 1347, con nota di MADIA, I “nebulosi” confini della nozione di “gare nei pubblici incanti o nelle licitazioni private” enucleata nell'art. 353 c.p.: tra eccessi “espansionistici” e tendenze “restrittive”, secondo cui “ai fini dell’esercizio dell’azione civile nel processo penale, anche gli eventi pubblici per i quali la legge attribuisce lo «ius postulandi», in via automatica, all’Avvocatura dello Stato possono validamente conferire mandato per la loro rappresentanza processuale ad un avvocato del libero foro, poiché la disciplina del c.p.p. non opera alcun rinvio a quella processualcivilistica con riferimento a tale materia e si limita a prevedere, all’art. 100, comma 1, il «ministero di un difensore »”. 18 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Da: Carlo Maria Pisana Inviato: venerdì 23 settembre 2016 10:56 A: Pisana Carlo Maria; Giannuzzi Massimo Cc: Avvocati_tutti Oggetto: R: ius postulandi dell'Avvocatura come parte civile Segnalo che esiste anche un precedente recente ottenuto da Giannuzzi per l’Agea Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 13/03/2014) 24-10-2014, n. 44369. Carlo Maria Pisana (Avvocatura Generale dello Stato) Da: Carlo Maria Pisana [mailto:carlomaria.pisana@avvocaturastato.it] Inviato: venerdì 23 settembre 2016 11:25 A: 'Antonio Ferrara'; 'Giannuzzi Massimo' Cc: 'avvocati_tutti' Oggetto: R: ius postulandi dell'Avvocatura come parte civile Vorrei chiarire che la mia attenzione sul tema non deriva da un desiderio di approfondimento e studio fine a sé stesso, ma da esigenze pratiche molto precise. Manteniamo, che io sappia da sempre, la linea generale di non esibire mai l’autorizzazione della Pcm né la nota dell’amm.ne che chiede la costituzione di p.c. proprio per rendere non discutibile nella prassi giudiziaria che si tratta di atti afferenti a un rapporto interno: lo scopo di questo orientamento è quello di sottrarre al sindacato delle avverse difese tali atti, semplificando e rendendo più fluida la nostra partecipazione ai processi penali. La cosa è più importante di quanto possa apparire perché talvolta siamo costretti a costituirci senza che l’autorizzazione sia già pervenuta a nostre mani, o in presenza di richieste delle amm.ni non chiare o non univoche e comunque espresse in un linguaggio amministrativo ben diverso da quello della giustizia penale con riferimenti a concetti e prassi a questo estranei. In questo caso, se il rapporto resta interno è sufficiente che nella sostanza il nostro operato sia conforme al fine perseguito dall’Amm.ne: eventuali problemi potranno risolversi tra noi e l’Amm.ne. Se invece si consentisse un sindacato giudiziario su questi atti, fin’ora ritenuti interni, ogni parola sarebbe oggetto di discussioni infinite con un appesantimento intollerabile del giudizio penale, nonché inevitabili incomprensioni ed esiti non prevedibili. Carlo Maria Pisana (Avvocatura Generale dello Stato) TEMI ISTITUZIONALI 19 Da: Maurizio Greco Inviato: venerdì 23 settembre 2016 16:34 A: Di Cave Marinella; Soldani Agnese; Pisana Carlo Maria; Ferrara Antonio; Giannuzzi Massimo Cc: Avvocati_tutti Oggetto: R: ius postulandi dell'Avvocatura come parte civile Il principio di cui alla decisione citata dal collega Avv. Ferrara (Cass. 5447/2010), trova fondamento in altra sentenza della Cassazione (2819/1997) che affronta la specialità del R.D. 1611/1933, rispetto alle norme del c.p.p. (in particolare si verteva dell’applicabilità dell’art 78 c.p.p.). La specialità della normativa sull’Avvocatura è del resto in linea con quanto affermato dalla V Sez. Pen. della Cass. (nr. 11441/1999 LONGARINI). In questo senso Giudici di merito (Cfr. Trib. Brescia 07/02/1995, GIP Trib. Pen. Velletri del 06.03.1997, Trib Pen. R. Cal. 16.10.1992, Ord. Trib. Pen. Roma, 11.12.2010) hanno sempre seguito detta linea. Per ciò che concerne la nota (autorizzazione) della PCM io non l’ho mai esibita e non ritengo sia utile e necessario farlo anche in considerazione di quanto posto in rilievo dal collega Avv. Pisana. La valutazione in ordine alla costituzione di parte civile, è simile, del resto, a questo proposito, a mio sommesso avviso, alla analoga valutazione sull’assunzione della difesa di cui all’art. 44 R.D. 1611/33 (richiesta dell’Amministrazione - autorizzazione della P.C.M. - nostro parere favorevole) nell’ambito del quale la Cass. (cfr. III Sez., n. 7179/1995; Sez. III, n. 6759/1987; Sez. III, n. 10020/1997; Sez. I, n. 12133/1991) ha stabilito che l’Avvocatura non è tenuta in alcun modo a dimostrare la sussistenza dei presupposti per l’applicazione della norma in quanto trattasi di meri atti interni. L’ultima delle sentenze citate, quella del 1991, è la più puntuale e specifica tra tutte: “Il problema che si pone nel caso di specie - e che riguarda in generale tutte le ipotesi in cui l'Avvocatura dello Stato assume la rappresentanza e la difesa in giudizio degli impiegati e agenti delle Amministrazioni dello Stato e degli enti di cui all'art. 43 r.d. citato - consiste nello stabilire se lo ius postulandi in capo all'avvocatura erariale sussista per il semplice fatto dell'assunzione della rappresentanza e della difesa dei soggetti che si trovano nelle condizioni di cui al richiamato art. 44 o se invece sia necessaria la prova della richiesta dell'ente e del provvedimento dell'Avvocato generale sull'opportunità dell'assunzione della difesa. Secondo la sentenza impugnata la richiesta della p.a. competente ed il parere favorevole dell'Avvocato generale costituiscono presupposti di legittimità dell'esercizio dello ius postulandi il cui difetto rende nulli gli atti processuali compiuti dall'Avvocatura. La tesi non può essere seguita. Osserva il Collegio che occorre nettamente distinguere il momento del conferimento dell'incarico della difesa da quello del rilascio della procura: il primo destinato a restare fuori del processo e ad operare esclusivamente nell'ambito del rapporto interno fra parte e difensore: il secondo indirizzato all'esterno e tale da comportare un problema di opponibilità e, quindi, di prova. 20 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Agli effetti del processo ciò che rileva è solo il momento esterno poiché solo su questo gli altri soggetti del rapporto processuale hanno un potere di sindacato. Tale potere di sindacato non sussiste, peraltro, quando il patrocinio è assunto dall'Avvocatura dello Stato, la quale, ai sensi dell'art. 1 r.d. n. 1611 del 1933, non ha bisogno di mandato alle lite per l'esercizio dello ius postulandi. In ipotesi di assunzione della difesa e della rappresentanza degli impiegati e degli agenti di cui all'art. 44 r.d. citato il momento anteriore del conferimento dell'incarico si svolge attraverso una serie procedimentale di cui costituiscono condizioni di legittimità anche la richiesta della p.a. ed il parere favorevole dell'Avvocato generale, ma ciò non esclude che tale momento sia privo di rilevanza esterna con la conseguenza che i terzi non hanno alcun potere di pretenderne l'osservanza, come è dimostrato proprio dal fatto che non è necessario che tale conferimento si esteriorizzi nei confronti di questi ultimi mediante il conferimento di un formale mandato. Tale principio è del resto conforme alla giurisprudenza di questa Corte la quale, proprio dal principio legislativo secondo cui per il conferimento all'Avvocatura dello Stato dell'incarico di agire e di resistere in giudizio non occorre mandato, ha tratto la conseguenza che l'eventuale deliberazione, tramite la quale gli enti pubblici non statali decidano di affidare alla Avvocatura il detto incarico, costituisce un atto interno, che non riguarda i terzi (Cass. 24 febbraio 1975 n. 700; Cass. 4 maggio 1976 n. 1578; Cass. 10 aprile 1979 n. 2057; Cass. 20 marzo 1980 n. 1879; Cass. 9 aprile 1987 n. 3490). (...) "lo ius postulandi degli avvocati dello Stato deriva direttamente dalla legge e, quindi, non richiede il conferimento di un mandato ad litem anche nel caso di rappresentanza e difesa in giudizio degli impiegati ed agenti delle amministrazioni dello Stato e degli enti di cui all'art. 43 r.d. n. 1611 del 1933, ai sensi dell'art. 44 dello stesso r.d., con la conseguenza che l'avvocatura erariale può assumere la difesa dei suindicati soggetti senza dovere dimostrare in alcun modo la sussistenza delle condizioni di legittimità imposte dalla norma da ultimo richiamata (richiesta dell'ente e parere favorevole dell'Avvocato generale), che costituiscono atti interni relativi al conferimento dell'incarico, che non riguardano i terzi, i quali non hanno quindi alcuna legittimazione a dedurne la mancanza, dal momento che tale mancanza non incide sullo ius postulandi". Per completezza segnalo che il precedente citato dal collega Pisana trovava un isolatissimo e remoto precedente in Cass. Pen., Sez. VI, 16.12.1994/17.06.1995, n. 6980 SERI, sempre però poi superato dalla successiva giurisprudenza. Maurizio Greco (Avvocatura Generale dello Stato) TEMI ISTITUZIONALI 21 Da: Massimo Giannuzzi Inviato: venerdì 23 settembre 2016 16:48 A: Avvocati_tutti Oggetto: R: ius postulandi dell'Avvocatura come parte civile Anch’io condivido la linea Pisana - Greco, secondo la quale non è opportuno depositare l’autorizzazione della PCM e le determinazioni di costituzione di parte civile della Presidenza. Forse, in linea di principio, l’affermazione del primato delle norme processuali che regolano l’esercizio dello ius postulandi nell’interesse della parte civile ci possono far gioco nella difesa di questa linea, ove si consideri che l’art. 1 del r.d. individua l’Avvocatura dello Stato, impersonata dagli avvocati e procuratori dello Stato, quali titolari di una procura speciale ex lege, ciò che è sufficiente, proprio alla stregua della disciplina processualpenalistica, a legittimarci a costituirci parte civile nell’interesse delle Amministazioni da noi patrocinate. Il rispetto delle condizioni cui è subordinata la legittimità della costituzione di parte civile non è sindacabile dal giudice ordinario proprio perché la disciplina di riferimento opera su un piano diverso rispetto a quello strettamente processuale. Massimo Giannuzzi (Avvocatura Generale dello Stato) Da: Wally Ferrante Inviato: venerdì 23 settembre 2016 19:31 A: Greco Maurizio; Di Cave Marinella; Soldani Agnese; Pisana Carlo Maria; Ferrara Antonio; Giannuzzi Massimo Cc: Avvocati_tutti Oggetto: R: ius postulandi dell'Avvocatura come parte civile Sull’isolata pronuncia della Cassazione del 1995 citata dal Collega Greco, avevo scritto l’allegata nota critica pubblicata sulla Rassegna dell’Avvocatura … in effetti i miei primi Maestri nei processi penali (Riccardo Montagnoli e Enrico De Giovanni) mi avevano sempre suggerito di non produrre l’autorizzazione della PCM, trattandosi di atto interno. Wally Ferrante (Avvocatura Generale dello Stato) 22 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 “Parte civile: procura speciale anche per le amministrazioni statali?”(*) Nota a Cassazione Penale, Sez. VI, 17 giugno 1995 n. 6980 1. Procura speciale e potere autenticatorio del difensore: Con la sentenza in rassegna - che non trova precedenti specifici nella giurisprudenza di legittimità, ma si pone in marcato contrasto con l'orientamento unanime e decennale della Suprema Corte (sezioni unite, penali e civili) e del Consiglio di Stato formatosi sul contenuto del potere- dovere dell'Avvocatura dello Stato nella rappresentanza e difesa in giudizio delle amministrazioni statali - la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile la costituzione di parte civile effettuata dall'Avvocatura dello Stato per conto del Ministero dei Trasporti senza corredarla di idonea documentazione attestante la volontà dell'amministrazione di esercitare nel processo penale la pretesa risarcitoria o restitutoria, ritenuta non compresa nella riserva ex lege all'Avvocatura dello Stato della difesa degli organismi statuali. L'invalidità della costituzione di parte civile è stata affermata anche per i dipendenti della società S.C.A.C., offesi dal reato di corruzione e finanziamento illecito dei partiti, avvenuta mediante il deposito di due atti distinti recanti, rispettivamente, la dichiarazione di cui all'art. 78, 1° comma c.p.p. sottoscritta soltanto dai loro legali e il mandato speciale ad litem conferito a questi ultimi dai predetti dipendenti, le cui sottoscrizioni erano state autenticate dai legali medesimi. A sostegno della dichiarazione di inammissibilità della costituzione di parte civile, la Corte ha richiamato la sentenza n. 6 (rectius n. 8650) del 18 giugno 1993, depositata il 23 settembre 1993 delle Sezioni Unite (1) con la quale è stato affermato che, poiché il potere autenticatorio del difensore deve ritenersi di natura eccezionale, lo stesso non può estendersi a casi diversi da quelli espressamente previsti dalla legge. Alla luce di tale principio, l'autografia della sottoscrizione della parte che conferisce al difensore la procura speciale a costituirsi parte civile ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 78 e 100 c.p.p. può essere autenticata dal difensore medesimo solo qualora la predetta procura speciale sia apposta in calce o a margine della dichiarazione di costituzione di parte civile e non sia invece redatta su un atto autonomo, in quanto solo nel primo caso - e in altri tassativamente previsti: art . 39 disp. att. c.p.p., 83 c.p.c. - l'art. 100, 2° comma c.p.p. contempla il potere autenticatorio del difensore. 2. Rapporti tra l’Avvocatura dello Stato e l’amministrazione: Se il principio enunciato dalle Sezioni Unite, e fatto proprio dalla sentenza in commento, può essere condivisibile se riferito ai rapporti tra privato e avvocato del foro libero, lo stesso non può dirsi qualora lo si voglia estendere ai rapporti tra l'amministrazione e l'Avvocatura dello Stato - suo difensore ope legis - senza tener conto del disposto dell'art. 1, 2° comma del r.d. 30 ottobre 1933 n. 1611 che, in quanto norma speciale, deroga alle - pur successive - norme generali dettate in materia di costituzione di parte civile. In base alla suddetta disposizione, gli Avvocati dello Stato esercitano le loro funzioni innanzi a tutte le giurisdizioni ed in qualunque sede e non hanno bisogno di mandato, neppure nei (*) Rassegna Avvocatura dello Stato, 1995, Parte I, Sez. VI, Giurisprudenza penale, pp. 305 ss. (1) Pubblicata in Cass. penale, 1994, 1, 45 e in Cass. penale, 1995, 2, 273 con nota parzialmente critica di MARIO TADDEUCCI SASSOLINO: Procura speciale a costituirsi parte civile e procura speciale ad litem: brevi osservazioni sul potere di autentica del difensore. TEMI ISTITUZIONALI 23 casi nei quali le norme ordinarie richiedono il mandato speciale, bastando che consti della loro qualità. La ratio di tale disciplina risiede nel fatto che, a differenza della relazione che intercorre tra cliente e avvocato quali soggetti distinti, quella tra amministrazione e Avvocatura dello Stato - inquadrata organicamente nell’ambito della Presidenza del Consiglio dei Ministri - non si configura come una relazione intersoggettiva, in quanto si riferisce a due organi appartenenti alla medesima persona giuridica, appunto lo Stato-soggetto. Il legislatore ha infatti scelto di affidare la rappresentanza e la difesa in giudizio delle amministrazioni statali ad un organo tecnico deputato a valutare ed a tutelare in maniera uniforme gli interessi dello Stato, proprio in virtù del suo stesso inserimento nell'apparato statale. Nell'ordinamento processuale comune, tra parte e difensore si stabilisce una doppia relazione: una, interna, attinente al conferimento dell'incarico e concretantesi in un normale mandato; l'altra, esterna, afferente all'attribuzione del potere di compiere nel processo atti vincolanti per la parte e manifestantesi nella procura alle liti, che conferisce al difensore lo ius postulandi. Il rapporto esterno, la regolarità della procura e quindi la capacità del difensore di rappresentare la parte sono sindacabili dal giudice in ogni stato e grado del giudizio. Tale principio non è però applicabile ai rapporti Stato-difensore poiché l'Avvocatura dello Stato, come si è detto, non è soggetto distinto, bensì organo dello Stato parte in causa. Ricorrendo pertanto una sorta di immedesimazione organica tra la parte e il suo difensore, viene meno la necessità di distinguere la volontà dell'amministrazione da quella manifestata dall'Avvocatura dello Stato, posto che ogni eventuale discordanza potrà al più assumere una rilevanza meramente interna. A tale proposito, si osserva che mentre l'art. 13 del r.d. 1611/1933 attribuiva all'Avvocatura dello Stato il potere di disporre della lite, l'art. 12 della legge 3 aprile 1979 n. 103 ha trasferito detto potere all'amministrazione, con la precisazione che le eventuali divergenze circa la instaurazione di un giudizio o la resistenza nel medesimo sono risolte dal Ministro competente con determinazione non delegabile, ferma restando la competenza dell'Avvocato Generale dello Stato in ordine alle divergenze di parere tra gli uffici distrettuali dell'Avvocatura dello Stato e le singole amministrazioni ai sensi dell'art. 15 della legge 103/79. Ciò detto, verso l'esterno, e quindi ai fini della regolarità del processo, vale la norma dell'art. 1, 2° comma r.d. 1611/1933, in base alla quale l'Avvocatura dello Stato rappresenta ed impegna l'amministrazione senza bisogno di alcun mandato, sicché né la controparte, né il giudice possono rilevare una eventuale irregolarità di comportamento dell'Avvocatura dello Stato che avesse, in ipotesi, iniziato una lite, rinunziato ad essa o proposto un gravame contro la volontà dell'amministrazione, potendo semmai la violazione dell'art. 12 legge 103/1979 comportare una responsabilità dell'Avvocato dello Stato, ma mai influire sulla regolarità del processo (2). (2) cfr. PIETRO PAVONE: Lo Stato in giudizio, 1995, 28; Cass. 29 aprile 1983 n. 2993 ove si afferma che il rapporto sottostante a quello di mandato ex lege fra l'amministrazione e l'Avvocatura e relativo alla gestione della lite costituisce un rapporto meramente interno all'amministrazione medesima, senza alcuna necessità che questa deliberi, con atti di rilievo esterno, la sua volontà di agire o resistere in giudizio, nei vari gradi e fasi di esso; Cons. di Stato 22 maggio 1981 n. 225 ove si precisa che l'Avvocatura dello Stato non ha bisogno, per compiere gli atti del proprio ministero, e in specie per proporre appello, del mandato dell'amministrazione rappresentata, in quanto questo discende direttamente dalla legge e pertanto al giudice è preclusa ogni indagine non solo sulla sussistenza della procura ad litem, ma anche sulla eventuale difformità tra rappresentanza processuale ed effettiva volontà dell'amministrazione. 24 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Si è altresì affermato che l'iniziativa giudiziaria dell'Avvocatura dello Stato e quindi anche l'esercizio del diritto d'impugnazione, richiedono il consenso dell'amministrazione rappresentata ma l'esistenza di tale consenso rileva esclusivamente nel rapporto interno, mentre non condiziona la validità dell'atto processuale, dato che lo ius postulandi dell'Avvocatura medesima non abbisogna di conferimento di procura, senza che sia configurabile un’interferenza di tale principio sui precetti dell’art. 97 della Costituzione in tema di buon andamento e di imparzialità (3). La disomogenità tra la natura della difesa erariale e quella del libero professionista si manifesta anche sotto altro profilo. Infatti, l'Avvocatura dello Stato, anche quando si trova a difendere l'amministrazione in relazione a rapporti di natura privatistica, possiede uno jus postulandi funzionalmente e strutturalmente diverso rispetto a quello comune, in quanto, dal punto di vista funzionale, l'Avvocatura dello Stato deve sempre tenere presenti gli interessi generali ed i risvolti pubblicistici che comunque sottendono ad ogni rapporto in cui sia parte una pubblica amministrazione; dal punto di vista strutturale, l'Avvocatura dello Stato ha poteri analoghi a quelli di un difensore munito ex lege di tutte le procure necessarie per il compimento di atti processuali e non negoziali, anche se i loro effetti incidono sul diritto in contestazione (4). Peraltro, la giurisprudenza costante della Suprema Corte e del Consiglio di Stato non solo ha sempre sostenuto, con riferimento alle amministrazioni statali, che l'Avvocatura dello Stato, che ne ha per legge la rappresentanza, il patrocinio e l'assistenza, non abbisogna di alcun particolare atto di investitura (5) nemmeno laddove le norme processuali ordinarie richiedono il rilascio di procura speciale (6) ma ha enunciato il medesimo principio anche in relazione agli enti, diversi dallo Stato, patrocinati dall'Avvocatura dello Stato a norma dell'art. 43 r.d. 1611/1933, ribadendo l'irrilevanza di una particolare deliberazione dell'amministrazione che, se effettivamente adottata, integra un atto interno che non deve esteriorizzarsi mediante il conferimento di un formale mandato ad litem ed in ordine al quale il giudice deve esimersi da ogni indagine (7). Si è anzi affermato che una specifica deliberazione è necessaria qualora (3) cfr. Cons. di Stato 18 novembre 1994 n. 1654 e Cons. di Stato 2 marzo 1984 n. 125 nelle quali si afferma che non è improcedibile l'appello proposto dall'Avvocatura dello Stato nell'interesse dell'amministrazione in assenza di un'apposita deliberazione di quest'ultima poiché la difesa erariale gode di piena autonomia ed indipendenza nel decidere la condotta della causa, salvo il limite del divieto di assumere iniziative processuali che incidano su interessi politico-amministrativi; Cons. di Stato 5 febbraio 1980 n. 122 ove si afferma che la legittimazione dell'Avvocatura dello Stato a proporre appello nell'interesse dell'amministrazione, indipendentemente dal conferimento di apposita procura speciale, è assolutamente pacifica in giurisprudenza e non può essere negata per effetto della possibilità, prospettata dalla parte appellata, di una responsabilità dell'amministrazione per danni in conseguenza dell'eventuale accoglimento dell'appello. (4) cfr. CARBONE CARLO: jus postulandi e poteri sostanziali dell'Avvocatura dello Stato nel processo civile nota a Trib. Torino 21 novembre 1975 in Giustizia civile 1976, 2. (5) cfr. Cass. SS.UU. 7 dicembre 1992 n. 12966; Cons. di Stato 6 aprile 1979 n. 256; Cons. di Stato 24 ottobre 1978 n. 934. (6) Cons. di Stato 15 marzo 1977 n. 239; Cons. di Stato 11 febbraio 1977 n. 88; Cons. di Stato 3 febbraio 1976 n. 48. (7) Cass. SS.UU. 24 febbraio 1975 n. 700 in cui si sottolinea la non necessità di procura da far constare autonomamente rispetto all'atto di costituzione in giudizio atteso che la difesa in giudizio degli enti pubblici cui si riferisce l'art. 43 R.D. 1611/1933 non è rivolta a tutelare l'interesse specifico di tali enti, ma soltanto quello generale dello Stato a che i fini pubblici delegati ai medesimi vengano legittimamente ed opportunamente perseguiti mediante l'attribuzione della difesa in giudizio ad un organo chiamato a valutare gli interessi dello Stato considerato nella sua unità. Conforme è anche Cass. 14 gennaio 1985 n. 44. TEMI ISTITUZIONALI 25 tali enti intendano derogare alle regole dell'art. 43 r.d. 1611/ 1933 e affidare la propria difesa a liberi professionisti (8). L'irrilevanza esterna di un formale mandato è stata costantemente affermata addirittura con riguardo ad enti sottoposti a patrocinio facoltativo dell'Avvocatura dello Stato, quali ad esempio le regioni a statuto ordinario (9). L’Amministrazione statale parte civile: Come si è già detto, la sentenza in rassegna non ha precedenti specifici sul punto nella giurisprudenza di legittimità benché, da un lato, le sezioni penali della Suprema Corte si siano già pronunciate in senso contrario in materia assimilabile a quella in esame e, dall'altro, la giurisprudenza di merito - in processi tristemente noti alla cronaca giudiziaria - abbia preso posizione, sempre in senso opposto, su identica questione affrontata dalla Corte di Cassazione nella predetta sentenza. Quanto al primo ordine di precedenti, la Corte di Cassazione ha affermato la validità, nel processo penale, dell'impugnazione per gli interessi civili proposta con la sola dichiarazione sottoscritta dall'Avvocato dello Stato in quanto, a norma dell'art. 1 r.d. 1611/1933, gli Avvocati dello Stato non hanno bisogno di mandato neppure nei casi nei quali le norme ordinarie richiedono il mandato speciale, essendo sufficiente la dimostrazione della loro qualità (10). Altra massima dalla quale si deduce chiaramente l'intento di riconoscere all'Avvocatura dello Stato il potere di manifestare validamente la volontà della amministrazione di far valere gli interessi civili nel processo penale è stata pronunciata con riferimento ad altra parte processuale. La Corte di Cassazione ha infatti precisato che se il difensore del responsabile civile non è, in linea di principio, legittimato a proporre impugnazione, ove responsabile civile sia una amministrazione statale, il procuratore è abilitato a fare la dichiarazione di ricorso per cassazione a norma dell'art. 1 R.D. 1611/1933 sull'Avvocatura dello Stato, cui spetta, senza bisogno di mandato, la rappresentanza processuale delle Amministrazioni dello Stato (11). Quanto alla giurisprudenza di merito, il Tribunale di Brescia, sez. 1a Penale, con l'ordinanza del 7 febbraio 1995 emessa nel procedimento n. 653/ 94 R.G. a carico di A.G. + altri ha affermato il seguente principio: "Non vi è dubbio che, ai sensi del R.D. 30 ottobre 1933 n. 1611, il quale come norma speciale non può che prevalere rispetto alle norme generali anche se ad esso successive, all'Avvocatura dello Stato compete non solo, ex art. 1, 1° comma, la rappresentanza, il patrocinio l'assistenza in giudizio delle Amministrazioni Pubbliche ed equiparate, ma anche, ex 2° comma dello stesso articolo, il diritto di esercitare la sua funzione mezzo dei propri appartenenti senza necessità di mandato neppure nei casi nei quali questo ordinariamente è richiesto. Ne consegue che non sussiste nella specie quel difetto di legittimazione lamentato dalle difese. (8) cfr. Cons. di Stato 24 ottobre 1978 n. 934. (9) Cass. SS.UU. 3 febbraio 1986 n. 652; Cass. SS.UU. 15 marzo 1982 n. 1672 in cui la rilevanza meramente interna del conferimento del mandato viene ribadito anche per i casi in cui la legge prevede la necessità di una procura speciale. Conformi sono anche Cass. 12 maggio 1981 n. 3141 e Cass. 20 marzo 1980, n. 1879. Contra, da ultimo, Cass. SS.UU. 13 aprile 1994 n. 3465, in Foro it. 1996, I, 270, con nota di PASQUALE TROIANO: Avvocatura dello Stato e patrocinio delle regioni a statuto ordinario. (10) Cass. 7 aprile 1987 n. 4298. (11) Cass. 7 marzo 1988 n. 3109. 26 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 La situazione normativa non si è poi venuta a modificare, contrariamente alla tesi qui proposta, con il sopravvenire dell'articolo 1, 4° comma legge 3 gennaio 1991 n. 3, posto che l'autorizzazione di cui in essa si parla si riferisce solo ad un rapporto interno a fini puramente disciplinari ed ordinamentali senza pregiudicare quella legittimazione della quale si è ora detto, ed anzi in una qualche misura presupponendola”. Nel disconoscere ogni rilevanza esterna all’autorizzazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri ex art. 1 legge 3/1991 per mezzo della quale appunto l’amministrazione statale manifesta la sua volontà di costituirsi parte civile e di esercitare la pretesa risarcitoria o restitutoria nel processo penale, il Tribunale di Brescia ha confermato che, ai fini della regolarità formale del processo, la costituzione di parte civile è validamente effettuata dall'Avvocatura dello Stato senza necessità di alcun mandato (12). In modo ancor più specifico si è pronunciato sempre il Tribunale di Brescia, sez. 1a Penale, con l'ordinanza del 27 ottobre 1995 - e quindi successiva alla sentenza in rassegna dalla quale si è nettamente discostata - emessa nel procedimento n. 302/ 95 R.G. a carico di A.R. + altri nella quale ha precisato: "In ordine alla contestata legittimazione dell'Avvocatura dello Stato ad esprimere la volontà della singola Amministrazione a costituirsi parte civile, il Tribunale osserva che il R.D. 30 ottobre 1933 n. 1611 abilita l'Avvocatura non solo ad essere la rappresentante in giudizio dello Stato, ma anche ad essere l'organo attraverso il quale si manifesta la volontà dello Stato stesso di agire in giudizio, e non semplicemente di essere il nuncius di tale volontà da altri espressa". L'auspicio è pertanto nel senso che la Suprema Corte operi presto un ripensamento in merito all'isolata pronuncia - che non sembra aver tenuto conto della portata del più volte citato art. 1, 2° comma RD. 1611/1933 che esclude espressamente la necessità di procura speciale per gli Avvocati dello Stato - ma non in nome di quella che potrebbe apparire una ingiustificata prerogativa dello Stato, bensì alla luce delle suesposte considerazioni in ordine alla sostanziale immedesimazione tra l'amministrazione rappresentata e il suo difensore ex lege, anch'esso integrante una branca dell'Amministrazione statale e proprio in tale veste legittimato, nei rapporti esterni, ad esprimere la volontà dell'amministrazione nel processo come se fosse anche parte. WALLY FERRANTE Da: Luca Ventrella Inviato: venerdì 23 settembre 2016 20:08 A: Pisana Carlo Maria; Marco Meloni; Soldani Agnese; Giannuzzi Massimo; Avvocati_tutti; Greco Maurizio Oggetto: R: ius postulandi dell'Avvocatura come parte civile Condivido la linea Pisana/Giannuzzi/Greco che qui nella Generale abbiamo tradizionalmente sempre seguito, per le ragioni già diffusamente esposte dai (12) Sulla non sindacabilità da parte del giudice penale dell'esistenza e della regolarità dell'autorizzazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri ex art. 1 legge 3/1991 in quanto atto interno cfr. PIETRO PAVONE, op. cit., 34. TEMI ISTITUZIONALI 27 colleghi e che - ricordo - ci venne “ispirata” e suggerita da illustri colleghi più anziani ed esperti (tra gli altri, mi viene in mente il mai dimenticato Antonio Palatiello), cui certo non facevano difetto (tra le altre evidenti qualità) la saggezza e la “prudenza”. Personalmente, mi attengo alla “regola di prudenza” di portare sempre con me (quando - come quasi sempre accade - ne dispongo) originale e copia della nota autorizzativa della PCM, ma di esibirla soltanto su apposita eccezione delle controparti, sottolineandone oralmente (se del caso, a verbale) al Giudice e alle parti la natura di “atto meramente interno”, e rimarcando ogni volta la non obbligatorietà di tale esibizione (men che meno, produzione o deposito), derubricandola a mero atto di “cortesia processuale”, proprio per non avallare prassi illegittime e ingiuste che, ove mai si consolidassero, rischierebbero di pregiudicare gli interessi delle Amm.ni patrocinate (non certo dell’Avvocatura…) in quei casi (che pure talvolta si verificano) in cui ne fossimo sforniti (senza nostra “colpa”), pur in presenza della chiara volontà manifestata (magari all’ultimo momento) dall’Amministrazione interessata di costituirsi parte civile e (tante volte) dell’assoluta opportunità, se non necessità, di tale costituzione. Preciso che, nella mia (ormai più che ventennale) esperienza nei processi penali, regolandomi in tal modo, non si sono mai verificati inconvenienti e/o pregiudizi per le Amm.ni dovuti a mancata ammissione della parte civile per le ragioni in questione, essendo state tali (pretestuose ed infondate) eccezioni sistematicamente rigettate dai giudici romani. Luca Ventrella (Avvocatura Generale dello Stato) Da: Ferrara Antonio Inviato: sabato 24 settembre 2016 11:07 A: Greco Maurizio; Di Cave Marinella; Soldani Agnese; Pisana Carlo Maria; Giannuzzi Massimo; Zito Mario Cc: Avvocati_tutti Oggetto: Re: ius postulandi dell'Avvocatura come parte civile Cari Colleghi, visto che il dibattito si è animato desidero precisare meglio il mio pensiero sull’argomento. Quando a metà degli anni ’90 venne pubblicata la sentenza della Corte di Cassazione n. 6980 del 1995 (che fu magistralmente commentata sulla nostra Rassegna dalla Collega Ferrante) la relativa massima fu subito riportata in tutti i 28 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 codici commentati che giudici ed avvocati utilizzavano per l’udienza. Sulla base di tale massima veniva sistematicamente proposta opposizione alla nostra costituzione di parte civile (almeno nelle sedi in cui io operavo) con conseguenti interminabili discussioni. Avvertii allora il pericolo che qualche giudice, specie se monocratico, leggendo sul codice commentato la suddetta massima, potesse accogliere l’opposizione. Ritengo che tra le cose più imbarazzanti e in un certo senso mortificanti per un avvocato vi sia quella di vedersi respinta una costituzione di parte civile per motivi formali. Decisi allora, per spuntare l’arma che la Cassazione aveva fornito ai colleghi del libero foro, di produrre l’atto di autorizzazione e, per gli enti patrocinati, la relativa delibera. Sinceramente non capivo e non capisco quali siano le ragioni per cui l’autorizzazione non debba essere prodotta. Viviamo in tempi in cui la trasparenza della P.A. è un valore primario e credo che l’imputato che subisce una costituzione di parte civile abbia tutto il diritto di verificarne la regolarità. Quanto poi al pericolo che la validità dell’autorizzazione possa essere contestata o oggetto di impugnativa non mi è chiaro in quale sede, con quale modalità e soprattutto con quali possibilità di successo tale eventualità possa concretizzarsi. Per quanto concerne l’idea che possa essere effettuata la costituzione di parte civile in assenza di autorizzazione ritengo che tale modus operandi sia illegittimo e come tale assolutamente sconsigliabile. La decisione di costituirsi o meno parte civile implica anche delle valutazioni di opportunità, talvolta con risvolti anche politici, che la legge attribuisce ad altri organi. Non va inoltre trascurato il pericolo che deriva dall’attenzione mediatica che spesso attira i processi di cui ci occupiamo. Peraltro, la Presidenza del Consiglio è estremamente puntuale e rapida nel concedere e nel trasmettere l’autorizzazione. Comunque, la costituzione, se non viene fatta alla prima udienza preliminare, può essere sempre fatta in una eventuale udienza di rinvio o al dibattimento, con l’unica preclusione derivante dall’ammissione dell’imputato al rito abbreviato con inizio della discussione. Ma in questo caso può sempre argomentarsi che non è conveniente per la parte civile accettare il rito abbreviato, specie se condizionato. Antonio Ferrara (Avvocatura dello Stato di Reggio Calabria) TEMI ISTITUZIONALI 29 Da: Dorian De Feis [mailto:dorian.defeis@avvocaturastato.it] Inviato: lunedì 10 ottobre 2016 19:53 A: luca.ventrella@avvocaturastato.it; carlomaria.pisana@avvocaturastato.it Oggetto: I: processo Riva + altri Carissimi, come promesso, vi inoltro l'ordinanza con la quale la Corte di Assise di Taranto, all'udienza del 4 ottobre u.s., ha, tra le varie questioni esaminate, rigettato le eccezioni d'inammissibilità della nostra costituzione di parte civile nell'interesse del Ministero dell'Ambiente e del Ministero della Salute (cfr. pag. 28 e 29 dell'ordinanza). In particolare, in relazione alla eccepita violazione dell'art. 78, lett. a) e c), c.p.p., per mancata indicazione delle generalità dei Ministri pro tempore, la Corte ha affermato che "contrariamente a quanto dedotto, la provenienza dell'atto di costituzione dal Ministero dell'Ambiente e della Tutela del territorio e dal Ministero della Salute al cui "legale rappresentante pro tempore" (vale a dire al Ministro) va ascritta, senza necessità di indicazione nominativa, la rappresentanza organica, quale organo esponenziale della branca della P.A. interessata, si desume agevolmente dalla stessa costituzione della Avvocatura di Stato (cfr. Cass. civile, 5.6.2006, n. 13207)". Con riferimento alla eccezione inerente alla mancata indicazione della fonte della legittimazione processuale in capo all'Avvocatura dello Stato, la Corte, richiamandosi al consolidato orientamento giurisprudenziale in materia, ha affermato che "la costituzione di parte civile per mezzo dell'Avvocatura dello Stato, non richiede il conferimento di una procura da parte dell'Amministrazione rappresentata in giudizio, perché l'Avvocatura dello Stato deriva lo jus postulandi direttamente dalla legge, con l'ulteriore conseguenza che non è neppure onerata della produzione della documentazione attestante la volontà della stessa Amministrazione di procedere giudizialmente (Cass. 4.11.2009, n. 5447. In senso conforme: Cass. pen. n. 4060 del 2008, Cass. pen., Sez. V, 27 marzo 2009 n. 11441, Cass. pen. n. 4298 del 1986). La legge 3.1.1991, n. 3 che stabilisce al comma 4 dell'art. 1 che la costituzione di parte civile dello stato deve essere autorizzata dal presidente del Consiglio dei Ministri, afferisce esclusivamente allo Stato, come si capisce chiaramente dalla lettera della norma e dalla ratio della legge stessa". Dorian De Feis (Avvocatura dello Stato di Lecce) 30 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Da: Carlo Maria Pisana [mailto:carlomaria.pisana@avvocaturastato.it] Inviato: lunedì 17 ottobre 2016 09:57 A: avvocati_tutti@avvocaturastato.it Oggetto: ancora sullo ius postulandi dell'Avvocatura nel processo penale Cari Colleghi “interessati al penale”, faccio seguito allo scambio di opinioni e esperienze sul tema avviato qualche settimana fa, per inviare la recente ordinanza del Tribunale di Roma del 6-10- 16 relativa a un caso di corruzione, che respinge l’eccezione della difesa dell’imputato volta alla esclusione dell’Avvocatura costituitasi parte civile in ragione del difetto di indicazione del nome del rapp.te legale dell’amm.ne e di produzione dell’atto attestante la volontà di costituirsi di questa. L’ordinanza applica al caso particolare i principi affermati dalla Cassazione, di cui cita alcuni precedenti conosciuti che avevo evocato nella memoria e che peraltro diversi colleghi avevano richiamato nello scambio di email, sul tema parzialmente diverso della non necessarietà del mandato in capo all’avvocato dello Stato e della rilevanza meramente interna dell’autorizzazione della Pcm. Più che per ciò che dice, l’ordinanza è interessante per ciò che non dice: ossia non richiama e non segue la tesi panpenalistica sottesa alla pronuncia della Cassazione sull’Autorità portuale di Genova che vi avevo segnalato a suo tempo (Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 13/03/2014) 21-07-2014, n. 32237). Carlo Maria Pisana (Avvocatura Generale dello Stato) “Il Collegio, a scioglimento della riserva che precede sull'eccezione relativa alla costituzione di parte civile dell'Avvocatura dello Stato sollevata dalla difesa degli imputati all'udienza del 13 settembre 2016; dato atto del rapporto di immedesimazione organica esistente tra l'Avvocatura dello Stato e l'Amministrazione dell'Agenzia delle Entrate, agenzia pubblica con specifici compiti di accertamento e controllo fiscale e gestione dei tributi; che in particolare, discendendo tale rapporto direttamente dalla legge (art. 1 R.D. 1611 del 1933 e art. 9 legge 103 del 1979), all'avvocato dello Stato che eserciti il suo mandato non è richiesto l'esibizione di una procura dell'amministrazione che rappresenta, sufficiente essendo che "consti tale qualità", e ciò, tanto nel giudizio civile, quanto in quello penale, allorché le pretese civili della pubblica amministrazione siano esercitate in tale sede (cfr. Cass. Pen. Sez. 5, n. 11441 del 27/03/1999; Cass. Pen. Sez. 1, n. 4060 del 08/11/2007); che da ciò deriva, quale ulteriore corollario, l'inosservanza delle formalità relative alla costituzione di parte civile previste dal codice di rito, tra cui, in particolare, l'onere relativo alla allegazione della documentazione attestante la volontà della stessa amministrazione di procedere giudizialmente (cfr. Cass. Pen. Sez. 6 n. 5447 del 4.11.2009); preso atto che la presente costituzione di parte civile è volta ad ottenere il risarcimento del danno patrimoniale e morale derivante dall'accoglimento di ricorsi tributari che si assumono celebrati dietro la promessa o dazione di somme di denaro; TEMI ISTITUZIONALI 31 ritenuto sussistente la legittimazione alla costituzione di parte civile in capo all'Agenzia delle Entrate ed il rispetto delle condizioni di legge per la relativa costituzione con il ministero dell'Avvocatura dello Stato P.Q.M. rigetta le eccezioni difensive e dispone procedersi oltre. Della presente ordinanza viene data lettura in udienza. Roma, 6.10.2016 IL PRESIDENTE Maria Concetta Giannitti” CONTENZIOSO NAZIONALE Ne bis in idem ed illeciti finanziari: un’analisi alla luce di Corte Costituzionale 102/2016 e della nuova disciplina eurounitaria sul market abuse NOTA A CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 12 MAGGIO 2016 N. 102 Leonardo Lippolis* SOMMARIO: 1. Doppio binario sanzionatorio e bis in idem: primo responso della Corte costituzionale - 2. La sentenza n. 102/2016 - 3. L'origine della questione: bis in idem nazionale e bis in idem convenzionale - 4. Le soluzioni interpretative - 4.1. L'interpretazione convenzionalmente conforme dell'art. 649 c.p.p. - 4.1.1. (segue) L'interpretazione convenzionalmente conforme dell'art. 669 c.p.p. - 4.2. L'applicazione diretta dell'art. 50 CDFUE - 4.2.1. (segue) Bis in idem e effettività del diritto dell'Unione europea - 4.2.2. (segue) I ristretti confini applicativi dell'art. 50 CDFUE - 4.3. La diretta applicazione dell'art. 4 Prot. 7, CEDU - 5. La necessità di un intervento legislativo - 5.1. La nuova disciplina eurounitaria sul market abuse: i vincoli imposti dal regolamento 596/2014 (MAR) e dalla direttiva 2014/57/UE (MAD II) - 5.2. La legge-delega n. 114/2015. IN ALLEGATO: Le memorie illustrative per il Presidende del Consiglio dei Ministri (avv. Stato Mario Antonio Scino). 1. Doppio binario sanzionatorio e bis in idem: primo responso della Corte costituzionale. Con la sentenza n. 102 del 2016 (1) la Corte costituzionale fornisce una prima risposta sull'ardua questione della compatibilità dei sistemi punitivi a "doppio binario" - amministrativo e penale - con il principio del ne bis in idem convenzionale (art. 4 del Protocollo n. 7, CEDU), così come interpretato dalla (*) Dottore in Giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. (1) Corte cost., 08.03.2016 (dep. 12.05.2016), n. 102, in www.cortecostituzionale.it. 34 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Corte Europea dei diritti dell'uomo. Con due distinte ordinanze interlocutorie, la quinta Sezione penale e la Sezione tributaria della Cassazione avevano - quasi contemporaneamente - sollevato dubbi sulla costituzionalità della vigente disciplina sanzionatoria in materia di abusi di mercato allestita dal testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, di seguito TUF). La Consulta, con responso per vero non sorprendente, ha dichiarato inammissibili entrambe le questioni rimesse: si è ancora lontani da una "rivoluzione" dei sistemi sanzionatori a doppio binario nel nostro ordinamento (2). Tuttavia il giudice delle leggi non è sordo ai dicta provenienti da Strasburgo a seguito della nota vicenda Grande Stevens. La pronuncia ha il merito di segnalare a chiare lettere che l'intero sistema italiano di repressione degli abusi di mercato, improntato su un doppio livello di tutela penale e amministrativo, frustra, inevitabilmente, il diritto fondamentale a non essere giudicati due volte per la stessa condotta illecita, pur se diversamente qualificata (3). Tale conferma esplicita rappresenta un chiaro monito per il legislatore in attesa dell'esercizio della delega conferita con L. 114/2015 - scaduta il 3 luglio 2016 - per la riforma della disciplina degli illeciti finanziari. Resta, comunque, un fronte scoperto: in attesa dell'intervento governativo quali soluzioni ermeneutiche dovrà adottare il giudice nazionale per impedire che venga perpetrata la violazione dell'art. 4, Prot. 7 CEDU? Il presente lavoro, principiando da una ricognizione della sentenza citata, mira a fornire una risposta a tale interrogativo, offrendo una panoramica delle strade percorse sino ad oggi dalla giurisprudenza e dalla dottrina impegnata in materia. Si focalizzerà poi l'attenzione sulle profonde innovazioni apportate, nel campo del market abuse, dalla direttiva 16 aprile 2014, n. 2014/57/UE (c.d. MAD II) e dal regolamento 16 aprile 2014, n. 596/2014 (c.d. MAR), dando conto, da ultimo, dei criteri-guida fissati dal legislatore per il recepimento della normativa eurounitaria. (2) Anche per la materia degli illeciti tributari, Corte cost., ord. 8 marzo 2015 (dep. 20 maggio 2016), n. 112, in www.cortecostituzionale.it., ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale, sollevata da Trib. Bologna, ord. 21 aprile 2015, dell’art. 649 c.p.p., "in relazione all’art. 10-ter d.lgs. n. 74/2000, nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui all’imputato sia già stata applicata, per il medesimo fatto nell’ambito di un procedimento amministrativo, una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale" ai sensi della Convenzione europea dei Diritto dell'Uomo. La Corte ha demandato al rimettente la valutazione delle complesse ricadute nel giudizio a quo, a seguito della riforma operata con d.lgs. n. 158/2015, "che ha profondamente innovato da un punto di vista sistematico il rapporto tra gli illeciti penali e amministrativi in questione". Per un primo commento alla pronuncia v. CORSO, Sistema sanzionatorio: la rivoluzione può attendere, in Ipsoa Quotidiano on line. (3) v. § 6.1. della motivazione. CONTENZIOSO NAZIONALE 35 2. La sentenza n. 102/2016. Come è noto, sino al 2005 le figure dell'abuso di informazioni privilegiate (insider trading) e della manipolazione del mercato (market manipulation) erano sanzionate esclusivamente in sede penale come delitti (artt. 184 e 185 TUF). Successivamente, con la legge n. 62 del 2005 (c.d. legge comunitaria del 2004), attuativa della direttiva n. 2003/6/CE (c.d. Market Abuse Directive, di seguito MAD I), alle figure di reato sono stati affiancati, per le medesime condotte, due paralleli illeciti amministrativi (previsti, rispettivamente, dagli artt. 187-bis e 187-ter del novellato TUF). In deroga al principio di specialità che, in termini generali, governa il rapporto tra sanzione amministrativa e sanzione penale (art. 9, L. 689/81), il Legislatore, nella materia interessata, ha previsto "clausole di cumulo" dei due tipi di sanzioni, come risulta dall'incipit degli artt. 187 bis e 187 ter TUF: "salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato". Lo sdoppiamento degli illeciti finanziari è stato accompagnato, sotto il profilo procedimentale, da un duplice binario, che si svolge, rispettivamente, davanti all'Autorità Giudiziaria penale e davanti alla Commissione Nazionale per la Società e la Borsa (CONSOB) (4), restando peraltro distinti e autonomi gli effetti discendenti dai due procedimenti (art. 187 duodecies, TUF). Per altro verso, un parziale "collegamento" tra questi si ravvisa in sede di esecuzione della pena pecuniaria, ove l'art. 187-terdecies TUF prevede un meccanismo compensativo di esazione della stessa limitato alla parte eccedente quella già riscossa (5). Tale sistema punitivo è stato messo al bando dalla Corte EDU, con la notissima pronuncia del 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia (6), nella misura in cui la duplicazione di illeciti, e quindi di sanzioni, per lo stesso fatto storico (4) Sui profili procedimentali relativi all'esercizio del potere sanzionatorio della Consob v. W.T. MANGONI, Il potere sanzionatorio della Consob, Giuffrè, 2012, 119 ss. (5) Per una disamina della disciplina v. E. AMBROSETTI, E. MEZZETTI M. RONCO, Diritto penale dell'impresa, Zanichelli, 2012, 236 ss. (6) Corte eur. dir. uomo, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia, divenuta definitiva il 7 luglio 2014 a seguito del rigetto dell'istanza del Governo italino di rinvio alla Grande Camera, in www.echr.coe.int. Per i primi commenti alla sentenza Grande Stevens, vedasi, ex multis, M. ALLENA, Il caso Grande Stevens c. Italia: le sanzioni Consob alla prova dei principi Cedu, in Giorn. dir. amm., 2014, 1053 ss.; F. D’ALESSANDRO, Tutela dei mercati finanziari e rispetto dei diritti umani fondamentali, in DPP 2014, 614 ss.; G. DEAMICIS, Ne bis in idem e "doppio binario sanzionatorio": prime riflessioni sugli effetti della sentenza "Grande Stevens" nell'ordinamento italiano. Atti dell'incotro di studio: Il principio del ne bis in idem tra giurisprudenza europea e diritto interno, Aula Magna della Cassazione, in www.cortedicassazione.it, 23 giugno 2014; G.M. FLICK, V. NAPOLEONI, Cumulo tra sanzioni penali e amministrative: doppio binario o binario morto? “Materia penale”, giusto processo e ne bis in idem nella sentenza della Corte EDU, 4 marzo 2014, sul market abuse, in Rivista AIC, 3/2014; A.F. TRIPODI, Uno più uno (a Strasburgo) fa due. L'Italia condannata per violazione del ne bis in idem in tema di manipolazione del mercato, in www.penalecontemporaneo.it, 9 marzo 2014; V. ZAGREBELSKY, Le sanzioni Consob, l’equo processo e il ne bis in idem nella Cedu, in Giur. it., 2014, 1196 ss. 36 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 (bis in idem sostanziale), è esplicitamente preordinata a perseguire o giudicare una persona per una seconda volta, nonostante la definitività del primo giudizio (bis in idem processuale). Il perno della censura è la qualificazione della procedura amministrativa di fronte alla CONSOB, e delle rispettive sanzioni, come sostanzialmente penali, a prescindere dalla loro qualificazione formale. Da ciò discende l'attrazione di tutte le garanzie convenzionali apprestate dalla CEDU per il sistema penale, tra cui il diritto ad un equo processo (art. 6 CEDU, ritenuto parimenti violato nel caso di specie (7)), e, appunto, il divieto di essere sottoposto ad un secondo giudizio per uno stesso fatto già giudicato in via definitiva (art. 4 Prot. n. 7, CEDU). In considerazione del riscontrato vulnus al principio del ne bis in idem (processuale) sono state prospettate due distinte questioni di costituzionalità. Con una prima ordinanza (8), la quinta Sezione penale della Cassazione, sollevava, in via principale, il dubbio sulla compatibilità dell'art. 187-bis co. 1 TUF con l'art. 117 co. 1 Cost., in relazione all'art. 4 Prot. 7 CEDU così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU, nella parte in cui prevede «Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato» anziché «Salvo che il fatto costituisca reato». Il caso sottoposto allo scrutinio del giudice di legittimità concerneva un fatto sostanzialmente assimilabile a quello giudicato dalla Corte EDU nel caso Grande Stevens: nonostante l'imputato, per un unica condotta di insider trading, fosse stato già punito in via definitiva, ai sensi dell'art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998, con una sanzione amministrativa particolarmente gravosa, si procedeva nuovamente, nei suoi confronti, per il reato previsto dall'art. 184, lettera b), del d.lgs. n. 58 del 1998. Ciò, secondo il rimettente, stava avvenendo in violazione dell'art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, il quale imporrebbe di arrestare immediatamente il corso di questo secondo processo. La Cassazione, in via principale, sottoponeva la questione di legittimità costituzionale della clausola di cumulo in apertura della figura di abuso di mercato (art. 187-ter TUF), invocando una pronuncia manipolativa che sostituisse quest'ultima con una clausola di sussidiarietà, tale da far recedere l'ap- (7) In senso critico sulla validità del rimedio costituito dal riesame postumo dell’autorità giudiziaria quale “compensazione” delle garanzie violate nel corso del procedimento sanzionatorio Consob v. M. ALLENA, Il caso Grande Stevens c. Italia: le sanzioni Consob alla prova dei principi Cedu, cit., 1063. Sulle ricadute della Grande Stevens con riferimento alla violazione delle garanzie del giusto processo da assicurare nel procedimento sanzionatorio della Consob, v. Cons. Stato, 3 febbraio 2015 (dep. 26 marzo 2015), n. 1596, in www.giustizia-amministrativa.it. (8) Cass. pen., Sez. V, ord. 10 novembre 2014 (dep. 15 gennaio 2015), n. 1782. Per un commento all'ordinanza v. S. RICCIO, Ne bis in idem e market abuse: quali prospettive (aspettando la Consulta), in Proc. pen. giust. 2015 (4), 185 ss.; M. SCOLETTA, Il doppio binario sanzionatorio del market abuse al cospetto della Corte costituzionale per violazione del diritto fondamentale al ne bis in idem, in www.penalecontemporaneo.it, 17 novembre 2014. CONTENZIOSO NAZIONALE 37 plicabilità della sanzione amministrativa allorché il medesimo fatto costituisse anche un illecito penale (ovvero, l'art. 184 TUF). Tale intervento, ridisegnando il rapporto tra sanzione amministrativa e sanzione penale nei termini di un concorso apparente di norme, avrebbe fornito, secondo il giudice rimettente, una soluzione "di sistema" al problema, precludendo violazioni sistematiche del ne bis in idem processuale, tramite l'eliminazione, in radice, delle ipotesi di bis in idem sostanziale. In questo modo si sarebbe dato inoltre attuazione alla direttiva 16 aprile 2014, n. 2014/57/UE (c.d. MAD II) e al regolamento 16 aprile 2014, n. 596/2014 (c.d. MAR) che, innovando profondamente il settore degli abusi di mercato, hanno capovolto i rapporti tra sanzioni penali e amministrative, imponendo agli Stati membri di adottare pene criminali per i casi più gravi di abuso di mercato, commessi con dolo, e permettendo loro di affiancare misure punitive amministrative. La questione sollevata, come già preconizzato da più voci in dottrina (9), è stata ritenuta inammissibile per difetto di rilevanza nel giudizio a quo. Essa concerneva una disposizione, l'art. 187-bis TUF, del quale la Cassazione non doveva fare impiego nel giudizio a quo, in quanto già definitivamente applicata dall'autorità amministrativa nel relativo procedimento. La Corte rimettente era piuttosto chiamata a giudicare con riferimento al corrispondente reato di cui all'art. 184, comma 1, lettera b), TUF. In altri termini, l'accoglimento della questione non avrebbe minimamente intaccato l'esito del giudizio principale: l'imputato sarebbe restato giudicabile per il contestato reato di abuso di informazioni privilegiate. Di conseguenza, si sarebbe prodotto proprio il risultato che il ne bis in idem mira a scongiurare: ossia un secondo processo (e, in ipotesi, una seconda condanna), nei confronti di un soggetto già giudicato (e, nel caso di specie, condannato) per lo stesso fatto (10). (9) C. FEDERICO, Doppio binario sanzionatorio e ne bis in idem: la parola alla Corte costituzionale, in www.archiviopenale.it; G.M. FLICK e V. NAPOLEONI, A un anno di distanza dall’affaire Grande Stevens: dal bis in idem all’e pluribus unum?, in Riv. AIC, 3/2015; F. VIGANÒ, Ne bis in idem e contrasto agli abusi di mercato: una sfida per il legislatore e i giudici italiani, in www.penalecontemporaneo.it, 8 febbraio 2016; M. SCOLETTA, Il doppio binario sanzionatorio del market abuse al cospetto della Corte costituzionale per violazione del diritto fondamentale al ne bis in idem, cit. (10) Non a caso, in una situazione analoga, ancorché riferita al settore tributario, il Tribunale di Bologna con la pronuncia del 21 aprile 2015, ha impugnato esclusivamente l’art. 649 c.p.p. e non anche gli artt. 20 e 21 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, pure sospettati di incostituzionalità, posto che, questi ultimi, postulano la prosecuzione del procedimento amministrativo di accertamento o del processo tributario, culminanti nell’applicazione di una sanzione amministrativa avente carattere afflitivo-punitivo, nonostante l’avvenuta definizione del processo penale per lo stesso fatto. E ciò per la condivisibile considerazione che tale seconda questione risulterebbe irrilevante nel giudizio a quo, posto che le norme citate concernono la sanzione amministrativa secondo la qualificazione interna, mentre detto giudizio verte sulla fattispecie di reato di cui all’art. 10-ter d.lgs. 74/2000. Per un commento alla pronuncia v. M. CAIANIELLO, Ne bis in idem e illeciti tributari per omesso versamento dell’IVA: il rinvio della questione alla Corte costituzionale, in www.penalecontemporaneo.it. 38 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Inconferente, sul punto, è risultato il richiamo, da parte del giudice a quo, all'art. 187-terdecies TUF. Il rimettente muoveva dall'assunto di un'interpretazione convenzionalmente conforme dell'art. 30, comma 4, L. 87/53 (Norme sulla Costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) (11), tale da estenderne il perimetro applicativo anche al caso della condanna ad una sanzione "formalmente" amministrativa ma sostanzialmente penale. Di conseguenza, l'eliminazione della base legale della sanzione amministrativa ex art. 187-bis TUF, avrebbe determinato, per il tramite dell'art. 30, comma 4, L. 87/53, l'esazione in toto della multa in sede penale, e ciò in forza del "collegamento" tra i due procedimenti ex art. 187-terdecies TUF, che, come già visto, ne limita la riscossione alla parte eccedente quella già riscossa. Al di là della plausibilità di una simile interpretazione, non era pertinente il richiamo all'art. 187-terdecies: trattasi, invero, di norma che rileva solo nella sola fase di esecuzione e non in quella di cognizione, in cui è stata sollevata la questione. In via subordinata, la quinta Sezione penale della Cassazione sollevava questione di costituzionalità dell'art. 649 c.p.p. «nella parte in cui non prevede l'applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui l'imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto, nell'ambito di un procedimento amministrativo per l'applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali e dei relativi Protocolli». Anche tale questione risultava inammissibile. Lo stesso giudice rimettente era ben consapevole degli effetti deflagranti che un simile intervento manipolativo, se accolto, avrebbe comportato nel sistema punitivo italiano. L'ordinanza interlocutoria evidenziava come l'applicazione dell'art. 649 c.p.p., nella formulazione proposta, non avrebbe posto alcun ordine di priorità tra i due procedimenti - penale e amministrativo - in corso. Di conseguenza, la preclusione al secondo procedimento sarebbe scattata in presenza di una circostanza del tutto aleatoria e, in qualche misura, "pilotabile" dal ricorrente: la celerità nella definizione di uno dei due procedimenti (12). (11) Appare opportuno riportare il testo dell'art. 30, comma 4, L. 87/53: "Quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali". (12) Se è vero, infatti, che i casi statisticamente più frequenti di "azzeramento" del procedimento dovrebbero in teoria riguardare il giudizio penale, la cui celebrazione necessita di un tempo usualmente più lungo rispetto a quello amministrativo, l'esperienza della Consob annovera anche casi di imputati che hanno preferito chiudere il procedimento penale mediante il ricorso al patteggiamento (art. 444 c.p.p.), determinando così l'esaurimento della vicenda penale mentre il giudizio civile sull'opposizione alla sanzione amministrativa irrogata dalla Consob era ancora pendente. In sede di opposizione, essi hanno poi invocato il divieto di bis in idem di cui all'art. 4, Prot. 7 CEDU. Tale è la situazione che ha CONTENZIOSO NAZIONALE 39 Tale operazione, per usare le parole della Corte rimettente, essa avrebbe rappresentato, non più il rimedio ad una "distorsione dell'attività giurisdizionale", ossia ad un evento "patologico" nel quadro della disciplina del codice di rito, ma lo "sbocco necessario" della ineludibile insaturazione, per il medesimo fatto, del procedimento penale da parte del pubblico ministero e del procedimento amministrativo da parte della Consob (13). In altri termini, la manipolativa invocata, operando sul piano processuale anziché sostanziale, avrebbe costituito un rimedio alla violazione del bis in idem nei singoli casi concreti, ma non in via generale, come nella prospettiva tracciata dalla questione principale. Pertanto, l'incertezza del tipo di risposta sanzionatoria che l'ordinamento ricollega ad un certo comportamento, avrebbe mostrato punti di frizione con plurimi principi costituzionali - determinatezza e legalità della sanzione penale (art. 25 Cost.); ragionevolezza (art. 3 Cost.), sul piano della disparità di trattamento dei singoli destinatari delle sanzioni; buon andamento (art. 97 Cost.), sul piano della gestione delle risorse - ma, soprattutto, avrebbe pregiudicato sensibilmente l'effettività, la proporzionalità e la dissuasività del sistema punitivo, in violazione degli obblighi imposti dalla normativa comunitaria di settore, come esplicitato dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea nel caso Fransson (14), in violazione, quindi, degli artt. 11 e 117 Cost. Tuttavia, secondo il rimettente, tale "incongruenza sistematica" avrebbe dovuto soccombere di fronte al prioritario rispetto di un diritto fondamentale, quale è quello a non essere giudicati due volte per lo stesso fatto illecito. Sotto questo aspetto la Corte costituzionale coglieva il carattere perplesso della motivazione sulla non manifesta infondatezza della questione subordinata, che ne segnava l'inammissibilità. La stessa sorte ha seguito la questione di costituzionalità sollevata, quasi in contemporanea, dalla Sezione tributaria della Cassazione, con riferimento all'art. 187-ter TUF (15). Il caso esaminato era speculare a quello trattato dal giudice penale: il processo penale per il medesimo fatto di manipolazione del mercato, oggetto del procedimento sanzionatorio amministrativo (artt. 185 e 187-ter TUF), era stato preventivamente definito con sentenza irrevocabile di patteggiamento. dato luogo alla seconda ordinanza di rimessione da parte della Sezione tributaria della Cassazione, come si vedrà a breve. (13) Cass. pen., Sez. V, ord. 10 novembre 2014, cit., § 5.2. (14) Corte Giust., 26 febbraio 2013, Åklagaren contro Hans Åkerberg Fransson, causa C-617/10, § 36, in curia.europa.eu. (15) Cass., Sez. trib., ord. 6 novembre 2014 (dep. 21 gennaio 2015), n. 950. Per un commento all'ordinanza v. S. GUIZZI, Hic Rhodus, hic salta: l’incidenza del principio del ne bis in idem sulla disciplina del market abuse all’esame del giudice delle leggi, in Corr. Giur. 2015, 597 ss.; A. PALASCIANO, Rinviata alla Corte costituzionale l’applicazione di sanzioni penali e amministrative per lo stesso fatto, in Fisco 2015, 881 ss. 40 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Sin da subito si era colta l'incertezza e l'oscurità del petitum avanzato dal rimettente (16): se da un lato si esponevano le ragioni del contrasto ravvisato tra la normativa nazionale e la CEDU, dall'altro l’individuazione degli esatti contenuti della pronunzia veniva espressamente demandata alla Corte costituzionale (17). Al lume di una tale motivazione dalle cadenze non trasparenti, non poteva che discenderne la manifesta inammissibilità anche di tale questione. In definitiva, la Corte ha ritenuto non percorribile la via della questione di costituzionalità per giungere ad una armonizzazione dell’ordinamento interno al principio dettato dalla Corte EDU rinviando al legislatore il compito di stabilire le soluzioni che debbano adottarsi per porre rimedio alle frizioni che tale sistema genera tra l’ordinamento nazionale e la CEDU. 3. L'origine della questione: bis in idem nazionale e bis in idem convenzionale. Ai fini di una maggiore chiarezza espositiva occorre preliminarmente ripercorrere i termini del dibattito. La questione affonda le radici nella divergenza di interpretazioni tra la giurisprudenza nazionale e quella della Corte EDU sulla portata del principio del ne bis in idem nella sua dimensione "interna" (18), nonostante l'omogeneità di contenuti tra l'art. 649 c.p.p. e l'art. 4 Prot. 7 CEDU, che esprimono una regola considerata corollario del due process of law (19). Due sono gli aspetti su cui le valutazioni dei due ordinamenti divergono sensibilmente: i) la nozione di sanzione penale (la "pena"); ii) l'"identità del fatto" (l'"idem"). Quanto al primo, la nozione di “pena” elaborata dalla Corte EDU è significativamente più ampia rispetto a quella conosciuta dall’ordinamento nazionale, atteso che mentre quest’ultimo utilizza essenzialmente un criterio di qualificazione prevalentemente giuridico-formale (art. 25 Cost., art. 1 c.p.), in ambito europeo rilevano soprattutto criteri di carattere sostanziale e funzionale (20). (16) S.G. GUIZZI, Hic Rhodus, hic salta: l’incidenza del principio del ne bis in idem sulla disciplina del market abuse all’esame del giudice delle leggi, cit., p. 601. (17) Come osservato da G.M. FLICK - V. NAPOLEONI, A un anno di distanza dall'affaire Grande Stevens: dal bis in idem all'e pluribus unum?, cit., 12, le richieste del Collegio rimettente sembravano oscillare tra una “ablativa secca” dell'art. 187-ter TUF e una non meglio precisata pronuncia additiva ispirata al "principio del doppio binario attenuato", senza indicare in modo chiaro e univoco quale sarebbe stata la soluzione alternativa auspicata. (18) M. CHIAVARIO, Diritto processuale penale, Utet, 2012, p. 696. (19) R. NORMANDO, Il giudicato; forza esecutiva ed effetti, in SPANGHER - MARANDOLA - GARUTI - KALB, Procedura penale. Teoria e pratica del processo, Vol. IV, Utet, 2015, 541. (20) Sulla nozione di "pena" elaborata dalla Corte di Strasburgo v. F. MAZZACUVA, La materia penale e il "doppio binario" della Corte europea: le garanzie al di là delle apparenze, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 1899 ss. CONTENZIOSO NAZIONALE 41 Come ribadito nel caso Grande Stevens (§ 94 e ss.), sin dalle storiche sentenze Engel c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976, e Öztürk c. Germania, 21 febbraio 1984, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in risposta a processi di decriminalizzazione (21) da parte di alcuni Stati contraenti, è univocamente orientata ad estendere le garanzie convenzionali apprestate nella materia penale a tutti gli illeciti che, pur diversamente qualificati dai legislatori nazionali, risultino rivestire natura “sostanzialmente penale”. Ciò sulla base di tre criteri (c.d. Engel criteria) da considerarsi alternativi e non cumulativi: i) la qualificazione giuridico-formale dell’infrazione nel diritto interno; ii) la natura della violazione; iii) la natura o il grado di severità della sanzione. Pertanto, la qualificazione formale della misura rileva solo in chiave "unidirezionale" (one way autonomy (22)): una volta che il legislatore nazionale ha definito una certa violazione come di natura penale, l'applicabilità dei principi indicati è fuori discussione. Tale criterio non opera nell'ipotesi reciproca, cioè quando la sanzione è qualificata come amministrativa o disciplinare. In tal caso, onde scongiurare una "truffa delle etichette" da parte degli ordinamenti nazionali, soccorrono gli ulteriori due criteri, di carattere sostanzialistico. In particolare, occorre verificare la natura della violazione, desunta dal suo ambito applicativo - generale, e non limitato agli appartenenti ad un determinato ordinamento, trattandosi altrimenti di una violazione disciplinare -, e dallo scopo - di tipo punitivo e deterrente, e non meramente riparatorio o risarcitorio (23) - per il quale la sanzione è prevista. Dall'altro lato, occorre aver riguardo alla natura e alla gravità delle conseguenze sanzionatorie previste per l'illecito (24). La Corte EDU si è riservata la possibilità di adottare un approccio cumulativo qualora l’analisi separata di ciascun criterio non le consenta di pervenire ad una conclusione chiara quanto all’esistenza di una accusa in materia penale (25). L'applicazione di tali criteri ha avuto effetti dirompenti nell'ordinamento (21) L'espressione è utilizzata da F. MANTOVANI, Diritto penale, Cedam, 2011, § 255. Come puntualizzato dall'A., appare più esatto parlare di "decriminalizzazione" anziché di "depenalizzazione" poiché la sanzione amministrativa é pur sempre un pena; anche se quest'ultimo termine improprio é ormai di uso comune. (22) P. VAN DUK, GJH VAN HOOF, A. VAN RIJN, L. ZWAAK, Theory and practice of the European Convenzion on Human Rights, 2006, Antwerpen-Oxford, 543. (23) Cfr. Corte eur. dir. uomo, 1 febbraio 2005, Ziliberberg v. Moldova, § 32, in www.echr.coe.int. (24) Cfr. Corte eur. dir. uomo, 11 giugno 2009, Dubus S.A.v. c. France, § 37, in www.echr.coe.int. Con specifico riguardo alle sanzioni pecuniarie, la severità è legata alla significatività del sacrificio economico, valutato però avendo riguardo alle condizioni soggettive del destinatario: così, anche una sanzione di pochi euro è stata considerata di natura penale sull’assunto che il suo ammontare fosse comunque significativo rispetto al reddito del destinatario. Sul punto cfr. Corte eur. dir. uomo, Ziliberberg v. Moldova, cit., § 3, in www.echr.coe.int. (25) Cfr. Corte eur. dir. uomo, 23 novembre 2006, Jussila c. Finlandia, §§ 30 e 31; 31 luglio 2007, Zaicevs c. Lettonia, § 31, entrambe in www.echr.coe.int. 42 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 nazionale portando, negli anni, all'attrazione delle sanzioni amministrative stricto sensu punitive (26) - e dei relativi procedimenti - nell'orbita della "materia penale" convenzionale: tanto quelle di tipo pecuniario, secondo l'archetipo apprestato dalla L. n. 689/1981 (27), quanto quelle di tipo non pecuniario (28), quali interdizioni (29) e confische (30). Sotto altro profilo, le valutazioni dei due "ordinamenti" si discostano sulla valutazione dell' "identità del fatto" in grado di configurare un bis in idem. Da un parte, viene in evidenza l'approccio formalistico accolto dalla dottrina (31) e giurisprudenza tradizionale (32), focalizzato sul raffronto tra le fattispecie astratte (idem legale) (33). Dall'altra, si contrappone la giurisprudenza della Corte EDU ove, a partire dal leading case Zolotukhine c. Russia (26) Per l'elaborazione del concetto di sanzione amministrativa "in senso stretto" si rinvia a G. ZANOBINI, Le sanzioni amministrative, Utet, 1924, 38; A. TESAURO, Le sanzioni amministrative punitive, Tipografia Tocco, 1925; M.A. SANDULLI, La potestà sanzionatoria della pubblica amministrazione (Studi preliminari), Jovene, 1981, 3; C.E. PALIERO, A.TRAVI, voce Sanzioni amministrative, in Enc. dir., XLI, Giuffrè, 1989, 351. (27) Cfr. Corte eur. dir. uomo, 9 novembre 1999, Varuzza c. Italia; 21 marzo 2006, Valico srl c. Italia, entrambe in www.echr.coe.int. Per le sanzioni pecuniarie irrogate dall'AGCM, cfr. Corte. eur. dir. uomo, 27 settembre 2011, Menarini c. Italia, in www.echr.coe.int. (28) Sull'influenza dei principi convenzionali circa l'inquadramento del regime giuridico applicabile alle sanzioni amministrative non pecuniarie v. M.A. SANDULLI - A. LEONI, Sanzioni non pecuniarie della p.a., Libro dell'anno del diritto 2015, 2015, in www.treccani.it. (29) Per un esempio, si vedano le sentenze nn. 148 e 3045 e le ordinanze nn. 3496, 3497, 3498 e 3499 del 2014, in www.giustizia-amministrativa.it, con le quali il Consiglio di Stato ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 43, d.lgs. 3 marzo 2011, n. 28, che disciplina un sistema sanzionatorio di tipo inderdittivo in materia di tariffe incentivanti. Nelle richiamate ordinanze il Collegio, premessa la natura prevalentemente punitivo-afflittiva delle misure in discorso, ha paventato un contrasto tra la suddetta disciplina e l'art. 25, comma 2, Cost., sotto la violazione del principio di irretroattività delle pene, nonché la violazione del principio di proporzionalità, di matrice eurounitaria e quale proiezione del principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. A rafforzamento di tali rilievi, sono stati richiamati, significativamente, gli artt. 6 e 7 CEDU. (30) Ne è segno il vivace dibattito in merito all'applicabilità della c.d. urbanistica (art. 44, comma 2, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380) in riferimento al reato prescritto, culminato nella nota sentenza della Corte costituzionale, 26 marzo 2015, n. 49. Per un commento, v. A. RUGGERI, Fissati nuovi paletti dalla Consulta a riguardo del rilievo della CEDU in ambito interno, 2 aprile 2015, in www.penalecontemporaneo.it.; D. TEGA, La sentenza della Corte costituzionale n. 49 del 2015 sulla confisca: il predominio assiologico della Costituzione sulla Cedu, in Quaderni Costituzionali, 2015, 400 ss.; V. ZAGREBELSKY, Corte cost. n. 49 del 2015, giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, art. 117 Cost., obblighi derivanti dalla ratifica della Convenzione, in Riv. AIC, 2015. (31) Per tutti v. G. MARINUCCI - E. DOLCINI, Manuale di diritto penale - parte generale, Giuffrè, 2015, 486 ss. (32) Come ribadito di recente da Cass. pen , Sez. II, 52645/2014, “la preclusione prevista dall’art. 649 cod. proc. pen. opera nella sola ipotesi in cui vi sia, nelle imputazioni formulate nei due diversi processi a carico della stessa persona, corrispondenza biunivoca fra gli elementi costitutivi dei reati descritti nelle rispettive contestazioni”. Lo stesso principio è stato ribadito anche in relazione agli illeciti amministrativi, cfr. Cons. St., Sez. VI, n. 9306/2010. (33) Per un’analisi, sul piano processual-penalistico dell’interpretazione data dalla giurisprudenza italiana alla nozione di fatto, v. N. GALANTINI, Il ‘fatto’ nella prospettiva del divieto di secondo giudizio, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, 1206 ss. CONTENZIOSO NAZIONALE 43 del 2009 (34), ripreso in Grande Stevens (§ 220 e ss.), si affermò con nettezza che l’espressione "same offence", utilizzata nel testo dell'art. 4, Prot. n. 7, dovesse riferirsi al medesimo fatto storico contestato, a prescindere dalla sua sussumibilità in paradigmi punitivi diversi (idem factum). Una tale accezione si rivela funzionale ad attribuire la massima espansione alla garanzia convenzionale, in questa ottica preordinata ad evitare un secondo processo per gli stessi fatti anziché per gli stessi reati (35). Significative, anche qui, le ricadute in ambito nazionale, come mostrano gli ultimi interventi della giurisprudenza di merito. Si fa riferimento al noto caso Eternit-bis, ove il GUP di Torino, chiamato ad emettere decreto di rinvio a giudizio, ha sollevato una questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p., nella parte in cui limita l’applicazione del principio del ne bis in idem all’esistenza del medesimo "fatto giuridico", nei suoi elementi costitutivi, sebbene diversamente qualificato, invece che all’esistenza del medesimo "fatto storico" così come delineato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, per violazione dell’art. 117 c. 1 Cost. in relazione all’art. 4 Prot. 7 CEDU (36). In definitiva il bis in idem convenzionale mostra un respiro più ampio di quello nazionale: da una parte valica i limiti del diritto penale "in senso stretto", abbracciando il diritto punitivo inteso nella sua unitarietà (37) - comprensivo del c.d. diritto penale-amministrativo (38) -, dall'altra trova fondamento in un'istanza di giustizia materiale, secondo cui non si può essere (34) C. eur. dir. uomo, Grande Camera, 10 febbraio 2009, Sergey Zolotukhine c. Russia, §§ 70- 84. In senso conforme, tra le più recenti, cfr. Corte eur. dir. uomo, 23 giugno 2015, Butnaru et Bejan- Piser c. Romania; 30 aprile 2015, Kapetanios e altri c. Grecia; 27 gennaio 2015, Rinas c. Finlandia; 27 novembre 2014, Lucky Dev c. Svezia, tutte in www.echr.coe.int. Del resto, che la garanzia del ne bis in idem debba fondarsi su un confronto tra fatti materiali è confermato anche dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea: di recente v. CGUE, Grande Sezione, 16 novembre 2010, Gaetano Mantello, C- 261/09, § 50, in curia.europa.eu. (35) In questi termini G. DI BIASE, Il ne bis in idem come punto di frizione tra il diritto italiano e gli ordinamenti sovranazionali: la questione resta aperta a seguito della pronuncia C. Cost. 102/2016, in attesa della Corte UE, 2016, in www.neldiritto.it. (36) Gup Torino, ord. 24 luglio 2015, imp. Schmidheiny, in www.penalecontemporaneo.it, con commento di I. GITTARDI, Eternit ''bis in idem''? Sollevata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 649 c.p.p. in relazione all'art. 4 Prot. 7 CEDU, 27 novembre 2015. Nel caso di specie, a seguito della sentenza della Corte di Cassazione (Cass. pen., Sez. I, del 19 novembre 2014, dep. 23 febbraio 2014, n. 7941) che ha prosciolto per interevenuta prescrizione il vertice di una multinazionale produttrice di cemento-amianto dalle accuse di disastro doloso e omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, la Procura di Torino, in relazione alle medesime condotte di diffusione del materiale cancerogeno, ha formulato una nuova richiesta di rinvio a giudizio per omicidio volontario. Tale istanza è stata reputata dal GUP in collisione con il divieto di bis in idem delineato in sede europea, e dunque in grado di alimentare la sollevata questione di incostituzionalità. (37) Cfr. M.A. SANDULLI, La potestà sanzionatoria della pubblica amministrazione (Studi preliminari), cit., 3; G. VASSALLI, Potestà punitiva, in Enc. dir., XXXIV, Giuffrè, 1985, 797. (38) Sul tema si rinvia a F. MANTOVANI, Diritto penale, Cedam, 2011, 963 ss.; NUVOLONE, Depenalizzazione apparente e norme penali sostanziali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1968, 63. 44 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 chiamati a rispondere due volte per lo stesso fatto illecito, a prescindere dalla sua qualificazione formale. Le ricadute generali della giurisprudenza di Strasburgo sui regimi improntati ad un doppio binario sanzionatorio sono evidenti. Al di là della specificità del caso trattato in Grande Stevens, i problemi dell'ordinamento italiano sono, dunque, "sistemici", tutte le volte in cui il cumulo di sanzioni eterogenee è voluto dal Legislatore (come nel settore degli abusi di mercato) o è legittimato dalla giurisprudenza (come nel settore degli illeciti tributari (39)). Soccorre una precisazione: il divieto di bis in idem, secondo l'interpretazione offerta dalla Corte EDU, ha carattere processuale e non sostanziale (40). In altre parole, non vieta - per sé solo - agli Stati aderenti di punire il medesimo fatto a più titoli, e con diverse sanzioni, purché ciò avvenga in un unico procedimento o attraverso procedimenti fra loro coordinati, nel rispetto della condizione che non si proceda per uno di essi quando è divenuta definitiva la pronuncia relativa all'altro. Tuttavia, come puntualizzato dalla stessa Corte costituzionale, "non può negarsi che un siffatto divieto possa di fatto risolversi in una frustrazione del sistema del doppio binario" (§ 6.1.). Difatti, allorché la legge sostanziale consenta di configurare un concorso di illeciti in rapporto al medesimo fatto - (39) Con due noti arresti le Sezioni Unite (Cass., Sez. un., 28 marzo 2013, dep. 12 settembre 2013, n. 37424, Romano, e n. 37425, Favellato), analizzando i rapporti tra illeciti amministrativi e reati di omesso versamento delle ritenute o dell'IVA (rispettivamente, art. 13, D.Lgs. 471/1997 e artt. 10 bis e 10 ter, D.Lgs. 74/2000), hanno escluso che tra le due fattispecie corresse un rapporto di specialità, ritenendo, al contrario, che potesse parlarsi di progressione illecita. L'orientamento illustrato ha incontrato le critiche della dottrina maggioritaria tra cui v. G.M. FLICK - V. NAPOLEONI, A un anno di distanza dall'affaire Grande Stevens: dal bis in idem all'e pluribus unum?, cit., 25 - 26; M. DOVA, Ne bis in idem e reati tributari: a che punto siamo?, in www.penalecontemporaneo. it, 9 febbraio 2016, 7. Secondo gli AA. l'evocato rapporto di progressione illecita conferma - anzichè smentire - che ci si trova di fronte ad un giudizio sullo stesso fatto concreto: con la conseguenza che la norma penale assorbe l'intero disvalore del fatto. Difatti, entrambe le fattispecie, oltre a condividere presupposti e condotta tutelano lo stesso medesimo interesse rappresentato dalla puntuale e corretta percezione dei tributi. L'orientamento espresso dalle Sezioni Unite si pone oggi in aperto contrasto con una serie di pronunce della Corte EDU relative a paesi scandinavi (Corte eur. dir. uomo, 20 maggio 2014, Nykänen c. Finlandia; 27 novembre 2014, Lucky Dev c. Svezia; 10 febbraio 2015, Kiiveri c. Finlandia; tutte in www.echr.coe.int) che, ribadendo i medesimi principi enunciati in Grande Stevens, hanno censurato l’apertura di procedimenti penali per reati fiscali, a seguito dell’applicazione di sovrattasse a scopo sanzionatorio. Tale giurisprudenza sembra aver fatto breccia in quella del giudice di legititmità. L'effetiva conciliabilità di un cumulo sanzionatorio con la garanzia convenzionale è stata messa in dubbio, seppur solo a livello di obiter dicta, in alcuni recenti interventi (Cass. pen., Sez. III, 9 ottobre 2014, dep. 12 marzo 2015, n. 10475; Cass. pen., Sez. III, 11 febbraio 2015, dep. 11 maggio 2015, n. 19334, in De Jure) che hanno escluso la possibilità di un rinvio pregiudiziale o di una questione di legittimità costituzionale sul punto esclusivamente in ragione della sua ritenuta irrilevanza nel caso concreto, dovuta a contingenti ragioni processuali. (40) Tuttavia, vedasi la dissenting opinion dei giudici Karakas e Pinto de Albuquerque, nel caso Grande Stevens, § 24-28. In particolare, i giudici di Strasburgo hanno criticato l’eccessivo formalismo con il quale le corti interne hanno fatto applicazione del principio di specialità, che poteva essere usato in modo tale da evitare il bis in idem sostanziale, dando prevalenza all’illecito di pericolo concreto (art. 185, TUF) rispetto a quello di pericolo astratto (art. 187-ter TUF). CONTENZIOSO NAZIONALE 45 nella specie, uno penale, l’altro amministrativo -, si creano "automaticamente" le premesse affinché tali illeciti possano essere puniti separatamente nell’ambito di procedimenti distinti e, dunque, le premesse per violazioni "sistemiche" del ne bis in idem processuale, "convenzionalmente inteso" (41). Pertanto, la Consulta lascia trapelare come la via privilegiata per porre il nostro ordinamento in linea con gli obblighi sovranazionali sia rappresentata dalla "bonifica" dei sistemi a doppio binario in relazione allo stesso fatto, incidendosi, quindi, sulla disciplina sostanziale anziché su quella processuale. Al di là di queste scarne (ed implicite) indicazioni, la Corte non si sbilancia - almeno per ora - sulla questione della compatibilità dell'attuale meccanismo di doppio binario sanzionatorio previsto dal TUF con l'art. 4 Prot. 7 CEDU, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo. Le ragioni di una tale cautela sono evidenti: si è in attesa degli ulteriori sviluppi sia sul fronte della legislazione domestica, considerato che è ormai imminente l'esercizio della delega conferita con L. 114/2015 per la riforma della disciplina degli illeciti finanziari, sia sul fronte della giurisprudenza della Corte di Giustizia, chiamata ad esprimersi sul problema della compatibilità col ne bis in idem dell'attuale sistema punitivo in materia di illeciti tributari in materia di IVA col ne bis in idem (42). Ebbene, la freddezza delle conclusioni della Consulta (43), nonostante il loro giustificato rigore formale, lascia inalterato il problema. Due sono, quindi, i quesiti che si pongono rispettivamente all'interprete e al Legislatore: come evitare de lege lata, la perpetrazione di violazioni della Convenzione e dei suoi Protocolli; come rimuovere de lege ferenda, le anomalie di tali sistemi sanzionatori in modo da porli in linea con tali obblighi. La risposta ad entrambi gli interrogativi, come si vedrà di qui a breve, non è allo stato attuale unitaria nè, tantomeno, soddisfacente. 4. Le soluzioni interpretative. Numerosi sono stati gli sforzi interpretativi tesi alla ricerca di strade percorribili dal giudice comune senza alcuna necessità di coinvolgimento della Corte costituzionale. Di seguito se ne offre una panoramica. 4.1. L'interpretazione convenzionalmente conforme dell'art. 649 c.p.p. Una prima strada, auspicata da una parte della dottrina (44), passa per (41) Così G.M. FLICK -V. NAPOLEONI, A un anno di distanza dall'affaire Grande Stevens: dal bis in idem all'e pluribus unum?, cit., 19. (42) Trib. Bergamo, ord. 16 settembre 2015, con nota di F. VIGANÒ, Ne bis in idem e omesso versamento dell'IVA: la parola alla Corte di Giustizia, 28 settembre 2015, in www.penalecontemporeaneo. it. (43) Cfr. A. FABERI, Ne bis in idem: il dialogo interrotto, in Archivio penale, 2016, n. 2, 2; F. VIGANÒ, Ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio in materia di abusi di mercato: dalla sentenza della Consulta un assist ai giudici comuni, 16 maggio 2016, in www.penalecontemporeaneo.it., § 5. 46 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 un'interpretazione convenzionalmente conforme - rectius: un'applicazione diretta - dell'art. 649 c.p.p., tale da estenderne la portata anche a quei provvedimenti amministrativi, prevalentemente afflittivi, che abbiano acquistato efficacia definitiva. Trattasi di una soluzione che fa leva sulla portata generale del principio del ne bis in idem, la quale, in passato, ha autorizzato il ricorso all'analogia in bonam partem (Cass., Sez. Un. pen., 28 giugno 2005, n. 34655, Donati (45)). Concreti riscontri sono rinvenibili in isolati interventi della giurisprudenza di merito, seppur in ambiti diversi da quello degli abusi di mercato. Si richiama una nota pronuncia del Tribunale di Brindisi ove si è ritenuto che la pregressa irrogazione di una sanzione disciplinare a carico di un detenuto, precludesse l'instaurazione di un processo penale in relazione ad un medesimo fatto di danneggiamento (46). Nella stessa direzione si muove una pronuncia del Tribunale di Asti, in tema di omesso versamento di IVA (art. 1 e 5, D.Lgs. 471/1997 in rapporto con l'art. 5, d.lgs. 74/2000) (47). Tale impostazione, tuttavia, non ha persuaso la Cassazione (48), alcune voci dottrinarie (49), e altra parte della giurisprudenza di merito (50): il dato (44) F. VIGANÒ, Ne bis in idem e contrasto agli abusi di mercato: una sfida per il legislatore e i giudici italiani, cit., § 3.2. (45) Come è noto, la pronuncia citata ha esteso il principio del ne bis in idem ben oltre i confini dell’art. 649 c.p.p. il cui tenore letterale ne circoscrive l’applicazione ai casi di intervento di una pronuncia irrevocabile. Si è stabilito, infatti, che non può essere nuovamente promossa l'azione penale per un fatto e contro una persona per i quali un processo sia semplicemente pendente (anche se in fase o grado diversi) nella stessa sede giudiziaria e su iniziativa del medesimo ufficio del p.m., di talché nel procedimento eventualmente duplicato dev'essere disposta l'archiviazione oppure, se l'azione sia stata esercitata, dev'essere rilevata con sentenza la relativa causa di improcedibilità. (46) Trib. Brindisi, 17 ottobre 2014, con commento di S. FINOCCHIARO, Improcedibilità per bis in idem a fronte di sanzioni formalmente “disciplinari”: l’art. 649 c.p.p. interpretato alla luce della sentenza Grande Stevens, in www.penalecontemporaneo.it, 12 dicembre 2014. (47) Trib. Asti, 7 maggio 2015, con nota di G. PINI, In margine ad un’originale soluzione in materia penal-tributaria: tra ne bis in idem processuale e principio di specialità, sullo sfondo della tutela multilivello dei diritti, in Archivio penale, 2016, n. 1. Il giudice rileva la "dubbia compatibilita convenzionale" della soluzione proposta dalle Sezioni unite nel 2013 (v. nota 39), le quali, nel far leva sul concetto di progressione criminosa, si iscrivono in quella corrente di pensiero giurisprudenziale "che tende a risolvere il problema della specialità a partire da considerazioni relative al bene giuridico protetto dalle singole disposizioni coinvolte". Dopo aver ricostruito che l'illecito penale e amministrativo hanno ad oggetto lo stesso fatto materiale - la omessa dichiarazione fiscale - ha ritienuto che "nulla osti ad una applicazione diretta dell’art. 649 c.p.p. al di là dei limiti apparentemente segnati dal suo tenore letterale". Ciò in base ad un'intepretazione analogica del principio del ne bis in idem espresso nell'art. 649 c.p.p., "principio generale che attraversa ogni ramo del diritto, sostanziale e processuale, e che è parte integrante della generalità degli ordinamenti giuridici". (48) Militano in questa direzione, sia Cass. pen., sez. V, ord. n. 1782/2014, cit., § 2.5, sia, da ultimo, Cass., sez. III pen., 21 aprile 2016 (dep. 22 giugno 2016), n. 1315, pronunciata in riforma di Trib. Asti, 7 maggio 2015, con commento di F. VIGANÒ, Omesso versamento di IVA e diretta applicazione delle norme europee in materia di ne bis in idem?, in www.penalecontemporaneo.it, 11 luglio 2016. (49) v. G. DEAMICIS, Ne bis in idem e "doppio binario sanzionatorio": prime riflessioni sugli effetti della sentenza "Grande Stevens" nell'ordinamento italiano, cit., § 12.2. (50) Trib. Bologna, cit, § 2.2. CONTENZIOSO NAZIONALE 47 letterale e sistematico dell'art. 649 c.p.p. rappresenterebbe un ostacolo insormontabile all’ipotizzata operazione di adeguamento in via interpretativa della norma codicistica (51). 4.1.1. (segue) L'interpretazione convenzionalmente conforme dell'art. 669 c.p.p. Ancor più problematica appare la prospettiva nei casi in cui entrambi procedimenti - penale e amministrativo - si siano già chiusi con sentenze definitive passate in giudicato: in tale ipotesi subentrano il principio dell'intangibilità del giudicato e il limite alla proponibilità di incidenti di costituzionalità, trattandosi di "rapporti esauriti". Su questo fronte, in analogia a quanto prospettato per l'art. 649 c.p.p., si è proposta, ed è stata a volte seguita (52), la via di un'interpretazione conven- (51) Così G.M. FLICK - V. NAPOLEONI, A un anno di distanza dall'affaire Grande Stevens: dal bis in idem all'e pluribus unum?, cit., 14. Secondo il giudice di legittmità (v. nota 48) il principo del ne bis in idem ha portata generale nel vigente ordinamento processuale penale, tovando espressione nelle norme sui conflittti di competenza (artt. 28 ss. c.p.p.), nel divieto di un secondo giudizio (art. 649 c.p.p.), e nell'ipotesi di una pluralita di sentenze irrevocabili di condanna (art. 669 c.p.p.). Tuttavia, tali strumenti preventivi e riparatori che compogono il quadro all'interno del quale si colloca l'art. 649 c.p.p., presuppongono tutti la comune riferibilità all'autorità giudiziaria penale. A conforto dell'argomento sistematico sta la considerazione del tenore letterale della diposizione codicisitca, che fa inequivoco riferimento alla "sentenza o decreto penale" divenuti irrevocabili e al divieto di essere sottoposto ad un nuovo "procedimento penale". (52) Cfr. Cass. pen., sez. I, 13 marzo 2015 (dep. 25 marzo 2015), n. 12590, in C.E.D. Cass. pen. 2015. Nel caso di specie, in relazione alla medesima infrazione al codice della strada (sostituzione della targa di un autoveicolo con una all'uopo contraffatta), concorrevano due provvedimenti sanzionatori di natura amministrativa, emessi rispettivamente dall'autorità amministrativa e dal giudice penale. Il Collegio, dopo aver escluso un'applicazione in via diretta, o in via estensiva, dell'art. 669, c.p.p., comma 1 - in quanto risulta insuperabile il dato formale del riferimento alle "sentenze di condanna" -, ha ammesso la possibilità di un'applicazione analogica della disposizione richiamata dal ricorrente. A confortare tale operazione ermeneutica venivano richiamati precedenti giurisprudenziali che, sebbene sotto differenti profili, avevano già ammesso un simile intervento (cfr. Sez. I, n. 1285 del 20 novembre 2008 - dep. 15 gennaio 2009, Linfeng, Rv. 242750, in materia di indulto; Sez. 4^, n. 12680 del 22 novembre 2000 - dep. 30 marzo 2001, Pigoni, Rv. 219113 e Sez. II, n. 3025 del 10 luglio 1996 - dep. 5 ottobre 1996, Petrino, Rv. 206604, entrambe in materia di revisione anteriormente alla novella 12 giugno 2003, n. 134 che ha ampliato i casi della impugnazione straordinaria includendo le sentenze di applicazione della pena su richiesta; Sez. V, n. 1582 del 17 marzo 1994 - dep. 18 aprile 1994, Abbate, Rv. 198002, in materia di misure cautelari; e, inoltre, cfr. Sez. I, n. 47794 del 11 dicembre 2008 - dep. 23 dicembre 2008, Cimino, Rv. 242629, la quale ha escluso la analogia nello specifico caso scrutinato, in quanto - e soltanto perché - colla ridetta novella era stata colmata "la lacuna legislativa", così confermando in linea di principio la possibilità della applicazione analogica dell'art. 669 c.p.p.). Si è pertanto concluso che "la norma costituisce, per vero, attuazione del principio generale del ne bis in idem il quale "permea l'intero ordinamento dando linfa ad un preciso divieto di reiterazione dei procedimenti e delle decisioni sull'identica regiudicanda, in sintonia con le esigenze di razionalità e di funzionalità connaturate al sistema" (Sez. U., n. 34655 del 28 giugno 2005 - dep. 28 settembre 2005, Donati). La esecuzione del provvedimento sanzionatorio amministrativo, al pari della condanna giurisdizionale, comporta la "preclusione-consumazione" del potere di instaurare un nuovo procedimento e di sanzionare la medesima condotta. E tanto suffraga la applicazione analogica dell'art. 669 c.p.p., comma 1, per rimuovere la reiterazione delle sanzioni". 48 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 zionalmente conforme dell'art. 669 c.p.p., in tema di "pluralità di sentenze irrevocabili per il medesimo fatto contro la stessa persona": in tale evenienza il giudice dell'esecuzione sarebbe chiamato a rimuovere la sentenza meno favorevole. Tale valutazione comparativa dovrebbe ricomprendere anche l'ipotesi di un provvedimento definitivo - atto promanante dalla p.a., o pronuncia giudiziale a seguito di giudizio di opposizione - contenenti l'irrogazione di una misura amministrativa che presenti i tratti identitari di una "pena". Su questo piano, gli ostacoli di ordine tecnico (53) che incontrerebbe una simile interpretazione dell'art. 669 c.p.p. appaiono - forse - superabili. Difatti, sotto tale angolazione, il divieto di bis in idem interseca il delicatissimo tema della recessività del giudicato a fronte dell'esigenza di rimuovere compromissioni dei diritti fondamentali. Sul tema la Corte costituzionale ha mostrato significative aperture, come provano emblematicamente il caso Dorigo (C. cost. 113/2011) in tema di revisione dei provvedimenti di condanna divenuti definitivi, e il caso dei "fratelli minori di Scoppola" (C. cost. 210/2013), in tema retroattività della disciplina più favorevole. 4.2. L'applicazione diretta dell'art. 50 CDFUE. Mutando prospettiva, si sono proposte in dottrina (54), senza alcun seguito giurisprudenziale, strade alternative ad un interpretazione convenzionalmente conforme delle norme nazionali. Si è ricordato che il diritto al ne bis in idem - oltre che nell'art. 4, Prot. n. 7 CEDU - trova una chiara enunciazione, tra l'altro, a livello eurounitario, nell'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea o c.d. Carta di Nizza (di seguito CDFUE) (55), le cui disposizioni, a seguito dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, hanno acquistato lo stesso valore giuridico dei Trattati (art. 6 § 1 TUE). In virtù della c.d. clausola di equivalenza, ai diritti garantiti dalla Carta è riconosciuto lo stesso significato e la stessa portata dei diritti tutelati dalla CEDU (art. 52, § 3, CDFUE). Tale regola generale, come è chiarito dalle Spiegazioni ufficiali della Carta, è riferibile anche ai Protocolli (compreso, dunque, il Protocollo 7) e all’interpretazione che della Convenzione e dei protocolli abbia fornito la giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Da tali coordinate normative sembra emergere una sovrapponibilità tra (53) Sulla difficoltà di invocare con successo la sperimentabilità delle ipotesi di revoca della sentenza da parte del giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 673 c.p.p., stante il carattere eccezionale, e quindi tassativo, attraverso cui vengono individuate dal legislatore le ipotesi di superamento del giudicato, v. F. D’ALESSANDRO, Tutela dei mercati finanziari e rispetto dei diritti umani fondamentali, in Dir. pen. proc., 2014, 628 ss. (54) F. VIGANÒ, Ne bis in idem e contrasto agli abusi di mercato: una sfida per il legislatore e i giudici italiani, cit., 12 ss. (55) Appare opportuno riportare il testo dell'art. 50 CDFUE: "Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge". CONTENZIOSO NAZIONALE 49 l'art. 4, Prot. 7 CEDU e l'art. 50 CDFUE, quanto alla portata e ai contenuti del ne bis in idem, nonostante alcune voci si siano espresse in senso contrario (56). Pertanto, i caratteri di primazia del diritto eurounitario sul diritto nazionale ne comporterebbero un effetto diretto nelle controversie pendenti davanti il giudice nazionale, previa disapplicazione delle norme interne eventualmente contrastanti (57), tra cui, appunto, quelle che legittimano un sistema punitivo improntato su un doppio e parallelo livello di tutela. Tale via potrebbe condurre, senza particolari implicazioni di sistema, il giudice penale comune da un parte, e la stessa pubblica Amministrazione dall’altra, ad arrestare il procedimento sanzionatorio non appena divenga irrevocabile una sanzione (penale o amministrativa che sia) irrogata per il medesimo fatto dall’‘altra’ concorrente autorità. La tesi, pur suggestiva, solleva perplessità sotto almeno due profili: i) la (apparente) distonia di opinioni tra la Corte di Giustizia e la Corte EDU sulla portata del ne bis in idem. ii) il (limitato) raggio di azione della norma. 4.2.1. (segue) Bis in idem e effettività del diritto dell'Unione europea. Il primo elemento di criticità ad un'applicazione diretta dell'art. 50 CDFUE si rinviene nella divergenza di opinioni tra la CGUE e la Corte EDU in merito alla portata del ne bis in idem. Sul punto è particolarmente significativa la citata pronuncia Åklagaren (56) L'Avvocato generale Villalón, nelle conclusioni presentate nella causa Fransson in data 12 giugno 2012, in curia.europa.eu, ha proposto un'interpretazione autonoma e restrittiva dell'art. 50 CDFUE. Muovendo dal rilievo che non tutti gli Stati membri dell’Unione hanno ratificato il Prot. 7, e che numerosi altri Stati - tra i quali l’Italia - hanno formulato riserve per evitare la sua applicazione alle sanzioni amministrative, egli ha sostenuto la necessità di discostarsi dal criterio generale, fissato dall’art. 52 § 3 CDFUE, di ‘equivalenza minima’ tra la tutela offerta dalle norme della Carta e quella offerta dalle corrispondenti norme della CEDU e dei suoi protocolli. Di conseguenza, l'art. 50 CDFUE esigerebbe "un'interpretazione parzialmenta autonoma". In questa prospettiva, il tenore della disposizione non conterrebbe alcun elemento da cui inferire un divieto a qualsiasi caso di convergenza di potestà sanzionatoria dell’amministrazione e della giurisdizione penale riguardo ad un medesimo comportamento. In particolare, l'art. 50 CDFUE non implicherebbe che la previa esistenza di una sanzione defintiva, qualificata come amministrativa dallo Stato membro, precluda l’avvio di un procedimento dinanzi alla giurisdizione penale che possa eventualmente sfociare in una condanna, purché - in tale evenienza - il giudice penale sia messo in condizione di tenere conto della previa esistenza di una sanzione amministrativa, al fine di mitigare la pena che sarà inflitta in sede penale (§§ 81-96). L’opinione dell’Avvocato generale, come si vedrà nel prosieguo della trattazione, non è stata seguita dalla Grande Sezione della Corte che ha definito il procedimento Fransson. Giova inoltre sottolineare che la Corte di Strasburgo, nel caso Grande Stevens, ha insistito sull’efficacia vincolante del citato art. 4 nei confronti dello Stato italiano: nonostante "l’Italia ha fatto una dichiarazione secondo la quale gli articoli 2 - 4 del Protocollo n. 7 si applicano solo agli illeciti, ai procedimenti e alle decisioni che la legge italiana definisce penali … la riserva invocata dall’Italia non soddisfa le esigenze dell’articolo 57 § 2 della Convenzione. Questa conclusione è sufficiente per determinare la nullità della riserva" (§ 204 ss.). (57) In ossequio ai dettami della notissima sentenza Simmenthal del 9 marzo 1978 (Amministrazione delle finanze dello Stato c. Simmenthal spa, causa C-106/77) recepita, in Italia, dalla storica pronuncia Granital (C. cost., 5 giugno 1984, dep. 8 giugno 1984, n. 178). 50 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 c. Åkerberg Fransson del 2013. La Corte chiamata a chiarire se la duplice sottoposizione del contribuente a sanzioni sia penali che amministrative, con riferimento al settore IVA, fosse compatibile con l'art. 50 CDFUE, ha espresso i seguenti principi: (i) l’articolo 50 della Carta non osta a che uno Stato membro imponga, per le medesime violazioni di obblighi dichiarativi in materia di IVA, una combinazione di sovrattasse e sanzioni penali (§ 34); (ii) tuttavia, qualora la sovrattassa sia di natura penale, ai sensi dell’articolo 50 della Carta, e sia divenuta definitiva, tale disposizione osta a che procedimenti penali per gli stessi fatti siano avviati nei confronti di una stessa persona (§ 34); (iii) ai fini della valutazione della natura penale delle sanzioni tributarie sono rilevanti i criteri della sentenza Bonda, che a sua volta richiama i criteri Engel (§ 35); (iv) spetta al giudice del rinvio valutare, alla luce di tali criteri, se occorra procedere ad un esame del cumulo di sanzioni tributarie e penali "a condizione che le rimanenti sanzioni siano effettive, proporzionate e dissuasive" (§ 36). Orbene, secondo alcuni commentatori (58), con tale pronuncia la Corte di Giustizia avrebbe accolto un'interpretazione restrittiva del principio del ne bis in idem: non tanto per aver riconosciuto agli Stati membri la facoltà di apprestare una pluralità di sanzioni eterogenee in relazione al medesimo fatto - rimane ferma, infatti, la condizione che la sovrattassa non sia identificabile come una "pena" alla luce di parametri che ripetono gli "Engel criteria" -, quanto per aver richiesto al giudice nazionale di bilanciare il divieto di un secondo giudizio con la necessità di adeguate sanzioni residuali. Se cosi è, la Corte di Lussemburgo sembra sottomettere il rispetto di un diritto fondamentale alla garanzia del primato e dell'effettività del diritto dell'Unione. Tale statuizione ha avuto ampia risonanza considerato che già nel caso Grande Stevens il Governo italiano, richiamando il caso Fransson, aveva affermato che il diritto dell’Unione europea avrebbe apertamente autorizzato il ricorso a una doppia sanzione (amministrativa e penale) nell’ambito della lotta contro le condotte abusive sui mercati finanziari (§ 216). Si è, quindi, al cospetto di un "corto circuito" (59) fra le istanze di iper-effettività volte ad una miglior tutela degli interessi finanziari dell'Unione europea, e la necessaria salvaguardia dei diritti fondamentali. (58) G. DEAMICIS, Ne bis in idem e "doppio binario sanzionatorio": prime riflessioni sugli effetti della sentenza "Grande Stevens" nell'ordinamento italiano, cit., § 8; M. CAIANIELLO, Ne bis in idem e illeciti tributari per omesso versamento dell’IVA: il rinvio della questione alla Corte costituzionale, cit., 4; G.M. FLICK - V. NAPOLEONI, A un anno di distanza dall'affaire Grande Stevens: dal bis in idem all'e pluribus unum?, cit., 14. (59) M.L. DI BITONTO, Il ne bis in idem nei rapporti tra infrazioni finanziarie e reati, in Cass. pen., 4/2016, 1342. CONTENZIOSO NAZIONALE 51 Proprio in virtù di tali rilievi la Quinta sezione penale della Cassazione, rilevando l'incidente di costituzionalità, ha espressamente escluso la percorribilità della diretta applicazione dell'art. 50 CDFUE, mostrando un giustificato atteggiamento di cautela (60). Probabilmente il nodo gordiano - cui sarebbe sotteso un inedito scenario di invocazione degli obblighi europei quali controlimiti al rispetto delle garanzie convenzionali - è più apparente che reale. Anzitutto, tanto la abrogata Direttiva 2003/6/CE (MAD I), quanto la nuova Direttiva 2014/57/UE (c.d. MAD II), pur facoltizzandolo, non impongono agli Stati membri di apprestare un duplice livello di tutela - penale e amministrativo - in relazione alle stesse condotte (61). Anche se così fosse, la Corte di Strasburgo, già nel noto arresto Bosphorus c. Irlanda del 2005 ha chiarito che gli Stati parte della Convenzione restano vincolati al rispetto degli obblighi che dalla stessa discendono anche quando danno attuazione al diritto comunitario (62). Inoltre, al livello eurounitario, è pacifico che il rispetto dei diritti convenzionali è condizione di validità degli atti dell'Unione (63), dal momento che i diritti della Convenzione e dei suoi Protocolli fanno parte del diritto dell'Unione europea in quanto principi generali (art. 6 §3 TUE), e, allo stesso tempo, costituiscono il contenuto minimo dei corrispondenti diritti della Carta (art. 52 § 3 TUE) (64). Sembra dunque evincersi che, per realizzare l'obiettivo di contrastare vie illegali di produzione della ricchezza che vanifichino il principio della con- (60) Cass. pen., Sez. V, ord. 10 novembre 2014, cit., 13. (61) G.M. FLICK - V. NAPOLEONI, Cumulo tra sanzioni penali e amministrative: doppio binario o binario morto? “Materia penale”, giusto processo e ne bis in idem nella sentenza della Corte EDU, 4 marzo 2014, sul market abuse, cit., 8-9. Tuttavia, con maggior impegno critico, si evidenzia che la abrogata Direttiva 2003/6/CE, prescriveva agli Stati membri di reprimere i relativi illeciti con sanzioni amministrative, configurando l’impiego - aggiuntivo - di sanzioni penali come una mera facoltà (art. 14). Ma sarebbe stato chiaramente impensabile che la repressione degli illeciti di market abuse potesse passare per un apparato sanzionatorio esclusivamente amministrativo. Ne sarebbero derivati, infatti, quantomeno in rapporto alla manipolazione del mercato, una evidente violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, posto che nel nostro ordinamento la sanzione penale è tradizionalmente impiegata per illeciti analoghi, ma strutturalmente meno gravi, quali l’aggiotaggio comune (art. 501 c.p.), societario e bancario (art. 2637 c.c.). Per converso, come sottolineano gli stessi AA. (p. 14), una legislazione interna che avesse affidato alle sanzioni amministrative un ruolo meramente marginale e "di rincalzo" avrebbe rischiato di porsi in contrasto con la direttiva. Oggi la questione ha perso di interesse posto che la nuova MAD II, ribaltando il precedente rapporto tra sanzione penale e amministrativa, impone agli Stati membri di punire a titolo di reato le condotte più gravi, con facoltà di affiancare sanzioni amministrative. (62) Corte. eur. dir. uomo, 30 giugno 2005, Bosphorus c. Irlanda, in www.echr.coe.int. In particolare, si è rilevato che gli atti compiuti da uno Stato membro nell’esecuzione degli obblighi comunitari si presumono conformi alla CEDU, chiarendo tuttavia come tale presunzione di equivalenza nella protezione dei diritti fondamentali (tra CEDU e ordinamento comunitario) sia suscettibile di essere sovvertita laddove emerga una "violazione manifesta" dei diritti umani (§ 156). (63) F. VIGANÒ, Ne bis in idem e contrasto agli abusi di mercato: una sfida per il legislatore e i giudici italiani, cit., 18. (64) Cfr. CGUE, 24 aprile 2012, Kamberaj, C-571/10, in curia.europa.eu. 52 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 correnza, pilastro del mercato unico europeo, gli Stati ben possano ricorrere, contestualmente, a sanzioni penali e amministrative. Allo stesso tempo tale sistema non deve trasmodare nella doppia punizione di una stessa condotta, occorrendo, invece, differenziare gli illeciti meritevoli di un rimprovero penale da quelli più lievi (65). Ciononostante, si comprende la riluttanza della Cassazione nel procedere ad una diretta applicazione dell'art. 50 CDFUE. Le ambiguità sollevate dal caso Fransson, non a caso, hanno recentemente portato il Tribunale di Bergamo ad operare un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (art. 267 TFUE), orientato a conoscere «se la previsione dell’art. 50 CDFUE, interpretato alla luce dell’art. 4 prot. n. 7 CEDU e della relativa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, osti alla possibilità di celebrare un procedimento penale avente ad oggetto un fatto (omesso versamento IVA) per cui il soggetto imputato abbia riportato sanzione amministrativa irrevocabile» (66). 4.2.2. (segue) I ristretti confini applicativi dell'art. 50 CDFUE. In secondo luogo, si evidenzia che l'applicazione diretta dell'art. 50 CDFUE presuppone che la materia ricada nel campo di applicazione del diritto dell'Unione Europea. In tal senso dispone l'art. 51 CDFUE (67). Tale condizione è certamente soddisfatta con riguardo alla repressione degli (65) Cfr. Relazione dell’Ufficio del ruolo e del massimario presso la Cass., 8 maggio 2014, n. 35, § 2, lett. c, e § 3.3.c, in www.cortedicassazione.it. Cfr. anche R. CONTI, Ne bis in idem, in Treccani, Libro dell'anno 2015. Secondo l'A. la pronuncia non sembra avere messo in discussione l’applicazione del divieto del secondo procedimento nel caso in cui alla sanzione irrogata per prima sia riconosciuta natura "penale". In quest'ottica, non si deve enfatizzare il significato espresso al § 36 della sentenza Fransson, decisamente rivolto al giudice nazionale svedese proprio in relazione alla peculiare regolamentazione normativa scandinava ed all’eventuale possibilità - in quell’ordinamento - che il giudice penale tenga in considerazione, ai fini della commisurazione della pena, l’importo della sanzione amministrativa precedentemente inflitta. (66) Trib. Bergamo, ord. 16 settembre 2015, cit. La precisazione che si tratta di IVA assume una rilevanza fondamentale. Si registra, difatti, un precedente rinvio pregiudiziale, dagli accenti analoghi, operato dal Tribunale di Torino, con ordinanza del 27 ottobre 2014. Tuttavia, come preconizzato in dottrina - v. M. BONTEMPELLI, Il doppio binario sanzionatorio in materia tributaria e le garanzie europee (fra ne bis in idem processuale e ne bis in idem sostanziale), in Arch. pen., 2015, n. 1, 1 ss.; G.M. FLICK - V. NAPOLEONI, A un anno di distanza dall'affaire Grande Stevens: dal bis in idem all'e pluribus unum?, cit., 26; M. SCOLETTA, Ne bis in idem e illeciti tributari per omesso versamento delle ritenute: un problematico rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, in www.penalecontemporaneo.it -, esso atteneva ad un tributo non armonizzato (omesso versamento di ritenute non certificate, art. 10-bis, D.Lgs. 74/2000), caratterizzato da una dimensione esclusivamente domestica. Era inevitabile, quindi, che la Corte di Giustizia dichiarasse la propria incompetenza (CGUE del 15 aprile 2015, Burzio, causa, C- 497/14). (67) Pare opportuno riportare il testo dell'art. 51 CDFUE: "Le disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni e agli organi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. Pertanto, i suddetti soggetti rispettano i diritti, osservano i principi e ne promuovono l’applicazione secondo le rispettive competenze". CONTENZIOSO NAZIONALE 53 abusi di mercato, come dimostra la normativa in materia - dalla Direttiva del 2003 già citata (c.d. MAD I), alla nuova Direttiva del 2014 (c.d. MAD II) -, che impone oggi precisi obblighi di repressione penale delle condotte più gravi (come si vedra` infra). Ampliando lo sguardo, in una prospettiva sistematica, si colgono però i limiti e le criticità di una simile impostazione. Ne è prova il settore degli illeciti tributari ove l'operatività dell'art. 50 CDFUE sarebbe limitata ai cc.dd. tributi armonizzati, rimanendo fuori dal suo campo elettivo le imposte dirette, tanto che in dottrina non si è mancato di sottolineare l'irrazionalità di un sistema così congeniato (68). Più in generale, emerge come al di fuori delle competenze riservate dall'Unione europea, stante la non applicabilità dell'art. 50 CDFUE, permarrebbero le condizioni per la violazione del ne bis in idem. Insomma, la percorribilità di una diretta applicazione della Carta di Nizza, oltre ad essere foriera di derive in punto di ragionevolezza e parità di trattamento di posizioni omogenee, si mostra, soprattutto, una soluzione "parziale", essendo escluso che la Carta possa rappresentare uno strumento di tutela dei diritti fondamentali oltre le competenze dell'Unione europea (69). 4.3. La diretta applicazione dell'art. 4 Prot. 7, CEDU. Per colmare tale vuoto, o in via alternativa all'efficacia diretta della Carta, appare difficilmente sostenibile il richiamo alla diretta applicazione dell'art. 4 Prot. 7 CEDU. La tesi, promossa da una parte della dottrina (70), e già seguita in alcuni arresti della Cassazione seppur in riferimento ad altre norme CEDU (71), muove dall'assunto secondo cui tale via non sarebbe sbarrata dalle note sentenze "gemelle" della Corte costituzionale del 2007 (C. cost. nn. 348 e 349): la Consulta avrebbe inteso vietare la disapplicazione di norme nazionali in contrasto con le norme della CEDU e dei suoi Protocolli, ma ciò non osterebbe ad una diretta applicazione delle fonti internazionali allorché questa operazione non presupponga alcuna disapplicazione di una norma interna contrastante. Ciò che si verificherebbe nei casi in cui sia ravvisabile uno (68) A. GIOVANNINI - L.P. MURCIANO, Il principio del ne bis in idem sostanziale impedisce la doppia sanzione per la medesima condotta, in Corr. trib., 2014, 20, 1548. (69) In questi termini, C. cost. 80/2011, § 5.5., che richiama, a sua volta, la giurisprudenza della Corte di Giustizia (ordinanza 17 marzo 2009, C-217/08, Mariano; sentenza 5 ottobre 2010, C-400/10 PPU, McB; ordinanza 12 novembre 2010, C-399/10, Krasimir e altri). (70) A. RUGGERI, Salvaguardia dei diritti fondamentali ed equilibri istituzionali in un ordinamento "intercostituzionale", in Riv. AIC, n. 4/2013, 4 ss.; F. VIGANÒ, Ne bis in idem e contrasto agli abusi di mercato: una sfida per il legislatore e i giudici italiani, cit., 16-17. (71) Cfr. Cass., Sez. un., 23 novembre 1988 (dep. 8 maggio 1989), Polo Castro, in Cass. pen., 1989, 1418 ss.; Cass., sez. I, 12 maggio 1993 (dep. 10 luglio 1993), Medrano, ivi, 1994, 439 ss.; Cass., sez. un., 25 novembre 2010 (dep. 14 luglio 2011), n. 27918, De F., § 11 e 14. 54 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 "spazio giuridicamente vuoto", non regolato in maniera antinomica da una legge nazionale. Ed allora, il Protocollo 7 CEDU è stato incorporato nell'ordinamento italiano in forza della relativa legge di esecuzione (L. 98/1990), acquisendo, formalmente, il rango di norma primaria, alla quale il giudice è soggetto in forza dell'art. 101, comma 2, Cost. Allo stesso tempo, esso integra il parametro di costituzionalità dell'art. 117, comma 1, Cost. - che sancisce la preminenza degli obblighi internazionali, tra cui quelli derivanti dai Trattati, sulla legislazione ordinaria -, collocandosi ad un livello sub-costituzionale, secondo il noto meccanismo della c.d. norma interposta. Nel caso dell'art. 4 Prot. 7 CEDU, non si tratterebbe di una norma di principio, ma di una norma avente un contenuto specifico e dettagliato (self-executing) che imporrebbe un mero dovere negativo a carico dello Stato italiano: non esercitare, o non proseguire, un'azione "sostanzialmente" penale a carico di chi sia stato già giudicato in via definitiva per lo stesso fatto. Sicché non vi sarebbero ostacoli alla sua immediata operatività nell'ordinamento italiano. Pertanto, poiché l'art. 4 Prot. 7, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo, eccederebbe l'area coperta dall'art. 649 c.p.p. - la quale è limitata alle fattispecie caratterizzate da una sentenza o un decreto di condanna anche "formalmente" qualificati come penali - esso si presenterebbe come la norma di riferimento applicabile dal giudice nazionale anche all’ipotesi in cui un soggetto sia stato sanzionato con provvedimento definitivo formalmente amministrativo, ma dalla natura sostanzialmente penale. La tesi, a sommesso parere di chi scrive, prova troppo. La Corte costituzionale ha chiarito la profonda differenza che intercorre tra le norme CEDU e le norme dell'Unione europea self-executing. Il fondamento costituzionale dell'efficacia diretta delle norme dell'Unione è stato individuato nell'art. 11 Cost. Difatti, con l’adesione ai Trattati comunitari, l’Italia è entrata a far parte di un “ordinamento” più ampio, di natura sopranazionale, cedendo parte della sua sovranità, anche in riferimento al potere legislativo, nelle materie oggetto dei Trattati medesimi, con il solo limite dell’intangibilità dei principi fondamentali e dei diritti inalienabili della persona umana garantiti dalla Costituzione (c.d. controlimiti). La CEDU, al contrario, non crea alcun ordinamento giuridico sopranazionale. Essa, pur rivestendo grande rilevanza, in quanto posta a tutela dei diritti e le libertà fondamentali delle persone, rimane pur sempre un trattato internazionale multilaterale, le cui norme vincolano lo Stato secondo il meccanismo della norme interposte, ma non producono effetti diretti nell'ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudici nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte (in questi termini C. cost. 348, ripresa da C. cost. 349/2007). Tale posizione non è mutata con l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona CONTENZIOSO NAZIONALE 55 che all'art. 6 § 2 TUE prevede una adesione dell'Unione Europea alla Convenzione CEDU. Anche tale innovazione non ha comportato un mutamento della collocazione delle disposizioni della CEDU nel sistema delle fonti, tale da rendere ormai inattuale la concezione delle norme interposte (Corte cost. n. 80/2011). In definitiva, la CEDU, al di là del potenziale contrasto con la normativa nazionale, "resta, per l’Italia, solamente un obbligo internazionale, con tutte le conseguenze in termini di interpretazione conforme e di prevalenza mediante questione di legittimità costituzionale" (72). Come già analizzato supra, entrambe queste vie - l'interpretazione convenzionalmente conforme e la questione di costituzionalità - sono state sinora sperimentate senza alcun successo. 5. La necessità di un intervento legislativo. Le soluzioni ermeneutiche sinora esplorate presentano tutte - eccettuata l'ipotesi della pluralità di decisioni irrevocabili - controindicazioni di non poco conto. Si è già accennato che la garanzia del ne bis in idem non opera in presenza di una mera litispendenza di procedimenti, richiedendosi, quale suo presupposto di operatività, che almeno uno dei due giunga a conclusione. Ne discende che qualsiasi soluzione per via giurisprudenziale al problema del ne bis in idem non impedirebbe, in ogni caso, il concreto avvio di entrambi i procedimenti. Orbene, tale situazione genererebbe un risultato inutilmente e irragionevolmente dispendioso, tanto per il destinatario delle sanzioni (sia in termini economici che emotivi), quanto - e soprattutto - per l'intero ordinamento, che sarebbe costretto a sopportare i costi di una duplicazione di procedimenti, nonostante la certezza, ab origine, che solo uno dei due arriverà a conclusione. Si sancirebbe, allora, la logica del "vince chi arriva prima" (73): la preclusione scatterebbe in presenza della sentenza per prima passata in giudicato. Un simile assetto sarebbe chiaramente lesivo del principio di eguaglianza, dipendendo da una circostanza aleatoria (e in qualche misura governabile dall'autore dell'illecito tramite i meccanismi di impugnazione, seguendo valutazioni di convenienza di tipo strettamente personale (74)). (72) A. CELOTTO, Il Trattato di Lisbona ha reso la CEDU direttamente applicabile nell'ordinamento italiano?, in www.giustamm.it. (73) G.M. FLICK - V. NAPOLEONI, A un anno di distanza dall'affaire Grande Stevens: dal bis in idem all'e pluribus unum?, cit., 16. (74) A ben vedere, l'esito dei procedimenti non sembra poter essere completamente “pilotato” dall’interessato. La corte di Strasburgo, nel caso Häkkä c. Finlandia, ha infatti escluso che vi fosse una violazione del ne bis in idem qualora il ricorrente non abbia impugnato la decisione in sede amministrativa, per poi giovarsi della garanzia nel procedimento penale. v. C. eur. dir. uomo, 20 maggio 2014, Häkkä c. Finlandia, § 52, in www.echr.coe.int. 56 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 D'altra parte, poiché notoriamente il procedimento amministrativo di irrogazione delle sanzioni marcia secondo tempistiche di gran lunga più spedite del procedimento penale (75), ciò si risolverebbe, nei casi statisticamente più frequenti, in una "resa del giudice penale" all'autorità amministrativa (76). Si giungerebbe, allora, ad un duplice paradosso: (i) sul piano delle garanzie processuali, l'importazione sic et etimpliciter delle indicazioni provenienti da Strasburgo condurrebbero ad una negazione, di fatto, delle guarentigie del processo penale, espondendo l'ordinamento italiano a molteplici violazioni del diritto al fair trial sancito nell'art. 6 CEDU, tutte le volte in cui il "processo" amministrativo non assicuri le garanzie tipiche del procedimento penale (77); (ii) sul piano dell'effetività, nei settori economicamente più sensibili, la sanzione amministrativa, originariamente concepita come "rinforzo" della sanzione penale, si tradurrebbe in un fatto di "esonero" di quest'ultima (78). Si appalesa perciò necessaria una riforma organica dei sistemi punitivi a doppio binario per adeguare l'ordinamento interno ai dicta di Strasburgo. Se nel settore tributario la novella operata con il D.Lgs. 158/2015 ha clamorosamente taciuto sulla questione (79), per il settore finanziario l'occasione è offerta dalla nuova normativa eurounitaria, tesa ad un profondo ripensamento del disciplina degli abusi di mercato in favore di assetti normativi scevri da (75) N. MADIA, Il ne bis in idem convenzionale e comunitario alle prese con la litispendenza, in www.penalecontemporaneo, 4. (76) E. SCAROINA, Costi e benefici del dialogo tra corti in materia penale, in Cass. pen., 2015, 2919. Sugli effetti paradossali indotti dall’assetto prefigurato, altresì, A. PODIGGHE, Il divieto di bis in idem tra procedimento penale e procedimento tributario secondo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: il caso Nykänen v. Finland e le possibili ripercussioni sul sistema repressivo tributario interno, in Riv. dir. trib., 2014, IV, 122. (77) M.L. DI BITONTO, Il ne bis in idem nei rapporti tra infrazioni finanziarie e reati, in Cass. pen., 4/2016, 1340-1341. (78) G.M. FLICK - V. NAPOLEONI, A un anno di distanza dall'affaire Grande Stevens: dal bis in idem all'e pluribus unum?, cit., 16-17. (79) Per vero, va segnalato solo un aspetto della riforma che potrebbe aver parzialmente attenuato le conseguenze del cumulo sanzionatorio. Si tratta del nuovo art. 13 D.Lgs. 74/2000 che sostituisce la precedente circostanza attenuante con una causa di non punibilità in relazione ai reati di cui agli artt. 10-bis (omesso versamento di ritenute certificate), 10-ter (omesso versamento di IVA) e 10-quater, comma 1 (indebita compensazione), subordinata alla condotta riparatoria descritta: il pagamento dei debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi. L'ambito di tale istituto è stato esteso ai reati di cui agli artt. 4 (dichiarazione infedele) e 5 (omessa dichiarazione). In questo caso, tuttavia, la non punibilità è subordinata all'ulteriore circostanza che "il ravvedimento o la presentazione siano intervenuti prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali" . Come rilevato tale "requisito […] sul piano pratico rende poco probabile una significativa applicazione dell’istituto, potendo difficilmente pronosticarsi comportamenti di “ravvedimento” da omessa/infedele dichiarazione che non siano in qualche modo “sollecitati” dalla conoscenza di accertamenti in corso sulla dichiarazione medesima" (in questi termini, Relazione dell’Ufficio del ruolo e del massimario presso la Cassazione, Novità legislative: Decreto Legislativo n. 24 settembre 2015, n. 158, Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell’art. 8, comma 1 della legge 11 marzo 2014, n. 23, Rel. n. III/05/2015, 28 ottobre 2015). CONTENZIOSO NAZIONALE 57 duplicazioni sanzionatorie. Tuttavia, come si vedrà, i primi segnali lanciati dal legislatore italiano non fanno ben sperare. 5.1. La nuova disciplina eurounitaria sul market abuse: i vincoli imposti dal regolamento 596/2014 (MAR) e dalla direttiva 2014/57/UE (MAD II). Il duplice strumento normativo rappresentato dalla direttiva 2014/57/UE (MAD II) e dal coevo regolamento 596/2014 (MAR), che abroga la Direttiva 2003/6/CE (MAD I), presenta scenari fortemente innovativi (80). Si ribalta l'assetto preesistente, polarizzato sull'obbligo per gli Stati membri di reprimere gli illeciti di mercato con sanzioni amministrative, accompagnato dalla facoltà di prevedere sanzioni penali "di rinforzo". Sul presupposto della riscontrata insufficienza delle sanzioni amministrative rispetto all'esigenza di presidiare l'integrità del mercato (Considerando, n. 5 MAD II), anche sul piano della portata stigmatizzante (Considerando 6 MAD II), la nuova direttiva - adottata sulla base dell' art. 83§ 2 TFUE - prende posizione netta a favore della sanzione criminale per i fatti integranti abusi di mercato (insider trading, "tipping", market manipulation) "almeno nei casi più gravi e allorquando siano commessi con dolo" (artt. 3, comma 1, 4, comma 1, e 5, comma 1, MAD II). Dal canto suo il regolamento continua a stabilire che per le omologhe violazioni, da esso analiticamente descritte, gli Stati membri conferiscano alle autorità competenti "il potere di adottare sanzioni amministrative e altre misure amministrative adeguate" (art. 30, § 1, lett. a). Peraltro, pur contemplando l'opzione cumulativa, viene subito precisato al comma 2 che "gli Stati membri possono decidere di non stabilire norme relative alle sanzioni amministrative di cui al primo comma se le violazioni di cui alle lettere a) o b) di tale comma sono già soggette a sanzioni penali, nel rispettivo diritto nazionale entro il 3 luglio 2016". Tale ultima regola sembra esprimere la seguente indicazione: qualora gli ordinamenti nazionali già prevedano sanzioni penali per condotte illecite "meno gravi", corrispondenti a quelle contemplate dal Regolamento, le sanzioni e le misure amministrative, pur tassativamente stabilite come cogenti dal Regolamento, perdono il carattere dell’obbligatoria introduzione negli ordinamenti interni (82). In sintesi, si delinea un sistema unitario improntato ad un gradualismo sanzionatorio collegato alla gravità del fatto/fattispecie accompagnato dalla tinta dolosa dell'atteggiamento psicologico che deve colorare le condotte, (80) Per una disamina della nuova normativa sugli abusi di mercato v. F. MUCCIARELLI, La nuova disciplina eurocomunitaria sul market abuse: tra obblighi di criminalizzazione e ne bis in idem, in www.penalecontemporaneo.it, 17 settembre 2015; M. SCOLETTA, Doppio binario sanzionatorio e ne bis in idem nella nuova disciplina eurounitaria degli abusi di mercato, in Le Società, 2016. (82) Così F. MUCCIARELLI, La nuova disciplina eurocomunitaria sul market abuse: tra obblighi di criminalizzazione e ne bis in idem, cit., 15. 58 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 ferma restando la comune appartenenza delle sanzioni in discorso alla "materia penale" (83). La logica di tale complesso impianto riflette l'attenzione (rectius: la preoccupazione) del legislatore eurounitario con riferimento al nodo del ne bis in idem. Difatti, anche nell'ipotesi in cui è facoltizzata una doppia risposta sanzionatoria, gli Stati membri sono comunque chiamati a rispettare il divieto del double jeopardy. Sul punto è inequivoco il Considerando 23 della nuova direttiva: «nell’applicare la normativa nazionale di recepimento della presente direttiva, gli Stati membri dovrebbero garantire che l’irrogazione delle sanzioni penali per i reati ai sensi della presente direttiva e di sanzioni amministrative ai sensi del regolamento (UE) n. 596/2014 non violi il principio del ne bis in idem». L'onere di tale doverosa osservanza è rimesso al legislatore nazionale di ogni singolo Stato membro, con una soluzione che appare forse pilatesca nella misura in cui rimette semplicemente agli Stati membri la responsabilità di decidere se e come attuare un doppio binario (84), fermo restando l'obbligo della sanzione penale individuato in base al criterio discretivo, per vero non perspicuo, costituito dalla gravità - delle conseguenze (85) - della condotta. 5.2. La legge-delega n. 114/2015. Le prime risposte in ambito nazionale dimostrano come il legislatore italiano non abbia preso piena coscienza della dimensione del problema (86). Addirittura, il primo d.d.l. governativo di delegazione europea del 2014, successivamente sfociato nella Legge 9 luglio 2015, n. 114 (il cui termine di attuazione è scaduto il 3 luglio 2016), aveva espunto la Dir. 57/2014/UE tra quelle da recepire poiché "non risultano necessarie misure nazionali per la sua adozione in quanto l’ordinamento nazionale è già conforme". All'inconveniente si è posto rimedio con una serie di emendamenti di identico contenuto presentati solo a seguito dell'audizione del presidente della (83) F. MUCCIARELLI, La nuova disciplina eurocomunitaria sul market abuse: tra obblighi di criminalizzazione e ne bis in idem, cit., 13. (84) F. VIGANÒ, Ne bis in idem e contrasto agli abusi di mercato: una sfida per il legislatore e i giudici italiani, cit., 22. (85) Gli indici di gravità cui fa riferimento la Direttiva attengono in misura preponderante agli effetti delle condotte vietate. Si vedano, in proposito, i Considerando (11) e (12) Dir. 57/2014, che discorrono del profitto conseguito. Come sottolinea F. MUCCIARELLI, cit., p. 23, "nelle ipotesi ove l’indice segnaletico della gravità sia legato ad una conseguenza della condotta [...], la caratteristica di reati di pericolo (pur concreto) disegnata dalle fattispecie contemplate nella Direttiva (e per vero anche nelle vigenti figure degli artt. 184 e 185 d. lgs n. 58/1998, d’ora innanzi TUF) finirebbe con lo sbiadirsi fino a scomparire, posto che addirittura l’esistenza di un evento separato dalla condotta diverrebbe criterio selettivo circa la natura (penale o amministrativa) dell’illecito". (86) Sui lavori preparatori della legge-delega, e per una critica puntuale dei criteri da questa fissati, v. E. BASILE, Verso la riforma della disciplina italiana del market abuse: la legge-delega per il recepimento della Dir. 57/2014/UE, in www.lalegislazionepenale.eu, 15 dicembre 2015. CONTENZIOSO NAZIONALE 59 Consob, nel corso della quale era stato caldeggiato l'inserimento della MAD II nella legge-delega. L'art. 11, della l. 114/2015, dispone oggi la revisione verso l’alto dei minimi edittali delle sanzioni di cui agli artt. 187-bis e 187-ter (lett. f), nonché l’individuazione - “fermo restando un sistema di sanzioni amministrative proporzionato, efficace e dissuasivo” - di “condotte gravi di abuso di mercato punibili con sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive” (lett. i), queste ultime da determinarsi “sulla base dei criteri contenuti nella direttiva 2014/57/UE, quale la qualificazione soggettiva dei trasgressori, come nel caso in cui essi siano esponenti aziendali degli emittenti, ovvero esponenti di autorità di vigilanza o di governo, ovvero persone coinvolte in organizzazioni criminali ovvero persone che abbiano già commesso in passato lo stesso tipo di illecito di abuso di mercato” (lett. l). Alla successiva lettera m, infine, la legge delega prescrive al governo di “evitare la duplicazione o il cumulo di sanzioni penali e sanzioni amministrative per uno stesso fatto illecito, attraverso la distinzione delle fattispecie o attraverso previsioni che consentano l’applicazione della sola sanzione più grave ovvero che impongano all’autorità giudiziaria o alla CONSOB di tenere conto, al momento dell’irrogazione delle sanzioni di propria competenza, delle misure punitive già irrogate”. Il risultato finale è sconfortante. Dalla lettura delle disposizioni, ci si avvede, da un parte, dell'assoluto deficit di linee-guida per il Governo rispetto all'emanazione di norme penali di recepimento della MAD II e del MAR - il che pone seri dubbi di legittimità costituzionale della disposizione in esame -, dall'altra, delle parossistiche indicazioni sul superamento del cumulo sanzionatorio ora previsto dalla disciplina domestica degli abusi di mercato. Difatti, la legge-delega presenta un anacronistico riconoscimento del primato dell'apparato sanzionatorio amministrativo (lett. i), accompagnato dall'ancor più paradossale obbligo di inasprimento delle relative sanzioni agli artt. 187-bis e 187-ter TUF(lett. f). Per altro verso, quanto all'individuazione dei confini delle condotte delittuose (artt. 184 e 185 TUF), il Parlamento non fornisce alcun valido criterio direttivo. Monco è il riferimento alle pene criminali "effettive, proporzionate e dissuasive", trattandosi nient'altro che di un richiamo dell'art. 7 § 1, della MAD II. Bizzarro risulta poi il richiamo al criterio della qualificazione soggettiva dell'autore quale spartiacque tra la sanzione penale e quella amministrativa. Per altro verso, del tutto inidonee appaiono le indicazioni del legislatore per fronteggiare il problema del cumulo sanzionatorio. A bene vedere, dei 3 criteri indicati - i) "distinzione delle fattispecie"; ii) applicazione della sola sanzione più grave; iii) meccanismi compensativi per le sanzioni già irrogate - solo il primo garantisce l'integrale rispetto dell'art. 4 Prot. 7 CEDU, e dell'art. 50 CDFUE, che non limitano la garanzia al divieto di essere puniti due volte per lo stesso fatto, ma la estendono al divieto di un doppio "processo". L'in- 60 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 flizione della sanzione penale più grave, o lo scomputo della sanzione già irrogata in relazione a quella da infliggere (secondo un meccanismo già presente nell'art. 187-terdecies) non arginerebbero, con tutta evidenza, tale eventualità. Tuttavia, come è stato evidenziato (87), non si vede come la via maestra della "distinzione delle fattispecie" possa essere attuata in base ai criteri meramente soggettivi richiamati dalla lett. l. In definitiva, nel recepire la normativa eurounitaria il Governo avrà discrezionalità pressoché piena sulle scelte politico-criminali, con gli unici "paletti" costituiti dal mantenimento, seppur in qualche misura revisionato, di un apparato punitivo amministrativo, non del tutto alternativo, ma concorrente con quello penale negli abusi di mercato (88). In tal modo, la delega legislativa mostra di non tenere adeguatamente conto dei moniti provenienti da Strasburgo, attribuendo pervicacemente centralità alla procedura sanzionatoria amministrativa, nonostante la virata del legislatore eurounitario verso il diritto penale come principale strumento di contrasto agli abusi di mercato. CT 5481/2015 - Sez. IV - Avv. Scino AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO ECC.MA CORTE COSTITUZIONALE MEMORIA ILLUSTRATIVA (ai sensi dell'art. 10 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, 19 marzo 1956, pubblicato in G.U. il 24 marzo 1956, n. 71, e ss. mm.) per il Presidente del Consiglio dei Ministri, (C.F. 80188230587) rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, (C.F. 80224030587, FAX 06/96514000 e PEC ags_rm2@mailcert.avvocaturastato.it) presso i cui uffici domicilia in Roma alla Via dei Portoghesi n. 12 ex lege nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale, promosso dalla Suprema Corte di Cassazione, sez. V Penale, nel procedimento penale a carico di C.C.R., con ordinanza n. 38 del 15 gennaio 2015 (G.U. 1a Serie Speciale - Corte Costituzionale n. 12 del 25 marzo 2015) relativo all’art. 187-bis, comma 1, del D.Lgs 24 febbraio 1998 n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria), e, in via subordinata, all’art. 649 c.p.p. ****** PREMESSA (87) F. VIGANÒ, Ne bis in idem e contrasto agli abusi di mercato: una sfida per il legislatore e i giudici italiani, cit., 19. (88) E. BASILE, Verso la riforma della disciplina italiana del market abuse: la legge-delega per il recepimento della Dir. 57/2014/UE, cit., 21-22. CONTENZIOSO NAZIONALE 61 Tale memoria illustrativa costituisce integrazione dell'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri dell'11 aprile 2015, depositato nei termini di legge. Per semplificazione e chiarezza espositiva si rende doveroso, e comunque si suggerisce, il richiamo testuale ad alcuni dei motivi già formulati in tale sede, risultando, per il resto, integralmente richiamate le censure già avanzate. ****** Con ordinanza del 15 gennaio 2015 la Suprema Corte di Cassazione, sez. V Penale, ha sollevato in via incidentale questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 187-bis, comma 1, del D.Lgs 24 febbraio 1998 n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria) nella parte in cui prevede "Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato" anziché "Salvo che il fatto costituisca reato", e in via subordinata dell’art. 649 c.p.p. nella parte in cui non prevede l'applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui l'imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto nell'ambito di un procedimento amministrativo per l'applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali e dei relativi Protocolli. Entrambe le questioni sono state sollevate per violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali. Le questioni sollevate d’ufficio dal Giudice a quo concernono il rispetto del principio del ne bis in idem, così come stabilito dalla Convenzione, da parte della normativa nazionale in materia di illeciti finanziari in riferimento alla condotta di abuso di informazioni privilegiate da parte degli operatori dei mercati finanziari, a fronte della quale il Testo Unico della Finanza configura un “duplice binario” sanzionatorio penale (art. 184) e amministrativo (art. 187-bis) che, sotto il profilo procedimentale, si svolge, rispettivamente, davanti all’Autorità Giudiziaria penale e davanti alla Commissione Nazionale per le Società e la Borsa, quale Autorità di vigilanza del settore dell’ordinamento in questione, restando peraltro distinti e autonomi gli effetti discendenti dai due procedimenti, così come stabilito espressamente dall’art. 187-duodecies. Le questioni sono state sollevate ex officio nell’ambito del giudizio penale a carico di R.C.C. per il reato di cui all’art. 184, comma 1, lett b), T.U.F., a seguito del passaggio in giudicato della sentenza della Corte di Appello di Roma, deliberata il 7 novembre 2011, di rigetto dell’opposizione avverso la delibera della Consob che aveva applicato la sanzione pecuniaria per la violazione dell’art. 187-bis T.U.F. Il Giudice, ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale di cui all’art. 187-bis, comma 1, T.U.F., ricollegandosi alla pronuncia della Corte EDU, sez. II, 4 marzo 2014, Grande Stevens il cui “contenuto rilevante” sarebbe individuabile nel riconoscimento della natura sostanzialmente penale delle sanzioni amministrative applicate dalla Consob in materia di abusi di mercato e nella conseguente incompatibilità col principio convenzionale del ne bis in idem del regime del “doppio binario” sanzionatorio previsto dalla legislazione italiana per detti illeciti. La pronuncia manipolativa invocata - con la sostituzione dell’inciso "Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato" con "Salvo che il fatto costituisca reato" - permetterebbe nel caso in esame di escludere l’applicabilità cumulativa in relazione al medesimo fatto delle sanzioni previste dalle due norme (art. 184 e art. 187-bis TUF), escludendo tale risultato, che determinando la lesione del parametro interposto, e, quindi, della norma costituzionale, dovrebbe essere normativamente escluso. 62 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 In via subordinata, il Giudice ritiene non manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 649 c.p.p. nella parte in cui non prevede l'applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui l'imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto nell'ambito di un procedimento amministrativo per l'applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali e dei relativi Protocolli. La pronuncia additiva invocata rappresenterebbe la soluzione necessaria ad apprestare lo strumento per rimuovere nei singoli casi concreti (e non in via generale, come nella prospettiva tracciata dalla questione principale), l’incompatibilità con il divieto convenzionale di bis in idem del regime del “doppio binario” sanzionatorio previsto dalla legislazione italiana per gli abusi di mercato e, segnatamente, per la fattispecie di abuso di informazioni privilegiate. ****** Esaminate le questioni sollevate dalla Suprema Corte di Cassazione suindicata, ad integrazione di quanto già dedotto nell'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri, si osserva quanto segue. A) LA QUESTIONE SOLLEVATA IN VIA PRINCIPALE 1. Inammissiblità della questione. La questione sollevata in via principale è inammissibile per il seguente ordine di ragioni. 1.1 Implausibilità della motivazione e irrilevanza della questione sollevata nel giudizio a quo; inammisibilità di una pronuncia che produca effetti in malam partem. 1.1.1 Come ben noto, tra il quesito di costituzionalità e la definizione del giudizio a quo deve sussistere un rapporto di pregiudizialità, sicché soltanto una questione rilevante nel processo principale può costituire oggetto del giudizio incidentale (art. 23, L. n. 87 del 1953). Nel caso in questione, il giudizio di rilevanza effettuato dalla Corte di Cassazione rimettente non appare plausibile, dal momento che l'eventuale accoglimento della questione sollevata dal rimettente, non troverebbe, all'evidenza, alcun rilievo pratico nel giudizio a quo. Ed invero, occorre ribadire come il giudizio a quo abbia ad oggetto un fatto di insider trading già sanzionato in sede amministrativa in via definitiva - non essendo stato proposto ricorso per cassazione contro la sentenza della Corte di Appello di Roma, deliberata il 7 novembre 2011, di rigetto dell'opposizione avverso la delibera della Consob - rispetto al quale è ancora pendente il processo per l'accertamento della responsabilità penale ai sensi dell'art. 184 t.u.f.; sicché non si comprende come possa incidere su tale giudizio penale l'eventuale rimodulazione della norma - l'art. 187-bis t.u.f. - che configura l'illecito amministrativo, già applicato una volta per tutte nel procedimento amministrativo, che resta estraneo al giudizio penale, nel quale invece l'imputato può rispondere soltanto ai sensi dell'art. 184 t.u.f., quest'ultimo rimanendo però immodificato dall'intervento manipolativo sollecitato. La pronuncia manipolativa richiesta, per contro, andrebbe a incidere su una situazione giuridica avente non solo la stabilità del giudicato, ma altresì i cui effetti sono da tempo esauriti, avendo peraltro il ricorrente effettuato il pagamento della sanzione amministrativa in data 11 settembre 2009. Sul punto, l'assunto da cui muove la Corte remittente è incentrato sul disposto dell'art. 30, comma 4, L. n. 87/1953 secondo cui "Quando, in applicazione della norma dichiarata incostituzionale, è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l'esecuzione e tutti gli effetti penali". CONTENZIOSO NAZIONALE 63 L'invocata pronuncia manipolativa, provocando l'eliminazione della base legale della sanzione amministrativa irrogata all'imputato ex art. 187 bis TUF, determinerebbe, tramite l'applicazione dell'art. 30, quarto comma, L. n. 87/1953 - estensibile secondo una lettura "convenzionalmente orientata", anche al caso della condanna ad una sanzione "formalmente" amministrativa ma sostanzialmente penale - la possibile esazione in toto della multa, e ciò in forza del "collegamento" tra gli esiti dei due procedimenti stabilito dall'art. 187-terdecies TUF, il quale stabilisce che "Quando per lo stesso fatto è stata applicata a carico del reo o dell'ente una sanzione amministrativa pecuniaria ai sensi dell'art. 187-septies, la esazione della pena pecuniaria e della sanzione pecuniaria dipendente da reato è limitata alla parte eccedente quella riscossa dall'Autorità amministrativa" (pp. 6-7 dell'ordinanza). In definitiva, l'ordinanza della Corte rimettente, invoca una decisione di codesta Ecc.ma Corte Costituzionale tale da porre nel nulla il giudicato amministrativo per far restituire all'autore dell'illecito la sanzione amministrativa già eseguita dal ricorrente con pagamento - peraltro senza specificare quali siano le necessarie determinazioni che la Consob (recte il Ministero dell'Economia, posto che l'importo è versato all'Erario dello Stato ) dovrebbe adottare - in modo da potergli far corrispondere la multa per intero, anziché per la sola parte eccedente quella riscossa dall'Autorità amministrativa. Tale ordine di argomentazioni non può trovare accoglimento, ed in ogni caso è irrilevante ai fini della decisione del giudizio a quo. Al di là della possibilità di un estensione dell'ambito applicativo dell'art. 30, comma 4, L. 87/1953, il cui dato letterale fa esclusivamente richiamo ai procedimenti di natura penale, risulta del tutto inconferente il richiamo all'art. 187 terdecies del TUF. Come già osservato in sede di intervento, il giudice a quo trascura che tale disposizione può trovare applicazione esclusivamente nel procedimento di esecuzione della pena pecuniaria, e non certo nell’ambito del giudizio di cognizione nel corso del quale è stata sollevata la questione, nel quale la misura della pena pecuniaria deve essere determinata dal giudice penale senza tener conto dell’entità della sanzione eventualmente comminata e riscossa dall’Autorità amministrativa. In altre parole, la pronunciata manipolativa invocata non avrebbe alcun rilievo nel giudizio a quo poiché l’imputato resterebbe, come è adesso, giudicabile per il reato di abuso di informazioni privilegiate a lui contestato, operando il meccanismo di detrazione pena pecuniariasanzione amministrativa esclusivamente nella fase esecutiva. La Corte rimettente ha ampiamente e persuasivamente argomentato come sia preferibile incidere sulla disciplina sostanziale degli abusi di mercato, anziché (come si dirà) su quella processuale del divieto di un secondo giudizio, dato che in questo modo il sistema diviene assai più armonico, adeguandosi alle nuove indicazioni del diritto dell’Unione europea in tema di market abuse. La circostanza non sembra tuttavia sufficiente ad escludere l’esigenza che la questione di costituzionalità di cui si discute sia sollevata in una sede processuale consentanea, dal punto di vista delle dinamiche del giudizio incidentale. Tale sede non può che essere quella del giudizio di opposizione avverso il provvedimento di irrogazione delle sanzioni amministrative da parte della Consob. Il che presuppone che la duplicità di procedimenti si presenti nella seconda e speculare forma: la sentenza irrevocabile è intervenuta nel procedimento penale, mentre quello relativo all’applicazione delle sanzioni amministrative è pendente. Si tratta della situazione che ha dato luogo alla questione di costituzionalità sollevata dalla Sezione tributaria civile della stessa Corte di cassazione (Cass., sez. trib., ord. 21 gennaio 2015, n. 950). Nella specie, infatti, il processo penale per il medesimo fatto di manipolazione 64 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 del mercato, oggetto del procedimento sanzionatorio amministrativo (artt. 185 e 187 ter T.U.F.), era stato preventivamente definito con sentenza irrevocabile di patteggiamento. 1.1.2. Anche a voler seguire la non condivisibile impostazione proposta dal giudice remittente, giova sottolineare che l'eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 187 bis TUF, nei termini prospettati dal remittente, inciderebbe negativamente sulla situazione giuridica dell'imputato quanto ai profili inerenti all'entità della pena pecuniaria applicabile al Sig. C.C. all'esito del giudizio penale in corso di svolgimento atteso che, nel caso ipotizzato dalla Cassazione, l'intervento manipolativo invocato renderebbe inoperante il meccanismo compensativo ex art. 187 terdecies TUF, comportando, in sede penale, la possibilità di esigere in toto il pagamento della multa irrogata con la sentenza di condanna (previa restituzione di quanto versato all'Erario in adempimento all'ingiunzione della Consob). Al contrario, allo stato attuale, in forza del criterio dello scomputo più volte richiamato, il pagamento avverrebbe in parte a titolo di sanzione amministrativa (già versata) e, per la differenza, a titolo di multa. Tale risultato urta frontalmente con quanto costantemente rilevato da codesta Ecc.ma Corte costituzionale secondo cui "non sono ammissibili pronunce con effetti in malam partem che derivino dall'introduzione di nuove norme penali o dalla manipolazione di quelle esistenti (sentenza n. 394 del 2006), perché il principio sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost. demanda in via esclusiva al legislatore la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili, impedendo alla Corte di creare nuove fattispecie criminose o estendere quelle esistenti a casi non previsti, ovvero anche di incidere in peius sulla riposta punitiva o su aspetti comunque inerenti alla punibilità (ex plurimis, sentenza n. 394 del 2006; ordinanze n. 204, n. 66, n. 5 del 2009)". 1.2. Richiesta di un intervento additivo a contenuto non costituzionalmente obbligato in materia riservata alla discrezionalità del legislatore. La soluzione postulata dal rimettente, volta a costruire in termini di sussidiarietà i rapporti tra fattispecie penale ed amministrativa di abuso di informazioni privilegiate non rappresenta soluzione in alcun modo vincolata. Ad avviso del rimettente, "sostituendo la clausola che prevede il cumulo sanzionatorio con quella che attribuirebbe carattere sussidiario alla fattispecie amministrativa, la pronuncia manipolativa invocata assicurerebbe (con riguardo all'abuso di informazioni privilegiate, oggetto dell'esame) l'immediato adeguamento della disciplina interna alla direttiva 2014/57/UE", la quale, nell'ottica di "privilegiare la riposta sanzionatoria penale", nella repressione degli abusi di mercato, ha previsto che "le principali fattispecie di abuso di mercato, almeno nei casi gravi e qualore siano commesse con dolo, devono essere sanzionate a titolo di reato (artt. 3 ss.)" (p. 14 dell'ordinanza). Tale modo di argomentare è errato sotto un duplice ordine di ragioni. 1.2.1. In primo luogo, occorre ribadire che l'intervento manipolativo richiesto ha un carattere apertamente creativo che non spetta alla Corte di Cassazione decidere. A tal riguardo non si disconosce il recente mutamento del quadro normativo europeo intervenuto in materia. Tuttavia non è condivisibile la lettura fornita dal Giudice rimettente alla nuova Direttiva 2014/57/UE (c.d. MAD-2) - da recepire in Italia entro il 3 luglio 2016 - che appare poco condivisibile, dal momento che la soluzione proposta toglierebbe, di fatto, ogni spazio applicativo alle sanzioni amministrative in presenza di fatti illeciti compiuti dai c.d. insiders primari. Si rammenta che il Reg. UE n. 596/2014 del 16 aprile 2014 - che ha abrogato la direttiva 2003/6/CE con effetto dal 3 luglio 2016 - ha previsto la comminatoria di sanzioni amministrative per una serie di fattispecie di abusi di mercato, con facoltà di prevedere o mantenere CONTENZIOSO NAZIONALE 65 in funzione aggiuntiva, per le medesime condotte, anche sanzioni di natura penale, ammettendo solo eccezionalmente che "gli Stati membri possono decidere di non stabilire norme relative a sanzioni amministrative di cui al primo comma se tali violazioni siano già soggette a sanzioni penali, nel rispettivo diritto entro il 3 luglio 2016" (art. 30, Par. 1, co. 1). Inoltre il successivo Par. 2, co. 1, impone espressamente agli Stati Membri di provvedere affinché, per alcuni illeciti di mercato tra cui l'abuso di informazioni privilegiate, le autorità competenti abbiano il potere di imporre "almeno" una serie di sanzioni amministrative tassativamente indicate dalla disposizione, anche pecuniarie, a carico di persone fisiche (lett. h, i) e giuridiche. Ne deriva che, a ben vedere, la posizione della Suprema Corte circa le modalità di attuazione della Direttiva 2014/57/UE appare fondarsi più che su considerazioni strettamente giuridiche su valutazioni di politica del diritto non spettanti né alla Corte di cassazione né alla Corte costituzionale ma riservate esclusivamente al legislatore. In sostanza, la questione è inammissibile perché non sussistono comunque i presupposti per una pronuncia manipolativa. Questi, come è noto, si compendiano nell’esservi una sola soluzione normativa costituzionalmente compatibile rispetto a quella costituzionalmente illegittima. Ora, nella fattispecie, considerati gli ambiti di discrezionalità di cui, come appena visto, dispone il legislatore, non potrebbe escludersi che, in ipotesi di ritenuta illegittimità costituzionale delle disposizioni denunciate, il legislatore decida di optare per una soluzione “unitaria”; cioè incentrata esclusivamente su sanzioni amministrative, o esclusivamente (nei limiti compatibili con la Direttiva sopra citata) su sanzioni penali. Non spetta quindi a codesta Corte statuire che la sola soluzione costituzionalmente ipotizzabile sia quella dell’alternatività tra sanzione amministrativa, quando il fatto non costituisca reato, e sanzione penale quando il fatto sia invece qualificabile in questo modo. 1.2.2. In secondo luogo, occorre sottolinare, peraltro, che sia il menzionato Regolamento UE n. 596/2014 che la citata Direttiva n. 2014/57/UE troveranno applicazione negli Stati membri soltanto a decorrere dal 3 luglio 2016, data di abrogazione della Direttiva 2003/6/CE, attualmente vigente (1). Appare incontestabile, pertanto, che sino al 3 luglio 2016, continua ad esplicare piena efficacia, in ambito eurounitario, la Direttiva 2003/6/CE, la quale, lungi dal vincolare i legislatori dei singoli Stati membri a provvedere alla repressione degli abusi di mercato mediante la comminazione di sanzioni penali, impone espressamente, all'art. 14, par. 1, l'obbligo degli ordinamenti nazionali di sanzionare in via amministrativa le fattispecie di market abuse, con facoltà di prevedere, in via cumulativa, anhe sanzioni di natura penale, secondo il meccanismo del c.d. "doppio binario". Al riguardo, giova richiamare la pronuncia della Corte di Giustizia dell'Unione Europea del 23 dicembre 2009, causa C-45/08 Spector Photo Group e Van Raemdonck, relativa alla disciplina dell'insider trading contenuta nella menzionata Direttiva 2003/6/CE. Orbene, in (1) Ed invero l'art. 39, comma 2, del citato Regolamento UE n. 596/2014 stabilisce che il Regolamento in questione "si applica dal 3 luglio 2016"; l'art. 37 del medesimo Regolamento dispone che "la direttiva 2003/6/CE e le direttive 2004/72/CE, 2003/125/CE e 2003/124/CE della Commissione e il regolamento (CE) n. 227/2003 della Commissione sono abrogati con effetto dal 3 luglio 2016". Infine l'art. 13 della richiamata Direttiva n. 2014/57/UE prevede che "Gli Stati membri adottano e pubblicano le diposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla presente direttiva entro il 3 luglio 2016" ed "applicano tali disposizioni a decorrere dal 3 luglio 2016 con riserva dell'entrata in vigore del regolamento (UE) n. 596/2014". 66 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 tale sede si è riconosciuto che "l'art. 14, n. 1, della direttiva 2003/6 deve essere interpretato nel senso che, se uno Stato membro, salvo le sanzioni amministrative previste da tale disposizione, ha previsto la possibilità d'infliggere una sanzione finanziaria penale, nella valutazione del carattere efficace, proporizionato e dissuasivo della sanzione amministrativa non occorre tener conto della possibilità e/o del livello di un'eventuale sanzione penale ulteriore". La circostanza che il menzionato art. 14 dell Direttiva 2003/6/CE contempli la mera facoltà discrezionale e non certo l'obbligo degli Stati membri di assoggettare a sanzione penale le fattispecie di market abuse è stata, altresì, confermata dalla Corte di Cassazione, nella sua più autorevole composizione, affermandosi più volte che "alla stregua del tenore letterale della norma ex art. 187 e delle origini storiche dell'intero corpus legislativo di cui al c.d. TUF, attuativo, come noto, della direttiva 2003/6/CE la quale, nel prevedere l'obbligo di sanzionare in via amministrativa gli abusi de quibus, lascierà poi libero il legislatore nazionale di prevedere, in via cumulativa e non alternativa/sostitutiva, l'irrogazione (anche) di sanzioni penali, scelta, quest'ultima, concretamente attuata dal legislatore italiano, onde rafforzare la tutela del bene protetto attraverso il sistema del doppio binario, con conseguente legittima cumulabilità di fattispecie ex art. 185 e 187 ter" (Cass. SS.UU. civili, nn. 20935, 20936, 20937, 20938, 20939, tutte depositate il 30 settembre 2009). Anche per tali motivi si ritiene che la questione di costituzionalità sollevata in riferimento all'art. 187 bis TUF debba respingersi in rito e, per l'effetto, debba essere dichiarata inammissibile. 2. Infondatezza della questione. La questione sollevata in via principale in riferimento all'art. 187-bis, risulta viziata nel merito e, per l'effetto infondata. 2.1. Come giù rilevato in sede di intervento con riferimento al merito della questione sollevata occorre ribadire come l’intervento manipolativo sull’art. 187-bis, sollecitato dalla Corte rimettente allo scopo di adeguare il principio del ne bis in idem nazionale alle statuizioni della pronuncia Grande Stevens della Corte EDU, renderebbe la menzionata previsione normativa manifestamente contrastante con il nostro ordinamento penale basato su un principio di stretta legalità formale (art. 25 Cost.) e sui suoi corollari (riserva di legge, tassatività e irretroattività). Al riguardo come più volte affermato da codesta Ecc.ma Corte costituzionale "il giudice delle leggi non può sostituire la propria interpretazione di una disposizione della Cedu a quella data in occasione della sua applicazione al caso di specie dalla corte di Strasburgo, [...], esso però è tenuto a valutare come ed in quale misura l’applicazione della convenzione da parte della Corte europea si inserisca nell’ordinamento costituzionale italiano. La norma Cedu, nel momento in cui va ad integrare il 1° comma dell’art. 117 Cost., come norma interposta, diviene oggetto di bilanciamento, secondo le ordinarie operazioni cui questa corte è chiamata in tutti i giudizi di sua competenza (sent. n. 317 del 2009, id., 2010, I, 359). Operazioni volte non già all’affermazione della primazia dell’ordinamento nazionale, ma alla integrazione delle tutele” (Corte Cost n. 264/2012, cfr. sentenze n. 236, n. 113 e n. 1 del 2011, cit.; n. 93 del 2010, cit.; n. 311 del 2009, cit., e n. 239 del 2009, ibid., 345; n. 39 del 2008, id., 2008, I, 1037; n. 349 e n. 348 del 2007, cit.). Si è altresì già evidenziato che, con la sentenza n. 49 del 26 marzo 2015 (Varvara), codesta Ecc.ma Corte è recentemente intervenuta su un caso affine a quello in questione, con riferimento alla portata degli effetti di una pronuncia della Corte EDU che, muovendo dalla configurazione della confisca c.d. urbanistica (art. 44, co. 2, Testo Unico dell’Edilizia) quale sanzione penale anziché amministrativa, aveva concluso per la non applicabilità della con- CONTENZIOSO NAZIONALE 67 fisca in esame in caso di dichiarazione di estinzione del reato. Muovendo dai dubbi esposti dal rimettente sulla compatibilità di una simile prospettiva - volta ad assicurare una tutela assoluta al diritto di proprietà - con la protezione che altri principi costituzionali nazionali (patrimonio storico e artistico, ambiente salubre, ecosistema) assicurano ad altri diritti fondamentali italiani codesto Ecc.mo Collegio ha osservato: “Il rimettente è convinto che, a seguito della sentenza Varvara contro Italia, l’art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, debba assumere, in via ermeneutica, il significato che la Corte di Strasburgo gli avrebbe attribuito, e che, proprio per effetto di un simile processo adattativo, tale significato si presti a rilievi di costituzionalità. Questo modo di argomentare è errato sotto un duplice aspetto. In primo luogo, esso presuppone che competa alla Corte di Strasburgo determinare il significato della legge nazionale, quando, al contrario, il giudice europeo si trova a valutare se essa, come definita e applicata dalle autorità nazionali, abbia, nel caso sottoposto a giudizio, generato violazioni delle superiori previsioni della CEDU. È pertanto quest’ultima, e non la legge della Repubblica, a vivere nella dimensione ermeneutica che la Corte EDU adotta in modo costante e consolidato. Naturalmente, non è in discussione che, acquisita una simile dimensione, competa al giudice di assegnare alla disposizione interna un significato quanto più aderente ad essa (sentenza n. 239 del 2009), a condizione che non si riveli del tutto eccentrico rispetto alla lettera della legge (sentenze n. 1 del 2013 e n. 219 del 2008). Tuttavia, e in secondo luogo, sfugge al rimettente che il dovere del giudice comune di interpretare il diritto interno in senso conforme alla CEDU, appena ribadito, è, ovviamente, subordinato al prioritario compito di adottare una lettura costituzionalmente conforme, poiché tale modo di procedere riflette il predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU (sentenze n. 349 e n. 348 del 2007). Il più delle volte, l’auspicabile convergenza degli operatori giuridici e delle Corti costituzionali e internazionali verso approcci condivisi, quanto alla tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, offrirà una soluzione del caso concreto capace di conciliare i principi desumibili da entrambe queste fonti. Ma, nelle ipotesi estreme in cui tale via appaia sbarrata, è fuor di dubbio che il giudice debba obbedienza anzitutto alla Carta repubblicana”. 2.2. Con l'atto di intervento, questa difesa ha già evidenziato che affidare la tutela a sanzioni solo penali indebolirebbe gravemente l’effettività della disciplina amministrativa dei mercati finanziari. Le sanzioni penali si possono infatti applicare, di regola, solo sulla base dell’accertamento dei fatti oltre ogni ragionevole dubbio, e sulla base dell’accertamento del dolo dell’agente, da intendere come piena consapevolezza dei fatti e come volontà di porli in essere o di avvalersene. Al di fuori di queste condotte si apre tutta una “zona grigia” tra i comportamenti fraudolenti e per questo penalmente rilevanti, e i comportamenti leciti. In altri termini, vi è un amplissimo campo in cui si manifestano comportamenti certamente pregiudizievoli (a volte molto pregiudizievoli) per la trasparenza e il buon funzionamento dei mercati finanziari, che tuttavia non sono comportamenti oggettivamente fraudolenti, né soggettivamente diretti allo scopo deliberato di turbare i mercati. La natura necessariamente amministrativa di queste sanzioni, e segnatamente della sanzione pecuniaria prevista all'art. 187-bis, discende, oltre che dalla loro qualificazione formale, dalla necessità di applicarle a prescindere da comportamenti addirittura artificiosi o fraudolenti e sorretti da dolo specifico (come confermato in termini generali per 68 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 le sanzioni amministrative dall’art. 3 della l. n. 689/1981) e di consentire, invece, di applicarle a tutti i comportamenti anche non fraudolenti e non dolosi, che però siano oggettivamente contrari alle regole amministrative stabilite per assicurare la trasparenza dei mercati. Queste sanzioni, in ragione del loro carattere di immediatezza e di effettività, vogliono rafforzare negli operatori professionali dei mercati finanziari l’efficacia vincolante delle regole amministrative di trasparenza, attraverso un’azione deterrente più celere e mirata, svincolata dalle lungaggini del processo penale, discendendone una maggiore incisività nella tutela del bene costituzionalmente rilevante del "risparmio" (art. 47 Cost.) La natura amministrativa delle infrazioni e delle sanzioni previste dal TUF, e segnatamente dell'art. 187-bis, esclude che esse possano rilevare al fine di accertare una violazione dell’art. 4 del Protocollo 7 e, per il suo tramite, dell’art. 117, comma 1, della Costituzione. Come già evidenziato in punto di eccezione di irrilevanza, il punto di vista della Corte remittente appare poi errato nella misura in cui interpreta la sentenza Grande Stevens come se questa vietasse in assoluto la previsione di un determinato fatto (qui, l’abuso di informazioni riservate) sia come illecito penale che come illecito amministrativo. In realtà, la sentenza, conformemente alla portata precettiva dell’art. 4 Protocollo 7, intende soltanto vietare che per il medesimo fatto materiale siano applicate due volte sanzioni che, pur se di natura diversa, per la loro rilevante afflittività in concreto si connotino come entrambe “penali”. La sentenza Grande Stevens, quindi, non pone in discussione la possibilità generale di prevedere che un medesimo fatto incorra contemporaneamente sotto due previsioni sanzionatorie, entrambe penali, come nel caso del concorso formale, o l’una penale e l’altra amministrativa. Quante volte questa scelta normativa appaia ragionevolmente funzionale ad esaurire completamente il disvalore del fatto, che dal punto di vista degli interessi protetti da esso lesi può ben essere plurioffensivo, la scelta stessa non può essere censurata, e comunque non è vietata dal citato Protocollo. Questo, come si ripete, si colloca soltanto al livello applicativo della risposta sanzionatoria, che non può apparire in concreto così gravosa da rappresentare, in sostanza, vista nella sua totalità una duplicazione di sanzione. Nella specie, la condotta consistente nell’abuso di informazioni riservate è indubbiamente plurioffensiva, al pari delle altre tipizzate nelle disposizioni sanzionatorie del TUF. Si deve infatti considerare che si tratta di illecito proprio, commissibile in linea di principio soltanto da soggetti specificamente qualificati dalla loro carica di esponenti aziendali delle imprese di investimento, o delle imprese emittenti; cioè da soggetti che l’ordinamento settoriale del mercato finanziario grava di speciali obblighi di comportamento. Tali obblighi, e le conseguenti responsabilità, si rivolgono, essenzialmente, in due direzioni: il pubblico degli investitori, da un lato; e l’autorità di vigilanza posta al vertice dell’ordinamento settoriale, dall’altro. Il primo ordine di interessi tutelati o beni protetti (la fiducia degli investitori) si ricollega ai diritti fondamentali degli investitori nei mercati finanziari (riconosciuti anche a livello CEDU, ove sono tutelati la proprietà e la libertà negoziale) la cui importanza economica globale costituisce ormai un fatto acquisito. Come è acquisito che nei mercati finanziari sussiste strutturalmente una incolmabile disparità di competenze e di informazioni tra gli operatori da un lato (intermediari, emittenti, e persone fisiche dei loro dirigenti), e la massa degli investitori dall’altro. Questi ultimi, non potendo disporre di un livello di competenze e di informazioni paragonabile a quello degli operatori, debbono necessariamente fare affidamento sulla correttezza di comportamento degli operatori, e questo affidamento è sensato solo se le norme che disciplinano il comportamento degli operatori sono presidiate da un sistema di controlli e di sanzioni particolarmente stringente ed efficace. CONTENZIOSO NAZIONALE 69 Quando sono in gioco interessi di questa portata, il rispetto degli obblighi amministrativi degli operatori del mercato di fornire al pubblico informazioni complete e veritiere e di non abusare delle informazioni riservate manipolando il mercato (la trasparenza informativa e comportamentale), può essere assicurato soltanto da sanzioni pecuniarie di entità elevata. Pertanto, quando la severità di una sanzione sia il riflesso necessario della rilevanza degli interessi tutelati, cioè si dia un contesto in cui se la sanzione non fosse severa quegli interessi non sarebbero, di fatto, tutelati, la severità non può essere da sola indice del carattere “penale” della sanzione. Diversamente, tutte le sanzioni previste per le violazioni amministrative nel campo dei mercati finanziari regolamentati sarebbero sempre di natura penale: si è visto infatti che l’entità degli interessi coinvolti dalle attività che si svolgono in tali mercati esige indefettibilmente sanzioni di entità elevata. Le sanzioni penali sono tese, invece, a colpire più che il patrimonio dell’operatore infedele nei confronti del pubblico, la figura professionale dell’operatore stesso, che ha violato gli obblighi di correttezza comportamentale nei confronti dell’autorità, rendendone più difficile la vigilanza sul mercato nella misura in cui con la propria scorrettezza ha alterato il normale corso delle negoziazioni e della formazione dei prezzi all’interno di questo. Le sanzioni penali tendono quindi, essenzialmente, ad espellere l’operatore dal mercato in relazione alla pericolosità da questi manifestata per la vigilanza, ed hanno quindi una spiccata attitudine repressiva; laddove le sanzioni amministrative, indirizzate a proteggere l’affidamento degli investitori, tendono prevalentemente a svolgere una funzione generalpreventiva, mercé la loro afflittività patrimoniale, intesa a rendere “economicamente non conveniente” la commissione di determinate forme di approfittamento di posizioni privilegiate a danno del pubblico. In linea di principio, non può quindi dubitarsi della legittimità, se non della necessità, della coesistenza e dell’integrazione dei due sistemi sanzionatori. Del resto, nella già richiamata pronuncia n. 49 del 2015, codesta Ecc.ma Corte costituzionale, nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità sottoposta non ha escluso la validità di un simile sistema sanzionatorio. Ed invero "non può sfuggire che l’autonomia dell’illecito amministrativo dal diritto penale, oltre che ad impingere nel più ampio grado di discrezionalità del legislatore nel configurare gli strumenti più efficaci per perseguire la «effettività dell’imposizione di obblighi o di doveri» (sentenza n. 317 del 1996), corrisponde altresì, sul piano delle garanzie costituzionali, al «principio di sussidiarietà, per il quale la criminalizzazione, costituendo l’ultima ratio, deve intervenire soltanto allorché, da parte degli altri rami dell’ordinamento, non venga offerta adeguata tutela ai beni da garantire» (sentenza n. 487 del 1989; in seguito, sentenze n. 447 del 1998 e n. 317 del 1996). Difatti, «Le esigenze costituzionali di tutela non si esauriscono […] nella (eventuale) tutela penale, ben potendo invece essere soddisfatte con diverse forme di precetti e di sanzioni» (sentenza n. 447 del 1998)". Alla luce delle argomentazioni riportate e dei principi epressi dalla menzionata sentenza di codesta Ecc.ma Corte costituzionale si ritiene che la questione di costituzionalità sollevata in riferimento all'art. 187 bis TUF debba essere respinta nel merito, e, per l'effetto, dichiarata infondata. B) LA QUESTIONE SOLLEVATA IN VIA SUBORDINATA L'ordinanza di rimessione ha escluso che la disposizione dell'art. 649 c.p.p., benché recante un principio di garanzia immanente nell'ordinamento (SS.UU., n. 34655, depositata il 28 settembre 2005, Donati ed altro), possa essere interpretata estensivamente, nel senso di comprendere nel concetto di "sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili" anche i 70 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 provvedimenti di condanna definiti "penali" dalla Corte EDU. Secondo il giudice a quo tale interpretazione non risulta percorribile per un duplice ordine di ragioni: - Anzitutto, la soluzione interpretativa, appare incompatibile con il dato testuale dell'art. 649 c.p.p. il quale inequivocabilmente circoscrive il divieto di un secondo giudizio alla materia "penale", prescrivendo che "L'imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze, salvo quanto diposto dagli artt. 69, comma 2, e 345". - Inoltre, ad una dilatazione "eccentrica" del dato letterale si oppongono ragioni di ordine sistematico, individuate dal rimettente (pp. 7-8 dell'ordinanza). Condividendo quanto evidenziato dalla Corte rimettente, il dato letterale, storico e sistematico rappresenta un ostacolo insormontabile all’ipotizzata operazione di adeguamento in via interpretativa della norma codicistica. 1. Inammissibilità della questione. 1.1. Contradditorietà della motivazione. Fermo quanto sopra, la questione sollevata di legittimità costituzionale sollevata in via subordinata con riguardo all'art. 649 c.p.p. appare inammissibile, per contraddittorietà della motivazione dell'ordinanza di rimessione in punto di non manifesta infondatezza. Ed invero, il giudice a quo, ha ritenuto non manifestamente infondata la questione sollevata dopo aver espressamente illustrato che l'art. 649 c.p.p., così come modificato a seguito dell'intervento additivo prospettato, rivelerebbe "un'incogruenza sistematica". È lo stesso giudice remittente a evidenziare, infatti che "al di là di qualsiasi considerazione circa l'evidente irragionevolezza, sul piano della gestione delle risorse e su quello delle possibili disparità di trattamento tra singoli destinatari delle sanzioni, di una duplicazione di procedimenti destinata ab initio a concludersi con l'accertamento di una violazione del divieto del ne bis in idem, deve rilevarsi che la stessa incertezza sulla sorte dei due procedimenti avviati (uno dei quali destinato, appunto, a generare la violazione del ne bis in idem) sarebbe inevitabilmente destinata a riflettersi sull'effettività della risposta sanzionatoria, compromessa - o comunque sensibilmente ridimensionata dalla prospettiva di "azzeramento" del procedimento (quello penale, nei casi che dovrebbero risultare statisticamente più frequenti) ancora in corso al momento dell'irrevocabilità della sanzione irrogata all'esito del diverso procedimento" (pp. 16-17 dell'ordinanza). In altre parole, lo stesso giudice a quo, appare ben consapevole degli effetti deflagranti che comporterebbe l'eventuale accoglimento dell'intervento manipolativo invocato, ponendosi quest'ultimo in contrasto con una pluralità di interessi costituzionalmente protetti, e segnatamente col principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), col principio del buon andamento dei pubblici uffici (art. 97 Cost.), e col principio di effettività della risposta sanzionatoria in materia di abusi di mercato, consacrato a livello eurounitario dalle Direttive 2003/6/CE e 2014/57/UE, rilevante ai sensi dell'art. 11 e dell'art. 117, primo comma, Cost. La pronuncia manipolativa dell'art. 649 c.p.p. rappresenta una soluzione della cui incostituzionalità la Cassazione remittente è ben consapevole, e pertanto il percorso argomentativo del rimettente risulta viziato da una intrinseca e non sanabile contraddizione, da cui discende l'inammissibilità della questione sollevata in via subordinata. 2. Infondatezza della questione. La questione di costituzionalità sollevata in via subordinata in riferimento all'art. 649 c.p.p., risulta inoltre viziata nel merito e, per l'effetto, infondata. CONTENZIOSO NAZIONALE 71 Le medesime ragioni prospettate dalla Corte di Cassazione, poc'anzi richiamate, evidenziano l'irrimediabile contrasto dell'intervento additivo sollecitato con numerosi precetti costituzionali interni che fissano principi generali di centrale rilevanza nell'assetto costituzionale italiano. Ciò sull'assunto, secondo il consolidato indirizzo inaugurato dalle c.d. "sentenze gemelle" nn. 348 e 349 del 2007 di codesta Ecc.ma Corte, che le norme della Convenzione presentano un grado di penetrazione all'interno del nostro ordinamento significativamente inferiore rispetto a quello del diritto eurounitario, ponendosi, in virtù del richiamo operato dall'art. 117, co. 1, Cost., ad un livello "subcostituzionale" rispetto alle norme (a tutte le norme) di natura costituzionale, da cui scaturisce l'immediato corollario secondo cui deve essere esclusa l'idoneità della norma convenzionale a integrare l'art. 117, co. 1, Cost. tutte le volte in cui la norma della Convenzione si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione (in questi termini, C. cost., n. 264/2012). 2.1. Anzitutto, come già rilevato in sede di atto di intervento, la prospettata modifica del principio del ne bis in idem nazionale di cui all’art. 649 c.p.p., contrasterebbe, con l’art. 3 Cost., essendo irragionevole che soggetti autori del medesimo fatto siano sottoposti a sanzione di tipo diverso (penale o amministrativa) in conseguenza di un accadimento processuale del tutto casuale ed aleatorio quale il passaggio in giudicato della sentenza che definisce uno dei due procedimenti; tanto più quando tale passaggio in giudicato, come nella fattispecie, sia determinato dalla volontaria rinuncia dello stesso interessato ad impugnare la sentenza che ha confermato la sanzione amministrativa. A ciò aggiungasi il profilo dell'irragionevolezza di una scelta interpretativa dell'art. 649 c.p.p, la quale presuppone ab origine il rischio di rendere del tutto superfluo l'avvio e lo svoglimento di uno dei due procedimenti destinato ad "azzerarsi" (secondo le parole della Cassazione rimettente), per l'intervenuta definizione dell'altro. Il che, in primo luogo, avrebbe inevitabili riflessi sull'efficacia e l'efficienza dell'azione della Consob, determinando una ineludibile violazione del canone di buon andamento dei pubblici uffici di cui all'art. 97 Cost. In secondo luogo, e ancor più gravemente, è innegabile che gli esiti applicativi della norma così manipolata registrebbero un epiologo dei due procedimenti, penale ed amministrativo, sostanzialmente governato dall'autore della condotta in base a valutazioni di convenienza di tipo strettamente personale. Se è vero, infatti, che i casi "statisticamente più frequenti" di "azzeramento" del procedimento dovrebbero in teoria riguardare il giudizio penale, i cui tempi di celebrazioni sono usualmente più lunghi rispetto a quelli del procedimento amministrativo e dell'eventuale giudizio di opposizione davanti al giudice civile, l'esperienza concreta della Consob annovera anche casi di imputati che hanno preferito chiudere il procedimento penale tramite il ricorso all'istituto dell'applicazione della pena su richiesta (art. 444 c.p.p.), determinando così l'esaurimento della vicenda penale, mentre il giudizio civile sull'opposizione alla sanzione amministrativa era ancora pendente. In sede di opposizione, essi hanno poi invocato il divieto di bis in idem di cui all'art. 4, Prot. 7, CEDU, come interpretato dalla sentenza Grande Stevens. A riprova di ciò, la dinamica processuale appena descritta, è quella che ha dato luogo alla questione di costituzionalità sollevata, quasi in contemporanea, dalla Sezione tributaria civile della stessa Corte di cassazione (Cass., sez. trib., ord. 21 gennaio 2015, n. 950). Come efficacemente sottolineato da autorevole dottrina "fin quando uno stesso illecito resti punibile tanto con sanzioni penali che con sanzioni amministrative, inflitte tramite percorsi procedurali distinti, il divieto “dilatato” del bis in idem equivale difatti, in pratica, alla co- 72 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 dificazione della regola “vince chi arriva prima”. Col risultato che il trattamento sanzionatorio del medesimo illecito finisce per essere determinato da un fattore casuale (ma, in buona misura, anche “pilotabile” dall’interessato o dalla controparte pubblica tramite i meccanismi di impugnazione): sarà penale o amministrativo a seconda di quale, tra i due procedimenti sanzionatori, sia giunto per primo al traguardo della decisione definitiva. Tramite un simile congegno, d’altra parte, la previsione di sanzioni (formalmente) extrapenali in funzione “di rinforzo” rispetto a quelle di natura criminale rischia di trasformarsi, con eterogenesi dei fini, in un fattore di “esonero” da queste ultime" (così G.M. FLICK, V. NAPOLEONI, A un anno di distanza dall'affaire Grande Stevens: dal bis in idem al e pluribis unum?, in Rivista AIC, n. 3/2015, 10 luglio 2015, pp. 16-17). 2.2. Inoltre, l’applicazione dell’art. 649 c.p.p. così come modificato a seguito della pronuncia manipolativa invocata dal giudice a quo, pregiudicando la certezza del tipo di risposta sanzionatoria comminata dall’ordinamento nazionale a fronte di fattispecie di insider trading, si porrebbe in contrasto con gli artt. 11 e 117 Cost., dal momento che lederebbe il canone di effettività delle sanzioni in materia di market abuse prescritto dal diritto dell'Unione europea (e segnatamente dalle Direttive 2003/6/CE e 2014/57/UE) in funzione della salvaguardia dell’integrità dei mercati finanziari, e quindi, in ultima analisi, della tutela del risparmio, bene protetto anche in ambito nazionale dall’art. 47 Cost. In proposito, la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, pur riconoscendo, in determinati casi, la validità dei criteri sostanzialistici individuati dalla Corte EDU (natura della violazione, natura e gravità della sanzione), li considera prevalenti rispetto a criteri di legalità formale (quali quello dettato dall’art. 25, comma 2, Cost.) soltanto se la loro applicazione non comprometta il primato e l’effettività del diritto dell’Unione, rimettendo la valutazione al giudice nazionale anche alla luce dei principi costituzionali e della tradizione giuridica dei paesi membri (sul punto, cfr., in particolare, Corte Giust., Grande Sezione, 26 febbraio 2013, causa C-617/10, Aklagaren c. Hans Akerberg Fransson). 2.3. Occorre perlatro dare conto del fatto che la questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p. per l’asserita impossibilità di applicarlo al caso del concorso di sanzioni penali e sanzioni amministrative, dopo la sentenza Grande Stevens, è già stata ritenuta manifestamente infondata dalla stessa Corte di Cassazione, nella considerazione che “tale estensione della sfera applicativa del ne bis in idem non opera in via generale ma solo nelle ipotesi in cui la procedura amministrativa sfoci in un provvedimento particolarmente afflittivo e la decisione sia divenuta definitiva. Al proposito la corte di Strasburgo ha affermato di ritenere prevalente la sostanza delle sanzioni sulla loro forma: la reale natura delle misure sanzionatorie previste negli ordinamenti nazionali viene apprezzata alla luce delle loro concrete peculiarità e conseguenze e non in forza della mera qualificazione giuridica ad esse riconosciuta; occorre analizzare, dunque, i parametri idonei a rivelare la sostanziale essenza penale di un determinato provvedimento secondo i criteri già espressi con la sentenza Engel c. Paese Bassi dell'8 giugno 1976, ovvero la qualificazione dell'infrazione, la natura dell'infrazione e l'intensità della sanzione comminata [...]. Il problema interpretativo che si pone consiste, dunque, nel considerare se le due norme [...] configurino un concorso apparente di norme, che si verifica quando la medesima condotta criminosa risulta, solo in apparenza, riconducibile a più fattispecie di reato ma nella realtà ne integra una solo, o se, invece, esse sanzionino fatti diversi. Invero solo nel primo caso (concorso apparente di norme), si potrebbe ritenere che il principio espresso dalla corte di Strasburgo con la sentenza Grande Stevens abbia una ricaduta nel senso che, essendo già stata applicata la sanzione amministrativa, nell'irrogare la CONTENZIOSO NAZIONALE 73 sanzione penale si incorrerebbe nel divieto del bis in idem” (Cass. Pen. IV, 6.2-2.3.2015, n. 9168, Meligeni). Va allora escluso che nella fattispecie del concorso di sanzione amministrativa e di sanzione penale aventi oggettività giuridica distinta e diversi elementi costitutivi, in particolare dal punto di vista dell’elemento soggettivo, si verifichi in linea di principio un concorso apparente. Non si ignora l'approccio intepretativo di stampo sostanzialstico seguito della Corte di Strasburgo in riferimento al concetto di "idem", rappresentato emblematicamente dal leading case in materia Sergey Zolotukhin, richiamata nella pronuncia Grande Stevens, ove i Giudici di Strasburgo, rilsolvendo un contrasto interpretativo generato dalla delimitazione del concetto di "same offence", hanno affermato che occorre avere riguardo alla sostanziale assimilabilità delle condotte concretamente perseguite (Corte eur. dir. uomo, Grande Camera, 10 febbraio 2009, Zolotukhin c. Russia). In altri termini, secondo i dettami di Strasburgo, a fini della operatività della garanzia posta dall'art. 4, Protocollo n. 7, nelle sue due anime rappresentate dal divieto di essere punito due volte (c.d. ne bis in idem sostanziale) e dal divieto di essere nuovamente sottoposto a giudizio per lo stesso fatto (c.d. ne bis in idem processuale), è sufficiente l'accertamento della coincidenza del mero "fatto storico" contestato e formalizzato in due distinti procedimenti (idem factum), non richiedendosi la coincidenza di tutti gli elementi costitutivi del reato e dei beni giuridici tutelati (idem legale). Tuttavia non sembra, peraltro, che si debba giungere addirittura ad una radicale inversione di rotta, dismettendo la tradizionale lettura del principio di specialità in chiave di confronto tra paradigmi sanzionatori astratti, per abbracciare l’opposto criterio della c.d. specialità in concreto. Come è stato efficacemente osservato, in effetti "l’approccio della Corte europea non comporta ancora una totale obliterazione della caratterizzazione delle singole condotte illecite, che pur sembrerebbero fondersi in un’unica violazione sul piano naturalistico. Ne danno la misura proprio le recenti pronunce relative al doppio binario sanzionatorio in materia tributaria nei Paesi scandinavi. Nell’occasione, i giudici di Strasburgo hanno infatti escluso che l’applicazione in via definitiva di sanzioni amministrative per l’irregolare tenuta delle scritture contabili impedisca di perseguire penalmente la dichiarazione d’imposta infedele, basata sulle risultanze delle scritture. Ciò in quanto non si tratta del medesimo fatto: l’accounting offence - pur inserendosi nella stessa serie naturalistica, così da potersi considerare normalmente prodromica all’evasione fiscale - ha comunque una propria autonomia rispetto alla violazione tributaria che esige elementi aggiuntivi [cfr. Corte eur. dir. uomo, 27 novembre 2014, Lucky Dev c. Svezia; Corte eur. dir. uomo, 10 febbraio 2015, Kiiveri c. Finlandia]. A questa stregua, i casi ordinariamente ricondotti al paradigma della specialità in concreto (si pensi, in ambito esclusivamente penalistico, al classico esempio della truffa mediante falso in cambiale) ben potrebbero dar luogo ad una duplice risposta sanzionatoria, senza incorrere in censure di violazione dell’art. 4 Prot. n. 7" (G.M. Flick, V. Napoleoni, A un anno di distanza dall'affaire Grande Stevens: dal bis in idem al e pluribis unum?, cit., pp. 27-28). 2.4. Né potrebbe configurarsi il contrasto di giudicati. In proposito il diritto vivente ha da tempo e costantemente attestato che nel caso di giudizio avente per oggetto più reati, di cui alcuni coperti da giudicato per mancata impugnazione delle corrispondenti pronunce assolutorie ed altri, ai primi connessi, oggetto invece di rituale impugnazione, la valutazione delle censure proposte deve essere intrinseca ai singoli fatti ancora sub iudice, ma ciò non esclude che gli stessi fatti storici, già oggetto di proscioglimenti defi- 74 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 nitivi, possano essere considerati, anche nell'ambito dello stesso processo e nei confronti del medesimo imputato, nella valutazione della sua responsabilità per altri fatti sui quali non sia ancora stata emessa una pronuncia irrevocabile. Si richiama, in proposito, la giurisprudenza della Corte di cassazione nella sua più autorevole composizione, secondo la quale è legittimo assumere, come elemento di giudizio autonomo, circostanze di fatto raccolte nel corso di altri procedimenti penali, pur quando questi si sono conclusi con sentenze irrevocabili di assoluzione, perché la preclusione del giudizio impedisce soltanto l'esercizio dell'azione penale per il fatto-reato che di quel giudicato ha formato oggetto, ma nulla ha a che vedere con la possibilità di una rinnovata valutazione delle risultanze probatorie acquisite nei processi ormai conclusisi, una volta stabilito che quelle risultanze probatorie possono essere rilevanti per l'accertamento di reati diversi da quelli già giudicati. L'inammissibilità di un secondo giudizio per lo stesso reato non vieta, quindi, di prendere in considerazione lo stesso fatto storico, o particolari suoi aspetti, per valutarli liberamente ai fini della prova concernente un reato diverso da quello giudicato, in quanto ciò che diviene irretrattabile è la verità legale del fattoreato, non quella reale del fatto storico (Sez. U, n. 2110 del 23 novembre 1995, dep. 23 febbraio 1996, Fachini, Rv. 203765; conformi: n. 1495 del 1999 Rv. 212271; n. 15 del 2000 Rv. 215977; n. 7030 del 2003 Rv. 223527; n. 45153 del 2008 Rv. 242210; n. 6482 del 2011 Rv. 249467; n. 26725 del 2013 Rv. 256724; n. 41003 del 2013 Rv. 257239). Questi principi, a fortiori, debbono valere quindi nel caso di concorso tra procedimenti, e relativi provvedimenti, rivolti all’applicazione uno di sanzioni penali, l’altro di sanzioni amministrative. In ciò si apprezza quindi, osserviamo a questo punto solo per ragioni di chiarezza espositiva, una ulteriore ragione di irrilevanza della questione. Infatti, ai fini della valutazione della rilevanza della questione subordinata, sarebbe semmai apparso più coerente il riferimento all’art. 669 c.p.p. (che disciplina il c.d. conflitto pratico di giudicati) anziché all’art. 649 c.p.p., dal che consegue, appunto, l’irrilevanza della questione. 2.5. Ancora, la modifica dell’art. 649 c.p.p. richiesta dall’ordinanza di rimessione potrebbe porsi in conflitto col principio di obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost., atteso che il passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio sulle sanzioni amministrative applicate dalla Consob verrebbe a paralizzare la prosecuzione obbligatoria dell’azione penale da parte del pubblico ministero prescritta dal menzionato art. 112 Cost. P.Q.M. Il Presidente del Consiglio dei Ministri insiste affinchè codesta Ecc.ma Corte costituzionale voglia: - dichiarare inammissibile e/o comunque non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 187-bis, comma 1, del decreto legislativo n. 58 del 1998, per violazione dell'art. 117, comma 1, della Costituzione, in relazione all'art. 4, Protocollo n. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali, promossa con l'ordinanza indicata in epigrafe - dichiarare inammissibile e/o comunque non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 649 c.p.p., per violazione dell'art. 117, comma 1, della Costituzione, in relazione all'art. 4, Protocollo n. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali, promossa con l'ordinanza indicata in epigrafe. Roma, 9 dicembre 2015 AVVOCATO DELLO STATO Mario Antonio Scino CONTENZIOSO NAZIONALE 75 CT 6613/2015 - Sez. IV - Avv. Scino AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO ECC.MA CORTE COSTITUZIONALE MEMORIA ILLUSTRATIVA (ai sensi dell'art. 10 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, 19 marzo 1956, pubblicato in G.U. il 24 marzo 1956, n. 71, e ss. mm.) per il Presidente del Consiglio dei Ministri, (C.F. 80188230587) rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, (C.F. 80224030587, FAX 06/96514000 e PEC ags_rm2@mailcert.avvocaturastato.it) presso i cui uffici domicilia in Roma alla Via dei Portoghesi n. 12 ex lege nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale, promosso dalla Suprema Corte di Cassazione, sezione Tributaria Civile, con ordinanza n. 950 del 6 novembre 2014, depositata il 21 gennaio 2015 (G.U. 1a Serie Speciale - Corte costituzionale n. 15 del 15/04/2015), nel ricorso proposto da Garlsson Real Estate SA in liquidazione, R.S., Magiste International SA in persona del liquidatore e legale rappresentante pro tempore, contro Consob, avverso la sentenza n. 4297/2008 della Corte d'Appello di Roma, relativamente all'art. 187-ter, comma 1, del D.Lgs. 24 febbraio 1998 n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria). ****** PREMESSA Tale memoria illustrativa costituisce integrazione dell'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri dell'11 aprile 2015, depositato nei termini di legge. Per semplificazione e chiarezza espositiva si rende doveroso, e comunque si suggerisce, il richiamo testuale ad alcuni dei motivi già formulati in tale sede, risultando, per il resto, integralmente richiamate le censure già avanzate. ****** Con ordinanza interlocutoria n. 950 del 6 novembre 2014, depositata il 21 gennaio 2015, la Suprema Corte di Cassazione, sezione Tributaria Civile, ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 187-ter, comma 1, D.Lgs. 58/1998 alla luce della sentenza della Corte EDU del 4 marzo 2014, Grande Stevens, il cui contenuto rilevante è individuabile nel riconoscimento della natura sostanzialmente penale delle sanzioni amministrative applicate dalla Consob in materia di abusi di mercato e nella conseguente incompatibilità con il principio del “ne bis in idem”, di cui agli artt. 2 e 4 del Protocollo n. 7 della CEDU, del regime del "doppio binario" sanzionatorio previsto dalla legislazione italiana per detti illeciti. L’ordinanza è stata emessa dalla Suprema Corte nell’ambito del procedimento di impugnazione (giunto in fase di legittimità) delle sanzioni amministrative applicate dalla Consob, con delibera n. 16113 del 19 settembre 2007, a S.R., per gli illeciti di manipolazione del mercato (art. 187-ter, comma 3, lett. c), d.lgs. 58/1998) e di procurato ritardo all’esercizio delle funzioni di vigilanza della Consob (art. 187-quinquiesdecies d.lgs. 58/1998) e a Garlsson Real Estate SA e Magiste International SA, per l’illecito di cui all’art. 187-quinquies, comma 1, lett. a), D.Lgs. 58/1998, in relazione alle condotte di manipolazione del mercato poste in essere dal R. nel loro interesse. In prossimità dell’udienza di trattazione della causa, i ricorrenti hanno depositato in cassazione 76 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 la sentenza - passata in giudicato - della quinta sezione penale del Tribunale di Roma n. 24796/08, contenente il patteggiamento della pena da parte di S.R., in relazione, tra l’altro, al reato di manipolazione del mercato di cui all’art. 185 D.Lgs. 58/1998 e da parte delle società Magiste International SA e Garlsson Real Estate SA in relazione all’illecito amministrativo previsto dagli artt. 5, 25-ter, lett. r), e 25-sexies D.Lgs. 231/2001, loro ascritto per essere stato il reato di manipolazione commesso dal R. nel loro interesse. I ricorrenti hanno quindi dedotto il contrasto fra il sistema del doppio binario sanzionatorio, vigente nel nostro ordinamento in materia di abusi di mercato, e il principio del ne bis in idem sancito dall’art. 4 del Protocollo 7 della CEDU. Affermata preliminarmente l’assimilabilità della sentenza di patteggiamento alla sentenza penale di condanna, la sezione tributaria della Cassazione ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la «questione di legittimità costituzionale riguardante l’art. 187 ter punto 1 del decreto legislativo n. 58 del 1998, alla luce della sentenza della Corte EDU del 4 marzo 2014, che ha ritenuto che le sanzioni amministrative previste dalla disciplina italiana sugli abusi di mercato siano da considerarsi “penali”, a prescindere dalla loro qualificazione formale nel diritto interno, per contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., anche alla luce degli artt. 2 e 4 del Protocollo 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nella parte in cui prevedendo la comminatoria congiunta della sanzione penale prevista dall’art. 185 del D.Lgs. n. 58 del 1998 e della sanzione amministrativa prevista per l’illecito di cui all’art. 187 ter D.Lgs. cit., viola i vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, in ragione della definitività della sentenza del tribunale di Roma n. 24796/08 del 10 dicembre 2008, passata in giudicato nei confronti delle parti ricorrenti». ****** Esaminata la questione sollevata dalla Suprema Corte di Cassazione suindicata, si osserva quanto segue. 1. Inammissibilià della questione. La questione di costituzionalità sollevata incidentalmente nel giudizio a quo è inammissibile per il seguente ordine di ragioni. 1.1. Irrilevanza della questione sollevata in riferimento alla posizione delle società Garlsson Real Estate SA e Magiste International SA. 1.1 Come già evidenziato nell'atto di intervento la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento all'art. 187-ter TUF, appare, anzitutto, inammissibile per difetto del requisito della rilevanza quanto alla posizione delle società Garlsson Real Estate SA e Magiste International SA, le quali sono state sanzionate con la delibera Consob per l’illecito di cui all’art. 187-quinquies D.Lgs. 58/1998 e con la sentenza del giudice penale per l’illecito previsto dagli artt. 5, 25-ter e 25-sexies D.Lgs. 231/2001, di talché nessuna influenza può esplicare nel giudizio a quo, per la parte ad esse relativa, la soluzione della questione di costituzionalità concernente l’art. 187-ter D.Lgs. 58/1998, sollevata dalla Cassazione. Occorre evidenziare al riguardo che l’illecito ex D.lgs. 231/2001, ascritto alle società, ha carattere amministrativo. Ne discende che per Garlsson Real Estate e Magiste International non si pone alcun problema di violazione del principio del ne bis in idem perché le sanzioni amministrative applicate dalla Consob, anche a volerne ammettere la natura sostanzialmente penale come affermato dalla Corte EDU, si affiancano nella fattispecie ad altre sanzioni di natura amministrativa (1). 1.2. Irrilevanza della questione sollevata in riferimento alla posizione di S.R. Posta la non rilevanza della questione sollevata quanto alle posizioni delle società Garlsson CONTENZIOSO NAZIONALE 77 Real Estate SA e Magiste International SA, per i motivi sopraesposti, occorre considerare la posizione di S.R. Sarebbe stato onere del Giudice rimettente motivare e spiegare perché nel caso in esame l’inflizione all’interessato di una sanzione amministrativa non definitiva (art. 87-ter TUF), seppur applicata nel massimo edittale di Euro 5.000.000, abbia costituito una afflizione di tale gravità da ostare al concorso con essa di una sanzione penale. In realtà, nella vicenda qui in esame, il concorso tra le due "pene" è solo apparente. Lo stesso Giudice remittente riconosce espressamente che "sia la condanna penale (con pena estina per l'indulto), sia le sanzioni accessorie sono state comminate in forza di reati in parte diversi da quelli oggetto di sanzione amministrativa [...]. In concreto la sanzione penale non risulta essere stata oggettivamente afflittiva, essendo stata interamente condonata a seguito di indulto e non essendo emerso, nel giudizio di merito che le pene accessorie abbiano avuto anch'esse efficacia, in concreto, oggettivamente afflitive, nei confronti del R." (pag. 18 dell'ordinanza interlocuoria). La questiona sollevata è pertanto irrilevante, perché nella specie non sussiste alcun bis in idem in concreto tra la sanzione formalmente amministrativa ma sostanzialmente penale, secondo un'intepretazione convenzionalmente orientata, irrogata al R. ex art. 187-ter TUF, e la sanzione penale, di cui all'art. 185 TUF. 1.3. Manifesta inammissibilità per indeterminatezza, ambiguità, incertezza dell'intervento richiesto. 1.3.1. L'ordinanza di rimessione è inoltre palesemente inammissibile sotto il profilo contenutistico, in quanto, se da un lato espone le ragioni del contrasto ravvisato tra normativa nazionale e la Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, dall'altro non specifica quale intervento sia richiesto a codesta Ecc.ma Corte per emendare l'art. 187-ter, D.Lgs. n. 58/1998, del preteso profilo di illegittimità costituzionale. Come noto, costituisce causa di (manifesta) inammissibilità la formulazione di un petitum oscuro, perplesso, indeterminato, ambiguo o contraddittorio (cfr. C. Cost. nn. 165/2012 e 220/2012), ovvero indeterminato e non specifico (cfr. C. Cost. n. 140/2012). 1.3.2. Orbene, il Giudice rimettente, escludendo la possibilità di un'interpretazione secundum constitutionem dell'art. 187-ter, D.Lgs. n. 58/1998, pone a codesto Ecc.mo Collegio i seguenti quesiti "aperti", senza circoscrivere adeguatamente il proprio petitum : a) "La mancata previsione dell'allargamento del principio "ne bis in idem" anche ai rapporti tra processi e, specificamente, tra sanzione penale e amministrativa di natura penale appare (1) Ed invero, come chiarito dalla sentenza del Tribunale di Roma n. 24796/08 del 10 dicembre 2008 (pp. 2 ss.), il d.lgs. 231/2001 «ha istituito un sistema di sanzioni conseguenti alla individuazione di un illecito amministrativo” le quali “debbono essere applicate - una volta accertati i fatti - nell’ambito del medesimo procedimento penale a carico dei soggetti fisici che hanno assunto la veste di imputati, e ciò in base all’art. 36 della legge (‘.. la competenza a conoscere gli illeciti amministrativi appartiene al giudice penale competente per i reati dai quali gli stessi dipendono ..’)”; “dalla connessione voluta dalla legge discende la possibilità di applicare anche agli enti alcuni istituti di carattere processualpenalistico, originariamente riservati al solo imputato-persona fisica”, tuttavia «le ragioni che inducono ad ammettere il patteggiamento .. - sostanzialmente afferenti alla necessità di trattare congiuntamente il fatto reato e l’illecito amministrativo connesso - non hanno nulla a che vedere con la sorte delle sanzioni previste per gli enti che rimangono, per la loro natura amministrativa, escluse dal provvedimento di clemenza appena ricordato [l’indulto ex lege 241/2006, applicato al R., n.d.r.], destinato ad estinguere le sanzioni penali e non quelle amministrative». 78 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 non conforme alle norme costituzionali, i1 che comporta che la questione di costituzionalità che con la presente ordinanza si solleva è rilevante nel giudizio de quo, giacche ´non appare conforme ai principi sovranazionali sanciti dalla CEDU la previsione del doppio binario e, quindi della cumulabilità tra sanzione penale e amministrativa, applicata in processi diversi, qualora quest'ultima abbia natura di sanzione penale, ancorché davanti alla Cedu la prospettazione riguardasse la sanzione penale conseguente alla sanzione amministrativa e nel presente giudizio si tratti di sanzione amministrativa comminata dalla Consob successiva a sanzione penale" (pag. 15-16). b) "Va, anche rimessa alla Consulta, alla luce dei principi CEDU, determinare il rilievo, ai fini della applicazione del principio del "ne bis in idem", della valutazione, da parte del giudice nazionale, della effettiva afflittività della sanzione penale che, nella specie, e` limitata, di fatto, alle sole pene accessorie (la pena in concreto inflitta - tre anni - è `stata dichiarata interamente condonata), senza che sia emersa prova, nel giudizio di merito, di un effettivo pregiudizio nelle sfera personale - patrimoniale del R., non risultando comminata alcuna pena pecuniaria, mentre la sanzione comminata dalla Consob e`, invece, solamente di natura pecuniaria (€ 5.000.000)" (pag. 16). c) Inoltre, "occorre anche verificare se la obbligatorietà delle sanzioni amministrative nel sistema degli illeciti di market abuse sia configgente col sistema del c.d. divieto del ne bis in idem, allorché venga preliminarmente emessa una sanzione penale e se, eventualmente, quest'ultima, a prescindere dalla sua afflittività e proporzionalità, in relazione al fatto commesso, sia preclusiva alla comminatoria della sanzione amministrativa, o se ne debba solamente tenere conto al fine della successiva comminatoria della sanzione amministrativa" (pag. 16). d) "L'art. 187 terdecies del TUF (Esecuzione delle pene pecuniarie e delle sanzioni pecuniarie nel processo penale prevede), al comma 1, che «quando per lo stesso fatto è stata applicata a carico del reo o dell'ente una sanzione amministrativa pecuniaria ai sensi dell'art. 187-septies ... la esazione della pena pecuniaria e della sanzione pecuniaria dipendente da reato e` limitata alla parte eccedente quella riscossa dall'Autorità amministrativa». Trattasi del principio del "ne bis in idem attenuato" a cui fa da contraltare il principio del doppio binario attenuato che potrebbero trovare anche applicazione nella fattispecie in esame ove la Consulta dovesse propendere per una pronuncia additiva. Potrebbe cosi` anche trovare quantomeno parziale legittimità costituzionale il regime del c.d. "doppio binario", sia pure nei limiti che eventualmente la Corte vorrà individuare, con conseguente cumulo delle rispettive sanzioni, valutando la possibile applicazione del principio della progressione illecita tra le due fattispecie, penale e amministrativa" (pag. 17). e) Infine, "si chiede anche alla Consulta di verificare se il principio del «ne bis in idem» sancito dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo (Cedu), vieti tout court di sanzionare, in diversi processi, due volte lo stesso illecito, impedendo allo stato membro di comminare una violazione amministrativa di natura penale in presenza di una sanzione penale per gli stessi fatti, o viceversa, e quindi se sia sufficiente l'astratta comminatoria di una sanzione penale a rendere illegittima la successiva sanzione amministrativa, sempre che abbia natura penale, oppure se debba, comunque, tenersi conto, nella determinazione della sanzione amministrativa, della sanzione penale, in ossequio ai principi di effettività e proporzionalità" (pag. 18). 1.3.3. Al lume della motivazione dalle cadenze non del tutto trasparenti, le richieste del Collegio rimettente sembrerebbero oscillare tra una “ablativa secca” dell'art. 187-ter TUF e una non meglio precisata pronuncia «additiva» ispirata al «principio del doppio binario attenuato», CONTENZIOSO NAZIONALE 79 senza indicare in modo chiaro e univoco quale sia la soluzione alternativa auspicata. In definitiva, l’individuazione degli esatti contenuti della pronunzia viene espressamente demandata a codesta Ecc.ma Corte costituzionale, rappresentandosi un petitum caratterizzato da profili di amibiguità, incertezza, e indeterminatezza in ordine al contenuto dell'intervento richiesto, da cui ne discende la manifesta inammissibiltà della questione di costituzionalità sollevata. 2. Manifesta infondatezza della questione sollevata in via principale. 2.1 Con riferimento al merito della questione sollevata occorre ribadire come l’intervento manipolativo sull’art. 187-ter sollecitato dal remittente allo scopo di adeguare il principio del ne bis in idem nazionale alle statuizioni della pronuncia Grande Stevens della Corte EDU, renderebbe la menzionata previsione normativa manifestamente contrastante con il nostro ordinamento penale basato su un principio di stretta legalità formale (art. 25 Cost.) e sui suoi corollari (riserva di legge, tassatività e irretroattività). Al riguardo “come più volte affermato da questa corte (sentenze n. 236, n. 113 e n. 1 del 2011, cit.; n. 93 del 2010, cit.; n. 311 del 2009, cit., e n. 239 del 2009, ibid., 345; n. 39 del 2008, id., 2008, I, 1037; n. 349 e n. 348 del 2007, cit.), il giudice delle leggi non può sostituire la propria interpretazione di una disposizione della Cedu a quella data in occasione della sua applicazione al caso di specie dalla corte di Strasburgo, [...], esso però è tenuto a valutare come ed in quale misura l’applicazione della convenzione da parte della Corte europea si inserisca nell’ordinamento costituzionale italiano. La norma Cedu, nel momento in cui va ad integrare il 1° comma dell’art. 117 Cost., come norma interposta, diviene oggetto di bilanciamento, secondo le ordinarie operazioni cui questa corte è chiamata in tutti i giudizi di sua competenza (sent. n. 317 del 2009, id., 2010, I, 359). Operazioni volte non già all’affermazione della primazia dell’ordinamento nazionale, ma alla integrazione delle tutele” (Corte Cost n. 264/2012). Specificamente questa Corte, con sentenza n. 49 del 26 marzo 2015 (Varvara) è recentemente intervenuta su un caso affine a quello in questione, con riferimento alla portata degli effetti di una pronuncia della Corte EDU che, muovendo dalla configurazione della confisca c.d. urbanistica (art. 44, co. 2, Testo Unico dell’Edilizia) quale sanzione penale anziché amministrativa, aveva concluso per la non applicabilità della confisca in esame in caso di dichiarazione di estinzione del reato. Muovendo dai dubbi esposti dal rimettente sulla compatibilità di una simile prospettiva - volta ad assicurare una tutela assoluta al diritto di proprietà - con la protezione che altri principi costituzionali nazionali (patrimonio storico e artistico, ambiente salubre, ecosistema) assicurano ad altri diritti fondamentali italiani codesto Ecc.mo Collegio ha osservato: “Il rimettente è convinto che, a seguito della sentenza Varvara contro Italia, l’art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, debba assumere, in via ermeneutica, il significato che la Corte di Strasburgo gli avrebbe attribuito, e che, proprio per effetto di un simile processo adattativo, tale significato si presti a rilievi di costituzionalità. Questo modo di argomentare è errato sotto un duplice aspetto. In primo luogo, esso presuppone che competa alla Corte di Strasburgo determinare il significato della legge nazionale, quando, al contrario, il giudice europeo si trova a valutare se essa, come definita e applicata dalle autorità nazionali, abbia, nel caso sottoposto a giudizio, generato violazioni delle superiori previsioni della CEDU. È pertanto quest’ultima, e non la legge della Repubblica, a vivere nella dimensione ermeneutica che la Corte EDU adotta in modo costante e consolidato. Naturalmente, non è in discussione che, acquisita una simile dimensione, competa al giudice di assegnare alla disposizione interna un significato quanto più aderente ad essa (sentenza 80 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 n. 239 del 2009), a condizione che non si riveli del tutto eccentrico rispetto alla lettera della legge (sentenze n. 1 del 2013 e n. 219 del 2008). Tuttavia, e in secondo luogo, sfugge al rimettente che il dovere del giudice comune di interpretare il diritto interno in senso conforme alla CEDU, appena ribadito, è, ovviamente, subordinato al prioritario compito di adottare una lettura costituzionalmente conforme, poiché tale modo di procedere riflette il predominio assiologico della Costituzione sulla CEDU (sentenze n. 349 e n. 348 del 2007). Il più delle volte, l’auspicabile convergenza degli operatori giuridici e delle Corti costituzionali e internazionali verso approcci condivisi, quanto alla tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, offrirà una soluzione del caso concreto capace di conciliare i principi desumibili da entrambe queste fonti. Ma, nelle ipotesi estreme in cui tale via appaia sbarrata, è fuor di dubbio che il giudice debba obbedienza anzitutto alla Carta repubblicana”. 2.2 Affidare la tutela a sanzioni solo penali indebolirebbe gravemente l’effettività della disciplina amministrativa dei mercati finanziari. Le sanzioni penali si possono infatti applicare, di regola, solo sulla base dell’accertamento dei fatti oltre ogni ragionevole dubbio, e sulla base dell’accertamento del dolo dell’agente, da intendere come piena consapevolezza dei fatti e come volontà di porli in essere o di avvalersene. Al di fuori di queste condotte si apre tutta una “zona grigia” tra i comportamenti fraudolenti e per questo penalmente rilevanti, e i comportamenti leciti. In altri termini, vi è un amplissimo campo in cui si manifestano comportamenti certamente pregiudizievoli (a volte molto pregiudizievoli) per la trasparenza e il buon funzionamento dei mercati finanziari, che tuttavia non sono comportamenti oggettivamente fraudolenti, né soggettivamente diretti allo scopo deliberato di turbare i mercati. Nell’attuale fase di sviluppo dell’economia mondiale, in cui il ruolo dei mercati finanziari regolamentati è notoriamente divenuto determinante, anche tali comportamenti (genericamente designati come “abusi di mercato”) vanno quindi per quanto possibile prevenuti, ed è indispensabile prevedere sanzioni relativamente ad essi. La natura necessariamente amministrativa di queste sanzioni, e segnatamente della sanzione pecuniaria prevista all'art. 187-ter, discende, oltre che dalla loro qualificazione formale, dalla necessità di applicarle a prescindere da comportamenti addirittura artificiosi o fraudolenti e sorretti da dolo specifico (come confermato in termini generali per le sanzioni amministrative dall’art. 3 della l. n. 689/1981) e di consentire, invece, di applicarle a tutti i comportamenti anche non fraudolenti e non dolosi, che però siano oggettivamente contrari alle regole amministrative stabilite per assicurare la trasparenza dei mercati. Queste sanzioni, in ragione del loro carattere di immediatezza e di effettività, vogliono rafforzare negli operatori professionali dei mercati finanziari l’efficacia vincolante delle regole amministrative di trasparenza, attraverso un’azione deterrente più celere e mirata, svincolata dalle lungaggini del processo penale, discendendone una maggiore incisività nella tutela del bene costituzionalmente rilevante del "risparmio" (art. 47 Cost.) La natura amministrativa delle infrazioni e delle sanzioni previste dal TUF, e segnatamente dell'art. 187-ter, esclude che esse possano rilevare al fine di accertare una violazione degli art. 2 e 4 del Protocollo 7 e, per il suo tramite, dell’art. 117, comma 1, della Costituzione. Occorre peraltro evidenziare che la sentenza Grande Stevens non vieta in assoluto la previsione di un determinato fatto (qui, la condotta di manipolazione del mercato) sia come illecito penale che come illecito amministrativo. In realtà, la pronuncia, conformemente alla portata precettiva dell’art. 4 Protocollo 7, intende CONTENZIOSO NAZIONALE 81 soltanto vietare che per il medesimo fatto materiale siano applicate due volte sanzioni che, pur se di natura diversa, per la loro rilevante afflittività in concreto si connotino come entrambe “penali”. La sentenza Grande Stevens, quindi, non pone in discussione la possibilità generale di prevedere che un medesimo fatto incorra contemporaneamente sotto due previsioni sanzionatorie, entrambe penali, come nel caso del concorso formale, o l’una penale e l’altra amministrativa. Quante volte questa scelta normativa appaia ragionevolmente funzionale ad esaurire completamente il disvalore del fatto, che dal punto di vista degli interessi protetti da esso lesi può ben essere plurioffensivo, la scelta stessa non può essere censurata, e comunque non è vietata dal citato Protocollo. Questo, come si ripete, si colloca soltanto al livello applicativo della risposta sanzionatoria, che non può apparire in concreto così gravosa da rappresentare, in sostanza, vista nella sua totalità una duplicazione di sanzione. Nella specie, la condotta consistente nella manipolazione dei mercati finanziari è indubbiamente plurioffensiva, al pari delle altre tipizzate nelle disposizioni sanzionatorie del TUF, rivolgendosi, essenzialmente, in due direzioni: il pubblico degli investitori, da un lato; e l’autorità di vigilanza posta al vertice dell’ordinamento settoriale, dall’altro. Il primo ordine di interessi tutelati o beni protetti (la fiducia degli investitori) si ricollega ai diritti fondamentali degli investitori nei mercati finanziari (riconosciuti anche a livello CEDU, dall'art. 1 del Protocollo addizionale n. 1) la cui importanza economica globale costituisce ormai un fatto acquisito. Come è acquisito che nei mercati finanziari sussiste strutturalmente una incolmabile disparità di competenze e di informazioni tra gli operatori da un lato (intermediari, emittenti, e persone fisiche dei loro dirigenti), e la massa degli investitori dall’altro. Questi ultimi, non potendo disporre di un livello di competenze e di informazioni paragonabile a quello degli operatori, debbono necessariamente fare affidamento sulla correttezza di comportamento degli operatori, e questo affidamento è sensato solo se le norme che disciplinano il comportamento degli operatori sono presidiate da un sistema di controlli e di sanzioni particolarmente stringente ed efficace. Quando sono in gioco interessi di questa portata, il rispetto degli obblighi amministrativi degli operatori del mercato di fornire al pubblico informazioni complete e veritiere e di non abusare delle informazioni riservate manipolando il mercato (la trasparenza informativa e comportamentale), può essere assicurato soltanto da sanzioni pecuniarie di entità elevata. Pertanto, quando la severità di una sanzione sia il riflesso necessario della rilevanza degli interessi tutelati, cioè si dia un contesto in cui se la sanzione non fosse severa quegli interessi non sarebbero, di fatto, tutelati, la severità non può essere da sola indice del carattere “penale” della sanzione. Diversamente, tutte le sanzioni previste per le violazioni amministrative nel campo dei mercati finanziari regolamentati sarebbero sempre di natura penale: si è visto infatti che l’entità degli interessi coinvolti dalle attività che si svolgono in tali mercati esige indefettibilmente sanzioni di entità elevata. Le sanzioni penali sono tese, invece, a colpire più che il patrimonio dell’operatore infedele nei confronti del pubblico, la figura professionale dell’operatore stesso, che ha violato gli obblighi di correttezza comportamentale nei confronti dell’autorità, rendendone più difficile la vigilanza sul mercato nella misura in cui con la propria scorrettezza ha alterato il normale corso delle negoziazioni e della formazione dei prezzi all’interno di questo. Le sanzioni penali tendono quindi, essenzialmente, ad espellere l’operatore dal mercato in relazione alla pericolosità da questi manifestata per la vigilanza, ed hanno quindi una spiccata attitudine repressiva; laddove le sanzioni amministrative, indirizzate a proteggere l’affidamento degli investitori, 82 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 tendono prevalentemente a svolgere una funzione generalpreventiva, mercè la loro afflittività patrimoniale, intesa a rendere “economicamente non conveniente” la commissione di determinate forme di approfittamento di posizioni privilegiate a danno del pubblico (2). In linea di principio, non può quindi dubitarsi della legittimità, se non della necessità, della coesistenza e dell’integrazione dei due sistemi sanzionatori. Del resto, nella già richiamata pronuncia n. 49 del 2015, codesta Ecc.ma Corte costituzionale, nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità sottoposta non ha escluso la validità di un simile sistema sanzionatorio. Ed invero "non può sfuggire che l’autonomia dell’illecito amministrativo dal diritto penale, oltre che ad impingere nel più ampio grado di discrezionalità del legislatore nel configurare gli strumenti più efficaci per perseguire la «effettività dell’imposizione di obblighi o di doveri» (sentenza n. 317 del 1996), corrisponde altresì, sul piano delle garanzie costituzionali, al «principio di sussidiarietà, per il quale la criminalizzazione, costituendo l’ultima ratio, deve intervenire soltanto allorché, da parte degli altri rami dell’ordinamento, non venga offerta adeguata tutela ai beni da garantire» (sentenza n. 487 del 1989; in seguito, sentenze n. 447 del 1998 e n. 317 del 1996). Difatti, «Le esigenze costituzionali di tutela non si esauriscono […] nella (eventuale) tutela penale, ben potendo invece essere soddisfatte con diverse forme di precetti e di sanzioni» (sentenza n. 447 del 1998)". 2.3. Sotto altro profilo visuale, l'intervento manipolativo invocato, dai contorni incerti (così come già segnalato in punto di inammissibilità della questione per genericità e indeterminatezza del petitum), rischia di pregiudicare la certezza del tipo di risposta sanzionatoria comminata dall'ordinamento nazionale a fronte di fattispecie di manipolazione del mercato, perciò ponendosi in contrasto con gli artt. 11 e 117 Cost., dal momento che lederebbe il canone di effettività delle sanzioni in materia di market abuse prescritto dal diritto dell'Unione Europea (e segnatamente dalle Direttive 2003/06/CE e 2014/57/UE) in funzione della salvaguardia dei mercati, e quindi, in ultima analisi, della tutela del risparmio, bene protetto anche in ambito nazionale dall’art. 47 Cost. In proposito, la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, pur riconoscendo, in determinati casi, la validità dei criteri sostanzialistici individuati dalla Corte EDU (natura della violazione, natura e gravità della sanzione), li considera prevalenti rispetto a criteri di legalità formale (quali quello dettato dall’art. 25, comma 2, Cost.) soltanto se la loro applicazione non comprometta il primato e l’effettività del diritto dell’Unione, rimettendo la valuta- (2) Per quanto riguarda la giurisprudenza UE, vedasi sentenza Spector Photo della Corte di giustizia UE, riguardante la diversa condotta dell'abuso di informazioni privilegiate, ma con argomentazioni trasponibili all’illecito della manipolazione del mercato finanziario. Tale sentenza, in particolare nel punto 37, chiarisce che nell’intento della Direttiva “Il fatto che l’art. 2, n. 1, della direttiva 2003/6 non preveda espressamente un elemento psicologico tra gli elementi costitutivi dell’abuso di informazioni privilegiate si giustifica, in secondo luogo, con la finalità di detta direttiva che, come richiamato, in particolare, al suo secondo e al suo dodicesimo ‘considerando’, consiste nel garantire l’integrità dei mercati finanziari comunitari e nel rafforzare la fiducia degli investitori in tali mercati. Il legislatore comunitario ha optato per un meccanismo di prevenzione e di sanzione amministrativa degli abusi di informazioni privilegiate la cui efficacia diminuirebbe se fosse subordinato alla ricerca sistematica di un elemento psicologico. Pertanto, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 55 delle sue conclusioni, solo se il divieto degli abusi di informazioni privilegiate comporta una sanzione effettiva delle violazioni, tale divieto si dimostrerà efficace e in grado di promuovere in modo durevole la necessaria fiducia nella normativa da parte di tutti gli operatori del mercato. L’attuazione effettiva del divieto delle operazioni di mercato si basa quindi su una struttura semplice nella quale i mezzi soggettivi di difesa sono limitati al fine non solo di sanzionare, ma anche di prevenire efficacemente le violazioni di tale divieto”. CONTENZIOSO NAZIONALE 83 zione al giudice nazionale anche alla luce dei principi costituzionali e della tradizione giuridica dei paesi membri (sul punto, cfr., in particolare, Corte Giust., Grande Sezione, 26 febbraio 2013, causa C-617/10, Aklagaren c. Hans Akerberg Fransson). Alla luce delle argomentazioni riportate e dei principi epressi dalla menzionata sentenza n. 49/2015 di codesta Ecc.ma Corte costituzionale si ritiene che la questione di costituzionalità sollevata in riferimento all'art. 187 ter TUF debba essere respinta nel merito, e, per l'effetto, dichiarata infondata. P. Q. M. Il Presidente del Consiglio dei Ministri insiste affinchè codesta Ecc.ma Corte costituzionale voglia: - dichiarare inammissibile e/o comunque non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 187-ter, comma 1, del decreto legislativo n. 58 del 1998, per violazione dell'art. 117, comma 1, della Costituzione, in relazione all'art. 4, Protocollo n. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali, promossa con l'ordinanza indicata in epigrafe. Roma, 27 gennaio 2016 AVVOCATO DELLO STATO Mario Antonio Scino Corte costituzionale, sentenza 12 maggio 2016 n. 102 - Pres. Grossi, Red. Lattanzi, Cartabia - Giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 649 del codice di procedura penale e degli artt. 187-bis, comma 1, e 187-ter, comma 1, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), promossi dalla Corte di cassazione con ordinanze del 15 e del 21 gennaio 2015. Avv.ti Riccardo Olivo per la parte privata C.C.R., Salvatore Providenti per la Commissione nazionale per le società e la borsa - CONSOB e gli avv.ti dello Stato Mario Antonio Scino e Paolo Gentili per il Presidente del Consiglio dei ministri. (...) Considerato in diritto 1.– Con ordinanza del 15 gennaio 2015 (reg. ord. n. 38 del 2015), notificata il successivo 21 gennaio, la quinta sezione penale della Corte di cassazione ha sollevato, in via principale, questione di legittimità costituzionale dell’art. 187-bis, comma 1, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), nella parte in cui prevede «Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato» anziché «Salvo che il fatto costituisca reato», per violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con la legge 9 aprile 1990, n. 98 (d’ora in avanti «Protocollo n. 7 alla CEDU»). In via subordinata, il giudice rimettente ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede «l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui l’imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto nell’ambito di un procedimento am- 84 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 ministrativo per l’applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’uomo e delle Libertà fondamentali e dei relativi Protocolli», in relazione al medesimo parametro e alla medesima norma interposta della questione principale. Il giudice rimettente è investito del ricorso proposto contro la condanna di un imputato per il reato previsto dall’art. 184, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 58 del 1998, per abuso di informazioni privilegiate e riferisce che era già passata in giudicato una pronuncia che aveva respinto l’opposizione della stessa persona contro una sanzione amministrativa pecuniaria inflittale dalla Commissione nazionale per le società e la borsa, ai sensi dell’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998, per il medesimo fatto. Applicando un consolidato principio di diritto a un caso analogo a quello oggetto del giudizio a quo, la Corte europea dei diritti dell’uomo, nella sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens contro Italia, ha affermato, sia la natura penale della sanzione prevista dall’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998, sia la violazione da parte della Repubblica italiana dell’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, per avere proceduto in sede penale ai sensi dell’art. 185 del d.lgs. n. 58 del 1998, nonostante fosse già divenuta definitiva una prima condanna per il medesimo fatto, sia pure diversamente qualificato giuridicamente. La Corte di cassazione ha constatato che una identica situazione si era verificata nel caso soggetto al suo scrutinio, nel quale, benché l’imputato per lo stesso fatto fosse stato già punito in via definitiva, ai sensi dell’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998, con una sanzione amministrativa particolarmente gravosa, si procedeva ugualmente nei suoi confronti per il reato previsto dall’art. 184, lettera b), del d.lgs. n. 58 del 1998, e ha rilevato che ciò stava avvenendo in violazione dell’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, il quale imporrebbe di arrestare immediatamente il corso di questo secondo processo. Ciò considerato, la Corte di cassazione ha formulato due questioni di costituzionalità, ponendole in ordine subordinato. La prima questione tende ad escludere il concorso tra la sanzione penale e la sanzione amministrativa, facendo recedere l’illecito amministrativo quando il medesimo fatto è previsto come reato. In questo modo, secondo il giudice rimettente si darebbe inoltre attuazione alla direttiva 16 aprile 2014, n. 2014/57/UE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alle sanzioni penali in caso di abusi di mercato, che, invertendo la scelta compiuta con la precedente direttiva 28 gennaio 2003, n. 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa all’abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato, impone agli Stati membri di adottare sanzioni penali per i casi più gravi di abuso di mercato, commessi con dolo, e permette loro di affiancare una sanzione amministrativa. La questione subordinata, invece, riguarda l’art. 649 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede la sua applicazione anche quando la persona è stata giudicata in via definitiva per il medesimo fatto punito con una sanzione amministrativa alla quale debba essere riconosciuta natura penale ai sensi dell’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU. La Corte di cassazione è consapevole che in caso di accoglimento della questione subordinata verrebbe a generarsi una grave «incongruenza sistematica», giacché troverebbe applicazione la sanzione inflitta cronologicamente per prima in via definitiva, a seconda delle contingenze delle singole vicende processuali, e tuttavia ritiene che una tale «incongruenza» non possa essere di ostacolo alla dichiarazione di illegittimità costituzionale, ove essa sia la sola via per riparare un vulnus costituzionale dei diritti della persona. 2.– Con ordinanza del 21 gennaio 2015 (reg. ord. n. 52 del 2015), notificata il successivo CONTENZIOSO NAZIONALE 85 26 gennaio, la sezione tributaria della Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. in relazione agli artt. 2 e 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, dell’art. 187-ter, comma 1, del d.lgs. n. 58 del 1998, nella parte in cui prevede la comminatoria congiunta della sanzione penale prevista dall’art. 185 del medesimo d.lgs. n. 58 del 1998 e della sanzione amministrativa prevista per l’illecito di cui all’art. 187-ter dello stesso decreto. La Corte di cassazione è chiamata a pronunciarsi sulla impugnazione proposta contro una sentenza della Corte d’appello di Roma, che ha rigettato l’opposizione avverso l’irrogazione di sanzioni amministrative, da parte della CONSOB, ai sensi dell’art. 187-ter del d.lgs. n. 58 del 1998, e con il ricorso è stato fatto valere il giudicato penale già formatosi sui medesimi fatti storici di illecita manipolazione del mercato. In particolare, il giudice rimettente ha ritenuto che la disposizione censurata sia illegittima in quanto permette un secondo giudizio per un medesimo fatto concreto, integrante sia l’illecito amministrativo ex art. 187-ter, comma 1, del d.lgs. n. 58 del 1998, sia il reato di cui all’art. 185 del medesimo decreto, pur essendo previste, per l’illecito amministrativo, misure da considerarsi penali, alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in considerazione della natura della violazione e della gravità delle conseguenze. Più precisamente, secondo la Corte di cassazione andrebbe «rimessa alla Consulta, alla luce dei principi CEDU, determinare il rilievo, ai fini della applicazione del principio del “ne bis in idem”, della valutazione, da parte del giudice nazionale, della effettiva afflittività della sanzione penale», posto che nella specie era stata applicata la sola pena detentiva, dichiarata interamente condonata, con la conseguenza che l’imputato non aveva subito alcun «effettivo pregiudizio nella sfera personale». Occorrerebbe quindi, secondo il giudice a quo, «verificare se la obbligatorietà delle sanzioni amministrative nel sistema degli illeciti di market abuse sia conf[l]iggente col sistema del c.d. divieto del ne bis in idem, allorché venga preliminarmente emessa una sanzione penale e se, eventualmente, quest’ultima, a prescindere dalla sua afflittività e proporzionalità, in relazione al fatto commesso, sia preclusiva alla comminatoria della sanzione amministrativa, o se ne debba solamente tenere conto al fine della successiva comminatoria della sanzione amministrativa », ciò anche alla luce della direttiva n. 2003/6/CE, che impone agli Stati membri di prevedere sanzioni amministrative effettive, proporzionate e dissuasive e del sistema previsto dagli artt. 187-duodecies e 187-terdecies del d.lgs. n. 58 del 1998 che impongono di non sospendere i procedimenti amministrativi per abusi di mercato pur in pendenza del procedimento penale per i medesimi fatti, stabilendo, poi, che la esazione della pena pecuniaria eventualmente inflitta in sede penale sia limitata alla parte eccedente quella riscossa dall’autorità amministrativa. 3.– Nel procedimento di cui al registro ordinanze n. 38 del 2015, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri con atto depositato il 14 aprile 2015 e si sono costituite la parte privata C.C.R., con atto depositato il 14 aprile 2015, e la CONSOB con atto depositato il 13 aprile 2015. Nel procedimento di cui al registro ordinanze n. 52 del 2015, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri con atto depositato il 5 maggio 2015 e si sono costituiti la CONSOB con atto depositato il 5 maggio 2015, R.S. e le società Garlsson srl in liquidazione e Magiste International sa con atto depositato, fuori termine, il 16 febbraio 2016. 4.– In via preliminare deve disporsi la riunione dei giudizi in quanto pongono questioni analoghe per oggetto, termini e parametri. Entrambe le ordinanze di rimessione, infatti, pongono questioni relative al rispetto del ne bis in idem come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, in casi di cosiddetto 86 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 “doppio binario” sanzionatorio, cioè in casi nei quali la legislazione nazionale prevede un doppio livello di tutela, penale e amministrativo. In particolare le due ordinanze riguardano il settore degli abusi di mercato. In questo ambito, sino al 2005 le figure dell’abuso di informazioni privilegiate e della manipolazione del mercato erano sanzionate esclusivamente in sede penale come delitti dagli artt. 184 e 185 del Testo unico della finanza - TUF (d.lgs. n. 58 del 1998). Successivamente, con la legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), attuativa della direttiva n. 2003/6/CE (cosiddetta Market Abuse Directive, MAD), ai delitti di cui sopra sono stati affiancati due paralleli illeciti amministrativi previsti, rispettivamente, dagli artt. 187-bis (insider trading) e 187-ter (manipolazione di mercato) del novellato TUF. Gli illeciti amministrativi sono descritti in modo sovrapponibile ai corrispondenti delitti, ovvero con una formulazione tale da ricomprendere, di fatto, anche l’omologa fattispecie penale. La sovrapposizione dell’ambito applicativo di ciascun delitto con il corrispondente illecito amministrativo è contemplata dallo stesso legislatore, come risulta dalla clausola di apertura degli artt. 187-bis e 187-ter «[s]alve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato», che, in tal modo, stabilisce, da un punto di vista sostanziale, il cumulo dei due tipi di sanzioni. Proprio tali clausole sono oggetto di censura nelle due ordinanze di rimessione. Una tale disciplina è stata stigmatizzata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in quanto contrastante con il principio del ne bis in idem, di cui all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, che vieta di perseguire o giudicare una persona per un secondo illecito nella misura in cui alla base di quest’ultimo vi siano i medesimi fatti. In particolare, due aspetti della giurisprudenza della Corte EDU determinano una diversa interpretazione del principio in questione, rispetto a come esso è applicato nell’ordinamento interno. Il primo riguarda la valutazione della “identità del fatto” - l’«idem» -. La Corte europea ritiene che tale valutazione sia da effettuarsi in concreto e non in relazione agli elementi costitutivi dei due illeciti. In particolare, la giurisprudenza europea ravvisa l’identità del fatto quando, da un insieme di circostanze fattuali, due giudizi riguardino lo stesso accusato e in relazione a situazioni inestricabilmente collegate nel tempo e nello spazio. Il secondo aspetto riguarda la nozione di sanzione penale, da definirsi non in base alla mera qualificazione giuridica da parte della normativa nazionale, ma in base ai cosiddetti “criteri Engel” (così denominati a partire dalla sentenza della Corte EDU, Grande Camera, 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi e costantemente ripresi dalle successive sentenze in argomento). Si tratta di tre criteri individuati dalla consolidata giurisprudenza della Corte di Strasburgo, da esaminare congiuntamente per stabilire se vi sia o meno una imputazione penale: il primo è dato dalla qualificazione giuridica operata dalla legislazione nazionale; il secondo è rappresentato dalla natura della misura (che, ad esempio non deve consistere in mere forme di compensazione pecuniaria per un danno subito, ma deve essere finalizzata alla punizione del fatto per conseguire effetti deterrenti); il terzo è costituito dalla gravità delle conseguenze in cui l’accusato rischia di incorrere. Alla luce di tali criteri, sanzioni qualificate come non aventi natura penale dal diritto nazionale, possono invece essere considerate tali ai fini della applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle relative garanzie. In questo panorama giurisprudenziale si inserisce la sentenza della Corte EDU 4 marzo 2014, Grande Stevens contro Italia, divenuta definitiva il 7 luglio 2014, a cui fanno riferimento entrambe le ordinanze di rimessione in esame. CONTENZIOSO NAZIONALE 87 La suddetta pronuncia censura specificamente l’ordinamento italiano per aver previsto un sistema di “doppio binario” sanzionatorio nel settore degli abusi di mercato. La decisione della Corte europea attribuisce natura sostanzialmente penale alle sanzioni amministrative stabilite per l’illecito di manipolazione del mercato ex art. 187-ter del TUF, in considerazione della gravità desumibile dall’importo elevato delle sanzioni pecuniarie inflitte e dalle conseguenze delle sanzioni interdittive. La medesima pronuncia sottolinea poi la mancanza di un meccanismo che comporti l’interruzione del secondo procedimento nel momento in cui il primo sia concluso con pronuncia definitiva. Infine, essa evidenzia l’identità dei fatti, dato che i due procedimenti, dinanzi alla CONSOB e davanti al giudice penale, riguardano un’unica e stessa condotta, da parte delle stesse persone, nella stessa data. Da tali considerazioni, la Corte europea desume la violazione dell’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU. In entrambi i casi, la Corte rimettente sottolinea che il vulnus al principio del ne bis in idem, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza Grande Stevens, avrebbe una valenza sistemica e potenzialmente riguarderebbe non solo gli abusi di mercato, ma tutti gli ambiti in cui l’ordinamento italiano ha istituito un sistema di doppio binario sanzionatorio, in cui il rapporto tra illecito amministrativo e penale non venga risolto nel senso di un concorso apparente di norme. 5.– (...) 6.– Tutte le questioni di legittimità costituzionale oggetto del presente giudizio sono inammissibili. 6.1.– La questione sollevata in via principale dalla quinta sezione penale della Corte di cassazione è inammissibile in quanto non rilevante nel giudizio a quo. Essa concerne una disposizione, l’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998, che ha già ricevuto definitiva applicazione dall’autorità amministrativa nel relativo procedimento, mentre la Corte rimettente è piuttosto chiamata a giudicare in riferimento al reato di cui all’art. 184, comma 1, lettera b), del medesimo d.lgs. n. 58 del 1998. L’eventuale accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione all’art. 187-bis del citato decreto non solo non consentirebbe di evitare la lamentata violazione del ne bis in idem, ma semmai contribuirebbe al suo verificarsi, dato che l’autorità giudiziaria procedente dovrebbe comunque proseguire il giudizio penale ai sensi del precedente art. 184, benché l’imputato sia già stato assoggettato, per gli stessi fatti, a un giudizio amministrativo divenuto definitivo e benché, in considerazione della gravità delle sanzioni amministrative applicate, a tale giudizio debba essere attribuita natura “sostanzialmente” penale, secondo l’interpretazione della Corte europea dei diritti dell’uomo. Tale abnorme effetto tradirebbe l’esigenza che non si produca nel processo principale la violazione della Costituzione, cui è sotteso il carattere pregiudiziale della questione di costituzionalità, e con esso il requisito della rilevanza. Difatti, il divieto di bis in idem prescritto dall’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU verrebbe irrimediabilmente infranto, anziché osservato, arrestando, come si dovrebbe, il corso del secondo giudizio. Né sono utili in senso contrario gli argomenti sviluppati dal rimettente per sostenere che, comunque, la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998 produrrebbe effetti favorevoli all’imputato, posto che, in forza dell’art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), andrebbe revocata la sanzione amministrativa pecuniaria determinata in base alla norma dichiarata incostituzionale e divenuta perciò priva di base legale. Questa Corte non ha motivo, a tale proposito, di saggiare la plausibilità dell’argomentazione 88 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 del rimettente sull’applicabilità dell’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 al caso in cui sia stato dichiarato incostituzionale non un reato ma un illecito amministrativo che assume veste “penale” ai soli fini del rispetto delle garanzie della CEDU. È infatti preliminare osservare che, in ogni caso, si tratta di profili attinenti alle vicende della sanzione amministrativa, privi di rilevanza per il giudice rimettente, e quindi estranee al presente giudizio. Ma, soprattutto, torna a manifestarsi con forza il rilievo che essi non scongiurerebbero in alcun modo la violazione del ne bis in idem, pienamente integrata dal proseguimento, auspicato dal giudice a quo, del giudizio penale, quali che siano poi gli effetti di quest’ultimo sulla fase di esecuzione delle sanzioni penali e amministrative. Va aggiunto che la questione posta in via principale dalla Corte di cassazione, se da un lato non vale a prevenire il vulnus all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU nel processo principale, dall’altro lato, sul piano sistematico, eccede lo scopo al quale dovrebbe essere invece ricondotta sulla base della norma interposta appena richiamata. È infatti pacifico, in base alla consolidata giurisprudenza europea, che il divieto di bis in idem ha carattere processuale, e non sostanziale. Esso, in altre parole, permette agli Stati aderenti di punire il medesimo fatto a più titoli, e con diverse sanzioni, ma richiede che ciò avvenga in un unico procedimento o attraverso procedimenti fra loro coordinati, nel rispetto della condizione che non si proceda per uno di essi quando è divenuta definitiva la pronuncia relativa all’altro. Non può negarsi che un siffatto divieto possa di fatto risolversi in una frustrazione del sistema del doppio binario, nel quale alla diversa natura, penale o amministrativa, della sanzione si collegano normalmente procedimenti anch’essi di natura diversa, ma è chiaro che spetta anzitutto al legislatore stabilire quali soluzioni debbano adottarsi per porre rimedio alle frizioni che tale sistema genera tra l’ordinamento nazionale e la CEDU. È significativo il fatto che in tale prospettiva si muove il recente art. 11, comma 1, lettera m), della legge delega 9 luglio 2015, n. 114 (Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea. Legge di delegazione europea 2014), per l’attuazione alla direttiva n. 2014/57/UE, che impone agli Stati membri di adottare sanzioni penali per i casi più gravi di abuso di mercato, commessi con dolo e permette loro di aggiungere una sanzione amministrativa nella linea dell’art. 30 del regolamento 16 aprile 2014, n. 596/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio relativo agli abusi di mercato e che abroga la direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e le direttive 2003/124/CE, 2003/125/CE e 2004/72/CE. 6.2.– La questione sollevata in via subordinata, avente ad oggetto l’art. 649 cod. proc. pen., è a sua volta inammissibile. Il giudice a quo investe l’art. 649 cod. proc. pen. pur nella convinzione che tale via conduca a una soluzione di incerta compatibilità con la stessa Costituzione, ma che nondimeno appare idonea ad impedire la lesione di un diritto della persona. La questione prospettata, infatti, richiede alla Corte un intervento additivo, che dichiari l’illegittimità costituzionale dell’art. 649 cod. proc. pen. «nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui l’imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto, nell’ambito di un procedimento amministrativo per l’applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali e dei relativi Protocolli». La stessa Corte rimettente, tuttavia, evidenzia che l’accoglimento di una tale questione de- CONTENZIOSO NAZIONALE 89 terminerebbe un’incertezza quanto al tipo di risposta sanzionatoria - amministrativa o penale - che l’ordinamento ricollega al verificarsi di determinati comportamenti, in base alla circostanza aleatoria del procedimento definito più celermente. Infatti, l’intervento additivo richiesto non determinerebbe un ordine di priorità, né altra forma di coordinamento, tra i due procedimenti - penale e amministrativo - cosicché la preclusione del secondo procedimento scatterebbe in base al provvedimento divenuto per primo irrevocabile, ponendo così rimedio - come osserva la Corte rimettente - ai singoli casi concreti, ma non in generale alla violazione strutturale da parte dell’ordinamento italiano del divieto di bis in idem, come censurata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, nel caso Grande Stevens. La stessa Corte rimettente sottolinea, poi, che l’incertezza e la casualità delle sanzioni applicabili potrebbero a loro volta dar luogo alla violazione di altri principi costituzionali: anzitutto, perché si determinerebbe una violazione dei principi di determinatezza e di legalità della sanzione penale, prescritti dall’art. 25 Cost.; in secondo luogo perché potrebbe risultare vulnerato il principio di ragionevolezza e di parità di trattamento, di cui all’art. 3 Cost.; infine, perché potrebbero essere pregiudicati i principi di effettività, proporzionalità e dissuasività delle sanzioni, imposti dal diritto dell’Unione europea, come esplicitato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (sentenza, 23 febbraio 2013, in causa C-617/10 Aklagaren contro Akerberg Fransson), in violazione, quindi, degli artt. 11 e 117 Cost. Nel ragionamento del giudice rimettente, però, tali “incongruenze” dovrebbero soccombere di fronte al prioritario rilievo da conferire alla tutela del diritto personale a non essere giudicato due volte per lo stesso fatto. Il sacrificio dei principi costituzionali or ora ricordati è perciò legato strettamente, nell’iter logico del giudice a quo, all’infondatezza della questione principale, che la Corte di cassazione ha individuato quale via privilegiata per risolvere il dubbio di costituzionalità. Sotto questo aspetto si coglie il carattere perplesso della motivazione sulla non manifesta infondatezza della questione subordinata, che ne segna l’inammissibilità. È, infatti, lo stesso rimettente a postulare, a torto o a ragione, che l’adeguamento dell’ordinamento nazionale all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU dovrebbe avvenire prioritariamente attraverso una strada che egli non può percorrere per difetto di rilevanza, cosicché la questione subordinata diviene per definizione una incongrua soluzione di ripiego. 6.3.– Parimenti inammissibile è la questione sollevata dalla sezione tributaria della Corte di cassazione, in ordine all’art. 187-ter, comma 1, del d.lgs. n. 58 del 1998, in quanto formulata in maniera dubitativa e perplessa. Il giudice a quo, infatti, dopo aver affermato che con la sentenza Grande Stevens e altri contro Italia, «appare chiaro l’orientamento dei giudici di Strasburgo di rimproverare agli organi giurisdizionali la mancata disapplicazione [sic] di un principio (ne bis in idem) che il legislatore nazionale ha introdotto in materia penale ma non nei rapporti tra sanzione amministrativa di natura penale e sanzione penale» e che il principio affermato dalla Corte europea sarebbe «bidirezionale» - nel senso che esso troverebbe applicazione sia nel caso di sanzione amministrativa precedente quella penale, sia nel caso inverso, come quello occorso nella specie, nel quale il giudizio penale si è esaurito prima di quello amministrativo ancora sub iudice - la sezione tributaria della Corte di cassazione ritiene di dover sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 187-ter, comma 1, del d.lgs. n. 58 del 1998, in quanto «non appare conforme ai principi sovranazionali sanciti dalla CEDU la previsione del doppio binario e, quindi, della cumulabilità tra sanzione penale e amministrativa, applicata in processi diversi». 90 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 L’ordinanza prosegue osservando che occorrerebbe, «verificare se la obbligatorietà delle sanzioni amministrative nel sistema degli illeciti di market abuse sia configgente col sistema del c.d. divieto del ne bis in idem, allorché venga preliminarmente emessa una sanzione penale e se, eventualmente, quest’ultima, a prescindere dalla sua afflittività e proporzionalità, in relazione al fatto commesso, sia preclusiva alla comminatoria della sanzione amministrativa, o se ne debba solamente tenere conto al fine della successiva comminatoria della sanzione amministrativa », ciò anche alla luce della direttiva europea n. 2003/6/CE che impone agli Stati membri di prevedere sanzioni amministrative effettive, proporzionate e dissuasive e del sistema previsto dagli artt. 187-duodecies e 187-terdecies del d.lgs. n. 58 del 1998 che impongono di non sospendere i procedimenti amministrativi per abusi di mercato pur in pendenza del procedimento penale per i medesimi fatti, stabilendo, poi, che la esazione della pena pecuniaria eventualmente inflitta in sede penale sia limitata alla parte eccedente quella riscossa dall’autorità amministrativa. In tal modo, la Corte rimettente non scioglie i dubbi che essa stessa formula quanto alla compatibilità tra la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e i principi del diritto dell’Unione europea - sia in ordine alla eventuale non applicazione della normativa interna, sia sul possibile contrasto tra l’interpretazione del principio del ne bis in idem prescelta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e quella adottata nell’ordinamento dell’Unione europea, anche in considerazione dei principi delle direttive europee che impongono di verificare l’effettività, l’adeguatezza e la dissuasività delle sanzioni residue - dubbi che dovevano invece essere superati e risolti per ritenere rilevante e non manifestamente infondata la questione sollevata. Tali perplessità e la formulazione dubitativa della motivazione si riflettono, poi, sull’oscurità e incertezza del petitum, giacché il rimettente finisce per non chiarire adeguatamente la portata dell’intervento richiesto a questa Corte, ciò che costituisce ulteriore ragione di inammissibilità della questione sollevata. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, 1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 187-bis, comma 1, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52) e dell’art. 649 del codice di procedura penale, sollevate, per violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con la legge 9 aprile 1990, n. 98, dalla quinta sezione penale della Corte di cassazione, con l’ordinanza indicata in epigrafe; 2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 187-ter, comma 1, del d.lgs. n. 58 del 1998, sollevata, per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, dalla sezione tributaria della Corte di cassazione, con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 marzo 2016. CONTENZIOSO NAZIONALE 91 La solidarietà intergenerazionale quale strumento di giustizia redistributiva. Commento a Corte costituzionale n. 173 del 2016 Gabriele Pepe* Il presente articolo, muovendo dall’analisi della sentenza n. 173/2016 della Consulta relativa al prelievo forzoso sulle c.d. pensioni d’oro, intende illustrare il fondamento ed i caratteri del principio di solidarietà intergenerazionale. A tal proposito l’indagine è incentrata sull’art. 2 della Costituzione e, segnatamente, sulla stretta correlazione tra diritti inviolabili e doveri inderogabili proiettata in una dimensione di tipo diacronico. Con la sentenza in commento la Corte si è pronunciata sui rilievi mossi da alcune Sezioni della Corte dei conti alla legittimità del prelievo forzoso introdotto con riferimento alle pensioni di importo più elevato per gli anni 2014-2015-2016 (1). In particolare, le censure investivano la disposizione dell’art. 1 co. 486 l. 147/2013, per contrasto con gli artt. 2, 3, 4, 35, 36, 38, 53, 81, 97 e 136 Cost. La Consulta dichiarava non fondate le questioni sollevate, preservando così la legittimità (e l’efficacia) del prelievo forzoso voluto dal Governo italiano presieduto da Enrico Letta. Nello scrutinio di costituzionalità la Corte ricostruisce, in modo coerente e con argomentazioni pertinenti, la natura, i caratteri e le finalità del prelievo forzoso sulle pensioni d’oro. La sentenza afferma, in primo luogo, che tale prelievo (2) non ha natura tributaria di imposta (3), poiché non viene acquisito dallo Stato né è destinato alla fiscalità generale, bensì è riscosso direttamente dall’INPS e trattenuto nell’ambito della propria gestione per soddisfare finalità solidaristiche interne al circuito previdenziale (4). In secondo luogo, stabilisce che il suddetto prelievo rinviene in ambito pensionistico la propria ratio nel (*) Avvocato, Ricercatore di Diritto amministrativo presso l’Università degli Studi Guglielmo Marconi. (1) Trattasi di un contributo di solidarietà, dal 6 al 18 per cento, introdotto nel triennio 2014-2016 sulle pensioni superiori da 14 a oltre 30 volte rispetto al trattamento annuo minimo erogato dall’INPS. (2) Si è, nella specie, in presenza di un prelievo, inquadrabile nel genus delle prestazioni patrimoniali imposte per legge ai sensi dell’art. 23 Cost., che persegue lo scopo di contribuire agli oneri finanziari del sistema previdenziale. (3) Tale affermazione consente di respingere la censura relativa alla elusione del giudicato costituzionale. Infatti, la Corte ritiene che il prelievo forzoso non colpisca le pensioni erogate negli anni 2011-2012 diversamente incise da un precedente prelievo di natura tributaria dichiarato costituzionalmente illegittimo. Invece, il contributo introdotto dalla l. 147/2013, da un lato, non ha natura giuridica di imposta e, dall’altro, trova applicazione esclusivamente alle pensioni di importo più elevato a partire dal 2014. La Corte esclude, così, che la disposizione impugnata contrasti con l'art. 136 Cost. (4) Tra queste finalità - sostiene la Corte - rientrerebbe anche la finalità di tutela dei c.d. lavoratori esodati. 92 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 principio di solidarietà intergenerazionale (5), derivazione diretta degli artt. 2 e 38 della Costituzione. Aggiunge la Corte come tale misura legislativa trovi giustificazione, in un periodo di grave recessione economica (6), nella necessità di rendere finanziariamente sostenibile il sistema pensionistico italiano. Inoltre, il prelievo di solidarietà è ritenuto conforme ai princìpi costituzionali di ragionevolezza e proporzionalità, anche in ragione della sua temporanea applicazione. Tutto ciò giustifica una deroga alla tutela dell’affidamento dei pensionati incisi al mantenimento del proprio trattamento economico (7). Nell’ambito del giudizio di legittimità costituzionale, avente ad oggetto l'art. 1 co. 486 l. 147/2013, la Corte attribuisce rilievo decisivo alla c.d. mutualità intergenerazionale, perseguita attraverso un prelievo forzoso da destinare in favore dei lavoratori presenti e futuri. La Consulta per la prima volta afferma espressamente un principio di solidarietà (responsabilità) tra le generazioni in un’ottica di giustizia redistributiva (8). Il percorso argomentativo della pronuncia sottende l’affermazione di una nuova concezione circolare dei diritti e dei doveri che si sviluppi diacronicamente coinvolgendo soggetti di generazioni diverse. Tale peculiare applicazione del principio solidaristico impone una rivisitazione della tradizionale tecnica di analisi delle categorie giuridiche dei diritti e dei doveri, specie costituzionali; si richiede, infatti, all’interprete un approccio intertemporale nello studio delle situazioni giuridiche soggettive, attive e passive, capace di coniugare i bisogni di più generazioni. La Costituzione repubblicana del ’48 non contiene riferimenti espliciti alla solidarietà (responsabilità) intergenerazionale; ciononostante, come affermato nella sentenza in commento, se ne può rinvenire un solido fondamento negli artt. 2 (9) e 38. In particolare l’art. 2 contiene un catalogo aperto di doveri inderogabili (10) di solidarietà politica (11), economica e sociale (5) Secondo la Consulta “il contributo, dunque, deve operare all’interno dell’ordinamento previdenziale, come misura di solidarietà forte, mirata a puntellare il sistema pensionistico, e di sostegno previdenziale ai più deboli, anche in un’ottica di mutualità intergenerazionale, siccome imposta da una situazione di grave crisi del sistema stesso”. (6) La profonda crisi economico-finanziaria che ha investito l’ordinamento pensionistico è riconducibile ad una pluralità di fattori, endogeni ed esogeni al sistema: la recessione internazionale, la disoccupazione, la scarsità di risorse e, da ultimo, l’assenza di riforme strutturali. (7) In ragione della rilevanza dei molteplici e conflittuali interessi in gioco, ogni intervento legislativo, per superare lo scrutinio di costituzionalità, deve presentare caratteri di ragionevolezza, proporzionalità e non arbitrarietà. In giurisprudenza Corte cost., 2 aprile 2014, n. 69, in www.giurcost.org.; Corte cost., 27 giugno 2012, n. 166, in www.giurcost.org. Sulla tutela dell’affidamento come principio generale F. MANGANARO, Principio di buona fede e attività delle amministrazioni pubbliche, Napoli, 1995, pp. 1 ss.; F. MERUSI Buona fede e affidamento nel diritto pubblico. Dagli anni trenta all’alternanza, Milano, 2001, pp. 1 ss. (8) A ben osservare, infatti, lo Stato di oggi non è più lo Stato censitario borghese del sec. XIX ma si presenta come uno Stato sociale dove, appunto, la componente sociale implica necessariamente una giustizia redistributiva tra i consociati che si realizza attraverso mirati interventi legislativi a tutela dei soggetti più deboli. CONTENZIOSO NAZIONALE 93 di cui la Repubblica richiede l’adempimento a persone e istituzioni. Tali doveri pubblici (12) si giustificano alla luce, appunto, del principio solidaristico pacificamente riconosciuto come un principio giuridico (13), di prioritario rilievo costituzionale (14), che assicura una coesa convivenza sociale all’interno della comunità (15). L’art. 2 riveste un ruolo giuridico di primo piano nel sistema ordinamentale e, in quanto norma impositiva di doveri e obblighi sui consociati (16), de- (9) V. CRISAFULLI, Lo spirito della Costituzione, in Comitato Nazionale per la celebrazione della promulgazione della Costituzione, Studi per il decennale della Costituzione. Raccolta di scritti sulla Costituzione, vol. I, Milano, 1958, p. 104. Secondo l’Autore l’art. 2 della Costituzione rappresenterebbe “la chiave di volta dell’intero ordinamento costituzionale”, costruito sui diritti inviolabili della persona e sui doveri inderogabili di solidarietà. In particolare il principio solidaristico “si inscrive nel nucleo duro dei valori che appartengono al costituzionalismo contemporaneo” (L. MEZZETTI (a cura di), Diritti e doveri, Torino, 2013, p. 233). (10) L’inderogabilità di tali doveri ne evidenzia la tendenziale incomprimibilità se non in virtù di altri valori, superiori o di pari grado, costituzionalmente rilevanti (Corte cost., 28 febbraio 1992, n. 75, in www. giurcost.org.; Corte cost., 29 marzo 1983, n. 77, in www. giurcost.org.; Corte cost., 19 luglio 1996, n. 259, in www. giurcost.org). (11) La solidarietà politica va intesa come forma di solidarietà nella polis, nella comunità civile (F. CERRONE, Genealogia della cittadinanza, Roma, 2004, spec. pp. 64 ss. e pp. 198 ss.). Tra i doveri di solidarietà politica si annoverano il dovere di fedeltà alla Repubblica, il dovere di osservare la Costituzione e le leggi, il dovere di voto nonché il dovere di difendere la patria. (12) Sulla tematica dei doveri pubblici e, segnatamente, dei doveri costituzionali, in dottrina S. ROMANO, Diritti assoluti, doveri, obblighi, ora in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1953, pp. 1 ss.; G. LOMBARDI, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, Milano, 1967, pp. 1 ss.; C. CARBONE, I doveri pubblici individuali, Milano, 1968, pp. 1 ss.; G. TARLI BARBIERI, voce Doveri inderogabili, in Diz. dir. pubbl., diretto da S. CASSESE, vol. III, Milano, 2006, pp. 2071 ss.; A. VIGNUDELLI, Diritto costituzionale, V ed., rist., Torino, 2010, p. 459; D. FLORENZANO, D. BORGONOVO RE, F. CORTESE, Diritti inviolabili, doveri di solidarietà e principio di uguaglianza, Torino, 2012, pp. 1 ss.; G. BASCHERINI, voce Doveri costituzionali, Diritto on line 2014, in www.treccani.it. (13) G. NICOLETTI, voce Solidarismo e personalismo, in Noviss. Dig. it., vol. XVII, Torino, 1970, p. 836. N. LIPARI, La cultura della solidarietà nella Costituzione italiana, in Parlamento, n. 12/1989, p. 17. F. GIUFFRÈ, La solidarietà nell’ordinamento costituzionale, Milano, 2002, pp. 1 ss. R. CIPPITANI, La solidarietà giuridica tra pubblico e privato, Università degli Studi di Perugia, 2010, pp. 1 ss. S. RODOTÀ, Solidarietà. Un’utopia necessaria, Roma-Bari, 2014, pp. 1 ss. (14) F. GIUFFRÉ, La solidarietà nell’ordinamento costituzionale, op. cit., p. 3. In giurisprudenza paradigmatica Corte cost., 9 maggio 1997, n. 127, in www.giurcost.org. (15) Corte cost., 28 febbraio 1992, n. 75, in www.giurcost.org. In dottrina G. DALLA TORRE, Prolusione al Convegno di studio per il 50° dell’Unione italiana giuristi cattolici su La solidarietà tra etica e diritto, Roma 5-8 dicembre 1998, in Iustitia 1999, p. 367. Secondo l’Autore la solidarietà consente il perseguimento in comune di interessi complessi sicché necessariamente in ciascun ordinamento sono rintracciabili vincoli di solidarietà “fra i componenti il corpo sociale e tra questi e il legislatore”. (16) Per un’analisi dell’art. 2 Cost., in dottrina, A. BARBERA, Commento all’art. 2, in Commentario della Costituzione, a cura di G. BRANCA, Principi fondamentali (art. 1-12), Bologna-Roma, 1975, pp. 97 ss. R. D’ALESSIO, Art. 2, in Commentario breve alla Costituzione, a cura di V. CRISAFULLI e L. PALADIN, Padova, 1990, pp. 9-13. L. PALADIN, Diritto costituzionale, III ed., Padova, 1998, p. 594. E. ROSSI, Art. 2, in Commentario alla Costituzione, vol. I, a cura di R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI, Torino, 2006, p. 56. G. DI COSIMO, Art. 2, in Commentario breve alla Costituzione, a cura di S. BARTOLE, R. BIN., Padova, 2010, p. 10. A. MORELLI, I principi costituzionali relativi ai doveri inderogabili di solidarietà, in Principi costituzionali, a cura di L. VENTURA, A. MORELLI, Milano, 2015. 94 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 linea un modello di solidarietà doverosa che, tuttavia, non esclude forme di solidarietà spontanea (17). In questa prospettiva, allora, la solidarietà, non può essere intesa come fatto meramente privatistico, di elargizione gratuita, bensì deve essere concepita come dovere di cittadinanza (18) ed impegno pubblicistico gravante tanto sui singoli quanto sulle istituzioni (19); infatti, il principio di solidarietà impegna pure la Repubblica quale comunità civile organizzata (20). Per tale ragione l’art. 2 deve essere letto congiuntamente all’art. 119 V co. (21) che assegna alla Repubblica un ruolo attivo nella rimozione degli ostacoli, economici e sociali, che limitano di fatto la libertà, l’uguaglianza (22) ed il pieno sviluppo della persona. Va precisato, poi, come, nell’odierno scenario di endemica crisi economica, assumano centrale rilievo tra i doveri costituzionali i doveri di solidarietà economica e sociale (23). La struttura dell’art. 2 Cost., non a caso inserito tra i princìpi fondamentali dell’ordinamento della Repubblica, (che per taluni avrebbe valore di super legalità costituzionale), prescrive una lettura congiunta dei doveri inderogabili di solidarietà e dei diritti fondamentali inviolabili, postulando tra gli uni e gli altri un rapporto di reciproca necessarietà (24). Infatti, la norma introduce una visione dell’uomo uti socius, bilanciando e limitando, con l’imposizione di doveri (25), l’esercizio dei diritti. I doveri di solidarietà costituiscono, pertanto, (17) L’ordinamento costituzionale, in ogni caso, promuove e tutela anche forme di solidarietà spontanea. A riguardo E. ROSSI, Art. 2, in Commentario alla Costituzione, vol. I, a cura di R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI, op. cit., p. 57 secondo il quale il principio di solidarietà legittimerebbe anche quei comportamenti che ciascuno, come singolo o associato, compie per la realizzazione degli interessi della collettività “al di fuori di obblighi posti dall’ordinamento normativo e perciò in forza del vincolo di doverosità”. In tema anche S. GALEOTTI, Il valore della solidarietà, in Dir. soc., 1996, pp. 10 ss. (18) A. DE DOMINICIS (a cura di), Amicizia e professione. Contributi al dibattito sul sociale, Collana I quaderni di Oasi Lab, nic 02, Edizioni del Faro, 2013, p. 92. Secondo l’Autore “il principio di solidarietà nella nostra Carta costituzionale non è assimilabile al principio di restituzione o principio filantropico che vige negli Stati Uniti, non è obbligazione morale, ma si inscrive nei doveri di cittadinanza”. (19) La solidarietà ha una duplice dimensione, orizzontale e verticale, poiché riguarda sia la sfera privata dei rapporti intersoggettivi sia la sfera pubblica degli interventi dello Stato e degli altri soggetti pubblici. (20) La Repubblica è un concetto che comprende e trascende lo Stato e va intesa come ordinamento complessivo della società civile. Essa ricomprende, oltre allo Stato, gli enti territoriali ed i corpi intermedi. (21) Art. 119 V co. Cost.: “per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati comuni, province, città metropolitane e Regioni”. (22) Sulla solidarietà come principio giuridico complementare al principio di uguaglianza L. MENGONI, Fondata sul lavoro: la Repubblica tra diritti inviolabili e doveri inderogabili di solidarietà, in Jus 1998, p. 48. (23) Tra i doveri di solidarietà economica, a titolo esemplificativo, possono citarsi il dovere di concorrere alle spese pubbliche mediante pagamento dei tributi e il dovere di svolgere una attività lavorativa per concorrere al progresso materiale e morale della società. CONTENZIOSO NAZIONALE 95 un argine all’egoistico individualismo dei diritti (26), promuovendo, così, la coesione sociale in una società frammentata, pluralista e pluriclasse quale l’odierna società italiana. La visione solidaristica dell’art. 2 emerge sin dai lavori preparatori dell’Assemblea Costituente ove i diritti inviolabili e i doveri inderogabili vengono definiti “lati inscindibili”, complementari e necessari gli uni agli altri (27). La disposizione ha, invero, rappresentato il luogo di confluenza e sintesi del personalismo cattolico, dell’individualismo liberale e dell’umanesimo marxista (28). Storicamente il valore della solidarietà è transitato dapprima dalla sfera etico-religiosa (29) a quella politica prima di essere positivizzato nell’ordinamento giuridico (30). Come detto, la solidarietà, intesa come principio giuridico, ha significative ricadute sui diritti e i doveri individuali, influenzandone i caratteri e l’ambito applicativo. Del resto, secondo l’insegnamento della migliore dottrina, il principio solidaristico rappresenta la chiave di lettura delle situazioni giuridiche soggettive, attive e passive (31). La solidarietà si realizza, in tal modo, nei (24) Sussiste uno stretto legame di interdipendenza tra diritti e doveri in ragione del quale l’adempimento dei doveri è teleologicamente orientato al pieno ed effettivo esercizio dei diritti inviolabili, sicché in assenza dei doveri i diritti risulterebbero formule vuote, mere petizioni di principio. Si ha, in tal senso, una funzionalizzazione dei doveri rispetto alla tutela dei diritti. (25) Per la nozione di dovere, nell’ambito della teoria generale, E. BETTI, voce Dovere giuridico (teoria gen.), in Enc. dir., vol. XIV, Milano, 1965, p. 53. Secondo l’Autore l’ordine etico è fonte di vincoli aventi natura extra-giuridica i quali, stante la necessità di assicurare la civile convivenza, rilevano anche per il diritto assicurando un costante collegamento con il costume e la morale. (26) G. ALPA, voce Solidarietà, in Nuova giur. comm., 1994, p. 365. L’Autore considera la solidarietà uno strumento di integrazione sociale ed un correttivo all’esasperato individualismo dei diritti. I doveri di solidarietà sono il fondamento di una civile convivenza ispirata ai valori della libertà individuale e della giustizia sociale. (27) Nel corso dei lavori dell’Assemblea Costituente la previsione dei doveri inderogabili di solidarietà, accanto ai diritti fondamentali inviolabili, si deve al Presidente della Commissione dei 75 Meucci Ruini il quale così interveniva: “i proponenti hanno aderito alla mia tenace insistenza perché in questo articolo si mettano insieme, come lati inscindibili, come due aspetti dei quali uno non può sceverare dall’altro, i diritti e i doveri”. Il discorso di Ruini è riportato in F. FALZONE, F. PALERMO, F. COSENTINO, La Costituzione della Repubblica italiana. Illustrata con i lavori preparatori, Milano, 1987, p. 30. (28) A. CERRI, voce Doveri pubblici, in Enc. giur. Treccani, vol. XII, Roma, 1988, p. 1. (29) Il principio solidaristico affonda le sue radici nell’ordinamento della Chiesa cattolica. Di particolare rilievo in tema è l’Enciclica di GIOVANNI PAOLO II, Sollecitudo rei socialis, 30 dicembre 1987, n. 38, in www.google.com, ove la solidarietà è intesa non già come “un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siano veramente responsabili di tutti”. (30) Tra i tanti, A. FALZEA, Introduzione alle scienze giuridiche. Il concetto di diritto, IV ed., Milano, 1992, pp. 1 ss. (31) F. SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, IX ed., Napoli, 1989, p. 76. Secondo l’Autore “il contenuto del diritto soggettivo è determinato dal principio di solidarietà fra i due soggetti del rapporto, come partecipi entrambi della stessa comunità, nel senso che la subordinazione di un interesse all’altro interesse concreto è consentita fin dove essa non urti contro quella solidarietà, che non si realizza nella comunità senza prima realizzarsi nel nucleo costituito dai soggetti del rapporto giuridico”. 96 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 singoli rapporti giuridici dei componenti di una comunità, incidendo in senso conformativo sugli interessi e sulle rispettive posizioni; anche i diritti inviolabili ed i doveri inderogabili della persona, scolpiti dall’art. 2 Cost., sono conformati dal principio solidaristico per garantire la coesione sociale (32) e scongiurare il bellum omnium contra omnes. Da quanto illustrato emerge come ai doveri inderogabili di solidarietà l’ordinamento attribuisca il compito di mitigare l’esercizio dei diritti, specie quelli finanziariamente condizionati, al precipuo scopo di preservare le condizioni di un loro godimento futuro da parte di altre generazioni. È allora evidente la circolarità che intercorre tra i diritti e i doveri costituzionali; una circolarità che si sviluppa lungo una direttrice diacronica capace di unire presente e futuro; ciò testimonia un’esigenza di affermazione della persona come membro di una collettività organizzata, con i suoi diritti ed i suoi doveri, esercitati nello spazio e nel tempo (33). Proprio l’attuazione del principio personalista nell’odierno Stato sociale prescrive un’inscindibile correlazione tra il riconoscimento dei diritti inviolabili della persona e l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Storicamente, se la trattazione dei diritti fondamentali inviolabili (34) è stata oggetto di attenta riflessione, minori attenzioni sono state rivolte in dottrina ed in giurisprudenza all’analisi dei doveri inderogabili di solidarietà. La materia dei diritti costituzionali si presenta, oggi ancor più che in passato, instabile ed in continua evoluzione (35). Va rilevato come, nel corso dei decenni, il catalogo dei diritti inviolabili sia stato progressivamente esteso fino a ricomprendere, oltre ai diritti menzionati in Costituzione, anche diritti individuati dalla legge o elaborati dalla giurisprudenza nazionale ed europea. La potenzialità espansiva dell’art. 2 ha, così, legittimato un graduale ampliamento del novero dei diritti fondamentali anche per merito dell’attività pretoria della Corte di giustizia nella tutela delle libertà e dei diritti individuali. Nella prospettiva di una interpretazione storico-evolutiva sono, oggi, maturi i tempi per ricomprendere nell’alveo applicativo dell’art. 2 anche i diritti delle generazioni future, specie nelle materie, quali la materia pensionistica, ove l’esercizio dei diritti risulti finanziariamente condizionato. A ben (32) L. PALADIN, Diritto costituzionale, III ed., op. cit., p. 594. (33) Alla luce del principio solidaristico, applicato alla concezione dell’uomo uti socius, l’azione individuale deve necessariamente avere una proiezione sociale. (34) In dottrina, tra i tanti, P. GROSSI, Introduzione allo studio dei diritti inviolabili, Padova, 1972, pp. 1 ss. A. BARBERA, Commento all’art. 2, in Commentario della Costituzione, a cura di G. BRANCA, Principi fondamentali (art. 1-12), op. cit., pp. 50 ss. P. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna, 1984, pp. 1 ss. (35) Molte categorie concettuali tradizionali, anche le più resistenti e collaudate, risultano oggi non più utili per comprendere, sistemare o anche solo descrivere la mutata realtà dei nostri tempi. CONTENZIOSO NAZIONALE 97 osservare, poi, non si tratterebbe di nuovi diritti, ma dei medesimi diritti già garantiti a livello costituzionale, anche se tali diritti, con i relativi doveri, vedrebbero esteso il proprio raggio d’azione ad una prospettiva intertemporale, attenta alle esigenze del presente ma anche ai bisogni del futuro. Una simile ricostruzione riceve, altresì, conferma nell’art. 2 ove tanto i diritti inviolabili quanto i doveri inderogabili sono riferiti all’uomo senza alcuna specificazione temporale (36). Del resto, il principio di solidarietà (responsabilità) intergenerazionale è idoneo a ricomprendere, da un lato, i diritti futuri di soggetti futuri, dall’altro, i diritti futuri di soggetti presenti (37). Si pensi, in quest’ultimo caso, al diritto alla pensione dei lavoratori attuali. È evidente, allora, come il godimento di tale diritto dipenda sia dal verificarsi delle prescritte condizioni giuridiche sia dal complessivo equilibrio finanziario dell’ordinamento pensionistico. Una sostenibilità che nel sistema italiano, fondato sul metodo della ripartizione (38), viene assicurata, principalmente, da forme ordinarie e straordinarie di solidarietà intergenerazionale che impongono diritti e doveri a ciascuna generazione a tutela delle prerogative delle generazioni presenti e di coloro che verranno (39). In periodi di persistente crisi economica si richiedono, poi, al legislatore interventi eccezionali di giustizia redistributiva (40), come il prelievo di solidarietà sulle pensioni più elevate, per assicurare a tutti, nel corso del tempo, il godimento dei medesimi diritti. L’importanza progressivamente acquisita (36) P. TORRETTA, Responsabilità intergenerazionale e procedimento legislativo. Soggetti, strumenti e procedure di positivizzazione degli interessi delle generazioni future, in Un diritto per il futuro. Teorie e modelli dello sviluppo sostenibile e della responsabilità intergenerazionale, a cura di R. BIFULCO, A. D’ALOIA, Napoli, 2008, pp. 699 ss. (37) La responsabilità intergenerazionale può essere di due tipi: a) una responsabilità verso le generazioni future che ancora non esistono; anche ad esse viene riconosciuta una soggettiva giuridica, con possibilità di azionare nel presente pretese giuridiche loro imputabili; b) una responsabilità intergenerazionale in senso stretto che si instaura in modo reciproco tra due generazioni entrambe esistenti. Tale responsabilità è propria del sistema previdenziale pubblico caratterizzando, in particolare, i rapporti tra pensionati e lavoratori (V. VALENTI, Diritto alla pensione e questione intergenerazionale. Modello costituzionale e decisioni politiche, Torino, 2013, p. 66). (38) E. SOMAINI, Equità e riforma del sistema pensionistico, Bologna, 1996, pp. 1 ss. Secondo l’Autore il sistema a ripartizione è caratterizzato dalla circostanza che le odierne prestazioni pensionistiche sono finanziate dai contributi versati dai lavoratori attuali. Il sistema pubblico pensionistico si configura, allora, come sistema di rapporti aperti tra le generazioni, in cui l’esercizio dei diritti degli uni è consentito dall’adempimento dei doveri degli altri. (39) La tutela intergenerazionale trova piena cittadinanza nell’ordinamento italiano anche grazie alla giurisprudenza europea che, nel corso dei decenni, ha progressivamente esteso l’ambito di tutela delle libertà e dei diritti individuali; lungo tale direttrice si è definitivamente transitati dalla prospettiva della proclamazione a quella dell’effettiva protezione delle situazioni giuridiche soggettive. In argomento anche M. DOGLIANI, I. MASSA PINTO, Elementi di diritto costituzionale, Torino, 2015, pp. 255 ss. che sottolineano il collegamento inscindibile tra i diritti delle generazioni future e i doveri delle generazioni presenti. (40) Tali interventi, in attuazione del principio di uguaglianza sostanziale, promuovono l’integrazione della persona nella comunità civile organizzata, rimuovendo ostacoli di tipo economico all’esercizio dei diritti e delle libertà individuali. 98 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 nell’ordinamento italiano ha reso i diritti sociali diritti fondamentali inviolabili nonché principi generali dell’ordinamento europeo (41). Nella sentenza in commento la Corte ha avuto il merito di affermare in ambito pensionistico il principio della mutualità intergenerazionale. D’altronde, il tema della responsabilità tra le generazioni è un tema noto e di più ampio respiro che intercetta trasversalmente la materia dell’ambiente (42), del debito pubblico, della sicurezza alimentare (43) etc. Inoltre, riferimenti alla solidarietà intergenerazionale sono presenti in molte Carte sovranazionali tra cui la Carta di Nizza (Preambolo) (44) e il TUE (art. 3) (45). Nel proclamare un principio di responsabilità tra le generazioni (46) la Consulta ha implicitamente affermato la dimensione intertemporale dei diritti e dei doveri, gli uni inscindibilmente connessi e dipendenti dagli altri, anche se riconducibili a diverse generazioni. In questa prospettiva è facile cogliere l’obiettivo di giustizia sostanziale che un prelievo forzoso sulle pensioni di importo più elevato realizza attraverso il reimpiego delle somme all’interno del circuito previdenziale. In tal modo, il futuro godimento di uno o più diritti sociali per alcuni è necessariamente correlato alla attuale imposizione su altri di uno o più doveri di solidarietà economica. Doveri che il legislatore può eccezionalmente introdurre nel rispetto dei principi di ragionevolezza e proporzionalità, come avvenuto nel caso prospettato con il prelievo sulle pensioni d’oro. Dalle considerazioni svolte emerge come l’ordinamento italiano sia costruito (41) In argomento si rinvia a G. PEPE, Principi generali dell’ordinamento comunitario e attività amministrativa, Roma, 2012, pp. 1 ss. (42) T. MARTINES, Diritti e doveri ambientali, in Panorami n. 6/1994, pp. 1 ss. Per l’Autore il dovere di solidarietà ambientale rinverrebbe il proprio fondamento nell’art. 2 della Costituzione, quale clausola aperta, fonte sia di diritti inviolabili non scritti sia di doveri di solidarietà innominati. (43) C. ZANGHI, Per una tutela delle generazioni future, in Jus - Riv. sc. giur. n. 1/1999, p. 638. Di particolare interesse il contributo di J. RAWLS, A Theory of Justice, 1971, trad. it. Una teoria della giustizia, Milano, 1999, cui deve tributarsi il merito di aver inserito la tematica delle generazioni future nell’ambito di una teoria della giustizia come equità. Sui diritti delle generazioni future correlati alle responsabilità delle generazioni presenti G. MAJORANA, Il dovere di solidarietà e le generazioni future, in I doveri costituzionali: la prospettiva del giudice delle leggi, Atti Convegno Acqui Terme - Alessandria 9-10 giugno 2006, a cura di R. BALDUZZI, M. CAVINO, E. GROSSO, J. LUTHER, Torino, 2007, pp. 403 ss. R. BIFULCO, Diritto e generazioni future. Problemi della responsabilità intergenerazionale, Milano, 2008. A. PISANÒ, Diritti deumanizzati. Animali, ambiente, generazioni future, specie umana, Milano, 2012, pp. 148 ss. V. VALENTI, Diritto alla pensione e questione intergenerazionale. Modello costituzionale e decisioni politiche, op. cit., pp. 1 ss. A. SCARABELLO, Quali doveri verso le generazioni future? Le istituzioni di fronte alle istanze dei posteri, in Riv. trim. scienz. amm., n. 4/2013, pp. 125-136. A. URICCHIO (a cura di), L’emergenza ambientale a Taranto: le risposte del mondo scientifico e le attività del polo Magna Grecia, Bari, 2014, pp. 1 ss. (44) Il Preambolo della Carta di Nizza prevede “responsabilità e doveri nei confronti degli altri come pure della comunità umana e delle generazioni future”. Il riferimento è, quindi, non solo ai viventi ma anche a coloro che verranno. (45) Secondo l’art. 3 del TUE l’Unione europea promuove la solidarietà tra le generazioni e tra gli Stati membri. (46) G. PONTARA, Etica e generazioni future, Bari, 1995, pp. 22 ss. CONTENZIOSO NAZIONALE 99 su una circolarità di rapporti tra diritti inviolabili e doveri inderogabili, di tipo diacronico, nonché su una costante dialettica tra libertà e responsabilità. Tale schema discende direttamente dall’art. 2 Cost. che va inteso quale norma fondativa di un patto intragenerazionale ed intergenerazionale (47), ispirato ad un principio di equità sociale e di giustizia redistributiva. A ragione può parlarsi, in proposito, di una dimensione intertemporale dei doveri di solidarietà, sub specie di solidarietà economica. L’intertemporalità dei doveri, del resto, si pone quale tecnica di tutela idonea ad assicurare a più di una generazione l’inviolabilità dei propri diritti attraverso la possibilità di un loro effettivo esercizio nel tempo; un discorso perfettamente applicabile al futuro diritto alla pensione dei lavoratori attuali; un diritto che deve essere progressivamente tutelato assicurando adeguata liquidità al sistema anche attraverso prelievi forzosi sui pensionati più ricchi. Invero, sulla scorta di un tacito patto sociale (48) coloro che oggi godono di elevati trattamenti pensionistici, a fortiori se maturati con il metodo retributivo (49), sono giuridicamente responsabili verso le altre generazioni, presenti e future e devono, pertanto, contribuire economicamente per scongiurare il collasso del sistema pensionistico (50); solo in questo modo è possibile conferire effettività all’altrui godimento di diritti sociali finanziariamente condizionati. Ebbene, la questione della solidarietà intergenerazionale si presenta quale questione redistributiva di giustizia sociale. Lo stesso diritto alla pensione è inquadrabile in una dimensione intertemporale che mira a tutelare non “una singola persona, un singolo individuo durante la (limitata) durata della vita, ma astrattamente un’intera generazione futura, il susseguirsi delle generazioni di uomini e cittadini come un’unità indistinta” (51). (47) A. D’ALOIA (a cura di), Diritti e Costituzione. Profili evolutivi e dimensioni inedite, Milano, 2003, pp. 1 ss. Secondo l’Autore “una teoria giuridica dei diritti (o delle responsabilità nei confronti) delle generazioni future costituisce in realtà una teoria della Costituzione” la quale è per sua natura “un processo relazionale tra generazioni”. (48) V. VALENTI, Diritto alla pensione e questione intergenerazionale. Modello costituzionale e decisioni politiche, op. cit., pp. 79-80. (49) L’importo elevato di molte pensioni d’oro dipende dalla applicazione del metodo c.d. retributivo, sicché il pensionato viene a percepire una somma superiore ai contributi versati, con un considerevole aggravio per la fiscalità generale chiamata a farsi carico di una parte del trattamento pensionistico. L’imposizione di un prelievo forzoso su tali pensioni non pone un problema di diritti quesiti. In ogni caso, il principio dei diritti quesiti, quale principio generale dell’ordinamento giuridico, risulterebbe derogato dal superiore principio costituzionale della solidarietà intergenerazionale. Per una trattazione della tematica, sul piano della teoria generale, si rinvia ai contributi di G. CODACCI PISANELLI, Diritti quesiti, Bari, 1976, pp. 1 ss. G. TARELLO, Il problema dei diritti quesiti nelle codificazioni moderne, in Coscienza civile e problemi della democrazia oggi, Studi in memoria di Aldo Moro, Milano, 1984, pp. 165 ss. (50) Chi ha una pensione superiore alla media è tenuto a versare un contributo, a titolo di solidarietà, per far fronte alla grave emergenza economica in atto. La Corte afferma, pertanto, un principio di giustizia redistributiva, riconoscendo la legittimità di un prelievo forzoso, solidale e ragionevole, che tuteli il diritto alla pensione dei giovani e delle future generazioni. (51) P. HÄBERLE, Le libertà fondamentali nello Stato costituzionale, Urbino, 1993, pp. 208 ss. 100 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 In conclusione, il rapporto intergenerazionale va considerato un rapporto giuridico regolato dai principi di responsabilità, equità e solidarietà. In particolare la prospettiva del futuro deve essere necessariamente inclusa nell'orizzonte della tutela giuridica (52) a protezione dei diritti della posterità. Si può coerentemente riconoscere, allora, “un vero e proprio dovere delle generazioni presenti di astenersi dal frustrare quelle condizioni di equità intertemporali di esercizio di un diritto fondamentale che il concetto di inviolabilità richiama” (53) a tutela delle legittime aspettative di altre generazioni ed in particolare di coloro che verranno. In tale ottica un prelievo di solidarietà straordinario sulle pensioni di importo più elevato è misura finanziariamente necessaria, costituzionalmente legittima e politicamente giustificata dalla finalità di rendere economicamente sostenibile l’ordinamento pensionistico nel presente e nel futuro. Corte costituzionale, sentenza 13 luglio 2016 n. 173 - Pres. P. Grossi, Red. M.R. Morelli - Giudizi di legittimità costituzionale in via incidentale promossi dalla Corte dei Conti - Avv.ti Giovanni C. Sciacca per G.D., S.M.A., P.F. ed altri, Vincenzo Petrocelli per P.V.,Vittorio Angiolini per B.M. ed altri, Federico Sorrentino per A.A. ed altro, Luigi Adinolfi per S.S., Filippo Mangiapane per l’INPS e gli avv.ti Stato Federico Basilica e Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1.- Per contrasto con i parametri di cui agli artt. 2, 3, 4, 35, 36, 38, 53, 81, 97 e 136, della Costituzione, non sempre congiuntamente evocati, le sezioni giurisdizionali della Corte dei conti per la Regione Veneto (r.o. n. 65 del 2015), per la Regione Umbria (r.o. n. 163 del 2015), per la Regione Campania (r.o. n. 91 e n. 340 del 2015) e per la Regione Calabria (r.o. n. 109 e n. 119 del 2015) - chiamate a pronunciarsi su altrettanti ricorsi di (singoli o più) titolari di pensioni a (totale o parziale) carico dello Stato (di importo superiore a quattordici volte il trattamento minimo INPS), i quali chiedevano che il loro trattamento non fosse decurtato del contributo di solidarietà introdotto, per il triennio 2014-2016, dal comma 486 dell’art. 1 della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di stabilità 2014) - hanno tutte sollevato, premessane la rilevanza, questioni di legittimità costituzionale, variamente articolate ed argomentate, della disposizione di cui al predetto comma 486 dell’art. 1 della legge n. 147 del 2013. 2.– La disposizione così denunciata prevede, appunto, un «contributo di solidarietà» per il triennio 2014-2016, su tutti i trattamenti pensionistici obbligatori eccedenti determinati (52) R. BIFULCO, Futuro e Costituzione. Premesse per uno studio sulla responsabilità verso le generazioni future, in Studi in onore di Gianni Ferrara, vol. I, Giappichelli, 2005, p. 288. (53) V. VALENTI, Diritto alla pensione e questione intergenerazionale. Modello costituzionale e decisioni politiche, op. cit., pp. 67-68. CONTENZIOSO NAZIONALE 101 limiti stabiliti in relazione al trattamento minimo INPS: ossia del 6 per cento sugli importi lordi annui superiori da 14 a 20 volte il trattamento minimo INPS annuo; del 12 per cento sulla parte eccedente l’importo lordo annuo di 20 volte il trattamento minimo INPS annuo; e del 18 per cento sugli importi superiori a 30 volte il suddetto trattamento minimo, con acquisizione delle somme trattenute dalle competenti gestioni previdenziali obbligatorie, anche al fine di concorrere al finanziamento degli interventi di cui al comma 191 dell’art. 1 della stessa legge n. 147 del 2013 (ossia, al finanziamento concernente gli interventi di salvaguardia pensionistica in favore dei lavoratori cosidetti “esodati”). 2.1.– Secondo i giudici contabili delle sezioni giurisdizionali per la Calabria e per l’Umbria, la su riferita disposizione contrasterebbe, in primo luogo, con l’art. 136 Cost., violando il giudicato costituzionale di cui alla sentenza di questa Corte n. 116 del 2013, in quanto ripropositiva di una norma sostanzialmente identica a quella (art. 18, comma 22-bis, del decreto- legge 6 luglio 2011, n. 98 recante: “Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria”), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, dichiarata costituzionalmente illegittima dalla suddetta sentenza, destinata, infatti, agli stessi destinatari (pensionati) ed avente un identico oggetto, e cioè «un prelievo coattivo articolato su diverse fasce del reddito derivante da pensione». 2.2.– Tutti i rimettenti denunciano, poi, la violazione degli artt. 3 e 53 Cost., stante la natura di prelievo di natura tributaria, «al di là del nomen iuris utilizzato» da ascrivere al contributo di solidarietà, risultandone i relativi requisiti (prestazione doverosa; imposizione per legge in assenza di rapporto sinallagmatico tra le parti; destinazione al finanziamento della spesa pubblica; correlazione ad un presupposto economicamente rilevante, che rappresenta indice di capacità contributiva) in forza di ragioni analoghe a quelle espresse dalla sentenza n. 116 del 2013 in relazione al contributo di perequazione di cui al menzionato art. 18, comma 22-bis, del d.l. n. 98 del 2011. 2.3.– La sezione giurisdizionale per la Calabria, in riferimento ai parametri di cui agli artt. 2, 3, 36, 38 e 53 (congiuntamente evocati), addebita inoltre alla disposizione in esame di incidere su una ristretta platea di destinatari, per concorrere al raggiungimento di obbiettivi previdenziali, assistenziali e sociali, di contenuto alquanto vago ed indifferenziato, così da sottrarre la categoria colpita «a quella maggiore tutela sociale, giuridica ed economica assicurata nel sistema previdenziale vigente», tenuto conto, altresì, della natura di retribuzione differita della pensione, assimilata ai redditi di lavoro dipendente, anche ai fini dell’applicazione dell’IRPEF. 2.4.– A loro volta, la sezione giurisdizionale per il Veneto, in riferimento agli artt. 2, 3 e 36, la sezione giurisdizionale per la Calabria, in riferimento agli artt. 3, 4, 35, 36, 38 e 53, e la sezione giurisdizionale per l’Umbria, in riferimento agli artt. 2, 3, 36 e 38 Cost., sospettano, sotto vari profili, violati il principio di ragionevolezza ed il principio del legittimo affidamento in quanto il contributo in questione inciderebbe autoritativamente sul reddito da pensione già maturato ex lege, senza, per un verso, essere «finalizzato all’effettuazione di prestazioni previdenziali/assistenziali puntualmente individuate» e, per altro verso, venendo al tempo stesso «acquisito indistintamente da ciascuna delle diverse gestioni previdenziali obbligatorie indipendentemente da ogni riferimento alle dinamiche dei rispettivi equilibri finanziari, e dunque anche da quelle che risultano in una situazione di equilibrio o addirittura di avanzo», cosi da venir meno «qualsivoglia logica di correlazione tra an e quantum del contributo (compreso il suo orizzonte temporale triennale) e dinamiche finanziarie/prestazionali complessive del sistema previdenziale». 102 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 2.5.– Nella mancata indicazione de “i criteri” di destinazione delle somme trattenute con il prelievo la sezione giurisdizionale per la Calabria ravvisa un ulteriore profilo di violazione degli artt. 81 e 97 Cost.; profilo, questo, condiviso anche dal giudice delle pensioni per la Campania ma in riferimento al solo art. 97 Cost. 2.6.– Infine, con l’ordinanza di rimessione iscritta al r.o. n. 109 del 2015, si prospetta il contrasto del comma 486 in esame con l’art. 3 Cost., sul presupposto che il contributo potrebbe essere diversamente disciplinato nel quantum dalle Regioni a statuto speciale, come è accaduto nel caso della Regione siciliana, che ha adottato apposita previsione legislativa (art. 22 della legge regionale 12 agosto 2014, n. 21, recante «Assestamento del bilancio della Regione per l’anno finanziario 2014. Variazioni al bilancio di previsione della Regione per l’esercizio finanziario 2014 e modifiche alla legge regionale 28 gennaio 2014, n. 5 “Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2014. Legge di stabilità regionale”. Disposizioni varie) e ciò in antitesi rispetto al suo carattere perequativo finalizzato a rimpinguare il fondo nazionale INPS destinato agli esodati, in quanto diversificherebbe tra loro i medesimi soggetti passivi del contributo sulla base della loro residenza territoriale. 3.– La sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Calabria, con le due su citate ordinanze di rimessione, denuncia l’art. 1 della legge n. 147 del 2013 in relazione anche ai commi 483 (sulla cosiddetta perequazione automatica), 487 (sulle corrispondenti misure di contenimento, di pensioni e vitalizi, adottati dagli organi costituzionali, Regioni e Province autonome di Trento e di Bolzano) e 590 (sul rapporto tra contributo di solidarietà ex comma 486, e contributo sui redditi superiori ad euro 300.000,00 di cui all’art. 2, comma 2, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito della legge 14 settembre 2011, n. 148, recante «Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo»). 3.1.– Il comma 483 violerebbe, secondo la rimettente, gli artt. 3 e 53 Cost. dissimulando «l’introduzione di una misura volta a realizzare un introito per l’Erario sotto forma di un risparmio realizzato forzosamente mediante la compressione di un diritto (quale quello all’adeguamento dei trattamenti) attribuito in via tendenziale ai pensionati»; gli artt. 36 e 38, introducendo in via definitiva una misura peggiorativa del trattamento pensionistico in precedenza spettante «con la conseguente, irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività»; l’art. 117, primo comma, Cost., e, per il suo tramite, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, come interpretata dalla Corte di Strasburgo, e, segnatamente, «con il principio della certezza del diritto come patrimonio comune di tradizioni degli Stati contraenti, che sopporta eccezioni solo se giustificate dal sopraggiungere di rilevanti circostanze di ordine sostanziale», oltre che «con altri diritti garantiti dalla Carta: il diritto dell’individuo alla libertà e alla sicurezza (art. 6), il diritto di non discriminazione, che include anche quella fondata sul “patrimonio” (art. 21), il diritto degli anziani, di condurre una vita dignitosa e indipendente (art. 25), il diritto alla protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale (art. 33), il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali (art. 34)». 3.2.– Il comma 487 è denunciato «in raffronto» al comma 486, deducendosi che non essendo il comma 487 finalizzato ad interventi sul sistema previdenziale (posto che i risparmi di spesa confluiscono «al Fondo di cui al comma 48»), pur facendo applicazione dei principi di cui al comma 486, introdurrebbe «un ulteriore elemento di non chiarezza negli interventi normativi e di diseguaglianza di trattamento riservato a categorie distinte di pensionati». CONTENZIOSO NAZIONALE 103 3.3.– Con gli artt. 3 e 53 Cost., contrasterebbe, infine, il comma 590, in quanto prevede che ai fini del raggiungimento del tetto di euro 300.000,00 (oltre il quale il contributo di solidarietà è pari al 3 per cento), si debba tener conto anche dei trattamenti pensionistici percepiti, sui quali, però, il contributo è nella misura molto maggiore del 18 per cento stabilito dal precedente comma 486. 4.– Si sono costituite innanzi a questa Corte numerose parti ricorrenti nei giudizi a quibus. In particolare: M.B. ed altri cinque; S.S.; D.G., A.S.M., nei giudizi relativi, rispettivamente, alle ordinanze di rimessione, iscritte al r.o. n. 65, n. 91, n. 109 e n. 119 del 2015. 4.1.– Altri sedici ricorrenti si sono costituiti tardivamente nel giudizio relativo all’ordinanza n. 163 del 2015. 4.2.– F.P. ed altri trentadue e, con separato tardivo atto, V.P., sono intervenuti ad adiuvandum nel giudizio relativo all’ordinanza, di rimessione iscritta al r.o. n. 109 del 2015. 4.3.– Tutte le parti ricorrenti hanno svolto diffuse argomentazioni a sostegno della fondatezza delle questioni sollevate nei rispettivi processi di merito. 4.4.– Nei giudizi di cui al r.o. n. 109 del 2015 e n. 119 del 2015, le parti private, già costituite nel presente giudizio, hanno depositato (separate) memorie, ribadendo le ragioni di illegittimità delle norme censurate già sviluppate inizialmente, sottolineando, in particolare, come queste colpiscano, in modo indiscriminato, le pensioni di importo più elevato «derivanti da effettiva attività lavorativa e da piena corresponsione dei contributi». 5.– Nei giudizi relativi alle sei indicate ordinanze di rimessione, si è costituito, anche l’INPS, che ha successivamente depositato altrettante memorie. La difesa dell’Istituto ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità per irrilevanza delle questioni (sollevate dalla sola sezione giurisdizionale per la Calabria) relative ai commi 483, 487 e 590 dell’art. 1 della legge n. 147 del 2013. Ha eccepito, altresì, l’inammissibilità della questione concernente il comma 486, dello stesso articolo, per «carenza di motivazione sulla rilevanza e mancato esperimento del doveroso tentativo di ricercare un’interpretazione adeguatrice», nei giudizi di cui al r.o. n. 65 del 2015 e n. 91 del 2015; e per difetto assoluto di motivazione sulla giurisdizione nel giudizio di cui al r.o. n. 340 del 2015. Nel merito, ha contestato la fondatezza di ogni questione relativa al “contributo di solidarietà”, di cui all’impugnato comma 486 dell’art. 1 della legge n. 147 del 2013, sottolineandone innanzitutto la innegabile diversità rispetto al “contributo di perequazione” caducato dalla sentenza di questa Corte n. 116 del 2013, e sottolineandone la natura non tributaria. Destituita di fondamento sarebbe, altresì, a suo avviso, la tesi per cui i proventi del prelievo non sarebbero destinati a finalità solidaristiche. Nella specie sarebbe, quindi, evocabile, in coerenza con i principi solidaristici, la giurisprudenza costituzionale che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità relative all’art. 37 della legge 23 dicembre 1999, n. 488 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge finanziaria 2000): ordinanze n. 160 del 2007 e n. 22 del 2003, atteso anche che interventi peggiorativi sui trattamenti di pensione, ove non irrazionali e non lesivi “in modo eccessivo” dell’affidamento del cittadino (come nel caso in esame), non sarebbero preclusi al legislatore. 6.– Il Presidente del Consiglio dei ministri è intervenuto in tutti i giudizi di che trattasi. Anche la difesa dello Stato ha eccepito, in limine, l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale del comma 486, sollevata, a suo avviso, dai rimettenti senza adeguata motivazione sulla rilevanza, con passivo recepimento delle deduzioni dei ricorrenti in ordine 104 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 alla sua non manifesta infondatezza e senza previo esperimento di una possibile interpretazione adeguatrice. Nel merito, l’Avvocatura generale sostiene, tra l’altro, che il contributo in discussione non avrebbe natura tributaria, prevedendo, invece, in via eccezionale «una forma di riequilibrio “transitoria” (giacché limitata a tre anni dal 1° gennaio 2014), dell’importo dei trattamenti all’interno dello stesso sistema pensionistico, in quanto le somme prelevate dai soggetti incisi, vengono anche acquisite dalle competenti gestioni previdenziali obbligatorie e non sono destinate alla fiscalità generale». Ciò anche in aderenza al principio per cui al legislatore non sarebbe interdetto di emanare disposizioni modificative in senso sfavorevole della disciplina sui rapporti di durata, ove esse non incidano arbitrariamente sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti, come per il caso regolato dal denunciato comma 486 che, incidendo sulle cosiddette “pensioni d’oro”, introdurrebbe una disposizione non irragionevole e rispettosa del principio di solidarietà. Non sarebbe, inoltre, violato l’art. 36 Cost., trattandosi di un prelievo contenuto non tale da far mancare ai pensionati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita; e parimenti non vulnerato sarebbe il principio di affidamento, per l’incidenza non sproporzionata, appunto, del contributo sul trattamento pensionistico, non insuscettibile di subire gli effetti di discipline più restrittive introdotte da leggi sopravvenute non irragionevoli. Sotto il profilo previdenziale, sussisterebbero, per di più, nel caso in esame, ragioni specifiche «che differenziano la posizione dei pensionati soggetti al contributo rispetto alla generalità dei cittadini e degli altri lavoratori e pensionati», giacché i primi, stante l’alto livello pensionistico conseguito, avrebbero «evidentemente beneficiato di una costante presenza nel mercato del lavoro e della mancanza di qualsivoglia tetto contributivo». Del resto, in situazioni particolari, in cui vi è necessità di salvaguardare l’equilibrio della finanza pubblica, l’intervento legislativo di cui alla disposizione denunciata sarebbe rispettoso dei principi costituzionali, in quanto impone un sacrificio eccezionale, transeunte, non arbitrario e rispondente allo scopo prefisso. Il Presidente del Consiglio dei ministri ha sottolineato, infine, l’impatto economico che avrebbe l’eliminazione del contributo in questione, sostenendo che di tale effetto occorrerebbe tenere conto, segnatamente a seguito della riforma costituzionale recata dalla legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale), che ha riscritto l’art. 81 Cost., prevedendo il principio dell’equilibrio di bilancio. Considerato in diritto 1.- Con le sei ordinanze di rimessione, del cui contenuto si è già più ampiamente detto nel Ritenuto in fatto, le sezioni giurisdizionali della Corte dei conti per la Regione Veneto, per la Regione Umbria e (con due ordinanze ciascuna) le sezioni giurisdizionali per la Regione Campania e per la Regione Calabria prospettano dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 486, della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2014), per contrasto, sotto vari profili, con gli artt. 2, 3, 4, 35, 36, 38, 53, 81, 97 e 136 della Costituzione. 1.1.– La sezione per la Regione Calabria estende la propria denuncia anche ai commi 483, 487 e 590 dello stesso art. 1 della legge n. 147 del 2013. 2.– I sei giudizi – nei quali si sono costituiti sia numerosi ricorrenti nei processi a quibus sia il resistente Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS), ed è intervenuto il Presi- CONTENZIOSO NAZIONALE 105 dente del Consiglio dei ministri – per la sostanziale identità o per la complementarietà, comunque, dei quesiti formulati, possono riunirsi per essere unitariamente decisi. 3.– Preliminarmente, va confermata l’ordinanza dibattimentale, che resta allegata alla presente sentenza, con la quale sono stati dichiarati inammissibili la costituzione tardiva di parti nel giudizio relativo alla ordinanza di rimessione n. 163 del 2015 e l’intervento “adesivo” di altri soggetti nel giudizio relativo all’ordinanza n. 109 del 2015. 4.– Sia l’INPS che il Presidente del Consiglio dei ministri hanno spiegato, tramite le proprie difese, un ampio ventaglio di eccezioni di inammissibilità che, in quanto ostative, in tesi, all’ingresso al merito delle questioni sollevate, vanno esaminate con carattere di priorità. 4.1.– Sono fondate le eccezioni (formulate dall’INPS) di inammissibilità per irrilevanza delle questioni (sollevate dalla sezione giurisdizionale per la Regione Calabria nelle due sue ordinanze di rimessione) aventi ad oggetto i commi 487 e 590 dell’art. 1 della legge scrutinata. Entrambe tali disposizioni non vengono, infatti, in applicazione nei giudizi a quibus, posto che la prima (comma 487) riguarda gli organi costituzionali, le Regioni e Province autonome (con particolare riferimento ai vitalizi), e non comunque i pensionati a carico dello Stato; e la seconda (comma 590) attiene al contributo di solidarietà sui redditi e non sulle pensioni e, inoltre, in nessun caso si afferma da quel giudice a quo che i ricorrenti siano titolari di redditi oltre i trecentomila euro. 4.2.– Non fondata è, viceversa, l’eccezione di inammissibilità della questione relativa al comma 483 della legge medesima, formulata dall’istituto resistente sul presupposto che al riguardo «tutte le censure sollevate sono già state scrutinate da Codesta Corte nella sentenza 70 del 2015». Si tratta, infatti, di eccezione che non attiene al profilo della inammissibilità, sebbene al proprium del merito (vedi sub. punto 6). 4.3.– Non fondate sono, altresì, le eccezioni, sia dell’istituto resistente che della difesa dello Stato, con le quali - relativamente alle questioni che investono il comma 486 - si deducono l’insufficiente motivazione sulla rilevanza, la critica adesione alla prospettazione delle parti nei giudizi a quibus e l’omissione del doveroso previo tentativo di interpretazione costituzionalmente orientata della predetta disposizione. Tutte le ordinanze di rimessione motivano adeguatamente, infatti, sulla rilevanza; assumono una propria autonoma posizione sui dubbi di costituzionalità prospettati dalle parti ed escludono che, per l’univocità del dato normativo, si possa pervenire ad una sua esegesi “adeguatrice” (che, in tesi dell’Avvocatura generale dello Stato e della difesa dell’INPS, dovrebbe peraltro, condurre ad un rigetto e non all’inammissibilità, delle questioni in esame). 4.4.– Del pari non fondata è l’eccezione dell’INPS che attiene al difetto di motivazione sulla rilevanza in punto di giurisdizione della Corte dei conti, ovvero per difetto di giurisdizione nei confronti di taluni (soltanto) ricorrenti, nei giudizi di cui a r.o. n. 65, n. 91 e n. 109 del 2015. Nell’un caso, la sussistenza della giurisdizione è plausibilmente, infatti, motivata in ragione della natura pensionistica della controversia; e, nell’altro, il difetto di giurisdizione rispetto a taluni ricorrenti soltanto (perché titolari di pensione non a carico dello Stato) non elide la giurisdizione della Corte dei conti rispetto agli altri ricorrenti e, quindi, sussiste la rilevanza della questione. 5.– Superano, dunque, il vaglio di ammissibilità le sole questioni di legittimità costituzionale concernenti i commi 483 e 486 dell’art. 1 della legge 147 del 2013. 6.– Il comma 483 è denunciato unicamente dalla sezione giurisdizionale per la Calabria (r.o. n. 109 e n. 119 del 2015), «per contrasto con gli articoli 3, 53, 36 e 38 della Costituzione, 106 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 nonché con l’art. 117, primo comma, Cost. per violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (artt. 6, 21, 25, 33, 34), come anche interpretata dalla Corte di Strasburgo». 6.1.– La disposizione così sottoposta a scrutinio di costituzionalità riconosce, per il triennio 2014-2016, la «rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici» in misura progressivamente decrescente dal 100 al 40 per cento, in corrispondenza all’importo del trattamento pensionistico, rispettivamente, superiore da tre a sei volte (per il solo anno 2014) il trattamento minimo INPS. 6.2.– Secondo la rimettente tale disposizione sarebbe censurabile per le medesime ragioni (dissimulazione di un ulteriore prelievo fiscale a carico dei soli pensionati) già poste a base di precedente denuncia di illegittimità costituzionale dell’analogo art. 24, comma 25, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), come convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214. 6.3.– La questione - inammissibile in riferimento ai parametri europei, qui evocati dal giudice a quo in assenza di qualsiasi motivazione in ordine alla (solo) asserita loro violazione (sentenze n. 70 del 2015, n. 158 del 2011, ex plurimis) - è, nel merito, non fondata. È pur vero, infatti, che la limitazione della rivalutazione monetaria dei trattamenti pensionistici, per il biennio 2012-2013, di cui al citato art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011 è stata dichiarata costituzionalmente illegittima con sentenza di questa Corte n. 70 del 2015. Ma questa stessa sentenza (al punto 7 del Considerato in diritto ) ha sottolineato come da quella norma (prevedente un “blocco integrale” della rivalutazione per le pensioni di importo superiore a tre volte il minimo) si “differenzi” (non condividendone, quindi, le ragioni di incostituzionalità) l’art. 1, comma 483, della legge 147 del 2013, il quale viceversa, «ha previsto, per il triennio 2014-2016, una rimodulazione nell’applicazione della percentuale di perequazione automatica sul complesso dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo di cui all’art. 34, comma 1, della legge n. 448 del 1998, con l’azzeramento per le sole fasce di importo superiore a sei volte il trattamento minimo INPS e per il solo anno 2014», ispirandosi «a criteri di progressività, parametrati sui valori costituzionali della proporzionalità e della adeguatezza dei trattamenti di quiescienza». 7.– Residua, da ultimo, la verifica di costituzionalità del comma 486, su cui soprattutto si concentra l’interesse dei giudici a quibus. 7.1.– Aggregate per profili di identità, di (anche solo parziale) sovrapposizione o, comunque, di complementarietà - ed unitariamente quindi valutate - le plurime censure rivolte, con le sei ordinanze di rimessione, al “contributo di solidarietà”, che l’impugnato comma 486 dell’art. 1 della legge n. 147 del 2013 pone, per un triennio, a carico dei titolari di «trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie» complessivamente superiori da quattordici a trenta volte il trattamento minimo INPS, innescano altrettante questioni di legittimità costituzionale. Le quali, coordinate in scala di logica consequenzialità, possono, a loro volta, così riassumersi. Se il “contributo di solidarietà” qui oggetto di scrutinio, violi: a) l’art. 136 Cost., in ragione della sostanziale «identità della fattispecie normativa prevista dal comma 486 rispetto a quella dell’art. 18, comma 22-bis, del D. L. 6 luglio 2011 n. 98, a suo tempo dichiarato illegittimo dalla Corte», con la ricordata sentenza n. 116 del 2013 (così, in particolare, ordinanza di rimessione n. 109 del 2015); b) gli artt. 3 e 53 Cost., trattandosi, al di là del nomen iuris, di un (mascherato) prelievo CONTENZIOSO NAZIONALE 107 tributario, risolventesi - al pari del cosiddetto contributo di perequazione di cui al citato art. 18, comma 22-bis, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), come convertito - in «un intervento impositivo irragionevole e discriminatorio ai danni di una sola categoria di cittadini»; c) gli artt. 3 e (secondo la sezione giurisdizionale per la Regione Calabria) 81 e 97 Cost. (quest’ultimo parametro evocato anche dalla sezione per la Regione Campania), poiché (ove anche configurato come prestazione imposta ai fini di solidarietà endoprevidenziale) il contributo in questione risulterebbe comunque connotato dalla «vaghezza della formulazione legislativa [che] costituisce un indizio della sua irrazionalità non essendo chiarito, ad esempio, quali siano i criteri attraverso i quali le somme derivanti dai contributi di solidarietà saranno destinate ad aiutare i titolari di pensioni più basse ma con quali criteri oppure se serviranno anche per fronteggiare i disavanzi della disoccupazione e della cassa integrazione INPS che sono per lo più alimentati dallo Stato ovvero, ancora, se una parte del ricavato (peraltro indeterminata e mai quantificata) possa essere utilizzata per il cosiddetto Fondo INPS per gli esodati»; d) gli artt. 2, 3, 36 e 38 Cost., poiché - non costituendo il prelievo de quo, un contributo di solidarietà (per superamento dei limiti intrinseci che dovrebbero connotare un siffatto contributo), né una riduzione del trattamento di quiescenza conseguente ad una modifica normativa del sistema pensionistico - esso si configurerebbe come una mera ablazione del trattamento di quiescenza dei pensionati incisi, in contrasto con i principi di razionalità-solidarietà, oltre che di adeguatezza pensionistica e della proporzionalità con l’attività lavorativa prestata ed i contributi pagati, risultando, altresì, leso anche il “principio dell’affidamento”, per non essere ragionevole la riduzione del trattamento pensionistico operata nella specie; e) l’art. 3 (primo comma) Cost., in ragione della diversa disciplina del comma 486 rispetto a quella - più favorevole in ordine al quantum del prelievo - introdotta dalla Regione Sicilia con l’art. 22 della legge 12 agosto 2014, n. 21 (Assestamento del bilancio della Regione per l’anno finanziario 2014. Variazioni al bilancio di previsione della Regione per l’esercizio finanziario 2014 e modifiche alla legge regionale 28 gennaio 2014, n. 5 “Disposizioni programmatiche e correttive per l’anno 2014. Legge di stabilità regionale”. Disposizioni varie). 8.– Venendo allo scrutinio delle questioni così elencate, deve, in primo luogo, escludersi che sussista la denunciata violazione dell’art. 136 Cost. Il “contributo di solidarietà” ora in contestazione non colpisce, infatti, le pensioni erogate negli anni (2011-2012), incise dal precedente contributo perequativo, dichiarato costituzionalmente illegittimo in ragione della sua accertata natura tributaria e definitivamente, quindi, caducato (e conseguentemente recuperato da quei pensionati) per effetto della sentenza di questa Corte n. 116 del 2013; colpisce, invece, sulla base di differenti presupposti e finalità, pensioni, di elevato importo, nel successivo periodo, a partire dal 2014. E tanto esclude che la disposizione sub comma 486 dell’art. 1 della legge n. 147 del 2013 sia elusiva del giudicato costituzionale (rappresentato dalla suddetta sentenza), atteso appunto, che l’odierna disposizione non disciplina le stesse fattispecie già regolate dal precedente art. 18, comma 22-bis, del d.l. n. 98 del 2011, né surrettiziamente proroga gli effetti di quella norma dopo la sua rimozione dall’ordinamento giuridico (vedi sentenza n. 245 del 2012). Ragione per cui ciò che, a questo punto, resta da valutare è se la riproposizione, per il futuro, di una forma di prelievo, che si denuncia “analoga” a quella rimossa con la citata sentenza n. 116 del 2013, non violi, a sua volta, gli artt. 3 e 53 della Costituzione. 9.– Neppure i suddetti parametri possono dirsi, però, vulnerati dalla disposizione in esame. E ciò per il motivo, assorbente, che il contributo, che ne forma oggetto, non riveste la natura 108 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 di imposta, attribuitagli dai rimettenti quale presupposto per il sollecitato controllo di compatibilità con il precetto (altrimenti non pertinente) di cui all’art. 53, in relazione all’art. 3 Cost. Il prelievo istituito dal comma 486 della norma impugnata non è configurabile, infatti, come tributo non essendo acquisito allo Stato, nè destinato alla fiscalità generale, ed essendo, invece, prelevato, in via diretta, dall’INPS e dagli altri enti previdenziali coinvolti, i quali - anziché versarlo all’Erario in qualità di sostituti di imposta - lo trattengono all’interno delle proprie gestioni, con specifiche finalità solidaristiche endo-previdenziali, anche per quanto attiene ai trattamenti dei soggetti cosiddetti “esodati”. Si tratta, del resto, di una misura non strutturalmente dissimile - come sottolineato dalla difesa dello Stato - da quella a suo tempo introdotta dall’art. 37 della legge 23 dicembre 1999, n. 488 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge finanziaria 2000), il quale analogamente disponeva che «A decorrere dal 1° gennaio 2000 e per un periodo di tre anni, sugli importi dei trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie complessivamente superiori al massimale annuo previsto dall’art. 2, comma 18, della legge 8 agosto 1995, n. 335, è dovuto, sulla parte eccedente, un contributo di solidarietà nella misura del 2 per cento […]». Norma, quest’ultima, che questa Corte ebbe a ritenere non in contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost., in quanto «volta a realizzare un circuito di solidarietà interno al sistema previdenziale » (ordinanza n. 22 del 2003), e neppure contraria agli artt. 2, 36 e 38 Cost. (ordinanza n. 160 del 2007). 10.– Si è dunque, nella specie, in presenza di un prelievo inquadrabile nel genus delle prestazioni patrimoniali imposte per legge, di cui all’art. 23 Cost., avente la finalità di contribuire agli oneri finanziari del sistema previdenziale (sentenza n. 178 del 2000; ordinanza n. 22 del 2003). 11.– Resta allora da verificare se il contributo di solidarietà sulle pensioni più alte, come disciplinato dal censurato comma 486, risponda a criteri di ragionevolezza e proporzionalità, tenendo conto dell’esigenza di bilanciare la garanzia del legittimo affidamento nella sicurezza giuridica con altri valori costituzionalmente rilevanti. 11.1.– In linea di principio, il contributo di solidarietà sulle pensioni può ritenersi misura consentita al legislatore ove la stessa non ecceda i limiti entro i quali è necessariamente costretta in forza del combinato operare dei principi, appunto, di ragionevolezza, di affidamento e della tutela previdenziale (artt. 3 e 38 Cost.), il cui rispetto è oggetto di uno scrutinio “stretto” di costituzionalità, che impone un grado di ragionevolezza complessiva ben più elevato di quello che, di norma, è affidato alla mancanza di arbitrarietà. In tale prospettiva, è indispensabile che la legge assicuri il rispetto di alcune condizioni, atte a configurare l’intervento ablativo come sicuramente ragionevole, non imprevedibile e sostenibile. Il contributo, dunque, deve operare all’interno dell’ordinamento previdenziale, come misura di solidarietà “forte”, mirata a puntellare il sistema pensionistico, e di sostegno previdenziale ai più deboli, anche in un’ottica di mutualità intergenerazionale, siccome imposta da una situazione di grave crisi del sistema stesso, indotta da vari fattori - endogeni ed esogeni (il più delle volte tra loro intrecciati: crisi economica internazionale, impatto sulla economia nazionale, disoccupazione, mancata alimentazione della previdenza, riforme strutturali del sistema pensionistico) - che devono essere oggetto di attenta ponderazione da parte del legislatore, in modo da conferire all’intervento quella incontestabile ragionevolezza, a fronte della quale soltanto può consentirsi di derogare (in termini accettabili) al principio di affidamento CONTENZIOSO NAZIONALE 109 in ordine al mantenimento del trattamento pensionistico già maturato (sentenze n. 69 del 2014, n. 166 del 2012, n. 302 del 2010, n. 446 del 2002, ex plurimis). L’effettività delle condizioni di crisi del sistema previdenziale consente, appunto, di salvaguardare anche il principio dell’affidamento, nella misura in cui il prelievo non risulti sganciato dalla realtà economico-sociale, di cui i pensionati stessi sono partecipi e consapevoli. Anche in un contesto siffatto, un contributo sulle pensioni costituisce, però, una misura del tutto eccezionale, nel senso che non può essere ripetitivo e tradursi in un meccanismo di alimentazione del sistema di previdenza. Il prelievo, per essere solidale e ragionevole, e non infrangere la garanzia costituzionale dell’art. 38 Cost. (agganciata anche all’art. 36 Cost., ma non in modo indefettibile e strettamente proporzionale: sentenza n. 116 del 2010), non può, altresì, che incidere sulle “pensioni più elevate”; parametro, questo, da misurare in rapporto al “nucleo essenziale” di protezione previdenziale assicurata dalla Costituzione, ossia la “pensione minima”. Inoltre, l’incidenza sulle pensioni (ancorché) “più elevate” deve essere contenuta in limiti di sostenibilità e non superare livelli apprezzabili: per cui, le aliquote di prelievo non possono essere eccessive e devono rispettare il principio di proporzionalità, che è esso stesso criterio, in sé, di ragionevolezza della misura. In definitiva, il contributo di solidarietà, per superare lo scrutinio “stretto” di costituzionalità, e palesarsi dunque come misura improntata effettivamente alla solidarietà previdenziale (artt. 2 e 38 Cost.), deve: operare all’interno del complessivo sistema della previdenza; essere imposto dalla crisi contingente e grave del predetto sistema; incidere sulle pensioni più elevate (in rapporto alle pensioni minime); presentarsi come prelievo sostenibile; rispettare il principio di proporzionalità; essere comunque utilizzato come misura una tantum. 11.2.– Tali condizioni appaiono, sia pur al limite, rispettate nel caso dell’intervento legislativo in esame. Come detto, esso opera all’interno del sistema previdenziale, che concorre a finanziare, in un contesto di crisi del sistema stesso, acuitasi negli ultimi anni, per arginare la quale il legislatore ha posto in essere più di un intervento, contingente o strutturale, tra cui, in particolare, proprio quelli per salvaguardare la posizione dei lavoratori cosiddetti “esodati” (da ultimo, commi da 263 a 270 dell’art. 1 della legge n. 208 del 2015). Inoltre, il contributo riguarda le pensioni più elevate, ossia quelle il cui importo annuo si colloca tra 14 a 30 e più volte il trattamento minimo di quiescenza, incidendo in base ad aliquote crescenti (del 6, 12 e 18 per cento), secondo una misura che rispetta il criterio di proporzionalità e, in ragione della sua temporaneità, non si palesa di per sé insostenibile, pur innegabilmente comportando un sacrificio per i titolari di siffatte pensioni. In questi termini, l’intervento legislativo di cui al denunciato comma 486, nel suo porsi come misura contingente, straordinaria e temporalmente circoscritta, supera lo scrutinio “stretto” di costituzionalità. 12.– Anche sotto il profilo della violazione dell’art. 3 Cost. in riferimento al tertium rappresentato dal comma 487 della stessa legge n. 147 del 2013 e, per il suo tramite, dalla legislazione siciliana, la questione non è fondata, giacché evoca un termine di raffronto (il comma 487) non idoneo a radicare un giudizio di eguaglianza, concernendo questo le misure di risparmio di spesa rimesse all’autonomia di organi costituzionali e di Regioni ad autonomia speciale rispetto a soggetti che non fanno parte del circuito della previdenza obbligatoria (in particolare, per ciò che concerne la Regione siciliana opera il Fondo di quiescenza di cui alla legge regionale 14 maggio 2009, n. 6, recante: «Disposizioni programmatiche e correttive per 110 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 l’anno 2009») e, dunque, non suscettibile di raffronto con i pensionati di cui al comma 486. 13.– Non si ravvisa, infine, nemmeno la dedotta violazione degli artt. 81 e 97 Cost., in quanto il primo parametro invocato non risulta conferente, disciplinando la disposizione censurata non già una nuova spesa o maggiori oneri, ma un’entrata; mentre la destinazione alle gestioni previdenziali del prelievo, e dunque per fini istituzionali delle stesse (e anche per il finanziamento di misura a favore degli “esodati”), non costituisce arbitraria attribuzione di discrezionalità amministrativa (art. 97 Cost.) alle stesse gestioni previdenziali o, comunque, indifferenziata destinazione di spesa (art. 81 Cost.). PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, 1) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 483, della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di stabilità 2014), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 53, 36 e 38 della Costituzione, dalla sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Calabria, con le due ordinanze in epigrafe; 2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 486, della legge n. 147 del 2013, sollevate, in riferimento agli art. 2, 3, 4, 35, 36, 38, 53, 81, 97 e 136 Cost., dalle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti per le Regioni Veneto, Campania, Calabria e Umbria, con le sei ordinanze in epigrafe indicate; 3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 483, della legge n. 147 del 2013, sollevata dalla sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Calabria, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6, 21, 25, 33 e 34 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, con le due ordinanze in epigrafe; 4) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 487, della legge n. 147 del 2013, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 35, 36, 38, 53, 81, 97 e 136 Cost., dalla sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Calabria, con le due ordinanze in epigrafe; 5) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 590, della legge n. 147 del 2013, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., dalla sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Calabria, con le due ordinanze in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 luglio 2016. CONTENZIOSO NAZIONALE 111 L’obbligo di taratura periodica degli autovelox: uno excursus della giurisprudenza fino alla pronuncia della Corte Costituzionale 113 del 2015 Alessio Muciaccia* La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 113 del 18 giugno 2015, ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 45 co. 6 (1) del Codice della Strada (2), “nella parte in cui non prevede che tutte le apparecchiature impiegate nell’accertamento delle violazioni dei limiti di velocità siano sottoposte a verifiche periodiche di funzionalità e di taratura”. La decisione della Consulta risolve, definitivamente, la controversa questione circa l’obbligatorietà e la necessità della taratura e della verifica periodica degli strumenti elettronici impiegati per l’accertamento del superamento dei limiti di velocità, anche alla luce della validità delle risultanze prodotte quali fonti di prova: la vicenda, oggetto di pronunce contrapposte sia da parte delle corti di merito che della stessa giurisprudenza di legittimità, si è conclusa. La pronuncia in esame si pone su quella linea che escluderebbe l’automatica operatività nel nostro ordinamento del principio di presunzione di legittimità dell’atto amministrativo. Per meglio comprendere l’importanza della decisione in commento occorre illustrare brevemente la situazione giurisprudenziale che la precede. La disciplina per garantire un’azione coordinata di prevenzione e di contrasto dell’eccesso di velocità sulle strade era contenuta in una Direttiva del Ministero dell’Interno del 14 agosto 2009 (3), che forniva agli organi di polizia stradale criteri di indirizzo e coordinamento: in allegato (4), venivano fornite anche istruzioni operative riguardanti l’utilizzo delle apparecchiature di controllo e le modalità di accertamento delle violazioni per eccesso di velocità. Più precisamente, le istruzioni nella parte 1 ai paragrafi nn. 1, 2 e 3 (*) Dottore in Giurisprudenza. (1) Art. 45, co. 6 “Nel regolamento sono precisati i segnali, i dispositivi, le apparecchiature e gli altri mezzi tecnici di controllo e regolazione del traffico, nonché quelli atti all'accertamento e al rilevamento automatico delle violazioni alle norme di circolazione, ed i materiali che, per la loro fabbricazione e diffusione, sono soggetti all'approvazione od omologazione da parte del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, previo accertamento delle caratteristiche geometriche, fotometriche, funzionali, di idoneità e di quanto altro necessario. Nello stesso regolamento sono precisate altresì le modalità di omologazione e di approvazione”. (2) Decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada). (3) Ministro dell’Interno - Dipartimento di Pubblica Sicurezza - Servizio di Polizia Stradale - Circolare Prot. n. 300/A/10307/09/144/5/20/3 del 14 agosto 2009. Oggetto: “Direttiva per garantire un’azione coordinata di prevenzione e contrasto dell’eccesso di velocità sulle strade”. (4) Direttiva Ministero Interno del 14 agosto 2009. Allegato 1 - Istruzioni operative per le attività di prevenzione del fenomeno infortunistico stradale mediante il controllo dei limiti di velocità. 112 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 (5) fornivano indicazioni sulla taratura e sulle modalità di impiego degli strumenti utilizzabili. La Direttiva escludeva la necessità di un controllo periodico degli strumenti di misura se non espressamente previsto dal manuale d’uso depositato presso il Ministero delle Infrastrutture e Trasporti in sede di decreto di approvazione: riteneva, infatti, che le disposizioni contenute nella legge (6) istitutiva del sistema nazionale di taratura non dovessero applicarsi alle apparecchiature elettroniche utilizzate per rilevare le violazioni dei limiti di velocità. Di tale avviso erano il Ministero delle Infrastrutture e Trasporti e la stessa Corte di Cassazione, che analizzeremo più avanti. Pertanto, sia le apparecchiature approvate dal Ministero competente e destinate all’impiego esclusivamente con la presenza e il diretto controllo di un operatore di polizia, sia quelle destinate all’impiego in modalità automatica, potevano essere sottoposte ad una verifica periodica almeno annuale per valutarne la corretta funzionalità soltanto qualora ciò fosse stato previsto nel manuale d’uso, secondo quanto stabilito nel provvedimento di approvazione; le verifiche potevano essere effettuate direttamente presso il costruttore ovvero presso uno dei soggetti accreditati dal Sistema Nazionale di Taratura secondo la specifica legge n. 273 del 1991. Nella prassi, invece, gli accertamenti del superamento dei limiti di velocità rilevati mediante apparecchiature impiegate in presenza di un operatore di polizia non prevedevano per le amministrazioni procedenti la necessità di sottoporre lo strumento ad alcuna verifica e/o taratura strumentale periodica poiché la corretta funzionalità del misuratore veniva, di fatto, effettuata dagli operatori stessi durante il servizio secondo le indicazioni fornite dal costruttore: in altri termini veniva posto a carico dell’operatore un onere di accertamento di funzionalità dell’apparecchiatura e di segnalazione di eventuali anomalie. I misuratori di velocità utilizzati, invece, in modalità completamente automatica, dovevano essere sottoposti ad una verifica tecnica-metrologica presso la casa costruttrice, abilitata dalla certificazione di qualità secondo le norme ISO 9001, ovvero presso uno dei soggetti accreditati dal Sistema Nazionale di Taratura secondo la specifica legge n. 273 del 1991, con cadenza almeno annuale qualora fosse indicato nel certificato di approvazione e dalle istruzioni di funzionamento fornite dal costruttore. In sintesi la Direttiva del 14 agosto 2009, prevedeva due tipologie di verifiche: - per gli apparecchi da utilizzare in modalità automatica una verifica - se prevista dal costruttore - almeno annuale; (5) Direttiva Ministero Interno del 14 agosto 2009. Allegato 1 - Parte I. Dispositivi di misura della velocità - 1. Modalità di accertamento dell’eccesso di velocità; 1.1 Tipologia degli strumenti utilizzabili; 2. Approvazione dei dispositivi; 3. Controllo degli strumenti. (6) Legge n. 273, 11 agosto 1991 “Istituzione del sistema nazionale di taratura”. Pubblicata in G.U. n. 199 del 26 agosto 1991. CONTENZIOSO NAZIONALE 113 - mentre per gli apparecchi impiegati direttamente dagli operatori di polizia una verifica periodica se prevista dal costruttore. Ovviamente in ambedue i casi le verifiche dovevano essere esplicitate nel manuale tecnico nonché nel decreto di approvazione rilasciato dal Ministero competente. Sulla vicenda dei controlli periodici, la giurisprudenza di legittimità si è espressa pressoché in maniera univoca nel ritenere che gli strumenti utilizzati per sanzionare l’eccesso di velocità non dovessero essere sottoposti a verifica ed a taratura periodica. Sull’affidabilità dello strumento utilizzato, la Corte di Cassazione (7) ha osservato che “in tema di rilevazione dell'inosservanza dei limiti di velocità dei veicoli a mezzo di apparecchiature elettroniche, né l’art. 142 (8), comma 6 del Codice della Strada né il relativo regolamento di esecuzione (9) prevedono che il verbale di accertamento dell'infrazione debba contenere, a pena di nullità, l’attestazione che la funzionalità dell’apparecchio utilizzato sia stato sottoposto a controllo preventivo e costante durante l’uso, giacché, al contrario, l’efficacia probatoria di qualsiasi strumento di rilevazione elettronica della velocità dei veicoli perdura sino a quando non risultino accertati, nel caso concreto, sulla base di circostanze allegate dall’opponente e debitamente provate, il difetto di costruzione, installazione o funzionalità dello strumento stesso, o situazioni comunque ostative al suo regolare funzionamento, senza che possa farsi leva, in senso contrario, su considerazioni di tipo meramente congetturale, connesse all'idoneità della mancanza di revisione o manutenzione periodica dell’attrezzatura a pregiudicarne l’efficacia ex art. 142 C.d.S”. Quanto, in particolare, alla taratura periodica, ha osservato ancora che “in tema di sanzioni amministrative per violazioni al codice della strada, le apparecchiature elettroniche regolarmente omologate utilizzate per rilevare le violazioni dei limiti di velocità stabiliti, come previsto dall'art. 142 C.d.S., non devono essere sottoposte ai controlli previsti dalla L. n. 273 del 1991, istitutiva del sistema nazionale di taratura. Tale sistema di controlli, infatti, attiene alla materia metrologica, diversa rispetto a quella della misurazione elettronica della velocità ed è competenza di autorità amministrative diverse, rispetto a quelle pertinenti al caso di specie”. (7) Cass., civ., sez. II, sent., 8 giugno 2009, n. 13114. (8) D.Lgs.vo 30 aprile 1992, n. 285, art. 142 co. 6 - Limiti di velocità “Per la determinazione dell'osservanza dei limiti di velocità sono considerate fonti di prova le risultanze di apparecchiature debitamente omologate, anche per il calcolo della velocità media di percorrenza su tratti determinati, nonché le registrazioni del cronotachigrafo e i documenti relativi ai percorsi autostradali, come precisato dal regolamento”. (9) D.P.R. n. 495 del 16 dicembre 1992. Regolamento di esecuzione e di attuazione del codice della strada. Pubblicato in G.U. n. 303 del 28 dicembre 1992. 114 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 L’orientamento tenuto dalla Cassazione è stato oggetto di aspre critiche da parte degli utenti della strada che si consideravano vessati dagli accertamenti eseguiti con i dispositivi elettronici: numerosi giudizi innanzi ai giudici di pace di tutta Italia hanno riguardato i verbali di violazione al Codice della Strada relativi agli eccessi di velocità e molti sono stati i dubbi sollevati circa l’attendibilità delle sanzioni accertate con tale modalità. Le eccezioni proposte nei ricorsi riguardavano: a) la necessità di revisione dei limiti di velocità obsoleti e da adeguare in relazione al progresso tecnologico dei veicoli in circolazione; b) la necessità di un controllo tecnico adeguato e rigoroso delle apparecchiature utilizzate ai sensi della legge n. 273 del 1991 già citata, per controllarne la perfetta funzionalità attraverso la taratura; c) e ancora la necessità del controllo delle apparecchiature utilizzate anche con riferimento alla normativa europea e comunitaria. Malgrado i giudici di merito si fossero espressi positivamente circa l’esigenza e la necessità dei controlli tecnici periodici ai quali sottoporre i misuratori di velocità, la giurisprudenza di legittimità ha sempre ribadito l’insussistenza di tale previsione in assenza di un dettato normativo specifico. Circa l’attendibilità dello strumento, la Corte a Sezioni Unite (10), nel 2010, ha affermato che “l’attendibilità dello strumento rilevatore del superamento dei limiti di velocità è presunta, essendo onere dell'utente della strada dimostrare, sulla base di circostanze da lui allegate (e debitamente provate) il difetto di costruzione, installazione o funzionamento del dispositivo elettronico”. Trattasi, evidentemente, di una probatio diabolica. Nel contesto descritto, si è inserita parte della dottrina (11) che, considerando l’incidenza degli accertamenti del limite di velocità rilevati attraverso i misuratori elettronici sull’attività dei cittadini, ha ritenuto, invece, che tali apparecchiature dovessero essere sottoposte a verifiche tecniche periodiche; ed, anzi, ha considerato necessario sottoporle periodicamente ai controlli previsti dalla legge n. 273 del 1991, ritenendo la sola omologazione da parte del Ministero non sufficiente a garantire la correttezza degli accertamenti. Altra parte della dottrina (12) ha precisato, inoltre, che neanche la tolleranza strumentale prevista dal Regolamento di esecuzione (13) potrebbe sostituire la taratura che dovrebbe essere certificata dai centri SIT (14), unici autorizzati al rilascio della certificazione di taratura. (10) Cass. civ., sez. un., sent., 15 dicembre 2010, n. 25304. (11) Si veda tra tutti CUROTTI, La taratura degli strumenti di rilevazione della velocità, in Arch. giur. Circ. sin. strad., 2005, 673 ss. e Taratura degli strumenti di rilevamento della velocità: ancora un “no” dai Ministeri, ivi, 2006, 129. (12) Si veda tra tutti ZAULI, Opposizione al verbale di contestazione: autovelox e photored sono legittimi o illegittimi?, in La resp. civ., 2007, 253-257 e AMBROSINI, Autovelox e Cassazione: lo stato dell’arte, in Il Giudice di pace, 2009, 97-104. CONTENZIOSO NAZIONALE 115 Di parere contrario si era, invece, espresso il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, per il quale tali apparecchiature potevano utilizzarsi senza la necessità della taratura prevista dalla legge n. 273/1991, purché omologate secondo la normativa vigente; e di identico avviso era anche l’orientamento della Corte Cassazione. Quest’ultima, infatti, in modo costante e consolidato, ha ribadito che (15): “In tema di sanzioni amministrative per violazioni al codice della strada le apparecchiature elettroniche regolarmente omologate, adoperate per rilevare le violazioni dei limiti di velocità, come sanciti dall'art. 142 del C.d.S. non devono essere sottoposte ai controlli previsti dalla legge n. 273 del 1991, istitutiva del sistema nazionale di taratura. Tali controlli, infatti, attengono alla materia metrologica, diversa da quella concernente la misurazione elettronica della velocità, oltre ad essere di pertinenza di altra Autorità. Ne discende che l'Amministrazione interessata non deve dare la prova dell'esecuzione dell'operazione di taratura. Tra l'altro, l'efficacia probatoria dei dati rilevati dalle predette strumentazioni opera fino a quando sia accertato, sulla base di circostanze allegate e provate dall'opponente, un difetto di costruzione, installazione o funzionamento del dispositivo elettronico di tali strumenti”. Ancora sul tema, la Corte rilevava che (16): “per la rilevazione dell'inosservanza dei limiti di velocità dei veicoli a mezzo di apparecchiature elettroniche, né il codice della strada (art. 142, co. 6 - CdS) né il relativo regolamento di esecuzione (art. 345) prevedono che il verbale di accertamento dell'infrazione debba contenere, a pena di nullità, l’attestazione che la funzionalità del singolo apparecchio impiegato sia stata sottoposta a controllo preventivo e costante durante l’uso, giacché, al contrario, l’efficacia probatoria di qualsiasi strumento di rilevazione elettronica della velocità dei veicoli perdura sino a quando non risultino accertati, nel caso concreto, sulla base di circostanze allegate dall’opponente e debitamente provate, il difetto di costruzione, installazione o funzionalità dello strumento stesso, o situazioni comunque ostative al suo regolare funzionamento, senza che si possa fare leva, in senso contrario, su considerazioni di tipo meramente congetturale, connesse all'idoneità della mancanza di revisione o manutenzione periodica dell'attrezzatura a pregiudicarne l'efficacia ex art. 142 C.d.S.” (13) Art. 345 co. 2. Apparecchiature e mezzi di accertamento della osservanza dei limiti di velocità. “Le singole apparecchiature devono essere approvate dal Ministero dei lavori pubblici. In sede di approvazione è disposto che per gli accertamenti della velocità, qualunque sia l'apparecchiatura utilizzata, al valore rilevato sia applicata una riduzione pari al 5%, con un minimo di 5 km/h. Nella riduzione è compresa anche la tolleranza strumentale. Non possono essere impiegate, per l'accertamento dell'osservanza dei limiti di velocità, apparecchiature con tolleranza strumentale superiore al 5%”. (14) Servizio di taratura in Italia. (15) Cass., sez. II, sent., 5 aprile 2011, n. 7785 e sez. II, ord., 13 giugno 2011, n. 12924. (16) Cass. civ., sez. II, ord., 7 luglio 2011, n. 15042. 116 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Le premesse considerazioni evidenziano come la giurisprudenza della Cassazione abbia ritenuto che per la validità dei rilevamenti per il superamento dei limiti di velocità accertati mediante le apparecchiature elettroniche dovessero sussistere le seguenti condizioni: a) provvedimento di omologazione dell’apparecchio elettronico utilizzato da parte del competente Ministero; b) piena disponibilità e gestione dell’apparecchio misuratore da parte degli organi di polizia stradale; c) ed, in ultimo, che l’assenza di taratura dell’apparecchio misuratore non produrrebbe alcuna illegittimità dell’accertamento effettuato stante il tenore dell’art. 345 D.P.R. n. 495/1992. In altri termini la Cassazione non ha ritenuto necessaria la taratura degli autovelox utilizzati per l’accertamento del superamento del limite di velocità, considerando sufficiente l’omologazione rilasciata dal Ministero competente. Recentemente però lo stesso Supremo Collegio, evidentemente riflettendo sulla dubbia legittimità della mancanza di una taratura periodica degli strumenti di rilevazione degli eccessi di velocità, ha ritenuto di sollevare la questione innanzi la Corte Costituzionale in relazione all’art. 45 del Codice della Strada. Nell’ordinanza di rimessione la Corte sostiene, infatti, che “Non è manifestamente infondata, con riferimento all'art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 45 cod. strada, nella parte in cui non prevede che le apparecchiature di accertamento della violazione dei limiti di velocità siano sottoposte a verifiche periodiche di funzionalità e taratura, apparendo irragionevole escludere tali complesse apparecchiature, che svolgono accertamenti irripetibili, dall'applicazione della normativa generale della legge 11 agosto 1991, n. 273, sul sistema nazionale taratura”. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 113 del 18 giugno 2015 in oggetto, ha accolto l’eccezione di incostituzionalità dell’art. 45 comma 6, del Codice della Strada, sollevata in riferimento all’art. 3 della Costituzione, per la palese irragionevolezza della norma impugnata. La Consulta afferma che “Così come interpretato dalla Corte di Cassazione, l’art. 45 del d.lgs. n. 285 del 1992, collide con il «principio di razionalità, sia nel senso di razionalità formale, cioè del principio logico di non contraddizione, sia nel senso di razionalità pratica, ovvero di ragionevolezza» (sentenza n. 172 del 1996)”. Ancora: “I fenomeni di obsolescenza e deterioramento possono pregiudicare non solo l’affidabilità delle apparecchiature” considerato che, ai sensi del comma 6 dell’art. 142 del Codice della Strada, costituiscono fonti di prova per la determinazione dell’osservanza dei limiti di velocità, “ma anche la fede pubblica che si ripone in un settore di significativa rilevanza sociale, quale quello della sicurezza stradale”. Ed aggiunge che “Quanto al canone di razionalità pratica, appare evi- CONTENZIOSO NAZIONALE 117 dente che qualsiasi strumento di misura, specie se elettronico, è soggetto a variazioni delle sue caratteristiche e quindi a variazioni dei valori misurati dovute ad invecchiamento delle proprie componenti e ad eventi quali urti, vibrazioni, shock meccanici e termici, variazioni della tensione di alimentazione. Si tratta di una tendenza disfunzionale naturale direttamente proporzionata all’elemento temporale. L’esonero da verifiche periodiche, o successive ad eventi di manutenzione, appare per i suddetti motivi intrinsecamente irragionevole”. Continua affermando che: “Un controllo di conformità alle prescrizioni tecniche ha senso solo se esteso all’intero arco temporale di utilizzazione degli strumenti di misura, poiché la finalità dello stesso è strettamente diretta a garantire che il funzionamento e la precisione nelle misurazioni siano contestuali al momento in cui la velocità viene rilevata, momento che potrebbe essere distanziato in modo significativo dalla data di omologazione e di taratura”. “Occorre a tal proposito considerare che nelle richiamate disposizioni l’uso delle apparecchiature di misurazione è strettamente collegato al valore probatorio delle loro risultanze nei procedimenti sanzionatori inerenti alle trasgressioni dei limiti di velocità”. Per la Corte Costituzionale, quindi, occorre operare un giudizio di bilanciamento delle opposte esigenze rappresentate, da un lato, da “interessi pubblici e privati estremamente rilevanti quali la sicurezza della circolazione, la garanzia dell'ordine pubblico, la preservazione dell'integrità fisica degli individui, la conservazione dei beni e, dall'altro, valori altrettanto importanti quali la certezza dei rapporti giuridici e il diritto di difesa del sanzionato”. “Il ragionevole affidamento che deriva dalla custodia e dalla permanenza della funzionalità delle apparecchiature, garantita quest'ultima da verifiche periodiche conformi alle relative specifiche tecniche, degrada tuttavia in assoluta incertezza quando queste ultime non vengono effettuate”. Conclude la Consulta : “Dunque, l’art. 45, comma 6, del d.lgs. n. 285 del 1992 - come interpretato dalla consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione - deve essere dichiarato incostituzionale in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui non prevede che tutte le apparecchiature impiegate nell’accertamento delle violazioni dei limiti di velocità siano sottoposte a verifiche periodiche di funzionalità e di taratura”. Successivamente alla pronuncia in commento si segnalano le prime sentenze del giudice di legittimità (17) che, adeguandosi al contenuto della Consulta, afferma il principio che “deve ritenersi affermato il principio che tutte la apparecchiature di misurazione della velocità (che è elemento valutabile e misurabile) devono essere periodicamente tarate e verificate nel loro corretto funzionamento, che non può essere dimostrato o attestato con altri mezzi quali le certificazioni di omologazione e conformità”. (17) Cass. civ., sez. II, sent., 14 dicembre 2015, n. 25125. 118 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Ed ancora, in una successiva pronuncia la Corte ribadisce che (18) “con sentenza n. 113 del 2015, la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 3 Cost., l'art. 45 comma 6 del D.lgs. 30 aprile 1992 n. 285 (codice della strada), nella parte in cui non prevede che tutte le apparecchiature impiegate nell'accertamento delle violazioni dei limiti di velocità siano sottoposte a verifiche periodiche di funzionalità e di taratura. Alla stregua di tale pronuncia di incostituzionalità, che ha effetto retroattivo ed è quindi applicabile ai giudizi pendenti, deve ritenersi che l'art. 45 comma 6 del codice della strada, come integrato dalla pronuncia della Corte costituzionale, prescriva la verifica periodica della funzionalità degli autovelox e la loro taratura”. Per concludere, in un’altra pronuncia (19) la Suprema Corte conclude che “deve ritenersi affermato il principio che tutte le apparecchiature di misurazione della velocità (che è elemento valutabile e misurabile) devono essere periodicamente tarate e verificate nel loro corretto funzionamento, che non può essere dimostrato o attestato con altri mezzi quali le certificazioni di omologazione e conformità”. Alla luce della pronuncia in commento e della sua applicazione da parte della giurisprudenza di legittimità e di merito, devono considerarsi ormai superate le eccezioni per la mancata taratura dello strumento elettronico di rilevazione della velocità, formulate nei numerosi giudizi, ancora pendenti. La pronuncia della Corte Costituzionale ha, quindi, il merito, oltre che di incontrare il favore dei suoi “fruitori”, anche di porre fine all’annoso e corposo contenzioso in materia. Corte costituzionale, sentenza 18 giugno 2015 n. 113 - Pres. Criscuolo, Rel. Carosi - Giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 45 del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), promosso dalla Corte di cassazione nel procedimento vertente tra T. M. e la Prefettura di Cuneo con ordinanza del 7 agosto 2014. (...) Considerato in diritto 1.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe la Corte di cassazione, seconda sezione civile, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell' art. 45 del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nella parte in cui non prevede che le apparecchiature destinate all'accertamento delle violazioni dei limiti di velocità siano sottoposte a verifiche periodiche di funzionalità e di taratura, in riferimento all'art. 3 della Costituzione. 1.1.- Questione analoga a quella in esame era stata sollevata dal Giudice di pace di Dolo (ordinanza iscritta al n. 210 del registro delle ordinanze del 2007) nei confronti della stessa (18) Cass. civ., sez. II, sent., 16 maggio 2016, n. 9972. (19) Cass. civ., sez. II, sent., 11 maggio 2016, n. 9645. CONTENZIOSO NAZIONALE 119 disposizione in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost. in ragione della diversa disciplina dettata dal D.M. 28 marzo 2000, n. 182 (Regolamento recante modifica ed integrazione della disciplina della verificazione periodica degli strumenti metrici in materia di commercio e di camere di commercio), in tema di verifica degli strumenti di misura utilizzati per la determinazione della quantità o del prezzo nelle transazioni commerciali. Nella citata occasione questa Corte ha rilevato l'erronea individuazione di tale tertium comparationis, non attinente alla misurazione della velocità ai fini dell'accertamento delle violazioni del codice della strada, dichiarando non fondata la questione come proposta dal rimettente (sentenza n. 277 del 2007). Nel censurare la ricostruzione del quadro normativo e nel ritenere errata l'individuazione della norma rispetto alla quale veniva lamentata un'irragionevole disuguaglianza - poiché il richiamato D.M. n. 182 del 2000 costituisce disciplina secondaria afferente agli strumenti di misura utilizzati nei rapporti commerciali - questa Corte ha affermato in quella sede che il giudice a quo non aveva "sperimentato l'applicazione della normativa generale del 1991 alla luce del sistema internazionale delle unità di misura SI, che comprende la velocità come unità derivata". Con l'ordinanza in epigrafe il giudice a quo sostiene che la Corte costituzionale, non ritenendo fondata la questione solo per erronea individuazione da parte del giudice rimettente del termine di comparazione, avrebbe svolto affermazioni suscettibili di migliore considerazione da parte della Corte di cassazione. Quest'ultima avrebbe invece confermato il precedente orientamento interpretativo circa l'impugnato art. 45 del D.Lgs. n. 285 del 1992. Ritenuta pertanto la perdurante rilevanza della questione e reputando ormai consolidato il diritto vivente a seguito degli uniformi e costanti indirizzi ermeneutici della Corte di cassazione, della cui legittimità costituzionale il rimettente dubita, questi assume che la norma impugnata consentirebbe, in modo del tutto irragionevole, che le apparecchiature destinate all'accertamento delle violazioni dei limiti di velocità possano essere utilizzate nello svolgimento di accertamenti irripetibili sulla base di una presunzione di corretto funzionamento, fondata sulla "sola conformità al modello omologato" "anche a distanza di lustri". A tal fine egli prospetta il dubbio di legittimità costituzionale in riferimento all'art. 3 Cost. sotto i seguenti profili: a) "per l'assoluta irragionevolezza e conseguente disuguaglianza, che [consentirebbe l'esclusione] dall'applicazione della [...] normativa generale, anche internazionale, in tema di misura ricomprendente pure la velocità come unità derivata"; b) "con riguardo, come tertium comparationis, alla normativa di cui alla L. 1 agosto 1991, n. 273 (Istituzione del sistema nazionale di taratura), che prevede anche la velocità quale unità di misura derivata"; c) "con riferimento [...] alla normativa comunitaria (Norme UNI EN 30012 - parte 1 come integrate da UNI EN 10012), che [prevederebbe] il dovuto e relativo adeguamento del nostro ordinamento"; d) per la palese irragionevolezza di un sistema che consente di dare certezza giuridica e inoppugnabilità ad accertamenti irripetibili - fonti di potenziali gravi conseguenze per chi vi è sottoposto - svolti da complesse apparecchiature senza che la loro efficienza e buon funzionamento siano soggette a verifica "anche a distanza di lustri". 1.2.- È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata. Secondo l'Avvocatura le censure del giudice rimettente sarebbero inammissibili in quanto costituenti meri dubbi ermeneutici o quesiti di ordine interpretativo, la cui risoluzione spetterebbe a lui stesso e non a questa Corte. Egli non avrebbe, in sostanza, sperimentato un'interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione, idonea a sottrarla al dubbio di costituzionalità. 120 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Altro motivo d'inammissibilità deriverebbe dai limiti dell'autonomia interpretativa di questa Corte, che dovrebbe comunque arrestarsi di fronte all'orientamento ermeneutico della Corte di cassazione, ormai consolidato e, pertanto, assurto a rango di diritto vivente. In ogni caso la questione posta in riferimento all'art. 3 Cost. sarebbe manifestamente infondata, in quanto l'art. 4 del decreto del Ministero dei lavori pubblici del 29 ottobre 1997 (Approvazione di prototipi di apparecchiature per l'accertamento dell'osservanza dei limiti di velocità e loro modalità di impiego) escluderebbe la necessità di controlli periodici di taratura e funzionamento degli strumenti di misura impiegati sotto il controllo costante degli operatori di polizia stradale, essendo riservata la procedura di verifica solo alle apparecchiature utilizzate con modalità completamente automatiche. 2.- In via preliminare va precisato che dalla parte motivazionale della ordinanza di rimessione si deduce come le censure formalmente rivolte all'intero art. 45 del codice della strada debbano intendersi riferite solo al comma 6 (in senso conforme, ex multis, sentenza n. 121 del 2010), il quale - nel regolare l'uniformità della segnaletica, dei mezzi di controllo e delle omologazioni - si riferisce, tra l'altro, alle apparecchiature in questione, prescrivendo che "Nel regolamento sono precisati i segnali, i dispositivi, le apparecchiature e gli altri mezzi tecnici di controllo e regolazione del traffico, nonché quelli atti all'accertamento e al rilevamento automatico delle violazioni alle norme di circolazione, ed i materiali che, per la loro fabbricazione e diffusione, sono soggetti all'approvazione od omologazione da parte del Ministero dei lavori pubblici, previo accertamento delle caratteristiche geometriche, fotometriche, funzionali, di idoneità e di quanto altro necessario. Nello stesso regolamento sono precisate altresì le modalità di omologazione e di approvazione". È questa la disposizione dalla quale deriva il costante orientamento ermeneutico della Corte di cassazione, della cui legittimità dubita il giudice rimettente. 3.- I profili di censura precedentemente indicati sub a), b) e c) sono inammissibili. Quanto alla pretesa "irragionevolezza e conseguente disuguaglianza, che consentirebbe l'esclusione dall'applicazione della ... normativa generale, anche internazionale, in tema di misura ricomprendente pure la velocità come unità derivata", è evidente la genericità della motivazione della ordinanza di rimessione in ordine alla violazione dell'art. 3 Cost. Invero il rimettente si è limitato ad enunciare la violazione dei principi di uguaglianza e di ragionevolezza della disposizione censurata con un riferimento generico alla disciplina nazionale ed internazionale senza un'adeguata individuazione di dette normative. Ciò impedisce di comprendere quali siano i profili di disparità dedotti. Quanto al richiamo, come tertium comparationis, della L. 11 agosto 1991, n. 273 (Istituzione del sistema nazionale di taratura), lo stesso rimettente non considera che la normativa in questione non contiene alcun precetto del tipo di quello reclamato in antitesi all'orientamento della Corte di cassazione. In modo significativo, egli omette di individuare la norma specifica che prevederebbe l'obbligo di revisione periodica della taratura e del funzionamento degli strumenti di misura, individuazione peraltro impossibile poiché nessuna disposizione di tale legge - afferente all'organizzazione istituzionale della taratura in sé e non alle modalità di controllo delle diverse apparecchiature interessate alla taratura - contiene un precetto di tal genere. Per quel che riguarda, infine, l'individuazione come parametro della "normativa comunitaria (Norme UNI EN 30012 - parte 1 come integrate da UNI EN 10012), che [prevederebbe] il dovuto e relativo adeguamento del nostro ordinamento", questa Corte condivide l'orientamento della Corte di cassazione, secondo cui "non è vincolante la normativa UNI EN 30012 CONTENZIOSO NAZIONALE 121 (Sistema di Conferma Metrologica di Apparecchi per Misurazioni) che, in assenza di leggi o regolamenti di recepimento, rappresenta unicamente un insieme di regole di buona tecnica, impropriamente definite "norme", alle quali, in assenza di obblighi giuridici, i costruttori decidono autonomamente di conformarsi" (Corte di cassazione, seconda sezione civile, sentenza 15 dicembre 2008, n. 29333). 4.- La questione di legittimità direttamente sollevata in riferimento all'art. 3 Cost. sotto il profilo della palese irragionevolezza della norma impugnata supera invece il vaglio di ammissibilità. Non è condivisibile a tal proposito l'eccezione formulata dall'Avvocatura generale dello Stato, secondo cui il giudice a quo non avrebbe sperimentato un'interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione. È vero che l' art. 45 del D.Lgs. n. 285 del 1992 non esonera espressamente le apparecchiature destinate all'accertamento dei limiti di velocità dalle operazioni di verifica periodica inerenti alla taratura ed al funzionamento e che ben si potrebbe nel caso in esame ricavare dal testo della disposizione un'interpretazione opposta a quella della Corte di cassazione nel senso di un'implicita prescrizione di verifica periodica di tali sofisticate apparecchiature, la quale sarebbe coerente con l'assunto di base dello stesso giudice rimettente. Tuttavia, lo stesso giudice a quo richiama come ostativa a detta soluzione ermeneutica l'esistenza di un diritto vivente orientato in senso diametralmente opposto, il quale ribadisce costantemente che "non si ravvisano ragioni per ritenere che la mancata previsione di controlli periodici della funzionalità delle apparecchiature in questione nella disciplina dell'accertamento delle violazioni ai limiti di velocità comporti vizi di legittimità costituzionale della pertinente normativa in relazione agli artt. 3, 24 e 97 della Carta fondamentale" (Corte di cassazione, seconda sezione civile, sentenza 15 dicembre 2008, n. 29333; in senso conforme, Corte di cassazione, seconda sezione civile, sentenza 22 dicembre 2008, n. 29905, sentenza 5 giugno 2009, n. 13062, sentenza 23 luglio 2010, n. 17292, nonché, da ultimo, Corte di cassazione, sesta sezione civile, sentenza 6 ottobre 2014, n. 20975). Dalle espresse considerazioni si ricava che - malgrado l'incontrovertibile orientamento di questa Corte secondo cui "In linea di principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali" (ex multis, sentenza n. 356 del 1996) e conseguentemente, di fronte ad alternative ermeneutiche di questo tipo, debba essere privilegiata quella che il giudice ritiene conforme a Costituzione - nel caso di specie occorre considerare che l'interpretazione, della cui legittimità dubita il rimettente, corrisponde al consolidato orientamento della Corte di cassazione, già in essere prima del precedente scrutinio di costituzionalità avvenuto con la sentenza n. 277 del 2007 (ex plurimis, Corte di cassazione, prima sezione civile, sentenze 5 giugno 1999, n. 5542 e 22 giugno 2001, n. 8515) e successivamente ribadito più volte dalle citate sentenze del giudice nomofilattico anche dopo il pronunciamento di questa Corte. Ne deriva che "Pur essendo indubbio che nel vigente sistema non sussiste un obbligo [...] di conformarsi agli orientamenti della Corte di cassazione (salvo che nel giudizio di rinvio), è altrettanto vero che quando questi orientamenti sono stabilmente consolidati nella giurisprudenza - al punto da acquisire i connotati del "diritto vivente" - è ben possibile che la norma, come interpretata dalla Corte di legittimità e dai giudici di merito, venga sottoposta a scrutinio di costituzionalità, poiché la norma vive ormai nell'ordinamento in modo così radicato che è difficilmente ipotizzabile una modifica del sistema senza l'intervento del legislatore o di questa Corte. In altre parole, in presenza di un diritto vivente non condiviso dal giudice a quo perché 122 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 ritenuto costituzionalmente illegittimo, questi ha la facoltà di optare tra l'adozione, sempre consentita, di una diversa interpretazione, oppure - adeguandosi al diritto vivente - la proposizione della questione davanti a questa Corte; mentre è in assenza di un contrario diritto vivente che il giudice rimettente ha il dovere di seguire l'interpretazione ritenuta più adeguata ai principi costituzionali (cfr. ex plurimis sentenze n. 226 del 1994, n. 296 del 1995 e n. 307 del 1996)" (sentenza n. 350 del 1997). Non può essere neppure condiviso l'argomento dell'Avvocatura generale dello Stato, la quale valorizza il preteso dissenso giurisprudenziale costituito "dal consistente orientamento dei giudici di merito che ... affermano la necessità delle operazioni di taratura periodica anche per tale genere di apparecchiature". In presenza di un diritto vivente così consolidato, eccepire l'esistenza di eterogenei ed isolati pronunciamenti dei giudici di merito non risulta dirimente, anche in considerazione del fatto che la stessa Avvocatura, in altri punti nella sua memoria difensiva, mostra di condividere il richiamato orientamento della Corte di legittimità piuttosto che proporre la ricerca di diversa interpretazione conforme a Costituzione. 5.- Ai fini della definizione del presente giudizio, occorre ulteriormente osservare come non vi sia dubbio che il consolidato orientamento della Corte di cassazione sia nel senso che il censurato art. 45 esoneri i soggetti utilizzatori dall'obbligo di verifiche periodiche di funzionamento e di taratura delle apparecchiature impiegate nella rilevazione della velocità. Ne consegue che l'argomento addotto dall'Avvocatura generale dello Stato, secondo cui le norme regolamentari attuative del suddetto art. 45 del D.Lgs. n. 285 del 1992 limiterebbero l'obbligo di verifica periodica alle apparecchiature di rilevazione automatica, non è utile ai fini del presente giudizio di costituzionalità, posto che oggetto dello stesso è il diritto vivente consolidatosi sulla predetta norma di rango primario, il quale non fa distinzione tra le rilevazioni automatiche e quelle realizzate attraverso operatori. Fermo restando il rilievo che nella giurisprudenza della Corte di cassazione, come detto, non v'è traccia di tale distinzione, appare del tutto irragionevole la prospettata discriminazione, poiché l'assenza di verifiche periodiche di funzionamento e di taratura è suscettibile di pregiudicare - secondo la prospettazione del rimettente - l'affidabilità metrologica a prescindere dalle modalità di impiego delle apparecchiature destinate a rilevare la velocità. Non risolutivo appare in proposito quanto è previsto nella direttiva del Ministero dell'interno 14 agosto 2009, laddove si afferma che la rilevazione della cattiva funzionalità sarebbe garantita dalle apparecchiature "dotate di un sistema di autodiagnosi dei guasti che avvisano l'operatore del loro cattivo funzionamento". È evidente che il mantenimento nel tempo dell'affidabilità metrologica delle apparecchiature è un profilo che interessa - secondo la richiamata prospettazione del giudice a quo - anche i meccanismi di autodiagnosi che appaiono suscettibili, come le altre parti delle apparecchiature, di obsolescenza e di deterioramento. 6.- Alla luce di dette precisazioni, la questione sollevata dal rimettente direttamente in riferimento al canone di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. è fondata. Così come interpretato dalla Corte di cassazione, l' art. 45 del D.Lgs. n. 285 del 1992 collide con il "principio di razionalità, sia nel senso di razionalità formale, cioè del principio logico di non contraddizione, sia nel senso di razionalità pratica, ovvero di ragionevolezza" (sentenza n. 172 del 1996). 6.1.- Quanto al canone di razionalità pratica, appare evidente che qualsiasi strumento di misura, specie se elettronico, è soggetto a variazioni delle sue caratteristiche e quindi a variazioni dei valori misurati dovute ad invecchiamento delle proprie componenti e ad eventi quali urti, vibrazioni, shock meccanici e termici, variazioni della tensione di alimentazione. Si tratta CONTENZIOSO NAZIONALE 123 di una tendenza disfunzionale naturale direttamente proporzionata all'elemento temporale. L'esonero da verifiche periodiche, o successive ad eventi di manutenzione, appare per i suddetti motivi intrinsecamente irragionevole. I fenomeni di obsolescenza e deterioramento possono pregiudicare non solo l'affidabilità delle apparecchiature, ma anche la fede pubblica che si ripone in un settore di significativa rilevanza sociale, quale quello della sicurezza stradale. Un controllo di conformità alle prescrizioni tecniche ha senso solo se esteso all'intero arco temporale di utilizzazione degli strumenti di misura, poiché la finalità dello stesso è strettamente diretta a garantire che il funzionamento e la precisione nelle misurazioni siano contestuali al momento in cui la velocità viene rilevata, momento che potrebbe essere distanziato in modo significativo dalla data di omologazione e di taratura. 6.2.- Sotto il profilo della coerenza interna della norma, come interpretata dalla Corte di cassazione, si appalesano altresì evidenti aporie. Occorre a tal proposito considerare che nelle richiamate disposizioni l'uso delle apparecchiature di misurazione è strettamente collegato al valore probatorio delle loro risultanze nei procedimenti sanzionatori inerenti alle trasgressioni dei limiti di velocità. L' art. 142, comma 6, del D.Lgs. n. 285 del 1992 prevede infatti che "Per la determinazione dell'osservanza dei limiti di velocità sono considerate fonti di prova le risultanze di apparecchiature debitamente omologate, ... nonché le registrazioni del cronotachigrafo e i documenti relativi ai percorsi autostradali, come precisato dal regolamento". Detta soluzione normativa si giustifica per la peculiarità della fattispecie concreta che - allo stato attuale della tecnologia - rende impossibile o sproporzionatamente oneroso riprodurre l'accertamento dell'eccesso di velocità in caso di sua contestazione. È evidente che, al fine di dare effettività ai meccanismi repressivi delle infrazioni ai limiti di velocità, la disposizione realizza in modo non implausibile e non irragionevole un bilanciamento tra la tutela della sicurezza stradale e quella delle situazioni soggettive dei sottoposti alle verifiche. È vero infatti che la tutela di questi ultimi viene in qualche modo compressa per effetto della parziale inversione dell'onere della prova, dal momento che è il ricorrente contro l'applicazione della sanzione a dover eventualmente dimostrare - onere di difficile assolvimento a causa della irripetibilità dell'accertamento - il cattivo funzionamento dell'apparecchiatura. Tuttavia, detta limitazione trova una ragionevole spiegazione nel carattere di affidabilità che l'omologazione e la taratura dell'autovelox conferiscono alle prestazioni di quest'ultimo. In definitiva il bilanciamento realizzato dall'art. 142 del codice della strada ha per oggetto, da un lato, interessi pubblici e privati estremamente rilevanti quali la sicurezza della circolazione, la garanzia dell'ordine pubblico, la preservazione dell'integrità fisica degli individui, la conservazione dei beni e, dall'altro, valori altrettanto importanti quali la certezza dei rapporti giuridici ed il diritto di difesa del sanzionato. Detto bilanciamento si concreta attraverso una sorta di presunzione, fondata sull'affidabilità dell'omologazione e della taratura dell'autovelox, che consente di non ritenere pregiudicata oltre un limite ragionevole la certezza della rilevazione e dei sottesi rapporti giuridici. Proprio la custodia e la conservazione di tale affidabilità costituisce il punto di estrema tensione entro il quale la certezza dei rapporti giuridici e il diritto di difesa del sanzionato non perdono la loro ineliminabile ragion d'essere. Il ragionevole affidamento che deriva dalla custodia e dalla permanenza della funzionalità delle apparecchiature, garantita quest'ultima da verifiche periodiche conformi alle relative specifiche tecniche, degrada tuttavia in assoluta incertezza quando queste ultime non vengono effettuate. 124 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 In definitiva, se "il giudizio di ragionevolezza [di questa Corte], lungi dal comportare il ricorso a criteri di valutazione assoluti e astrattamente prefissati, si svolge attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti" (sentenza n. 1130 del 1988) e se la prescrizione dell'art. 142, comma 6, del codice della strada nella sua astratta formulazione risulta immune dai richiamati vizi di proporzionalità, la prescrizione dell'art. 45 del medesimo codice, come costantemente interpretata dalla Corte di cassazione, si colloca al di fuori del perimetro della ragionevolezza, finendo per comprimere in modo assolutamente ingiustificato la tutela dei soggetti sottoposti ad accertamento. Il bilanciamento dei valori in gioco realizzato in modo non implausibile nel vigente art. 142, comma 6, del codice della strada trasmoda così nella irragionevolezza, nel momento in cui il diritto vivente formatosi sull'art. 45, comma 6, del medesimo codice consente alle amministrazioni preposte agli accertamenti di evitare ogni successiva taratura e verifica. 7.- Dunque, l' art. 45, comma 6, del D.Lgs. n. 285 del 1992 - come interpretato dalla consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione - deve essere dichiarato incostituzionale in riferimento all'art. 3 Cost., nella parte in cui non prevede che tutte le apparecchiature impiegate nell'accertamento delle violazioni dei limiti di velocità siano sottoposte a verifiche periodiche di funzionalità e di taratura. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l'illegittimità costituzionale dell' art. 45, comma 6, del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nella parte in cui non prevede che tutte le apparecchiature impiegate nell'accertamento delle violazioni dei limiti di velocità siano sottoposte a verifiche periodiche di funzionalità e di taratura. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 aprile 2015. CONTENZIOSO NAZIONALE 125 Nuovi limiti alle parti in ordine alla proponibilità, quale motivo di appello, del difetto di giurisdizione NOTA A CASSAZIONE CIVILE, SEZIONI UNITE, SENTENZA 20 OTTOBRE 2016 N. 21260 Anna Andolfi* 1. Premessa. La sentenza che si annota risolve una delle questioni maggiormente controverse in tema di difetto di giurisdizione, vale a dire se la parte attrice, soccombente nel merito, possa impugnare la sentenza contestando la giurisdizione del giudice da essa stessa adito. Nel caso di specie la sentenza di primo grado di rigetto nel merito della domanda pronunciata dal Tribunale regionale di giustizia amministrativa per il Trentino Alto Adige, Sezione Bolzano, veniva impugnata dalle parti ricorrenti con contestazioni di merito e lamentando, in via pregiudiziale, il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo. Il Consiglio di Stato rigettava l’appello sul presupposto che “integra abuso del processo la contestazione della giurisdizione da parte del soggetto che abbia optato per quella giurisdizione e che, pur se soccombente nel merito, sia risultato vittorioso, in forza di una pronuncia esplicita o di una statuizione implicita, proprio sulla questione di giurisdizione” (cfr. Consiglio di Stato, Sezione VI, 7 febbraio 2014, n. 585) (1). (*) Dottoressa in Giurisprudena, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato di Napoli. (1) Si legge nella sentenza “È stato osservato al riguardo che la sollevazione di tale sorta di autoeccezione in sede di appello, per un verso, integra trasgressione del divieto di venire contra factum proprium - paralizzabile con l'exceptio doli generalis seu presentis - e, per altro verso, arreca un irragionevole sacrificio alla controparte, costretta a difendersi nell'ambito del giudizio da incardinare innanzi al nuovo giudice in ipotesi provvisto di giurisdizione, adìto secondo le regole in tema di translatio iudicii dettate dall'art. 11, cod. proc. amm. Né a conclusioni diverse, rispetto a quelle appena evidenziate, può giungersi in relazione alle ulteriori deduzioni svolte in parte qua degli appellanti, i quali hanno affermato di essere stati costretti ad adire il giudice amministrativo “per non vedersi preclusa tale giurisdizione per la scadenza dei termini d'impugnazione e anche al fine ultimo di ottenere un atto di sospensione dell'efficacia del provvedimento impugnato, così come richiesto”. Ebbene, quanto al primo dei profili segnalati, ci si limita a osservare che l'argomento in questione introdurrebbe - ove condiviso - una sorta di aporìa logica: quella secondo cui la parte ricorrente (che, pure, è persuasa che un certo giudice non sia munito di giurisdizione), si affretterebbe comunque ad adire ritualmente e tempestivamente proprio quel giudice, al solo fine di non vedersi poi preclusa la possibilità di adirlo. Quanto al secondo aspetto, l'argomento si basa allo stesso modo su argomenti non condivisibili sotto l'aspetto sistematico; infatti, tale argomento - ove condiviso - legittimerebbe la proposizione di una determinata domanda di giustizia dinanzi a un giudice che si sa - o si ritiene - essere privo di giurisdizione 126 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 La sentenza veniva impugnata innanzi alla Corte di Cassazione ai sensi degli articoli 362 cod. proc. civ. e 111, ultimo comma, Costituzione. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso, hanno affermato il seguente principio di diritto “l’attore che abbia incardinato la causa dinanzi ad un giudice e sia rimasto soccombente nel merito non è legittimato a interporre appello contro la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione del giudice da lui prescelto”. 2. I precedenti e i presupposti in punto di diritto. Per cogliere a pieno il significato della sentenza in commento occorre partire dall’articolo 37 del cod. proc. civ. il quale disciplina le modalità di emersione della questione di giurisdizione nel processo civile, stabilendo che il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo. La Corte di Cassazione, a partire dalla sentenza delle Sezioni Unite 9 ottobre 2008, n. 24883, sul presupposto della necessità di una interpretazione dell’articolo 37 cod. proc. civ. in linea con il principio costituzionale della ragionevole durata del processo, ha progressivamente eroso la regola della rileal solo fine (opportunistico e inammissibile ad un tempo) di avvalersi delle particolari forme di tutela somministrabili dal giudice ritenuto privo di giurisdizione e non anche da quello consideratone munito”. La dottrina dell’abuso del processo è da anni coltivata dal Consiglio di Stato proprio in ordine alla questione di giurisdizione, escludendo alla parte, che abbia fatto ricorso al giudice amministrativo, di appellare la sentenza sfavorevole nel merito assumendo il difetto di giurisdizione del giudice adito (cfr. Consiglio di Stato, VI Sezione, 10 marzo 2011, n. 1537, Sezione V, 7 febbraio 2012, n. 656). Per la ricostruzione della genesi e della attuale configurazione, in giurisprudenza, della nozione di “abuso del processo”, si rinvia in particolare a PANZAROLA A., Presupposti e conseguenza della creazione giurisprudenziale del c.d. abuso del processo, in Diritto processuale amministrativo, 2016, 1, pag. 23 ss. Come evidenziato dall’autore, la nozione è utilizzata dalla giurisprudenza “per sanzionare l’esercizio dell’azione in giudizio - pur conforme alla legge - in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale. Impiegando tale nozione, i Giudici nazionali dichiarano di voler realizzare un processo “giusto” che abbia anche una “durata ragionevole” e che sia volto a tutelare interessi “meritevoli” […]. In questa maniera la categoria dell’abuso del processo, mentre finisce per intrecciare dimensione individuale della tutela dei diritti e vocazione collettiva della funzione giurisdizionale, viene prescelta per perseguire l’interesse pubblico alla allocazione efficiente di una risorsa scarsa e conseguentemente elevata a strumento per la massimizzazione dell’utile generale della comunità”. Secondo l’autore, la dottrina dell’abuso del processo “degrada il diritto di azione in giudizio a mera proiezione dinamica del diritto sostanziale, proponendo una nozione di azione commista con elementi materiali e interamente assorbita e rinserrata nell’interesse privato. Così la nozione di azione acquista un significato dissonante rispetto a quello attribuitole da una dottrina secolare, smarrendo quel fecondo connotato della “autonomia” dal diritto sostanziale sul quale ha potuto fondarsi una “autonoma” scienza del processo […] Per restituire al giudice il posto che gli compete e per fondare il suo dovere di provvedere occorre, non soltanto negare che la azione possa risolversi in una modalità di esercizio del diritto sostanziale ed insieme ammettere che rappresenti un quid diverso da questo diritto, ma in generale postulare la autonomia del fenomeno processuale a quello sostanziale e, su questa base dualistica, ricordare che il processo, quantunque (o forse proprio perché) strumentale al diritto, trova oggi una organica sistemazione nel campo del diritto pubblico”. CONTENZIOSO NAZIONALE 127 vabilità del difetto di giurisdizione in ogni stato e grado del processo. Secondo l’orientamento della Suprema Corte il giudice può rilevare d’ufficio il difetto di giurisdizione durante tutto il giudizio di primo grado, mentre nel secondo grado di giudizio, tale questione pregiudiziale di rito rimane nel thema decidendum solo se abbia costituito oggetto di un rituale motivo di impugnazione ad opera di una delle parti. La tesi si fonda sull’idea secondo cui la sentenza con la quale il giudice decide nel merito la lite contiene sempre una statuizione implicita affermativa della giurisdizione e suscettibile di passare in giudicato se non dedotta con specifico motivo di gravame. Il principio de quo si pone in deroga all’orientamento espresso dalla dottrina in tema di trasmigrazione della causa dal primo al secondo grado di giudizio, il quale riconosce al giudice di appello il potere di rilevare officiosamente le questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito rilevabili d’ufficio che non abbiano costituito oggetto di alcuna soluzione espressa nella motivazione della sentenza impugnata (2). In altri termini, secondo tale opzione, la formulazione di una preclusione interna al processo in ordine ad una questione pregiudiziale di rito rilevabile d’ufficio presuppone, di regola, una statuizione espressa nella motivazione della sentenza. Viceversa, con riguardo alla questione di giurisdizione, la Corte di Cassazione riconosce la possibilità della formazione del giudicato (rectius: di una preclusione interna al processo) anche se la sentenza di primo grado nulla dica al riguardo (3). L’orientamento ormai consolidato della Corte di Cassazione trova oggi positivo riconoscimento nell’articolo 9 del codice del processo amministrativo il quale dispone “Il difetto di giurisdizione è rilevato in primo grado anche d’ufficio. Nei giudizi di impugnazione è rilevato se dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronuncia impugnata che, in modo implicito o esplicito, ha statuito sulla giurisdizione”. (2) CONSOLO C., Spiegazioni di diritto processuale civile, Volume II, Il processo di primo grado e le impugnazioni delle sentenze, Giappichelli Editore, 2015, pp. 484 ss. (3) Secondo la dottrina, la tesi giurisprudenziale sopra esposta porta a “ridimensionare la portata del principio secondo cui la questione di giurisdizione riguarda l’ordine pubblico processuale” nonché a “scardinare il principio del giudice naturale precostituito per legge sul presupposto che, nella trattazione di uno specifico affare, non esiste un giudice più idoneo dell’altro, così che bisogna preoccuparsi soltanto di ciò che il giudice sia e appaia imparziale” (VERDE G., Abuso del processo e giurisdizione, in www.judicium.it, pag. 8). Infatti, il principio costituzionale di cui all’articolo 25, sancisce che non possa essere violato il criterio della “precostituzione” del giudice, in quanto “l’esistenza di una pluralità di giurisdizioni presuppone che un giudice “non valga l’altro” e che pertanto, si rientri nella garanzia del giudice naturale precostituito per legge, essendo la giurisdizione un principio d’ordine pubblico processuale” (VERDE G., cit., pag. 7). Coerentemente, il legislatore ha stabilito non solo, come visto, che il difetto di giurisdizione fosse rilevabile, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo (articolo 37 cod. proc. civ.), ma anche che “ciascuna parte” potesse adire in via preventiva la Corte di Cassazione, al fine di far regolare la giurisdizione dalla Suprema Corte, nella sua composizione più estesa (articolo 41 cod. proc. civ.). 128 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Secondo l’attuale assetto giurisprudenziale e normativo, pertanto, il potere di rilievo ufficioso del difetto di giurisdizione viene meno con l’emanazione della sentenza di primo grado che abbia deciso nel merito la lite; nel grado di appello, affinché la questione di giurisdizione possa entrare a far parte del thema decidendum, sarà necessaria la formulazione di un apposito motivo di appello avverso la sentenza, anche in caso di decisione solo implicita sul punto (4). Tanto premesso, fino alla sentenza che si annota, la Corte di Cassazione aveva espresso tesi altalenanti per ciò che concerne la individuazione della parte legittimata a proporre il suddetto motivo di gravame e se, in particolare, potesse l’attore, soccombente nel merito, contestare la giurisdizione del giudice da questi adito. La posizione espressa in molte pronunce della Corte di Cassazione riconosceva la possibilità, per la parte attrice, di eccepire il difetto di giurisdizione del giudice dalla stessa adito, con il solo limite costituito dalla formulazione del giudicato, esplicito o implicito, sulla questione. La Suprema Corte ha, in più occasioni, pronunciato il seguente principio di diritto “l’eccezione di difetto di giurisdizione non è preclusa alla parte per il solo fatto di avere adito un giudice che lo stesso attore ritiene successivamente privo di giurisdizione; ben può, quindi, detta parte proporre l’eccezione per la prima volta in appello essendo la questione di giurisdizione preclusa solo nel caso in cui sulla stessa si sia formulato il giudicato esplicito o implicito” (Corte di Cassazione, Sezioni Unite, 27 dicembre 2010, n. 26129; Sezioni Unite 29 marzo 2011, n. 7097; quest’ultima richiamata da Sezioni Unite 20 gennaio 2014, n. 1006; Sezioni Unite 20 maggio 2014, n. 11022; Sezioni Unite 28 maggio 2014, n. 11916). Pertanto, secondo la giurisprudenza in ultimo richiamata, l’appello proposto, per motivi di giurisdizione, dall’attore soccombente nel merito che quel giudice aveva scelto non è causa di inammissibilità del gravame, salvo avere riflessi in ordine al regolamento delle spese in giudizio (Sezioni Unite 28 maggio 2014, n. 11916) (5). In due pronunce, richiamate nella sentenza che si annota, la Suprema Corte sembra esprimere posizioni diverse. In particolare, nella sentenza 14 maggio 2014, n. 10414, la Corte di Cassazione, nell’elaborare la regola che governa la questione di giurisdizione nel procedimento promosso con ricorso straordinario al Capo dello Stato che fosse compatibile con le peculiarità proprie di tale rimedio speciale, ha stabilito che “il ricorrente il quale abbia allegato la giurisdizione del giudice amministrativo quale presupposto per poter proporre ricorso straordinario al Capo dello Stato” non può successivamente (4) CONSOLO C., Spiegazioni di diritto processuale civile, Volume II, Il processo di primo grado e le impugnazioni delle sentenze, cit., p. 486. (5) Con una sanzione che non colpisce l’atto, mediante la declaratoria di inammissibilità o di irricevibilità, ma il comportamento della parte, tramite il pagamento di una somma pecuniaria. CONTENZIOSO NAZIONALE 129 “proporre ricorso per Cassazione ex art. 111 Cost., comma 8, e art. 362 cod. proc. civ. avverso il decreto del Presidente della Repubblica che abbia deciso il ricorso su conforme parere del Consiglio di Stato reso sull’implicito […] o esplicito presupposto della sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo allegato dalla parte stessa, sul punto non soccombente” (Sezioni Unite 14 maggio 2014, n. 10414). Nella seconda pronuncia, Sezioni Unite 19 giugno 2014 , n. 13940 la Corte di Cassazione non ha negato in astratto la figura dell’abuso del processo in caso di appello proposto, per motivi di giurisdizione, da colui che in primo grado ha riconosciuto la giurisdizione del giudice amministrativo, ma ha escluso l’abusività nel caso concreto. 3. Gli elementi di novità della sentenza. Tanto premesso, la sentenza che si annota segna una svolta nel dibattito fin qui delineato, escludendo per l’attore la legittimazione ad interporre appello per contestare la giurisdizione del giudice dallo stesso adito. L’argomentazione posta a base del decisum può essere così riassunta: (i) la scelta del giudice da parte dell’attore ha valenza di implicito riconoscimento della giurisdizione del giudice adito; (ii) la sussistenza della giurisdizione rappresenta un capo autonomo rispetto alla decisione sul merito; (iii) l’attore, soccombente nel merito, non può essere considerato tale anche in ordine al capo relativo alla giurisdizione in quanto il giudice, nel decidere nel merito la lite, ha riconosciuto la propria giurisdizione “così come implicitamente o espressamente sostenuto dallo stesso attore, che a quel giudice si è rivolto”. Secondo tale opzione, pertanto, l’appello proposto dall’attore (soccombente nel merito), per ragioni di giurisdizione, sarebbe inammissibile non già perché configurerebbe una ipotesi di abuso del processo, così come sostenuto dal Consiglio di Stato, bensì in quanto non vi sarebbe soccombenza sulla questione di giurisdizione, riconducendo così la questione, da un piano soggettivo, relativo alla condotta abusiva, ad uno oggettivo. Conseguentemente - sul presupposto, ormai pacifico in giurisprudenza, secondo cui la decisione di merito implica non solo riconoscimento della giurisdizione ma anche suo concreto esercizio - la sentenza potrebbe essere impugnata, per motivi di giurisdizione, solo dal convenuto rispetto al quale è configurabile, in via esclusiva, una soccombenza in ordine alla decisione sulla suddetta questione pregiudiziale di rito. Nella sentenza in commento la Corte di Cassazione svolge delle precisazioni anche in ordine alla posizione del convenuto. Quest’ultimo, infatti, a fronte di una sentenza di rigetto nel merito della domanda dell’attore, avrebbe interesse a proporre impugnazione per motivi di giurisdizione solo con impugnazione incidentale condizionata all’accoglimento della eventuale impugnazione principale proposta, per ragioni di merito, dall’attore. Ciò in quanto il 130 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 passaggio in giudicato della sentenza di rigetto nel merito della domanda assicura al convenuto maggiori utilità rispetto a quella che potrebbe ottenere dalla sentenza declinatoria della giurisdizione, la quale non preclude all’attore la possibilità di riproporre la domanda innanzi al giudice indicato come giurisdizionalmente competente, anche ai sensi dell’articolo 59 della legge 18 giugno 2009, n. 69. 4. Brevi indicazioni conclusive. Da quanto sopra esposto possono essere schematicamente formulate le seguenti indicazioni operative. La sentenza di rigetto nel merito della domanda: (i) non potrà essere impugnata dall’attore per motivi di giurisdizione; (ii) potrà essere impugnata dal convenuto per motivi di giurisdizione in via incidentale per il caso di accoglimento dell’appello principale eventualmente proposto dall’attore, avverso la medesima sentenza, per ragioni di merito. La sentenza di accoglimento della domanda potrà essere impugnata dal convenuto sia per ragioni di merito sia per motivi di giurisdizione. Resta ferma, per le parti, la facoltà di sollecitare un controllo preventivo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, mediante lo strumento del regolamento di giurisdizione di cui all’articolo 41 cod. proc. civ., fino a che la causa non sia decisa nel merito di primo grado. In conclusione, la pronuncia in parola si pone logicamente in collegamento con la suddetta facoltà, in quanto l’attore può sempre sciogliere, in via preventiva, ogni dubbio in ordine alla questione di giurisdizione, ai sensi dell’articolo 41 cod. proc. civile. Cassazione civile, Sezioni Unite, sentenza 20 ottobre 2016 n. 21260 - Primo Pres. f.f. Canzio, Rel. Giusti, P.M. Iacoviello (difforme) - A.F., A.G., in proprio e quest'ultimo nella qualità di legale rappresentante della "LABORATORI ISARCO e A. SABIN S.R.L.", (avv.ti A. Bandini e M. Perlangeli) c. Provincia Autonoma di Bolzano (avv. ti M. Costa, R. Von Guggenberg, C. Bernardi, L. Fadanelli e S. Beikircher). FATTI DI CAUSA 1. - A.F. e A.G., quest'ultimo anche in qualità di legale rappresentante della Laboratori Isarco e A. Sabin s.r.l., hanno impugnato, dinanzi al Tribunale regionale di giustizia amministrativa per il Trentino-Alto Adige, sezione di Bolzano, chiedendone l'annullamento, la deliberazione in data 11 giugno 2007, n. 1999, della Giunta provinciale di Bolzano, recante l'interruzione, a decorrere dal 1 luglio 2007, dei rapporti contrattuali con i laboratori privati operanti per conto e a carico del Servizio sanitario provinciale, nonchè la nota del 12 agosto 2007 con cui il direttore generale dell'Azienda sanitaria della Provincia autonoma di Bolzano comunicava la mancata proroga degli attuali accordi per prestazioni ambulatoriali di laboratorio con le strutture private convenzionate. CONTENZIOSO NAZIONALE 131 Il Tribunale regionale adito, con sentenza in data 22 aprile 2008, ha respinto il ricorso nel merito. 2. - Avverso la sentenza di primo grado gli A. hanno proposto appello, sollevando censure di merito ma lamentando anche, in via pregiudiziale, il difetto di giurisdizione dell'adito giudice amministrativo, sul rilievo che il rapporto non sarebbe qualificabile come di accreditamento, ai sensi del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, art. 8 e ss., (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma della L. 23 ottobre 1992, n. 421, art. 1), bensì come rapporto convenzionale, ai sensi della L. 23 dicembre 1978, n. 833, art. 48, (Istituzione del servizio sanitario nazionale). Il Consiglio di Stato, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 7 febbraio 2014, ha respinto l'appello. Il Consiglio di Stato ha escluso che possa trovare ingresso la censura con cui gli appellanti si sono doluti del mancato rilievo, da parte del Tribunale regionale di giustizia amministrativa, della carenza di giurisdizione, e ha richiamato, al riguardo, l'orientamento secondo cui integra abuso del processo la contestazione della giurisdizione da parte del soggetto che abbia optato per quella giurisdizione e che, pur se soccombente nel merito, sia risultato vittorioso, in forza di una pronuncia esplicita o di una statuizione implicita, proprio sulla questione di giurisdizione. Secondo il Consiglio di Stato, la sollevazione di tale sorta di auto-eccezione in sede di appello integra trasgressione del divieto di venire contra factum proprium - paralizzabile con l'exceptio doli generalis seu presentir - e arreca un irragionevole sacrificio alla controparte, costretta a difendersi nell'ambito del giudizio da incardinare innanzi al nuovo giudice. 3. - Per la cassazione della sentenza del Consiglio di Stato A.F. e G. hanno proposto ricorso, con atto notificato il 19 settembre 2014, sulla base di due motivi. L'intimata Provincia autonoma di Bolzano ha resistito con controricorso, mentre l'Azienda sanitaria della Provincia autonoma ed il controinteressato Laboratorio Druso non hanno svolto attività difensiva. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. - La controricorrente Provincia autonoma ha eccepito l'inammissibilità del ricorso, sostenendo che l'atto di impugnazione, in violazione dell'art. 366 c.p.c., n. 3, non conterrebbe l'esposizione sommaria dei fatti della causa. 1.1. - L'eccezione è infondata. Il requisito dell'esposizione sommaria dei fatti di causa - prescritto, a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione, dall'art. 366 c.p.c. , n. 3), cod. proc. civ. - può ritenersi nella specie osservato dalla riproduzione, nel ricorso, del testo della sentenza impugnata, il quale contiene la descrizione dello svolgimento del processo. È bensì vero che i ricorrenti, dopo avere riprodotto, in limine, il testo della sentenza impugnata, hanno anche provveduto all'assemblaggio di parti eterogenee del materiale di causa (il ricorso introduttivo al Tribunale regionale di giustizia amministrativa) e di atti relativi ad altro giudizio (la domanda proposta dai Laboratori e dal suo legale rappresentante, anche in proprio, dinanzi al Tribunale del lavoro di Bolzano, con le successive decisioni intervenute); ma il coacervo di documenti integralmente trascritti, essendo facilmente individuabile ed isolabile, può essere separato ed espunto dal ricorso per cassazione, la cui autosufficienza è assicurata dall'inserimento, in esso, della sentenza impugnata, recante una corretta ed essenziale narrazione dei fatti processuali. 132 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 2. - Con il primo motivo, i ricorrenti denunciano violazione dell'art. 360, n. 1, cod. proc. civ., per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in relazione alla verifica della esistenza e della validità di una convenzione ex art. 48 della legge n. 833 del 1978; conseguente competenza del giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro. I ricorrenti escludono preliminarmente di avere abusato del processo sottoponendo al Consiglio di Stato la questione di giurisdizione, e sostengono di avere impugnato l'atto dinanzi al giudice amministrativo "per non creare preclusioni" e di avere chiesto al giudice amministrativo, sin dal ricorso introduttivo, di verificare la sua competenza. D'altra parte, la dimostrazione che la materia del contendere imponesse il duplice binario, emergerebbe, ad avviso dei ricorrenti, dalla sentenza n. 264/09 del Tribunale ordinario di Bolzano, in funzione di giudice del lavoro, che, giudicando sulla domanda della Laboratori e del suo legale rappresentante A.G. di accertamento della persistente operatività della convenzione inter partes e di condanna della ASL al pagamento dei compensi, ha dichiarato la propria giurisdizione, pur rigettando nel merito la domanda, nonchè dall'ordinanza della Corte d'appello di Bolzano, sezione lavoro, che, investita del gravame, ha disposto la sospensione del processo in attesa della definizione del procedimento davanti alla giustizia amministrativa. Quanto al merito della questione di giurisdizione, i ricorrenti affermano che il rapporto instaurato tra i laboratori ed i loro professionisti, da una parte, ed il Servizio sanitario nazionale, dall'altro, è di tipo convenzionale L. n. 833 del 1978, ex art. 48: i ricorrenti infatti non esercitano una professione sanitaria e non sono annoverabili tra le strutture. Da tale natura del rapporto deriverebbe, ad avviso dei deducenti, la giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria e il potere della stessa di disapplicare, ai sensi della L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 5, all. E, l'atto impugnato, anche quando il sanitario intenda conseguire l'accertamento della illegittimità del mancato conferimento dell'incarico, in violazione del proprio diritto, ed ottenere il risarcimento del danno sofferto. Con il secondo mezzo, i ricorrenti lamentano difetto di giurisdizione ed insufficiente, contraddittorietà ed illogicità della motivazione della sentenza in riferimento alla applicabilità della L. n. 833 del 1978, art. 48, ed alla inapplicabilità al caso di specie del D.Lgs. n. 502 del 1992. 3. - I motivi possono essere esaminati congiuntamente, stante la stretta connessione. 4. - Essi pongono la questione se la parte che abbia incardinato la causa presso un plesso giurisdizionale (nella specie, dinanzi al giudice amministrativo), risultando poi soccombente nel merito, possa appellare sostenendo che il giudice avrebbe dovuto rilevare il proprio difetto di giurisdizione, e ricercare così, attraverso la proposizione dell'impugnazione, la sostituzione di una sentenza sfavorevole nel merito con una sentenza sfavorevole in punto di rito. 5. - Allo scrutinio dei motivi non è di ostacolo la deduzione della difesa della controricorrente, secondo cui l'interposto ricorso per cassazione - mirando a censurare la ravvisata improponibilità della questione di giurisdizione in appello da parte di chi quello stesso giudice aveva scelto - sarebbe volto a denunciare semplicemente il superamento dei limiti interni della giurisdizione amministrativa (quindi, un error in procedendo). A tale riguardo occorre considerare che è da intendere proposto per motivi inerenti alla giurisdizione, in base all'art. 111 Cost., u.c., e art. 362 c.p.c., comma 1, ed è perciò ammissibile, il ricorso per cassazione contro la decisione del Consiglio di Stato con cui è stato ritenuto precluso l'esame della questione di giurisdizione in quanto sollevata dalla parte che ha agito in primo grado mediante la scelta del giudice del quale, poi, nel contesto dell'appello, disconosce e contesta la giurisdizione. Spetta infatti alle Sezioni Unite non soltanto il giudizio vertente sull'interpretazione della CONTENZIOSO NAZIONALE 133 norma attributiva della giurisdizione, ma anche il sindacato sull'applicazione delle disposizioni che regolano la deducibilità ed il rilievo del difetto di giurisdizione (Cass., Sez. U., 23 novembre 2012, n. 20727; Cass., Sez. U., 9 marzo 2015, n. 4682). 6. - Con l'impugnata sentenza, i giudici amministrativi hanno ritenuto che "non può trovare accoglimento" il motivo di impugnazione con il quale la parte ricorrente ha messo in discussione la giurisdizione del TAR, da lei stessa adito, al fine di ribaltare l'esito negativo nel merito del giudizio, ponendosi una siffatta prospettazione in contrasto con il divieto di venire contra factum proprium e con la regola di correttezza e buona fede prevista dall'art. 1175 c.c. Secondo il Consiglio di Stato, "integra un abuso del processo la contestazione della giurisdizione da parte del soggetto che abbia optato per quella giurisdizione e che, pur se soccombente nel merito, sia risultato vittorioso, in forza di una pronuncia esplicita o di una statuizione implicita, proprio sulla questione di giurisdizione". La sentenza è espressione dell'orientamento invalso nella giurisprudenza del Consiglio di Stato dopo l'entrata in vigore del codice del processo amministrativo, e ribadito anche di recente (Sez. 4^, 7 novembre 2015, n. 5484; Sez. 6^, 29 febbraio 2016, n. 856). Nella sentenza che ha dato avvio a questo indirizzo (Sez. 5^, 7 giugno 2012, n. 656) si afferma (valorizzando e sviluppando un obiter contenuto in Sez. 6^, 10 marzo 2011, n. 1537) che il sollevare, per la prima volta in sede di appello, l'eccezione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo da parte dell'originario ricorrente che si era rivolto a quel giudice, ma ne disconosce la giurisdizione visto l'esito negativo, nel merito, della controversia, integra abuso del processo. La sollevazione di detta auto-eccezione in appello - si fa rilevare - "arreca un irragionevole sacrificio alla controparte, costretta a difendersi nell'ambito del giudizio da incardinare innanzi al nuovo giudice in ipotesi provvisto di giurisdizione, adito secondo le regole in tema di translatio iudicii dettate dall'art. 11 cod. proc. amm.". Detto sacrificio non trova adeguata giustificazione nell'interesse della parte: questa ben può "difendersi nel merito in sede di appello al fine di ribaltare la statuizione gravata piuttosto che ripudiare detto giudice in funzione di un giudizio opportunistico circa le maggiori o minori probabilità di esito favorevole a seconda del giudice chiamato a definire la res litigiosa". Il disconoscimento della giurisdizione ab initio invocata - si osserva ancora - "si traduce in un prolungamento dei tempi della definizione del giudizio dettata da ragioni puramente utilitaristiche". 7. - La tesi dell'inammissibilità dell'appello per ragioni di abuso da contraddittorietà discendente dal contrasto tra due atti processuali (il ricorso di primo grado al giudice amministrativo e l'appello per difetto di giurisdizione contro la sentenza del medesimo giudice) non trova riscontro nella giurisprudenza di questa Corte regolatrice. Si è infatti statuito (Sez. U., 27 dicembre 2010, n. 26129), in una vicenda sovrapponibile a quella che qui viene in esame, che l'eccezione di difetto di giurisdizione non è preclusa alla parte per il solo fatto di avere adito un giudice (nella specie, il TAR) che lo stesso attore ritiene successivamente privo di giurisdizione, e che ben può detta parte proporre l'eccezione per la prima volta in appello (nella specie, davanti al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana), essendo la questione di giurisdizione preclusa solo nel caso in cui sulla stessa si sia formato il giudicato esplicito o implicito. In questa stessa prospettiva: - si è affermato che la questione di giurisdizione può essere sempre sollevata, anche in relazione alla sentenza di appello, quando una delle parti (non importa quale) abbia sollevato tempestivamente la questione stessa con i motivi di appello (Sez. U., 29 marzo 2011, n. 7097; Sez. U., 28 maggio 2014, n. 11916), e può essere posta pure dalla stessa parte che ha adito un 134 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 giudice e ne ha successivamente contestato la giurisdizione in base all'interesse che deriva dalla soccombenza nel merito (Sez. U., 27 luglio 2011, n. 16391); - si è ammessa (Sez. U., 20 gennaio 2014, n. 1006) la proponibilità della questione di giurisdizione con ricorso alla Corte regolatrice da parte di chi l'aveva sollevata, tempestivamente, dinanzi al Consiglio di Stato dopo avere invece, di fronte al giudice ordinario dove la causa era stata inizialmente proposta dall'altra parte, sostenuto la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo; - si è sottolineato - con affermazione di carattere generale - che, purchè almeno una delle parti l'abbia sollevata tempestivamente in appello (con ciò impedendo la formazione del giudicato sul punto), la questione di giurisdizione può essere posta in cassazione, "in funzione di interesse correlato alla posizione di merito", anche dalla parte che, nei pregressi gradi, abbia assunto in proposito opposta determinazione (Sez. U., 20 maggio 2014, n. 11022). Secondo l'orientamento delle Sezioni Unite, quindi, l'altalenante condotta della parte non invalida l'atto e non è fonte di effetti preclusivi dell'impugnazione per motivi di giurisdizione. Il pentimento secundum eventum litis è dichiarato ammissibile quale esercizio del diritto di avere torto: si richiamano, al riguardo, la natura oggettiva dell'interesse sotteso all'universalità della legittimazione a proporre ricorso per regolamento preventivo ex art. 41 c.p.c., la sufficienza di un interesse impugnatorio correlato alla posizione di merito e l'irrilevanza della rinuncia nella materia indisponibile della giurisdizione. L'incoerenza del comportamento processuale, quando è idonea a pregiudicare il diritto fondamentale della controparte ad una ragionevole durata del processo ai sensi dell'art. 111 Cost., può essere stigmatizzata con il governo delle spese, per trasgressione al dovere di lealtà e probità ex art. 88 c.p.c., secondo la disciplina dettata dall'art. 92 c.p.c., comma 1, ultima parte. 8. - Recentemente, peraltro, nella giurisprudenza di queste Sezioni Unite si registra un mutamento, essendosi pervenuti all'elaborazione di una soluzione diversa, non più di ammissibilità con sanzione delle spese, ma di ammissibilità condizionata alla giustificazione della parte istante. In una pronuncia resa su impugnazione avverso una sentenza del Consiglio di Stato che aveva dichiarato inammissibile perchè abusiva l'auto-eccezione di difetto di giurisdizione in appello, la Corte regolatrice (Sez. U. 19 giugno 2014, n. 13940) non ha negato in generale la forza preclusiva dell'abuso, ma ha escluso in concreto l'abuso del ricorrente, giacchè, per un verso, l'eccezione sollevata dal resistente aveva giustificato "il ripensamento e la necessità di chiarimento sulla questione di giurisdizione", e, per l'altro verso, la "complessità della materia del contendere che dava corpo al ricorso iniziale" impediva di "addebitare il successivo ripensamento in sede di appello a una manifestazione di abuso del processo". Un ulteriore passo in direzione della configurabilità di una preclusione a cambiamenti di strategia processuale è possibile cogliere nella sentenza con cui le Sezioni Unite (14 maggio 2014, n. 10414) hanno dichiarato inammissibile il ricorso ex art. 362 c.p.c., proposto avverso il decreto del Presidente della Repubblica dallo stesso ricorrente in via straordinaria che, soccombente nel merito, contestava la giurisdizione amministrativa costituente indefettibile presupposto della sua stessa originaria iniziativa. Richiamata la necessità del bilanciamento tra il valore costituzionale del giudice naturale e quello della ragionevole durata del processo, contemperamento sotteso all'evoluzione giurisprudenziale dell'art. 37 c.p.c., e alla conseguente emanazione dell'art. 9 cod. proc. amm., le Sezioni Unite hanno osservato che la deducibilità piena e assoluta della questione di giurisdizione consentirebbe a una parte - che abbia promosso o accettato il rimedio semplificato del ricorso straordinario allegando il presupposto della giurisdizione del giudice amministrativo o non contestando tale allegato presupposto - "di giocare CONTENZIOSO NAZIONALE 135 la carta di un'altra giurisdizione secundum eventum litis, ancorchè la parte stessa non sia affatto soccombente sulla questione di giurisdizione, ma lo sia nel merito del ricorso straordinario". 9. - Alla base della tesi, prevalente nella giurisprudenza di queste Sezioni Unite, che ammette l'attore, soccombente nel merito, a proporre appello contestando la giurisdizione da lui stesso prescelta, vi è l'idea che in capo a costui vi sia l'interesse ad impugnare per chiedere una diminuzione della propria soccombenza, perchè la decisione negativa in punto di giurisdizione, rispetto alla pronuncia negativa di merito, comporta un vantaggio giuridicamente rilevante che si concreta nella possibilità di proporre nuovamente la domanda dinanzi ad un giudice appartenente ad un diverso plesso giurisdizionale. Appellando per difetto di giurisdizione, l'attore in primo grado che ha visto rigettata la propria domanda nel merito (con una pronuncia suscettibile di passare in giudicato sostanziale che preclude la riproponibilità della domanda) ambisce infatti alla transiatio iudicii, che implica la rimozione della sentenza negativa e la rivalutazione del merito della domanda in una giurisdizione diversa. 10. - Questa premessa, ad avviso del Collegio, merita di essere ripensata. 10.1. - Occorre muovere dalla considerazione che, nell'esperienza giurisprudenziale conseguente alla sentenza delle Sezioni Unite 9 ottobre 2008, n. 24883, l'art. 37 c.p.c., vive come una norma che preclude, in assenza di un apposito motivo di gravarne, il rilievo officioso del difetto di giurisdizione se la controversia sia stata decisa nel merito nel grado precedente, anche in mancanza di una esplicita statuizione sulla sussistenza della giurisdizione (da ultimo, Cass., Sez. U., 7 ottobre 2016, n. 20191). In sostanza, il regime cronologico e modale del difetto di giurisdizione è il seguente: il difetto di giurisdizione può essere eccepito dalle parti anche dopo la scadenza del termine previsto dall'art. 38 c.p.c., fino a quando la causa non sia stata decisa nel merito in primo grado; la sentenza di primo grado di merito può sempre essere impugnata per difetto di giurisdizione; la sentenza di appello è impugnabile per difetto di giurisdizione soltanto se sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito, operando la relativa preclusione anche per il giudice di legittimità; il giudice può rilevare anche d'ufficio il difetto di giurisdizione fino a quando al riguardo non si sia formato il giudicato esplicito o implicito. Alla base di questo approdo vi è non soltanto il rilievo che "in ogni processo vanno individuati due distinti e non confondibili oggetti del giudizio, l'uno (processuale) concernente la sussistenza o meno del potere-dovere del giudice di risolvere il merito della causa e l'altro (sostanziale) relativo alla fondatezza o no della domanda", e che la statuizione sul merito contiene "implicitamente quella sull'antecedente logico da cui è condizionata e, cioè, sull'esistenza della giurisdizione, in difetto della quale non avrebbe potuto essere adottata". Vi è anche la sottolineatura che "l'accertamento della giurisdizione non rappresenta un mero passaggio interno della statuizione di merito, ma costituisce un capo autonomo che è pienamente capace di passare in giudicato anche nel caso in cui il giudice si sia pronunciato solo implicitamente sul punto". 10.2. - Il diritto vivente formatosi sull'art. 37 c.p.c., è stato recepito dal codice del processo amministrativo. Ai sensi dell'art. 9, "Il difetto di giurisdizione è rilevato in primo grado anche d'ufficio. Nei giudizi di impugnazione è rilevato se dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronuncia impugnata che, in modo implicito o esplicito, ha statuito sulla giurisdizione". Una previsione di contenuto identico è dettata dall'art. 15 del codice di giustizia contabile, approvato con il D.Lgs. 26 agosto 2016, n. 174 : "Il difetto di giurisdizione è rilevato in primo grado anche d'ufficio. Nei giudizi di impugnazione, il difetto di giurisdizione è rile- 136 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 vato se dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronuncia impugnata che, in modo implicito o esplicito, ha statuito sulla giurisdizione". 10.3. - Tanto l'elaborazione giurisprudenziale formatasi sull'art. 37 cod. proc. civ. quanto la lettera dell'art. 9 cod. proc. amm. e dell'art. 15 cod. giust. cont. qualificano in termini di "capo" la statuizione sulla giurisdizione contenuta nella sentenza di primo grado che decide il merito della causa. Si tratta di un aspetto non nuovo nel processo civile, ma che presenta elementi di continuità con l'esperienza delle sentenze non definite su questioni, nelle quali come la dottrina non ha mancato di rilevare - è isolabile una singola questione come contenuto di pronuncia: in esse, infatti, il "capo" non è corrispondente ad una domanda, ma si identifica, appunto, nella soluzione di una questione. 10.4. - Il "capo" sulla sussistenza della giurisdizione che accompagna la decisione sul merito è non solo suscettibile di giudicato interno in mancanza di un'apposita attività di parte rivolta a denunciare con specifico motivo di gravame la carenza di giurisdizione. Esso si presenta altresì come termine di riferimento da cui desumere una soccombenza sulla questione di giurisdizione autonoma rispetto alla soccombenza sul merito. È significativo al riguardo, ancora una volta, il confronto con la disciplina dell'appello contro le sentenze parziali, dove il codice di procedura civile (art. 340), nel fare riferimento alla "parte soccombente", correla il dato attributivo di questa definizione, nell'ipotesi delle sentenze previste dal n. 4 del secondo comma dell'art. 279, proprio alla soluzione di una questione. Di fronte ad una sentenza di rigetto della domanda non è ravvisabile una soccombenza dell'attore anche sulla questione di giurisdizione: rispetto al "capo" relativo alla giurisdizione egli va considerato a tutti gli effetti vincitore, avendo il giudice riconosciuto la sussistenza del proprio dovere di decidere il merito della causa, così come implicitamente o esplicitamente sostenuto dallo stesso attore, che a quel giudice si è rivolto, con l'atto introduttivo della controversia, per chiedere una risposta al suo bisogno individuale di tutela. L'attore non è pertanto legittimato a contestare il capo sulla giurisdizione e a sostenere che la potestas iudicandi spetta ad un giudice diverso, appartenente ad un altro plesso giurisdizionale: relativamente ad una tale pronuncia a contenuto processuale di segno positivo, non è configurabile, per l'attore, soccombenza, che del potere di impugnativa rappresenta l'antecedente necessario; la soccombenza nel merito non può essere trasferita sul (e utilizzata per censurare il) diverso capo costituito dalla definizione endoprocessuale della questione di giurisdizione, trattandosi di aspetto non destinato, per sua natura, a differenza di ciò che avviene con riguardo ad altre questioni pregiudiziali di rito, a condizionare l'efficacia e l'utilità stessa della decisione adottata. Rispetto al capo sulla giurisdizione che accompagna la statuizione di rigetto nel merito della domanda è configurabile esclusivamente la soccombenza del convenuto, sempre che a sua volta non abbia chiesto al giudice di dichiararsi munito di giurisdizione. Il vincitore pratico della causa, se non ha interesse a impugnare per primo sul capo della giurisdizione, perchè il passaggio in giudicato della statuizione di rigetto gli assicura una utilità maggiore di quella che potrebbe ottenere dalla declinatoria di giurisdizione, ha tuttavia interesse ad impugnare dopo e per effetto della impugnazione principale sul merito da parte del soccombente pratico e così in via incidentale per il caso di suo accoglimento (Cass., Sez. U., 6 marzo 2009, n. 5456). 11. - La soluzione della inammissibilità dell'appello proposto dall'attore soccombente nel merito il quale sostenga che la sentenza è stata emanata da un giudice privo di giurisdizione, non si pone in contrasto con la garanzia del giudice naturale precostituito per legge o in contraddizione con l'attinenza del riparto di giurisdizione all'ordine pubblico processuale. CONTENZIOSO NAZIONALE 137 Infatti, il valore costituzionale del giudice precostituito per legge è presidiato dall'obbligo del giudice di procedere d'ufficio in primo grado alla verifica della potestas iudicandi e va bilanciato con quello dell'ordine e della speditezza del processo. Pertanto, la quaestio iurisdictionis ben può non solo trovare anticipata soluzione endoprocessuale, ma anche conoscere una preclusione alla possibilità della relativa deduzione in appello ad opera di chi, avendo adito il giudice appartenente a quel dato plesso giurisdizionale, non è soccombente al riguardo. D'altra parte, come è stato osservato in dottrina, il corretto riparto di giurisdizione, pur di interesse superindividuale, "non esprime più un valore processuale assolutamente imperativo, da garantire... a pena di veder nascere una sentenza inutiliter data"; e ciò a differenza di quanto avviene con riferimento ad altre questioni processuali "fondanti", le quali non si possono considerare implicitamente risolte, e sono soggette alla verifica dei giudici delle impugnazioni, perchè servono a salvaguardare l'ordinamento dal disvalore "di sistema" costituito dall'emissione di sentenze instabili (così Cass., Sez. U., 4 marzo 2016, n. 4248). 11.1. - E neppure appare decisiva l'obiezione circa la disarmonia sistematica che deriverebbe dal fatto che l'art. 41 c.p.c. (cui l'art. 10 cod. proc. amm. e l'art. 16 cod. giust. cont. rinviano) consente a ciascuna parte, e quindi anche all'attore, di rivolgersi alle Sezioni Unite della Corte di cassazione per chiedere il regolamento preventivo di giurisdizione, quantunque nè il convenuto nè il giudice abbiano sollevato la relativa questione. Infatti, la preclusione riguarda l'appello per difetto di giurisdizione proposto dall'attore dopo che il giudice ha deciso la causa nel merito: concerne, quindi, un rimedio impugnatorio rivolto a fare pronunciare una sentenza endoprocessuale di difetto di giurisdizione e così senza effetto di sbarramento alla riproposizione della domanda dinanzi ad un diverso giudice (al giudice ordinario anzichè al giudice amministrativo inizialmente adito, o viceversa). Il regolamento preventivo di giurisdizione, invece, è un rimedio non impugnatorio diretto ad una pronuncia con efficacia panprocessuale. Possono pertanto ben coesistere la facoltà, anche per l'attore, di accedere al giudice regolatore della giurisdizione finchè la causa non sia decisa nel merito dal giudice adito, e la preclusione a interporre appello con un motivo di difetto di giurisdizione per chi ha promosso la controversia dinanzi ad un giudice e dallo stesso ha ricevuto un esame nel merito della domanda di tutela giurisdizionale. L'una via (il regolamento preventivo) è consentita in ragione della posizione istituzionale della Suprema Corte, della forza esterna della sua pronuncia e dello specifico impatto che essa esercita sulla ragionevole durata del processo: una possibilità, d'altra parte, che all'attore è data non ad libitum, ma solo in presenza di ragionevoli dubbi sui limiti esterni della giurisdizione del giudice adito, quindi di un interesse concreto ed immediato ad una risoluzione della quaestio da parte delle Sezioni Unite, in via definitiva ed immodificabile, onde evitare che la sua risoluzione in sede di merito possa incorrere in successive modifiche nel corso del giudizio, ritardando la definizione della causa, anche al fine di ottenere un giusto processo di durata ragionevole (Cass., Sez. U., 21 settembre 2006, n. 20504; Cass., Sez. U., 27 gennaio 2011, n. 1876; Cass., Sez. U., 12 luglio 2011, n. 15237; Cass., Sez. U., 16 dicembre 2013, n. 27990; Cass., Sez. U., 2 febbraio 2016, n. 1918). L'altra via (l'appello per difetto di giurisdizione) è preclusa perchè l'ordinamento processuale non consente all'attore, una volta che la causa sia stata decisa nel merito, la contraddittorietà rispetto all'originaria scelta di giurisdizione, e gli impedisce, attraverso la dichiarazione di inammissibilità del motivo di giurisdizione sollevato con il gravame (al netto, quindi, di eventuali concorrenti motivi di merito), di conseguire l'utilità discendente dal ripensamento 138 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 secundum eventum. Una soluzione preclusiva, questa, che appare in linea con la considerazione della giurisdizione come risorsa a disposizione della collettività, che proprio per tale ragione deve essere impiegata in maniera razionale, sì da preservare la possibilità di consentirne l'utilizzo anche alle parti nelle altre cause pendenti e agli utenti che in futuro indirizzeranno le loro controversie alla cognizione del giudice statale. 12. - Va pertanto affermato il seguente principio di diritto; "L'attore che abbia incardinato la causa dinanzi ad un giudice e sia rimasto soccombente nel merito non è legittimato a interporre appello contro la sentenza per denunciare il difetto di giurisdizione del giudice da lui prescelto". 13. - È pertanto corretta la decisione del Consiglio di Stato di non dare ingresso alla censura con cui gli appellanti A.F. e G. si sono doluti del mancato rilievo, da parte del Tribunale regionale di giustizia amministrativa, della carenza di giurisdizione del giudice amministrativo. Resta assorbito l'esame della censura sul fondo della questione di giurisdizione. 14. - Il ricorso è rigettato. La complessità della questione trattata giustifica l'integrale compensazione tra le parti delle spese del giudizio di cassazione. 15. - Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è respinto, sussistono le condizioni per dare atto ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto l'art. 13, comma 1 quater, del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 - della sussistenza dell'obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione integralmente rigettata. PER QUESTI MOTIVI La Corte rigetta il ricorso e dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del giudizio di cassazione. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, dell’11 ottobre 2016. CONTENZIOSO NAZIONALE 139 La liquidazione delle astreintes e le ragioni ostative ex art. 114 c.p.a. alla luce della legge di stabilità per il 2016 NOTA A CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, SENTENZA 13 APRILE 2016 N. 1444 Claudio Tricò* SOMMARIO: 1. Il caso di specie e le problematiche affrontate dal Consiglio di Stato - 2. L’istituto delle astreintes ex art. 114 c.p.a.: ratio, archetipi e disciplina - 3. L’applicabilità dell’istituto alle sentenze di condanna pecuniaria - 4. I termini di decorrenza, le ragioni ostative e la quantificazione delle astreintes nella pronuncia in esame. 1. Il caso di specie e le problematiche affrontate dal Consiglio di Stato. Con la sentenza oggetto del presente commento, il Consiglio di Stato è tornato a occuparsi della definizione di taluni aspetti problematici della disciplina delle astreintes di cui all’art. 114, comma quarto, lettera e), del Codice del processo amministrativo. In particolare, il Giudice amministrativo, ponendosi nella scia della sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 15 del 2014 - la quale si è espressa direttamente sul tema dell’operatività dell’istituto rispetto all’inadempimento di obbligazioni fungibili della P.A., nonché incidentalmente sul tema della natura sanzionatoria delle cc.dd. penalità di mora - ha preso posizione sulla questione inerente la corretta liquidazione delle astreintes e sull’eventuale rilevanza ostativa delle ristrettezze finanziarie e di bilancio delle amministrazioni inadempienti, alla luce delle novità introdotte con la legge di stabilità per il 2016 (1). Tali riflessioni, consolidatesi in talune successive pronunce del Consiglio di Stato (2), hanno tratto spunto da una fattispecie concreta (tristemente) comune, la quale vedeva un privato adire il giudice dell’ottemperanza al fine di ottenere l’esecuzione di una sentenza che aveva condannato il Ministero della Giustizia a corrispondere un importo, pur modesto, a titolo di equa riparazione per l’irragionevole durata di un precedente processo. Alla luce dell’inadempimento dell’amministrazione, il Tribunale regionale accoglieva il ricorso di parte attorea, condannando il Ministero a dare esecuzione alla decisione e a pagare una somma di denaro, a titolo di penalità di mora, a far data dell’atto introduttivo del giudizio di ottemperanza, nominando fin da subito un commissario ad acta per reagire all’eventuale protrarsi dell’inerzia del debitore. (*) Dottore in Giurisprudenza, specializzato nelle Professioni Legali, già tirocinante presso la Corte di Cassazione. (1) V. la Legge n. 208 del 28 dicembre 2015. (2) V. Cons. St., sez. IV, 17 ottobre 2016, n. 4269; Cons. St., sez. IV, 18 ottobre 2016, n. 4322. Entrambe disponibili su www.dejure.it. 140 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Il Ministero proponeva pertanto appello dinanzi al Consiglio di Stato, deducendo in primis la mancanza dei presupposti per la condanna al pagamento delle astreintes, affermando che la limitatezza delle risorse disponibili, ai sensi dell’art. 3, comma 7, della Legge n. 89 del 2001, costituirebbe una “ragione ostativa” all’adozione delle stesse, nonché, in via subordinata, l’illegittimità del termine di decorrenza delle penalità di mora, fissato in un momento antecedente alla pronuncia sull’ottemperanza. Il Giudice adito ha ritenuto parzialmente fondata l’impugnazione, sulla base di una serie di argomentazioni la cui analisi presuppone una breve ricognizione dell’istituto in esame. 2. L’istituto delle astreintes ex art. 114 c.p.a.: ratio, archetipi e disciplina. Ai sensi dell’art. 114 del D.Lgs. n. 104 del 2010, meglio noto con il nome di “Codice del processo amministrativo”, il giudice, accogliendo il ricorso per ottemperanza avverso l’inadempimento dell’amministrazione, può fissare, salvo che ciò non appaia manifestamente iniquo e che non sussistano particolari ragioni ostative, una somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ulteriore ritardo nell’esecuzione del giudicato. La possibilità di adottare tale misura, pur condizionata dalla proposizione di un’istanza di parte, riflette la rinnovata fisionomia del giudizio amministrativo, volto a garantire una tutela piena ed esaustiva delle ragioni del privato, anche nel caso in cui l’inadempimento dell’amministrazione si protragga oltre il giudizio di ottemperanza (3). Il fondamento assiologico dell’istituto, difatti, si rinviene agevolmente nell’art. 24 della Costituzione, posto a garanzia del diritto di difesa del singolo, ma anche nell’art. 1 dello stesso c.p.a., il quale afferma il principio dell’effettività e della pienezza della tutela amministrativa, in conformità ai principi costituzionali e del diritto europeo (4). Proprio in tale prospettiva, d’altronde, appare evidente che la ratio della misura in esame può rinvenirsi anche nell’esigenza di garantire il principio della ragionevole durata del processo, come declinato a livello sovranazionale. L’adozione delle penalità di mora, difatti, persegue l’intento di ostacolare il diffondersi del fenomeno della speculazione sui tempi processuali, in ragione dei quali conveniva all’amministrazione debitrice persistere nella propria inadempienza, confidando che il desiderio di giustizia del creditore venisse fiaccato dalle tempistiche e dagli oneri della tutela giudiziale (5). (3) Sulla fisionomia evolutiva del giudizio di ottemperanza, ma ancor prima dell’ordinamento amministrativo in generale, v. F. CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2014, passim. (4) D. TOMASSETTI, L’astreinte nel processo amministrativo: natura, ambito oggettivo, portata e limiti alla luce della più recente giurisprudenza, in Gazz. Amm., 1, 2012, p. 1. CONTENZIOSO NAZIONALE 141 Tale obiettivo aveva reso necessario un ampliamento degli strumenti a tutela del privato, il quale poteva, tradizionalmente, usufruire di una gamma di rimedi esclusivamente surrogatori - quale l’adozione del provvedimento amministrativo da parte dello stesso giudice o la nomina di un commissario ad acta - comunque inadeguati a soddisfare le sue esigenze di tutela in tutti quei casi in cui il giudicato non fosse stato agevolmente eseguibile dal terzo, chiamato a sostituirsi all’amministrazione inadempiente (6). Il legislatore, pertanto, nel disciplinare in via unitaria il processo amministrativo, ha delineato un sistema efficace e articolato di rimedi, non più ispirato a un modello esclusivamente surrogatorio, bensì anche compulsorio, prevedendo la possibilità del giudice di coartare l’adempimento dell’amministrazione recalcitrante attraverso strumenti di pressione psicologica e pecuniaria, quale la previsione di una somma da pagare periodicamente in favore del debitore, al perpetrarsi dell’inadempimento o per ogni successiva violazione del giudicato (7). Secondo la definizione oggi prevalente, le penalità di mora rappresentano una misura coercitiva indiretta a carattere pecuniario, e cioè una sanzione civile, da non confondersi con le diverse figure dei “punitive damages” o delle pene private, con cui l’ordinamento mira a vincere la resistenza dell’amministrazione debitrice, colpendo ogni ulteriore ritardo nell’adempimento della sentenza di merito. Gli archetipi della misura di cui all’art. 114 c.p.a. possono essere rinvenuti, mediante un approccio comparativistico, nel modello originale delle astreintes francesi, seppur rimedi simili, con talune modulazioni diverse, possono rilevarsi tanto nell’ordinamento tedesco, nella figura delle Zwangsgeld, quanto nell’ordinamento inglese, nell’istituto del Contempt of Court (8). Per quanto riguarda invece l’ordinamento nazionale, lo strumento delle penalità di mora ha trovato una prima storica introduzione nel sistema processualistico civile, e in particolar modo nella disciplina dell’esecuzione forzata, laddove il legislatore, per mezzo dell’art. 614-bis c.p.c., ha inteso potenziare gli strumenti di attuazione giudiziale degli obblighi di fare infungibile o di non fare (9). (5) Così A. CASTORINA, L’astreinte nel processo amministrativo fra effettività della tutela e buon andamento dell’amministrazione, in Federalismi.it, 15 luglio 2015, p. 18; F. CORTESE, Sull’obbligo di pagare una somma di denaro ex art. 114, c. 4, lett. e, c.p.a.: natura giuridica e regime applicativo, in Resp. civ. prev., 2, 2014, p. 657. (6) Così, F. CORTESE, ibidem. (7) Sulla differenza tra rimedi surrogatori e rimedi compulsori, v. F. BUSCICCHIO, Le astreintes nel processo amministrativo, in Giur. merito, 11, 2012, pp. 2246 ss. (8) Per un’analisi approfondita delle differenze intercorrenti tra gli istituti citati, nonché della disciplina delle figure affini previste nell’ordinamento europeo, v. A. CASTORINA, L’astreinte nel processo amministrativo, cit., pp. 1 ss. (9) Introducendo così nel campo del diritto civile uno strumento atto a condividere la funzione dissuasiva-repressiva fino a quel momento riservata al diritto penale. Così A. CASTORINA, ibidem, p. 2. 142 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 I profili differenziali intercorrenti tra le astreintes di cui all’art. 114 c.c.p. e l’omologo istituto previsto in ambito civilistico sono molteplici e di significativa rilevanza, tanto da aver spinto la dottrina a parlare di un istituto unico, ma “a velocità doppia” (10). In primo luogo, la giurisprudenza ha evidenziato che mentre la sanzione di cui all’art. 614-bis c.p.c. è adottata dal giudice di merito con una sentenza che definisce il giudizio di merito, e che pertanto è destinata a trovare esecuzione solo nel caso di un futuro inadempimento del debitore, invece la penalità irrogata dal giudice amministrativo, essendo adottata al termine del giudizio di ottemperanza, può avere immediata esecuzione, essendo stato già accertato l’inadempimento dell’amministrazione. Deve tuttavia rilevarsi che l’orientamento dottrinale oggi prevalente tende ad ammettere l’applicabilità delle astreintes anche in fase di cognizione, deducendo ciò dal combinato disposto dell’art. 7, comma 7, c.p.a., il quale afferma il principio della concentrazione delle tutele dinanzi al giudice amministrativo, e dell’art. 34, comma primo, lettera e), c.p.a., in cui il riferimento alla nomina di un commissario ad acta deve ritenersi esclusivamente esemplificativo e tale da comprendere le ulteriori misure adottabili dal giudice dell’ottemperanza (11). In secondo luogo, un’ulteriore differenza emerge sin dal tenore letterale delle due norme, in quanto il solo art. 114 c.p.a. prevede l’ulteriore presupposto della non ricorrenza di “ragioni ostative”, in aggiunta al limite negativo della manifesta iniquità, quale riflesso delle peculiarità che contraddistinguono il debitore pubblico, soprattutto sotto il profilo finanziario. È stato infine evidenziato che il codice del processo amministrativo, nel disciplinare le penalità di mora, non solo non ha riprodotto i criteri previsti dall’art. 614-bis c.p.c. per la liquidazione delle astreintes, ma ha allo stesso tempo eliso il limite dell’applicabilità dello strumento al solo caso dell’inadempimento di un obbligo di non fare o di facere infungibile, attribuendo pertanto allo stesso, quantomeno sul piano formale, un campo applicativo più ampio rispetto a quello del corrispondente istituto civilistico. 3. L’applicabilità dell’istituto alle sentenze di condanna pecuniaria. Le differenze da ultimo indicate assumono particolare rilevanza in relazione alle problematiche dell’individuazione della natura risarcitoria o sanzionatoria delle astreintes amministrative, nonché dell’applicabilità delle medesime nei casi in cui, in sede di ottemperanza, sia richiesta l’esecuzione di un titolo giudiziario avente a oggetto il pagamento di una somma di denaro, e cioè un dare pecuniario dell’amministrazione. In particolare, l’assenza nell’art. 114 c.p.a. di un chiaro riferimento alla (10) S. FOÀ, A. UBALDI, L’emancipazione dell’astreinte amministrativa: un modello sui generis?, in Resp. civ. prev., 1, 2015, pp. 8 ss. CONTENZIOSO NAZIONALE 143 categoria degli obblighi di non facere o di facere infungibile lasciava aperta la questione dell’operatività dell’istituto nelle ipotesi di inottemperanza a una sentenza di condanna pecuniaria (12). Sul punto, a un orientamento pressappoco uniforme della dottrina, per lo più favorevole a un’interpretazione estensiva della norma (13), faceva da contraltare una giurisprudenza altalenante del giudice amministrativo, caratterizzata da talune pronunce di segno contrario (14). L’opinione tuttavia prevalente ammetteva l’applicazione delle penalità di mora anche in riferimento all’esecuzione di un obbligo di dare pecuniario, evidenziando, al di là del peculiare tenore letterale della norma, che tale scelta sarebbe stata coerente con la particolare fisionomia del giudizio di ottemperanza, rientrante nell’ambito della giurisdizione di merito del giudice amministrativo, cui è possibile in tale sede sostituirsi in via diretta o indiretta all’amministrazione inadempiente, a prescindere dall’oggetto della sentenza rimasta inadempiuta. Detto altrimenti, cioè, nell’ambito del processo amministrativo non si presenterebbe quell’ostacolo tipico del diritto processuale civile, consistente nella non surrogabilità degli atti necessari ad assicurare l’esecuzione di sentenze aventi a oggetto un non fare o un fare infungibile dell’amministrazione. Inoltre, tale soluzione ermeneutica era ritenuta più coerente rispetto alla natura sanzionatoria, e non meramente risarcitoria, delle penalità di mora, deducibile in primis dal mancato richiamo, nel testo dell’art. 114 c.p.a., dei parametri di liquidazione delle astreintes tipizzati nell’art. 614-bis c.p.c., e in particolare del riferimento alla misura del danno quantificato o prevedibile del creditore. Inoltre, guardando alle origini oltralpine dell’istituto, si riteneva di poterne riconoscere la finalità sanzionatoria in quanto diretto a sanzionare la disobbedienza alla statuizione giudiziaria, e non a riparare il pregiudizio cagionato dall’inadempimento del debitore. Sul versante opposto, l’orientamento giurisprudenziale di segno contrario dava risposta negativa alla questione, deducendo che la ratio dell’istituto do- (11) S. FOÀ, A. UBALDI, ibidem; F. BUSCICCHIO, Le astreintes nel processo amministrativo, cit., pp. 2446 ss.; F. CORTESE, Sull’obbligo di pagamento di una somma di denaro, cit., pp. 657 ss. (12) Sulla problematica in esame, inter alios, v. L. VIOLA, Ancora sulla pretesa incompatibilità tra astreintes ed esecuzione delle sentenze in materia di obbligazioni pecuniarie della P.A., in Foro amm., 2, 2013, pp. 528 ss.; C. APOSTOLO, Strumento di induzione indiretta all'esecuzione e loro applicabilità o meno agli inadempimenti progressi, disponibile su www.neldiritto.it; F. CORTESE, Sull’obbligo di pagare una somma di denaro, cit., pp. 657 ss.; S. FOÀ, A. UBALDI, L’emancipazione dell’astreinte amministrativa, cit., pp. 8 ss.; R. GALLI, Nuovo corso di diritto amministrativo, Vicenza, 2016, pp. 1698 ss. (13) Contra, v. TOMASSETTI, L’astreinte nel processo amministrativo, cit., p. 3. (14) In senso favorevole, v., inter alios, Cons. St., sez. IV, 29 gennaio 2014, n. 462; Cons. St., sez. V, 15 luglio 2013, n. 3781; Cons. St., sez. V, 19 giugno 2013, nn. 3339, 3340, 3341, 3342. In senso contrario, v., ad esempio, Cons. St., sez. IV, 13 giugno 2013, n. 3293; Cons. St., sez. III, 6 dicembre 2013, 5819. Tutte reperibili su www.dejure.it. 144 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 vesse riconoscersi nell’esigenza di incentivare l’esecuzione delle condanne di fare o non fare infungibile prima dell’intervento di un eventuale commissario ad acta, soluzione maggiormente onerosa tanto per l’amministrazione inadempiente quanto per il creditore. Se ne faceva pertanto derivare l’impossibilità di integrare il classico modello dell’esecuzione surrogatoria con strumenti di natura compulsoria, affermando che una soluzione di segno opposto avrebbe finito per attribuire al privato la possibilità di tutelare il proprio credito con rimedi di diversa intensità, sulla base della scelta, puramente potestativa, di far valere le proprie ragioni dinanzi al giudice civile o amministrativo. Inoltre, la condanna dell’amministrazione al pagamento di una penalità di mora sarebbe apparsa del tutto iniqua, laddove volta a incentivare l’esecuzione di una sentenza di condanna pecuniaria, in quanto destinata a cumularsi con l’obbligo accessorio degli interessi legali di cui all’art. 1224 c.c. Si evidenziava, in particolare, che il combinato operare dei due istituti avrebbe realizzato una duplicazione ingiustificata delle misure volte a ridurre il pregiudizio derivante all’interessato dalla violazione, dal ritardo o dall’inosservanza nell’esecuzione del giudicato, producendo, di conseguenza, un altrettanto ingiustificato arricchimento del creditore (15). Tra le due opposte concezioni, la dottrina aveva rilevato la presenza di una posizione intermedia, radicata nell’ermeneutica del sistema processual-civilistico, la quale vorrebbe ricondurre a unità le due forme delle astreintes nazionali, declinando il concetto di “prestazione infungibile” nel senso di “prestazione particolarmente complessa”. In tal senso, le penalità suddette sarebbero applicabili nel solo caso in cui la particolare complessità dell’esecuzione rendesse conveniente l’adozione di un rimedio di natura compulsoria e non surrogatoria, a prescindere dall’oggetto specifico dell’obbligazione inadempiuta. È tuttavia evidente che una soluzione di tal genere, al di là della forzatura del tenore letterale delle norme, verrebbe a comprimere significativamente l’ambito applicativo delle misure, sortendo l’effetto di snaturarne la stessa finalità sanzionatoria (16). Nel contesto di un dibattito giuridico così vivace, ha trovato infine voce l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 15 del 2014, la quale ha aderito all’orientamento giurisprudenziale e dottrinale prevalente, ammettendo l’operatività dell’istituto delle astreintes per tutte le sentenze di condanna adottate dal giudice amministrativo ai sensi dell’art. 112 c.p.a., comprese quelle aventi ad oggetto prestazioni pecuniarie (17). (15) In tal senso, v. Cons. St., sez. III, 6 dicembre 2013, n. 5819, disponibile su www.dejure.it. (16) Così S. FOÀ, A. UBALDI, L’emancipazione dell’astreinte amministrativa, cit., pp. 8 ss. (17) Sulla quale v. S. FOÀ, A. UBALDI, ibidem; A. CASTORINA, L’astreinte nel processo amministrativo, cit., pp. 28 ss.; F. CARINGELLA, L. TARANTINO, Lezioni e sentenze di diritto amministrativo, Roma, 2016, pp. 522 ss. CONTENZIOSO NAZIONALE 145 A tal proposito, il Supremo consesso amministrativo, ha rafforzato le considerazioni precedentemente emerse nella giurisprudenza, riconoscendo che il particolare favor dimostrato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nei confronti del principio dell’effettività delle decisioni giurisdizionali, alla luce della confermata natura sanzionatoria delle penalità di mora, spinge verso la più ampia applicazione possibile dell’istituto, il quale non può conoscere limiti strutturali in ragione della sola natura della condotta imposta dallo iussum iudicis. Tale soluzione, peraltro, trova conferma nel tenore letterale dell’art. 114 c.p.a. e non può essere smontata mediante un’applicazione analogica, ovviamente in malam partem, dei limiti indicati dall’art. 614-bis c.p.c., il quale è diretto a operare in un humus processuale del tutto diverso da quello amministrativo, nel quale la previsione di uno strumento compulsorio risponde all’esigenza di eludere i limiti derivanti dall’ineseguibilità in forma specifica delle pronunce aventi a oggetto un non fare o un facere infungibile. Riguardo al giudizio di ottemperanza, diversamente, l’istituto delle astreintes opera in un sistema processuale nel quale tutte le prestazioni sono surrogabili dal giudice, in via diretta o indiretta, per cui non sembrerebbe potersi ritenere che l’introduzione della misura coercitiva possa aver risposto all’esigenza di reagire all’inattuabilità in re di una particolare categoria di pronunce giudiziali. Né un rilievo decisorio può essere attribuito ai lavori preparatori del Codice del processo amministrativo, laddove il riferimento all’art. 614-bis c.p.c. deve essere inteso esclusivamente come richiamo alla fisionomia generale dell’istituto, e non piuttosto alla sua disciplina puntuale. Inoltre, sul piano costituzionale, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha rilevato che la soluzione ermeneutica più estensiva, peraltro funzionale alla garanzia dell’effettività e della pienezza del diritto di difesa ex art. 24 Cost., non potrebbe in alcun modo comportare una discriminazione a discapito del debitore pubblico, soggetto a tecniche di esecuzione differenziate e più incisive rispetto a quelle operanti nei confronti del debitore privato. Tale differenziazione, difatti, è il riflesso dei principi sottesi all’agere amministrativo, il quale deve conformarsi ai canoni costituzionali dell’imparzialità, della buona amministrazione e della legalità, i quali rendono particolarmente grave e deprecabile l’inosservanza, da parte del soggetto pubblico, dei precetti giudiziali. Allo stesso modo, infine, rileva l’Adunanza, nessun valore ostativo sembrerebbe potersi attribuire all’argomento equitativo in base al quale la comminazione delle penalità di mora rispetto all’inadempimento di una condanna pecuniaria produrrebbe un’inammissibile duplicazione del risarcimento in favore del creditore, già soddisfatto dall’automatico maturare degli interessi legali. Difatti tale rischio sembra essere scongiurato dalla considerata funzione coercitivo-sanzionatoria e non riparatoria delle astreintes, le quali non assol- 146 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 vono la funzione di compensare il danno subito dal creditore, ma piuttosto quella di incentivare, secondo un meccanismo di coazione indiretta, l’adempimento del debitore. Conseguenza di ciò, data la natura di pena delle sanzioni, è che quest’ultime possono essere adottate anche in mancanza di un danno effettivo o della sua dimostrazione, non dovendo peraltro essere detratte dalle eventuali somme liquidate a titolo di risarcimento in favore del creditore. 4. I termini di decorrenza, le “ragioni ostative” e la quantificazione delle astreintes nella pronuncia in esame. L’orientamento abbracciato dall’Adunanza Plenaria ha infine ricevuto un vigoroso endorsement dal legislatore, che con la legge di stabilità per il 2016, in sede di riforma dell’art. 114, comma quarto, lettera e), c.p.a., ha ivi introdotto un secondo periodo, a detta del quale “nei giudizi di ottemperanza aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro, la penalità di mora […] decorre dal giorno della comunicazione o notificazione dell'ordine di pagamento disposto nella sentenza di ottemperanza; detta penalità non può considerarsi manifestamente iniqua quando è stabilita in misura pari agli interessi legali”. La nuova norma prende dunque posizione non solo sul tema dell’applicabilità delle astreintes rispetto alle condanne pecuniarie dell’amministrazione, ma anche su profili più specifici, quali i termini di decorrenza delle medesime e la loro corretta quantificazione. Tali aspetti sono oggetto di specifica attenzione della sentenza n. 1444 del 2016 del Consiglio di Stato, il quale muove le proprie riflessioni a partire dalla costatazione della natura sanzionatoria, e non meramente risarcitoria, delle penalità di mora, giungendo a soluzioni la cui coerenza si riflette nell’aderenza alle nuove disposizioni introdotte dal legislatore. In particolare, accogliendo le censure mosse dall’amministrazione inadempiente, il Giudice amministrativo ha affermato che le astreintes di cui all’art. 114 c.p.a. non possono che decorrere dalla comunicazione o dalla notificazione della sentenza di ottemperanza che dispone il pagamento, e non da un qualsiasi momento anteriore. A tal proposito, si richiama peraltro un orientamento ancor più restrittivo della Sezione, secondo cui il decorrere delle stesse potrebbe verificarsi solo una volta scaduto il termine accordato dal giudice all’amministrazione affinché quest’ultima adempia. La ragione di ciò, come anticipato, si rinviene nell’ormai consolidata natura sanzionatoria e coercitiva delle misure in questione, il cui scopo non è quello di compensare il creditore dei danni che siano conseguenza diretta e immediata dell’inerzia del debitore, quanto piuttosto di costringere quest’ultimo a dare esecuzione alla sentenza adottata ai sensi dell’art. 112 c.p.a., a prescindere dall’oggetto della stessa, al fine di evitare l’accumularsi di sanzioni pecuniarie a proprio carico. CONTENZIOSO NAZIONALE 147 La qualificazione delle astreintes come pene, pur incerta, a volte, nelle espressioni utilizzate dal Consiglio, incide significativamente anche sul piano della quantificazione delle somme spettanti al creditore per ogni ulteriore ritardo o violazione del debitore. A detta del Collegio, difatti, “la penalità di mora non deve risolversi in una ragione di ingiustificato arricchimento per il creditore”, per cui deve reputarsi eccessivo e contrario al principio di equità il parametro scelto dal giudice de quo, il quale aveva applicato la misura, maggiormente diffusa in passato, dell’interesse semplice a un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea, aumentato di tre punti percentuali. Tale parametro viene dunque sostituito con quello dell’interesse legale, stabilito nei termini e secondo il procedimento di cui all’art. 1284 c.c. Ne deriva, in primo luogo, che l’espressione utilizzata dalla legge di stabilità, potenzialmente ambigua nella parte in cui afferma che “la penalità non può considerarsi manifestamente iniqua quando stabilita in misura pari agli interessi legali”, sembra essere interpretata dal Consiglio di Stato nel senso che la misura di cui all’art. 1284 c.c. deve intendersi, nel caso della condanna dell’amministrazione ad eseguire un obbligo pecuniario, quale “massimo edittale” delle astreintes concretamente irrogabili (18). In secondo luogo, occorre poi rilevare che il tenore letterale della pronuncia, la quale parla di evitare un ingiustificato arricchimento del creditore, sembrerebbe contraddittorio rispetto alla riconosciuta natura sollecitatoria e non risarcitoria delle penalità di mora. L’entità delle stesse, laddove si aderisca all’orientamento dell’Adunanza Plenaria, sembrerebbe poter essere difatti discussa sul solo piano dell’equità della pena rispetto al soggetto e al comportamento sanzionato, e non piuttosto in relazione al rischio di un indebito arricchimento del creditore, il quale attiene a un profilo strettamente risarcitorio e non sanzionatorio. Probabilmente, la commistione di tali profili in parte argomentativa riflette la natura ambigua dell’istituto, che, pur caratterizzato da un chiaro scopo coercitorio, continua a distinguersi per la presenza di taluni connotati tipici del rimedio risarcitorio, quale la destinazione delle somme in favore del debitore, accentuati oggi dal recente inserimento, nell’art. 114 c.p.a., del riferimento al saggio legale degli interessi (19). (18) R. GALLI, Nuovo corso di diritto amministrativo, cit., p. 1701. (19) A tal proposito, è opportuno evidenziare che la stessa sentenza n. 15 del 2014 dell’Adunanza Plenaria, pur ribadendo la natura sanzionatoria e sollecitatoria dell’istituto delle astreintes, afferma che le penalità di mora non assolvono, “quantomeno non principalmente”, a una funzione riparatoria. Inoltre, non mancano ulteriori pronunce del Consiglio di Stato che, nel silenzio del legislatore in merito ai criteri di quantificazione delle astreintes, hanno ritenuto di fare applicazione dei parametri indicati dall’art. 614-bis, tra cui l’entità del danno subito o presumibile del creditore. V. Cons. St., sez. V, 20 dicembre 2011, n. 6688; Cons. St., sez. V, 14 maggio 2012, n. 2744. Entrambi disponibili su www.dejure.it. 148 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Particolarmente rilevanti appaiono inoltre le riflessioni del Consiglio di Stato in merito alla rilevanza, quale “ragione ostativa” all’applicazione delle astreintes, delle particolari ristrettezze finanziarie delle amministrazioni inadempienti e delle limitazioni di bilancio sulle medesime gravanti. Sul punto, l’Adunanza Plenaria aveva evidenziato che “la considerazione delle peculiari condizioni del debitore pubblico, al pari di evitare […] sanzioni troppo afflittive, costituiscono fattori da valutare non ai fini di un’astratta ammissibilità della domanda relativa a inadempimenti pecuniari, ma in sede di verifica concreta della sussistenza dei presupposti per l’applicazione della misura nonché al momento dell’esercizio del potere discrezionale di graduazione dell’importo”. Proprio per tale ragione, l’art. 114, comma quarto, lettera e), c.p.a., tenendo in considerazione le peculiarità che contraddistinguono il debitore pubblico, ha ampliato il novero dei presupposti previsti dall’art. 614-bis c.p.c., introducendo l’ulteriore requisito negativo dell’assenza di “ragioni ostative”, atto a ricomprendere una serie indeterminata di circostanze, altrimenti non suscettibili di tipizzazione (20). Spetta dunque al giudice determinare, caso per caso, l’effettivo contenuto e i confini di tale formula astratta, verificando se le circostanze addotte dalle amministrazioni inadempienti possano assumere rilevanza al fine di escludere in toto l’adozione delle penalità di mora o comunque di mitigarne l’importo. Ciò premesso, il Consiglio di Stato, nel caso di specie, ha escluso che il solo riferimento alle ristrettezze economiche dell’amministrazione, pur in relazione all’art. 3, comma 7, della legge n. 89 del 2001, possa di per sé precludere in astratto l’operatività delle penalità di mora, essendo a tal fine necessaria un’ulteriore valutazione di stampo concreto, volta a verificare se tali ristrettezze configurino effettivamente una ragione ostativa all’applicazione della sanzione. In particolare, l’articolo sopracitato della Legge “Pinto” prevedeva, nel testo originariamente vigente, che l’erogazione degli indennizzi agli aventi diritto avvenisse “nei limiti delle risorse disponibili”, escludendo così, a prima apparenza, che le penalità di mora potessero essere adottate per sollecitare il pagamento dell’equa riparazione da parte di un’amministrazione che adducesse la carenza delle risorse necessarie in bilancio (21). Tuttavia, la legge di stabilità per il 2016, intervenendo sulla norma in questione, ne ha ampliato il tenore letterale, specificando che la valutazione della disponibilità delle risorse deve essere effettuata non solo guardando al relativo capitolo di bilancio, ma tenendo anche in considerazione la possibilità dell’amministrazione debitrice di ricorrere ad anticipazioni di tesoreria mediante lo strumento del “conto sospeso”. (20) F. CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, cit., p. 1873. (21) Cfr., tuttavia, A. CASTORINA, L’astreinte nel processo amministrativo, cit., p. 24. CONTENZIOSO NAZIONALE 149 Pertanto, esclusa l’esistenza di preclusioni astratte all’applicabilità dell’istituto delle astreintes, nel valutare la concreta rilevanza esimente o attenuante delle circostanze addotte dall’Avvocatura Generale, il Consiglio di Stato ha ritenuto che le stesse non potessero giustificare una totale esenzione dell’amministrazione inadempiente dalle penalità di mora. Nel dare fondamento a tale soluzione, il Giudice amministrativo ha tenuto soprattutto conto delle modifiche introdotte dalla legge di stabilità, in quanto ha ritenuto evidente che a seguito di tali innovazioni normative, e in particolar modo dell’introdotta necessità di valutare la possibilità di ricorrere al conto sospeso, “scema di molto, se addirittura non viene del tutto meno, l’effetto impeditivo al pagamento dell’equa riparazione derivante dalla momentanea incapienza del relativo capitolo di bilancio”. In materia di equa riparazione, pertanto, il riferimento alla presenza di ristrettezze finanziarie e di particolari limiti di bilancio, già di per sé inidoneo a costituire a priori una ragione ostativa ai sensi dell’art. 114 c.p.a., appare oggi anche svuotato, in buona parte, di quella potenziale rilevanza esimente che il giudice è chiamato a valutare sul piano concreto, al fine di accertare l’effettiva incidenza delle circostanze addotte dall’amministrazione a giustificazione della propria inottemperanza. Con la sentenza in esame, pertanto, il Consiglio di Stato, muovendosi nella direzione tracciata dall’Adunanza Plenaria del 2014, ha declinato la disciplina delle penalità di mora alla luce delle numerose novità legislative nel frattempo sopravvenute, adottando soluzioni ermeneutiche, per lo più aderenti al rinnovato tenore della normativa, le quali hanno trovato poi eco nella giurisprudenza amministrativa successiva (22). Consiglio di Stato, Sezione Quarta, sentenza 13 aprile 2016, n. 1444 - Pres. Griffi, Est. Castiglia - Ministero della Giustizia (avv. gen. Stato) c. I.M. (n.c.). La signora I.M. ha adito il T.A.R. del Lazio per ottenere l'esecuzione di un decreto della Corte d'appello di Roma (procedimento n. 54904/2009 R.G.) che ha condannato il Ministero della Giustizia a corrispondere l'importo di euro 1.000,00 a titolo di equa riparazione (ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89), oltre gli accessori, e a pagare le spese di lite, con gli accessori di legge, in favore del difensore dichiaratosi antistatario. Con sentenza 22 dicembre 2015, n. 14368, il Tribunale regionale ha accolto il ricorso, condannando l'Amministrazione a dare esecuzione alla decisione e a pagare una somma di denaro a norma dell'art. 114, comma 4, lett. e), c.p.a., a far data dalla notificazione dell'atto introdut- (22) V. Cons. St., sez. IV, 18 ottobre 2016, n. 4322, dove esplicita che “ferma restando l'assenza di preclusioni astratte sul piano dell'ammissibilità, in concreto le allegate difficoltà del bilancio pubblico non possono giustificare una totale esenzione dell'Amministrazione inadempiente dalle penalità di mora, vista anche l'attuale possibilità del ricorso al conto sospeso”. 150 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 tivo del giudizio di ottemperanza, nonché nominando sin d'ora un commissario ad acta nel caso di persistente inerzia. Il Ministero della Giustizia ha interposto appello contro la sentenza, chiedendone anche la sospensione dell'efficacia esecutiva. Il Ministero deduce: 1. la mancata verifica da parte del T.A.R. dei presupposti per l'irrogazione delle c.d. astreintes, tenendo conto della limitatezza delle risorse disponibili in relazione all'art. 3, comma 7, della legge n. 89 del 2011 (che costituirebbe una "ragione ostativa" alla condanna) e dell'importo irrisorio della somma dovuta (che renderebbe la condanna "manifestamente iniqua"); 2. in via subordinata, l'illegittimità della fissazione del termine a quo in un momento antecedente alla pronunzia sull'ottemperanza. La signora M. non si è costituita in giudizio per resistere all'appello. Alla camera di consiglio del 10 marzo 2016 la domanda cautelare è stata chiamata e trattenuta in decisione. Nella sussistenza dei requisiti di legge (per le parti nessuno è comparso), il Collegio ritiene di poter definire la controversia in camera di consiglio con una sentenza in forma semplificata a norma del combinato disposto degli artt. 60 e 74 c.p.a. L'appello è fondato nei sensi di cui subito si dirà. Occorre premettere che - come ha rilevato l'Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato (25 giugno 2014, n. 15, par. 6.5.1) - "la considerazione delle peculiari condizioni del debitore pubblico, al pari dell'esigenza di evitare locupletazioni eccessive o sanzioni troppo afflittive, costituiscono fattori da valutare non ai fini di un'astratta inammissibilità della domanda relativa a inadempimenti pecuniari, ma in sede di verifica concreta della sussistenza dei presupposti per l'applicazione della misura nonché al momento dell'esercizio del potere discrezionale di graduazione dell'importo. Non va sottaciuto che l'art. 114, comma 4, lett. e), c.p.a., proprio in considerazione della specialità, in questo caso favorevole, del debitore pubblico - con specifico riferimento alle difficoltà nell'adempimento collegate a vincoli normativi e di bilancio, allo stato della finanza pubblica e alla rilevanza di specifici interessi pubblici - ha aggiunto al limite negativo della manifesta iniquità, previsto nel codice di rito civile, quello, del tutto autonomo, della sussistenza di altre ragioni ostative. Ferma restando l'assenza di preclusioni astratte sul piano dell'ammissibilità, spetterà allora al giudice dell'ottemperanza, dotato di un ampio potere discrezionale sia in sede di scrutinio delle ricordate esimenti che in sede di determinazione dell'ammontare della sanzione, verificare se le circostanze addotte dal debitore pubblico assumano rilievo al fine di negare la sanzione o di mitigarne l'importo". Nel caso di specie, il Collegio - quanto al primo motivo dell'appello - è dell'avviso che le ragioni addotte dall'Avvocatura Generale non vadano oltre una generica allegazione delle ben note ristrettezze finanziarie e limitazioni di bilancio e non possano perciò giustificare una totale esenzione dell'Amministrazione inadempiente dalle penalità di mora. Ciò, anche alla luce delle modifiche introdotte dalla legge di stabilità per il 2016 nell'art. 3, comma 7, della legge n. 89 del 2001, per effetto delle quali "l'erogazione degli indennizzi agli aventi diritto avviene nei limiti delle risorse disponibili nel relativo capitolo", ma è "fatto salvo il ricorso al conto sospeso". È evidente che, a seguito di tale innovazione normativa, scema di molto, se addirittura non viene del tutto meno, l'effetto impeditivo al pagamento dell'equa riparazione derivante dalla momentanea incapienza del relativo capitolo di bilancio. CONTENZIOSO NAZIONALE 151 Al tempo stesso, poiché la penalità di mora non deve risolversi in una ragione di ingiustificato arricchimento per il creditore, il Collegio reputa eccessivo e non conforme a equità il parametro scelto dal T.A.R. (interesse semplice a un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea, aumentato di tre punti percentuali) e ritiene di doverlo sostituire con quello dell'interesse legale, peraltro ora esplicitamente indicato dall'art. 114, comma 4, lett. e), c.p.a., secondo le modifiche ancora una volta introdotte dalla legge di stabilità per il 2016. Quanto poi al secondo motivo dell'appello (decorrenza delle penalità di mora), sarà sufficiente ricordare l'indirizzo prevalente della Sezione (v. per tutte, da ultimo, 9 dicembre 2015, n. 5580), ora formalmente recepita nel nuovo testo della citata lett. e), secondo cui le astreintes, tenuto conto della loro funzione sollecitatoria e non risarcitoria, decorrono dalla comunicazione o notificazione della sentenza di ottemperanza che dispone il pagamento e non da un momento anteriore (secondo qualche decisione della Sezione, ancora più restrittiva, esse potrebbero decorrere solo una volta decorso inutilmente il termine accordato all'Amministrazione per adempiere: cfr. 21 dicembre 2015, n. 5786). In tal senso, il motivo è fondato e va dunque accolto. Dalle considerazioni che precedono discende che i due motivi dell'appello sono fondati, il primo in parte (come sopra si è detto), il secondo integralmente. Ne segue la parziale riforma della sentenza impugnata nella parte in cui ha disposto la condanna dell'Amministrazione ai sensi dell'art. 114, comma 4, lett. e), c.p.a. Le questioni appena vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell'art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante: fra le tante, per le affermazioni più risalenti, Cass. civ., sez. II, 22 marzo 1995, n. 3260, e, per quelle più recenti, Cass. civ., sez. V, 16 maggio 2012, n. 7663). Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a condurre a una conclusione di segno diverso. Quanto alle spese di giudizio, rilevato che il T.A.R. nulla ha disposto per il primo grado, quelle relative al presente grado di appello possono essere compensate fra le parti, trattandosi di questioni che hanno trovato una definitiva sistemazione solo a seguito delle ricordate, recentissime modiche legislative. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei sensi esposti in motivazione; per l'effetto, riforma parzialmente la sentenza impugnata nella parte in cui ha disposto la condanna dell'Amministrazione ai sensi dell'art. 114, comma 4, lett. e), c.p.a. Compensa fra le parti le spese del presente grado di giudizio. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO Il giudice competente e il diritto applicabile sul Programma “Iniziativa PMI” ai sensi dell’art. 39 del Regolamento (EU) n. 1303/2013 PARERE RESO IN VIA ORDINARIA DEL 30/03/2016 -153042, AL 783/2016, AVV.TI SERGIO FIORENTINO E ANGELO VITALE (Circolare Segretario Generale n. 20/2016) Codesto Ministero chiede di conoscere il parere della Scrivente in merito alla legittimità e alla opportunità di aderire alle richieste sottopostegli da parte del Fondo europeo per gli investimenti (FEI) durante la fase di negoziazione dell'accordo di finanziamento che attualmente coinvolge le predette parti. Tale accordo di finanziamento si inquadra nell'ambito del Programma Operativo in oggetto, la cui proposta è stata approvata dalla Commissione europea con decisione del 30 novembre 2015, e risponde allo scopo di favorire le piccole e medie imprese operanti nei territori del Mezzogiorno attraverso l'implementazione di un nuovo strumento finanziario consistente nella cartolarizzazione di portafogli di prestiti bancari esistenti. Con la Decisione di esecuzione del 11 settembre 2014 - relativa al modello di accordo di finanziamento per il contributo del Fondo europeo di sviluppo regionale e del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale agli strumenti finanziari congiunti di garanzia illimitata e cartolarizzazione a favore delle piccole e medie imprese - la Commissione europea ha predisposto uno schema negoziale in base al quale dovrà modellarsi l'accordo in esame, peraltro lasciando alla negoziazione delle parti la definizione di alcuni aspetti in merito ai quali si chiede il parere della Scrivente. In particolare, i quesiti posti riguardano la legge applicabile alla contrattazione in cui dovrebbe articolarsi l'accordo di finanziamento e il relativo foro competente. Si riferisce, infatti, che il FEI ha richiesto al Ministero dello Sviluppo 154 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Economico di stipulare un contratto da sottoporre al diritto lussemburghese nonché di radicare convenzionalmente la giurisdizione davanti alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea. In merito a tali richieste, codesto Ministero necessita delucidazioni circa gli eventuali limiti inerenti: a) la scelta di legge applicabile al contratto; b) il regime di controllo preventivo ex art. 3, 1 co., lett. g), 1. 20/1994; c) l'inderogabilità del foro erariale ex art. 25 c.p.c. Per quanto concerne il primo profilo è necessario effettuare un richiamo al regolamento europeo noto con il nome di «Roma I» il quale dispone sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali. Si tratta del Regolamento (CE) n. 593/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 giugno 2008 (GU L 177 del 4 luglio 2008, pagg. 6-16) che sostituisce la Convenzione di Roma del 19 giugno 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (80/934/CEE). Effettivamente, l'art. 57 della legge 31 maggio 1995, n. 218, di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato, rinvia espressamente a detta Convenzione. In particolare, il capo X della 1. 218/95 è dedicato alle obbligazioni contrattuali ed è costituito da un solo articolo, il citato art. 57, il quale così dispone: "Le obbIigazioni contrattuali sono in ogni caso regolate dalla Convenzione di Roma del 19 giugno 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, resa esecutiva con la legge 18 dicembre 1984, n. 975, senza pregiudizio delle altre convenzioni internazionali, in quanto applicabili". Come già rilevato, la Convenzione di Roma del 1980 è stata sostituita dal Regolamento (CE) n. 593/2008, dunque è a quest'ultimo che dovrà aversi riguardo. Secondo detto Regolamento le parti di un contratto possono scegliere la legge applicabile a esso ed anche solo a una parte di esso. Inoltre, qualora vi sia il consenso di tutte le parti, la legge applicabile può essere modificata in qualsiasi momento. Il Considerando 11 del Regolamento Roma I prevede infatti che "La libertà delle parti di scegliere la legge applicabile dovrebbe costituire una delle pietre angolari del sistema delle regole di conflitto di leggi in materia di obbligazioni contrattualì". La rubrica dell'articolo 3 del Regolamento (CE) n. 593/2008 fa riferimento proprio alla "Libertà di scelta". Basti menzionare il comma I secondo il quale "Il contratto è disciplinato dalla legge scelta dalle parti. La scelta è espressa o risulta chiaramente dalle disposizioni del contratto o dalle circostanze del caso. Le parti possono designare la legge applicabile a tutto il contratto ovvero a una parte soltanto di esso". Inoltre, l'ambito della legge applicabile, di cui all'art. 12 reg. (CE) PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 155 593/2008, include l’interpretazione del contratto, l’esecuzione delle obbligazioni che ne discendono e le conseguenze del loro inadempimento, i modi di estinzione delle obbligazioni nonché le prescrizioni e decadenze e le conseguenze della nullità del contratto. Serve altresì ricordare l'esclusione del rinvio disposta dal successivo articolo 20 secondo il quale l'applicazione della legge di un paese si riferisce all'applicazione delle norme giuridiche in vigore in quel paese, ad esclusione delle norme di diritto internazionale privato. Il Regolamento Roma I, così come già la precedente Convenzione, pone il limite dell'ordine pubblico nazionale (art. 21) per cui quando l'applicazione di una norma della legge scelta risulti manifestamente incompatibile con esso questa potrà essere esclusa. Lo strumento comunitario in esame lascia altresì impregiudicate le norme del diritto dell'Unione europea che, con riferimento a settori specifici, disciplinino i conflitti di legge in materia di obbligazioni contrattuali (art. 23) nonché le convenzioni internazionali di cui uno o più Stati membri siano parti al momento dell'adozione del regolamento. Ora, non esistendo né disposizioni dell'ordinamento comunitario né convenzioni internazionali disciplinanti i conflitti di legge in materia di obbligazioni contrattuali coinvolgenti lo Stato Italiano e quello Lussemburghese che escludano il regolamento in esame, la Scrivente ritiene che, ai fini della disciplina dell'accordo tra il Ministero dello Sviluppo Economico e il Fondo europeo per gli investimenti, nulla osti all'applicazione del diritto lussemburghese in luogo di quello italiano. Difatti, la normativa richiamata è applicabile anche alle parti coinvolte nel caso di specie poiché non si rivolge esclusivamente alle persone fisiche. Inoltre non deve trascurarsi che il Fondo europeo per gli investimenti ha sede proprio a Lussemburgo il che costituisce un valido criterio di collegamento con il diritto lussemburghese. In merito al profilo sub b), l'art. 3, 1 co., lett. g), della 1. 20/1994 prevede che il controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti si eserciti, tra l'altro, sui decreti che approvano determinati contratti delle amministrazioni dello Stato, tra i quali rientra il contratto in questione. La Scrivente ritiene che l'applicabilità del diritto lussemburghese al contratto in esame non sia di ostacolo allo svolgimento del controllo preventivo di legittimità da parte della Corte dei conti. Infine, occorre rilevare che l'art. 25 c.p.c. si colloca nell'ambito della sezione III, del Capo I, del Titolo I, del Libro I, dedicata alla "competenza per territorio". L'inderogabilità del foro erariale riguarda, dunque, la competenza e non il diverso e più ampio concetto di giurisdizione. Considerato che la competenza per territorio di cui all'art. 25 c.p.c. presuppone la giurisdizione italiana, bisogna valutare se, nel caso di specie, è le- 156 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 gittimo pattuire una giurisdizione diversa da quella italiana. In caso di risposta positiva, infatti, il problema relativo all'art. 25 c.p.c. non sussisterebbe, dovendo aversi riguardo non al nostro codice di rito, e quindi all'art. 25 c.p.c., bensì alla normativa applicabile al diverso foro prescelto. Per chiarire tale questione è necessario richiamare innanzitutto la normativa di diritto internazionale privato di cui alla già citata legge n. 218/1995. L'art. 4, 2 co., di tale legge dispone che "La giurisdiione italiana può essere convenzionalmente derogata a favore di un giudice straniero (...) se la deroga è provata per iscritto e la causa verte su diritti disponibili". A sostegno di quanto disposto dal citato articolo, è da rilevare che la Corte Costituzionale, con l'ordinanza n. 428 del 2000, ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 1341, secondo comma, 1342, secondo comma, del codice civile e 4, comma 2, della legge 31 maggio 1995, n. 218 sollevata in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione. La stessa Corte, in detta ordinanza, ha considerato che "il legislatore del 1995 - nell'àmbito di una imponente tendenza alla "delocalizzazione" della giurisdizione, manifestatasi (anche per ragioni di concorrenza commerciale) negli usi del commercio internazionale, nella normativa pattizia internazionale e negli ordinamenti sovranazionali - ha dichiaratamente e legittimamente inteso favorire (come già osservato) una più libera esplicazione dell'autonomia privata nella scelta della giurisdizione”. Giova altresì richiamare il Regolamento (UE) n. 1215/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2012 concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale. Tale regolamento, anche noto come Regolamento Bruxelles I bis, sostituisce il precedente Regolamento (CE) n. 44/2001 in tema di competenza giurisdizionale, riconoscimento ed esecuzione delle decisioni. L'articolo 25 reg. (UE) 1215/2012 statuisce che: "Qualora le parti, indipendentemente dal loro domicilio, abbiano convenuto la competenza di un'autorità o di autorità giurisdizionali di uno Stato membro a conoscere delle controversie, presenti o future, nate da un determinato rapporto giuridico, la competena spetta a questa autorità giurisdizionale o alle autorità giurisdizionali di questo Stato membro, salvo che l'accordo sia nullo dal punto di vista della validità sostanziale secondo la legge di tale Stato membro. Detta competenza è esclusiva salvo diverso accordo tra le parti. L'accordo attributivo di competenza deve essere: a) concluso per iscritto o provato per iscritto; b) in una forma ammessa dalle pratiche che le parti hanno stabilito tra di loro; o nel commercio internazionale, in una forma ammessa da un uso che le parti conoscevano o avrebbero dovuto conoscere e che, in tale ambito, è ampiamente conosciuto e regolarmente rispettato dalle parti di contratti dello stesso tipo nel settore commerciale considerato". PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 157 Specificamente, per quanto riguarda la deroga alla giurisdizione italiana in favore della giurisdizione della Corte di giustizia dell'Unione europea, nessun ostacolo appare frapporsi. In questo senso, se pur sotto diversi profili, giova segnalare che dalla lettura dell'articolo 271 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea (ex articolo 237 del TCE) risulta come la Corte di Giustizia sia competente nelle controversie coinvolgenti la BEI del cui gruppo fa parte il FEI. Inoltre, occorre considerare la specifica previsione dell'art. 272 TFUE, secondo cui «La Corte di giustizia dell'Unione europea è competente a giudicare in virtù di una clausola compromissoria contenuta in un contratto di diritto pubblico o di diritto privato stipulato dall'Unione o per conto di questa». In tal caso, giova richiamare l'orientamento della Corte di giustizia, secondo cui «ove in forza di una clausola compromissoria stipulata ai sensi dell'articolo 272 TFUE la Corte possa essere chiamata a dirimere la controversia applicando il diritto nazionale che disciplina il contratto, la sua competena a conoscere di una controversia riguardante tale contratto dev'essere valutata alla sola luce di detto articolo e della clausola compromissoria, senza che possano esserle opposte disposizioni del diritto nazionale che osterebbero alla sua competenza (sentenze Commissione/Zoubek, 426/85, EU:C:1986:501, punto 10, e Commissione/Feilhauer, C-209/90, EU:C:1992:172, punto 13)» (sentenza 26 febbraio 2015, causa C-564/13 P, Planet AE c. Commissione europea, punto 21). Si esprime dunque parere nei termini sopra esposti, restando a disposizione per quanto altro possa occorrere. 158 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Spending review: la riduzione del 15% dei canoni per le locazioni passive anche alle ipotesi in cui proprietario dell’immobile sia una p.a. PARERE DEL 09/05/2016-226080, AL 37970/2012, AVV. AGNESE SOLDANI Il quesito posto concerne l’ambito soggettivo di applicazione dell’art. 3, comma 4 D.L. 95/2012 convertito in L. 135/2012 (c.d. spending review), a tenore del quale «Ai fini del contenimento della spesa pubblica, con riferimento ai contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili a uso istituzionale stipulati dalle Amministrazioni centrali, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, nonché dalle Autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) i canoni di locazione sono ridotti a decorrere dal 1° gennaio 2015 della misura del 15 per cento di quanto attualmente corrisposto. A decorrere dalla data dell'entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto la riduzione di cui al periodo precedente si applica comunque ai contratti di locazione scaduti o rinnovati dopo tale data. La riduzione del canone di locazione si inserisce automaticamente nei contratti in corso ai sensi dell'articolo 1339 c.c., anche in deroga alle eventuali clausole difformi apposte dalle parti, salvo il diritto di recesso del locatore. Analoga riduzione si applica anche agli utilizzi in essere in assenza di titolo alla data di entrata in vigore del presente decreto». Il Ministero in indirizzo riferisce di avere ricevuto da parte di numerosi enti territoriali - proprietari di immobili concessi in locazione per essere adibiti a sedi di Caserme della Polizia di Stato e dell’Arma dei Carabinieri - la richiesta di restituzione del 15% del canone di locazione, decurtato dal Ministero conduttore in applicazione della citata norma, facendo leva sulla Deliberazione n. 157 del 15 dicembre 2015 con la quale la Sezione Regionale della Corte dei Conti per l’Emilia Romagna ha affermato - per quel che in questa sede interessa - che la norma sarebbe inapplicabile ai casi in cui il contratto di locazione sia stipulato tra due pubbliche amministrazioni, in quanto in tali casi non potrebbe realizzarsi la finalità di contenimento della spesa pubblica che la sorregge: «Infatti l’effetto pratico sarebbe del tutto neutro rispetto all’obiettivo del contenimento della spesa pubblica, essendo di assoluta evidenza che l’inserzione automatica ex art. 1339 c.c. di una tale clausola nel rapporto intercorrente tra due pubbliche amministrazioni, pur comportando per l’una un risparmio nella misura del 15 per cento di quanto corrisposto in precedenza, per l’altra comporterebbe, in egual misura, un minor introito». Tanto premesso in punto di fatto, il Ministero in indirizzo chiede a quest’Avvocatura di esprimere un parere in ordine alla correttezza del proprio operato, alla luce, per un verso, della deliberazione della Corte dei Conti sin PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 159 qui menzionata e, per altro verso, del precedente parere di quest’Avvocatura prot. n. 24738 del 18 gennaio 2013 nel quale era già stato chiarito che il successivo comma 7 del medesimo art. 3 D.L. 95/2012 convertito in L. 135/2012, secondo cui «Le disposizioni dei commi da 4 a 6 non si applicano in via diretta alle regioni e province autonome e agli enti del servizio sanitario nazionale, per i quali costituiscono disposizioni di principio ai fini del coordinamento della finanza pubblica», intende far riferimento alle locazioni passive di regioni, province ed enti del servizio sanitario nazionale, vale a dire alle ipotesi in cui tali enti siano non proprietari bensì conduttori dell’immobile locato. Al riguardo, quest’Avvocatura è dell’avviso che, alla luce della interpretazione sia letterale che teleologica della normativa attualmente vigente, correttamente codesto Ministero abbia operato la decurtazione del 15% del canone di locazione anche per i contratti in cui proprietaria è un’altra pubblica amministrazione (sia essa ente territoriale o no). Anzitutto, osta all’affermazione che la riduzione del 15% del canone di locazione non si applica ai contratti in cui locatrice è un'altra pubblica amministrazione il dato letterale dell’art. 3, comma 4, che non delimita in alcun modo il novero dei soggetti proprietari di immobili locati alla quale si riferisce, e quindi non consente di individuare delle categorie di soggetti (pubblici o privati che siano) eccettuate. Né la pretesa degli enti territoriali di vedersi esclusi - quali proprietari di immobili - dall’applicazione della norma può trovare supporto normativo nel già citato art. 3, comma 7, che afferma l’inapplicabilità a Regioni, Province autonome ed enti del servizio sanitario nazionale (e si noti: nell’elencazione non sono ricompresi né i comuni e le città metropolitane, né le altre province), del comma 4, vale a dire di quella norma che stabilisce che «… con riferimento ai contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili a uso istituzionale » il canone di locazione sia ridotto del 15%. Si conferma dunque l’avviso già espresso nel precedente parere di quest’Avvocatura: la norma prevede che nei contratti di locazione passiva di tali enti (dunque nelle ipotesi in cui essi sono conduttori) non si applica direttamente la nuova disciplina normativa in tema di riduzione del 15%. Ciononostante tali norme costituiscono, sempre secondo il comma 7, «disposizioni di principio ai fini del coordinamento della finanza pubblica», atteso che il coordinamento della finanza pubblica rientra tra le materie di legislazione concorrente, nelle quali dunque «spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato» (art. 117, comma 3 Cost.). Quanto alla citata deliberazione della Sezione Regionale della Corte dei Conti per l’Emilia Romagna, va anzitutto precisato che sebbene la questione decisa afferisse in concreto all’applicabilità o meno della riduzione del 15% del canone anche ai rapporti concessori (applicabilità esclusa dalla Corte), il 160 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 principio di diritto ivi affermato inevitabilmente vale anche per i rapporti di locazione, avendo la Corte dei Conti in sintesi ritenuto che applicare la norma in parola anche ai rapporti tra pubbliche amministrazioni (di locazione o concessione che siano, sotto questo profilo è irrilevante), sacrificherebbe l’intento di contenimento della spesa pubblica che la giustifica, essendo “neutro” l’effetto finale, perché alla minor spesa per la p.a. conduttrice corrisponderebbe una minore entrata della p.a. proprietaria. Tuttavia quest’Avvocatura non ritiene tale affermazione condivisibile nel merito, in quanto sembra non tenere conto del fatto che l’intento di contenimento della spesa è realizzato, dalla normativa legislativa che ci occupa, non secondo un sistema di tagli lineari, ma secondo un sistema di razionalizzazione della spesa per settori: il legislatore ha cioè inteso individuare dei settori (quale, nel nostro caso, quello delle locazioni passive) nel quale ha ritenuto evidentemente eccessiva la spesa affrontata dalle pubbliche amministrazioni, con conseguente necessità di una sua riduzione. Del resto il contenimento della spesa pubblica si realizza non soltanto - come sembrerebbe presupporre la citata deliberazione della Corte dei Conti - attraverso una politica di riduzione del saldo finale complessivo della stessa, ma anche attraverso una più corretta e bilanciata allocazione delle risorse disponibili tra pubbliche amministrazioni. Se si parte dal presupposto, da cui tutta la disciplina normativa che ci occupa sembra muovere, che la spesa nel settore delle locazioni passive sia stata valutata dal legislatore come eccessiva e vada quindi ridotta (si pensi, a questo riguardo, a quanto statuito ad esempio dal comma 5 del medesimo art. 3, in tema di risoluzione di diritto dei contratti di locazione passiva alla prima scadenza utile e di obbligo per le pubbliche amministrazioni di ricerca di «soluzioni allocative alternative economicamente più vantaggiose»), risulterà evidente come anche nell’ipotesi in cui il contratto di locazione sia stipulato tra due pubbliche amministrazioni, lo scopo di contenimento di quel settore di spesa risulterà perseguito dalla riduzione automatica del canone, perché viene comunque realizzata una più equa allocazione delle risorse complessivamente disponibili. Che questa sia la logica di fondo seguita dal legislatore sembra confermato anche dal tenore dell’art. 3, commi 2 e 2 bis del medesimo D.L.: il comma 2 stabilisce che «Alle regioni e agli enti locali di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, può essere concesso l'uso gratuito di beni immobili di proprietà dello Stato per le proprie finalità istituzionali»; il comma 2 bis che «Le Regioni e gli enti locali di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, possono concedere alle Amministrazioni dello Stato, per le finalità istituzionali di queste ultime, l'uso gratuito di immobili di loro proprietà ». Disposizioni che, all’evidenza, non avrebbero ragion d’essere ove il risparmio di spesa fosse perseguito dalla spending rewiew secondo la prospettiva delineata dalla menzionata delibera della Corte dei Conti. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 161 Ma soprattutto, indicativo è l’art. 3, comma 10, del medesimo D.L., secondo cui «Nell'ambito delle misure finalizzate al contenimento della spesa pubblica, gli Enti pubblici non territoriali ricompresi nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione … comunicano all'Agenzia del Demanio, entro, e non oltre, il 31 dicembre di ogni anno, gli immobili o porzioni di essi di proprietà dei medesimi, al fine di consentire la verifica della idoneità e funzionalità dei beni ad essere utilizzati in locazione passiva dalle Amministrazioni statali per le proprie finalità istituzionali. L'Agenzia del Demanio, verificata, ai sensi e con le modalità di cui al comma 222 dell'articolo 2 della legge n. 191 del 2009, la rispondenza dei predetti immobili alle esigenze allocative delle Amministrazioni dello Stato, ne dà comunicazione agli Enti medesimi. In caso di inadempimento dei predetti obblighi di comunicazione, l'Agenzia del Demanio effettua la segnalazione alla competente procura regionale della Corte dei conti. La formalizzazione del rapporto contrattuale avviene, ai sensi del citato comma 222, con le Amministrazioni interessate, alle quali gli Enti devono riconoscere canoni ed oneri agevolati, nella misura del 30 per cento del valore locativo congruito dalla competente Commissione di congruità dell'Agenzia del Demanio di cui all'articolo 1, comma 479, della legge 23 dicembre 2005, n. 266». È evidente dunque l’intento del legislatore di ristabilire un equilibrio finanziario tra amministrazioni proprietarie di immobili e amministrazioni conduttrici, attraverso un’operazione finanziaria di sostanziale traslazione, in capo alle seconde, delle risorse di cui godono le prime, che si realizza mediante la previsione di un vero e proprio obbligo legale di contrarre a condizioni agevolate. Una simile impostazione produce risultati tutt’altro che “neutri” in termini di contenimento della spesa pubblica, che passa anche attraverso l’efficientamento delle risorse (in questo caso immobiliari) complessivamente disponibili. In virtù delle esposte considerazioni, si esprime pertanto l’avviso che - a legislazione vigente - non sia possibile escludere dall’applicazione dell’art. 3, comma 4 D.L. 95/2012 convertito in L. 135/2012 i contratti di locazione stipulati tra pubbliche amministrazioni, non potendosi interpretare le norme sin qui richiamate nel senso auspicato dagli enti territoriali proprietari di immobili concessi in locazione alle amministrazioni statali. Sulla questione è stato sentito il Comitato Consultivo, che nella seduta del 5 maggio 2016 si è espresso in conformità. 162 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Il trattamento dei costi delle società costituite nell’ambito della ricerca sul modello “spin-off” PARERE DEL 11/05/2016-229687, AL 45602/15, AVV. PAOLA PALMIERI Con la richiesta di parere che si riscontra, codesta Amministrazione ha chiesto alla Scrivente di pronunciarsi in ordine a diversi quesiti riguardanti la rendicontazione di costi sostenuti nell’ambito dei progetti di ricerca di società costituite sul modello “spin off”. Da parte di dette società sono state riscontrate difficoltà, in particolare, nella rendicontazione dei costi sostenuti in materia di personale e di brevetti, anche a causa della particolarità della figura societaria in considerazione, cui non risulta adeguata la normativa di riferimento. Con riferimento al quesito richiesto si premette, in termini generali, che le imprese spin off, nel mondo imprenditoriale, indicano il fenomeno generico di una impresa figlia nata per scissione da un’impresa madre. Nell’ambito della ricerca, il modello è piuttosto diffuso ed indica le iniziative imprenditoriali nate come promanazione di ambienti accademici (università) o di enti e/o istituzioni di ricerca. In tal caso le imprese, solitamente, nascono come iniziativa di un gruppo di ricercatori, professori universitari o assegnisti che avviano autonomamente un’attività imprenditoriale indipendente, finalizzata all’avvio o alla prosecuzione di progetti di ricerca collegati con l’ambiente da cui derivano e con cui, solitamente, mantengono rapporti di stretta collaborazione. Sebbene non possa rinvenirsi nell’ordinamento una regolamentazione specifica di tali società, in termini di definizione e di caratteristiche essenziali (là dove, per contro, risultano oggetto di espressa disciplina ad opera del D.L. n. 179 del 2012, le c.d. start up innovative), tuttavia, le linee essenziali del modello societario in esame possono ricavarsi indirettamente dalla disciplina propria delle spin off nate in alcuni ambiti specifici. Un esempio di tale indiretta regolamentazione è data dall’art. 11 del D.M. 593 del 2000, che, in conformità all’art. 2 lett. e) del D.Lgs. n. 297 del 1999, disciplina i “Progetti autonomamente presentati per attività di ricerca proposte da costituende società”. Pur non riferendosi esplicitamente a società spin off, l’articolo 2 del decreto legislativo sopra menzionato individua, tra i soggetti ammissibili agli interventi in materia di ricerca industriale, le società di recente costituzione o da costituire, finalizzate all’utilizzazione industriale dei risultati della ricerca, per le attività di cui all’art. 3, comma 1, lettera b), numero 1, con la partecipazione azionaria o il concorso, o comunque, con il relativo impegno di tutti o di alcuni dei soggetti ivi indicati (professori e ricercatori universitari, personale di ricerca dipendente da ENEA ed ASI, dottorandi, ecc.). Più in particolare, l’art. 11 del Decreto ministeriale attuativo, regola la PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 163 partecipazione a specifici progetti di ricerca industriale da parte di professori e ricercatori universitari, di personale di ricerca dipendente dagli enti di ricerca, di dottorandi e titolari di assegni di ricerca, anche congiuntamente con università ed enti di ricerca, società di assicurazione, imprese industriali o con altri tra i soggetti ammissibili ai sensi dell’art. 5 del medesimo decreto, con impegno da parte dei proponenti a costituire una società entro i tre mesi successivi alla eventuale selezione del progetto. La problematica segnalata da codesto Ministero sorge dalla difficoltà di applicare la disciplina che regola l’ammissione a finanziamenti ex lege n. 297 del 1999 e del relativo regolamento attuativo (D.M. n. 593/2000), a fenomeni di nuova creazione, quali appunto, le società in esame che, per altro verso, trasformando validi progetti in iniziative imprenditoriali, costituiscono un importante strumento di innovazione e ricerca nonché di interrelazione tra ricerca ed impresa. Nel caso di specie, le società interessate - spin off costituite ai sensi dell’art. 11 del menzionato D.M. - hanno chiesto di potere indicare nella propria rendicontazione, le figure dei dottorandi e degli assegnisti di ricerca, le prestazioni del personale universitario e del socio Università ed il costo relativo allo sviluppo ed al deposito dei brevetti (nello specifico, le spese di consulenza relative alla preparazione, al deposito e alle risposte agli uffici brevetti italiani e stranieri inerenti i brevetti acquistati e depositati dai beneficiari). Si deve, innanzitutto, osservare che tali società sono destinatarie di finanziamenti erogati dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca a valere sul FAR (Fondo per le Agevolazioni alla Ricerca), poi FIRST, ai sensi dell’art. 11 del D.M. 8 agosto 2000 n. 593. Per quanto riferito, si tratta di interventi effettuati a sostegno di progetti di ricerca e/o formazione autonomamente presentati dai soggetti ammissibili ed ammessi attraverso una procedura che prevede una fase di valutazione economica e scientifica, condotta dagli organi ministeriali prima della concessione dell’agevolazione, e che riguarda domande di finanziamento particolarmente complesse. Il decreto ministeriale sopra citato, così come lo stesso D.Lgs. n. 297 del 1999, risulta abrogato in seguito all’entrata in vigore del D.L. 22 giugno 2012, n. 83 conv. in L. n. 134 del 2012, che ha previsto una nuova normativa quadro del sistema delle agevolazioni di competenza del MIUR a valere sul nuovo strumento del c.d. FIRST (artt. 60-63). Tuttavia, il regolamento n. 593 del 2000 è ancora applicabile a tutti quei progetti le cui domande siano state presentate prima dell’abrogazione, in virtù della disposizione transitoria di cui all’art. 11 del successivo D.M. 19 febbraio 2013 n. 115, adottato in attuazione del menzionato D.L. n. 83/2012. I regolamenti comunitari generali che definiscono i criteri di rendicontazione delle spese, inoltre, sono direttamente applicabili a forme di finanzia- 164 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 mento a valere sui Fondi strutturali comunitari (Reg (CE) n. 1083/2006) mentre, nel caso di aiuti di stato a valere su Fondi rotativi, come si dirà anche oltre, la materia è regolata da fonti interne. Molti progetti ancora in itinere, pertanto, risultano essere disciplinati da una normativa secondaria ormai abrogata e sulla base di una mera norma transitoria, certamente inadeguata a disciplinare modelli societari di tal fatta e, pertanto, meritevole di aggiornamento anche alla luce della disciplina comunitaria in materia. Tali considerazioni, peraltro, vanno estese anche al più recente decreto ministeriale n. 115 del 2013, il quale, al pari del decreto legge n. 83 del 2012 di cui costituisce attuazione, non sembra apportare novità significative alla disciplina delle spin-off, né tanto meno alla rendicontazione dei costi ammissibili. Pur nella consapevolezza che modificare la normativa regolamentare in relazione a procedimenti già avviati potrebbe dare luogo a problemi di disparità di trattamento rispetto a procedure già definite sulla base del D.M. ancora vigente, tuttavia, non può mancarsi di sottolineare l’esigenza di un opportuno aggiornamento della complessiva disciplina secondaria, ove la stessa risulti non esaustiva o incompleta o, ancora, non più in linea da un lato con realtà societarie di nuova introduzione e dall’altro, con la normativa comunitaria che, parallelamente disciplina le varie forme di finanziamento alla ricerca a valere su fondi europei. Allo stato, la Scrivente non può che esprimere un parere sulla base della disciplina oggi applicabile, operando interpretazioni estensive solo là dove consentito dalle norme primarie di riferimento e sempreché l’estensione sia conforme alla ratio della disciplina di settore. *** Come già accennato, per definire le spese rendicontabili da parte delle società di cui al parere, occorre fare riferimento al D.M. 593/2000, il caso in esame, a quanto riferito, rientrando nell’ambito di applicazione della disposizione transitoria. La normativa primaria (D.Lgs n. 297 del 1999), non contiene indicazioni sul punto, in quanto il Legislatore ha interamente delegato la disciplina dei costi ammissibili, così come gli ulteriori aspetti essenziali delle procedure in esame, a decreti di natura non regolamentare, quale è appunto il D.M. 593 del 2000 (ed in via successiva, il D.M. 115 del 2013). Dall’analisi del testo normativo, emerge che l’art. 11, per quanto attiene alle spese ammissibili, al co. 16, rimanda a quanto disposto dall’art. 5, co. 24, del medesimo decreto, comprendendovi anche le spese sostenute per studi relativi alla proprietà intellettuale, studi di mercato, studi di fattibilità…, fissando, inoltre, “la decorrenza delle spese ammissibili al novantesimo giorno successivo alla data della domanda”. La normativa appena esposta deve poi essere integrata attraverso quanto PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 165 disposto dal par. 6.1 degli allegati al decreto - dove, ad ulteriore chiarimento, vengono stabiliti i criteri di rendicontazione dei costi ammissibili, ricomprendendovi varie voci, fra cui quelle del personale dipendente e non, nonché le spese di consulenza e quelle di acquisizione da terzi di brevetti - oltre che dalla circolare interpretativa 8 novembre 2002 n. 11305 del MIUR. Ai fini di una analisi più puntuale, si esporrà quanto previsto dalle normative appena ricordate in relazione ai singoli quesiti posti. 1) Primo quesito. In merito al primo quesito, sulla possibilità di rendicontazione delle spese sostenute dalle società per la registrazione e il deposito di brevetti, ivi comprese le spese delle consulenze preordinate all’ottenimento del brevetto, si svolgono le seguenti osservazioni. a) Per quanto riguarda la possibilità di rendicontare le spese relative alla consulenza affrontata per la produzione in proprio del brevetto da parte della società spin off, la normativa non fa esplicito riferimento alla possibilità delle società costituite ai sensi dell’art. 11 del D.M. 593/2000 di ottenere brevetti con mezzi propri, ma si limita a prevedere la possibilità di acquisirli da terzi. In particolare, alla voce “Beni immateriali” del par. 6.1, lett. e), degli Allegati al decreto n. 593/2000, sono ammissibili soltanto i costi dei beni immateriali acquistati da terzi, quali risultati di ricerca, brevetti, know how e diritti di licenza. D’altra parte, lo stesso art. 11 del D.M. 593/2000, al co. 16, ricomprende tra le spese ammissibili, quelle sostenute “per studi relativi alla proprietà intellettuale”, il che sembra riconoscere alle società sovvenzionate l’astratta potenzialità di sviluppare autonomamente brevetti anche grazie a consulenze esterne. Sulla base del dato letterale e sistematico della norma, se la consulenza è connessa allo sviluppo di un brevetto quale scopo del progetto ammesso e oggetto del finanziamento, non sembra possa essere esclusa la possibilità di ritenere ammissibili anche le spese di consulenza correlate allo sviluppo del brevetto stesso. Del resto, anche in base all’art. 5, co. 24, lett. d) del D.M. 593/2000, sono ammissibili i costi dei servizi di consulenza e dei servizi equivalenti utilizzati esclusivamente ai fini dell'attività di ricerca. Inoltre, il par. 6.1 degli allegati, alla voce “Consulenze”, prevede l’ammissibilità dei costi di consulenza, definendola attività con contenuto di ricerca o progettazione commissionate a terzi. Di qui la risposta positiva allo specifico aspetto da ultimo esaminato, sempreché a) si tratti di consulenza e di brevetti strettamente funzionali all’attività di ricerca assentita e b) la relativa attività sia imputabile al periodo progettuale di riferimento, come al riguardo stabilito dall’art. 11, comma 16, del menzio- 166 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 nato D.M. per cui “La decorrenza delle spese ammissibili è fissata al 90 giorno successivo alla presentazione della domanda”, nonché dal par. 6 degli allegati al decreto secondo cui: “Sono ammessi al finanziamento soltanto i costi attribuibili per competenza a date comprese nel periodo deliberato per lo svolgimento della ricerca, a condizione che siano stati sostenuti e liquidati in tale periodo”. b) Anche se la rendicontazione non fa cenno alle spese di deposito e registrazione, si osserva che le società in esame sono costituite a sostegno dell’attività di ricerca industriale e, quindi, con l’intento di sviluppare nuovi prodotti o metodologie di lavoro innovative. La possibilità di sfruttare il brevetto ha senz’altro una funzione di incentivo della ricerca, portando alle società una remunerazione iniziale, nonché la possibilità di ottenere un maggiore riconoscimento, anche a livello internazionale, con la possibilità di realizzare nuove collaborazioni con altri soggetti del mondo accademico ed economico. Il tutto è idoneo a creare un circolo virtuoso proprio in linea con la ratio sottesa al D.M. 593/2000 e in linea anche con le successive normative, attente all’aspetto del coinvolgimento a livello internazionale. Tale interpretazione, oltre che dalla sottolineata ratio normativa, si trae indirettamente anche dal testo dell’art. 2 del D.M. 593/2000 che definisce, come oggetto del finanziamento, l’attività di ricerca industriale quale "la ricerca pianificata o indagini critiche miranti ad acquisire nuove conoscenze, utili per la messa a punto di nuovi prodotti, processi produttivi o servizi o per conseguire un notevole miglioramento dei prodotti, processi produttivi o servizi esistenti". Lo sviluppo di brevetti appare, dunque, un approdo naturale dell’incentivo di tale tipo di ricerca, in quanto teso ad aumentare la competitività nel mercato. Anche il co. 17 dell’art. 11 del D.M. 593/2000, menzionato da codesta Amministrazione, sembra rafforzare tale interpretazione, in quanto prevede, fra gli obblighi di coloro che ricevono il finanziamento, quello di “assumere le disposizioni più adeguate in materia di tutela dei diritti di proprietà intellettuale: in particolare mantenere i brevetti ottenuti con i finanziamenti pubblici e, in caso contrario, informare tempestivamente il MURST delle proprie intenzioni”. In effetti, pur non facendo esplicito riferimento alla possibilità di sviluppo del brevetto da parte della società finanziata, l’articolo sembra suggerirne la potenzialità, per cui si impone di assumere ogni iniziativa volta alla cura dell’attività brevettuale, proprio in virtù della forte connessione tra attività di ricerca e applicazione pratica della stessa. Sulla base di quanto osservato, pertanto, paiono potersi ricomprendere nelle spese da rendicontare sia quelle di registrazione, sia quelle di deposito PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 167 del brevetto, nei limiti in cui lo stesso sia direttamente funzionale e strettamente connesso con la ricerca oggetto di finanziamento e, in ogni caso, con l’esclusione delle spese di mantenimento, in quanto la ratio sottesa al finanziamento erogato da parte del MIUR è da ritrovarsi nella necessità di introdurre sul mercato nuovi prodotti e non in quella di avvantaggiare la società finanziata sul mercato. 2) Secondo quesito. Per quanto attiene alla richiesta di parere circa la possibilità di rendicontare il valore della cessione dei brevetti a titolo gratuito da parte dell’Università socio (a mero titolo di cofinanziamento in natura a favore dello Spin-Off, in base alla stima di un esperto qualificato), si osserva che l’art. 11 del D.M. sopra richiamato prevede la possibilità di acquisire da terzi il brevetto, con relativa rendicontazione dei costi sostenuti al fine di tale acquisizione. La disposizione, di per sé, non consente di rendicontare cessioni a titolo gratuito. Nella nota che si riscontra viene prospettata la possibilità di una lettura estensiva dell’espressione “acquisto da terzi”, con possibilità di ammettere la rendicontazione del valore brevettuale, purché debitamente sostenuta da una relazione che lo determini esattamente. Sul punto, tuttavia, la Scrivente ritiene dirimente il riferimento all’acquisto del brevetto, che presuppone una cessione da parte di terzi dietro versamento di un prezzo. L’esame delle voci di costo ammissibile, del resto, consente di osservare che le stesse fanno sempre riferimento a “costi” comunque sopportati dalla società che ne chiede il rimborso tramite il finanziamento. Non si vede, dunque, come valorizzare una cessione gratuita, sia pure tramite una stima di un terzo qualificato, atteso che la cessione del brevetto, in ogni caso, non rappresenta un “costo” per lo spin-off. Il par. 6.1 degli allegati, facenti parte integrante del D.M. è coerente con la previsione della norma regolamentare che, nel regolare la deducibilità dei costi relativi a beni immateriali, non solo fa riferimento ai soli beni immateriali “acquisitati da terzi” ma specifica, altresì, che “i beni immateriali esistenti alla data di decorrenza della ammissibilità dei costi non sono computabili ai fini del finanziamento, né potranno essere considerate quote del loro ammortamento”. A normativa vigente, pertanto, non si ritiene possibile una interpretazione estensiva della normativa regolamentare che, anche al fine di evitare attribuzioni non corrette del finanziamento pubblico, consente solo la rendicontazione di costi in senso stretto, affrontati dal soggetto beneficiario nel periodo di riferimento del progetto ammesso. Tra l’altro, con specifico riferimento alla possibilità di conferimenti in natura, occorre osservare che i regolamenti generali che disciplinano l’ammis- 168 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 sibilità delle spese per i programmi cofinanziati con fondi europei, limitano la possibilità di contributi in natura ai casi ivi previsti. In particolare, il DPR 196 del 2008, recante il regolamento di esecuzione del regolamento CE n. 1083 del 2006 ed il regolamento CE 8 dicembre 2006, n. 1828 (che stabilisce modalità di applicazione del regolamento CE 1083/2006), prevedono la possibilità di contribuzioni in natura solo con riferimento a terreni, immobili, attrezzature, materie prime nonché ad attività di ricerca o professionali, in tal modo implicitamente escludendo il caso di conferimento di beni immateriali. 3) Terzo quesito. Con il quesito in esame ci si interroga sulla possibilità di rendicontare i costi della partecipazione di personale universitario (professori ricercatori, assegnisti ecc.) a società aventi caratteristiche di Spin-Off, il quale abbia svolto attività di ricerca, coordinamento e supervisione del Progetto. Si osserva, al riguardo che, l’art. 5, comma 24, lett. a) del D.M. 593/2000, annovera tra i costi ammissibili quelli relativi a “spese di personale” (ricercatori, tecnici, ed altro personale ausiliario adibito all'attività di ricerca, che risulti, in rapporto col soggetto beneficiario dei contributi, dipendente a tempo indeterminato o determinato e/o lavoratore parasubordinato, e/o titolare di borsa di dottorato, o di assegno di ricerca, o di borsa di studio che preveda attività di formazione attraverso la partecipazione al progetto). Dalla disposizione si evince chiaramente che i soggetti in questione devono essere formalmente legati allo Spin-Off attraverso un contratto di lavoro, a tempo determinato o indeterminato, o di tipo parasubordinato, oppure devono essere legati specificamente al progetto, pur essendo semplici dottorandi o assegnisti o titolari di borse di studio. Pertanto, in assenza di tale legame, non sembrerebbero ammissibili i costi relativi alle loro attività (in tal senso anche il par. 6.1 degli allegati al decreto, ove si fa distinzione tra personale dipendente e non dipendente, e si specifica che, per i non dipendenti, il contratto di collaborazione dovrà contenere l’indicazione della durata dell’incarico, della remunerazione oraria e di eventuali maggiorazioni per diarie e spese, delle attività da svolgere e delle modalità di esecuzione, nonché l’impegno per il collaboratore a prestare la propria opera presso le strutture dell’impresa finanziata”). Dunque, anche per i soggetti non annoverabili nella categoria dei dipendenti, la regolamentazione in materia prevede un rapporto comunque formalizzato in seno alla società finanziata, indicandosi il contratto di collaborazione coordinata e continuativa e, per gli assegnisti, lo specifico inserimento nel progetto. Fra l’altro, lo stesso art. 11 del D.M. n. 593 del 2000, al co. 5, evidenzia che professori e ricercatori possono partecipare alle attività delle società su modello Spin-Off solo ove i relativi regolamenti universitari o degli enti di PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 169 appartenenza ne abbiano disciplinato la procedura autorizzativa e il collocamento in aspettativa ovvero il mantenimento in servizio o nel corso di studio, e abbiano definito le questioni relative ai diritti di proprietà intellettuale nonché le limitazioni volte a prevenire i conflitti di interesse con le società costituite o da costituire. Occorre poi considerare il disposto di cui al D.M. 10 agosto 2011, n. 168, contenente il “Regolamento sulla definizione dei criteri di partecipazione di professori e ricercatori universitari a società aventi caratteristiche di spin off o start up universitari in attuazione di quanto previsto dall’art. 6, comma 9, della L. 30 dicembre 2010, n. 240”. Dopo aver descritto la procedura di costituzione di uno spin off da parte dell’università (art. 3), l’art. 4 di detto decreto prevede, infatti, non soltanto un divieto per i soggetti citati di ricoprire alcune cariche in seno alle compagini sociali, ma anche la possibilità per gli atenei di definire altri casi in cui i professori e ricercatori in servizio non possano essere autorizzati a costituire imprese di Spin-Off, oppure assumere responsabilità formali nella gestione, quando gli interessati rivestano specifici ruoli all'interno dell'ateneo. Le disposizioni suesposte, dunque, rafforzano quanto detto in ordine alla necessità di un rapporto in qualche modo formalizzato che, a sua volta, presuppone uno specifico atto autorizzativo da parte dell’Ateneo di provenienza che permetta l’attività in seno alla società del ricercatore e del docente, non lasciando apparentemente spazio a collaborazioni, per così dire, indefinite e in qualche modo elusive delle norme di settore richiamate. Ciò, anche nel caso in cui la stessa Università sia socia dello spin off, il conferimento di prestazioni alla società dovendo comunque essere ricostruito attraverso un atto formale che ne consenta la rendicontazione e fermi restando i divieti di cui alla menzionata circolare. Va anche detto, peraltro, che, in ambito comunitario, la normativa è orientata a consentire, sia pure entro certi limiti, le prestazioni volontarie da parte del personale di ricerca. In particolare, a norma dell’art. 51 del regolamento (CE) n. 1828 del 2006, che detta le disposizione di attuazione del Reg. CE n. 1083/2006, i contributi in natura costituiscono spesa rimborsabile se: a) consistono nella fornitura di terreni ed immobili, in attrezzature o materie prime, in attività di ricerca o professionali o in prestazioni volontarie non retribuite e, b) se il loro valore può essere oggetto di valutazioni e audit indipendenti. Anche in tal caso il valore delle prestazioni volontarie non retribuite viene determinato tenendo conto del tempo prestato e delle tariffe orarie giornaliere in vigore per l’attività corrispondente. Allo stesso modo, il DPR n. 196 del 2008, “Regolamento di esecuzione del regolamento (CE) n. 1083/2006 recante disposizioni generali sul fondo europeo di sviluppo regionale, sul fondo sociale europeo e sul fondo di coe- 170 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 sione”, prevede in conformità, nel senso che i contributi in natura sono assimilati alle spese ammissibili purché: a) consistano nella fornitura di terreni o immobili, in attrezzature o materiali, in attività di ricerca o professionali o in prestazioni volontarie non retribuite; b) il loro valore possa essere oggetto di revisione contabile e di valutazione indipendenti; c) in caso di prestazioni volontarie non retribuite, il relativo valore sia determinato tenendo conto del tempo effettivamente prestato e delle normali tariffe orarie e giornaliere in vigore per l'attività eseguita. Come già evidenziato in premessa si tratta di regolamenti direttamente applicabili solo con riferimento alle procedure a valere su fondi strutturali europei mentre, nel caso di specie, ci troviamo di fronte ad interventi che gravano sul fondo FAR, la cui relativa alimentazione è assicurata da stanziamenti nazionali previsti da leggi finanziarie annuali o dalle risorse provenienti dal Fondo per le aree sottoutilizzate. In relazione a tali forme di finanziamento, dunque, occorre far riferimento alle fonti nazionali, anche in coerenza con l’art. 56, comma 4, del Regolamento (CE) n. 1083/2016 che stabilisce che le norme in materia di ammissibilità delle spese sono definite a livello nazionale, da identificarsi, nel caso in esame, nel solo D.M. n. 593 del 2000 (in coerenza con i principi di cui al D.Lgs. n. 297 del 1999). Ne discende che, in assenza di modifiche eventualmente ispirate a criteri di rendicontazione meno rigorosi e più conformi a realtà societarie particolari quale quelle in esame, la cui adozione potrà essere valutata da codesto Ministero ai fini di un successivo regolamento, allo stato non è possibile concludere in senso difforme rispetto a quanto sopra considerato. 4) Quarto quesito. Per quanto concerne il quesito relativo all’ammissibilità delle spese per le prestazioni rese dagli amministratori e soci dello Spin-off, si rileva che la circolare 11305/2002 del MIUR stabilisce che la prestazione (afferente al progetto ammesso) non possa essere effettuata dall’Amministratore unico, da tutti o dalla maggioranza dei membri del consiglio di Amministrazione e, per le società in accomandita, dal socio accomandatario. In via di eccezione, la circolare ammette la rendicontazione delle spese relative alla prestazione in casi particolari caratterizzati da eccezionalità, e che, comunque, siano conformi alle regole dello Statuto, oltre che dalle ulteriori condizioni ivi previste. La ratio del divieto, diretta a regolamentare in generale i casi di partecipazione societaria, va ricercata nella esigenza di far sì che l’ammissione al progetto da parte della società non costituisca arricchimento dei suoi soci ma PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 171 occasione di sviluppo di nuove realtà lavorative con evidenti ricadute positive sul territorio. Peraltro, trattandosi di circolare, nulla osta ad una rivisitazione della stessa in senso più coerente con lo spirito delle spin off e con direttive mirate a regolamentare in senso più ampio la partecipazione ad esse da parte del professore/ ricercatore - socio. Allo stato, tuttavia, non può che essere condivisa la soluzione prospettata da Codesta Amministrazione nel senso di concedere la possibilità di rendicontazione delle spese relative alle prestazioni dei soggetti appena richiamati, solo purché siano integrate le condizioni previste dalla circolare in materia. Ciò, quanto meno fino a nuova eventuale regolamentazione dei profili in esame, ove si riconsideri il divieto di svolgimento delle prestazioni ad opera degli stessi soci o amministratori, in ragione della peculiare realtà delle spin off. Non può tralasciarsi di considerare, tuttavia, che tale nuova regolamentazione, in ogni caso, potrà essere adottata pur sempre nel rispetto dei criteri di partecipazione a spin off dettati per il personale universitario dal D.M. 10 agosto 2011, n. 168, che regola i criteri per la partecipazione a dette società da parte del personale universitario nonché i casi di conflitto di interesse. 5) Quinto quesito. Relativamente al quesito sulla doverosità o meno di rifondere le spese relative al personale universitario distaccato presso lo spin-off alle università distaccanti, si osserva che la richiesta di parere non chiarisce se si tratta di distacco in senso formale o di altre forme di collaborazione. Nel richiamare quanto sopra osservato con riferimento alla necessità di rimborsare i costi afferenti ad attività di collaborazione che trovino una rispondenza nelle previsioni dell’art. 5 comma 24 e del par. 6.1 del D.M. 593/2000 più volte citato, si osserva che, in ogni caso, se gli obblighi retributivi sono assolti dall’Università che autorizza il distacco, come ordinariamente avviene in caso di formale distacco in virtù della consolidata giurisprudenza in materia (Cass. civ. Sez. Lav., 6 luglio 2015, n. 13841), non sussistono motivi per rimborsare il costo allo spin off. Si resta a disposizione per ulteriori chiarimenti. *** Coinvolgendo questioni di massima, il presente parere è stato sottoposto all’esame del Comitato consultivo, ai sensi dell’art. 26 della legge 3 aprile 1979, n. 103, che si è espresso in conformità nella seduta del 5 maggio 2016. 172 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 La revisione dei prezzi negli appalti di servizi PARERE DEL 11/05/2016-229719, AL 10949/16, AVV. GIACOMO AIELLO Con la nota che si riscontra è stato richiesto il parere della Scrivente sulla possibilità di estendere l’applicazione dell’art. 115, D.Lgs. n. 163/2006 a periodi in cui una prestazione di servizi è stata svolta senza contratto. Al fine di rispondere al suddetto quesito, appare opportuno ricostruire innanzitutto la vicenda da cui esso trae origine. Il Ministero ha stipulato con il Consorzio M. un contratto di durata quadriennale, con decorrenza dal 1° luglio 2006, per lo svolgimento di un servizio di pulizia, per un importo contrattuale di 460.400,30 euro annui, per un totale di 1.841.601,20 euro. Successivamente, in data 30 novembre 2010, è stato stipulato con il medesimo Consorzio un nuovo contratto, per il periodo 1 luglio - 31 dicembre 2010. Scaduto tale ultimo contratto, il Consorzio ha continuato a svolgere il servizio fino al 31 dicembre 2012 e successivamente, in virtù della cessione dello specifico ramo d’azienda, è subentrata la società E.P.M, che ha continuato l’esecuzione del servizio fino alla data del 31 dicembre 2014. Viene quindi riferito che tutte le prestazioni eseguite dal Consorzio e dalla E.P.M, sono state liquidate, su presentazione di fattura, che le prestazioni relative al periodo 1° gennaio 2011- 31 dicembre 2014 sono state oggetto di riconoscimento di debito, da parte di codesto Ministero e che sia il Consorzio M., che la E.P.M. hanno richiesto l’adeguamento del canone, ai sensi dell’art. 115, D.Lgs. 163/2006. Sulla base dei fatti fin qui riepilogati codesto Ufficio chiede quindi se sia legittima l’estensione dell’applicazione della suddetta norma, anche ai periodi in cui la prestazione è stata svolta dalle imprese senza contratto, ossia dal 1 gennaio 2011 al 31 dicembre 2014. Al riguardo, occorre osservare quanto segue. L’art. 115, D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, riproducendo quanto originariamente previsto dall'art. 6 comma 4, L. n. 537/1993, dispone che: “Tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo. La revisione viene operata sulla base di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell'acquisizione di beni e servizi sulla base dei dati di cui all'articolo 7, comma 4, lettera c) e comma 5”. L'istituto della revisione è preordinato, nell'attuale disciplina, alla tutela dell'esigenza dell'Amministrazione di evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta la stipulazione del contratto. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 173 La clausola di revisione periodica di tali contratti ha anche lo scopo di tenere indenni gli appaltatori della P.A. da quegli aumenti dei prezzi dei fattori della produzione che, incidendo sulla percentuale di utile stimata al momento della formulazione dell’offerta, potrebbero indurre l’appaltatore a svolgere il servizio o ad eseguire la fornitura a condizioni deteriori rispetto a quanto pattuito o, addirittura, a rifiutarsi di proseguire nel rapporto, con inevitabile compromissione degli interessi della P.A. Solo in via mediata l'istituto tutela l'interesse dell'impresa a non subire l'alterazione dell'equilibrio contrattuale conseguente alle modifiche dei costi che si verifichino durante l'arco del rapporto e che potrebbero indurla ad una surrettizia riduzione degli standard qualitativi delle prestazioni (così T.A.R. Puglia, Bari, Sez. I, n. 925/2006; Consiglio Stato, Sez. V, 9 giugno 2008 n. 2786; T.A.R. Puglia, Bari, Sez. I, 6 aprile 2007 n. 1047; 14 agosto 2008 n. 1970; 25 novembre 2008 n. 2666; 7 luglio 2009 n. 1751; 2 dicembre 2009 n. 2997). La giurisprudenza ritiene quindi che in frangenti eccezionali l’istituto della revisione prezzi possa fuoriuscire dalla mera esigenza dell’Amministrazione aggiudicante di evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo e tuteli - quindi - il contrapposto interesse dell’impresa di non subire l’alterazione dell’equilibrio contrattuale conseguente alle modifiche dei costi che potrebbero verificarsi durante l’arco del rapporto (cfr. al riguardo Cons. Stato, Sez. V, 9 giugno 2008 n. 2786). Tale eccezionalità - che conseguentemente legittima una quantificazione del compenso revisionale mediante il ricorso a differenti parametri statistici - va comunque intesa come ricorrenza di circostanze impreviste e imprevedibili, ossia non sussistenti al momento della sottoscrizione del contratto e delle quali non era prevedibile l’avveramento (TAR Veneto, sez. I, 1° febbraio 2010 n. 236). Occorre infine sottolineare che l'art. 6, L. n. 537/93 (oggi 115 del D.Lgs. n. 163/06) ha ad oggetto la “revisione periodica del prezzo”, “di talché l'aggiornamento del corrispettivo contrattuale, ivi previsto, non riguarda, per sua stessa natura, il primo periodo temporale di riferimento della prestazione contrattuale posta a carico dell'Amministrazione. In altri termini, la revisione del prezzo opera con periodicità annuale e, quindi, in relazione al corrispettivo riferibile alle annualità contrattuali successive alla prima” (T.A.R. Lazio Roma, sez. I, 2 aprile 2009, n. 3571; T.A.R Puglia, Lecce, sez. III, 7 aprile 2010, n. 898). Chiarita la ratio dell’art. 115, D.Lgs. n. 163/2006, occorre evidenziare come la giurisprudenza sia ormai costante nel ritenere la natura imperativa della suddetta norma, destinata, come tale, ad operare anche in assenza di specifica previsione tra le parti ovvero in presenza di previsioni contrastanti, con la conseguenza che le disposizioni negoziali contrastanti con tale disposizione legislativa non solo sono colpite dalla nullità ex art. 1419 c.c., ma sono destinate ad essere sostituite de iure, ex art. 1339 c.c., dalla disciplina imperativa di legge, 174 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 non essendo la stessa suscettibile di essere derogata pattiziamente (Cfr. T.A.R. Puglia Lecce, sez. III, 9 febbraio 2012, n. 244; Consiglio di Stato, sez. V, 20 maggio 2002, n. 2712; Consiglio di Stato, sez. V, 21 luglio 2015, n. 3594). Applicando tali considerazioni nella presente fattispecie, emerge come l’art. 5 del contratto stipulato tra il Ministero e il Consorzio (di durata quadriennale, con decorrenza dal 1° luglio 2006), nella parte in cui dispone che il compenso “(…) rimane fisso ed invariabile per tutta la durata del contratto (…)”, si ponga in contrasto con il disposto dell’art. 115, D.Lgs. n. 163/2006 e, pertanto, sia destinato ad essere sostituito di diritto da quest’ultima norma, per le ragioni sopra esposte. Quanto al periodo successivo alla scadenza contrattuale, (1° gennaio 2011 - 31 dicembre 2014), appare opportuno segnalare che, ove la prosecuzione del servizio sia avvenuta in totale assenza di contratto, ci si troverebbe dinnanzi ad un rapporto di “mero fatto” tra il Consorzio e l’Amministrazione. Al riguardo, è stata osservata l’impossibilità di ammettere che sia sorto un rapporto contrattuale per effetto del mero incontro della volontà delle parti, atteso che i contratti della pubblica Amministrazione richiedono, come noto, la forma scritta “ad substantiam”, quale strumento di garanzia del regolare svolgimento dell'attività amministrativa, nell'interesse sia del cittadino sia della stessa Pubblica Amministrazione (Cass. civ., sez. III, 28 settembre 2010, n. 20340; T.A.R. Sicilia Catania, sez. I, 23 gennaio 2009, n. 167; T.A.R. Puglia Lecce, sez. II, 9 luglio 2008, n. 2083; T.A.R. Veneto Venezia, sez. III, 23 maggio 2008, n. 1545; Consiglio Stato, sez. V, 15 dicembre 2005, n. 7147). In tale situazione codesta Amministrazione potrebbe rimanere esposta ad un’azione di ingiustificato arricchimento, di cui all’art. 2041 c.c. Ciò in quanto, ove si dimostrasse che l'Amministrazione abbia conseguito, senza giusta causa, un profitto a danno della ricorrente, si configurerebbe il diritto all'indennizzo, a favore di quest'ultima, per la diminuzione patrimoniale subita (Cfr. in tal senso Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Roma, sez. III, 20 gennaio 2006, n. 432; Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce - Sez. III, 7 aprile 2010 n.898; T.A.R. Potenza, Basilicata, sez. I, 10 gennaio 2012, n. 5). Il tema appare tuttavia di particolare delicatezza, più in generale, ove si consideri il recente revirement delle sezioni unite della Corte di Cassazione in tema di arricchimento senza causa della p.a. che elimina il requisito del riconoscimento dell’utilitas dai requisiti dell’azione consentendo al privato di limitarsi a provare il fatto oggettivo dell’arricchimento al quale la p.a. potrà solo opporre che l’arricchimento non fu voluto o non fu consapevole (Cass. sez. unite, 26 maggio 2015, n. 10798). Codesta Amministrazione potrebbe essere esposta in altri termini al pagamento di competenze maggiori di quelle che avrebbe corrisposto nella vigenza del contratto e per effetto della revisione prezzi. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 175 Per queste ragioni si segnala l’urgente necessità che codesta Amministrazione proceda sollecitamente all’indizione di una procedura di gara per l’affidamento dell’appalto di servizi in commento al fine di ripristinare la piena regolarità della situazione. A diverse conclusioni si dovrebbe pervenire invece nell’ipotesi in cui l’appaltatrice abbia continuato a svolgere il servizio, nel periodo 1 gennaio 2011 - 31 dicembre 2014, in virtù di una proroga del contratto originariamente stipulato con l’Amministrazione. Al riguardo, appare opportuno segnalare una recente pronuncia del Consiglio di Stato, che distingue chiaramente, ai fini dell’applicabilità dell’art. 115, D.Lgs. n. 163/2006, le ipotesi di rinnovo del contratto da quelle di proroga. Afferma infatti il Giudice amministrativo che “La revisione dei prezzi di cui all'art. 6, l. 24 dicembre 1993 n. 537 e all'art. 115 del codice dei contratti si applica solo alle proroghe contrattuali, come tali previste ab origine negli atti di gara ed oggetto di consenso "a monte" (proroghe, nella specie, non previste: cfr. art. 2 del capitolato), ma non anche agli atti successivi al contratto originario con cui, mediante specifiche manifestazioni di volontà, è stato dato corso tra le parti a distinti, nuovi ed autonomi rapporti giuridici, ancorché di contenuto identico a quello originario per quanto concerne la remunerazione del servizio, senza che sia stata avanzata alcuna proposta di modifica del corrispettivo, che pure la parte privata era libera di formulare (Consiglio di Stato, sez. III, 11 luglio 2014, n. 3585)” (Consiglio di Stato, sez. III, 22 gennaio 2016 n. 209). La proroga del termine finale di un appalto, infatti, comporta il solo differimento del termine di scadenza del rapporto (il quale resta regolato dalla sua fonte originaria), mentre il rinnovo del contratto costituisce una nuova negoziazione con la controparte, ossia un rinnovato esercizio dell'autonomia negoziale attraverso cui vengono liberamente pattuite le condizioni del rapporto. Nel caso sopra menzionato, prosegue il Consiglio di Stato, “dal testo degli atti di temporaneo affidamento della Direzione Regionale dell'INPS si evince l'acquisizione, di volta in volta, della volontà negoziale del Consorzio a proseguire l'esecuzione delle prestazioni alle stesse condizioni e prezzi già praticati in precedenza. Tale scambio di volontà negoziali e l'espresso riferimento alle condizioni pattuite lasciano intendere la consapevolezza da parte del Consorzio dell'alea contrattuale di volta in volta assunta e la libera scelta di aderirvi, incompatibile col meccanismo della revisione prezzi” (Consiglio di Stato, sez. III, 22 gennaio 2016 n. 209). È stato infatti più volte osservato in giurisprudenza (TAR Campania - Salerno n. 2956/2007; TAR Sardegna n. 45/2007), che la riconosciuta natura imperativa dell'art. 6 L. n. 537/1993 (oggi art. 115, D.Lgs. n. 163/2006) e la sua capacità d'imporsi ai patti contrari non può comportare l'assoluta irrilevanza degli eventuali successivi accordi delle parti che, rinegoziando volontaria- 176 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 mente e nuovamente l'originario assetto del rapporto contrattuale, rinnovino le condizioni del contratto originario, sicché quest'ultimo venga a costituire solo il mero presupposto della rinegoziazione, mentre la revisione dei prezzi attiene all'assetto originario degli interessi delle parti ed opera, pertanto, rebus sic stantibus. Diversamente opinando verrebbe vanificata la ratio dell'art. 6 L. n. 537/93 che è quella di adeguare il prezzo determinato nell'originario rapporto per finalità di conservazione del livello qualitativo delle prestazioni dell'appaltatore, finalità di conservazione che non sussistono allorquando il rapporto, nel rinnovato esercizio dell'autonomia negoziale, è consensualmente rinegoziato (T.A.R. Basilicata, Potenza, sez. I, 14 febbraio 2014 n. 137). In conclusione, è possibile affermare che, ove la prosecuzione del servizio sia avvenuta sulla base di un rinnovo o in assenza di contratto, non sarebbe possibile riconoscere il diritto del Consorzio e della Società alla revisione del prezzo, ex art. 115, D.Lgs. 163/2006, per il periodo 1 gennaio 2011-31 dicembre 2014. Sul presente parere è stato sentito il Comitato consultivo che, nella seduta del 5 maggio 2016, si è espresso in conformità. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 177 Edilizia residenziale pubblica e condizioni applicabili alle alienazione degli immobili già assegnati ai sensi dell’art. 18 del D.L. n. 152/1991 PARERE DEL 30/05/2016-263282, AL 5159/16, AVV. PAOLA PALMIERI Con nota del 4 febbraio 2016 n. 1427, codesto Ministero ha richiesto motivato parere in merito alle condizioni applicabili alle alienazioni degli alloggi previsti dal programma straordinario di edilizia residenziale per i dipendenti delle Amministrazioni dello Stato impegnati nella lotta alla criminalità organizzata di cui all’art. 18 D.L. n. 152/1991, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. n. 203/1991. In particolare, si chiede se gli immobili rientranti in tale disposizione, attualmente di proprietà degli ex IACP - ove eventualmente inseriti nei Piani di alienazione di cui al D.M. 24 febbraio 2015, adottato in attuazione dell’art. 3, comma 1, del D.L. n. 47 del 2014 - debbano essere assoggettati ad un prezzo di vendita di mercato, previa perizia tecnica dell’ente proprietario, ovvero al prezzo di alienazione previsto per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica. Si premette che il Decreto Legge n. 152 del 1991, nell’ambito dei “Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa”, ha previsto, all’art. 18, l’avviamento di un programma straordinario di edilizia residenziale da destinare ai dipendenti delle Amministrazioni dello Stato in connessione con le esigenze della lotta alla criminalità organizzata. La realizzazione degli interventi di edilizia residenziale agevolata e di edilizia sovvenzionata è demandata da tali disposizioni ai Comuni, agli IACP, ad imprese di costruzione e loro consorzi ed a cooperative e loro consorzi, sulla base di stanziamenti differenziati per l’edilizia agevolata o sovvenzionata (art. 18, comma 1 lett. a) e b)). Il citato art. 18 dichiara espressamente, in apertura, come il programma straordinario sia destinato a favorire la mobilità del personale dipendente delle Amministrazioni dello Stato per le specifiche esigenze di contrasto di particolari fenomeni criminosi. Per favorire tale obiettivo, la disposizione impone di dare priorità, nella concessione in locazione o godimento degli alloggi, a coloro che siano stati trasferiti per ragioni di servizio. La ratio della norma, dunque, è quella di agevolare una specifica categoria di beneficiari per ragioni diverse dalle motivazioni di tipo economico o sociale che generalmente sono alla base delle assegnazioni in uso derivanti dai programmi di edilizia residenziale pubblica e che, piuttosto ineriscono alla necessità di trovare alloggio ai dipendenti in mobilità al fine di soddisfare le finalità generali della normativa in cui detta norma è inserita (ovvero il contrasto alla criminalità organizzata ). 178 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Come previsto dall’art. 5 comma 2 L. n. 21/2001 recante “Misure per ridurre il disagio abitativo ed interventi per aumentare l’offerta di alloggi in locazione” gli alloggi di cui all’art. 18 D.L. n. 152/1991 possono essere assegnati in base alla normativa relativa all’edilizia residenziale pubblica solo qualora siano venute meno le finalità originarie e manchino le richieste di assegnazione da parte dei dipendenti dello Stato. La disposizione richiamata, quindi, conferma la specificità di presupposti e finalità posti alla base dell’intervento edificatorio. Come ricordato dal Consiglio di Stato, inoltre, il sostegno pubblico all’intervento edilizio si giustifica in quanto strumentale al raggiungimento dell’obiettivo finale di facilitare agli assegnatari l’accesso ad unità abitative nei luoghi in cui è svolto l’incarico lavorativo (In tal senso Consiglio di Stato Sez. IV n. 1125/2014, ove si legge che la primaria esigenza da rispettare nella definizione del canone di locazione degli immobili rientranti nel programma straordinario deve rinvenirsi nella oggettiva sostenibilità del canone locativo stesso, in quanto, diversamente verrebbe frustrata proprio quella finalità di agevolazione della mobilità del personale che è alla base della previsione legislativa di favore). Il fatto che i canoni così determinati siano comunque superiori a quelli determinabili in base alla normativa vigente per l’edilizia residenziale pubblica, tuttavia, non vale, come si sostiene nella richiesta di parere, a dimostrare che anche il prezzo di alienazione debba essere necessariamente differenziato in ragione della peculiarità di tali immobili. a) L’art. 3 comma 1, lett. a) e b) del D.L. n. 47/2014 recante “Misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015”, è intervenuto in modifica all’art. 13 del D.L. n. 112 del 2008, convertito in Legge n. 133 del 2008 (“Misure per la razionalizzare la gestione e la dismissione del patrimonio residenziale pubblico”), dettando, in linea generale, le misure per l’alienazione di immobili di proprietà dei comuni, degli enti pubblici anche territoriali, degli Istituti autonomi per le case popolari e rinviando ad un apposito decreto l’approvazione delle procedure di alienazione. Si tratta, dunque, di una generale previsione che, nell’intento di favorire l’accesso alla proprietà dell’abitazione, dispone la dismissione del patrimonio pubblico nell’ottica di una razionalizzazione di detto patrimonio e della riduzione degli oneri a carico della finanza locale. In sede di conversione è stato poi inserito, sempre all’interno dell’art. 3 del D.L. n. 47/2014, il comma 1-ter, ove è stabilito che “Gli alloggi finanziati in tutto o in parte ai sensi dell’art. 18 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, possono essere alienati dagli enti proprietari e trasferiti in proprietà agli assegnatari, prima del periodo indicato al punto 5 della deliberazione del Comitato Interministeriale per la programmazione economica del 20 dicembre 1991, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 15 del 20 gennaio 1992, e prima del periodo PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 179 eventualmente indicato da convenzioni speciali concernenti i singoli interventi. Nel caso in cui l’assegnatario acquisti l’immobile esso viene automaticamente liberato dal vincolo di destinazione”. Il comma 1-ter dell’art. 3 L. n. 80/2014, dunque, conferma che detti immobili possono essere alienati ma, al contempo, introduce un ulteriore spinta in favore della dismissione, anticipando, per detta categoria di alloggi, il termine decorso il quale la vendita è consentita. Nel caso di specie, gli immobili dati in assegnazione ai sensi dell’art. 18 del D.L. 152 del 1991 sono immobili di proprietà degli ex IACP, come si legge nella richiesta di parere e, pertanto, non vi è dubbio che gli stessi rientrino nell’alveo applicativo dell’art. 13 D.L. n. 112/2008, come modificato dall’art. 3 L. n. 80/2014. Sotto il profilo dell’oggetto del programma di alienazione ivi disciplinato la disposizione, infatti, fa indubbiamente riferimento agli immobili di proprietà dei Comuni, degli enti pubblici anche territoriali, nonché degli (ex) Istituti Autonomi per le case popolari, comunque denominati. Il carattere omnicomprensivo della formulazione utilizzata dalla menzionata disposizione - riferita alla titolarità dell’immobile - non consente, dunque, di escludere dall’area applicativa della stessa gli immobili realizzati in attuazione del programma straordinario di cui all’art. 18 D.L. n. 152/1991, ove di proprietà dei soggetti pubblici suindicati. In attuazione di quanto previsto dal citato art. 3, comma 1 lett. a) e b) è stato adottato il D.M. del 24 febbraio 2015 (“Procedure di alienazione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica”), che ha individuato procedure e criteri di alienazione al fine di conseguire una razionalizzazione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica ed una riduzione degli oneri a carico della finanza locale, garantendo comunque i diritti degli assegnatari. A parere di questo G.U., dunque, esso ricomprende anche le procedure di dismissione di alloggi di proprietà degli ex IACP che risultino assegnati per le esigenze di lavoratori in mobilità ed eventualmente inseriti - secondo quanto prospettato da codesto Ministero - nei piani di dismissione di detti enti. Poiché, come evidenziato, le ragioni che si pongono a fondamento di un programma di dismissione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica sono autonome e non del tutto coincidenti con quelle che presiedono all’assegnazione di tali immobili in locazione, ne discende la possibilità di assoggettare detti immobili non solo alla particolare procedura di vendita di cui al menzionato Decreto ministeriale, ma anche al prezzo di vendita ivi indicato (art. 2 del D.M.: “Criteri per l’alienazione”). b) Ulteriore conferma della tesi qui sostenuta discende anche dalla difficoltà di considerare gli immobili realizzati nell’ambito del programma straordinario volto a favorire la mobilità dei dipendenti, come immobili del tutto distinti da quelli relativi all’edilizia residenziale pubblica in senso stretto. Se 180 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 è vero che gli immobili ex art. 18 D.L. 152/1991 sono stati costruiti al fine di soddisfare le esigenze di mobilità del personale ed in ragione del contrasto alla criminalità organizzata, tuttavia, occorre pur sempre considerare che gli stessi sono stati realizzati con il concorso del finanziamento dello Stato. Ora, la L. n. 560/1993 recante “Norme in materia di alienazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica” ricomprende tra gli immobili di edilizia residenziale pubblica quelli realizzati o acquisiti a carico o con contributo dello Stato, della Regione o di enti pubblici territoriali, nonché con i fondi derivanti da contributi dei lavoratori ai sensi della legge n. 60/1963 dallo Stato, da enti pubblici territoriali, nonché dagli Istituti Autonomi per le case popolari e dai loro consorzi comunque denominati, compresi gli alloggi di cui alla L. n. 52/1976; gli alloggi delle Amministrazioni delle PP.TT.; gli alloggi non di servizio di proprietà della società Ferrovie dello Stato; gli alloggi acquisiti dal Ministero del Tesoro già di proprietà degli Enti previdenziali disciolti. Come precisato dalla Circolare dell’allora Ministero dei Lavori Pubblici n. 31 del 30 giugno 1995 adottata per chiarire l’ambito applicativo della normativa primaria sopra richiamata, la legge richiamata fa riferimento al solo requisito relativo al soggetto finanziatore della realizzazione, acquisto o recupero dell’immobile, indipendentemente dai criteri di assegnazione dell’immobile o a quelli di determinazione del canone. La legge, infatti, accomuna in punto di disciplina dell’alienazione, sia immobili della c.d. edilizia residenziale ordinaria che quelli destinati al personale delle Forze dell’ordine e, ancora, quelli delle Amministrazioni delle PP.TT. comprendendo espressamente tutti gli immobili realizzati con i programmi ordinari e straordinari, indipendentemente dai criteri e dai requisiti previsti per l’assegnazione o locazione e dal tipo di canone o di corrispettivo applicato. Di qui, dunque, la conferma circa la possibilità di assoggettare ad identica disciplina l’alienazione di immobili del patrimonio residenziale pubblico che pure in precedenza fossero stati assegnati ai beneficiari in base a presupposti particolari, inerenti alle esigenze di mobilità del personale più che alle condizioni sociali dei beneficiari. L’art. 2 del richiamato decreto del 24 febbraio 2015 stabilisce, inoltre, che “gli immobili rientranti nei programmi di alienazione di cui al presente decreto … sono previamente offerti in vendita agli assegnatari dei medesimi in possesso dei requisiti di permanenza nel sistema dell’edilizia residenziale pubblica fissati dalle vigenti normative regionali ed in regola con il pagamento delle spese, al valore che risulta applicando un moltiplicatore pari a 100 alle rendite catastali determinate secondo le normative vigenti al momento della definizione dell’offerta ed applicando le riduzioni ivi previste” . Per le considerazioni espresse, dunque, non sussistono ragioni tali da differenziare, rispetto alle procedure di dismissione dei beni di proprietà degli ex IACP, i soli immobili a suo tempo assegnati in locazione per le finalità di PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 181 cui al più volte menzionato art. 18 e per sottrarre i medesimi alla determinazione del prezzo così regolata (Ad ulteriore conferma del collegamento degli immobili di cui si discute con l’edilizia residenziale pubblica, v. anche Cons. di Stato, sez. IV, n. 4326 del 6 luglio 2009). 2) Per quanto concerne la possibilità di ritenere i medesimi immobili assoggettati al particolare regime di riscatto previsto dall’art. 8 del D.L. n. 47 del 2014, detta disposizione si riferisce a diverso ambito, identificato dalle convenzioni che disciplinano le modalità di locazione degli alloggi sociali. Questi ultimi sono definiti dal D.M. 22 aprile 2008 nelle “unità immobiliari adibite ad uso residenziale in locazione permanente che svolge funzione di interesse generale, nella salvaguardia della coesione sociale, di ridurre il disagio abitativo di individui e nuclei familiari svantaggiati, che non sono in grado di accedere alla locazione di alloggi nel libero mercato”. In tal caso, il riferimento alla peculiare definizione di alloggio sociale, fa sì che da essi siano esclusi gli alloggi a suo tempo assegnati in locazione ai dipendenti ai sensi dell’art. 18 del DL n. 152 del 1991 la cui ratio, oltretutto, si ispira a motivazioni del tutto diverse ed in relazione alle quali le ragioni sottese alla previsione di riscatto anticipato non sono utilmente richiamabili. Peraltro, il comma 5 bis dell’art. 8 in esame prevede che il regime di riscatto ivi disciplinato si applichi solo ai contratti di locazione con clausola di trasferimento della proprietà vincolante per ambedue le parti e di vendita con riserva di proprietà stipulati successivamente alla data di entrata in vigore del medesimo art. 8, là dove, come esposto nella richiesta di parere, gran parte delle locazioni di interesse sono stati sottoscritti in data precedente. *** In conclusione, per rispondere ai quesiti posti: a) gli immobili di proprietà degli ex IACP già assegnati ai sensi dell’art. 18 del D.L. n. 152 del 1991 - ove inseriti nelle procedure di dismissioni del patrimonio pubblico ai sensi dell’art. 13 del D.L. n. 112 del 2008 - soggiacciono alle previsioni attuative di cui al D.M. 24 febbraio 2015, ivi compresa la determinazione del prezzo ivi prevista; b) ai medesimi immobili non si applicano le particolari previsioni di riscatto di cui all’art. 8 del D.L. n. 47 del 2014, siccome riferite alle sole locazioni degli “alloggi sociali “ di cui al D.M. 22 aprile 2008, ferma restando la possibilità per l’ente proprietario di procedere all’alienazione dell’immobile in favore degli assegnatari prima dei termini previsti, ai sensi dell’art. 3, comma 1 ter, del D.L. n. 47 del 2014. Coinvolgendo questioni di massima, il presente parere è stato sottoposto all’esame del Comitato consultivo, ai sensi dell’art. 26 della legge 3 aprile 1979, n. 103, che si è espresso in conformità nella seduta del 25 maggio 2016. 182 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Programma sperimentale di edilizia residenziale denominato “20.000 abitazioni in affitto” (D.M. 2523/2001) PARERE DEL 06/06/2016-274167, AL 18551/2016, AVV. ETTORE FIGLIOLIA Relativamente al quesito inerente all’oggetto, e di cui alla nota che si riscontra si osserva quanto segue. Il Decreto ministeriale n. 2523 del 27 dicembre 2001 (20.000 abitazioni in affitto) è stato adottato in dichiarata attuazione dell’art. 3 comma 1 della legge 8 febbraio 2001 n. 21 che, com’è noto, prevede espressamente che il canone debba essere determinato in termini di convenzionamento ex art. 2 comma 3 della legge 9 dicembre 1998 n. 431. Conseguentemente il predetto decreto ministeriale all’art. 5 dispone che “il canone di locazione è fissato in misura non superiore a quello concertato di cui all’art. 2, comma 3, della legge 9 dicembre 1988 n. 431”. Per quanto precede, a prescindere dalle applicazioni in concreto operate del citato decreto ministeriale, non sembrano sussistere dubbi sulla conformità del decreto stesso al parametro legislativo prima menzionato, e ciò a prescindere dalla dizione utilizzata dal legislatore nella qualificazione della tipologia della edilizia così realizzata, in quanto alla stregua del quadro normativo di riferimento, non sembra avere decisivo rilievo il riconoscimento in termini di edilizia agevolata o residenziale dei cespiti in parola. Ed è appena il caso di rilevare come con la legge n. 21/2001 nel definire il “programma sperimentale per la riduzione del disagio abitativo”, il legislatore parrebbe aver posto in essere un intervento di carattere straordinario “per rispondere alle esigenze abitative di categorie sociali deboli e di nuclei familiari soggetti a provvedimenti esecutivi di sfratto”, così puntualmente determinate, in termini sostanzialmente divaricati rispetto alle categorie individuate a legislazione vigente, dettando così una apposita disciplina speciale ed in parte derogatoria rispetto alla normativa esistente. D’altronde non può esimersi la Scrivente dal rilevare che il quadro normativo vigente, alla stregua del quale è stato adottato il decreto ministeriale oggetto delle contestazioni formulate dal Deputato Roberta Lombardi, è temporalmente posteriore alla normativa invocata dalla parlamentare ai fini della diversa quantificazione del canone (L. n. 179/1992), per cui debbono senz’altro condividersi le considerazioni formulate da codesto Ministero nel carteggio intercorso con la stessa parlamentare. Per quanto precede trattandosi proprio di materia disciplinata legislativamente, “de iure condito” il decreto ministeriale di che trattasi risulta esente dalle critiche oggetto della delibazione della presente consultazione, ferma ovviamente la possibilità che il legislatore, come anche auspicato dall’on. Lombardi con la nota del 1 aprile 2016 (in all.3), intervenga sulla materia PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 183 stessa allo scopo di far rientrare i contratti di locazione in argomento nella disciplina più favorevole per i conduttori di cui alla legge 179/1992. Nei sensi suesposti è il richiesto parere. Sulle questioni trattate è stato sentito il Comitato Consultivo della Avvocatura dello Stato che si è espresso in conformità. 184 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Trasformazione di enti collettivi: sul passaggio diretto da associazione a fondazione PARERE DEL 27/06/2016-309193, AL 17576/16, AVV. GIUSEPPE ALBENZIO Codesta Prefettura ha formulato quesito sulla possibilità di trasformazione diretta da associazione in fondazione dell'Accademia del Cinema Italiano, attualmente avente la natura di "associazione non riconosciuta". 1. In materia è stata emanata dal Ministero dell'Interno-Dipartimento per gli affari interni e territoriali la nota M/2014001395 del 16 giugno 2015 che, sulla scorta della prevalente giurisprudenza amministrativa e di un parere dell'Avvocatura Generale dello Stato del 9 luglio 2014, informava le Prefetture e gli altri destinatari che l'orientamento negativo era stato confermato dal parere del Consiglio di Stato, sez. I, n. 2588/2014, secondo il quale: "gli artt. 2500 septies e octies c.c. rappresentano una deroga, dettando una normativa di favore per la trasformazione diretta, che non può applicarsi alle ipotesi non espressamente contemplate, per le quali riprende vigore la disciplina generale... Ciò implica l'inammissibilità della trasformazione diretta da associazione a fondazione, poiché il procedimento normativamente previsto per la costituzione della fondazione è incompatibile con la preesistenza di una struttura associativa, in particolare con l'art. 3, comma 1, d.p.r. 361/2000"; tale orientamento negativo è stato successivamente confermato da altro parere del Consiglio di Stato n. 296/2015. Nella richiesta formulata dall'Accademia si richiama e valorizza il diverso orientamento dello stesso Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sez. V, sentenza 23 ottobre 2014, n. 5226: "Dopo le modifiche introdotte al codice civile dalla riforma del diritto societario di cui al d.leg. n. 6 del 2003, la trasformazione di enti collettivi è un istituto di carattere generale e il passaggio da associazione a fondazione deve considerarsi non solo ammissibile, a fortiori rispetto alle ipotesi di trasformazione eterogenea espressamente previste (art. 2500 septies e 2500 octies c.c.), ma altresì costituisce un’ipotesi di trasformazione «omogenea», poiché lascia inalterato il fine non lucrativo") e del TAR Lombardia (sez. I, sentenza 14 febbraio 2013, n. 445), secondo cui la trasformazione diretta da associazione non riconosciuta a fondazione sarebbe consentita perché trattasi di "una trasformazione 'omogenea', che lascia inalterato il fine non lucrativo, ammissibile a fortiori rispetto alle ipotesi di trasformazione eterogenea espressamente previste (art. 2500 septies e octies), ma che determina una modifica del regime di responsabilità per le obbligazioni sociali"; il TAR Lombardia - dal canto suo - aveva deciso nello stesso senso "dovendosi ritenere che l'espresso riconoscimento del passaggio da o in società di capitali consenta, senza dover necessariamente addivenire allo schema societario intermedio, la trasformazione da e in tutte le figure giuri- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 185 diche (compresa quindi l'associazione riconosciuta) contemplate dagli artt. 2500 septies e 2500 octies c.c.". 2. Ad avviso di questa Avvocatura, l'orientamento espresso dalle sentenze da ultimo richiamate (e concretamente seguito, in qualche caso, ad esempio con il riconoscimento prefettizio della personalità giuridica alla fondazione costituita a seguito dello scioglimento dell'associazione "Alleanza nazionale" - cfr. Cass., sez. un., ord. 8 maggio 2014, n. 9942; Cons. Stato, sez. III, ord. 5 ottobre 2012 n. 4016) appare condivisibile, alla luce delle seguenti considerazioni. 2.1 In primo luogo, occorre considerare che, nella specie, l'associazione "Accademia del cinema italiano" andrebbe a trasformarsi in una forma particolare di fondazione, cioè la "fondazione di partecipazione" (BELLEZZA - FLORIAN, Fondazioni di partecipazione, Milano 2006), la cui natura viene ad essere caratterizzata da elementi in comune con la figura classica dell'associazione [cfr. T.a.r. Piemonte, sez. I, 7 novembre 2012, n. 1159: "La fondazione di partecipazione, benché strutturalmente atipica, presenta di norma alcune caratteristiche proprie della fondazione in senso tradizionale (in particolare la dotazione di un elemento patrimoniale iniziale), combinate con alcune caratteristiche delle associazioni (in particolare la dinamicità dell’elemento personale, in quanto aperta all’adesione di nuovi soggetti pubblici o del c.d. «terzo settore», di tempo in tempo interessati a parteciparvi per contribuire allo sviluppo del fine attribuito statutariamente); ne discende che il perseguimento di finalità non industriali né commerciali, caratteristico dell’organismo di diritto pubblico, emerge dallo stesso d.n.a. della fondazione di partecipazione"]. 2.2 In secondo luogo, il corpus normativo di riferimento deve essere individuato negli art. 14 e seg. cod. civ., segnatamente, per le fondazioni di partecipazione, nell'art. 12 cod. civ., ora art. 1 dpr. 10 febbraio 2000, n. 361, Riconoscimento di persone giuridiche private (in tal senso anche Cons. Stato, commiss. spec., 20 dicembre 2000, n. 288/00), non nelle disposizioni del titolo V del Codice civile (Delle società), come riformato - fra l’altro - con i decreti legislativi 17 gennaio 2003, n. 5 e 6. Da ciò consegue che la trasformazione da associazione in fondazione deve intendersi “omogenea”, integrando la natura di “eterogenea” solo la trasformazione da soggetto giuridico regolato dal primo corpus normativo (Titolo II del Libro primo) a soggetto regolato dal secondo corpus (Titolo V del Libro quinto) e viceversa, come del resto reso evidente dagli art. 2500 septies e 2500 octies c.c. (in tal senso, ancora, Cass. 9942/2014, nel testo che di seguito riportiamo). 2.3 In terzo luogo, le ragioni dell'orientamento negativo alla diretta trasformabilità, nei termini individuabili nelle motivazioni dei pronunciamenti sopra citati, sembrano superabili mediante i controlli demandati al Prefetto in sede di autorizzazione alla trasformazione, come evidenziato nelle pronunzie del menzionato orientamento favorevole. 186 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 In particolare, la necessità di salvaguardare gli ipotetici creditori [T.a.r. Toscana, sez. I, 24 novembre 2011, n. 1811: "È legittimo il rifiuto di iscrizione nel registro delle persone giuridiche private di una fondazione, nata dalla trasformazione di precedente associazione, motivato dal fatto che l’operazione non consente all’autorità amministrativa di verificare la congruità del patrimonio dell’ente trasformato, quando sia mancata la fase di liquidazione dell’associazione, potendo i creditori successivamente aggredire il patrimonio del nuovo ente"; T.a.r. Piemonte, sez. I, 29 giugno 2012, n. 781: "È legittimo il diniego prefettizio di iscrizione nel registro delle persone giuridiche di una fondazione derivante in via diretta, mediante trasformazione, da un’associazione non riconosciuta, dal momento che la predetta trasformazione (c.d. eterogenea), non essendo preceduta da un meccanismo preventivo di confronto con i creditori dell’associazione (come invece previsto in ambito societario dall’art. 2500 novies c.c., non suscettibile di applicazione analogica) espone il patrimonio della neo costituita fondazione, in forza del principio di continuità dei rapporti giuridici, a possibili azioni dei creditori dell’associazione, così impedendo al prefetto, all’atto di autorizzare l’iscrizione della fondazione nel registro delle persone giuridiche, di verificare preventivamente l’adeguatezza del patrimonio dell’ente alla realizzazione dello scopo statutario, secondo quanto previsto dall’art. 1, 3º comma, d.p.r. 361/00"] andrebbe verificata in concreto e alla luce delle eventuali garanzie offerte dall'associazione che richieda la trasformazione; infatti, l'atto di trasformazione dell'associazione in fondazione va considerato come atto fondativo di quest'ultima e, quindi, soggetto al controllo prefettizio prescritto per il riconoscimento; in tal senso, esplicitamente, TAR Lombardia n. 445/2013 e Cons. Stato n. 5226/2014. Utili spunti possono essere tratti anche dalla citata ordinanza 9942/2014 delle Sezioni unite della Cassazione, ove si legge: “che, nella specie - siccome il nucleo fondamentale delle censure formulate nel giudizio amministrativo a quo al provvedimento prefettizio di riconoscimento della personalità giuridica alla fondazione A.N. sta nella dedotta carenza del requisito oggettivo dell’adeguata consistenza patrimoniale della stessa fondazione -, rilevano specificamente, ai fini della decisione della questione di giurisdizione, i commi da 3 a 6 dell’art. 1 citato d.p.r. n. 361 del 2000,… che tuttavia lo stesso regolamento, nel conservare ovviamente i requisiti minimi della possibilità e della liceità dello scopo dell’ente (art. 1, 3° comma, dianzi riprodotto), ha mantenuto un rilevante ambito di apprezzamento dell’amministrazione prefettizia, che si manifesta, oltre che nella presentazione di una «domanda per il riconoscimento» e per l’iscrizione nel registro delle persone giuridiche, con il corredo della documentazione necessaria (atto costitutivo e statuto: art. 1, 2° comma), anche nell’attribuzione alla stessa am- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 187 ministrazione di un significativo margine di valutazione concernente il requisito dell’«adeguatezza» del patrimonio fornito in dotazione all’ente rispetto alla realizzazione dello scopo (art. 1, 3° comma), requisito che comporta quindi la dimostrazione, da parte dell’ente richiedente, della consistenza del patrimonio in tale prospettiva, da offrirsi mediante idonea documentazione, della quale pure si prescrive l’allegazione alla domanda (art. 1, 4° comma); che, inoltre, anche la scansione dei tempi del procedimento è coerente con il predetto connotato, essenzialmente concessorio, del provvedimento: il prefetto richiesto, infatti, provvede all’iscrizione entro centoventi giorni dalla data di presentazione della domanda, ma, se ravvisa «ragioni ostative» ovvero riscontra la necessità di integrazioni documentali, ne dà comunicazione motivata ai soggetti richiedenti, i quali fruiscono di un ulteriore termine di trenta giorni per replicare a tali «ragioni ostative», e se nei successivi trenta giorni non interviene l’adozione di un provvedimento esplicito, positivo o negativo, il silenzio dell’amministrazione deve intendersi come «diniego» dell’iscrizione (art. 1, 5° e 6° comma), la quale, quindi, non costituisce «diritto» del richiedente; che, infine, detto connotato concessorio - come è stato sottolineato anche in dottrina - è pienamente coerente con la specifica ratio del previsto controllo pubblico: la prescrizione del requisito dell’«adeguatezza» patrimoniale risponde, infatti, all’esigenza di accordare il beneficio della responsabilità limitata esclusivamente in presenza di un «patrimonio adeguato alla realizzazione dello scopo» (art. 1, 3° comma) e di negarlo, invece, in caso di «sottopatrimonializzazione» dell’ente, ciò valendo con riferimento sia al momento costitutivo della persona giuridica - attraverso il controllo prefettizio, appunto -, sia ai successivi momenti di operatività dell’ente, in forza dei meccanismi giuridici di vigilanza e di scioglimento previsti dagli art. 25-28 c.c., rimasti sostanzialmente immutati anche dopo il d.p.r. n. 361 del 2000 che ne integra semplicemente i disposti (art. 6), rilievi, questi, che acquistano ulteriore consistenza anche alla luce della possibilità della trasformazione, c.d. «eterogenea», della fondazione in società di capitali ad opera dell’autorità governativa, secondo quanto prevede l’art. 2500 octies, 4° comma, c.c. («La trasformazione di fondazioni in società di capitali è disposta dall’autorità governativa, su proposta dell’organo competente [...]»; v. anche l’art. 223 octies disp. att. c.c.)”. 3. Occorre anche considerare che la giurisprudenza anteriore alla riforma del diritto societario aveva ritenuto legittimi alcuni tipi di trasformazione "eterogenea" (da associazione non riconosciuta in società cooperativa, da consorzio in società consortile, da società consortile in cooperativa: Trib. Udine 8 aprile 1978; Trib. Tolmezzo 28 agosto 1978; Trib. Trieste 11 febbraio 1980), a dimostrazione dell'assenza di un divieto generale per tale tipo di trasformazioni (e, a maggior ragione, per le trasformazioni “omogenee”). 188 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Gli art. 2500 septies e octies si possono, quindi, interpretare con funzione di semplice liberalizzazione chiarificatrice delle trasformazioni ivi contemplate, senza alcuna implicita introduzione di un divieto per le altre trasformazioni non contemplate. Del resto, se - in forza di una interpretazione letterale degli articoli menzionati - non si potrebbe mai negare (salvo l'eccezione di cui all'art. 2500 octies, comma 3) la doppia e sequenziale trasformazione da associazione o fondazione in società di capitali e da quest'ultima alle prime, non si vede ragione per negare la diretta trasformabilità, evitando l'inutile duplicazione di attività (come sottolineato dalle sentenze che hanno ritenuto legittima la trasformazione da associazione in fondazione) e salvaguardando il principio della libertà negoziale, nel rispetto degli altri interessi coinvolti e che, come già detto, possono trovare tutela con altri mezzi. 4. In conclusione, la Scrivente Avvocatura, confermando l’orientamento espresso nel parere del 19 marzo 2015 (reso alla Prefettura di Verona per la fondazione “Progetto Mondo ONLUS”) e ritenendo definitivamente superato l’avviso espresso nel precedente parere del 9 luglio 2014 (menzionato nella citata nota 16 giugno 2015 del Ministero), alla luce della successiva sentenza n. 5226/2014 del Consiglio di Stato e delle considerazioni sopra formulate, ritiene che la trasformazione da associazione in fondazione e viceversa sia da qualificarsi come omogenea ed autorizzabile in via generale, con le garanzie e gli accorgimenti sopra evidenziati. Ovviamente, va verificato caso per caso se gli accorgimenti apprestati dagli associati ai fini della soddisfazione dei creditori, prima della trasformazione, siano sufficienti per garantire la certezza del patrimonio della costituenda fondazione; a titolo meramente esemplificativo e fermo restando quanto statuito dall’art. 2500 quinquies cod. civ., può essere ritenuto utile l’iter del quale è cenno nella citata ord. 9942/2014 della Cassazione (apertura di procedura di liquidazione della vecchia associazione al fine della soddisfazione dei creditori e successiva attuazione della determina di trasformazione in fondazione quale socio fondatore, con conferimento del capitale residuo attivo della liquidazione - ed eventuale integrazione se necessaria - e con apertura della detta fondazione all’apporto di altri soci). Il presente parere è stato sottoposto all’esame del Comitato consultivo di questa Avvocatura che, nella seduta del 27 giugno 2016, lo ha approvato. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 189 Applicabilità e misura della penale contrattuale in caso di informazione di interdittiva antimafia sopravvenuta nel corso dell’esecuzione o a ultimazione dei lavori PARERE DEL 27/06/2016 - 309204, AL 48015/2015, AVV. MARIO ANTONIO SCINO 1. Premessa: il quesito. L'Avvocatura distrettuale dello Stato di Bologna ha chiesto di esprimere parere "in ordine alle condizioni e misura di applicazione della penale pecuniaria prevista dalle Linee Guida antimafia di cui all'articolo 5 bis, comma 4 del D.L. 6 giugno 2012, n. 74, convertito, con modificazioni, dalla legge l agosto 2012, n. 122, recante “Interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici che hanno interessato il territorio delle province di Bologna, Modena, Ferrara, Mantova, Reggio Emilia e Rovigo, il 20 e il 29 maggio 2012” adottate dal Ministero dell'Interno - Comitato di coordinamento per l'Alta Sorveglianza delle Grandi Opere con deliberazione del 15 ottobre 2012". Più precisamente, nel caso in cui ad informativa antimafia non ostativa segua, in corso di esecuzione del contratto, nuova informativa interdittiva si è posto quesito in ordine: - alla applicabilità della penale nel caso in cui i lavori siano ultimati, ma non sia ancora redatto lo stato finale; - se l'importo su cui deve essere applicata la penale sia: a. l'importo del contratto, riferibile alle lavorazioni affidate all'impresa oggetto di interdittiva; ovvero b. l'importo del corrispettivo relativo ai lavori eseguiti e contabilizzati nel periodo successivo al periodo di valenza dell'informativa non ostativa acquisita (1 anno dalla sua emissione) e comunque, se precedente, non oltre la data di emissione del provvedimento interdittivo. Precisa altresì l'Avvocatura distrettuale che, in osservanza delle suindicate Linee guida e di un protocollo d'intesa sottoscritto nell'anno 2010 tra la Regione Emilia-Romagna e le prefetture della regione, nei contratti stipulati per l'esecuzione delle opere appaltate a seguito del sisma 2012 sono state inserite clausole che dispongono che: - qualora il contratto sia stato stipulato nelle more della acquisizione delle informazioni del Prefetto, il ricevimento di una interdittiva successiva comporta la risoluzione del contratto e la applicazione di una penale nella misura del 10% del valore del contratto ovvero, qualora lo stesso non sia determinato o determinabile, una penale pari al valore delle prestazioni al momento eseguite; - tale penale pecuniaria è applicata mediante automatica detrazione, da parte 190 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 della stazione appaltante, del relativo importo dalle somme dovute all'appaltatore in occasione della prima erogazione utile ovvero in sede di conto finale. 2. Il contesto normativo e contrattuale. 2.1. L'art. 5-bis è disposizione inserita nel d.l. n. 74/2012 per disciplinare i "controlli antimafia" nell'ambito degli interventi previsti per la ricostruzione, l'assistenza alle popolazioni e la ripresa economica nei territori dei comuni delle province di Bologna, Modena, Ferrara, Mantova, Reggio Emilia e Rovigo interessate dagli eventi sismici dei giorni 20 e 29 maggio 2012. In particolare, il comma 4 dell'art. 5-bis stabilisce che "le prefetture-uffici territoriali del Governo delle province indicate al comma 1 effettuano i controlli antimafia sui contratti pubblici e sui successivi subappalti e subcontratti aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture, nonché sugli interventi di ricostruzione affidati da soggetti privati e finanziati con le erogazioni e le concessioni di provvidenze pubbliche, secondo le modalità stabilite dalle linee guida indicate dal comitato di coordinamento per l'alta sorveglianza delle grandi opere, anche in deroga a quanto previsto dal regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 3 giugno 1998, n. 252". In attuazione della norma richiamata, con le Linee guida di cui alla deliberazione del 15 ottobre 2012, diramate con comunicato del 9 novembre 2012, il Comitato di coordinamento per l'alta sorveglianza delle grandi opere - d'ora in avanti, CASGO - ha tra l'altro - § 3.3 Controlli antimafia - precisato che: “… L'accertamento delle cause ostative ad effetto interdittivo tipico (nel vigente quadro normativo cfr. art. 10, comma 7, lett. a), b) e c) del d.P.R. n. 252/1998) determina l'impossibilità di stipulare il contratto o di autorizzare il subcontratto o subappalto, nonché, in caso di accertamento successivo alla stipula o autorizzazione, la perdita del Contratto, del subcontratto o subappalto, dando luogo all'esercizio del recesso unilaterale o alla revoca dell'autorizzazione. Accede alla sanzione della perdita del contratto l'applicazione di una penale pecuniaria, stabilita nella misura fissa del 5% dell'importo o del valore del contratto, subcontratto o subappalto (salvo diversa superiore aliquota pattuita tra i soggetti contraenti). Tale sanzione pecuniaria risponde ad un duplice ordine di ragioni: a) da un lato, si ritiene che essa possa assolvere ad un'efficace azione dissuasiva, assolvendo, cioè, ad una funzione di deterrenza, generalmente appartenente ad ogni misura che aggredisca o minacci di aggredire l'ambito economico-patrimoniale del soggetto cui è potenzialmente rivolta una sanzione di tipo monetario; b) dall'altro, essa viene ad ammortizzare le perniciose conseguenze derivanti alla parte in bonis dalla necessità di dover procedere alla sostituzione "in corsa" dell'impresa colpita da interdizione antimafia. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 191 Sotto quest'ultimo profilo, la sanzione pecuniaria corrisponde a una forma di forfettaria liquidazione del danno, salvo che la parte lesa non lamenti un maggior pregiudizio per il cui riconoscimento restano naturalmente ferme le ordinarie tutele risarcitorie. ....”. 2.2. I contratti stipulati per l'esecuzione delle opere appaltate a seguito del sisma 2012 (v., ad es., il contratto d'appalto concluso dal Commissario delegato all'emergenza sisma per la progettazione e i lavori di realizzazione di edifici scolastici temporanei (EST)) prevedono a loro volta che: - "il contratto è immediatamente ed automaticamente risolto ed è revocata l'autorizzazione al subappalto e subcontratto nei seguenti casi: ... b) qualora dovessero essere comunicate alla Prefettura, successivamente alla stipula del contratto o subcontratto, informazioni interdittive contemplare nel D.Lgs. 06/09/2011, n. 159 recante "Codice delle Leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove misure in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della Legge 13/08/2010, n. 136 " ..." (così l'art. 16, comma 6, lett. b) del contratto citato); - "l'Appaltatore dichiara di conoscere e di accettare la clausola risolutiva espressa di cui al precedente art. 16, punto 6, che prevede la risoluzione immediata ed automatica del contratto, ovvero la revoca dell'autorizzazione al subappalto o subcontratto, qualora dovessero essere comunicate alla Prefettura, successivamente alla stipula del contratto o subcontratro, informazioni interdittive contemplate nel D.Lgs. 06/09/2011. n. 159 recante "Codice delle Leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove misure in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della Legge 13/08/2010, n. 136” ... Qualora il contratto sia stato stipulato nelle more dell'acquisizione delle informazioni del Prefetto, sarà applicata a carico dell'Appaltatore, oggetto dell'informativa interdittiva successiva, anche una penale nella misura del 10% del valore del contratto ovvero, qualora lo stesso non sia determinato o determinabile, una penale pari al valore delle prestazioni al momento eseguite; le predette penali saranno applicate mediante automatica detrazione, da parte della Stazione Appaltante, del relativo importo dalle somme dovute all'Appaltatore in relazione alla prima erogazione utile" (così l'art. 20, comma 6, del richiamato contratto). 2.3. Com'è evidente, i contratti stipulati divergono parzialmente dalle Linee guida CASGO sia quanto allo strumento mediante il quale la stazione appaltante può sciogliersi dal vincolo contrattuale sia quanto alla misura della penale applicabile nel caso di informativa interdittiva sopravvenuta nel corso dell'esecuzione del contratto. Sotto il primo profilo, le Linee guida, in conformità a quanto - ora - previsto dall'art. 94, comma 2, del Codice antimafia (ma, ancor prima, dall'art. 11, commi 2 e 3, del d.P.R. 3 giugno 1998, n. 252 e, per i lavori di somma urgenza, dall'art. 4, comma 6, del d.lgs. 8 agosto 1994, n. 490), contemplano, 192 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 con previsione più corretta dal punto di vista tecnico, un diritto di recesso dai contratti conclusi, laddove i contratti nella specie stipulati prevedono una "clausola risolutiva espressa" - rectius, condizione risolutiva -; sotto il secondo profilo, le Linee guida determinano la penale in tal caso applicabile nella misura del 5% del valore contrattuale o nella diversa, superiore misura convenuta tra le parti, laddove i contratti conclusi fissano la penale nella misura del 10% del valore del contratto ovvero, qualora questo non sia determinato o determinabile, in quella del valore delle prestazioni sino a quel momento eseguite. Per altro verso, riferendo la penale al valore del contratto, l'art. 20 del contratto è in linea con quanto al riguardo previsto dall'art. 145 del Regolamento di esecuzione ed attuazione del codice dei contratti pubblici - d.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207 - il quale ragguaglia infatti l'entità della penale ad una percentuale "dell'ammontare netto contrattuale" (comma 3). 2.4. Le richiamate disposizioni contrattuali vanno peraltro coordinate - come meglio si dirà più avanti - con quanto previsto dal già citato comma 2 dell'art. 94 del Codice antimafia il quale, nel disciplinare gli effetti delle informazioni del prefetto, prevede comunque che (anche) in caso di recesso dal contratto - o di revoca delle autorizzazioni e delle concessioni - è "fatto salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l'esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite". 3. Considerazioni. Tanto premesso, la soluzione dei prospettati quesiti passa, ad avviso di questo Generale ufficio, innanzitutto, attraverso la determinazione della natura giuridica - pubblica o privata - della anzidetta penale e, successivamente, qualora si opti per la natura privata della misura sanzionatoria, attraverso la qualificazione giuridica della stessa in termini di clausola penale ex art. 1382 cod. civ. o di pena contrattuale atipica. 3.a) Natura giuridica della penale. Ad avviso della Scrivente può senz'altro escludersi che la penale in parola - che le Linee guida significativamente qualificano come "sanzione pecuniaria" - abbia natura pubblica: essa, infatti, non può qualificarsi né come pena pecuniaria pubblica né come sanzione amministrativa pecuniaria perché a ciò osta, a tacer d'altro, la riserva relativa di legge di cui all'art. 23 Cost. e il principio di legalità di cui all'art. 1 della 1. 24 novembre 1981, n. 689: detta pena, o sanzione che dir si voglia, non è infatti prevista dalla normativa - primaria o secondaria - antimafia ma soltanto dalle già più volte citate Linee guida. È ben vero che l'art. 5-bis, comma 4, del d.l. n. 74/2012 - inserito dalla legge di conversione n. 122/2012 - prevede che "le prefetture-uffici territoriali del Governo ... effettuano i controlli antimafia sui contratti pubblici ... secondo le modalità stabilite dalle linee guida indicate dal comitato di coordinamento PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 193 per l'alta sorveglianza delle grandi opere ... "; ma è altrettanto vero che le Linee guida CASGO - in base alle quali le penali in questione sono state previste nei contratti di appalto - non costituiscono fonti di diritto ma contengono semplici norme - interne - che, in forza di quanto disposto dalla legge che le prevede, hanno valore precettivo vincolante a) sul piano soggettivo, solo per gli organi statali periferici - prefetture/uffici territoriali del Governo - cui sono indirizzate e b) sul piano oggettivo, solo per quanto attiene ai controlli antimafia sui contratti pubblici di appalto e derivati di lavori, servizi e forniture nonché sugli interventi di ricostruzione affidati da privati ma finanziati con risorse pubbliche. E dunque, anche ammettendo che, al di là del loro chiaro tenore letterale, le Linee guida anzidette possano in qualche modo vincolare anche le stazioni appaltanti, è comunque certo che la penale in questione esula dalla materia dei controlli antimafia - vale a dire dalle modalità mediante le quali tali controlli vengono effettuati - attenendo invece al contenuto dei contratti di appalto. Esclusa dunque per tali ragioni la natura pubblica, deve perciò necessariamente concludersi nel senso che la misura pecuniaria prevista dalla clausola introdotta nei contratti stipulati per l'esecuzione delle opere appaltate a seguito del Sisma 2012 è configurabile come misura penale di natura privata: di talché il diritto della stazione appaltante al pagamento della penale in questione e il correlato obbligo dell'appaltatore di corrisponderla al verificarsi del presupposto contrattualmente previsto - sul che v. infra - non preesistono al contratto d'appalto, ma sorgono soltanto al momento e per effetto della sottoscrizione del contratto che la prevede. 3.b) Qualificazione giuridica della penale. Così definita la penale in parola è dunque a chiedersi, come s'è detto, se essa sia riconducibile allo schema di cui all'art. 1382 cod. civ. o se, al contrario, essa, esulando da questo, non integri invece una sorta di pena contrattuale atipica, pattuita ed accettata dalle parti nell'esercizio dell'autonomia negoziale di cui all'art. 1322 cod. civ. Le conseguenze dell'una o dell'altra qualificazione sono di tutta evidenza giacché, come correttamente segnalato nella richiesta di parere, solo nel primo caso potrà predicarsi, in linea di principio, l'esercizio del potere riduttivo di cui all'art. 1384 cod. civ. nelle ipotesi, colì previste, di parziale adempimento dell'obbligazione contrattuale - nella fattispecie, di esecuzione dei lavori appaltati - o di manifesta eccessività del suo ammontare. Ad avviso di questo Generale ufficio - e pur con la cautela necessariamente imposta dall'assenza di arresti giurisprudenziali in materia - la sanzione all'esame non pare sia qualificabile in termini di clausola penale tipica difettando dell'istituto codicistico sia i presupposti sia, a ben vedere, pure la funzione. Ed invero, quanto al presupposto: 194 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 1) la clausola penale ex art. 1382 cod. civ. presuppone l'inadempimento assoluto, l'adempimento inesatto o l'inadernpimento relativo (ritardo) di un'obbligazione contrattuale ed è stabilita. di regola, in una somma fissa di denaro in caso di inadempimento assoluto ovvero in una somma ragguagliata al valore delle prestazioni non eseguite in caso di adempimento inesatto oppure ai giorni di ritardo nell'ipotesi di inadempimento relativo; 2) la penale che ne occupa presuppone invece un'informazione interdittiva sopraggiunta alla conclusione del contratto, quale che sia lo stato di esecuzione di questo e, in particolare, quale che sia lo stato di avanzamento dei lavori. Del resto, la perdita della capacità di contrarre con la pubblica Amministrazione conseguente al sopravvenire di un'interdittiva antimafia non costituisce, di per sé, inadempimento di alcuna obbligazione contrattuale posto che l'appaltatore non può ritenersi "contrattualmente obbligato" a conservare - integra - la propria capacità di contrattare/contrarre. La capacità di contrarre - quale espressione della più generale capacità di agire - costituisce infatti requisito soggettivo di ordine generale (v., per le cause che la escludono, l'art. 38 d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163) che deve essere posseduto dall'imprenditore dal momento di presentazione dell'offerta sino alla data di stipulazione del contratto: il sopraggiungere di un'interdittiva, incidendo sulla capacità d'agire dell'appaltatore, potrebbe perciò, al più, costituire causa - sopravvenuta - di annullamento del contratto d'appalto ex art. 1425 cod. civ., se non esistesse la norma - art. 94, comma 2, citato - che tale situazione/condizione sopravvenuta configura come (giusta) causa legale di recesso dal rapporto contrattuale. La penale prevista dalle Linee guida e dai contratti in esame è dunque, a differenza della penale ex art. 1382 cod. civ., completamente svincolata dalle vicende relative all'adempimento delle obbligazioni contrattuali. Quanto alla funzione: 1) la clausola penale di cui all'art. 1382 cod. civ. ha una funzione preventiva e dissuasiva dell'inadempimento certamente comune alla penale della quale si discute: e, tuttavia, essa ha, altrettanto certamente, una funzione agevolativa del risarcimento del danno derivato dall'inadempimento, tant'è che esonera la parte adempiente dall'onere della prova del danno effettivamente subito (v. art. 1382, comma 2, cod. civ.): e tuttavia, proprio perché presuppone un inadempimento, assoluto, parziale o relativo, delle obbligazioni contrattuali ed è finalizzata al risarcimento del danno, essa può essere equamente diminuita dal giudice se l'obbligazione cui accede è stata almeno in parte adempiuta ovvero se il suo ammontare appare manifestamente eccessivo rispetto al danno subito dalla parte adempiente (art. 1384 cod. civ.); 2) la "penale" che ne occupa ha, in realtà, una finalità e una funzione principalmente - se non esclusivamente - sanzionatoria, tant'è che essa prescinde totalmente dalle prestazioni eseguite o dal danno subito dalla stazione appal- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 195 tante, com'è dimostrato dal fatto che essa è ragguagliata in percentuale al valore del contratto o, se questo non è determinato o determinabile, a quello delle prestazioni eseguite - e, quindi, esattamente adempiute - al momento del sopraggiungere dell'interdittiva: laddove, se la penale fosse in qualche modo correlata al danno, essa avrebbe invece dovuto essere rapportata al valore delle prestazioni non eseguite a quel momento perché è in relazione a queste che si determina e si quantifica il danno patito dalla stazione appaltante per effetto del recesso in corso d'opera e dell'esecuzione in danno mediante riappalto. Alla stregua delle considerazioni che precedono pare perciò giocoforza concludere nel senso che la penale in questione non è riconducibile di per se alla clausola penale di cui all'art. 1382 cod. civ. costituendo invece pena pecuniaria privata di fonte negoziate la quale è dovuta, nella misura convenuta, per effetto del sopravvenire di una informativa antimafia interdittiva e, ciò, a prescindere non soltanto dal momento in cui questa interviene, dallo stato di avanzamento dei lavori e, quindi, dalla circostanza che questi siano stati in tutto o in parte eseguiti, ma, come si dirà tra poco, altresì dal fatto che la stazione appaltante eserciti o meno il diritto di recesso dal contratto (si rammenta infatti che, nel caso in cui l'opera sia in corso di ultimazione, l'art. 94, comma 3, del d.lgs. n. 159/2011 stabilisce che la stazione appaltante non procede al recesso dal contratto). E proprio perché non riconducibile automaticamente all'istituto di cui all'art. 1382 cod. civ., la penale in parola non è suscettibile di riduzione ai sensi dell'art. 1384 cod. civ. in caso di parziale o totale adempimento delle obbligazioni dell'appaltatore. Opinando diversamente - ritenendo cioè che essa integri penale ex art. 1382 cod. civ. -, dovrebbe infatti logicamente concludersi nel senso che, nel caso di informativa interdittiva successiva, come nella fattispecie, alla ultimazione dei lavori, essendo state esattamente adempiute tutte le obbligazioni contrattuali, essa non sarebbe in alcun modo dovuta per difetto assoluto del presupposto genetico costituito, appunto, dall'inadempimento: ed infatti, nell'ottica della clausola penale, nel caso di lavori completamente ultimati non vi sarebbe né inadempimento da sanzionare né danno da risarcire. Al contrario, come s'è detto, la pena de qua prescinde totalmente dallo stato di avanzamento dei lavori al momento in cui interviene l'informazione antimafia ostativa ed è dunque dovuta sia nel caso in cui, a quel momento, i lavori siano ancora in corso di esecuzione sia nell'ipotesi in cui l'opera sia in corso di ultimazione o, addirittura, come nella fattispecie, già ultimata. In entrambi i casi - lavori in corso di esecuzione o lavori già eseguiti -, la natura sanzionatoria della misura - correlata al solo e semplice sopravvenire dell'informazione interdittiva antimafia comporta - salvo il temperamento in sede applicativa di cui si dirà al numero seguente - che la penale sia inderogabilmente applicata nei modi e nei termini contrattualmente previsti. E, ciò, anche nell'ipotesi in cui lo stadio - avanzato o financo ultimato - 196 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 dei lavori precluda, ai sensi dell'art. 94, comma 3, del Codice antimafia, il recesso dal contratto d'appalto. Tale norma, come s'è anticipato, stabilisce infatti che la stazione appaltante non procede alla revoca delle autorizzazioni e delle concessioni o al recesso dai contratti d'appalto "nel caso in cui l'opera sia in corso di ultimazione" ritenendo evidentemente che in questa ipotesi lo stato dei lavori sia tale da comportare la prevalenza dell'interesse (pubblico) alla conservazione del contratto - ormai pressochè interamente eseguito - rispetto all'interesse (pubblico) - di segno contrario - allo scioglimento del rapporto contrattuale in corso con l'appaltatore colpito dalla misura interdittiva antimafia. In questo caso, tuttavia, la preclusione legislativamente imposta all'esercizio del potere di revoca o del diritto di recesso non preclude altresì l'applicazione della misura sanzionatoria in questione la quale, come s'è detto, opera su un piano diverso rispetto all'adempimento o all'inadempimento delle obbligazioni contrattuali prescindendo completamente dai riflessi che il "grado" e l'entità dell'adempimento producono, a mente dell'art. 94, comma 3, citato, in ordine alla conservazione o meno del contratto e presupponendo unicamente, come pure s'è detto, il sopravvenire, a contratto già stipulato, di un'informazione antimafia ostativa. 4. Profili applicativi. L'estraneità della penale in parola allo schema di cui all'art. 1382 cod. civ. non impedisce che lo scopo di cui all'art. 1384 c.c. non possa ugualmente realizzarsi, stante la ratio della previsione legale (art. 94 cit.) o contrattuale (art. 20 contratti tipo) che attribuisce alla stazione appaltante il potere di modularne l'entità in ragione e in proporzione dello stato di avanzamento dei lavori. Nel caso di sopravvenienza dell'informazione interdittiva dopo la stipulazione del contratto o, addirittura, dopo l'ultimazione dei lavori i rapporti patrimoniali tra le parti dovranno infatti essere definiti sulla base dell'applicazione coordinata e congiunta, da un lato, della norma contrattuale - art. 20, comma 6, citato - che sanziona la perdita della capacità di contrarre conseguente al sopravvenire dell'interdittiva con l'applicazione di una "penale" pari al 10% del valore del contratto ovvero, qualora questo non sia determinato o determinabile, pari al valore delle prestazioni a quel momento eseguite; e, dall'altro, della norma legale - art. 94, comma 2, cod. antimafia - che, come s'è detto, in tal caso fa comunque "salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l'esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite". Secondo quanto previsto dalla stessa disposizione contrattuale - art. 20, seconda parte, contratto EST -, "alla prima erogazione utile" - ovvero, comunque, in sede di conto finale -, il credito della stazione appaltante per la sanzione dovrà infatti formare oggetto di conguaglio - conguaglio, e non compensazione, PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 197 stante l'unicità della causa debendi, vale a dire del rapporto negoziale da cui i due crediti derivano - con il controcredito dell'appaltatore per le prestazioni eseguite e le spese sostenute: conguaglio all'esito del quale sarà quindi possibile individuare il soggetto creditore e l'entità del relativo credito (residuo). In questa prospettiva, il richiamo e l'applicazione dell'art. 1384 cod. civ. - giustificati, sul piano sostanziale, da evidenti e comprensibili preoccupazioni di ordine equitativo - risultano, a ben vedere, corroborate perché l'operare dell'illustrato meccanismo "compensativo" risultante dalla "combinazione" della disposizione contrattuale e di quella legale conduce, nella sostanza, a quella riduzione dell'entità - se non, addirittura, all'azzeramento - della sanzione conformemente alla norma codicistica, ossia alla ratio del potere riduttivo ex art. 1384 cod. civ. quando "l'obbligazione principale è stata eseguita in parte" o, a fortiori, in tutto. La penale contrattuale è dunque pienamente e legittimamente applicabile anche in caso di integrale esecuzione/ultimazione dei lavori, salva, comunque, la contestuale applicazione dell'art. 94, comma 2, d.lgs. n. 159/2011 che costituisce espressione dell'art. 1384 c.c. 5. Conclusioni. Alla luce delle considerazioni che precedono e con specifico riferimento ai proposti quesiti può dunque concludersi nel senso che: - la penale prevista dai contratti stipulati dal Commissario delegato all'emergenza sisma 2012 è applicabile anche nel caso in cui l'informativa interdittiva antimafia sopravvenga dopo l'ultimazione dei lavori e prima della redazione dello stato finale; - la penale dovrà essere ragguagliata, secondo quanto previsto dai contratti e nella percentuale ivi indicata, al valore del contratto ovvero, qualora lo stesso non sia determinato o determinabile, a quello delle prestazioni eseguite; - tuttavia, in sede di conto finale, la penale dovuta dovrà essere conguagliata, ex art. 94, comma 2, cod. antimafia, con il valore delle opere già eseguite e, in caso di esecuzione parziale, altresì con le spese sostenute per l'esecuzione del rimanente, il tutto nei limiti delle utilità conseguite. In tal senso si è espresso il Comitato Consultivo nelle sedute del 10 febbraio 2016 e 27 giugno 2016. 198 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Possibilità e condizioni per il recesso da una società per azioni in liquidazione PARERE DEL 25/07/2016-352374, AL 15808/16, AVV. GIACOMO AIELLO Con la nota che si riscontra è stato richiesto il parere della Scrivente sulla possibilità di recedere da una società per azioni in liquidazione o se ciò sia possibile unicamente al ricorrere di determinate condizioni previste dalla legge. In secondo luogo, si richiede, nell’ipotesi in cui il recesso sia consentito, se sia giuridicamente possibile effettuare la cessione della quota ad un valore effettivo che tenga conto della ripartizione dell’indennizzo incamerato di 3.673.368 euro, oppure se la cessione debba avvenire al valore nominale delle azioni possedute, corrispondente a 516,46 euro. Al fine di rispondere ai quesiti posti, appare opportuno ricostruire innanzitutto la vicenda da cui essi traggono origine. Con Legge n. 214/2011 è stata disposta la soppressione dell’Istituto nazionale per il Commercio Estero e l’istituzione l’Agenzia denominata “ICE - Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane”. Successivamente, con DPCM del 28 dicembre 2012, sono state trasferite alla Agenzia le risorse strumentali, umane, finanziarie, i rapporti giuridici attivi e passivi dell’ex ICE, nonché le partecipazioni in associazioni, enti e società già facenti capo all’ICE. Tra le suddette partecipazioni vi è anche quella - detenuta dall’ICE sin dal 1957 - pari al 10% del capitale sociale, nell’Istituto per l’Edilizia Economica e Popolare di Catania (IEEPC), società priva di scopo di lucro, pur avendo natura di s.p.a., ed attualmente in liquidazione. In particolare, viene riferito che il suddetto Istituto è stato posto in liquidazione a far tempo dal 21 maggio 1981 allorquando, occorrendo procedere all’adeguamento del capitale sociale alla l. n. 904/77, i soci optarono, con l’unanimità dei consensi, per la messa in liquidazione e che, al termine di una causa mossa dal Commissario liquidatore per ottenere un indennizzo, è stata acquisita a bilancio dell’ente predetto una somma la quale, opportunamente rivalutata, risulta ammontare a 3.673.638,00 euro, come da prospetto di bilancio del 2014. Successivamente, considerate le finalità non lucrative dell’IEEPC, su richiesta dei soci, sono stati acquisiti da parte del Commissario liquidatore pareri legali in merito alla possibilità della revoca dello stato di liquidazione, alla successiva modifica dell’oggetto sociale e delle norme statutarie che disciplinano le modalità di scioglimento della società ed infine circa la destinazione delle eventuali plusvalenze, nonché la loro ripartizione pro quota tra i soci. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 199 Viene quindi evidenziato come tali pareri risultino discordanti e che, in seguito, sia stata proposta ai soci la revoca dello stato di liquidazione, propedeutica alla trasformazione in società con finalità di lucro. Codesto Ente riferisce inoltre che nel 2010 un suo non meglio precisato ufficio avrebbe comunicato al Commissario liquidatore dell’IEEPC il proprio dissenso alla suddetta richiesta di revoca dello stato di liquidazione, mentre avrebbe acconsentito alla cessione della quota di azioni. Viene tuttavia riferito che tale decisone non sarebbe stata in seguito formalizzata dal Consiglio di Amministrazione dell’ICE e che, pertanto, non si è potuto dare riscontro alle richieste di acquisizione in prelazione della quota ICE al valore nominale, formulate da parte della Camera di Commercio di Catania e dell’Università di Catania (appartenenti alla compagine societaria dell’IEEPC). A ciò si aggiunga che, al momento, non sembrerebbe essere stata effettuata alcuna cessione di quote da parte dei soci. Infine, codesto Ufficio sottolinea che, non avendo interessi di natura istituzionale al mantenimento della quota in vista di un’eventuale trasformazione della società, non risultando la medesima più rispondente alle proprie finalità, sarebbe interessato alla cessione della propria quota azionaria. Sulla base dei fatti fin qui riepilogati, da ultimo aggiornati con comunicazione mail del 28 giugno 2016, si osserva quanto segue. Posto che la messa in liquidazione dell’Istituto è avvenuta in data antecedente al 1 gennaio 2004 e la relativa procedura risulta regolata, ai sensi dell’art. 218 Disp Att. C.C. in base alla disciplina previgente, ne consegue che la revoca dello stato di liquidazione sarebbe subordinata all’unanime volontà dei soci, a differenza di quanto oggi previsto dall’art. 2487 ter c.c. La disciplina previgente, contenuta nella precedente formulazione dell’art. 2437 c.c., consentiva il recesso dei soci in casi eccezionali e tassativi sostanzialmente racchiusi in tre ipotesi e cioè il cambiamento dell’oggetto o del tipo della società ed il trasferimento della sede sociale all’estero. Tali ipotesi sono state ampliate dal nuovo art. 2437 c.c. che tuttavia ha mantenuto tra le cause di recesso, quelle sopra richiamate. Alla luce di quanto precede, codesto Ente potrebbe quindi recedere laddove fosse confermata l’unanime volontà dei soci dell’IEEPC di revocare lo stato di liquidazione (cosa di cui è lecito dubitare attesa la contraria posizione espressa a suo tempo dall’INAIL nell’assemblea del 24 aprile 2015 e da ultimo reiterata in quella del 22 aprile 2016) e successivamente fosse espressa, con la maggioranza prevista dalla legge, la volontà di pervenire alla modifica dell’oggetto sociale attribuendo all’IEEPC la natura lucrativa. È evidente che codesto Ente dovrebbe opportunamente formalizzare la propria volontà di recedere che non risulta essere stata espressa da parte del Consiglio d’Amministrazione dell’epoca, circostanza che, come rilevato da codesta Agenzia, ha impedito di “dare riscontro alle richieste di acquisizione 200 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 in prelazione della quota ICE al valore nominale nel frattempo formulate da parte della Camera di Commercio di Catania e dell’Università di Catania”. Se pertanto codesto Ente intendesse mantenere l’indirizzo già seguito dovrebbe ottenere la prescritta autorizzazione da parte dell’organo deliberativo. Per quanto invece attiene al quesito concernente il valore da attribuire alla quota detenuta da codesto Ente in caso di recesso, la norma a cui fare riferimento è l’art. 24 dello Statuto dell’IEEPC a mente del quale: “Addivenendosi in qualsiasi tempo, per qualsiasi causa, allo scioglimento della società, l’Assemblea determinerà le modalità della liquidazione e nominerà uno o più liquidatori, fissandone i poteri. Ai sensi dell’art. 37 del TU sull’edilizia popolare ed economica del 28 aprile 1938, n. 1165, l’attivo netto verrà attribuito agli azionisti fino a concorrenza del capitale sottoscritto e versato; l’eventuale eccedenza sarà devoluta all’Ente Comunale d’Assistenza”. Il richiamato art. 37 dispone infatti che: “Alle persone ed agli enti che concorrono alla formazione del capitale degli istituti per case popolari e delle società ed istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, oltre all'interesse non eccedente la misura del 5 per cento sulle somme effettivamente versate, non può essere riservato negli statuti altro diritto fuorché quello del rimborso delle somme erogate. L'eventuale avanzo del patrimonio, quando si renda necessaria la liquidazione degli istituti o società, è devoluto agli enti comunali di assistenza”. Ove quindi lo stato di liquidazione dovesse concludersi oggi con lo scioglimento dell’ente a codesta Agenzia spetterebbe il valore nominale della quota rivalutato come sopra indicato. Ove invece tale evenienza non si realizzasse e si verificasse la trasformazione dell’IEEPC in società avente scopo di lucro, e da ciò dovesse conseguire il recesso di codesta Agenzia, dovrebbe trovare applicazione l’art. 2437-ter, c.c. che, al secondo comma, dispone, per le società non quotate, che: “Il valore di liquidazione delle azioni è determinato dagli amministratori, sentito il parere del collegio sindacale e del soggetto incaricato della revisione legale dei conti, tenuto conto della consistenza patrimoniale della società e delle sue prospettive reddituali, nonché dell'eventuale valore di mercato delle azioni”. Dalla lettura di tale norma emerge la mancanza di riferimento non solo al bilancio d’esercizio, ma anche alla situazione patrimoniale contabile, nonché l’ampio potere discrezionale concesso agli amministratori circa le modalità di valutazione. All’atto pratico, tuttavia, poiché questi ultimi dovrebbero determinare un valore simile a quello che si avrebbe in una transazione a normali condizioni di mercato (il cosiddetto valore di scambio) e tenuto altresì conto del richiamo effettuato da parte del Legislatore ai suesposti concetti di consistenza patrimoniale e prospettive reddituali, si ritiene che l’organo amministrativo dovrebbe seguire uno o più metodi normalmente utilizzati per la valutazione delle aziende. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 201 L’impossibilità di affermare che la quota andrebbe liquidata secondo il valore nominale, sembra del resto confermata anche da una recente pronuncia della Corte di Cassazione secondo la quale, a differenza di quanto avviene per le società di persone, in caso di recesso da una società per azioni, per la redazione della situazione patrimoniale da assumere a base della liquidazione della quota del socio uscente, ex art. 2437 c.c., occorre fare riferimento “all’ultimo bilancio o comunque ai criteri di redazione del bilancio annuale di esercizio” (Cfr. Cassazione civile, sez. I, 18 marzo 2015, ud. 27 gennaio 2015, dep.18 marzo 2015, n. 5449). Da ciò consegue che in caso di recesso, la quota non dovrebbe più essere ceduta al valore nominale (come sarebbe avvenuto permanendo la vecchia natura non lucrativa dell’IEEPC), dovendosi ritenere che il riferimento alla “consistenza patrimoniale della società” contenuto nell’art. 2437-ter, comporti la necessità di riferirsi ai criteri normalmente impiegati per la redazione del bilancio. Da ciò consegue che in caso di recesso e solo nel concorrere dei presupposti sopra meglio precisati, la quota detenuta da codesto Ente dovrebbe essere ceduta al valore effettivo che tenga conto della sopravvenienza attiva emersa nel bilancio dell’IEEPC. 202 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Azioni di responsabilità nei confronti di amministratori di una società incorporata in un ente pubblico economico: spettanza al ministero all’epoca socio unico o all’ente incorportante PARERE DEL 04/08/2016-368924, AL 27161/16, AVV. DANIELA GIACOBBE Con la nota che si riscontra si rappresenta che l'Istituto per lo Sviluppo Agroalimeritare (ISA spa), società finanziaria di cui codesto Ministero era azionista unico, è stato incorporato nell'Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare (ISMEA), ente pubblico economico, ai sensi dell'art. 1, comma 659, della legge 208/2015 (legge di stabilità 2016). Il successivo comma 660 del citato art. 1 prevede, in particolare, che l'ISMEA subentra in tutti i rapporti giuridici attivi e passivi già facenti capo, tra l'altro, all'ISA. Con nota dell'1 giugno 2016 la Corte dei Conti h chiesto a codesto Ministero notizie in merito ad un incarico affidato dal CdA di ISA al Vice presidente e componente del medesimo CdA, giusta delibera in data 6 settembre 2011. La Corte dei Conti, in particolare, ritenendo di poter configurare, in conseguenza dell'attribuzione del predetto incarico, un danno diretto al patrimonio della società, ha chiesto se e quali azioni abbia assunto o abbia intenzione di assumere codesto Ministero nei confronti degli amministratori di ISA, a tutela dei propri interessi sociali. Con la nota che si riscontra codesto Ministero chiede: a) se, stante l'intervenuta incorporazione di ISA in ISMEA, la legittimazione ad instaurare l'eventuale azione di responsabilità nei confronti degli amministratori di una società di capitali, ai sensi dell’art. 2393 c.c., competa al Ministero, all’epoca socio unico e, quindi, titolare dei relativi diritti, ovverro a ISMEA nella sua qualità di ente incorporante; b) quale sia il termine entro il quale la citata azione debba essere proposta, stante la diversa disciplina di cui agli artt. 2393, comma 4, c.c. e 1, comma 2 legge n. 20/1994, e se, comunque, sia opportuno inoltrare formale diffida ai presunti responsabili; c) se l'azione debba essere promossa nei confronti di tutti i componenti il Collegio sindacale, presenti alla seduta del CdA che aveva, a suo tempo, assunto la delibera che si assume illegittima. Si premette che la fattispecie prevista dall'art. 1, commi 659 e ss., non sembra riconducibile alla disciplina relativa alla fusione per incorporazione di due o più società, che, ai sensi dell'art. 2504-bis c.c., integra, secondo la giurisprudenza, una vicenda evolutivo-integrativa, che comporta un mutamento formale di un'organizzazione già esistente, ma non la creazione di un nuovo ente (Cons. Stato, III, 30 giugno 2016, n. 2937). La citata norma prevede, in particolare, la prosecuzione di tutti i rapporti PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 203 giuridici, sostanziali e processuali, in capo al soggetto unificato, ma, secondo la giurisprudenza, la società incorporata non si estingue, bensì si realizza una integrazione reciproca delle società partecipanti all'operazione, che conservano la loro identità ancorché in un nuovo assetto organizzativo (Cons. Stato, A.P., 7 giugno 2012, n. 21). L'art. 1, commi 659 e ss., della legge 208 del 2015 citato invece, disciplina un'ipotesi di successionc ex lege tra soggetti, peraltro, tra loro diversi: invero, il comma 660 prevede che l'ente incorporante ''subentra nei rapporti giuridici attivi e passivi" delle societa incorporate; disciplina l'inquadramento del personale appartenente all'ISA nell'ISMEA; prevede che gli organi in carica alla data dell'incorporazione provvedano alla deliberazione del bilancio di chiusura della società. II successivo comma 661 prevede, poi, la nomina di un commissario straordinario, che si sostituisce al presidente e al consiglio di amministrazione di ISMEA (comma 662), per l'attuazione delle disposizioni di cui ai precedenti commi 659 e 660. La disciplina sopra delineata quindi, configura una vera e propria ipotesi di estinzione ex lege delle societã incorporate, dovendosi ritenere che le attività ancora attribuite dal comma 660 agli organi incaricati alla data dell'incorporazione siano del tutto residue ed esclusivamente finalizzate e strumentali alla definitiva chiusura della società. Dunque, non appare, allo stato, configurabile un'azione sociale proponibile da codesto Ministero ai sensi dell'art. 2393 bis c.c., azione che presuppone la sussistenza, in capo al soggetto che la propone, della (attuale) qualità di socio. Può, invece, ritenersi proponibile l'azione sociale ai sensi dell'art. 2393 c.c., che, tuttavia, dovrebbe essere instaurata da ISMEA, cui, come si è detto, sono state trasferite, ex lege, tutte le attività di competenza di ISA e che è subentrato, sempre ex lege, in tutti i rapporti già facenti capo alla società estinta. Ciò detto, si osserva che, ai sensi dell'art. 2395 c.c., l'esperimento delle sopra citate azioni sociali non pregiudica "il diritto al risarcimento del danno spettante al singolo socio o al terzo che sono stati direttamente danneggiati da atti colposi o dolosi degli amministratori". Si tratta di una norma che disciplina un'ipotesi di responsabilità aquiliana (Cass,. S.U., 23 febbraio 2010, n. 4309), che non presuppone la permanenza della qualità di socio in capo al danneggiato, perchè disciplina la sussistenza di un danno ulteriore e diverso rispetto a quello arrecato al patrimonio della società. Dagli atti non sembrano emergere elementi idonei a comprovare se i comportamenti di cui si discute abbiano o meno causato, in concreto, un danno diretto a carico del Ministero, nella sua qualità di unico azionista di ISA. Tuttavia, attesa l'imminente scadenza del termine quinquennale di prescrizione - che il citato art. 2395 c.c. fa decorrere dal “compimento dell'atto 204 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 che ha pregiudicato il socio” e che, in via cautelativa, si ritiene debba essere individuato nella data in cui si è svolta la citata seduta (anche se, secondo quanto previsto dall'art. 2935 c.c., tale termine potrebbe essere individuato nella data in cui sono stati effettuati i singoli pagamenti relativi all'incarico espletato) - si ritiene opportuno, allo stato, che codesto Ministero provveda ad inviare formale diffida nei confronti di tutti i soggetti che hanno partecipato alla seduta (6 settembre 2011) nella quale è stata adottata la delibera in questione, che si assume essere stata determinativa del danno, ivi compresi i componenti del collegio sindacale, quantificando la somma che si richiede a titolo di risarcimento, al fine di interrompere il citato termine di prescrizione. Considerato, peraltro, che codesto Ministero esercita la vigilanza su ISMEA, si ritiene, altresì, opportuno che si provveda a sollecitare formalmente ISMEA a valutare se e quali azioni intraprendere a tutela dei propri interessi, quale successore di ISA, ex art. 2393 c.c. Al riguardo si evidenzia che l'azione di responsabilità nei confronti degli amministratori di società di capitali, come espressamente previsto dall'art. 2393, comma 4 cc., può essere proposta entro cinque anni, decorrenti dalla data di cessazione dell'amministratore dalla carica. Si tratta di un termine che può ritenersi di prescrizione (Tribunale Milano, sezione specializzata in materia di imprese, sent. n. 14191 del 15 dicembre 2015), ai sensi del combinato disposto degli artt. 2393, comma 4, 2949, comma 1 e 2941, n. 7 c.c., suscettibile, quindi, di essere interrotto con una diffida e per la decorrenza del quale occorre verificare quando gli amministratori sono cessati dalla carica. Non è, invece, applicabile alla fattispecie la disciplina relativa al termine per l’esercizio del diritto al risarcimento dei danni, previsto dall'art. 1 della legge n. 20 del 1994, trattandosi di termine riferito all'azione di responsabilità, di competenza della Corte dei Conti. Trattandosi di questione di massima è stato sentito il Comitato Consultivo dell'Avvocatura dello Stato, il quale si è espresso in conformità nella seduta del 3 agosto 2016. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 205 Procedimento per il pagamento dei debiti fuori bilancio di Roma Capitale di competenza della Gestione Commissariale PARERE DEL 04/08/2016-369240, AL 25906/16, AVV. GIANNA GALLUZZO È stato richiesto alla Scrivente, dal Commissario Straordinario del Governo per il piano di rientro del debito pregresso del Comune di Roma, un parere in merito «alla legittimità del procedimento, seguito fino alla data odierna, finalizzato al pagamento da parte del Commissario straordinario dei debiti fuori bilancio di competenza della Gestione commissariale». In particolare, viene rappresentato che l'art. 1 comma 26 del Decreto Legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla L. 14 settembre 2011, n. 148 ha introdotto nel comma 4 dell’articolo 78 del Decreto legge 25 giungo 2008 n. 112 la seguente disposizione: «Fermo restando quanto previsto dagli articoli 194 e 254 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, per procedere alla liquidazione degli importi inseriti nel piano di rientro e riferiti ad obbligazioni assunte alla data del 28 aprile 2008, è sufficiente una determinazione dirigenziale, assunta con l'attestazione dell'avvenuta assistenza giuridico-amministrativa del segretario comunale ai sensi dell'articolo 97, comma 2, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267». Al proposito viene segnalato che il Segretario Generale di Roma Capitale, all’indomani della conversione in legge della disposizione sopra riprodotta, ha dato, alle strutture amministrative dell’Ente, le indicazioni operative in ordine alle modalità con le quali procedere per la “redazione delle determinazioni dirigenziali di riconoscimento della legittimità dei debiti fuori bilancio inseriti nel piano di rientro”. In estrema sintesi, con le note n. 15049 dell’11 ottobre 2011 e n. 15536 del 19 ottobre 2011 il Segretario Comunale, ha ritenuto che la norma debba essere interpretata nel senso che “viene rimesso ai singoli dirigenti il compito di procedere con proprio atto al riconoscimento dei singoli debiti fuori bilancio afferenti alla gestione Commissariale”. Codesto Commissario dubita della correttezza di tale interpretazione, rilevando che la norma sopra riprodotta, «nell’esordire con l’espressione “fermo restando”, sembrerebbe non incidere in alcun modo sulla regola generale di cui al richiamato articolo 194 del decreto legislativo 18 agosto 2000 n. 267» che al comma 1 stabilisce «Con deliberazione consiliare di cui all'articolo 193, comma 2, o con diversa periodicità stabilita dai regolamenti di contabilità, gli enti locali riconoscono la legittimità dei debiti fuori bilancio». **** Preliminarmente si osserva che, come è noto, il Commissario è stato nominato, ai sensi dell’art. 4 comma 8 bis del decreto legge 25 gennaio 2010 n. 2 convertito in legge 26 marzo 2010 n. 42, al fine di gestire il piano di rientro 206 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 di cui all’articolo 78 del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2008, n. 133. Con DPCM del 4 luglio 2008 all’articolo 3 sono stati stabiliti, ai sensi del secondo comma del citato art. 78 del citato decreto legge 25 giugno 2008, n. 112 «gli istituti e gli strumenti disciplinati da Titolo VIII del testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000 n. 267 di cui può avvalersi il Commissario straordinario». In particolare l’articolo 3 del DPCM del 4 luglio 2008 al comma 1 prevede: «Il commissario Straordinario procede alla rilevazione della massa passiva, di cui all’art. 254 comma 3 del decreto legislativo 18 agosto 2000 n. 267, acquisendo dai responsabili dei servizi competenti per materia attestazioni circa le obbligazioni assunte dal Comune e che le relative prestazioni siano state effettivamente rese e rientrino nell’ambito dell’espletamento delle pubbliche funzioni e servizi di competenza del Comune. I predetti responsabili dei servizi provvedono entro 20 giorni dalla richiesta attestando anche lo stato dei pagamenti dei corrispettivi e la non avvenuta prescrizione del debito alla data del 28 aprile 2008». Il medesimo articolo 3 al successivo comma 3 prevede: «Al Commissario Straordinario od a un suo delegato nominato ai sensi dell’articolo 5 del presente decreto compete la decisione dell’inserimento delle posizioni debitorie nel bilancio relativo al piano di rientro con provvedimento da comunicare agli interessati, tenendo conto degli elementi di prova desunti dalla documentazione da altri atti e dalla attestazione di cui al precedente comma 1». Occorre poi aggiungere che l’articolo 2 comma 7 del Decreto legge 29 dicembre 2010 n. 225 convertito in legge 26 febbraio 2011 n. 10 ha stabilito tra l’altro: «Con provvedimenti predisposti dal Commissario straordinario del Governo del comune di Roma, nominato ai sensi dell'articolo 4, comma 8-bis del decreto-legge 25 gennaio 2010, n. 2, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 marzo 2010, n. 42, ……… sono accertate le eventuali ulteriori partite creditorie e debitorie, rispetto al documento predisposto ai sensi dell'articolo 14, comma 13-bis, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, dal medesimo Commissario, concernente l'accertamento del debito del comune di Roma alla data del 30 luglio 2010, che è approvato con effetti a decorrere dal 29 dicembre 2010». In questo quadro normativo si inserisce l’art. 1 comma 26 del Decreto Legge 13 agosto 2011 n. 138 convertito in legge 14 settembre 2011 n. 148 il quale prevede: «All'articolo 78, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, dopo il terzo pe- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 207 riodo è inserito il seguente: «Fermo restando quanto previsto dagli articoli 194 e 254 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, per procedere alla liquidazione degli importi inseriti nel piano di rientro e riferiti ad obbligazioni assunte alla data del 28 aprile 2008, è sufficiente una determinazione dirigenziale, assunta con l'attestazione dell'avvenuta assistenza giuridico-amministrativa del segretario comunale ai sensi dell'articolo 97, comma 2, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267». Si è aggiunto, poi, il successivo articolo 16 del decreto legge 6 marzo 2014 n. 16, convertito in legge 2 maggio 2014, n. 68, che al comma 5 prevede: «Al comma 196-bis dell'articolo 2 della legge 23 dicembre 2009, n. 191, sono aggiunti, in fine, i seguenti periodi: "Il medesimo Commissario straordinario è autorizzato ad inserire, per un importo complessivo massimo di 30 milioni di euro, nella massa passiva di cui al documento predisposto ai sensi dell'articolo 14, comma 13-bis del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, le eventuali ulteriori partite debitorie rivenienti da obbligazioni od oneri del comune di Roma, ivi inclusi gli oneri derivanti dalle procedure di cui all'articolo 42-bis del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327, anteriori al 28 aprile 2008, alla cui individuazione si procede con determinazioni dirigenziali, assunte con l'attestazione dell'avvenuta assistenza giuridico amministrativa del Segretario comunale». **** Si osserva, inoltre, che la Corte Costituzionale con la sentenza n. 154 del 21 giugno 2013, nell'esaminare la questione di legittimità costituzione del più volte richiamato articolo 78 del Decreto Legge 25 giungo 2008 n. 112 ha rilevato: «la deroga alla disciplina generale del dissesto degli enti locali si limita all'introduzione di una doppia gestione (ordinaria e commissariale), volta a mantenere indenni dal peso di debiti pregressi le risorse destinate all'attività ordinaria del Comune di Roma Capitale, in considerazione del rilievo del tutto peculiare di quest'ultimo, sia in campo nazionale che internazionale. Per conseguire tale scopo è indispensabile stabilire una data precisa (individuata nel 28 aprile 2008), al fine di determinare una separazione temporale tra obbligazioni ad essa precedenti, i cui effetti ricadono sulla gestione commissariale, e obbligazioni successive, i cui effetti sono imputati alla gestione ordinaria. Si deve, in definitiva, ritenere che l'art. 78, comma 6, primo periodo, del d.l. n. 112 del 2008 sia coerente con la ratio che presiede alle funzioni ed all'attività dell'organo straordinario di liquidazione, di cui all'art. 245 e agli artt. 252 e seguenti del d.lgs. n. 267 del 2000, con la differenza della contestualità di gestione ordinaria e commissariale, volta a preservare la prima dal dissesto” [enfasi aggiunte]. 208 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Dall'esame del compendio normativo sopra richiamato, come interpretato in via generale dalla Corte Costituzionale, può desumersi che la determinazione della massa passiva da inserire nel piano di rientro e la gestione del bilancio separato del Comune di Roma relativo ai debiti, assunti sino al 28 aprile 2008, sono rimesse alle determinazioni del Commissario che, con propri provvedimenti, procede a predisporre il piano di rientro e ad inserire nello stesso sia i debiti fuori bilancio che le ulteriori nuove partite debitorie: tutte le partite debitorie relative al periodo precedente al 28 aprile 2008 vengono accertate con determinazioni dirigenziali dei dirigenti del Comune di Roma. Proprio il tenore testuale della norma in esame, che ha una portata di carattere generale, suggerisce che la modalità operativa adottata fino ad ora sia legittima. La norma, infatti, prevede che “per procedere alla liquidazione degli importi inseriti nel piano di rientro e riferiti ad obbligazioni assunte alla data del 28 aprile 2008, è sufficiente una determinazione dirigenziale, assunta con l'attestazione dell'avvenuta assistenza giuridico-amministrativa del segretario comunale”. E ciò sembra trovare conferma anche nell’ultimo intervento normativo in materia ovvero nell’articolo 16 comma 5 del decreto legge 6 marzo 2014 n. 16, convertito in legge 2 maggio 2014, n. 68, il quale ha previsto, come già detto, che «il medesimo Commissario Straordinario è autorizzato ad inserire … eventuali ulteriori partite debitorie rivenienti da obbligazioni od oneri del comune di Roma, anteriori al 28 aprile 2008, alla cui individuazione si procede con determinazioni dirigenziali, assunte con l'attestazione dell'avvenuta assistenza giuridico amministrativa del Segretario comunale». In sostanza l’articolo 1 comma 26 del Decreto legge 13 agosto 2011 n. 138 convertito in legge 14 settembre 2011 n. 148 si inserisce nella disciplina contenuta nell’articolo 78 del Decreto legge 25 giugno 2008 n. 112, aggiungendo un paragrafo al quarto comma di tale norma e deve, dunque, interpretarsi nel quadro complessivo del suddetto articolo 78. Ad avviso della Scrivente, pertanto, l’inciso “fermo restando quanto previsto dall’articolo 194 del decreto legislativo 18 agosto 2000 n. 267”, oltre a specificare che l'Ente locale, nella sua gestione ordinaria, deve attenersi al rispetto delle norme sopra indicate, è volto ad individuare, mediante il richiamo alla disciplina “ordinaria” di cui all’art. 194 citato, i debiti fuori bilancio - richiamandone gli elementi caratteristici evidenziati nel primo comma - confermando, però, la disciplina speciale e derogatoria, contenuta anche nei precedenti commi e ribadita nel prosieguo della disposizione, in ordine alla competenza del Commissario Straordinario il quale, anche nel caso di debiti fuori bilancio, provvede ad inserirli nel piano di rientro previa attestazione da effettuarsi con determinazione dirigenziale. La norma, interpretata diversamente, sarebbe priva di coerenza sistematica con il complesso normativo prima richiamato. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 209 D’altra parte le competenze “ordinarie degli organi comunali (1)” ai sensi del comma 3 del citato articolo 78 del D.L. 112/08 riguardano, espressamente, “la gestione del periodo successivo alla data del 28 aprile 2008”. In conclusione, sarebbe illogico che l’organo consiliare di Roma Capitale possa conservare una competenza deliberativa sui debiti fuori bilancio relativi al periodo precedente al 28 aprile 2008, intervenendo, dunque, sulla individuazione della massa passiva formatasi antecedentemente a tale data, la cui individuazione e gestione è riservata alla competenza di codesto Commissario. Sul presente parere è stato sentito il Comitato consultivo che, nella seduta del 3 agosto 2016, si è espresso in conformità. (1) Tra le quali deve annoverarsi anche la deliberazione consiliare di cui al primo comma dell’art. 194 del D.lgs. 267/2000. 210 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Immobili strumentali locati a pubbliche amministrazioni ed esercizio opzione I.V.A. in caso di subentro di un terzo in qualità di locatore PARERE DEL 09/08/2016-374774, AL 422/16, AVV. DANILO DEL GAIZO Il quesito in oggetto, formulato con nota n. 364474 del 22 dicembre 2015 da codesta Prefettura, riguarda l’immobile di categoria catastale B/1, adibito a caserma dei Carabinieri, sito a Roma, in Piazza San Lorenzo in Lucina, in forza di un contratto della durata di anni sei, stipulato in data 1 dicembre 1998 con la Provincia di Roma e successivamente rinnovatosi per analoghi periodi di tempo; quest’ultima, con delibera consiliare n. 49 del 28 novembre 2011, ha dato avvio a procedure di alienazione e valorizzazione dei propri immobili ed ha, a tal fine autorizzato, con delibera dirigenziale del 20 dicembre 2012, la costituzione di un fondo comune di investimento immobiliare di tipo chiuso non speculativo, ai sensi dell’art. 12-bis del D.M. n. 228/1999; in pari data la società BNP Paribas REIM SGR p.a. ha istituito tale Fondo nel quale la Provincia ha conferito in apporto l’immobile di cui sopra, mentre era in corso l’ultimo rinnovo del contratto di locazione (avvenuto in data 1 marzo 2011); successivamente (in data 8 aprile 2015) il Fondo in questione ha, a propria volta, ceduto il bene alla IDeA FIMIT Società di Gestione del Risparmio s.p.a., gestore del fondo comune di investimento immobiliare denominato “Theta Immobiliare - Fondo Comune di Investimento Immobiliare Multicomparto di Tipo Chiuso - Comparto Officium”. All’esito delle suddette operazioni (apporto, contratto di compravendita) entrambi i soggetti sopra indicati hanno richiesto all’Amministrazione dell’Interno la corresponsione dell’IVA sui canoni di locazione, assumendo di avere esercitato l’opzione di cui all’art. 10, comma 1, n. 8), del DPR 633/72, a mente del quale sono esenti dall’imposta “le locazioni e gli affitti, relative cessioni, risoluzioni e proroghe, di terreni e aziende agricole, di aree diverse da quelle destinate a parcheggio di veicoli, per le quali gli strumenti urbanistici non prevedono la destinazione edificatoria, e di fabbricati, comprese le pertinenze, le scorte e in genere i beni mobili destinati durevolmente al servizio degli immobili locati e affittati, escluse le locazioni, per le quali nel relativo atto il locatore abbia espressamente manifestato l'opzione per l'imposizione, … di fabbricati strumentali che per le loro caratteristiche non sono suscettibili di diversa utilizzazione senza radicali trasformazioni” (enfasi aggiunta). Di fronte al rifiuto opposto dall’Amministrazione alla richiesta di pagamento dei canoni assoggettati ad IVA, entrambi i soggetti in questione hanno minacciato di adire le vie legali; il Fondo attualmente proprietario, inoltre, ha affermato la legittimità della propria opzione sulla base dei chiarimenti contenuti nella Circolare 22/E del 28 giugno 2013, adottata dall’Agenzia delle Entrate - Direzione Centrale Normativa - Ufficio IVA. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 211 In particolare, quest’ultima, emanata a seguito delle modifiche apportate dall’art. 9 del D.L. n. 83/2012, convertito in L. n. 134/2012, all’art. 10, co. 1, nn. 8), 8-bis) e 8-ter), del d.P.R. n. 633/1972, alla sezione 2, intitolata “Locazioni - Decorrenza della nuova disciplina. Modalità di esercizio dell’opzione”, contiene il seguente passaggio: “Per quanto riguarda le modalità di esercizio dell’opzione, tanto per gli immobili abitativi che per quelli strumentali, in base al tenore letterale del novellato art. 10, primo comma, n. 8), del d.P.R. n. 633 del 1972, è necessario che il locatore manifesti tale scelta nel contratto di locazione. Il regime IVA prescelto al momento della stipula del contratto di locazione, vale a dire l’applicazione dell’IVA ai canoni di locazione per opzione ovvero, in assenza di opzione, il regime di esenzione da imposta, è vincolante per tutta la durata del contratto. Qualora prima della scadenza del contratto di locazione si verifichi una successione nel contratto, nella specie il subentro di un terzo in qualità di locatore, quest’ultimo, in quanto tale, può modificare il regime IVA cui assoggettare i canoni di locazione” (enfasi aggiunta). Avendo la Prefettura richiesto un parere circa la fondatezza della pretesa del nuovo proprietario, questa Avvocatura, con nota n. 101087 del 2 marzo 2016, ha chiesto all’Agenzia delle Entrate di esprimere preliminarmente il proprio avviso sull’interpretazione della Circolare e dell’art. 10, comma 1, n. 8, del DPR 633/72, rilevando l’apparente contrasto tra la norma suddetta e la previsione contenuta nell’ultimo paragrafo della Circolare, sopra riportato. Con la nota indicata in epigrafe, l’Agenzia delle Entrate si è espressa nel senso che l’opzione prevista dalla norma in esame “si atteggi alla stregua di un diritto potestativo che attribuisce al locatore la possibilità di stabilire il regime fiscale dei canoni di locazione più congeniale al proprio status professionale ed alle proprie esigenze” e che, esercitato al momento della stipula del contratto di locazione, determina una scelta vincolante per tutta la durata del contratto di locazione per entrambe le parti, dal momento che, “sotto il profilo prettamente civilistico, il conduttore aderisce alla scelta del regime fiscale effettuata dal locatore firmando il contratto in cui è espressa l’opzione” (enfasi aggiunta). Secondo l’Agenzia, peraltro, l’impossibilità di modificare la scelta iniziale espressa dal locatore nel contratto subirebbe un’eccezione nelle ipotesi di rinnovo del contratto di locazione e in quella di successione nello stesso, determinata dalla cessione dell’immobile locato a terzi prima della scadenza del contratto. In particolare, in quest’ultimo caso, “ferma restando la disciplina civilistica del rapporto di locazione in corso di esecuzione alla data del subentro del terzo acquirente, sotto il profilo fiscale, la modifica dal lato soggettivo del rapporto in essere consente - in deroga alla regola di carattere generale che cristallizza il regime fiscale della locazione al momento della stipula del contratto - di mutare il regime IVA dei canoni indicato ab origine in atto (i.e. in sede di stipula). 212 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 La ratio di tale deroga è quella di evitare che il locatore subentrato nella locazione in corso di esecuzione - che, in quanto tale, non ha potuto esercitare in sede di stipula del contratto il diritto potestativo riconosciuto dall'art. 10, primo comma, n. 8), del D.P.R. n. 633 del 1972 - subisca la scelta del regime fiscale dei canoni effettuata dal precedente proprietario/locatore dell'immobile e, in particolare, gli effetti negativi derivanti dalla limitazione del diritto alla detrazione dell’IVA pagata sugli acquisti afferenti alla locazione” (enfasi aggiunta). * * * Tanto premesso, questa Avvocatura ritiene di doversi discostare parzialmente dalle conclusioni assunte dall’Agenzia delle entrate nell’interpretazione della norma in esame. Non pare dubbio, infatti, che, come riconosce anche l’Agenzia delle Entrate, il citato art. 10, co. 1, n. 8), nel richiedere che l’opzione per l’imposizione sia manifestata dal locatore “nel relativo atto”, con espressione impiegata anche nei successivi nn. 8) bis e 8) ter, faccia riferimento al momento genetico dell’operazione da assoggettare o meno ad IVA, vale a dire alla stipula del contratto di locazione. Come la stessa Agenzia rileva, una volta che quest’ultima sia avvenuta, l’applicazione dell’imposta, ovvero, in assenza di opzione, il regime di esenzione dalla stessa diviene vincolante per tutta la durata del contratto. Se, quindi, pare ragionevole che tale regime, una volta dedotto in contratto, possa essere modificato, attraverso l’esercizio dell’opzione, in occasione del rinnovo del contratto, dal momento che questo determina una novazione del rapporto ed è, perciò, pienamente assimilabile ad una nuova stipula, altrettanto non può dirsi per ciò che concerne la successione nel contratto, poiché questa determina il mero subentro, nella posizione di locatore, di un nuovo soggetto, nello stesso titolo negoziale che ha disciplinato i rapporti tra le parti e i relativi diritti ed obblighi al momento in cui è stato concluso. Tale situazione, proprio in forza del disposto del citato art. 10, comma 1, n. 8), pare sottoposta all’applicazione degli artt. 1599 e 1602 del codice civile. In base a quest’ultimo il contratto di locazione avente data certa anteriore all’alienazione della cosa “è opponibile al terzo acquirente”, intendendosi, evidentemente, con tale espressione, che il conduttore ha la facoltà di mantenere fermo l’intero contenuto delle pattuizioni negoziali, e, quindi, l’intero assetto dei diritti e degli obblighi nascenti dal contratto, tra i quali rientra indubbiamente anche l’obbligo di pagare o meno l’IVA: invero, come previsto dalla norma tributaria, l’opzione deve essere manifestata nel contratto; e dal fatto che la stessa sia esercitata o meno dipende l’insorgenza, a carico del locatore, dell’obbligazione di corrispondere l’imposta all’Erario. L’art. 1602 c.c. stabilisce, a sua volta, che “il terzo acquirente tenuto a rispettare la locazione subentra, dal giorno del suo acquisto, nei diritti e nelle obbligazioni derivanti dal contratto di locazione”: in base a tale previsione PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 213 l’acquirente dell’immobile subentra nel rapporto di locazione nella stessa posizione giuridica dell’originario locatore; dunque, anche considerando, secondo la ricostruzione formulata dall’Agenzia delle entrate, l’esercizio dell’opzione alla stregua di un diritto potestativo, quest’ultimo non sarebbe azionabile da chi abbia acquistato l’immobile sul quale insista un contratto di locazione in corso, poiché, dopo la stipula, lo stesso dante causa non avrebbe più potuto esercitarlo. Per altro verso occorre considerare che, sotto il profilo economico, l’esercizio dell’opzione di assoggettare il contratto al regime dell’IVA comporta, per il conduttore, un onere aggiuntivo e di considerevole entità, specie quando non si tratti di soggetto contribuente che eserciti attività che danno luogo ad operazioni che conferiscono il diritto alla detrazione dell’imposta. Ne consegue che, una volta stipulato il contratto in regime di esenzione, la modifica dello stesso nel corso del rapporto determinerebbe, nei confronti dello stesso conduttore, un significativo pregiudizio patrimoniale, nonché una lesione del suo legittimo affidamento sul contenuto degli obblighi nascenti dal contratto, anche in virtù dell’attuale previsione dell’art. 10, comma 1, n. 8, che, come si è visto, connette alla stipula dell’atto l’esercizio dell’opzione. Il suddetto pregiudizio, inoltre, allorché la conduzione dell’immobile sia assunta, come nel caso di specie, da una pubblica amministrazione, esporrebbe quest’ultima anche alla possibile violazione degli obblighi, che, alla luce dell’ordinamento contabile, la stessa è tenuta ad osservare al momento della stipula del contratto, in termini di assunzione dell’impegno di spesa e di individuazione di risorse certe a copertura della stessa. Anche per tali ragioni non appare praticabile l’interpretazione proposta dall’Agenzia, la quale, peraltro, non pare potersi fondare sul mero richiamo all’esigenza, rappresentata nella nota citata, di evitare che il locatore subentrato nella locazione in corso di esecuzione subisca la scelta del regime fiscale dei canoni effettuata dal precedente proprietario/locatore dell'immobile e, in particolare, gli effetti negativi derivanti dalla limitazione del diritto alla detrazione dell’IVA pagata sugli acquisti afferenti alla locazione. Invero - premesso che anche le cessioni di immobili rientranti nelle tipologie contemplate dall’art. 10, comma 1, n. 8), sono assoggettate all’IVA solo nel caso in cui il cedente manifesti opzione in tal senso nell’atto di trasferimento della proprietà (cfr. art. 10, comma 1, cit., nn. 8 bis e 8 ter), per cui il compratore sarebbe comunque in grado di tutelare preventivamente, in modo adeguato, i propri interessi, accertando l’eventuale sussistenza di locazioni in corso ed il relativo regime fiscale - l’esigenza evidenziata dall’Agenzia sembra porsi in contrasto con il vigente testo della norma tributaria. In altri termini, tra l’interesse del successore, nella posizione del locatore, ad esercitare una opzione fiscale a lui più conveniente (l’imponibilità del contratto ai fini IVA) e quello del conduttore a non vedere aggravata dal punto di 214 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 vista economico la sua posizione, per effetto di una scelta unilaterale del (nuovo) locatore - e non, quindi, per una sopravvenuta disposizione legislativa configurabile come factum principis -, deve ritenersi maggiormente meritevole di tutela la posizione di quest’ultimo. In applicazione della stessa norma tributaria, quindi, l’esigenza evidenziata dall’Agenzia potrebbe essere soddisfatta, con riferimento alle locazioni in corso, esclusivamente nelle ipotesi: a) di consenso del conduttore, ovvero b) di imputazione ad IVA di parte del canone di locazione originariamente convenuto dalle parti, il cui ammontare complessivo (IVA compresa) resterebbe quindi inalterato. Infatti, nella prima ipotesi, il consenso del conduttore a quella che, in sostanza, si configurerebbe come una modifica dell’onere economico ad esso imputabile per effetto del contratto di locazione, determinerebbe, sul piano sostanziale, l’implicita rinuncia dello stesso a far valere i diritti derivanti dalle ricordate norme del codice civile, nonché dal legittimo affidamento sull’entità dell’onere predetto, conseguente alla stipula del contratto di locazione; inoltre, comportando una rinuncia ai diritti in questione, lo stesso consenso dovrebbe necessariamente essere esternato in un atto aggiuntivo al contratto di locazione, nel quale troverebbe ingresso anche la manifestazione dell’opzione da parte del proprietario dell’immobile, così integrando, sul piano formale, la disposizione contenuta nell’art. 10, comma 1, n. 8). Nella seconda ipotesi, invece, poiché l’esercizio dell’opzione determinerebbe meramente una diversa imputazione di parte del canone corrisposto dal conduttore (ed, eventualmente, nell’ipotesi in cui quest’ultimo sia soggetto alle disposizioni in materia di split payment, soltanto l’onere, a suo carico, di corrispondere parte dello stesso canone all’Amministrazione finanziaria, anziché al locatore), senza produrre alcuna alterazione dell’equilibrio negoziale, l’opzione potrebbe essere effettuata unilateralmente dal locatore, con le modalità indicate nella circolare n. 22/E del 28 giugno 2013 dell’Agenzia delle Entrate, comportando, in tal caso, la mancata manifestazione dell’opzione nel contratto di locazione, una mera difformità formale rispetto alla previsione normativa, peraltro insuscettibile di pregiudicare il soddisfacimento della pretesa fiscale. In definitiva, e per concludere, alla luce delle considerazioni che precedono, ad avviso della Scrivente l’esercizio dell’opzione prevista dall’art. 10, comma 1, n. 8), del DPR 633/72, non appare praticabile successivamente alla stipula del contratto di locazione, nel corso del relativo rapporto, nemmeno da parte del terzo acquirente della proprietà dell’immobile, salve le due eccezioni da ultimo indicate. Coinvolgendo questioni di massima, il presente parere è stato sottoposto, ai sensi dell’art. 26 della legge 3 aprile 1979, n. 103, all’esame del Comitato Consultivo, che si è espresso in conformità nella seduta del 3 agosto 2016. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 215 Incarichi soggetti agli obblighi di pubblicazione e regime di trasparenza per gli enti di diritto pubblico PARERE DEL 19/10/2016-481028, AL 30186/16, AVV. FRANCESCO SCLAFANI Con nota n. 214 del 1 agosto 2016 è stato chiesto il parere di questa Avvocatura in merito all’applicazione dell’art. 14 d. l.vo 33/2013 come da ultimo modificato dal d. l.vo 97/2016. In particolare, codesta Agenzia - dopo aver richiamato il precedente parere reso dal Comitato Consultivo di questa Avvocatura sul previgente testo della medesima disposizione - chiede di sapere se il comma 1 bis dell’art. 14 cit., introdotto dalla novella del 2016, sia ad essa applicabile e in caso affermativo quali siano i soggetti obbligati a rendere le prescritte dichiarazioni ivi indicate. Nella richiesta di parere si osserva che codesta Agenzia “è ente dotato di personalità giuridica di diritto pubblico, sottoposta ai poteri di indirizzo e vigilanza del Ministero (omissis)”; che il citato nuovo comma 1 bis “se interpretato in collegamento sistematico, estende l’obbligo di pubblicare i dati di cui al comma 1 ai titolari di incarichi, cariche di amministrazione, di direzione o di governo comunque denominati”; che qualora invece “i commi 1 e 1 bis non siano da interpretarsi in collegamento sistematico e le disposizioni di cui al comma 1 bis debbano applicarsi a tutte le pubbliche amministrazioni”, non vi sarebbe “una completa corrispondenza con gli elementi tipizzanti gli incarichi dei titolari degli obblighi di pubblicazione così come identificati al comma 1 bis citato a degli incarichi individuati dall’art. 7 bis” d. l.vo 33/2013. Al riguardo si ricorda in primo luogo che il precedente parere sopra richiamato è stato reso da questa Avvocatura “partendo dal dato di fatto, non esaminato dalla Scrivente, che il consigliere di amministrazione di codesta Agenzia sia soggetto agli obblighi previsti ai sensi dell’art. 14 d. l.vo 33/2013” (….) “in altri termini il parere reso dalla Scrivente è limitato al profilo oggettivo della questione, vale a dire: se i presupposti perché sorga l’obbligo di rendere le dichiarazioni di cui all’art. 14 lett. f siano gli stessi previsti per l’obbligo di rendere le dichiarazioni di cui agli artt. 2, 3 e 4 della l. n. 441 del 1982”. Ciò premesso, si rileva che il nuovo comma 1 bis dell’art. 14 prevede che «le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui al comma 1 per i titolari di incarichi o cariche di amministrazione, di direzione o di governo comunque denominati salvo che siano attribuiti a titolo gratuito, e per i titolari di incarichi dirigenziali a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione». Tale disposizione, che non modifica l’ambito degli enti tenuti ad applicare 216 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 l’art. 14, non fa altro che ampliare il novero degli incarichi soggetti agli obblighi di pubblicazione di cui al comma 1. Infatti, per effetto della novella i suddetti obblighi, inizialmente limitati agli “incarichi politici”, sono stati estesi anche ai «titolari di incarichi o cariche di amministrazione di direzione o di governo comunque denominati». Tuttavia, il d. l.vo 25 maggio 2016, n. 97, che ha introdotto il citato comma 1 bis, ha inserito anche l’art. 2 bis (Ambito soggettivo di applicazione) secondo il quale «ai fini del presente decreto, per “pubbliche amministrazioni” si intendono tutte le amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d. l.vo 30.3.2001, n. 165 e successive modificazioni, nonché le autorità amministrative indipendenti di garanzia, vigilanza e regolazione». Inoltre, lo stesso art. 2 bis, ai commi 2 e 3, ha esteso l’applicazione della medesima disciplina agli enti pubblici economici, agli ordini professionali, alle società in controllo pubblico (escluse le quotate), alle associazioni, alle fondazioni ed infine anche ad altri enti di diritto privato in presenza di determinate condizioni. Con tale disposizione il legislatore del 2016 ha delineato in modo molto ampio l’ambito di applicazione della normativa in esame. Pertanto, deve ritenersi che anche i nuovi obblighi di cui al comma 1 bis dell’art. 14 (che si riferisce alle “pubbliche amministrazioni”) si applicano a codesta Agenzia, quale ente di diritto pubblico. Per quanto riguarda i soggetti tenuti a rendere le dichiarazioni di cui al citato comma 1 bis si rileva che anche qui il legislatore usa una formula quanto mai ampia: «titolari di incarichi o cariche di amministrazione, di direzione o di governo comunque denominati, salvo che siano attribuiti a titolo gratuito» nonché «titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi in quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione». A fronte di tale ampia formulazione non si ravvisano argomenti per condividere le perplessità avanzate nella richiesta di parere riguardo all’applicabilità della norma agli incarichi dirigenziali di codesta Agenzia considerato altresì che l’art. 7 bis d. l.vo cit. non riguarda l’individuazione degli incarichi soggetti alla trasparenza bensì il regime di riutilizzo dei dati pubblicati. Tale interpretazione, oltre ad essere imposta dalla lettera della norma, appare coerente con la ratio legis del d. l.vo 33/2013 (rafforzata con la novella del 2016) secondo la quale tutti coloro che, a vario titolo, svolgono funzioni di responsabilità amministrativa o dirigenziale negli enti sopra individuati sono soggetti agli obblighi previsti dall’art. 14 cit. i quali sono finalizzati a garantire il rispetto del principio generale di trasparenza che, ai sensi dell’art. 1 d. l.vo cit., “concorre ad attuare il principio democratico e i principi costituzionali di eguaglianza, di imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell’utilizzo di risorse pubbliche, integrità e lealtà nel servizio alla nazione”. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 217 Sul punto si richiama Cons. Stato Sez. VI, 20 novembre 2013, n. 5515 in cui è stato sottolineato che “con il d.lgs. n. 33/2013 si intende procedere al riordino della disciplina, intesa ad assicurare a tutti i cittadini la più ampia accessibilità alle informazioni, concernenti l'organizzazione e l'attività delle pubbliche amministrazioni, al fine di attuare il principio democratico e i principi costituzionali di eguaglianza, imparzialità, buon andamento, responsabilità, efficacia ed efficienza nell'utilizzo di risorse pubbliche, quale integrazione del diritto "ad una buona amministrazione", nonché per la realizzazione di un'amministrazione aperta, al servizio del cittadino. Detta normativa - avente finalità dichiarate di contrasto della corruzione e della cattiva amministrazione - intende anche attuare la funzione di coordinamento informativo, statistico e informatico dei dati dell'amministrazione statale, regionale e locale, di cui all'art. 117, secondo comma, lettera r) della Costituzione”. Infine, lo stesso art. 7 bis d. l.vo cit., invocato da codesta Agenzia, sottolinea che la pubblicazione dei dati in questione “è finalizzata alla realizzazione della trasparenza pubblica, che integra una finalità di rilevante interesse pubblico”. Deve ritenersi pertanto che l’art. 1 bis dell’art. 14 cit. (con relativo rinvio al comma 1) trovi applicazione a tutti gli incarichi indicati nella richiesta di parere: ai componenti del Consiglio di Amministrazione (salvo gli incarichi a titolo gratuito), al Direttore Generale e a tutti i dirigenti di codesta Agenzia. Non si ravvisano infatti ragioni per affermare che rispetto a detti incarichi non sussistono le suddette esigenze di rilevante interesse pubblico a cui è finalizzato il descritto regime di trasparenza pubblica introdotto dal d. l.vo n. 33/2013 come novellato dal d. l.vo n. 97/2016. Il presente parere è stato sottoposto al Comitato Consultivo dell’Avvocatura dello Stato che si è espresso in conformità nella seduta del 14 ottobre 2016. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ Anticorruzione e trasparenza nella pubblica amministrazione. Profili giuridici, economici ed informatici Michele Gerardo* SOMMARIO: 1. Introduzione - 2. Aspetti della disciplina della trasparenza strumentali alla prevenzione della corruzione e degli illeciti nella p.a. - 3. (Segue) Presupposti affinché la disciplina sulla trasparenza possa efficacemente operare - 4. “Aspetto statico” dell’attività rivolta alla prevenzione della corruzione - 5. “Aspetto dinamico” dell’attività rivolta alla prevenzione della corruzione - 6. Gestione informatica dei dati. 1. Introduzione. “Anticorruzione” e “Trasparenza” costituiscono autonomi aspetti dell’agire della P.A. e, tuttavia, correlati. “Anticorruzione” implica avversione, contrasto della corruzione e della illegalità nella P.A., ossia di quelle pratiche di violazione dei doveri collegati alle funzioni pubbliche con pregiudizio degli interessi generali. Aspetto, quindi, pertinente ad un dato negativo dell’agire della P.A. “Trasparenza” denota chiarezza, pubblicità dell’agire della P.A. (in fisica, trasparente è il corpo che lascia passare la luce); un agire, quindi, con atti accessibili a chiunque, con atti visionabili dal pubblico. Metaforicamente, si descrive un’Amministrazione con tali caratteri come una “casa di vetro”. Aspetto, questo, positivo dell’agire della P.A., ossia modo ordinario della condotta diretta alla tutela degli interessi pubblici riconducibile ai principi costituzionali del buon andamento e dell’imparzialità della P.A. (art. 97 Cost.). Come detto, però, “Anticorruzione” e “Trasparenza” sono dati anche correlati. All’evidenza, la trasparenza è uno degli antidoti per contrastare la cor- (*) Avvocato dello Stato. 220 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 ruzione e l’illegalità: dove vi è opacità, riservatezza, segreto è facile che possano esservi condotte illecite dei funzionari pubblici. La trasparenza è un dato, quindi, tanto assoluto - ossia una regola da osservare in quanto principio base dell’azione della P.A. - quanto relativo, ossia strumentale alla prevenzione e contrasto dell’agire illecito dei dipendenti della P.A. 2. Aspetti della disciplina della trasparenza strumentali alla prevenzione della corruzione e degli illeciti nella p.a. All’evidenza hanno una finalità anche preventiva degli illeciti i seguenti aspetti della trasparenza: - diritto di accesso civico e obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte della P.A., open data (D.L.vo 14 marzo 2013 n. 33, ampiamente modificato con D.L.vo 25 maggio 2016 n. 97); - norme sull’evidenza pubblica, pubblicazione e pubblicità dei bandi in materia di affidamento di commesse pubbliche (D.L.vo 18 aprile 2016 n. 50); - disciplina in materia di concorsi pubblici e affidamento degli incarichi (D.L.vo 30 marzo 2001 n. 165). Diritto di accesso civico e obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte della P.A., open data. Misura rilevante al fine del contrasto della corruzione è la disciplina sull’accesso civico e obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle PP.AA. contenuti nel D.L.vo 14 marzo 2013, n. 33. L’art. 1, comma 1 del D.L.vo citato, efficacemente enuncia che “la trasparenza è intesa come accessibilità totale dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all'attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche”. L’accessibilità totale si realizza “tramite l'accesso civico e tramite la pubblicazione di documenti, informazioni e dati concernenti l'organizzazione e l'attività delle pubbliche amministrazioni e le modalità per la loro realizzazione” (art. 2, comma 1, D.L.vo cit.); “per pubblicazione si intende la pubblicazione […] nei siti istituzionali delle pubbliche amministrazioni dei documenti, delle informazioni e dei dati concernenti l'organizzazione e l'attività delle pubbliche amministrazioni, cui corrisponde il diritto di chiunque di accedere ai siti direttamente ed immediatamente, senza autenticazione ed identificazione” (art. 2, comma 2, D.L.vo cit.); “Tutti i documenti, le informazioni e i dati oggetto di accesso civico, ivi compresi quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi della normativa vigente sono pubblici e chiunque ha diritto di conoscerli, di fruirne gratuitamente, e di utilizzarli e riutilizzarli ai sensi dell'articolo 7” (art. 3, comma 1, D.L.vo cit.); “I documenti contenenti atti oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 221 della normativa vigente sono pubblicati tempestivamente sul sito istituzionale dell'amministrazione” (comma 1 dell’art. 8 D.L.vo cit.). La trasparenza, intesa come accessibilità totale ai dati rilevanti, rende liberi e coscienti. La conoscenza dei dati è un elemento che dà potere, consapevolezza dei propri diritti. L’antropologo Levy Strauss rileva che lo stregone delle tribù primitive ha potere perché ha la conoscenza, dalla quale sono esclusi gli altri. Con l’art. 5 del D.L.vo citato - come sostituito dal D.L.vo n. 97/2016 - si introduce una nuova forma di accesso civico ai dati e documenti pubblici, equivalente a quella che nel sistema anglosassone è definita Freedom of information act (FOIA), che consente ai cittadini di richiedere anche dati e documenti che le pubbliche amministrazioni non hanno l’obbligo di pubblicare ed altresì le informazioni dalle medesime elaborate. L’art. 5 del D.L.vo citato disciplina l’accesso civico a dati e documenti a tenore del quale “1. L'obbligo previsto dalla normativa vigente in capo alle pubbliche amministrazioni di pubblicare documenti, informazioni o dati comporta il diritto di chiunque di richiedere i medesimi, nei casi in cui sia stata omessa la loro pubblicazione. 2. Allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico, chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai sensi del presente decreto, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti secondo quanto previsto dall'articolo 5-bis. 3. L'esercizio del diritto di cui ai commi 1 e 2 non è sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente. L'istanza di accesso civico identifica i dati, le informazioni o i documenti richiesti e non richiede motivazione. L'istanza può essere trasmessa per via telematica secondo le modalità previste dal decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni […]. Il procedimento di accesso civico deve concludersi con provvedimento espresso e motivato nel termine di trenta giorni dalla presentazione dell'istanza con la comunicazione al richiedente e agli eventuali controinteressati. In caso di accoglimento, l'amministrazione provvede a trasmettere tempestivamente al richiedente i dati o i documenti richiesti, ovvero, nel caso in cui l'istanza riguardi dati, informazioni o documenti oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi del presente decreto, a pubblicare sul sito i dati, le informazioni o i documenti richiesti e a comunicare al richiedente l'avvenuta pubblicazione dello stesso, indicandogli il relativo collegamento ipertestuale. […] Il rifiuto, il differimento e la limitazione dell'accesso devono essere motivati con riferimento ai casi e ai limiti stabiliti dall'articolo 5-bis. Il responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza può chiedere agli uffici della relativa amministrazione informazioni sull'esito delle 222 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 istanze. 7. Nei casi di diniego totale o parziale dell'accesso o di mancata risposta entro il termine indicato al comma 6, il richiedente può presentare richiesta di riesame al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, di cui all'articolo 43, che decide con provvedimento motivato, entro il termine di venti giorni. Se l'accesso è stato negato o differito a tutela degli interessi di cui all'articolo 5-bis, comma 2, lettera a), il suddetto responsabile provvede sentito il Garante per la protezione dei dati personali, il quale si pronuncia entro il termine di dieci giorni dalla richiesta. […] Avverso la decisione dell'amministrazione competente o, in caso di richiesta di riesame, avverso quella del responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, il richiedente può proporre ricorso al Tribunale amministrativo regionale ai sensi dell'articolo 116 del Codice del processo amministrativo di cui al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104. 8.[…] 10. Nel caso in cui la richiesta di accesso civico riguardi dati, informazioni o documenti oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi del presente decreto, il responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza ha l'obbligo di effettuare la segnalazione di cui all'articolo 43, comma 5. 11. Restano fermi gli obblighi di pubblicazione previsti dal Capo II, nonché le diverse forme di accesso degli interessati previste dal Capo V della legge 7 agosto 1990, n. 241”. All’evidenza, l’ambito dell’accesso civico va ben oltre il diritto di accesso ai documenti amministrativi ex artt. 22-28 L. 7 agosto 1990 n. 241, la cui disciplina viene fatta salva dall’art. 5 comma 11 D.L.vo n. 33. Oggetto dell’accesso ex L. n. 241/1990 sono esclusivamente i documenti, come si evince dal globale contenuto dell’art. 22 L. n. 241, che al comma 4 chiarisce: “Non sono accessibili le informazioni in possesso di una pubblica amministrazione che non abbiano forma di documento amministrativo, salvo quanto previsto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, in materia di accesso a dati personali da parte della persona cui i dati si riferiscono”; rilevante in tal senso è altresì l’art. 24 comma 3 L. n. 241 secondo cui: “Non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell'operato delle pubbliche amministrazioni”. L’oggetto dell’accesso civico, invece, sono i documenti (rappresentazione informatica o materiale di fatti; Carnelutti richiama l’etimologia: docére, ossia: informare, far conoscere), i dati (elemento conoscitivo diretto di elementi della natura o personali; es: dati personali, dati identificativi, dati sensibili, dati giudiziari, dato anonimo, dati relativi al traffico, dati relativi all'ubicazione ex D.L.vo 30 giugno 2003, n. 196) e le informazioni (elemento conoscitivo ricavato dall’elaborazione di documenti e dati; es. l’ammontare dei compensi di un dirigente); queste ultime - tuttavia - sono escluse nel caso che l’accesso civico abbia ad oggetto elementi detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai sensi del D.L.vo n. 33 cit. La richiesta di accesso ai documenti ex L. n. 241/1990 deve essere moti- LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 223 vata (art. 25 comma 2 L. n. 241), laddove l'istanza di accesso civico non richiede motivazione. Infine, legittimati all’accesso ex L. n. 241 sono solo gli interessati (“tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso”: art. 22 comma 1 lett. b), mentre l'esercizio del diritto di accesso civico non è sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente. Le ampie maglie della nuova disciplina sull’acceso civico ammettono anche la soddisfazione della mera curiosità. Il D.L.vo n. 33 contiene poi una disciplina puntuale dei casi in cui è obbligatoria la pubblicazione di dati, documenti od informazioni, con la previsione della sezione dei siti istituzionali denominata “Amministrazione trasparente”. La disciplina ora descritta costituisce la dimensione nell’ambito della P.A. dei cd. open data, dei testi aperti, dei dati liberamente accessibili a tutti. L’art. 7 D.L.vo 14 marzo 2013, n. 33 statuisce “1. I documenti, le informazioni e i dati oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi della normativa vigente, resi disponibili anche a seguito dell'accesso civico di cui all'articolo 5, sono pubblicati in formato di tipo aperto ai sensi dell'articolo 68 del Codice dell'amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e sono riutilizzabili ai sensi del decreto legislativo 24 gennaio 2006, n. 36, del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, senza ulteriori restrizioni diverse dall'obbligo di citare la fonte e di rispettarne l'integrità”. L’art. 68, comma 3 D.L.vo 7 marzo 2005, n. 82 (cd. Codice dell'Amministrazione Digitale) precisa che sono “dati di tipo aperto, i dati che presentano le seguenti caratteristiche: 1) sono disponibili secondo i termini di una licenza che ne permetta l'utilizzo da parte di chiunque, anche per finalità commerciali, in formato disaggregato; 2) sono accessibili attraverso le tecnologie dell'informazione e della comunicazione, ivi comprese le reti telematiche pubbliche e private, in formati aperti ai sensi della lettera a), sono adatti all'utilizzo automatico da parte di programmi per elaboratori e sono provvisti dei relativi metadati; 3) sono resi disponibili gratuitamente attraverso le tecnologie dell'informazione e della comunicazione, ivi comprese le reti telematiche pubbliche e private, oppure sono resi disponibili ai costi marginali sostenuti per la loro riproduzione e divulgazione, salvo i casi previsti dall'articolo 7 del decreto legislativo 24 gennaio 2006, n. 36, e secondo le tariffe determinate con le modalità di cui al medesimo articolo”. Circa il riutilizzo dei dati pubblicati l’art. 7-bis D.L.vo n. 33/2013 evidenzia “1. Gli obblighi di pubblicazione dei dati personali diversi dai dati sensibili e dai dati giudiziari, di cui all'articolo 4, comma 1, lettere d) ed e), 224 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, comportano la possibilità di una diffusione dei dati medesimi attraverso siti istituzionali, nonché il loro trattamento secondo modalità che ne consentono la indicizzazione e la rintracciabilità tramite i motori di ricerca web ed il loro riutilizzo ai sensi dell'articolo 7 nel rispetto dei principi sul trattamento dei dati personali”. Norme sull’evidenza pubblica, pubblicazione e pubblicità dei bandi in materia di affidamento di commesse pubbliche. Altro settore interessato da una disciplina sulla trasparenza in specifica funzione di prevenzione della corruzione è quello dell’affidamento delle commesse pubbliche (con la disciplina generale contenuta nel D.L.vo 18 aprile 2016, n. 50), ove notevoli sono i poteri di controllo dell’ANAC, di seguito descritti. Tanto gli strumenti ordinari di affidamento (contratto di appalto e contratto di concessione) quanto quelli semplificati (partenariato pubblico-privato, affidamento in house e affidamento a contraente generale) sono caratterizzati da una disciplina - in via tendenziale - prevedente la pubblicità e pubblicazione dei bandi e procedure ad evidenza pubblica. La trasparenza è un principio che viene richiamato continuamente - con il D.L.vo n. 50/2016 - nella materia de qua: è un principio operante nei settori esclusi (art. 4); vi è la previsione della pubblicità dei programmi delle acquisizioni delle stazioni appaltanti (art. 21, comma 7); vi è la previsione della trasparenza nella partecipazione di portatori di interessi (art. 22); strumento di trasparenza è la pubblicità secondo la disciplina prevista nel D.L.vo n. 33/2013 (art. 29); la trasparenza è principio base per l’aggiudicazione di appalti e concessioni (art. 30); vi è l’obbligo di uso dei mezzi di comunicazione elettronici nello svolgimento delle procedure di aggiudicazione (aa. 40 e 52) e la digitalizzazione delle procedure (art. 44); la trasparenza è un principio operante nella disciplina per conflitti di interesse (art. 42); nell’accesso agli atti (art. 53); nella disciplina delle tecniche e strumenti per gli appalti elettronici e aggregati (aa. 54-58); nella disciplina di bandi e avvisi (aa. 66-76). Al fine della trasparenza delle procedure selettive del contraente l’art. 77 del D.L.vo n. 50/2016 delinea puntuali requisiti della commissione di aggiudicazione. Si richiamano i seguenti aspetti: “3. I commissari sono scelti fra gli esperti iscritti all'Albo istituito presso l'ANAC di cui all'articolo 78 […]. Essi sono individuati dalle stazioni appaltanti mediante pubblico sorteggio da una lista di candidati costituita da un numero di nominativi almeno doppio rispetto a quello dei componenti da nominare e comunque nel rispetto del principio di rotazione. Tale lista è comunicata dall'ANAC alla stazione appaltante, entro cinque giorni dalla richiesta della stazione appaltante. La stazione appaltante può, in caso di affidamento di contratti di importo inferiore alle soglie di cui all'articolo 35 o per quelli LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 225 che non presentano particolare complessità, nominare componenti interni alla stazione appaltante, nel rispetto del principio di rotazione. […] 4. I commissari non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta. 5. Coloro che, nel biennio antecedente all'indizione della procedura di aggiudicazione, hanno ricoperto cariche di pubblico amministratore, non possono essere nominati commissari giudicatori relativamente ai contratti affidati dalle Amministrazioni presso le quali hanno esercitato le proprie funzioni d'istituto. 6. Si applicano ai commissari e ai segretari delle commissioni l'articolo 35-bis del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, l'articolo 51 del codice di procedura civile, nonché l'articolo 42 del presente codice [conflitto di interessi]. Sono altresì esclusi da successivi incarichi di commissario coloro che, in qualità di membri delle commissioni giudicatrici, abbiano concorso, con dolo o colpa grave accertati in sede giurisdizionale con sentenza non sospesa, all'approvazione di atti dichiarati illegittimi.[…]”. Disciplina in materia di concorsi pubblici e affidamento degli incarichi. Infine, ulteriore tessera della trasparenza è la regola costituzionale (art. 97, ultimo comma, Cost.) dell’accesso mediante concorso agli impieghi nelle PP.AA. (salvo i casi stabiliti dalla legge) e la disciplina dell’affidamento degli incarichi. La regola del concorso inibisce selezioni fondate sulla conoscenza e fedeltà personali. Gli artt. 35 e 35 bis del D.L.vo 30 marzo 2001 n. 165 contengono poi - rispettivamente - i principi generali sul reclutamento del personale e norme per prevenire il fenomeno della corruzione nella formazione di commissioni e nelle assegnazioni degli uffici. Tali disposizioni precisano “Le procedure di reclutamento nelle pubbliche amministrazioni si conformano ai seguenti principi: a) adeguata pubblicità della selezione e modalità di svolgimento che garantiscano l'imparzialità e assicurino economicità e celerità di espletamento, ricorrendo, ove è opportuno, all'ausilio di sistemi automatizzati, diretti anche a realizzare forme di preselezione; b) adozione di meccanismi oggettivi e trasparenti, idonei a verificare il possesso dei requisiti attitudinali e professionali richiesti in relazione alla posizione da ricoprire; c) rispetto delle pari opportunità tra lavoratrici e lavoratori; d) decentramento delle procedure di reclutamento; e) composizione delle commissioni esclusivamente con esperti di provata competenza nelle materie di concorso, scelti tra funzionari delle amministrazioni, docenti ed estranei alle medesime, che non siano componenti dell'organo di direzione politica dell'amministrazione, che non ricoprano cariche politiche e che non siano rappresentanti sindacali 226 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 o designati dalle confederazioni ed organizzazioni sindacali o dalle associazioni professionali” (art. 35 comma 3). “1. Coloro che sono stati condannati, anche con sentenza non passata in giudicato, per i reati previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale: a) non possono fare parte, anche con compiti di segreteria, di commissioni per l'accesso o la selezione a pubblici impieghi; b) non possono essere assegnati, anche con funzioni direttive, agli uffici preposti alla gestione delle risorse finanziarie, all'acquisizione di beni, servizi e forniture, nonché alla concessione o all'erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari o attribuzioni di vantaggi economici a soggetti pubblici e privati; c) non possono fare parte delle commissioni per la scelta del contraente per l'affidamento di lavori, forniture e servizi, per la concessione o l'erogazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari, nonché per l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere. 2. La disposizione prevista al comma 1 integra le leggi e regolamenti che disciplinano la formazione di commissioni e la nomina dei relativi segretari” (art. 35-bis). Ad integrazione del quadro delineato l’art. 19 D.L.vo. 14 marzo 2013, n. 33 sancisce “1. Fermi restando gli altri obblighi di pubblicità legale, le pubbliche amministrazioni pubblicano i bandi di concorso per il reclutamento, a qualsiasi titolo, di personale presso l'amministrazione, nonché i criteri di valutazione della Commissione e le tracce delle prove scritte. 2. Le pubbliche amministrazioni pubblicano e tengono costantemente aggiornato l'elenco dei bandi in corso”. L’art. 12 (rubricato: Trasparenza amministrativa nei procedimenti concorsuali) del D.P.R. 9 maggio 1994, n. 487 contenente il regolamento recante norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi recita: “1. Le commissioni esaminatrici, alla prima riunione, stabiliscono i criteri e le modalità di valutazione delle prove concorsuali, da formalizzare nei relativi verbali, al fine di assegnare i punteggi attribuiti alle singole prove. Esse, immediatamente prima dell'inizio di ciascuna prova orale, determinano i quesiti da porre ai singoli candidati per ciascuna delle materie di esame. Tali quesiti sono proposti a ciascun candidato previa estrazione a sorte. 2. Nei concorsi per titoli ed esami il risultato della valutazione dei titoli deve essere reso noto agli interessati prima dell'effettuazione delle prove orali. […]”. Il Consiglio di Stato ha evidenziato diversi aspetti sul punto. All’uopo si richiamano le seguenti massime: - il procedimento di concorso per il quale non siano stati predeterminati i criteri valutativi delle prove in violazione dell'art. 12 D.P.R. 9 maggio 1994 n. 487 è illegittimo (sentenza n. 2245/2003); - i criteri e le modalità di valutazione delle prove concorsuali inerenti l'ac- LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 227 cesso a pubblici impieghi ed i quesiti da porre a ciascun candidato, in considerazione del disposto normativo di cui all'art. 12 del D.P.R. n. 487 del 1994, possono essere legittimamente non solo richiamati ed integrati dalla competente Commissione di esame nel corso della prima riunione, allorché siano stati predeterminati nell'atto di indicazione del concorso, ma altresì possono essere determinati successivamente a tale prima riunione, purché prima dell'inizio dell'effettiva e concreta correzione nonché valutazione delle prove scritte (sentenze n. 8/2011, n. 1390/2007); - nei concorsi pubblici la predeterminazione dei criteri di valutazione delle prove si connota di un'ampia discrezionalità, sicché gli stessi criteri sfuggono al sindacato giurisdizionale, salvi i casi di manifesta illogicità o irrazionalità (sentenze n. 4384/2006, n. 3165/2012, n. 2196/2012, n. 2197/2012, n. 2198/2012, n. 6863/2011, n. 6864/2011, n. 124/2011, n. 3062/2012, n. 5905/2010), irragionevolezza, irrazionalità, arbitrarietà o travisamento dei fatti (sentenze n. 1753/2012, n. 1240/2008); sicché la Commissione può graduare la rilevanza e l'importanza dei titoli stessi ciò all'evidente fine di rendere concreti, attuali e utilizzabili gli stessi criteri del bando (sentenza n. 539/2010); - si deve ritenere peculiare ai criteri e alle modalità di valutazione delle prove concorsuali un non eludibile grado di astrattezza, dovendo essere applicati tali canoni ad una pluralità di profili di cui sono espressione gli elaborati dei concorrenti. Tuttavia, qualora ai prestabiliti criteri di massima non si raccordino puntuali indicatori della misura in cui questi si riflettono sul merito della prova (creando un griglia che renda comprensibile la sfera di discrezionalità valutativa esercitata dalla Commissione) il giudizio valutativo espresso in soli termini numerici non può ritenersi tale da soddisfare la regola della congruità e sufficienza della motivazione, che deve assistere ogni determinazione provvedimentale dell'Amministrazione e rendere comprensibile l'iter logico osservato (sentenza n. 6228/2008). È agevole considerare che la descritta disciplina subisce un vulnus nei casi di stabilizzazioni per sanare situazioni di precariato e nei casi di meccanismi preselettivi “stupidi” (ossia calibrati sul mero nozionismo avulso dalla specifica competenza sulle mansioni oggetto di selezione). Nell’affidamento degli incarichi, inoltre, il quadro normativo mira ad evitare le consulenze di favore, ossia le prebende ammantate dal conferimento di incarico di studio. All’uopo - nell’art. 7 commi 6 e 6 bis del D.L.vo n. 165/2001 - si dispone che “6. Per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, di natura occasionale o coordinata e continuativa, ad esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria, in presenza dei seguenti presupposti di legittimità: a) l'oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite dall'ordinamento all'amministrazione conferente, ad obiettivi e pro- 228 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 getti specifici e determinati e deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità dell'amministrazione conferente; b) l'amministrazione deve avere preliminarmente accertato l'impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno; […] d) devono essere preventivamente determinati durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione. […]. Il ricorso a contratti di collaborazione coordinata e continuativa per lo svolgimento di funzioni ordinarie o l'utilizzo dei collaboratori come lavoratori subordinati è causa di responsabilità amministrativa per il dirigente che ha stipulato i contratti. […]. 6-bis. Le amministrazioni pubbliche disciplinano e rendono pubbliche, secondo i propri ordinamenti, procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione”. Gli atti e contratti ora citati sono sottoposti al controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti (art. 3 comma 1 lett. f-bis L. 14 gennaio 1994, n. 20). Altra misura funzionale alla regolarità dell’esercizio di pubbliche funzioni è la disciplina in tema incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi (art. 53 D.L.vo n. 165/2001). Tra le disposizioni rilevanti richiamiamo: - comma 1-bis “Non possono essere conferiti incarichi di direzione di strutture deputate alla gestione del personale a soggetti che rivestano o abbiano rivestito negli ultimi due anni cariche in partiti politici o in organizzazioni sindacali o che abbiano avuto negli ultimi due anni rapporti continuativi di collaborazione o di consulenza con le predette organizzazioni”. - comma 7 “I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza. Ai fini dell'autorizzazione, l'amministrazione verifica l'insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi”. - comma 11 “Entro quindici giorni dall'erogazione del compenso per gli incarichi di cui al comma 6, i soggetti pubblici o privati comunicano all'amministrazione di appartenenza l'ammontare dei compensi erogati ai dipendenti pubblici”. - comma 16-ter “I dipendenti che, negli ultimi tre anni di servizio, hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, non possono svolgere, nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, attività lavorativa o professionale presso i soggetti privati destinatari dell'attività della pubblica amministrazione svolta attraverso i medesimi poteri. I contratti conclusi e gli incarichi conferiti in violazione di quanto previsto dal presente comma sono nulli ed è fatto divieto ai soggetti privati che li hanno conclusi o conferiti di contrattare con le pubbliche amministrazioni per i successivi tre anni con obbligo di restituzione dei compensi eventualmente percepiti e accertati ad essi riferiti”. Sul punto va richiamato l’orientamento n. 24 del 21 ottobre 2015 dell’ANAC secondo cui “Le prescrizioni ed i divieti contenuti nell’art. 53, comma 16-ter, del d.lgs. 165/2001, che fissa la regola del c.d. pantouflage, LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 229 trovano applicazione non solo ai dipendenti che esercitano i poteri autoritativi e negoziali per conto della PA, ma anche ai dipendenti che - pur non esercitando concretamente ed effettivamente tali poteri - sono tuttavia competenti ad elaborare atti endoprocedimentali obbligatori (pareri, certificazioni, perizie) che incidono in maniera determinante sul contenuto del provvedimento finale, ancorché redatto e sottoscritto dal funzionario competente”. 3. (Segue) Presupposti affinché la disciplina sulla trasparenza possa efficacemente operare. Va rilevato che lumeggiata normativa sulla trasparenza in tanto può condurre a risultati efficaci in quanto il contesto normativo, la forma dei provvedimenti il contenuto delle sentenze siano adeguati allo scopo. Necessita a tal fine: - un quadro legislativo in materia semplice e chiaro; - premesse complete e motivazione esaustiva degli atti amministrativi; - motivazione della sentenza esaustiva (ove si giunga a lite). Quadro legislativo. Leggi chiare, precise, poche, era l’ideologia dell’illuminismo. Tacito evidenzia che uno dei sintomi della corruzione della res pubblica è la molteciplità delle leggi. È fin troppo evidente che un testo normativo prolisso, involuto, richiamante altre disposizioni (in modo che il quadro della materia risulti da varie leggi, come un puzzle) agevola condotte amministrative opache. Più semplice e chiaro è il quadro normativo, meno facili sono condotte corruttive e viceversa. L’attuale quadro normativo prevederebbe strumenti finalizzati alla produzione di norme chiare (es. AIR, drafting, etc.). Un legiferare semplificato è ovviamente attività impegnativa. Pascal nel concludere una lettera ad un amico scrisse: “Scusami per la lunghezza della lettera, ma non ho avuto il tempo di farla più breve”. Purtroppo l’attuale quadro legislativo si caratterizza per la scarsa qualità: testi che rinviano ad altri testi, leggi che rinviano - in aspetti qualificanti - a regolamenti, fattura sciatta, eccessiva lunghezza. Il nuovo Codice degli Appalti (D.L.vo n. 50/2016) deve essere integrato da circa 50 provvedimenti attuativi della Presidenza del Consigli dei Ministri, del Ministero delle Infrastrutture, dell’ANAC. I principi di unità, completezza e coerenza nella materia degli appalti sono messi a dura prova da tale modo di legiferare. Il Governo non sfrutta la possibilità offerta dall’art. 17-bis L. 23 agosto 1988 n. 400 di adottare testi unici compilativi onde semplificare la ricerca del diritto (“attenendosi ai seguenti criteri: a) puntuale individuazione del testo vigente delle norme; b) ricognizione delle norme abrogate, anche implicitamente, da successive disposizioni; c) coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti in modo da garantire la coerenza logica e sistematica della normativa; d) rico- 230 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 gnizione delle disposizioni, non inserite nel testo unico, che restano comunque in vigore”). Uno specifico ambito ove necessiterebbe ciò è proprio quello dell’anticorruzione e della trasparenza, atteso che la disciplina - ancorché non vetusta - è contenuta in varie leggi, peraltro freneticamente modificate. Forma del provvedimento. Non meno essenziale è l’aspetto formale degli atti della P.A. L’art. 3 della L. 7 agosto 1990, n. 241, esige che ogni provvedimento della P.A. indichi “presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”. Al fine della massima trasparenza è necessario che le premesse di fatto degli atti e l’illustrazione delle ragioni giuridiche - specie in quelli aventi riflessi economici (ad es. sfocianti poi in transazioni) - siano completi al fine di rendere conoscibile il percorso seguito dalla P.A.; è necessario altresì che la proposizione grammaticale sia chiara, non ambigua; ciò è quanto viene, tra l’altro, evidenziato nella Direttiva sulla semplificazione del linguaggio dei testi amministrativi dell’8 maggio 2012 del Dipartimento della funzione pubblica. Un testo involuto, prolisso e non chiaro contribuisce, ovviamente, a tentativi di corruttela. Esaustività del contenuto della sentenza. Strumentale alla trasparenza ed altresì alla prevenzione della corruzione è il requisito della motivazione della sentenza, in ossequio a puntuale previsione costituzionale (art. 111, comma 6, Cost.). Sentenze contratte, con motivazione succinta, contribuiscono a potenziali comportamenti opachi della P.A. Nel ‘700 Bernardo Tanucci, nella lotta contro la corruzione, ispirò il dispaccio del Re del 23 settembre 1774, in base al quale i Tribunali dovevano spiegare i motivi sui quali erano appoggiate le decisioni, contro la venalità della giustizia favorita dalla circostanza che le sentenze erano immotivate. La motivazione costituisce la descrizione dell’iter logico giuridico seguito dal giudice per risolvere la controversia. L’orientamento legislativo recente diretto a snellire il contenuto delle motivazioni (art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. “la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione” per la sentenza del giudice civile; art. 88, comma 2, lett. d, D.L.vo 2 luglio 2010 n. 104 “la concisa esposizione dei motivi in fatto e in diritto della decisione, anche con invio a precedenti cui intende conformarsi” per la sentenza del giudice amministrativo), prescindendo dalla narrativa dei fatti rilevanti, potrebbe andare in controtendenza rispetto all’esigenza della massima trasparenza. Infine, va auspicato che il Parlamento adotti una legge disciplinante le lobby. È importante che il dialogo con i portatori di interessi particolari avvenga alla luce del sole. Andrebbe reso pubblico il dibattito alimentato dalle lobby, andrebbe resa pubblica l’agenda dei governanti. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 231 4. “Aspetto statico” dell’attività rivolta alla prevenzione della corruzione. L’evoluzione degli ultimi anni ha condotto alla creazione di un ordinamento ad hoc - appositi con soggetti e procedure - mirante a prevenire i fenomeni di illegalità nella P.A. Ciò nell’evidente rilievo che la disciplina ordinaria non è sufficiente allo scopo. Potremmo definire tale fenomeno come aspetto dinamico dell’attività rivolta alla prevenzione della corruzione, distinto dall’aspetto statico relativo alla disciplina ordinaria. Per disciplina ordinaria intendiamo i meccanismi della responsabilità dinanzi alla Corte dei Conti, della responsabilità penale (al corpus dei reati contro la P.A. aa. 314 - 359 c.p.), della responsabilità civile, dei controlli ispettivi. Agli strumenti della disciplina ordinaria - di recente, con la L. 190/2012 che ha inserito l’art. 54 bis nel D.L.vo n. 165 citato - si è aggiunta la regolamentazione della tutela del dipendente che segnala illeciti; sul punto è intervenuta l’ANAC che con la determinazione n. 6 del 28 aprile 2015 ha dettato “Linee guida in materia di tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti (c.d. whistleblower)”. Nella detta determinazione, tra l’altro, si osserva che “il procedimento per la gestione delle segnalazioni ha come scopo precipuo quello di proteggere la riservatezza dell’identità del segnalante in ogni propria fase (dalla ricezione, alla gestione successiva), anche nei rapporti con i terzi cui l’amministrazione o l’A.N.A.C. dovesse rivolgersi per le verifiche o per iniziative conseguenti alla segnalazione. Al fine di garantire la tutela della riservatezza dell’identità del segnalante, l’A.N.AC. ritiene che il flusso di gestione delle segnalazioni debba avviarsi con l’invio della segnalazione al Responsabile della prevenzione della corruzione dell’amministrazione”. Ulteriore aggiunta si è avuta con il D.L.vo 8 aprile 2013 n. 39 dettante “Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazionei e presso gli enti privati in controllo pubblico”. Con la disciplina de qua si mira ad allontanare da incarichi dirigenziali interni ed esterni ed amministrativi di vertice nelle PP.AA. e da incarichi di amministratore di ente orbitante nell’Amm.ne, determinati soggetti nei casi - inconferibilità od incompatibilità - in cui vi è il dubbio dell’imparzialità. A termini dell’art. 1 comma 1 lettere g) ed h) si intende “per «inconferibilità», la preclusione, permanente o temporanea, a conferire gli incarichi previsti dal presente decreto a coloro che abbiano riportato condanne penali per i reati previsti dal capo I del titolo II del libro secondo del codice penale, a coloro che abbiano svolto incarichi o ricoperto cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati da pubbliche amministrazioni o svolto attività professionali a favore di questi ultimi, a coloro che siano stati componenti di organi di indirizzo politico; per «incompatibilità», l'obbligo per il soggetto cui viene conferito l'incarico di scegliere, a pena di decadenza, entro il termine perentorio di quindici giorni, tra la permanenza nell'incarico e l'assunzione e lo svolgimento di incarichi e 232 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 cariche in enti di diritto privato regolati o finanziati dalla pubblica amministrazione che conferisce l'incarico, lo svolgimento di attività professionali ovvero l'assunzione della carica di componente di organi di indirizzo politico”. Questa appena descritta potremmo definirla una tutela statica. 5. “Aspetto dinamico” dell’attività rivolta alla prevenzione della corruzione. In Italia e nel mondo - vi è una Convenzione dell’ONU contro la corruzione richiamata all’inizio della L. n. 190/2012 - il fenomeno della corruzione ha assunto un aspetto di tale gravità da determinare la creazione di strutture e apparati ad hoc per combattere, in modo dinamico, l’illegalità nella Pubblica Amministrazione (in Italia abbiamo l’ANAC); ciò accanto alla disciplina statica dei doveri di ufficio. La corruzione nell’assunzione delle risorse umane, nella gestione delle pratiche d’ufficio, nella gestione dei servizi - tra l’altro - ha quale conseguenza: - rallentamento, disfunzioni, dispersione ed inefficienza dell’agire della P.A. e quindi incongruità tra mezzo (macchina amministrativa) e fine (tutela degli interessi pubblici). Una assunzione clientelare di un dipendente pubblico con scarsa preparazione determina una inefficienza a tempo indeterminato; - gravissimo danno all’economia e ai conti pubblici. È tristemente noto che la conseguenza della corruttela negli appalti pubblici è la lievitazione abnorme dei costi per la P.A. (con aumento del deficit del bilancio statale) ed altresì un pregiudizio per gli operatori economici atteso che vengono favoriti soggetti che non costituiscono i migliori imprenditori sul mercato. L’ordinamento ad hoc sulla prevenzione dei fenomeni di illegalità nella P.A. ruota intorno a soggetti e a procedure miratamente destinate alla prevenzione della corruzione e dell’illegalità. I soggetti sono: - Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC); - organi di indirizzo; - il Responsabile della Prevenzione della Corruzione e della Trasparenza (RPCT); - l’Organismo Indipendente di Valutazione (OIV). Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC). L’ANAC - Autorità Nazionale Anticorruzione, è una amministrazione indipendente specificamente incaricata di regolare la materia della prevenzione della corruzione e della trasparenza nella P.A. I suoi compiti sono delineati nell’art. 1, commi 2 e 4, della L. 6 novembre 2014 n. 190 a termine dei quali: “a) collabora con i paritetici organismi stranieri, con le organizzazioni regionali ed internazionali competenti; b) adotta il Piano nazionale anticor- LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 233 ruzione ai sensi del comma 2-bis; c) analizza le cause e i fattori della corruzione e individua gli interventi che ne possono favorire la prevenzione e il contrasto; d) esprime parere obbligatorio sugli atti di direttiva e di indirizzo, nonché sulle circolari del Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione in materia di conformità di atti e comportamenti dei funzionari pubblici alla legge, ai codici di comportamento e ai contratti, collettivi e individuali, regolanti il rapporto di lavoro pubblico; e) esprime pareri facoltativi in materia di autorizzazioni, di cui all'articolo 53 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, allo svolgimento di incarichi esterni da parte dei dirigenti amministrativi dello Stato e degli enti pubblici nazionali, con particolare riferimento all'applicazione del comma 16-ter, introdotto dal comma 42, lettera l), del presente articolo; f) esercita la vigilanza e il controllo sull'effettiva applicazione e sull'efficacia delle misure adottate dalle pubbliche amministrazioni ai sensi dei commi 4 e 5 del presente articolo e sul rispetto delle regole sulla trasparenza dell'attività amministrativa previste dai commi da 15 a 36 del presente articolo e dalle altre disposizioni vigenti; f-bis) esercita la vigilanza e il controllo sui contratti di cui agli articoli 17 e seguenti del codice dei contratti pubblici […] ; g) riferisce al Parlamento, presentando una relazione entro il 31 dicembre di ciascun anno, sull'attività di contrasto della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione e sull'efficacia delle disposizioni vigenti in materia” (art. 1, comma 2); “a) coordina l'attuazione delle strategie di prevenzione e contrasto della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione elaborate a livello nazionale e internazionale; b) promuove e definisce norme e metodologie comuni per la prevenzione della corruzione, coerenti con gli indirizzi, i programmi e i progetti internazionali; c) […]; d) definisce modelli standard delle informazioni e dei dati occorrenti per il conseguimento degli obiettivi previsti dalla presente legge, secondo modalità che consentano la loro gestione ed analisi informatizzata; e) definisce criteri per assicurare la rotazione dei dirigenti nei settori particolarmente esposti alla corruzione e misure per evitare sovrapposizioni di funzioni e cumuli di incarichi nominativi in capo ai dirigenti pubblici, anche esterni” (art. 1, comma 4). Sul punto, il comma 3 dell’art. 1 citato precisa: “Per l'esercizio delle funzioni di cui al comma 2, lettera f), l'Autorità nazionale anticorruzione esercita poteri ispettivi mediante richiesta di notizie, informazioni, atti e documenti alle pubbliche amministrazioni, e ordina l'adozione di atti o provvedimenti richiesti dai piani di cui ai commi 4 e 5 e dalle regole sulla trasparenza dell'attività amministrativa previste dalle disposizioni vigenti, ovvero la rimozione di comportamenti o atti contrastanti con i piani e le regole sulla trasparenza citati”. Al fine di delineare il volto dell’ANAC è necessario altresì il richiamo al D.L.vo 18 aprile 2016 n. 50 da cui è dato evincere che l’Autorità ha funzioni di regolazione, vigilanza e controllo sui contratti pubblici, agisce anche al fine 234 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 di prevenire e combattere l’illegalità e la corruzione (art. 213, comma 1), dispone di poteri di ispezione (comma 5), di denuncia (comma 6), di sanzione verso chi non dà informazioni o documenti (comma 13); dà pareri vincolanti (ove le parti acconsentano) di precontenzioso su questioni insorte durante lo svolgimento delle procedure di gara e, ove ritenga sussistente un vizio di legittimità in uno degli atti della procedura di gara, invita le stazioni appaltanti a provvedere in autotutela, con applicazione - inevaso l’invito - di sanzioni amministrative pecuniarie (art. 211, comma 2). L’ANAC dispone di un ampio potere regolatorio (es.: artt. 31 comma 5, 36 comma 7, 38 commi 6 e 7, 73 comma 4, 71, 80 comma 13, 83 comma 2, 84 comma 2, 110 comma 5 lett. b, 177 comma 3, 197, 213 comma 2). Viene in rilievo, solitamente, un potere normativo vincolante avente natura regolamentare; in dati casi tale potere regolatorio costituisce un mero atto di indirizzo, non vincolante e disapplicabile dalle stazioni appaltanti: cd. soft law (es. art. 71 nel predisporre bandi tipo). L’autorità dispone altresì di poteri di intervento nella fase esecutiva dei contratti. L’Autorità - nelle materie del diritto di accesso civico e di obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle PP.AA. - controlla il rispetto dell’esatto adempimento degli obblighi di pubblicazione, ispeziona e dà ordini di procedere alle pubblicazioni rilevanti, controlla l’operato del Responsabile della Prevenzione della Corruzione e dell’OIV, denuncia illeciti, irroga sanzioni (art. 45 D.L.vo n. 33/2013). L’Autorità vigila sul rispetto della materia della inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le PP.AA. e presso gli enti privati in controllo pubblico, con poteri ispettivi e di accertamento e funzioni consultive su direttive e circolari ministeriali (art. 16 D.L.vo n. 39/2013). Organi di indirizzo. Gli organi di indirizzo nelle amministrazioni e negli enti dispongono di competenze rilevanti nel processo di individuazione delle misure di prevenzione della corruzione, ossia la nomina del RPCT e l'adozione del Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione e Trasparenza. Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza. Ruolo operativo, per ciascuna pubblica amministrazione, è quello del Responsabile della Prevenzione della corruzione e della trasparenza, con potere di segnalazione all’organo di indirizzo e all’OIV delle disfunzioni sulla materia (art. 1, comma 7, L. n. 190/2012) e di proposta del Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione e Trasparenza. Tali poteri sono dettagliati nel comma 10, secondo cui : “[…] provvede anche: a) alla verifica dell'efficace attuazione del piano e della sua idoneità, nonché a proporre la modifica dello stesso quando sono accertate significative violazioni delle prescrizioni ovvero LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 235 quando intervengono mutamenti nell'organizzazione o nell'attività dell'amministrazione; b) alla verifica, d'intesa con il dirigente competente, dell'effettiva rotazione degli incarichi negli uffici preposti allo svolgimento delle attività nel cui ambito è più elevato il rischio che siano commessi reati di corruzione; c) ad individuare il personale da inserire nei programmi di formazione di cui al comma 11”. Nella materia del diritto di accesso civico e degli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni, il responsabile per la trasparenza svolge attività di controllo sull’adempimento degli obblighi di pubblicazione, segnalando le inadempienze all’organo di indirizzo politico, all’OIV, all’ANAC e all’ufficio di disciplina (art. 43 D.L.vo n. 33/2013). Infine, nella materia della inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, il Responsabile del Piano anticorruzione “cura, anche attraverso le disposizioni del piano anticorruzione, che nell'amministrazione, ente pubblico e ente di diritto privato in controllo pubblico siano rispettate le disposizioni […] sulla inconferibilità e incompatibilità degli incarichi. A tale fine il responsabile contesta all'interessato l'esistenza o l'insorgere delle situazioni di inconferibilità o incompatibilità”, vigila sul rispetto della disciplina in materia, segnalando le possibili violazioni all’ANAC, all’Autorità Antitrust, nonché alla Corte dei Conti (art. 15 D.L.vo n. 39/2013). Organismo Indipendente di Valutazione. Tale organismo - previsto dall’art. 14 del D.L.vo 27 ottobre 2009 n. 150 per ogni amministrazione, con attribuzioni generali per la valutazione della performance - verifica che i Piani Triennali di Prevenzione della Corruzione e Trasparenza siano coerenti con gli obiettivi stabiliti nei documenti di programmazione strategico-gestionale e che nella misurazione e valutazione della performance si tenga conto degli obiettivi connessi all’anticorruzione e trasparenza; inoltre, riferisce all’ANAC sullo stato di attuazione delle misure di prevenzione (art. 1, comma 8 bis, L. n. 190/2012). Nella materia del diritto di accesso civico e degli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni, l’OIV verifica la coerenza tra il PTCP e il Piano della Performance in ordine agli obiettivi (art. 44 D.L.vo n. 33/2013). Le procedure tipiche in materia di anticorruzione sono: - Piano Nazionale Anticorruzione (PNA); - Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (PTPCT); - Codice di Comportamento dei dipendenti pubblici. 236 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Piano nazionale anticorruzione. I caratteri del Piano Nazionale Anticorruzione sono delineati nel comma 2 bis dell’art. 1 della L. n. 190/2012, il quale così dispone: “Il Piano nazionale anticorruzione è adottato sentiti il Comitato interministeriale di cui al comma 4 e la Conferenza unificata di cui all'articolo 8, comma 1, del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281. Il Piano ha durata triennale ed è aggiornato annualmente. Esso costituisce atto di indirizzo per le pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai fini dell'adozione dei propri piani triennali di prevenzione della corruzione, e per gli altri soggetti di cui all'articolo 2-bis, comma 2, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, ai fini dell'adozione di misure di prevenzione della corruzione integrative di quelle adottate ai sensi del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, anche per assicurare l'attuazione dei compiti di cui al comma 4, lettera a). Esso, inoltre, anche in relazione alla dimensione e ai diversi settori di attività degli enti, individua i principali rischi di corruzione e i relativi rimedi e contiene l'indicazione di obiettivi, tempi e modalità di adozione e attuazione delle misure di contrasto alla corruzione”. A termini dell’art. 3 comma 1-ter D.L.vo n. 33/2013 “l’Autorità nazionale anticorruzione può, con il Piano nazionale anticorruzione, nel rispetto delle disposizioni del presente decreto, precisare gli obblighi di pubblicazione e le relative modalità di attuazione, in relazione alla natura dei soggetti, alla loro dimensione organizzativa e alle attività svolte, prevedendo in particolare modalità semplificate per i comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti, per gli ordini e collegi professionali”. Il PNA, in quanto atto di indirizzo, contiene indicazioni che impegnano le amministrazioni allo svolgimento di attività di analisi della realtà amministrativa e organizzativa nella quale si svolgono le attività di esercizio di funzioni pubbliche e di attività di pubblico interesse esposte a rischi di corruzione e all'adozione di concrete misure di prevenzione della corruzione. Si tratta di un modello che contempera l'esigenza di uniformità nel perseguimento di effettive misure di prevenzione della corruzione con l'autonomia organizzativa, spesso costituzionalmente garantita, delle amministrazioni nel definire esse stesse i caratteri della propria organizzazione e, all'interno di essa, le misure organizzative necessarie a prevenire i rischi di corruzione rilevati. Il PNA ha il compito di promuovere, presso le amministrazioni pubbliche, l'adozione di misure di prevenzione, oggettive e soggettive, della corruzione. Le misure di prevenzione oggettiva mirano, attraverso soluzioni organizzative, a ridurre ogni spazio possibile all'azione di interessi particolari volti all'improprio condizionamento delle decisioni pubbliche. Le misure di prevenzione soggettiva mirano a garantire la posizione di imparzialità del funzionario pubblico che partecipa, nei diversi modi previsti dall'ordinamento (adozione di atti di indirizzo, adozione di atti di gestione, LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 237 compimento di attività istruttorie a favore degli uni e degli altri), ad una decisione amministrativa. In ordine alle azioni e misure per la prevenzione il PNA contiene indicazioni specifiche - sulle misure della trasparenza - sulla rotazione del personale, costituente misura organizzativa preventiva finalizzata a limitare il consolidarsi di relazioni che possano alimentare dinamiche improprie nella gestione amministrativa, conseguenti alla permanenza nel tempo di determinati dipendenti nel medesimo ruolo o funzione. L'alternanza riduce il rischio che un dipendente pubblico, occupandosi per lungo tempo dello stesso tipo di attività, servizi, procedimenti e instaurando relazioni sempre con gli stessi utenti, possa essere sottoposto a pressioni esterne o possa instaurare rapporti potenzialmente in grado di attivare dinamiche inadeguate. Con Del. 3 agosto 2016, n. 831 l’Autorità nazionale anticorruzione ha approvato il Piano Nazionale Anticorruzione 2016; con lo stesso - per branche di amministrazioni rilevanti (istituzioni scolastiche, tutela e valorizzazione dei beni culturali, governo del territorio, sanità) - vengono delineate le misure preventive. Ad es. in ordine alla tutela e valorizzazione dei beni culturali, tra l’altro, si prevede che - nel procedimento per la dichiarazione di interesse culturale vi sia il monitoraggio sui tempi, rotazione degli incarichi, pubblicazione delle schede descrittive; - nelle autorizzazioni paesaggistiche vengano individuate le principali cause di rischio e i principali eventi rischiosi (es. elevata discrezionalità tecnica, complessità del processo di autorizzazione che prevede il coinvolgimento di più amministrazioni, presenza di eventuali interessi privati e nel collegamento territoriale tra utente/istante e funzionario/responsabile del procedimento) con ipotesi di misure preventive (realizzare sistemi che assicurino la trasparenza, il controllo e monitoraggio del procedimento in ogni sua fase; misure di rotazione dei funzionari di zona adeguatamente programmate nel tempo). Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione e Trasparenza. I connotati del Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione e Trasparenza sono delineati nei commi 8 e 9 dell’art. 1 della L. n. 190/2012, i quali recitano “L'organo di indirizzo definisce gli obiettivi strategici in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza, che costituiscono contenuto necessario dei documenti di programmazione strategico-gestionale e del Piano triennale per la prevenzione della corruzione. L'organo di indirizzo adotta il Piano triennale per la prevenzione della corruzione su proposta del Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza entro il 31 gen- 238 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 naio di ogni anno e ne cura la trasmissione all'Autorità nazionale anticorruzione. Negli enti locali il piano è approvato dalla giunta. L'attività di elaborazione del piano non può essere affidata a soggetti estranei all'amministrazione. Il responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, entro lo stesso termine, definisce procedure appropriate per selezionare e formare, ai sensi del comma 10, i dipendenti destinati ad operare in settori particolarmente esposti alla corruzione. Le attività a rischio di corruzione devono essere svolte, ove possibile, dal personale di cui al comma 11 [formato dalla SSPA]” (comma 8). “Il piano di cui al comma 5 risponde alle seguenti esigenze: a) individuare le attività, tra le quali quelle di cui al comma 16, anche ulteriori rispetto a quelle indicate nel Piano nazionale anticorruzione, nell'ambito delle quali è più elevato il rischio di corruzione, e le relative misure di contrasto, anche raccogliendo le proposte dei dirigenti, elaborate nell'esercizio delle competenze previste dall'articolo 16, comma 1, lettera a-bis), del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165; b) prevedere, per le attività individuate ai sensi della lettera a), meccanismi di formazione, attuazione e controllo delle decisioni idonei a prevenire il rischio di corruzione; c) prevedere, con particolare riguardo alle attività individuate ai sensi della lettera a), obblighi di informazione nei confronti del responsabile, individuato ai sensi del comma 7, chiamato a vigilare sul funzionamento e sull'osservanza del piano; d) definire le modalità di monitoraggio del rispetto dei termini, previsti dalla legge o dai regolamenti, per la conclusione dei procedimenti; e) definire le modalità di monitoraggio dei rapporti tra l'amministrazione e i soggetti che con la stessa stipulano contratti o che sono interessati a procedimenti di autorizzazione, concessione o erogazione di vantaggi economici di qualunque genere, anche verificando eventuali relazioni di parentela o affinità sussistenti tra i titolari, gli amministratori, i soci e i dipendenti degli stessi soggetti e i dirigenti e i dipendenti dell'amministrazione; f) individuare specifici obblighi di trasparenza ulteriori rispetto a quelli previsti da disposizioni di legge” (comma 9). All'interno del PTPC sono confluiti i contenuti del Programma Triennale per la trasparenza e l’integrità (PTTI), sicché i PTPC dovranno contenere l'apposita sezione in cui sono indicati i responsabili della trasmissione e della pubblicazione dei documenti, delle informazioni e dei dati ai sensi del D.L.vo 33/2013, come previsto dall'art. 10, co. 1, del medesimo decreto. Codice di comportamento. In ordine alla deontologia e agli obblighi giuridici del pubblico dipendente va richiamato il Codice di Comportamento. All’uopo l’art. 54 del D.L.vo 30 marzo 2001, n. 165 recita: “1. Il Governo definisce un codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni al fine di assicurare la qualità dei servizi, la prevenzione dei fenomeni di corruzione, il rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 239 lealtà, imparzialità e servizio esclusivo alla cura dell'interesse pubblico. Il codice contiene una specifica sezione dedicata ai doveri dei dirigenti, articolati in relazione alle funzioni attribuite, e comunque prevede per tutti i dipendenti pubblici il divieto di chiedere o di accettare, a qualsiasi titolo, compensi, regali o altre utilità, in connessione con l'espletamento delle proprie funzioni o dei compiti affidati, fatti salvi i regali d'uso, purché di modico valore e nei limiti delle normali relazioni di cortesia. 2. Il codice, approvato con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, previa intesa in sede di Conferenza unificata, è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale e consegnato al dipendente, che lo sottoscrive all'atto dell'assunzione. 3. La violazione dei doveri contenuti nel codice di comportamento, compresi quelli relativi all'attuazione del Piano di prevenzione della corruzione, è fonte di responsabilità disciplinare. La violazione dei doveri è altresì rilevante ai fini della responsabilità civile, amministrativa e contabile ogniqualvolta le stesse responsabilità siano collegate alla violazione di doveri, obblighi, leggi o regolamenti. Violazioni gravi o reiterate del codice comportano l'applicazione della sanzione di cui all'articolo 55-quater, comma 1. 4. Per ciascuna magistratura e per l'Avvocatura dello Stato, gli organi delle associazioni di categoria adottano un codice etico a cui devono aderire gli appartenenti alla magistratura interessata. In caso di inerzia, il codice è adottato dall'organo di autogoverno. 5. Ciascuna pubblica amministrazione definisce, con procedura aperta alla partecipazione e previo parere obbligatorio del proprio organismo indipendente di valutazione, un proprio codice di comportamento che integra e specifica il codice di comportamento di cui al comma 1. Al codice di comportamento di cui al presente comma si applicano le disposizioni del comma 3. [..] 6. Sull'applicazione dei codici di cui al presente articolo vigilano i dirigenti responsabili di ciascuna struttura, le strutture di controllo interno e gli uffici di disciplina. 7. Le pubbliche amministrazioni verificano annualmente lo stato di applicazione dei codici e organizzano attività di formazione del personale per la conoscenza e la corretta applicazione degli stessi”. In attuazione di tale norma è stato adottato il D.P.R. 16 aprile 2013 n. 62 contenente il Codice di Comportamento dei dipendenti pubblici. Procedure speciali sono, poi, delineate in varie parti del sistema. Nella materia delle commesse pubbliche vi è la previsione del rating di legalità nella qualificazione delle imprese, con penalità e premialità, criteri reputazionali per l’affidabilità delle imprese (a mezzo di linee guida ANAC); l’ANAC, poi, può applicare sanzioni ove non denunciate corruzione ed estorsione. Sempre nella materia delle commesse pubbliche è possibile attivare la vigilanza collaborativa tra stazioni appaltanti ed ANAC. 240 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 L’art. 4 del Regolamento in materia di attività di vigilanza e di accertamenti ispettivi dell’ANAC del 9 dicembre 2014, dispone che le stazioni appaltanti possono chiedere all’Autorità di svolgere un’attività di vigilanza, anche preventiva, finalizzata a verificare la conformità degli atti di gara alla normativa di settore, all’individuazione di clausole e condizioni idonee a prevenire tentativi di infiltrazione criminale, nonché al monitoraggio dello svolgimento della procedura di gara e dell’esecuzione dell’appalto. Il medesimo art. 4 del citato Regolamento in materia di attività di vigilanza e di accertamenti ispettivi dell’Autorità individua ai commi 2 e 3 specifici presupposti per l’attivazione della vigilanza collaborativa che, in quanto forma particolare di verifica di carattere prevalentemente preventivo, per essere esercitata efficacemente, non può rivolgersi alla totalità degli appalti indetti da una stazione appaltante, ma deve incentrarsi su particolari specifici casi ad alto rischio di corruzione. L’attività di vigilanza esercitata ai sensi dell’art. 4 del citato Regolamento è volta a rafforzare ed assicurare la correttezza e la trasparenza delle procedure di affidamento poste in essere dalle stazioni appaltanti, a ridurre il rischio di contenzioso in corso di esecuzione, con efficacia dissuasiva di ulteriori condotte corruttive o comunque contrastanti con le disposizioni di settore. Il Regolamento di vigilanza, ai commi 2 e 3 sopra richiamati, individua quattro ipotesi in cui la vigilanza collaborativa può essere richiesta dalle stazioni appaltanti: a) programmi straordinari di interventi in occasione di grandi eventi di carattere sportivo, religioso, culturale o a contenuto economico ovvero a seguito di calamità naturali; b) programmi di interventi realizzati mediante investimenti di fondi comunitari; e) contratti di lavori, servizi e forniture di notevole rilevanza economica e/o che abbiano impatto sull’intero territorio nazionale, nonché interventi di realizzazione di grandi infrastrutture strategiche; d) procedure di approvvigionamento di beni e servizi svolte da centrali di committenza o da altri soggetti aggregatori. 6. Gestione informatica dei dati. Essenziale rispetto a tutto quanto delineato è la gestione informatica dei dati. Tra cento anni la problematica ora evidenziata non sussisterà più, atteso che l’agire informatico sarà l’agire ordinario e il dato rilevante nascerà già pubblico e trasparente. In questa fase di passaggio, l’agire informatico costituisce una sovrastruttura rilevante. Occorre quindi fare un cenno agli aspetti relativi alla formazione, gestione e conservazione del dato, alla reingegnerizzazione dei processi e al workflow management. Il Codice dell’Amministrazione digitale contiene una puntuale disciplina in ordine alla formazione, gestione e conservazione del dato (aa. 40 e ss. del D.L.vo 7 marzo 2005 n. 82 cit.). LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 241 Tali norme dispongono: “1. Le pubbliche amministrazioni formano gli originali dei propri documenti, inclusi quelli inerenti ad albi, elenchi e pubblici registri, con mezzi informatici secondo le disposizioni di cui al presente codice e le regole tecniche di cui all'articolo 71” (art. 40). “1. Formano comunque oggetto di registrazione di protocollo ai sensi dell'articolo 53 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, le comunicazioni che pervengono o sono inviate dalle caselle di posta elettronica di cui agli articoli 6-ter, comma 1, 47, commi 1 e 3, nonché le istanze e le dichiarazioni di cui all'articolo 65 in conformità alle regole tecniche di cui all'articolo 71” (art. 40-bis). “1. Le pubbliche amministrazioni gestiscono i procedimenti amministrativi utilizzando le tecnologie dell'informazione e della comunicazione. Per ciascun procedimento amministrativo di loro competenza, esse forniscono gli opportuni servizi di interoperabilità e cooperazione applicativa, ai sensi di quanto previsto dall'articolo 12, comma 2. 2. La pubblica amministrazione titolare del procedimento raccoglie in un fascicolo informatico gli atti, i documenti e i dati del procedimento medesimo da chiunque formati; all'atto della comunicazione dell'avvio del procedimento ai sensi dell'articolo 8 della legge 7 agosto 1990, n. 241, comunica agli interessati le modalità per esercitare in via telematica i diritti di cui all'articolo 10 della citata legge 7 agosto 1990, n. 241. 2-bis. Il fascicolo informatico è realizzato garantendo la possibilità di essere direttamente consultato ed alimentato da tutte le amministrazioni coinvolte nel procedimento. […]. Il fascicolo informatico reca l'indicazione: a) dell'amministrazione titolare del procedimento, che cura la costituzione e la gestione del fascicolo medesimo; b) delle altre amministrazioni partecipanti; c) del responsabile del procedimento; d) dell'oggetto del procedimento; e) dell'elenco dei documenti contenuti, salvo quanto disposto dal comma 2-quater; e-bis) dell'identificativo del fascicolo medesimo. 2-quater. Il fascicolo informatico può contenere aree a cui hanno accesso solo l'amministrazione titolare e gli altri soggetti da essa individuati; esso è formato in modo da garantire la corretta collocazione, la facile reperibilità e la collegabilità, in relazione al contenuto ed alle finalità, dei singoli documenti; è inoltre costituito in modo da garantire l'esercizio in via telematica dei diritti previsti dalla citata legge n. 241 del 1990” (art. 41). “1. Le pubbliche amministrazioni valutano in termini di rapporto tra costi e benefici il recupero su supporto informatico dei documenti e degli atti cartacei dei quali sia obbligatoria o opportuna la conservazione e provvedono alla predisposizione dei conseguenti piani di sostituzione degli archivi cartacei con archivi informatici, nel rispetto delle regole tecniche adottate ai sensi dell'articolo 71” (art. 42). “[…] Il sistema di gestione e conservazione dei documenti informatici è 242 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 gestito da un responsabile che opera d'intesa con il dirigente dell'ufficio di cui all'articolo 17 del presente Codice, il responsabile del trattamento dei dati personali di cui all'articolo 29 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, ove nominato, e con il responsabile del sistema della conservazione dei documenti informatici, nella definizione e gestione delle attività di rispettiva competenza. Almeno una volta all'anno il responsabile della gestione dei documenti informatici provvede a trasmettere al sistema di conservazione i fascicoli e le serie documentarie anche relative a procedimenti conclusi. 1-ter. Il responsabile della conservazione può chiedere la conservazione dei documenti informatici o la certificazione della conformità del relativo processo di conservazione a quanto stabilito nel presente articolo ad altri soggetti, pubblici o privati, che offrono idonee garanzie organizzative e tecnologiche” (art. 44). La formazione, gestione e conservazione del dato costituisce - in questa fase di passaggio - l’esito della reingegnerizzazione, del ridisegno complessivo dei processi della Pubblica Amministrazione, partendo dalla missione e dalle strategie ed agendo contestualmente su tutte le componenti dei processi stessi. La reingegnerizzazione dei processi è una modalità di cambiamento di una organizzazione caratterizzata schematicamente dai seguenti elementi: - interviene - a mezzo di tecnologie - su uno o più processi di servizio tra loro correlati; - è guidata dagli obiettivi strategici dell'organizzazione; - non è vincolata, nell'individuazione delle nuove soluzioni, dalla situazione esistente, ma mira ad un cambiamento radicale; - opera in maniera integrata su tutte le componenti del processo; - è verificata attraverso un sistema di metriche. Deve essere, quindi, effettuata una diagnosi volta ad individuare le aree di criticità e di possibile miglioramento (attività a nullo o scarso valore aggiunto che possono essere eliminate, flussi operativi irrazionali, frammentazione di responsabilità e operatività, logistica, carenze informative…) e a definire i valori obiettivo in termini di metriche di prestazione. Sulla base di tale diagnosi viene effettuata la vera e propria riprogettazione che, interverrà in genere su tutte le componenti, dando origine a un insieme di interventi operativi tra loro correlati (ridefinizione dei flussi, ridistribuzione delle responsabilità, realizzazione di nuovi sistemi informativi e utilizzo di nuove tecnologie, formazione e incentivazione del personale, ...). Nell’agire informatico il workflow management costituisce una tecnica per la massimizzazione del prodotto dell’organizzazione. Ogni struttura - nel contesto dato - tende a creare le tecniche per semplificarsi la vita. Per buona parte del Novecento (fino agli anni’70) è stato in uso nella P.A. il ciclostile, ossia quel sistema di stampa meccanico per produrre manualmente modelli standard da adattare alla bisogna. La teoria e le applicazioni del workflow management promuovono la ge- LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 243 stione dei gruppi di lavoro collaborativi. Il workflow management sostiene l'organizzazione del processo di lavoro mediante l'utilizzo di software specifici. Le attività possono essere svolte dai partecipanti o da applicazioni informatiche. I vantaggi di tali applicazioni sono così sintetizzati: - incremento dell'efficienza (l'automazione di molti processi determina l'eliminazione dei passi non necessari); - migliore controllo del processo, mediante la standardizzazione dei metodi di lavoro; - flessibilità (il controllo del software sul processo di lavoro può essere programmato in base alle esigenze). In tali sistemi risulta centrale il ruolo di presentazione, conservazione e condivisione della conoscenza che nasce dalle forme di workflow collaborativo. Le conoscenze individuali, per essere utili in un gruppo di lavoro, devono essere archiviate nel sistema e contenere metainformazioni che ne permettano il reperimento. I workflow management systems sono realizzati come veri e propri programmi software (workflow engine) da installare sui computer dei collaboratori. Molti vantaggi del workflow management sono dovuti soprattutto all'utilizzo della rete Internet per il mantenimento e l'organizzazione dei contatti, soprattutto quando il gruppo di lavoro è vasto e disperso nello spazio. 244 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 La successione degli Enti Pubblici: il caso controverso del Commissario delegato per l’emergenza ambientale nel territorio della Regione Calabria Daniele Sisca* SOMMARIO: 1. Inquadramento generale - 2. Le ricadute processuali della successione tra enti - 3. I Commissari delegati. Natura e funzioni - 4. Il Commissario delegato per l’emergenza ambientale nel territorio della Regione Calabria. Problematiche emerse in tema di successione dei relativi rapporti - 5. La sentenza della Corte Costituzionale n. 8 del 21 gennaio 2016 - 6. Gli orientamenti giurisprudenziali successivamente formatisi. 1. Inquadramento generale. La tematica della successione fra Enti pubblici è da sempre oggetto di acceso dibattito sia dottrinale che giurisprudenziale, ciò per via dei diversi profili problematici che vengono in rilievo ogni qualvolta si verifica un fenomeno successorio dell’ente a seguito della sua estinzione o della modificazione del suo assetto organizzativo. Preliminarmente, occorre individuare le ipotesi e le diverse forme di successione tra gli enti pubblici, tenendo presente il diverso atteggiarsi del fenomeno successorio con riguardo ai soggetti privati (siano essi persone fisiche o giuridiche) e con riguardo, di converso, agli enti pubblici. Nel primo caso, non sembrano sorgere particolari dubbi interpretativi in ordine all’applicabilità dell’art. 110 c.p.c. e alla conseguente configurabilità di un rapporto successorio in universum jus, essendo l’estinzione dell’ente assimilabile alla morte della persona fisica. Nel secondo caso, invece, il fenomeno successorio si manifesta in maniera del tutto peculiare, che non sempre è riconducibile alla successione universum jus (1). A complicare ulteriormente il tema si pone, peraltro, la questione della controversa individuazione dei criteri da elevare a parametri di riferimento ai fini dell’esatta individuazione della vicenda successoria tra enti pubblici. Secondo alcuni (2), sarebbe lo scopo l’elemento che determinerebbe la successione del nuovo ente nei rapporti già facenti capo a quello estinto; secondo altri (3), di converso - soltanto se all’estinzione si accompagna il tra- (*) Dottore in Giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato di Catanzaro. (1) CORAGGIO, Successione degli Enti Pubblici, in Enc. Giur. Trecc., vol. XXX, Roma 1998; MEZZOTERO - ROMEI, Il Patrocinio della Pubblica Amministrazione, p. 226. (2) ALESSI, In tema di successione delle persone giuridiche, con particolare riguardo agli enti pubblici, in Arch. Giur., 1944, p. 209; FERRARA, Le persone giuridiche, in Tratt. Vasalli, Torino, 1938. (3) VIGNOCCHI, Successione tra enti pubblici, in Nuoviss. Dig. It., XVIII, Torino, 1971. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 245 sferimento della struttura organizzativa - è possibile ammettere la successione delle situazioni soggettive dal vecchio al nuovo ente (4). Entrambe queste tesi, tuttavia, non persuadono, sembrando più corretta la soluzione c.d. casistica, secondo cui occorre far riferimento ai singoli provvedimenti che di volta in volta hanno ad oggetto la modificazione o l’estinzione dell’ente pubblico (5). Tale soluzione, peraltro, è accolta dalla Suprema Corte, che ha affermato: “La costituzione in ente avente personalità giuridica di diritto pubblico dell’azienda Policlinico Umberto I è stata effettuata per la prima volta col d.l. n. 341 del 1999, conv. con modifiche nella l. n. 453 del 1999. Deriva da quanto precede, pertanto, non avendo tale decreto disposto una successione a carattere universale della neoistituita azienda rispetto all’omonima azienda universitaria, che i rapporti derivanti, in precedenza, dall’utilizzazione di tale struttura sanitaria potevano legittimamente essere riferiti all’Università La Sapienza di Roma della quale il Policlinico costituiva parte integrante, sebbene dotato di autonomia organizzativa, gestionale e contabile” (6). In linea generale, le vicende riguardanti il fenomeno successorio si sostanziano: 1) nella soppressione dell’ente; 2) nel passaggio delle sue funzioni ad altro ente; oppure, 3) nello scorporo di un suo settore e nel trasferimento ad altro ente. Il fenomeno successorio, quindi, è strettamente collegato alla modificazione dell’assetto organizzativo dell’ente pubblico, con la conseguenza che il relativo presupposto è l’emanazione di un atto legislativo o regolamentare che ne disponga la sua costituzione, modificazione o estinzione (7). 2. Ricadute processuali della successione tra enti. Particolarmente rilevanti sono gli effetti ricollegabili alla successione tra enti pubblici sul piano processuale (in modo particolare per quanto concerne la legittimatio ad causam e, nel caso delle Amministrazioni erariali, lo jus postulandi) (8). Sul fronte della individuazione dell’ente cui spetta la legittimatio ad causam, occorre prendere le mosse dalla distinzione tra la soppressione dell’ente (estinzione) o il suo trasferimento (della funzione totale o parziale) in capo ad altro ente. (4) MEZZOTERO - ROMEI, op. cit., p. 228. (5) CANNADIA - BARTOLI, Note sulla secessione degli enti autarchici, in Riv. Dir. Pubbl., 1948, p. 651; VIGNOCCHI, Nuovi spunti in tema di successione fra enti pubblici, in Rass. Dir. Pubbl., 1972, pp. 25 e ss. (6) Cass. civ., sez. I, 9 giugno 2014, n. 12946, in banca dati De Jure. (7) BERTOLANI, Lineamenti in tema di successione di enti pubblici, in Arch. giur., 1983, pp. 272 e ss.; MIELE, La successione fra enti pubblici, in Giur. Compl. Cass. civ., 1945, pp. 703 e ss.; SANTI ROMANO, L’ordinamento giuridico, Firenze, 1922, pp. 180 e ss.; MEZZOTERO - ROMEI, op. cit., p. 227. (8) MEZZOTERO - ROMEI, op. cit., pp. 229 e ss. 246 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Nel primo caso, si potrebbero verificare a sua volta due ipotesi: se permangono le finalità dell’ente (o meglio se la legge o l’atto amministrativo che ha disposto la soppressione ha considerato il permanere delle finalità dell’ente ed il loro trasferimento ad altro soggetto) unitamente al passaggio, sia pure parziale, delle strutture e del complesso delle posizioni giuridiche facenti capo all’ente soppresso, si verifica anche la successione in “universum ius” di tutti i rapporti giuridici che facevano capo all’ente soppresso; di converso, tale successione avviene a titolo particolare se la cessazione dell’ente sia stata disposta “previa liquidazione”, sicché, in tale ultima evenienza, il liquidatore non assume alcuna diretta responsabilità patrimoniale per le obbligazioni contratte dal soggetto estinto (9). L’estinzione del munus comporta, infatti, o l’estinzione (10) dell’ente - con conseguente sua liquidazione patrimoniale - oppure la sua privatizzazione. In entrambi i casi non può parlarsi di successione in senso proprio, ma soltanto di estinzione del soggetto. Nel caso in cui le finalità dell’ente permangono, il munus si trasferisce ad un distinto soggetto giuridico; in queste ipotesi, al fine di determinare se si sia verificata o meno una successione in universum jus, occorrerà fare riferimento, come detto, alle singole norme (primarie o secondarie) disciplinanti la creazione del nuovo ente (11). Se all’istituzione dell’ente successore non corrisponda, invece, la soppressione dell’ente originario, in tal caso non si verificherà una successione universale, ma soltanto una successione particolare tra enti pubblici. Inoltre, va precisato che in situazioni corrispondenti a riassetti di apparati organizzativi necessari della pubblica amministrazione - qual è l’apparato che vede coinvolta in via diretta l’attuazione dei principi di buon andamento e di imparzialità ai sensi dell’art. 97 Cost. - viene in rilievo non una successione a titolo universale nel senso proprio del termine, ma una successione nel munus; in sostanza, per tali ipotesi si realizza un fenomeno di natura pubblicistica che si sostanzia nel passaggio di attribuzioni tra Amministrazioni pubbliche, con trasferimento della titolarità sia delle strutture burocratiche sia dei rapporti amministrativi pendenti, ma senza una vera soluzione di continuità, quanto piuttosto con una successione contraddistinta da una stretta linea di continuità tra l’ente che si estingue e l’ente che subentra (12). (9) Cfr., di recente, Cass. Civ., sez. lav., 27 aprile 2016 n. 8377, in banca dati De Jure. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha cassato la sentenza di appello affermando che l’I.N.P.S., essendo subentrato, in forza dell’art. 19, l. n. 724 del 1994 e dell’art. 9-sexies, l. n. 608 del 1996, di conversione con modif. del d.l. n. 510 del 1996, nei rapporti facenti capo al Servizio Contributi Agricoli Unificati, era legittimato ad avvalersi dell’effetto interruttivo della prescrizione dei contributi a seguito del verbale di constatazione di illecito amministrativo effettuato dall’ente soppresso. (10) In via di principio, la soppressione ex lege di un ente pubblico e la successione allo stesso di un altro ente integra un fenomeno equiparabile alla morte o alla perdita della capacità di stare in giudizio della persona fisica. (11) Cfr., MEZZOTERO - ROMEI, op. cit., pp. 229 e ss. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 247 Esplicita, in tal senso, è una decisione del Supremo Consesso di giustizia amministrativa (13), nella quale si sostiene che la successione nel “munus” fra pubbliche amministrazioni è il fenomeno di natura pubblicistica che si concretizza nel passaggio di attribuzioni fra le amministrazioni medesime, con trasferimento della titolarità sia delle strutture burocratiche che dei rapporti amministrativi pendenti ma senza una vera soluzione di continuità. Qualora l’ente estinto sia ammesso allo jus postulandi dell’Avvocatura dello Stato, non sembrano sussistere dubbi sul fatto che la cessazione delle competenze dell’ente soppresso - con subentro nelle stesse di soggetto non rientrante nel novero di quelli elencati dagli artt. 1 e 43, r.d. n. 1611/1933 (con conseguente inapplicabilità della disciplina relativa al patrocinio dell’Avvocatura dello Stato) - comporta il venir meno dello jus postulandi del difensore erariale, dando luogo ad una fattispecie di impedimento del procuratore per factum principis, riconducibile alla previsione dell’art. 301, comma 1, c.p.c., in quanto non equiparabile alle ipotesi di revoca della procura o di rinunzia alla stessa di cui al comma 3 dell’art. 301 c.p.c., essendo indipendente dalla volontà sia della parte sia del procuratore (14). 3. I Commissari delegati. Natura e funzioni. Nel nostro ordinamento, il potere sostitutivo del Governo (volto a fronteggiare eventi eccezionali che non possono essere gestiti con i normali strumenti operativi a disposizione degli enti a cui il compito è affidato) ha acquisito sempre maggiore rilievo e importanza. Le strutture commissariali che si insediano nei territori locali sono, infatti, un fenomeno sempre più frequente, vuoi per una cattiva gestione nella risoluzione di problematiche inerenti i pubblici servizi (si vedano a riguardo i diversi Commissari insediati per il superamento dello stato di emergenza in materia di gestione e smaltimento dei rifiuti solidi urbani), vuoi per la situazione economica disastrosa che incombe in alcuni settori pubblici (si vedano i Commissari per l’attuazione del Piano di rientro dai disavanzi del settore sanitario) (15), o ancora, in casi meno frequenti, per fronteggiare situazioni del tutto particolari (si veda il Commissario delegato per il superamento dell’emergenza “Costa Concordia” sull’Isola del Giglio (16) o i Commissari nominati a seguito di alluvioni (17), terremoti (18) o altre calamità naturali). (12) Cfr., Cons. St., sez. III, 1 aprile 2016, n. 1310, in banca dati De Jure. (13) Cfr., Cons. St., sez. VI, 24 novembre 2015, n. 5329, in banca dati De Jure. (14) Così in MEZZOTERO - ROMEI, op. cit., p. 223; Cass. civ., sez. lav., 23 gennaio 1998, n. 641, in Giust. Civ. Mass., 1998, p. 1805. (15) Attualmente sono quattro le regioni Italiane in cui il Governo si è sostituito agli enti regionali nominando un Commissario ad acta per l’attuazione del Piano di rientro dai disavanzi del settore sanitario (Abruzzo, Campania, Molise e Calabria). (16) Con O.P.C.M. n. 3998/2012 (in www.pa.leggiditalia.it) veniva nominato Commissario dele- 248 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 L’origine delle gestioni commissariali è sicuramente rinvenibile nell’art. 120, comma 2, Cost. (19) che ha trovato attuazione nella l. 24 febbraio 1992, n. 225 (“Istituzione del Servizio Nazionale della Protezione Civile” ), la quale prevede e disciplina le ipotesi di deliberazione dello stato di emergenza e la conseguente nomina del Commissario delegato da parte del Consiglio dei Ministri, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, formulata anche su richiesta del Presidente della regione interessata e comunque acquisitane l’intesa (20). Detta legge fissa anche i compiti e il contenuto della delega da parte del Governo, stabilendo che il soggetto delegato è competente a coordinare gli interventi, conseguenti all’evento, che si rendono necessari successivamente alla scadenza del termine di durata dello stato di emergenza, attribuendo, poi, poteri derogatori in materia di affidamento di lavori pubblici e di acquisizione di beni e servizi; inoltre, ad esso è intestata la contabilità speciale appositamente aperta per l’emergenza in questione e per la prosecuzione della gestione operativa della stessa, per un periodo di tempo determinato ai fini del completamento degli interventi previsti dalle ordinanze adottate ai fini di fronteggiare l’emergenza. In merito alla sua natura, bisogna premettere che la struttura commissariale resta pienamente autonoma e distinta (anche, ovviamente, sul piano della legittimazione processuale) sia dagli enti territoriali competenti che dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dai Ministeri competenti. Il Commissario delegato, pertanto, risulta essere un centro d’imputazione autonomo sia rispetto agli enti locali (i cui uffici operano a supporto organizzativo della struttura commissariale in relazione di mero avvalimento) sia rispetto alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dei Ministeri interessati, stante l’autonomia operativa, decisionale ed organizzativa della struttura commissariale, competendo gato per l’emergenza “Costa Concordia” il Capo Dipartimento della Protezione Civile, Franco Gabrielli. Tra i compiti a lui attribuiti vi erano la coordinazione degli interventi per superare l’emergenza, il controllo e l’esecuzione degli interventi di messa in sicurezza e bonifica da parte dell’armatore e la verifica che la rimozione del relitto avvenisse in sicurezza. (17) Con O.C.D.P. n. 298 del 17 novembre 2015 (in www.pa.leggiditalia.it) veniva nominato il Commissario Delegato per l’emergenza causata dagli eventi alluvionali che avevano colpito il territorio della Regione Campania nei giorni dal 14 al 20 ottobre 2015. (18) L’1 settembre 2016, il Consiglio dei Ministri, in una seduta lampo, ha nominato Vasco Errani Commissario straordinario di Governo per la ricostruzione delle aree colpite dal terremoto del 24 agosto 2016 nel territorio del Lazio. (19) “Il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l'incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell'unità giuridica o dell'unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali. La legge definisce le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di sussidiarietà e del principio di leale collaborazione”. (20) Art. 5, l. 24 febbraio 1992, n. 225. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 249 alla Presidenza del Consiglio il solo procedimento di nomina e la prodromica attività istruttoria relativa all’accertamento dei presupposti per disporre l’intervento sostituivo (21). 4. Il Commissario delegato per l’emergenza ambientale nel territorio della Regione Calabria. Problematiche emerse in tema di successione dei relativi rapporti. In questo ambito particolarmente dibattuta è la questione della successione nei rapporti facenti capo al cessato Ufficio del Commissario delegato per il definitivo superamento del contesto di criticità nel settore dei rifiuti urbani nel territorio della regione Calabria (già Commissario delegato per l’emergenza ambientale nel territorio della Regione Calabria). L’Ufficio commissariale ha definitivamente cessato tutte le proprie funzioni in data 31 dicembre 2012, giusta O.P.C.M. n. 4011 del 22 marzo 2012. Al fine di un compiuto esame normativo e giurisprudenziale della vicenda relativa alla cessazione delle funzioni dell’Ufficio Commissariale e il relativo passaggio dei rapporti con esso pendenti, occorre muovere dall’O.P.C.M. 22 marzo 2012, n. 4011, con la quale si attribuiva al Commissario delegato il compito di provvedere “in regime ordinario ed in termini di somma urgenza, alla prosecuzione e al completamento, entro non oltre il 31 dicembre 2012 di tutte le iniziative già programmate per il definitivo superamento del contesto di criticità nel settore dei rifiuti solidi urbani nel territorio della Regione Calabria”. Con il medesimo provvedimento veniva previsto - all’esito delle predette attività - “il trasferimento alle amministrazioni ed agli enti ordinariamente competenti dei beni e delle attrezzature utilizzate per l’attuazione delle finalità connesse al superamento dello stato emergenziale”. Successivamente, con O.P.C.M. 14 marzo 2013, n. 57, venivano stabilite le modalità di trasferimento delle relative competenze in capo agli organi ordinariamente deputati alla gestione delle operazioni di gestione dei rifiuti. Dall’art. 1 (22) di tale ordinanza si ricava: (21) Cfr., T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. I, 27 giugno 2016, n. 1313 e n. 1314, in www.giustizia-amministrativa.it, in riferimento al Commissario ad acta per l’attuazione del Piano di rientro dai disavanzi del settore sanitario della Regione Calabria; Cons. St., sez. III, 10 aprile 2015, n. 1832, in www.giustizia-amministrativa.it. (22) “1. A decorrere dal 1° gennaio 2013, la regione Calabria - Assessorato alle politiche ambientali è individuata quale amministrazione competente al coordinamento delle attività necessarie al completamento degli interventi da eseguirsi nel contesto di criticità nel settore dei rifiuti solidi urbani nel territorio della medesima Regione. 2. Per i fini di cui al comma 1, il Dirigente generate del Dipartimento politiche dell'ambiente dell’Assessorato alle politiche ambientali della regione Calabria è individuata quale responsabile delle iniziative finalizzate al definitivo subentro della medesima Regione nel coordinamento degli interventi. 3. Il dott. Vincenzo Maria Speranza, Commissario delegato ai sensi dell'art. 1 dell'ordinanza di protezione civile n. 3983/2011 e successive modifiche ed integrazioni, provvede entro dieci giorni dalla pubblicazione del presente provvedimento nella Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana, a trasferire al dirigente generale del Dipartimento politiche dell’ambiente dell’As- 250 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 a) la delega alla Regione Calabria, a decorrere dall’1 gennaio 2013, dell’opera di coordinamento delle attività necessarie al completamento degli interventi da eseguirsi nel contesto di criticità nel settore dei rifiuti solidi urbani (comma 1); sessorato alle politiche ambientali della regione Calabria tutta la documentazione amministrativa e contabile inerente la gestione commissariale e ad inviare al Dipartimento della protezione civile una relazione sulle attività svolte contenente l’elenco dei provvedimenti adottati, degli interventi conclusi e delle attività ancora in corso con relativo quadro economico. 4. Il Dirigente generale del Dipartimento Politiche dell'ambiente dell'Assessorato alle politiche ambientali della regione Calabria è autorizzato a porre in essere le attività occorrenti per il proseguimento in regime ordinario delle iniziative in corso finalizzate al superamento del contesto critico in rassegna, secondo le modalità specificate in premessa, e provvede alla ricognizione ed all’accertamento delle procedure e dei rapporti giuridici pendenti ai fini del definitivo trasferimento dei medesimi alla regione Calabria, unitamente ai beni ed alle attrezzature utilizzate. 5. Il dirigente generale del Dipartimento politiche dell'ambiente dell’Assessorato alle politiche ambientali della regione Calabria, che opera a titolo gratuito, per l’espletamento delle iniziative di cui al comma 2 può avvalersi delle strutture organizzative della medesima regione, nonchè della collaborazione degli Enti territoriali e non territoriali e delle Amministrazioni centrali e periferiche dello Stato, che provvedono sulla base di apposita convenzione, nell'ambito delle risorse già disponibili nei pertinenti capitoli di bilancio di ciascuna amministrazione interessata, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. 6. Al fine di consentire l’espletamento delle iniziative di cui alla presente ordinanza il dirigente generale del Dipartimento politiche dell’ambiente dell’Assessorato alle politiche ambientali della regione Calabria provvede, fino al completamento degli interventi di cui al comma 2 e delle procedure amministrativo-contabili ad essi connessi, con le risorse disponibili sulla contabilità speciale istituita ai sensi dell’ordinanza di protezione civile n. 2696/1997 e successive modifiche ed integrazioni, che viene allo stesso intestata fino al 31 dicembre 2013. Il dirigente generale del Dipartimento politiche dell’ambiente dell’Assessorato alle politiche ambientali della regione Calabria provvede ad inviare al Dipartimento della protezione civile una dettagliata relazione semestrale sullo stato di avanzamento delle attività condotte per l’attuazione degli interventi di cui alla presente ordinanza, con relativo quadro economico. 7. Qualora a seguito del compimento delle iniziative cui al comma 6, residuino delle risorse sulla contabilità speciale, il dirigente generale del Dipartimento politiche dell'ambiente dell’Assessorato alle politiche ambientali della regione Calabria può predisporre un Piano contenente gli ulteriori interventi strettamente finalizzati al superamento della situazione di criticità, da realizzare a cura dei soggetti ordinariamente competenti secondo le ordinarie procedure di spesa ed a valere su eventuali fondi statali residui, di cui al comma 4-quater, dell'art. 5, della legge n. 225/1992. Tale piano sarà oggetto di un accordo di programma da stipulare, ai sensi dell’art. 15, della legge n. 241 del 7 agosto 1990 e successive modifiche ed integrazioni, tra il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e la regione Calabria. 8. A seguito della avvenuta stipula dell'accordo di cui al comma 7, le risorse residue relative al predetto Accordo giacenti sulla contabilità speciale sono trasferite al bilancio della regione Calabria ovvero, ove si tratti di altra amministrazione, sono versate all’entrata del bilancio dello Stato per la successiva riassegnazione. 9. Non è consentito l’impiego delle risorse finanziarie di cui al comma 8 per la realizzazione di interventi diversi da quelli contenuti nel Piano di cui al comma 7. 10. All’esito delle attività realizzate ai sensi del presente articolo, le eventuali somme residue presenti sulla contabilità speciale sono versate alla Presidenza del Consiglio dei Ministri sul conto corrente infruttifero n. 22330 aperto presso la Tesoreria centrale dello Stato per la successiva riassegnazione al Fondo della Protezione Civile, ad eccezione di quelle derivanti da fondi di diversa provenienza, che vengono versate al bilancio delle Amministrazioni di provenienza. 11. Il Dirigente generale del Dipartimento politiche dell'ambiente dell'Assessorato alle politiche ambientali della Regione Calabria, a seguito della chiusura della contabilità speciale di cui al comma 6, provvede, altresì, ad inviare al Dipartimento della protezione civile una relazione conclusiva riguardo alle attività poste in essere per il superamento del contesto critico in rassegna. 12. Restano fermi gli obblighi di rendicontazione di cui all’art. 5, comma 5-bis, della legge n. 225 del 1992”. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 251 b) la previsione di un ulteriore “definitivo subentro della medesima Regione nel coordinamento degli interventi” (comma 2); c) l’obbligo per il Commissario delegato ai sensi dell’art. 1 dell’O.P.C. n. 3983/2011 di procedere al trasferimento al Dirigente generale del Dipartimento politiche dell’ambiente dell’Assessorato alle politiche ambientali della Regione Calabria di tutta la documentazione amministrativa e contabile inerente la gestione commissariale, ma anche dell’invio al Dipartimento della Protezione Civile di una relazione sulle attività svolte contenente l’elenco dei provvedimenti adottati, degli interventi conclusi e delle attività ancora in corso con il relativo quadro economico (comma 3); d) l’autorizzazione al Dirigente generale del Dipartimento politiche dell’Ambiente dell’Assessorato alle Politiche Ambientali della Regione Calabria a porre in essere le attività occorrenti per il proseguimento in regime ordinario delle iniziative in corso finalizzate al superamento del contesto critico in rassegna, secondo le modalità specificate in premessa, e di provvedere alla ricognizione ed all’accertamento delle procedure e dei rapporti giuridici pendenti ai fini del definitivo trasferimento dei medesimi alla Regione Calabria, unitamente ai beni ed alle attrezzature utilizzate (comma 4); e) l’uso delle somme poste sulla contabilità speciale istituita ai sensi dell’O.P.C. n. 2696/1997 e successive modifiche ed integrazioni, con obbligo di relazione semestrale sullo stato di avanzamento delle attività condotte per l’attuazione degli interventi dell’ordinanza, con relativo quadro economico (comma 6); f) il dovere di trasferire, ove residuate, le risorse allocate nella contabilità speciale, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri sul conto corrente infruttifero n. 22330 aperto presso la Tesoreria centrale dello Stato per la successiva riassegnazione al Fondo della Protezione Civile, ad eccezione di quelle derivanti da fondi di diversa provenienza, da versate sul bilancio delle Amministrazioni di provenienza (comma 10) (23). A ciò si aggiunga che, con successiva O.C.D.P.C. n. 146/2014, è stato previsto, al fine del completamento delle iniziative finalizzate al definito subentro della Regione Calabria nel coordinamento degli interventi e delle procedure amministrativo contabili ad essa connesse, che il dirigente (individuato ai sensi dell’O.P.C.M. n. 57/2013, comma 3) possa avvalersi delle risorse disponibili sulla contabilità speciale all’uopo istituita (24). Un ulteriore tassello che ricostruisce il passaggio di detti rapporti è contenuto nell’art. 1, comma 422, l. 27 dicembre 2013, n. 147 (c.d. legge di stabi- (23) Si tratta di una classificazione compiuta in diverse sentenze della Corte d’Appello di Catanzaro, tra cui: sez. III, 4 aprile 2016, n. 473; id., 21 gennaio 2015, n. 62; id., 19 maggio 2016, n. 801; id., 15 luglio 2016, n. 1250; id., 8 giugno 2016, n. 951 (tutte inedite). (24) Cfr. App. Catanzaro, sez. II, 3 luglio 2015, n. 928 (inedita). 252 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 lità 2014), ai sensi del quale “Alla scadenza dello stato di emergenza, le amministrazioni e gli enti ordinariamente competenti, individuati anche ai sensi dell’art. 5, commi 4-ter e 4-quater, della l. 24 febbraio 1992, n. 225 (istituzione del servizio nazionale della protezione civile), subentrano in tutti i rapporti attivi e passivi, nei procedimenti giurisdizionali pendenti, anche ai sensi dell’art. 110 del codice di procedura civile, nonché in tutti quelli derivanti dalle dichiarazioni di cui all’art. 5-bis, comma 5, del decreto-legge 7 settembre 2001, n. 343, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 novembre 2001, n. 401, già facenti capo ai soggetti nominati ai sensi dell’art. 5 della citata legge n. 225 del 1992. Le disposizioni di cui al presente comma trovano applicazione nelle sole ipotesi in cui i soggetti nominati ai sensi dell’art. 5 della medesima legge n. 225 del 1992 siano rappresentanti delle amministrazioni e degli enti ordinariamente competenti ovvero soggetti dagli stessi designati”. Tale ultime disposizione contempla una fattispecie di successione universale nei rapporti, con conseguente applicazione dell’art. 110 c.p.c, nei casi in cui i soggetti nominati Commissari delegati siano rappresentanti degli enti ordinariamente competenti oppure dagli stessi designati. A questo punto il nodo del problema consiste nell’accertare caso per caso se sussistono i presupposti per l’applicazione dell’ultimo inciso della norma sopra citata; in collegamento, occorre chiarire quale sia l’esatta portata del termine “designati”. Prima di affrontare questi temi, occorre esaminare il principio che la Corte Costituzionale ha elaborato a seguito delle questioni di legittimità dell’art. 1, comma 422, l. n. 147/2013 sollevate dalla Regione Lazio e dalla Regione Campania. 5. La sentenza della Corte Costituzionale n. 8 del 21 gennaio 2016. Le questioni di legittimità venivano sollevate in riferimento agli artt. 3, 24, 81, 97, 101, 111, 113, 117, comma 1, 118, 119 Cost.; tutte rigettate dalla Corte Costituzionale con la sentenza 21 gennaio 2016, n. 8. Le suddette censure facevano perno su una premessa di fondo, ossia che i provvedimenti posti in essere dal Commissario delegato per la gestione dell’emergenza (quale longa manus del Presidente del Consiglio dei Ministri) avrebbero dovuto considerarsi atti dell’amministrazione centrale dello Stato, finalizzati a soddisfare interessi che trascendono quelli delle comunità locali colpite dalla calamità. Nel giudizio costituzionale, l’Avvocatura Generale dello Stato, per come risulta dalla parte espositiva della pronuncia della Consulta (25), ha sostenuto che, nella fase dell’emergenza, lo Stato non eserciterebbe funzioni proprie, bensì funzioni provvisoriamente avocate a sé in via sostitutiva, con la conseguenza che le competenze degli enti territoriali colpiti da calamità (temporaneamente compresse da quelle esercitate dalla Stato) si espanderebbero LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 253 nuovamente al suo termine. A conferma di ciò vi è la circostanza secondo cui gli enti (competenti in via ordinaria) subentrerebbero nei rapporti non solo passivi ma anche attivi, risalenti alla cessata gestione commissariale, potendo (25) Cfr. punto 4, Cort. Cost., 21 gennaio 2016, n. 8, in www.cortecostituzionale.it: “La difesa erariale osserva - con argomentazioni in buona parte comuni ai due ricorsi regionali - che la disciplina recata dalla norma denunciata, letta nel contesto della legge n. 225 del 1992, come modificata dal decreto- legge 15 maggio 2012, n. 59 (Disposizioni urgenti per il riordino della protezione civile), convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 2012, n. 100, troverebbe la sua ragione d’essere nelle complesse vicende, sostanziali e processuali, derivanti dalla «chiusura delle gestioni emergenziali e dei c.d. grandi eventi», là dove si era intervenuti - proprio con il citato d.l. n. 59 e, segnatamente, con l’art. 5, comma 4-quater - a definire il passaggio, in capo all’ente subentrante ordinariamente competente, di funzioni, compiti e risorse finanziarie che residuano sulla contabilità speciale nella persistenza dello scopo originariamente delineato. Nonostante ciò, i soggetti subentranti ex lege nelle gestioni commissariali avrebbero «sostanzialmente rifiutato o ostacolato il subentro effettivo», tanto da rendere necessario un intervento chiarificatore del legislatore, che si è avuto con la norma di cui al denunciato comma 422. Il Presidente del Consiglio dei ministri soggiunge, quindi, che, nella materia in questione, lo Stato, in forza del principio di sussidiarietà e con l’intervento partecipativo regionale, sarebbe appunto intervenuto «in modo sostitutivo rispetto agli enti ordinariamente competenti», con «temporanea compressione delle competenze [di quest’ultimi] che si espandono nuovamente al termine dello stato d’emergenza». Non sarebbe violata, quindi, l’autonomia finanziaria regionale, considerato che gli enti ordinariamente competenti, tra cui le Regioni, subentrando ex lege nelle gestioni commissariali, «sarebbero tenute di per sé a sostenere gli oneri afferenti ai compiti istituzionali che sono rientrati nell’ordinario ». Né vi sarebbe difficoltà nel reperire le risorse finanziarie per far fronte a costi supplementari e non previsti, giacché il subentro riguarda non solo le passività, ma anche le attività, che «viceversa comportano una voce di entrata per l’ente». Le risorse finanziarie predisposte dallo Stato in favore della collettività colpita dall’evento calamitoso, ove dovessero residuare al momento della cessazione dell’emergenza, sono trasferite per legge all’ente ordinariamente competente. E proprio nell’ottica di responsabilizzazione di quest’ultimo si porrebbe la prevista applicazione della norma denunciata soltanto nelle ipotesi in cui «i soggetti nominati ai sensi dell’articolo 5 della medesima legge n. 225 del 1992 siano rappresentanti delle amministrazioni e degli enti ordinariamente competenti ovvero soggetti dagli stessi delegati». Sarebbe infondata anche la doglianza di violazione del comma terzo dell’art. 117 Cost., non essendo la norma denunciata di dettaglio e, peraltro, potendo il legislatore statale dettare anche norme puntuali per realizzare concretamente le finalità del coordinamento finanziario. Quanto, poi, alla censura che investe i «grandi eventi», la difesa erariale osserva che la disposizione in parte qua non troverà applicazione nei confronti degli enti territoriali, giacché, «nella maggior parte dei casi, la figura del Commissario Delegato per i grandi eventi è stata rivestita dal Capo del Dipartimento della Protezione Civile ovvero da soggetti estranei alla Pubblica Amministrazione posti a capo di strutture di Missione istituite ad hoc nell’ambito della Presidenza del Consiglio», restando, quindi, i relativi rapporti giuridici in capo all’Amministrazione statale. In ordine, poi, alla censura di irragionevolezza del meccanismo di subentro ai sensi dell’art. 110 cod. proc. civ., l’Avvocatura generale osserva che i commissari delegati «sono soggetti distinti rispetto all’Amministrazione delegante, in quanto dotati di autonomia amministrativa e contabile», siccome titolari esclusivi di apposite contabilità speciali ai medesimi specificamente intestate e destinate esclusivamente alla realizzazione degli interventi emergenziali. Dunque, ben si attaglierebbe alla fattispecie in questione, in quanto ricognitiva di un’ipotesi di venir meno della parte processuale, il richiamo all’art. 110 cod. proc. civ., senza che sussista alcuna interferenza con la funzione giurisdizionale, né violazione del principio di irretroattività della legge ovvero lesione del diritto di difesa. Non sarebbe fondata neppure la doglianza che deduce la disparità di trattamento nella distinzione fra gestioni commissariali facenti capo, o meno, a soggetti rappresentanti degli enti ordinariamente competenti, giacché proprio tale distinzione consentirebbe la responsabilizzazione del vertice istituzionale dell’ente territoriale coinvolto”. 254 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 per di più avvalersi delle risorse finanziarie che residuano nelle contabilità speciali dei Commissari delegati. La Corte Costituzionale ha accolto questa tesi, dichiarando l’infondatezza di tutte le questioni sollevate in via principale dalla Regione Lazio e dalla Regione Campania. In particolare, la Consulta ha rilevato che, se da un lato gli atti del Commissario delegato sono qualificabili come atti dell’Amministrazione centrale dello Stato, dall’altro la funzione statale che qui viene in rilievo ha carattere temporaneo e risulta correlata necessariamente allo stato di emergenza, rispetto alla quale la Regione ordinariamente competente non è comunque estranea. La funzione statale, in quanto strettamente connessa allo stato emergenziale, cessa nel momento in cui termina l’emergenza. Ne consegue che “Il venir meno della struttura commissariale, per il cui tramite lo stato ha in concreto esercitato la funzione emergenziale, integra il presupposto di una necessitata successione nei rapporti da questa posti in essere e che risultino ancora in atto, la cui riconduzione al fenomeno della successione universale è scelta legislativa non incongrua rispetto alle premesse che la sorreggono” (26). Dal che, ulteriormente, consegue, secondo la Consulta, che i rapporti giuridici residuati alla cessazione della struttura commissariale siano governati, nuovamente, in base all’ordinario sistema di competenze con il subentro dell’ente ordinariamente competente - ai sensi dell’art. 110 c.p.c. - in tutte le situazioni attive e passive appartenenti, nello stato di emergenza, all’Amministrazione Statale. Il subentro dell’ente territorialmente competente nei rapporti (anche ex iudicato) e nei giudizi pendenti risalenti alla gestione commissariale non ha, infatti, carattere retroattivo, ma regola il fenomeno successorio in consonanza con i principi sostanziali e processuali di riferimento, non potendosi sostenere che il successore a titolo universale, in quanto tale (e, dunque, titolare dello stesso rapporto sostanziale oggetto di giudicato), sia vulnerato nelle sue garanzie difensive dalla norma dell’art. 110 c.p.c., la quale, in ogni caso, si appalesa pertinente a regolare il fenomeno in luogo dell’art. 111 c.p.c., che attiene alla successione a titolo particolare (27). Chiarite le questioni d’ordine generale affrontate dalla Corte Costituzionale, occorre, poi, soffermarsi sull’ultimo inciso dell’art. 1, comma 422, l. n. 147/2013, alla luce della giurisprudenza formatasi sul punto successivamente alla pronuncia della Consulta. 6. Gli orientamenti giurisprudenziali successivamente formatisi. L’inciso appena richiamato, era stato anch’esso censurato dalle Regioni Campania e Lazio in riferimento all’art. 3 Cost., in quanto ritenuto lesivo del (26) Cfr. punto 8.1.2., Corte Cost., 21 gennaio 2016, n. 8, cit. (27) Così in MEZZOTERO - ROMEI, op. cit., p. 253. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 255 principio di uguaglianza, nonché privo di giustificazione e immotivatamente iniquo. La Consulta, rigettando tale doglianza, ha rilevato che l’ambito applicativo dell’inciso in esame si riferisce esclusivamente all’ipotesi in cui i Commissari delegati siano rappresentanti dell’Amministrazione e degli enti ordinariamente competenti ovvero soggetti dalla stessa designati (28). Pertanto, con riferimento al cessato Ufficio del Commissario delegato per l’emergenza ambientale nel territorio della regione Calabria potrebbe non considerarsi applicabile il meccanismo successorio in universum jus delineato in termini generali dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 8/2016, proprio in ragione di quanto disposto dall’ultimo inciso dell’art. 1, comma 422, cit.; difatti, fin dall’anno 2004 sino alla cessazione dello stato emergenziale (31 dicembre 2012), le funzioni di Commissario delegato pro tempore per l’emergenza ambientale nel territorio della regione Calabria sono state ricoperte (sempre) da rappresentanti dell’Amministrazione Statale (29). Al riguardo, la giurisprudenza ha fornito non univoche soluzioni della questione concernente l’individuazione dell’ente legittimato riguardo ai rapporti facenti capo al cessato Ufficio commissariale. La prima tesi accolta non dà conto della speciale disposizione di cui all’ultimo inciso dell’art. 1, comma 422, l. 27 dicembre 2013, n. 147, attribuendo tout court la legittimazione passiva alla Regione Calabria. In particolare, con diverse pronunce, la Corte d’appello di Catanzaro ha rigettato l’eccezione di difetto di legittimazione passiva dedotta dalla Regione Calabria in relazione al rapporto controverso facente capo al cessato Ufficio commissariale (erroneamente evocato in giudizio da controparte, dopo la sua cessazione), ritenendo che, per effetto della cessazione dell’Ufficio commissariale, giusta O.P.C.M. 22 marzo 2012, n. 4011 “la Regione ha proseguito, in regime ordinario, le iniziative in corso finalizzate al superamento della criticità in materia ambientale al fine di attuare il definitivo trasferimento di tutti i rapporti giuridici pendenti in capo alla Regione medesima, mentre alcun subentro risulta attuato in favore della Presidenza del Consiglio dei Ministri, che risulta, pertanto, estranea alla pretesa e dunque carente di legittimazione a contraddire” (30) (31). (28) Cfr. punto 8.1.4., Corte Cost., 21 gennaio 2016, n. 8. (29) La delega di Commissario dal 2004 fino alla cessazione dello stato di emergenza risulta essere attribuita, infatti, ai Prefetti. (30) Cfr. App. Catanzaro, sez. II, 15 febbraio 2016, n. 483; id., 27 gennaio 2016, n. 95; id., 3 luglio 2015, n. 928; Sentenza n. 95 depositata il 27 gennaio 2016, a definizione del giudizio R.G. n. 873/2016 (tutte inedite). (31) In terminis si v. anche Cons. St., sez. IV, 23 maggio 2016, n. 2111, in www.giustizia-amministrativa.it (in riferimento all’Ufficio del Commissario delegato per l’emergenza ambientale nel territorio della Regione Campania), la quale, nel dare atto dell’intervenuta sentenza della Corte Cost. n. 8/2016, dichiara il difetto di legittimazione passiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri. 256 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Un diverso orientamento (pare quello più accreditato), di contro, in riferimento alla dibattuta disposizione della legge di stabilità 2014, sostiene che la stessa non può che essere interpretata come afferente alla regolamentazione della successione universale tra gli uffici regionali e i soggetti nominati ai sensi dell’art. 5, l. n. 225/1992, ma a condizione che questi ultimi siano qualificati come “rappresentanti delle amministrazioni e degli enti ordinariamente competenti ovvero soggetti dagli stessi designati”. La Corte territoriale calabrese, nei casi esaminati, giunge ad affermare che il Commissario che risultava essere indicato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri non potesse in qualsivoglia misura essere qualificato come rappresentante della Regione Calabria, concludendo che “… a mente dell’art. 111 c.p.c., il processo deve proseguire tra le parti originarie e, dunque, persiste la legittimazione processuale del solo Ufficio del Commissario delegato emergenza ambientale quale organo straordinario della Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento protezione Civile” (32). In queste pronunce, viene riconosciuta, quindi, la legittimazione passiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri, proprio perché - diversamente da quanto sostenuto dal primo orientamento esaminato - viene data rilevanza all’ultimo inciso dell’art. 1, comma 422, l. 147/2013, ritenuto inapplicabile nel caso di specie. Sicuramente preferibile è la posizione del Consiglio di Stato, che, giustamente, analizza la portata della locuzione “designati”, ai fini dell’applicabilità o meno dell’ultimo inciso della Legge di Stabilità 2014. In sostanza, per il Supremo Consesso di giustizia amministrativa occorrerebbe capire quando si tratti (e quando non) di soggetti “designati” dagli enti ordinariamente competenti, e, soprattutto, cosa si intende per “designati” agli effetti dell’applicazione dell’inciso in discorso. In tal senso, significativa è la sentenza n. 2700 del 17 giugno 2016, nella quale si legge che “la successione universale ex comma 422 resta esclusa solo quando la Regione sia rimasta del tutto estranea alla nomina o alla designazione del Commissario delegato”. Pertanto, ai fini dell’applicabilità dell’ultimo inciso dell’art. 1, comma 422, l. 147/2013, è necessario che la Regione non abbia per nulla interferito nel processo di nomina e designazione dei Commissari delegati, altrimenti - qualora ci sia una (pur se minima) ingerenza dell’ente regionale - saremo in presenza di un Commissario designato dall’ente regionale (con conseguente applicabilità dell’inciso in discorso) o, tuttalpiù - come ipotizza il Consiglio di Stato in alternativa a tale conclusione - si potrebbe configurare un’imputazione pro quota fra Stato e Regione. Ne consegue che - secondo questa tesi - sussisterebbe una legittimazione (32) Cfr. App. Catanzaro, sez. III, 8 giugno 2016, n. 951; id., 19 maggio 2016, n. 801; id., 21 gennaio 2015, n. 62; id., 15 luglio 2016, n. 1250; id., 4 aprile 2016, n. 473 (tutte inedite). LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 257 tout court in capo alla Presidenza dei Consiglio dei Ministri qualora i rapporti oggetto della successione si sono verificati sotto l’egida di un commissario “puramente governativo”; contrariamente, sussiste una legittimazione tout court dell’ente regionale o, in alternativa, concorrente tra Stato e Regione, nei casi in cui tali rapporti si siano verificati sotto l’egida di un “commissario concordato”. Ovvio intendere che nessun problema si pone, invece, nei casi in cui le funzioni di Commissario delegato siano attribuite al Presidente della Regione Calabria; in tal caso, infatti, la successione ha luogo senza dubbio in capo alla Regione Calabria con gli effetti che ne seguono in ordine alla titolarità passiva del rapporto giuridico (33). Su queste premesse, si può pervenire alla conclusione che - in base all’interpretazione del termine “designato” data dal Consiglio di Stato - tutti i Commissari (salvo i casi in cui le funzioni di Commissario erano attribuite al Presidente della Giunta regionale, come avvenuto sino al 2004) risultano designati (rectius: concordati) dall’ente regionale, in quanto il concetto di “designato” ricomprende anche la semplice indicazione da parte della Regione (anche se, in realtà, la procedura di nomina risulta formalmente compiuta dall’Amministrazione Statale e perdipiù il Commissario stesso è un rappresentante di quest’ultima). Peraltro, il Consiglio di Stato dà per scontato che la nomina da parte del Governo sia avvenuta previa consultazione con l’ente regionale, sostenendo che “è comunque implausibile che le nomine siano avvenute senza un raccordo con la Regione, dato che, rispetto allo stato di emergenza la Regione ordinariamente competente non è comunque estranea, giacché, nell’ambito dell'organizzazione policentrica della protezione civile, occorre che essa stessa fornisca l'intesa per la deliberazione del Governo e, dunque, cooperi in collaborazione leale e solidaristica”. Quindi, stando a quanto affermato dal Consiglio di Stato, non si configurerebbe mai un’ipotesi di legittimazione passiva “esclusiva” della Presidenza del Consiglio dei Ministri, in quanto la Regione Calabria ha sempre (quanto meno) indicato i soggetti che, a suo dire, avrebbero potuto ricoprire il ruolo di Commissario delegato per il superamento dell’emergenza ambientale nel territorio regionale (34). (33) Cfr., punto 15.6, Cons. St., 17 giugno 2016, n. 2700, in www.giustizia-amministrativa.it, laddove afferma: “Ma anche in tal caso, allora, la successione avrebbe avuto luogo in capo alla Regione Calabria con gli effetti che ne seguono in ordine alla titolarità passiva dell’obbligazione indennitaria in oggetto, posto che non è contestato che i fatti di causa si siano verificati quando Commissario delegato era il Presidente regionale”. (34) Esaminando il carteggio avvenuto tra la Regione Calabria e la Presidenza del Consiglio dei Ministri prima della nomina dei rispettivi Commissari, viene in evidenza l’ingerenza da parte della Regione Calabria nel processo di designazione e di nomina dei diversi Commissari delegati. Nel dettaglio: 258 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Pertanto, in conclusione, avremmo Commissari puramente “regionali” (35) (sino al 2004), commissari designati dalla (ovvero concordati con la) Regione (dal 2004 sino alla cessazione dello stato di emergenza) (36), di converso, non si ha traccia di un commissario puramente “governativo”. a) missiva prot. n. 8/SP del 22 marzo 2004, con cui il Presidente illo tempore della Regione Calabria On. Giuseppe Chiaravalloti, proponeva al Presidente del Consiglio dei Ministri la nomina di un Commissario delegato da individuare tra i Prefetti presenti nella regione; si legge, infatti, nella missiva: “Credo che uno qualsiasi dei Prefetti attualmente in carica nei capoluoghi di provincia calabresi, potrebbe degnamente assolvere alla funzione”; b) missiva del 20 luglio 2004 con cui lo stesso Presidente della Regione Calabria indicava espressamente il dott. Domenico Bagnato quale soggetto altamente qualificato a ricoprire l’incarico di commissario; nella missiva si legge: “per tale compito, mi permetto di sottoporre alla sua valutazione, la professionalità del Prefetto Domenico Bagnato - profondo conoscitore della realtà calabrese - che attualmente svolge le sue funzioni di Sub Commissario per l’emergenza ambientale nella regione Campania”. c) missiva prot. n. 25 del 26 ottobre 2006, con cui il Presidente della Regione Calabria Agazio Loiero afferma “a seguito dei colloqui intercorsi con il Ministro Pecoraro Scanio si aderisce alla proposta di nominare il Prefetto Dott. Antonio Ruggiero Commissario per l’emergenza rifiuti, il dott. Antonio Falvo sub Commissario con funzioni amministrative ed il dott. Giuseppe Graziano con funzioni tecniche. Si rappresenta inoltre l’urgenza di procedere alla formalizzazione degli incarichi medesimi”. Inoltre, anche dai provvedimenti di nomina, veniva sempre dato atto che la nomina del Commissario avveniva d’Intesa con la Regione. Nel dettaglio: a) il D.P.C.M. 10 novembre 2006 (in www.pa.leggiditalia.it), nel nominare quale Commissario delegato il Prefetto Antonio Ruggiero, afferma “vista la nota della Regione Calabria del 26 ottobre 2006 nella quale si designa il Prefetto dott. Antonio Ruggiero in qualità di Commissario delegato”; b) il D.P.C.M. 2 marzo 2006 (in www.pa.leggiditalia.it), nel nominare quale Commissario delegato il Prefetto Carlo Alfiero, da atto, in preambolo, che la nomina è avvenuta “d’intesa con la Regine Calabria”; allo stesso modo si legge nell’O.P.C.M 24 aprile 20007, n. 3585 (in www.pa.leggiditalia.it), con il quale veniva nominato quale Commissario delegato il Prefetto di Catanzaro Salvatore Montanaro; c) l’O.P.C.M. 23 novembre 2011, n. 3983 (in www.pa.leggiditalia.it), nel nominare quale Commissario delegato il dott. Vincenzo Maria Speranza, dà atto, in preambolo, della nota ricevuta dal Presidente della Regione Calabria in data 23 novembre 2011. (35) Con O.M. 21 ottobre 1997, n. 2696 (in www.pa.leggiditalia.it), veniva nominato Commissario delegato il Presidente della Regione Calabria, il quale ricoprì tali funzioni sino al 2004. (36) Vedi nota sub nota (33). CONTRIBUTI DI DOTTRINA L’amministrazione con forza di legge Guglielmo Bernabei* Lo studio intende inquadrare la decretazione d’urgenza nell’ambito dell’attività amministrativa con forza di legge compiuta dal Governo, organo apicale della P.A., in casi e situazioni di assoluta straordinarietà, proponendo una configurazione di questo atto dalla forza legislativa ma dal ruolo amministrativo, ossia dotato del carattere della concretezza dei destinatari e della situazione regolata. L’argomentazione proposta classifica l’alta amministrazione del decreto-legge come espressione di un concetto idoneo a qualificare una particolare categoria di provvedimenti legata all’esistenza di questioni di contenuto amministrativo ritenute talmente rilevanti da richiedere per la loro soluzione una deliberazione del Consiglio dei Ministri mediante il ricorso ad un atto avente forza di legge. Viene inoltre indicato il legame tra la questione di alta amministrazione del decreto-legge e il valore dell’interesse generale. SOMMARIO: 1. Il problema amministrativo - 2. Il ruolo dell’Amministrazione nella Costituzione - 3. Funzione ed attività amministrativa. La nozione di provvedere - 4. Questioni, atti, attività di alta amministrazione e decretazione d’urgenza - 5. La decretazione d’urgenza come particolare aspetto della nozione di alta amministrazione. 1. Il problema amministrativo. Il dato fattuale da cui prende avvio il presente lavoro riguarda il grande utilizzo dello strumento della decretazione d’urgenza, con modalità e quantità che generano preoccupazione per la tenuta della stessa forma di governo parlamentare. I possibili rimedi a questa degenerazione, nel corso del tempo af- (*) Dottore di ricerca in diritto costituzionale, Università di Ferrara. Il presente lavoro è parte dell’introduzione della tesi di dottorato in diritto costituzionale dell’Autore; tesi vincitrice della Settima Rassegna Giuridica nazionale in memoria del Prof. Fausto Cuocolo, premio patrocinato dalla Regione Liguria. 260 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 facciatisi in dottrina e in giurisprudenza, pongono troppo l’attenzione sul mero carattere numerico, l’elevata emanazione di decreti-legge e non considerano, o non a sufficienza, che per ricondurre questo istituto ad un utilizzo costituzionalmente corretto è necessaria una profonda rivisitazione della natura, dello scopo e della struttura dell’istituto stesso, ponendo come base di partenza il sistema di diritto amministrativo italiano. Il tentativo di questo studio, quindi, è quello di inquadrare la decretazione d’urgenza nell’ambito dell’attività amministrativa con forza di legge compiuta dal Governo, organo apicale della P.A., in casi e situazioni di assoluta straordinarietà; si vuole proporre una configurazione di questo atto dalla forza legislativa ma dal ruolo amministrativo, ossia dotato del carattere della concretezza dei destinatari e della situazione regolata. Infatti, liberandosi della stretta connotazione che vede l’attività amministrativa come attività di mera esecuzione della legge si vuole proporre una qualificazione giuridica che pone attenzione all’individuazione, valutazione e cura in concreto di determinati interessi e circostanze, tutte operazioni che rappresentano il nucleo della qualifica sostanziale dell’attività amministrativa (1). Si tratta, pertanto, di una particolare azione detenuta dal Governo, la quale, già da queste primissime considerazioni, va vista come un qualcosa che si distacca nettamente da quel principio di certezza del diritto inteso nel suo duplice significato di prevedibilità come ragione per la quale l’atto normativo con forza di legge dovrebbe occuparsi esclusivamente di cose future e generali e come motivo di disciplina dei processi di produzione giuridica (2). Questa impostazione, però, sfugge al principio di tipicità degli atti amministrativi ed è flessibile ed adattabile al caso concreto; una ricostruzione della decretazione d’urgenza in tal senso vuole assumere la connotazione di una categoria aperta dai lineamenti però il più possibile definiti e precisati. I temi trattati, quindi, andranno ad interessare la stessa ratio della corrispondenza tra esercizio di determinati poteri e uso di determinate forme degli atti giuridici, precisando meglio la sottile linea di divisione tra legislazione ed amministrazione (3), in modo da evidenziare i limiti dell’amministrazione con forza di legge anche in relazione agli strumenti di tutela che l’ordinamento giuridico è capace di apprestare. Si vuole porre una concezione di amministrazione che sia correttamente individuata come risultato del processo di evoluzione giuridica, confrontando la compatibilità degli effetti prodotti da siffatta amministrazione con forza di legge con il sistema a diritto amministrativo. Se, dunque, l’istituto della decretazione d’urgenza è visto come espres- (1) M.S. GIANNINI, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione. Concetto e problemi. Milano, 1939, pag. 14. (2) A. RUGGERI, La certezza del diritto al crocevia tra dinamiche della formazione ed esperienze di giustizia costituzionale, in www.costituzionalismo.it, 7 luglio 2005. (3) F. MODUGNO, Appunti dalle lezioni sulle Fonti del diritto, Torino, 2005, pag. 24. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 261 sione di un potere amministrativo con forza di legge si pone un nuovo e complesso “problema amministrativo”, all’interno del quale sarà necessario studiare gli elementi che caratterizzano una funzione amministrativa di tal genere, individualizzandola e distinguendola dalle altre funzioni; ecco quindi che si appalesa una difficile relazione tra funzione amministrativa e funzione legislativa, indagando con attenzione come la prima, in determinate situazioni ex art. 77 Cost., si ponga sullo stesso livello gerarchico della seconda. Oltre al decreto-legge va considerata la stessa legge di conversione la quale, in tal modo, andrà ad avere un contenuto lontano dai caratteri della generalità e della astrattezza (4), divenendo legge-provvedimento. In questo senso, va verificato come la produzione di effetti giuridici di trasformazione di situazioni giuridiche soggettive operata da un decreto-legge provvedimentale sia del tutto peculiare, implicando la ricostruzione di una ipotizzabile nuova individualità dell’azione amministrativa; il “problema amministrativo” (5) nell’ordinamento giuridico può così trovare soluzioni diverse in relazione al sistema delle fonti, alla forma di governo e agli strumenti di risoluzioni delle criticità più gravi assunti dall’Amministrazione, secondo le finalità perseguite da questa come compito e scopo di pubblico interesse (6). Occorre, quindi, intendersi sul fatto che la “differenza tra l’esercizio del potere legislativo e l’esercizio del potere amministrativo non è insita nella natura astrattamente considerata dei due poteri che anzi in questo senso non esiste alcuna certezza; essa discende, invece, dall’ordinamento, ove l’utilizzo di questa parola è comprensivo dei molteplici fattori che compongono il sistema giuridico” (7). Attraverso l’amministrazione con forza di legge il potere politico si svincola dalle regole procedurali proprie del sistema a diritto amministrativo in modo che la veste legislativa comprenda una decisione amministrativa, attribuendole forza gerarchica maggiore laddove sussistano le straordinarie esigenze ex art. 77 Cost.; questi concetti già ora ci consentono di intuire una diversa peculiarità del sistema amministrativo che si va a realizzare attraverso specifiche modalità di disciplina di particolari fattispecie concrete. (4) A. CERVATI, Art. 70-72, in Commentario della Costituzione, a cura di BRANCA, Bologna, 1985, pag. 8, dove si afferma che “l’art. 70 non si pone soltanto come la sola attribuzione alle Camere di una potestà legislativa di carattere generale […] e neppure soltanto come base costituzionale per una concezione esclusivamente formale della funzione legislativa”, ma essa deve “essere valutata in tutto il contesto istituzionale ed in particolare: a) in relazione all’orientamento costituzionale nel senso di una riserva della legislazione di principio a favore delle assemblee parlamentari (che non è incompatibile con la possibilità che in alcuni casi la legge parlamentare detti anche una disciplina dettagliata di alcune fattispecie, né con quella del ricorso, in presenza di alcune circostanze da valutare caso per caso, alla cosiddetta “legge provvedimento”); b) in relazione alla disciplina costituzionale del procedimento legislativo parlamentare”. (5) S. SPUNTARELLI, L’amministrazione per legge, Milano, 2007, pag. 231. (6) G. PASTORI, Amministrazione pubblica (voce del Dizionario di politica, 1976), in Amm., 2005, pag. 205 (7) S. SPUNTARELLI, L’amministrazione per legge, cit., pag. 280. 262 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 In questo contesto, è la stessa Costituzione che definisce, nell’affrontare l’imprevedibile, un interesse pubblico talmente rilevante e distinto che necessita di un intervento con forza di legge e quindi spetta al Governo di porre in essere un procedimento di attuazione di norme costituzionali, grazie al quale determinate regole sono tradotte in decisioni specifiche, per casi singoli. In tal modo, la definizione dell’attività amministrativa come “esecutiva” va intesa come indicativa di un’attività presupposta dall’art. 77 Cost., perché da esso trae origine, legittimazione, ragione (8). Così, l’amministrazione con forza di legge diventa espressione di un particolare potere di provvedere alla cura concreta dell’interesse pubblico fissato dal Costituente e risulta inquadrata all’interno del sistema amministrativo laddove si caratterizza per il fatto che “il perseguimento dell’interesse primario non può essere astrattamente isolato dal contesto reale, dalla concreta situazione di fatto nella quale va ad incidere; è episodio di vita, e, come tale, si intesse di articolazioni complesse” (9). Perciò è la Costituzione stessa a demandare ad un soggetto diverso dal legislatore e da questo controllato, ossia l’Esecutivo, il compito della cura degli interessi della collettività attraverso un potere, che, se esercitato correttamente, garantisce, in presenza di circostanze straordinarie, l’adozione di atti equiparati alla legge formale che siano il frutto di un confronto tra l’interesse costituzionale ex art. 77 e le specificità mostrate dal caso concreto. Pertanto, all’interno di questo “problema amministrativo”, la stessa funzionalità istituzionale dell’Amministrazione viene modellata a fronte della particolare connotazione costituzionale dell’interesse pubblico, il quale è chiamato ad essere attuato dall’Amministrazione nel processo di contemperamento con altri interessi pubblici a rilevanza costituzionale che debbono essere integrati nella valutazione governativa, la quale non può essere svolta come “una entità suscettibile di mera rilevazione e descrizione, ma come il risultato di un’attività che è conoscitiva e creativa al tempo stesso, in quanto ha inizio con l’esame di una situazione ancora indefinita e tende innanzitutto a discernere i “dati” da impegnare nella risoluzione del problema” (10). La singolarità del procedimento scaturente ex art. 77 Cost. di messa in esecuzione della clausola generale ivi contenuta consiste proprio nella modalità attraverso la quale il Governo esercita il potere assegnatogli di provvedere (8) P. GASPARRI, I concetti di legislazione, amministrazione e politica nella terminologia della Costituzione, in Annali della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Perugia, 1959, pag. 28, dove si afferma che “nel concetto di eseguire (da ex e sequor) è compresa non solo l’idea del “venir dopo” nello spazio o nel tempo; ma anche, contrassegnata appunto dall’ “ex”, l’idea del “trarre origine” oppure, sul piano logico, “ragione” (esecuzione di un progetto) o ancora, sul piano giuridico, che qui ci interessa, “legittimazione” (esecuzione di un comando)”. (9) V. CERULLI IRELLI, Corso di diritto amministrativo, Torino, pag. 368. (10) F. LEDDA, Determinazione discrezionale e domanda di diritto, in Studi in onore di Feliciano Benvenuti, vol. III, Modena, 1996, pag. 959. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 263 in concreto, e il rispetto di questa modalità costituisce il presupposto necessario per il corretto impiego dell’istituto della decretazione d’urgenza. In questa impostazione, il rapporto tra normazione ed amministrazione sottolinea una progressiva specificazione della norma generale ex art. 77 Cost. nella situazione concreta mediante la ponderazione che l’Esecutivo doverosamente deve compiere tra gli interessi indicati dalla disposizione costituzionale e gli interessi che insistono su una determinata realtà. L’amministrazione con forza di legge, però, vanifica il principio di giustizia nell’amministrazione, infatti i portatori degli specifici interessi coinvolti dalla singola fattispecie non possono avvalersi degli strumenti giuridici ad essi riconosciuti in sede procedimentale e processuale dalla vigente legislazione amministrativa. Questo aspetto, che va ben inteso e analizzato, tuttavia non significa che la legalità di questo particolare intervento con forza di legge sia compromessa, anzi, rappresenta proprio il punto di maggiore rilevanza che il presente lavoro mira ad affermare. Infatti l’osservanza delle norme giuridiche che regolano l’azione governativa in termini di competenza, forma e contenuto mirano a rafforzare l’adeguamento, e quindi la proporzione, dell’azione stessa alle esigenze dell’interesse pubblico che l’Amministrazione-Governo deve soddisfare, salvaguardando la tutela dei diritti che l’ordinamento giuridico riconosce all’individuo (11). Il “problema amministrativo”, dunque, si complica e si articola fino ad interessare i criteri della separazione dei poteri e la corretta configurazione della forma di governo; infatti, si evidenzierà come l’amministrazione con forza di legge si scontra con più di un profilo della tradizionale impostazione dell’azione amministrativa “quale garanzia della doverosità e dello svolgimento secondo determinate modalità che la Costituzione impone ai poteri pubblici nel rispetto dei diritti e degli interessi dei componenti della collettività” (12). Il convincimento appena espresso costituisce una delle chiavi di lettura delle considerazioni che seguiranno, sia perché buona parte di queste sarà dedicata alla sua verifica e precisazione, sia soprattutto perché offre la possibilità di giustificare la metodologia di indagine prescelta. Si affronteranno i connotati strutturali dell’azione amministrativa nell’ambito che interessa per favorire una connessione, il più possibile puntuale ed argomentata, con i provvedimenti di decretazione d’urgenza. Va fin da ora precisato che non si ritiene necessario richiamare ancora una volta i tratti salienti delle strutture costituzionali prese in considerazione e questo, sia per non cadere nella facile tentazione di una esposizione mera- (11) O. RANELLETTI, Il problema della giustizia nella pubblica amministrazione e i diritti soggettivi, 1948, ora in Scritti giuridici scelti, II. La giustizia amministrativa, a cura di FERRARI e SORDI, Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza di Camerino, 1992, pag. 345. (12) S. SPUNTARELLI, L’amministrazione per legge, cit., pag. 293. 264 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 mente compilatoria, sia soprattutto per dare maggiore spazio ai ragionamenti e alle ricostruzioni che progressivamente andranno a formarsi ai fini della maturazione di una ricerca pienamente consapevole della complessità dei temi svolti, i quali, in ultima analisi, riguardano il ruolo e l’efficacia stessa del sistema delle fonti del nostro ordinamento giuridico. Nello svolgere la prospettiva enunciata si comincerà col richiamare l’attenzione sopra alcune questioni evidenziate dalla dottrina e dalla giurisprudenza, le quali solo a prima vista appaiono non pertinenti con la problematica della decretazione d’urgenza ma che sono con questa strettamente collegate nell’ottica prescelta dal presente studio. Dalla congiunta considerazione di esse sortiranno i primi risultati sul tema in discussione. 2. Il ruolo dell’Amministrazione nella Costituzione. La Costituzione repubblicana (13) dedica solo due disposizioni esplicite al tema dell’amministrazione, gli artt. 97 e 98; tale impostazione così ristretta viene superata dal tentativo (14) di ricercare i caratteri del disegno amministrativo nell’intera Carta costituzionale, abbandonando così la prospettiva di indagine limitata allo studio dei soli articoli citati. Seguendo, quindi, questa impostazione, l’analisi dell’Amministrazione nella Costituzione pone questioni riguardanti la sua corretta collocazione istituzionale, in una dialettica ancora non risolta tra la sua configurazione di apparato servente del Governo, e la sua attitudine ad affermarsi come un potere dotato di una propria forza di autolegittimazione (15) e di un proprio statuto giuridico di indipendenza (16). Risulta complesso individuare una definizione univoca di amministrazione, la quale, oggi, sempre più tende ad espandersi ed articolarsi per interessi curati, ed è difficile ricavare una identità comune; a livello teorico, i principi del nostro ordinamento “postulano una dato modo di essere dell’amministrazione” (17), ma, a livello pratico, emerge la compresenza di forme diverse di amministrazione con distinte peculiarità operative. Ai fini del presente studio, interessa verificare la particolare configurazione e i relativi risvolti pratico-operativi dell’amministrazione con forza di legge; ciò implica che il compito assunto da questa particolare forma di am- (13) U. ALLEGRETTI, Amministrazione pubblica e costituzione, Padova, 1996, pp. 1-18 e 43-69. (14) C. ESPOSITO, Riforma della amministrazione e diritti costituzionali dei cittadini, in La Costituzione italiana. Saggi, Padova, pag. 245. (15) S. SPUNTARELLI, L’amministrazione per legge, cit., pag. 234. (16) S. CASSESE, Il sistema amministrativo italiano, Bologna, 1983, pag. 59, il quale rileva che nell’ambito delle disposizioni costituzionali emergono due nature dell’amministrazione, da un lato come apparato servente del Governo e dall’altra quale apparato indipendente dal Governo stesso e dalla politica, e, nelle sue conseguenze ulteriori, come apparato servente della collettività, “guidato, attraverso la legge, dal Parlamento, organo rappresentativo della sovranità popolare”. (17) G. PASTORI, Pluralità e unità dell’amministrazione, in Democrazia e amministrazione. In ricordo di Vittorio Bachelet, a cura di MARONGIOU e DE MARTIN, Milano, 1992, pag. 97. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 265 ministrazione sia la delicata tutela di complesse situazioni emergenziali dove è forte il pericolo di un pregiudizio ai diritti dei cittadini, di soggetti individuali e collettivi in modo che si configuri una amministrazione come salvaguardia dei diritti e principale struttura organizzativa della solidarietà che regge l’ordinamento politico-sociale. In contesti d’emergenza, quindi, si sottolinea il senso profondo dell’amministrazione come forma della solidarietà su cui si regge la Costituzione repubblicana, attuata concretamente nella sua finalizzazione a compiti sociali, alla promozione dei diritti individuali e collettivi. A questa concezione, per certi versi, “drammatica”, dell’amministrazione, chiamata ad intervenire ricorrendo alla forma della forza di legge come unica ed extrema ratio di gestione di situazioni di straordinaria necessità, si rafforza la riflessione sui compiti dello Stato, in quanto è proprio in tale accezione che essa rappresenta il modo attraverso il quale lo Stato stesso realizza i compiti di promozione del benessere sociale e dell’eguaglianza espressi negli artt. 2 e 3 della Costituzione (18). Ne discende, in tal modo, una sequenza unitaria, dai diritti dei cittadini derivano i compiti dello Stato e la missione dell’amministrazione (19). Se questi sono i caratteri di una amministrazione chiamata a fronteggiare l’imprevedibile si ritrova anche un’unità dello Stato, e questa unità è rafforzata dall’intervento dell’organo apicale dell’amministrazione, ossia del Governo, il quale per espresso compito costituzionale deve garantire una gestione unitaria e coerente. L’attività concreta di amministrazione che ne scaturisce, quindi, non appare come un agire libero, ma è rivolta all’individuazione ed alla cura dell’interesse primario, che in questa ricostruzione scaturisce ex art. 77 Cost., nella direzione indicata dalla norma costituzionale, comparando e scegliendo tra i vari interessi da soddisfare o da restringere per perseguire il fine preordinato. Di conseguenza, se il Governo è in grado di svolgere questo ruolo delicato di essere strettamente aderente alla società, conformemente alle sue istanze, riconoscerà proprio nella sua azione amministrativa i limiti al suo operato, senza sconfinamenti nell’ambito della produzione legislativa. Si compone quindi il tema della pluralità dell’amministrazione, delle diversità mediante le quali essa opera e interagisce con le sfere giuridiche dei cittadini; il testo costituzionale, non optando con chiarezza verso un determinato modello di amministrazione, consente più soluzioni, compresa l’amministrazione con forza di legge. Tuttavia, alcuni elementi appaiono assodati e, restando sullo sfondo, complicano le relative argomentazioni sul tema. Da una parte, infatti, è probabil- (18) U. ALLEGRETTI, Amministrazione pubblica e costituzione, cit., pag. 11, dove si afferma che “i compiti che qualificano lo Stato e ai quali l’amministrazione partecipa consistono nel riconoscimento, garanzia e perfezionamento dei diritti dell’uomo, della dignità e dello sviluppo della persona, considerata singolarmente e nei gruppi in cui si organizza”. (19) U. ALLEGRETTI, Amministrazione pubblica e costituzione, cit., pag. 12. 266 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 mente vero che i costituenti complessivamente non colsero, nelle sue possibili articolazioni, il problema amministrativo, limitandosi a raccogliere le concezioni base formulate dalla tradizione giuspubblicistica e giustapponendole senza preoccuparsi a fondo di giungere ad un vero e proprio disegno unitario (20); dall’altra, emerge la contraddizione tra un’amministrazione tecnica e una politica, ed uno dei compiti principali della Costituzione è proprio quello di tenere in equilibrio questi due aspetti, all’apparenza inconciliabili (21). I variegati modi di operare dell’amministrazione dimostrano che essa vive in uno stato di permanente tensione tra momento tecnico e momento politico, non potendo mai essere definitivamente e in modo esclusivo l’uno o l’altro, e, come si cercherà di argomentare, tale dialettica è ancora più forte e vivace laddove l’ordinamento costituzionale consente di porre in essere atti con forza di legge da parte dall’Esecutivo. Questa contraddizione, che non necessariamente deve essere superata o risolta, è già ora un ulteriore indizio per cogliere la misura esatta della profondità e dell’ampiezza delle questioni che l’amministrazione con forza di legge ci pone di fronte. Fin da ora compare un elemento che nel corso della trattazione avrà una certa importanza e contribuisce a caratterizzare il ruolo dell’operato governativo qui proposto: si tratta del dovere giuridico di intervenire che deriva dall’interesse pubblico (22); infatti “quando la legge”, e in questo caso la Costituzione stessa, “assegna all’Amministrazione la tutela di determinati interessi pubblici, il perseguimento di questi interessi non è per l’Amministrazione una semplice facoltà, ma un dovere” (23). Emerge quindi il dato che se questi interessi sono perseguiti “mediante provvedimenti”, come recita testualmente l’art. 77, essi sono oggetto di una attività prettamente amministrativa, sono esplicazione di potere, dall’esercizio non libero: se sussiste una determinata situazione, i presupposti dell’art. 77 Cost., l’autorità, nel nostro caso il Governo, non può soltanto ma deve e, come si tenterà di argomentare in seguito, la discrezionalità del potere è vincolata al pubblico interesse. Questo si articola in modo che ci si trova dinanzi a un vero e proprio “provvedere”, che non è situazione isolata bensì combinazione di “dovere-interesse”, risolvendosi nella necessità di soddisfare una imprevista ed imprevedibile straordinarietà. Si delinea quindi un diverso, e più complesso, ruolo dell’Amministrazione che emerge dalla Carta costituzionale e che vede affermarsi l’esistenza di un interesse sostanziale e la richiesta di provvedere, elementi, questi, atti (20) M. FIORAVANTI, Amministrazione e Costituzione: profili storici, in Democrazia e amministrazione, cit., pp. 82-87. (21) M. NIGRO, La pubblica amministrazione fra costituzione formale e costituzione materiale, ora in Scritti giuridici, tomo III, Milano, 1996, pag. 1843. (22) A. CIOFFI, Dovere di provvedere e Pubblica Amministrazione, Milano, 2005, pag. 80. (23) E. GUICCIARDI, Interesse occasionalmente protetto ed inerzia amministrativa, in Giur. It., 1957, III, pag. 21. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 267 ad indicare che il dovere di provvedere si combina con un interesse sostanziale. Questi temi sono indicativi del fatto che, oltre alla necessità di ricorrere a schemi ed istituti propri della dottrina amministrativistica, la statuizione dell’art. 77 Cost. pone in sé limiti dai molteplici contenuti. 3. Funzione ed attività amministrativa. La nozione di provvedere. Occorre ora analizzare il senso e la portata di istituti come funzione ed attività amministrativa in relazione al tema dell’amministrazione con forza di legge. Come punto di partenza è utile rifarsi ai contenuti che la dottrina giuspubblicistica più risalente ha posto nella funzione amministrativa, definita una “attività pratica che lo Stato dispiega per curare, in modo immediato, gli interessi pubblici che sono naturalmente nei suoi fini, o che egli volontariamente assume come tali” (24). In questo senso l’attività di amministrare equivale a dispiegare compiti che lo Stato, inteso soggettivamente, assume come propri o ha nei suoi fini; si pone un collegamento imprescindibile tra attività amministrativa ed interessi perseguiti, se gli interessi perseguiti hanno una natura oggettiva, il potere di questa categoria prende il nome di “funzione” (25), e sono questi stessi interessi, intesi come situazioni di rilevanza pubblica che richiedono un intervento del potere pubblico, a costituire un vincolo per la funzione, quello di dover provvedere a questi interessi, che del potere sono a fondamento. Prende, quindi, forma l’idea che funzione sia “qualche cosa che, mentre si concreta, non è più potere ma non è ancora atto” (26), donde la necessità di considerarla come “elemento autonomo”, in modo che la nozione stessa di funzione amministrativa sia destinata ad allargarsi e a perdere, in parte, la propria originaria identità, dovuta al fatto che la realtà sociale impone, accanto alla funzione tradizionale di conservazione dell’ordine pubblico, un nuovo e distinto strumento di intervento, espressione di una funzione di promozione e salvaguardia del benessere sociale in particolari e straordinarie situazioni di emergenza, cosicché questa funzione si deve esercitare se, quando e come lo richiedano gli interessi per cui è stata costituita, nel nostro caso i presupposti ex art. 77 della Carta costituzionale. Pertanto, la nozione di funzione amministrativa si dirama in una molteplicità di attività amministrative che a fatica tro- (24) G. ZANOBINI, Amministrazione pubblica: b) nozione e caratteri generali, in Enc. Dir., vol. II, Milano, 1958, pag. 235, dove vengono definite funzioni tutte le attività dello Stato considerate in ordine ai fini cui sono dirette, in modo che si hanno funzioni che provvedono a tali fini immediatamente e direttamente, come l’attività amministrativa, e funzioni che perseguono fini pubblici indirettamente, come la legislazione. (25) S. ROMANO, Poteri. Potestà, (1945-46), in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1947, pag. 179. (26) F. BENVENUTI, Funzione amministrativa, procedimento, processo, in Riv. Trim. dir. Pubbl., 1952, pag. 118. 268 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 vano elementi comuni nella impostazione di potestà pubblica come delineata tradizionalmente; la “cura concreta di interessi pubblici” si articola in modo diverso e più complesso, dotandosi di strumenti particolarmente rafforzati, come la decretazione d’urgenza. Il dovere giuridico che va affermandosi prende origine da situazioni che all’inizio non si presentano subito come interessi pubblici definiti e già delineati ma come “fatti”, come “condizioni di esistenza da cui dipende la legittimità del provvedimento con forza di legge, si tratta della faticosa e difficile opera di definizione della clausola generale ex art. 77 Cost.; l’Esecutivo-Amministrazione si trova dinanzi a condizioni che sono problematiche in quanto decisive per la determinazione concreta del grado di intensità dell’intervento. Tutto questo vuole mostrare il progressivo evidenziarsi di una sfera di attività con forza di legge che l’ordinamento costituzionale stesso richiede debba essere sottoposta a regole di tipo amministrativo. Si tratta dei principi costituzionali in tema di separazione dei poteri il cui rispetto è imposto indipendentemente dal fatto che l’attività sia posta in essere con la forma della forza di legge. La questione dell’amministrazione con forza di legge esprime una particolare funzionalizzazione dell’attività amministrativa all’interno della quale prende rilevanza il momento di concretizzazione della clausola generale dell’art. 77 Cost., inteso come individuazione di interessi pubblici ritenuti meritevoli di tutela; l’ordinamento costituzionale ha affidato ad un preciso soggetto, l’Esecutivo, la valutazione e la cura di questo interesse, considerabile come fine generale dell’ordinamento perché riconosciuto come tale secondo il sistema positivo. Sotto questo punto di vista, l’interesse a fronteggiare casi straordinari di necessità ed urgenza trova posto nel sistema in quanto il suo riconoscimento avviene sia attraverso la potestà governativa di produzione di norme in grado di riflettere quell’interesse sia attraverso il suo essere ricondotto a quella categoria di interesse pubblico che assume natura generale e comune secondo le acquisizioni della dottrina più recente. L’interesse è quindi configurabile come fine generale, e dunque anche come fattore giuridico delle posizioni del singolo, qualora trovi espressione nell’ordinamento giuridico, e in questo caso nell’assetto costituzionale, che se ne serve per esprimere un principio generale. Ed è quel che accade con l’interesse a fronteggiare situazioni emergenziali di straordinaria intensità; nello specifico le norme costituzionali ex art. 77 Cost. stabiliscono un nesso tra l’interesse e le posizioni, dei singoli e dell’amministrazione. La nozione di interesse pubblico si articola ulteriormente fino ad individuare una particolare tipologia, tutelata dall’art. 77 Cost., che non appartiene soltanto all’amministrazione intesa come persona giuridica che ne possiede la disponibilità esclusiva; l’interesse pubblico diviene anche interesse “del pubblico”, è cosa comune, dell’amministrazione pubblica e del cittadino, e ne dipende nel senso CONTRIBUTI DI DOTTRINA 269 che anche a quel termine individuale è preordinata la soddisfazione del pubblico interesse (27). In questo senso, questa tipologia di interesse pubblico si trova ad essere messa in relazione necessaria con l’interesse concreto, preciso e determinabile dell’individuo di ottenere dall’Amministrazione-Governo un intervento specifico e tempestivo nello straordinario fatto emergenziale sopraggiunto, ma il carattere della forza di legge di questo intervento esclude che in capo al soggetto sia configurabile un interesse legittimo. La funzione amministrativa che emerge da questa analisi specifica dell’art. 77 Cost. vede nella valutazione politica del Governo, che se ne assume la responsabilità, un momento necessario della sua realizzazione (28); infatti le norme che attribuiscono funzioni amministrative non sono in grado di funzionare autonomamente, a differenza di quanto avviene nel campo del diritto penale o civile (29), ma per ottenere il risultato di soddisfare l’interesse pubblico è necessario lo svolgimento delle proprie funzioni da parte dell’amministrazione (30). La funzione amministrativa deve trovare il proprio fondamento in norme che richiedono all’amministrazione di svolgere la relativa attività (31), la quale diviene così strumentale per la traduzione della valutazione politica in realtà effettiva. In tal modo, l’art. 77 Cost. allo stesso tempo sia delinea la natura particolare di questa funzione amministrativa, cioè il suo essere attività volta al perseguimento di un preciso interesse pubblico, sia predispone e disciplina lo strumento per soddisfare tale interesse; il tentativo proposto è quindi di cogliere questo contenuto essenziale dell’azione amministrativa con forza di (27) G. LOMBARDI, Doveri pubblici (diritto costituzionale), Enc. Del dir., Aggiornamento, VI, pag. 357; C. GALLO, Soggetti e posizioni soggettive nei confronti della Pubblica Amministrazione, Dig. Disc. Pubbl., XIV, pag. 290; D. SORACE, Diritto delle pubbliche amministrazioni, Bologna, 2003. (28) Tale interesse pubblico tipizzato mediante il conferimento al Governo della competenza a porre in essere atti aventi forza di legge comporta che l’esercizio concreto di tale competenza richieda una indagine diretta alla rilevazione delle esigenze peculiari e straordinarie di una data situazione fattuale, in riferimento alla quale il contenuto dell’interesse pubblico della clausola generale ex art. 77 Cost. è necessariamente impreciso e generico. Ne consegue che il Governo, in sede di predisposizione e di adozione del decreto-legge provvedimentale, è chiamato a formulare una scelta che per certi aspetti si presenta come politica, per la molteplicità di implicazioni che in concreto possono essere valutate al fine di dare un contenuto all’interesse pubblico tipizzato dalla disposizione costituzionale, il quale rappresenta, sotto un profilo giuridico, il solo criterio informatore della scelta stessa. (29) B.G. MATTARELLA, L’attività, in Trattato di diritto amministrativo, Parte generale, tomo I, a cura di S. CASSESE, Milano,2003, pag. 700 (30) M.A. CARNEVALE VENCHI, Contributo allo studio della nozione di funzione pubblica, II, Padova, 1974, pag. 129. (31) B.G. MATTARELLA, L’attività, cit., pag. 706, il quale afferma che “in queste norme, quindi, le funzioni amministrative trovano la loro base, o la loro giustificazione. Questa circostanza è alla base del principio della regola di diritto e fa sì che i parametri, rispetto ai quali viene svolto il controllo sull’attività amministrativa, siano sempre norme giuridiche. È dunque in base alle norme che vanno individuate le funzioni amministrative e i loro elementi: la materia, le attribuzioni, i fini e i destinatari”. 270 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 legge: la realizzazione effettiva delle finalità e degli interessi fissati dalla disposizione costituzionale. Si è dinanzi ad una attività amministrativa, per usare espressioni del passato (32), “teleologicamente ordinata”, “continua”, “organizzante”, e “doverosa”, avendo una precisa peculiarità “nel suo aderire ai fatti come si presentano nel caso concreto e nell’attribuire ad essi il valore giuridico che è implicito nel sistema di interessi” (33) fissato, nel nostro caso, direttamente dal testo costituzionale (34). Il complesso intreccio tra la doverosità dell’attività e lo spazio di valutazione politica, necessariamente presente, evidenzia un elemento cruciale dell’amministrazione con forza di legge. A questo punto, sviluppando l’argomentazione fin qui prodotta, è possibile ricostruire la nozione di provvedere, elemento che contraddistingue l’operato governativo in sede di decretazione d’urgenza. Prima di addentrarci nel suo contenuto, è utile evidenziare un aspetto relazionale; il provvedere, che già nel paragrafo precedente si è evidenziato come dovere di provvedere, è legato al pubblico interesse, e, più precisamente, il dovere è connesso al potere per curare e garantire un pubblico interesse. È presente dunque un nesso stabile col potere a causa del pubblico interesse in modo che sia quest’ultimo a connettere potere e dovere; il provvedere figura così come oggetto di dovere giuridico, come espressione della cura dell’interesse pubblico. Il dovere di provvedere prende a figurare accanto al potere del governo ex art. 77 Cost. e di questo costituisce il vincolo e il limite. La coesistenza di dovere e potere conduce a importanti determinazioni: infatti, curare e soddisfare il pubblico interesse da un lato è oggetto del dovere di provvedere dell’Esecutivo e dall’altro è oggetto di attribuzione del potere governativo di produrre atti con forza di legge. Ora, al fine di studiare il contenuto del provvedere occorre rifarsi al nesso esistente tra questo, meglio precisato come dovere, e il dovere di agire per il pubblico interesse, considerazioni già note in varie dottrine amministrativistiche (35). (32) M. NIGRO, L’azione dei pubblici poteri: lineamenti generali, ora in Scritti giuridici, tomo III, Milano, 1996, pag. 1587. (33) G. MARONGIU, Funzione amministrativa, cit., pag. 318. (34) Va sottolineato come un interesse primario in concreto non esiste mai da solo ma si pone in relazione con altri interessi pubblici e privati che o ne impediscono, o ne diminuiscono, o ne condizionano la realizzazione. Risulta implicito che tali interessi secondari, caratterizzati dal fatto che si prospettano nel concreto delle singole situazioni, non possano considerarsi ricompresi nella previsione normativa che si limita ad individuare l’interesse primario. (35) S. TRENTIN, L’atto amministrativo. Contributo allo studio della manifestazione di volontà della pubblica amministrazione, Roma, 1915; cfr. L. LEVI, Attività lecita individuale ed attività discrezionale amministrativa, Studi in onore di F. Cammeo, Padova, 1933, II, pag. 81; cfr. C. MORTATI, La volontà e la causa nell’atto amministrativo e nella legge, Roma, 1935; per una migliore esposizione delle principali posizioni dottrinali cfr. A. CIOFFI, Dovere di provvedere, cit., pag. 36. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 271 È acquisito il fatto che, per sua stessa natura, la funzione pubblica conferisce, a chi ne è investito, attribuzioni il cui esercizio non è facoltativo, ma obbligatorio, e questo proprio perché la funzione è organizzata per curare un fine di interesse pubblico (36). Questa continua tensione verso il pubblico interesse, questo vincolo permanente, investe l’attività propria del Governo, organo apicale dell’amministrazione, e genera una conseguenza rilevante sulla sua funzione amministrativa come qui ricostruita: l’obbligo di esercitarla ogni qualvolta l’interesse ex art. 77 Cost. lo richieda. Sono quindi posti insieme il pubblico interesse e l’obbligo di esercitare la funzione, dove il primo costituisce per l’Esecutivo un dovere di agire e se ne precisano così le caratteristiche del dovere di provvedere: è infatti dovere del Governo, è dovere giuridico, è dovere generale e permanente, avente ad oggetto l’esercizio della funzione. Grazie a questa impostazione si può considerare che il dovere di provvedere attiene direttamente alla necessità di porre in essere l’attività amministrativa e in tal senso è ritenuto dovere generale. Al fine della presente trattazione, la scelta tra provvedere e non provvedere mediante decretazione d’urgenza non è affatto neutra, ma è un fatto rilevante per il diritto, in quanto alla base della scelta tra agire e non agire è presente l’esecuzione di un dovere giuridico che ha valore non di “eccezione” ma di “regola” per l’attività amministrativa. È importante, oltre a riconoscere la connessione del dovere al potere, anche rilevare la sequenza, ovvero il fatto che prima si parte dal dovere di provvedere per arrivare alla cura dell’interesse pubblico e quindi all’esercizio del potere di decretazione d’urgenza. Il Governo nel momento stesso in cui si trova dinanzi alla determinazione di agire o non agire in casi di straordinaria emergenza compie una scelta amministrativa, ma la presenza del pubblico interesse la subordina ad un limite positivo, figurato come dovere giuridico, è, pertanto, esecuzione di un dovere e possiede carattere prettamente giuridico. Inoltre investe l’attività amministrativa governativa e ne diviene il contenuto proprio perché questo contenuto dell’attività amministrativa con forza di legge coincide con l’interesse pubblico e l’interesse pubblico, come sostiene autorevole dottrina (37), è “presupposto del diritto” in modo che il contenuto dell’attività amministrativa è, per intero, presupposto del diritto oggettivo. In questo senso, la statuizione ex art. 77 Cost., come espressione del dovere di agire per il pubblico interesse ivi esplicitato, è norma che imprime giu- (36) S. TRENTIN, L’atto amministrativo, cit., pag. 456, dove si afferma che l’obbligo giuridico si rappresenta come “qualcosa di immanente e perpetuo, come il prodotto di multiformi energie ininterrottamente svolgentisi e rinnovantesi in correlazione con gli scopi molteplici che costituiscono la ragion d’essere degli enti pubblici”. (37) C. MORTATI, La volontà e la causa nell’atto amministrativo e nella legge, Roma, 1935, pag. 98. 272 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 ridicità all’intera attività amministrativa con forza di legge che ne discende e costituisce oggetto di un dovere giuridico. Il dovere di soddisfare il pubblico interesse è dovere giuridico e ha valore generale, nel senso che trova espressione tutte le volte che sussistono i presupposti di straordinaria necessità ed urgenza, convive e coesiste col potere normativo dell’Esecutivo, nell’ottica del “potere-dovere”. A questo punto, per completare l’argomentazione, va considerato che da un lato sussiste un punto fermo rappresentato dal fatto che il dovere di provvedere, nel nostro caso, è prefissato in apposita norma costituzionale, dall’altro, invece, si ha una scoperta consistente nella situazione che si manifesta un interesse ad una determinata tipologia di provvedimento con forza di legge. Risulta pertanto evidente che la composizione della questione del dovere di provvedere posta dall’art. 77 Cost. deriva dalla combinazione di questo punto fermo e di questa scoperta; dipende, quindi, dalla situazione giuridica del governo-amministrazione e dall’interesse a quel dato provvedimento, dal loro incontro nel sistema costituzionale delle fonti del diritto. Per tentare di comporre questa articolazione bisogna distinguere tra il dovere di provvedere come situazione giuridica ed il dovere di provvedere come effetto giuridico. Infatti, il dovere di provvedere, prima di tutto, si presenta come espressione della posizione giuridica dell’amministrazione e poi come effetto giuridico, nel senso che la situazione giuridica dell’amministrazione già determina un vincolo giuridico che va a connettersi con la contingente circostanza che richiede il provvedimento. In questo modo, si determina il dovere di provvedere in concreto quale effetto giuridico, come vincolo che impone al governo-amministrazione di predisporre un intervento necessario. Viene pertanto di nuovo risaltato il dovere di provvedere come conseguenza della funzionalità dell’amministrazione agli interessi prescelti, nel nostro caso, dalla disposizione costituzionale. Si accentua così il concetto che questo dovere di provvedere rispecchi la data posizione qui esposta dell’amministrazione e perciò si delinea uno specifico dovere del governo-amministrazione conseguenza del fatto che l’ordinamento gli conferisce la legittimazione ad agire e la competenza a provvedere, quasi una “competenza-dovere” (38). Il Governo è dunque competente ad intervenire in situazioni di grave emergenza con lo strumento principe del decreto-legge e questa competenza è assegnata direttamente dalla Costituzione che ritiene che solo l’Esecutivo sia adeguato, adatto, capace a fronteggiare situazioni che nascono nella realtà (38) Per una analisi più generale del tema si veda A. CROSETTI, Incompetenza, Dig. Disc. Pubbl., VII, pag. 204, R. LASCHENA, Competenza amministrativa, Enc. Giur., VII, ad vocem, A. PIOGGIA, La competenza amministrativa. L’organizzazione fra specialità pubblicistica e diritto privato, Torino, 2001, pag. 106. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 273 concreta, si manifestano improvvisamente e in quanto tali necessitano di un intervento agile, diretto ma nello stesso tempo organizzato, tutte caratteristiche che sono proprie dell’azione amministrativa. Ora l’attenzione si pone su quella che in precedenza era stata definita come una “scoperta” e si concretizza nell’interesse al provvedimento con forza di legge che proviene dalla situazione di straordinaria necessità ed urgenza. L’interesse che da qui nasce, poi, può definirsi meglio come la messa in pericolo di un bene della vita di natura sostanziale, che può manifestarsi nella lesione di un diritto o nel timore che ciò possa accadere con conseguenze altamente negative per gli individui intesi sia singolarmente sia come insieme, come categoria determinata o determinabile di soggetti che si trova in situazioni specifiche e particolari a subire un pregiudizio. Il bene sostanziale, inteso in tali termini, costituisce il fatto di legittimazione dell’interesse al provvedimento; il provvedimento sarà legittimo costituzionalmente sia se risulterà espressione del dovere di provvedere sia se trova la sua giustificazione in questo interesse. La pluralità di situazioni e di interessi che si connettono al dovere di provvedere conferma che questo ha rilevanza giuridica generale e soprattutto evidenzia che il dovere concreto dell’amministrazione non finisce per coincidere con una specifica pretesa sostanziale dei soggetti coinvolti nella straordinaria emergenza ma rivela che ciò che il governo-amministrazione deve prestare non è ciò che questi vogliono ma solo ciò che l’amministrazione deve valutare. In questo modo si definisce il dovere di provvedere in senso formale e il dovere di provvedere in senso sostanziale, dove il primo ha carattere generale, nel senso qui evidenziato, e concorre a designare la posizione dell’amministrazione nell’ordinamento, mentre il secondo esprime la necessità giuridica dell’amministrazione di valutare la situazione giuridica sorta dall’improvviso sopraggiungere di una grave fatto emergenziale. Questa necessità giuridica corrisponde alla data e precisa posizione e capacità di provvedere del governo-amministrazione, così come voluta ex art. 77 Cost., e concorre al modo di adozione e di produzione di efficacia giuridica del provvedimento con forza di legge. In questo aspetto meglio si nota la specifica posizione e competenza al provvedimento, alla valutazione della sua adozione come risposta, in via sostanziale, all’interesse dei soggetti colpiti dallo stato di straordinaria emergenza, traduzione pratica e concreta del dovere di risoluzione della situazione critica prescritto dalla disposizione costituzionale. 4. Questioni, atti, attività di alta amministrazione e decretazione d’urgenza. A questo punto dell’indagine si pone la necessità di indagare il tema dell’alta amministrazione in relazione all’istituto della decretazione d’urgenza, al fine di argomentare che il decreto-legge rappresenta una articolazione spe- 274 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 cifica all’interno della nozione di alta amministrazione, la quale già di per sé ha avuto una certa difficoltà ad imporsi con attenzione, nonostante i contributi dottrinali (39) e giurisprudenziali (40). L’intento, dunque, non è quello di ricostruire e indagare nel dettaglio l’ampio istituto dell’alta amministrazione ma di individuare in esso un aspetto particolare che, nella logica di questo studio, è costituito dalla decretazione d’urgenza. Tuttavia, è necessario esporre brevemente le principali posizioni emerse sul tema dell’alta amministrazione complessivamente inteso, per poi disarticolare e ricomporre una distinzione all’interno della nozione di alta amministrazione al fine di verificare la possibilità di elaborare un aspetto diverso, che sia però lo sviluppo giuridico delle considerazioni poste. Infatti non è ragionevole pensare che siano destinate all’oblio le riflessioni di quella parte autorevole della dottrina (41) che si è sforzata di interrogarsi nel tentativo di attribuire un significato ed una collocazione sistematica all’alta amministrazione; sicuramente la legge 400 del 1988 ha segnato un passo importante nella decisione di non menzionare più l’alta amministrazione, creando un vuoto che a questo punto solo la riflessione dottrinaria può essere in grado, almeno in parte, di riempire, nonostante il fatto che dalla fine degli anni settanta del Novecento il concetto di alta amministrazione non è più stato oggetto di indagine autonoma. Si constata, pertanto, una certa povertà di elementi iniziali dinanzi alla quale, per lo studioso che non voglia già in partenza accodarsi all’opinione secondo cui una categoria di atti di alta amministrazione tecnicamente non è (39) M.S. GIANNINI, Lezioni di diritto amministrativo, Milano, 1950, pag. 117, dove si afferma che “l’attività di alta amministrazione sia l’attività amministrativa strettamente collegata a quella costituzionale e che attua immediatamente l’indirizzo politico, tanto per lo Stato che per gli enti pubblici minori; V. BACHELET, L’attività di coordinamento nell’amministrazione pubblica dell’economia, Milano, 1957, pag. 96, secondo il quale l’attività di alta amministrazione consiste nella “trasfusione dell’indirizzo generale politico in più concrete direttive amministrative”, con la conseguenza che “l’attività di alta amministrazione tende a sfuggire ai sistemi di garanzie, controlli e responsabilità, proprie dell’attività amministrativa in senso stretto, per rifluire nel sistema delle garanzie e responsabilità politiche”; A. SANDULLI, Governo e amministrazione, ora in Scritti giuridici, I. Diritto costituzionale, Napoli, 1990, pag. 261, per il quale “la sola affermazione di un qualche rilievo che è dato cogliere nella letteratura è che l’alta amministrazione inerirebbe alla funzione amministrativa e segnerebbe il punto di raccordo fra politica e amministrazione”. (40) Cons. di Stato, Ad plen., 6 dicembre 1968 n. 30, in Foro amm., 1968, I, 2, pag. 1629, dove vi è stata la qualificazione di atto di alta amministrazione riguardante l’annullamento governativo posto in essere ai sensi dell’art. 6 R.D. 3 marzo 1934, n. 383, T.U. della legge comunale e provinciale, specificando che il concetto di alta amministrazione “comprende le questioni che superano la sfera di azione di ogni singolo ministro e toccano tutta l’amministrazione dello Stato o addirittura lo stesso indirizzo e programma politico del Governo”. (41) M.S. GIANNINI, Lezioni di diritto amministrativo, cit.; A. SANDULLI, Governo e amministrazione, cit.; G. CUGURRA, L’attività di alta amministrazione, Padova, 1973; M. NIGRO, Studi sulla funzione organizzatrice della pubblica amministrazione, Milano, 1966. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 275 mai esistita, è necessario ampliare l’argomentazione, esaminando una serie di problematiche distinte da quelle tradizionali e comunque legate con esse al fine di comprendere come la decretazione d’urgenza sia un aspetto della nozione di alta amministrazione. Si propongono, pertanto, alcuni elementi ritenuti funzionali ad un indagine sull’istituto del decreto-legge; il primo concerne la multiformità dell’alta amministrazione, in quanto essa si estrinseca attraverso una variegata tipologia di atti, normativi, generali, puntuali, sostanzialmente irriducibili ad un modello unitario (42), priva di soluzioni dogmatiche certe e condivise. Storicamente il riferimento normativo che va necessariamente ripreso è il R.D. 21 dicembre 1850 n. 1122, contenente norme sulle attribuzioni del Consiglio dei ministri, testo di notevole significato storico-giuridico, capace di fotografare il passaggio verso una forma di governo tendenzialmente parlamentare, il cui rilievo sostanziale “non è quello di demandare al collegio ministeriale un certo numero di materie che trascendono la competenza dei singoli ministri, bensì quello, assai più profondo, di trasferire al Consiglio una gamma di attribuzioni in precedenza ritenute di esclusiva spettanza del sovrano” (43). In questo contesto per la prima volta trova collocazione la locuzione “alta amministrazione”, infatti l’art. 11 n. 1 del R.D. n. 1122 del 1850 statuisce che debbono essere oggetto di deliberazione del Consiglio dei ministri le questioni riguardanti l’ordine pubblico e l’alta amministrazione, nulla stabilendo però in relazione alla veste formale che deve essere assunta dai relativi provvedimenti, sia perché la disposizione citata non riserva al Consiglio dei ministri il compito di emanare gli atti di alta amministrazione sia perché le questioni esaminate dal Consiglio stesso appaiono troppo eterogenee per l’identificazione di una gamma di effetti comuni per le dovute deliberazioni. Tuttavia, tale riferimento normativo riveste, dal punto di vista interpretativo, un punto fermo funzionale alla tematica di questa ricerca: il termine “alta amministrazione” è utilizzato con un significato che prescinde dalla struttura del potere (44) e ha, invece, un carattere contenutistico, confermato dal fatto che tutte le altre questioni che tale normativa riserva al Consiglio dei ministri sono descritte sotto l’aspetto del loro contenuto (45). Questo induce a ritenere che il R.D. 1122 del 1850 considera l’alta ammini- (42) M.P. GENESIN, L’attività di alta amministrazione fra indirizzo politico e ordinaria attività amministrativa. Riflessioni critiche su un sistema di governo multilivello, Napoli, 2009, pag. XV. (43) G. CUGURRA, L’attività di alta amministrazione, cit., pag. 115. (44) E. CHELI, Potere regolamentare e struttura costituzionale, Milano, 1967, pag. 437. (45) G. CUGURRA, L’attività di alta amministrazione, cit., pag. 117, dove si sostiene che la posizione esposta sia coerente con la teoria formale-sostanziale, “la quale distingue le funzioni dello Stato sulla base del contenuto dei rispettivi provvedimenti e che ammette tuttavia che atti di contenuto amministrativo possano venire posti in essere persino con la veste della legge”. 276 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 strazione a prescindere dalla natura della funzione (46), l’accento è posto sul contenuto, e quindi sarà il contenuto a determinare la tipologia e l’effetto di un atto di alta amministrazione. Successivamente all’emanazione della legge n. 400 del 1988, probabilmente a causa della scomparsa del riferimento normativo esplicito all’alta amministrazione, la dottrina non è stata in grado di svolgere un adeguato approfondimento del tema (47). Per ovviare a questa mancanza si ritiene importante che alla delineazione di uno specifico e particolare concetto di alta amministrazione in relazione al decreto-legge vada affiancata la natura dei relativi atti in relazione al livello strutturale del potere giuridico del quale i medesimi costituiscono esplicazione, in quanto una cosa è la deliberazione del Consiglio dei ministri riguardante le questioni di alta amministrazione, altra cosa è la conformazione degli atti mediante i quali dette questioni vengono in concreto affrontate e risolte. Questi due momenti, tuttavia, risultano fra loro strettamente connessi, per cui una volta che si sia raggiunta una delineazione del primo si sarà posto un punto importante nella definizione del secondo, oltre che, più in generale, nell’esposizione di quella che, con una espressione che li racchiude entrambi, sarà definita come attività di alta amministrazione. Per evitare di perdersi in un concetto così esteso, l’economia della ricerca impone di specificare meglio il concetto di questioni di alta amministrazione, una volta posto che esse si segnalano per il loro particolare contenuto piuttosto che per le caratteristiche dei provvedimenti che ne scaturiscono. In tal senso la decretazione d’urgenza pone questioni di alta amministrazione in quanto indica situazioni che, sorte in contesti eccezionali, hanno ad oggetto un interesse determinato e che richiedono, per la cura di questo, l’emanazione di un atto di contenuto concreto; con questa definizione si vuole poi sottolineare l’esistenza di due circostanze: la prima sottolinea la natura amministrativa della questione, che non deriva dalla veste formale del relativo atto, bensì dall’oggetto della deliberazione che precede la venuta in essere del provvedimento, la seconda, invece, consiste nel fatto che questa stessa natura amministrativa della questione non pone alcun vincolo sull’aspetto formale del conseguente atto da adottare, potendo questo assumere il carattere del provvedimento con forza di legge. In un simile contesto si pone il tema del rilievo politico delle questioni affrontate, se esse siano in toto cariche di politicità ed in qualche modo espres- (46) F. BASSI, Contributo allo studio delle funzioni dello Stato, Milano, 1969, pag. 95. (47) C. TUBERTINI, voce Atti politici e di alta amministrazione, in S. CASSESE (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, I, pag. 516; G. DELLA CANANEA, Gli atti di alta amministrazione e l’obbligo di motivazione, in Giorn. Dir.amm., 1998, pag. 45; G.B. GARRONE, voce Atto di alta amministrazione, in Dig. Disc. Pubbl., Torino, 1987, I, pag. 538. L’espressione “alta amministrazione” è comunque molto spesso evocata ma non spiegata, quasi che il senso di essa possa essere inteso autonomamente, per effetto del solo aggettivo “alta”, da parte del lettore stesso. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 277 sione di indirizzo politico, a causa del modo in cui le vicende si svolgono sul piano effettuale, derivandone che la dottrina (48) ritiene politiche quelle questioni considerate di rilevanza tale da investire l’intera collettività, anche se il relativo provvedimento è finalizzato a dispiegare i suoi effetti soltanto entro un ambito limitato e circoscritto. Sussiste pertanto sul piano effettuale una distinzione fra l’importanza sostanziale della questione e il connotato formale del relativo atto al fine di ottenere una corrispondenza tra il soggetto cui spetta di deliberare sopra tale questione e quello cui compete il potere giuridico di porre in essere il provvedimento. In questa prospettiva va inquadrato il convincimento secondo cui l’autorità alla quale spetta di pronunciarsi sopra la questione politica debba essere l’organo collegiale ritenuto istituzionalmente esaustivo di tutti i settori dell’azione pubblica (49). Per verificare la fondatezza di tale convincimento occorre analizzare il tema dell’indirizzo politico e di quello amministrativo e la loro problematicità in relazione alla decretazione d’urgenza. In via generale, secondo il pensiero (50) più autorevole, l’indirizzo politico è considerato quale funzione o attività (51) centrale dell’ordinamento, volta a determinare i fini complessivi e ultimi dell’azione statale; a monte della nozione di indirizzo politico si colloca quella di attività di governo con la quale la prima è, talora, identificata o rispetto alla quale è considerata momento preminente. (48) F. CAMMEO, Corso di diritto amministrativo, Padova, 1960, pag. 30; F. BENVENUTI Evoluzione dello Stato moderno, in Ius, 1959, pag. 159; A. BUCCISANO, Premesse per uno studio sul presidente del Consiglio dei ministri, in Riv. trim. dir. Pubbl., 1972, pag. 31. (49) È evidente che l’impostazione secondo la quale il Consiglio dei ministri esaurisce tutti gli interessi pubblici riposa sul presupposto teorico che sia possibile individuare una gamma di interessi pubblici diversi e contrapposti rispetto agli interessi privati. Sull’illusorietà di tale presupposto G. AMATO, L’interesse pubblico e le attività economiche private, in Pol. del dir., 1970, pag. 448. (50) C. MORTATI, L’ordinamento del governo nel nuovo diritto pubblico italiano, Roma, 1931; V. CRISAFULLI, Per una teoria giuridica dell’indirizzo politico, in Studi urbinati, 1939; nella dottrina successiva M. AINIS, A. RUGGERI G. SILVESTRI, L. VENTURA (a cura di), Indirizzo politico e Costituzione. A quarant’anni dal contributo di Temistocle Martines, Milano 1998; M. DOGLIANI, voce Indirizzo politico, in Dig. Disc. Pubbl., Torino, 1993, vol. VIII, pag. 244; T. MARTINES, voce Indirizzo politico, in Enc. Dir., Milano, 1971, vol. XXI, pag. 134. (51) La contrapposizione fra il concetto di indirizzo politico come funzione e quello di indirizzo politico come attività fu alimentata dalle tesi di Mortati e Crisafulli; in particolare Mortati sviluppò la teoria dell’indirizzo politico come funzione di governo ulteriore rispetto alle tre tradizionali funzioni dello Stato, Crisafulli, invece, fu contrario alla ricostruzione dell’indirizzo politico in termini di funzione, poiché riteneva che la funzione fosse indubbiamente espressione del principio di divisione dell’attività statale, mentre l’indirizzo politico fosse, all’opposto, diretta espressione del principio di unità. In relazione alla contrapposizione tra questi due autori, si ricorda lo studio di Dogliani per il quale la ricostruzione dell’indirizzo politico all’interno del concetto di funzione risponde all’intento di affermarne l’omogeneità rispetto alle tre classiche funzioni dello Stato, ribadendo che la sua natura di funzione non solo trova nella Costituzione la sua disciplina ma che esiste solo attraverso attività giuridicamente regolate di organi costituzionali. Per contro il rifiuto di qualificare l’indirizzo politico come funzione sottolinea “la differenza qualitativa tra l’attività giuridica in cui consiste l’esercizio delle tre funzioni statali tradizionali e quella politica, solo giuridicamente regolata, e in questo senso definibile anch’essa come giuridica, ma non produttiva di diritto, che si esprime nell’indirizzo politico”. 278 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 In questo contesto l’attività di governo è ricondotta nell’ambito della funzione esecutiva accanto all’attività amministrativa, quest’ultima però vincolata all’osservanza e all’attuazione delle direttive impartite mediante atti di governo (52). Ne consegue che l’attività di governo rappresenta l’espressione più rilevante del potere esecutivo, in grado di imprimere impulso e direzione suprema a tutta l’azione dello Stato; l’attività amministrativa invece viene intesa come complemento della prima, quale azione concreta di cura degli interessi dello Stato medesimo, finalizzata a dare ordine ed esecuzione alle leggi e agli atti del Governo (53). Nell’ampia categoria dell’attività di governo viene teorizzata l’esistenza dell’indirizzo politico (54), in quanto “il presupposto logico di un’attività di direzione e coordinamento dell’azione dello Stato nella sua unità risiede nell’esistenza di un momento di determinazione dei fini generali, ultimi ed anche contingenti dello Stato” (55). L’indirizzo politico risulta pertanto essere “il nucleo essenziale ed originario, il momento primo e logicamente anteriore ad ogni altro” (56); esso, unitamente all’attività di governo, si pone come elemento imprescindibile ed ineliminabile per la sussistenza di ogni forma di governo ed è concetto svincolato dalla contingente realtà istituzionale. Infatti, la molteplicità di fattori che compongono la complessa organizzazione statale necessita, per poter funzionare armonicamente, di una preliminare predisposizione dei fini generali cui ciascuno di essi deve tendere quale coordinamento complessivo al perseguimento dei fini stessi. In quanto tale, l’indirizzo politico è elemento unificante ed antecedente ad ogni azione, ha nella ordinarietà delle situazioni il suo contesto specifico di azione, e, perciò, non è automaticamente operativo in circostanze straordinarie. Ciò che ora maggiormente conta rilevare è la sua libertà nel fine intesa quale possibilità di posizione di scopi che meglio rende il valore creativo dell’in- (52) M.P. GENESIN, L’attività di alta amministrazione fra indirizzo politico e ordinaria attività amministrativa, cit., pag. 69. (53) O. RANELLETTI, Principii di diritto amministrativo, Napoli, 1912, vol. I, pag. 323; S. ROMANO, Corso di diritto amministrativo. Principi generali, Padova, 1937, pag. 5, dove si ribadisce che l’amministrazione rientra nella funzione esecutiva, senza esaurirla, poiché quest’ultima comprende anche la c.d. attività politica o di governo” Amministrare … significa un’attività di grado inferiore a quella di governo. Dio governa il mondo, ma non amministra; governa, ma non amministra il Re nella sua qualità sovrana di Capo dello Stato; amministrano invece i funzionari da lui dipendenti”. (54) V. CRISAFULLI, Per una teoria giuridica dell’indirizzo politico, cit., pag. 28, dove l’autore riconosce alla dottrina della quarta funzione, alla quale egli non aderisce, il “grande” merito di aver fatto emergere il concetto di indirizzo politico quale attività di predeterminazione dei fini generali ai quali deve tendere di volta in volta l’azione statale. Infatti, la correzione da essa apportata alla teoria della tripartizione dei poteri non è puramente formale o nominale, poiché l’attività di governo, stabilendo le direttive di fondo dell’azione statale, non è solo attività di impulso e coordinamento, ma anzitutto di indirizzo e come tale prevalente e precedente rispetto alle altre. (55) M.P. GENESIN, L’attività di alta amministrazione fra indirizzo politico e ordinaria attività amministrativa, cit., pag. 71 (56) V. CRISAFULLI, Per una teoria giuridica dell’indirizzo politico, cit., pag. 5. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 279 dirizzo politico; l’essenzialità dell’indirizzo politico infatti risiede nell’essere, o nel poter essere, e soprattutto, nel voler essere, attività di posizione e di invenzione di fini (57). Riprese le caratteristiche della nozione di indirizzo politico ora si pone il tema della definizione dei suoi rapporti con l’altrettanto complessa nozione di indirizzo amministrativo (58). Lo studio del concetto di indirizzo amministrativo deve avere origine dal testo costituzionale e subito va rilevata la problematicità del rapporto con l’indirizzo politico, evidenziando due orientamenti principali. Da un lato, secondo una impostazione “monistica”, l’indirizzo amministrativo è ricondotto all’indirizzo politico, non essendovi riscontrabile una differenza strutturale, poiché la sfera della politicità caratterizza l’azione di indirizzo in ogni suo aspetto, tanto quello politico che quello amministrativo (59); dall’altro, secondo una visione “dualistica”, l’indirizzo amministrativo è ricostruito come subordinato ed immediatamente attuativo di quello politico e caratterizzato dal fatto di svilupparsi mediante l’esercizio di potere discrezionale, non auto creativo dei propri fini ma vincolato a quelli posti in sede politica, e, nel nostro caso, a quelli posti dalla Costituzione e dalle leggi (60). Da queste distinte impostazioni derivano due conseguenze precise: per la prima, non vi è attribuzione di autonoma rilevanza concettuale all’indirizzo amministrativo, e, quindi, si nega che l’alta amministrazione possa essere intesa come attività di indirizzo (61). Infatti se non si ritiene esistere altra fun- (57) M. NIGRO, L’azione dei pubblici poteri: lineamenti generali, ora in Scritti giuridici, tomo III, Milano, 1996, pag. 1587. (58) M.P. GENESIN, L’attività di alta amministrazione fra indirizzo politico e ordinaria attività amministrativa, cit., pag. 81, dove si afferma che “nell’ordinamento repubblicano l’interesse speculativo per il concetto di indirizzo politico e per quello di indirizzo amministrativo è ravvivato dal tenore dell’art. 95 Cost., il cui 1° comma assegna al Presidente del Consiglio, in sostanziale linea di continuità con la legislazione di stampo ottocentesco, il compito di mantenere “l’unità di indirizzo politico ed amministrativo” del Governo”. (59) M. NIGRO, L’azione dei pubblici poteri: lineamenti generali, cit., il quale, escludendo che l’alta amministrazione sia attività di indirizzo, riconduce ogni tipologia di indirizzo promanante dagli organi politici all’indirizzo politico o politico-amministrativo; L. ELIA, Problemi costituzionali dell’amministrazione centrale, Milano, 1965, pag. 32, secondo il quale “l’indirizzo amministrativo non è alcunché di diverso dall’indirizzo politico, ma è espressione rivolta a qualificare tale tipo di indirizzo in quanto si rivolga ad informare, ispirare e dirigere l’attività dei funzionari”. (60) G. CUGURRA, L’attività di alta amministrazione, cit., pag. 97; E. CHELI, Atto politico e funzione di indirizzo politico, Milano, 1961, pag. 160; V. CRISAFULLI Per una teoria giuridica dell’indirizzo politico, cit., pag. 41; M.S. GIANNINI, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione. Concetto e problemi, Milano, 1939, pag. 70. (61) M. NIGRO, L’azione dei pubblici poteri: lineamenti generali, cit., dove è interessante rilevare che “l’alta amministrazione è attività di indirizzo, come spesso si dice? Lo è e non lo è. Certo, ci sono direttive amministrative alle quali si può applicare questa etichetta ma almeno nel suo nucleo centrale l’attività di alta amministrazione non impartisce indirizzi, ma li rivela in quanto li attua. Essa è precipuamente attuazione di indirizzi politico-amministrativi, attività di inveramento di un disegno politico che sta a monte di essa”. 280 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 zione al di fuori dell’indirizzo politico è evidente che l’alta amministrazione non può che essere intesa come espressione di una funzione attuativa, applicativa di indirizzi politici (62). In questo modo, però, diventa difficile differenziare il decreto-legge come momento di alta amministrazione dalla restante attività amministrativa discrezionale. L’aspetto pratico più significativo di questa posizione consiste nell’ampliamento del novero degli atti politici; infatti, le manifestazioni di attività di indirizzo politico-amministrativo, non costituendo atti di alta amministrazione ed appartenendo alla sfera dell’attività politica, non possono che venire etichettate come politiche (63). La seconda conseguenza, prima accennata, si caratterizza per una distinzione fra indirizzo politico e indirizzo amministrativo all’interno della più ampia contrapposizione fra attività politica, libera nel fine, e attività discrezionale, vincolata nel fine. In questo senso, si vuole collegare l’alta amministrazione del decreto-legge alla funzione di indirizzo amministrativo (64), e tale impostazione si rafforza laddove si consideri la decretazione d’urgenza come l’emanazione di atti aventi forza di legge a carattere puntuale e concreto. L’orientamento che attribuisce autonoma rilevanza concettuale alla funzione di indirizzo amministrativo appare condivisibile, sia perché risulta maggiormente ancorato al significato letterale dei riferimenti normativi alla funzione di indirizzo amministrativo, come l’art. 95, comma 1, Cost. e l’art. 2, legge 400 del 1988, sia perché valorizza il ruolo di detta funzione fra la formulazione dell’indirizzo politico e la sua attuazione attraverso l’attività amministrativa. Occorre, ora, evidenziare bene le distinzioni tra la funzione di indirizzo amministrativo e quella di indirizzo politico. La funzione di indirizzo amministrativo appartiene al livello del potere discrezionale; essa, quindi, non è autocreativa dei propri fini, presenta il connotato della non autosufficienza. Tuttavia, si può affermare che la funzione di indirizzo amministrativo, pur essendo collocata al livello del potere vincolato nel fine, non necessariamente trova espressione soltanto in atti amministrativi, (62) M.P. GENESIN, L’attività di alta amministrazione fra indirizzo politico e ordinaria attività amministrativa, cit., pag. 84. (63) M.P. GENESIN, L’attività di alta amministrazione fra indirizzo politico e ordinaria attività amministrativa, cit., pag. 85, dove si sostiene, in relazione alla posizione espressa, che “così intesa, però, tale teoria è destinata a scontrarsi con la propensione, da parte della giurisprudenza, a ridurre vieppiù il novero di atti politici del Governo, in quanto tali non sindacabili”. (64) Il legame esistente tra la funzione di indirizzo amministrativo e l’attività di alta amministrazione è variamente percepito dalla dottrina che accoglie la tesi dualista. Per alcuni autori le nozioni di indirizzo amministrativo e di alta amministrazione si identificano l’una nell’altra. In tal senso E. CHELI, Atto politico e funzione di indirizzo politico, cit., pag. 160; F. BASSI, Contributo allo studio delle funzioni dello Stato, Milano, 1969, pag. 68. Per altri, invece, l’attività di alta amministrazione è una delle espressioni dell’indirizzo amministrativo, ma non lo esaurisce. In tal senso G. CUGURRA, L’attività di alta amministrazione, cit., pag. 105; M.S. GIANNINI, Attività amministrativa, in Enc. Dir., vol. III, Milano, 1959, pag. 990. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 281 potendo consistere anche in atti con forza di legge, e, con particolare riguardo a questo aspetto, essa ha un più limitato spettro di autorità titolari, spettando solo all’organo apicale dell’amministrazione statale. Tale organo deve essere politicamente legittimato e responsabile, poiché la titolarità della funzione di indirizzo amministrativo è legata, ex art. 95 Cost., all’assunzione di responsabilità politica (65), e, ai fini della presente argomentazione, nell’ottica di un’alta amministrazione espressione di indirizzo amministrativo e con forza di legge, la titolarità spetta unicamente al Consiglio dei Ministri. Un limite a questa ricostruzione risiede nella multiformità degli atti che sono espressione di indirizzo amministrativo, avendo qui incluso anche la decretazione d’urgenza, e ciò provoca una difficile individuazione di tratti omogenei di disciplina attorno ai quali aggregare il concetto di indirizzo amministrativo. Anche sul significato di funzione possono sorgere difficoltà, ma, richiamando quanto già detto sull’argomento, se per funzione si intende un’attività ordinata ad un fine di interesse pubblico secondo un criterio teleologico, appare che atti, formalmente e sostanzialmente eterogenei, vadano considerati espressione di una stessa funzione se ordinati al perseguimento di un interesse pubblico fondamentale. Infatti, se la connotazione principale del potere politico è la libertà nel fine, nel rispetto di un quadro costituzionalmente rilevante di valori, si dovrà ravvisare un atto di indirizzo politico tutte le volte che la funzione pubblica esplicata sia caratterizzata dalla libertà nel fine; al contrario, se la caratteristica più rilevante del potere amministrativo è la vincolatezza nel fine, si potrà ritenere il carattere della non autosufficienza della funzione di indirizzo amministrativo, in quanto funzione eterolimitata e distinta dall’indirizzo politico. Poste queste indicazioni, occorre delineare alcuni punti fermi: il primo consiste nel convincimento che l’alta amministrazione del decreto-legge sia espressione di un concetto idoneo a qualificare una particolare categoria di provvedimenti legata all’esistenza di questioni di contenuto amministrativo ritenute talmente rilevanti da richiedere per la loro soluzione l’intervento di una deliberazione del Consiglio dei Ministri mediante il ricorso ad un atto avente forza di legge; il secondo indica il legame tra la questione di alta amministrazione del decreto-legge e il valore dell’interesse generale, rafforzato dal ruolo del Consiglio dei Ministri stesso, in quanto organo considerato esponenziale dell’intera gamma degli interessi pubblici. In tal senso è bene soffermarsi sul tema della derivazione funzionale di atti di decretazione d’urgenza attraverso i quali si statuisce sopra questioni di alta amministrazione particolarmente rilevanti, proprio perché scaturite da straordinarie situazioni di necessità ed urgenza. È utile ricordare, pertanto, che (65) G. CUGURRA, L’attività di alta amministrazione, cit., pag. 271. 282 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 il sistema della teoria formale-sostanziale non è per principio contrario alla possibilità che questioni di contenuto amministrativo siano risolte mediante l’adozione di atti con forza di legge; il tema, però, non è quello di verificare una possibilità teorica, quanto di valutare sul piano effettuale se le questioni rientranti nell’ambito dell’alta amministrazione siano concretamente risolte grazie a provvedimenti che stanno sullo stesso piano gerarchico della legge formale. 5. La decretazione d’urgenza come particolare aspetto della nozione di alta amministrazione. Nel tentativo di tirare le fila delle argomentazioni esposte, vanno ora riordinate le considerazioni proposte in modo che risulti sufficientemente chiarito verso quale aspetto della nozione di alta amministrazione il presente studio intende muoversi. Elemento rilevante consiste nel collegamento posto tra la questione di alta amministrazione data dai presupposti dell’art. 77 Cost. e il riferimento all’interesse pubblico, quest’ultimo reso operativo nel contesto istituzionale del Consiglio dei ministri. Da tutto questo, è possibile sostenere che il concetto di “atto di alta amministrazione avente forza di legge” corrisponde ad una categoria specifica di atti e, quindi, ciò che rileva concerne sia il profilo dell’atto sia quello della questione e, più in generale, dell’intera attività che si realizza grazie alla deliberazione consiliare e al provvedimento che rende questa produttiva di effetti. Nella prospettiva indicata sussiste una gamma di questioni di natura amministrativa risolvibili mediante l’adozione di atti del potere esecutivo, ma che, per la presenza di circostanze straordinarie ed imprevedibili, sono suscettibili di assumere una importanza tale che risulta irrinunciabile il ricorso a provvedimenti con forza di legge. In tali frangenti, questo aspetto dell’alta amministrazione esprime al massimo grado il potere discrezionale della pubblica amministrazione, chiamata ad intervenire al suo massimo livello, ossia mediante l’azione del Governo, momento imprescindibile di indirizzo dell’attività amministrativa puntuale al fine di garantire le finalità di interesse pubblico espresse, nel caso della decretazione d’urgenza, dall’art. 77 della Costituzione. L’alta amministrazione del decreto-legge è, dunque, espressione di una funzione di indirizzo amministrativo che costituisce “il gradino più elevato dell’azione posta in essere dai pubblici poteri per il conseguimento delle finalità già predeterminate mediante atti liberi nel fine” (66). In questo senso, se lo strumento del decreto-legge presenta caratteristiche, operative e strutturali, idonee a costituire una particolare realizzazione di attività di alta amministrazione, l’indirizzo politico non potrà ordinariamente (66) G. CUGURRA, L’attività di alta amministrazione, cit., pag. 273. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 283 servirsi di questo strumento per attuare se stesso, ma, soltanto al sorgere della circostanza straordinaria, e in via residuale, potrà operare per porre le soluzioni che ritiene più opportune nel fronteggiare l’imprevedibile. In sede di decretazione d’urgenza, quindi, il rapporto tra indirizzo politico ed amministrativo si articola e si specifica maggiormente, con una delimitazione più netta dei rispettivi ruoli ed ambiti di azione, ma con una predominanza netta del ruolo dell’indirizzo amministrativo. Il decreto-legge viene così ad assumere il rilievo di “provvedimento di alta amministrazione” proprio perché esso è chiamato a risolvere una questione di alta amministrazione, ed è posto in essere a seguito di un azione di mediazione di interessi coinvolti sulla quale non si esercita il controllo da parte degli organi giurisdizionali, sussistendo soltanto il sindacato di legittimità costituzionale. Questo distinto aspetto dell’alta amministrazione, costituito dalla decretazione d’urgenza, si lega quindi al contenuto provvedimentale, vuole essere un modo diretto, specifico, ritagliato al caso particolare, di intervento, il quale, a causa della gravità della situazione, assume la veste della forza di legge. In questa impostazione, quindi, gli strumenti amministrativi che il Governo, organo apicale della P.A., ha a disposizione si allargano e si rafforzano ma hanno come elemento comune ed imprescindibile la concretezza e la specificità del caso. Con questa tipologia di alta amministrazione si esplica compiutamente il continuum politica-amministrazione posto dall’art. 95 Cost. che vede l’indirizzo amministrativo accanto all’indirizzo politico, senza però risolvere il primo nel secondo (67). Inoltre, dato che l’alta amministrazione del decreto-legge implica, al massimo livello, l’esercizio del potere discrezionale, la titolarità del relativo potere deve essere posto in capo a soggetti politicamente responsabili (68). Del resto, questo è il modello delineato dall’art. 95 Cost. che attribuisce il potere di esprimere l’indirizzo amministrativo ad organi, quali, nel nostro caso, il Consiglio dei ministri, responsabili dinanzi alle Camere; tale disposizione costituzionale svolge un ruolo centrale sia per affermare l’esistenza di un’autonoma funzione di indirizzo amministrativo sia per individuare a quale autorità essa possa spettare. (67) M.P. GENESIN, L’attività di alta amministrazione fra indirizzo politico e ordinaria attività amministrativa, cit., pag. 143, dove si afferma che “pare, pertanto, di poter ricondurre la distinzione tra funzione di indirizzo politico e funzione di indirizzo amministrativo alla contrapposizione tra funzione di indirizzo sulla amministrazione, da un canto, e funzione di indirizzo della amministrazione, dall’altro”. (68) L. CARALASSARE, Amministrazione e potere politico, Padova, 1974, pag. 35. 284 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Il soccorso istruttorio dopo l’entrata in vigore del D.lgs. n. 50 del 18 aprile 2016. Vecchie e nuove problematiche Giuliano Gambardella, Ciro Alessio Mauro* SOMMARIO: 1. Origini del soccorso istruttorio - 2. I principi del soccorso istruttorio - 3. Tassatività delle cause di esclusione nel codice degli appalti pubblici, con particolare riferimento all’analisi degli articoli 46 e 38 dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 18 aprile 2016 - 4. Conclusioni. 1. Origini del soccorso istruttorio. Il presente contributo si propone di fornire le prime impressioni sulle recenti novità introdotte dal d.lgs. n. 50 del 18 aprile 2016 sul soccorso istruttorio. Prima di argomentare, nel dettaglio, tali novità è, altresì, opportuno in via propedeutica effettuare sebbene senza pretesa di esaustività alcuna le modifiche precedenti più significative intervenute sul tema in parola. Come è noto, il soccorso istruttorio è un istituto di carattere generale espressivo dei principi fondamentali di rango comunitario e nazionale aderente ai principi di proporzionalità e di buona amministrazione. In accezione generale, l’istituto del soccorso istruttorio appare essere ispirato al criterio della buona fede che costituisce un normale modus procedendi al quale le Amministrazioni devono attenersi ammettendo il concorrente, nella fase di valutazione dei requisiti di partecipazione, alla regolarizzazione del documento o del certificato affetto da vizi formali, laddove manchi l’esplicitazione di una clausola di esclusione volta a sanzionare l’inosservanza della formalità, onde trattasi (1). Sotto un profilo storico, vale la pena ricordare come la procedura del soccorso istruttorio prenda le mosse dal diritto comunitario, con particolare riferimento all’articolo 27 della Direttiva 71/305/CEE del Consiglio del 26 luglio 1971, la quale riconosceva all’amministrazione aggiudicatrice - entro certi limiti - il potere di «invitare l’imprenditore a completare i certificati e i documenti presentati o a chiarirli» (2). L’orientamento iniziale della dottrina e della giurisprudenza rispetto al soccorso istruttorio si qualificava vieppiù come restrittivo, nella misura in cui era consentita solo la regolarizzazione, ovvero un mero intervento su circostanze o elementi estrinseci al contenuto della documentazione. Per definire meglio l’ambito di applicazione dell’istituto de quo, è oppor- (*) Avvocati del libero Foro. (1) A. BOSO (a cura di), Normativa, Giurisprudenza e prassi sugli appalti pubblici e sulla sicurezza, SIFIC, Ancona, 2010, pp. 75-231 e ss. (2) Art. 27, Direttiva del Consiglio n. 71/305/CEE del 26 luglio 1971. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 285 tuno rammentare la differenza sostanziale tra l’integrazione e la regolarizzazione. Con riferimento alla regolarizzazione, non va sottaciuto come la stazione appaltante può ricorrere al soccorso istruttorio per rettificare, di fatto, eventuali errori materiali ovvero refusi contenuti nella documentazione presentata. Invece non è possibile utilizzare il soccorso istruttorio allorquando vengano alla luce eventuali omissioni documentali, ovvero inadempimenti procedurali richiesti a pena di esclusione dalla legge di gara. L’integrazione, invece, è contemplabile solo nella circostanza in cui le clausole del bando siano ambigue, ovvero nella circostanza in cui il concorrente sia incorso in errore scusabile in ragione di una omissione della medesima stazione appaltante, altrimenti l’opzione dell’integrazione costituirebbe un’evidente violazione al principio della par conditio, che verrebbe violato dalla remissione in termini, per mezzo della sanatoria (su iniziativa dell’amministrazione), di una documentazione incompleta o insufficiente ad attestare il possesso del requisito di partecipazione o la completezza dell’offerta, da parte del concorrente che non ha presentato, nei termini e con le modalità previste dalla lex specialis, una dichiarazione o documentazione conforme al regolamento di gare (3). L’orientamento minoritario tendeva a valorizzare il potere di regolarizzazione come strumento di correzione dell’eccessivo rigore delle forme (4). La tendenza era quella di privilegiare il dato sostanziale rispetto a quello meramente formale, ovvero in quelle circostanze in cui non fosse in discussione né la sussistenza dei requisiti di partecipazione, né la capacità tecnica ed economica dell’impresa. In ordine alla siffatta impostazione, un’eventuale previsione del bando prescritta “a pena di esclusione” non avrebbe sottratto, comunque, l’Amministrazione dall’onere del soccorso istruttorio, nell’ipotesi in cui i vizi di ordine formale riscontrati non sarebbero stati tali da pregiudicare, sotto il profilo sostanziale, il raggiungimento del risultato verso il quale l’azione amministrativa è orientata. Tutto ciò premesso, è evidente come il soccorso istruttorio si qualifichi, in buona sostanza, come un ordinario modus procedendi orientato a superare inutili formalismi in nome del principio del favor partecipationis e della semplificazione, sia pure all’interno di rigorosi limiti dettati dalla necessità di assicurare la parità tra i concorrenti alla gara. 2. I principi del soccorso istruttorio. Giova rammentare come nell’ordinamento giuridico italiano, il soccorso (3) Così F. MASTRAGOSTINO (a cura di), Diritto dei contratti pubblici. Assetto e dinamiche evolutive alla luce delle nuove direttive europee e del d.l. n. 90 del 2014, Giappichelli, Torino, p. 176. Si veda, altresì, Cons. Stato, Sez. III, 5 maggio 2014, n. 2289. (4) TAR Lazio Roma, sez. II bis, 7 aprile 2014, n. 3742. 286 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 istruttorio si fonda essenzialmente sui principi di lealtà e di responsabilità, e trova collocazione sistematica nell’art. 6, comma 1 lettera b) della legge n. 241 del 7 agosto 1990, che disciplina i compiti del responsabile del procedimento. Con particolare riferimento al principio di lealtà merita precisare che la Pubblica Amministrazione non può rigettare un’istanza per il solo fatto che essa sia carente in qualche sua parte, allorquando si possa evincere il contenuto minimo della medesima. Per quanto attiene, invece, al principio di responsabilità, il privato deve rispondere delle conseguenze dell’eventuale comportamento inadempiente qualora l’istanza non necessiti di una mera integrazione, ma postuli, altresì, un’inammissibile attività di creazione della medesima. Tale principio è stato recentemente ribadito da una deliberazione dell’ANAC (5) secondo la quale “L’integrazione documentale, in altri termini, non intende supplire ad un’offerta originariamente carente e dunque inammissibile, ma tende a non escludere un’offerta che ab initio avrebbe dovuto essere ammessa, se non vi fosse stato un lapsus calami”. Tale determinazione, invero, è frutto di un consolidato indirizzo giurisprudenziale che si era formato sul soccorso istruttorio (6). A ben vedere, nella prassi, il soccorso istruttorio rappresenta quindi un’applicazione del principio del giusto procedimento - notoriamente sancito dall’art. 3 della legge n. 241 del 7 agosto 1990 - il quale impone all’amministrazione di squarciare il velo della forma per assodare l’esistenza delle effettive condizioni di osservanza delle prescrizioni imposte dalla legge, ovvero dal bando. Si tratta, in sostanza, di un vero e proprio dovere - espressione del più ampio principio di partecipazione procedimentale - il cui fondamento è rinvenibile nel principio di buon andamento, inteso anche nell’accezione della necessaria cooperazione tra amministratori e amministrati. Secondo la lettera b) dell’articolo 6 comma 1 della legge n. 241 del 7 agosto 1990, “il responsabile del procedimento accerta d’ufficio i fatti, disponendo il compimento degli atti all'uopo necessari, e adotta ogni misura per l'adeguato e sollecito svolgimento dell'istruttoria. Più nel dettaglio, il responsabile del procedimento può chiedere il rilascio di dichiarazioni e la rettifica di dichiarazioni o istanze erronee o incomplete e può esperire accertamenti tecnici ed ispezioni ed ordinare esibizioni documentali”. Da un’attenta lettura della norma, si desume che l’amministrazione può invitare il privato a completare o fornire chiarimenti in ordine al contenuto dei certificati, documenti e dichiarazioni presentati. (5) Deliberazione n. 7 del 30 settembre 2014 - rif. Fascicolo n. 3325/2013. (6) Cons. St., sez. III, sentenze n. 4039/2013 e 4370/2013 e sez. V, sent. n. 1122/2013. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 287 Tale contenuto è subordinato alla sola esistenza in atti di dichiarazioni che siano state effettivamente rese, ancorché in modo non pienamente intellegibile o senza il rispetto dei requisiti formali. L’istituto giuridico del soccorso istruttorio ex art. 6 comma 1 lettera b) della legge n. 241 del 7 agosto 1990, non può operare in presenza di dichiarazioni, non già semplicemente incomplete, ma del tutto omesse, in quanto, in tal modo, la Pubblica Amministrazione, lungi dal supplire ad una mera incompletezza documentale, andrebbe sostanzialmente a formare il contenuto di una istanza che costituirebbe onere della parte presentare. Sulla base delle considerazioni sin qui effettuate scopo proficuo del presente contributo è quello di mettere in evidenza in ordine cronologico le novità introdotte dalla d.l. n. 70 del 13 maggio del 2011 convertito in legge del 12 luglio 2011 n. 106, che ha introdotto il comma 1 bis dell’art. 46 del d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2006, ed in particolare sulla tassatività delle cause di esclusione. Successivamente, verrà richiamata la legge 11 agosto 2014 n. 114, che ha introdotto il comma ter dell’art. 46. Infine, verrà illustrato il soccorso istruttorio nel recentissimo d.lgs. n. 50 del 18 aprile 2016, di riforma del precedente d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2006, che ha riscritto in un’unica disposizione quanto era previsto nei precedenti articoli 38, 45 e 46. 3. Tassatività delle cause di esclusione nel codice degli appalti pubblici, con particolare riferimento all’analisi degli articoli 46 e 38. Dopo l’entrata in vigore della legge n. 241 del 7 agosto 1990, la procedura del soccorso istruttorio ha trovato un ulteriore riconoscimento normativo nel precedente codice degli appalti pubblici (d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2006) e precisamente negli articoli 46 e 38. Appena è entrato in vigore il d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2006, l’art. 46 constava di un solo comma, il quale rinviava agli articoli 38 e 45 per il suo completamento o per fornire chiarimenti in ordine al contenuto di certificati, documenti e dichiarazioni presentate. Nel corso del tempo, tuttavia, il contenuto di tale norma si è rivelato insufficiente e, a distanza di cinque anni dalla sua entrata in vigore, il legislatore - preso atto dei numerosi orientamenti giurisprudenziali succedutisi - sia per porre un freno al dilagante fenomeno dei “bandi fotografia” e al moltiplicarsi delle cause di esclusione, sia per semplificare le procedure di gara, con il decreto legge n. 70 del 2011 convertito con modificazioni in legge n. 106 del 12 luglio 2011 ha previsto: a) la tassatività delle cause di esclusione; b) l’introduzione di bandi tipo da cui le stazioni appaltanti possono discostarsi solo con congrua motivazione; c) l’ampliamento di utilizzo delle dichiarazioni sostitutive. A tale proposito, la novità più rilevante è rappresentata dalla tassatività 288 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 delle cause di esclusione, enunciata nell’art. 46 del d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2006, la cui rubrica è stata integrata con le seguenti parole “Tassatività delle cause di esclusione” e nel cui corpo è stato inserito il comma 1 bis ai sensi del quale “la stazione appaltante esclude i candidati o i concorrenti in caso di mancato adempimento alle prescrizioni previste dal codice e dal regolamento e da altre disposizioni di legge vigenti, nonché nei casi di incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali ovvero in caso di non integrità del plico contenente l’offerta o la domanda di partecipazione o altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia violato il principio di segretezza delle offerte; i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizioni a pena di esclusione. Dette prescrizioni sono comunque nulle”. Il principio di tassatività delle cause di esclusione delineato dall’art. 46, comma 1 bis del d.lgs. n.163 del 12 aprile 2006 si applicava ai settori ordinari e, in forza di quanto disposto dall’art. 206 dello stesso codice, anche ai settori speciali. In particolare, esso si applicava indistintamente tanto alle procedure sopra soglia comunitaria quanto alle procedure sotto soglia, con la precisazione che la normativa si applica soltanto ai bandi successivi all’entrata in vigore della novella. Secondo una parte della dottrina, il comma 1 bis dell’art. 46 del d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2006, ha codificato i principi di elaborazione giurisprudenziale, di massima partecipazione alle gare, di divieto di aggravio del procedimento, di interpretazione delle clausole ambigue nel senso di favorire la massima partecipazione al procedimento (7). Ad avviso di tale dottrina, il comma 1 bis dell’art. 46 del d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2006, mirava ad evitare esclusioni anche per violazioni formali, atteso che ora solo vizi radicali che determinano incertezza assoluta del soggetto o dell’oggetto dell’offerta, ovvero violazione della segretezza, sono cause di esclusione. A tal proposito, giova precisare l’esistenza di due criteri per l’individuazione delle cause di esclusione dalle gare. Secondo il primo criterio, costituiva causa di esclusione la violazione di prescrizioni imposte dal codice, dal regolamento o da altre leggi; secondo il secondo criterio, invece, vi erano una serie di ipotesi che sono, per espresso dettato, cause di esclusione: a) incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell’offerta, per difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali; b) non integrità del plico contenente l’offerta o la domanda di partecipazione; (7) R. DE NICTOLIS in R. CHIEPPA e R. GIOVAGNOLI, Manuale di diritto amministrativo, Ed. 2012, pag. 735. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 289 c) altre irregolarità relative alla chiusura dei plichi, tali da far ritenere, secondo le circostanze concrete, che sia stato violato il principio di segretezza delle offerte. Sono residuati dubbi sulla formulazione della prima parte della disposizione de qua, e precisamente laddove si prevedeva come causa di esclusione il mancato adempimento di prescrizioni imposte dal codice, dal regolamento, da altre leggi. Pertanto, non si faceva riferimento alla sola inosservanza di prescrizioni imposte a pena di esclusione. Secondo la medesima dottrina, il problema esegetico è sorto perché solo alcune disposizioni del regolamento contenevano una espressa comminatoria di esclusione, ma comunque imponevano adempimenti imperativi: un esempio sono le disposizioni in tema di termini di presentazione delle offerte o a quelle in tema di prestazione della cauzione provvisoria. Tale contrasto interpretativo, secondo autorevole dottrina, poteva essere risolto condividendo l’opinione secondo la quale «la formulazione letterale dell’art. 46 comma 1 bis induce a ritenere che l’esclusione possa essere disposta non solo nei casi in cui disposizioni del codice o del regolamento la prevedano espressamente, ma anche nei casi in cui impongano adempimenti doverosi ai concorrenti o candidati, o dettino norme di divieto, pur senza prevedere una espressa sanzione di esclusione» (8). Secondo tale interpretazione, una disposizione recante espressi divieti, che vanno ritenuti imposti a pena di esclusione, è quella dell’art. 37 comma 7 del codice del d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2006, che impone ai concorrenti il divieto di partecipare alla gara in più di un’ATI (Associazioni temporanee di imprese) o di un consorzio ordinario. A tale dottrina si è conformata la giurisprudenza prevalente, la quale ha ritenuto che, ogniqualvolta il codice o il regolamento si esprimano in termini di divieto, ovvero di doverosità degli adempimenti imposti ai concorrenti, con l’uso della locuzione “deve” “devono”, “è obbligato”, l’adempimento deve ritenersi imposto a pena di esclusione (si veda in particolare l’art. 37 commi 4, 13, 14, 15; art. 75, commi 1, 4, 5; art. 111 comma 1; art. 113 del d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2006) (9). Un’altra novità è rinvenibile nell’espresso divieto per bandi e lettere invito di prevedere ulteriori cause di esclusione che, seppur previste, sarebbero comunque nulle, sempre ai sensi dell’art. 46 comma 1bis del d.lgs. n. 163 del 2006. Ad un’attenta analisi, era possibile considerare come la sanzione della nullità, in luogo dell’annullabilità che è tipica degli atti amministrativi, potesse indurre a ritenere come le clausole di bandi e lettere invito che prevedessero (8) R. CHIEPPA, R. GIOVAGNOLI, cit. (9) Cons. Stato, Sez. III, 16 marzo 2012, n. 1471, nonché Cons. Stato, Ad. Plen., 7 giugno 2012, n. 21. 290 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 cause di esclusione non consentite, fossero automaticamente inefficaci, con conseguente disapplicazione del seggio di gara, senza ricorrere allo strumento dell’annullamento; nello specifico la nullità che viene in rilievo è quella parziale, ex art. 1419, co. 2 c.c. (vitiatur se non vitiat). Sul tema della tassatività delle cause di esclusione, previsto e disciplinato dall’art. 46 co. 1 bis del d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2006, è intervenuta nel corso del tempo la giurisprudenza amministrativa, che, con le sue pronunce ha chiarito i limiti ed ha stabilito i casi di ammissibilità del soccorso istruttorio. Secondo un primo orientamento, sull’applicabilità ratione temporis della nuova disciplina in tema di cause di esclusione dalle pubbliche gare, per le quali, in virtù della novella di cui al d.l. n. 70 del 2011, è stato introdotto all’art. 46 comma 1 bis, d.lgs. n. 163 del 2006 il principio di tassatività, andava rilevato che, per conseguenza diretta del combinato disposto della norma di cui al comma 8 dell’art. 66 e di quella introdotta dal comma 1 bis dell’art. 46 citato, il principio di tassatività delle cause di esclusione doveva valere, a pena di nullità delle clausole difformemente introdotte, per tutti i bandi la cui pubblicazione avvenuta nella G.U.R.I., sia successiva all’entrata in vigore della norma (10). Con un’altra significativa pronuncia, il giudice amministrativo ha posto un limite all’applicabilità dell’art. 46 comma 1 bis del d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2006. Nello specifico, secondo il T.A.R., in base al principio della tassatività delle cause di esclusione dalle gare di appalto, previsto e disciplinato dall’art. 46 comma 1 bis del d.lgs. 163 del 12 aprile del 2006, solo le violazioni di norme di legge o di regolamento o quelle che determinano irregolarità sostanziali in relazione a quanto esplicitamente indicato nella stessa disposizione comportavano l’esclusione dal procedimento. Ciò determina da un lato la nullità di quelle previsioni dei bandi ad oggetto omnicomprensivo, che rendono obbligatoria la presentazione di tutta la documentazione richiesta e nelle forme indicate, riconnettendo automaticamente l’esclusione della concorrente al generico difetto di una qualsiasi parte della documentazione stessa; e dall’altro, l’obbligo per il giudice di accertare se l’omissione di cui una concorrente si lamenta (ai fini della domanda di esclusione dalla gara di altro concorrente) sia effettivamente ascrivibile alle condizioni del menzionato articolo 46 (11). La giurisprudenza amministrativa ha fatto chiarezza anche in ordine all’integrazione postuma e al suo ambito di applicazione, all’omessa allegazione di documenti richiesti a pena di esclusione ed alle clausole del bando ambigue o contraddittorie ed alla cauzione. Circa l’integrazione postuma, secondo il Consiglio di Stato, il rimedio (10) T.a.r. Venezia, sez. I, 2 dicembre 2011, n. 1791, Foro amm. T.a.r. 2011, n. 12.3874. (11) T.a.r. Reggio Calabria, sez. I, 22 marzo 2012, n. 245, Diritto & Giustizia, 2012, 10 aprile. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 291 della regolarizzazione documentale, di cui all’art. 46 del d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2006, non si applica al caso in cui l’impresa concorrente abbia integralmente omesso la produzione documentale prevista dall’ art. 38 del precedente codice dei contratti pubblici; viceversa, qualora la documentazione prodotta dal concorrente a una pubblica gara sia presente, ma carente di taluni elementi formali, tale da suscitare un indizio del possesso del requisito richiesto, l’amministrazione non può pronunciare l’esclusione di una procedura, ma è tenuta a richiedere al partecipante di integrare e chiarire il contenuto di un documento già presente, costituendo tale attività acquisitiva un ordinario modus procedendi, ispirato all’esigenza di far prevalere la sostanza sulla forma (12). A causa dell’insufficienza del dato normativo è stato necessario un ulteriore chiarimento sull’ambito di applicazione della regolarizzazione postuma da parte del giudice amministrativo. Più nel dettaglio, per il T.A.R., l’integrazione postuma, nei limiti rigorosi segnati dalla giurisprudenza e dalla legge poteva riguardare la sola documentazione necessaria a dimostrare il possesso dei requisiti di partecipazione, non già il contenuto negoziale dell’offerta tecnica, poiché, così operando, si sarebbe verificato un’impropria “rimessione in termini” all’offerente, consentendo di rimediare tardivamente alle carenze della propria proposta tecnica ed infrangendo, in tal modo, il principio di imparzialità che impone di trattare senza discriminazioni i concorrenti nel rispetto delle scadenze e delle procedure stabilite ex ante con il bando di gara (13). Secondo un altro orientamento, il potere dovere della Stazione-appaltante di chiedere un’integrazione documentale (già previsto dall’art. 6 della legge n. 241 del 7 agosto 1990), trovava ormai un solido riscontro nell’art. 46 del codice degli appalti pubblici, il quale codificava uno strumento inteso a far valere, entro certi limiti, la sostanza sulla forma (o sul formalismo), nell’esibizione della documentazione ai fini della procedura selettiva, onde non sacrificare l’esigenza della più ampia partecipazione per carenze meramente formali nella documentazione (14). Come sopra detto, il Giudice amministrativo è intervenuto “a ragion veduta” con importanti pronunce anche sull’omessa allegazione di documenti richiesti a pena di esclusione, già prevista e disciplinata dall’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2006. Secondo un orientamento successivo del giudice amministrativo, la ratio della normativa di cui all’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2006 risiede nell’esigenza di verificare l’affidabilità complessivamente considerata dell'operatore economico che andrà a contrattare con la P.A., per evitare a tutela (12) Cons. Stato, sez. V, 28 dicembre 2011, n. 6965, Foro amm. CDS 2011, 12, 3715. (13) T.a.r. Roma Lazio, sez. III, 9 dicembre 2010, n. 35952, Foro amm. TAR, 2010, 12 3916. (14) Cons. Stato, Sez. V, 27 marzo 2009, n. 1840, Foro amm. C.d.S., 2009, 10, 2343. 292 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 del buon funzionamento e dell’azione amministrativa, che quest’ultima entri in contatto con soggetti privi di affidabilità morale e professionale; le singole “lex specialis” dettano regole di specificazione di tale onere che, se da un lato assumono il valore di vincolo per la stessa stazione appaltante e per gli aspiranti partecipanti, dall’altro devono sottostare agli ordinari criteri della chiarezza di redazione e della ragionevolezza di applicazione; a partire dall’entrata in vigore dell’art. 46 comma 1 bis d.lgs. 163 cit. applicabile anche alle gare bandite successivamente all’entrata in vigore, tali spazi si restringono ulteriormente (15). In merito alle clausole del bando ambigue o contraddittorie, vanno richiamate due interessanti pronunce. Una prima pronuncia riguarda la regolarizzazione della documentazione di gara, prevista e disciplinata dall’art. 46 del d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2006, che deve essere interpretato nel senso che l’Amministrazione può disporre la regolarizzazione anche quando gli atti depositati in base a norme della “lex specialis” contraddittorie e non univoche, contengano elementi che possano costituire un indizio del possesso del requisito richiesto a pena di esclusione e rendano ragionevole ritenere sussistente esso requisito di partecipazione, posto che, in tale caso, le esigenze di correttezza sostanziale della partecipazione devono prevalere sulla forma, essendo detto strumento normativo inteso a far valere, entro certi limiti la sostanza sulla forma (o sul formalismo) nell’esibizione della documentazione ai fini della procedura selettiva, onde non sacrificare l’esigenza della più ampia partecipazione per carenze meramente formali nella documentazione (16). Con un’altra significativa pronuncia, il giudice amministrativo di prime cure ha stabilito l’ammissibilità dell’integrazione documentale. Secondo il Tar, ai sensi dell’art. 46 del d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2012 (in base al quale, nei limiti previsti dagli articoli da 38 e 45, le stazioni appaltanti invitano, se necessario, i concorrenti a completare o a fornire chiarimenti in ordine al contenuto dei certificati, documenti e dichiarazioni presentati) l’integrazione documentale è ammissibile nei casi di equivoche clausole del bando relative alla dichiarazione o alla documentazione da integrare o chiarire con la domanda, posto che, in tali casi, le esigenze di correttezza sostanziale della partecipazione devono valere sulla forma (17). Dopo il decreto legge n. 70 del 13 maggio del 2011, parte della giurisprudenza patrocinava una lettura in combinato disposto dell’art. 46, comma 1 e comma 1 bis del d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2006, tale da indurre a ritenere ampliato l’ambito applicativo del soccorso istruttorio anche rispetto alle tipiche (15) T.a.r. Genova Liguria, sez. II, 2 novembre 2011, n. 1497, Foro amm. TAR 2011, 11, 3461. (16) Cons. Stato, sez. V, 5 settembre 2011, n. 4981, Diritto & Giustizia 2011, 4 ottobre. (17) T.ar. Cagliari Sardegna, sez. I, 1 settembre 2010, n. 2162, Foro amm. TAR, 2010, 9, 2998. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 293 ipotesi che davano luogo all’esclusione dalla gara, sicché la stazione appaltante avrebbe potuto comminare l’esclusione dalla gara solo qualora gli adempimenti formali gravanti sull’operatore economico pregiudicherebbero il raggiungimento del risultato della procedura, che si sostanzia nella scelta dell’offerta migliore dal punto di vista sostanziale, con assorbimento del profilo relativo alla regolarità formale dell’esternazione. L’Adunanza Plenaria n. 9/2014 del Consiglio di Stato ha osservato come il principio del soccorso istruttorio è un principio autonomo rispetto alle cause tassative di esclusione, di cui all’art. 46 del d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2006 e che, pertanto, non può essere sostenuta una lettura combinata dei due commi, che consenta di ritenere operante il soccorso istruttorio anche rispetto alle cause tassative di esclusione in omaggio al principio di matrice processual-civilistica del raggiungimento dello scopo. A distanza di pochi mesi, con Adunanza Plenaria n. 16 del 30 luglio 2014, è tornato a pronunciarsi in senso conforme lo stesso Consiglio di Stato. Più nel dettaglio, secondo il supremo consesso amministrativo, la dichiarazione sostitutiva relativa all’assenza delle condizioni preclusive, già previste dall’art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 12 aprile 2006, poteva essere legittimamente riferita in via generale ai requisiti previsti dalla norma e non doveva necessariamente indicare in modo puntuale le singole situazioni ostative previste dal legislatore e non doveva contenere la menzione nominativa di tutti i soggetti muniti di poteri rappresentativi dell’impresa, quando questi ultimi possano essere agevolmente identificati mediante l’accesso a banche dati ufficiali o a registri pubblici. Ne è derivato che una dichiarazione sostitutiva confezionata nei sensi di cui sopra è completa e non necessita di integrazioni o regolarizzazioni mediante l’uso dei poteri di soccorso istruttorio. Meritano di essere richiamate alcune sentenze del giudice amministrativo sulle conseguenze dell’omessa allegazione di documenti richiesti a pena di esclusione di cui all’art. 46 del d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2006. Per il Consiglio di Stato, l’omessa allegazione di un documento o di una dichiarazione previsti a pena di esclusione non poteva considerarsi alla stregua di un’irregolarità sanabile e, quindi, non ne era permessa l’integrazione o la regolarizzazione postuma, non trattandosi di rimediare a vizi puramente formali tanto più quando non sussistano equivoci o incertezze generati dall’ambiguità di clausole della legge di gara. Inoltre, ai sensi dell’art. 46 del d.lgs. 12 aprile 2006, i criteri esposti ai fini dell’integrazione documentale riguardavano semplici chiarimenti di un documento incompleto, ma non potevano servire a sopperire la mancanza di un documento quale la certificazione dei carichi pendenti o la dichiarazione sostitutiva (18). (18) Cons. Stato, Sez. V, 2 agosto 2010, n. 5084. 294 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Nonostante tali aperture giurisprudenziali e, ancor di più, dopo il d.l. n. 70 del 13 maggio 2011, mancava però, nell’art. 46 del d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2006, una legge che codificasse e che migliorasse i suindicati principi e, a distanza di pochissimi giorni dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 9 del 2014, è entrata in vigore la legge n. 114 dell’11 agosto 2014, che ha innovato l’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2006, inserendovi un comma 2 bis, ed ha inciso anche sull’art. 46, introducendo un comma 1 ter. La novella normativa, introdotta dall’art. 39 del d.l. n. 90 del 24 giugno 2014 conv. in legge 114 dell’11 agosto 2014, con riferimento alle previsioni recate dall’art. 46 del d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2006, ha determinato un superamento dei principi sinora enunciati, comportando una radicale inversione di principio. Invero, alla luce dell’art. 46 del d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2006, così come modificato dalla l. n. 114 dell’11 agosto 2014, era sanabile qualsiasi carenza, omissione o irregolarità con il solo limite intrinseco costituito dall’inalterabilità del contenuto dell’offerta, della certezza in ordine alla provenienza della stessa, del principio di segretezza che presiede alla presentazione della medesima e di inalterabilità delle condizioni in cui versano i concorrenti al momento della scadenza del termine per la partecipazione alla gara. L’art. 46, co. 1 ter del d.lgs. n. 163 del 12 aprile del 2006 disponeva che le disposizioni dell’art. 38, co. 2 bis di tale decreto, anch’esso introdotto dal legislatore del 2014, con la legge n. 114, si applicavano ad ogni ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolarità degli elementi e delle dichiarazioni anche di soggetti terzi che devono essere prodotte da concorrenti in base alla legge, al bando o al disciplinare di gara. Dal dato letterale dell’art. 38 co. 2 bis del d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2006, emergeva chiaramente come fosse consentito in sede di gara procedere alla sanatoria di ogni omissione o incompletezza documentale, superando il limite della sola integrazione e regolarizzazione di quanto già dichiarato e prodotto in gara. Giova considerare che l’art. 38 del d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2006 disponeva che non potessero partecipare alle procedure di affidamento delle concessioni e dei contratti pubblici coloro che non avessero determinati requisiti di moralità, il cui possesso da parte dell’operatore economico che partecipa alla gara risponde ad un principio di ordine pubblico economico, in quanto assicura che il soggetto che partecipa alla gara sia affidabile. L’art. 46, comma 1 ter del d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2006 ha introdotto inevitabilmente delle novità sulla disciplina della tassatività delle cause di esclusione, già previste al comma 1 bis dello stesso articolo. Invero, la legge 11 agosto 2014 n. 114 ha lasciato intatto il catalogo delle fattispecie di esclusione tipizzate dall’art. 46, co. 1 bis, del d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2006, ma ha operato a valle di tale individuazione, dato che ha consentito che fossero integrati, regolarizzati o prodotti ex novo gli elementi e le CONTRIBUTI DI DOTTRINA 295 dichiarazioni prescritti dalla legge, dal bando o dal disciplinare di gara (purché già sussistenti al momento della presentazione della domanda). Pertanto, ove vi fosse una incompletezza, irregolarità, omissione essenziale alla luce delle cause tipiche di esclusione, la stazione appaltante doveva avviare il procedimento contemplato dall’art. 38, co. 2 bis del d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2006 e, quindi, incamerare la cauzione provvisoria a titolo di sanzione ed invitare il concorrente a regolarizzare la propria posizione entro un termine non superiore a dieci giorni. Solo nel caso in cui questi non volesse avvalersi di tale procedimento sanante, poteva essere disposta l’esclusione, che diventa, quindi, un’extrema ratio. A tale proposito, occorre stabilire quali fossero gli elementi la cui mancanza, incompletezza o irregolarità non poteva essere sanata, in quanto le relative dichiarazioni e gli adempimenti prescritti incidono sul contenuto dell’offerta ovvero sulla sua segretezza. L’ampliamento del soccorso istruttorio agli elementi e alle dichiarazioni conosceva il limite dell’inalterabilità dell’offerta, nella sua parte tecnica ed economica, pena la violazione del principio di parità tra i concorrenti, del canone di imparzialità e buona amministrazione, in ragione del fatto che sarebbero stati elusi i termini decadenziali cui era soggetta la procedura e ciò avrebbe implicato la violazione del principio di segretezza delle offerte. Su tale impostazione, giova precisare - infine - come la precedente disciplina del soccorso istruttorio, in nessun caso poteva sopperire alla mancanza dei requisiti non posseduti al momento fissato dalla lex specialis di gara quale termine perentorio per la presentazione dell’offerta o della domanda, i quali dovevano sussistere a tale momento senza che fosse possibile né reperirli successivamente, né che fossero provati in un secondo momento con il soccorso istruttorio. In base al precedente assetto normativo, al di fuori delle ipotesi in cui risultasse violato il principio di completezza dell’offerta, sia economica che tecnica, di inalterabilità del suo contenuto e di segretezza che presiedeva alla sua presentazione, un concorrente poteva essere escluso da una pubblica gara solo qualora non risultasse in possesso dei requisiti minimi necessari per assumere le vesti di contraente (ad esempio per il mancato possesso dei requisiti di ammissione); qualora avesse posto in essere irregolarità essenziali in relazione alle dichiarazioni e ai documenti da prodursi in gara e nel termine concesso dalla stazione appaltante e non avesse provveduto a regolarizzare la propria posizione a seguito del pagamento della sanzione pecuniaria prevista nel bando. Al fine di agevolare la lettura e l'applicazione degli articoli 46 comma 1 ter e 38 bis del decreto legislativo n. 163 del 12 aprile 2006, l'Autorità Nazionale Anticorruzione (recentemente subentrata nelle funzioni e nelle prerogative della "defunta" AVCP) ha adottato l'atto di Determinazione n. 1 dell'8 gennaio 2015, per orientarne l’interpretazione, specie per quanto concerne l'individua- 296 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 zione delle fattispecie riconducibili alla «mancanza, l’incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive» ed alle «irregolarità non essenziali ovvero di mancanza o incompletezza di dichiarazioni non indispensabili». Con la suindicata determinazione l’ANAC ha sistematizzato tre diversi tipi di irregolarità: 1) irregolarità essenziale, per la quale è prevista la necessità di richiedere un'integrazione al concorrente e di disporre il pagamento di una sanzione; 2) irregolarità essenziale ma non indispensabile, per la quale è prevista la richiesta di integrazione documentale, ma non il pagamento della sanzione; 3) irregolarità non essenziale e non indispensabile, che non richiede alcun intervento dell'amministrazione. Inoltre vi è un elenco di fattispecie, per lo più formali, che devono necessariamente determinare l'esclusione del concorrente: - mancata indicazione sul plico esterno generale del riferimento della gara cui l'offerta è rivolta; - apposizione sul plico esterno generale di un'indicazione totalmente errata o generica, al punto che non sia possibile individuare il plico pervenuto come contenente l'offerta per una determinata gara; - mancata sigillatura del plico e delle buste interne con modalità di chiusura ermetica che ne assicurino l'integrità e ne impediscano l'apertura senza lasciare manomissioni; - mancata apposizione sulle buste interne al plico di idonea indicazione per individuare il contenuto delle stesse; si evidenzia che l'esclusione sarebbe da considerarsi illegittima qualora, ad esempio, la busta contenente l'offerta economica, ancorché priva della dicitura richiesta, fosse comunque distinguibile dalle restanti buste munite della corretta dicitura; - mancato inserimento dell'offerta economica e di quella tecnica in buste separate, debitamente sigillate, all'interno del plico esterno recante tutta la documentazione e più in generale la loro mancata separazione fisica. Si precisa che, in caso di divisione in lotti con possibilità di concorrere all'aggiudicazione di più di un lotto, l'offerta economica acquista una propria autonomia in relazione ad ogni lotto e, pertanto, deve essere separatamente redatta per ogni lotto. Al contrario, non possono costituire cause legittime di esclusione, tra le altre: - la mancata o errata indicazione, su una o più delle buste interne, del riferimento alla gara cui l'offerta è rivolta, nel caso in cui detta indicazione sia comunque presente sul plico generale esterno, debitamente chiuso e sigillato; - la mancata indicazione del riferimento della gara su uno o più documenti componenti l'offerta; - la mancata apposizione sul plico dell'indicazione del giorno e dell'ora fissati per l'espletamento della gara. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 297 Resta salva la facoltà per le stazioni appaltanti di rilevare, nel caso concreto, ulteriori circostanze che, inducendo a ritenere violato il principio di segretezza delle offerte, comportino, ai sensi dell'articolo 46, comma 1-bis, l'esclusione debitamente motivata del concorrente (19). Non va peraltro sottaciuto che rimangono, al momento, ancora dubbi applicativi su alcune delle ipotesi previste dalla determinazione dell’ANAC n. 1 dell'8 gennaio 2015. Per esempio, la mancata sottoscrizione dell'offerta o della domanda di partecipazione da parte del titolare o del legale rappresentante dell'impresa o di altro soggetto munito di rappresentanza; in siffatta ipotesi, l'Autorità anticorruzione prevede la possibile regolarizzazione dell'offerta, mentre una recente pronuncia giurisprudenziale ha stabilito la legittimità dell'esclusione. In merito al fatto che, nel soccorso istruttorio “oneroso” la sanzione sia dovuta anche in caso di rinunzia alla regolarizzazione, è intervenuta un’importante pronuncia del giudice amministrativo di prime cure. Il T.A.R. ha dato risposta positiva, motivando che l’esclusione del concorrente che non si avvale del soccorso istruttorio è una sanzione «diversa e in parte autonoma» dalla sanzione pecuniaria e l’applicazione della prima non è idonea a far venire meno la seconda (20). Ulteriore problematica ad oggi irrisolta concerne la possibilità di escludere il concorrente in caso di mancata presentazione della cauzione provvisoria. In proposito, l'ANAC afferma che debba determinarsi l'esclusione soltanto in caso di totale mancanza della cauzione. In maniera diametralmente opposta, la giurisprudenza amministrativa postula come la mancanza o l'irregolarità della cauzione provvisoria, pur incidendo sul contenuto dell'offerta, non ne determina l’"l'incertezza assoluta" e ciò in ragione della funzione meramente accessoria riconosciuta alla stessa (21). Successivamente alla suindicata determinazione dell’ANAC n. 1 dell’8 gennaio 2015, è entrato in vigore il nuovo codice degli appalti e delle concessioni (d.lgs. n. 50 del 18 aprile 2016) a seguito dell’attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE. Nel nuovo codice degli appalti (d.lgs. n. 50 del 18 aprile 2016) il soccorso istruttorio è stato previsto e disciplinato dall’art. 83 e consta di 10 commi che richiedono una disamina. L’articolo 83 ha recepito l’art. 58 della direttiva 2014/24/UE e dato attuazione all’art. 1 lettera z) della legge n. 11 del 2016. In analogia a quanto previsto dal d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2006, l’art. 83 coordina ed armonizza le disposizioni vigenti concernenti i criteri di sele- (19) Determinazione n. 1 dell’8 gennaio 2015. (20) T.a.r. dell’Abruzzo, L'Aquila, sezione I, 25 novembre 2015, n. 784. (21) T.a.r. Roma, sezione III, 10 giugno 2015, n. 8143. 298 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 zione che possono riguardare, esclusivamente, i requisiti di idoneità professionale, la capacità economica e finanziaria e le capacità tecniche e professionali (art. 83 comma 1). I suindicati requisiti devono essere attinenti e proporzionati all’oggetto dell’appalto, tenendo conto dell’interesse pubblico ad avere il più ampio numero di partecipanti alla luce dei principi di trasparenza e rotazione. Per gli appalti di lavori è stato previsto che, con le linee guida a carattere vincolante dell’ANAC, da adottare entro un anno dalla data di entrata in vigore del nuovo Codice (d.lgs. n. 50 del 18 aprile 2016) previo parere delle competenti Commissioni parlamentari, siano disciplinati, nel rispetto dei principi di cui al presente articolo e anche al fine di favorire l’accesso da parte delle microimprese e delle piccole e medie imprese, il sistema di qualificazione, i casi e le modalità di avvalimento, i requisiti che devono essere posseduti dal concorrente e la documentazione richiesta ai fini della dimostrazione del loro possesso (art. 83 comma 2). Per la sussistenza dei requisiti di idoneità professionale indicati nella lettera a) del primo comma dell’art. 83, i concorrenti alle gare, se cittadini italiani o di altro Stato membro residenti in Italia, debbano essere iscritti nel registro della Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura o nel registro delle Commissioni provinciali per l’artigianato, o presso i competenti ordini professionali. Al cittadino di altro Stato membro non residente in Italia, è richiesta la prova dell’iscrizione, secondo le modalità vigenti nello Stato di residenza, in uno dei registri professionali o commerciali mediante dichiarazione giurata o secondo le modalità vigenti nello Stato membro nel quale è stabilito ovvero mediante attestazione, sotto la propria responsabilità, che il certificato prodotto è stato rilasciato da uno dei registri professionali o commerciali istituiti nel Paese in cui si è residenti. Nelle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi, se i candidati o gli offerenti devono essere in possesso di una particolare autorizzazione ovvero appartenere a una particolare organizzazione per poter prestare nel proprio Paese d'origine i servizi in questione, la stazione appaltante può chiedere loro di provare il possesso di tale autorizzazione ovvero l'appartenenza all'organizzazione (art. 83 comma 3). Per gli appalti di servizi e forniture, ai fini della verifica del possesso dei requisiti di capacità economica e finanziaria, previsti e disciplinati nella lettera b del comma 1 dell’art. 83, le stazioni appaltanti, nel bando di gara, possono richiedere: a) che gli operatori economici abbiano un fatturato minimo annuo, compreso un determinato fatturato minimo nel settore di attività oggetto dell'appalto; b) che gli operatori economici forniscano informazioni riguardo ai loro conti annuali che evidenzino in particolare i rapporti tra attività e passività; CONTRIBUTI DI DOTTRINA 299 c) un livello adeguato di copertura assicurativa contro i rischi professionali (art. 83 comma 4). È stato introdotto per la prima volta il requisito del fatturato minimo annuo richiesto. Più nel dettaglio, il fatturato minimo annuo richiesto non può comunque superare il doppio del valore stimato dell'appalto, salvo in circostanze adeguatamente motivate relative ai rischi specifici connessi alla natura dei lavori, servizi e forniture e la stazione appaltante, ove richieda un fatturato minimo annuo, ne indica la ragione nei documenti di gara. Circa il fatturato, si prevedono specifiche disposizioni per gli appalti divisi in lotti, per gli appalti basati su un accordo quadro, per il caso di sistemi dinamici di acquisizione (art. 83 comma 5). Circa i requisiti concernenti le capacità tecniche e professionali previste e disciplinate nella lettera c del comma 1 dell’art. 83, le stazioni appaltanti possono richiedere requisiti per garantire che gli operatori economici possiedano le risorse umane e tecniche e l’esperienza necessarie per eseguire l’appalto con un adeguato standard di qualità. Nelle procedure d’appalto per forniture che necessitano di lavori di posa in opera e di installazione, servizi o lavori, la capacità professionale degli operatori economici di fornire tali servizi o di eseguire l’installazione o i lavori deve essere valutata con riferimento alla loro competenza, efficienza e affidabilità. Le informazioni richieste non possono eccedere l’oggetto dell’appalto (art. 83 comma 6). Merita richiamare un’altra importante disposizione che non trova corrispondenza nella direttiva e che è stata introdotta in attuazione della parte del criterio di delega di cui alle lettere uu) ove infatti si prevede la “verifica formale e sostanziale delle capacità realizzative, delle competenze tecniche e professionali, ivi comprese le risorse umane, organiche all’impresa, nonché delle attività effettivamente eseguite”. Si riporta integralmente la suindicata disposizione “il bando di gara o l’invito a confermare interesse, deve contenere l’indicazione delle condizioni di partecipazioni richieste, che possono essere espresse come livelli minimi di capacità, congiuntamente agli idonei mezzi di prova”. La novità più rilevante è contenuta nel comma 9 del suindicato articolo 83, nel quale si prevede l’ammissibilità del soccorso istruttorio per sanare le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda e, in aderenza al criterio di cui alla lettera z) della legge delega (ove si prevede la “riduzione degli oneri documentali ed economici della piena possibilità di integrazione documentale non onerosa di qualsiasi elementi di natura formale della domanda, purché non attenga agli elementi oggetto di valutazioni sul merito dell’offerta”) riduce l’importo della sanzione prevista per le irregolarità sostanziali. È stato fatto chiarimento sulla quietanza di pagamento che deve essere 300 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 presentata contestualmente alle integrazioni, eliminando la possibilità di decurtazione dell’importo della sanzione dalla cauzione provvisoria versata in aderenza alla recente giurisprudenza che ritiene che l’importo della cauzione deve servire solo alla copertura dei rischi e non può estendersi a coprire anche sanzioni. In particolare, il comma 9 prevede che la mancanza, l’incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del documento di gara unico europeo, con esclusione di quelle afferenti all’offerta tecnica ed economica, obbliga il concorrente che vi ha dato causa al pagamento, in favore della stazione appaltante, della sanzione pecuniaria dal bando di gara, in misura non inferiore all’uno per mille e non superiore all’uno per cento del valore della gara e comunque non superiore a 5000 euro. In tal caso, la stazione appaltante assegna al concorrente un termine non superiore a dieci giorni, perché siano rese integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i soggetti che le devono rendere, da presentare contestualmente al documento comprovante l’avvenuto pagamento della sanzione, a pena di esclusione. Nei casi di irregolarità formali, ovvero di mancanza o incompletezza di dichiarazioni non essenziali, la stazione appaltante ne richiede comunque la regolarizzazione con la procedura di cui al periodo precedente, ma non applica alcuna sanzione. In caso di inutile decorso del termine di regolarizzazione, il concorrente è escluso dalla gara. Tale disposizione fa una importante precisazione sulle irregolarità essenziali che altro non sono se non carenze della documentazione che non consentono l’individuazione del o dei soggetti responsabili della stessa. Infine, anche il comma 10 dell’art. 83 introduce un elemento di assoluta novità ed in coerenza al criterio di delega di cui alla lettera uu), ove si prevede l’introduzione di “misure di premialità, regolate da un’apposita disciplina generale fissata dall’ANAC con propria determinazione e connesse a criteri reputazionali basati su parametri oggettivi e misurabili su accertamenti definitivi concernenti il rispetto dei tempi e dei costi nell’esecuzione dei contratti e la gestione dei contenziosi, nonché assicurando gli opportuni raccordi con la normativa vigente in materia di rating di legalità”, istituisce presso l’ANAC che ne cura la gestione, il sistema del rating di impresa e delle relative penalità e premialità, da applicarsi ai soli fini della qualificazione delle imprese, per il quale l’Autorità rilascia apposita certificazione. Il suddetto sistema è connesso a requisiti reputazionali valutati sulla base di indici qualitativi e quantitativi, oggettivi e misurabili, nonché sulla base di accertamenti definitivi che esprimono la capacità strutturale e di affidabilità dell’impresa. L’ANAC definisce i requisiti reputazionali e i criteri di valutazione degli stessi, nonché le modalità di rilascio della relativa certificazione, mediante linee guida adottate entro tre mesi dalla data di entrata in vigore del presente Codice. Rientra nell’ambito dell’attività di gestione del suddetto sistema la CONTRIBUTI DI DOTTRINA 301 determinazione da parte di ANAC di misure sanzionatorie amministrative nei casi di omessa o tardiva denuncia obbligatoria delle richieste estorsive e corruttive da parte delle imprese titolari di contratti pubblici, comprese le imprese subappaltatrici e le imprese fornitrici di materiali, opere e servizi. I requisiti reputazionali alla base del rating di impresa tengono conto, in particolare del rating di legalità rilevato dall’ANAC in collaborazione con l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, ai sensi dell’articolo 213, comma 7, nonché dei precedenti comportamentali dell’impresa, con riferimento al rispetto dei tempi e dei costi nell’esecuzione dei contratti, all’incidenza del contenzioso sia in sede di partecipazione alle procedure di gara che in fase di esecuzione del contratto. Tengono conto altresì della regolarità contributiva, ivi compresi i versamenti alle Casse edili, valutata con riferimento ai tre anni precedenti. 4. Conclusioni. Alla luce delle considerazioni fin qui effettuate, è forse prematuro effettuare ragionevoli previsioni sulla procedura del soccorso istruttorio, a cagione del fatto che detto istituto, sebbene implicitamente riconosciuto dal diritto comunitario e precisamente dall’articolo 27 della Direttiva 71/305/CEE del Consiglio del 26 luglio 1971, nel nostro ordinamento giuridico esso è stato positivizzato soltanto da pochi mesi. Per il momento, si può affermare come il legislatore ha avuto il merito di aver codificato, in maniera sintetica, raccogliendo in un’unica norma, l’istituto giuridico del soccorso istruttorio, anche e soprattutto sulla spinta delle suindicate aperture giurisprudenziali e compatibilmente con i principi dettati dalla determinazione dell’ANAC n. 1 dell’8 giugno 2015. Le differenze tra la vecchia e la nuova disciplina sono evidenti; basta scorrere il vecchio codice dei appalti pubblici (d.lgs. n. 163 del 12 aprile 2006), leggere gli articoli 38 e 46, e confrontarli con il nuovo art. 83 del d.lgs. n. 50 del 18 aprile 2016. L’art. 38 si limitava a disciplinare i requisiti di ordine generale per la partecipazione alle gare, mentre l’art. 46 che inizialmente disciplinava i documenti e le informazioni complementari, ha poi esteso la disciplina alle cause di tassatività di esclusione, con il d.l. n. 70 del 14 maggio 2011 e da ultimo con il d.l. n. 90 del 24 giugno 2014. Con riferimento alla procedura del soccorso istruttorio, il d.lgs. n. 50 del 18 aprile 2016, all’art. 83 c. 9, ha stabilito che “la mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del documento di gara unico europeo […], con esclusione di quelle afferenti all’offerta tecnica ed economica” può essere regolarizzata, su richiesta della stazione appaltante ed entro il termine (non superiore a dieci giorni) da questa stabilito. Sul problema dell’onerosità dell’istituto, su cui a lungo si è dibattuto, la 302 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 soluzione operata dal nuovo codice dei contratti pubblici (art. 83, c. 9) pare equilibrata; in particolare, come sopra detto, esso prevede una sanzione pecuniaria (stabilita dal bando di gara), in misura non inferiore all'uno per mille e non superiore all'uno per cento del valore della gara e comunque non superiore a 5.000 euro (da versare solo nel caso di regolarizzazione) che però non si applica nel caso di “irregolarità formali, ovvero di mancanza o incompletezza di dichiarazioni non essenziali”. Viene anche previsto che, in caso di inutile decorso del termine di regolarizzazione, il concorrente è escluso dalla gara e che costituiscono irregolarità essenziali non sanabili “le carenze della documentazione che non consentono l’individuazione del contenuto o del soggetto responsabile della stessa”. Come già detto, in misura positivamente critica, è opportuno evidenziare la natura innovativa dell’istituto in parola rispetto alla precedente disciplina. A tale riguardo si cita il comma 10 della medesima disposizione, che codifica in qualche modo i poteri di intervento dell’ANAC nelle procedure di gara, al fine di garantire maggiore trasparenza e per il perseguimento dell’attività amministrativa nel rispetto dei criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza [...], nonché dei principi dell'ordinamento comunitario previsti e disciplinati dall’art. 1 della legge n. 241 del 7 agosto 1990. Infatti, nell’art. 83 comma 10 si legge che è stato istituito presso l’ANAC che ne cura la gestione, il sistema del rating di impresa e il sistema del rating di impresa e delle relative penalità e premialità, da applicarsi ai soli fini della qualificazione delle imprese, per il quale l'Autorità rilascia apposita certificazione. Il suddetto sistema è connesso a requisiti reputazionali valutati sulla base di indici qualitativi e quantitativi, oggettivi e misurabili, nonché sulla base di accertamenti definitivi che esprimono la capacità strutturale e di affidabilità dell'impresa. L'ANAC definisce i requisiti reputazionali e i criteri di valutazione degli stessi, nonché le modalità di rilascio della relativa certificazione, mediante linee guida adottate entro tre mesi dalla data di entrata in vigore del presente codice. Rientra nell'ambito dell'attività di gestione del suddetto sistema la determinazione da parte di ANAC di misure sanzionatorie amministrative nei casi di omessa o tardiva denuncia obbligatoria delle richieste estorsive e corruttive da parte delle imprese titolari di contratti pubblici, comprese le imprese subappaltatrici e le imprese fornitrici di materiali, opere e servizi. I requisiti reputazionali alla base del rating di impresa di cui al presente comma tengono conto, in particolare, del rating di legalità rilevato dall'ANAC in collaborazione con l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, ai sensi dell'articolo 213, comma 7, nonché dei precedenti comportamentali dell'impresa, con riferimento al rispetto dei tempi e dei costi nell'esecuzione dei contratti, all'incidenza del contenzioso sia in sede di partecipazione alle procedure di gara che in fase di esecuzione del contratto. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 303 Tengono conto altresì della regolarità contributiva, ivi compresi i versamenti alle Casse edili, valutata con riferimento ai tre anni precedenti. Un’ultima conferma di quanto appena detto è nel secondo comma del citato articolo 83 del d.lgs. n. 50 del 18 aprile 2006, (che comunque va letto in combinato disposto con il comma 1) per quanto attiene ai requisiti ed alle capacità delle imprese, in particolare all’inciso “per i lavori, con linee guida dell'ANAC”. In tal modo il legislatore, conformandosi integralmente al diritto comunitario, con l’attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell'acqua, dell'energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture e, con il nuovo codice degli appalti pubblici (d.lgs. n. 50 del 18 aprile 2016), ha conferito nuovi poteri all’ANAC, in attesa dei prossimi riscontri giurisprudenziali (*), che sicuramente saranno utili, a parere di chi scrive, per informare e suggerire al legislatore i prossimi interventi sulla disciplina del soccorso istruttorio. (*) Si pubblica l’ordinanza della Corte di Giustizia in causa C-140/16 (ndr). « Con l’allegata ordinanza la Corte di Giustizia ha risolto la questione della legittimità dell'esclusione dalla gara del concorrente che non abbia indicato separatamente i costi di sicurezza aziendale. Andando di contrario avviso rispetto al Consiglio di Stato - che si era pronunciato in Adunanza Plenaria due volte nel senso della legittimità dell'esclusione - la Corte di giustizia ha invece risposto al quesito posto dal giudice di rinvio nel senso che: "Il principio della parità di trattamento e l'obbligo di trasparenza, come attuati dalla direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, devono essere interpretati nel senso che ostano all'esclusione di un offerente dalla procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico a seguito dell'inosservanza, da parte di detto offerente, dell'obbligo di indicare separatamente nell'offerta i costi aziendali per la sicurezza sul lavoro, obbligo il cui mancato rispetto è sanzionato con l'esclusione dalla procedura e che non risulta espressamente dai documenti di gara o dalla normativa nazionale, bensì emerge da un'interpretazione di tale normativa e dal meccanismo diretto a colmare, con l'intervento del giudice nazionale di ultima istanza, le lacune presenti in tali documenti. I principi della parità di trattamento e di proporzionalità devono inoltre essere interpretati nel senso che non ostano al fatto di concedere a un tale offerente la possibilità di rimediare alla situazione e di adempiere detto obbligo entro un termine fissato dall'amministrazione aggiudicatrice". Dunque, il ricorso all'istituto del c.d. "soccorso istruttorio" è stato individuato dalla Corte come il rimedio alla mancata separata indicazione dei costi di sicurezza aziendale. 304 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Nello stesso senso la Corte si è già pronunciata anche nella causa C-162/2016» (Annotazione e segnalazione dell’avv. Stato Carla Colelli ) ORDINANZA DELLA CORTE (Sesta Sezione) 10 novembre 2016 «Rinvio pregiudiziale - Articolo 99 del regolamento di procedura della Corte - Appalti pubblici - Direttiva 2004/18/CE - Direttiva 2014/24/UE - Partecipazione a una procedura di gara - Offerente che ha omesso di indicare nell'offerta i costi aziendali per la sicurezza sul lavoro - Obbligo giurisprudenziale di fornire tale indicazione - Esclusione dall'appalto senza possibilità di rettificare tale omissione» Nella causa C-140/16, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell' articolo 267 TFUE, dal Tribunale amministrativo regionale per le Marche (Italia), con ordinanza del 5 febbraio 2016, pervenuta in cancelleria il 7 marzo 2016, nel procedimento Edra Costruzioni Soc. coop., Edilfac Srl contro Comune di Maiolati Spontini, nei confronti di: Torelli Dottori SpA, LA CORTE (Sesta Sezione), composta da A. Arabadjiev, facente funzione di presidente di sezione, C.G.Fernlund e S. Rodin (relatore), giudici, avvocato generale: M. Campos Sànchez- Bordona cancelliere: A. Calot Escobar vista la decisione, adottata dopo aver sentito l'avvocato generale, di statuire con ordinanza motivata, conformemente all'articolo 99 del regolamento di procedura della Corte, ha emesso la seguente Ordinanza 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione dei principi della tutela del legittimo affidamento e della certezza del diritto, letti congiuntamente ai principi della libera circolazione delle merci, della libertà di stabilimento, della libera prestazione di servizi, della parità di trattamento, di non discriminazione, di mutuo riconoscimento, di proporzionalità, di trasparenza, richiamati dalla direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE (GU 2014, L 94, pag. 65). 2 Tale domanda è stata presentata nell' ambito di due controversie che contrappongono, rispettivamente, l'Edra Costruzioni Soc. coop. e l'Edilfac Srl al Comune di Maiolati Spontini (Italia) in merito alle decisioni di esclusione di dette società dalla procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico e di affidamento di tale appalto a un'impresa terza. Contesto normativo Il diritto dell 'Unione 3 L'articolo 2 della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi (GU 2004, L 134, pago 114), così disponeva: «Le amministrazioni aggiudicatrici trattano gli operatori economici su un piano di parità, in modo non discriminatorio e agiscono con trasparenza». 4 Ai sensi dell'articolo 18, paragrafo 1, primo comma, della direttiva 2014/24: «Le amministrazioni aggiudicatrici trattano gli operatori economici su un piano di parità e in modo non discriminatorio e agiscono in maniera trasparente e proporzionata» . 5 L'articolo 56, paragrafo 3, di tale direttiva stabilisce quanto segue: «Se le informazioni o la documentazione che gli operatori economici devono presentare sono o sembrano essere incomplete o non corrette, o se mancano documenti specifici, le amministrazioni ag- CONTRIBUTI DI DOTTRINA 305 giudicatrici possono chiedere, salvo disposizione contraria del diritto nazionale che attua la presente direttiva, agli operatori economici interessati di presentare, integrare, chiarire o completare le informazioni o la documentazione in questione entro un termine adeguato, a condizione che tale richiesta sia effettuata nella piena osservanza dei principi di parità di trattamento e trasparenza». Il diritto italiano 6 L'articolo 86, comma 3 bis, del decreto legislativo n. 163, del 12 aprile 2006, recante Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE (Supplemento ordinario alla GURI n. 100, del 2 maggio 2006), come modificato dal decreto legislativo n. 152, dell' 11 settembre 2008 (Supplemento ordinario alla GURI n. 231, del 2 ottobre 2008; in prosieguo: il «decreto legislativo n. 163/2006»), così dispone: «Nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell'anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all'entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture. Ai fini del presente comma il costo del lavoro è determinato periodicamente, in apposite tabelle, dal Ministro del lavoro e della previdenza sociale, sulla base dei valori economici previsti dalla contrattazione collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più rappresentativi, delle norme in materia previdenziale ed assistenziale, dei diversi settori merceologici e delle differenti aree territoriali. In mancanza di contratto collettivo applicabile, il costo del lavoro è determinato in relazione al contratto collettivo del settore merceologico più vicino a quello preso in considerazione». 7 Ai sensi dell'articolo 87, comma 4, del decreto legislativo n. 163/2006: «Non sono ammesse giustificazioni in relazione agli oneri di sicurezza in conformità all'articolo 131, nonché al piano di sicurezza e coordinamento di cui all'articolo 12, decreto legislativo 14 agosto 1996, n. 494 e alla relativa stima dei costi conforme all'articolo 7, decreto del Presidente della Repubblica 3 luglio 2003, n.222. Nella valutazione dell'anomalia la stazione appaltante tiene conto dei costi relativi alla sicurezza, che devono essere specificamente indicati nell'offerta e risultare congrui rispetto all'entità e alle caratteristiche dei servizi o delle forniture». 8 L'articolo 26, comma 6, del decreto legislativo n.81, del 9 aprile 2008, recante attuazione dell'articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, così dispone: «Nella predisposizione delle gare di appalto e nella valutazione dell'anomalia delle offerte nelle procedure di affidamento di appalti di lavori pubblici, di servizi e di forniture, gli enti aggiudicatori sono tenuti a valutare che il valore economico sia adeguato e sufficiente rispetto al costo del lavoro e al costo relativo alla sicurezza, il quale deve essere specificamente indicato e risultare congruo rispetto all'entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi o delle forniture. Ai fini del presente comma il costo del lavoro è determinato periodicamente, in apposite tabelle, dal Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali, sulla base dei valori economici previsti dalla contrattazione collettiva stipulata dai sindacati comparativamente più rappresentativi, delle norme in materia previdenziale ed assistenziale, dei diversi settori merceologici e delle differenti aree territoriali. In mancanza di contratto collettivo applicabile, il costo del lavoro è determinato in relazione al contratto collettivo del settore merceologico più vicino a quello preso in considerazione». Procedimento principale e questione pregiudiziale 9 Con bando del 22 aprile 2015, il Comune di Maiolati Spontini ha avviato una procedura di gara aperta per l'aggiudicazione di un appalto pubblico di lavori aventi ad oggetto la costruzione di un nuovo polo scolastico. La base d'asta era pari a EUR 3 250 179,50. Il criterio di aggiudicazione prescelto era quello dell' offerta economicamente più vantaggiosa. l0 Il termine per la presentazione delle offerte è scaduto il 22 giugno 2015. 11 L'Edra Costruzioni e l'Edilfac hanno formulato le loro offerte seguendo le indicazioni riportate nel disciplinare di gara. 12 Dopo la valutazione delle loro offerte tecniche, l'Edra Costruzioni e l'Edilfac sono state escluse dalla procedura di aggiudicazione, con la sola motivazione che le loro offerte economiche non specificavano i costi interni per la sicurezza sul lavoro. L'obbligo di specificare detti costi nelle offerte non era previsto nella documentazione di gara, ma risulterebbe, secondo il giudice del rinvio, dalla nor- 306 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 mativa nazionale, come interpretata dal Consiglio di Stato (Italia) nella sua sentenza n. 3 del 20 marzo 2015, pronunciata in Adunanza plenaria. 13 Con tale sentenza, il Consiglio di Stato avrebbe dichiarato che, nell'ambito delle procedure di affidamento relative ad appalti pubblici di lavori, gli offerenti dovevano obbligatoriamente indicare, nella loro «offerta economica», i costi interni per la sicurezza aziendale, pena l'esclusione dalla procedura, e ciò anche se tale obbligo e le conseguenze della sua inosservanza non erano previsti neidocumenti di gara. 14 Con sentenza n. 9, del 2 novembre 2015, l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, confermando la propria interpretazione, avrebbe precisato: «Non sono legittimamente esercitabili i poteri attinenti al soccorso istruttorio, nel caso di omessa indicazione degli oneri di sicurezza aziendali, anche per le procedure nelle quali la fase della presentazione delle offerte si è conclusa prima della pubblicazione della decisione dell'Adunanza Plenaria n. 3 del 2015». 15 Il Comune di Maiolati Spontini, in applicazione di tale sentenza del 2 novembre 2015, ha negato alle ricorrenti nel procedimento principale, in sede di aggiudicazione definitiva dell'appalto in questione, l'esercizio del soccorso istruttorio. 16 Sia l'Edra Costruzioni sia l'Edilfac hanno proposto ricorso dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per le Marche (Italia) al fine di ottenere l'annullamento delle decisioni che le escludevano dalla procedura di aggiudicazione dell'appalto di cui trattasi e di quella che attribuiva l'appalto a un'impresa terza, la riammissione alla procedura di gara nonché il risarcimento del danno che ritengono di avere subìto. 17 Detto giudice precisa di aver respinto l'istanza cautelare presentata dall'Edra Costruzioni, dal momento che le decisioni dell' amministrazione aggiudicatrice di cui veniva chiesta la sospensione derivavano dalla stretta applicazione delle summenzionate sentenze del Consiglio di Stato. 18 In tale contesto, il Tribunale amministrativo regionale per le Marche ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale: «Se i principi comunitari di tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto, unitamente ai principi di libera circolazione delle merci, di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui al Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea (TFUE), nonché i principi che ne derivano, come la parità di trattamento, la non discriminazione, il mutuo riconoscimento, la proporzionalità e la trasparenza, di cui (da ultimo) alla direttiva n. 2014/24/UE, ostino ad una normativa nazionale, quale quella italiana derivante dal combinato disposto degli artt. 87, comma 4, e 86, comma 3-bis, del d.lgs. n. 163 del 2006, e dall'art. 26, comma 6, del d.lgs. n. 81 del 2008, così come interpretato, in funzione nomofilattica, ai sensi dell'art. 99 cod. proc. amm., dalle sentenze dell' Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nn. 3 e 9 del 2015, secondo la quale l'omessa separata indicazione dei costi di sicurezza aziendale, nelle offerte economiche di una procedura di affidamento di lavori pubblici, determina, in ogni caso, l'esclusione della ditta offerente senza possibilità di soccorso istruttorio e di contraddittorio, anche nell'ipotesi in cui l'obbligo di indicazione separata non sia stato specificato né nella legge di gara né nell'allegato modello di compilazioneper la presentazione delle offerte, ed anche a prescindere dalla circostanza che, dal punto di vista sostanziale, l'offerta rispetti effettivamente l costi minimi disicurezza aziendale». Sulla questione pregiudiziale Osservazioni preliminari 19 Ai sensi dell'articolo 99 del regolamento di procedura della Corte, quando una questione pregiudiziale è identica a una questione sulla quale essa ha già statuito, quando la risposta a tale questione può essere chiaramente desunta dalla giurisprudenza o quando la risposta alla questione pregiudiziale non dà adito a nessun ragionevole dubbio, la Corte, su proposta del giudice relatore, sentito l'avvocato generale, può statuire in qualsiasi momento con ordinanza motivata. 20 Nella sua sentenza del 2 giugno 2016, Pizzo (C-27/15, EU:C:2016:404), la Corte è stata chiamata a pronunciarsi su questioni sostanzialmente identiche a quelle sollevate nella presente causa dal Tribunale amministrativo regionale per le Marche. 21 Dato che le risposte fornite da tale sentenza risultano pienamente trasponibili alla presente causa, è opportuno applicare la summenzionata norma procedurale. Sulla direttiva applicabile CONTRIBUTI DI DOTTRINA 307 22 In limine, occorre ricordare che la sentenza del 2 giugno 2016, Pizzo (C-27/15, EU:C:2016:404) ha fornito un'interpretazione delle disposizioni della direttiva 2004/18. Tale direttiva è stata abrogata dalla direttiva 2014/24, con effetto dal 18 aprile 2016. 23 L'articolo 90 della direttiva 2014/24 dispone che gli Stati membri devono mettere in vigore le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi a tale direttiva entro il 18 aprile 2016, fatte salve talune deroghe tra cui, in particolare, quelle relative agli appalti pubblici elettronici, per le quali il termine di trasposizione è fissato al 18 ottobre 2018. 24 Di conseguenza, alla data dei fatti di cui al procedimento principale, la direttiva 2004/18 era ancora applicabile, ragion per cui occorre leggere la domanda di pronuncia pregiudiziale come riferita all'interpretazione di quest'ultima direttiva, e non della direttiva 2014/24. Nel merito 25 Con la sua questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se il principio della parità di trattamento e l'obbligo di trasparenza, come attuati dalla direttiva 2004/18, debbano essere interpretati nel senso che ostano all' esclusione di un offerente dalla procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico a seguito dell'inosservanza, da parte di detto offerente, dell'obbligo di indicare separatamente nell'offerta i costi aziendali per la sicurezza sul lavoro, obbligo il cui mancato rispetto è sanzionato con l'esclusione dalla procedura e che non risulta espressamente dai documenti di gara o dalla normativa nazionale, bensì emerge da un'interpretazione di tale normativa e dal meccanismo diretto a colmare, con l'intervento del giudice nazionale, le lacune presenti in tali documenti. 26 Al fine di rispondere a tale questione, occorre ricordare, in via preliminare, da un lato, che il principio della parità di trattamento impone che tutti gli offerenti dispongano delle stesse possibilità nella formulazione dei termini delle loro offerte e implica quindi che tali offerte siano soggette alle medesime condizioni per tutti gli offerenti. Dall'altro lato, l'obbligo di trasparenza, che ne costituisce il corollario, ha come scopo quello di eliminare i rischi di favoritismo e di arbitrio da parte dell'amministrazione aggiudicatrice (sentenza del 2 giugno 2016, Pizzo, C-27/15, EU:C:2016:404, punto 36 e giurisprudenza ivi citata). 27 Tale obbligo implica che tutte le condizioni e le modalità della procedura di aggiudicazione siano formulate in maniera chiara, precisa e univoca nel bando di gara o nel capitolato d'oneri, così da permettere, in primo luogo, a tutti gli offerenti ragionevolmente informati e normalmente diligenti di comprenderne l'esatta portata e d'interpretarle allo stesso modo e, in secondo luogo, all'amministrazione aggiudicatrice di essere in grado di verificare effettivamente se le offerte degli offerenti rispondono ai criteri che disciplinano l'appalto in questione (sentenza del 2 giugno 2016, Pizzo, C-27/15, EU:C:2016:404, punto 36 e giurisprudenza ivi citata). 28 La Corte ha altresì precisato che i principi di trasparenza e della parità di trattamento richiedono che le condizioni sostanziali e procedurali relative alla partecipazione a un appalto siano chiaramente definite in anticipo e rese pubbliche, in particolare gli obblighi a carico degli offerenti, affinché questi ultimi possano conoscere esattamente i vincoli procedurali ed essere assicurati del fatto che gli stessi vincoli valgono per tutti i concorrenti (sentenza del 2 giugno 2016, Pizzo, C-27/15, EU:C:2016:404, punto 37 e giurisprudenza ivi citata). 29 Inoltre, occorre rilevare che la direttiva 2004/18, all'allegato VII A, relativo alle informazioni che devono figurare nei bandi e negli avvisi di appalti pubblici, nella sua parte relativa al «Bando di gara», punto 17, prevede che i «[c]riteri di selezione riguardanti la situazione personale degli operatori che possono comportarne l'esclusione e [le] informazioni necessarie a dimostrare che non rientrano in casi che giustificano l'esclusione» dalla procedura di aggiudicazione dell'appalto in questione debbano essere menzionati nel bando di gara (v. sentenza del 2 giugno 2016, Pizzo, C-27/15, EU:C:2016:404, punto 38). 30 Nelle controversie principali, il giudice del rinvio precisa che l'obbligo di indicareseparatamente nell' offerta i costi aziendali per la sicurezza sul lavoro, pena l'esclusione dalla procedura di aggiudicazione dell'appalto, non era previsto né dal bando di gara né espressamente dalla legge. 31 Come esposto da detto giudice, tale obbligo risulterebbe dall'interpretazione della normativa nazionale ad opera del Consiglio di Stato. 32 Si deve rilevare che, in applicazione dell'articolo 27, paragrafo 1, della direttiva 2004/18, l'amministrazione aggiudicatrice può precisare o può essere obbligata da uno Stato membro a precisare nel capitolato d'oneri l'organismo o gli organismi dai quali i candidati o gli offerenti possono ottenere le 308 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 pertinenti informazioni sugli obblighi relativi alla fiscalità, alla tutela dell'ambiente, alle disposizioni in materia di sicurezza e alle condizioni di lavoro che sono in vigore nello Stato membro. Tuttavia, dalle disposizioni di tale direttiva, in particolare dagli articoli da 49 a 51 della stessa, non emerge che la mancanza di indicazioni, da parte degliofferenti, del rispetto di tali obblighi determini automaticamente l'esclusione dallaprocedura di aggiudicazione (v., in tal senso, sentenza del 2 giugno 2016, Pizzo, C-27/15, EU:C:2016:404, punto 43). 33 Una condizione, derivante dall'interpretazione del diritto nazionale e dalla prassidi un'autorità, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, chesubordini il diritto di partecipare a una procedura di aggiudicazione sarebbeparticolarmente sfavorevole per gli offerenti stabiliti in altri Stati membri, il cuigrado di conoscenza del diritto nazionale e della sua interpretazione nonché della prassi delle autorità nazionali non può essere comparato a quello degli offerenti nazionali (sentenza del 2 giugno 2016, Pizzo, C-27/15, EU:C:2016:404, punto46). 34 Nell'ipotesi In cui, come nelle controversie principali, una condizione per lapartecipazione alla procedura di aggiudicazione, pena l'esclusione da quest'ultima, non sia espressamente prevista dai documenti dell'appalto e possa essere identificata solo con un'interpretazione giurisprudenziale del diritto nazionale, l'amministrazione aggiudicatrice può accordare all'offerente escluso un termine sufficiente per regolarizzare la sua omissione (sentenza del 2 giugno 2016, Pizzo, C-27/15, EU:C:2016:404, punto 50). 35 Come risulta dall'insieme delle suesposte considerazioni, occorre rispondere alla questione posta dichiarando che il principio della parità di trattamento e l'obbligo di trasparenza, come attuati dalla direttiva 2004/18, devono essere interpretati nel senso che ostano all'esclusione di un offerente dalla procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico a seguito dell'inosservanza, da parte di detto offerente, dell'obbligo di indicare separatamente nell'offerta i costi aziendali per la sicurezza sul lavoro, obbligo il cui mancato rispetto è sanzionato con l'esclusione dalla procedura e che non risulta espressamente dai documenti di gara o dalla normativa nazionale, bensì emerge da un'interpretazione di tale normativa e dal meccanismo diretto a colmare, con l'intervento del giudice nazionale di ultima istanza, le lacune presenti in tali documenti. I principi della parità di trattamento e di proporzionalità devono inoltre essere interpretati nel senso che non ostano al fatto di concedere a un tale offerente la possibilità di rimediare alla situazione e di adempiere detto obbligo entro un termine fissato dall'amministrazione aggiudicatrice. Sulle spese 36 Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Per questi motivi, la Corte (Sesta Sezione) dichiara: Il principio della parità di trattamento e l'obbligo di trasparenza, come attuati dalla direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, devono essere interpretati nel senso che ostano all'esclusione di un offerente dalla procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico a seguito dell'inosservanza, da parte di detto offerente, dell'obbligo di indicare separatamente nell'offerta i costi aziendali per la sicurezza sul lavoro, obbligo il cui mancato rispetto è sanzionato con l'esclusione dalla procedura e che non risulta espressamente dai documenti di gara o dalla normativa nazionale, bensì emerge da un'interpretazione di tale normativa e dal meccanismo diretto a colmare, con l'intervento del giudice nazionale di ultima istanza, le lacune presenti in tali documenti. I principi della parità di trattamento e di proporzionalità devono inoltre essere interpretati nel senso che non ostano al fatto di concedere a un tale offerente la possibilità di rimediare alla situazione e di adempiere detto obbligo entro un termine fissato dall' amministrazione aggiudicatrice. Lussemburgo, 10 novembre 2016 RECENSIONI LUCIANO MUSSELLI, Società civile e società religiosa tra diritto e storia. Scritti scelti, a cura di MARIA VISMARAMISSIROLI, MICHELEMADONNA, ALESSANDRO TIRA, CESARE EDOARDO VARALDA. PUBBLICAZIONI DELLA UNIVERSITÀ DI PAVIA FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA, STUDI NELLE SCIENZE GIURIDICHE E SOCIALI (WOLTERS KLUWER / CEDAM, 2016, P.P. I-XXIV, 362) Premessa Michele Madonna (*) Nel corso dei lavori del convegno per il trentennale dell’Accordo di Villa Madama, svoltosi a Pavia nell’aprile del 2014, furono celebrati, con il ricordo di Franco Mosconi, i quaranta anni di insegnamento di Luciano Musselli nell’Ateneo pavese. In tale occasione fu anche distribuita una bibliografia ragionata dei suoi oltre centocinquanta scritti tra volumi, saggi, articoli, curatele, traduzioni. È sorta allora in chi scrive, insieme ad Alessandro Tira e Cesare Varalda, l’idea di predisporre un’antologia di saggi e articoli di Musselli, che potesse ripercorrere i principali itinerari della sua feconda attività scientifica. Il proposito ha subito trovato il sostegno convinto e la generosa collaborazione di Maria Vismara, che per anni aveva condiviso con Musselli la responsabilità di reggere le sorti delle discipline ecclesiasticistiche nell’Università di Pavia. Dopo un’iniziale titubanza, dovuta alla sua innata modestia, anche il Prof. Musselli aveva guardato con interesse e benevolenza al progetto che stava via via prendendo forma. All’inizio di settembre 2015, dopo una breve malattia, Luciano Musselli ci ha improvvisamente lasciati. Pochi giorni prima, fiaccata dal male che da alcuni anni l’aveva colpita, anche la Prof.ssa Vismara è tornata alla casa del Padre. Pur nello smarrimento per tali dolorosi eventi, e per il vuoto incolmabile lasciato da queste persone a noi così care, abbiamo deciso di portare a termine il lavoro iniziato. Ci è parso il modo migliore per onorare la memoria di Luciano Musselli e di Maria Vismara, un piccolo segno per tenere saldo il vincolo di affetto e gratitudine che a loro ci ha legato e ci lega. (*) Ricercatore universitario confermato nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pavia. 310 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Il progetto è stato realizzato con il costante e decisivo sostegno di due istituzioni alle quali Luciano Musselli era fortemente legato: il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pavia, con il suo attuale Direttore Ettore Dezza, e il Collegio Ghislieri, con il suo Rettore Andrea Belvedere. Il volume si apre con profilo bio-bibliografico di Luciano Musselli. Gli scritti sono distribuiti in due parti, ciascuna a sua volta divisa in sezioni. La prima parte presenta alcuni contributi canonistici, dedicati rispettivamente alla storia del diritto canonico e al diritto matrimoniale, due ambiti nei quali certamente il nostro studioso ha offerto una riflessione di grande rilievo. La seconda parte raccoglie scritti di diritto e politica ecclesiastica, alcuni di carattere storico, altri di taglio più spiccatamente giuridico, altri ancora dedicati a un tema sicuramente al centro dei suoi interessi in questi ultimi anni: il rapporto tra Islam e sistemi giuridici occidentali (1). La raccolta si chiude con un breve contributo sulla conclusione del contratto “per stretta di mano” (2), uno scritto particolarmente caro all’autore, testimonianza significativa della sua capacità di varcare talvolta gli stretti confini delle discipline ecclesiasticistiche, per avventurarsi in altri campi del diritto e del sapere. Ci si augura che quest’opera possa contribuire a mantenere sempre “viva” la voce di Luciano Musselli nella nostra comunità scientifica, alla quale tanto ha dato. Per noi è certamente un modo di riannodare i fili di un “dialogo” che non si è mai interrotto. Pavia, aprile-maggio 2016 (1) Per gentile concessione dell’Editore si pubblica il saggio: “Islam ed ordinamento italiano. Riflessioni per un primo approccio al problema” (ndr). (2) Per gentile concessione dell’Editore si pubblica il saggio: “Dalla conclusione del contratto per stretta di mano alla firma elettronica: considerazioni minime sulle trasformazioni del diritto” (ndr). RECENSIONI 311 Islam ed ordinamento italiano. Riflessioni per un primo approccio al problema (*) 1. Premessa Il problema dell’Islam ha molteplici aspetti anche in prospettiva giuridica (1). C’è infatti, in primo luogo, il problema della legge religiosa islamica e cioè della legge coranica e dei suoi contrasti con norme e principi di fondo del diritto dei Paesi occidentali, con le norme di diritto internazionale e pattizio che a questi principi si ispirano e che sono stati accolti in convenzioni e trattati. (*) LUCIANO MUSSELLI, Società civile e società religiosa tra diritto e storia, Wolters Kluwer / Cedam, 2016. Per gentile concessione dell’Editore. (1) II presente saggio è frutto di una ricerca realizzata grazie al finanziamento (fondi 40/100) del Ministero dell’Università e della ricerca scientifica e tecnica. L’autore ringrazia, per il prezioso aiuto fornitogli, il prof. Mosconi ed i ricercatori della cattedra di diritto internazionale della Facoltà di Giurisprudenza di Pavia ed il prof. Cubillas Recio dell’Università di Valladolid. Mentre il problema del diritto islamico, della sua natura e delle sue fonti, è stato, a partire dall’Ottocento, oggetto di numerosi studi in Francia e Germania, il medesimo ha suscitato scarsissimo interesse in Italia, a parte qualche trattazione d’epoca coloniale (ad es. A. BERTOLA, Il regime dei culti in Turchia, Torino, 1925), tanto da rimanere sino ad ora quasi ignorato dalla dottrina giuridica italiana. A causa però del rapido incremento della presenza di soggetti e nuclei di fede islamica in Italia, nel corso degli ultimi anni, anche i giuristi sono stati indotti e direi quasi costretti a misurarsi coi problemi, talora assai gravi e complessi, posti da tale presenza e sono apparsi i primi studi in proposito. Tale bibliografia giuridica può dividersi in tre settori. Il primo mira allo studio delle linee di fondo del sistema giuridico islamico (ad es. F. CASTRO, voce Diritto musulmano e dei paesi musulmani, in Enciclopedia Giuridica, vol. XI, contributo a cui si rinvia anche per riferimenti bibliografici di base in merito; adde G. CAPUTO, Introduzione al diritto islamico, Torino, 1990, opera che prende in particolare esame la tematica del matrimonio e della famiglia). Talora, anziché studiare le linee di fondo di tale sistema, si è preferito indagare sulle tendenze di fondo riscontrabili, all’interno dei sistemi giuridici degli Stati a maggioranza islamica in seguito all’incontro (o scontro) tra le istanze di conservazione della tradizione e della legge coranica e quelle innovative e mediatrici coi dati giuridici culturali dell’Occidente e cioè sul fenomeno della c.d. “modernizzazione” (R. ALUFFI, La modernizzazione del diritto di famiglia nei Paesi arabi, Milano, 1990), di nuovo con particolare riguardo al settore del diritto di famiglia. Un ulteriore settore bibliografico è quello relativo ai problemi di diritto internazionale privato, suscitati dalla presenza islamica sempre con peculiare riguardo al diritto di famiglia. Per questa tematica e per la relativa bibliografia si rinvia ad una recente, ricca ed articolata analisi (C. CAMPIGLIO, Matrimonio poligamico e ripudio nell'esperienza giuridica dell’Occidente europeo, in Rivista di diritto internazionale privato e processuale, 1990, pp. 853-902). Decisamente carente è invece l’apporto italiano al terzo settore d’indagine, quello riferentesi alla possibilità di conciliazione tra il diritto islamico ed i suoi principi di fondo, con la teorizzazione e la messa in pratica dei c.d. “diritti fondamentali” nei sistemi occidentali (primo fra tutti il diritto di libertà religiosa) ed al problema della disciplina giuridica dell’Islam visto come confessione religiosa. Al confronto di una ormai sviluppata bibliografia in altri ambiti (ad es. B. JOHANSEN, Staat, Recht und Relìgion in sunnitischen Islam. Können Musline ein Religionsneutrale Staat akzeptieren? in Essener Gespräche zum Thema Staat una Kirche, 20, 1986, p. 12 ss.; W. LOSCHELDER, Der Islam und die Reli- 312 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 In merito occorre notare come la legge coranica si ponga spesso in insanabile contrasto colle norme e coi princìpi di sistemi giuridici, come quelli europei, originatisi da sofferte e dialettiche mediazioni tra modelli romanistici, valori cristiani ed apporti laicizzanti di tipo liberal-democratico e democratico- sociale. Talune idee e peculiarità di fondo - come quelle della poligamia, del diritto al ripudio riconosciuto al solo marito, delle limitazioni di capacità della donna e della sua sostanziale soggezione al padre o al marito (comunque ad un maschio) e quella della legittimità, anzi della doverosità dell’applicazione di pene cruente e lesive dell’integrità fisica - basterebbero da sole a mostrare l’insanabilità di questo contrasto, anche se la misura e l’intensità di esso può variare a seconda di come una norma coranica venga interpretata da una certa corrente dottrinale o da questo o quel giurista, data l’importanza che la dottrina e la giurisprudenza assumono in questo quadro giuridico. La legge coranica è però accolta come legge vigente solo in alcuni dei Paesi a maggioranza islamica, e di solito nei paesi più tradizionalisti (come l’Arabia Saudita) ai quali ora si aggiungono altri Stati, ove ha trionfato (come l’Iran) o sta trionfando (come il Sudan e il Pakistan) il fondamentalismo religioso. Molti altri Paesi, per effetto della modernizzazione seguita alla colonizzazione o comunque all’influsso occidentale, hanno dato vita a legislazioni dove la fonte coranica, per quanto dichiarata spesso a livello costituzionale come momento di base ed originario dell’intero sistema giuridico, è solo in parte accettata e comunque positivizzata attraverso il filtro della legge statale (Algeria, Marocco, Siria, Irak, Egitto). Altri Paesi ancora, a maggioranza islamica, a livello giuridico si sono invece svincolati dalla loro religione nazionale del tutto (Turchia) o parzialmente (Senegal, Tunisia). Il soggetto di fede islamica che vive sul suolo italiano, pur ricollegandosi ad un complesso di princìpi, tradizioni e norme religiose sostanzialmente omogenee, a parte alcune non sostanziali differenze (che possono trovarsi ad esempio tra sciiti, sunniti, drusi ecc.), può essere abituato a percepire il rapporto con lo Stato ed il diritto laico in modo notevolmente diverso a seconda del paese di provenienza. In altre parole può sia manifestare l’habitus mentale di far direttamente coincidere la norma coranica, come unica norma esistente, con quella statale, oppure essere abituato a distinguere tra una norma religiosa gions-rechtlicher Ordnung des Gnmdgesetzes, ivi, p. 149 ss.; S.A. ALDEEB ABU-SALIEH, L’impact de la religion sur l’ordre juridique, cas de l’Egyptes, non musulmans en Pays d’Islam, Fribourg, 1979; IDEM, L’Islam et les droits de l’homme, in Universalité des droits de l'homme et diversité de culture. Les actes du colloque universitaire, Fribourg, 1984, pp. 151-160; IDEM, L’Islam et les droits de l'homme, in Revue générale de droit international public, 89, 1985, 3, pp. 624-716; IDEM, L’impact des droits musulmans sur un droit laïc, le cas de la Suisse, in Praxis juridique et Religion, 1991, pp. 18-45; IDEM, Les droits de l’homme entre Occident et Islam, in Praxis juridique et Religion, 1992, pp. 85-117), la riflessione della dottrina italiana in merito - ed in particolare di quella ecclesiasticistica - appare ancora decisamente carente. Da questa constatazione, anche se non solo da essa, sono venute all’autore motivazioni per tentare un primo approccio al problema dal punto di vista del diritto interno dell’Italia. RECENSIONI 313 ed un diritto laico-civile, secondo uno schema che non è molto lontano da quello del cattolico osservante, legato dalla doppia appartenenza all’ordinamento della Chiesa ed a quello dello Stato o dell’ebreo che si trova spesso nella stessa situazione. Il punto di riferimento che dobbiamo adottare ai fini della rilevanza del tema per l’art. 8 Cost., per vedere se una confessione (nel caso quella islamica) possa o meno contrastare coi principi di fondo del nostro ordinamento o possa, come si sarebbe detto un tempo, essere considerato «culto lecito» (cosa negata per i musulmani dai giuristi dell’inizio del secolo, almeno per il territorio metropolitano (2)), non può essere il modo variegato e mutevole con cui questo culto è accolto nei vari paesi islamici, ma il nucleo di dottrine, principi e norme fondamentali di tale culto e l’esservi o meno in essi principi o norme che contrastano coi principi fondamentali dell’ordinamento italiano che stanno alla base del concetto di ordine pubblico interno (3). Indagine basilare, questa, perché dal suo esito dipende la possibilità per questa confessione di organizzarsi e di accedere ad intese con lo Stato. A tale problematica giungeremo dopo una breve premessa, sviluppata sotto il profilo socio-politico, per inquadrare poi le tematiche più propriamente giuridiche. Tale riflessione andrà condotta sulla base della normativa (in primis quella costituzionale) interna italiana. Non si potrà neanche trascurare l’apporto, a livello comparatistico, di esperienze di Paesi europei (come la Francia e la Germania) che hanno già sperimentato una massiccia immigrazione islamica, la quale ha posto in rilievo, con un anticipo spesso di anni, i problemi che oggi ci troviamo ad affrontare in Italia (4). Problemi come quello della poligamia e dei suoi riflessi sul diritto di famiglia e su quello amministrativo (per quanto attiene alle prestazioni sociali), del velo indossato nelle scuole e in altri ambienti affini, sono stati affrontati da Paesi con sistemi giuridici molto simili al nostro e tale esperienza, che qui non è direttamente oggetto di studio, può tuttavia dimostrarsi estremamente utile come parametro di riferimento. Tali esperienze straniere, o meglio europee, dopo aver visto prevalere un orientamento (2) Così Francesco Scaduto, uno dei fondatori del diritto ecclesiastico italiano, poneva tra i “culti non tollerati neppure di fatto, perché ritenuti contrari alle nostre leggi o al nostro diritto pubblico o alla nostra morale […] il mormonico ed il maomettano” (F. SCADUTO, Diritto ecclesiastico vigente in Italia, Torino, 1894, vol. II, p. 720). (3) In merito vedasi infra, nota 14. (4) Le tematiche qui trattate sono oggetto di studio, sotto il profilo internazionalprivatistico, soprattutto nell’ambito accademico di lingua francese, ormai da più di un decennio (ad es. P. GANNAGE, La coexistence des droits confessionnels et des droits laïcisés dans les relations privées internationales, in Academie De Droit International, Recueil de cours, Le Hague, 1979, vol. III, p. 343 ss.; il medesimo Autore, docente all’Università di Beirut, è di recente ritornato sull’argomento con l’articolo intitolato La pénétration de l’autonomie de la volonté dans le droit international privé de la famille, pubblicato in Revue critique de droit international privé, 81, 1992, p. 425 ss.). 314 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 di grande apertura e «tolleranza» da parte degli Stati, ora palesano un senso di maggior rigore nel difendere i principi basilari della cultura giuridica e della «civilisation» occidentale di fronte al diritto islamico (5). Ciò per evitare il crearsi di comunità che pur vivendo su suolo europeo, sono sostanzialmente regolate da un altro diritto, le quali così facendo reintroducono, grazie al collegamento colla sfera della cittadinanza, un sistema di diritto personale che la fine dell’Ancien Régime e la rivoluzione liberale dell’Ottocento ci avevano ormai fatto dimenticare. Fenomeni che - almeno a mio parere - sarebbe grave e pericoloso far rivivere in questa nostra comunità già così lacerata e divisa, e che, oggi come non mai, deve affermare e difendere dalla loro stessa crisi i valori fondamentali sui quali si basa, pur nel doveroso rispetto delle libertà di tutti. 2. Considerazioni generali. L’esperienza italiana nel settore delle minoranze religiose è tradizionalmente molto limitata. Col novanta per cento circa della popolazione che (quantomeno formalmente) appartiene alla religione cattolica, l’idea stessa dei rapporti tra la religione e lo Stato viene fatalmente ricondotta in prima battuta al modello, se non addirittura a coincidere col complesso dei rapporti tra lo Stato italiano, la Santa Sede e la Conferenza episcopale italiana. A livello di opinione ed attenzione pubblica raramente si colgono gli echi dell’esistenza e dell’attività delle più importanti e storicamente antiche tra le confessioni religiose di minoranza italiana: poche righe in occasione dell’annuale sinodo valdese, un titoletto nelle pagine più interne dei quotidiani nel caso di prese di posizione dì organi od esponenti ebraici; quasi mai la televisione, mezzo principale nella comunicazione di massa, si occupa di loro se non in orari scomodi per l’utenza, in pochi programmi visti soltanto o quasi solo dai membri delle confessioni che gestiscono i medesimi. L’attenzione del pubblico si accentra invece sui casi di conflitti tra le prescrizioni di alcune confessioni o sette ed il diritto dello Stato e le conseguenti vicende giudiziarie alle quali queste danno origine, come nel caso del divieto di trasfusione di sangue per i testimoni di Geova (6). Più di recente è stato (5) In merito vedasi CAMPIGLIO, Matrimonio poligamico, cit., passim. Può ricordarsi come significativa una decisione del 1990 del Tribunale Amministrativo di Nantes, che ritenne legittimo il rifiuto da parte del competente Ministero di un provvedimento di naturalizzazione per “défaut d’assimilation”, ai sensi dell’art. 153 del Code de la nationalité, per il fatto che il soggetto, originario senegalese, si trovava legato da matrimonio poligamico (in Recueil Dalloz, 20 dicembre 1990, n. 43, pp. 600-604). Un altro caso simile è ricordato da J.-P. DURAND, Chroniques de droit civil ecclésiastique, in L’Année canonique, XXIV, 1991, p. 323 ss. In merito al sistema svizzero, con particolare riferimento al diritto di famiglia, vedasi S.A.A. ABU SALIEH, Le droit international privé suisse face aux systèmes des Pays arabes, in Revue suisse de droit international et de droit européen, 1992, p. 33 ss. (6) Di recente in merito vedasi La questione della tolleranza e le confessioni religiose. Atti del Convegno di studi. Roma, 3 aprile 1990, Napoli, 1991. Una bibliografia d’ambito italiano ed interna- RECENSIONI 315 portato all’attenzione pubblica il problema della protezione dei minorenni (e non solo di essi) dalle attività di proselitismo di alcune sette, le quali negano al loro interno l’autonomia ed i più elementari diritti dei soggetti, attuando una sorta di «plagio» della loro personalità, soprattutto nel caso di soggetti psichicamente deboli o labili. Comunque l’esperienza dei Paesi latini ed in particolare dell’Italia induce a vedere le minoranze religiose sotto un profilo di marginalità e spesso di instabilità, di gruppi effimeri, a parte le religioni tradizionali che non pongono particolari problemi, o almeno non ne pongono oggi di nuovi. Anche i problemi posti dai testimoni di Geova e, in misura minore, dalle sette non sono nuovi, in quanto si ripresentano ormai dagli anni della contestazione giovanile o meglio da quelli del riflusso della contestazione dal terreno politico a quello religioso e soggettivo, in fughe verso concezioni mistiche di tipo orientale per cercarvi spesso risposta a fenomeni di rigetto della società capitalistica e delle sue asprezze. Diversa è la situazione in rapporto ai musulmani. Contrariamente alle religioni di derivazioni cristiana l’Islam originario non accetta né concepisce una distinzione tra momento religioso e momento civile. Lo Stato, la società e la religione sono legati da vincoli e nessi inscindibili: in un certo senso sono la stessa cosa, considerata da due prospettive diverse. In ciò l’Isiam non è molto diverso dallo Stato ebraico, nella sua concezione più ortodossa. La sua concezione è quella di uno Stato teocratico, ove la religione è il cuore stesso del sociale. La shari’a è, nello stesso tempo, legge religiosa contenente dogmi e regole liturgiche e morali e legge giuridica regolante i comportamenti sociali dei fedeli (7). zionale sul problema a cui s’accenna nel testo può reperirsi in G. SENIN ARTINA, Problemi giuridici dei nuovi movimenti religiosi. Bibliografia, in Quaderni di Diritto e Politica Ecclesiastica, 1987, pp. 81- 82. In genere sulla disciplina giuridica delle confessioni religiose non cattoliche vedasi la recente e pregevole opera di G. LONG, Le confessioni religiose diverse dalla cattolica, Bologna, 1991. Per quanto riguarda il problema delle sette e delle nuove religioni si rinvia alla bibliografia testé ricordata ed ai vari saggi pubblicati nell’annata 1987 della rivista Quaderni di Diritto e di Politica Ecclesiastica. (7) Così il PIZZORUSSO nel suo Corso di diritto comparato (Milano, 1983, pp. 274-275) efficacemente sintetizza la questione del diritto islamico e delle sue fonti: “L’islamismo ha prodotto un diritto (la shari’a) che risulta dalla rivelazione divina espressa nel Corano, dalle regole desunte dalle parole, dagli atti e dalle valutazioni compiute dal profeta Maometto in base all’ispirazione divina e dalla successiva opera di interpretazione compiuta dalle quattro scuole teologiche ortodosse (hanafita, malechita, shafita e hanbalita) nel periodo compreso tra la morte di Maometto (632 d.C.) ed il momento in cui fu deciso di cessare l’opera di ricerca e di fissare il diritto musulmano in base alle regole acquisite fino a quel momento (977). Nel caso dell’Islam l’immedesimazione tra religione e diritto è teoricamente assoluta e questo spiega perché ancor oggi parecchi Stati islamici si proclamino stati confessionali”. Per approfondimenti di tali prospettive vedasi la bibliografia citata nella nota 1 ed inoltre L. MILLIOT, Introduction à l’étude du droit musulman, Paris, 1953, G.H. BOUSQUET, Le droit musulman, Paris, 1963, A.A. FEEZE, Outlines of Muhamadan Law, Oxford, 1964; Y. LINANT DE BELLEFONDS, Traité du droit musulman comparé, Paris, 1965; A. MAUDUDI, The islamic law, Lahore, 1980. Numerose introduzioni al diritto musulmano sono poi apparse, con il riavvicinarsi dell’interesse verso l’Islam in questi ultimi anni. Par- 316 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 L’idea di uno Stato formato in maggioranza da fedeli islamici che, come nel caso dei cattolici in Italia, non regoli il proprio comportamento ed i rapporti giuridici secondo il diritto della propria religione (che sarebbe, nel caso di paragone, il diritto canonico), ma secondo norme diverse da quelle di derivazione coranica, è estranea alla cultura islamica. Non bisogna dimenticare come l’introduzione in ambito musulmano di modelli giuridici alternativi alla legge islamica ed alla sua applicazione (la quale tiene conto sia della fonte - Corano, Sunna ecc. - che dell’interpretazione tradizionalmente data ad esse nei vari riti di cui si compone l’Islam -) sia stata favorita, se non addirittura determinata dalla colonizzazione europea e sia andata in crisi col finire della medesima e con il crollo dei modelli socialisti e marxisti, per un certo periodo sopravvissuti alla colonizzazione stessa. Con la caduta dei regimi marxisti che appoggiavano politicamente la leadership di molti Stati mediorientali ed africani, è venuto a mancare un importante modello di società, di stato e di valori politici che fino ad un certo punto avevano contribuito a stimolare lo sviluppo di versioni modernizzate dell’Islam (o almeno delle società di impronta islamica), nascenti da uno strano connubio tra una declinazione della filosofia materialistica occidentale e un certo solidarismo religioso ed etnico (socialismo arabo e movimenti cosiddetti «di liberazione »). Un connubio che aveva conosciuto momenti di dura contrapposizione, ma anche lunghi momenti di proficua collaborazione. Con la fine del modello ideologico marxista in Occidente, questo non riesce a sopravvivere neppure in Oriente ed il bisogno sociale che si avverte in queste regioni povere in misura drammatica trova come unico interlocutore ed alternativa alla visione capitalistica la religione, col suo tradizionale ed originario solidarismo tra i fedeli di Allah. Tutto questo ha poco di giuridico, ma può aiutare a capire con quale spirito le masse africane immigrate ed in via di immigrazione si inseriscano nelle società occidentali laicizzate e ad affrontare i delicati problemi a livello ideologico e pratico (ivi compreso quello istituzionale) che al proposito possono porsi. Dal punto di vista dei Paesi di destinazione, finché si è trattato dell’inserimento nel tessuto sociale di pochi soggetti i problemi non erano (come non sono ancora, in Italia) drammatici, salvo gravi questioni che sorgono nel caso di separazione o divorzio per quanto riguarda la prole, non di rado portata anche con mezzi violenti o con raggiri fino ai Paesi d’origine del genitore islamico ed ivi definitivamente trattenuta. I problemi si complicano quando, anziché trattarsi di immigrazione staticolarmente interessante sono l’opera di S. ABUSALEH, Introduction à la lecture juridique du Coran. Cours polycopié, Strasbourg, 1986 ed il dossier L’application de la Shari’a, in Études Arabes, 70-71, 1986. RECENSIONI 317 gionale o di commercianti ambulanti che anelano a rientrare in patria una volta guadagnato un peculio, si muovono anche i nuclei familiari, ricostruendo così stabilmente piccole società con le loro usanze, tradizioni, principi e valori di fondo. Viene allora a costituirsi nelle società europee la «umma», vale a dire la comunità musulmana che si pone come alternativa della società occidentale secolarizzata, e qui i problemi sociali e politici si sommano e cedono il passo a quelli giuridici (8). Ed è qui anche che gli usuali schemi concettuali, nei quali viene solitamente inquadrato il problema delle minoranze religiose (una visione improntata ad una certa indulgenza e tolleranza, purché non si violino certi principi di fondo comunemente condivisi) mostrano la loro insufficienza. Nel caso dell’Islam, infatti, non si tratta di una religione che, con le sue poche o molte peculiarità, accetti sostanzialmente l’esistenza di uno Stato al di fuori di essa, ma di una religione che vuol essere essa stessa risposta ai bisogni sociali e politici del soggetto; una religione che è, nella sua versione fondamentalistica, alternativa allo Stato e che proclama le sue norme al di sopra di quelle di qualsiasi altra autorità umana (9). 3. Le prospettive giuridiche. 3.1. Fede islamica e diritti di libertà religiosa. Altrettanto carente rispetto a quelle sopra accennate sarebbe la prospettiva di ridurre la questione dell’Islam alle usuali concezioni giuridiche delle minoranze religiose, col conseguente richiamo sic et simpliciter alla libertà religiosa ed alle norme poste a protezione di essa. Ciò che gli islamici chiedono non è solo la libertà di fede, coscienza e culto, ma la libertà di vivere secondo le loro regole. L’ostacolo nasce dal fatto che tali regole, codificate dalla legge coranica, talora contrastano gravemente col diritto dei Paesi europei e coi suoi principi di fondo, ispirati ad altri moduli e dati, dal punto di vista storico e culturale. Vediamo ora alcuni dei principali punti di contrasto, ai quali si accennava, che vengono in essere nel caso dell’applicazione della legge coranica, rimessa in vigore o comunque in fase di rivalutazione e di nuova applicazione in numerosi Paesi a maggioranza musulmana, sull’onda del radicamento del fondamentalismo islamico (10). (8) In merito vedasi F. DASSETTO e A. BASTENIER, Europa: Nuova frontiera dell’Islam, Roma, 1991. (9) Sulla ripresa di vigore dell’Islam e le sue cause vedasi B. LEWIS, La rinascita islamica, Bologna, 1991. Sui concetti di Stato e potere in prospettiva islamica vedasi poi B. BADIE, I due stati: società e potere nell’Islam e in Occidente, Genova, 1990. (10) In merito vedasi O. ROY, Les voies de la réislamisation, in Pouvoirs, 62, sept. 1992. Adde E. SIVAN, Radical Islam, Yale, 1985; B. ETIENNE, L’alawisme radical, Paris, 1987. 318 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Così il sistema di pene e sanzioni fissate dalla shari’a, che riflette gli usi e la mentalità dell’epoca e della società di Maometto, prevede a tutt’oggi l’applicazione della pena di morte, della mutilazione e di altre pene corporali (in particolare la pena del taglione per l’omicidio e le lesioni personali), nonché forme di composizione pecuniaria con somme risarcitorie diverse a seconda dell’organo offeso e della qualità delle persone, con analogie a quanto avveniva nelle legislazioni barbariche occidentali (11). Sono inoltre puniti con la morte e con pene corporali anche i rapporti sessuali extraconiugali, come anche, sul piano più propriamente religioso, la bestemmia e l’apostasia dall’Islam. Con la reintroduzione della shari’a, patrocinata da varie forme di radicalismo e fondamentalismo islamico, tale sistema sanzionatorio, che era stato superato dalle legislazioni penali di quasi tutti i Paesi arabi - eccezion fatta per quelli più tradizionalisti, come l’Arabia Saudita - viene ora sempre più riportato in auge. Ciò, oltre a porre problemi ai sistemi giuridici occidentali, come nel caso dell’estradizione di un soggetto richiesta da un tribunale islamico (ad esempio iraniano) che applica tali sanzioni, potrebbe porre problemi anche all’interno di Stati europei, se in seno a numerose comunità islamiche si arrivasse, in futuro, ad un’autonoma applicazione di sanzioni penali (ad es. l’applicazione della fustigazione). In tale caso è evidente come non possano darsi esenzioni di responsabilità in nome dell’esercizio della libertà religiosa, che non può essere invocato per ledere i diritti fondamentali dell’uomo sanciti dalle varie Costituzioni, ed in particolare il diritto alla vita ed all’integrità fisica. Con specifico riferimento al nostro ordinamento, il problema potrebbe invece tradursi nella questione della concessione o meno, per gli autori di comportamenti del genere, dell’attenuante prevista dall’art. 62, n. 1 del codice penale (motivi di particolare valore morale e sociale). Tutto questo è però un discorso per oggi ancora teorico. Decisamente di maggior rilievo pratico sono invece altri problemi riguardanti il comportamento sociale degli islamici nel campo della società e della famiglia. Una questione che ha suscitato a più riprese l’interesse della stampa, soprattutto in Francia, è quella relativa all’uso del velo (il «chador») per le donne, introdotto secondo la tradizione dal califfo Omar, uno dei primi successori di Maometto. In Francia l’uso di tale abbigliamento in ambito scolastico ha dato luogo al cosiddetto «affaire du foulard», essendo stato ritenuto contrastante col carattere laico della scuola francese (12). Va detto però che, (11) In merito S.A. ALDEEB ABU-SALIEH, Etude sur le droit pénale musulman, Institut Suisse de droit compare, Lausanne, 1985 (pro manuscriptu). (12) Su questa e su altre questioni vedasi M. MORSY, Rester musulman en société étrangère, in Pouvoirs, 62, sept. 1992, p. 119 ss.; G. KOUBI, Droit et Religion, in Revue de droit public, 1992, p. 725 ss. (in particolare p. 729 e nota 18). La questione, scoppiata in Francia nel 1989, della legittimità o meno dell’uso del velo da parte delle studentesse islamiche nelle scuole pubbliche, com’è noto, è stata risolta RECENSIONI 319 secondo il nostro ordinamento, il semplice fatto di velare il capo (o tenere in testa uno zucchetto, come nel caso degli ebrei osservanti) non sembra dar luogo ad una violazione di norme e che ciò possa anzi configurarsi come espressione del diritto di libertà religiosa. Non parrebbe invece ammissibile un velo che celi completamente o parzialmente il volto, impedendo l’identificazione e la normale interazione dell’alunna coi compagni e coi docenti e determinando così una sorta di emarginazione sociale della stessa. Tra l’altro un simile comportamento ricadrebbe sotto il divieto di «comparire mascherati in luogo pubblico», la cui infrazione è punita con ammenda, per ragioni di ordine pubblico, dal Testo unico di Pubblica Sicurezza (art. 85 R.D. 18 giugno 1931, n. 773). Né va dimenticato come il velo occultante sia una prassi che denuncia una situazione di almeno tendenziale segregazione della donna, che rispecchia l’usanza dei Paesi più accesamente tradizionalisti; una prassi pertanto inaccettabile alla luce dei principi di fondo degli Ordinamenti occidentali. Appare quindi utile richiamare qui la disposizione contenuta nell’art. 2, lett. f) della Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (New York, 18 dicembre 1979; ratificata in Italia in base alla legge 14 marzo 1985, n. 132), che impone agli Stati l’obbligo di «prendere ogni misura adeguata, comprese le disposizioni di legge, per modicon una soluzione di compromesso. Il Consiglio di Stato, su richiesta del ministro della pubblica istruzione Jospin, emette un parere in data 27 novembre 1989. Secondo tale parere il portare un segno distintivo della propria religione nell’ambito della scuola pubblica non comporta automaticamente una violazione del principio di laicità, salvo che si tratti di segni d’appartenenza religiosa che per la loro natura, per le condizioni in cui sono portati individualmente e collettivamente o per il loro carattere ostentatorio e rivendicativo, costituiscano un atto di pressione, di provocazione, di proselitismo o di propaganda, attentanti alla libertà od alla dignità o dell’allievo e di altri membri della comunità educativa, ovvero compromettevano la loro salute o sicurezza e turbino lo svolgimento delle attività di insegnamento ed il ruolo educativo degli insegnanti od infine turbino l’ordine di uno stabilimento ed il normale funzionamento del servizio pubblico. Il Conseil d’État è inoltre dell’avviso che l’esibizione di segni religiosi possa essere disciplinata da un regolamento emesso dal consiglio di amministrazione dell’istituto scolastico, tenendo conto dell’esigenza di rispetto del principio di laicità e pluralismo e del dovere di tollerare e rispettare le altrui convinzioni, mentre viene ritenuta opportuna anche l’emanazione di una istruzione ministeriale in materia. Infine è rimesso alle autorità detentrici del potere di disciplina nei vari istituti (in pratica ai direttori e ai presidi) di adottare provvedimenti concreti, anche di natura disciplinare, in base ai criteri enunciati nel parere e recepite nei regolamenti. I Capi degli istituti possono anche, in caso di grave turbamento proveniente da un comportamento del tipo sopra ricordato, rifiutare l’ammissione in uno stabilimento scolastico. Il parere è seguito dall’emanazione della circolare del 12 dicembre 1989 del Ministro dell’Educazione nazionale, della Gioventù e dello Sport, che recepisce gli orientamenti del Consiglio di Stato e rimette ai capi d’istituto ed ai consigli scolastici di decidere caso per caso, confermando il potere dei capi d’istituto di non ammissione dell'alunno nei casi più gravi. In particolare si ribadisce l’obbligo per gli studenti di seguire gli insegnamenti di tutte le materie, ivi compresa l’educazione fisica, la cui pratica ben difficilmente si può conciliare con i dettami circa l’abito delle donne imposti dall’Islam fondamentalista (per il testo del parere del Consiglio di Stato e della ricordata circolare, vedasi in “Année Canonique”, 1989, pp. 368-372). Sul medesimo problema in ambito tedesco vedasi la sentenza del 26 aprile 1991 dell’Oberverwaltungsgericht di Lüneburg, la cui massima è riprodotta in Archiv für Katkolisches Kirchenrecht, 180, 1991, p. 191. 320 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 ficare o abrogare ogni legge, disposizione, regolamento, consuetudine o pratica che costituisca discriminazione nei confronti della donna». Né superfluo pare ricordare come nel successivo art. 3 della convenzione menzionata sia disposto che gli Stati debbano prendere ogni misura adeguata «al fine di modificare gli schemi ed i modelli di comportamento socio-culturali degli uomini e delle donne e giungere ad una eliminazione dei pregiudizi e delle pratiche consuetudinarie o di altro genere che siano basate sulla convinzione della superiorità dell’uno o dell’altro sesso o sull’idea di ruoli stereotipati degli uomini e delle donne». Sembra peraltro a chi scrive che il richiamo alla libertà religiosa non possa darsi per giustificare lesioni di principi sommi come quello dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani. Lo stesso vale per i riferimenti a situazioni di schiavitù che ogni tanto appaiono nel diritto islamico classico, ancora ispirato e cristallizzato con riferimento ad epoche antiche, ma che per gli ordinamenti europei non possono avere alcun valore se non nel senso di costituire indizi di comportamenti criminosi ai sensi del reato previsto dall’art. 600 c.p. (riduzione in schiavitù). Passiamo ora al settore che più tradizionalmente viene trattato a proposito dei problemi suscitati dall’Islam e dei contrasti delle norme islamiche con quelle occidentali: il settore del matrimonio e della famiglia. Qui il problema che balza agli occhi di tutti con maggiore evidenza è quello della poligamia, ammessa od almeno tollerata anche nei Paesi islamici modernizzati ed in parte laicizzati, ad eccezione della Tunisia. Il problema non è tanto quello dell’innegabile contrasto del matrimonio poligamico coi principi di fondo del nostro ordinamento (che tra l’altro prevede e punisce la bigamia come reato) ma degli effetti di tale contrasto. In particolare, colui il quale abbia più mogli nel Paese d’origine non può pretendere, ostando a ciò il limite dell’ordine pubblico posto dall'art. 31 delle Preleggi, che questo status venga riconosciuto anche in Italia a livello di visti d’ingresso, di stato di famiglia, di assegni previdenziali ecc. (13). Al proposito, se non vo- (13) Così pare evidente che l’art. 4 della l. 30 dicembre 1986, n. 943, relativa ai lavoratori extracomunitari, la quale garantisce a costoro il diritto al ricongiungimento con il coniuge, debba riferirsi ad una sola moglie (dato anche l’uso del singolare nella locuzione adottata dalla norma). In caso di matrimonio poligamico tale diritto varrà per la prima moglie con la quale, anche alla luce dei nostri principi in materia matrimoniale, esiste un vincolo nuziale compatibile coll’ordine pubblico italiano. Vi è poi il caso in cui, servendosi del ripudio, il soggetto conservi una sola moglie. Anche in tal caso egli potrà godere del diritto garantito dalla norma citata, in quanto ciò che interessa all’ordinamento italiano non è come sia arrivato ad essere marito di quella moglie (essendo tale profilo regolato dalla legge della cittadinanza) ma il fatto che la donna sia legalmente sua moglie. A livello giurisprudenziale si può ricordare in merito una celebre decisione del TAR per l’Emilia-Romagna del 10 gennaio 1989. Si tratta di un’ordinanza con la quale si disponeva la sospensione di un provvedimento di espulsione di due mogli di un lavoratore extracomunitario marocchino, motivata più da ragioni umane che strettamente giuridiche: “per i profili di gravità e di irreparabilità sotto l’aspetto sociale, economico e familiare”. In seguito all’ottenimento per altra via (non come mogli, ma come la- RECENSIONI 321 gliamo legittimare un modello di matrimonio contrastante coi nostri principi di fondo, non abbiamo altra strada che concepire solo la prima moglie come moglie legittima e vedere nelle altre delle conviventi, fatta salva la legittimità dei figli da determinarsi alla luce del diritto della cittadinanza. Inoltre, alla luce del nostro ordinamento, il contrarre un secondo matrimonio religioso islamico (da parte di un soggetto che abbia sposato una cittadina italiana) potrebbe configurare il venire in essere di un comportamento che giustifichi una dichiarazione di separazione con addebito a carico del medesimo. Tra l’altro alcuni comportamenti, giustificati dalla legge coranica o da prassi interpretative di essa, quale quella dell’harem e del potere di correzione del marito che può arrivare anche alle punizioni fisiche, nei nostri ordinamenti non potrebbero che essere considerati alla stregua di fatti delittuosi (dai reati di percosse e lesioni fino a quello di sequestro di persona). Altre difficoltà incontrano l’assunzione d’efficacia nel nostro ordinamento di scioglimenti di matrimoni per ripudio, che alla stregua del diritto islamico può venire posto in essere unilateralmente dal marito, senza il consenso dell’altra parte. Come infatti si è tradizionalmente rifiutata la deliberazione di sentenze di divorzio statunitensi rese in base al puro consenso dei due coniugi, senza alcun accertamento circa la fine o meno della comunità di vita dei coniugi, così apparirebbe, nel caso, incongruo far dipendere la fine del matrimonio da una semplice dichiarazione, seppur solenne, del marito ed anzi ancor più incongruo apparirebbe perché qui verrebbe in essere un principio di discriminazione a favore dell’uomo contro la donna (14). voratrici dipendenti) del permesso di soggiorno da parte delle due donne, la questione fu superata e non si giunse alla decisione del merito. Per quanto riguarda invece la rilevanza civile del matrimonio islamico, in un parere degli stessi anni (espresso in data 7 giugno 1988) il Consiglio di Stato subordina tale rilevanza all’avvenuto e positivo accertamento, da parte delle autorità italiane, del rispetto dei principi fondamentali posti in materia dal nostro ordinamento. Si mette in rilievo la necessità di accertare il raggiungimento dell’età minima e l’assenza di impedimenti inderogabili con particolare riferimento allo stato libero ed all’inesistenza di precedenti matrimoni validi. Sarebbe opportuno, al proposito, accertare anche l’esistenza di una vera e libera volontà nuziale nella donna, data la possibilità, in certi casi, di coazione al matrimonio della vergine minorenne da parte del padre e dei parenti. In merito a tutte queste problematiche vedasi CAMPIGLIO, Matrimonio poligamico, cit., pp. 855-856. (14) In merito alla questione del ripudio vedasi G. CASSONI, Considerazioni sugli istituti della poligamia e del ripudio nell’ordinamento italiano, in Rivista del Notariato, 1987, p. 233 nonché CAMPIGLIO, Matrimonio poligamico, cit., p. 855 ss. Sul ruolo svolto in questo campo dal limite dell’ordine pubblico, vedasi in generale E. VITTA, Diritto internazionale privato e processuale, a cura di F. MOSCONI, Torino, 1991, pp. 151 ss., ove si ricorda come, secondo la giurisprudenza, il concetto di “ordine pubblico interno” sarebbe costituito “dal complesso di principi fondamentali che caratterizzano la struttura eticosociale della comunità nazionale in un certo momento storico”, mentre per “ordine pubblico internazionale” dovrebbero intendersi i principi a carattere universale, comuni a molte nazioni di civiltà affine, intesi alla tutela di alcuni diritti fondamentali dell’uomo, spesso sanciti da dichiarazioni o convenzioni internazionali” (ivi, p. 154). Le ricordate sentenze di ripudio urterebbero, a livello di delibazione, sia contro l’uno che contro l’altro limite. Al massimo il ripudio potrebbe avere per effetto di far cessare 322 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 La stessa discriminazione, a sfavore della donna, si verifica nel campo della famiglia, ove vige un regime di patria potestas affidata ai maschi della famiglia agnatizia e sostanzialmente anche in campo successorio. Contrarie all’ordine pubblico risultano anche talune specie di contratti, diffusi nella prassi di taluni riti musulmani, con i quali la donna concede le proprie prestazioni sessuali a tempo in cambio di denaro od utilità; contratti talora usati per aggirare il divieto per il musulmano di sposare donne che non appartengono alla religione «del Libro» (che non siano, oltre che musulmane, ebree o cristiane). Del pari contrario al principio di fondo della libertà nuziale appare il divieto per la donna musulmana di sposare un non musulmano (15). Né pare che il matrimonio poligamico islamico possa essere surrettiziamente recuperato attraverso la nozione di «famiglia di fatto». La «famiglia di fatto» infatti risponde pur sempre al modello giuridico di famiglia, composta da una coppia di coniugi (marito e moglie) ed eventuali figli, e proprio in ciò trova la ratio degli eventuali riconoscimenti giuridici delle situazioni che da essa conseguono. Più sfumata è invece la questione della compatibilità cogli ordinamenti europei del complesso ambito delle prescrizioni islamiche in materia di contratti ed obbligazioni, che cominciano a porre non pochi problemi soprattutto in campo bancario, per il divieto del prestito «usurario», comune alla tradizione islamica come a quella cristiana (16). l’esistenza del matrimonio nell’ordinamento di origine per via di divorzio e legittimare l’altra parte, nel caso sia cittadina italiana, a valersi, data l’impossibilità della delibazione in Italia della decisione di ripudio (che peraltro raramente assume il carattere di vero provvedimento giurisdizionale), dello strumento processuale offerto dall’art. 3, n. 2 lett. e) della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (in merito vedasi la decisione del Tribunale dì Milano, sentenza 5 ottobre 1991, riportata nella Rivista di diritto internazionale privato e processuale, 1992, p. 125 ss., che si riferisce ad un caso di ripudio ebraico). Va inoltre ricordato come l’istituto dell’ordine pubblico operi anche nei reciproci rapporti tra sistemi giuridici omogenei come quelli europei ed anche a livello di norme comunitarie, la cui applicazione può in certi casi venire disattesa proprio per il contrasto con l’ordine pubblico interno o «locale» (in merito vedasi F. MOSCONI, Il limite dell’ordine pubblico nella Convenzione di Bruxelles del 1968 sulla competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, in Jus, 1990, p. 45 ss.). Da ultimo va ricordato come il ripudio unilaterale sia stato ritenuto contrario all’ordine pubblico anche dalla circolare del 13 ottobre 1988 del Ministero degli Interni, in materia di trascrivibilità in Italia dei matrimoni islamici (se ne veda il testo in R. CAFARI-PANICO, Lo stato civile ed il diritto internazionale privato, Padova, 1992, pp. 172-173). (15) Circa la sussistenza di una “libertà di contrarre matrimonio” dello straniero nonostante eventuali divieti da parte della legge nazionale per motivi politici, razziali o religiosi e la conseguente prospettazione di un’ipotesi di incostituzionalità dell'art. 116, c. 1° c.c., almeno sotto questo profilo, vedasi G. D’ORAZIO, Lo straniero nella Costituzione italiana, Padova, 1992, pp. 263-264. (16) Sull’atteggiamento e le prese di posizione, al proposito, dei giuristi e della cultura islamica in genere vedasi L. BAECK, La pensée économique dans l’Islam. Tradition classique et renaissance contemporaine, in Praxis juridique et religion, 1992, p. 221 ss. RECENSIONI 323 3.2. L’Islam e l’art. 8 della Costituzione italiana. Per quanto l’Islam non sia solo una confessione religiosa, ma anche una forma di religione-Stato o di Stato teocratico, esso resta pur sempre una confessione religiosa e come tale può e deve porsi il problema della sua posizione rispetto all’art. 8 della Costituzione italiana. Come confessione religiosa, la religione islamica sarà «egualmente libera davanti alla legge», come lo saranno le professioni ed i riti nei quali si articola. Questione più difficile da affrontare è quella del diritto di organizzarsi «secondo propri statuti in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano». Se per statuto si deve intendere, come ritengo, il diritto islamico ed i suoi principi di fondo, come elementi inscindibili dal credo professato, non vi è dubbio che le confessioni islamiche non possono godere del diritto di organizzarsi, in quanto tale diritto contrasta radicalmente con l’ordinamento giuridico italiano. Se per «statuto» si dovesse intendere una normativa che un gruppo di islamici si dà per ottenere il riconoscimento di un’associazione o di una fondazione con fini culturali, e che sia conformata in modo da non porsi in contrasto con l’ordinamento italiano, la questione potrebbe essere più complessa. Infatti, se si richiede il riconoscimento giuridico di un ente (ai sensi degli artt. 10 ss. del R.D. 28 febbraio 1930, n. 289) che faccia proprio o si richiami al diritto islamico, tale contrasto verrebbe ugualmente in essere. Se invece l’ente erigendo presenta uno statuto di tipo laico-democratico ed il riferimento all’Islam è solo di tipo indiretto (emergendo ad esempio solo a livello di finalità diretta alla promozione del culto e della formazione religiosa islamica od alla diffusione del relativo patrimonio storico-culturale), ci si può chiedere se si debba guardare solo alle norme statutarie od anche ai principi di fondo della religione alla quale si fa riferimento. È questa la tesi che, a mio modesto parere, dovrebbe prevalere, in quanto le norme statutarie possono facilmente costituire il mascheramento di una diversa realtà normativa - la legge coranica - che vincola tutti gli appartenenti alla «umma» (la comunità islamica), e i cui contrasti di fondo coi principi supremi dell’ordinamento italiano appaiono, anche alla luce di quanto sin qui detto, innegabili. Questa valutazione circa l’esistenza di un contrasto di fondo tra le norme confessionali ed i principi di fondo dell’ordinamento italiano porta a risolvere negativamente anche la questione della possibilità di intese con lo Stato italiano. La stipulazione di tali intese si presenta peraltro assai difficoltosa (come anche il riconoscimento di enti) per via della mancanza di un organo o di organi islamici che possano arrogarsi un diritto di rappresentanza della comunità. Preclusa la possibilità di stipulare intese e di ottenere l’erezione di enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, posto che, finché rimarrà in vigore l’art. 324 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 1 della legge 24 giugno 1929, n. 1159, si richiede che la confessione non professi «principi contrari all’ordine pubblico», per soddisfare le necessità organizzative degli islamici si potranno dar vita a persone giuridiche di diritto privato (17). Nel caso si dia vita ad associazioni, le medesime saranno pur sempre tutelate dall’art. 20 Cost., applicandosi tale norma ad ogni associazione con finalità religiosa o culturale. 3.3. L’Islam e gli artt. 19 e 20 Cost. Come è noto, l’art. 19 non riserva la sua tutela ai soli cittadini ma, come è nella natura di un diritto fondamentale di ogni uomo, si estende a tutti coloro che si trovano a qualsiasi titolo sul territorio italiano. Quindi ogni islamico, alla pari di qualsiasi altro soggetto, potrà professare la sua fede, farne propaganda e celebrarne il culto purché mediante riti che non siano in contrasto col buon costume. Dato che è innegabile che i riti islamici per quanto particolari (si pensi alla preghiera del muezzin) non contrastano col buon costume, la questione della libertà religiosa degli islamici va trattata alla pari della libertà religiosa degli appartenenti ai vari altri culti esistenti ed operanti in Italia. Dire questo certo non risolve tutte le difficoltà: in caso di detenzione o di ricovero in pubblici istituti di cura, i musulmani hanno diritto ad avere un cibo conforme ai dettami della loro religione? Hanno diritto, nel campo giuslaburistico, ad uno spazio per le loro pratiche ed al rispetto della prassi del digiuno del ramadan? Hanno diritto al riposo festivo praticato nel giorno di venerdì ed al rispetto delle festività islamiche? Simili diritti in materia di riposo festivo sono stati concessi, tramite le intese che li riguardano, ad ebrei ed avventisti. In caso di ricovero o detenzione è stato inoltre assicurato agli ebrei (art. 7) il diritto a seguire le loro prescrizioni alimentari, senza però oneri o spese supplementari per la istituzione (ospedali, carceri ecc.), fruendo della assistenza delle comunità ebraiche del luogo. Pare quindi che, in mancanza di un’intesa, pur essendo auspicabile, per la piena fruizione del diritto di libertà religiosa, che le istituzioni tengano conto, nel limite del possibile, delle esigenze dei soggetti anche in questo campo, non esi- (17) Il primo ente islamico ad essere stato riconosciuto è il “Centro islamico culturale d’Italia”, con sede in Roma, il cui riconoscimento è avvenuto con D.P.R. 21 dicembre 1974, n. 712. La rivista Quaderni di diritto e di politica ecclesiastica nell’annata 1987 (pp. 92-93), menzione anche tra le “confessioni religiose note in Italia” ed i relativi enti esponenziali, anche i seguenti (dei quali però non si forniscono notizie circa la personalità giuridica): “Union islamique Occidentale” (Roma); “Associazione Musulmani d’Italia” (A.M.I.), Roma; “Centro Islamico culturale”, Milano; “II Centro Islamico” (Islamic center), Milano; “Associazione Islamica meridionale italiana”, Villaricca (Napoli). Ad essi va aggiunto il centro culturale “Il calamo”, nato di recente a Milano e dotato di una ricca biblioteca (Corriere della Sera, 2 ottobre 1992, p. 50). RECENSIONI 325 sta al proposito un vero obbligo giuridico. Ciò paradossalmente vale anche per gli appartenenti alla maggioranza religiosa italiana e cioè per i cattolici, salvo l’esistenza di particolari disposizioni regolamentari (per il venerdì o la Quaresima) anche a livello locale e di usi consuetudinari. Non si potrà comunque invocare il diritto di libertà religiosa per svolgere attività ritenute criminose dall’ordinamento italiano, come la contrazione di più matrimoni con effetti civili e la somministrazione di percosse e sevizie alla moglie, seppur giustificate da testi religiosi, o la costrizione della medesima ad indossare il velo od a subire limitazioni della libertà personale. Ultimo dei problemi più chiaramente definibili è quello della scuola. In questo settore è da osservare che fa parte del diritto di libertà religiosa degli islamici l’organizzare scuole coraniche per i loro figli, ma che tali scuole non potranno sostituirsi alle scuole pubbliche dal punto di vista dell’adempimento dell’obbligo scolastico. Una scuola il cui fine è quello di dare una formazione religiosa non può infatti aspirare a sostituirsi alla scuola pubblica, che vede la prospettiva educativa in primo piano e quella della formazione religiosa su un piano solamente facoltativo ed accessorio. Le scuole coraniche potranno svolgere la loro attività in parallelo con la scuola pubblica, un po’ come succede per i corsi di catechismo anche se qui l’impegno del discente, per via dell’apprendimento della lingua araba (peraltro spesso già parlata in famiglia) sarà più pesante. Delicato problema potrebbe essere quello dell’istituzione di scuole private islamiche parificate, che non siano scuole coraniche ma scuole nelle quali si insegnino le materie della scuola pubblica, più la lingua araba e la religione islamica, il tutto in un’ottica conforme ai precetti religiosi. In linea di massima dovrebbero aver valore le norme generali in materia, dal livello costituzionale al livello della legge ordinaria e dei regolamenti sulla scuola privata parificata, attuandosi i necessari controlli perché vengano rispettati i programmi scolastici italiani ed i docenti abbiano i necessari titoli. La questione infatti non pare direttamente collegata all’art. 8, sotto il profilo del diritto di organizzarsi della confessione, bensì all’art. 33 Cost., sotto quello della libertà della scuola privata. In merito poi, rilevante portata assume il disposto dell’art. 2 del protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (la cosiddetta Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo), ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848. Essa, come è noto, sancisce che lo Stato «nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento, deve rispettare il diritto dei genitori di assicurare tale educazione in modo conforme alle loro convenzioni religiose e filosofiche». Se è certo trattarsi di norma più orientativa che immediatamente precettiva a livello positivo, in quanto appare chiaro ad ognuno come lo Stato non 326 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 possa offrire ad ciascun alunno una educazione nella scuola pubblica - per sua natura laica e pluralistica - perfettamente corrispondente alle concezioni delle varie religioni ed ideologie, per contro, tale norma può assumere valore precettivo a livello di divieto di coartazione della libertà dì religione e di coscienza dei genitori e degli alunni in senso ideologico o confessionale o di prospettazioni, in luce privilegiata, di determinate ideologie e visioni religiose. Infine l’art. 20 Cost. che vieta l’introduzione di speciali limitazioni legislative e l’opposizione di speciali gravami fiscali per la costituzione, capacità giuridica ed ogni forma di attività di associazioni od istituzioni in ragione del loro fine di religione o di culto, come già accennato si applica evidentemente alle associazioni ed alle istituzioni islamiche. Ne deriva che non si possa ad esse rifiutarsi, sul piano del diritto privato, l’attribuzione della personalità giuridica o porsi in essere situazioni giuridiche di sfavore a causa della connotazione religiosa delle medesime o di considerazioni di merito, che qui sarebbero del tutto fuori luogo, circa il credo religioso sottostante. Ciò vale, tuttavia, sempre che siano rispettate le norme di diritto comune vigenti in materia di riconoscimento delle persone morali. In altri termini, cioè, l’art. 20 Cost. vieta che si deroghi al diritto comune, in senso sfavorevole, nei confronti di una associazione od «istituzione» in ragione ed a causa della sua connotazione culturale. Esso non implica invece che il diritto comune (nel caso le norme del codice civile) debba tener conto della peculiarità confessionale dell’ente o dell’associazione. Si tratta quindi in sostanza di un divieto di discriminazione che potrebbe essere violato solo qualora fossero introdotte norme che discriminino le confessioni religiose nel loro complesso, od una od alcune di esse, a livello del diritto dei loro aderenti di dare vita ad associazioni ed istituzioni, alla pari di tutti gli altri soggetti, o nel caso che norme di tale genere fossero comunque vigenti nell’ordinamento italiano. 4. Conclusioni. Al termine di questa breve rassegna di problemi che si prospettano alla nostra attenzione si ha la sensazione di aver sollevato molte questioni e sfiorato tematiche di ricerca, senza aver potuto indicare, almeno per ora, adeguate soluzioni. Si ha forse anche il senso di un arroccamento, di uno stringersi a difesa di concetti e valori di tipo tradizionale. Dai dati però esistenti e dalle norme vigenti nel nostro ordinamento non penso possano trarsi conclusioni molto diverse. Ciò anche perché tali norme erano state volute ed erano state pensate nella prospettiva di una libertà religiosa eminentemente vista come strumento di protezione dei diritti delle minoranze cristiane od al limite di «liberi pensatori » e di scettici in materia religiosa, in termini cioè eurocentrici. Era peraltro difficile, per i costituenti, presagire la possibilità dell’avvento di forti minoranze portatrici di concezioni affatto diverse, addirittura nel senso RECENSIONI 327 di una religione indissolubilmente ed inseparabilmente congiunta con la società e la vita della comunità politica. Vi era però la sensazione che qualcosa di strano, di anomalo potesse in questo campo avvenire e così, anche se non si volle più parlare di «ordine pubblico», si mantenne nell’art. 8 l’argine del limite del «non contrasto con l’ordinamento italiano». Forse qui siamo in presenza di uno dei settori nei quali occorre far uso, anche se con responsabilità e misura, di tale argine che la Costituzione ci indica, per preservare indenne dalle onde di questo come di altri fondamentalismi quella laicità dello Stato che non solo costituisce un principio sommo del nostro ordinamento, ma che è anche l’irrinunciabile presupposto per l’esercizio, da parte di tutti, di una vera libertà religiosa. Libertà che, molto prima di essere libertà di Chiesa o di gruppi, è diritto fondamentale ed inalienabile della persona e di ogni persona, dentro o fuori delle istituzioni, in favore delle confessioni ma anche contro di esse. Questa esigenza di protezione e tutela di principio e valori fondamentali del nostro ordinamento non deve e non può ovviamente influire, in senso limitativo, sulla libertà religiosa degli aderenti all’Islam, che godono, come tutti i soggetti, dei diritti garantiti dall’art. 19 Cost. e cioè dei diritti di professione religiosa, di propaganda e di culto, non essendovi qui limiti che possono nascere dalle esigenze di tutela del buon costume. Essi godono anche dei diritti di libertà religiosa sanciti da altre fonti, come l’art. 9 CEDU e l’articolo del relativo protocollo addizionale, salvo i limiti ivi previsti. In particolare dalla norma contenuta nel punto 2 del protocollo addizionale possono derivare importanti conseguenze circa il diritto all’educazione religiosa dei genitori islamici nei confronti dei figli. Molta maggiore prudenza è invece da usarsi, almeno a giudizio di chi scrive, nel mettere in atto strumenti, come le intese, non strettamente necessari per garantire l’esercizio della libertà religiosa e infatti rimessi ad una valutazione in cui ha un ruolo determinante, o comunque importante, la discrezionalità di cui è investito l’organo - squisitamente politico - competente per la stipulazione ex parte civitatis e cioè il Governo. In quest’ambito occorre, credo, porre in atto una lunga meditazione critica, valutando bene le ragioni favorevoli e contrarie, prima di seguire recenti esempi (come quello della Spagna) nell’addivenire ad accordi in questo settore (18). Il rischio, a mio parere assai grave, è quello di favorire non tanto il legit- (18) In esecuzione all’art. 7.1 della legge organica spagnola sulla libertà religiosa del 1980 è stato recentemente stipulato un accordo tra lo Stato iberico e la Commissione Islamica di Spagna, reso esecutivo dalla legge n. 26 del 10 novembre 1992, secondo quanto prevede il ricordato articolo (“El Estado, teniendo en cuenta las creancias religiosas existentes en la sociedad espanola, estabecelerà, en su caso Acuerdos o Convenios de cooperación con las Iglesias y Comunidades religiosas inscritas en el registro que pur su ambito e numero hayan alcanzado notorio arraigo in Espagna. En todo caso estos acuerdos se aprobaran por Ley de las Cortes generales”). Tale accordo, dopo l’approvazione da parte delle Cortes 328 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 timo e sacrosanto esercizio di un diritto fondamentale come quello di libertà religiosa, quanto il formarsi, sul suolo italiano, di comunità viventi con leggi e principi diversi ed in certi casi opposti a quelli che reggono ed informano di sé il nostro ordinamento giuridico, nonché di dar vigore, attraverso la diretta od indiretta sanzione statale, a norme chiaramente inconciliabili coi principi della nostra civiltà giuridica. Inoltre, una volta stipulata un’intesa di questo tipo, sarebbe ben difficile, anzi impossibile - a mia opinione - rifiutare tale tipo di accordo a qualsiasi altra confessione religiosa, essendo arduo ipotizzare culti ancora più contrastanti nella loro base ideologica coi principi di fondo dell’ordinamento italiano. Ciò peraltro porterebbe ad aumentare le complicazioni e le difficoltà della vita sociale e dell’organizzazione del lavoro (si pensi alle varie festività religiose) e ad aumentare l’insieme, imponente ormai dopo le intese ed in particolare quelle con gli ebrei e gli avventisti, di norme speciali nei più vari e disparati settori. Né ciò peraltro pone solo problemi sul piano pratico, ma favorendo il crearsi di gruppi confessionali nei quali l’appartenenza al gruppo porta deroghe al diritto comune ed all’eguaglianza del civis e più generalmente dell’uomo davanti alla legge, porta alla fine pregiudizio ai valori di fondo di eguaglianza di tutti e di laicità dello Stato. Meglio sarebbe quindi, in luogo di infoltire la selva delle norme speciali nel nostro settore, che stanno rendendo difficile l’orientarsi anche agli stessi e la pubblicazione nel “Boletin Oficial del Estado” (12 novembre 1992), è entrato in vigore e si aggiunge agli altri due concernenti le Chiese evangeliche (legge 24/1992) e le Comunità israelitiche (legge 25/1992), garantendosi così a tutte queste confessioni religiose, ai loro ministri di culto e fedeli diritti e facoltà simili a quelli assicurati in Italia dalle intese in vigore, che, come modello hanno esercitato un innegabile influsso. L’art. 2 tutela le moschee e gli edifici di culto in genere, gli artt. 3 e 4 concernono gli “imam” e gli altri ministri di culto, l’art. 7 attribuisce gli effetti civili ai matrimoni islamici, tramite una procedura assai simile a quella della trascrizione, purché consti della capacità delle parti, prevedendo anche una sorta di trascrizione tardiva; gli artt. 8 e 9 concernono l’assistenza religiosa ai militari, nelle carceri e negli ospedali. L’articolo 10 si occupa poi dell’insegnamento della religione islamica, estensibile anche alla scuola pubblica, e dei diritti dei genitori alla formazione religiosa dei figli. L’art. 11 pone in essere un trattamento fiscale di favore per gli enti islamici, gli edifici di culto e le attività connesse ad esso. L’art. 12 garantisce il diritto al riposo dei musulmani al venerdì ed in occasione della festività islamiche, mentre l’art. 13 si occupa dei beni culturali islamici. Infine si prevede l’istituzione di una commissione mista per l’esecuzione dell’accordo. Né mancano disposizioni originali e forse non del tutto meritevoli di essere consacrate in un accordo di questo tipo, come l’art. 14 che prevede che “De acuerdo con la dimension spiritual y las particularidades especificas de la Ley Islamica, la denominacion ‘halal’, serve para distinguir los productos alimentarios elaborados de acuerdo con la misma”. Nel valutare, nel suo complesso l'accordo in questione bisogna però tenere presente alcuni elementi di fondo. Il primo è desumibile dall'art. 7 della legge sulla libertà religiosa del 1980, che in pratica veniva ad attribuire alle confessioni di maggior rilievo sociale una sorta di diritto a stipulare accordi con lo Stato. Il secondo ci viene dalla seconda disposizione addizionale che autorizza le parti a denunciare l'accordo con preavviso di sei mesi. In caso di cattivo funzionamento del medesimo non si porrebbero quindi le questioni che, ad esempio in Italia, verrebbero in essere per via della copertura costituzionale assicurata alle intese dall'art. 8 Cost. RECENSIONI 329 giuristi che non siano specialisti di diritto ecclesiastico, dare finalmente vita alla legge sulla libertà religiosa, destinata a sostituirsi alla ormai obsoleta legge 24 giugno 1929 sui culti acattolici, il cui progetto si è da tempo arenato nelle secche parlamentari. Nel contesto di tale legge, opportunamente rivista e rimodulata, a livello progettuale, onde farle superare le critiche e gli ostacoli che al disegno di legge presentato erano state mosse (spesso a ragione), potrebbero essere efficacemente tutelati i diritti di libertà individuali e collettivi degli islamici e delle loro organizzazioni ed istituti, nello spirito degli artt. 19 e 20 della nostra Costituzione. (Pubblicato in «Il Diritto ecclesiastico», 1992, pp. 621-644) 330 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 Dalla conclusione del contratto per stretta di mano alla firma elettronica: considerazioni minime sulle trasformazioni del diritto (*) Dalla contrazione del contratto per stretta di mano nei mercati rurali ai sofisticati usi contemporanei (sottoscrizione del contratto mediante firma digitale), si individua un evolversi verso una svalutazione della fisicità. Se questa si esprimeva mettendo a contatto i corpi o mediante un’espressione vocale in praesentia (stipulazione del matrimonio) o attraverso l’atto del sottoscrivere contestualmente o meno un documento, ora il lato fisico diventa sempre più evanescente (specialmente nei contratti per adesione) anche se un quid è sempre presente (ad esempio, nella modifica di un contratto telefonico attraverso la pressione di alcuni tasti seguendo le istruzioni di una voce guida) come anche il carattere sinallagmatico (anche se ridotto al permanere della disponibilità del proponente alla quale si contrappone l’attività di chi aderisce). La stipulazione non è più formale, pubblica e solenne (stretta di mano alla presenza di testimoni; sottoscrizione dell’atto notarile con testi; celebrazione delle nozze davanti al ministro di culto ed ai testi), ma si privatizza e diventa informale. Una setta propone un matrimonio informatico in cui i nubendi si siedono davanti ai loro computer e premendo un tasto contemporaneamente accettano di sposarsi. Basta che il “foro interno” per un momento esca alla luce e si esprima in àmbito esterno. Non siamo ancora ai nuda pacta, alla contrazione solo animo, in quanto qualcosa di “esterno” rimane nella memoria e non solo umana, ma forse non molto ci manca. In consonanza con antiche tradizioni giuridiche, quella canonica in primis (pensando alle conseguenze di foro interno ed esterno di ogni patto stipulato anche in forma libera, dalla fides in qualsiasi modo data e della promissio con oggetto temporale), vecchio e nuovo si mescolano in questa trasformazione epocale. NOTA REDAZIONALE Il presente saggio: Luciano Musselli, Dalla conclusione del contratto per stretta di mano alla firma elettronica: considerazioni minime sulle trasformazioni del diritto è la ventiduesima spora della rubríca Spore della “Rivista internazionale di Filosofia del diritto”. Le spore sono opera di 19 autori: al-Malik (*) LUCIANO MUSSELLI, Società civile e società religiosa tra diritto e storia, Wolters Kluwer / Cedam, 2016. Per gentile concessione dell’Editore. RECENSIONI 331 al-Afdal, Aurelio Agostino, Francesco Astone, Benedetto da Norcia, Stefano Colloca, Amedeo Giovanni Conte, Maria-Elisabeth Conte, Francesca De Vecchi, Dario Di Lauro, Federico L.G. Faroldi, Guglielmo Feis, Ippolito di Roma, Isidoro di Siviglia, Giuseppe Lorini, Jakub Martewicz, Riccardo Mazzola, Emil Mazzoleni, Luciano Musselli, Cesare Ripa. (Pubblicato in «Rivista internazionale di Filosofia del diritto», 3, 2011, pp. 415-417) 332 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 3/2016 GUGLIELMO BERNABEI (*), GIACOMO MONTANARI (**), Fiscalità locale. Ricerca di un difficile equilibrio. ARACNE EDITRICE, ROMA 2016, P. 192 La fiscalità locale costituisce uno straordinario cantiere nel quale, nel corso degli ultimi anni, sono stati sperimentati nuovi tipi di prelievo (Ici, Imu, Tarsu, Tares, Tia, Tasi, Iuc) e sono stati ripensati i modelli di gestione degli stessi. Oggi, la pesante riduzione dei trasferimenti erariali assegna ai tributi locali una notevole rilevanza costituendo strumenti imprescindibili per perseguire obbiettivi di politica fiscale, nel quadro, sempre più stringente, dei parametri europei. In questo contesto, particolare interesse suscitano le disposizioni in materia di prelievo sugli immobili posti dalle disposizioni, che si sono succedute anche a seguito della grave crisi economico-sociale, in materia di federalismo fiscale, rendendo meno evidente agli occhi dei contribuenti il collegamento tra imposte e servizi. Le disposizioni in materia di definizione ed applicazione dei tributi locali immobiliari, nell'ottica ancora lontana di una Local Tax, pongono nuovi interrogativi specie se posti in relazione con la difficile attuazione della legge n. 42 del 2009. Il volume, dedicato agli scenari della fiscalità locale tra modelli gestori e nuovi strumenti di prelievo, vuole rappresentare la sintesi di precedenti studi e ricerche sul tema della finanza locale, evidenziando gli aspetti più salienti delle tematiche affrontate in questi anni. Le questioni esposte risultano essere quelle più significative per sottolineare la difficoltà di giungere ad un sostenibile punto di equilibrio. Un aspetto importante sul quale il presente lavoro si è soffermato concerne la capacità fiscale intesa quale uno dei parametri che andrebbero meglio valutati al fine di garantire una finanza locale più in linea con le esigenze dei singoli territori. A differenza del tentativo, svolto e in atto, per la determinazione dei costi e dei fabbisogni standard, la determinazione della capacità fiscale standard non è mai iniziata. Quest’ultimo aspetto, invece, risulta determinate, anche in relazione alla possibilità di delineare un sistema di perequazione che tenga conto dei principi di equità, giustizia, sussidiarietà e solidarietà. È assodato che, negli enti locali dove i trasferimenti erariali sono proporzionalmente più alti, si assiste a una minore autonomia finanziaria. Questo fatto può essere determinato da diversi fattori, come, ad esempio, una scarsa capacità fiscale territoriale. In questo senso, la determinazione della capacità fiscale deve consentire di individuare la potenzialità fiscale di ogni ente. Il lettore avrà, pertanto, dinanzi un testo più agile e snello per riassumere le linee fondamentali delle tematiche in merito al difficile equilibrio tra fiscalità locale e tributi locali immobiliari. La prefazione al volume è stata curata da Francesco Tuccio, Presidente Anutel, Associazione Nazionale degli Uffici Tributi degli Enti Locali, al quale porgiamo il nostro sentito ringraziamento. Guglielmo Bernabei Giacomo Montanari (*) Dottore di ricerca e cultore della materia in diritto costituzionale, diritto regionale e degli enti locali presso l’Università degli Studi di Ferrara. (**) Giurista d’impresa, specilizzato presso la scuola di specializzazione per le professioni legali dell’Università di Padova ed esperto di diritto tributario degli enti locali e di finanza locale. RECENSIONI 333 Indice Prefazione di Francesco Tuccio Introduzione Capitolo I Finanza locale e autonomia tributaria 1.1. Evoluzione del sistema di autonomia locale - 1.2. Il sistema di finanza locale prefigurato dalla Riforma del Titolo V: tratti generali - 1.3. Il coordinamento della finanza pubblica nel processo di attuazione del Titolo V - 1.4. Il Federalismo fiscale. Tematiche di fondo - 1.5. Finanza municipale: modello di analisi - 1.6. Potestà normativa in materia di tributi propri degli enti locali - 1.7. Condizione attuale del potere regolamentare degli enti locali. Capitolo II Tributi immobiliari locali e sistema di finanza locale 2.1. Premessa - 2.2. Cedolare secca sugli affitti - 2.3. Tasi-Imu e Service Tax: difficile sviluppo dei tributi locali - 2.3.1. Il contesto di riferimento - 2.3.2. Uno sviluppo difficile - 2.3.3. Tasi- Imu, prima casa e Legge di Stabilità 2016 - 2.3.4. Tasi-Imu e immobili in comodato d’uso - 2.3.5. Imu e immobili di lusso adibiti a prima casa - 2.3.6. Imu e possibili rilievi di legittimità costituzionale - 2.3.7. Imu imbullonati - 2.3.8. Una service tax mascherata - 2.4. Bilanciamento degli interessi nei rapporti finanziari tra Stato e Regioni - 2.4.1. Il bilanciamento degli interessi: una questione centrale - 2.4.2. Il confine del bilanciamento - 2.4.3. Bilanciamento degli interessi nei rapporti tra Stato e Regione - 2.4.4. Giurisprudenza costituzionale in materia di allocazione del gettito Imu: sentenza n. 155 del 2015 - 2.4.5. Osservazioni - 2.5. Tari - 2.5.1. Premessa - 2.5.2. La disciplina della Tari - 2.5.3. Incerto fondamento della tassazione dei rifiuti solidi urbani - 2.6. Tari e natura giuridica - 2.6.1. Premessa - 2.6.2. La nozione di tributo negli orientamenti della giurisprudenza costituzionale e di legittimità - 2.6.3. Sentenza della Corte di Cassazione n. 12035/2015 e natura della Tari - 2.7. Commento a Commissione tributaria provinciale di Lecce, sentenza n. 1891/2015 - 2.7.1. Premessa - 2.7.2. Fatti di causa e la decisione - 2.7.3. Riflessioni a margine della pronuncia - 2.8. Imu agricola, 122 - 2.8.1. Tasi e terreni agricoli - 2.8.2. Imu agricola: imposizione e forme di esenzione - 2.8.3. Imposizione fiscale locale e settore agricolo - 2.9. Finanza locale: questione aperta. Capitolo III Provincia autonoma di Bolzano e il caso Imi 3.1. Il consolidamento dell’assetto finanziario della Provincia autonoma di Bolzano - 3.2. La finanza propria - 3.3. Il caso Imi. Capitolo IV Provincia autonoma di Trento e il caso Imis 4.1. Autonomia finanziaria - 4.2. La finanza propria - 4.3. Il caso Imis - 4.4 Tari e disciplina nel Comune di Trento - 4.4.1. Premessa - 4.4.2. Tariffa rifiuti e disciplina della Provincia autonoma di Trento - 4.4.3. Tari e Comune di Trento - 4.4.4. Natura corrispettiva Tari trentina. Capitolo V Iuc e Local Tax 5.1. Tassazione locale e teoria del beneficio - 5.2. Iuc e Local Tax - 5.3. Modelli di detrazione per Local Tax - 5.4. Local Tax e spazi di manovra dei Comuni - 5.4.1. Imposte sul patrimonio immobiliare e possibili nuove entrate per i Comuni - 5.4.2. Local Tax minimale - 5.5. Una nuova autonomia per gli enti locali - 5.5.1. Verso una capacità fiscale standard. Finito di stampare nel mese di dicembre 2016 Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo S.p.A. Vicolo della Guardiola n. 22 - 00186 Roma