ANNO LXVIII - N. 2 APRILE - GIUGNO 2016 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO COMITATO SCIENTIFICO: Presidente: Michele Dipace. Componenti: Franco Coppi - Giuseppe Guarino - Natalino Irti - Eugenio Picozza - Franco Gaetano Scoca. DIRETTORE RESPONSABILE: Giuseppe Fiengo - CONDIRETTORI: Maurizio Borgo, Danilo Del Gaizo e Stefano Varone. COMITATO DI REDAZIONE: Giacomo Aiello - Lorenzo D’Ascia - Gianni De Bellis - Francesco De Luca - Wally Ferrante - Sergio Fiorentino - Paolo Gentili - Maria Vittoria Lumetti - Francesco Meloncelli - Marina Russo. CORRISPONDENTI DELLE AVVOCATURE DISTRETTUALI: Andrea Michele Caridi - Stefano Maria Cerillo - Pierfrancesco La Spina - Marco Meloni - Maria Assunta Mercati - Alfonso Mezzotero - Riccardo Montagnoli - Domenico Mutino - Nicola Parri - Adele Quattrone - Piero Vitullo. HANNO COLLABORATO INOLTRE AL PRESENTE FASCICOLO: Domenico Andracchio, Giuseppe Arpaia, Francesco Cecchini, Maria Luisa Costanzo, Luca Dell’Osta, Fabio Fasani, Emanuela Antonia Favara, Adriana Lagioia, Grazia Maggi, Luigi Maruotti, Glauco Nori, Stefano Pizzorno, Dadiv Romei, Francesco Scardino. Email giuseppe.fiengo@avvocaturastato.it maurizio.borgo@avvocaturastato.it danilodelgaizo@avvocaturastato.it stefanovarone@avvocaturastato.it ABBONAMENTO ANNUO ..............................................................................€ 40,00 UN NUMERO .............................................................................................. € 12,00 Per abbonamenti ed acquisti inviare copia della quietanza di versamento di bonifico bancario o postale a favore della Tesoreria dello Stato specificando codice IBAN: IT 42Q 01000 03245 348 0 10 2368 05, causale di versamento, indirizzo ove effettuare la spedizione, codice fiscale del versante. I destinatari della rivista sono pregati di comunicare eventuali variazioni di indirizzo AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO RASSEGNA - Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma E-mail: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it Stampato in Italia - Printed in Italy Autorizzazione Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 INDICE - SOMMARIO CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE Emanuela Antonia Favara, Corte di Giustizia e res iudicata: abbattute le colonne d’Ercole?. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Glauco Nori, I rifugiati: non sarebbe il caso di ricordare la normativa? Luca Dell’Osta, L’atto amministrativo contrario al diritto dell’Unione europea nell’alto mare aperto: un intervento legislativo per conciliare supremazia del diritto europeo e i principi di certezza e affidamento . . . CONTENZIOSO NAZIONALE Grazia Maggi, Enti lirici. La sentenza della Corte Costituzionale n. 260 del 2015. Una lettura interpretativa e riflessi sui contenziosi pendenti (C. Cost., sent. 11 dicembre 2015 n. 260) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Adriana Lagioia, L’onere della prova del chiamato all’eredità e la sua capacità di rappresentare l’eredità in giudizio (Cass. civ., Sez. V, sent. 23 marzo 2016 n. 5750) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Francesco Scardino, L’uso illegittimo dell’autovettura di servizio (Cass. pen., Sez. VI, sent. 31 marzo 2016 n. 13038). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Giuseppe Arpaia, Sospensione del processo ed individuazione del termine di decorrenza dell’atto di riassunzione rispetto ad una parte non presente nel giudizio pregiudiziale (C. app. Napoli, Sez. I civ., sent. 23 giugno 2016 n. 2533). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Stefano Pizzorno, L’estensione della tutela di rifugiato per una caratteristica fondamentale dell’identità (Trib. Palermo, Sez. I civ., ord. 11 aprile 2016). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Francesco Cecchini, Ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza e bancarotta. La legittimazione alla costituzione di parte civile del Ministero dello Sviluppo Economico. . . . . . . . . . . . . . LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ Glauco Nori, Uno dei problemi provocati dal “bail in” . . . . . . . . . . . . . Maria Luisa Costanzo, La tutela dei beni superindividuali: evoluzione normativa e giurisprudenziale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . CONTRIBUTI DI DOTTRINA Domenico Andracchio, Lo “Stato-autoproduttore”. Dalle origini giurisprudenziali alla codificazione dell’in house providing. . . . . . . . . . . . . . Francesco Meloncelli, Il valore doganale nel “transfer pricing” . . . . . . Alfonso Mezzotero, David Romei, Gli effetti dell’annullamento dell’aggiudicazione sul contratto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1 ›› 51 ›› 62 ›› 73 ›› 92 ›› 105 ›› 120 ›› 130 ›› 136 ›› 159 ›› 162 ›› 171 ›› 229 ›› 253 RECENSIONI Alfonso Mezzotero, David Romei, Il patrocinio delle Pubbliche Amministrazioni. La Difesa innanzi alle Giurisdizioni Ordinarie e Speciali - Prefazione del dott. Luigi Maruotti, CSA Editrice, 2016 . . . . . . . . . . . . . Fabio Fasani, Terrorismo islamico e diritto penale, CEDAM, 2016 . . . . pag. 277 ›› 281 CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE Corte di Giustizia e res iudicata: abbattute le colonne d’Ercole? Emanuela Antonia Favara* SOMMARIO: INTRODUZIONE - (IN)TANGIBILITÀ DEL GIUDICATO NAZIONALE. UN ASSIOMA APPARENTE? I.I. - Concettualizzazione della res iudicata - I.II. La cosa giudicata sostanziale nell’ordinamento italiano - I.III. La cosa giudicata formale nell’ordinamento italiano - I.IV. Profili di “ingiustizia” del giudicato - I.V. Ingiustizia per contrarietà al diritto comunitario - I.VI. La problematica gestione del precedente - I.VII. L’attivismo giudiziale della Corte di Giustizia - I.VIII. La Corte di Giustizia e l’autonomia degli Stati membri - I.IX. Percorso dell’analisi. PARTE PRIMA - LA RESPONSABILITÀ DELLO STATO PER LA VIOLAZIONE DEL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA (Sentenze Francovich (C-6/90), Brasserie du pe^cheur e Factortame (C-46/93 e C- 48/93) e Köbler (C-224/01). 1.1. Le peculiarità del caso Francovich - 1.2. Ulteriori riflessioni in materia di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario -1.3. Violazione sufficientemente grave e manifesta: un argine autoimposto? - 1.4. Funzionalizzazione della responsabilità statale - 1.5. Verso la sistematizzazione della responsabilità - 1.6. Le funzioni della responsabilità e le esigenze individuali - 1.7. Rischi di una elaborazione volutamente imprecisa - 1.8. L’apparente unitarietà della responsabilità - 1.9. Decentralizzazione e garanzia di un ricorso effettivo - 1.10. Riflessi sul principio di intangibilità della res iudicata. PARTE SECONDA - CORTE DI GIUSTIZIA E RES IUDICATA: CRONACA DI UN BLANDO TRAVOLGIMENTO (Sentenze Eco Swiss (C-126/97); Kühne & Heitz (C-453/00); Kapferer (C-234/04); Lucchini (C-119/05); Fallimento Olimpiclub (C-2/08); Pizzarotti (C-213/13). 2.1. Le pronunce (*) Dottore in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. Il presente studio è un estratto della Tesi di Diploma di Licenza Magistrale della Scuola Superiore dell’Università di Catania, difesa il 14 dicembre 2015. (Relatore Chiar.mo Prof. Andrea Bettetini - Università degli Studi di Catania, Controrelatore Chiar.mo Prof. Marco Pedrazzi - Università degli Studi di Milano). L’Autrice rivolge un particolare ringraziamento, per i puntuali e preziosi spunti di ricerca, agli Avvocati dello Stato Anna Collabolletta e Paolo Gentili. 2 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 delle Corti europee e l’intrusione nella sovranità statale - 2.2. Una ingerenza necessitata - 2.3. Tre filoni interpretativi - 2.4. Corte di Giustizia e giudicato nazionale. Lesione di principi? - 2.5. Una nuova chiave di lettura dei rapporti fra ordinamenti - 2.6. Uno scontro evitabile - 2.7. Il caso Pizzarotti: rilievi della sentenza della Corte nella considerazione del giudice remittente - 2.8. Limiti del risarcimento in forma specifica e responsabilità civile dei magistrati: la chiusura del cerchio. CONSIDERAZIONI FINALI. INTRODUZIONE (IN)TANGIBILITÀ DEL GIUDICATO NAZIONALE. UN ASSIOMA APPARENTE? I.I. Concettualizzazione della res iudicata. L’autorità di res iudicata conferisce all’oggetto del giudizio immutabilità ed incontrovertibilità sostanziali e processuali. Il concetto di cosa giudicata, infatti, racchiude in sé due aspetti, due facce (1) della stessa giuridica medaglia: il passaggio in cosa giudicata comporta, in genere, la preclusione di mezzi di revisione della sentenza e, altresì, l’immutabilità della statuizione contenuta nella sentenza stessa, anche nei termini della sua influenza sulle vicende giuridiche collegate a quella oggetto del giudicato. Per Chiovenda (2), la «cosa giudicata consiste nell’indiscutibilità dell’esistenza della volontà concreta di legge affermata nella sentenza»: ciò significa che nella sentenza passata in giudicato si incarna la norma generale ed astratta sotto la quale è sussumibile il caso concreto, conferendo alla stessa la natura di regola applicabile per la risoluzione dello stesso (3). Ciò risponde a criteri di certezza ed economicità, sicché non dovrebbe più essere ammesso ritornare su quanto è coperto dall’efficacia del giudicato, pena anche la delusione dell’affidamento ingenerato su una statuizione che, per le particolari contingenze che ne hanno determinato l’immutabilità, ha meritato l’assunzione nell’empireo dei concetti (4). Nel quadro di scambi naturali e obbligati tra i giudici nell’Unione europea, il concetto di giudicato si veste di nuovi colori, in ragione dei confronti incrociati tra le statuizioni delle giurisdizioni nazionali, prime e naturali detentrici del monopolio applicativo del diritto dell’Unione e quelle della Corte di Giustizia, cui è riservata l’interpretazione dello stesso. (1) Così FAZZALARI E., Processo Civile, in Enc. Dir., vol. XXXVI, Milano, 1987, 189. (2) CHIOVENDA G., Principi di diritto processuale civile, Napoli, Jovene, 1980, 906. (3) CHIOVENDA G., ivi, 907. (4) Alla stregua della nota corrente della Begriffsjurisprudenz (giurisprudenza dei concetti), secondo la quale l’interprete dovrebbe far riferimento esclusivamente a quanto, astratto dalle contingenze eteronome provenienti dal corpo sociale, sia concepibile come concetto giuridico puro. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 3 Tali circostanze, più che minare la rilevanza del fenomeno (5), ne richiedono una più attenta analisi, nei termini della sua incidenza sui rapporti disciplinati dal diritto dell’Unione e sulla sua capacità di sopravvivere alla primautè comunitaria. I.II. La cosa giudicata sostanziale nell’ordinamento italiano. La cosa giudicata sostanziale, o materiale, cui è dedicato l’articolo 2909 del codice civile italiano, (che è distinta da quella formale, di cui all’articolo 324 del codice di rito, che, per certi, versi, ne è antecedente logico, in quanto potrà spiegare i suoi effetti di cosa giudicata sostanziale l’accertamento contenuto in una sentenza che sia incontrovertibile, nel senso di essere passata in giudicato formale), corrisponde all’accertamento contenuto nella sentenza del giudice civile, la quale fa stato ad ogni effetto (Feststellung) fra le parti, i loro eredi ed aventi causa. In altre parole, l’articolo 2909 c.c. descrive gli effetti della trasformazione della res in iudicium deducta (cristallizzata entro i limiti cronologici della udienza di precisazione delle conclusioni) in res iudicata. Asserire che il giudicato sostanziale fa stato significa che esso vincola le parti, che hanno scelto, attraverso la devoluzione di una controversia ad un organo giurisdizionale, di imprimere ai loro rapporti giuridici nuova certezza (res iudicata pro veritate habetur). Risiede, probabilmente, nel concetto di fare stato l’intima contraddizione del concetto di giudicato, che è certezza interna al rapporto giuridico processuale, necessariamente cieca rispetto alle contingenze mondane che potrebbero incidere la vicenda dedotta in giudizio successivamente alla cristallizzazione formale ed obbligata che è essenza del giudicato stesso (6). Fare stato ad ogni effetto comporta che il giudicato imprima il suo divieto di ne bis in idem (a differenza che nel processo penale (7), in cui l’effetto negativo sembrerebbe preponderante su ogni altro, nel processo civile, in quello amministrativo e in quello tributario (8) si distinguono, più propriamente, la (5) Come, in parte, sostenuto da PUNZI C., Il processo civile, Volume I, II ed., Torino, Giappichelli, 2010, 46. (6) Cfr. BETTETINI A., Verità, giustizia, certezza: sulla cosa giudicata nel diritto della Chiesa, Padova, Cedam, 2012, 9, il quale, rapportando la cristallizzazione propria del giudicato al modello formale del linguaggio, sottolinea come, se da un lato esso è in grado di creare un mondo indipendente da quello che dovrebbe rappresentare, dall’altro, in seguito a tale circoscrizione concettuale, viene necessariamente accantonato il rapporto con la realtà degli eventi a questa sottesi. (7) Cfr. art. 649 c.p.p. (8) Nel diritto tributario, probabilmente, si coglie nella sua interezza la problematicità di accertamenti giurisdizionali risoltisi in una res iudicata i quali, in virtù del conseguente e spesso naturale frazionamento temporale o personale delle posizioni impositive, potrebbero non essere al passo con le contingenze fattuali e, pertanto, non rispondere pienamente all’istanza di giustizia che, più che mai nella pretesa fiscale, è avvertita come necessaria. 4 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 accezione di effetto preclusivo diretto, e quella, ulteriore, di effetto positivo conformativo riflesso, che determina il modo in cui le eventuali e successive questioni dovranno essere decise in ragione della presenza del giudicato) (9) non solo ai successivi processi ove fosse azionato il medesimo diritto, ma anche a quelli relativi a diritti diversi e strettamente connessi al primo. Ciò, naturalmente, determinerà una diversificazione dei poteri del giudice e del loro esercizio, in quanto, nel caso di un giudicato che espliciti la sua efficacia conformativa, il giudice sarà chiamato a decidere e lo farà in ossequio al contenuto del precedente giudicato (profilandosi una mera circoscrizione della sua libertà di giudizio); viceversa, nel caso di efficacia negativa, al giudice sarà precluso di ritornare sulla questione coperta dal giudicato, richiedendosi, dunque, allo stesso un vero e proprio dovere di astensione dalla decisione della causa. L’articolo 2909 è, non a caso, posto a chiusura del codice civile, costituendo, probabilmente, il tramite (10) per il quale il diritto sostanziale, vivificato nella realtà, ma inevitabilmente deietto, imperfetta copia dell’idea pura di ius oggetto di codificazione, transita verso l’eventuale, ma inevitabile, momento processuale, per essere riaffermato nella sua interezza. I.III. La cosa giudicata formale nell’ordinamento italiano. L’articolo 324 del codice di procedura civile, rubricato, appunto, «Cosa giudicata formale», descrive, invece, l’attitudine formale della sentenza passata in giudicato a resistere ad ulteriori modificazioni (11), in quanto esaurita ogni possibilità di emendamento e di riesame delle quaestiones a questa sottese, attraverso le ormai impraticabili impugnazioni ordinarie predisposte dall’ordinamento o a seguito dell’acquiescenza della parte interessata. La dottrina sulla cosa giudicata, spesso assestata su posizioni antiteticamente contrapposte (12), risente più di altre della collocazione in terreno di confine di tale concetto, tra il diritto sostanziale e quello processuale. È più giusto riconoscere (13) che la cosa giudicata viva di tale bilico, che ne è linfa e inscindibile presupposto concettuale, non a caso comprovato dall’esistenza di due norme (i già citati articoli 2909 c.c. e 324 c.p.c.), che sono la codificata dimostrazione della sua intrinseca poliedricità. Così concepita, quindi, la cosa giudicata si concreta nella riconosciuta attribuzione del bene della vita, legittimata dal diritto sostanziale e vivificata, a (9) Cfr. CONSOLO C., che, per descrivere la seconda delle accezioni del concetto di cosa giudicata sostanziale, parla di specularità al negativo in Spiegazioni di diritto processuale civile, Volume I, Torino, Giappichelli, 2011, 184. (10) Cfr. CONSOLO C., che descrive l’art. 2909 del codice civile come un ponte, in op. cit., Volume I, 166. (11) O meglio, come più propriamente si evince dalla lettera della legge, l’art. 324 fa derivare dalla preclusione dei mezzi ordinari di riesame della pronuncia il passaggio in giudicato della stessa. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 5 seguito della contestazione sulla spettanza, da quello processuale (sententia facit ius) (14). A cavallo tra i rigorismi concettuali del codicismo e la necessitata dimensione dialettica dello storicismo (15), la teoria del giudicato è stata, tra l’altro, una delle esemplificazioni della riduzione del diritto a processo, che tanto animò la filosofia giuridica romantica, nella convinzione che il diritto sostanziale, concepito organicamente e senza imposizioni di sorta, trovasse il proprio completamento logico e concettuale solo nell’esperienza processuale (16). È come se, per dirla con Wittgenstein nella sua essenza neokantiana, il diritto non esistesse senza esperienza, in quanto è quest’ultima a renderci edotti dell’esistenza di posizioni formali prima ignote, incidendo sul reale e sul concetto di attribuzione che ritenevamo innato. La definizione processuale dell’assetto di interessi non sarà mai priva di sacrifici in capo a chi risultasse soccombente nel giuoco di attribuzioni e privazioni che, immancabilmente, accompagna le controversie sulle posizioni giuridiche soggettive. E, tuttavia, tale sacrificio non è contrario alla razionalità, in quanto, attraverso il soddisfatto anelito alla certezza, esso garantisce l’ordine sociale (17). (12) Cfr. PUGLIESE G., Giudicato civile, in Enc. Dir., vol. XVIII, Milano, 1969, 836, che distingueva tra teoria sostanziale del giudicato e teoria processuale, sulla scorta della dottrina classica tedesca. Tale diversificazione è stata ben commentata da CONSOLO C., op. cit., Volume I, 195: «La tesi sostanziale (Carnelutti, Allorio) ritiene che la sentenza e il giudicato siano, in sostanza, qualche cosa che entra a far parte direttamente e già sul terreno del diritto sostanziale della dinamica di estinzione e produzione dei rapporti giuridici. L’art. 2909 sarebbe allora - come rilevava la Relazione al Re - collocato nel c.c. in modo corretto dal punto di vista non solo funzionale (tutela giurisdizionale dei diritti), ma anche strutturale ed effettuale, siccome istituto al fondo di diritto materiale (Goldschmidt). Per conseguenza di tale effetto sostanziale il nuovo giudicato de eadem re non sarebbe impedito dal vero e formale ne bis in idem, ma ad esso conformato. L’altra più snellamente concepita tesi (Chiovenda), quella processuale, si basa su un principio di preclusione al riesame della domanda; preclusione giustificata e non incostituzionale poiché c’è già stato un primo esame che l’ordinamento ritiene verosimile e comunque sufficiente». (13) Come fa PUNZI C., op. cit. (14) Cfr., in merito, le teorie di SATTA S., Commentario del codice di procedura civile, voll. I-II, Milano, 1959-1960. (15) Si allude qui alla contrapposizione, frutto della reazione al razionalismo illuminista, tra l’ossequioso asservimento alla lettera della legge tipico di quest’ultima e il metodo dialettico di trasformazione del processo storico a mezzo di antitesi, che caratterizzò la filosofia hegeliana. (16) Cfr. VON SAVIGNY F.C., System des heutigen römischen Rechts (1840-1851); tr. it. (a cura di) SCIALOJA, V., Sistema del diritto romano attuale, vol. 1, Torino, ed. Unione Tipografico, 1886-1898, per cui «teorico perfetto sarebbe dunque colui la cui teoria fosse vivificata dalla piena e completa conoscenza di tutta la pratica attività giuridica; tutti i rapporti morali, religiosi, politici, economici della vita reale dovrebbero essere presenti al suo sguardo». Su questo argomento, cfr. anche SATTA S., Diritto processuale civile, Cedam, Padova, 1950; PEKELIS A., Il diritto come volontà costante, Cedam, Padova, 1930; BOBBIO N., La filosofia del diritto di Julius Binder, Milano, Giuffrè, 1943. (17) Cfr. CAPOGRASSI G., Prefazione a «La certezza del diritto» di F. Lopez de Oñate, in D’ADDIO M. - VIDAL E. (a cura di) Opere di Giuseppe Capograssi, vol. V, Milano, 1959. 6 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 I.IV. Profili di “ingiustizia” del giudicato. È opportuno, dunque, interrogarsi sulle sorti di una pronuncia protetta dal giudicato, allorché si profili un contrasto tra questa e altro giudicato o se ne rinvenga una qualsivoglia ingiustizia secondo i parametri di un altro ordinamento, come quello comunitario, dotato di caratteri di primazia nelle materie assegnate alla competenza delle sue istituzioni. Ovvero, è necessario chiedersi se tale pronuncia permarrà intatta nella sua essenza di legge del caso concreto, impermeabile a successive ed eventuali contingenze, anche dove queste dovessero qualificarla come palesemente ingiusta o se, viceversa, essa tollererà superamenti e riedizioni di sorta in ossequio ad una esigenza di giustizia e correttezza promanante dall’ordinamento comunitario. I fautori di questa seconda (forse, secondo quando si dirà, solo apparentemente rivoluzionaria) corrente interpretativa sostengono che il giudicato copra il dedotto ed il deducibile, quest’ultimo inteso come quanto rappresentabile dalle parti fino al momento della precisazione delle conclusioni, ma non già il non ancora deducibile, cioè le sopravvenienze successive al giudicato suscettibili di incidere sulla base giuridico concettuale posta a sostegno dello stesso. In questo modo, tuttavia, le istanze di revisione della res judicata formatasi a livello nazionale, a fronte di eventuali discrasie tra la stessa e la normativa sovranazionale dell’Unione europea, porrebbero l’interprete al crocevia tra certezza e giustizia, sempre che di quest’ultima possa ancora discorrersi laddove la prima venga scardinata (18). Una tale divaricazione, che si concreta nel dualismo tra essere (Sein) e dover essere (Sollen), tipica dello storicismo idealista ottocentesco (19), è un prodotto della modernità, sebbene sia archetipale l’ossequio ad una suprema idea di giustizia (fino all’assimilazione della stessa con una superiore volontà divina) (20), in qualche modo deietta nell’incontro mondano. Una corretta analisi diceologica non può, quindi, prescindere dall’interrogativo sulla corrispondenza del diritto a un ethos, o meglio, della ricomprensione del secondo nel primo, con intento vivificante e nobilitante: la certezza (18) È pur vero che «la certezza del diritto è qualcosa non di astratto e schematico, ma di concreto, di specifico, di correlativo alle singole esperienze ed ai singoli ordinamenti, di cui si compone il mondo del diritto». LOPEZ DE OÑATE F., La certezza del diritto, Milano, Giuffrè, 1968, 47 ss. (19) Hegel distingueva tra Etica e Morale, riconoscendo a quest’ultima rilevanza esclusivamente individuale e assegnando all’etica un ruolo sociale e filosofico. Quest’ultima è assurta al rango di concetto della filosofia, che ha ad oggetto l’analisi dei mores dell’uomo. Cfr. HEGELW.F., Lineamenti di filosofia del diritto, Bari, Laterza, 1965. In ottica di ricomprensione delle morali (che per Hume erano molteplici e dipendenti dall’esperienza), è stata la filosofia di Kant il preludio concettuale alle esperienze internazionali, tra cui quella europeistica, contraddistinte dall’anelito alla ricerca di una superiore morale con-divisa, dalla quale far scaturire, altresì, omogeneità nell’esperienza giuridica. Cfr. KANT I., Critica della ragion pratica e altri scritti morali, Torino, Utet, 2006. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 7 del diritto (Rechtssicherheit) deve ricomprendere il principio della giustizia (Gerechtigkeit) perché essa possa resistere alle leve deontologiche? Si ricade, forse, in un curioso ossimoro (contradictio in adiecto) ponendo in dubbio la correttezza di una statuizione, quale è quella oggetto di giudicato, che, di per se stessa ed antonomasticamente dovrebbe essere dotata dei caratteri della giustizia e dell’incontrovertibilità (21). Ci si chiede, dunque, se la primazia del diritto comunitario su quello nazionale eventualmente contrastante con lo stesso comporti e pretenda che un giudicato (22) formatosi nell’ordinamento di uno Stato membro possa, in qualche modo, essere sovvertito in ragione della sua difformità rispetto ad una normativa comunitaria, specie in seguito ad una pronuncia della Corte di Giustizia. In altre parole, può discorrersi di una qualche cedevolezza del concetto di giudicato nel giuoco di rapporti che connota l’ordinamento comunitario, attraverso i dialoghi fra le Corti? È ammissibile che la regula iuris in senso normativo, che è la concretizzazione nel reale della lex, asfitticamente intesa nella sua dimensione codificata, superindividuale e incontrovertibilmente giusta, risulti cedevole proprio a causa della vulnerabilità che le deriva dalla sua mondanizzazione processuale? Nell’analisi della questione non può prescindersi dalla convinzione per cui, tradizionalmente, la sentenza irrevocabile è il limite finale contro il quale l’ingiustizia lotta la sua ultima battaglia, «l’errore che sta dietro di essa - errore che tutti noi dovremmo sforzarci a che sia ridotto alla minima entità - resta coperto da essa, così come ogni impurità resta annullata nel compendio di un’opera» (23). I.V. Ingiustizia per contrarietà al diritto comunitario. La questione appare ampia ed articolata, anche in considerazione della molteplicità delle tecniche di revisione delle decisioni previste negli ordinamenti di ciascuno degli Stati membri e degli accorgimenti rimediali, in particolar modo amministrativi (24) e tributari (25), posti in essere a fronte di (20) L’Antigone sofoclea accettava il sacrificio della vita in ossequio alle supreme ed incontrovertibili leggi divine, che erano «[r]egole non d'un'ora, non d'un giorno fa. Hanno vita misteriosamente eterna. Nessuno sa radice della loro luce. E in nome d'esse non volevo colpe, io, nel tribunale degli dèi, intimidita da ragioni umane». Tale giustizia divina, in lotta con le leggi degli uomini, era ed è destinata a soccombere di fronte ai formalismi del ius positum (e non è un caso che la tragedia di Antigone consacri la ingiusta vittoria di Creonte). (21) Nel diritto tedesco, il termine Rechtskraft (letteralmente “forza del diritto”) rappresenta l’incarnazione dell’autorità giuridica vincolante. (22) CONSOLO C. in op. cit. preferisce parlare della norma nazionale che attribuisce autorità di cosa giudicata ad un atto giurisdizionale. (23) Cfr. LEONE, G., Il mito del giudicato, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1956, 197. (24) Dove, più che ai rimedi giurisdizionali, dovrebbe, forse, farsi riferimento all’istituto della autotutela amministrativa. Cfr. CERULLI IRELLI V., Lineamenti del diritto amministrativo, III ed., Torino, Giappichelli, 2012, 506 ss. (25) Si allude all’istituto della frammentazione del giudicato, che sottenderebbe una evoluzione 8 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 statuizioni confliggenti con la normativa sovranazionale e, perciò, private, dal tempo o dalle contingenze, del carattere di giustizia che nel giudicato avrebbe dovuto essere colto e definitivamente impresso. La necessità di artifici giuridici siffatti risulterebbe accentuata alla luce del principio fondamentale del diritto dell’Unione di leale cooperazione (di cui all’articolo 4 comma 3 TUE) (26), per cui, tra l’altro, gli Stati membri sono tenuti a conformarsi alle decisioni della Corte di Giustizia allorché essa abbia riscontrato un contrasto tra le loro normative interne (in cui potrebbero latamente farsi rientrare gli orientamenti e le decisioni pretorie) ed il diritto comunitario, primario e secondario. Vengono qui in rilievo diversi ordini di questioni: la possibilità di individuare dei limiti al principio di intangibilità della cosa giudicata può porsi in aperto ed inconcepibile contrasto con il principio della certezza del diritto, allorché vi siano istanze atte semplicemente a giustificare non già un superamento, ma, quantomeno, una diversa declinazione del giudicato, al fine di evitare che esso diventi mero parossismo concettuale, scevro da ogni giustificazione? O, a monte, una siffatta revisione della questione è del tutto inaccettabile alla luce dei canoni classici, per cui il giudicato è in grado di facere de albo nigrum et de quadrato rotundum? Ora, nelle molteplici angolazioni della prospettiva comunitaria, connotata da una più ampia varietà di volontà ed interessi in gioco, devono certamente tenersi in debita considerazione le tradizioni giuridiche degli Stati membri, la maggior parte delle quali contempla quello dell’intangibilità del giudicato tra i principi fondamentali dei propri ordinamenti giuridici. Ebbene, vi è da verificare se la tenuta di tali tradizioni giuridiche, e dei loro annessi princìpi, rispetto a statuizioni o normative sovranazionali eventualmente confliggenti possa essere considerata mancato ossequio del diritto comunitario. Bisogna, forse, chiedersi se il problema si ponga realmente come tale o sia semplicemente apparente, in un sistema di relazioni che riesca a tutelare dinamica del rapporto sostanziale, soggetto a frazionamenti logico-temporali, per cui l’applicazione della norma di cui all’art. 324 c.p.c. può essere suscettibile di (anche solo apparenti) deroghe. Si veda più ampiamente infra, Parte Seconda. (26) Articolo 4 TUE «1. (…) 2. (…) 3. In virtù del principio di leale cooperazione, l'Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente nell'adempimento dei compiti derivanti dai trattati. Gli Stati membri adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell'Unione. Gli Stati membri facilitano all'Unione l'adempimento dei suoi compiti e si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell'Unione». CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 9 l’interesse di ognuno dei partecipanti, ai fini della sopravvivenza stessa dell’ordinamento di integrazione. Nel processo creativo dell’Unione europea, che segna il culmine ed il termine dell’egotismo statuale, può rinvenirsi una reinterpretazione del principio del giudicato, che è spinto oltre i limiti della ragion di Stato ed ammantato di istanze garantiste, promananti non solo dalle singole esperienze costituenti statali, ma anche dalle vicende costituenti comunitarie? D’altronde, è proprio nelle dinamiche dell’integrazione che il costituzionalismo multilivello (tradizionalmente irenico o, più spesso, problematicamente polemico (27)) ha trovato la propria linfa vivificante, non essendo altrimenti concepibile (né necessaria, d’altronde) stratificazione alcuna a fronte di omogeneità indotte (28). La questione è ulteriormente arricchita dalle affermazioni della Corte di Giustizia (29), ad esempio, in merito al principio per cui gli Stati membri sono obbligati al risarcimento del danno nei confronti dei cittadini nel caso in cui questi ultimi siano stati danneggiati da una pronuncia dei loro organi giurisdizionali di ultima istanza contraria al diritto eurocomunitario (30). Tale più cauta corrente, sulla quale si tornerà ampiamente allo scopo di individuare una linea direttrice coerente nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, non sembra, ad una prima analisi, contraria al principio della intangibilità della res iudicata, spostando, più che altro, il baricentro concettuale dalla assicurazione del bene della vita (ingiustamente) negato a seguito di una errata interpretazione o applicazione del diritto comunitario al ristoro equivalente di un torto acclarato, ma giuridicamente immodificabile, facendo del giudicato il mero presupposto di una obbligazione risarcitoria da fatto illecito. I.VI. La problematica gestione del precedente. Qui si tratta, forse, di distinguere tra l’inserimento del giudicato nella dimensione costituzionale, ove esso diventa presidio e parametro per il controllo della legittimità delle azioni e delle reazioni a taluni temi sensibili nell’ordinamento e la dottrina dell’efficacia del giudicato nel tempo (31), per cui si opera una valutazione delle sopravvenienze rispetto alla res iudicata e la loro eventuale capacità di inciderne la portata e la resa. (27) Cfr. LUCIANI M., Costituzionalismo irenico e costituzionalismo polemico, in www.associazionedeicostituzionalisti.it. (28) Cfr. D’IGNAZIO G. (a cura di), Multilevel constitutionalism tra integrazione europea e riforme degli ordinamenti decentrati, Milano, Giuffrè, 2011, 2. (29) Ex multis, Corte di Giustizia, sentenza del 30 settembre 2003, Gerhard Köbler contro Repubblica d'Austria, C-224/01, in Raccolta, 2003, I-10239, per cui si veda, ampiamente, infra, Parte Prima. (30) Infra, Parte Prima. (31) In merito ad una tale diversificazione, cfr. CAPONI R., Corti europee e giudicati civili nazionali, in Il costituzionalismo multilivello - Profili sostanziali e processuali, in Atti del XXVII Convegno 10 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 In altre parole, vi è da chiedersi se l’eventuale superamento di una res iudicata ingiusta possa essere inquadrato nel sistema sostanziale di garanzia dei diritti, tutelato dall’ordinamento costituzionale o se, comunque, all’atto dell’eventuale superamento di un giudicato, siano sempre necessarie valutazioni di carattere formalistico. Quanto alle sopravvenienze ritenute suscettibili di attaccare un giudicato, non può tacersi dell’incidenza del principio dello stare decisis, come trasposto e reinterpretato negli ordinamenti di Civil law (cui esso è formalmente estraneo), come quello italiano, nei quali, pur non sussistendo l’obbligo di adeguamento al precedente, si è assistito ad una progressiva infiltrazione del diritto pretorio (e della sua vincolatività) nelle maglie della normativa vigente. Tale sistema di gestione e rilevanza del precedente, cui gli operatori giuridici medi non sono avvezzi, in generale, parrebbe estraneo a taluni istituti - financo quello del giudicato - i quali, naturalmente, non contemplano una evoluzione normativa affidata (solo) alla fluidità del diritto delle corti (32). Su tale scia, si collocano anche le perplessità relative alla sorte di una pronuncia passata in giudicato a seguito della avvenuta dichiarazione di incostituzionalità della norma sulla quale tale pronuncia si è fondata (33). Quanto alla cosiddetta dimensione costituzionale del giudicato, con essa si intende, altresì, lo scontro tra il supporto offerto dall’intangibilità alle esigenze di certezza del diritto ed interventi legislativi successivi discordanti con l’oggetto del decisum, la cui base normativa diventa suscettibile di essere dichiarata incostituzionale dalla Consulta. La certezza, qui intesa come garanzia degli affidamenti del singolo, assume tutta la sua valenza interindividuale, di protezione del cittadino dai poteri pubblici, quasi sceverandosi dei supremi aspetti sovrani (34) di cui è stata successivamente rivestita (35). nazionale dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile, Corti europee e giudici nazionali (Verona, 25-26 Settembre 2009), Bologna, 2011, 203 ss., per cui l’efficacia civile del giudicato nel tempo è intrisa dei caratteri della retrospettività, in quanto la giurisdizione (iurisdictio) è per sua natura pronuncia su qualcosa che è già stato. (32) A ciò si aggiunga, come già ampiamente argomentato, l’inserimento degli ordinamenti nazionali entro un panorama più ampio nei termini della produzione legislativa vincolante, quale è quello europeo e (potenzialmente) meno controllabile, anche in ragione di un non ancora superato deficit democratico e rappresentativo. (33) La questione ha assunto rilevanza e suscitato l’interesse dottrinale specialmente in campo penale, con riferimento a sistemi di rideterminazione della pena nel caso di sopravvenienza di una lex mitior. Cfr. Cass. pen., Sezioni Unite, 29 maggio 2014 (dep. 14 ottobre 2014), Gatto, in archiviopenale.it, 15 ottobre 2014. Cfr., altresì, RICCARDI G., Giudicato penale e incostituzionalità della pena, in penalecontemporaneo.it. (34) CAPONI R. in op. cit. parla di ragion di stato. (35) Si allude alla valenza pubblicistica attribuita al principio del giudicato, che ne fa baluardo del potere dello Stato nei confronti dei singoli, cui il primo oppone la fissità della situazione giuridica cristallizzata nella sentenza. Anche nel panorama comunitario, ove, il giudicato è l’argine ultimo contro la primazia del diritto dell’Unione su quello interno, può cogliersi l’accezione pubblicistica del concetto. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 11 Il giudicato diventa espressione dello stato di diritto perché, se all’interno di quello il potere è limitato dal diritto stesso, esso rappresenta uno dei limiti posti al potere da se stesso. Il cerchio è chiuso, nella dimensione comunitaria, da una trasmigrazione del principio ai vertici, con la rievocazione dello stesso nelle spinte autonomistiche degli Stati, che ne fanno strumento di tutela della propria sovranità (e non più solo garanzia dei cittadini) e lo contrappongono al conseguimento dell’effettività del diritto dell’Unione, invocato a tutti i costi dalle istituzioni europee. Le diversificate interpretazioni rese, in merito, dalla Corte di Giustizia tendono a seguire una logica coerente, protesa all’individuazione di un tertium genus tra fatto e norma, capace di allentare la tensione tra i due senza ricadere in aporetiche sintesi conciliative e, allo stesso tempo, rifuggendone una radicale contrapposizione (36). Come nella filosofia neokantiana di Radbruch (tenuto in dovuta considerazione il sostrato storico politico nel quale essa fu concepita (37)) si perviene ad una celata critica all’impostazione kelseniana del ius quia iussum, per cui il diritto, assicurato dalla promulgazione e dalla sanzione, ha la precedenza anche quando il suo contenuto è ingiusto e inadatto allo scopo, a meno che il conflitto fra diritto e giustizia non giunga ad un tale grado di intollerabilità che il primo (unrichtiges Recht) arretri di fronte alla seconda (38). (36) Cfr. CASTRUCCI E., Rileggendo Radbruch, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, Milano, Giuffrè, fasc. n. 17/1988. Radbruch individuava questo tertium genus nella cultura, cui lo stesso diritto appartiene. Esso, infatti, è un fenomeno culturale e non semplicemente valore o semplicemente fatto. Pertanto, il diritto (nó´mos) non può essere completamente avulso dal valore (come avviene nella phý´sis, che, rispecchiando il caos degli elementi, è cieca rispetto allo stesso). Quindi, «la cultura non è puro valore; è piuttosto un miscuglio di umanità e barbarie, buon gusto e cattivo gusto, verità ed errore, ma sempre in collegamento al valore: non è essa stessa valore o diretta realizzazione del valore. Il ‘collegamento al valore’ indica la modalità che è tipica delle scienze umane». RADBRUCH G., Rechtphilosophie, Stuttgart, Koehler, 1956, 92-93. È possibile cogliere le differenze tra questa filosofia e l’idealismo ottocentesco, cui era ancora quasi estraneo l’orrore della guerra, che, invece, coglieva nel miscuglio del reale, sebbene esso fosse bassa, degradata ed umile empiria, il germe del vero sapere. (37) In Germania, la questione relativa al contrasto fra spirito e lettera della legge fu ispirata dal comportamento dei soldati tedeschi della parte orientale che, posti a presidio del muro di Berlino, sparavano senza pietà contro i civili che vi si fossero trovati in prossimità, in ossequio formale a un ordine dell’autorità. (38) «Der Konflikt zwischen der Gerechtigkeit und der Rechtssicherheit dürfte dahin zu lösen sein, daß das positive, durch Satzung und Macht gesicherte Recht auch dann den Vorrang hat, wenn es inhaltlich ungerecht und unzweckmäßig ist, es sei denn, daß der Widerspruch des positiven Gesetzes zur Gerechtigkeit ein so unerträgliches Maß erreicht, daß das Gesetz als 'unrichtiges Recht' der Gerechtigkeit zu weichen hat. Es ist unmöglich, eine schärfere Linie zu ziehen zwischen den Fällen des gesetzlichen Unrechts und den trotz unrichtigen Inhalts dennoch geltenden Gesetzen; eine andere Grenzziehung aber kann mit aller Schärfe vorgenommen werden: wo Gerechtigkeit nicht einmal erstrebt wird, wo die Gleichheit, die den Kern der Gerechtigkeit ausmacht, bei der Setzung positiven Rechts bewußt verleugnet wurde, da ist das Gesetz nicht etwa nur 'unrichtiges' Recht, vielmehr entbehrt es überhaupt der Rechtsnatur. Denn man kann Recht, auch positives Recht, gar nicht anders definieren als eine Ordnung und Satzung, die ihrem Sinne nach bestimmt ist, der Gerechtigkeit zu dienen». RADBRUCH G., Gesetzliches Unrecht und übergesetzliches Recht, Süddeutsche Juristenzeitung, 1946, 107. 12 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 I.VII. L’attivismo giudiziale della Corte di Giustizia. La Corte di Giustizia dell’Unione europea è l’organo di vertice del potere giurisdizionale comunitario e ad essa i Trattati demandano, tra gli altri poteri, il monopolio di interpretazione del diritto dell’Unione (cfr. l’articolo 19 TUE, per cui essa assicura il rispetto del diritto nell'interpretazione e nell'applicazione dei trattati e l’articolo 267, paragrafo 1, lettera a) TFUE, disciplinante il rinvio pregiudiziale da parte dei giudici nazionali, per la risoluzione, ad opera della Corte, di questioni interpretative inerenti al diritto dell’Unione). Nella costruzione dell’ordinamento comunitario, in virtù delle specifiche che lo caratterizzano, gli Stati membri (e, poi, la Corte stessa nella propria giurisprudenza) si sono posti sulla scia dei sistemi di Common law, per cui il precedente giurisprudenziale del caso di specie è vincolante alla stregua di una norma giuridica generale ed astratta su altri casi analoghi. La supplenza normativa che ne è derivata, ad opera della Corte di Giustizia, determinata anche dalla frammentazione del sostrato nazionale alla base dell’ordinamento dell’Unione e dalla peculiare posizione del Parlamento europeo nel sistema istituzionale (non del tutto assimilabile ad un potere legislativo, alla stregua del costituzionalismo classico), ha finito per diventare uno stile nella stessa tecnica di redazione delle sentenze, all’interno delle quali si rinvengono sistematicamente i riferimenti al precedente cui la Corte intende conformarsi, o, nell’ottica di una resa interpretativa coerente e priva di aporie logiche, le ragioni per cui essa intende discostarsi dallo stesso. Tale sistema determina, a cascata, ripercussioni sugli ordinamenti degli Stati membri (anche su quelli caratterizzati dalla vigenza di un sistema di Civil law), entro i confini dei quali i giudici nazionali sono tenuti all’ossequio del precedente interpretativo costituito dalla pronuncia del giudice eurocomunitario (39). Ciò ha permesso alla Corte di esercitare il proprio attivismo giudiziale (40), congiuntamente ad una attività di creazione legislativa, rispetto alla quale taluno ha temuto cristallizzazioni a-rappresentative (41), tuttavia sempre bilanciate da un generalizzato approccio critico nei confronti delle decisioni del giudice comunitario. Quel che appare è che la Corte di Giustizia abbia un ruolo più vicino a quello di un giudice supremo in un sistema federale che a quello del tribunale (39) Cfr. STEIN E., Lawyers, Judges and the Making of a Transnational Constitution, American Journal of International Law, L. 1, 1981, 75. (40) Cfr. ARNULL A.M., Judicial Activism and the European Court of Justice: How Should AcademicsRrespond?, in Judicial Activism at the EU Court of Justice, 2013, 211-232. (41) Ci si riferisce alla circostanza per la quale la normazione è demandata (anche) ad un organo giurisdizionale, quale è la Corte di Giustizia, non dotato dei caratteri di rappresentatività tipici dei legislatori nazionali. Sostenitore di tale approccio critico RASMUSSEN H., On law and policy in the European Court of Justice: a Comparative Study in Judicial Policymaking, Dordrecht, Martinus Nijhoff Publishers, 1986. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 13 di una organizzazione internazionale e, attraverso tale ruolo, essa abbia spiegato il proprio impatto politico sugli ordinamenti degli Stati membri. Ciò, d’altronde, risponde all’anelito costituente dell’Unione europea che, sebbene ne rifugga i nominalismi (42), tenta di incarnarne la sostanza, per cui la Corte di Lussemburgo, lungi dall’essere l’oracolare e mero interprete di un diritto al servizio degli Stati, è anche il luogo della garanzia dei diritti che la normativa dell’Unione attribuisce ai cittadini. I.VIII. La Corte di Giustizia e l’autonomia degli Stati membri. Così delineato, il ruolo della Corte di Giustizia (la cui interpretazione, come detto, costituisce precedente vincolante per i giudici nazionali) non può dirsi del tutto neutrale rispetto alle politiche interne degli Stati membri nelle materie incise dal diritto dell’Unione. Si crea, in tal modo, una catena di reazioni antitetiche che, ontologicamente, segnano l’Unione europea dai suoi albori: le istanze autonomistiche degli Stati e le loro tradizioni costituzionali convivono con la necessità di una ricomprensione unitaria all’interno di un medesimo ordinamento sovranazionale, cui è chiesto, come Giano, di guardare al modello del passato per scalfire la trascendenza del futuro. È questo il paradigma del pernicioso andare dell’integrazione europea, che, dai più, è vista come un processo e non come una condizione (43), per la stabilità mai raggiunta, per l’incompiutezza che ne è linfa, per la rigidità, anche normativa, che le è estranea. Ora, per quanto concerne la questione del giudicato, le politiche dell’Unione non si muovono, attualmente, nel senso dell’armonizzazione delle regole processuali nazionali. Ciò sebbene il Trattato di Lisbona (articolo 19 TUE, per cui [g]li Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell'Unione) parrebbe imporre obblighi più stringenti agli ordinamenti dei singoli Stati (prima vincolati dal solo principio di leale cooperazione) in questa materia. Vi è chi crede (44) che l’attivismo giuridico della Corte sia necessario a garanzia di omogenei standard di tutela nel territorio dell’Unione, a fronte della diversificazione ordinamentale al suo interno. Le reazioni critiche avverso detto sistema deriverebbero da una imposta limitazione delle autonomie procedurali ad opera delle interpretazioni creative della Corte. (42) Si allude all’abortito tentativo di un trattato costituzionale per l’Europa del 2004. (43) Cfr. MICKLITZ H.-W., DEWITTE B. (a cura di), The European Court of Justice and the Autonomy of the Member States, Cambridge, Antwerp, Portland, Intersentia, 2012. (44) Cfr. ADINOLFI A., The “Procedural Autonomy” of Member States and the constraints stemming from the ECJ’s case law: is judicial activism still necessary?, in The European Court of Justice and the Autonomy of the Member States, Cambridge, Antwerp, Portland, Intersentia, 2012, 281-303. 14 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 Tuttavia, essendo le decisioni della Corte spesso legate al caso concreto, non è certamente automatica quella normatività generale ed astratta che si vorrebbe loro attribuire. La questione è quanto mai complessa: è labile il confine tra la garanzia dei diritti dei singoli e la conculcazione di un principio di effettività ampia (forse, sgradito agli Stati), quest’ultima denotata anche da talune strategie interpretative della Corte in materie particolarmente spinose (45). I.IX. Percorso dell’analisi. Questa analisi della declinazione del principio di cosa giudicata all’interno dell’ordinamento dell’Unione europea seguirà due linee direttrici fondamentali, in concatenazione logica successiva l’una con l’altra, attraverso una disamina dei casi più rappresentativi sottoposti ai giudici di Lussemburgo. La prima, relativa all’asserzione della responsabilità dello Stato per l’operato (illegittimo alla luce del diritto dell’Unione) di uno dei suoi interna corporis, metterà in luce il superamento del baluardo dell’infallibilità del potere pubblico, al quale possono, altresì, seguire conseguenze risarcitorie a carico dell’apparato statale stesso. La seconda, relativa al paventato superamento del principio di intangibilità del giudicato da parte della Corte di giustizia, rileverà l’esigenza di una declinazione coerente dello stesso nel caso concreto e, ancora una volta attraverso un excursus dei casi più rappresentativi, anche recentissimi, porrà in evidenza le singolarità del dialogo fra le corti nazionali e il giudice comunitario. PARTE PRIMA LA RESPONSABILITÀ DELLO STATO PER LA VIOLAZIONE DEL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA (Sentenze Francovich (C-6/90), Brasserie du pe^cheur e Factortame (C-46/93 e C-48/93) e Köbler (C-224/01) 1.1. Le peculiarità del caso Francovich. Per prima, la sentenza Francovich della Corte di Giustizia ha rafforzato l’idea che entro i confini dell’Unione vigesse un nuovo ordine legale di diritto internazionale, la cui concettualizzazione è merito anche delle prese di posizione interpretative del giudice comunitario. Un ordinamento può dirsi tale anche quando sia dotato dei caratteri tipici (45) Si allude al diritto ad un ricorso effettivo di cui all’art. 47 della Carta di Nizza, che la Corte, talvolta, richiama (strategicamente) come principio generale, forse ai fini del superamento delle restrizioni contenute nei protocolli addizionali (cfr. protocollo n. 30). CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 15 di effettività ed azionabilità delle tutele, in quanto attribuisca diritti direttamente agli individui e ne sanzioni efficacemente la violazione. La declinazione di tale paradigma nell’ordinamento eurocomunitario risente delle asperità e delle contraddizioni ivi insite, poiché vi convivono, in perenne opposizione, le due anime di ciascuno degli Stati membri: l’una volta a garantire l’assolvimento del dovere di leale cooperazione e l’altra mirante al soddisfacimento dei propri interessi nazionali. La mediazione tra tali due caratteri ha una matrice essenzialmente pretoria (non è un caso che qui si discorra di una sentenza elaboratrice di un principio e non di una normativa in materia di responsabilità degli Stati per le violazioni del diritto dell’Unione che, d’altronde, non esiste), tanto che sarà, in seguito, affidata ad un’altra sentenza (1) l’affermazione della responsabilità dello Stato per fatti dei propri giudici di ultima istanza. Prima di Francovich, infatti, il principio di responsabilità dello Stato per torti di carattere legislativo o giurisdizionale derivanti dal diritto comunitario era poco diffuso anche negli impianti normativi interni agli Stati membri e l’individuo che si ritenesse leso dalla condotta statale poteva contare esclusivamente sull’esiguità di quelli, non essendovi direttive o tutele di matrice esterna al riguardo. Con la già citata sentenza Van Gend & Loos, la Corte aveva enucleato il principio dell’effetto diretto (orizzontale) delle direttive comunitarie, attribuendo anche ai privati la possibilità di attivare le tutele previste dal diritto dell’Unione, in aggiunta alle procedure pubbliche interstatali ed inter istituzionali di infrazione già previste dai Trattati. Infatti, rinvenuta una violazione dei Trattati da parte di uno Stato membro, la Commissione può instaurare, ex articolo 258 TFUE, una procedura di infrazione nei confronti di questo davanti alla Corte di Giustizia, unica istituzione comunitaria cui i Trattati attribuiscono il potere di stabilire se lo Stato membro sia stato inadempiente. Di conseguenza, lo Stato dovrà adottare tutte le misure necessarie all’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza all’ordinamento dell’Unione, essendo tenuto a prendere i provvedimenti che l'esecuzione della sentenza della Corte comporta (2). Non è mancato, tuttavia, chi abbia giustamente sottolineato come l’efficacia pratica di siffatti procedimenti sia fortemente ridimensionata nei fatti, sia perché gli Stati perdurano, spesso, nella loro inadempienza nei confronti dei Trattati (come si era verificato per l’Italia nel caso Francovich, per cui la Corte di Giustizia aveva già rilevato la mancata trasposizione della Direttiva entro i termini), sia perché essi adottano, altrettanto frequentemente, misure (1) La già citata Gerhard Köbler c. Repubblica d'Austria (supra, Introduzione, nota 29). (2) Cfr. art. 260 comma 1 TFUE. 16 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 di adempimento solo formali, ma, in realtà, non ossequiose delle prescrizioni della Corte in termini di risultati concreti e di garanzia per i cittadini (3). Ad ulteriormente alimentare la vischiosità del sistema, veniva e viene in rilievo il mito dell’intangibilità della voluntas dello Stato, esternata attraverso gli organi di questo (the King could do no wrong), sicché una forma di responsabilità statale così concepita (la quale aveva come presupposto una ammissione/ dichiarazione di inadempimento dello Stato membro nell’assolvimento dei propri obblighi eurocomunitari) risultava quasi inaccettabile (vi è chi ha parlato di esitazione e riluttanza degli Stati nell’applicazione della dottrina Francovich (4)). Non ultimo, gli stessi giudici guardavano con sospetto al sistema di responsabilità statale nell’ordinamento dell’Unione europea, che veniva dai più visto come una distorsione nella coerenza dei sistemi nazionali di responsabilità (5). Solo a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Maastricht a tale tipo di violazioni, che prima erano sanzionate esclusivamente con la riprovazione degli attori comunitari nei confronti dello Stato inadempiente, seguiranno sanzioni di carattere economico. Si comprende facilmente come la semplice riprovazione non fosse sufficiente a spingere lo Stato ad adeguarsi alle prescrizioni della Corte in merito al proprio inadempimento sul panorama comunitario. Ma un siffatto disinteresse per nulla giovava alle sorti della Comunità, che avrebbe rischiato il tracollo istituzionale se il diritto dell’Unione fosse rimasto lettera morta negli ordinamenti degli Stati membri. Alla luce di ciò, risultano spiegati e, in qualche modo, giustificati gli artifici interpretativi della Corte in Francovich, in cui, a fronte della mancanza di coercizioni a livello legislativo, essa elabora una sanzione indiretta attraverso la figura del risarcimento del danno ai singoli per l’inadempimento statale, ponendo fine al vuoto precedentemente creatosi in merito alle conseguenze dello stesso. E se è chiaro per il commentatore virtuoso che la soluzione a tale rompicapo interpretativo possa essere rinvenuta nell’adesione (legittimata dalle diversificate forme di copertura costituzionale predisposte a livello legislativo o dai giudici delle leggi al loro interno) degli Stati all’Unione, non può dirsi altrettanto agevolmente condivisa l’accettazione delle conseguenze che la limitazione di sovranità derivante dall’appartenenza all’ordinamento comunitario naturalmente determina. Infatti, se agli Stati membri (e ai loro giudici) erano chiari gli estremi at- (3) Per questo, cfr. TALLBERG J., Supranational Influence in EU Enforcement: the Court of Justice and the Principle of State Liability, in Journal of European Public Policy, marzo 2000, 104-121. (4) TALLBERG, ibidem. (5) Cfr. GRANGER M.-P. F., National Applications of Francovich and the Construction of a European Administrative Jus Commune, in European Law Review, 32/2007, 158. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 17 tributivi della responsabilità extracontrattuale in ambito nazionale, più controversa era la possibilità di concepire un siffatto tipo di responsabilità a fronte di inadempimenti aventi rilevanza nell’ordinamento comunitario, in particolare in ragione dell’onnicomprensività dell’approccio della Corte di Giustizia (che preferiva, almeno inizialmente ed asseritamente, una nozione unitaria di responsabilità, indipendentemente dalla sua fonte), a fronte, invece, delle diversificazioni di responsabilità (a seconda dell’origine legislativa, amministrativa, giurisdizionale) concepite a livello nazionale. Le perplessità dei giudici nazionali si concentrarono tutte sui limiti all’estensione di tale forma di responsabilità: essa rientrava tra le forme già note agli Stati membri o era una nuova forma di responsabilità, dal titolo autonomo ed aggiuntiva rispetto alle più note di origine statale? Le iniziali riluttanze degli Stati membri nell’adesione alla dottrina Francovich erano, altresì, da rinvenire in un ossequioso ed interessato attaccamento alla dottrina della separazione dei poteri, per cui, aggiungere forme di responsabilità statale (per di più non diversificate ed onnicomprensive) era letta come una indebita intrusione entro gli spazi di indipendenza dei poteri dello Stato nell’esercizio delle loro funzioni. D’altronde, mentre in alcuni Stati dell’Unione, come Lussemburgo ed Austria, l’azione di responsabilità per inadempimento da parte dello Stato di un obbligo comunitario aveva una matrice autonoma, nel resto dei Paesi membri essa veniva incardinata entro gli schemi interni di responsabilità. Emergeva, in tal modo, una qualche forma di gelosia nazionale, che si manifestava nella ostinatezza degli Stati nel conferire una matrice interna a tale tipo di responsabilità e alle procedure da adottare per accedere al risarcimento. Derivante, forse, come già la verghiana esigenza di preservazione della roba, dall’esigenza di mantenere una identità autonoma ed estrinsecata attraverso la predisposizione di presidi giuridici interni (ma imposti dall’esterno), essa si poneva come una sorta di ultima parola sistematica. Anche in questo caso, dunque, si è trattato di una alternativa tra il mantenimento della coerenza interna all’ordinamento e l’apertura verso quello comunitario, anche quando esso pretendesse adempimenti formalmente (o sostanzialmente) estranei all’ordine nazionale. La sentenza Francovich, pertanto, costituisce un ottimo punto di partenza per una riflessione critica sulla teoria classica del giudicato, in quanto sottolinea la singolarità dei rapporti fra gli attori comunitari, rimettendo in discussione gli assiomi tradizionali a favore del dinamismo inter istituzionale (6). Dopo Francovich, nelle cause riunite Brasserie du pe^cheur SA e Factor- (6) Nell’ottica di una revisione delle posizioni tradizionali anche a livello interno, si veda la posizione critica di ANDOLINA I.A., La crisi del giudicato e nuovi strumenti alternativi di tutela giurisdizionale. La nuova tutela provvisoria di merito e le garanzie costituzionali del «giusto processo», in Giusto proc. 18 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 tame Ltd e altri (7), la Corte estendeva il principio di responsabilità statale, facendolo sussistere in ogni caso, indipendentemente dal momento (traspositivo o applicativo) in cui la violazione del diritto dell’Unione si fosse perpetrata. A questo secondo, più estensivo, filone giurisprudenziale, seguirà un terzo (rappresentato dalla già citata e notissima sentenza Köbler) in cui la Corte, estendendo ulteriormente le maglie del principio di responsabilità, di cui il caso Francovich poteva vantare la paternità, ben oltre il limite della (incorretta) trasposizione legislativa, individuava profili di responsabilità sanzionabile dello Stato anche nell’attività del suo corrispondente nazionale, dei giudici di ultima istanza chiamati a correttamente applicare il diritto dell’Unione. 1.2. Ulteriori riflessioni in materia di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario. Dopo il caso Francovich, le sentenze Brasserie du pe^cheur e Köbler non hanno costituito una sorpresa, se non (forse e apparentemente) per quegli Stati membri le cui argomentazioni difensive in merito all’impossibilità di ammettere una responsabilità dello Stato per l’incompatibilità della legislazione interna con il diritto dell’Unione e per la decisione dei propri giudici di ultima istanza contraria allo stesso facevano leva sugli argomenti della certezza del diritto e dell’intangibilità del giudicato. Come già sottolineato, al paragrafo 39 della sentenza Köbler, la Corte puntualizzava che ammettere un siffatto tipo di responsabilità non avrebbe, in vero, necessariamente richiesto una revisione della res iudicata precedentemente formatasi. Attribuire al cittadino una giusta riparazione per il pregiudizio subito da una decisione giurisdizionale illegittima, come in Köbler, infatti, non necessariamente avrebbe preteso l’eliminazione o il superamento formale (laddove civ., 2007, 317 ss., per il quale si assiste ad una vera e propria crisi dell’impianto tradizionale, nel quale il processo civile aveva come esito naturale la creazione di una certezza giuridica ed anche gli effetti provvisori ed interinali di alcuni provvedimenti esistevano nella prospettiva del futuro giudicato. Sempre più spesso, infatti, viene manifestata l’esigenza di una tutela giurisdizionale effettiva, ma tempestiva, con la conseguente elaborazione di provvedimenti a cognizione sommaria (distinti da quelli, di chiovendiana memoria e idonei al giudicato, di cognizione sommaria con prevalente funzione esecutiva e cautelari disancorati dal giudicato), che determina una duplicazione dei modelli del processo civile, uno tradizionalmente finalizzato al giudicato, l’altro, sulla base di un giudizio di verosimiglianza e non di verità, mirante alla composizione immediata del conflitto e alla provvisoria produzione di effetti pratici, ma inidoneo al giudicato. Tale mutamento di prospettive può essere paradigmaticamente letto nell’ottica di una manifestata esigenza di “aggiornamento” delle tutele (a prima vista estendibile anche alle istanze di revisione dei giudicati nell’ordinamento europeo), che corre, tuttavia, il rischio di dilatare le maglie della certezza fino a lederne la stessa consistenza. (7) Corte di Giustizia, sentenza del 5 marzo 1996, cause riunite Brasserie du pe^cheur SA c. Repubblica federale di Germania e The Queen c. Secretary of State for Transport, ex parte: Factortame Ltd e altri, C-46/93 e C-48/93, in Raccolta 1996 I-01029. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 19 quello concettuale sarebbe stato insito nella affermazione della responsabilità dello Stato) del giudicato. Anche le argomentazioni relative alla paventata lesione dell’indipendenza del potere giurisdizionale a fronte della minaccia di un risarcimento del danno a coloro i quali fossero negativamente incisi dall’incorretto esercizio di un potere venivano facilmente confutate dalla Corte, la quale precisava come non il legislatore o il singolo giudice, ma lo Stato sarebbe stato responsabile per una condotta considerata attribuibile a quest’ultimo nel suo complesso. Dopo Francovich, ma, in particolare, dopo Brasserie du pe^cheur, risultava, poi, difficile aspettarsi che la Corte non avrebbe, altresì, esteso la responsabilità dello Stato altresì alle conseguenze derivanti dalle decisioni giurisdizionali (8). In questo senso, la decisione del caso Köbler è perfettamente in linea con quella del caso Commissione c. Italia (9), in cui la Corte ebbe modo di affermare che l’interpretazione e l’applicazione del diritto da parte degli organi giurisdizionali italiani, ivi compresa la Suprema Corte di Cassazione, erano incompatibili con il diritto dell’Unione europea. Alla Corte di Lussemburgo, dunque, non erano estranee intrusioni nella sfera di autonomia, ritenuta inattaccabile, dei propri corrispondenti nazionali, ma ciò rientrava in pieno nel sistema di applicazione ed interpretazione dei Trattati, che non tollera immunità alcuna, pena lo squilibrato funzionamento del sistema stesso. 1.3. Violazione sufficientemente grave e manifesta: un argine autoimposto? In Köbler, tuttavia, è la Corte stessa ad imporre dei limiti nella attribuzione della responsabilità, che lasciano pensare ad una forma di velata protezione nei confronti dei giudici nazionali, giudici naturali del diritto dell’Unione. Infatti, perché sia fonte di responsabilità per lo Stato, la violazione posta in essere da un giudice, oltre che sufficientemente grave (è tale la violazione che coinvolga uno Stato membro che, nell’esercizio dei suoi poteri, abbia manifestamente e gravemente ignorato i limiti di esercizio degli stessi) deve essere manifesta. Qui la Corte adotta un approccio più funzionale che concettuale, al fine di unificare le diverse normative statali in materia di responsabilità, ma tale regime non appare scevro da problematicità (10). Anzitutto, occorre interrogarsi criticamente sul sistema di responsabilità (8) Cfr.. HANS J.H., State Liability and Infringements Attributable To National Courts: A Dutch Perspective On The Köbler Case in The European Union: An Ongoing Process - Liber Amicorum Alfred E. Kellermann, The Hague, 2004, 165-176. (9) Corte di Giustizia, sentenza del 9 dicembre 2003, Commissione delle Comunità europee contro Repubblica italiana, C-129/00 in Raccolta 2003 I-14637. (10) A tal proposito, cfr. MARTÍN RODRÍGUEZ P., State Liability For Judicial Acts In European Community Law: The Conceptual Weaknesses Of The Functional Approach, in The Columbia Journal of European Law, vol. 11, n. 3/2005, 605-621. 20 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 che la Corte ha ritenuto inerente al sistema del Trattato, specie in considerazione del fatto che tale sistema potrebbe vivere nel limbo della non applicazione laddove gli Stati membri si dimostrassero restii alle aperture, anche processuali, che la stessa ha suggerito (o imposto) nella sentenza Köbler. Anche i requisiti della sufficiente gravità di una violazione manifesta non sono rimasti immuni da perplessità, in quanto la Corte li ha mantenuti entro margini ampi e necessariamente labili, forse al fine di permetterne la più estesa e diversificata applicazione, ma non senza correre il rischio di porli nel nulla, assieme ad un sistema che, probabilmente, richiederebbe una concretizzazione a livello normativo, al fine di sfuggire dalle aporie applicative tipiche della legiferazione giurisprudenziale. La questione, d’altronde, non è di poco conto, in quanto è in gioco l’autonomia processuale degli Stati membri, ai quali i Trattati richiedono, in ossequio ai principi di equivalenza ed effettività, di garantire la parità di trattamento tra le situazioni giuridiche di matrice interna e quelle di matrice comunitaria. Più o meno la totalità degli Stati membri possiede un sistema di valutazione ed attribuzione di responsabilità per gli errori giudiziari, ma ciascuno di questi è, di norma, caratterizzato da stringenti presupposti di accesso, proprio in ragione della paventata lesione alla certezza del diritto che potrebbe causare un esercizio di potere, anche solo indirettamente, rimesso in discussione, attraverso l’individuazione dei profili di scorrettezza dello stesso (11). Proprio in ragione di questo, pur frammentato, retroterra normativo statale, la Corte, in Köbler, non ammetteva una creazione dal nulla del sistema di responsabilità dello Stato per il fatto dei propri giudici di ultima istanza, dichiarandolo come immanente all’intero ordinamento giuridico dell’Unione. Tuttavia, dalle assimilazioni con la responsabilità extracontrattuale della Comunità, che permettevano alla Corte di chiudere il cerchio interpretativo, garantendo coerenza al sistema nella sua interezza, traspariva, forse, qualche ulteriore criticità (12). Una tale affermazione di responsabilità, infatti, facilmente sarebbe potuta risultare invisa agli Stati membri, all’interno dei quali essa era stata contenuta entro i limiti dell’inattaccabilità del dictum giurisdizionale, al fine di preservare la propria autonomia e coerenza processuale. È chiaro, dunque, come la provenienza esterna della stessa (ovvero da un giudice che è, allo stesso tempo, l’interprete di un diritto primaziale) potesse creare resistenze se non correttamente incardinata entro i confini normativi fondamentali negli ordinamenti giuridici degli Stati membri. (11) In merito alla disciplina italiana, cfr. infra, Parte Seconda. (12) Cfr. PÉREZ GONZÀLEZ C., La responsabilidad del Estado por incumplimiento del Derecho comunitario, Madrid, Tirant Lo Blanch, 2001. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 21 1.4. Funzionalizzazione della responsabilità statale. Vi è da chiedersi, in altre parole, se tale responsabilità sussista effettivamente nei termini tracciati dalla Corte e quanto essa pesi, nella sostanza, negli equilibri tra poteri degli attori del diritto dell’Unione. A tal proposito, taluno ha adombrato la possibilità che la Corte avesse fatto un utilizzo funzionale e non concettuale del Trattato, trasformando la responsabilità in un concetto servente, non più base consolidata del sistema pattizio eurocomunitario (13). È questa, forse, la critica a cui questo filone di sentenze della Corte presta maggiormente il fianco: nella elaborazione di questo e di altri orientamenti ritenuti incisivi di principi invalsi, quale quello della certezza del diritto o della intangibilità della res iudicata (che, in verità, più spesso, non sottraggono nulla all’essenza di tali principi, esplicandone, semplicemente la portata all’interno dell’ordinamento giuridico dell’Unione) i giudici di Lussemburgo sembrano creare un regime autoreferenziale, la cui correttezza di fondo corre il rischio di essere tradita dal proprio solipsistico gioco di rimandi, per i più estraneo dalle logiche ordinamentali classiche. Questa Babele interpretativa è testimoniata anche dalla abbondanza di rinvii pregiudiziali alla Corte per una questione, quella del risarcimento del danno da parte dello Stato per il fatto di uno dei suoi organi, che avrebbe dovuto dirsi come consolidata e sufficientemente chiara. A titolo di esempio, si consideri la circostanza, sottolineata anche dalla Corte nella sentenza Köbler, per cui la responsabilità degli Stati membri per violazioni del diritto dell’Unione è assimilata alla responsabilità extracontrattuale della Comunità. Quest’ultima, tuttavia, trova la sua fonte principalmente nell’(incorretto) esercizio da parte della stessa del potere legislativo, in particolar modo nelle scelte di politica economica. Ora, se tale assimilazione ha consentito alla Corte di trovare un prius logico e di incardinare la responsabilità entro un presidio normativo esistente, essa ha creato, allo stesso tempo, incertezze applicative, a fronte della diversificazione delle figure di responsabilità interne allo Stato (che non sono, come è stato dimostrato, riconducibili esclusivamente nell’alveo legislativo). Questa distonia interpretativa ha determinato una certa libertà nel recepimento e nella applicazione della dottrina per prima delineata in Francovich, giustificando, poi, le frequenti domande pregiudiziali alla Corte (14). (13) Cfr. MARTÍN RODRÍGUEZ P., op. cit. (14) Taluno aveva sostenuto, inoltre, che questo approccio della Corte si sarebbe risolto nell’approdo opposto rispetto a quello auspicato: assimilare la responsabilità degli Stati a quella extracontrattuale della Comunità, di matrice essenzialmente legislativa, avrebbe ridotto considerevolmente i casi di risarcimento del danno derivante dal cattivo esercizio di altri poteri dello Stato. Cfr. MANGAS MARTÍN A. e LIÑÁN NOGUERAS D.J., Instituciones y Derecho de la Unión Europea, Madrid, McGraw-Hill, 2004, 74. 22 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 Quest’ultima, scegliendo un approccio case by case ha, forse, corso il rischio di diluire la coerenza di fondo della propria posizione nella vischiosità dei casi concreti, adombrando delle oscillazioni giurisprudenziali che, in realtà, sono più apparenti che effettive (15). Dall’impostazione della Corte si percepiva un utilizzo del risarcimento del danno qual strumento per rinforzare l’effettività del diritto dell’Unione, allorché i mezzi disponibili (quali l’effetto diretto della normativa comunitaria o una sentenza della Corte in cui si dichiarasse il mancato ossequio del diritto comunitario da parte dello Stato, a seguito di un ricorso per inadempimento) non si fossero dimostrati sufficienti. Questo utilizzo del rinvio pregiudiziale quale strumento di compensazione delle inadeguatezze (non tanto formali, quanto relative all’impatto concreto sugli atti e comportamenti dei partner nazionali) si rivelava maggiormente utile per la Corte allorché l’atto non avesse effetto diretto, in quanto costituiva il tramite privilegiato attraverso cui suggerire la corretta attuazione della normativa comunitaria. I casi Brasserie e Factortame costituivano terreno fertile per il soddisfacimento della avvertita necessità di chiarezza in merito al principio della responsabilità dello Stato nel diritto comunitario già postulata nella sentenza Francovich, sebbene il risvolto della medaglia fosse una certa complessità degli stessi, nelle maglie della quale avrebbe corso il rischio di avvilupparsi il ragionamento interpretativo della Corte. Ecco perché nell’argomentazione del giudice comunitario si è colta una maggiore cautela in merito all’affermazione stessa di responsabilità, che esso subordinava al requisito della violazione sufficientemente grave di una norma volta ad attribuire diritti agli individui (16). Ciò, tuttavia, determinava il rischio di una incongruenza tra la sentenza Francovich e la sentenza Brasserie, in quanto la prima sembrava ammettere, a condizioni meno restrittive (ma, forse, meno chiare, tanto che i rinvii pre- (15) Si allude a quanto si svilupperà nel corso della trattazione in merito solo apparente al superamento del principio del giudicato da parte della Corte di Giustizia. Si tenterà, infatti, di dimostrare come quest’ultima non abbia affatto sovvertito il principio (a differenza di quanto sostenuto in qualche enfatica riflessione a caldo), essendosi limitata a rimarcare il principio di interpretazione conforme al diritto dell’Unione cui sono tenuti i giudici nazionali. Anche dove le posizioni assunte sono sembrate più radicali (come nella sentenza Lucchini), non si è, come si dimostrerà, trattato di un vero e proprio superamento dell’intangibilità del giudicato, ma del riconoscimento di un conflitto di competenza, risolto a favore dell’Istituzione europea (in quel caso la Commissione) e non del giudice nazionale che, pronunciandosi nel merito, aveva posto in essere un prodotto (la sentenza) incompatibile con il diritto comunitario. (16) Cfr. par. 55 della sentenza Brasserie du pe^cheur e Factortame: «Quanto alla seconda condizione, sia per quanto riguarda la responsabilità della Comunità ai sensi dell'art. 215 sia per quanto attiene alla responsabilità degli Stati membri per violazioni del diritto comunitario, il criterio decisivo per considerare sufficientemente caratterizzata una violazione del diritto comunitario è` quello della violazione manifesta e grave, da parte di uno Stato membro o di un'istituzione comunitaria, dei limiti posti al loro potere discrezionale». CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 23 giudiziali successivi erano volti a comprendere quale potesse essere la portata della responsabilità statale), una culpa in re ipsa dello Stato e la seconda, pur estendendone la portata, ne limitava l’applicabilità. Tale incongruenza pare, poi, essere stata superata nella sentenza Dillenkofer (17), in cui la Corte riteneva che, comunque ed in ogni caso, la mancata trasposizione di una direttiva fosse una violazione sufficientemente grave del diritto comunitario. Ciò denotava una evoluzione della giurisprudenza del giudice di Lussemburgo, nel verso di una costruzione sistematica del regime di responsabilità (e ciò si evince anche dalla successiva sentenza Bergaderm, in cui la Corte rimarca l’unitarietà dei presupposti della violazione per gli Stati membri e la stessa Comunità) (18). Da ultimo, nella sentenza Robins (19), la Corte ha operato un approfondimento della tematica relativa alla sufficiente caratterizzazione della violazione, ponendo l’accento sui limiti posti dal legislatore comunitario alla discrezionalità dello Stato membro: se questo, alla luce della normativa comunitaria, ha margini ridotti di discrezionalità o non dispone affatto della stessa, qualunque trasgressione potrebbe essere idonea a realizzare la violazione sufficientemente caratterizzata richiesta dalla giurisprudenza comunitaria. Viceversa, qualora la normativa comunitaria permetta maggiori spazi di discrezionalità, il compito del giudice nazionale chiamato a valutare la sussistenza della violazione sarà quello di verificare la presenza degli altri elementi sintomatici della violazione individuati dalla Corte di Giustizia. 1.5. Verso la sistematizzazione della responsabilità. Se tale sistema di responsabilità fosse stato compiutamente definito, alla Corte non sarebbero residuati quei margini (interpretativi, sì, ma indubbiamente incisivi sulle decisioni dei giudici nazionali) che le consentivano, comunque, l’ultima parola su un regime di cui, allo stesso tempo, essa aveva conferito la gestione agli Stati membri ed ai loro giudici. Nell’avvicendarsi delle pronunce sul tema, emergeva, tuttavia, il tentativo dei giudici di Lussemburgo di fornire carattere sistematico alla nozione di responsabilità degli Stati membri per la violazione del diritto dell’Unione, superando la iniziale visione strumentale dello stesso a garanzia esclusiva dell’effettività del diritto dell’Unione. (17) Corte di Giustizia, sentenza dell’8 ottobre 1996, Erich Dillenkofer, Christian Erdmann, Hans- Jürgen Schulte, Anke Heuer, Werner, Ursula e Trosten Knor contro Bundesrepublik Deutschland, Cause riunite C-178/94, C-179/94, C-188/94, C-189/94 e C-190/94, in Raccolta 1996 I-04845. (18) Corte di Giustizia, sentenza del 4 luglio 2000, Laboratoires pharmaceutiques Bergaderm SA, Jean-Jacques Goupil contro Commissione, C-352/98 P, parr. 39-42, in Raccolta 2000 I-05291. (19) Corte di Giustizia, sentenza del 25 gennaio 2007, Carol Marilyn Robins e a. contro Secretary of State for Work and Pensions, Causa C-278/05, in Raccolta 2007 I-01053. 24 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 Sotto questo fronte, la sentenza Köbler non è particolarmente innovativa, in quanto essa dà conto di un orientamento giurisprudenziale che già si era consolidato. Le ragioni dell’ulteriore rinvio pregiudiziale, allora, erano da rinvenirsi nella generalizzata tendenza ad accettare il principio di responsabilità come costruito dal giudice comunitario, ma di rifiutare la sua applicazione pratica generale, in quanto ciò avrebbe inciso sull’indipendenza dei giudici nazionali (20). Se tale opinione era diffusa ancora dopo la soluzione interpretativa fornita al caso Brasserie (21), il caso Köbler, atteso per la fine dell’anno 2003 (22), ha avuto senz’altro il merito di determinarne un primo superamento, costituendo una prima affermazione della responsabilità dello Stato per il fatto dei propri giudici di ultima istanza. In Köbler, infatti, la Corte fissa il principio della responsabilità dello Stato per la violazione del diritto comunitario (per vero, invalso nella maggior parte degli Stati membri), ne rimarca i presupposti (costituiti dall’incisività dell’atto illegittimo sui diritti individuali, da una violazione sufficientemente seria del diritto dell’Unione, sul nesso di causalità fra quest’ultima e la lesione) ma, nonostante le perplessità manifestate supra, ne attua una interpretazione innegabilmente innovativa. Ai presupposti classici della responsabilità dello Stato (volta a garantire la piena effettività del diritto dell’Unione ed i diritti dei singoli), la Corte aggiunge, per quanto riguarda la responsabilità derivante da atti dei giudici di ultima istanza, un onere di corretta applicazione dei precedenti giurisprudenziali pertinenti. In Köbler, la Corte non riteneva applicabile la dottrina dell’acte clair (23) da parte del Verwaltungsgerichtshof, il quale, tra l’altro, travisava il portato della precedente decisione Schöning-Kougebetopoulou, così ledendo la libertà di movimento dei lavoratori all’interno della Comunità di cui all’articolo 48 CE e al Regolamento n. 1612/68. Purtuttavia, dopo aver affermato che il Tribunale austriaco non avrebbe dovuto ritirare la domanda di pronuncia pregiudiziale, la Corte non riteneva che la violazione posta in essere dallo stesso avesse carattere manifesto (24), in quanto il diritto dell’Unione non disciplina espressamente tale questione e non esisteva una chiara giurisprudenza in materia. Pertanto, nonostante l’articolo 234, terzo paragrafo del Trattato CE fosse (20) Cfr. STEINER J., From Direct Effect to Francovich: Shifting Means of Enforcement of Community Law, in European Law Review, n. 48/1993, 3, 11. (21) Cfr. TONER H., Thinking the Unthinkable? State Liability for Judicial Acts After Factortame, Year Book of European Law, n. 17/1997, 165. (22) Cfr. KOMÁREK J., Federal Elements in the Community Judicial System: Building Coherence in the Community Legal Order, in Common Market Law Review, n. 42/2005, 9. (23) Cfr. par. 118 della sentenza Köbler. (24) Cfr. par. 121 della sentenza Köbler. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 25 stato violato dal giudice austriaco, questo non determinava, a detta della Corte, l’attribuzione di responsabilità allo Stato. I giudici di Kirchberg non chiarivano se il motivo fosse la scusabilità dell’errore, anche perché essi stessi, probabilmente, avevano contribuito a determinarlo, suggerendo alla giurisdizione di rinvio, tramite la propria cancelleria, la possibilità di ritirare la domanda di rinvio pregiudiziale, a fronte di intervenuta giurisprudenza applicabile al caso di specie (ma anche, probabilmente, ai fini della riduzione del proprio carico di lavoro). È innegabile che lo Stato membro (in questo caso l’Austria) si fosse trovato in una situazione delicata (25) ma altrettanto peculiare era, probabilmente, la condizione in cui versava la Corte, che, ammettendo la responsabilità dello Stato, avrebbe corso il rischio di auto dichiarare la propria, con la possibilità di esiti alquanto singolari (tra cui una eventuale azione di responsabilità nei confronti della Corte stessa). Tali difficoltà derivavano, probabilmente, dalla natura ancora troppo funzionale e troppo poco sistematica della concezione di responsabilità come delineata dalla Corte, in quanto, effettivamente, l’attuazione stessa rischiava di essere vanificata semplicemente dall’incorretto posizionamento di un tassello da parte degli attori, nazionali ed eurocomunitari, della procedura. 1.6. Le funzioni della responsabilità e le esigenze individuali. L’avvertita esigenza di revisione del sistema di responsabilità come inizialmente prospettato dalla Corte di Giustizia può farsi discendere da una considerazione più generale in merito alle funzioni della responsabilità extracontrattuale: essa è presidio per il risarcimento del danno/indennità (damage/ tort) ed altresì strumento di conservazione della res attribuita al soggetto (wronguful act) (26). Nella iniziale prospettazione funzionale della Corte, l’affermazione di responsabilità era più concentrata sulla sanzione delle violazioni (per la realizzazione interessata del fine consistente nella garanzia di effettività del Diritto dell’Unione), che non sulla garanzia conservativa delle posizioni giuridiche degli individui. In altre parole, il fine ultimo della responsabilità come elaborata dalla (25) Si veda, a tal proposito, l’art. 104, comma 2, del Regolamento di Procedura della Corte di Giustizia, per cui: «Spetta ai giudici nazionali valutare se essi abbiano ricevuto sufficienti chiarimenti mediante una pronuncia pregiudiziale, o se appaia necessario adire nuovamente la Corte». (26) In questo secondo termine, cfr. BARCELLONA M., La responsabilità extracontrattuale, Torino, Utet, 2012, 3 e ss., per cui il sistema giuridico chiama il diritto privato a svolgere tre funzioni fondamentali, quella attributiva (riservata alla disciplina dei cd. beni giuridici), quella traslativa (riservata alla disciplina del contratto e a quella delle successioni) e quella conservativa, riservata, appunto, alla responsabilità, per cui il diritto provvede a garantire che la ricchezza e le chanches acquisitive, che in sede attributiva ha assegnato a ciascuno, non vengano impunemente distrutte ad opera di altri ed a questo fine prevede dispositivi atti a trasferire ricchezza da chi ne ha cagionato la distruzione a chi ne ha subito la perdita. 26 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 Corte, più che quello di garantire le posizioni giuridiche degli individui (obiettivo nobile e chiaramente rappresentato) pareva, piuttosto, quello di affermare ad ogni costo la primazia del diritto dell’Unione, attraverso la comminazione di una sanzione per le violazioni dello stesso. Pertanto, sebbene le conseguenze fossero, sostanzialmente, analoghe, la responsabilità pareva porsi più in un’ottica superindividuale (sanzionatoria e rivolta agli Stati) che in una individuale (riparatoria e rivolta alla tutela dei cittadini). Emergeva, a questo punto, una difficoltà concettuale: come poteva porsi a presidio dell’effettività del diritto dell’Unione e della certezza del diritto entro i suoi confini un sistema di responsabilità solo eventuale (in quanto subordinato alla gravità e al carattere manifesto della violazione)? (27). Infatti, solo allorché fossero pregiudicati particolari diritti e la violazione avesse raggiunto un certo livello di serietà poteva essere affermata la responsabilità dello Stato, che, in quanto avesse cagionato perdite o danni ai cittadini, comportava il risarcimento degli stessi. Per tale ragione e in virtù di tali incongruenze, è parso che la Corte di Giustizia, più cauta con riferimento alla portata delle proprie decisioni, volesse salvaguardare i giudici nazionali (e, indirettamente, se stessa) ritenendo, in Köbler, che il comportamento del Tribunale di ultima istanza austriaco non integrasse una violazione del Diritto dell’Unione attributiva di responsabilità allo Stato (solo nella terza questione sottoposta alla sua interpretazione pregiudiziale essa riconosceva tale responsabilità con riferimento alla normativa interna in materia di indennità). Questo gioco di relazioni dava conto delle difficoltà applicative di un regime (nel quale, più propriamente, la responsabilità è una conseguenza della non assicurata effettività) che, finalisticamente e non strutturalmente concepito, risentiva della cooperazione degli Stati alla sua più corretta attuazione. Non a caso, la letteratura anglosassone (più sensibile ai temi del precedente giurisprudenziale vincolante e critica nei confronti del cd. attivismo giudiziale della Corte di Giustizia) aveva sottolineato come, a partire da Francovich, si fosse creato un regime fondato su un nuovo rimedio legale nazionale, in quanto è il giudice nazionale a stabilire se lo Stato sia responsabile oppure no della violazione del diritto dell’Unione, essendo il ricorso alla Corte di Giustizia obbligatorio solo per i giudici di ultima istanza (28). Il sistema mostra le sue falle proprio nella sentenza Brasserie e Factortame, (27) Cfr. B. LEE, che, in ragione di tale ambiguità, rifiuta ogni assimilazione tra il sistema di responsabilità come concepito nell’Unione e i sistemi nazionali di responsabilità (civile, costituzionale, amministrativa, internazionale), B. LEE I., In Search of a Teory of State Liability in the European Union, Harvard Jean Monnet Working Papers, 1999, 9. (28) Cfr. HARLOW C., A Common European Law of Remedies?, The Future of Remedies in Europe, KILPATRICK C., NOVITZ T. e SKIDMORE P. (a cura di), Oxford, Hart Publishing, 2000, 80. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 27 in cui le due giurisdizioni di rinvio, a fronte dell’unica pronuncia resa dalla Corte, decidono diversamente le questioni di diritto loro sottoposte, così dimostrando che è all’interno degli Stati membri che si gioca la differenza tra la natura riparatoria e quella garantistica della responsabilità extracontrattuale, con l’eventuale intervento della Corte di Giustizia solo allorché il sistema vacilli. È il giudice nazionale, pertanto, ad essere chiamato a ponderare i valori in gioco, dovendo correttamente applicare la normativa nazionale in materia di responsabilità e, contemporaneamente, prestare attenzione al rispetto del principio di effettività (29). 1.7. Rischi di una elaborazione volutamente imprecisa. Da tutto ciò emerge come la Corte di Giustizia, nell’intento di creare un regime obiettivo di responsabilità, si sia trovata nella necessità di condividere la potestà demiurgica con i giudici nazionali, purtuttavia trascurando taluni nodi centrali della materia. Quasi mai, infatti, la Corte si è occupata del danno risarcibile o del nesso di causalità tra la condotta inadempiente ed il primo, demandandone la specificazione ai giudici nazionali. Ciò non per un senso di deferenza nei confronti di questi, in quanto, poi, essa si occupava di questioni come la scusabilità dell’errore o l’intenzionalità della violazione (questioni, queste, che, invece, parrebbero rientrare maggiormente nell’alveo delle competenze dei giudici nazionali). Nelle intenzioni della Corte, l’effettività sarebbe stata garantita dal fatto che una violazione sufficientemente seria senz’altro è fonte di responsabilità, denunciando, così, l’esigenza di una matrice comune e generalmente applicabile, a fronte della diversificazione dei regimi di responsabilità all’interno degli Stati membri. Si consideri, ad esempio, la tendenza, registrata all’interno di alcuni Stati membri, alla elaborazione di forme di responsabilità sempre più oggettiva, per cui ad una determinata violazione corrisponde una altrettanto certa reazione da parte dell’ordinamento, a garanzia della certezza del diritto. Un sistema così concepito garantirebbe a se stesso maggior coerenza e minor frequenza di eventi qualificabili come anomali (tra questi, senz’altro, il superamento di una res iudicata), che, spesso apparenti, sono frutto di oscillazioni interpretative. Tuttavia, a tali sistemi di responsabilità obiettiva la Corte ha aggiunto elementi connotati da forte soggettività (il carattere intenzionale della violazione, la scusabilità dell’errore di diritto, il comportamento della vittima o di terze parti), che, volti a circoscrivere la portata dell’affermazione di responsabilità (29) Cfr. GIRERD P., Les principes d’équivalence et d’effectivité: encadrement ou desencadrement de l’autonomie procédurale des Etats membres?, in Revue trimestrielle de droit européen, 2001, 48. 28 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 quando utile, non mancano di provocare incertezze sull’effettiva portata della stessa quando, invece, essa sussista, con la conseguente creazione di più regimi di responsabilità coesistenti (30). È innegabile come tale, probabilmente necessitata, indefinitezza garantisca alla Corte di Giustizia ampi margini di controllo residuale, su un regime la cui gestione è, formalmente, dalla stessa attribuito agli Stati membri ed ai loro giudici. Un maggiore compiutezza, probabilmente, diluirebbe il monopolio interpretativo in un effettivo rimedio nazionale ed è per questo che, nelle pronunce oggetto di studio, la Corte afferma sempre risolutamente come il diritto al risarcimento sia fondato sul diritto dell’Unione. 1.8. L’apparente unitarietà della responsabilità. Un ulteriore punto di criticità del sistema, come concepito dalla Corte, può cogliersi in relazione all’affermazione della stessa secondo la quale il regime di responsabilità deve essere connotato da unitarietà, anche in ragione della presentazione unitaria dello Stato nel diritto internazionale, quale unicum nel quale non è possibile (né dovuto) distinguere le proprie articolazioni interne (legislative, amministrative e giurisdizionali). Tuttavia, nei fatti, il regime è tutt’affatto che unitario, in quanto è la Corte stessa a diversificarlo a seconda dell’organo dal quale la violazione provenga (31). Nel diritto internazionale generale, invece, la responsabilità degli organi giurisdizionali è effettivamente equiparata a quella degli altri poteri dello Stato e ciò ha senso poiché in quel sistema non c’è diversificazione fra violazioni più o meno gravi ed il diritto ad elaborare ed ottenere un risarcimento è creato e gestito esclusivamente all’interno dell’ordinamento internazionale stesso. Secondo l’interpretazione della Corte, nel diritto dell’Unione si ha responsabilità dello Stato solo se un organo dello stesso abbia violato gravemente e manifestamente i limiti della propria potestà, configurando ciò una violazione sufficientemente seria. Tuttavia, a dispetto dell’affermata unità, gli organi di uno Stato membro non sono tutti dotati del medesimo livello di discrezionalità nell’applicazione del diritto dell’Unione e da questa circostanza è derivata la difficoltà di collocare il frammento di responsabilità tra uno degli stessi nella sentenza Köbler, specie in ragione del fatto che, in questo caso, la valutazione è sì svolta dal giudice interno, ma sotto l’influenza del giudice comunitario. (30) Per questo, cfr. ABOUDRAR-RAVANEL S., Responsabilité et Primauté, ou la question de l’efficience de l’outil, in Revue du Marché commun et de l’Union Europeénne, n. 544/1999, 437. (31) Cfr. ANAGNOSTARAS G., Not as Unproblematic as You Might Think: the establishment of causation in governmental liability actions, in European Law Review, 2002, 663. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 29 Questa scissione decisionale ed interpretativa rende palesi le differenze (che la Corte aveva mancato di considerare) con l’ordinamento internazionale generale, in cui, come si è detto, le questioni vengono decise nell’ambito di un sistema unitario e, per quanto più possibile, coerente. 1.9. Decentralizzazione e garanzia di un ricorso effettivo. Da ciò può ricavarsi una ulteriore riflessione, anch’essa non priva di effetti sulle esigenze di certezza all’interno dell’ordinamento eurocomunitario: l’applicazione necessariamente decentralizzata del diritto dell’Unione (per cui il giudice naturale dello stesso è il giudice nazionale e non la Corte di Giustizia) è accompagnata dall’altrettanto necessaria garanzia di un ricorso effettivo ad un organo giurisdizionale a fronte di una violazione del diritto dell’Unione, innanzi al quale le parti possano lamentare il torto subito (32). Un sistema così concepito, tuttavia, può determinare una conseguenza paradossale: che ogni violazione del diritto dell’Unione, eventualmente fonte di responsabilità ed eventualmente determinante un diritto al risarcimento del danno a causa della stessa subìto, possa essere del tutto riversata sul potere giurisdizionale, al quale spetterebbe l’ultima parola anche sulle violazioni poste in essere dagli altri poteri dello Stato. Tale ipotesi non è neutra né priva di conseguenze rischiose, anche in ragione del fatto che la considerazione di cui i giudici di ultima istanza godono all’interno degli ordinamenti Stati membri è significativamente diversificata e ciò può incidere sulla concreta fruibilità di diritti e libertà da parte dei cittadini. In quest’ottica può essere, dunque, spiegato e giustificato l’atteggiamento restrittivo della Corte di Giustizia in relazione alle violazioni direttamente attribuibili ai giudici nazionali di ultima istanza, relativamente alle quali la responsabilità risarcitoria avrà luogo solo in casi eccezionali. In primo luogo, allorché il giudice di ultima istanza, che vi è tenuto, non abbia sollevato un rinvio pregiudiziale in presenza di un dubbio interpretativo. In particolare, perché ciò determini una responsabilità dello Stato membro, bisognerà dimostrare che il giudice abbia manifestamente male utilizzato il proprio potere discrezionale di sollevare un rinvio pregiudiziale, nell’ambito della dottrina dell’acte clair (33). In secondo luogo, è necessario (ma non sempre facile, specie per i danni materiali, come anche affermato dall’Avvocato Generale Léger nelle sue con- (32) In questo senso, cfr. Corte di Giustizia, sentenza del 15 maggio 1986, Marguerite Johnston contro Chief Constable Of The Royal Ulster Constabulary, C-222/84, in Raccolta 1986 01651, par. 17 e Corte di Giustizia, sentenza del 15 ottobre 1987, Union nationale des entraîneurs et cadres techniques professionnels du football (Unectef) contro Georges Heylens e altri, C-222/86, in Raccolta 1987 04097. (33) Cfr. PEERBUX-BEAUGENDRE Z., Première consécration expresse du principe de la responsabilité de l’Etat membre pur les jurisprudences de ses cours suprêmes dans le cadre de l’article 226 CE, Revue trimestrielle de droit européen, 2004, 208 e ss. 30 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 clusioni in merito al caso Köbler (34)) dimostrare il nesso di causalità tra la violazione ed il danno subito dal cittadino (solo nella sentenza Kühne & Heitz (35) la Corte chiarirà ai giudici la cogenza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale, alla luce delle conseguenze del mancato adempimento dello stesso). Infine, affinché sussista la responsabilità, è necessario che la normativa violata conferisca diritti individuali. Tale quadro è reso ulteriormente complesso dalla diversificazione delle violazioni che potenzialmente possono essere poste in essere dai giudici (tra cui possono distinguersi errores in procedendo ed errores in iudicando) e dall’assenza, nell’ordinamento dell’Unione europea, di una gerarchia tra i giudici (che, invece, è ben chiara all’interno degli Stati membri), essendo quest’ultimo un ordinamento di cooperazione. 1.10. Riflessi sul principio di intangibilità della res iudicata. Ora, il passaggio logico dalla articolata questione della responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario a quella relativa all’intangibilità del giudicato si snoda attraverso un interrogativo: a fronte del monopolio interpretativo del diritto dell’Unione, la Corte di Giustizia può operare delle revisioni sulle decisioni degli organi giurisdizionali di ultima istanza che costituiscano palesi e sufficientemente gravi violazioni del diritto dell’Unione e che, quindi, siano già fonte di responsabilità per lo Stato membro al quale il giudice appartiene? Più in generale: è sempre possibile rimettere in discussione una manifestazione di volontà dello Stato, a livello amministrativo o giurisdizionale (e, come si vedrà, la distinzione non è di poco conto), allorché questa sia stata resa in contrarietà al diritto dell’Unione? In altre parole, vi è da chiedersi se l’affermazione di responsabilità, cui può seguire, a favore del soggetto leso dalla violazione del diritto dell’Unione, un ristoro per equivalente attraverso il risarcimento del danno, possa condurre, in un crescendo progressivamente più intrusivo dell’autonomia degli Stati membri, alla prassi per cui l’atto illegittimo debba sempre essere rimosso dall’ordinamento. (34) «Verosimilmente ciò non avverrà quando si tratta di un danno materiale. Infatti, la prova del nesso di causalità fra un tale danno e l'inadempimento all'obbligo di rinvio presuppone che il singolo asseritamente leso dimostri che la decisione dell'organo giurisdizionale supremo sia stata conforme alle sue pretese se quest'ultimo avesse effettivamente effettuato un rinvio pregiudiziale. Salvo che la Corte pronunci una sentenza sul punto di diritto di cui trattasi, poco tempo dopo la pronuncia della decisione dell'organo giurisdizionale supremo, e che tale sentenza assecondi questo singolo nelle sue pretese, è difficile immaginare come possa essere fornita la prova di un tale nesso di causalità» par. 151 delle conclusioni dell’Avvocato Generale Léger. (35) Corte di Giustizia, sentenza del 13 gennaio 2004, Kühne & Heitz contro Produktschap voor Pluimvee en Eieren, Causa C-453/00, in Raccolta 2004 I-00837, per cui vd. più ampiamente infra, Parte Seconda. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 31 La risposta parrebbe essere negativa, in quanto la res iudicata già formatasi resta presidio esclusivo del diritto nazionale, che, tendenzialmente, riterrà la conservazione del decisum esigenza più stringente rispetto a quella di garantire effettività al diritto comunitario. La Corte, dal canto suo, si troverà innanzi a questo tipo di questioni solo allorché venga effettivamente sollevato un rinvio pregiudiziale, che, tra l’altro, non è un’azione a giurisdizione piena (ivi, infatti, essa deve attenersi alle questioni interpretative così come proposte dalla giurisdizione di rinvio, che, naturalmente, offriranno una rappresentazione dei fatti dettata dalla sensibilità del giudice nazionale che abbia formulato i quesiti interpretativi). Nell’implementazione quale rimedio nazionale, il sistema di responsabilità rischia di privare la Corte di Giustizia dell’ultima parola sistematica che essa avrebbe voluto attribuirsi, lasciando alla sola cooperazione tra i giudici l’appianamento delle criticità del sistema. Alla luce delle sottolineate peculiarità di un tale regime di responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell’Unione, è opportuno procedere alla disamina delle pronunce in cui alla violazione sia seguita la rilevata esigenza di eliminare l’atto contrario al diritto dell’Unione. PARTE SECONDA CORTE DI GIUSTIZIA E RES IUDICATA: CRONACA DI UN BLANDO TRAVOLGIMENTO (Sentenze Eco Swiss (C-126/97); Kühne & Heitz (C-453/00); Kapferer (C-234/04); Lucchini (C-119/05); Fallimento Olimpiclub (C-2/08); Pizzarotti (C-213/13) La questione relativa alla responsabilità dello Stato per l’inadempimento, da parte di uno dei propri organi, del diritto dell’Unione europea, permette, come accennato, un approdo all’altra, oggetto principale del presente studio e relativa alle conseguenze dell’adozione, da parte di un giudice di ultima istanza o di altro organo statale, di una decisione contraria al diritto comunitario. Essa è stata lungamente dibattuta in seno alla Corte di Giustizia ed ha suscitato il più vivo interesse di dottrina e giurisprudenza, anche in virtù del suo carattere innovativo e potenzialmente travolgente di principi invalsi all’interno degli ordinamenti giuridici, tra cui quello di intangibilità del giudicato e di certezza del diritto. 2.1. Le pronunce delle Corti europee e l’intrusione nella sovranità statale. Le pronunce oggetto di analisi in questa sezione, nella loro complessità e diversificazione, testimoniano, anzitutto, la peculiarità della materia e la necessaria cautela richiesta agli attori, comunitari e nazionali, in relazione ad un 32 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 tema come quello del giudicato e possono dirsi specchio della più generale tendenza del diritto dell’Unione europea a pervadere gli spazi prima riservati agli ordinamenti nazionali (1). Incidentalmente, quanto alla progressiva erosione dei porti franchi di indiscussa sovranità dello Stato, non può tacersi la cogente influenza esercitata, specie in campo penale, dal sistema della Convenzione e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (che non è, tuttavia, oggetto di questa ricerca), per cui si è assistito alla nascita e allo sviluppo di un sistema giuridico integrato, nel quale le autorità nazionali e, in modo particolare, i giudici, hanno dovuto coniugare la propria tradizionale ed inattaccabile potestas interna con la preponderante forza normativa e il garantismo di nuovo conio promananti dai sistemi sovranazionali. Ciò è, d’altronde, il precipitato naturale di questi ordinamenti di integrazione, in cui è necessariamente richiesta una sinergia tra gli attori a livello nazionale e sovranazionale. Tale necessitata comunione d’intenti, tuttavia, non può non risentire della diversa matrice dei poteri ai differenti livelli e, più in generale, della non sempre identica sensibilità nei confronti di temi ricorrenti da parte dei soggetti chiamati a dare attuazione ai sistemi di integrazione. Tra questi, il tema dei diritti fondamentali per la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e i temi economici e mercantili per la Corte di Giustizia, la quale, tra l’altro, a seguito della consacrazione dell’ordinamento dell’Unione europea quale luogo in cui i diritti dell’individuo sono ritenuti di interesse primario (specie a seguito dell’entrata in vigore della Carta di Nizza, poi equiparata, quanto al valore giuridico, ai Trattati) (2) si è più ampiamente occupata della questione, andando ben oltre il primario interesse per il buon funzionamento dei mercati e per la libera circolazione dei fattori produttivi, trascendendo il principio di non discriminazione e la libertà di concorrenza (cui, si rammenti, era peculiarmente ispirato l’intento creatore dei Padri Fondatori). Tuttavia, nel momento in cui le Corti sovranazionali iniziano ad occuparsi (1) Sulle incidenze del diritto dell’Unione europea sulla sovranità statale, cfr. STILE M.T., Il problema del giudicato di diritto interno in contrasto con l’ordinamento comunitario o con la CEDU, in Diritto Comunitario e degli Scambi Internazionali, Fasc. 2/2007, 237-266. L’autrice, oltre al tema oggetto di studio, individua altri aspetti della sovranità incisi dal diritto comunitario, tra cui, nella notissima sentenza delle S.U. della Corte di Cassazione n. 500 del 22 luglio 1999, il tema della risarcibilità dei danni derivanti dalle violazioni di interessi legittimi, cui è conseguita l’eliminazione di uno tra i più risalenti privilegi goduti dalla pubblica amministrazione o, ancora, il tema della legittimazione delle associazioni dei consumatori ad impugnare le decisioni dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, conformemente alla giurisprudenza della Corte (cfr., ex multis, Corte di Giustizia, sentenza del 25 ottobre 1977, Metro SB-Großmärkte GmbH & Co. KG contro Commissione delle Comunità europee, Causa 26/76, in Raccolta 1977 01875) che riconosceva la legittimazione di soggetti terzi ad impugnare i c.d. provvedimenti assolutori della Commissione. (2) Cfr. art. 6 TUE. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 33 di temi tradizionalmente riservati alla sovranità statale, le maglie del sistema, inevitabilmente, si allargano, richiedendo soluzioni di compromesso o, comunque, artifici giustificativi di tali intrusioni, che spesso sono il precipitato processuale di una collisione tra diritti sostanziali. Se, dunque, gli ordinamenti nazionali sono inevitabilmente incisi dalla forza preponderante con cui quelli sovranazionali si impongono nelle discipline di loro competenza, è vero anche che i primi e, in particolare, i loro organi giurisdizionali interni, influenzano i coefficienti di effettività della normativa europea (in special modo eurocomunitaria) (3), essendo i primi e diretti interlocutori dei cittadini, soggetti di entrambi gli ordinamenti. La diversificata sensibilità degli organi nazionali (amministrativi, come in Kühne & Heitz o giurisdizionali, come in Lucchini, Olimpiclub e Pizzarotti) produce effetti che si riversano nella tenuta dei rapporti con gli ordinamenti sovranazionali, fino a determinare la responsabilità degli Stati membri (4) nel caso in cui la condotta dei loro organi sia risultata incompatibile con i compromessi che essi stessi hanno deciso di porre in essere (in uno schema singolare nel quale gli apparenti coscritti, provenienti da schieramenti contrapposti, sono, in realtà, i medesimi soggetti - gli Stati- che ivi si trovano a seguito di una cessione volontaria della propria potestà). Ciò in quanto, se è vero che l’ordinamento comunitario ha una propria autonomia giuridica e funzionale, non può negarsi che esso, senza la sinergica collaborazione degli Stati membri e dei loro organi, non potrebbe spiegare a pieno le proprie competenze. 2.2. Una ingerenza necessitata. A chi scrive, tuttavia, non pare che tale infittita, ma necessaria, rete di relazioni tra Stati membri ed istituzioni comunitarie comprometta irrimediabilmente la tenuta degli ordinamenti. D’altronde, il profilarsi di divergenze interpretative (quali si sono verificate nei casi sopra riportati) tra giudici (in questo caso di diversi, ma compenetrati, ordinamenti) nella tutela dei medesimi diritti rientra nella fisiologia dello ius dicere. Certo, essa crea delle criticità, già sottolineate ampiamente in materia di responsabilità dello Stato per le violazioni del diritto dell’Unione (5), ma non priva del tutto i sistemi (o il sistema) della sua intrinseca coerenza. (3) Per questo, cfr. STILE M.T., ibidem. (4) Cfr. CAPELLI F., L’obbligo degli Stati a risarcire i danni per violazione delle norme comunitarie, in Diritto Comunitario e degli Scambi Internazionali, 1997, 54 ss.; TESAURO G., Responsabilité des Etats Membres pour violation du droit communautaire, in Rev. marché commun et de l’Un. eur., 3/1996, 12-34; TIZZANO A., La tutela dei privati nei confronti degli Stati membri dell’Unione Europea, in Foro it., 1995, IV, 13 ss. (5) Cfr. supra, Parte Prima. 34 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 In questo modo, l’attivismo della Corte di Giustizia si spiega nella necessità di giustificare le limitazioni al liberismo cui la creazione delle Comunità era preordinata e che, tuttavia, in una prospettiva esclusivamente mercantilistica, denotavano una scelta ancora miope (6), che necessitava degli arricchimenti costituzionali ed istituzionali che sono, via via, sopraggiunti. È merito della Corte di Giustizia quello di aver colmato, non senza difficoltà, le lacune del sistema, almeno fino a quando non si sia registrata, anche a livello normativo, una chiara presa di posizione in materia di tutela dei diritti, attraverso l’inserimento della previsione di cui all’articolo 6.2. del Trattato di Maastricht, in cui, per la prima volta, si affermava che «[l]’Unione rispetta i principi fondamentali (…) quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario» (7). 2.3. Tre filoni interpretativi. È possibile isolare tre macro aree interpretative all’interno della giurisprudenza della Corte in materia di giudicato (8). La prima riguarda controversie di tipo verticale, sorte, cioè, tra soggetti privati ed amministrazioni nazionali e nelle quali, attraverso la tecnica c.d. della amministrazione indiretta, le seconde erano chiamate a dare attuazione al diritto dell’Unione. La seconda direttrice concerne, invece, controversie intercorrenti tra privati. La terza, infine, ricomprende il solo caso Lucchini, che, per la sua singolarità, merita una posizione isolata. Si trattava, in quel caso, di una questione di amministrazione c.d. diretta, in cui erano direttamente le Istituzioni comunitarie (segnatamente, la Commissione) ad amministrare il diritto dell’Unione. Quanto al primo filone, nel quale è inquadrabile la sentenza Kühne & Heitz, il primato del diritto comunitario è stato ivi inteso quale specificazione del principio di effettività, anche alla luce del principio di equivalenza, per cui le regole procedurali degli Stati devono essere applicate allo stesso modo per le posizioni soggettive derivanti dal diritto interno e per quelle derivanti dal diritto comunitario. In quest’ottica sono spiegate le condizioni delineate dalla Corte in Kühne & Heitz perché una decisione definitiva potesse essere rimessa in discussione. Qui, in particolare, oltre alla trasformazione in obbligo della possibilità dell’organo dello Stato membro di ritornare su una propria decisione è rilevante interrogarsi su quanto la posizione del cittadino possa influenzare l’effettività del diritto dell’Unione all’interno dello Stato membro. (6) Cfr., a tal proposito, GIUBBONI S., I diritti sociali fondamentali nell’ordinamento comunitario. Una rilettura alla luce della Carta di Nizza, in Diritto dell’Unione Europea, 2003, 325. (7) Cfr., al riguardo, SCUDIERO L., Comunità europea e diritti fondamentali: un rapporto ancora da definire?, in Riv. dir. eur., 1996, 263 ss. (8) Cfr. RAIMONDI S., Atti nazionali inoppugnabili e diritto comunitario tra principio di effettività e competenze di attribuzione, in Il Diritto dell’Unione Europea, 4/2008, 773-823. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 35 Ovvero: può discorrersi di una lesione del principio di effettività se il singolo abbia scelto di non esperire tutti i ricorsi a propria disposizione per tutelare la propria posizione violata? A chi scrive pare che il corretto spiegarsi del principio di effettività non possa essere sottoposto alle scelte dei singoli individui e che esso, invece, dipenda da scelte di carattere sistematico all’interno degli ordinamenti. Infatti, laddove esso dipendesse esclusivamente dalla diligenza degli individui nella contestazione delle illegittimità, allorché, per ipotesi, una schiera indefinita e molto ampia di soggetti prestasse acquiescenza ad una decisione contraria al diritto comunitario, l’effettività dello stesso potrebbe sempre dirsi violata (9). Nel secondo filone, riguardante controversie intercorrenti tra privati, nel quale possono farsi rientrare le pronunce Eco Swiss e Kapferer, la Corte ha dovuto adottare criteri risolutivi differenti. Infatti, nelle cause del primo filone, intercorrenti tra i singoli e lo Stato, doveva tenersi in debita considerazione l’obbligo di leale cooperazione che incombe sul soggetto pubblico e che poteva giustificare la posizione più rigorosa della Corte, suscettibile, pertanto, anche di rimettere in discussione la definitività di talune decisioni. Viceversa, in questi casi, la tutela degli interessi dei terzi privati poteva giustificare un approccio più conservativo. Pertanto, a fronte della tenuta delle decisioni definitive ritenute illegittime, l’unico rimedio avrebbe potuto essere quello di una azione di carattere extracontrattuale nei confronti dello Stato per la violazione di una norma di diritto dell’Unione da parte di un giudice di ultima istanza. L’ultimo filone, infine, lasciava intendere, in ragione delle sue specificità, che l’autonomia processuale degli Stati membri potesse essere consacrata come prevalente solo nei casi di amministrazione indiretta. In Lucchini si trattava, infatti, di una ipotesi di amministrazione diretta del diritto dell’Unione da parte della Commissione e il conseguente riparto di competenze, anch’esso posto a presidio della certezza del diritto poteva giustificare un eventuale superamento del giudicato illegittimo. 2.4. Corte di Giustizia e giudicato nazionale. Lesione di principi? Alla luce delle considerazioni che precedono si deve inquadrare l’excursus della giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di giudicato riportato nella prima parte di questo capitolo, ovvero tentando di spiegare come la questione dell’apparente superamento della res iudicata da parte del giudice (9) Cfr. a questo proposito, la sentenza Kempter (Corte di Giustizia, sentenza del 12 febbraio 2008, Willy Kempter KG contro Hauptzollamt Hamburg-Jonas, C-2/06, in Raccolta 2008 I-00411), in cui la Corte ha precisato le condizioni di diligenza del singolo. 36 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 comunitario sottenda, in realtà, una faticosa presa di posizione per la salvaguardia e l’affermazione del nuovo diritto sostanziale europeo, che investe settori (quale quello della tutela dei diritti, della cooperazione giudiziaria, della concorrenza, della disciplina degli aiuti di Stato, della imposizione tributaria) prima appannaggio esclusivo della normazione statale. Tale interpretazione pare suffragata dal fatto che la Corte, nella elaborazione della corrente in materia di giudicato, ha dimostrato di saper stare al proprio posto, pur attribuendosi il ruolo di interprete privilegiato e legittimato del diritto dell’Unione. D’altronde, se essa avesse inteso risolvere il contrasto tra diritto nazionale e diritto comunitario solo sulla base del primato (10) del secondo sul primo, avrebbe sempre dovuto concludere, in modo tranciante, per la disapplicazione o per la nullità del provvedimento nazionale incompatibile o delle norme procedurali che a questo conferissero carattere definitivo. Ma ciò avrebbe eroso drasticamente l’autonomia procedurale degli Stati membri, la certezza del diritto e l’eventuale affidamento di terzi sul provvedimento definitivo. Pertanto, a fronte della pressoché unanime convinzione in merito all’intangibilità del giudicato (11), la Corte, cautamente, si è trovata ad affermare che solo gli ordinamenti interni possono prevedere dei rimedi a fronte di palesi iniquità di un giudicato (costituiti, nell’ordinamento italiano, ad esempio, dagli istituti della revocazione della sentenza definitiva resa dal giudice civile (articolo 395 c.p.c.) e dalla revisione della sentenza penale (articolo 360 c.p.p.), concepiti come mezzi di impugnazione straordinari, la cui invocazione è, comunque, subordinata alla sussistenza di presupposti stringenti. Alla luce di ciò, può individuarsi (forse, con la sola eccezione costituita dal caso Lucchini) una certa coerenza nella risoluzione dei casi sottoposti all’attenzione della Corte in cui era posto in discussione il principio dell’intangibilità del giudicato, tanto da consacrare il giudice di Lussemburgo quale ossequioso custode del principio e non già quale impunito sovvertitore dello stesso. In Köbler, tanto per cominciare, si è registrato più il superamento di un pregiudizio (quello relativo all’impossibilità di configurare una responsabilità dello Stato per il fatto illecito dei propri giudici di ultima istanza), che il superamento di principio (quello del giudicato). L’intangibilità della res iudicata (per cui la decisione passata in giudicato in merito all’impossibilità di riconoscere al professor Köbler l’indennità che, secondo il diritto comunitario, gli sarebbe spettata) era, anzi, il presupposto per l’affermazione della responsabilità dello Stato. (10) Sui rapporti tra fonti, cfr. ZAGREBELSKI G., Il diritto mite, Torino, Einaudi, 1992. (11) Per cui si vedano le considerazioni ampiamente svolte nella introduzione al presente lavoro. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 37 Anche l’allora Avvocato Generale Tizzano, che, nelle proprie conclusioni relative al caso Kapferer aveva riscontrato un temperamento del principio di intangibilità di decisioni divenute definitive (12), riteneva comunque inattaccabile il principio della res iudicata, che dichiarava applicabile esclusivamente alle decisioni giurisdizionali, così giustificando l’apparente superamento dello stesso in casi come Kühne & Heitz, in cui era in discussione la tenuta non già di una sentenza, bensì di una decisione amministrativa, possibile oggetto di revisione in autotutela da parte dell’organo che l’aveva resa. Per tutte queste ragioni, non pare che si possa parlare di una effettiva lesione di principi, anche in ragione dell’assenza di una sovvertitrice linea direttrice unitaria, la quale si evince anche dall’atteggiamento, più o meno restrittivo, della Corte, dipendente dalla materia oggetto, di volta in volta, del fatto concreto sottoposto alla sua attenzione (13). Tale approccio case by case non è certo scevro da profili problematici, ma non è impossibile leggervi una coerenza di fondo, fondata, da un lato sull’ossequio del principio della certezza del diritto e, dall’altro, sull’esigenza di garantire piena effettività al diritto dell’Unione. In altre parole, l’attivismo della Corte, lungi dal ledere i principi fondamentali ed immanenti agli ordinamenti giuridici degli Stati membri, mirerebbe, più che altro, a compensare l’inerzia legislativa di questi, nei confronti del diritto eurocomunitario (14). 2.5. Una nuova chiave di lettura dei rapporti fra ordinamenti. In quest’ottica, il principio del giudicato rappresenta uno dei confini ultimi posti dagli ordinamenti nazionali per preservare la loro sfera di autonomia nei confronti del diritto comunitario e, allo stesso tempo, il terreno fertile per lo sviluppo delle riflessioni del giudice comunitario in materia di attuazione del diritto sostanziale, nei modi più coerenti e compatibili con le prescrizioni sovranazionali cui gli Stati hanno deciso di sottoporsi. Tale orientamento è ben visibile in Olimpiclub, in cui, nonostante nella giurisprudenza nazionale di legittimità fosse stato superato il prima invalso principio di frammentazione del giudicato (15), a partire dalla nota sentenza (12) «Alla luce delle considerazioni sopra svolte mi sembra pertanto di poter concludere che il diritto comunitario non impone ad un giudice nazionale di riesaminare ed annullare una decisione giurisdizionale che ha acquisito forza di giudicato qualora risulti che tale decisione abbia violato il diritto comunitario ». Cfr. par. 34 delle conclusioni dell’Avvocato Generale Antonio Tizzano nella causa Kapferer. (13) A questo proposito, cfr. GROUSSOT X., MINSSEN T., Res judicata in the Court of Justice Case- Law: Balancing Legal Certainty with Legality?, in European Constitutional Law Reviev, 3/2007, 401. (14) Cfr. ADINOLFI A., The “Procedural Autonomy” of Member States and the constraints stemming from the ECJ’s case law: is judicial activism still necessary?, in The European Court of Justice and the Autonomy of the Member States, Cambridge, Antwerp, Portland, Intersentia 2012, 302. (15) Per cui, in materia di IVA, l’accertamento relativo ad una singola annualità fiscale poi passato in giudicato non spiegava i propri effetti conformativi nei giudizi relativi ad altre annualità. 38 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 delle Sezioni Unite della Cassazione n. 13916/2006 (16) in cui si affermava che, «[i]n una fattispecie di esenzione fiscale pluriennale, accertato con sentenza passata in giudicato che al contribuente spetta l'esenzione per un segmento dell'arco temporale di estensione dell'esenzione medesima, tale sentenza ha efficacia di giudicato esterno in un diverso giudizio nel quale si discute della spettanza dell'esenzione per un altro segmento di quell'arco temporale», la Corte ritiene di dover suggerire ai giudici nazionali di ritornare sui propri passi, laddove l’adesione al principio della frammentazione sia strumentale alla più corretta attuazione del diritto dell’Unione. Taluno (17) ha parlato, a questo proposito, del progressivo emergere di un diritto processuale europeo, che è auspicato e stimolato dalla Corte di Giustizia, ma del quale l’attuazione è demandata, comunque, ai giudici nazionali e dipenderebbe dalla sensibilità di questi nei confronti dei temi del diritto eurocomunitario. La questione non è di poco conto, se si considera che la Corte ha associato alle ipotesi di scollamento fra una decisione nazionale e il diritto dell’Unione la più grave sanzione del risarcimento del danno a carico dello Stato membro. Si tratta, dunque, della scelta tra un ristoro per equivalente, consistente nella affermazione della responsabilità dello Stato cui consegua il risarcimento del danno e uno in forma specifica, consistente nell’anelata eliminazione di una decisione, anche definitiva, contraria al diritto dell’Unione. Come si è avuto modo di notare, le soluzioni non sono sempre state agevoli nemmeno per il giudice comunitario, anche alla luce della profonda diversificazione dei casi e delle materie sottoposti alla sua attenzione. In Köbler, ad esempio, si trattava di decidere, più che sulla compatibilità tra un giudicato e una norma europea, su quella tra due giudicati (segnatamente, la pronuncia divenuta definitiva del Verwaltungsgerichtshof e la giurisprudenza della stessa Corte di Giustizia favorevole al ricorrente). In queste occasioni, dunque, attraverso il rinvio pregiudiziale, alla Corte era stata, altresì, sottoposta la risoluzione di un peculiare conflitto di attribuzioni (18) o, in alternativa di competenza (19). (16) Cass., S.U., 16 giugno 2006, n. 13916, in Foro it. 2007, 2, I, 493. (17) GAVA A., Giudicato nazionale e diritto comunitario: (quale) nuova chiave di lettura del rapporto tra gli ordinamenti?, in Europa e Diritto Privato, 1/2010, 297. (18) Su questi, nell’ordinamento italiano, è la Corte costituzionale a giudicare, a norma dell’art. 134, comma III della Costituzione. Tuttavia, perché possa parlarsi di conflitto di attribuzioni tra poteri, sono necessarie le seguenti condizioni: a) che esso sorga fra organi appartenenti a poteri diversi; b) che sorga fra organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono; c) che sorga per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali. Cfr. MARTINES T., SILVESTRI G. (a cura di), Diritto Costituzionale, XIII ed., Milano, Giuffrè, 2013, 344. (19) Il dubbio sorge in ragione della assenza della prima delle condizioni di cui alla nota precedente affinché possa delinearsi un conflitto di attribuzioni, ovvero quella relativa all’appartenenza dei giudici nazionali e della Corte a poteri diversi (e non, invece, al medesimo, ovvero quello giurisdizio- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 39 Già in Francovich, attuando lo stratagemma del risarcimento del danno, la Corte risolveva il conflitto di competenza a favore del giudice nazionale e quello di attribuzione in proprio favore, riservandosi l’ultima parola interpretativa. D’altronde, come già sottolineato, il presupposto dell’obbligazione risarcitoria è stato, in questi casi, proprio il permanere della violazione, in ragione della impossibilità di eliminare una decisione divenuta definitiva (20). La giurisprudenza Lucchini, anche sotto questo versante, mostra tutte le sue peculiarità, tanto che vi è sia chi ha ritenuto che la Corte abbia ivi risolto un conflitto di competenze (21) e chi, invece, un conflitto di attribuzioni (22). La lieve propensione verso la seconda di queste spiegazioni è giustificata dal fatto che, in Lucchini, la competenza a decidere sulla spettanza dell’aiuto era, in effetti, riservata alla Commissione e non già al giudice nazionale e, proprio in ragione del fatto che l’ordinamento comunitario prevale nelle materie ad esso espressamente riservate, con la contestuale necessità di disapplicare la norma interna con esso confliggente, si spiega la portata di tale pronuncia. La sentenza, in realtà, sottendeva un (poco) velato rimprovero della Corte (ma, più, in generale, dell’ordinamento comunitario) (23) nei confronti della condotta dello Stato italiano nel suo complesso, il quale, dapprima, non aveva ottemperato correttamente ai propri oneri comunicativi nei confronti della Commissione e poi, sia attraverso la decisione del giudice civile che attraverso la mancata rilevazione della, nel frattempo, intervenuta, decisione della Commissione in merito all’aiuto, aveva contribuito al consolidarsi della decisione contraria al diritto comunitario. Pertanto, in Lucchini, la Corte, che ha poi avuto modo di precisare che mai essa ha superato il limite del giudicato, ha formulato un rimprovero di tipo politico nei confronti dello Stato membro e ciò ha giustificato sia la singolarità della pronuncia che la portata esorbitante della stessa. È in Olimpiclub che la Corte, superate le asperità del caso Lucchini, ritrova coerenza argomentativa, questa volta al di fuori della questione di competenza (che, d’altronde, non avrebbe potuto porsi, giacché la competenza a nale). La questione potrebbe essere risolta differenziando le attribuzioni dei due organi e ricordando che la Corte di Giustizia è deputata, più che altro, all’interpretazione del diritto dell’Unione, la cui applicazione pertiene, invece, alle giurisdizioni nazionali. (20) Così, PICARDI N., Eventuali conflitti fra principio del giudicato e principio della superiorità del diritto comunitario, in Giust. Civ., 2008, 561. (21) NUCERA, V., La tenuta del giudicato nazionale al banco di prova del contrasto con l’ordinamento comunitario, in Riv. Dir. Trib., IV/2008, 161. (22) CAPONI R., Giudicati civili nazionali e sentenze delle corti europee tra esigenze di certezza del diritto e gerarchia delle fonti, sintesi aggiornata della relazione Corti europee e giudicati nazionali, presentata al XXVII Congresso nazionale dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile, Verona, 25-26 Settembre 2009. (23) Si vedano, a questo proposito, le recise osservazioni dell’Avvocato Generale Geelhoed in riferimento all’operato dei giudici nazionali. 40 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 decidere delle annualità fiscali era esclusivamente del giudice nazionale), risolvendo il contrasto tra un giudicato e una norma comunitaria, ovvero un contrasto fra principi generali tra due ordinamenti, attraverso la rievocazione di un vecchio principio (quello della frammentazione dei giudicati), ormai abbandonato dalla giurisprudenza nazionale. 2.6. Uno scontro evitabile. Molte delle difficoltà concettuali insite nella elaborazione (all’occorrenza, nella revisione o nella riedizione) di un concetto di giudicato comunitario derivano, altresì, dalla differenza di vedute tra la Corte di Giustizia e i giudici delle leggi di taluni Stati membri. La prima, tradizionalmente fautrice della tesi monista dei rapporti tra Stato e ordinamento internazionale e i secondi, pronti ad arginare la forza espansiva del diritto comunitario sostenendo la (ormai temperata) tesi dualista, si scontrano sulla soluzione di conflitti che, se inquadrati all’interno di un medesimo ordinamento mantengono la loro coerenza sistematica (e non è un caso che la Corte di Giustizia abbia ritenuto di essere competente a risolvere conflitti di attribuzione tra istituzioni comunitarie e Stati membri), ma che mostrano le loro problematicità in una prospettiva inter ordinamentale (24). Promotrice dell’integrazione, la Corte di Giustizia, in occasione delle pronunce in materia di giudicato, ha tentato, con non poca fatica, di sopperire a mancanze sostanziali e processuali interne agli Stati membri, alla luce del diritto dell’Unione. Per questo motivo, non è mancata l’opinione di chi (25) abbia ritenuto che il sollevamento del polverone sulla questione del giudicato si sarebbe potuto evitare se si fossero adottate, nel corso dei giudizi e delle procedure nazionali, maggiori cautele nel rispetto del diritto comunitario. (24) A proposito della contrapposizione fra monismo e dualismo nell’ordinamento dell’Unione europea, cfr. ITZCOVICH G., Teorie e ideologie del diritto comunitario, Torino, Giappichelli, 2006, il quale individua nell’ordinamento comunitario una costruzione-piano, ossia un progetto politico al quale, in modi diversi, i singoli Stati avrebbero dovuto conformarsi, un diritto costituzionale in fieri, e non una costituzione statica, un modello di divisione dei poteri già stabilito. Questa concezione dei trattati istitutivi ha svolto un ruolo anche nella modalità di interpretazione degli stessi, che si è improntata sul modello teleologico. I trattati vengono interpretati sì da realizzare il fine dell'integrazione, allontanandosi dai modelli restrittivi e letterali di interpretazione fondati sull'assunto che non si sarebbero potute individuare limitazioni alla sovranità statale, a meno che non fossero chiaramente espresse o non costituissero un favore al contraente. L'autore connette l'uso del metodo teleologico al principio dell'autonomia del diritto comunitario rispetto ai diritti statali, ritenendo il principio funzionalista la vera modalità di sviluppo delle istituzioni europee. Egli fa riferimento ad una progressiva de-internazionalizzazione del diritto comunitario da parte della Corte di Giustizia, che ha così generato un ordinamento peculiare e retto da principi parzialmente differenti rispetto a quelli del diritto internazionale. Sulle interpretazioni funzionali dei trattati, cfr. anche supra, Parte Prima. (25) Cfr. NEGRELLI A., Il primato del diritto comunitario e il giudicato nazionale: un confronto che si poteva evitare o risolvere altrimenti, in Riv. It. Dir. Pub. Com., 5/2008. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 41 In Lucchini il Consiglio di Stato, nel sollevare la questione pregiudiziale, riteneva che il giudicato coprisse il dedotto ed il deducibile e traeva l’intangibilità della decisione della Corte d’Appello di Roma dalla circostanza che la decisione della Commissione fosse venuta in essere in un secondo momento, quando la Lucchini poteva dire di aver già consolidato la propria aspettativa in merito alla corresponsione dell’aiuto. Così posta, la questione ha messo la Corte di Giustizia innanzi ad una pericolosa alternativa, tra la garanzia dell’effettività del diritto dell’Unione e quella della autonomia processuale nazionale, risolta nelle già note modalità. Tuttavia, se il Consiglio di Stato avesse considerato più attentamente la circostanza per la quale un giudicato può, a determinate condizioni, far salve eventuali sopravvenienze, tali che il deducibile valga solo per i fatti passati, si sarebbe forse assistito ad una più coerente affermazione di principio da parte della Corte, al di là della dirompenza che la decisione della stessa era, comunque, destinata a manifestare. Vi è da chiedersi, quale grado di collaborazione (ai sensi dell’articolo 4 TUE) possa essere richiesto agli Stati membri e ai loro organi al fine di evitare, a monte, tali imbarazzanti situazioni di incompatibilità, che spingono il giudice comunitario ad esporsi, non senza conseguenze, sull’attuazione del diritto dell’Unione. La risposta è una questione di prospettive. Una prospettiva internazionalista colloca gli attori delle procedure su due piani parzialmente differenti, ove ciascuno di essi può estrinsecare la propria autonomia riducendo il rischio di interferenze o di incongruenze derivanti dall’intersezione con i partner dell’altro ordinamento (in questa prospettiva può farsi rientrare il sistema della CEDU, che richiede al soggetto leso in un diritto garantito dalla Convenzione il previo esperimento di tutti i ricorsi interni prima di rivolgersi alla Corte di Strasburgo). Una prospettiva integrazionista, viceversa, garantisce maggiore organicità al sistema e se, da un lato, in ragione della più acuta sensibilità richiesta alle autorità nazionali, impedisce a monte la creazione di situazioni contrarie al diritto dell’Unione, dall’altro, laddove queste vengano comunque in essere, sono private della loro regolarità, in quanto formatesi in spregio alla normativa comunitaria (26). In ciò il diritto comunitario ha profondamente modificato il modo di intendere i sistemi giuridici tradizionali, dai quali era impossibile pretendere una astensione acritica da reazioni o limitazioni di tale forza propulsiva. Si pensi, ancora una volta, alla Corte costituzionale italiana, che ha sottolineato come ogni statuizione della Corte di Giustizia debba essere sottoposta (26) Per questo, cfr. CANNIZZARO E., Sui rapporti fra sistemi processuali nazionali e diritto dell’Unione europea, in Il Diritto dell’Unione Europea, 3/2008, 447-468. 42 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 ai controlimiti costituzionali (27) o, ancora, al Consiglio di Stato, che, per giustificare l’eventuale superamento di giudizi amministrativi divenuti definitivi, soleva distinguere tra giudizi sull’atto (la cui stabilità era superabile, attraverso un sostanziale annullamento in autotutela) e giudizi sul rapporto (come quelli civili), in cui l’autorità del giudicato non permetteva superamento alcuno. La composizione di questi conflitti fra le autorità nazionali (in particolare, i giudici) e quelle comunitarie (in particolare, la Corte di Giustizia) non può prescindere dalla considerazione dell’anelito integrazionista che ispira l’esperienza comunitaria e, poi, dalle successive, anche se controbilanciate, spinte costituenti dell’Unione, alla luce dei quali le ritrosie nazionali andrebbero ridimensionate a vantaggio del buon funzionamento del sistema nel suo complesso. 2.7. Il caso Pizzarotti: rilievi della sentenza della Corte nella considerazione del giudice remittente. Il recentissimo caso Pizzarotti (28), il quale si pone in rapporto di specificazione con i propri precedenti, non avendo qui la Corte assunto una posizione netta sul travolgimento di una decisione amministrativa contraria al diritto comunitario, limitandosi a sollecitare l’utilizzo delle regole procedurali interne per assicurare l’ossequio del diritto dell’Unione, pone in evidenza l’importanza della considerazione del giudice remittente in merito alla intervenuta sentenza della Corte su una materia oggetto di rinvio pregiudiziale. Infatti, se si è dimostrato come la Corte non abbia, fino ad ora, effettivamente inciso il principio della autonomia procedurale degli Stati membri, meritano di essere chiariti i limiti di codesta autonomia e le modalità di esercizio della stessa a seguito di una pronuncia della Corte su una materia incisa dal diritto dell’Unione. In altre parole, quali sono i vincoli derivanti al giudice nazionale dalle prescrizioni di una sentenza interpretativa resa dalla Corte di Giustizia? Certamente, esso deve prestarvi ossequio, in quanto la pronuncia della Corte di Giustizia spiega effetti endoprocessuali tali che essa ha portata vincolante per il giudice del rinvio e per le eventuali giurisdizioni superiori che fossero chiamate a pronunciarsi sulla medesima causa. Il rifiuto di prestare ossequio alla sentenza della Corte potrebbe comportare, a carico dello Stato membro, l’apertura di una procedura di infrazione e sfociare nel ricorso per inadempimento di cui all’articolo 258 TFUE. Ma, al di là delle palesi inosservanze del dictum della Corte, vi è un ampio (27) Sui, travagliati, rapporti fra la Corte costituzionale e la Corte di Giustizia dell’Unione europea, cfr. CHITI M.P., La Consulta e il primo rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, verso il concerto costituzionale europeo, in Giornale di diritto Amministrativo, (2008). (28) Per cui cfr. GATTINARA G., L’autorité de la chose jugée après l’ arrêt Pizzarotti, in Revue des Effaires Européennes, 3/2014, 623-632. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 43 ventaglio di possibilità interpretative cui il giudice remittente, nell’alveo della propria autonomia, può far ricorso. È quanto è successo nell’ancora pendente giudizio Pizzarotti, in cui, a seguito della sentenza resa dalla Corte (la quale suggeriva di far ricorso, in sede di ottemperanza, ad interpretazioni della decisione passata in giudicato compatibili con il diritto dell’Unione, alla stregua del principio della formazione progressiva del giudicato amministrativo, come concepito dalla giurisprudenza amministrativa), la sezione Quinta del Consiglio di Stato (29) ha deciso di rimettere la questione all’Adunanza Plenaria, «dovendosi verificare se, dopo la riforma del processo amministrativo attuata con l’adozione del relativo codice e l’introduzione di azioni processuali prima non riconosciute dal sistema processuale amministrativo, abbia ancora senso fare riferimento all’istituto in esame [il giudicato a formazione progressiva] che è stato elaborato dalla giurisprudenza proprio per sopperire alle limitazioni proprie del processo amministrativo originario, centrato sulla sola azione di annullamento del provvedimento illegittimo; oppure se debba farsi riferimento ad un concetto di giudicato omologo a quello civilistico ed incentrato sul dictum contenuto nella sola sentenza di merito». Il Consiglio di Stato «[c]onsiderato che, come è noto, in sede di giudizio di ottemperanza il giudice amministrativo può esercitare cumulativamente, ove ne ricorrano i presupposti, sia poteri sostitutivi che poteri ordinatori e cassatori e può, conseguentemente, integrare l’originario disposto della sentenza con statuizioni che ne costituiscono non mera esecuzione, ma attuazione in senso stretto, dando luogo al c.d. giudicato a formazione progressiva (da ultimo, cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 2 febbraio 2011, n. 748; principio da ultimo autorevolmente confermato dalla sentenza del Consiglio di Stato, Ad. Pl., 15 gennaio 2013, n. 2)» ha colto la problematicità del bivio di fronte al quale è stato posto. In altre parole, i giudici di Palazzo Spada si sono chiesti se si possa ancora discorrere di giudicato a formazione progressiva e quanto questo principio possa incidere sulle sentenze di merito, poi oggetto di ottemperanza. Se, infatti, il Consiglio di Stato avesse aderito pedissequamente alla soluzione proposta dalla Corte, attuando, in sede di ottemperanza, una interpretazione della sentenza di merito passata in giudicato compatibile con il diritto dell’Unione, avrebbe comunque corso il rischio di accantonare la prospettiva, certamente concreta, del giudicato. D’altro canto, prestando ossequio al giudicato e soddisfacendo l’interesse della Pizzarotti alla conclusione del contratto, esso sarebbe incorso in una violazione del diritto dell’Unione. Spetta, adesso, all’Adunanza Plenaria decidere sulla questione ed essa non potrà non tener conto delle innovazioni che il codice del processo ammi- (29) Consiglio di Stato, Sez. V, ordinanza del 17 luglio 2015, n. 3587, Pres. Torsello, Est. Lotti. 44 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 nistrativo ha determinato in materia di ottemperanza, rispetto alla quale le decisioni assunte prendono il nome di sentenze e per le quali è difficile escludere che siano rivestite dell’autorità di giudicato. Ma, ancora, considerando le sentenze di ottemperanza oggetto di giudicato intangibile, la sentenza Pizzarotti della Corte di Giustizia costituisce una sopravvenienza suscettibile di rendere ineseguibile una decisione amministrativa? Pare di no, seguendo la lettera della stessa sentenza, che attribuisce al giudice nazionale la scelta in merito al mantenimento o al superamento del giudicato, ma non può negarsi come, da un lato, la Pizzarotti sia ormai titolare, quantomeno, di una aspettativa qualificata nei confronti del comune di Bari e, dall’altro, come il soddisfacimento di questa aspettativa possa porsi in contrasto con il diritto eurocomunitario. Nell’attesa della pronuncia della Plenaria, non può non rilevarsi ulteriormente come le questioni attinenti al giudicato siano lo specchio delle difficoltà di compenetrazione tra i due ordinamenti, che nell’esercizio del potere giudiziario si vivificano e trovano linfa continua. 2.8. Limiti del risarcimento in forma specifica e responsabilità civile dei magistrati: la chiusura del cerchio. La pronunce della Corte preservano, perlopiù, il principio di autonomia processuale degli Stati membri, con la macroscopica eccezione di Lucchini e le peculiarità di Kühne & Heitz. Dall’anelito ad un risarcimento in forma specifica, attraverso l’eliminazione della decisione lesiva, si ritorna, dunque, al rimedio analizzato nella prima parte di questo lavoro: il risarcimento del danno a carico dello Stato per l’incorretto operato dei propri organi. Pertanto, pur essendo incontrovertibile l’accertamento contenuto in una decisione passata in giudicato (sempre tenendo nella dovuta considerazione la acuta distinzione operata dall’Avvocato Léger nelle proprie conclusioni relative al caso Köbler tra autorità di cosa giudicata, travolgibile, e cosa definitivamente giudicata, tendenzialmente inattaccabile), se questa è contraria al diritto dell’Unione, essa può esitare in una responsabilità dello Stato, in particolare per l’operato dei propri giudici. Merita qui un accenno la recentissima normativa italiana in materia di responsabilità civile dei magistrati, il cui rinnovamento è stato sollecitato anche dagli impulsi provenienti dall’ordinamento comunitario. La disciplina, contenuta nella c.d. Legge Vassalli (30), era stata più volte oggetto delle censure da parte della Corte di Giustizia (e della Commissione, che aveva avviato una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia (31)), che la riteneva inidonea ad assicurare una tutela effettiva a chi avesse subito (30) L. 13 aprile 1988, n. 117, in GU n. 88 del 15 aprile 1988. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 45 un pregiudizio per il fatto del giudice, specie nel caso in cui l’illecito derivasse dall’inosservanza del diritto dell’Unione Europea (32). Pertanto, con L. n. 18 del 27 febbraio 2015 (33), è stata approvata la modifica della disciplina della responsabilità civile dei magistrati, con il dichiarato obiettivo di adeguamento alle prescrizioni provenienti dall’ordinamento comunitario. La responsabilità rimane indiretta (non si potrà convenire direttamente il magistrato, bensì lo Stato che, ove ne sussistano i presupposti, eserciterà la rivalsa) e sussisterà anche per gli illeciti commessi nell’esercizio di attività di interpretazione di norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove, ove sussistano il dolo o la colpa grave (novellato articolo 2, comma 2, L. 117/88). Tra le ipotesi di colpa grave rientra la violazione manifesta della legge, nonché del diritto dell’Unione europea, per dichiarare la sussistenza della quale sarà necessario tener conto del grado di chiarezza e precisione delle norme violate, nonché dell’inescusabilità e della gravità dell’inosservanza (come già precisato dalla Corte di Giustizia in Brasserie du pêcheur). La novella legislativa indica, altresì, la necessità di valutare, nell’esame della condotta del magistrato, la mancata osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale, ai sensi dell’articolo 267, terzo comma, TFUE, nonché il contrasto dell’atto o del provvedimento del giudice con l’interpretazione espressa della Corte di Giustizia. In attesa della valutazione di conformità della nuova disciplina da parte della Commissione, si deve rilevare nella novella la conferma della sensibilità dello Stato sul tema delle violazioni del diritto comunitario, che fa da contraltare all’ossequio prestato dalla Corte di Giustizia ai temi classici della certezza del diritto e fa ben sperare sulla tenuta dell’ordinamento di integrazione. CONSIDERAZIONI FINALI Dalle linee maestre tracciate, sin qui, dalla giurisprudenza comunitaria in materia di acclarati contrasti fra un giudicato nazionale e il diritto dell’Unione europea, si evince come il principio di intangibilità della res iudicata riesca ancora a reggere alle forze propulsive che, nel nome della anelata coerenza del sistema, vorrebbero travolgerlo. (31) Procedura d'infrazione n. 2009/2230 del 26 settembre 2013, ai sensi dell'articolo 258 del Trattato, per non conformità al diritto dell'Unione europea della legge 13 aprile 1988, n. 117 relativa al risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati per l’inadempimento della sentenza della Corte nella causa Commissione contro Italia, C-379/10, in Raccolta 2011 I-00180. (32) Cfr. Corte di Giustizia, sentenza del 13 giugno 2006, Traghetti del Mediterraneo SpA contro Repubblica italiana, C-173/03, in Raccolta 2006 I-05177. (33) In GU Serie Generale n.52 del 4-3-2015. 46 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 Non è stato necessario, pertanto, ricorrere ai controlimiti per bilanciare la portata delle pronunce della Corte di Giustizia in questo settore, le quali, più che aggiramenti del principio della certezza del diritto, sono risultate pietre miliari sul tema dell’effettività del diritto eurounitario (1). I giudici di Lussemburgo, agendo con estrema cautela, hanno dimostrato, a coloro i quali li additavano come dispotici sovvertitori di un principio, la saggezza e l’autorevolezza della corte di ultima istanza in un ordinamento para federale. Le difficoltà concettuali sottolineate nel corso della trattazione sono ascrivibili alla non semplice ricerca di coerenza in un panorama, sostanziale e processuale, diversificato, composito, ma estremamente ricco, fonte di continua ispirazione per gli interpreti. L’unica remora può insidiarsi nel paventato deficit di tutele nei confronti dei cittadini, i quali, nel gioco delle cortesi reciproche affermazioni di prevalenza tra gli Stati membri e la Corte, rischiano la confusa mortificazione delle proprie posizioni soggettive e delle legittime aspettative maturate in base a normative poi rivelatesi illegittime, trovando nel solo risarcimento del danno l’ultimo baluardo di certezza. Sarà compito oneroso di legislatori e giudici, nazionali ed eurocomunitari, quello di realizzare il delicato bilanciamento tra principi e valori promananti dalla molteplicità degli ordini che compongono il sistema di tutela multilivello dei diritti. L’idea del giudicato è chiamata a misurarsi con i piani della normatività internazionale e sovranazionale e la sfida più impegnativa è proprio quella della coerenza, del superamento della inettitudine degli ordinamenti giuridici nazionali a regolamentare in modo compiuto ed efficiente i rapporti transnazionali. Nessun abbattimento delle Colonne d’Ercole, dunque, bensì, piuttosto, il posizionamento delle stesse quali basi di una nuova realtà globale, della quale il giudicato è chiamato a fare parte, non indebolito né eliso, ma, al massimo, riproporzionato. Bibliografia alfabetica ABOUDRAR-RAVANEL, S., Responsabilité et Primauté, ou la question de l’efficience de l’outil, in Revue du Marché commun et de l’Union Europeénne, n. 544/1999; 544-558; ADINOLFI, A., The “Procedural Autonomy” of Member States and the constraints stemming from the ECJ’s case law: is judicial activism still necessary?, in The European Court of Justice and (1) Per questa definizione cfr. RUGGERI A., Dimensione europea della tutela dei diritti fondamentali e tecniche interpretative, in www.federalismi.it. 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Glauco Nori* 1.- L’immigrazione sta rendendo più evidenti, di quanto già non lo fossero, le debolezze dell’Unione Europea: ogni Paese membro cerca di reagire per proprio conto dando l’impressione di non avere colto la natura del fenomeno. È dall’Africa e dal Medio Oriente che sta arrivando la gran parte degli immigrati. I movimenti sono potuti arrivare alle dimensioni attuali per lo sviluppo dei mezzi di informazione, utilizzati anche per l’organizzazione dei trasporti. Venti anni fa, chi oggi si muove dall’Afghanistan o dal Mali, dell’Italia non solo non conosceva le condizioni di vita, ma probabilmente nemmeno dove si trovasse o addirittura l’esistenza. L’immigrazione potrebbe essere definita come globalizzazione sociale per l’incidenza che la c.d. globalizzazione ha avuto sulle sue dimensioni. Considerate le cause, non si può pensare di arginarla con i mezzi tradizionali. Il fenomeno, che talvolta è stato definito biblico, richiede nell’affrontarlo un’ampiezza di visione corrispondente. Per i Paesi che per i loro interessi contingenti tentano di fare da soli, il risultato più probabile sarà di aggravare le difficoltà. Immigrazioni per ragioni economiche o per la ricerca di asilo ci sono sempre state; la novità sta solo nei numeri che richiedono mezzi di intervento alla cui predisposizione gli Stati non erano e non sono ancora preparati. La differenza tra le due categorie non sta solo nella diversità dei motivi, ma anche nel fatto che per i rifugiati da tempo ci sono normative internazionali di tutela. 2.- Verso i rifugiati, in particolare, si scontrano le ragioni della sicurezza con quelle umanitarie. Prima di far valere le ragioni umanitarie si dovrebbe verificare se certi comportamenti non siano già disciplinati dalle norme. La rete etica, a maglie più strette di quella del diritto, può vietare comportamenti consentiti dalle norme giuridiche; per quello che è già imposto o vietato dal diritto il ricorso alle ragioni umanitarie è fuori luogo. Per prevenire le immigrazioni si è proposto da più parti di intervenire nei luoghi di provenienza in modo da eliminare le condizioni locali che le provocano. Il rimedio non potrebbe operare a breve: in ogni caso sarà necessario il tempo perché le nuove condizioni maturino. Diventa ancora più improbabile per i rifugiati che fuggono per i pericoli provocati dalle condizioni politiche locali. Alcuni dei Paesi di provenienza degli immigrati non chiedono aiuti, i cui effetti sono temporanei, ma investimenti che creino occasioni di lavoro che potrebbero incidere anche sulle condizioni politiche. Il consenso, che in linea (*) Professore, Avv. dello Stato, Presidente emerito del Comitato scientifico di questa Rassegna. 52 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 di principio è intervenuto da più parti, non deve fare trascurare che interventi economici dall’esterno non è detto che portino ai risultati voluti. Dove sono in corso guerre civili non si saprebbe a chi rivolgersi mentre il potere centrale efficiente, dove c’è, è spesso dittatoriale, non sempre affidabile per l’attuazione dei programmi. Che gli arrivi dei rifugiati possano ridursi in tempo ragionevole è, dunque, da escludere. C’è da prevedere, invece, che aumentino mano a mano che, chi non si è ancora mosso, vede che nei Paesi di arrivo sono possibili sistemazioni, anche se precarie, in ogni caso migliori e più sicure di quelle in patria. 3.- Sulla nozione di immigrato, almeno nei suoi caratteri essenziali, non sembra che ci siano contrasti: è chi si trasferisce in uno Stato diverso da quello di residenza che può essere a sua volta diverso da quello di cittadinanza. L’immigrazione è, dunque, una vicenda a base territoriale che mette in relazione almeno due Stati ognuno dei quali regola i rapporti che si svolgono sul suo territorio e per questo fissa anche le condizioni di accesso: chi vuole entrare vi si deve attenere. Anche se scontate, sono premesse da farsi per evitare che, proprio perché scontate, finiscano con l’essere dimenticate. L’immigrazione ha come carattere una sua stabilità: non può essere considerato immigrato il turista che si trattiene per un tempo limitato per poi tornare in dietro. Per le sue peculiarità quella che oggi richiama la maggiore attenzione è l’immigrazione di chi richiede asilo per i pericoli che corre in patria. Più correttamente, si dovrebbe parlare di trasmigrazione con la quale è stata tradizionalmente distinta l’immigrazione di massa. A muoversi sono tante persone contemporaneamente perché tutte fuggono da una situazione comune. In molti possono muoversi anche per cercare lavoro, ma ciascuno per ragioni personali; in ogni caso mai tanto numerosi come chi deve scappare dal suo Paese per i pericoli provocati da scontri militari diffusi. Quella dei rifugiati è una trasmigrazione che preoccupa l’opinione pubblica sia per il numero sia perché la normativa che la regola è considerata insufficiente. 4.- La Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 nell’art. 1, attraverso il richiamo di norme precedenti, ha riconosciuto come rifugiato chi lo era “per causa di avvenimenti anteriori al 1° gennaio 1951”. Il limite temporale è stato poi abolito con il Protocollo di New York del 1967, ma la norma per il resto è rimasta la stessa. È il momento di soffermarsi sugli effetti giuridici di questa Convenzione sui quali non sembra si sia fatta la giusta attenzione fino a quando i numeri non hanno creato allarme. Dalla Convenzione nascono diritti e doveri? Se sì, solo tra gli Stati che l’hanno sottoscritta o anche tra gli Stati e i rifugiati? Le domande, come si vedrà, non hanno un valore solo teorico; le risposte possibili fanno cambiare, e non di poco, i termini delle questioni. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 53 Che una trattato internazionale non produca diritti e doveri per nessuno è da escludersi; in mancanza di effetti giuridici non ci sarebbe motivo di concluderlo: si risparmierebbe l’attività preparatoria. Anche la Convenzione di Ginevra ha prodotto effetti: c’è da verificare quali e nei confronti di chi. Gli internazionalisti da tempo si sono domandati se i trattati possano creare posizioni giuridiche soggettive solo per i contraenti o anche per soggetti diversi nell’interesse dei quali sono conclusi. Questa seconda possibilità oggi non sembra più messa in discussione: il trattato può essere a favore di terzi. Lo è anche la Convenzione di Ginevra? Per escluderlo dovrebbe avere prodotto effetti solo tra gli Stati contraenti, disciplinando i rapporti reciproci. Dopo il Capo I, che dà la definizione di rifugiato, il Capo II ne definisce la condizione giuridica, precisata ulteriormente nei Capi successivi (attività lucrativa, benessere sociale, assistenza amministrativa). “Ciascuno Stato Contraente, all’atto della firma, della ratificazione o dell’accessione, farà una dichiarazione circa l’estensione che esso intende attribuire a tale espressione per quanto riguarda gli obblighi da esso assunti in virtù della presente Convenzione” (art. 1). Gli Stati, dunque, hanno assunto degli obblighi e li hanno assunti verso i rifugiati dal momento che non ce ne sono tra di loro, salvo qualcuno solo strumentale. In corrispondenza, secondo l’art. 2, “ogni rifugiato ha, verso il paese in cui risiede, doveri che includono separatamente l’obbligo di conformarsi alle leggi e ai regolamenti, come pure alle misure prese per il mantenimento dell’ordine pubblico”. I rifugiati, dunque, hanno doveri in corrispondenza dei loro diritti: sono i “terzi” in favore dei quali la Convenzione è stata conclusa. Il trattato è multilaterale: il rifugiato ha, pertanto, gli stessi diritti nei confronti di ciascuno Stato aderente, fondamentale quello di “asilo”, il diritto di essere accolto (v. art. 10 Cost.). Poiché non è previsto che siano gli Stati a stabilire quale tra di loro sia tenuto all’accoglienza, la scelta non può essere che del rifugiato. Sembra questa la sola interpretazione ragionevole. Se il rifugiato ha un diritto nei confronti di ciascuno degli Stati sottoscrittori e l’individuazione dello Stato obbligato non può essere degli Stati stessi per la mancanza nella Convenzione della fissazione dei criteri e del procedimento, la scelta non può essere che dell’altra parte del rapporto. Con il diritto di scelta lasciato al singolo si spiega perché quei criteri non siano fissati e perché ai rifugiati siano attribuiti anche diritti strumentali, come quello di attraversare i territori degli Stati intermedi. Per l’atmosfera internazionale del 1951 con la Convenzione ci si è preoccupati di tutelare chi si trovava in pericolo; le dimensioni dei movimenti del tempo non hanno fatto sentire la necessità di porre dei limiti al dovere di accoglienza da parte dei singoli Stati. 5.- Secondo l’art. 31.1 della Convenzione “Gli Stati Contraenti non prenderanno sanzioni penali, a motivo della loro entrata o del loro soggiorno il- 54 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 legali, contro i rifugiati che giungono direttamente da un territorio in cui la loro vita o la loro libertà erano minacciate nel senso dell'articolo 1, per quanti si presentino senza indugio alle autorità e giustifichino con motivi validi la loro entrata o il loro soggiorno irregolari”. “Direttamente”, secondo un’opinione che si è andata rafforzando mano a mano che i numeri sono aumentati, significherebbe che il vincolo si crea con il primo Stato con il quale il rifugiato si imbatte. Tempo a dietro, quando i rifugiati erano pochi, la questione non ha richiamato l’attenzione perché lasciare la scelta dello Stato di destinazione ai diretti interessati non creava allarme. Oggi la questione è diventata rilevante e richiede di verificare se “direttamente” non possa anche significare che sia lo Stato che il rifugiato ha scelto, dove arriva dopo essere passato attraverso Stati diversi nei quali non intende fermarsi. Sarebbe, pertanto, compito di quello Stato provvedere senza poter prendere provvedimenti per la illegalità dell’ingresso e senza possibilità di respingerlo se si sottopone al controllo (art. 33). Sono evidenti gli interessi che ispirano le due interpretazioni. “Direttamente” in effetti può avere due significati: può riferirsi alla contiguità territoriale e indicare il primo Stato nel quale non si corre più pericolo, ma può indicare anche lo Stato in cui si arriva, per scelta, alla fine dell’intero trasferimento. Vale la pena di ripeterlo: nella interpretazione si dovrebbe tenere conto della situazione del 1951 quando le possibilità di movimento erano diverse e quando le emigrazioni non erano prevedibili con le dimensioni attuali. Non è senza significato che la Convenzione non preveda nemmeno una domanda formale né i requisiti che dovrebbe avere, ma sia stata considerata sufficiente la presenza fisica e la prova, nemmeno rigorosa, di trovarsi nelle condizioni previste. Se si parte dalla premessa che il rifugiato ha il diritto di scelta dello Stato da cui essere accolto, diventa quasi obbligata la seconda interpretazione, lasciando gli accertamenti allo Stato di destinazione. Per questo gli Stati di solo transito non possono ostacolarlo. “Gli Stati Contraenti limitano gli spostamenti di tali rifugiati soltanto nella misura necessaria. Tali limitazioni devono essere mantenute solo fintanto che lo statuto di questi rifugiati nel paese che li ospita sia stato regolato o essi siano riusciti a farsi ammettere in un altro paese. Gli Stati Contraenti concedono a tali rifugiati un termine adeguato e tutte le facilitazioni necessarie affinché possano ottenere il permesso d’entrata in un altro paese” (art. 31, secondo comma). Per consentire di arrivare al Paese, che ha scelto, dovrebbero, dunque essere concesse “tutte le facilitazioni necessarie”. Se si fosse inteso come vincolato lo Stato di primo ingresso, si sarebbe detto che il diritto del rifugiato era nei confronti dello Stato confinante con quello dove era sorto il pericolo. Per arrivare a questa conclusione non sembra che l’espressione “direttamente”, da sola, sia sufficiente. 6.- Nel 1990 dodici Stati membri hanno stipulato la Convenzione di Du- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 55 blino “sulla determinazione dello stato competente per l’esame della domanda di asilo presentata in uno degli stati membri delle Comunità Europee”. Si è dato, pertanto, per presupposto che dalla Convenzione di Ginevra quei criteri non fossero desumibili e quindi anche che la competenza non fosse del primo Stato di ingresso. Se poi i criteri fossero comunque desumibili, gli Stati membri, che hanno stipulato la nuova Convenzione, hanno ritenuto di avere il potere di cambiarli. Con la Convenzione di Dublino si é inteso garantire ai rifugiati “un’adeguata protezione come previsto dalla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e del protocollo del New York del 31 gennaio 1967” ed è stato confermato “l’obiettivo comune di uno spazio senza frontiere interne nel cui ambito, in particolare, sarà garantita la libera circolazione delle persone conformemente alle disposizioni del trattato che istituisce la Comunità economica europea, modificato dall’atto unico”. Ai rifugiati, dunque, si garantiva la libera circolazione nel territorio comunitario, naturalmente quello dell’epoca. Nell’art. 1.1.b la domanda di asilo era definita come “domanda con cui uno straniero chiede ad uno Stato membro la protezione della convenzione di Ginevra”: “ad uno Stato membro,” senza indicare i criteri per individuarlo. Nell’art. 3.1 gli Stati “si impegnano” perché sia esaminata la domanda di asilo “presentata alla frontiera o nel rispettivo territorio”. Avere ricevuto la domanda non comportava automaticamente il dovere di esaminarla se lo Stato va individuato “secondo i criteri previsti dalla presente convenzione”, vale a dire i criteri di cui agli articoli da 4 a 8 da applicarsi secondo l’ordine in cui sono presentati. Anche per l’art. 3.7 lo Stato che riceve la domanda non è tenuto all’esame se è prevista una disciplina apposita “al fine di concludere il procedimento di determinazione dello Stato competente”. Possono essere lasciati da parte gli artt. 4 e 5 per la specialità dei casi regolati (richiedente asilo un cui familiari è già stato riconosciuto come rifugiato; richiedente che ha un valido titolo di soggiorno). Nel caso dell’art. 7.1 la domanda di asilo dello “straniero” è indirizzata ad uno Stato. Anche se il caso è particolare, quello che interessa in termini generali è che la domanda di asilo porta l’indicazione dello Stato al quale è rivolta; non è, quindi, una domanda generica. Il caso è del richiedente che ha varcato irregolarmente la frontiera di uno Stato membro, provenendo da uno Stato non membro, caso per il quale è prevista la competenza dello Stato membro di arrivo. Nelle condizioni attuali ci si dovrebbe domandare se la frontiera sia varcata irregolarmente quando l’ingresso nelle acque territoriali avviene su navi nazionali che hanno prestato assistenza in acque internazionali. Può essere lasciata da parte l’altra disposizione dell’art. 7 che riguarda chi è dispensato dal visto. La disciplina generale è quella dell’art. 8: quando lo Stato competente non può essere designato secondo gli altri criteri previsti nella convenzione, 56 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 l’esame della domanda di asilo è di competenza del primo Stato membro al quale è stata presentata. Nella applicazione di questa norma si è dato per scontato quello che forse avrebbe richiesto qualche verifica. La domanda di asilo, come si è visto, secondo l’art. 1.1.b è rivolta allo Stato di cui si chiede la protezione. Se si concorda sul diritto di scelta da parte dell’interessato, la domanda dovrebbe essere rivolta a questo Stato e non a quello nel quale si arriva. Gli arrivi in Italia sono sempre avventurosi, non per scelta, ma per la geografia. Un arrivo del genere può essere considerato equivalente alla presentazione della domanda? Se con la domanda si chiede l’asilo ad uno Stato e se l’interessato ha diritto di scelta, la richiesta dovrebbe essere espressa, rivolta allo Stato scelto. Il semplice arrivo, senza nemmeno una generica richiesta verbale, non dovrebbe essere inteso come domanda di asilo. Interpretando l’art. 8 nel senso che è allo Stato prescelto che la domanda va considerata proposta, per la Convenzione di Dublino sarebbero eliminati i dubbi di contrasto con quella di Ginevra. L’interpretazione si coordinerebbe anche con l’art. 3.4 per il quale alla presentazione materiale della domanda non si accompagna necessariamente la competenza ad esaminarla. Che questa ipotesi non sia stata presa in considerazione è dovuto probabilmente al fatto che non ci si è mai domandato se l’interessato abbia il diritto di scegliere lo Stato di asilo. 7.- Si sarebbe dovuto affrontare anche un’altra questione. Alla Convenzione di Ginevra hanno aderito, insieme a tutti gli Stati membri dell’Unione, molti altri Stati e ogni Stato membro ha aderito in autonomia perché all’epoca non era stata costituita nemmeno la CECA. La Convenzione di Dublino è stata conclusa solo da Stati membri dell’Unione. C’era da domandarsi se la Convenzione di Vienna del 1969, sul diritto dei trattati, consentisse che una normativa internazionale, che vincolava anche molti altri Stati, potesse essere modificata solo da alcuni di essi. Sulla applicabilità della Convenzione di Vienna non possono esserci dubbi dal momento che entrambe le Convenzioni sono tra Stati (art. 1 della Convenzione). Secondo l’art. 30.4, quando le parti di un trattato anteriore non sono tutte parti di quello posteriore, secondo la lett. b) si applica il trattato di cui entrambe sono parti, vale a dire il trattato anteriore. Nel caso che si sta esaminando la Convenzione di Dublino sarebbe applicabile solo nei rapporti tra gli Stati membri dell’Unione, mentre nei rapporti tra ciascuno Stato membro e gli altri Stati (non membri) continua ad essere applicata la Convenzione di Ginevra senza modifiche. La situazione normativa viene a risultare quanto meno strana. Ai rifugiati, che provengono da Stati non membri, che hanno sottoscritto la Convenzione di Ginevra, la Convenzione di Dublino sarebbe inapplicabile. La Convenzione di Vienna a proposito dei trattati in favore di Stati terzi impedisce che il diritto creato in loro favore possa essere modificato o revocato CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 57 dalle parti se risulta che era destinato a non essere revocabile o modificabile senza il consenso dello Stato terzo (art. 37.2). I terzi, favoriti dalla Convenzione di Ginevra, sono persone fisiche; si sarebbe dovuto verificare se dalle norme richiamate potesse essere desunto che lo stesso principio fosse applicabile anche ad esse. 8.- Il diritto non è, naturalmente, senza limiti. Chi rivendica un beneficio, secondo un principio di ragione prima che giuridico, deve dare la prova di trovarsi nelle condizioni richieste. Per le emergenze, nelle quali si è trovato, spesso chi arriva non ha documenti di identità, mancanza che può riuscire utile anche a chi non si trova nella condizioni di rifugiato, approfittando così della impossibilità di subire provvedimenti repressivi anche se l’entrata nel territorio statale fosse illegale. Che “giustifichino con motivi validi la loro entrata” non può significare che bastino le dichiarazioni degli interessati perché le tutele siano dovute. La formula, per quanto elastica, non può consentire di accettare passivamente quello che dichiara l’interessato. È accertato che c’è anche chi arriva con documenti falsi dei quali si è creato un mercato. Tutti questi fattori rendono difficili gli accertamenti e, in ogni caso, li ritardano. Nel valutare i ritardi non si dovrebbe trascurare che sono provocati, anche se incolpevolmente, dagli stessi interessati, che talvolta li contestano, arrivando in numeri non prevedibili e in aumento costante. Per essere tempestivi, come si pretende, dovrebbe essere sempre pronta una organizzazione adeguata anche in periodi senza arrivi. Alcuni Paesi dell’Unione, che lo avevano contestato all’Italia, hanno preso provvedimenti di legittimità comunitaria molto dubbia quando, rimasti coinvolti direttamente, hanno verificato che nelle condizioni attuali i ritardi non sono, in fondo, il guaio maggiore. 9.- Anche se la fuga dai Paesi di origine è provocata da cause ambientali che non possono che essere subite, va tenuto presente che quando e dove dirigersi è una scelta degli interessati e che il Paese di destinazione si trova caricato di obblighi il cui peso può essere definito solo a consuntivo. Il diritto comunitario non ne ha tenuto conto. Oltre alla necessità di principio dell’accordo di ventotto Stati, il ritardo con il quale si è cominciato a prendere sul serio il fenomeno è dipeso anche dal fatto che le difficoltà iniziali sono state soprattutto dell’Italia dalle quali gli altri Paesi si sono dichiarati fuori. All’Italia, in pratica, è stata attribuita una responsabilità a base geografica, fondata sul fatto di essere la più vicina ai punti di partenza di chi cerca rifugio, segno della mancanza non solo di spirito comunitario ma, prima ancora, di ragionevolezza. Qualunque fosse il Paese dove si volesse andare, sempre dall’Italia si è entrati in quanto confine europeo più vicino. Interessati a guardare solo ai propri interessi del momento, ci si è adattati ad una vista corta. Per quanto caricata, ogni imbarcazione in partenza dalla Libia o dalla Tunisia non può portare che poche centinaia di persone e con un certo scaglio- 58 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 namento temporale. Per chi avesse voluto guardare alla situazione con lungimiranza, non sarebbe stato difficile prevedere che, quando si fossero mosse contemporaneamente molte migliaia di persone, la via poteva diventare quella orientale che, tra l’altro, passa per Paesi con difficoltà di controllo dei propri confini: la carta geografica sarebbe stata sufficiente. 10.- Non inquadrandolo nelle dimensioni reali, come trasmigrazione, si è creato un ostacolo ulteriore al controllo del fenomeno. Non è stato nemmeno considerato utile distinguere i flussi. Quelli orientali trovano verso la Grecia la via più praticabile; gli africani si dirigono prevalentemente verso il Mediterraneo. Per alcuni, quelli dai Paesi dove il pericolo dipende da scontri armati, possono essere previsti ritorni, anche se a scadenze incerte; i ritorni vanno esclusi, o comunque vanno messi in forte dubbio, verso quei Paesi dove sono le strutture politiche a provocare il pericolo. Dal modo in cui viene affrontato si desume che il fenomeno ha in gran parte carattere strutturale, nel senso che non è destinato a risolversi in tempi prevedibili. Per questo si ritiene che alcuni dei flussi siano destinati non solo a durare, ma anche ad aggravarsi. È stata prospettata l’eventualità che dall’Africa si possano muovere, e non a scaglioni, milioni di persone. Di fronte a questa prospettiva non è stata ritenuta necessaria una programmazione di portata corrispondente. Alcuni interventi comunitari sono orientati in senso opposto e talvolta l’incongruità sembra dovuta non ad un difetto di analisi ma agli interessi del momento, anche a costo di trovarsi poi in difficoltà maggiori. La Direttiva 2001/55/CE ha previsto “protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati provenienti da Paesi non appartenenti all’Unione Europea”. Avere qualificato la protezione come temporanea sta ad indicare che si è trascurata la durata delle esigenze alle quali si stava provvedendo. Le misure già in partenza non potevano essere che insufficienti. Con la durata di un anno, prorogabile a due, secondo l’art. 24 “le misure previste dalla presente direttiva beneficiano del Fondo europeo per i rifugiati istituiti con decisione 2000/296/CE, nei termini determinati da quest’ultima”. Il Fondo “sostiene” le azioni degli Stati e “può finanziare” misure urgenti “in caso di afflusso improvviso e massiccio di rifugiati o sfollati” (art. 4). “Gli stanziamenti annuali sono autorizzati nei limiti delle prospettive finanziarie dell’autorità di bilancio, che assegna gli stanziamenti annuali” (art. 2). Per gli Stati non c’è, pertanto, nessuna garanzia né del finanziamento (il Fondo può finanziare; quindi non è tenuto) né della sua misura minima, ad esempio, in percentuale sulle spese sostenute. Non è previsto l’intervento diretto dell’Unione che, quando ha disposto un finanziamento apposito, lo ha fatto in via straordinaria e non perché obbligata. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 59 Una volta approvato, lo stanziamento è destinato a rimanere fisso anche se l’afflusso è fuori del normale e continuo. Per fare fronte ad esigenze di entità imprevedibile sono state, dunque, destinate risorse determinate preventivamente e con criteri astratti, non secondo le necessità effettive. Che si debba provvedere con decisione del Consiglio, su proposta della Commissione (art. 5), sta ad indicare che la sua consistenza è stata considerata prevedibile, diversa dalla trasmigrazione. “[G]li Stati membri accolgono con spirito di solidarietà comunitaria le persone ammissibili alla protezione temporanea” (art. 25) e, “finché dura la protezione temporanea, gli Stati membri cooperano tra loro per il trasferimento della residenza delle persone che godono della protezione temporanea da uno Stato membro all’altro” (art. 26), nei limiti della loro “capacità di accoglienza in termini numerici e generali” che dovrebbero avere già indicato (art. 25). In caso di arrivo di diverse migliaia di persone in pochi giorni, per sapere se l’afflusso può essere considerato massiccio, quindi ricadente nella Direttiva, si deve aspettare che la Commissione faccia la proposta e che il Consiglio decida. Per trasferire quelli che hanno diritto alla protezione temporanea, si deve poi fare affidamento sullo “spirito di solidarietà comunitaria”. Nel frattempo ai sopravvissuti vanno assicurati: un alloggio adeguato e, se necessario, anche i mezzi per ottenere un’abitazione; per chi non dispone di risorse sufficienti (in pratica tutti) i contributi di sostentamento e le cure mediche “in termini di assistenza sociale”; una assistenza medica appropriata per chi, come i minori non accompagnati, presentino esigenze particolari (art. 13); per chi non ha 18 anni l’accesso al sistema educativo alla pari dei cittadini dello Stato membro (art. 14). Non si può dire che sia un esempio di coerenza. Per fare fronte ad un fenomeno spontaneo, che comporta impegni di entità non prevedibile e da assolvere subito, sono stati predisposti procedimenti formalizzati che richiedono tempo. Dopo aver premesso che la decisione del Consiglio “determina … l’applicazione in tutti gli Stati membri della protezione temporanea” (art. 5.3), per la distribuzione degli assistiti è stata richiesta la cooperazione tra Stati, dunque il loro consenso, senza creare obblighi. Se l’afflusso, oltre che massiccio, è improvviso e supera la capacità di accoglienza che gli Stati debbono comunicare (naturalmente dopo che la Direttiva è diventata applicabile a seguito della decisione del Consiglio) il Consiglio “esamina d’urgenza la situazione e prende i provvedimenti appropriati, compresa la raccomandazione di un ulteriore sostegno allo Stato membro interessato” (art. 25): solo, dunque, una raccomandazione e, per provvedere ai rifugiati rimasti in carico, un sostegno finanziario, fissato con criteri che non tengono conto delle esigenze effettive. Non ci si dovrebbe meravigliare per quello che sta succedendo. Se per trasferire una parte delle persone arrivate ci vuole il consenso degli altri Paesi, quelli che non sono d’accordo si sentono autorizzati a bloccare i confini. 60 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 11.- Se, per fare fronte al fenomeno diventato “massiccio”, si è ritenuta necessaria nel 2001 una Direttiva apposita, si è dato per presupposto che, in quelle dimensioni, in quelle dimensioni fino ad allora non era stato regolato. Con le norme comunitarie la Convenzione di Ginevra sarebbe stata interpretata nel senso che avrebbe disciplinato solo le immigrazioni nelle loro dimensioni normali. Ancora una volta non si è verificato se con un atto comunitario fosse possibile interpretare in forma vincolante un trattato internazionale sottoscritto anche da Stati estranei all’Unione Europea. Le norme sono state poi aggiornate col Regolamento 343/2003/CE e col Regolamento n. 604/2013, con effetti dal gennaio 2014. Per la individuazione dello Stato competente all’esame della domanda di protezione internazionale è stata introdotta una disciplina piuttosto complessa che certamente non renderà la materia meno conflittuale. Come è stato già accennato, non ci si è domandato se i diritti, attribuiti dalla Convenzione di Ginevra ai rifugiati nei confronti dei singoli Stati contraenti (sempre che questa sia l’interpretazione corretta), potessero essere ridotti o, comunque, strutturati diversamente da una norma comunitaria. Detto diversamente: un atto, fondato sul diritto dell’Unione, può modificare gli obblighi assunti con la Convenzione di Ginevra dagli Stati membri singolarmente, quando non era ancora sorta la Comunità Europea? Stando ai principi, è da dimostrare che un Regolamento comunitario possa incidere su rapporti disciplinati da un Trattato che fa sorgere diritti per non cittadini dell’Unione in favore dei quali è stato concluso. Questi potrebbero disconoscerne l’efficacia nei loro confronti. Che poi siano in condizioni di farlo, e in quale sede, è un’altra questione. La posizione sarebbe coerente se nella Convenzione di Ginevra si dovesse vedere solo la disciplina dell’immigrazione come vicenda individuale, anche se plurima, ma non della trasmigrazione, a quel tempo nemmeno prevedibile. La mancanza di tutela, di chi oggi si trova nella condizione di rifugiato, dipenderebbe dal fatto che, muovendosi in tanti tutti insieme, hanno provocato una trasformazione del fenomeno che l’ha portato al di fuori dalla sfera normativa della Convezione di Ginevra e della Convenzione di Dublino che l’ha integrata. Su questa interpretazione sarebbe necessario l’accordo di tutti gli Stati sottoscrittori ed eventualmente la conferma da parte di una giurisdizione internazionale, condizioni per il momento non verificate. Con le loro prese di posizione l’Unione e i singoli Stati membri dimostrano di non avere dubbi che gli obblighi, assunti verso i rifugiati, possano essere ridimensionati dalla normativa comunitaria. In pratica l’asilo non sarebbe un loro obbligo, ma una concessione ai rifugiati, quindi assoggettabile alla normativa comunitaria alla quale gli interessati si dovrebbero attenere. La questione non si proporrebbe anche se la Convenzione di Ginevra non fosse considerata in favore di terzi. La sua efficacia verrebbe tanto ridotta da CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 61 metterne in dubbio l’utilità dal momento che, in mancanza di rapporti rilevanti tra i singoli Stati sottoscrittori, disciplinerebbe in pratica soltanto i procedimenti di riconoscimento dello stato di rifugiati per i quali nascerebbero non diritti, ma solo doveri, previsti espressamente. 12.- Tra le norme pattizie, stipulate nei primi anni ’50, quando le immigrazione, anche per i mezzi a disposizione, potevano essere solo lente e non massicce, e le norme intervenute a distanza di oltre cinquanta anni andrebbe ricercato un coordinamento ragionevole senza dare niente per scontato. Per i Paesi membri sembra che non ci sia niente da coordinare una volta che si attengono alle norme comunitarie, superando i vincoli internazionali precedenti. Su questa interpretazione, come si è rilevato, dovrebbero concordare anche gli Stati che non fanno parte dell’Unione Europea. Prima di allora andrebbero evitate iniziative autonome, in parte incompatibili, che stanno aggravando le difficoltà. Dati i pericoli che costringono a scappare dai propri Paesi di appartenenza, almeno a breve non sono prevedibili soluzioni. Anche tenendo conto del solo tempo di durata del viaggio per diversi anni la situazione non si alleggerirà. I contrasti in corso, gli oneri ai quali alcuni Stati vanno incontro solo per la loro posizione geografica, la previsione che il fenomeno durerà nel tempo, probabilmente aggravandosi, dovrebbe richiedere un chiarimento della situazione complessiva, almeno dal punto di vista normativo. Si è adoperato il condizionale perché non ci sono elementi che possano farlo prevedere. Solo dopo avere verificato se i rifugiati abbiano qualche diritto in base alla Convenzione di Ginevra, quale ne sia la portata, come sulla disciplina internazionale possa incidere la normativa comunitaria, potranno essere prese in considerazione le ragioni umanitarie. Invertendo i tempi si va incontro al rischio che le ragioni umanitarie, di per sé piuttosto elastiche, possano servire a schermare doveri che già derivano da vincoli internazionali assunti insieme a molti Stati che non fanno parte dell’Unione Europea. Ogni Stato membro si sta dimostrando interessato solo ad evitare oneri, speculando sulla posizione geografica sfavorevole della Grecia e dell’Italia. Per avere un minimo di coerenza, dovrebbero almeno proporre iniziative rivolte a far venire meno l’interesse a trasmigrare, iniziative che, anche quando sono proposte, lo sono solo a parole. Più che a cercare di risolvere il problema, la maggiore parte degli Stati membri si dimostra interessata a lasciarlo a carico di altri. 62 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 L’atto amministrativo contrario al diritto dell’Unione europea nell’alto mare aperto: un intervento legislativo per conciliare supremazia del diritto europeo e i principi di certezza e affidamento Luca Dell’Osta* SOMMARIO: 1. Introduzione - 2. La tesi della disapplicazione - 3. La tesi dell’interpretazione conforme - 4. La tesi dell’autotutela (doverosa) - 5. La tesi della nullità - 6. Conclusioni: il necessario intervento del legislatore. 1. Introduzione. La posizione della giurisprudenza italiana in tema di atti amministrativi adottati in violazione del diritto comunitario è ormai pacificamente orientata nel senso di inquadrare tale vizio nell’ambito dell’art. 21-octies della l. 241/1990 e facendo evidentemente riferimento, in relazione a quest’ultimo, alla violazione di legge (1). Il ragionamento del giudice amministrativo è lineare e rigoroso: le ipotesi di nullità sono tassativamente previste dall’art. 21-septies della l. 241/1990 (2); tale disposizione non fa alcun riferimento al diritto comunitario, e nell’ordinamento non è nemmeno rinvenibile una ulteriore norma, potenzialmente applicabile in virtù del richiamo agli «altri casi previsti dalla legge» quale ipotesi residuale di nullità prevista dall’art. 21-septies, che sanzioni proprio con la nullità l’atto amministrativo anticomunitario. Ne consegue, necessariamente e logicamente, che quest’ultimo è senz’altro sottoposto alla disciplina dell’annullabilità, con tutto ciò che ne consegue in tema di impugnazione e di regime processuale. Quello a cui il giudice amministrativo è giunto pare essere, nell’ambito della legislazione vigente, un porto assai sicuro, formalmente rispettoso delle disposizioni sostanziali e procedurali (e conseguentemente processuali) dell’ordinamento nazionale. Tuttavia, in dottrina, v’è chi ha criticato tale approdo (3), e le critiche appaiono tanto più fondate in quanto si considerino le numerose soluzioni al problema che, nel corso degli anni, sono state proposte dalla (*) Dottore in Giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato di Bologna. (1) Si vedano, inter alia e più recentemente, T.A.R. Umbria, sez. I, sent. n. 449/2015 (per il quale «la violazione di una disposizione comunitaria da parte di un atto amministrativo dà luogo ad un vizio di illegittimità-annullabilità, con conseguente onere di impugnazione del provvedimento contrastante con il diritto comunitario nel termine decadenziale previsto dall’art. 29 del cod. proc. amm.»); T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, sez. II, sent. n. 1295/2014; T.A.R. Abruzzo, Pescara, sez. I, sent. n. 447/2014. (2) In questo senso si vedano Cons. Stato, sez. VI, sent. n. 882/2016 (seppure come obiter dictum); Cons. Stato, sez. VI, sent. n. 4167/2013; Cons. Stato, sez. VI, sent. n. 1123/2013; Cons. Stato, sez. V, sent. n. 1498/2010. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 63 stessa dottrina e dalla giurisprudenza, nazionale e comunitaria; e solo di fronte a una sommaria analisi è lecito non rendersi conto che «il problema sollevato dall’atto amministrativo antieuropeo non è che la punta emersa di una questione ben più ampia e spinosa, che consiste nel rendere compatibile l’“effetto utile” del diritto europeo con il principio della autonomia processuale degli stati» (4). Da una parte, infatti, ci sono il primato del diritto europeo e l’effetto utile, principi fortemente compressi dalla sottoposizione dell’atto amministrativo viziato da contrarietà al diritto europeo alla disciplina dell’annullabilità (con il brevissimo termine di sessanta giorni per l’impugnazione dell’atto); dall’altra vi sono invece gli altrettanto fondamentali principi della certezza del diritto, dell’affidamento e, conseguentemente, della cristallizzazione degli atti amministrativi non impugnati nei termini. Delle soluzioni proposte da dottrina e giurisprudenza per risolvere tale dicotomia si renderà quindi conto nei successivi paragrafi. Infine, nel tentativo di superare le posizioni finora espresse e non del tutto convincenti, si proverà a tratteggiare una possibile soluzione interpretativa del problema di cui qui si tratta. È comunque opportuno anticipare che, allo stato, non è prospettabile un riordino degli opposti principi che sono stati citati: la prevalenza dell’uno comporta necessariamente lo sgretolamento dell’altro, e pertanto le soluzioni che possono essere proposte, lungi dal ricomporre l’evidenziata antinomia, possono solo limitarsi a renderla meno stridente per l’ordinamento nel suo complesso. 2. La tesi della disapplicazione. Com’è noto, la Corte di Giustizia, con la sentenza Ciola (5), ha esteso il principio di disapplicazione della norma interna contrastante con il diritto comunitario (elaborato precedentemente nella sentenza Simmenthal (6), e or- (3) Da ultimo E. CHITI, Il regime dell’atto amministrativo contrario al diritto dell’Unione, in Giornale di diritto amministrativo, n. 4/2015, p. 553 e ss.; l’autore, commentando la citata sentenza n. 1295/2014 del T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, sez. II, sostiene che lo schema consolidato che riconduce la contrarietà al diritto europeo di un atto amministrativo al vizio di violazione di legge ex art. 21- octies della l. 241/1990 presenta l’inconveniente di «limitare lo spazio argomentativo del giudice, giustificandone la pigrizia». (4) G. GARDINI, Rinvio pregiudiziale. Disapplicazione, interpretazione conforme: i deboli anticorpi europei e la “forza sovrana” dell’atto amministrativo inoppugnabile, in Diritto amministrativo, n. 1-2/2014, p. 223. (5) Corte giust., 29 aprile 1999, causa C-224/97, Ciola, con testo integrale in italiano disponibile in www.curia.europa.eu. (6) Corte giust., 9 marzo 1978, causa C-106/77, Simmenthal, con testo integrale in italiano disponibile in www.curia.europa.eu.; il principio è noto: «il giudice nazionale, incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni di diritto comunitario, ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale» (così il dispositivo della sentenza). 64 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 mai dato incontroverso del sistema di diritto integrato fra ordinamento nazionale ed europeo) anche agli atti amministrativi adottati in violazione del diritto comunitario. L’evidente vantaggio di tale impostazione è quello di garantire l’effetto utile del diritto dell’Unione e la sua primauté (7): il giudice, quando si trovi di fronte a un atto amministrativo che viola una disposizione di diritto europeo, è tenuto a disapplicalo, con le stesse modalità e negli stessi termini in cui il giudice ordinario disapplica la normativa nazionale in contrasto con il diritto dell’Unione. Tale impostazione è stata accolta, in dottrina, da M. Chiti (8), ma ha ricevuto numerose e fondate critiche, non solo implicitamente dalla giurisprudenza nazionale (che si è limitata a non seguirla, fatte salve alcune rare eccezioni (9)), ma anche dalla dottrina. In particolare, è stato evidenziato: - che, di per sé, la disapplicazione dell’atto amministrativo muove dalla presupposta, ma errata, equiparazione tra atto amministrativo nazionale e normativa nazionale; - che la disapplicazione, operando senza limiti temporali, finisce quindi per produrre «gli stessi effetti di un annullamento o di una dichiarazione di inefficacia» (10), mettendo in discussione l’autonomia processuale e procedimentale da sempre riconosciuta all’ordinamento nazionale con l’elusione, in pratica, della «perentorietà dei termini per l’impugnazione degli atti amministrativi illegittimi» (11), giungendo a un risultato che si può definire «abnorme » (12). A tali criticità la giurisprudenza comunitaria ha provato a rispondere temperando il netto principio dettato nella sentenza Ciola individuando altre soluzioni operative, prima (causa Santex (13)) stabilendo che il giudice nazionale (7) Sulla differenza tra i due principi, e in particolare sull’errata idea che il principio dell’effetto utile possa essere declinato solamente in termini di supremazia del diritto europeo sui diritti nazionali, si veda S. STICCHI DAMIANI, Violazione del diritto comunitario e processo amministrativo, Torino, Giappichelli, 2012, p. 5 e ss. (8) In M. CHITI, Diritto amministrativo europeo, Milano, Giuffrè, 2004, p. 469 e ss. (9) Cons. Stato, sez. VI, sent. n. 5826/2005. Va comunque specificato che il giudice amministrativo, con la richiamata decisione, ha annullato un atto avente natura regolamentare, «in coerenza al consolidato insegnamento giurisprudenziale comunitario e nazionale, per il quale il contrasto tra la normativa nazionale o regionale ed il diritto comunitario si risolve con la disapplicazione della disciplina interna e la conseguente invalidità degli atti applicativi», e non già un provvedimento amministrativo puntuale. (10) E.M. BARBIERI, Ancora sulla disapplicazione di provvedimenti amministrativi contrastanti con il diritto comunitario, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2000, p. 152. (11) G. GRÜNER, L’annullamento di ufficio in bilico tra i principi di preminenza e di effettività del diritto comunitario, da un lato, ed i principi della certezza del diritto e dell’autonomia procedurale degli Stati membri, dall’altro, in Diritto processuale amministrativo, n. 1-2007, p. 257. (12) N. PIGNATELLI, L’illegittimità «comunitaria» dell’atto amministrativo, in Giurisprudenza costituzionale, fasc. 4-2008, p. 3653. (13) Corte giust., 27 febbraio 2003, causa C-327/00, Santex, con testo integrale in italiano disponibile in www.curia.europa.eu. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 65 deve «dichiarare ricevibili i motivi di diritto [di un ricorso] basati sull’incompatibilità del bando di gara con il diritto comunitario […], ricorrendo, se del caso, alla possibilità prevista dal diritto nazionale di disapplicare le norme nazionali di decadenza in forza delle quali, decorso il termine per impugnare il bando di gara, non è più possibile invocare una tale incompatibilità» (14), e poi giungendo a stabilire che solo in presenza di quattro condizioni l’organo amministrativo nazionale è tenuto a riesaminare un atto amministrativo, non più impugnabile, e contrario al diritto dell’Unione (15), chiarendo che «il carattere definitivo di una decisione amministrativa, acquisito alla scadenza di termini ragionevoli di ricorso o in seguito all’esaurimento dei mezzi di tutela giurisdizionale, contribuisce a[lla] certezza [del diritto] e da ciò deriva che il diritto comunitario non esige che un organo amministrativo sia, in linea di principio, obbligato a riesaminare una decisione amministrativa che ha acquisito tale carattere definitivo» (par. 24). Infine la Corte, con la sentenza Kapferer (16) (che pur fa riferimento all’intangibilità del giudicato e non alla cristallizzazione di un atto amministrativo) ha stabilito che «il principio di cooperazione derivante dall’art. 10 CE non impone ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne allo scopo di riesaminare ed annullare una decisione giurisdizionale passata in giudicato qualora risulti che questa viola il diritto comunitario» (par. 24) (17). Nel complesso è possibile rilevare che in un primo momento la Corte di Giustizia ha inteso affermare, in ogni caso, il primato del diritto europeo (im- (14) Par. 66; è chiaro che la decisione della Corte si inserisce nel solco tracciato dalla sentenza Simmenthal, ma è anche innegabile che la disapplicazione, nel caso concreto, delle norme di decadenza, e la conseguente ammissibilità di un ricorso che altrimenti sarebbe stato tardivo e quindi inammissibile, può condurre all’annullamento di un provvedimento amministrativo che, di per sé viziato, sarebbe dovuto essere cristallizzato. Anche in tale circostanza è evidente il conflitto tra il principio di effetto utile e la supremazia del diritto dell’Unione da una parte, e le esigenze di certezza del diritto e di affidamento dei terzi dall’altra. (15) È quanto previsto dalla sentenza della Corte di giustizia del 13 gennaio 2004, causa C-453/00, Kühne & Heitz NV, con testo integrale in italiano disponibile in www.curia.europa.eu, per la quale «il principio di cooperazione derivante dall’art. 10 CE impone ad un organo amministrativo, investito di una richiesta in tal senso, di riesaminare una decisione amministrativa definitiva per tener conto dell’interpretazione della disposizione pertinente nel frattempo accolta dalla Corte qualora: disponga secondo il diritto nazionale, del potere di ritornare su tale decisione; la decisione in questione sia divenuta definitiva in seguito ad una sentenza di un giudice nazionale che statuisce in ultima istanza; tale sentenza, alla luce di una giurisprudenza della Corte successiva alla medesima, risulti fondata su un’interpretazione errata del diritto comunitario adottata senza che la Corte fosse adita in via pregiudiziale alle condizioni previste all’art. 234, n. 3, CE, e l’interessato si sia rivolto all’organo amministrativo immediatamente dopo essere stato informato della detta giurisprudenza» (par. 28). (16) Corte giust., 16 marzo 2006, causa C-234/04, Kapferer, con testo integrale in italiano disponibile in www.curia.europa.eu. (17) La citata giurisprudenza della Corte fa riferimento, come appare evidente, a soluzioni alternative rispetto alla disapplicazione diretta, da parte del giudice, dell’atto amministrativo anticomunitario, ossia alla disapplicazione delle norme processuali e procedurali (Santex) e all’autotutela (Kühne & Heitz NV, per cui si veda anche infra, par. 4). 66 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 ponendo ai giudici nazionali la disapplicazione degli atti amministrativi anticomunitari), per poi stemperare la sua posizione e far prevalere, in un giudizio di bilanciamento, le esigenze di certezza del diritto e di affidamento dei terzi (prima subordinando la disapplicazione dell’atto amministrativo al concorrere di determinate circostanze, e poi, timidamente, dichiarando che la certezza del diritto prevale sull’opportunità di eliminare dall’ordinamento atti o pronunce contrarie al diritto europeo). Come è stato acutamente osservato, l’oscillare della giurisprudenza della Corte di giustizia può essere giustificato rilevando che, inizialmente, la netta affermazione del principio di supremazia si è rivelata utile «per garantire la primauté del nuovo ordinamento sovranazionale[;] oggi, che si è in una fase di compiuta realizzazione di tale ordinamento, insistere sulla centralità del principio di supremazia per definire il rapporto tra l’ordinamento europeo e quello nazionale appare un’opzione non più necessaria» (18). Tale assunto, però, è condivisibile solo in un’ottica storica; non può essere invece condiviso in senso sostanziale, perché solo apparentemente la violazione del diritto nazionale equivale alla violazione del diritto europeo: la cristallizzazione e quindi la permanenza nel sistema giuridico di un atto amministrativo adottato in violazione delle norme nazionali, dal punto di vista sostanziale, è meno grave della permanenza nel sistema giuridico di un atto amministrativo adottato in violazione delle norme comunitarie, proprio in virtù della supremazia di queste ultime rispetto alle norme dell’ordinamento interno; e se tale circostanza non incide nell’ottica delle posizioni giuridiche tutelate dall’ordinamento (in altre parole: il cittadino è ugualmente leso sia dall’atto amministrativo contrario al diritto nazionale sia dall’atto amministrativo contrario al diritto europeo), non sfugge che l’ordinamento nazionale, nel suo complesso, riconosce la prevalenza dello stesso diritto europeo (19) e quindi non è irragionevole prevedere un differente sistema di tutela (20); e se il principio di prevalenza del diritto dell’unione non può essere inverato con una disapplicazione (in ogni tempo e in ogni circostanza) dell’atto anticomunitario, perché verrebbero meno i principi di affidamento e di certezza del diritto, è allora necessario trovare una soluzione terza rispetto alla disapplicazione o alla riconducibilità della violazione di norme comunitarie all’art. 21-octies della l. 241/1990. (18) S. STICCHI DAMIANI, op.cit., p. 6. (19) Tanto da chiarirlo esplicitamente nel novellato primo comma dell’art. 117 Cost., che pure fa riferimento solamente all’esercizio della «potestà legislativa» da parte dello Stato e delle Regioni. (20) G. MONTEDORO, in Il giudizio amministrativo fra annullamento e disapplicazione (ovvero dell’«insostenibile leggerezza» del processo amministrativo), in Rivista italiana di diritto pubblico comparato, 2008, p. 525, sostiene invece che «la violazione del diritto comunitario deve essere equiparata (quanto a disciplina ed effetti) alla violazione della normativa nazionale, a pena di una “dequotazione” di quest’ultima», adducendo a sostegno della propria tesi una pronuncia del Consiglio di Stato (sez. IV, CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 67 3. La tesi dell’interpretazione conforme. Alcuni autori, nel solco della sentenza Santex, hanno proposto, di fronte ad atti amministrativi anticomunitari, di procedere a una interpretazione conforme «come cura preventiva» (21). In sostanza, il giudice nazionale sarebbe chiamato a effettuare un’interpretazione delle regole procedurali e processuali interne in senso compatibile alla normativa (sostanziale) europea, sì da rendere effettivo, in questo modo, il principio di prevalenza del diritto dell’Unione europea. Tale operazione dovrebbe avvenire, mutatis mutandis, con l’applicazione dei noti principi più volte espressi dalla Corte costituzionale italiana per cui «in linea di principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali» (22), e per cui «a fronte di più significati possibili della stessa disposizione, è compito dell’interprete escludere quello che difetti di coerenza rispetto ai dettami della Costituzione» (23). Le criticità di tale soluzione sono tuttavia evidenti: anche nel caso in cui vi siano casi pratici per i quali sia possibile fornire un’interpretazione conforme al diritto europeo di norme processuali e procedimentali che più volte hanno superato, e positivamente, il vaglio della Corte di Giustizia (24), è chiaro che: sent. n. 579/2005). Tuttavia, l’interpretazione dell’autore non può essere condivisa: il Consiglio di Stato, nel rifiutare fermamente la teoria della disapplicazione (che, oltre a essere contraria al Trattato, «minerebbe le esigenze di certezza dei rapporti giuridici, nonché i principi di stabilità, affidamento, continuità dell’azione amministrativa, presunzione di legittimità»), ritiene che «una volta che la norma comunitaria sia entrata a fare parte integrante dell’ordinamento interno, essa gode del medesimo regime di illegittimità- legittimità degli atti o conformi alle altre disposizioni dell’ordinamento nazionale. Se si consentisse al giudice adito (o all’amministrazione) la disapplicazione delle norme nazionali processuali che impongono la impugnazione a pena di decadenza, si creerebbe una discriminazione alla rovescia a danno delle norme nazionali, invece sottoposte a quel regime». A giudizio di chi scrive, e contrariamente a quanto sostenuto dall’autore citato, pare invece che il Consiglio di Stato abbia inteso riferirsi a un’equiparazione tra normativa nazionale ed europea solo nell’ottica di valutare l’opportunità o meno di recepire, nell’ordinamento italiano, la teoria della disapplicazione espressa dalla Corte di Giustizia nella sentenza Ciola. In ogni caso, il Consiglio di Stato non pone sufficiente attenzione al fatto che norme comunitarie e norme nazionali, ancorché facciano parte di un unico complesso, uguali non sono. A dimostrazione di ciò, va registrato il fatto che le norme comunitarie hanno una maggiore forza “sostanziale” (ancorché non “formale”) testimoniata dal fatto che il giudice nazionale, di fronte a una norma interna contrastante con una norma europea, è tenuto a disapplicare la prima, facendo prevalere la seconda. In questo senso anche R. MUSONE, Il regime di invalidità dell’atto amministrativo anticomunitario, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2007, per il quale «la peculiarità del fenomeno giuridico comunitario non consente, infatti, di ricondurre la norma comunitaria e la norma di legge ad un unico omogeneo parametro di legittimità dell’attività amministrativa» (p. 294). (21) L’espressione è di G. GARDINI, op. cit., in Diritto amministrativo, n. 1-2/2014, p. 234. (22) Corte cost., sent. n. 356/1996. (23) Corte cost., sent. n. 65/1999. (24) Il riferimento è al principio di equivalenza, che impone «al processo amministrativo di garantire alle posizioni giuridiche a rilevanza comunitaria una tutela non inferiore a quella assicurata a 68 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 - ogni tipo di interpretazione - la si chiami bilanciamento, armonizzazione, adeguamento - non può spezzare il significato letterale della norma; - inoltre, ammesso che sia possibile superare questo primo scoglio (circostanza della quale si dubita fortemente), il rimedio proposto può, al massimo, risolvere il problema nel caso concreto, ma non ricompone la frattura, di cui si è detto più volte, che sussiste tra le esigenze di certezza del diritto e di affidamento dei terzi, la cristallizzazione di provvedimenti viziati e la prevalenza del diritto comunitario; - se la disapplicazione del provvedimento amministrativo anticomunitario si traduce, nei fatti, in una violazione dei termini per l’impugnazione e quindi in un annullamento consentito in ogni tempo e in ogni caso (con palese violazione dell’affidamento dei terzi e delle esigenze di certezza del diritto), l’interpretazione conforme (che potrebbe portare, per esempio, alla remissione in termini della parte che non ha sollevato censure relative alla contrarietà del provvedimento impugnato al diritto dell’Unione europea) non può essere imposta per legge ed è subordinata alla discrezionalità, alla sensibilità e alla cultura giuridica dell’organo giudiziario che deve risolvere la questione. Con un gioco di parole, se nel primo caso vi è certezza dell’incertezza, nel secondo si registra incertezza dell’incertezza. Appare quindi chiaro che nemmeno un approccio interpretativo elaborato nei termini supra descritti può rappresentare una soluzione al problema della violazione degli atti amministrativi al diritto europeo. 4. La tesi dell’autotutela (doverosa). Di ben maggior consistenza è la tesi dell’autotutela doverosa. Com’è noto, l’amministrazione che ha emanato un provvedimento viziato ai sensi dell’art. 21-octies della l. 241/1990 può annullarlo d’ufficio qualora sussista un interesse pubblico alla rimozione, tenuto conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, ed entro un termine ragionevole che, per i provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, non può essere superiore a diciotto mesi (25). posizioni fondate solo sul diritto interno» (S. STICCHI DAMIANI, op. cit., p. 10). Inoltre, nella sentenza del 12 dicembre 2002, Universale-Bau AG, la Corte di giustizia ha chiarito che, nel caso in cui il termine previsto a pena di decadenza sia ragionevole (nel caso affrontato, due settimane), è compatibile al diritto europeo «una normativa nazionale la quale prevede che qualsiasi ricorso avverso una decisione dell’amministrazione aggiudicatrice vada proposto nel termine all’uopo previsto e che qualsiasi irregolarità del procedimento di aggiudicazione invocata a sostegno di tale ricorso vada sollevata nel medesimo termine a pena di decadenza talché, scaduto tale termine, non è più possibile impugnare tale decisione o eccepire la suddetta irregolarità». (25) La modifica all’art. 21-nonies che ha previsto un termine di diciotto mesi oltre il quale il provvedimento si cristallizza e non può più essere annullato d’ufficio è stata apportata dall’art. 6 della l. 124/2015. Per un approfondimento sul tema si veda M. MACCHIA, Sui poteri di autotutela: una riforma in senso giustiziale, in Giornale di diritto amministrativo, 5/2015, p. 634. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 69 Sul punto la giurisprudenza europea muove da quanto enucleato nella sentenza Kühne & Heitz NV e giunge a sostenere che «l’art. 10 CE […] fa obbligo al giudice nazionale di valutare se una regolamentazione chiaramente incompatibile con il diritto comunitario […] sia manifestamente illegittima ai sensi del proprio diritto. Se tale si rivelerà, il detto giudice ne dovrà trarre tutte le conseguenze di diritto nazionale circa il ritiro [degli atti viziati]» (26). In questo senso il diritto comunitario; dall’altra parte, i giudici amministrativi nazionali hanno prima affermato la doverosità «in generale» (27) dell’autotutela di fronte a un atto amministrativo adottato in violazione del diritto comunitario, per poi rivedere le proprie posizioni e riaffermare il principio di discrezionalità dell’annullamento d’ufficio (28): se, difatti, l’avvio del procedimento a seguito di un’istanza del privato deve ormai ritenersi doveroso (29), la mera contrarietà al diritto dell’Unione europea non integra il requisito della sussistenza di un interesse pubblico di cui parla l’art. 21-nonies della l. 241/1990 (30) e pertanto oggi, sul punto, non è possibile registrare alcun automatismo. L’autotutela come soluzione del problema prospettato presenta grande fascino: grazie alla modifica introdotta dalla l. 124/2015, e quindi all’introduzione del termine di diciotto mesi entro il quale può essere esercitato il relativo potere, essa ha infatti il pregio di contemperare le esigenze di certezza del diritto, di tutela dell’affidamento e di prevalenza del diritto europeo, che si concretizza proprio nell’annullamento, in autotutela, del provvedimento viziato in un termine certo e senz’altro meno preclusivo rispetto a quello, di sessanta giorni, contenuto nella codice del processo amministrativo (art. 29). Tuttavia, vi sono almeno due ordini di problemi. (26) Corte giust., 19 settembre 2006, cause riunite C-392/04 e C-442/04, i-21 Germany GmbH e Arcor, con testo integrale in italiano disponibile in www.curia.europa.eu, dispositivo; successivamente, la Corte è nuovamente intervenuta chiarendo che «nell’ambito di un procedimento dinanzi ad un organo amministrativo diretto al riesame di una decisione amministrativa divenuta definitiva in virtù di una sentenza pronunciata da un giudice di ultima istanza, la quale, alla luce di una giurisprudenza successiva della Corte, risulta basata su un’interpretazione erronea del diritto comunitario, tale diritto non richiede che il ricorrente nella causa principale abbia invocato il diritto comunitario nell’ambito del ricorso giurisdizionale di diritto interno da esso proposto contro tale decisione» e che «il diritto comunitario non impone alcun limite temporale per presentare una domanda diretta al riesame di una decisione amministrativa divenuta definitiva. Gli Stati membri rimangono tuttavia liberi di fissare termini di ricorso ragionevoli, conformemente ai principi comunitari di effettività e di equivalenza» (sent. 12 febbraio 2008, Willy Kempter KG, dispositivo). (27) Così F. FONDERICO, Nota a Cons. Stato, sez. VI, 3 marzo 2006, n. 1023, in www.giuristiambientali.it, p. 2, corsivo dell’autore; il riferimento è alla sentenza del Consiglio di Stato n. 918/1998. (28) In questo senso anche le recenti innovazioni contenute nella l. 124/2015; in giurisprudenza, e più recentemente, T.A.R. Molise, sez. I, sent. n. 207/2015; T.A.R. Trentino-Alto Adige, Trento, sez. I, sent. n. 415/2014. (29) A seguito delle modifiche apportate all’art. 2 co. 1 della legge 241/1990 dall’art. 1 co. 38 della l. 190/2012. (30) Per G. GARDINI, op. cit., p. 245, «la legalità comunitaria quale interesse primario dello stato in re ipsa, in altri termini, non appare più un argomento persuasivo alla luce delle modifiche legislative introdotte nel 2005». 70 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 Il primo lo si è già evidenziato, ed è la ritrosia, dimostrata dalla giurisprudenza a partire dal 2006, a riconoscere una corrispondenza tra le «ragioni di interesse pubblico» di cui parla l’art. 21-nonies della l. 241-1990 (con riferimento ai requisiti per l’esercizio dell’annullamento d’ufficio) e il rispetto del diritto europeo, declinato nelle forme di un atto amministrativo che tale diritto lo vìola. L’unico modo per superare questa impasse è una modifica legislativa che renda doveroso non tanto l’avvio, anche di ufficio, del procedimento di autotutela, quanto piuttosto il relativo esito, ovviamente nel senso di una doverosità dell’annullamento di fronte a un atto amministrativo anticomunitario. In ogni caso, la soluzione proposta si scontra con un dato a giudizio di chi scrive insuperabile, che è quello della tutela e della garanzia del soggetto leso dall’atto amministrativo anticomunitario. È difficilmente credibile che la stessa autorità amministrativa che ha emanato l’atto viziato, o comunque ogni altra autorità competente ai sensi dell’art. 21-nonies della l. 241/1990 a intervenire in via di autotutela, possa riconoscere con serenità di giudizio tale vizio (salvo che non sia così abnorme e manifesto) e procedere di conseguenza all’annullamento dell’atto. È indubbio che la devoluzione alla giustizia amministrativa della quaestio controversa richieda, in capo al ricorrente, un cospicuo investimento (non solo in termini economici ma anche temporali), che potrebbe scoraggiare la sua azione; tuttavia, è altrettanto indubbio che il ricorso alla giurisdizione amministrativa offra al soggetto che si dichiari leso da un provvedimento amministrativo anticomunitario maggiori garanzie, procedurali/ processuali e sostanziali. 5. La tesi della nullità. Per completezza, bisogna rendere conto di un’ulteriore tesi, rimasta isolata in giurisprudenza e assai criticata dalla dottrina, che muove da un’impostazione dualista (anch’essa ormai comunemente respinta da dottrina e giurisprudenza), ossia dall’idea che l’ordinamento nazionale sia separato da quello europeo, e che è stata espressa dal T.A.R. Piemonte (31). Per questo giudice, ogni atto amministrativo presuppone l’esistenza di una norma. Se tale norma non esiste o non produce effetti nell’ordinamento, «il giudice non può che accertare l’inesistenza del necessario parametro per la valutazione della legalità dell’azione amministrativa e, siccome non esiste attività amministrativa legibus soluta, egli non può che dare atto della radicale nullità dell’atto medesimo» (32). Se nel 1989 e negli anni immediatamente successivi la pronuncia del T.A.R. Piemonte si prestava a critiche non solo perché all’epoca non era ancora (31) Il riferimento è a T.A.R. Piemonte, sez. II, sent. n. 34/1989, in T.A.R., 1989, parte I, p. 1228 e ss. (32) Ibidem. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 71 pacifica la possibilità, per il giudice amministrativo nell’ambito della cd. giurisdizione generale di legittimità, di dichiarare la nullità di un provvedimento amministrativo (33), ma anche perché sottendeva una visione separatista tra gli ordinamenti nazionale e comunitario, la tesi della nullità è divenuta ancora più insostenibile dopo l’introduzione, da parte dell’art. 14 della l. 15/2005, dell’art. 21-septies nella l. 241/1990, disposizione che ha previsto un numerus clausus di ipotesi di nullità, come ha subito chiarito la giurisprudenza, e che è insuscettibile di interpretazione estensiva (34). 6. Conclusioni: il necessario intervento del legislatore. Alla luce di quanto finora riportato, appare evidente che l’unica strada percorribile per chiarire e risolvere il problema dell’atto amministrativo antieuropeo è quella di un intervento legislativo. Delle perplessità legate a una modifica delle disposizioni in tema di autotutela (doverosa) si è già detto supra, nel paragrafo 4. Per ciò che concerne invece l’ipotesi, suggerita da parte della dottrina, di modificare l’art. 21-septies indicando tra le (tassative) ipotesi di nullità anche la contrarietà dell’atto amministrativo al diritto dell’Unione europea, è ugualmente possibile avanzare alcune riserve (35). Se è vero, come è vero, che tale proposta ha il pregio di sanzionare con una illegittimità “forte”, ossia con la nullità, l’atto amministrativo anticomunitario, implicitamente riconoscendo la prevalenza del diritto dell’Unione su quello nazionale (e per cui la violazione del primo rende l’atto nullo, quella del secondo lo rende semplicemente annullabile), dall’altra parte è doveroso porre attenzione alla disciplina processuale dell’atto nullo, che prevede sì un termine di centottanta giorni per la proposizione dell’azione di nullità (art. 31 co. 4 c.p.a.), ma estende sine die tale facoltà nei confronti della parte resistente e permette al giudice di rilevare il vizio ex officio, in deroga al principio dispositivo che informa il processo amministrativo (36). Anche in questa circostanza, quindi, e come nel caso della disapplicazione in ogni tempo, residuano margini eccessivamente ampi di indeterminatezza, che mettono in dubbio i principi di certezza e di affidamento. Al contrario, l’unica soluzione che sembra garantire una contemperamento degli interessi in gioco sembra essere quella che passa per una modi- (33) Per approfondire si veda R. MUSONE, op. cit., p. 223 e ss. (34) Come chiarito supra, nel primo paragrafo, e in particolare nella nota n. 2; vedi anche A. SUSCA, L’invalidità del provvedimento amministrativo dopo le leggi n. 15/2005 e n. 80/2005, Milano, Giuffrè, p. 50 e ss. (35) È la tesi sostenuta da G. GARDINI, op. cit., p. 259. (36) Così R. GAROFOLI - G. FERRARI, Manuale di diritto amministrativo, Roma, Neldiritto Editore, 2016, p. 1197. Per approfondimenti sul punto, si vedano F. LUCIANI, Contributo allo studio del provvedimento amministrativo nullo, Torino, Giappichelli, 2010; F. VETRÒ, L’azione di nullità dinanzi al giudice amministrativo, Napoli, Editoriale Scientifica, 2012. 72 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 fica dell’art. 29 c.p.a., contemplando una dilatazione del termine, previsto a pena di decadenza, per impugnare il provvedimento viziato da contrarietà al diritto dell’Unione europea, da sessanta giorni fino a centottanta giorni (ossia il medesimo termine previsto dal c.p.a., come si è visto, per promuovere l’azione di nullità). Tale soluzione: - permette di continuare a ricondurre al generale vizio di violazione di legge sia la violazione del diritto interno sia quella del diritto europeo, coerentemente alla natura stessa del vizio (37); - riconosce però il maggior valore del diritto europeo rispetto a quello nazionale, fornendo al soggetto leso la possibilità di impugnare l’atto anticomunitario in un termine molto più ampio rispetto a quello, assai breve, attualmente previsto per i vizi di cui all’art. 21-octies della l. 241/1990; - prevedendo un termine oltre il quale non è più possibile eccepire il vizio dell’atto, nemmeno d’ufficio da parte del giudice, fa salvi i principi di certezza e di affidamento dei terzi, senza per questo comprimerli o estenderli in modo irragionevole (come invece accade, rispettivamente, abbracciando le teorie della disapplicazione, dell’interpretazione conforme e della nullità da una parte, e quella della annullabilità per così dire “semplice” a cui aderisce attualmente la giurisprudenza nazionale, dall’altra). Inoltre, tale soluzione non creerebbe problemi di pregiudizialità in ambito processuale: va da sé che ulteriori vizi dell’atto - oltre a quello di violazione di legge europea - devono (rectius: dovrebbero) continuare ad essere fatti valere dal soggetto ricorrente entro l’ordinario termine di impugnazione di sessanta giorni; se presentati dopo il sessantesimo giorno ma entro il centottantesimo dal dies a quo unitamente a una censura di anticomunitarietà dell’atto impugnato, tali motivi dovrebbero essere dichiarati dal giudice inammissibili perché tardivi, e la cognizione del tribunale sarebbe limitata alla verifica della sussistenza di un vizio di violazione di legge europea. (37) Difatti, che si parli di diritto europeo o di diritto interno, pur sempre di violazione di legge si tratta. CONTENZIOSO NAZIONALE Enti liririci. La sentenza della Corte Costituzionale n. 260 del 2015: lettura interpretativa e riflessi sui contenziosi pendenti Grazia Maggi* SOMMARIO: 1. Evoluzione storica e normativa degli enti lirici: natura giuridico -soggettiva e specialità della disciplina dei rapporti di lavoro - 2. La sentenza della Corte Costituzionale n. 260 del 2015 - 3. Corretta lettura interpretativa della sent. Corte Costituzionale n. 260 del 2015. 1. Evoluzione storica e normativa degli enti lirici: natura giuridico-soggettiva e specialità della disciplina dei rapporti di lavoro. Le fondazioni lirico-sinfoniche sono il risultato dei processi di privatizzazione avvenuti in Italia negli anni ’90; dapprima, la legge definiva tali istituzioni “enti autonomi lirici con personalità giuridica di diritto pubblico” (1), in seguito, con più interventi legislativi, sono state trasformate in Fondazioni con personalità giuridica di diritto privato. Prima del 1996, anno di inizio del processo di riforma e privatizzazione di tali Enti, le istituzioni liriche, erano dotate di personalità giuridica di diritto pubblico in ragione delle finalità di interesse generale perseguite “Gli enti autonomi lirici e le istituzioni concertistiche assimilate hanno personalità giuridica di diritto pubblico e sono sottoposti alla vigilanza del Ministero del turismo e dello spettacolo. Essi non perseguono scopi di lucro ed hanno come (*) La Dott.ssa Grazia Maggi, durante il corso di laurea in giurisprudenza, ha partecipato ad un tirocinio curriculare presso l’Avvocatura Generale dello Stato, con l’Avvocato Alessandra Bruni, occupandosi in modo particolare del rapporto di lavoro e del contenzioso nel settore lirico-sinfonico. Si è laureata presso l’Università LUISS Guido Carli, con tesi dal titolo “L’accesso nella pubblica amministrazione: modalità di reclutamento e tipologie contrattuali. Il caso delle fondazioni lirico-sinfoniche”. (1) Art. 5 legge n. 800 del 1967. 74 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 fine la diffusione dell’arte musicale, la formazione professionale dei quadri artistici e la educazione musicale della collettività” (2). Il d.lgs. n. 367 del 1996 costituisce il primo intervento legislativo nell’ottica della trasformazione degli enti lirici in fondazioni; tale decreto, all’art. 1, statuisce “Gli enti di prioritario interesse nazionale che operano nel settore musicale devono trasformarsi in fondazioni di diritto privato secondo le disposizioni previste dal presente decreto”. Tuttavia, negli anni successivi, non tutti gli enti lirici si sono conformati a quanto previsto dal decreto n. 367 cit. trasformandosi in fondazioni, motivo per il quale, il legislatore è intervenuto nel 1998 con il d.lgs. n. 134, stabilendo la trasformazione ex lege. Quest’ultimo decreto è stato, dopo soli due anni, dichiarato incostituzionale per eccesso di delega, ma il suo contenuto è stato sostanzialmente reiterato nel d.l. n. 345 del 2000, convertito in legge n. 6 del 2001, che costituisce l’attuale disciplina della trasformazione degli enti lirici: “Gli enti autonomi lirici e le istituzioni concertistiche assimilate, sono trasformati in fondazione ed acquisiscono la personalità giuridica di diritto privato a decorrere dal 23 maggio 1998. La fondazione subentra nei diritti, negli obblighi e nei rapporti attivi e passivi dell’ente, in essere alla data della trasformazione. Essa è disciplinata, per quanto non espressamente previsto dal presente decreto, dal decreto legislativo 29 giugno 1996, n. 367 e dal codice civile” (3). Gli interventi legislativi sopra menzionati, si sono inseriti nel periodo delle grandi privatizzazioni italiane, quando il sistema della finanza pubblica attraversava una grave crisi e si cercava rimedio attraverso la dismissione di molti enti pubblici: questi venivano trasformati in società per azioni, in fondazioni o associazioni con il prioritario intento di attirare finanziamenti privati e risollevare le casse e i bilanci di tali ex-enti (4). È accaduto, così, che in numerosi settori pubblici siano state introdotte forme di gestione formalmente private, quali le fondazioni, ma che nella sostanza rimangano “sottoposte a vincoli di diritto pubblico imposti dall’esigenza del rispetto dei principi costituzionali di cui allo stesso art. 97 Cost.” (5). I soggetti giuridici risultanti all’esito del processo di privatizzazione non sono, totalmente inquadrabili nell’area del diritto privato: permangono in capo alle fondazioni lirico-sinfoniche peculiarità proprie del modello pubblicistico dovute alle finalità culturali di rilevo pubblico e di interesse nazionale perse- (2) Art. 5 comma 1 legge n. 800 del 1967. (3) Art. 1, commi 1 e 2, d.l. n. 345/2000. (4) V. CERULLI IRELLI, Diritto privato dell’Amministrazione pubblica, Torino, 2008. (5) V. CERULLI IRELLI, Amministrazione pubblica e diritto privato, Torino, 2011, 32 e ss. “L’attività giuridica delle organizzazioni pubbliche oggi si esercita normalmente anche secondo moduli di diritto privato e le stesse funzioni di amministrazione in senso sostanziale possono essere conferite a soggetti formalmente privati”. CONTENZIOSO NAZIONALE 75 guite con la propria attività. Autorevole giurisprudenza ha affermato si tratti di figure giuridiche “ibride”, dal momento che la loro disciplina non può essere considerata né completamente privatistica né pubblicistica (6). Le incertezze concernenti la natura giuridica delle fondazioni lirico-sinfoniche sono molteplici. È controverso se all’esito della privatizzazione, tali soggetti, siano solo formalmente o anche sostanzialmente privatistici (7). Il Consiglio di Stato, con pronunce risalenti, ha affermato come il momento di individuazione della natura pubblica di un ente vada ricercato “nella sua collocazione istituzionale in seno all’organizzazione statale, come organo ausiliario necessario al raggiungimento di finalità di interesse generale” (8); ancora sulla questione la Corte dei Conti ha recentemente affermato come la forma societaria non sia da considerarsi il criterio per distinguere la natura pubblica o privata dell’ente, quanto piuttosto si debba indagare sullo scopo perseguito dall’ente stesso e sulle risorse utilizzate nello svolgimento della propria attività (9). Accogliendo le argomentazioni delle Corti si arriva a sostenere come la privatizzazione che ha riguardato gli enti lirici, trasformati in fondazioni, sia una privatizzazione esclusivamente formale e non anche sostanziale (10). Ad una veste giuridica privata si accompagna una disciplina a tratti pubblicistica, e sono diversi i fattori che inducono a ritenere che la forma giuridica della fondazione non escluda l’applicabilità, alle medesime fondazioni, di alcune peculiarità tipiche del diritto pubblico. Recentemente il T.A.R. Roma (Lazio), in due pronunce, ha individuato alcuni indici rivelatori della natura pubblicistica delle istituzioni lirico-sinfoniche: “la preminente rilevanza dello Stato nei finanziamenti, il conseguente assoggettamento al controllo della Corte dei Conti, il patrocinio dell'Avvocatura dello Stato, confermato dall'art. 1 comma 3, d.l. n. 345 del 2000, l'inclusione nel novero degli organismi di diritto pubblico soggetti al d.lgs. n. 163 del 2006” (11). Attraverso il processo di privatizzazione, il legislatore, ha sentito l’esigenza di snellire e semplificare l’impianto organizzativo di tali enti, trasformandoli in soggetti di diritto privato: si è perseguito il principale obiettivo di intervenire in un settore gravato da profonda crisi economica inserendo modelli di gestione privata ritenuti più efficienti. (6) Corte Costituzionale n. 153 del 2011; T.A.R. Cagliari, (Sardegna), sez. II, 8 novembre 2013, n. 695: “Le fondazioni e gli altri enti operanti nel settore musicale, ancorché formalmente privatistici, perseguono interessi di rango sostanzialmente pubblicistico e sono assoggettati ad un regime parimenti pubblicistico”. (7) F. SCIARETTA, Associazioni e fondazioni con compiti di amministrazione pubblica, in Giurisprudenza Commerciale, fasc. 5, 2013, pag. 959. (8) Consiglio di Stato n. 836/95; Consiglio di Stato n. 1666/89. (9) Corte dei Conti, sez. controllo Regione Lombardia, delibera 46/2007. (10) T.A.R. Cagliari, (Sardegna), sez. II, 8 novembre 2013, n. 695. (11) T.A.R. Roma, (Lazio), sez. III, 10 settembre 2013, n. 8194; T.A.R. Roma, (Lazio), sez. III, 5 giugno 2013, n. 5602. 76 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 All’indomani della trasformazione degli enti lirici in fondazioni di diritto privato, si sono poste questioni riguardanti la qualificazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle fondazioni medesime, ci si è chiesti se, ed in che modo, i rapporti di lavoro si sarebbero “trasformati” seguendo la disciplina dettata per il lavoro privato. In primo luogo, si ritiene pacifica la natura pubblicistica del rapporto di lavoro instaurato dagli enti lirici prima dell’inizio dei processi di privatizzazione. Successivamente all’entrata in vigore delle disposizioni di legge che hanno condotto alla privatizzazione degli enti lirici, i rapporti di lavoro con essi instaurati, individuano la propria fonte regolatrice nelle norme dedicate al lavoro privato, pur mantenendo, per alcuni istituti e per ragioni particolari, discipline derogatorie rispetto al diritto del lavoro comune. Ci troviamo di fronte ad un caso, comune nel nostro ordinamento e nella storia della trasformazione degli enti pubblici, di privatizzazione al livello formale e non invece di privatizzazione sostanziale (12). La ratio legis della trasformazione è legata, infatti, alla eliminazione di rigidità organizzative al fine di migliorare l’efficienza, cercando di attrarre conseguentemente finanziamenti privati, per poter potenziare e tutelare maggiormente le finalità istituzionali e la natura sostanzialmente pubblica di questi enti di rilievo nazionale. La Corte Costituzionale, a causa dei contrasti dottrinali e giurisprudenziali sorti in merito alla natura giuridica delle fondazioni lirico-sinfoniche, nel 2011 è chiamata a pronunciarsi su tale controversa questione; lo fa attraverso una sentenza “ricostruttiva” della materia, con la quale aiuta a fare chiarezza nel complesso quadro normativo dedicato alle fondazioni. La Corte ripercorre le tappe che, negli anni, hanno portato alla privatizzazione degli Enti lirici: la motivazione sottesa al mutamento di veste giuridica, da pubblica a privata, si rinviene nel fine, dichiarato, di eliminare rigidità organizzative e di attrarre conseguentemente finanziamenti privati. I giudici costituzionali espressamente affermano che “si ritiene, concordemente, che nonostante l’acquisizione della veste giuridica formale di «fondazioni di diritto privato», tali soggetti conservino, pur dopo la loro trasformazione, una marcata impronta pubblicistica”. In questo modo si avvalora la tesi secondo la quale, le fondazioni, siano solo formalmente diventate soggetti di diritto privato, ma che le stesse, per il fine pubblico e di interesse generale perseguito, siano da considerare, sostanzialmente, soggetti di diritto pubblico. La sentenza n. 153 cit., prosegue rilevando che “gli indici della connotazione pubblica degli enti lirici sono, peraltro, molteplici e ravvisabili nella preminente rilevanza dello Stato nei finanziamenti, nel conseguente assogget- (12) A. BRUNI, La specialità della disciplina del rapporto di lavoro presso gli enti lirico-sinfonici, in Rassegna Avvocatura dello Stato - n. 1/2014, p. 135. CONTENZIOSO NAZIONALE 77 tamento al controllo della Corte dei conti, nel patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, nell’inclusione nel novero degli organismi di diritto pubblico soggetti al Codice dei contratti pubblici”. Con tale pronuncia la Corte Costituzionale afferma chiaramente la natura pubblicistica degli Enti lirici (13) (anche dopo la loro trasformazione in Fondazioni) (14), e tale prevalenza pubblicistica si ripercuote, evidentemente, sulla disciplina dei rapporti di lavoro. Nonostante siano convincenti e ben strutturate le motivazioni della Corte Costituzionale (nella sent. n. 153 del 2011), e quindi la natura pubblicistica delle Fondazioni liriche sia, apparentemente, non controversa, è opportuno dare rilievo al cambiamento di orientamento operato dalla Corte di Cassazione nel 2014 (15). La Corte chiarisce che per effetto della trasformazione degli enti lirici in Fondazioni, queste ultime “non fanno più parte del complesso delle pubbliche amministrazioni”; secondo la Cassazione “la qualità dell’ente, mutata da pubblica amministrazione a figura soggettiva privata, comporta la contestuale trasformazione della natura giuridica del rapporto di lavoro dipendente, che diventa un comune rapporto di lavoro subordinato, con salvezza di eventuali regole speciali dettate dalla normativa di trasformazione” (16). Facendo salve le eventuali norme speciali, rivolte alle istituzioni liriche, la Corte, pur riconoscendo la natura privatistica di tali enti privatizzati, ammette possano esistere norme di legge derogatorie rispetto alla disciplina di diritto comune. Il principio di diritto enunciato dalla Corte di Cassazione è il seguente: “la violazione delle altre disposizioni, e in particolare delle norme che prevedono la forma scritta ab substantiam e la specifica indicazione della causale, devono essere riportate nell’ambito della disciplina ordinaria del contratto a tempo determinato, con la conseguente conversione del rapporto in rapporto a tempo indeterminato.[…] L’art. 3 comma 6 non riguarda i vizi afferenti alla mancanza dell’atto scritto e alla insussistenza delle ipotesi tipiche ovvero delle ragioni di carattere produttivo che legittimano l’apposizione del termine”. Le fondazioni lirico-sinfoniche sono veri e propri soggetti giuridici “ibridi”, da un lato sono sottoposti alla disciplina del codice civile, come disposto dall’art. 1 comma 2 d.l. n. 345/2000; ma dall’atro permangono in capo ad essi vincoli di controllo e di organizzazione tipici degli enti pubblici. (13) Corte Cost. sent. n. 153/2011: “natura pubblica di tali enti - non controversa”. (14) Corte Cost., sent. n. 153/2011: “Sulla qualificazione in senso pubblicistico degli enti lirici, ancorché privatizzati, si registra anche una sostanziale convergenza delle parti, nel solco peraltro di una giurisprudenza prevalente (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza n. 2637 del 2006; T.A.R. Liguria, sez. II, sentenza n. 230 del 2009; T.A.R. Sardegna, sez. II, sentenza n. 1051 del 2008)”. (15) Cassazione Sezione Lavoro sent. n. 5748 e 5749 del 12 marzo 2014; Cassazione civile, sez. lav., 20 marzo 2014, n. 6547. (16) Corte di Cassazione, Sezione Lavoro n. 5748 del 12 marzo 2014. 78 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 Proprio in ragione delle peculiarità della struttura organizzativa delle fondazioni e dei vincoli di controllo ai quali sono sottoposte, il legislatore, nel dettare la disciplina dei rapporti di lavoro, ha dovuto compiere un bilanciamento degli interessi in gioco: da un lato le esigenze dei prestatori di lavoro, ormai dipendenti di un soggetto giuridico formalmente privato; dall’altro la necessità che le fondazioni operino nel rispetto di vincoli di spesa evitando di concorrere all’indebitamento delle casse dello Stato. Sono queste le ragioni che hanno spinto il legislatore a prevedere una disciplina “speciale” da applicarsi ai rapporti di lavoro presso le fondazioni lirico-sinfoniche. Nonostante le intenzioni del legislatore delle privatizzazioni fossero apprezzabili, va rilevato che la gestione privatistica delle fondazioni non ha condotto ai risultati sperati; i deficit dei bilanci delle fondazioni hanno continuato a crescere portando il settore verso situazioni finanziarie sempre peggiori. È in questo contesto socio-economico che si innesta il d.l. n. 64 del 2010, recante “disposizioni urgenti in materia di spettacolo e attività culturali”. La finalità perseguita dall’intervento legislativo è di dettare una disciplina specifica per le fondazioni liriche, considerando non adeguati gli strumenti privatistici fino a quel momento adottati, ed intervenendo maggiormente sulla disciplina dei rapporti di lavoro considerata complice dell’indebitamento delle fondazioni. Il legislatore, dopo aver emanato il decreto n. 64 cit., interviene nuovamente nel settore sinfonico attraverso un decreto legge ricco di novità nell’ambito della gestione e dell’organizzazione delle fondazioni (17). La legge n. 112 del 2013, al fine di contenere la spesa delle fondazioni, introduce un’importante disposizione, con la quale prevede che “il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato presso le fondazioni lirico-sinfoniche è instaurato esclusivamente a mezzo di apposite procedure selettive pubbliche”. Torna in auge l’orientamento dottrinale e giurisprudenziale, più volte citato, che riconosce carattere meramente formale, e non anche sostanziale, alla privatizzazione operata a favore degli enti lirici. Ciò che maggiormente caratterizza la disciplina del lavoro applicabile alle fondazioni, in deroga a quanto previsto nel diritto comune, è il divieto di conversione di contratti a termine viziati in contratti a tempo indeterminato, come stabilito dall’art. 22 commi 1 e 2, d.lgs. n. 367/1996. Nonostante la sottoposizione dei rapporti di lavoro alla disciplina del lavoro privato, le peculiari finalità di rilevante interesse generale perseguite, e la struttura organizzativa delle fondazioni, hanno evidenziato la necessità di prevedere un sistema che, da un lato, tutelasse i lavoratori delle fondazioni, ma dall’altro, tenesse conto della rilevanza pubblicistica di tali soggetti giuridici. Il decreto n. 367 cit. ha espressamente vietato l’applicazione delle norme (17) Viene emanato il d.l. n. 91 del 2013, convertito in legge n. 112 del 2013. CONTENZIOSO NAZIONALE 79 riguardanti la conversione dei contratti a termine viziati (18), e ciò in ossequio dei principi costituzionali di buon andamento, imparzialità ed efficienza dell’apparato amministrativo (ex art. 97 Cost.), a cui le fondazioni liriche sono tutt’ora assoggettate in ragione delle particolari finalità di diffusione ed espansione dell’arte musicale. Il successivo d.lgs. n. 368 del 2001, concordemente con quanto previsto dalla previgente disciplina, nel modificare l’istituto del contratto a tempo determinato, si occupa espressamente delle fondazioni lirico-sinfoniche. L’art. 11 comma 4 decreto n. 368 cit. afferma “al personale artistico e tecnico delle fondazioni di produzione musicale previste dal decreto legislativo 29 giugno 1996, n. 367, non si applicano le norme di cui agli articoli 4 e 5”. Gli appena citati artt. 4 e 5 si occupano delle proroghe, i rinnovi e la successione nei contratti a tempo determinato, prevedendo, in caso di violazione della disciplina dettata, la sanzione della conversione del contratto a tempo determinato viziato in contratto di lavoro a tempo indeterminato. In questo quadro normativo si inserisce il d.l. n. 64 del 2010 che modifica in parte la disciplina del personale e della contrattazione collettiva delle fondazioni liriche. L’ art. 3, comma 6, del decreto n. 64, con l’intento di dirimere le controversie riguardanti le violazioni dei contratti a termine stipulati dalle fondazioni, afferma testualmente: “alle fondazioni lirico-sinfoniche, fin dalla loro trasformazione in soggetti di diritto privato, continua ad applicarsi l'articolo 3, quarto e quinto comma, della legge 22 luglio 1977, n. 426, e successive modificazioni, anche con riferimento ai rapporti di lavoro instaurati dopo la loro trasformazione in soggetti di diritto privato e al periodo anteriore alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368”. Se da un lato, per le fondazioni lirico-sinfoniche, si ritiene pacifica la non conversione dei contratti a termine in caso di violazione delle norme riguardanti le proroghe e i rinnovi dei medesimi contratti, come previsto da numerose disposizioni legislative (19); dall’altro, ci si chiede se il d.l. n. 64 cit., abbia voluto ampliare l’area della non conversione, anche per il passato, ricomprendendovi ipotesi di nullità genetica dei contratti a termine (20). La Corte Costituzionale, con la recentissima sentenza dell’11 dicembre 2015 n. 260, è intervenuta in merito alla legittimità costituzionale dell’art. 3 comma 6 d.l. n. 64 del 2010. (18) Art. 22 d.lgs. n. 367/1996: “ Al personale artistico e tecnico della fondazione non si applicano le disposizioni dell'art. 2 della legge 18 aprile 1962, n. 230”. (19) Art. 22, comma 2, d.lgs. n. 367/1996; art. 11, comma 4, d.lgs. n. 368/2001. (20) Si pensi alla mancanza della forma scritta ab substantiam del contratto a termine. 80 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 2. Sentenza Corte Costituzionale n. 260 del 2015. L’art. 3 comma 6 d.l. n. 64/2010 statuisce “Alle fondazioni lirico-sinfoniche, fin dalla loro trasformazione in soggetti di diritto privato, continua ad applicarsi l'articolo 3, quarto e quinto comma, della legge 22 luglio 1977, n. 426, e successive modificazioni, anche con riferimento ai rapporti di lavoro instaurati dopo la loro trasformazione in soggetti di diritto privato e al periodo anteriore alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368”. Parte della dottrina e della giurisprudenza (21) ha ritenuto che tale disposizione fosse interpretabile nel senso di ritenere insussistente la conversione dei contratti a termine, in caso di qualsiasi violazione delle norme imperative; altro orientamento, invece, ha ritenuto che la disposizione di legge facesse riferimento alle sole ipotesi di violazione delle norme sui contratti a termine riguardanti proroghe e rinnovi (22). La corte d’appello di Palermo, nel 2010, applicando l’art. 3 comma 6, ha ritenuto che il termine <> “potesse ingannare l’interprete, suggerendo una qualificazione in senso tecnico dello stesso”, conducendo alla erronea conclusione secondo la quale il divieto di conversione deve ritenersi limitato alle sole ipotesi di violazione delle norme sulle proroghe o sulla successione dei contratti; secondo la Corte, invece, il termine va interpretato in senso “atecnico” ricomprendendovi qualsiasi violazione della disciplina dettata per il lavoro a tempo determinato (23). Di avviso diametralmente opposto è la Corte di Cassazione la quale, con la sentenza n. 11573 del 2011 afferma che, l’art. 3 decreto n. 64 cit., è in linea di continuità con quanto previsto dalle previgenti discipline: tale articolo conferma l’inapplicabilità, alle Fondazioni liriche, della disciplina sui rinnovi dei contratti a termine, ma riguarda solo l’aspetto dei rinnovi, e non anche qualsiasi violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori a tempo determinato (24), il termine “rinnovo” va inteso dunque in senso tecnico. In questo quadro di incertezze interpretative che, nella pratica, hanno condizionato vistosamente l’applicabilità della norma (art. 3 comma 6 d.l. n. 64/2010), il legislatore interviene fornendo un’interpretazione autentica dell’art. 3, ad opera dell’art. 40 comma 1-bis d.l. n. 69/2013. (21) A. BRUNI, La specialità della disciplina del rapporto di lavoro presso gli enti lirico-sinfonici, in Rassegna Avvocatura dello Stato - n. 1/2014; Corte d’appello Palermo n. 2124/2010; Tribunale di Sciacca sentt. n. 252 e 253 del 2014. (22) Corte d’appello Firenze n. 234/2014; Cassazione n. 5748 e 6547 del 2014. (23) Corte d’appello Palermo n. 2124/2010. (24) Corte di Cassazione n. 5748/2014: “La specialità della disciplina del contratto a tempo determinato del personale delle fondazioni liriche - che invece, per il resto, è interamente sottoposto alla disciplina del codice civile - è dunque limitata all’inapplicabilità delle disposizioni relative alle proroghe e ai rinnovi, come già prevedeva l’art. 3 legge n. 426/1977, quindi l’art. 2 legge n. 230/1962 e, infine, l’art. 11 d.lgs. n. 368/2001”. CONTENZIOSO NAZIONALE 81 L’art. 40, comma 1-bis, d.l. n. 69 del 2013, afferma: “l'articolo 3, comma 6, primo periodo, del decreto-legge 30 aprile 2010, n. 64, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 giugno 2010, n. 100, si interpreta nel senso che alle fondazioni, fin dalla loro trasformazione in soggetti di diritto privato, non si applicano le disposizioni di legge che prevedono la stabilizzazione del rapporto di lavoro come conseguenza della violazione delle norme in materia di stipulazione di contratti di lavoro subordinato a termine, di proroga o di rinnovo dei medesimi contratti”. L'esigenza del legislatore di introdurre una norma interpretativa, scaturisce da una giurisprudenza estesa su tutto il territorio nazionale, che ha inteso in senso restrittivo il divieto di stabilizzazione sancito nel 2010, limitandolo alle ipotesi dei rinnovi. Il legislatore imputa alla giurisprudenza di avere travisato il senso del d.l. n. 64 del 2010, che intendeva evitare la stabilizzazione dei rapporti di lavoro in un settore gravato da forte crisi economica. Invero, la lettura ampia data in sede di interpretazione autentica è quella che meglio si concilia con la disciplina complessiva della materia (e, quindi, più compiutamente ne realizza i fini) e che appare più coerente con le peculiarità del rapporto di lavoro alle dipendenze delle fondazioni. Proprio in ragione degli orientamenti giurisprudenziali dissonanti e dei contrasti nati sull’interpretazione dell’art. 3 comma 6 d.l. n. 64/2010, sono state sollevate questioni di illegittimità costituzionale dell’art. 40 comma 1- bis d.l. n. 69 del 2013, ritenendo che lo stesso non sia di interpretazione autentica, bensì innovativo, con portata retroattiva, e che la sua valenza per il passato violi il legittimo affidamento che i lavoratori delle fondazioni liriche hanno preposto nella previgente disciplina. La sentenza, Corte Costituzionale n. 260 del 2015, affronta le questioni sollevate, effettuando una ricostruzione sistematica delle norme di legge susseguitesi negli anni e individuando la disciplina applicabile ai contratti a tempo determinato stipulati dalle fondazioni lirico-sinfoniche. In prima approssimazione, la Corte ritiene che la norma ex art. 40 comma 1-bis, non possa legittimamente ritenersi di interpretazione autentica, dal momento che, non solo interpreta quanto statuito dall’art. 3 comma 6 d.l. n. 64/2010, ma amplia l’area della non convertibilità ritenendo che in nessun caso i contratti a termine delle fondazioni liriche possano essere trasformati in contratti a tempo indeterminato, neanche in caso di vizi genetici: “La norma impugnata non attribuisce alla legge che intende interpretare (decreto-legge 30 aprile 2010, n. 64, recante «Disposizioni urgenti in materia di spettacolo e attività culturali» e convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 29 giugno 2010, n. 100) un senso riconducibile alle possibili letture del testo originario e vanifica l'affidamento ragionevole dei consociati, avvalorato dall'orientamento costante della giurisprudenza di legittimità” (25). (25) Corte Costituzionale n. 260 del 2015. 82 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 I giudici costituzionali sentono l’esigenza di salvaguardare le aspettative dei lavoratori interpretando in modo restrittivo quanto previsto dall’art. 3 comma 6 d.l. n. 64/2010. Il percorso argomentativo seguito dalla Corte Costituzionale parte dall’analisi dell’art. 22 d.lgs. n. 367/1996 e prosegue con l’analisi dell’art. 11 d.lgs. n. 368 del 2001, mettendo in evidenza come nella previgente disciplina le uniche deroghe ammissibile per i contratti a termine delle fondazioni liriche, fossero contenute nelle norme riguardanti le proroghe e i rinnovi dei medesimi contratti. In tale contesto normativo si inserisce il d.l. n. 64 del 2010, ad avviso della Corte Costituzionale tale decreto conferma quanto già stabilito in precedenza, accordando, quale unica deroga ammissibile, la mancata conversione dei contratti a termine in caso di violazione delle norme sui rinnovi e le proroghe dei contratti stessi. La Corte afferma che “nel sancire che il divieto di conversione dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato non è circoscritto alla materia dei rinnovi e a quella connessa delle proroghe, ma investe ogni ipotesi di «violazione delle norme in materia di stipulazione di contratti di lavoro subordinato a termine», la norma impugnata non enuclea una plausibile variante di senso dell'art. 3, comma 6, primo periodo, del d.l. n. 64 del 2010”: così esorbitando dallo spazio dell’interpretazione e giungendo a quello dell’innovazione, l’art. 40 comma 1-bis d.l. n. 69 del 2013 non può ottenere il consenso della Corte Costituzionale. Ne viene, appunto, dichiarata l’illegittimità costituzionale poiché “nell'estendere il divieto di conversione del contratto a tempo determinato oltre i confini originariamente tracciati, includendo anche l'ipotesi di un vizio genetico del contratto a tempo determinato, la norma pregiudica un aspetto fondamentale delle tutele accordate dall'ordinamento ai rapporti di lavoro, in un contesto già connotato in senso marcatamente derogatorio rispetto al diritto comune. La norma, oggetto di interpretazione, contiene un riferimento specifico ai rinnovi dei contratti a termine. Secondo il significato proprio delle parole, che è canone ermeneutico essenziale (art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale), il vocabolo "rinnovo" evoca un concetto diverso rispetto a quello dell'illegittimità del termine, apposto al primo contratto” (26). 3. Corretta lettura interpretativa della sent. Corte Cost. n. 260 del 2015. Alla luce di questa recentissima sentenza della Corte Costituzionale, è opportuno riflettere sulle motivazioni che hanno spinto i giudici delle leggi ad una siffatta pronuncia. La sentenza n. 260 cit. statuisce che in caso di violazione delle norme sul lavoro a tempo determinato nelle fondazioni lirico-sinfoniche, la sanzione è as- (26) Corte Costituzionale n. 260 del 2015. CONTENZIOSO NAZIONALE 83 similabile a quella prevista nel settore pubblico, pertanto, non è possibile la conversione del contratto a termine viziato, ma tale inconvertibilità incontra dei limiti: solo nel caso in cui la violazione inerisca alla disciplina delle proroghe, i rinnovi o la durata del contratto, quest’ultimo non sarà convertibile; qualora la violazione inerisca a vizi genetici, il contratto si trasformerà a tempo indeterminato. Il momento storico ed economico nel quale tale sentenza si colloca ha avuto un ruolo fondamentale: la disoccupazione, il precariato e la situazione di crisi economica che attraversa il nostro paese hanno reso necessario un intervento della Corte a favore dei prestatori di lavoro, che accordasse loro una tutela residuale che il legislatore voleva negargli. È sicuramente apprezzabile la volontà della Corte Costituzionale di voler apprestare garanzie ai lavoratori del settore lirico, settore nel quale, negli anni, l’utilizzo delle forme contrattuali flessibili ha conosciuto un vero e proprio abuso; probabilmente, però, i giudici delle leggi, avrebbero dovuto tenere in debita considerazione, anche la situazione economica e finanziaria in cui versano le fondazioni lirico-sinfoniche. È opportuno segnalare che la sentenza in oggetto, nulla dice a riguardo della natura giuridica delle fondazioni liriche, non si pone il problema della specialità dell’attività posta in essere da questi soggetti giuridici, equiparandoli ad un qualsiasi datore di lavoro privato. Senza dubbio la sentenza n. 260 del 2015 inciderà profondamente sulle finanze delle fondazioni, finanziamenti posti prevalentemente a carico dello Stato, obbligando le medesime fondazioni ad inserire nel proprio organico personale a tempo indeterminato anche in mancanza di effettive necessità o delle professionalità richieste. La problematica riguardante la situazione finanziaria delle fondazioni liriche non è di poco conto, soprattutto alla luce della disciplina introdotta della legge n. 112 del 2013. “Al fine di fare fronte allo stato di grave crisi del settore e di pervenire al risanamento delle gestioni e al rilancio delle attività delle fondazioni lirico-sinfoniche” (27), gli enti di cui al decreto legislativo 29 giugno 1996, n. 367, e successive modificazioni, che non possano far fronte ai debiti certi ed esigibili, ovvero che siano stati in regime di amministrazione straordinaria nel corso degli ultimi due esercizi, devono presentare un piano di risanamento che interviene su tutte le voci di bilancio e in grado di riportare in tre anni la fondazione in condizioni di attivo patrimoniale e di equilibrio del conto economico (28). Ciò che più preoccupa, è il regime sanzionatorio predisposto nel caso in (27) Art. 11 comma 1 legge n. 112 del 2013 (legge Bray). (28) Tale piano deve prevedere la riduzione fino al 50% del personale tecnico e amministrativo in organico al 31 dicembre 2012, una razionalizzazione del personale artistico nonché la cessazione dell’efficacia dei contratti integrativi aziendali in vigore e, per quanto riguarda gli stipendi, l’applicazione del minimo sindacale. 84 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 cui le fondazioni, entro il 2016, non riescano a raggiungere “condizioni di equilibrio strutturale del bilancio, sia sotto il profilo patrimoniale che economico- finanziario” (29): tali fondazione verranno poste in liquidazione coatta amministrativa. La Corte Costituzionale del 2015 avrebbe dovuto tener conto di tale disposizione e delle conseguenze sanzionatorie, dal momento che, a seguito della pronuncia n. 260, le fondazioni saranno costrette ad inserire nel proprio organico personale a tempo indeterminato sulla base di pronunce giudiziali, senza poter preventivare i costi che effettivamente dovranno sostenere. Quanto statuito dalla legge Bray n. 112 del 2013, secondo la quale “il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato presso le fondazioni lirico-sinfoniche è instaurato esclusivamente a mezzo di apposite procedure selettive pubbliche” (30), mal si concilia con la pronuncia della Corte Costituzionale che ammette l’ingresso dei lavoratori nelle fondazioni a seguito di pronunce giudiziali. La regola del pubblico concorso per l’accesso al lavoro nelle fondazioni lirico-sinfoniche, sancito dalla legge n. 112 cit., riapre una porta che sembrava ormai chiusa. Torna ad essere centrale il problema dell’esatta qualificazione giuridica degli ex-enti lirici, ci si chiede se il legislatore, introducendo la disposizione in esame, abbia voluto consolidare la sostanziale natura pubblicistica delle fondazioni, oppure abbia esclusivamente cercato di porre un freno all’aumento della spesa delle fondazioni medesime. Si auspica che i giudici di merito possano cogliere la raffinata sfumatura di significato della sentenza n. 260 evitando di fare “di tutta l’erba un fascio”, ma si dovrà attendere ancora qualche anno affinché si possa valutare l’impatto pratico di questa recente pronuncia della Corte Costituzionale. Nel contempo si attende un intervento del legislatore che si faccia al più presto carico di tale delicata situazione, con il prioritario obiettivo di trovare un punto di equilibrio tra le esigenze in gioco: da un lato, salvaguardando i lavoratori precari bisognosi di certezze e troppo spesso sfruttati; dall’altro tutelando le finalità delle fondazioni ed evitando che spiacevoli conseguenze ricadano, inficiandole, sull’arte musicale e teatrale di cui le fondazioni lirico-sinfoniche sono espressione. Corte Costituzionale, sentenza 11 dicembre 2015 n. 260 - Pres. Cartabia, Red. Sciarra - Giudizio di legittimità costituzionale promosso dalla Corte d’appello di Firenze nel procedimento vertente tra la Fondazione Teatro Maggio Musicale Fiorentino e M.M.G. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 18 settembre 2014, iscritta al n. 234 del registro ordinanze 2014, la (29) Art. 11 comma 14 legge n. 112 del 2013. (30) Art. 11 comma 19 legge n. 112 del 2013. CONTENZIOSO NAZIONALE 85 Corte d’appello di Firenze ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 40, comma 1-bis, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 98, prospettando la violazione degli artt. 3, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. La norma impugnata prevede che «L’articolo 3, comma 6, primo periodo, del decreto-legge 30 aprile 2010, n. 64, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 giugno 2010, n. 100, si interpreta nel senso che alle fondazioni, fin dalla loro trasformazione in soggetti di diritto privato, non si applicano le disposizioni di legge che prevedono la stabilizzazione del rapporto di lavoro come conseguenza della violazione delle norme in materia di stipulazione di contratti di lavoro subordinato a termine, di proroga o di rinnovo dei medesimi contratti». La Corte d’appello fiorentina espone di dover decidere sul gravame che la Fondazione Teatro Maggio Musicale Fiorentino ha proposto contro la sentenza pronunciata dal Tribunale ordinario di Firenze, in funzione di giudice del lavoro, nella controversia che ha contrapposto l’appellante a M.M.G., «tersicorea di fila con obbligo di solista», lavoratrice della fondazione in virtù di «34 contratti temporanei a partire dal 3.6.1997 e poi reiterati negli anni, (altri 7) anche nel corso del giudizio stesso». Il giudice di primo grado, con la sentenza impugnata, ha dichiarato la nullità del termine apposto al contratto del 9 gennaio 2001, ha accertato che tra le parti si era instaurato, dal 9 gennaio 2001, un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con inquadramento della ricorrente nel sesto e poi nel quinto livello del contratto collettivo nazionale, e ha condannato la fondazione, in base all’art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), al pagamento dell’indennità onnicomprensiva di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale, con rivalutazione monetaria e interessi legali. Tale decisione si fonda sull’illegittimità dell’apposizione del termine a un contratto carente di una «reale, coerente e dimostrata esigenza di temporaneità». La Corte d’appello, investita del gravame della fondazione, afferma, in primo luogo, la natura privatistica dei rapporti di lavoro intercorsi tra le parti. Da tale affermazione discende l’infondatezza del richiamo al divieto di stabilizzazione vigente nell’àmbito del lavoro pubblico (art. 36 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, recante «Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche»). Sulla scorta di tale rilievo e della giurisprudenza di legittimità in tema di contratti a termine delle fondazioni lirico-sinfoniche (fra le molte, Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 12 marzo 2014, n. 5748), la Corte rimettente conclude che le statuizioni del Tribunale resistono alle doglianze dell’appellante. Il giudice d’appello, nel condividere l’apprezzamento del giudice di prime cure, ribadisce che la ricorrente è stata assunta allo scopo di «assicurare l’espletamento della ordinaria programmazione del Teatro senza riferimento a specifici spettacoli e anche al di fuori dell’impegno originariamente preventivato». Alla conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato si frappone l’ostacolo della norma impugnata, che, sotto la parvenza interpretativa, interviene - con va- 86 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 lenza retroattiva - a privare del diritto alla stabilizzazione del rapporto di lavoro quei soggetti che già avevano conseguito una pronuncia favorevole. Tali considerazioni, ad avviso della Corte rimettente, confermano la rilevanza della questione. In punto di non manifesta infondatezza, la Corte d’appello argomenta che la disciplina censurata si indirizza a un numero ristretto di lavoratori «ben individuabili nominativamente», discriminati senza alcuna giustificazione rispetto alla generalità dei lavoratori del settore privato, che beneficiano della tutela più ampia prevista, in materia di contratti a termine, dal decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES). La norma impugnata non attribuisce alla legge che intende interpretare (decreto-legge 30 aprile 2010, n. 64, recante «Disposizioni urgenti in materia di spettacolo e attività culturali» e convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 29 giugno 2010, n. 100) un senso riconducibile alle possibili letture del testo originario e vanifica l’affidamento ragionevole dei consociati, avvalorato dall’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità. Tali caratteristiche pongono la norma in antitesi con i princípi di eguaglianza e di ragionevolezza e concorrono a configurare un’ingerenza indebita del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia, in mancanza di motivi imperativi d’interesse generale, incompatibili con il carattere privato delle fondazioni. 2.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto di respingere, in quanto infondata, la questione di legittimità costituzionale. La difesa dello Stato replica che la disciplina impugnata ha natura interpretativa, in quanto isola una delle varianti di senso (il divieto generale di stabilizzazione dei rapporti irregolari), coerente con la finalità di contenere la spesa pubblica e con le peculiarità di un settore contraddistinto da un’attività stagionale. A dire dell’Avvocatura generale dello Stato, la norma censurata rinviene la sua ragion d’essere nella spiccata impronta pubblicistica delle fondazioni lirico-sinfoniche, sovvenzionate in misura prevalente dallo Stato e dagli enti locali, qualificabili, anche alla luce della giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 153 del 2011), come organismi nazionali di diritto pubblico. Non si potrebbe istituire, pertanto, alcun raffronto tra i rapporti di lavoro instaurati dalle fondazioni e i rapporti di lavoro che intercorrono con gli imprenditori privati. Inoltre, i ragguardevoli disavanzi di esercizio del settore integrano «razionali e congrue motivazioni di spiccato rilievo pubblicistico», idonee a giustificare l’introduzione di un assoluto divieto di conversione dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato. Considerato in diritto 1.– La Corte d’appello di Firenze dubita della legittimità costituzionale dell’art. 40, comma 1-bis, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 98, e denuncia il contrasto della norma impugnata con gli artt. 3, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. La norma censurata, che dichiara di interpretare l’art. 3, comma 6, primo periodo, del decreto- legge 30 aprile 2010, n. 64 (Disposizioni urgenti in materia di spettacolo e attività cul- CONTENZIOSO NAZIONALE 87 turali), convertito, con modificazioni, dall’art. 1 comma 1, della legge 29 giugno 2010, n. 100, vieta di convertire i contratti di lavoro a termine delle fondazioni lirico-sinfoniche in contratti a tempo indeterminato, in conseguenza delle violazioni delle norme sulla stipulazione dei contratti, sulle proroghe e sui rinnovi. Con particolare riguardo alla fattispecie di illegittima apposizione del termine al primo contratto, la Corte rimettente ravvisa una portata retroattiva della disciplina, dietro lo schermo dell’enunciata natura interpretativa, e assume che tale retroattività contravvenga ai princípi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3, primo comma, Cost.) e leda il diritto a un processo equo, consacrato anche dalla fonte convenzionale. La normativa impugnata, carente di motivi imperativi d’interesse generale, frustrerebbe l’affidamento legittimo dei consociati e si tradurrebbe in un’arbitraria ingerenza nell’esercizio della funzione giurisdizionale, discriminando, senza alcuna ragionevole giustificazione, i lavoratori delle fondazioni lirico-sinfoniche rispetto agli altri lavoratori del settore privato. 2.– Sul presente giudizio non incide la nuova disciplina in tema di contratti a tempo determinato delle fondazioni di produzione musicale, introdotta dal decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 (Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183). Per effetto dell’art. 57, tale disciplina (artt. 23, comma 3, e 29, comma 3) si applica soltanto dal 25 giugno 2015, giorno successivo a quello della pubblicazione del decreto nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, e pertanto non concerne i diritti sorti nel vigore della normativa antecedente. Le novità normative non dispiegano alcuna influenza sul giudizio in corso, né alterano i termini della questione. La Corte rimettente non deve, dunque, rinnovare la valutazione di rilevanza (sentenza n. 205 del 2015, con riguardo alle novità apportate, con una norma transitoria di identico tenore, dal coevo decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 80, recante «Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell'articolo 1, commi 8 e 9, della legge 10 dicembre 2014, n. 183»). 3.– La questione è fondata. 4.– La norma impugnata deve essere esaminata in una prospettiva diacronica, in ragione dei molteplici interventi legislativi che si sono succeduti. 4.1.– Occorre prendere le mosse dall’art. 3, comma 6, del d.l. n. 64 del 2010, come convertito, che al primo periodo così recita: «Alle fondazioni lirico-sinfoniche, fin dalla loro trasformazione in soggetti di diritto privato, continua ad applicarsi l’articolo 3, quarto e quinto comma, della legge 22 luglio 1977, n. 426, e successive modificazioni, anche con riferimento ai rapporti di lavoro instaurati dopo la loro trasformazione in soggetti di diritto privato e al periodo anteriore alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368». L’art. 3 della legge 22 luglio 1977, n. 426 (Provvedimenti straordinari a sostegno delle attività musicali), cui si fa riferimento nel d.l. n. 64 del 2010, vietava «i rinnovi dei rapporti di lavoro che, in base a disposizioni legislative o contrattuali, comporterebbero la trasformazione dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato» (terzo comma) e sanciva la nullità di diritto delle assunzioni attuate in violazione di tale divieto (quarto comma). La legge n. 426 del 1977 ha come retroterra l’assetto normativo che attribuiva la personalità giuridica di diritto pubblico agli enti di prioritario interesse nazionale chiamati ad operare nel settore musicale (art. 5, primo comma, della legge 14 agosto 1967, n. 800, in tema di «Nuovo ordinamento degli enti lirici e delle attività musicali»). Tale diverso assetto dà conto delle deroghe alla disciplina generale, racchiusa nella legge 88 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 18 aprile 1962, n. 230 (Disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato), così come successivamente modificata, e, in particolare, della scelta di sottrarre gli enti lirici all’applicazione dell’art. 2 della legge n. 230 del 1962, in tema di proroghe e rinnovi (Consiglio di Stato, sezione sesta, decisione 23 marzo 1998, n. 352). Nel 2010 il legislatore si muove in un contesto profondamente mutato. Il decreto legislativo 29 giugno 1996, n. 367 (Disposizioni per la trasformazione degli enti che operano nel settore musicale in fondazioni di diritto privato) ha disposto la trasformazione degli enti di prioritario interesse nazionale, che operano nel settore musicale, in fondazioni di diritto privato (art. 1) e a tali fondazioni ha conferito una «personalità giuridica di diritto privato» (art. 4). La scelta di assoggettare i rapporti di lavoro dei dipendenti delle fondazioni alle disposizioni del codice civile e a una regolamentazione di matrice contrattuale (art. 22, comma 1) è coerente con le nuove previsioni, efficaci a partire dal 23 maggio 1998 (art. 1 del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 345, recante «Disposizioni urgenti in tema di fondazioni lirico-sinfoniche », convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 26 gennaio 2001, n. 6). Il d.l. n. 64 del 2010, in un disegno complessivo improntato all’esigenza di razionalizzare la spesa, ha dettato, per un verso, disposizioni di carattere generale, innovando la disciplina dei contratti a tempo determinato delle fondazioni, e, per altro verso, disposizioni legate alla situazione contingente e alle questioni controverse, insorte nella transizione dal regime di diritto pubblico a quello eminentemente privatistico. Quanto al primo profilo, il legislatore, pur confermando la necessità di un concreto riferimento dei contratti di scrittura artistica a specifiche attività artistiche espressamente programmate (art. 3, comma 6, secondo periodo), delinea una disciplina derogatoria per i contratti a tempo determinato delle fondazioni lirico-sinfoniche e le dispensa dall’osservare le disposizioni dell’art. 1, commi 1 e 2, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES), che individuano nel contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato la forma comune di rapporto di lavoro e sanciscono per l’apposizione del termine, a pena di inefficacia, l’obbligo della forma scritta (art. 3, comma 6, terzo periodo). Per quel che attiene al secondo aspetto, rilevante nel presente giudizio, il legislatore si propone di fugare i dubbi che avevano accompagnato l’approdo delle fondazioni al regime privatistico. Tali dubbi erano, peraltro, circoscritti entro un arco temporale che, dalla trasformazione degli enti lirici in soggetti di diritto privato (23 maggio 1998), si estendeva fino all’entrata in vigore delle nuove regole sui contratti a tempo determinato, introdotte con il d.lgs. n. 368 del 2001 e finalizzate a evitarne l’abuso, in attuazione della direttiva comunitaria. La norma ha come orizzonte un periodo delimitato, come si desume dal dettato letterale, che opera un riferimento circostanziato ai rapporti di lavoro, instaurati dopo la trasformazione delle fondazioni in soggetti di diritto privato, e «al periodo anteriore alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368». Per tale periodo, entro cui la transizione delle fondazioni al regime privatistico si è compiuta, ma non ha ancora visto la luce la nuova disciplina dei contratti a tempo determinato (d.lgs. n. 368 del 2001), il legislatore ribadisce la perdurante vigenza delle norme sui rinnovi, dettate dalla legge n. 426 del 1977, funzionali a una regolamentazione pubblicistica, altrimenti superata, senza tale disposizione espressa, dall’applicazione delle regole del codice civile. 4.2.– L’art. 40, comma 1-bis, del decreto-legge n. 69 del 2013, censurato nel presente giudizio, è stato introdotto nella fase di conversione ed è il frutto di un emendamento delle commissioni riunite in sede referente (emendamento n. 40.3). CONTENZIOSO NAZIONALE 89 La norma, che ricalca la previsione già inserita nell’art. 11, comma 19, ultimo periodo, del decreto-legge 8 agosto 2013, n. 91 (Disposizioni urgenti per la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attività culturali e del turismo), nel testo anteriore alla conversione, con modificazioni, disposta dall’art. 1, comma 1, della legge 7 ottobre 2013, n. 112, propone l’interpretazione autentica dell’art. 3, comma 6, primo periodo, del d.l. n. 64 del 2010. Il legislatore statuisce, per le fondazioni lirico-sinfoniche, un divieto assoluto di stabilizzazione del rapporto di lavoro «come conseguenza della violazione delle norme in materia di stipulazione di contratti di lavoro subordinato a termine, di proroga o di rinnovo dei medesimi contratti». Come emerge dai lavori parlamentari e, in particolare, dalla relazione illustrativa del disegno di legge di conversione (A.S. n. 1014, XVII Legislatura) del d.l. n. 91 del 2013, il cui art. 11, comma 19, ultimo periodo, è l’antesignano della norma oggi impugnata, l’esigenza di introdurre una norma interpretativa scaturisce da una «giurisprudenza estesa su tutto il territorio nazionale », che ha inteso in senso restrittivo il divieto di stabilizzazione sancito nel 2010, limitandolo alle ipotesi dei rinnovi. Il legislatore imputa alla giurisprudenza di avere travisato il senso del d.l. n. 64 del 2010, «che intendeva evitare la stabilizzazione dei rapporti di lavoro». Confliggerebbe, dunque, con tale ratio legis l’interpretazione restrittiva, che, già prima dell’intervento della norma di interpretazione, aveva ricevuto l’avallo della Corte nomofilattica (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 30 luglio 2013, n. 18263, e 26 maggio 2011, n. 11573, che inaugurano un orientamento conforme, riferito alla norma interpretata ed espresso, fra le molte, pur dopo l’entrata in vigore della norma interpretativa, da Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 19 maggio 2014, n. 10924, 12 maggio 2014, n. 10217, 27 marzo 2014, n. 7243, 20 marzo 2014, n. 6547, 12 marzo 2014, n. 5748). 5.– Nel sancire che il divieto di conversione dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato non è circoscritto alla materia dei rinnovi e a quella connessa delle proroghe, ma investe ogni ipotesi di «violazione delle norme in materia di stipulazione di contratti di lavoro subordinato a termine», la norma impugnata non enuclea una plausibile variante di senso dell’art. 3, comma 6, primo periodo, del d.l. n. 64 del 2010 e dell’art. 3, quarto e quinto comma, della legge n. 426 del 1977. La norma, oggetto di interpretazione, contiene un riferimento specifico ai rinnovi dei contratti a termine. Secondo il significato proprio delle parole, che è canone ermeneutico essenziale (art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale), il vocabolo “rinnovo” evoca un concetto diverso rispetto a quello dell’illegittimità del termine, apposto al primo contratto. Se il rinnovo attiene alla successione dei contratti e all’aspetto dinamico del rapporto negoziale, la questione scrutinata nel giudizio principale verte su un vizio genetico, che inficia il contratto sin dall’origine. Non a caso, il legislatore esclude ogni equiparazione tra il rinnovo e l’illegittimità originaria del termine nella disciplina dei contratti a tempo determinato. “Rinnovo” è termine tecnico, riscontrabile in tutta la legislazione sui contratti a tempo determinato, e approda inalterato fino agli sviluppi più recenti. L’autonomia concettuale dei rinnovi traspare da una trama, variegata e coerente, di disposizioni, i cui fili essenziali legano la legge n. 230 del 1962, che disciplina la materia all’art. 2, al d.lgs. n. 368 del 2001, che al tema delle proroghe e della successione dei contratti dedica gli artt. 4 e 5, e, da ultimo, si allacciano al d.lgs. n. 81 del 2015, che menziona le proroghe e i rinnovi all’art. 21. Anche la disamina della disciplina di settore conferma tale autonomia concettuale e dimo- 90 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 stra che è proprio nella regolamentazione delle proroghe e dei rinnovi che risiede la peculiarità dei contratti a tempo determinato nelle fondazioni lirico-sinfoniche. L’intero assetto normativo è attraversato da questi princípi, che caratterizzano il corso della sua complessa evoluzione e trovano significativi elementi di conferma dapprima nell’art. 3, quarto e quinto comma, della legge n. 426 del 1977, tributaria del regime pubblicistico degli enti lirici, nell’art. 22, comma 2, del d.lgs. n. 367 del 1996, che esonera le fondazioni, oramai privatizzate, dall’osservanza delle disposizioni dell’art. 2 della legge n. 230 del 1962 sulle proroghe e sui rinnovi, in seguito nell’art. 11, comma 4, del d.lgs. n. 368 del 2001, che, su impulso della direttiva comunitaria, riproduce tale disposizione derogatoria nell’innovare la disciplina dei contratti a tempo determinato. Anche l’art. 29, comma 3, del d.lgs. n. 81 del 2015, ribadisce, con riguardo alle proroghe e alle successioni dei contratti, la disciplina derogatoria dei contratti a tempo determinato nelle fondazioni lirico-sinfoniche. Si può dunque affermare che la disciplina censurata attribuisce alla disposizione del d.l. n. 64 del 2010 un contenuto precettivo dissonante rispetto al significato della parola “rinnovi”, accreditato da una costante elaborazione della giurisprudenza di legittimità. Non si può ritenere, pertanto, che la norma interpretativa sia servita al legislatore, per emendare un’imperfezione del testo originario, ripristinando il significato autentico della disposizione interpretata, o che abbia risolto contrasti interpretativi, forieri di incertezze rilevanti. 6.– La disposizione impugnata, che non interferisce con il divieto di stabilizzazione nelle ipotesi di proroghe e di rinnovi illegittimi, opera in una latitudine circoscritta e riguarda la sola ipotesi della violazione delle norme sull’illegittima apposizione del termine. La norma impugnata lede, in pari tempo, l’affidamento dei consociati nella sicurezza giuridica e le attribuzioni costituzionali dell’autorità giudiziaria (sentenza n. 209 del 2010, per l’indissolubile legame che unisce tali valori dello stato di diritto, posti in risalto anche dall’ordinanza di rimessione della Corte fiorentina). L’affidamento, nel caso di specie, risultava corroborato da un assetto normativo risalente, imperniato sulla distinzione tra i rinnovi e le fattispecie di illegittimità originaria del contratto a tempo determinato, e da una giurisprudenza che gli stessi lavori parlamentari menzionano e che la legge interpretativa consapevolmente ribalta, ripercuotendosi sui giudizi in corso e su vicende non ancora definite. La disciplina impugnata, priva di un appiglio semantico con la norma oggetto di interpretazione, lede, inoltre, l’autonomo esercizio della funzione giurisdizionale, in quanto è suscettibile di definire i giudizi in corso, travolgendo gli effetti delle pronunce già rese. L’illegittimità costituzionale della norma, in quanto retroattiva, si coglie anche sotto un distinto e non meno cruciale profilo. Nell’estendere il divieto di conversione del contratto a tempo determinato oltre i confini originariamente tracciati, includendo anche l’ipotesi di un vizio genetico del contratto a tempo determinato, la norma pregiudica un aspetto fondamentale delle tutele accordate dall’ordinamento ai rapporti di lavoro, in un contesto già connotato in senso marcatamente derogatorio rispetto al diritto comune. Del resto, con riguardo ai lavoratori dello spettacolo, la Corte di giustizia ha valorizzato il ruolo della “ragione obiettiva” come mezzo adeguato a prevenire gli abusi nella stipulazione dei contratti a tempo determinato e come punto di equilibrio tra il diritto dei lavoratori alla stabilità dell’impiego e le irriducibili peculiarità del settore (sentenza 26 febbraio 2015, nella causa C-238/14, Commissione contro Granducato di Lussemburgo, che riprende le afferma- CONTENZIOSO NAZIONALE 91 zioni della sentenza della Corte di giustizia, 26 novembre 2014, nelle cause riunite C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13, Mascolo ed altri). 7.– Restano assorbite le censure di violazione dell’art. 3 Cost., per asserita disparità di trattamento tra i lavoratori delle fondazioni lirico-sinfoniche e i lavoratori del settore privato. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 40, comma 1-bis, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 98, nella parte in cui prevede che l’art. 3, comma 6, primo periodo, del decreto-legge 30 aprile 2010, n. 64, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 29 giugno 2010, n. 100, si interpreta nel senso che alle fondazioni lirico-sinfoniche, fin dalla loro trasformazione in soggetti di diritto privato, non si applicano le disposizioni di legge che prevedono la stabilizzazione del rapporto di lavoro come conseguenza della violazione delle norme in materia di stipulazione di contratti di lavoro subordinato a termine. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 1° dicembre 2015. 92 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 L’onere della prova del chiamato all’eredità e la sua capacità di rappresentare l’eredità in giudizio NOTA A CASSAZIONE CIVILE, SEZ. TRIBUTARIA, SENTENZA 23 MARZO 2016 N. 5750 Adriana Lagioia* SOMMARIO: 1. La vicenda giudiziaria - 2. I poteri e gli obblighi del chiamato all’eredità: il limite della conservazione del patrimonio ereditario - 3. Il riparto dell’onere della prova della qualità di erede - 4. Conclusioni. 1. La vicenda giudiziaria. Il venditore della farmacia che aveva impugnato l’avviso di rettifica e di liquidazione dell’Agenzia delle Entrate decedeva nel corso del giudizio di merito. Dinanzi alla Corte di Cassazione, le figlie censuravano la sentenza di secondo grado nella parte in cui aveva omesso di statuire sulla carenza della loro legittimazione passiva, deducendo la violazione degli artt. 475 e 476 c.c. per non aver mai accettato l’eredità né espressamente né tacitamente. Sul punto, la Corte di Cassazione - rigettando il motivo di ricorso - ha affermato che, essendo il presupposto dell’imposizione tributaria in tema di imposta sulle successioni la sola chiamata all’eredità, il chiamato goda di legittimazione passiva, aggiungendo peraltro che sarà suo onere provare l’avvenuta rinuncia all’eredità. Ben più controverso è il caso in cui il chiamato all’eredità sia convenuto in un giudizio iniziato contro il de cuius per pretese diverse da quella fiscale. In tal caso, si pongono due problematiche: la prima attiene alla possibilità di proseguire il processo in capo al chiamato all’eredità; la seconda riguarda la ripartizione dell’onere della prova delle vicende successorie, relative all’avvenuta accettazione o rinuncia dell’eredità. In riferimento alla prima questione, si analizzerà la disciplina codicistica relativa ai poteri e agli obblighi del chiamato all’eredità. Ciò, al fine di capire se dalla lettura dell’art. 460 c.c. - sul quale sono peraltro sorte numerose questioni interpretative - si possa far discendere una legittimazione passiva del chiamato all’eredità in processi il cui oggetto sia diverso da quello fiscale. Si considererà quindi la possibilità di concepire il chiamato come rappresentante dell’eredità in giudizio, vagliando sul punto le soluzioni proposte dalla Corte di Cassazione. La seconda problematica attiene alle indiscutibili difficoltà, per la parte esterna alla vicenda successoria, di provare l’avvenuta rinuncia o accettazione dell’eredità. * Dottore in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. CONTENZIOSO NAZIONALE 93 Sul punto, si analizzerà il criterio di matrice processuale di vicinanza alla fonte di prova. 2. I poteri e gli obblighi del chiamato all’eredità: il limite della conservazione del patrimonio ereditario. Nell’ambito del contenzioso tributario (1) la giurisprudenza prevalente ha considerato il chiamato all’eredità come legittimato a stare in giudizio e ha posto a suo carico l’onere della prova della rinuncia all’eredità. Nella massima in oggetto, la Corte di Cassazione, ha infatti affermato che «a fini fiscali, è il chiamato all’eredità, che deve dare prova di aver rinunciato all’eredità, in quanto, in tema di imposta sulle successioni, presupposto dell’imposizione tributaria è la chiamata all’eredità e non già l’accettazione». Il concetto è stato più volte ribadito dalla giurisprudenza. In particolare, la Corte ha affermato che «sebbene la qualità di erede si acquisti solo con l'accettazione dell'eredità e malgrado la disciplina tributaria in materia indichi l'erede (oltre al legatario) quale soggetto passivo dell'imposta di successione (art. 5 D.P.R. 26.10.1972 n. 637), da più parti è stato autorevolmente sostenuto che presupposto dell'imposizione tributaria sia la chiamata all'eredità e non già l'accettazione. (…) Pur non sottovalutandosi le obiezioni espresse in contrario, deve riconoscersi che la differenza fra la legislazione civilistica e quella tributaria abbia una sua giustificazione collegata alla necessita di evitare che i chiamati altrimenti potrebbero dilazionare fino a dieci anni (termine di prescrizione per l'accettazione) il pagamento dell'imposta con evidenti danni per l'erario e con conseguente appesantimento della procedura per la riscossione» (2). In altra pronuncia, la Corte di Cassazione ha sconfessato la prospettazione del giudice di merito che aveva dichiarato nullo l’avviso di liquidazione notificato dall’Agenzia delle Entrate al chiamato all’eredità. I giudici di legittimità hanno infatti statuito che «in tema di imposta sulle successioni, presupposto dell'imposizione tributaria è la chiamata all'eredità e non già l'accettazione. Ne consegue che, allorché la successione riguardi anche l'eredità devoluta al dante causa e da costui non ancora accettata, l'erede è tenuto al pagamento dell'imposta anche relativamente alla successione apertasi in precedenza a favore del suo autore, la cui delazione sia stata a lui trasmessa ai sensi dell'art. 479 c.c.» (3). Pertanto, in tema di imposta sulle successioni e donazioni, il termine “erede” non va inteso in senso tecnico, potendo l’Agenzia delle Entrate convenire in giudizio anche il solo chiamato all’eredità, dotato quindi di legitti- (1) Il riferimento al contenzioso tributario riguarda, nello specifico, l’imposta di successione. Le statuizioni della giurisprudenza sul punto non possono quindi essere estese a pretese fiscali diverse. (2) Sez. I, 28 ottobre 1995, n. 11320. (3) Sez. VI, 9 ottobre 2014, n. 21394. 94 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 mazione passiva per questo tipo di contenzioso. Nel caso di rinuncia all’eredità, l’onere della prova sarà disposto a carico dello stesso chiamato. Dunque, una vera e propria legittimazione passiva del chiamato è stata attestata dalla giurisprudenza nel solo contenzioso fiscale per l’imposta sulle successioni. Per tale ragione, ci si è chiesti se, in contenziosi diversi, il chiamato all’eredità possa essere convenuto in giudizio in qualità di rappresentante dell’eredità. Per rispondere al quesito, si devono analizzare le disposizioni codicistiche recanti i poteri e gli obblighi del chiamato. Come noto, il delato (4) all’eredità è titolare di due posizioni giuridiche distinte: da un lato, ha il potere di accettare l’eredità, come sancito dall’art. 479 comma 1 c.c.; dall’altro, è titolare di un potere di amministrazione del patrimonio ereditario di ampio contenuto, disciplinato dall’art. 460 c.c. (5). Alla stregua di quest’ultima disposizione, il chiamato all’eredità, oltre che poter esercitare azioni possessorie a tutela dei beni ereditari, «può compiere atti conservativi di vigilanza e di amministrazione temporanea e può farsi autorizzare dall’autorità giudiziaria a vendere i beni che non si possono conservare o la cui conservazione importa grave dispendio». Dunque, l’art. 460 c.c. è una norma attributiva di poteri nei confronti di un soggetto che non solo non è titolare dell’eredità, ma potrebbe anche non diventarlo mai nel caso di rinuncia alla stessa. La disposizione rappresenta per questo una deroga all’art. 476 c.c. (6): senza la previsione di cui all’art. 460 c.c., gli atti conservativi, di vigilanza e di amministrazione compiuti dal chiamato all’eredità varrebbero come sua accettazione tacita. La ratio sottesa all’art. 460 c.c. è evidentemente quella di apportare un elemento di flessibilità al sistema: essendo il chiamato il soggetto maggiormente interessato alla salvaguardia del patrimonio ereditario, il legislatore ha inteso attribuirgli - nel momento antecedente all’accettazione - un catalogo di azioni che, se rispettose dei limiti contenuti nella disposizione, non assumeranno il significato di accettazione tacita dell’eredità. (4) Si ricorda che, malgrado il codice faccia riferimento al termine “chiamato”, sarebbe più corretto riferirsi al “delato all’eredità”. Ciò in ragione del fatto che vanno distinti il momento della vocazione da quello della delazione. La prima indica l’aspetto soggettivo, ossia la designazione di coloro che dovranno succedere e la seconda l’aspetto oggettivo del fenomeno successorio, ossia «il complesso dei diritti, dei doveri e delle altre situazioni giuridiche, che viene tutelato alla morte del titolare per essere offerto ad altro soggetto». In linea generale, i due fenomeni si verificano simultaneamente, ma in taluni casi - come ad esempio l’istituzione di un soggetto sottoposta a condizione sospensiva - alla morte del de cuius si avrà solo la vocazione e la delazione avverrà in un secondo momento. Sul punto, si veda diffusamente CAPOZZI, Successioni e donazioni, I, Giuffrè, 2009, p. 99. (5) Il potere di amministrazione dell’eredità viene escluso nei casi in cui il chiamato all’eredità abbia nominato un curatore ex art. 460 comma 3 c.c. (6) L’art. 476 c.c. dispone «L’accettazione è tacita quando il chiamato all’eredità compie un atto che presuppone necessariamente la sua volontà di accettare e che non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede». CONTENZIOSO NAZIONALE 95 Come si diceva, le attività contemplate dalla disposizione sono quella di vigilanza, di conservazione e di amministrazione temporanea dei beni. L’attività di vigilanza è stata definita da autorevole dottrina (7) come quella tesa ad «individuare le cause di un possibile pregiudizio al patrimonio ereditario e pone i presupposti per l’adozione dei provvedimenti di natura conservativa». Si può quindi affermare che l’attività di vigilanza sia prodromica a quella di amministrazione. Essa comprende diversi atti di natura cautelare la cui finalità è l’accertamento della reale consistenza del patrimonio ereditario (8). Nonostante sia previsto da altra disposizione del codice civile, si ritiene che tra i poteri di vigilanza del chiamato rientri anche la redazione dell’inventario per accertare l’entità dei beni ereditari. Differentemente da quanto sancito dall’art. 460 c.c. tuttavia, in tal caso si tratterà di un vero e proprio obbligo per il chiamato, così come sancito dall’art. 485 comma 3 c.c. (9). Accanto al potere di vigilanza, l’art. 460 c.c. prevede le azioni conservative. In altre parole, «l’attività conservativa in senso stretto tende ad evitare il pericolo attuale di un danno che possa derivare da una modifica allo stato giuridico o materiale dei beni ereditari» (10). Come per l’attività di vigilanza, anche per quella conservativa sono previsti atti di natura cautelare, cui si affiancano tuttavia anche atti di natura diversa ma comunque diretti ad evitare la dispersione del patrimonio o a garantirne il recupero (11). Come si diceva, l’art. 460 c.c. contempla anche le attività di amministrazione temporanea. È proprio sotto quest’ultimo profilo che si sono poste rilevanti questioni interpretative. La dottrina discute infatti sulla tassatività della previsione di cui al- (7) CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., p. 117. (8) Tra questi sono ricompresi il controllo sulla gestione dell’azienda ereditaria, il controllo sullo stato delle culture dei fondi e la richiesta di conto al mandatario se il mandato si estingue con la morte del mandante. (9) NATOLI, L'amministrazione nel periodo successivo all'accettazione, in L'amministrazione di beni ereditari, vol. II, Giuffrè, 1969, p. 159. (10) CAPOZZI, Successioni e donazioni, cit., p. 118. (11) Tra questi sono ricompresi gli atti interruttivi della prescrizione, l’iscrizione di ipoteca giudiziale concessa al de cuius, la trascrizione di un atto di acquisito del defunto e gli accertamenti del titolo di possesso di un terzo su un bene ereditario. In tema di azioni possessorie, si è espressa anche la Corte di Cassazione, affermando che «L’art. 460 c.c. dispone che i chiamati all’eredità possono, in quanto tali esercitare azioni possessorie a tutela dei beni ereditari senza bisogno di materiale apprensione degli stessi, obbedendo all’esigenza che, pur nel periodo tra la delazione e l’accettazione l’eredità non sia lasciata indifesa contro gli spogli e le turbative; conseguentemente, in applicazione di detto principio, possono anche proseguire un giudizio possessorio iniziato dal loro dante causa» (Sez. II, 8 aprile 2002, n. 4991). Relativamente alla trascrizione, la Corte di Cassazione ha stabilito che «La trascrizione di un acquisto fatto dal de cuius rientra tra gli atti conservativi, consentiti dalla norma dell’art. 460 c.c., al chiamato anche prima dell’accettazione» (Sez. III, 18 giugno 1975, n. 2432). 96 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 l’art. 460 comma 2 c.c. con riferimento agli atti di amministrazione straordinaria. Il legislatore ammette espressamente - previa autorizzazione del giudice - solo due casi di amministrazione straordinaria dei beni ereditari, ossia quello della vendita dei beni che non si possono conservare o la cui conservazione comporti eccessive spese o riparazioni. Con la prima delle due fattispecie ci si riferisce al caso di beni deperibili per i quali vi è un immediato pericolo di danno; la seconda attiene ai casi di beni in cattivo stato di manutenzione o a spese che appaiono eccessive rispetto al reale valore del bene. Si è discusso sulla possibilità di poter ricomprendere, tra i poteri di amministrazione temporanea straordinaria, anche casi differenti da quelli citati dalla disposizione. Si pensi al caso in cui un soggetto deceda lasciando ai suoi figli un’eredità gravata da passività e che al momento dell’apertura della successione sia in corso un contenzioso per debiti del defunto scaduti ma non onorati. Se i creditori propongono ai chiamati all’eredità una transazione con la quale, in cambio di un cespite ereditario, vengano estinti i debiti del de cuius, si prospettano due alternative a seconda che l’elencazione di cui all’art. 460 comma 2 c.c. si intenda o meno come tassativa. Accogliendo la prima tesi interpretativa, i chiamati all’eredità che vogliano porre in essere la transazione con i creditori saranno costretti ad accettare l’eredità, non potendo gli stessi compiere un atto di amministrazione straordinaria del patrimonio - quale è certamente la cessione di un cespite ereditario - senza prima aver acquisito la qualità di eredi. Se invece l’elencazione dell’art. 460 comma 2 c.c. fosse considerata solo esemplificativa, i chiamati potrebbero porre in essere la transazione e scegliere in un secondo momento se accettare o meno l’eredità. Sul punto, una parte della dottrina (12) ha sostenuto che anche nei casi non espressamente previsti dalla legge, il chiamato all’eredità possa compiere un atto di straordinaria amministrazione. La posizione dottrinale in oggetto si discosta senz’altro dal dato letterale, ma risponde a esigenze di ordine logico. Infatti, la necessità di alienare un bene ereditario può certamente dipendere da una casistica molto più ampia di quella del rischio di deperimento e di grave dispendio di risorse economiche. Del resto, non si vede perché il chiamato all’eredità sia autorizzato ad alienare un bene a causa delle ingenti spese di manutenzione, ma non possa richiedere al giudice l’autorizzazione a contrarre un mutuo ipotecario per il reperimento di fondi necessari alla riparazione dello stesso bene, che in tal modo rimarrebbe nella massa ereditaria. (12) GROSSO - BURDESE, Le successioni, parte generale, Utet, 1977, passim; NATOLI, L'amministrazione nel periodo successivo all'accettazione, in L'amministrazione di beni ereditari, vol. II, Giuffrè, 1969; SANTARCANGELO, La volontaria giurisdizione, Giuffrè, 2006; CAPOZZI, Successioni e donazioni, I, Giuffrè, 2009. CONTENZIOSO NAZIONALE 97 Prima facie, questa alternativa interpretativa sembrerebbe essere una potenziale soluzione al problema di cui trattasi, ossia quello relativo alla carenza di legittimazione passiva del chiamato in qualità di rappresentante dell’eredità. Tuttavia, se è vero che con questa interpretazione l’attenzione si è spostata dall’atto alla sua natura, resta chiaro che la finalità delle operazioni intraprese dal chiamato all’eredità debba sempre essere la conservazione dei beni ereditari. «Il limite non è nella natura dell’atto, ma nella natura conservativa della funzione (…). Non è ammesso un impiego di reddito in mutui attivi onerosi, perché il chiamato è legittimato ad agire solo in via di urgenza ed è tenuto ad evitare gli investimenti che comportano un rischio e che comunque non consentano, in caso di necessità, il sollecito recupero delle somme investite» (13). In conclusione, se le posizioni dottrinali analizzate hanno contribuito ad ampliare il novero delle azioni esperibili dal chiamato all’eredità, da esse non si può comunque desumere la capacità del chiamato di stare in giudizio in qualità di rappresentante dell’eredità. Va comunque dato conto del fatto che in taluni casi, malgrado la mancanza di un addentellato normativo in tal senso, la Corte di Cassazione ha prospettato l’ipotesi di considerare il chiamato come rappresentante dell’eredità in giudizio, specificando tuttavia che questi non possa essere destinatario di domande di condanna al pagamento di un debito ereditario. La Corte ha infatti affermato che «il soggetto chiamato all'eredità e che non l'abbia accettata può stare in giudizio, ma per rappresentare l'eredità, se si trova nel possesso di beni ereditari (art. 486 c.c.), ma, siccome non è ancora succeduto all'ereditando, non è soggetto passivo delle obbligazioni già pertinenti al suo dante causa e dunque contro di lui non può essere rivolta una domanda di condanna al pagamento di un debito ereditario. Perciò, il ricorrente, contro il quale - come la Corte d'appello ha accertato - era stata proposta domanda di condanna al pagamento di quota di un debito ereditario e quale erede del debitore, avrebbe potuto opporsi al decreto e nel giudizio di opposizione avrebbe potuto dedurre di trovarsi ancora nella condizione di chiamato all'eredità e chiedere che la domanda proposta in suo confronto come erede fosse rigettata» (14). Resta il fatto che, in linea generale, la Corte di legittimità ha ricollegato la legittimazione passiva esclusivamente alla qualità di erede. In ragione di ciò, occorre porsi il problema di individuare il soggetto sul quale gravi l’onere di provare l’avvenuta accettazione dell’eredità. 3. Il riparto dell’onere della prova della qualità di erede. Nel processo civile, l’onere della prova è ripartito, a norma dell’art. 2697 (13) CAPOZZI, op. ult. cit., p. 119. (14) Sez. III, 3 settembre 2007, n. 18534. 98 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 c.c., tra l’attore e il convenuto in giudizio sulla base della qualificazione del fatto giuridico. I fatti costitutivi vengono di norma provati dall’attore, poiché «chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento»; al contrario, i fatti impeditivi, modificativi ed estintivi devono essere provati dal convenuto. Applicando questo criterio di distinzione dei fatti giuridici al tema in oggetto, si dovrebbe allora affermare - ed è stato affermato dalla giurisprudenza di legittimità - che l’acquisizione della qualità di erede abbia valore di fatto costitutivo per il soggetto estraneo alla vicenda successoria che voglia proseguire in capo all’erede un’azione giudiziaria iniziata contro il de cuius. Al contrario, l’avvenuta rinuncia all’eredità - che esclude la legittimazione passiva - darebbe luogo ad una prova “negativa”. Sulla base di questo ragionamento, l’onere della prova graverebbe sull’attore interessato a proseguire il giudizio. Così ha di recente ribadito la Corte di Cassazione (15): «la qualità di erede assurge a fatto costitutivo del diritto di porre in essere un rapporto processuale nei confronti del soggetto che tale qualità riveste; e, dal momento che questo diritto viene esercitato dal riassumente, in forza del canone basilare di ripartizione delle attività probatorie rilevanti ai fini dell'accertamento processuale evincibile dall'art. 2697 c.c. grava sul riassumente l'onere di provare la qualità di erede, come chiaramente insegna il sopra richiamato orientamento giurisprudenziale di netta prevalenza, rispetto al quale non sussistono validi argomenti per discostarsi. (…) Ad abundantiam, si rileva poi che, qualora si seguisse l'impostazione inversa per cui graverebbe su chi è chiamato nel processo in forza dell'atto di riassunzione dimostrare di non avere legitimatio ad causam, si imporrebbe a quest'ultimo l'onere di una prova negativa, o anche - valutando dal parallelo punto di vista sostanziale le conseguenze di detta impostazione processuale - un obbligo ad espressa rinuncia, obbligo non rinvenibile nel dettato normativo se non nella fattispecie (precisamente relativa alla dichiarazione di rinunzia o di accettazione) di cui all'art. 481 c.c., in un contesto in cui, si noti, il legislatore riconosce al chiamato in eredità che rinuncia persino la facoltà di revocare la rinuncia stessa qualora sussistano i presupposti di cui all'art. 525 c.c.». Unico caso in cui la giurisprudenza ha prospettato un onere di prova contraria a carico del chiamato all’eredità è stato quello nel quale, in un momento successivo alla notificazione dell’atto di riassunzione, si sia verificato un evento che abbia fatto venir meno la qualità di erede del soggetto. In tal caso, «la riassunzione è regolare, onde grava sui convenuti l'onere di provare il contrario e di chiarire la loro posizione» (16). (15) Sez. III, 17 dicembre 2015, n. 25357. (16) Sez. I, 31 marzo 2011, n. 7517. CONTENZIOSO NAZIONALE 99 La Corte ha infatti statuito che «la parte che riassume il giudizio deve diligentemente accertare che i convenuti in riassunzione come eredi siano formalmente investiti del titolo a succedere, e che un tale titolo permanga al momento della riassunzione. Qualora il venir meno del titolo non risulti da atti o fatti agevolmente conoscibili dai terzi (registro delle successioni, trascrizioni nei registri immobiliari, ecc.), ma da cause o da eventi non ancora verificatisi alla data della notificazione dell'atto, la riassunzione è da ritenere regolare, qualora la legittimazione passiva sussista con riferimento a quanto legalmente risulta allo stato degli atti. Viene a gravare sui convenuti in riassunzione, in tal caso, l'onere di dimostrare il contrario e se del caso di chiarire la loro posizione in tempo utile». Limitandosi l’inversione dell’onere della prova al solo caso di vicende sopravvenute alla notifica dell’atto, resta immutato il problema relativo alla gravosità della prova dell’avvenuta accettazione per un soggetto estraneo alla vicenda ereditaria. Tuttavia, il caso descritto di inversione dell’onere della prova viene motivato dalla Corte di Cassazione sulla base del fatto che «l’eccezione attiene alla legittimazione a subentrare nel processo, (…) alla luce del principio ordinario sull’onere della prova governato dal principio di prossimità, che grava della dimostrazione dei fatti rilevanti in causa la parte che ne dispone o quanto meno che si trova nella condizione di averne conoscenza diretta». L’argomentazione utilizzata dalla Corte fa riferimento al criterio cd. di vicinanza alla fonte di prova. Il criterio, di matrice giurisprudenziale, è stato utilizzato in funzione di “correttivo” al rigido riparto dell’onere della prova sancito dal codice civile e dunque in funzione “sussidiaria” rispetto a quanto stabilito dall’art. 2697 c.c. (17). Esso ha rappresentato una risoluzione ai casi in cui vi sia una difficoltà nella qualificazione del fatto giuridico come costitutivo o come impeditivo (18). «Ove alla fattispecie costitutiva si aggiunga un ulteriore fatto, a cui l’ordinamento attribuisce la prerogativa di rendere inefficaci i fatti costitutivi, questo è un fatto impeditivo. La difficoltà sta nell’individuazione di quando un fatto appartenga alla fattispecie costitutiva e quando alla fattispecie impeditiva. (…) Essendo incerto se un fatto appartiene alla fattispecie costitutiva oppure a quella impeditiva, si deve scegliere quella soluzione in virtù della quale diventa onerato della prova il soggetto per cui la prova è più facile, cioè il soggetto più vicino alle fonti di prova» (19). Taluni (20) ritengono che il criterio di vicinanza della prova trovi la pro- (17) PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, Jovene, 2012, p. 443. (18) SACCO, Presunzione, natura costitutiva o impeditiva del fatto, onere della prova, in Riv. dir. civ., 1957, p. 409. (19) LUISO, Diritto processuale civile, Vol. I, Giuffrè, 2015, p. 256. 100 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 pria fonte nei principi costituzionali sanciti dagli artt. 3 e 24 Cost., ponendosi a carico del soggetto “più vicino” alla prova il dovere di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano l’uguaglianza dei soggetti, garantendo in tal modo il diritto alla difesa del soggetto “più distante” dalla prova. Tuttavia, è d’uopo considerare che la vicinanza alla fonte di prova è stata applicata dal diritto vivente in maniera frammentaria (21), ossia solo in alcune, singole, aree dell’esperienza civilistica (22). Un approdo importante è stato quello raggiunto in tema di onere della prova del creditore nel caso di azione di adempimento o di risoluzione del contratto. Ci si è chiesti, in altre parole, se sul creditore gravasse, oltre che l’onere di dimostrare la fonte del suo diritto e il relativo termine di scadenza, anche la prova dell’inadempimento (23). Fino alla pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 2001, la tesi maggioritaria era quella secondo cui, essendo il creditore a la- (20) Si veda in tal senso, DOLMETTA, MALVAGNA «Vicinanza della prova» e contratto d’impresa, in Aperta Contrada, 2015. (21) Ciò anche a causa delle forti resistenze in dottrina. Si veda in particolare MICHELI, L’onere della prova, Cedam, 1966, p. 354 secondo cui il criterio «basato sulla maggiore vicinanza di una parte alla prova, non può che costituire una linea di discriminazione tra fatti costitutivi e fatti impeditivi, neppure dare un valido sussidio per la distribuzione del carico della prova». Nello stesso senso, si veda anche TARUFFO, La prova nel processo civile, in AA.VV., Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da CICU, MESSINEO, MENGONI, Giuffrè, 2012, p. 256 e ss., contra COMOGLIO, Le prove civili, Utet, 2010, p. 285 secondo cui «il fondamento razionale comune - alla regola generale di distribuzione della prova e alle sue deroghe - viene, solitamente, rivenuto nei criteri di opportunità e di giustizia distributiva, da cui derivano altri criteri subordinati (descritti dai binomi regola-eccezione e normalità-anormalità o dal concetto di vicinanza alla prova) in forza dei quali, il legislatore, nel dettare l’art. 2697 c.c. e nel costruire le differenti fattispecie legali da cui nascono i diritti tutelabili, distribuisce tra le parti gli oneri di prova tenendo conto della differenziata facilità con cui determinati fatti giuridici possono essere provati da colui che abbia interesse al loro accertamento, per farne dipendere il riconoscimento in giudizio di un determinato effetto giuridico a sé favorevole. È così, da reputarsi razionale che la prova positiva di un fatto eccezionale o anormale debba essere accollata a chi intenda trarne effetti favorevoli». (22) In particolare, la Corte di Cassazione lo ha utilizzato nel rapporto tra datore di lavoro e lavoratore, statuendo che ricadesse sul primo l’onere di provare l’insussistenza dei requisiti dimensionali necessari all’applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori poiché «tale presupposto, concernendo le dimensioni occupazionali dell’impresa - riguarda connotazioni proprie dell’impresa e perciò sicuramente rientranti nella sua consapevolezza, ma non altrettanto sicuramente conosciute o percepibili dal lavoratore dipendente» (Sez. lav., 22 gennaio 1999, n. 613). Il criterio è stato anche utilizzato in tema di responsabilità medica, per la quale è stato stabilito che «la difettosa tenuta della cartella clinica lungi dall’escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la colposa condotta dei medici e la patologia, al contrario consente il ricorso alle presunzioni: come avviene in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato, nel quadro dei principi in ordine alla distribuzione dell’onere della prova e al rilievo che assume a tal fine la “vicinanza alla prova”» (Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 577). Di recente, la vicinanza alla fonte di prova è stata utilizzata anche nell’ambito dei cd. contratti di impresa. Per quest’ultimo profilo si veda DOLMETTA, Sui «contratti d’impresa»: ipoteticità di una categoria, in Un maestro del diritto commerciale. Arturo Dalmartello, a cura di DOLMETTA, PORTALE, Utet, 2010, p. 107 e ss. (23) Si veda diffusamente R. GIORDANO, L’istruzione probatoria nel processo civile, Giuffrè, 2013, p. 33 e ss. CONTENZIOSO NAZIONALE 101 mentare una lesione del proprio diritto, gravasse su di lui l’onere di provare compiutamente il mancato o inesatto adempimento (24). Nell’applicare il criterio di vicinanza alla fonte di prova, la Corte ha affermato che sia nel caso di azione di adempimento, che di azione per la risoluzione del contratto, al creditore spetti l’onere di provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte. Sarà il debitore convenuto a dover provare il fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'avvenuto adempimento. L’onere della prova quindi «viene ripartito tenuto conto in concreto della possibilità per l'uno e per l'altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere d'azione» (25). Come si diceva, in tema di successioni, il criterio di vicinanza della prova è stato applicato al solo e circoscritto caso in cui, dopo la notifica della riassunzione, sopravvenga un fatto che, pur non risultante dai registri delle successioni, faccia venir meno la qualità di erede. Resta dunque il fatto che, fino alla notifica dell’atto di riassunzione, sarà l’attore a dover reperire le informazioni necessarie sulla vicenda ereditaria, consultando i registri delle successioni. Nel caso in cui l’attore si avveda che l’eredità non sia ancora stata accettata, non potrà che esperire la cd. actio interrogatoria (26), consistente nell’apposizione di un termine di decadenza all’accettazione o alla rinuncia dell’eredità. Questo è attualmente l’unico strumento posto a favore della parte processuale interessata a proseguire un giudizio dopo la morte del de cuius. Tramite l’actio interrogatoria, il termine di prescrizione decennale per l’accettazione o la rinuncia dell’eredità viene sostituito da un termine breve, determinato dal giudice, entro il quale il chiamato dovrà assumere la decisione. Anche superando le critiche rivolte a questo istituto (27), va dato atto che (24) Infatti, era maggioritario l’orientamento secondo cui andava posta una differenza tra il creditore che agiva per ottenere l’altrui adempimento dal caso in cui l’azione fosse volta alla risoluzione del contratto. Per l’azione di adempimento, si riteneva che l’onere della prova gravasse sul debitore; al contrario, nel caso di azione di risoluzione, si riteneva che al creditore spettasse altresì la dimostrazione dell’inadempimento totale o parziale. (25) Sez. Un., 30 ottobre 2001, n. 13533. (26) Si dà conto del fatto che sulla legittimazione attiva a richiedere l’actio interrogatoria a norma dell’art. 481 c.c. è sorta una questione interpretativa. Secondo alcuni, sarebbe necessario porre un distinguo tra i soggetti interni ed esterni al procedimento successorio. Si veda, in tal senso BARASSI, Le successioni per causa di morte, Giuffrè, 1947 secondo cui l’azione sarebbe prevista in favore del solo creditore dell’eredità. Diversamente, FERRI, Successioni in generale, Artt. 456-511, in Comm. Scialoja e Branca, Zanichelli, 1964 secondo cui «si tratterà, pertanto, in ogni singolo caso, di vedere se sussiste un interesse a proporre tale domanda». (27) Si veda, ex multis, BARBA, L’actio interrogatoria e legittimazione attiva all’azione, in Famiglia, persone e successioni, 2011, p. 95 che ha affermato che «il tempo concesso - al chiamato - per dichiarare se accetta o rinunzia smarrisce la distesa ordinaria prospettiva decennale e si traduce in un angusto ed eccezionale breve orizzonte temporale fissato dal giudice». 102 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 l’actio interrogatoria non vale certo a risolvere la gravosità dell’onere della prova per l’attore del giudizio. È la stessa azione ad obbligare l’attore alla consultazione dei registri, senza contare il fatto che, qualora i chiamati abbiano già rinunciato all’eredità, i soggetti cui destinare l’azione saranno ancora diversi. Sarà ancora una volta l’attore a dover rintracciare la prova della chiamata all’eredità e della non avvenuta rinuncia o accettazione. L’esito della questione sarebbe del tutto differente se del criterio di vicinanza alla fonte di prova si facesse un’applicazione più ampia, ossia antecedente al momento della notificazione dell’atto di riassunzione. In tal modo, l’attore potrebbe notificare l’atto al semplice chiamato all’eredità, ricadendo su quest’ultimo l’onere della prova di tutte le vicende successorie. In questo caso, il chiamato proverebbe l’avvenuta accettazione dell’eredità - e quindi l’acquisizione di legittimazione passiva - oppure l’avvenuta rinuncia, con annessa indicazione del soggetto che ha accettato l’eredità in suo luogo. Adempiere a un onere della prova così formulato non appare in alcun modo gravoso per il chiamato all’eredità, essendo lo stesso in una posizione di prossimità alla fonte di prova. Ciò varrebbe a risolvere la problematica in oggetto, riequilibrando la posizione delle due parti processuali. 4. Conclusioni. La sentenza in esame offre un valido spunto di riflessione su una problematica più generale, ossia quella relativa alla capacità del chiamato di rappresentare l’eredità in giudizio. Attesa la mancanza di un addentellato normativo in tal senso e considerata la posizione della giurisprudenza prevalente sul punto, non si ritiene di poter porre in dubbio che il presupposto della legittimazione passiva resti l’acquisizione della qualità di erede. Anche muovendo da questo assunto, resta aperta la problematica relativa alla distribuzione dell’onere della prova. Considerato che il percorso di affermazione del criterio di vicinanza alla fonte di prova è stato caratterizzato da repentini mutamenti, non si può escludere che tra gli ambiti dell’esperienza civilistica in cui il criterio trova applicazione, rientri anche quello relativo alle vicende successorie. CONTENZIOSO NAZIONALE 103 Cassazione civile, Sezione Quinta, sentenza 23 marzo 2016 n. 5750 - Pres. Chindemi, Rel. Solaini, P.M. Giacalone (difforme 1^ ricorso, conforme 2^ ricorso) - D.L.G. (ricorrente) (avv. P. Speciale); F.E., F.M.P., F.C. (ricorso successivo) (avv. P. Speciale) c. Agenzia delle Entrate (avv. gen. Stato). SVOLGIMENTO DEL PROCESSO La controversia riguarda l'impugnazione di un avviso di rettifica e liquidazione, con il quale l'ufficio determinava la maggiore imposta di Registro dovuta, a seguito della cessione di una farmacia, con atto di compravendita del 28.4.04. Il prezzo complessivo della cessione fu di Euro 407.829,00 di cui Euro 305.000,00 per avviamento, che l'ufficio ha successivamente rettificato elevandolo a Euro 998.468,00, in base al criterio di redditività e in base a studi di settore effettuati dall'ufficio, consistenti nell'applicare il moltiplicatore di 1,3, al valore del ricavo dichiarato nell'anno 2003. Con distinti ricorsi sia il venditore che l'acquirente impugnavano l'avviso di rettifica e liquidazione eccependo l'illegittimità per carenza di motivazione e l'infondatezza, per inesistenza dei fattori presuntivi del maggior valore dell'avviamento, in contrasto con l'effettiva reddittività della farmacia. La Commissione adita, riuniti i ricorsi per connessione oggettiva, li accoglieva ritenendo non sufficientemente motivato e provato l'accertamento. A seguito dell'impugnazione dell'ufficio, il giudice d'appello, pur riconoscendo che lo studio, sulla base del quale l'ufficio aveva rettificato i valori, non fosse vincolante, ne riconosceva il fondamento, in termini di adeguatezza al caso di specie; operava, in ogni caso, un suo adeguamento in riduzione, sia detraendo il valore delle merci e delle attrezzature e sia tenendo conto dei flussi stagionali; pertanto, il valore dell'avviamento veniva fissato nel volume d'affari dell'ultimo anno (Euro 768.053,00), precedente alla cessione. I contribuenti hanno presentato ricorso davanti a questa Corte, in particolare le eredi figlie della parte venditrice sulla base di due motivi di ricorso mentre l'erede moglie sempre della parte venditrice sulla base di due distinti motivi (entrambi i ricorsi sono corredati di memorie, ex art. 378 c.p.c.), mentre l'ufficio ha resistito con controricorso. MOTIVI DELLA DECISIONE Con il primo e secondo motivo di ricorso che possono essere trattati congiuntamente, attenendo ad un medesimo profilo di censura, proposti dalle eredi figlie della parte venditrice, le stesse censurano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 475 e 476 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto, a loro dire, sarebbero state coinvolte nel presente giudizio, perchè individuate eredi di F.F. (loro padre), che era il proprietario della farmacia oggetto di compravendita; le stesse contestano la loro qualità di eredi, non avendo mai, nè espressamente nè tacitamente accettato l'eredità, ex artt. 475 e 476 c.c., e di ciò, il giudice d'appello non avrebbe tenuto conto, violando il disposto degli articoli in tema di accettazione ereditaria e omettendo di motivare sulla sussistenza della loro legittimazione passiva. Il motivo non ha pregio. Innanzitutto, si rileva come per stessa ammissione delle ricorrenti, la loro costituzione nel giudizio d'appello, non sia stata ritenuta valida (in quanto avvenuta a mezzo fax, inviato alla cancelleria); pertanto, non avendo ritualmente proposto l'eccezione relativa al loro presunto difetto di legittimazione passiva, nel giudizio di merito, è inammissibile proporre tale motivo di doglianza, per la prima volta, nella presente sede di legittimità. In secondo luogo, e nel merito, l'eccezione è infondata, in quanto a fini fiscali, è il chiamato all'eredità, che deve dare 104 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 prova di aver rinunciato all'eredità, in quanto, in tema di imposta sulle successioni, presupposto dell'imposizione tributaria è la chiamata all' eredità e non già l'accettazione (Cass. ord. n. 21394 del 2014). D.L.G., quale moglie ed erede di F.F. con il primo e secondo motivo di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente, attenendo ad un medesimo profilo di censura, denuncia sia il vizio di violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 131 del 1986, artt. 51 e 52, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, che il vizio d'insufficiente e contraddittoria motivazione, su un fatto controverso e decisivo del giudizio, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in quanto il giudice d'appello avrebbe aderito allo studio dell'amministrazione, privo di alcuna valenza probatoria, senza motivare sulla sua concreta idoneità a valutare correttamente il profilo fiscale della vicenda, ed, inoltre, avrebbe accettato per "buone" le motivazioni dell'atto impugnato, senza sorreggere il proprio convincimento con una congrua e corretta motivazione a supporto delle conclusioni raggiunte. La censura è infondata. In via preliminare, il motivo di ricorso difetta di autosufficienza, in quanto il ricorrente non solo non riporta nel ricorso stesso, l'atto impositivo impugnato, al fine di mettere in condizione questa Corte di valutare la motivazione del giudice d'appello, rispetto alla motivazione dell'atto presupposto; ma non riporta neppure lo studio utilizzato dall'ufficio, che era stato allegato all'avviso di rettifica (come riconosciuto alle pp. 6 e 7 del ricorso), ed oggetto di diretta censura anche in questa sede. Nel merito, non è stata evidenziata, la effettiva violazione del D.P.R. n. 131 del 1986, artt. 51 e 52, se è vero che lo studio utilizza come parametro il volume d'affari dell'azienda ceduta nell'anno precedente alla cessione, in ragione del moltiplicatore indicato, rivisto dalla CTR, per detrarre il valore delle merci e delle attrezzature e per tener conto dell'andamento stagionale dei flussi della clientela. Non risulta che il ricorrente, nel giudizio d'appello ed anche in questa sede, abbia proposto dei criteri alternativi e più aderenti alla fattispecie, ma, si è lamentato genericamente dello studio dell'ufficio, al quale il giudice d'appello ha aderito facendolo proprio, ma rettificandolo in maniera congrua e non illogica; fondato, è quindi, il convincimento, che il ricorrente miri a una nuova valutazione nel merito, inammissibile in questa sede. In ogni caso, dalla lettura della sentenza impugnata, non risultano, nè errori di valutazione, nè difetti di allegazione, ai sensi delle norme censurate. Infine, manca l'individuazione di un fatto decisivo, dal punto di vista probatorio, di cui non si sia tenuto conto, o sia stato non correttamente valutato in sentenza. Il dissenso, rispetto alla valutazione del giudice d'appello, è, come detto, una censura di merito, non riproponibile nella presente sede di legittimità. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo. P.Q.M. LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti a pagare le spese di lite del presente giudizio, in favore dell'Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore in carica, che liquida in Euro 3.500,00, oltre spese prenotate a debito. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 febbraio 2016. CONTENZIOSO NAZIONALE 105 L’uso illegittimo dell’autovettura di servizio NOTA A CASSAZIONE PENALE, SEZ. VI, SENTENZA 31 MARZO 2016 N. 13038 Francesco Scardino* La giurisprudenza non risulta, ad oggi, pervenire a conclusioni omogenee circa la qualificazione da attribuire al fatto dell’agente pubblico che, utilizzando l’autovettura allo stesso assegnata per ragioni inerenti al suo ufficio o servizio, la utilizzi per fini diversi rispetto a quelli a cui è preordinata. Più specificamente, risulta un contrasto all’interno della sesta sezione della Corte di Cassazione, registrandosi sentenze che concludono per la configurazione del peculato ordinario, del peculato d’uso o, seppur in via isolata, dell’abuso di ufficio o della totale irrilevanza del fatto. Il problema concernente la corretta qualificazione giuridica dell’utilizzo dell’autovettura di servizio per fini privati esisteva, in realtà, anche prima della riforma del ’90. L’art. 314 c.p., nel testo all’epoca vigente, prevedeva, come noto, due distinte ipotesi: il peculato per appropriazione e il peculato per distrazione. Se l’appropriazione implicava un impossessamento uti dominus del bene, la distrazione designava un mero distoglimento del bene dalla sua finalità. In tale contesto, buona parte della giurisprudenza e della dottrina riconducevano l’utilizzo illegittimo dell’autovettura di servizio nell’ambito del peculato per distrazione (1). Tale incertezza risulta caratterizzare anche l’attuale panorama giurisprudenziale, come è confermato da una recente sentenza della Corte di Cassazione (2) che, limitandosi a prendere atto del contrasto (3) e ad abbracciare una delle varie tesi fino ad oggi proposte, sembra ritenere la questione non meritevole di essere rimessa alla decisione delle Sezioni Unite per una definitiva definizione. La chiave di volta, attraverso la quale risolvere la questione è, ad avviso della Corte di legittimità, data dall’individuazione degli esatti confini del concetto di “appropriazione” in quanto le varie tesi proposte pervengono a diversi risultati a fronte di un’interpretazione estensiva o restrittiva di tale concetto. Di seguito si rende opportuno ripercorrere gli orientamenti di legittimità che si sono succeduti, in modo da poter individuare quello che, alla luce della giurisprudenza più recente, sembra essere il più sicuro approdo ermeneutico. (*) Dottore in Giurisprudenza, gia praticante forense presso l’Avvocatura distrettuale di Bologna. (1) M. DE BELLIS, Uso illegittimo di autovettura di servizio da parte di pubblici ufficiali. La Cassazione precisa i criteri di sussistenza del peculato d’uso, in Cass. pen., 2006, p. 100 ss. (2) Cass. Pen., sez. 6, 10 marzo 2016, n. 13038, in www.iusexplorer.it. (3) I giudici di legittimità, in tale sentenza, parlano al riguardo di “ampio e variegato diritto vivente in tema di abuso dell’auto di servizio”. 106 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 In svariate sentenze la giurisprudenza ha mostrato di aderire ad un criterio fondato, di fatto, sul quantum dell’offesa arrecata al bene giuridico protetto. Sulla base di tale premessa, qualora l’utilizzo del bene, protratto per un lasso di tempo considerevole, sia stato tale da determinare un apprezzabile danno in capo alla p.a., e il bene sia stato successivamente restituito, la condotta è stata qualificata come peculato di uso (4). Di contro, nel caso in cui l’abusivo utilizzo del bene abbia comportato un pregiudizio grave per la pubblica amministrazione, tale da compromettere in maniera significativa il suo buon andamento, ha trovato applicazione la fattispecie di cui al comma 1 dell’art. 314 c.p. In tal senso la S.C. ha affermato che “l’uso costante e reiterato nel tempo di un’autovettura di servizio, da parte del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, qualora sia idoneo ad arrecare un danno patrimoniale apprezzabile all’amministrazione, non integra il peculato d’uso, ma la più grave ipotesi di peculato per appropriazione” (5). Quest’ultima fu, per esempio, la soluzione cui la S.C. pervenne nel qualificare il fatto attribuito ad un pubblico agente che, utilizzando l’autovettura di servizio per fini propri, aveva consumato una significativa quantità di carburante arrecando, di conseguenza, un apprezzabile danno patrimoniale in capo all’amministrazione (6). In dottrina, la tesi consistente nell’attribuire rilievo significativo al quantum di offesa arrecata alla pubblica amministrazione è stata duramente criticata, ravvisandosi nella stessa un vulnus alle esigenze di tassatività e determinatezza proprie del diritto penale (7). All’interno del medesimo orientamento possono essere ascritte anche quelle pronunce che, a fronte di svariati e ripetuti episodi di abusivo utilizzo dell’autovettura, seppur per brevi intervalli ma tuttavia protratti per un costante lasso di tempo, facevano derivare la trasformazione dei vari episodi di peculato d’uso in un unico reato di peculato ordinario. In altri casi è stato, di contro, affermato che, in presenza dei requisiti che caratterizzano il peculato d’uso - ossia la preordinazione dell’appropriazione ad un uso temporaneo della cosa e la sua immediata restituzione - la reiterazione delle condotte determina una pluralità di reati di cui all’art. 314, comma II, c.p., eventualmente avvinti dal vincolo della continuazione, ma giammai il mutamento della qualificazione giuridica del fatto in “peculato ordinario” (8). (4) Cass. Pen., sez. 6, 1 febbraio 2005, n. 9216, in Cassazione Penale, 2006, I, 109. (5) Cass. Pen., sez. 6, 15 marzo 2012, n. 20922, in Guida al Diritto, 2012, I, 28. (6) Cass. Pen., sez. 6, 17 febbraio 2015, n. 18465, in Diritto e Giustizia, 2015, fasc. 5, 40. (7) A. MARCHINI, La qualificazione giuridica dell'uso indebito e ripetuto dell'autovettura di servizio da parte del pubblico ufficiale, in Cassazione Penale, 2015, fasc. 7-8, p. 2689. (8) Cass. Pen., sez. 6, 27 maggio 2014, n. 39770, in Diritto e Giustizia, 2014, I, 26. CONTENZIOSO NAZIONALE 107 In tal senso è stato, altresì, affermato che l’elevato numero di chilometri complessivamente percorsi dall’autovettura di servizio, quando è determinato da un ripetuto utilizzo per brevi tragitti, costituisce indice della momentaneità dell’uso stesso. Vi è, anche, un indirizzo, seppur minoritario, secondo il quale integra il delitto di abuso di ufficio l’utilizzo di autovetture e personale di servizio per scopi estranei ai compiti d’ufficio, non rilevando a tal fine né le disfunzioni né l’entità del danno cagionato alla p.a. di appartenenza, ma unicamente l’ingiusto vantaggio patrimoniale procurato dall’agente a sé stesso o a terzi. Tale orientamento giurisprudenziale valorizzava la relazione alla legge n. 86/1990 (9) che, nel disporre l’eliminazione del peculato per distrazione, disponeva che i pregressi casi rientranti in origine in tale fattispecie dovessero ora ricadere nell’ambito di operatività dell’art. 323 c.p. il quale punisce il reato d’abuso d’ufficio. La dottrina, dal canto suo, proprio a fronte del fatto che nei lavori preparatori alla legge si trova l’espressa indicazione che le fattispecie di distrazione dovessero trovare la propria sanzione nella distinta ipotesi dell’abuso di ufficio, perveniva a diverse conclusioni (10). Alcuni autori ritenevano conforme alla ratio sottesa alla riforma sussumere ogni fattispecie di distrazione nell’ambito della fattispecie dell’abuso d’ufficio, limitando l’ambito operativo del peculato a condotte di mera appropriazione (11). Altra opinione, di contro, interpretava la nozione di “distrazione” come mera species del genus “appropriazione”, riconducendo il tutto all’interno del perimetro dell’art. 314 c.p. (12). Infine, un ultimo e più articolato indirizzo poneva in essere una distinzione a monte della ricostruzione proposta. Si riteneva, così, che integrasse una distrazione riconducibile all’ipotesi di abuso di ufficio la condotta dell’agente pubblico che destinasse il denaro o la cosa mobile in suo possesso a fini diversi da quelli a cui risultava preposta, ma sempre “ponendosi dalla parte della p.a.”. Dava luogo, invece, ad un’appropriazione - riconducibile all’art. 314 c.p. - una destinazione del denaro o della cosa pubblica ad una finalità che “tale rapporto con la cosa pubblica radicalmente abbandona” (13). (9) V. relazione on. Battello al d.d.l. n. 2078, II commissione permanente del Senato della Repubblica. (10) M. DE BELLIS, Uso illegittimo di autovettura di servizio da parte di pubblici ufficiali. La Cassazione precisa i criteri di sussistenza del peculato d’uso, in Cass. pen., 2006, p. 100 ss. (11) G. FIANDACA - E. MUSCO, Diritto penale, parte speciale, Appendice 1990, Bologna, 1992. (12) A. PAGLIARO, Principi di diritto penale, parte speciale, Milano, 2000, 46 ss. (13) M. ROMANO, I delitti contro la pubblica amministrazione, Milano, 2002, 32. 108 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 Vi è, poi, un quarto gruppo di decisioni che ha concluso per la totale irrilevanza del fatto. È stato affermato che, qualora l’utilizzo sia stato, in concreto, meramente occasionale o eccezionale, tale da compromettere il buon funzionamento della p.a. in una misura minima, o addirittura nulla, in forza del generale principio di offensività, tale condotta dovesse essere ritenuta esulante dall’ambito del penalmente rilevante (14). È stato, per esempio, esclusa la sussistenza del reato di peculato d’uso in diversi casi in cui l’uso momentaneo dell’autovettura di ufficio, anche se per finalità non corrispondenti a quelle istituzionali, sia stato meramente episodico ed eccezionale. Ciò in quanto un simile utilizzo non si caratterizzava, quanto a consistenza (in termini di chilometri percorsi) e durata dell’uso medesimo, in fatti di effettiva appropriazione dell’autovettura di servizio, suscettibili di cagionare un concreto e significativo danno economico all’ente pubblico (in termini di carburante utilizzato e/o di energia lavorativa degli autisti addetti alla guida) (15). A ben vedere, una simile impostazione altro non è se non una variante della tesi che presta attenzione al quantum dell’offesa arrecata al bene protetto, pur se sviluppata estensivamente. Si registra, infine, un ultimo - ed isolato - orientamento giurisprudenziale (16) caratterizzato da un eccessivo rigorismo. È stato recentemente affermato che l’utilizzo per fini privati dell’automobile di servizio integra sia la condotta di peculato per quanto riguarda il consumo di carburante, sia quella di peculato d’uso, derivante dalla momentanea appropriazione della vettura per ragioni diverse da quelle istituzionali. Nella medesima decisione si afferma, altresì, che nel caso in cui dovesse essere presente l’autista, la condotta integrerà anche il reato di abuso di ufficio per aver distratto tale soggetto dalla sua attività istituzionale (17). In questo “articolato ed ampio spettro di decisioni” si colloca una recente sentenza della sesta sezione della Corte di Cassazione (18) che, come supra affermato, ritiene di poter individuare il più corretto approdo ermeneutico partendo da una corretta definizione del concetto di “appropriazione”. La condotta di appropriazione consiste, da un lato, nell’impedire al titolare del diritto prevalente sul possesso l’esercizio delle sue prerogative e, dal- (14) Cass. Pen., sez. 6, 10 marzo 1997, n. 4651 in Giustizia Penale, 1998, II, 21. (15) Cass. Pen., sez. 6, 27 ottobre 2010, n. 7177, in Foro Italiano, 2011, fasc. 5, 284. (16) Cass. Pen., sez. 6, 17 febbraio 2015, n. 18465, in Diritto e Giustizia, 2015, I, 70. (17) In altra occasione la giurisprudenza afferma che “il distoglimento dell’autista dalle sue funzioni di esecutore di un servizio pubblico integra il delitto di peculato ordinario e non la fattispecie di abuso di ufficio”. In tal senso Cass. Pen., sez. 6, 18 gennaio 2001, n. 352, in www.iusexplorer.it. (18) Cass. Pen. sez. 6, 13038/2016. CONTENZIOSO NAZIONALE 109 l’altro, nell’attivazione, da parte del soggetto possessore, di un potere di signoria sul bene che renda esplicita la volontà di far propria la cosa (19). In tal modo si attua, dunque, l’espromissione del proprietario dal rapporto con la cosa da parte del possessore per il mezzo di una mera relazione fattuale, produttiva della c.d. interversio possessionis. La condotta di appropriazione deve essere caratterizzata da un particolare elemento psicologico, ossia dalla volontà dell’agente di appropriarsi della cosa, elemento che deve aggiungersi al dato oggettivo costituito dal comportarsi, di fatto, come proprietario. È, in dottrina, pacifico che la condotta appropriativa sia costituita da due distinti momenti. Viene in considerazione sia la c.d. espropriazione, ossia il non riconoscimento o negazione dei diritti altrui sulla cosa, cui segue la c.d. impropriazione, consistente nell’affermazione del proprio dominio di fatto sulla cosa medesima (20). Fino a tempi meno recenti si riteneva che gli effetti peculiari di una simile condotta, consistenti, come specificato, nella frattura della relazione proprietaria e nella successiva impropriazione, fossero incompatibili con quanto previsto dall’art. 314, comma II, c.p., il quale si limita a richiedere una “più blanda e semplice” sottrazione temporanea del bene dalle sue finalità ordinarie e la immediata restituzione dopo l’uso. L’uso momentaneo della cosa, si predicava, sarebbe ontologicamente incompatibile con una condotta appropriativa, a fronte del differente substrato psicologico che guida l’azione (finalizzata, da una parte, a usare per un determinato frangente temporale la res e, dall’altra, a realizzare un impossessamento definitivo) (21). Nell’ipotesi del peculato d’uso l’agente non si comporterebbe, infatti, uti dominus, in quanto non agirebbe con la coscienza e volontà di porre in essere un’appropriazione con conseguente e connesso mutamento del titolo del possesso, ma sarebbe animato dal solo intento di usare temporaneamente un bene che sa essere di altri e che intende restituire. Su queste basi è stato in passato sostenuto, dunque, che l’uso momentaneo della cosa richiesto dal comma II dell’art. 314 c.p. non possa essere mai qualificato come appropriazione rilevante ai sensi del I comma del medesimo articolo (22). Diversamente argomentando, si sosteneva, si sarebbe giunti al paradosso di ricomprendere, all’interno del concetto di “appropriazione” ogni condotta (19) C. DE PELLEGRINI, I limiti di applicabilità della fattispecie di peculato d’uso: il caso paradigmatico del c.d. peculato telefonico, ne L’indice penale, 2007, II, 570. (20) M. ROMANO, I delitti contro la pubblica amministrazione, Milano, 2008, 30. (21) C. DE PELLEGRINI, I limiti di applicabilità della fattispecie di peculato d’uso: il caso paradigmatico del c.d. peculato telefonico, op. cit., 559. (22) PALAZZO, Art. 314, peculato, a cura di PADOVANI, I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Milano, 1996, 32. 110 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 di abuso del possesso, anche se non accompagnata dalla volontà di far propria la cosa (23). Nella sentenza in esame, la Corte esordisce specificando il corretto significato da attribuire al concetto “appropriazione”, designando lo stesso il comportamento di colui che “fa propria la cosa altrui, mutandone il possesso, attraverso il compimento di atti incompatibili con il relativo titolo e corrispondenti a quelli riferibili al proprietario” (24). La S.C., subito dopo, richiama una recente sentenza resa dalla Cassazione a SS.UU. in materia di uso indebito del telefono d’ufficio nella quale viene analizzata, nello specifico, la nozione di “appropriazione” (25), utilizzando il ragionamento dalla stessa sviluppato per giungere ad una definizione anche in materia di abusivo utilizzo dell’autovettura di servizio. Nella sentenza richiamata, le SS.UU. operano, innanzitutto, un raffronto con la fattispecie di cui all’art. 646 c.p., disciplinante il reato di “appropriazione indebita”, rilevando come la nozione di “appropriazione” abbia finito con l’assumere un significato sempre più ampio, comprensivo sia dell’appropriazione in senso stretto (di cui - viene specificato - le più tipiche forme di manifestazione sono l’alienazione, la consumazione e la ritenzione), sia della distrazione o dell’uso arbitrario dal quale derivi al proprietario la perdita del denaro o della cosa mobile. Da qui deriva la conclusione che l’eliminazione, dal testo dell’art. 314, I comma, c.p., della parola “distrazione” posta in essere dalla L. n. 86/1990, non ha determinato il semplice transito di tutte le condotte distrattive poste in essere dall’agente pubblico nell’ambito di operatività della fattispecie dell’abuso di ufficio. Qualora, infatti, mediante la distrazione del denaro o della cosa mobile altrui, tali risorse vengano sottratte da una destinazione pubblica ed indirizzate al soddisfacimento di interessi privati, propri dello stesso agente o di terzi, viene comunque integrato il delitto di peculato (26). Come, sulla medesima linea, affermato da altra giurisprudenza, “il concetto di appropriazione comprende anche le condotte di “distrazione” in quanto imprimere alla cosa una destinazione diversa da quella consentita dal (23) P. BARTOLO, Appropriazione e distrazione nel delitto di peculato, a cura di COPPI, Reati contro la pubblica amministrazione, Torino, 1993, 380. (24) Cass. SU, 2 maggio 2013, n. 19054, in Pluris. (25) Cass. SU, 2 maggio 2013, n. 19054, in Pluris. (26) Cass. Pen., sez. 6, 21 marzo 2013 n. 16381 qualifica come peculato e non abuso d’ufficio la condotta del vigile urbano che aveva ceduto, in più occasioni, fuori dai suoi orari di servizio, la radiotrasmittente, utilizzabile per le comunicazioni con la centrale operativa, al titolare di un’impresa di soccorso stradale, per consentirgli di conoscere gli incidenti che avvenivano nel territorio sì da recarsi prontamente in tali luoghi e lucrare sul recupero dei mezzi coinvolti. Tale conclusione deriva dal fatto che il pubblico agente, cedendo il bene a terzi, compie sullo stesso un atto uti dominus. In Rivista Penale, 2013, fasc. 6, 654. CONTENZIOSO NAZIONALE 111 titolo del possesso significa esercitare su di essa poteri tipicamente proprietari e, quindi, impossessarsene” (27). Tale ampia definizione del concetto di appropriazione risulta, dunque, necessaria ai fini della corretta qualificazione giuridica dell’utilizzo abusivo dell’autovettura di servizio. Viene, dunque, affermato che la nozione di “appropriazione”, ad oggi, risulta non coincidente necessariamente con la sola alienazione del bene o con la sua consumazione, essendo, di contro, sufficiente per la realizzazione della c.d. impropriazione l’esercizio su di essa di un potere uti dominus, che non corrisponda, cioè, al titolo per la quale la cosa stessa risulta essere nella disponibilità dell’agente. Un simile comportamento è ritenuto sufficiente a realizzare l’espropriazione, ossia l’uscita del bene dalla disponibilità della pubblica amministrazione che ne è titolare. In altre parole, l’appropriazione è, in tale prospettiva, ritenuta comprensiva anche del mero “uso indebito”, sottolineando che non risulta essere essenziale l’elemento della fisica sottrazione della res dalla sfera di disponibilità e controllo della p.a. (28). Pertanto, può concludersi nel senso che, ai fini dell’integrazione del delitto di peculato ai sensi dell’art. 314, I comma, c.p., non sia necessariamente richiesta la perdita definitiva del bene da parte dell’ente pubblico, essendo sufficiente l’esercizio, da parte dell’agente, di poteri uti dominus, tali da sottrarre il bene stesso dalla disponibilità dell’ente. La condotta di appropriazione, dunque, così come interpretata, può, nei fatti, assumere più forme, tutte caratterizzate dalla sottrazione della cosa dalla disponibilità del suo legittimo proprietario. Potrà, per esempio, realizzarsi con la sua consumazione, con l’alienazione a qualsiasi titolo, con una mera negazione del possesso, dissipazione, rifiuto di restituzione o occultamento (29). Un simile comportamento è, infatti, sufficiente a far sì che l’intrinseco fine di pubblica utilità che caratterizza l’originaria funzionalizzazione della cosa venga meno, allo stesso sostituendosi interessi che, nella maggior parte dei casi, hanno natura squisitamente privatistica (30). La Corte specifica, in conclusione, che il relativo accertamento è sottratto al vaglio di legittimità se congruamente motivato, rilevando, a tal fine, “la sistematica reiterazione dell’uso abusivo che l’agente faccia del medesimo bene” (31). (27) Cass. sez. 6, 17 luglio 2013, n. 1247, in Cassazione Penale, 2014, fasc. 12, 4158. (28) P. PISA, L’illecito utilizzo di apparecchi della P.A. tra peculato e abuso d’ufficio, in Diritto penale e processo, 2013, fasc. 10, 1207. (29) L. MARINUCCI - E. DOLCINI, Trattato di diritto penale, parte speciale, 261. (30) MAGARINI, Le cessioni di natura patrimoniale, a cura di F. PALAZZO, Delitti contro la pubblica amministrazione, Trattato di diritto penale, parte speciale, 2011, 50. (31) Cass. Pen., sez. 6, 10 marzo 2016, n. 13038. 112 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 Alla luce di tali argomentazioni, fondate essenzialmente sull’accoglimento di una concezione lata di “appropriazione” - intesa anche come derivante dall’esercizio di poteri sul bene uti dominus - la Corte ritiene di poter inquadrare la fattispecie concernente l’abusivo utilizzo di autovetture di servizio nell’ambito del peculato ordinario di cui all’art. 314, I comma, c.p. Cassazione penale, Sez. VI, sentenza 31 marzo 2016 n. 13038 - Pres. D. Carcano, Rel. A. Capozzi. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 25.5.2015 la Corte di appello di Venezia - a seguito di gravame interposto dall'imputata B.B. avverso la sentenza emessa il 21.10.2013 dal G.I.P. del locale Tribunale - in parziale riforma della decisione, ha ridotto la pena inflitta alla predetta imputata, riconosciuta colpevole dei reati di cui al capo A) (artt. 81 cpv., 314 comma 1, cod. pen.) in relazione alla appropriazione dell'autovettura di servizio, utilizzata per ragioni estranee ad esso ed al capo B) (artt. 479, 81 cpv. cod. pen.) in relazione alla falsa attestazione nel libretto di servizio della predetta autovettura dell'esclusivo suo utilizzo per finalità istituzionali. 2. Avverso la sentenza propone ricorso per cassazione l'imputata, a mezzo del difensore, deducendo: 2.1. Erronea applicazione della legge penale e vizio della motivazione in relazione alla qualificazione dei fatti sub A) come peculato ordinario, anziché come peculato d'uso. Sarebbe erroneo il criterio ermeneutico fatto proprio dalla sentenza impugnata in ordine alla durata e costanza dell'utilizzo dell'autovettura ai fini della predetta qualificazione del peculato, non essendosi realizzata la definitiva soppressione della destinazione originaria della cosa pubblica, vertendosi - semmai - nella distrazione del bene pubblico a fini personali e, dunque, nell'ipotesi di una pluralità di episodi di peculato d'uso. Nei mesi oggetto di imputazione l'auto è stata utilizzata anche dagli altri docenti espressamente autorizzati dalla stessa ricorrente nella sua qualità di dirigente scolastico, né l'imputata ha mai impedito che l'auto venisse effettivamente utilizzata per ragioni di servizio, né sono emerse circostanze specifiche e puntuali idonee a dimostrare che l'auto è uscita dalla sfera di disponibilità dell'avente diritto. Non sarebbe risolutiva - al contrario - la considerazione del consumo di carburante che ha rilevanza penale autonoma solo se fosse stata oggetto di specifica contestazione, nella specie, assente. In ogni caso, non sono emersi elementi che depongano che la ricorrente abbia goduto di rimborsi per il carburante utilizzato nella vettura. 2.2. Mancanza di motivazione in ordine alla ritenuta offensività della condotta e, in ogni caso, al mancato riconoscimento della attenuante di cui all'art. 323 bis cod. pen. La natura di reato di danno del delitto di peculato non consente di prescindere dalla dimostrazione della sussistenza di un danno economico apprezzabile per la Pubblica Amministrazione proprietaria del bene di cui il pubblico ufficiale si sia appropriato. La Corte di merito si sarebbe limitata a rilevare l'utilizzo per lungo periodo di tempo ed anche per viaggi di lunga percorrenza, ritenendo rilevanti le percorrenze chilometriche evidenziate nella prima sentenza, senza giustificare il danno in relazione a ciascun episodio oggetto di contestazione, di ben diversa entità e caratteristiche. Così, sarebbe del pari ingiustificato il diniego della attenuante speciale sulla base della valutazione complessiva ed unitaria delle singole condotte, come CONTENZIOSO NAZIONALE 113 invece, richiesto dalla difesa in appello anche attraverso le deduzioni tecniche rigettate in quanto non completamente valutate. Anche la considerazione della offerta di indennizzo da parte della ricorrente nulla proverebbe sulla offensività del fatto, risultando di valenza neutra al riguardo, tenuto conto anche della sua restituzione e della mancata costituzione di parte civile dell'Istituto scolastico. 2.3. Mancanza di motivazione in ordine alla sussistenza del dolo di appropriazione dell'auto di servizio. Sarebbe stata omessa la considerazione di circostanze fattuali, provate certamente, indicative della buona fede della ricorrente nell'utilizzo del veicolo e dunque dell'esistenza - quanto meno - dell'esimente putativa dell'esercizio di un diritto. In tale senso militerebbe la autonomia funzionale ed organizzativa dell'Istituto scolastico rispetto alla quale la ricorrente - nella sua qualità di Dirigente scolastica - era soggetto preposto alla gestione ottimale di tutte le risorse, senza essere vincolata ad un orario di ufficio precostituito. Inoltre - in relazione all'utilizzo della vettura per il tragitto scuola-casa - il Regolamento d'Istituto né lo prevedeva, né lo vietava, così giustificando la buona fede della Preside, anche per l'utilizzo della vettura dopo i due esposti anonimi nei suoi confronti a riguardo dell'indebito utilizzo della vettura. 2.4. Mancanza di motivazione ed erronea applicazione dell'art. 479 cod. pen. Si sarebbe omesso di valutare il contenuto integrale dell'interrogatorio reso dall'imputata in ordine ai doveri di tenuta del libretto di marcia da parte dell'Ufficio Tecnico ed alla sua disponibilità offerta a riguardo come consegnataria del veicolo. Rispetto a tale tenuta nessun elemento consentirebbe di dedurre che la Preside abbia volontariamente omesso le registrazioni dei viaggi e dei chilometri percorsi per occultare l'indebito utilizzo della vettura. Risulterebbe soltanto una condotta negligente. In ogni caso, si sarebbe estesa la qualificazione di atto pubblico al libretto in questione a prescindere dalle specifiche finalità cui esso era destinato e nonostante non si sia rilevata alcuna irregolarità sulle spese di gestione del veicolo, desunte non dallo stesso libretto ma da "pezze giustificative" relative ai rifornimenti di carburante. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è infondato. 2. Il primo motivo è infondato ed ai limiti della inammissibilità, laddove prospetta una diversa ricostruzione dei fatti. 2.1. Ritiene la Corte che il riferimento operato dalla difesa della ricorrente a talune decisioni di legittimità che hanno riguardato casi di abuso dell'auto di servizio, rende opportuno ripercorrere gli orientamenti di legittimità che si sono succeduti, per individuare il più sicuro approdo ermeneutico a riguardo della nozione di appropriazione prevista dall'art. 314, comma 1, cod. pen. che qui rileva. Si tratta di un ampio e variegato diritto vivente in tema di abuso dell'auto di servizio, espressione di quella "mediazione accertativa" cui tende la giurisprudenza di legittimità (Sez. U, n. 18288 del 21/01/2010, Beschi), esito di quella sinergia ermeneutica tra fatto e norma che si è verificata in relazione alla diversità dei casi sottoposti al suo giudizio. 2.2. In un caso di un uso costante abusivo dell'automobile di servizio protrattosi per nove mesi con viaggi per oltre 12.000 Km. e consumo di oltre 1000 litri di benzina è stato affermato che integra il delitto di peculato la condotta del pubblico ufficiale che, utilizzando abusivamente il mezzo di servizio, consuma una significativa quantità di carburante arrecando un apprezzabile danno patrimoniale all'Amministrazione (Sez. 6, n. 18465 del 17/02/2015, De Paola, Rv. 263940; v. , anche, conforme Sez. 6, n. 35676 del 14/05/2015, Fumagalli, Rv. 265602), dandosi rilievo, in entrambe le vicende, al consumo di carburante, oggetto di specifica contestazione. Ancora, in altra vicenda, nell'ambito della quale era stato contestato genericamente 114 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 il consumo di carburante - osservandosi che per esso non è possibile la restituzione - è stato affermato integrare il reato di peculato e non quello di abuso di ufficio l'utilizzo dell' autovettura di servizio per fini personali (Sez. 6, n. 19547 del 04/04/2012, D'Alessandro e altro, Rv. 255418). In Sez. 6, n. 20922 del 2012, Campanile, n. m., si è affermato che rientra nell'ipotesi di cui all'art. 314 c.p., comma 1, l' utilizzo costante e reiterato nel tempo dell'autovettura di servizio, idoneo ad arrecare un danno patrimoniale apprezzabile all'amministrazione. 2.3. In altri casi, è stato affermato che il peculato d'uso è connotato dalla preordinazione dell'appropriazione ad un uso temporaneo, quindi non meramente istantaneo, della cosa e dalla immediata restituzione della stessa dopo il momentaneo utilizzo, con la conseguenza che, in presenza di tali requisiti, la reiterazione delle condotte determina l'integrazione di una pluralità di reati ex art. 314, comma secondo, cod. pen., eventualmente avvinti dal vincolo della continuazione, ma non il mutamento della qualificazione giuridica del fatto in peculato "ordinario" ex art. 314, primo comma, cod. pen. (Sez. 6, n. 39770 del 27/05/2014, Giordano, Rv. 260458) ed in motivazione, è stato osservato che l'elevato numero di chilometri complessivamente percorsi dall'autovettura di servizio, quando è determinato da un ripetuto utilizzo del veicolo per brevi tragitti, costituisce indice della momentaneità dell'uso dello stesso. Su tale scia si è posta altra recente decisione di questa Sezione (Sez. 6, n. 14040 del 29/01/2015, Soardi, Rv. 262974) che ha ricordato la ragione fondante della fattispecie del peculato d'uso, individuata nell'esigenza del legislatore di sottrarre alla estensione del più grave peculato comune (art. 314 c.p., comma 1) l'appropriazione di cose di specie (e non anche di quelle fungibili) per un circoscritto periodo di tempo, cui faccia seguito la loro pronta restituzione con coevo pieno ripristino della situazione anteatta (cfr. Cass. Sez. 6, 1.2.2005 n. 9216, Triolo, rv. 230940). Le decisioni citate si pongono nell'ambito dell'indirizzo - occasionato da una vicenda relativa ad un veicolo sottratto all'Amministrazione militare usato per il tempo necessario per raggiungere una vicina riserva di caccia e subito restituito - secondo il quale in tema di peculato, deve ritenersi che nell'ipotesi di cui al secondo comma dell'art. 314 cod. pen., "uso momentaneo" non significa istantaneo, ma temporaneo, ossia protratto per un tempo limitato così da comportare una sottrazione della cosa alla sua destinazione istituzionale tale da non compromettere seriamente la funzionalità della pubblica amministrazione (Sez. 6, n. 4651 del 10/03/1997, Federighi, Rv. 207594). 2.4. Risulta minoritario l'orientamento secondo il quale integra il delitto di abuso d'ufficio l'utilizzo di autovetture e personale di servizio per scopi estranei ai compiti d'istituto, non rilevando a tal fine le disfunzioni o l'entità del danno cagionato alla P.A., ma solo l'ingiusto vantaggio patrimoniale procurato dall'agente a sé stesso o a terzi, reso in un caso relativo alla modifica dell'originaria imputazione di peculato nel delitto di abuso d'ufficio continuato, in cui un prefetto ha disposto e consentito diversi accompagnamenti della moglie per viaggi effettuati con autovetture di servizio (Sez. 6, n. 25537 del 15/04/2009, Gallitto, Rv. 244358). 2.5. Vi sono, infine, decisioni che hanno concluso per l'irrilevanza penale dell'abuso dell'autovettura di servizio. Tanto, in un caso relativo ad un episodio di spostamento dell'autovettura dalla periferia al centro della città al fine di compiere una visita privata, percorrendo un tragitto comunque necessario prima di riconsegnare il veicolo all'amministrazione, come pure in altro caso, relativo a nove episodi di indebito utilizzo di autovetture di servizio da parte di assessori comunali - laddove è stato affermato che non è configurabile il reato di peculato nell'uso episodico ed occasionale di un'autovettura di servizio, quando la condotta abusiva non abbia leso la funzionalità della P.A. e non abbia causato un danno patrimoniale apprezzabile (Sez. 6, n. 5006 del 12/01/2012, Perugini, Rv. 251785), anche in relazione al- CONTENZIOSO NAZIONALE 115 l'utilizzo del carburante e dell'energia lavorativa degli autisti addetti alla guida (Sez. 6, n. 7177 del 27/10/2010, Mola e altri, Rv. 249459). In particolare, è stata esclusa l'appropriazione, quale elemento materiale integrante il reato di peculato, nell'uso da parte del pubblico ufficiale della vettura di servizio per il compimento del tragitto casa-ufficio, quando l'accompagnamento non è effettuato in violazione di alcuna disposizione regolamentare, poiché in tal caso, a differenza di quanto avviene nell'ipotesi di utilizzo dell'auto per motivi personali e privati, il bene di cui il pubblico ufficiale ha la disponibilità per ragioni del suo ufficio rimane, comunque, nell'ambito della sua normale destinazione giuridica, e cioè nella sfera della Pubblica Amministrazione (Sez. 6, n. 46061 del 17/09/2014, Caropreso e altro, Rv. 260818). 2.6. Osserva questa Corte che - rispetto all'articolato ed ampio spettro di decisioni ricordato - è necessario richiamare i consolidati principi in ordine alla fattispecie in esame con riguardo alla nozione di appropriazione. È, invero, necessario - da un lato - sfuggire ad un criterio discretivo tra l'ipotesi di peculato comune e quello di peculato d'uso che faccia leva su un dato meramente quantitativo - vuoi in relazione al numero di indebiti utilizzi, vuoi all'entità chilometrica di ciascuno o della somma di essi - che non si rispecchia nella previsione normativa; dall'altro, non far dipendere il discrimine tra le due ipotesi dall'eventuale atteggiarsi della contestazione - specificamente rispetto al consumo di carburante - criterio che svaluta la fisionomia strutturale della stessa condotta, esperendo - fino alla individuazione del più grave peculato ordinario, facendo leva su detto consumo - un dissezionamento dell'unitaria condotta - e correlativo profilo volitivo -, che ha propriamente ad oggetto l'autovettura e non le sue parti, siano esse soggette o meno a consumo o usura. 2.7. Ebbene, le S.U. nella sentenza n. 19054 del 2013, ric. Vattani - affrontando il caso peculiare dell'uso indebito del telefono d'ufficio - hanno ribadito che "la condotta di "appropriazione" identifica il comportamento di chi fa propria la cosa altrui, mutandone il possesso, con il compimento di atti incompatibili con il relativo titolo e corrispondenti a quelli riferibili al proprietario" ed ha osservato che la espunzione dal testo dell'art. 314, comma 1, cod. pen., della parola "distrazione" operata dalla novella introdotta dalla l. n. 86 del 1990, "non ha determinato puramente e semplicemente il transito di tutte le condotte distrattive poste in essere dall'agente pubblico nell'area di rilevanza penale dell'abuso di ufficio. Qualora, infatti, mediante la distrazione del denaro o della cosa mobile altrui, tali risorse vengano sottratte da una destinazione pubblica ed indirizzate al soddisfacimento di interessi privati, propri dello stesso agente o di terzi, viene comunque integrato il delitto di peculato". La Corte ha osservato che anche in relazione al delitto di cui all'art. 646 cod. pen. prevale l'opinione secondo la quale la condotta di distrazione - intesa nel suo significato di "deviare la cosa dalla sua destinazione o nel divergerla dall'uso legittimo"- è riconducibile alla appropriazione e, del pari, ad essa è riconducibile l'uso indebito della cosa. Così - hanno proseguito le S.U. - la nozione di appropriazione nell'ambito del delitto di cui all'art. 646 cod. pen. " ha finito per assumere, con il passare del tempo, un significato sempre più ampio, comprensivo sia dell'appropriazione in senso stretto (di cui le più tipiche forme di manifestazione sono l'alienazione, la consumazione e la ritenzione), sia della distrazione, sia dell'uso arbitrario dal quale derivi al proprietario la perdita del denaro o della cosa mobile. Ed ha, quindi, definito la ipotesi del peculato d'uso - connotata dalla finalità dell'agente quale elemento specializzante - secondo una condotta "intrinsecamente diversa da quella del primo comma, in quanto l'uso momentaneo, seguito dall'immediata restituzione della cosa, non integra un'autentica appropriazione, realizzandosi quest'ultima, solo con la definitiva soppressione della destinazione originaria della cosa". Ed ha rilevato come la nozione di restituzione venga intesa "in modo assai rigoroso dalla giurisprudenza, per la quale tra la cessazione 116 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 dell'uso momentaneo e la restituzione deve intercedere il tempo minimo necessario e sufficiente, in concreto, per la restituzione medesima; al riguardo non è possibile fissare un rigido criterio cronologico, ma è necessario che le due attività (ossia, l'uso e la restituzione) si pongano in un continuum dell'operato dell'agente: occorre, cioè, che egli, dopo l'uso, non compia altra attività che non siano quelle finalizzate alla restituzione". Ha, infine, aggiunto che "l'intenzione di restituire la cosa immediatamente dopo l'uso momentaneo deve essere presente fin dall'inizio: non si tratta, infatti, di un peculato proprio, che successivamente si trasforma, per effetto dell'uso momentaneo e della restituzione della cosa, in peculato d'uso, bensì, sin dall'origine, di un fatto caratterizzato dal contenuto intenzionale del reo." 2.8. Anche in dottrina è stato affermato che nel delitto di peculato l'appropriazione può essere integrata anche dall'uso indebito della cosa che avvenga con modalità ed intensità tali da sottrarla alla disponibilità della pubblica amministrazione; in tali casi, verificandosi la definitiva "impropriazione" del bene, il pubblico funzionario finisce per abusare del possesso impedendo alla pubblica amministrazione di poter utilizzare la cosa per il perseguimento dei suoi fini (in caso, ad es., di un uso continuato e sistematico dell'auto di servizio, per finalità pressoché esclusivamente private). Proposta interpretativa della quale si individua il fondamento sistematico proprio nella previsione dell'art. 314, comma 2, cod. pen., laddove si fa leva sul "solo scopo di fare uso momentaneo della cosa" restituendola immediatamente dopo averla usata. Da ciò ne segue la integrazione del peculato ordinario quando la cosa venga usata non momentaneamente - e quindi definitivamente - o anche momentaneamente ma senza restituirla dopo l'uso. 2.9. Ritiene questa Corte che - alla ampia valenza assunta dalla nozione di appropriazione, evidenziata dalla citata sentenza delle S.U. Vattani - consegue - in relazione alla cosa di specie - che essa non coincide necessariamente con l'alienazione del bene o la sua consumazione, essendo sufficiente a realizzare l'impropriazione l'esercizio su di essa di un potere uti dominus che non corrisponda al titolo per la quale la cosa stessa è nella disponibilità dell'agente, tale da realizzare l'espropriazione, ovvero l' uscita del bene dalla disponibilità della pubblica amministrazione che ne è titolare. In tal senso questa Sezione si è già pronunciata in un'ipotesi in cui un vigile urbano aveva ceduto in più occasioni, fuori dai suoi orari di servizio, la radiotrasmittente, utilizzabile per le comunicazioni con la centrale operativa, al titolare di un'impresa di soccorso stradale, per consentirgli di conoscere gli incidenti che avvenivano nel territorio, di recarsi tempestivamente sui luoghi e di lucrare sul recupero dei mezzi coinvolti, affermando che integra il delitto di peculato, e non quello di abuso di ufficio, la condotta del pubblico ufficiale che, comportandosi "uti dominus" rispetto alla cosa di cui abbia il possesso per ragioni di ufficio, la ceda, anche provvisoriamente, a terzi estranei all'amministrazione, perché ne facciano un uso al di fuori di ogni controllo della pubblica amministrazione (Sez. 6, n. 16381 del 21/03/2013, Apruzzese e altri, Rv. 254709). 2.10. Pertanto, deve affermarsi che - ai fini della integrazione del delitto di peculato ai sensi dell'art. 314, comma 1, cod. pen., in relazione a beni di specie appartenenti alla Pubblica amministrazione - non è necessaria la perdita definitiva del bene da parte dell'ente pubblico, essendo sufficiente l'esercizio da parte dell'agente sul medesimo bene dei poteri uti dominus, tale da sottrarre il bene stesso alla disponibilità dell'ente. Il relativo accertamento è sottratto al vaglio di legittimità se congruamente motivato, rilevando - a tal fine - la sistematica reiterazione dell'uso abusivo che l'agente faccia del medesimo bene e non essendo decisivo il conseguente consumo del carburante che - invece - va valutato ai fini della quantificazione del danno. Diversa è l'ipotesi prevista dall'art. 314, comma 2, cod. pen. la quale è caratterizzata - CONTENZIOSO NAZIONALE 117 sotto il profilo oggettivo - dall'endiadi dell'uso momentaneo e dalla immediata restituzione del bene e - sotto quello soggettivo - dal correlativo contenuto intenzionale. 2.11. Alla luce del principio di diritto enunciato, questa Corte ritiene che la fattispecie in esame è stata correttamente qualificata - sulla base di una ricostruzione in fatto priva di vizi logici e giuridici - quale peculato ex art. 314, comma 1, cod. pen. in ragione dell'avvenuta appropriazione della autovettura di servizio da parte della imputata, per il suo utilizzo quotidiano, continuativo e sistematico - in un arco temporale che va dal settembre 2012 al gennaio 2013, per ragioni estranee all'ufficio di dirigente scolastico che la predetta ricopriva. 2.12. Come, invero, si apprende dalla doppia conforme statuizione di merito l'autovettura intestata dall'Istituto (...) è risultata a completa disposizione della imputata - e dopo che questa aveva venduto a terzi la propria autovettura privata - essendo utilizzata come un veicolo personale. L'autovettura, infatti, risultava essere stata impiegata - oltre che per il quotidiano percorso casa-ufficio - sia ripetutamente per effettuare la spesa e accessi ad esercizi di vario genere, sia per recarsi per visite familiari e personali anche in città distanti, risultando financo il consentito utilizzo a terzi per finalità estranee a quelle istituzionali (in periodi di accertata assenza della ricorrente dal territorio nazionale). L'autovettura risultava, in particolare, parcheggiata - al rientro dal lavoro e nei giorni liberi e festivi - nel posto auto per il quale la ricorrente era titolare di abbonamento ed ove prima aveva parcheggiato l'auto personale poi venduta. 2.13. L'abusività di siffatto utilizzo è stata desunta dal regolamento dell'istituto scolastico che prevedeva quale assegnatario del veicolo l'ufficio tecnico, che doveva conservare le chiavi dell'autovettura e i documenti in copia prevedendosi l'esistenza di personale addetto alla conduzione del veicolo, definito come il personale assegnato espressamente alla conduzione tramite ordine di servizio, che veniva nominato dal consegnatario, con divieto di utilizzo da parte di personale non autorizzato (artt. 1 e 4 del regolamento). Lo stesso regolamento prevedeva l'utilizzo del veicolo "esclusivamente" per l'espletamento dei servizi interni ed esterni indicati, escludendone - quindi - l'uso per motivi personali ed anche il percorso casa-ufficio. Del resto - come risulta dalla prima sentenza (pg. 18 e sg.) - era ben nota la gestione privatistica della stessa autovettura da parte della ricorrente, la quale era lei ad autorizzarne l'uso ad altri dipendenti consegnando le chiavi e senza alcun rispetto di qualsiasi formalità (neanche annotazione dei viaggi e dei chilometraggi) ed alle quali ella era insofferente. Inoltre, si apprende dalla sentenza impugnata che, non solo non risulta essere stato accertato che la imputata provvedesse a sue spese ai rifornimenti di carburante per la vettura da lei utilizzata, ma - al contrario - risulta, documentalmente ed a mezzo di testimoni, che il carburante ed i pneumatici dell'autovettura erano stati pagati dall'Istituto. 3. Il secondo motivo è manifestamente infondato rispetto alla condotta appropriativa accertata che ha determinato la stabile destinazione del veicolo alle esigenze personali della ricorrente per un considerevole periodo di tempo con utilizzazione anche per viaggi di lunga percorrenza. Il peculato, in ogni caso, si consuma nel momento in cui ha luogo l'appropriazione della "res" o del danaro da parte dell'agente, la quale, anche quando non arreca, per qualsiasi motivo, danno patrimoniale alla P.A., è comunque lesiva dell'ulteriore interesse tutelato dall'art. 314 cod. pen. che si identifica nella legalità, imparzialità e buon andamento del suo operato (Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, Rv. 244190), interesse pacificamente violato con la condotta appropriativa accertata. 3.1. Quanto alla esclusione della attenuante ex 323bis c.p. è stato affermato che, in tema di delitti contro la P.A., la circostanza attenuante speciale prevista per i fatti di particolare tenuità 118 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 ricorre quando il reato, valutato nella sua globalità, presenti una gravità contenuta, dovendosi a tal fine considerare non soltanto l'entità del danno economico o del lucro conseguito, ma ogni caratteristica della condotta, dell'atteggiamento soggettivo dell'agente e dell'evento da questi determinato (Sez. 6, n. 14825 del 26/02/2014 Rv. 259501 Di Marzio e altri). Ancora, in tema di peculato, la semplice restituzione della somma sottratta al privato non comporta il riconoscimento dell'attenuante della riparazione del danno provocato dalla condotta illecita del pubblico ufficiale, poiché la fattispecie di reato, pur potendo tutelare eventualmente anche il patrimonio dei privati, si caratterizza principalmente per le finalità di tutela del patrimonio della P.A. e dell'interesse alla legalità, efficienza e imparzialità della sua attività (Sez. 6, n. 41587 del 19/06/2013 Rv. 257148 Palmieri). Cosicchè del tutto conforme all'alveo di legittimità ricordato è la esclusione della attenuante in parola in costanza dell'ineccepibile accertamento in fatto che ha fatto leva sulla stabile destinazione del veicolo alle esigenze personali della ricorrente. 4. Il terzo motivo è manifestamente infondato, quando non generico. 4.1. È stato affermato che l'errore del pubblico ufficiale circa la propria facoltà di disposizione del pubblico danaro per fini diversi da quelli istituzionali non ha alcuna efficacia scriminante, perché, per quanto la destinazione del pubblico danaro sia fissata da una norma amministrativa, tale norma deve intendersi richiamata dalla norma penale, della quale integra il contenuto. Pertanto, l'illegittimo mutamento di tale destinazione, anche se compiuto dall'agente per ignoranza sui limiti dei propri poteri, non si risolve in un errore di fatto su legge diversa da quella penale, ma costituisce errore o ignoranza sulla legge penale e, come tale, non vale ad escludere l'elemento soggettivo del reato di peculato (conformi, mass n 150097; mass n 144149; mass n 099254; mass n 112338) (Sez. 6, n. 11451 del 29/04/1987, Matera, Rv. 176973). Ancora, in tema di peculato per ritardato versamento di somme riscosse dal pubblico ufficiale per conto della Pubblica Amministrazione non può ritenersi errore scusabile, atto ad escludere il dolo, quello che investe la norma amministrativa di contabilità che impone un tempestivo versamento: ciò in quanto tale norma è integrativa di quella penale. Conseguentemente risulta irrilevante una invocata prassi in senso contrario alla suddetta disciplina (Sez. 6, n. 10020 del 03/10/1996, Pravisani ed altro, Rv. 206365). 4.2. Pertanto, del tutto corretta è la motivazione con la quale la sentenza impugnata ha escluso la asserita buona fede della imputata in presenza delle disposizioni regolamentari prima indicate e secondo le accertate modalità di utilizzo dell'autovettura. E non ha illogicamente considerato la arrogante pervicacia della condotta nonostante la conoscenza degli esposti pervenuti all'Ufficio Scolastico Regionale - al quale è stata data la inveritiera risposta dell'uso istituzionale della autovettura - anche tenendo conto della deposizione resa da omissis accusata dalla stessa ricorrente di essere "rea" di indebite propalazioni a terzi di "accadimenti scolastici" e di quella del omissis, comandato dalla preside - all'atto del pervenimento dell'esposto e durante una sua assenza - di recuperare al parcheggio la vettura per portarla presso l'Istituto. E, infine, considerando le accertate illecite modalità di tenuta del libretto di marcia, non illogicamente ritenute manifestazione della male fede della ricorrente. 5.11 quarto motivo è manifestamente infondato, quando non generico ed in fatto. 5.1. Rientrano nella nozione di atto pubblico rilevante ai fini dell'integrazione del reato di falso ideologico in atto pubblico, anche gli atti cosiddetti interni, ovvero quelli destinati ad inserirsi nel procedimento amministrativo, offrendo un contributo di conoscenza o di valutazione, nonché quelli che si collocano nel contesto di una complessa sequela procedimentale - conforme o meno allo schema tipico - ponendosi come necessario presupposto di momenti CONTENZIOSO NAZIONALE 119 procedurali successivi (Sez. 5, n. 14486 del 21/02/2011, Marini e altro, Rv. 249858; Sez. 6, n. 11425 del 20/11/2012, Serritiello, Rv. 254866); ancora, il reato di falso ideologico in atto pubblico è configurabile in relazione a qualsiasi documento che, benché non imposto dalla legge, è compilato da un pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni per documentare, sia pure nell'ambito interno dell'amministrazione di appartenenza, la regolarità degli adempimenti ai quali è obbligato ovvero circostanze di fatto cadute sotto la sua percezione diretta o, comunque, ricollegabili a tali adempimenti e si inserisce nell’"iter" procedimentale prodromico all'adozione di un atto finale (Sez. 5, n. 9368 del 19/11/2013, Budetta, Rv. 258952); in particolare, infine, in tema di falsità materiale commessa da pubblico ufficiale in atti pubblici, costituiscono atto pubblico le "note di missione", attraverso le quali viene attestato l'espletamento di missioni per ragioni di servizio, con relativa trasferta, atteso che pure in relazione ai così detti atti interni della pubblica amministrazione sussiste l'interesse giuridico alla tutela della pubblica fede, che risulta leso anche quando la falsità riguarda tale categoria di atti, comunque destinati ad assumere funzione probatoria (Sez. 5, n. 6900 del 12/12/2000, Vinanate R., Rv. 218273). 5.2. Nella specie, la sentenza impugnata, si è collocata nell'alveo di legittimità richiamato, correttamente qualificando quale atto pubblico il libretto di marcia in questione destinato a contenere le attestazioni di colui che utilizzava la vettura pubblica circa le circostanze dell'utilizzo, sul rilievo della violazione delle disposizioni del regolamento d'Istituto nella tenuta del libretto di marcia, del quale era prevista e disciplinata la tenuta, ha richiamato il contenuto della prima sentenza in ordine alle falsità (v. sentenza di primo grado, pg. 14 e ss.), anche sotto il profilo dell'omissione delle doverose attestazioni ed ha concluso per la tenuta del predetto libretto - da parte della imputata che personalmente vi provvedeva al di fuori di ogni previsione - in modo tale da rendere impossibile una ricostruzione delle reali modalità di utilizzo del veicolo e del suo uso per fini privati ed estranei alle finalità consentite. 5.3. Risulta, così, del tutto generica la dedotta disponibilità della imputata alla tenuta del libretto rispetto alla specifica attribuzione dell'Ufficio tecnico; come pure la asserita negligenza nella sua tenuta, rispetto a quella che - secondo la sentenza ineccepibilmente motivata sul punto - risultava funzionale alla illecita appropriazione della vettura. Infine, generica è la dedotta concreta inincidenza delle annotazioni sul libretto di marcia ai fini della ricostruzione delle spese di gestione del veicolo, posto che - nell'illecito contesto analizzato connotato dalla assenza di rispetto delle più elementari regole - nessuna rilevante correlazione economicofunzionale al riguardo risulta essere utilizzata. 6. Al rigetto del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così decisio in Roma, 10.3.2016. 120 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 Sospensione del processo ed individuazione del termine di decorrenza dell'atto di riassunzione rispetto ad una parte non presente nel giudizio pregiudiziale NOTA A CORTE D’APPELLO DI NAPOLI, SEZ. I CIV., SENTENZA 23 GIUGNO 2016 N. 2533 Giuseppe Arpaia* Qualora un processo venga sospeso per l’esistenza di un giudizio pregiudiziale e nel giudizio oggetto di sospensione sia presente anche una parte estranea a quello pregiudiziale (nella specie il M.E.F.), al fine della decorrenza del termine per la riassunzione del giudizio sospeso é necessario che la parte estranea abbia legale conoscenza della cessazione della causa di sospensione (vale a dire del passaggio in giudicato della sentenza pregiudiziale) attraverso notificazione, comunicazione o dichiarazione della causa di cessazione della sospensione, non avendo alcun onere di attivarsi per accertarsi se il giudizio pregiudiziale si sia concluso, mentre spetta alla controparte che eccepisca l’estinzione del procedimento provare che la parte che ha proceduto alla riassunzione abbia avuto legale conoscenza del passaggio in giudicato della sentenza pregiudicante più di sei mesi prima (termine vigente ratione temporis) del deposito della istanza di prosecuzione. È insufficiente ai fini della legale conoscenza dell’esito del giudizio pregiudiziale la conoscenza di fatto di quest’ultimo acquisita attraverso il deposito delle sentenze pregiudiziali in questione da parte dell'Avvocatura di Stato costituita in un distinto giudizio per il M.E.F. in causa con la stessa controparte. La sentenza della Corte di Appello di Napoli, che si commenta, ha parzialmente accolto l’impugnazione proposta dall'Avvocatura di Stato avverso la sentenza n. 453/15 del 5 febbraio 2015 resa dal Tribunale di S. Maria C.V., in composizione collegiale, che aveva rigettato il reclamo proposto dalla Agenzia delle Entrate e dal Ministero dell'Economia e delle Finanze avverso la ordinanza di estinzione adottata dal giudice istruttore il 14 luglio 2014 nell'ambito del procedimento incidentale di accertamento dell'estinzione del giudizio di opposizione allo stato passivo promosso dalle due predette Amministrazioni nei confronti del Fallimento Serit SpA. Il Tribunale aveva confermato la predetta ordinanza, ritenendo che sia l'Agenzia delle Entrate sia il Ministero dell'Economia e delle Finanze avevano omesso di riassumere il processo di opposizione allo stato passivo nel termine di sei mesi, prescritto dall'art. 297 cpc previgente decorrente dalla conoscenza della definizione dei giudizi pregiudiziali, già pendenti innanzi alla Corte dei Conti sezione centrale di appello: in particolare, l'Agenzia delle Entrate aveva avuto conoscenza del passaggio in giudicato delle relative sentenze, essendo parte in causa dei giudizi pregiudiziali; inoltre, il M.E.F., nonché la stessa Agenzia in ogni caso avevano avuto sicura conoscenza della definizione delle (*) Avvocato dello Stato in Napoli. CONTENZIOSO NAZIONALE 121 cause pregiudiziali allorché depositarono in un altro distinto giudizio, pendente innanzi al TAR Campania nei confronti dello stesso Fallimento Serit, le due sentenze pregiudiziali, per cui il predetto termine semestrale per la riassunzione doveva ritenersi in ogni caso cominciato a decorrere dalla data di tale deposito, avvenuto il 19 ottobre 2012. La dichiarazione di estinzione trovava causa nel ricorso in prosecuzione proposto dal Fallimento Serit al solo fine di far dichiarare l'estinzione del giudizio, notificato all'Agenzia delle Entrate ed al M.E.F., a cui aveva fatto seguito, insieme con la contestuale comparsa di risposta, la riassunzione del giudizio di opposizione allo stato passivo da parte delle due Amministrazioni, con la quale avevano rappresentato che nessun termine era utilmente decorso fino a quando la Curatela aveva precisato con il predetto ricorso quali e quanti fossero i giudizi pregiudiziali e le conseguenti relative sentenze. La Corte Territoriale ha rigettato l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate, ritenendo che quest’ultima aveva avuto legale conoscenza dei due giudizi pregiudicanti pendenti innanzi alla Corte dei Conti sezione Centrale di Appello, che avevano determinato la sospensione del giudizio di opposizione allo stato passivo, sia attraverso la notificazione dei due ricorsi in appello, sia attraverso il deposito delle due relative sentenze, che la stessa Agenzia, nella sua articolazione territoriale di Caserta, aveva poi provveduto a notificare alla Curatela del Fallimento Serit ai fini esecutivi, trattandosi di pronunzie sfavorevoli a quest'ultima: di qui la conferma della sentenza impugnata, che aveva dichiarato l’estinzione ex art. 308, 2^ co., c.p.c. del processo ex art. 98 l.f. promosso dalla Agenzia delle Entrate. Diversa, invece, in punto di diritto, era la situazione del Ministero dell'Economia e delle Finanze, in quanto non era stato parte nei due giudizi di appello pregiudiziali pendenti innanzi alla Corte dei Conti sezione centrale di appello, per cui era necessario affinché potesse decorrere il termine di sei mesi dalla conoscenza della cessazione dei giudizi pregiudicanti, per la tempestiva riassunzione del giudizio di opposizione ex art. 98 l.f., che il predetto Ministero avesse conoscenza “legale” della cessazione della causa di sospensione, vale a dire del passaggio in giudicato delle due sentenze pregiudicanti. Come é noto, la Corte Costituzionale con sentenza n. 34/1970 dichiarò l’illegittimità costituzionale dell'art. 297, co. 1, c.p.c., nella parte in cui disponeva la decorrenza del termine utile per la richiesta di fissazione della nuova udienza dalla cessazione della causa di sospensione, anziché dalla conoscenza che ne abbiano le parti del processo sospeso, sostituendo ad un fatto oggettivo, quale é la verificazione dell'evento, un fatto soggettivo, costituito dalla conoscenza dell'evento stesso, senza, tuttavia, precisare le modalità secondo le quali tale conoscenza debba attuarsi. Nella presente fattispecie la Corte di Appello da un lato ha ritenuto che la conoscenza dei giudizi pregiudicanti per l'Agenzia delle Entrate sia avve- 122 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 nuto in quanto pacificamente parte di entrambi i giudizi pregiudiziali, dall'altro non ha condiviso la impugnata statuizione del Tribunale di S. Maria C.V., secondo la quale la conoscenza delle due predette sentenze era avvenuto anche per il M.E.F. allorché quest'ultimo aveva depositato - tramite l'Avvocatura di Stato - copia delle due pronunzie in parola in altro distinto giudizio pendente innanzi al TAR Campania tra le stesse parti del giudizio di opposizione allo stato passivo, nonché con Banca Intesasanpaolo SpA ed Equitalia SpA. Secondo il Tribunale la data del deposito delle due sentenze costituiva notizia certa della definizione dei giudizi pregiudiziali e quindi anche di decorrenza del termine per la riassunzione del giudizio di opposizione allo stato passivo, che non essendo intervenuta nei sei mesi successivi doveva considerarsi estinto. La Corte ha ritenuto insufficiente tale conoscenza di fatto acquisita delle due sentenze, ritenendo necessaria per la parte estranea al giudizio pregiudiziale la conoscenza legale della causa di cessazione della sospensione, vale a dire del passaggio in giudicato della sentenza pregiudiziale attuata "mediante dichiarazione, notificazione o certificazione", non essendo sufficiente la conoscenza aliunde acquisita (cfr. in tal senso anche Cass. 23 luglio 2012 n. 12790; Cass. 4 maggio 2010, n. 10714; Cass., 11 febbraio 2010 n. 3085; Cass. 8 ottobre 2008, n. 24857; Cass. Lav. 12 giugno 2008 n. 15785). La Corte di Appello ha affermato che "l'evento della cessazione della causa di sospensione può essere conosciuto legalmente nei modi in cui nella disciplina del processo la sua conoscenza é realizzabile". In altre parole, la conoscenza dell’evento idonea a far decorrere il termine per la prosecuzione di un processo sospeso é quella che si consegue mediante atti processuali, vale a dire mediante dichiarazione in udienza alla presenza del procuratore della parte interessata alla riassunzione/prosecuzione del giudizio (cfr. Cass. 8 marzo 2007, n. 5348), notificazione a mezzo di ufficiale giudiziario o certificazione ufficiale dell’evento (cfr. Cass. 16 marzo 2006, n. 5816). Alla luce di tali pronunce, é stata ritenuta infondata la tesi del Fallimento, secondo cui nel caso in cui la parte del processo sospeso non sia anche parte del processo pregiudicante la comunicazione della cessazione della causa di sospensione era superata dalla prova che la parte aveva avuto aliunde conoscenza della predetta cessazione. La giurisprudenza più recente, richiamata dalla Corte Partenopea, ha affermato esattamente il contrario, asserendo che la conoscenza legale richiesta nei casi quale quello ad esame, per la parte estranea alla causa pregiudiziale, deve essere intesa come un quid pluris rispetto a quella di fatto aliunde acquisita (cfr. Cass. Civ., sez. Lav., sent. 5650 del 7 marzo 2013 ove si afferma che la conoscenza deve essere “legale” “nel senso sopra chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte; deve cioè essere acquisita non in via di mero fatto ma per il tramite di una dichiarazione, notificazione o certificazione rappresentativa dell'evento che determina l'interruzione del processo, assistita da fede privilegiata” ). CONTENZIOSO NAZIONALE 123 Di conseguenza, non avendo adempiuto il Fallimento all'onere della prova della conoscenza legale da parte del M.E.F. del passaggio in giudicato delle sentenze pregiudicanti più di sei mesi prima del deposito del ricorso in prosecuzione da esso proposto al solo scopo di far dichiarare l'estinzione del giudizio di opposizione allo stato passivo, nella fattispecie l’atto idoneo a determinare per il M.E.F. la conoscenza legale della cessazione della sospensione si è attuato con la notificazione del predetto ricorso in prosecuzione. Corte di Appello di Napoli - Prima Sezione Civile, sentenza 23 giugno 2016 n. 2533 - Pres. M. Cultrera, Cons. rel. M. Lopiano - Agenzia delle Entrate -Ufficio di Caserta e Ministero dell'Economia e delle Finanze (avv. Stato G. Arpaia) c. Fallimento Serit S.p.A. (avv. prof. A. Di Amato). MOTIVI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE 1.1- Preliminarmente si rappresenta in fatto e in diritto che: - con ricorso 5 gennaio 2006 Agenzia delle Entrate - Ufficio di Caserta e Ministero delle Finanze e Tesoro ora Ministero dell'Economia e Finanze, hanno proposto opposizione ai sensi dell'art. 98 1. fall. avverso il provvedimento in data 17 dicembre 2004 (corretto del 25 gennaio 2005) con cui il g.d. al Fallimento Serit s.p.a. ha dichiarato l’esecutività dello stato passivo rigettando n. 48 domande di insinuazione al passivo avanzate da Agenzia delle Entrate a titolo di "domande di discarico per quote erariali inesigibili" presentate dalla Serit e rigettate (domande specificamente indicate nel ricorso) ed omettendo di provvedere sulla domanda (n. 174) depositata il 19 febbraio 1999 dal Ministero delle Finanze e del Tesoro, avente ad oggctto l’ammissione al passivo per crediti erariali imposte dirette conto residui a tutto il 28 dicembre 1998; - il Fallimento Serit, costituito in giudizio, dopo aver rilevato che il g.d. ha pronunciato su tutte le domande presentate da controparte e, specificatamente, anche su quelle contrassegnate dai nn. 174 (domanda del Ministero del Tesoro), 292 e 293 (domande Agenzia delle Entrate), ha chiesto disporsi la sospensione ex art. 295 c.p.c. del giudizio come dianzi introdotto deducendo che «in relazione alle domande di discarico per inesigibilità cui le domande di ammissione al passivo si riferiscono è tutt’ora pendente dinanzi alla Corte dei Conti, sez. centrale appello, il procedimento volto al riconoscimento, a favore della Serit, del diritto al discarico in relazione alle predette domande. L’udienza di discussione relativa al predetto procedimento è fissata per il 16 gennaio 2007 (all. 3)»; - con ordinanza 10 novembre 2006, il g.u. ha disposto “la sospensione del presente giudizio fino alla definizione del giudizio pendente innanzi alla Corte dei Conti ed al passaggio in giudicato della relativa sentenza” ciò dopo aver “rilevato che in relazione alle domande di discarico per quote erariali inesigibili cui si riferiscono le domande di ammissione al passivo proposte dall'attuale opponente e rigettate dal GD, è pendente dinanzi alla Corte dei Conti, sez. centrale di appello, giudizio volto al riconoscimento in favore di Serit del diritto al discarico in relazione alle predette domande" e ritenuto che tale accertamento riveste carattere pregiudiziale in senso logico-giuridico, rispetto alle domande di ammissione al passivo dei crediti avanzate dall’opponente fondate sul rigetto delle domande di discarico per quote erariali inesigibili avanzate dalla Serit, rigetto impugnato dinanzi alla Corte dei Conti; 124 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 - con ricorso ex art. 297 c.p.c. il Fall. Serit ha promosso la riassunzione del processo al fine di ottenere la dichiarazione di estinzione del giudizio atteso che il Ministero dell'Economia e delle Finanze e l'Agenzia delle Entrate, pur avendo contezza che la Corte dei Conti - sezione centrale di appello, con sentenze n. 46 e n. 47 del 2007 aveva definito i processi pregiudiziali, avevano omesso di riassumere nel termine prescritto il giudizio di cognizione ex art. 98 l. fall. sospeso; - con comparsa 24 settembre 2013 Ministero e Agenzia delle entrate hanno resistito all’averso ricorso e proposto contestuale istanza di riassunzione; - con ordinanza 14 luglio 2014 il giudice monocratico in funzione di istruttore ha dichiarato l’estinzione del processo ex art. 98 l. fall. e ordinato la cancellazione della causa dal ruolo argomentando: - che Agenzia delle Entrate e Ministero in data 20 novembre 2006 hanno avuto legale conoscenza dell'ordinanza con la quale è stata disposta la sospensione (giusta risultanze della relata di notifica in atti); - l’infondatezza della difesa della Agenzia delle Entrate (secondo la Serit nel verbale di udienza e il G.I. nell’ordinanza di sospensione hanno fornito un'indicazione generica dei processi pendenti dinanzi alla Corte dei Conti quali giudizi pregiudizievoli rispetto al processo n. 46/2006) dal momento che dalle difese del Fallimento Serit e, in particoalre, dagli atti dalla stessa prodotti (all. 3) e che parte opponente, assistita dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato, organo di difesa tecnico di elevata specializzazione, poteva visionare, risulta in modo evidente che il processo pendente dinanzi alla Corte dei Conti sezione centrale era quello iscritto al n. 21615/06 avente ad oggetto l’impugnativa avverso la sentenza 889/03 e quello iscritto al n. 21617/06 avente ad oggetto l'impugnativa avverso la sentenza n. 890/03; - che la curatela aveva dimostrato la qualità di parte dei processi suindicati (n. 21615/06 e 21617/06) in capo all'Agenzia delle Entrate (cui erano stati notificati entrambi gli atti di appello intoduttivi dei suddetti processi, ed a cui deve pertanto ritenersi sia stata data notizia del deposito delle sentenze che detti giudizi pregiudiziali hanno definito), che aveva altresì proceduto alla notifica delle suddette sentenze nei confronti del Fallimento Serit); - che il Ministero delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate hanno avuto sicuramente notizia in data 10 ottobre 2012 del passaggio in giudicato delle sentenze n. 46 e n. 47 in data 13 marzo 2007 e 11 maggio 2007 della Sezione Centrale della Corte dei Conti, avendo fatto espresso riferimento ai medesimi provvedimenti nella memoria dalle stesse depositata il 19 ottobre 2012 nel processo CT 12963/2004 dinanzi al TAR Campania vertente tra le medesime parti e il Fall. Serit; - che la mancata riassunzione del giudizio ex art. 98 l. fall. sospeso nel termine di sei mesi (prescritto dall'art. 297 c.p.c. previgente) decorrente dalla data suddetta (19 ottobre 2012) impone la dichairazione di estinzione; - con sentenza n. 435/2015 del 5 febbraio 2015, il Tribunale di Santa Maria C.V., adito in sede di reclamo, ha dichairato l’estinzione del processo e ordinato la cancellazione della causa dal ruolo, condannando i reclamenti al pagamento delle spese processuali in favore della curatela. 1.2 - Avverso la predetta sentenza, con atto notificato il 18 marzo 2015 al Fallimento Serit s.p.a., hanno proposto appello, per i motivi di seguito specificati, MEF e Agenzia delle Entrate chiedendo alla Corte di annullare la sentenza n. 453/15 dichiarativa della estinzione del processo di opposizione allo stato passivo e per l’effetto rimettere la causa dinanzi allo stesso Tribunale per il prosieguo ai sensi dell’art. 354, secondo comma, c.p.c. con ogni conseguente statuizione in ordine alle spese processuali del doppio grado di giudizio. 1.3- Iscritta la causa (erroneamente) al ruolo generale delle cause civili contenziose (in luogo che al ruolo generale della v.g.), con comparsa depositata all’udienza del 28 ottobre 2015 si è costituito il Fallimento Serit s.p.a., che ha chiesto il rigetto dell’impugnazione poichè infondata, con vittoria di spese e compensi del doppio grado. CONTENZIOSO NAZIONALE 125 1.4- All’udienza del 2 febbraio 2015, sulle conclusioni in epigrafe trascritte, la causa è stata dal collegio riservata per la decisione previa assegnazione di termini ridotti (giorni trenta per il deposito delle comparse conclusionali e giorni venti per le memorie di replica) ex art. 190 c.p.c. 2.1- Con il primo motivo le appellanti censurano la sentenza del Tribunale nella parte in cui, pur in presenza di un esplicito riferimento ad un unico giudizio pregiudicante effettuato dalla curatela sia nel verbale di udienza di prima comparizione che nella comparsa di costituzione, unicità poi assunta ad oggetto della successiva ordinanza di sospensione del giudizio, ha ritenuto di superare tale atto testuale affermando che "dalle difese della curatela del fallimento Serit e, in particolare, dagli atti dalla stessa prodotti nel giudizio di opposizone allo stato passivo (cfr. all. 3) risulta in modo evidente che nel processo pendente dinanzi alla Corte dei Conti sezione centrale era quello iscritto al n. 21615/06, avente ad oggetto l'impugnativa avverso la sentenza n. 889/03 ..... e quello iscritto al n. 889/03 ... e quello iscritto al n. 21617/06 avente ad oggetto l’impugnativa avverso la sentenza n. 890/03 emessa ... I reclamanti, assistiti dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato e, quindi, da un organo di difesa tecnico con elevata specializzazione, potevano visionare detti atti e ricollegare ai giudizi ivi indicati quello menzionato dalla curatelela del fallimento Serit nel verbale di udienza e dal giudice nell’ordinanza che disponeva la sospensione del processo. La curatela del fallimento ha dimostrato, inoltre, che l’Agenzia delle Entrate, rappresentata dalla direzione regionale Campania, era parte dei processi n. 21615/06 e 21617/06 pendenti dinanzi alla Corte dei Conti sezione centrale. Infatti, l'atto di appello del processo n. 21615/06 e quello relativo al processo n. 21617/06 sono stati notificati rispettivamnte in data 5 ottobre 2004 e 6 ottobre 2004 all'Agenzia Direzione Regionale della Campania presso Avvocatura Distrettuale dello Stato, via Diaz n. 11, Napoli, quindi si deve che l'Agenzia delle Entrate rappresentata dall'ufficio territoriale - direzione Regionale Campania, ha necessarimante avuto notizia, in qualità di parte dei giudizi indicati, del depostio e del conseguente passaggio in giudicato della sentenza n. 46 e 47, depositata il 12 marzo 2007 e l’11 maggio 2007, con le quali la Corte dei Conti sezione centrale ha definito i processi pregiudiziali rispetto a quello in esame. Si deve rimarcare, peraltro, che la stessa Agenzia, nella sua articolazione territoralie di Caserta ha proceduto alla notfìca dei suddetti provvedimenti giurisdizionali alla curatela del fallimento Serit s.p.a. come emerge dagli atti depositati in giudizio dallo stesso ufficio fallimentare”. Rilevano al riguardo gli appellanti: - che il riferimento a due giudizi di appello aventi carattere pregiudiziale non trova scontro né nel verbale di udienza di prima comparizione del 24 ottobre 2006, né nella comparsa di costituzione dalla curatela deposita in pari data, né nella stessa ordinanza di sospensione; - che, in contrasto con l'assunto del Tribunale, è solo alla ordinanza di sospensione che occorre fare riferimento per la identificazione del giudizio presupposto al fine di determinare il dies a quo della cessazionoe della causa di sospensione; - che la pacifica indicazione nel verbale di udienza e negli scritti difensivi della curatela di un solo giudizio anziché di due (riconosciuta anche dalla stessa curatela nella memoria difensiva depositata il 19 agosto 2014 nel giudizio di recalmo) spiega come sia caduto in errore anche il g.d. laddove, nel sospendere il giudizio, ha fatto riferimento ad un unico giudizio senza indicare il numero di ruolo generale o altro elemento identificativo, evidentemente ritenendo che il giudizio di appello in questione fosse unico; - che la genericità della indicazione contenuta nella ordinanza di sospensione fa sì che nessun termine possa decorrere fino a quando la Curatela non ha ritenuto, con il ricorso in prosecuzione, di precisare quali e quanti fossero i giudizi pregiudicanti a cui ha fatto seguito la riassunzione del giudizio di opposizione allo stato passivo da parte degli odierni appellanti; 126 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 - che la conoscenza dei due giudizi di appello pregiudicanti rispetto a quello di opposizione allo stato passivo sospeso non può invero desumersi dalla mera notificazione dei due ricorsi in appello prsso l’Avvocatura dello Stato di Napoli (la cui trattazione fu svolta dalla competente Avvocatura Generale dello Stato) né dalla notificazione delle due sentenze della Corte dei Conti sezione centrale di appello alla curatela da parte dell'Ufficio di Caserta dell'Agenzia delle Entrate effettauata ai soli fini esecutivi, trattandosi di sentenze favorevoli all'Amministrazione; - che, inoltre, come dedotto nell'atto di reclamo e tuttavia non tenuto in conto in sentenza appellata, alla data di emanazione dell’ordinanza di sospensione esisteva un ampio contenzioso tra l’Agenzia delle Entrate e la Curatela pendente innazi alla Corte dei Conti sezione appello avente il medesimo oggetto, sì che, ai fini della conoscenza della cessazione della causa di sospensione del giudizio, sovviene il princio affermato dalla Suprema Corte con ordinanza 17 febbraio 2014 n. 3701 depositata il 21 gennaio 2015, secondo cui in caso di pluralità di cause potenzialmente pregiudiziali, la mancata identificazione del giudizio mediante indicazione di R.G. od altri elementi identificativi (situazione in concreto verificatasi nella fattispecie) fa sì che la pregiudizailità indicata nella ordinana di sospensione debba intendersi in senso logico riferita a tutti i procedimenti aventi il medesimo oggetto o logicamente connessi, pendenti alla data di emanazione della sospensione: nella fattispecie la curatela, su cui pacificamente incombeva il relativo onere, con il ricorso in prosecuzione non ha fornito la prova (attraverso la produzione di idonea certificazione della Corte dei Conti da cui evincere da parte dell'Agenzia di tutte le sentenze di appello relative al contenzioso de quo) della conoscenza da parte dell'Agenzia delle Entrate della cessazione della causa di sospensione per tutti i giudizi di appello aventi ad oggetto il riconoscimento del diritto di discarico della Serit. 2.2 - L'appello, per il profilo considerato, è infondato. Come già sostenuto dal giudice unico un funzione di g.i. nell’ordinanza che ha dichiarato l'estinzione del giudizio e successivamente ribadito dal Tribunale di S. Maria C.V. in sede di reclamo, il contenuto dell’ordinanza che ha sospeso il giudizio di opposizione allo stato passivo e, specificatamente, l’individuazione in detta ordinanza del “giudizio di appello”, pendente dinanzi alla Corte dei Conti sezione centrale, pregiudiziale rispetto alla definizione del giudizio ex art. 98 l. fall. sospeso, va individuato, per relationem, nel contenuto della comparsa di costituzione nel medismo giudizio ex art. 98 l. fall. dal fallimento Serit depositata all’udienza di prima comparizione del 23 ottobre 2006: detta comparsa contiene la richiesta di sospensione del giudizio di cognizione ex art. art. 98 l.f. sulla base della rappresentazione del rapporto di pregiudizialità rispetto al predetto giudizio (pregiudicato) del “giudizio contabile” pendente tra il medesimo fallimento e l’Agenzia delle Entrate e pregiudicante, in quanto avente ad oggetto domande di discarico per inesigibilità presentate dalla Serit i cui importi costituivano oggetto della pretesa creditoria azionata dall'Agenzia delle Entrate nel fallimento Serit. Ebbene, come già evidenziato, nella suddetta comparsa il fallimento Serit deduce che «in relazione alle domande di discarico per insesigibilità cui le domande di ammissione al passivo si riferiscono è tutt’ora pendente dinanzi alla Corte dei Conti, sez. centrale appello, il procediinenlo volto al riconoscimento, a favore della Serit, del diritto al discarico in relazione alle predette domande. L'udienza di discussione relativa al predetto procedimento è fissata per il 16 gennaio 2007 (all. 3)» mentre l'allegato 3 richiamato costituente parte integrante della comparsa, è costituito da due ricorsi in appello, rispettivamente avverso la sentenza n. 889/03 e la sentenza n. 890/03 emesse dalla Sezione Giurisdizionale per la Regione Campania, proposti dal Fallimento Serit alla Corte dei Conti, regolamente notificati, e dai correlati due Decreti del Presidente della Corte dei Conti Sezione Giurisdizionale Centrale, entrambi in data 19 aprile CONTENZIOSO NAZIONALE 127 2006, di fissazione al 16 gennaio 2007 dell'udienza di discussione di ciascuno dei due appelli. Nessun dubbio è allora ragionevolemnte prospettabile in ordine alla specifica individuazione, nell'ordinanza di sospensione (integrata per relationem dal contenuto della istanza di sospensione ex art. 295 c.c. avanzata e argomentata dal Fallimento Serit nella comparsa di costituzione su cui l’ordinanza provvede) dei giudizi contabili (puntualmente identificati) effettivamnete pregiudiziali rispetto alle domande di ammissione allo stato passivo avanzate dalle Amministrazioni statali e ciò tanto più tenendo conto che i suddetti giudizi, come dedotto dal Fallimento Serit e confermato nella ordinanza di sospensione, avevano ad oggetto le medesime domande di discarico per inesigibi1ità (specificamente individuate sia nei ricorsi del Fallimento Serit dinanzi alla giurisdizione contabile sia nella ammissione al passivo del suddetto fallimento dell'Agenzia delle Entrate) i cui importi costituivano oggetto delle pretese creditorie fatte valere nel giudizio di opposizione allo stato passivo sospeso. Di qui la piena conoscenza, in capo alle amministrazioni statali, sin dalla costituzione in giudizio della curatela e quindi a maggior ragione dalla notifica della ordinanza di sospensione, degli specifici giudizi pregiudiziali posti a fondamento della disposta sospensione del giudizio ex art. 98 l.f., giudizi pregiudiziali di cui del resto l'Agenzia delle Entrate è stata parte e, in quanto tale destinataria della notifica di entrambi i ricorsi in appello proposti dalla curatela (per quanto detto allegati sub n. 3 alla comparsa di costituzione del fallimento Serit nel giudizio sospeso) nonché, conseguentemente, della comunicazione del deposito delle sentenze n. 46 del 13 marzo 2007 e n. 47 dell'11 maggio 2007 che detti giudizi hanno definito (sentenze che, ancora, la stessa Agenzia, nella sua articolazione territoriale di Caserta, ha provveduto a notificare alla curatela del fallimento a fini esecutivi). Di qui anche la irrilevanza (ai fini che interessano) della dedotta contestuale pendenza tra le medesime parti di molteplici altri giudizi di appello dinanzi alla Corte dei Conti sezione centrale, aventi il medesimo oggetto: trattasi, invero di domande di discarico differenti da quelle oggetto sia dei due giudizi pregiudicanti dinanzi alla Corte dei Conti come dianzi individuati sia della istanza di ammissione al passivo presentata dall'Agenzia delle Entrate. Di qui altresì la inconferenza del principio espresso dalla Suprema Corte ed evocato dalle appellanti con riferimento all’ipotesi (non ricorrente nel caso di specie) di pluralità di cause potenzialmente pregiudiziali e di mancata specifica identificazione del giudizio effettivamente pregiudiziale. 3.1- Con il secondo motivo di impugnazione le amministrazioni finaziarie censurano la sentenza del Tribunale nella parte in cui ha desunto la legale conoscenza della cessazione della causa di sospensione in capo ad entrambi gli enti dal mero deposito in data 19 ottobre 2012, da parte dell'Avvocatura dello Stato, in altro giudizio pendente dinanzi al TAR Campania tra le medesime parti, la Banca Intesa San Paolo ed Equitalia Sud s.p.a., di note contenenti un espresso riferimento alle due sentenze (n. 46 e n. 47 del 2007) che hanno definito i due giudizi pregiudiziali. Rilevano in contrario le appellanti: - che tale circostanza è stata dedotta dalla curatela soltanto nelle note autorizzate depositate il 16 gennaio 2014 e, dunque, tardivamente rispetto al ricorso in prosecuzione notificato il 5 settembre 2013; - che il deposito da parte dell'Avvocatura, quale difensore dell'Agenzia delle Entrate e del Mef, di tali due sentenze insieme a molteplici altre in un altro giudizio, non può costituire legale conoscenza della cessazione della causa di sospensione nei confronti dei due predetti Enti; - che in ogni caso, per il Mef, parte estranea alle cause pregiudiziali, vale il principio di stretta conoscenza legale della cessazione della causa di sospensione in forza del quale per la parte estranea alla causa pregiudiziale ha la conoscenza legale avviene soltanto mediante notifica- 128 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 zione, comunicazione o dichiarazione di cessazione della casua di sospensione (cfr. Cass. 2 dicembre 2010 n. 24533, Cass. 19 luglio 1995 n. 7865). 3.2- L'appello per il profilo in esame è fondato nei soli confronti del Mef. In primo luogo va esclusa la fondatezza dell'eccezione di tardività della allegazione da parte del fallimento, nelle note del 14 gennaio 2014, della circostanza relativa al deposito da parte delle amministrazioni statali, in altro giudizio pendente tra le stesse parti dinanzi al TAR, di note recanti il riferimento alle due sentenze che hanno definito i processi pregiudizaili, risultando la suddetta allegazione avvenuta nell’ambito del procediemnto incidentale di estinzione e nel termine per note concesso dal giudice ed utilizzato da entrambe le parti. Del pari va esclusa la fondatezza del gravame, come dianzi argomentato, nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, posto che quest’ultima, in quanto pacificamente parte di entrambi i giudizi pregiudiziali, certamente (come in precedenza già evidenziato) ha avuto conoscenza legale delle sentenze che detti giudizi hanno definito. A differenti conclusioni deve, invece, pervenirsi nei confronti del Ministero delle Finanze che, come accertato dal g.u. con ordinanza 14 luglio 2014, legittimamente ha propsoto (unitamente all'Agenzia delle Entrate) opposizione ex art. 98 l.f. in relazione alla domanda di ammissione al passivo dallo stesso presentata e che, pacificamente, non è sstato parte dei due processi pregiudicanti. Ebbene, secondo la giurisprudenza più recente, richiamata dagli appellanti e da questa Corte condivisa, affinché nei confronti della parte rimasta estranea al giudizio pregiudicante decorra il termine di sei mesi dalla conoscenza della cessazione del medesimo giudizio sospeso è necessario che detta parte abbia conoscenza “legale” della cessazione della causa di sospensione, ottenuta attraverso la notificazione, comunicazione o dichiarazione della causa di cessazione di sospensione (cfr. Cass. 2 dicembre 2010 n. 24553 e Cass. 3 ottobre 2008 n. 24599, le quali hanno tutte precisato che il termine semestrale per la riassunzione del processo sospeso decorre, per la parte estranea alla causa pregiudiziale, dalla data in cui la stessa abbia avuto conoscenza legale, mediante comunicazione, notificazione o dichiarazione, della cessazione della causa di sospensione, mentre spetta alla controparte che eccepisca 1'estinzione del procedimento provare che la conoscenza sia stata acquisita dal riassumente nel semestre precedente la presentazione dell'istanza per la fissazione dell'udienza di prosecuzione). Con la sentenza 23 luglio 2012 n. 12790, la S.C. ha altresì precisto che nel caso di sospensione del processo per pregiudizialità, la parte del processo pregiudicato, quando non sia parte anche di quello pregiudicante, non ha alcun onere di attivarsi per accertarsi se quest'ultimo si sia concluso, per cui incombe su chi intende eccepire la tardiva riassunzione del processo, per inutile decorso del termine di sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza pregiudicante (oggi ridotto a tre mesi dall'art. 46, comma 2, L. 18 giugno 2009 n. 69), l'onere di provare (come si legge in motivazione) che la parte la quale ha proceduto alla riassunzione avesse avuto conoscenza legale del passaggio in giudicato della sentenza pregiudicante più di sei mesi prima del deposito dell'istanza di prosecuzione, precisando, in sostanza, che l’evento della cessazione della causa di sospensione può essere conosciuto legalemente nei modi in cui nella disciplina del processo la sua conoscenza è realizzabile. Ebbene, di siffatta conoscenza legale in capo al MEF della cessazione della causa di sospensione (ossia del passaggio in giudicato delle sentenze che hanno definito i due giudizi pregiudicanti) non vi è nessuna traccia negli atti di causa, mentre risulta allo scopo insufficiente la conoscenza di fatto comunque acquisita, dalla curatela allegata in ragione del deposito delle due sentenze in esame eseguito dall’Avvocatura, costituita anche per il MEF, in un distinto giudizio tra le stesse parti dinanzi al TAR. CONTENZIOSO NAZIONALE 129 L’appello avverso la sentenza del Tribunale di S. Maria C.V. che ha dichiarato l'estinzione per tardiva riassunzione del processo ex art. 98 l. fall. sospeso, va quindi accolto poiché fondato, nei confronti del solo Ministero delle Finanze, con conseguente rimessione della predetta amministrazione e della curatela dinanzi al Tribunale di Santa Maria C.V. per la prosecuzione del giudizio ex art. 98 1. fall. 4. Avuto riguardo all'esito complessivo del giudizio, che ha visto sia le amministrazioni appellanti sia la curatela del Fallimento Serit s.p.a. parzialmente soccombenti, ricorrono giusti motivi per dichiarare le spese del doppio grado interamente compensate tra le predette parti P.Q.M. La Corte, definitivamente pronunciando sull'appello avverso la sentenza n. 453/2015, pronunciata dal Tribunale di S. Maria C.V. il 5 febbraio 2015, proposto da Agenzia delle Entrate- Ufficio di Caserta e da Ministero dell'Economia e delle Finanze, in persona dei rispettivi legali rappresentanti p.t., con atto notificato il 18 marzo 2015 nei confronti di Fallimento Serit s.p.a. in persona del curatore p.t., ogni ulteriore istanza disattesa, così provvede: 1) rigetta l’appello proposto dall'Agenzia delle Entrate e, per l'effetto conferma la sentenza impugnata che ha dichiarato l'estinzione ex art. 308, secondo comma, c.p.c., del processo ex art. 98 l.f. promosso dalla suddetta Agenzia; 2) accoglie l'appello proposto dal Ministero delle Finanze in persona del Ministro p.t. e per l'effetto, in riforma della impugnata sentenza, rimette lo stesso Ministero e il Fallimento Serit s.p.a. dinanzi al Tribunale di S. Maria C.V. per la prosecuzione del giudizio ex art. 98 l. fall.; 3) dichiara le spese del doppio grado del presente giudizio interamente compensate tra le parti costituite. Così deciso in Napoli nella camera di consiglio del 20 aprile 2016. 130 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 L’estensione della tutela di rifugiato per una caratteristica fondamentale dell’identità NOTA A TRIBUNALE PALERMO, SEZ. I CIVILE,ORDINANZA 11 APRILE 2016 Stefano Pizzorno* L'omosessualità costituisce motivo di accoglimento della domanda diretta ad ottenere lo stato di rifugiato sin da Cassazione 16417/2007. Con questa pronuncia (che si riferiva al divieto di espulsione dello straniero verso uno Stato nel quale possa essere oggetto di persecuzione, art. 19, comma 1 d.lgs. 286/1998) la Suprema Corte affermava il principio per cui l'omosessualità andava riconosciuta come condizione dell'uomo degna di tutela, in conformità ai precetti costituzionali e che la libertà sessuale comportava la libertà di vivere senza condizionamenti e restrizioni le proprie preferenze sessuali, in quanto espressione del diritto alla realizzazione della propria personalità, tutelato dall'art. 2 della Costituzione (1). Questi principi venivano subito ribaditi dalla Cassazione penale che escludeva che si potesse configurare il reato di inottemperanza all'ordine di allontanamento dal territorio dello Stato impartito dal Questore nel caso di cittadino marocchino omosessuale; dal momento che in Marocco l'omosessualità era punita come reato, nella fattispecie esisteva infatti il giustificato motivo previsto dall'art. 14, comma 5 bis d.lgs. 286/1998 (2). La sentenza 16417/2007 dopo aver affermato questi importanti principi, riteneva peraltro che la persecuzione si potesse ritenere esistente solo qualora l'ordinamento straniero punisse l'omosessualità come fatto in sé considerato mentre doveva ritenersi esclusa allorché fosse prevista come reato solo l'ostentazione delle pratiche omosessuali. Questa affermazione della Suprema Corte era quantomeno singolare; da un lato infatti si trattava nella specie di un cittadino senegalese e il codice penale del Senegal puniva testualmente con la reclusione da uno a cinque anni chi commetteva un atto impudico o contro natura con un individuo del suo sesso e quindi sanzionava evidentemente l'atto in sé stesso; dall'altro poteva essere comunque discutibile sostenere che una sanzione contro la manifestazione esteriore dell'omosessualità non integrasse una persecuzione. Sul punto è decisivo quanto sostenuto dalla Corte di Giu- (*) Avvocato dello Stato in Firenze. Articolo pubblicato sulla rivista online www.immigrazione.it - Rivista professionale di scienze giuridiche e sociali - n. 265, 1 giugno 2016. (1) Cass. Sez. I, 25 luglio 2007, n. 16417 in Nuova Giur. Civ. Comm., 2008, 2, 10271, con nota di S.E. PIZZORNO, L’omosessualità quale causa ostativa dell’espulsione. (2) Cass. Pen, Sez. I, 23 luglio 2007, n. 2907, in Giur. It., 2008, 11, 2575 nota di S.E. PIZZORNO, Omosessualità e reato di indebito trattenimento nel territorio dello Stato. CONTENZIOSO NAZIONALE 131 stizia dell'Unione che nell'affermare che le persone omosessuali provenienti da Paesi nei quali l'omosessualità è punita dalla legge penale costituiscono un determinato gruppo sociale protetto dall'art. 10, par. 1, lett. d) della direttiva 2004/83/CE, allo stesso tempo sottolinea come in sede di valutazione di una domanda diretta ad ottenere lo stato di rifugiato non è possibile attendersi che il richiedente asilo abbia nascosto la propria omosessualità nel Paese d'origine. In altri termini il richiedente asilo non è tenuto a dar prova di riservatezza nel manifestare il proprio orientamento sessuale (3) . La Suprema Corte poi sottolineava come, per configurare la persecuzione, fosse sufficiente la previsione della sanzione penale indipendentemente dall'emanazione di una condanna. Questa impostazione veniva seguita dalla giurisprudenza di merito (4) e veniva confermata dalla Cassazione successivamente. La Suprema Corte osservava infatti che la persecuzione può anche essere attuata sul piano giuridico con la semplice previsione del comportamento che si intende contrastare come reato punibile con la reclusione (5); la circostanza per cui l’omosessualità sia considerata un reato dall’ordinamento giuridico del paese di provenienza è rilevante, costituendo una grave ingerenza nella vita privata dei cittadini omosessuali, che compromette grandemente la loro libertà personale e li pone in una situazione oggettiva di persecuzione, tale da giustificare la concessione della protezione richiesta (6). Questa posizione, del tutto condivisibile, si pone però in contrasto con quanto ritenuto dalla Corte di Giustizia dell’Unione nella decisione n. 199/12 sopra citata. La Corte infatti, chiamata a pronunciarsi sulla questione pregiudiziale se il mero fatto di qualificare come reato gli atti omosessuali e la comminatoria di una pena detentiva in relazione agli stessi costituisca un atto di persecuzione, ha dato risposta negativa; ha ritenuto infatti che sia necessaria la previsione di una pena detentiva che trovi effettiva applicazione nella prassi, spettando alle autorità nazionali procedere all’accertamento di tale requisito. È un’ affermazione che suscita perplessità ed è diversa da quanto ritenuto dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo secondo cui lo stesso fatto dell’esistenza di una legislazione che punisce gli atti omosessuali colpisce la vita privata ed è in contrasto con la Convenzione (7). Occorre osservare peraltro che le sen- (3) Corte di Giustizia Unione Europea, sez. IV, sent. 7 novembre 2013, n. 199/12 in Nuova Giur. Civ. Comm., 2014, 6, 10560, con nota di MORASSUTTO e WINKLER, Le tante facce dell'omofobia: una sentenza recente della Corte di Giustizia dell'Unione Europea in materia di rifugiati omosessuali. (4) Trib. Milano, ord. 27 ottobre 2015; Trib. Catanzaro, ord. 7 dicembre 2015; App. Bologna, sent. 16 luglio 2014; Trib. Bologna, ord. 8 novembre 2013 con giur. ivi richiamata, in Leggi d'Italia; Trib. Trieste, sent. 17 agosto 2009 n. 304, in www.meltingpot.it. (5) Cass. Civ., sez. VI, ord. 20 settembre 2012, n. 15981, in Leggi d'Italia. (6) Cass., Sez. 6, 5 marzo 2015 n. 4522 in Leggi d’Italia. (7) Modinos v Cyprus 1993; Norris v Ireland 1991; Dudgeon v. United Kingdom in www.echr.coe.int; la posizione della Corte Europea dei diritti dell'Uomo è citata esplicitamente dalla Corte Suprema degli Stati Uniti in Lawrence v. Texas, 539 US 558 (2003) la nota sentenza che dichiarò 132 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 tenze della Corte rese a seguito di rinvio pregiudiziale (art. 267 TFUE) sono vincolanti non solo per il giudice che ha sollevato la questione ma per tutti i giudici e le autorità degli Stati membri e quindi i nostri giudici avrebbero l’obbligo di adeguarsi. In tutti i casi affrontati dalla giurisprudenza sopra citata si trattava di persone che affermavano di essere omosessuali e al più si poneva la questione della prova di tale condizione o anche della possibilità di reiterare la domanda di protezione internazionale rendendo nota la propria omosessualità, taciuta in un primo momento a causa di fattori di ordine psicologico e morale (8). Recentemente è intervenuta peraltro una decisione (Trib. Palermo, 11 aprile 2016) che ha esteso la protezione internazionale a un soggetto che non si dichiarava omosessuale ma, secondo quanto dichiarato, aveva compiuto atti omosessuali in cambio di denaro con un turista. La circostanza che la legislazione del Gambia punisca il compimento di atti omosessuali è stata ritenuta sufficiente per ammettere il ricorrente alla protezione internazionale, in quanto, ad avviso del Tribunale, il ritorno in Gambia, al di là di un effettivo orientamento sessuale, l’avrebbe esposto a un reale pericolo di persecuzione. La domanda che si pone quindi è: hanno diritto alla protezione internazionale i soggetti che si trovano nella condizione di omosessuali o tutti coloro che compiono atti omosessuali per qualsivoglia ragione? Il Tribunale potrebbe avere ragione se la Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati tutelasse la libertà sessuale di per sé; del resto l’assunto contenuto nella sentenza 16417/2007 della Suprema Corte secondo cui la libertà sessuale va intesa anche come libertà di vivere senza condizionamenti e restrizioni le proprie preferenze sessuali, in quanto espressione del diritto alla realizzazione della propria personalità, tutelato dall’art. 2 Cost. potrebbe anche far ritenere corretta la decisione palermitana. Effettivamente la nostra Costituzione tutela la libertà sessuale e questa va intesa come libertà di avere rapporti sessuali di qualunque tipo, per qualunque ragione e quindi, ragionando in questi termini, il diritto alla protezione dovrebbe essere riconosciuto. A ben vedere però una soluzione di questo tipo si scontra con il dato normativo. La Convenzione di Ginevra infatti non offre tutela nei riguardi di qualsivoglia persecuzione ma solo se la persecuzione avvenga per motivi di razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un determinato gruppo sociale, opinioni politiche. La direttiva 2004/83/CE, adottata al fine di aiutare le autorità nazionali ad applicare la Convenzione basandosi su nozioni e criteri comuni, stabilisce che un gruppo costituisce un particolare gruppo sociale quando (art. 10 non conformi alla Costituzione le leggi degli Stati che punivano penalmente le pratiche omosessuali. La sentenza Lawrence superò la sentenza Bowers v. Hardwick, 478 US 186, (1986). Sulle due decisioni v. ZANETTI, L'orientamento sessuale. Cinque domande tra diritto e filosofia, il Mulino, 2015, in particolare il primo capitolo. (8) Cass. 4522/2015 cit. CONTENZIOSO NAZIONALE 133 lett. d): i membri di tale gruppo condividono una caratteristica o una fede che è così fondamentale per l’identità o la coscienza che una persona non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi e tale gruppo possiede un’identità distinta nel paese di cui trattasi, perché vi è percepito come diverso dalla società circostante. Inoltre è stabilito che in funzione delle circostanze nel paese d’origine, un particolare gruppo sociale può includere un gruppo fondato sulla caratteristica comune dell’orientamento sessuale (9). La Corte di Giustizia dell’Unione, con la sentenza 199/12 più volte citata, ha stabilito che in presenza di una legislazione penale repressiva, le persone omosessuali devono considerasi costituire un determinato gruppo sociale sulla base delle definizioni contenute nell’art. 10 della direttiva. La Corte sottolinea che l’orientamento sessuale di una persona costituisce una caratteristica così fondamentale per la sua identità che essa non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi. Su questa base sembra difficile sostenere che la protezione internazionale si possa estendere a chi compie atti omosessuali per ragione di denaro; non si può ritenere che se la persona vi rinunciasse perderebbe una caratteristica fondamentale per la propria identità. Tribunale di Palermo, sez. I civile, ordinanza 11 aprile 2016. Con ricorso depositato in data 14 ottobre 2014 l’opponente chiedeva l’annullamento del provvedimento emesso dalla Commissione Territoriale per il riconoscimento della Protezione internazionale di Palermo nella seduta del 16 aprile .2014 (prot. EST PA 430/2014), notificato il giorno 17 settembre 2014 che ne aveva rigettato la richiesta di riconoscimento della protezione internazionale. A sostegno delle proposte domande il ricorrente evidenziava di essere stato costretto a fuggire dal Gambia in quanto arrestato per essere stata scoperta la condotta omosessuale dallo stesso intrattenuta, seppure per motivi economici, con un turista olandese. Il Ministero dell’interno (rectius: la Commissione Territoriale), ritualmente avvisato, non si costituiva. La causa, istruita in via documentale e tramite CTU, veniva assunta in decisione all’odierna udienza. (9) Il d.lgs. 19 novembre 2007 che attua la direttiva europea, all'art. 8 lett. d) dà la seguente definizione di gruppo sociale: particolare gruppo sociale: è quello costituito da membri che condividono una caratteristica innata o una storia comune, che non può essere mutata oppure condividono una caratteristica o una fede che è così fondamentale per l’identità o la coscienza che una persona non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi, ovvero quello che possiede un’identità distinta nel Paese di origine, perché vi è percepito come diverso dalla società circostante. In funzione della situazione nel Paese d’origine, un particolare gruppo sociale può essere individuato in base alla caratteristica comune dell’orientamento sessuale, fermo restando che tale orientamento non includa atti penalmente rilevanti ai sensi della legislazione italiana. Ai fini della determinazione dell’appartenenza a un determinato gruppo sociale o dell’individuazione delle caratteristiche proprie di tale gruppo, si tiene debito conto delle considerazioni di genere, compresa l’identità di genere. 134 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 **** Il ricorso è ammissibile in quanto proposto nei trenta giorni dalla notifica del provvedimento impugnato. In ordine alla richiesta articolata in via principale osserva il decidente come la stessa debba trovare accoglimento alla luce della complessiva valutazione delle risultanze istruttorie. Va preliminarmente rilevato che la valutazione demandata al Giudice ordinario, adito in sede di opposizione al diniego frapposto alla domanda di riconoscimento dello status di rifugiato dalla competente Commissione, si deve fondare sulla verifica della ricorrenza di (entrambi) i dati oggettivi (attinta anche in via di ragionamenti inferenziali), id est quello afferente la condizione socio-politico-normativa del Paese di provenienza e quella relativa alla singola posizione del richiedente (esposto a rischio concreto di sanzioni), senza poter ricavare sillogisticamente ed automaticamente dalla prima la seconda, per cui non ogni appartenente ad un certo gruppo risulta automaticamente un perseguitato (Cass. Civ., sez. I, 20 dicembre 2007 n° 26822). Inoltre, sempre in via preliminare, occorre precisare che per rifugiato politico deve intendersi qualsiasi cittadino di un paese terzo o apolide rispondente ai criteri stabiliti dall’art. 1 della Convenzione di Ginevra, quali specificati nella direttiva 2004/83/CE. In particolare, secondo l’art. 1 citato, si può chiedere il riconoscimento dello status di rifugiato soltanto se nel Paese di origine sono state sofferte - ovvero se le stesse possano ritenersi probabili - persecuzioni dirette e personali per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le opinioni politiche. In particolare, a fronte delle perplessità formulate dalla Commissione in esito alla disposta audizione in merito alla credibilità della vicenda personale del ricorrente, il Tribunale ha ritenuto necessario disporre consulenza tecnica d’ufficio, la quale - ovviamente non tesa ad accertare l’orientamento sessuale del S. (il quale, peraltro, non ha dichiarato di essere omosessuale, avendo anzi una moglie ed un figlio, ma di avere intrattenuto la relazione con il turista per motivi di carattere esclusivamente economico) - potesse, nondimeno, fornire elementi di valutazione all’attendibilità del racconto ed ad eventuali start psicologici reattivi ad una condizione dì disagio, elementi tutti idonei a verificare la credibilità dell’opponente. Orbene, la dr.ssa Maniscalco, CTU nominato, in esito a percorso argomentativo logicamente sviluppato ed adeguatamente argomentato, ha concluso ritenendo l’inesistenza di “elementi che giustifichino una manipolazione del contenuto delle dichiarazioni. Si sottolinea infatti come, nel raccontare i fatti, lo stesso esprima una emotività esplicitamente accompagnata da comportamenti non verbali coerenti con le implicazioni emotive sottese al vissuto”, concludendo per l’attendibilità del racconto. Ciò premesso deve ritenersi, al di là di un effettivo orientamento omosessuale, sufficientemente provata l’attendibilità della vicenda personale del ricorrente, il quale, nell’ipotesi di rientro nel paese di origine, correrebbe un reale pericolo di persecuzione, prevalendo la valutazione del CTU sulle perplessità formulate dalla Commissione. Ed invero l’art. 5 del d.lgs. n° 251 del 2007, individua i responsabili della persecuzione o del danno grave, ai fini della valutazione della domanda di protezione internazionale come di seguito: “a) lo Stato; b) i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio; c) soggetti non statuali, se i responsabili di cui alle lettere a) e b), comprese le organizazzioni internazionali, non possono o non vogliono fornire protezione, ai sensi dell'articolo 6, comma 2, contro persecuzioni o danni gravi”. Nello specifico risulta notorio che in Gambia l’omosessualità e, comunque, comportamenti omosessuali (comunque posti in essere e per qualsiasi ragione) siano considerati reato. CONTENZIOSO NAZIONALE 135 Pertanto, per come pure puntualmente rilevato nelle note conclusive dell’opponente, vanno condivisi i principi affermati dalla Suprema Corte, la quale ha avuto modo di chiarire come: “ai fini della concessione della protezione internazionale, la circostanza per cui l’omosessualità sia considerata un reato dall’ordinamento giuridico del Paese di provenienza è rilevante, costituendo una grave ingerenza nella vita privata dei cittadini omosessuali, che compromette grandemente la loro libertà personale e li pone in una situazione oggettiva di persecuzione, tale da giustificare la concessione della protezione richiesta” (Cass. Civ. 1 settembre 2012 n. 1598, e Cassazione civile, sez. IV, 5 marzo 2015, n. 4522). Avuto riguardo alla natura della controversia ed alle ragioni del decidere, il Tribunale ritiene sussistenti i presupposti per l'integrale compensazione tra le parti delle spese di lite. P.Q.M. Il Tribunale di Palermo - Sezione I Civile, in persona del Giudice Onorario, dr. Livio Fiorani, definitivamente pronunciando, ogni contraria istanza, eccezione e difesa disattesa, in accoglimento delle domande proposte da S.S. con ricorso depositato in data 14 ottobre 2014 riconosce a quest’ultimo lo status di rifugiato; spese compensate; dispone come da separato decreto in ordine alla richiesta di liquidazione dei compensi in favore del difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato ex art. 85, comma II I bis, dPR 115 / 2002. Palermo, 11 aprile 2016 Il Giudice Onorario dr. Livio Fiorani 136 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 Ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza e bancarotta. La legittimazione alla costituzione di parte civile del Ministero dello Sviluppo Economico Francesco Cecchini* SOMMARIO: 1. La vicenda giudiziaria e la questione controversa - 2. Individuazione dell’oggettività giuridica dei reati in contestazione: a) l’art. 2638 c.c. - 3. (segue) b) I delitti di bancarotta - 4. Il danno patito dal Ministero nel caso di specie - 5. Legitimatio ad causam nel processo penale secondo la più recente giurisprudenza di legittimità. 1. La vicenda giudiziaria e la questione controversa. Con decreto dell’11 aprile 2016 il Tribunale di Roma - Sezione G.U.P. ha disposto il giudizio nei confronti di sette imputati, in relazione ad una vicenda concernente il dissesto di una nota società fiduciaria. In particolare a cinque di questi, quali soggetti apicali della società - amministratore, consiglieri delegati, procuratore speciale, membro del c.d.a., presidente del collegio sindacale e sindaci - sono contestati i reati di bancarotta fraudolenta, bancarotta fraudolenta patrimoniale distrattiva, bancarotta documentale fraudolenta, ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza e abusiva attività finanziaria. Si è costituito parte civile nel processo il Ministero dello Sviluppo Economico, quale soggetto cui spetta autorizzare le società fiduciarie - e di revisione - all’esercizio della relativa attività, nonché esercitare sulle stesse le funzioni di vigilanza (1). La costituzione in giudizio, peraltro, non è avvenuta unicamente in riferimento al reato di cui all’art. 2638 c.c., bensì anche in relazione ai reati di bancarotta e di abusivo esercizio di attività finanziaria. Ciò in considerazione del fatto che tutti i suddetti reati, uniti dal vincolo della continuazione, hanno cagionato il danno subito dal Ministero, impedendo la realizzazione dell’interesse pubblico alla tutela del risparmio da parte dello stesso, con inevitabili conseguenze sull’immagine della Pubblica Amministrazione coinvolta. Le difese degli imputati hanno contestato la legittimazione del MISE a costituirsi parte civile in relazione ai reati diversi dall’ostacolo alle funzioni di vigilanza, chiedendone quindi l’esclusione in parte qua. Si sosteneva, infatti, la impossibilità di considerare il Ministero come soggetto danneggiato, (*) Dottore in Giurisprudenza, Specializzando in Professioni Legali, ha svolto la pratica forense presso l’Avvocatura Generale dello Stato con gli Avvocati Massimo Giannuzzi e Alessandra Bruni, occupandosi, fra l’altro, di questioni attinenti la difesa delle Pubbliche Amministrazioni in processi penali, sia come responsabili civili che come parti civili. (1) L. 23 novembre 1939, n. 1966 e R.D. 22 aprile 1940, n. 531. CONTENZIOSO NAZIONALE 137 in particolare, dalle contestate ipotesi di bancarotta. Accogliendo invece sul punto i rilievi e le argomentazioni dell’Avvocatura dello Stato, il Giudice ha respinto le suddette eccezioni. L’interesse della presente vicenda sta quindi nella configurabilità, ai danni del Ministero, di un pregiudizio derivante anche dai delitti di bancarotta, con conseguente legittimazione all’esercizio dell’azione civile nel processo penale. Al fine di meglio comprendere le ragioni di tale legittimazione, è utile una breve ricognizione del dibattito dottrinario e giurisprudenziale concernente l’individuazione dei beni giuridici tutelati (2), rispettivamente, dall’art. 2638 c.c. e, soprattutto, dalle norme incriminatrici delle diverse tipologie di bancarotta. 2. Individuazione dell’oggettività giuridica dei reati in contestazione: a) l’art. 2638 c.c. Priva di significativi contrasti è la definizione della oggettività giuridica del reato di cui all’art. 2638 c.c., quale introdotto dal d.lgs. 11 aprile 2002, n. 62 (3), rubricato «ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza». Tanto l’ipotesi delineata dal primo comma, quanto quella prevista dal secondo, sono poste a tutela delle funzioni di controllo dell’attività da parte delle autorità pubbliche di vigilanza (4). Isolata l’opinione che ravvisa (2) Sulla rilevanza dell’oggetto giuridico del reato, quale bene o interesse protetto dalla norma incriminatrice, ai fini della individuazione della persona offesa dal reato o soggetto passivo (dunque titolare del consenso scriminante e legittimato a proporre querela e istanza), v. F. ANTOLISEI, L’offesa e il danno nel reato, Istituto italiano d’arti grafiche, Bergamo, 1930, pp. 108 e ss.; R.A. FROSALI, voce Soggetto passivo del reato, in Noviss. dig. it., vol. XVII, 1970, pp. 816 e ss.; M. GALLO, Diritto penale italiano. Appunti di parte generale, vol. I, Giappichelli, Torino, 2014, p. 194; G. FIANDACA - E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, ed. VII, Zanichelli, Bologna, 2014, p. 185; F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, ed. IX, CEDAM, Padova, 2015, p. 225. Chiaro che, qualora dovesse ritenersi che anche le norme che puniscono la bancarotta tutelino interessi pubblicistici, riconducibili al Ministero, ne risulterebbe notevolmente agevolata la dimostrazione della legittimazione alla costituzione di parte civile: ciò stante la «normale coincidenza tra soggetto passivo e danneggiato dal reato» (così Cass., Sez. IV pen., 27 giugno 1979, Ghisotti, in Foro it., 1980, II, c. 488). Ferma comunque la possibilità, in caso contrario, di qualificare comunque il MISE quale soggetto danneggiato dal reato, posto che ben può esservi un danneggiato che non sia persona offesa (cfr., per tutti, G. LOZZI, Lezioni di procedura penale, ed. VIII, Giappichelli, Torino, 2013, p. 135). (3) L’art. 11, lett. b), della legge delega per la riforma del diritto societario (l. 3 ottobre 2001, n. 336) conferiva al Governo il compito di «armonizzare e coordinare le ipotesi riguardanti falsità nelle comunicazioni alle autorità pubbliche di vigilanza, ostacolo allo svolgimento delle relative funzioni e omesse comunicazioni alle autorità medesime da parte di amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di società, enti o soggetti sottoposti per legge alla vigilanza di tali autorità anche mediante la formulazione di fattispecie a carattere generale». Esprime perplessità relativamente alla sussistenza dei requisiti minimi necessari per il rispetto della riserva di legge in materia penale, a fronte della «relativa genericità della delega», E. MUSCO, I nuovi reati societari, ed. III, Giuffrè, Milano, 2007, pp. 288-289. Criticano invece la collocazione topografica della norma nel codice civile, anziché nel contesto di un moderno codice penale, R. ZANNOTTI, Il nuovo diritto penale dell’economia, ed. II, Giuffrè, Milano, 2008, p. 203 e E.M. AMBROSETTI - E. MEZZETTI - M. RONCO, Diritto penale dell’impresa, ed. III, Zanichelli, Bologna, 2012, p. 220. 138 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 il bene protetto nella veridicità e completezza dell’informazione societaria (5). L’orientamento maggioritario trae conferma dalla lettera della disposizione, in particolare dalla circostanza per cui le condotte incriminate devono realizzarsi «nelle comunicazioni alle […] autorità [pubbliche di vigilanza] previste in base alla legge»: dal che si ricaverebbe la specifica funzionalità rispetto allo svolgimento effettivo delle funzioni di controllo (6). Il bene giuridico così individuato, id est la funzione di controllo, viene ricondotto alla categoria dei “beni istituzionali” (7), intesi quali beni «facenti capo ad enti pubblici (le autorità di vigilanza), la cui integrità è strumentale alla salvaguardia di beni ulteriori, c.d. beni finali» (8), da individuarsi nel corretto funzionamento del mercato (9). A sostegno del carattere strumentale dell’interesse al corretto esercizio della funzione di vigilanza, si adduce il fatto che alla sua realizzazione siano preposti soggetti pubblici, non portatori di interessi individuali di tipo patrimoniale (10). La scelta di una sanzione detentiva elevata è indice della particolare significatività dell’oggetto della tutela: l’art. 2638 c.c. si connota così per un profilo di particolare rigore, contro le offese alle funzioni di alta vigilanza relative alla salvaguardia del mercato e del pubblico risparmio, quali beni di rilevanza collettiva, anche in ossequio all’art. 47, comma secondo, della Costituzione (11). (4) In questo senso E. MUSCO, I nuovi reati societari, cit., p. 290; C. SANTORIELLO, Il nuovo diritto penale delle società, UTET, Torino, 2003, p. 347; A. ALESSANDRI, Ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza, in ID. (a cura di), Il nuovo diritto penale delle società. D. lgs. 11 aprile 2002, n. 61, IPSOA, Milano, 2002, pp. 254-255; P. PALLADINO, Art. 2638 c.c., in F. GIUNTA (a cura di), I nuovi illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali. Commentario del d. lgs. 11 aprile 2002, n. 61, Giappichelli, Torino, 2002, p. 207; S. SEMINARA, False comunicazioni sociali, falso in prospetto e nella revisione contabile e ostacolo alle funzioni delle autorità di vigilanza, in Dir. pen. proc., 2002, p. 687. (5) B. ALBERTINI, Art. 2638 c.c., in A. LANZI - A. CADOPPI (a cura di), I nuovi reati societari, CEDAM, Padova, 2002, p. 185. (6) E. MUSCO, I nuovi reati societari, cit., p. 290. (7) F. GIUNTA, Controllo e controllori nello specchio del diritto penale societario, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2006, p. 597, che parla di «entità già preformata dalla normativa societaria extrapenale. Detta funzione, la cui importanza non è certo dubbia, viene protetta dalle aggressioni al suo regolare svolgimento provenienti dai soggetti controllati». (8) R. ZANNOTTI, L’ostacolo all’esercizio delle funzioni di vigilanza (art. 2638), in A. GIARDA - S. SEMINARA (a cura di), I nuovi reati societari: diritto e processo, CEDAM, Padova, 2002, p. 582. (9) E. MUSCO, I nuovi reati societari, cit., p. 290. (10) C. SANTORIELLO, Il nuovo diritto penale delle società, cit., p. 348; G. MESSINA, Ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza, in G. CANZIO - L.D. CERQUA - L. LUPARIA (a cura di), Diritto penale delle società, tomo I, I profili sostanziali, CEDAM, Padova, 2014, p. 556. Per una critica alla scelta di tutelare in sede penale l’esercizio di una funzione, v. R. ZANNOTTI - A. MEYER, Le false comunicazioni sociali di cui all’art. 134 T.U.L.B., in A. MEYER - L. STORTONI, Diritto penale della banca, del mercato mobiliare e finanziario, UTET, Torino, 2002, p. 171. E. MUSCO, I nuovi reati societari, cit., p. 288 individua le ragioni di tale scelta, per un verso, in «chiari interessi di ordine pratico», per altro verso, in «ineludibili necessità di apprestare forme strumentali e intermedie di tutela in vista della protezione di beni giuridici finali». CONTENZIOSO NAZIONALE 139 In considerazione di ciò, il corretto esercizio della funzione di vigilanza si pone come valore meritevole di protezione a prescindere dall’accertamento di danni o anche solo di pericoli, derivanti dalla sua violazione (12). La rilevanza penalistica delle condotte di falsità o occultamento finalizzate ad ostacolare, così come delle condotte di vero e proprio ostacolo, anche mediante omissioni, infatti, prescinde dalla lesione o messa in pericolo del bene finale (13). La fattispecie incriminatrice di cui all’art. 2638 c.c., si è detto, funge da presidio preventivo, che scatta quando vengano violati obblighi informativi i quali, ove correttamente adempiuti, assicurano il corretto espletamento della attività di pubblica vigilanza, così indirettamente proteggendo anche la sfera patrimoniale dei singoli, nei cui interessi quell’attività è esercitata (14). L’ottica di prevenzione così adottata dal legislatore delegato si spiega dunque con l’importanza del bene giuridico coinvolto, nonché con la intrinseca natura istituzionale dello stesso, indispensabile per la realizzazione di interessi dei singoli, pur non essendo a questi riferibile (15). Nella medesima prospettiva si giustifica altresì la rinuncia all’inserimento di soglie di irrilevanza penale, configurandosi in tal modo una fattispecie priva di «contaminazioni privatistiche del tipo», in linea con la rilevanza pubblicistica del bene tutelato (16). Anche la giurisprudenza, tanto di merito quanto di legittimità, condivide le suddette argomentazioni: si è affermato che «il bene giuridico tutelato dal reato di cui all’art. 2638 c.c. è costituito dal regolare svolgimento dell’esercizio delle funzioni di vigilanza svolte dalle autorità pubbliche a dette funzioni preposte» (11) S. SEMINARA, False comunicazioni sociali, falso in prospetto e nella revisione contabile e ostacolo alle funzioni delle autorità di vigilanza, cit., p. 687; E. MUSCO, I nuovi reati societari, cit., p. 287; B. ALBERTINI, Art. 2638 c.c., cit., p. 185. La disposizione sembra dunque muoversi in una direzione opposta a quella dello spirito informatore della riforma del 2002, orientata invece verso un progressivo «congedo dal diritto penale» della materia societaria: sul punto S. SEMINARA, Il diritto penale societario dopo le riforme: otto anni di giurisprudenza della Corte di Cassazione, in Jus, 2011, pp. 71 e ss. (12) G. MESSINA, Ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza, cit., p. 556. La Relazione Illustrativa qualifica la disposizione in parola come «un capitolo importante per completare la tutela penale dell’informazione societaria, considerata, questa volta, nella sua destinazione all’autorità preposta alla vigilanza». (13) A. ALESSANDRI, Ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza, cit., pp. 255-256. L’Autore, sempre nell’ottica di differenziazione concettuale del bene strumentale da quello finale, sottolinea la diversità strutturale tra il destinatario dell’informazione e i portatori degli interessi finali: «è un soggetto unico, normalmente tenuto al segreto d’ufficio e dunque collocato al centro di una circolazione “riservata” di notizie». (14) A.F. TRIPODI, Diritto penale e disciplina antitrust: le indicazioni provenienti dall’analisi economica del diritto e la prospettiva aperta dall’art. 2638 c.c., in P. SIRACUSANO (a cura di), Scritti di diritto penale dell’economia, Giappichelli, Torino, 2007, pp. 125 e ss. (15) G. MESSINA, Ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza, cit., p. 557: «l’anticipazione della soglia di punibilità […] segnala, quindi, la prioritaria importanza che assume qui la gestione di un rischio più che la repressione di un’offesa, di fatto non immediatamente ravvisabile». (16) M.N. MASULLO, Art. 2638 c.c., in T. PADOVANI (a cura di), Le fonti del diritto italiano. Leggi penali d’udienza, Giuffrè, Milano, 2003, p. 1332. 140 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 (17). Analogamente, risolvendo nel senso della continuità normativa il rapporto fra il vecchio art. 134 del d.lgs. n. 385 del 1993 (in tema di tutela dell’attività di vigilanza bancaria e finanziaria) ed il nuovo art. 2638 c.c., la Suprema Corte ha individuato il bene tutelato da entrambe le norme «nella correttezza dei rapporti fra ente controllato ed ente controllante, al fine di consentire la piena legittimità ed efficacia dell’attività di controllo» (18); ovvero nella «funzione amministrativa di vigilanza tipica delle autorità pubbliche» (19). Se dunque l’individuazione del bene giuridico protetto dall’art. 2638 c.c. non pone particolari problemi, qualche incertezza solleva, all’opposto, la delimitazione dell’ambito soggettivo di applicazione della norma, sotto il profilo passivo. Il generico riferimento alle «autorità pubbliche di vigilanza», infatti, non chiarisce se le autorità, le cui funzioni di controllo ricevano tutela penale con la disposizione in parola, siano le sole autorità operanti nel settore dei mercati finanziari (storicamente individuate in CONSOB, Banca d’Italia e ISVAP), ovvero indistintamente tutte le autorità amministrative progressivamente istituite nell’ordinamento, ovvero ancora le sole Autorità preposte alla tutela di valori costituzionali (20). Parte della dottrina ritiene pertanto che la norma sia «‘idonea’ in astratto» a tutelare le funzioni di «ogni» autorità di vigilanza, pur rimarcandone il difetto di determinatezza (21). Altri Autori, invece, propendono per un’interpretazione più restrittiva della disposizione, incentrata sulla valorizzazione del significato (17) Trib. Milano - Ufficio G.I.P., ord. 25 gennaio 2005, Italaudit s.p.a, in Soc., 2005, pp. 1441 e ss. (18) Cass., Sez. V pen., 8 novembre 2002, n. 1252, Secchiero, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2003, p. 916; Cass., Sez. V pen., 28 settembre 2005, n. 44704, Mangiapane, in Cass. pen., 2006, p. 1398. (19) Cass., Sez. VI pen., 24 ottobre 2005, n. 44234, Greco, in CED Cass. rv. 232849. (20) R. ZANNOTTI, Il nuovo diritto penale dell’economia, cit., pp. 199-200: l’Autore rileva come l’espressione legislativa, incentrandosi esclusivamente sulla funzione, risulti priva di valenza tecnica, potendosi riferire tanto alle c.d. autorità amministrative indipendenti, quanto a quelle di tipo tradizionale. La collocazione della disposizione, insieme al suo inserimento ad opera di un provvedimento mirante a disciplinare «gli illeciti penali ed amministrativi riguardanti le società commerciali» e alla natura economica delle false informazioni, potrebbero deporre nel senso di una operatività limitata alle autorità di vigilanza sulle società operanti nei mercati finanziari. Lo “Schema di disegno di legge delega per la riforma del diritto societario” (c.d. progetto Mirone), immediato precedente del provvedimento in cui è inserito l’art. 2638 c.c., all’opposto, lascia intendere che le autorità pubbliche di vigilanza rientranti nell’ambito applicativo della norma siano tutte quelle operanti nell’ordinamento. Cfr. anche G. LOVECCHIO MUSTI, Ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza (art. 2638), in A. ROSSI (a cura di), I reati societari, UTET, Torino, 2005, p. 245. (21) R. ZANNOTTI, Il nuovo diritto penale dell’economia, cit., p. 201; ID., L’ostacolo all’esercizio delle funzioni di vigilanza (art. 2638), cit., p. 478. Nello stesso senso anche L. FOFFANI, La riforma dei reati societari: riflessi sulla disciplina delle banche e degli intermediari finanziari, in A. MEYER - L. STORTONI, Diritto penale della banca, del mercato mobiliare e finanziario, cit., pp. 492 e ss.; S. SEMINARA, False comunicazioni sociali, falso in prospetto e nella revisione contabile e ostacolo alle funzioni delle autorità di vigilanza, cit., p. 687, che significativamente parla di «incriminazione caratterizzata solo dalla qualità dei soggetti attivi […] e dall’oggetto della comunicazione […] ma totalmente cieca dinanzi alla tipologia della vigilanza esercitata dall’autorità, che può spaziare dai comparti finanziario, bancario e assicurativo fino alla concorrenza, alle comunicazioni, ai servizi pubblici a rete, ecc.». CONTENZIOSO NAZIONALE 141 tecnico del termine “vigilanza”, come inteso nell’ambito del controllo demandato alla Banca d’Italia: in questo senso, «autorità pubbliche di vigilanza» sarebbero solo quelle dotate di un potere di tipo ispettivo, consistente nel «controllo preventivo e successivo su determinate fasi o momenti di attività dei soggetti [ad esso] sottoposti, al fine di garantire, prima che accadano negative ricadute sul mercato, l’affidabilità di tali soggetti nel loro rapporto con il pubblico» (22). Anche la giurisprudenza sembra alternare letture più restrittive della disposizione (23), fondate sull’accoglimento del concetto tecnico di “vigilanza” e del conseguente criterio del potere ispettivo (24), ad interpretazioni più esten- (22) Così A. ALESSANDRI, Ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza, cit., p. 257. Condividono questa interpretazione E. MUSCO, I nuovi reati societari, cit., p. 289; A. LORETO, Art. 2638, in F. GALGANO (a cura di), Commentario breve al codice civile, La Tribuna, Piacenza, 2006, p. 2285. Evidenzia gli effetti paradossali cui condurrebbe una dilatazione del concetto di autorità di vigilanza al di là della voluntas legis A. ALESSANDRI, Diritto penale e attività economiche, Il Mulino, Bologna, 2010, p. 269: molteplici sono le situazioni in cui è riscontrabile la presenza di “autorità” cui sono attribuiti compiti di vigilanza su determinati settori o soggetti, quali la Asl o il veterinario pubblico; deve tuttavia ritenersi che «non erano queste le autorità che aveva di mira il legislatore della riforma». V. anche F. GIUNTA, Controllo e controllori nello specchio del diritto penale societario, cit., p. 601, che include nel novero delle autorità di cui all’art. 2638 c.c., oltre a CONSOB e Banca d’Italia, anche ISVAP, COVIP, AGCOM e AGCM (per l’inserimento di quest’ultima si pronuncia anche A.F. TRIPODI, Possibilità di un intervento penale nella disciplina antitrust, in Giur. comm., 2006, p. 542), mentre esclude le autorità di regolazione del mercato, intese principalmente al controllo della qualità dei prodotti e dei prezzi (come l’Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità). Per una critica alla distinzione così tracciata fra autorità di vigilanza (o garanti) e autorità di regolazione del mercato (anche in considerazione della frequente coincidenza delle due nature nel medesimo soggetto), v. ancora R. ZANNOTTTI, Il nuovo diritto penale dell’economia, cit., p. 201 e L. FOFFANI, Ostacolo alle funzioni di vigilanza e tutela penale delle autorità indipendenti: un’anticipazione del diritto penale del futuro?, in A.R. CASTALDO (a cura di), Il diritto penale del futuro, Centro Stampa Fondazione Unisa, Salerno, 2006, pp. 104 e ss. (23) Cass., Sez. V pen., 11 febbraio 2013, n. 28070, Dispenza, in CED Cass. rv. 255565, secondo cui «non integra il delitto di ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche l’omissione di comunicazioni dovute all’Autorità per l’energia elettrica ed il gas» (autorità che, invece, la dottrina da ultimo citata indica quale esempio paradigmatico della commistione fra natura di vigilanza e di regolazione). (24) Cass., Sez. VI pen., 24 ottobre 2005, n. 44234, Greco, cit. che ha escluso dal novero delle autorità di cui all’art. 2638 c.c. l’Ufficio italiano dei cambi, al quale non è riferibile quel «potere di tipo ispettivo funzionale ad esercitare un controllo preventivo e successivo sull’attività dei soggetti sottoposti, al fine di garantirne l’affidabilità nel mercato e nel rapporto con il pubblico», dal momento che l’UIC «svolge funzioni in materia di prevenzione e di contrasto, sul piano finanziario, del riciclaggio di denaro di provenienza illecita e dell’usura soprattutto attraverso il sistema delle segnalazioni di operazioni sospette, che devono essere segnalate da banche, intermediari finanziari, imprese non finanziarie e anche da liberi professionisti. Si tratta di una funzione che non ha ad oggetto immediato il controllo di tali soggetti, ma è direttamente connessa all’attività di contrasto della criminalità economica sotto il profilo finanziario». Più di recente, Cass., Sez. V pen., 31 ottobre 2014, n. 10108, Penocchio, in CED Cass. rv. 262629, che ha ricompreso fra le autorità di vigilanza la FIGC, «posto che a questa è riconosciuta la titolarità di un potere ispettivo e di controllo di rilevanza pubblicistica attinente alla regolarità della gestione delle società professionistiche di calcio»; la sentenza ritiene comunque non condivisibile l’assunto «secondo cui l’art. 2638 c.c., pretenderebbe una interpretazione costituzionalmente orientata che escluda dal suo ambito di operatività tutte le condotte di ostacolo alla vigilanza che non fossero già previste e regolate da discipline diverse, preesistenti alla riforma del 2002». 142 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 sive, in cui pare privilegiarsi la finalità pubblicistica del controllo (25). 3. (segue): b) i delitti di bancarotta. Ben più contrastata è, invece, la ricostruzione dell’oggettività giuridica dei delitti di bancarotta: molteplici sono le opinioni che la dottrina, non solo penalistica, ha espresso al riguardo. i) Un primo indirizzo (26) inquadra la bancarotta, nelle sue varie forme, fra i reati contro l’amministrazione della giustizia, sotto il profilo della tutela penale del processo, sul presupposto che i reati fallimentari, considerati nella loro globalità, sono costituiti da fatti che, in modo diretto ovvero indiretto, tendono a frustrare le finalità della legge fallimentare (27). Quest’ultima tutela infatti il diritto di credito non già da un punto di vista individuale, bensì da quello dell’interesse pubblicistico al massimo soddisfacimento di tutti i creditori secondo il criterio della par condicio. Le norme incriminatrici si basano quindi sulla concezione dei creditori come massa, che funge da presupposto “concorsuale”: di qui la natura pubblicistico-processuale dell’interesse giuridico immediatamente leso, coincidente con il processo esecutivo concorsuale (28). Questi Autori considerano pertanto le procedure concorsuali come espressione di un interesse pubblicistico, riferibile all’intera collettività e relativo alle modalità di risoluzione dei molteplici problemi conseguenti al dissesto dell’impresa commerciale. Il che troverebbe conferma nel fatto che le stesse disposizioni penali trovino applicazione indipendentemente dalla tipologia della procedura concorsuale in corso di svolgimento (29). Nello specifico, con riguardo alle diverse tipologie di bancarotta, questo orientamento dottrinario (30) individua gli interessi oggetto di offesa nei seguenti: interesse alla legittima instaurazione delle procedure concorsuali (31) (25) Cass., Sez. III pen., 29 maggio 2013, n. 28164, M., in CED Cass. rv. 257142: «rientra nella fattispecie di reato di cui all’art. 2638 cod. civ., l’ostacolo frapposto all’esercizio delle funzioni della Commissione di Vigilanza sulle Società di Calcio Professionistiche, organo che ai sensi dell’art. 20, comma quarto, dello Statuto del C.O.N.I. assume specifica funzione pubblicistica». (26) P. NUVOLONE, Il diritto penale del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Giuffrè, Milano, 1955, pp. 24 e ss.; ID., voce Fallimento (reati in materia di), in Enc. dir., vol. XVI, 1967, p. 478; F. CARNELUTTI, Appunti sulla natura della bancarotta, in Riv. dir. proc., 1957, pp. 1 e ss; F. ANTONIONI, La bancarotta semplice, Jovene, Napoli, 1962, p. 29 (pur con una impostazione particolare); A. LANZI, Riflessi penali delle procedure concorsuali vecchie e nuove, in Ind. pen., 1982, p. 231; M. LA MONICA, I reati fallimentari, IPSOA, Milano, 1972, pp. 68 e ss.; C. SANTORIELLO, I reati di bancarotta, Giappichelli, Torino, 2000, pp. 13 e ss. (27) P. NUVOLONE, voce Fallimento (reati in materia di), cit., p. 478 che così individua le suddette finalità: «ricostruzione documentale del patrimonio e del movimento degli affari, conservazione dei beni dell’imprenditore e loro distribuzione ai creditori secondo i principi della par condicio». (28) P. NUVOLONE, Il diritto penale del fallimento e delle altre procedure concorsuali, cit., p. 25. (29) C. SANTORIELLO, I reati di bancarotta, cit., p. 14. (30) P. NUVOLONE, voce Fallimento (reati in materia di), cit., pp. 480 e ss. (31) Posto che l’attività giurisdizionale deve svolgersi al momento opportuno, anche nell’ambito delle procedure concorsuali, l’azione deve essere promossa al ricorrere dei relativi presupposti, mentre CONTENZIOSO NAZIONALE 143 (bancarotta semplice consistente nel fatto dell’imprenditore che «ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento» di cui all’art. 217, comma primo, n. 4, l. fall.; bancarotta fraudolenta consistente nel fatto delle persone preposte all’amministrazione delle società commerciali che «hanno cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società» di cui all’art. 223, comma secondo, n. 2, l. fall. (32)); interesse alla conservazione dei beni dell’imprenditore insolvente (33) (bancarotta fraudolenta patrimoniale dell’imprenditore individuale di cui all’art. 216, comma primo, n. 1 e comma 2, l. fall. e degli amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di società di cui all’art. 223, comma primo, l. fall.; bancarotta semplice patrimoniale di cui agli artt. 217, comma primo e 224 l. fall.); interesse alla par condicio creditorum (bancarotta preferenziale di cui all’art. 216, comma terzo, l. fall.) (34); interesse alla conservazione e alla veridicità della prova (bancarotta fraudolenta documentale di cui agli artt. 216, comma primo, n. 2 e comma 2 e 223, comma primo, l. fall.; bancarotta semplice documentale di cui all’art. 217, comma secondo, l. fall.). Diverse le critiche mosse alla tesi che annovera la bancarotta fra i reati contro l’amministrazione della giustizia. Autorevole dottrina (35) ha rimarcato come essa poggi sul presupposto che le norme incriminatrici della bancarotta considerino, in ogni caso, i creditori come massa, senza il quale sarebbe inconcepibile il vincolo processuale sui beni del debitore e sui mezzi di prova. Tale presupposto, tuttavia, sarebbe configurabile solo per le ipotesi di bancarotta post-fallimentare, non anche in relazione a quelle antecedenti alla dichiarazione di fallimento, che pure costituiscono la grande maggioranza dei casi: la formazione della massa dei creditori, infatti, è condizionata all’apertura della procedura, mentre non è configurabile prima della stessa. Ragione per cui la tesi qui criticata subordina la punibilità della bancarotta pre-fallimentare non deve essere promossa ove questi difettino: di qui il dovere di promuovere l’azione e quello di non promuoverla inutilmente, cui corrispondono norme dirette, da un lato, a stimolare l’attività dei soggetti tenuti a portare a conoscenza dell’autorità giudiziaria una domanda o una notizia, dall’altro, ad impedire che l’autorità giudiziaria sia chiamata al compimento di atti inutili o dannosi a seguito di notizie prive di fondamento o domande temerarie. (32) Sebbene questo reato debba principalmente annoverarsi tra quelli contro la pubblica economia, ritiene l’Autore che ad esso possa ricondursi anche il fatto di chi dolosamente chieda il fallimento della società in mancanza dei relativi presupposti, cioè simulando uno stato di insolvenza in realtà inesistente. (33) I reati che offendono questo interesse si caratterizzano per il fatto che il debitore o un terzo, tramite le azioni più diverse, sottraggono o comunque tentano di sottrarre a tutti i creditori indiscriminatamente i beni sui quali essi dovrebbero soddisfarsi in via coattiva o sostitutiva. (34) Secondo l’Autore in questa norma è particolarmente evidente l’esigenza pubblicistica di impedire sperequazioni fra i creditori; la minor pena rispetto alla bancarotta fraudolente, tuttavia, si giustifica col fatto che il fatto non è diretto a frodare genericamente i creditori, ma solo a favorire taluno di essi. (35) F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Leggi complementari, vol. II, Reati fallimentari. Reati ed illeciti amministrativi in materia tributaria, di lavoro, ambientale e urbanistica. Responsabilità degli enti, ed. XIII, a cura di C.F. GROSSO, Giuffrè, Milano, 2014, pp. 30-31. 144 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 al verificarsi dello stato di insolvenza, presupposto della procedura concorsuale (36). Ancora, muovendo dalla natura strumentale delle procedure concorsuali, si è sottolineato come il proficuo svolgimento delle stesse rappresenti non un fine, bensì un mezzo per la tutela del credito, pur collettivamente inteso (37). ii) Altra opinione, distinguendo fra norme “civili” e “penali” in materia di fallimento, riconduce alle prime la salvaguardia dei diritti dei creditori, ravvisando invece l’oggetto della tutela penale nell’interesse, sociale, al corretto andamento delle relazioni economiche (38): la bancarotta viene così annoverata fra i reati contro l’economia pubblica (39). In tal senso deporrebbe la natura della bancarotta come reato proprio dell’imprenditore commerciale: posto che per quest’ultimo il ricorso al credito è fisiologico ed abituale, l’insolvenza connessa alle condotte di bancarotta ingenera un senso di sfiducia nei potenziali investitori, il quale a sua volta si ripercuote negativamente sull’economia generale; senza contare la possibilità che i creditori dell’insolvente potrebbero, a loro volta, trovarsi in difficoltà nell’adempiere ai propri obblighi, con conseguente dissesto a catena lesivo dell’intero sistema economico. Anche il rigore delle risposte sanzionatorie dimostrerebbe come il legislatore abbia tenuto conto di questa frequente diffusività dei danni, in funzione di tutela della pubblica economia. (36) P. NUVOLONE, voce Fallimento (reati in materia di), cit., p. 481 precisa che la bancarotta (fraudolenta o semplice) patrimoniale offende l’interesse alla conservazione dei beni dell’imprenditore «“insolvente”: infatti, a nostro avviso, non è possibile, anche per i reati prefallimentari, retroagire indefinitamente nel tempo. Ciascuno ha diritto di disporre e di lasciar disporre liberamente dei propri beni fino al momento in cui, divenuto impossibile il normale soddisfacimento delle obbligazioni, subentra il vincolo in favore dei creditori. E tale momento è rappresentato dall’inizio dello stato di insolvenza». Questa la conclusione cui l’Autore sarebbe «costretto» secondo F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, cit., p. 31, il quale ricava dalla inaccettabilità della stessa (non potendo ammettersi la non punibilità dei fatti di bancarotta che hanno cagionato l’insolvenza e che quindi la precedono, come la distrazione di beni in un fallimento preordinato, stante la contrarietà con la lettera e gli scopi della legge) non poche perplessità circa la correttezza dell’intera ricostruzione. Condivide questa critica L. CONTI, voce Fallimento (reati in materia di), in Dig. disc. pen., vol. V, 1991, pp. 14-15 che sottolinea il «disagio» del Nuvolone, «rivelato dall’essersi egli indotto, senza altro motivo se non la necessaria coerenza colle premesse poste, a classificare sotto un distinto angolo di visuale le figure di bancarotta in cui il delitto si perfeziona colla causazione dell’insolvenza (per es.: i fatti di bancarotta fraudolenta impropria di cui all’art. 223, n. 2, l. fall., che vengono collocati tra i delitti contro l’economia pubblica)». (37) In questo senso E.M. AMBROSETTI - E. MEZZETTI - M. RONCO, Diritto penale dell’impresa, cit., p. 285 e G. MONTANARA, voce Fallimento (reati in materia di), in Enc. dir., Annali VI, 2013, p. 295. (38) L. BOLAFFIO, La bancarotta della bancarotta, in Riv. dir. comm., 1929, pp. 613 e ss. (39) A. CANDIAN, Della bancarotta, in Riv. dir. comm., 1935, pp. 218 e ss.; G. NOTO SARDEGNA, I reati in materia di fallimento, Priulla, Palermo, 1940, p. 63; C. D’AVACK, La natura giuridica del fallimento, CEDAM, Padova, 1940, pp. 20 e ss.; G. DE GENNARO, Teoria della bancarotta, Napoli, 1929, p. 38 (limitatamente però alle ipotesi di bancarotta pre-fallimentare); A. BERENINI, Delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio, in E. FLORIAN (a cura di), Trattato di diritto penale, ed. IV, Vallardi, Milano, 1937, pp. 17 e ss.; C. ALFANI, voce Bancarotta, in Dig. it., vol. V, 1926, p. 132; F. GRISPIGNI, La bancarotta e la nuova legge in preparazione sul fallimento, in Riv. dir. comm., 1941, p. 136. CONTENZIOSO NAZIONALE 145 In quest’ottica si è ulteriormente precisato (40) che il bene giuridico tutelato consiste nell’«ordinato esercizio del commercio», inteso non in senso giuridico, bensì squisitamente economico: non quale conformità dell’esercizio del commercio alle norme giuridiche che lo disciplinano, ma quale rispondenza dell’attività commerciale ai principi di una sana economia, principi lesi dai vari fatti di bancarotta (41). Anche questa ricostruzione è andata incontro a molteplici obiezioni. Anzitutto si è contestata la stessa utilità, ai fini dell’esegesi della figura delittuosa, della formula, eccessivamente generica, astratta ed evanescente, “economia pubblica” (42). In secondo luogo, pur non potendosi negare che il legislatore prenda in considerazione anche gli interessi della pubblica economia, essi tuttavia restano «comunque sullo sfondo e non appartengono al nucleo indefettibile dell’oggettività giuridica» (43): le conseguenze negative sull’economia generale, si è detto, rappresentano solo un effetto indiretto dei reati di bancarotta - che può aggiungersi alla lesione del diverso bene giuridico specificamente tutelato -, anzi possono derivare anche dal solo fatto dell’insolvenza, pur in mancanza di profili di rilevanza penale della condotta (44). Di qui l’equivoco di «confondere il motivo della tutela con l’interesse tutelato, l’oggetto immediato del reato con quello mediato» (45). (40) A. PAGLIARO, Il delitto di bancarotta, Priulla, Palermo, 1957, pp. 32 e ss., oggi anche in ID., Il diritto penale fra norma e società. Scritti 1956-2008, Vol. III, Altri scritti - I, Giuffrè, Milano, 2009, pp. 27 e ss. (41) Deve invece escludersi che il bene giuridico così individuato sia leso dall’insolvenza in sé considerata, potendo essa verificarsi, come fatto oggettivo, anche in mancanza di qualsivoglia violazione dei principi di una sana economia. (42) L. CONTI, voce Fallimento (reati in materia di), cit., p. 14 che sottolinea l’incertezza che ne deriva in ordine all’individuazione del soggetto passivo del reato; G. COCCO, La bancarotta preferenziale, Jovene, Napoli, 1987, p. 108; C. PEDRAZZI, Art. 216, in C. PEDRAZZI - F. SGUBBI, Reati commessi dal fallito. Reati commessi da persone diverse dal fallito, in Commentario Scialoja-Branca, Legge fallimentare, a cura di F. GALGANO, Zanichelli-Il foro italiano, Bologna-Roma, 1995, p. 9; C. SANTORIELLO, I reati di bancarotta, cit., p. 10. Secondo A. PAGLIARO, Il delitto di bancarotta, cit., p. 27 il rilievo si supera assumendo ad oggetto di tutela l’ordinato esercizio del commercio, nel suo significato economico. (43) Così C. PEDRAZZI, Reati fallimentari, in C. PEDRAZZI - A. ALESSANDRI - L. FOFFANI - S. SEMINARA - G. SPAGNOLO, Manuale di diritto penale dell’impresa. Parte generale e reati fallimentari, Monduzzi, Bologna, 2003, p. 103. (44) L. CONTI, voce Fallimento (reati in materia di), cit., p. 14; E.M. AMBROSETTI - E. MEZZETTI - M. RONCO, Diritto penale dell’impresa, cit., p. 284; G. MONTANARA, voce Fallimento (reati in materia di), cit., p. 295; C. SANTORIELLO, I reati di bancarotta, cit., pp. 10 e ss., che critica la confusione tra danno derivante da insolvenza o fallimento e danno derivante dalla bancarotta: il fatto di bancarotta, «per quanto grave possa essere la condotta posta in essere non avrà mai efficacia lesiva tale da danneggiare gli interessi patrimoniali dell’intera collettività». Contra A. PAGLIARO, Il delitto di bancarotta, cit., p. 28: «al rilievo fondato sulla normale esiguità della lesione alla pubblica economia, si può anche obiettare che, perché sussista la lesione di un bene giuridico, non ha rilevanza il profilo quantitativo, ma solo l’aspetto qualitativo dell’offesa […] sicché non è possibile argomentare dalle dimensioni dell’economia generale, per escludere che la bancarotta sia un reato contro la pubblica economia». 146 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 iii) L’orientamento prevalente (46) considera invece la bancarotta come un reato contro il patrimonio: oggetto della tutela sono cioè gli interessi patrimoniali dei creditori, la cui soddisfazione è pregiudicata, o comunque messa in pericolo, dai fatti di bancarotta. Più in particolare si distingue (47) fra diritto dei creditori alla garanzia patrimoniale, vanificato dalle condotte dell’imprenditore volte a depauperare il patrimonio posto a salvaguardia delle pretese creditorie (bancarotta patrimoniale, sia fraudolenta che semplice); diritto dei creditori alla distribuzione egualitaria dei beni dell’imprenditore secondo il principio della par condicio, pregiudicato da comportamenti che, pur non sminuendo nel complesso la garanzia patrimoniale, sono volti a favorire alcuni creditori in danno di altri (bancarotta preferenziale). Nella stessa prospettiva, anche la bancarotta documentale tutela le aspettative patrimoniali dei creditori, stante la strumentalità, rispetto all’esito fruttuoso della procedura fallimentare, della regolare tenuta della contabilità (48). La maggioranza degli autori, comunque, ravvisa l’oggetto giuridico nel diritto di credito vantato da chi abbia intrattenuto rapporti economici con l’impresa (49). (45) Come rilevato da G. DELITALA, L’oggetto della tutela nel reato di bancarotta, in Studi in onore di Silvio Longhi, Roma, 1935, p. 285. Osserva al riguardo L. CONTI, voce Fallimento (reati in materia di), cit., p. 14: «altra cosa è il motivo per cui la società fa luogo all’incriminazione dei reati, altra cosa è il modo con cui raggiunge tale fine ultimo col mezzo della protezione immediata di determinati interessi specifici, che si risolve nella protezione mediata di altri interessi di carattere più generale […] se l’evento giuridico va inteso come l’offesa del bene immediatamente protetto, non v’è dubbio che tale non può ritenersi la pubblica economia». (46) G. DELITALA, Contributo alla determinazione della nozione giuridica del reato di bancarotta, in Riv. dir. comm., 1926, p. 458; ID., L’oggetto della tutela nel reato di bancarotta, cit., pp. 283 e ss.; S. LONGHI, Bancarotta ed altri reati in materia commerciale, Società editrice libraria, Milano, 1930, pp. 160 e ss.; G. VASSALLI, La tutela penale del credito nel progetto vaticano di codice di procedura civile, in Riv. it., 1938, p. 162; M. PUNZO, Il delitto di bancarotta, UTET, Torino, 1953, p. 28; L. CONTI, voce Fallimento (reati in materia di), cit., pp. 15-16; C. PEDRAZZI, Reati fallimentari, cit., p. 104; E.M. AMBROSETTI - E. MEZZETTI - M. RONCO, Diritto penale dell’impresa, cit., p. 284; U. GIULIANI BALESTRINO, La bancarotta e gli altri reati concorsuali, Giappichelli, Torino, 2012, p. 14; G.L. PERDONÒ, I reati fallimentari, in A. MANNA (a cura di), Corso di diritto penale dell’impresa, CEDAM, Padova, 2010, pp. 327 e ss.; S. PROSDOCIMI, Tutela del credito e tutela dell’impresa nella bancarotta prefallimentare, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1999, pp. 131 e ss.; G. MONTANARA, voce Fallimento (reati in materia di), cit., pp. 295-296. (47) Cfr. F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, cit., p. 25; E.M. AMBROSETTI - E. MEZZETTI - M. RONCO, Diritto penale dell’impresa, cit., p. 283; L. CONTI, voce Fallimento (reati in materia di), cit., p. 13. (48) Ciò per un duplice ordine di ragioni: l’esatta ricostruzione del patrimonio e delle operazioni effettuate consente l’individuazione dei beni aggredibili, immediatamente o previo esercizio di azioni revocatorie o declaratorie di inefficacia; dall’altro lato, viene in evidenza l’effetto deterrente, rispetto ad operazioni distruttive o sconsiderate, dell’obbligo di dar conto di ogni operazione. (49) V. in particolare G. DELITALA, L’oggetto della tutela nel reato di bancarotta, cit., p. 284, che individua un triplice fronte di tutela del diritto in parola: contro gli atti del debitore di illecita disposizione dei propri beni; contro la violazione dell’obbligo di estensibilità del patrimonio imposto dalle disposizioni in materia di scritture contabili; contro il favoreggiamento di alcuni creditori in danno della massa. CONTENZIOSO NAZIONALE 147 Argomenti a sostegno dell’individuazione del bene giuridico nell’interesse patrimoniale dei creditori si sono desunti dalla struttura delle formule normative le quali, criminalizzando atti di illecita disposizione di beni, esposizione o riconoscimento di passività inesistenti, distruzione o alterazione o irregolare tenuta dei mezzi di ricostruzione del patrimonio e degli affari del debitore, mirano a proteggere una pluralità di interessi a carattere, appunto, patrimoniale dei portatori di ragioni di credito (50). In senso contrario si è contestata l’esistenza di un diritto di garanzia o di obbligazione o di credito quale oggetto giuridico dei reati di bancarotta (51). Obiezione cui i sostenitori della tesi qui in esame replicano rilevando che oggetto di tutela penale possono essere anche semplici interessi, nell’ambito dei quali «appare scolpito l’oggetto giuridico della bancarotta, che diviene, così, elemento di tutela “degli interessi patrimoniali” dei creditori» (52). Anche l’identificazione del bene giuridico nei semplici interessi patrimoniali dei creditori, tuttavia, è stata oggetto di critiche (53), fondate sui seguenti argomenti: la lesione dell’interesse patrimoniale dei creditori non si riannoda ai fatti di bancarotta, bensì all’insolvenza, estranea alla struttura del reato (54); l’interesse patrimoniale è tutelato solo in rapporto al proprio titolare, dovendo appartenere ad un soggetto passivo ben determinato, il che nella bancarotta non avviene; non si spiegherebbe perché le medesime condotte, ugualmente pregiudizievoli degli interessi patrimoniali dei creditori, poste in essere da soggetto diverso dall’imprenditore, non integrino bancarotta; non troverebbe sufficiente giustificazione lo stesso requisito della dichiarazione di fallimento; Cfr. anche G. MONTANARA, voce Fallimento (reati in materia di), cit., p. 295 (secondo cui l’oggetto giuridico dei delitti di bancarotta «deve essere individuato “nel diritto di credito in quanto tale”») e S. PROSDOCIMI, Tutela del credito e tutela dell’impresa nella bancarotta prefallimentare, cit., p. 138 («nell’ambito della bancarotta patrimoniale […] la tutela del credito appare, dunque, assolutamente predominante ed assorbente»). (50) L. CONTI, voce Fallimento (reati in materia di), cit., p. 15 secondo cui «si tratta dell’interesse all’integrità della garanzia ex art. 2740 c.c., e, in funzione del medesimo, dell’interesse a conoscere l’entità e natura dei beni del debitore (donde la protezione delle scritture), dell’interesse ad ottenere […] un soddisfacimento pronto e nella maggior misura possibile e infine dell’interesse alla tutela del proprio credito in modo conforme alla legge di fronte al concorso dei crediti altrui (ciò che spiega perché sia represso il favoreggiamento dei creditori)». (51) A. PAGLIARO, Il delitto di bancarotta, cit., pp. 10 e ss. (52) G. MONTANARA, voce Fallimento (reati in materia di), cit., p. 296; cfr. anche L. CONTI, voce Fallimento (reati in materia di), cit., p. 13 e F. TAGLIARINI, I reati fallimentari, in G. INSOLERA - R. ACQUAROLI (a cura di), Problemi attuali del diritto penale dell’impresa, Nuove Ricerche, Ancona, 1997, p. 65. (53) A. PAGLIARO, Il delitto di bancarotta, cit., pp. 13 e ss. (54) A questa obiezione replica L. CONTI, voce Fallimento (reati in materia di), cit., pp. 13-14: «a prescindere dal fatto che l’offesa all’interesse patrimoniale dei creditori non può essere spostata innanzi e riferita al solo momento del verificarsi dell’insolvenza, non basta dire che quest’ultima è estranea alla struttura del reato di bancarotta per affermare che della medesima non si debba tener conto nella ricerca sul contenuto dell’offesa. Basta pensare alla funzione della sentenza dichiarativa di fallimento, la quale appunto accerta l’insolvenza ai fini della punibilità dell’autore, per comprendere come la insolvenza stessa debba essere considerata in sede di indagine sull’interesse protetto». 148 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 la previsione di ipotesi di bancarotta colposa sarebbe incoerente con la normale punibilità dei reati patrimoniali a solo titolo di dolo. Si è ulteriormente precisato che, fino al momento in cui il creditore non abbia aggredito i beni del debitore, su quest’ultimo non incombe alcun dovere né alcuna limitazione in ordine alla libera disponibilità dei propri beni. Con la conseguenza che il bene giuridico non può identificarsi con il patrimonio dei creditori, essendo i loro interessi patrimoniali tutelati non di per sé, ma solo in quanto si inseriscano in una procedura concorsuale (55). iv) Un’opinione più risalente inquadra la bancarotta fra i reati contro la fede pubblica (56), sul rilievo che le relazioni commerciali si fondano sulla fiducia nella reciproca lealtà, assolutamente necessaria per lo svolgimento delle stesse, ragion per cui non di fede privata si tratterebbe, ma di fede pubblica, intesa come fiducia usuale che l’ordinamento dei rapporti commerciali e la sua attuazione pratica ingenerano tra i consociati. Questa concezione di fede pubblica, tuttavia, non collima con quella di “fiducia che la società ripone negli oggetti, nei segni e nelle forme esteriori” che individua la nozione tecnica di tale bene giuridico (57). Si è altresì rilevato (58) che nei reati contro la fede pubblica l’oggetto della tutela è, in realtà, il mezzo di prova (59), che è tale solo se vi si ripone fiducia: di qui la coincidenza fra dire che oggetto di tutela è la fiducia che si ripone nel mezzo di prova e dire che il mezzo di prova è oggetto di tutela. Coincidenza che invece non si verifica nel caso della bancarotta: se pure è vero che la reiterata violazione delle norme penali fallimentari farebbe venir meno la fiducia indispensabile allo svolgimento dei rapporti commerciali, ciò tuttavia non vale ad individuare nella fede pubblica l’oggetto di tutela, che sarà al contrario quell’interesse la cui lesione determina il venir meno della fiducia. Maggiormente fondata potrebbe apparire la tesi della bancarotta come (55) C. SANTORIELLO, I reati di bancarotta, cit., pp. 8-9. Contra L. CONTI, voce Fallimento (reati in materia di), cit., p. 15 secondo cui non può negarsi che la difesa del credito si concreti in una difesa del patrimonio di chi lo fa valere, essendo pacifico che i crediti vadano computati tra le attività patrimoniali, né potrebbe «opporsi il fatto che la legge mira alla tutela non tanto dell’interesse del creditore singolo, quanto dell’interesse comparativo di tutti i creditori […]. Questo incontestabile rilievo non vale di per sé ad escludere il carattere patrimoniale dell’interesse di massa preso in considerazione e a trasformarlo […] in un interesse pubblicistico processuale. Data la funzione tipicamente strumentale del processo, occorre aver riguardo agli interessi sostanziali che nel regolare sviluppo di quello trovano tutela, tra i quali resta in prima linea la protezione del patrimonio dei creditori, sia pure attuata armonizzando e contemperando le ragioni di questi ultimi, prese in considerazione nel loro complesso». (56) F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale. Parte speciale, vol. VII, Lucca, 1874, § 3359 (e autori ivi citati). (57) Se ne ricava che la fede pubblica non possa costituire oggetto giuridico della bancarotta: in tal senso C. ALFANI, voce Bancarotta, cit., pp. 133 e ss.; G. DELITALA, Contributo alla determinazione della nozione giuridica del reato di bancarotta, cit., pp. 458 e ss.; ID., L’oggetto della tutela nel reato di bancarotta, cit., pp. 284 e ss. (58) A. PAGLIARO, Il delitto di bancarotta, cit., pp. 21-22. (59) F. CARNELUTTI, Teoria del falso, CEDAM, Padova, 1935, pp. 2 e ss. CONTENZIOSO NAZIONALE 149 reato contro la fede pubblica in relazione alla bancarotta documentale, che alcuni autori ritengono integri vere e proprie ipotesi di falso materiale e falso ideologico in scrittura privata (60). Anche con riferimento a queste fattispecie, tuttavia, si è obiettato che i reati di falso si caratterizzano per la tipicizzazione di un mezzo specifico per un fine generico, ben potendosi quindi fare riferimento non al fine, indeterminato, ma al mezzo nella ricostruzione dell’offesa, identificandola con la lesione di un interesse relativo alla prova. Nella bancarotta documentale fraudolenta, invece, anche il fine è tipicizzato (sottrazione della garanzia ai creditori), dovendosene quindi tener conto nella ricostruzione della oggettività giuridica, che non si differenzierà da quella della bancarotta fraudolenta patrimoniale (61). Anche per quanto riguarda la bancarotta documentale semplice si è rimarcata la necessità di tener conto dell’intera struttura della fattispecie nella ricostruzione dell’oggetto giuridico (qualifica del soggetto attivo, oggetto materiale, funzione del fallimento, riunione delle ipotesi documentali e patrimoniali nella stessa disposizione): di nuovo, quindi, dovrà concludersi per la coincidenza fra oggetto giuridico della bancarotta patrimoniale e di quella documentale (62). v) Una sorta di tentativo di sintesi tra le opinioni suddette possono considerarsi le teorie della natura plurioffensiva dei reati di bancarotta. Il più autorevole sostenitore (63) della necessità di riconoscere una pluralità di interessi tutelati dalle norme sulla bancarotta, muove dalla critica alla concezione della stessa come reato contro l’amministrazione della giustizia, circoscrivendone l’accoglibilità alle sole fattispecie di bancarotta post-fallimentare, con la precisazione però che esse offendono anche altri interessi. Questi ulteriori interessi devono individuarsi, anzitutto, in quelli patrimoniali dei creditori (64), che quindi rientrano nell’offensività giuridica, senza tuttavia esaurirla, pena una visione angusta ed unilaterale del fenomeno dell’insolvenza, che trascura le gravi ripercussioni che ne derivano sul piano dell’eco- (60) P. NUVOLONE, Il diritto penale del fallimento e delle altre procedure concorsuali, cit., pp. 263 e ss. Deve però precisarsi che questo Autore ritiene che nei reati di falso l’oggetto di tutela sia «l’interesse al cui soddisfacimento l’atto è predisposto nel sistema dell’ordinamento giuridico» (p. 34), per cui anche le ipotesi di bancarotta documentale, come si è visto supra, offendono un interesse di tipo processuale (p. 36). (61) A. PAGLIARO, Il delitto di bancarotta, cit., p. 23. V. anche C. ALFANI, voce Bancarotta, cit., pp. 133 e ss. e G. DELITALA, L’oggetto della tutela nel reato di bancarotta, cit. pp. 284 e ss., che riferiscono l’argomentazione a tutte le ipotesi di bancarotta documentale, ritenendola sufficiente ad escludere che anche la bancarotta documentale semplice sia reato contro la fede pubblica. (62) A. PAGLIARO, Il delitto di bancarotta, cit., p. 24. (63) F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, cit., pp. 31 e ss. (64) Questi ultimi non sono limitati alla conservazione della garanzia patrimoniale, ma ricomprendono: l’interesse a conoscere la consistenza del patrimonio del debitore e i il movimento dei suoi affari; l’interesse al trattamento paritario in caso di insolvenza; l’interesse ad essere soddisfatti nella maggior misura e nel minor tempo possibili. I fatti di bancarotta offendono l’uno o l’altro di tali interessi, o anche più di essi contemporaneamente. 150 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 nomia generale in termini di pregiudizio al credito pubblico. Di qui la necessità di ricomprendere nell’oggetto giuridico della bancarotta anche l’economia pubblica (65), oltre, come detto, per i fatti successivi alla dichiarazione di fallimento, l’interesse dell’amministrazione della giustizia. La plurioffensività dei reati di bancarotta (e, più in generale, di tutti i reati fallimentari), è stata ribadita anche di recente (66), assegnandosi a tutte le incriminazioni contenute nella legge fallimentare lo scopo di garantire la genuinità della procedura fallimentare e il conseguimento delle sue finalità, per l’evidente riflesso sul regolare svolgimento dell’economia che ne deriva. Oltre all’interesse al regolare svolgimento dell’economia (67), le varie incriminazioni tutelano anche altri interessi particolari: l’interesse di ciascun creditore alla integrità del patrimonio del fallito contro ogni atto di depauperamento (bancarotta fraudolenta patrimoniale), l’interesse alla esatta e sollecita ricostruzione del patrimonio del fallito (bancarotta documentale fraudolenta e semplice), l’interesse alla par condicio creditorum (bancarotta fraudolenta preferenziale), l’interesse all’integrità del patrimonio del fallito (bancarotta semplice patrimoniale) (68), l’interesse relativo all’opportunità di colpire l’imprenditore manifestamente negligente che non adempie il concordato preventivo o fallimentare (art. 217, comma primo, n. 5, l. fall.), l’interesse ad evitare aree di immunità penale, quando i comportamenti illeciti siano posti in essere nell’ambito di società (bancarotta impropria). In senso parzialmente difforme si è limitata la natura plurioffensiva alla sola bancarotta post-fallimentare, che tutelerebbe, oltre al diritto di credito, anche l’interesse dell’amministrazione della giustizia (69). Più radicale la critica di chi, riducendo a quest’ultimo l’oggetto della tutela, nega che possano rientrarvi anche gli interessi patrimoniali dei creditori o la pubblica economia, che riceverebbero tutela solo riflessa, strumentale rispetto ad altro obiettivo, costituente il vero oggetto giuridico (70). (65) In proposito l’Autore respinge la critica fondata sulla confusione tra motivo della tutela e interesse tutelato, fra oggetto mediato e immediato del reato (v. supra, nota 45), ritenendo che l’interesse dell’economia pubblica non si riduca a quel generico interesse pubblico che sta alla base di ogni illecito penale, ma identifichi un interesse specifico e concreto, di innegabile rilevanza, cui deve riconoscersi piena rilevanza nell’ordinamento, essendo oggetto giuridico di tutta una categoria di reati (artt. 499 e ss. c.p.). (66) A. DIAMATO, Diritto penale dell’impresa, ed. VII, Giuffrè, Milano, 2011, pp. 427-428 e 434 e ss. (67) Dalla inclusione fra gli interessi protetti del regolare svolgimento dell’economia, l’Autore fa discendere l’inapplicabilità della scriminante del consenso. (68) Anche R. ROVELLI, Disciplina penale dell’impresa, Giuffrè, Milano, 1953, p. 173 sembra ritenere che il patrimonio tutelato sia quello del fallito, il che secondo A. PAGLIARO, Il delitto di bancarotta, cit., p. 9, nota 32 costituisce un equivoco, come rilevato già da L. SEGESSER VON BRUNEGG, Die Konkursverbrechen des deutschen Rechts. Eine dogmatische Studie, Druck der Union Deutsche Verlagsgesellschaft, Stoccarda, 1914, p. 14, che qualifica il patrimonio dell’agente non come oggetto giuridico, ma come oggetto materiale, posto che un bene non è mai tutelato contro gli attacchi del suo titolare. (69) G. MONTANARA, voce Fallimento (reati in materia di), cit., p. 295. CONTENZIOSO NAZIONALE 151 4. Il danno patito dal Ministero nel caso di specie. Venendo al caso di specie, alla stregua delle ricostruzioni così proposte, può anzitutto escludersi ogni dubbio circa la legittimazione del Ministero dello Sviluppo Economico a costituirsi parte civile in relazione al delitto di cui all’art. 2638 c.c. Agli imputati si contesta l’esposizione di fatti materiali non rispondenti al vero sulla situazione economica e finanziaria nelle comunicazioni e nei bilanci, indirizzati anche all’autorità pubblica di vigilanza, attraverso condotte di omissione, occultamento e falsa indicazione, al fine di ostacolare l’esercizio delle funzioni di vigilanza da parte del MISE. Corretto l’inserimento del Ministero de quo nel novero delle «autorità pubbliche di vigilanza» di cui alla suddetta norma, sulla base di una serie di indici normativi in cui trovano rispondenza tutti i criteri cui dottrina e giurisprudenza fanno riferimento nel delimitare la relativa nozione. Definite le società fiduciarie come «quelle che, comunque denominate, si propongono sotto forma di impresa, di assumere l’amministrazione dei beni per conto di terzi […] e la rappresentanza dei portatori di azioni e di obbligazioni» (art. 1 l. n. 1966/1939), la legge esplicitamente afferma che esse «sono soggette alla vigilanza del Ministero delle corporazioni» (art. 2 l. n. 1966/1939), poi del Ministero delle Attività Produttive (art. 28, comma primo, lett. c), d.lgs. n. 300/1999), oggi del MISE (artt. 1 e 17, comma primo, lett. h) D.P.C.M. n. 158/2013). Scontata la natura pubblicistica dell’autorità così individuata, e della funzione che svolge, deve altresì ritenersi che la vigilanza che essa è chiamata ad esercitare assuma appieno quel significato tecnico di potere ispettivo, inteso quale controllo tanto preventivo quanto successivo. Sotto il primo profilo, le società fiduciarie non possono «iniziare le operazioni senza essere autorizzate con decreto del Ministro» (art. 2 l. n. 1966/1939), per ottenere la quale autorizzazione esse devono presentare apposita istanza, cui vanno allegati i documenti attestanti i requisiti di legge (artt. 1 e 2 R.D. n. 531/1940). Sotto il secondo profilo, la vigilanza «è esercitata per mezzo dell’esame dei bilanci annuali, i quali devono essere inviati al Ministero […] entro un mese dalla loro approvazione (71), e per mezzo d’ispezioni periodiche e straordinarie (70) C. SANTORIELLO, I reati di bancarotta, cit., pp. 11 e ss. Negano la natura plurioffensiva anche G.L. PERDONÒ, I reati fallimentari, cit., pp. 330 e ss.; C. PEDRAZZI, Art. 216, cit., pp. 106 e ss., che limita l’interesse protetto a quello patrimoniale dei creditori, tanto nella bancarotta pre che post-fallimentare; L. CONTI, voce Fallimento (reati in materia di), cit., pp. 15-16: «non si nega che in questo modo restano difesi, con minore immediatezza, anche altri interessi, quali quelli dell’amministrazione della giustizia (specie con riferimento alla bancarotta post-fallimentare), nonché del commercio e dell’economia pubblica. Non si nega del pari che la considerazione dell’interesse sociale della pubblica economia vada guadagnando terreno […] ma, a nostro avviso, si tratta ancora soltanto di una prospettiva, avvicinata, ma non raggiunta, la quale richiederebbe, comunque, una modifica del dato normativo». (71) V. anche art. 16 del D.M. 16 gennaio 1995, indicante i documenti da trasmettere unitamente al bilancio ai fini dell’esercizio della funzione di vigilanza. 152 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 dell’amministrazione sociale, affidate a funzionari governativi», con obbligo della società di «fornire tutte le spiegazioni e di presentare tutti i documenti» a richiesta del funzionario o del Ministero (art. 3 R.D. n. 531/1940). L’omesso invio del bilancio, il rifiuto dei documenti richiesti o altra irregolarità consente al Ministro di sospendere la società dall’esercizio dell’attività o, nei casi più gravi, di revocare l’autorizzazione (art. 4 R.D. n. 531/1940). Tanto il controllo preventivo in sede di autorizzazione all’esercizio dell’attività fiduciaria, in cui il Ministero è chiamato ad accertare la sussistenza dei presupposti di legge, quanto il controllo successivo sul concreto svolgimento dell’attività e sul mantenimento dei presupposti medesimi (72), sono finalizzati all’attuazione dell’interesse pubblicistico a che sia garantita l’affidabilità delle società fiduciarie nei loro rapporti con il pubblico, prima che si verifichino negative ricadute sul mercato. Le condotte poste in essere dagli imputati hanno frustrato la realizzazione del suddetto interesse, pregiudicando il corretto ed efficace svolgimento delle funzioni di vigilanza del Ministero. Le conseguenti negative ricadute sul mercato, inevitabilmente, si ripercuoto sull’immagine del Ministero stesso, con legittimazione al ristoro del nocumento così subito. Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi anche con riferimento ai reati di bancarotta contestati agli imputati, accusati di aver cagionato il dissesto della società, compiendo, anche mediante omissione, atti di disposizione di beni posseduti dalla stessa in virtù di mandati fiduciari ricevuti dai clienti investitori; di aver distratto somme di denaro ricevute allo stesso titolo; di aver distrutto e/o sottratto le scritture contabili e, antecedentemente, di averle tenute in modo da impedire la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari. Tralasciando le concezioni, attualmente minoritarie, che qualificano le fattispecie di bancarotta come reati contro l’interesse dell’amministrazione della giustizia ovvero contro la fede pubblica (73), se si muove dall’impostazione secondo cui essi offendono (esclusivamente o anche) il corretto andamento delle relazioni economiche, quindi l’economia pubblica, o l’ordinato esercizio del commercio, ci si avvede che si tratta dei medesimi beni “finali” rispetto ai quali è strumentale la funzione di controllo tutelata dall’art. 2638 c.c. (con riferimento, s’intende, al settore di attività delle società fiduciarie). Gli interessi pregiudicati dai fatti di bancarotta, in altri termini, sono interessi pubblicistici coincidenti con quelli in vista della realizzazione dei quali il Ministero dello Sviluppo Economico è chiamato a svolgere il controllo preventivo e successivo sulle società fiduciarie. (72) Cfr. art. 3, comma terzo, D.M. 16 gennaio 1995. (73) Anche qualora dovesse accedersi all’opinione del Carrara, intendendosi la “fede pubblica”, con riferimento al settore di attività della società coinvolta nel caso di specie, come fiducia dei clienti investitori, ugualmente potrebbe sostenersi la legittimazione del MISE, essendo pregiudicata la sua immagine quale soggetto deputato al controllo necessario ad assicurare quella fiducia. CONTENZIOSO NAZIONALE 153 La legittimazione alla costituzione di parte civile del MISE, in ogni caso, sussiste anche se si accede all’orientamento dottrinario maggioritario, condiviso anche dalla più recente giurisprudenza di legittimità (74), che individua gli interessi protetti in quelli patrimoniali dei creditori. Essendo questi ultimi soggetti che si relazionano con una società sottoposta al controllo e alla vigilanza del Ministero, i fatti di bancarotta non solo pregiudicano gli interessi patrimoniali dei creditori, ma cagionano altresì un grave nocumento all’immagine del Ministero. Ciò soprattutto ove si muova dalla considerazione dell’art. 2638 quale “presidio” di obblighi informativi che, se correttamente adempiuti, assicurano in via diretta il corretto esercizio delle funzioni di controllo e, in via indiretta, la salvaguardia della sfera patrimoniale dei soggetti nel cui interesse quella funzione è prevista (75). Occorre considerare la nozione di danno all’immagine della Pubblica Amministrazione delineata dalle Sezioni Unite, nel senso di «danno conseguente alla grave perdita di prestigio ed al grave detrimento dell’immagine e della personalità pubblica dello Stato» (76). Con riferimento, più in generale, alle persone giuridiche e agli enti, si è ulteriormente precisato che anche nei loro confronti è configurabile un danno risarcibile quando il fatto lesivo incida su una situazione giuridica equivalente ai diritti fondamentali della persona umana, fra i quali rientra l’immagine. La lesione di quest’ultima, pertanto, comporta la risarcibilità del danno costituito «dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica o dell’ente nel che si esprime la sua immagine [anche] sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte (74) Cass., Sez. III pen., 20 novembre 2015, n. 3539, C., in DeJure: la norma incriminatrice di cui all’art. 216 l. fall. «è preposta a sanzionare condotte che pregiudichino […] l’interesse del ceto creditorio di massa al soddisfacimento dei propri singoli diritti»; Cass., Sez. V pen., 17 settembre 2015, n. 3977, F., ivi: «l’imprenditore è posto dal nostro ordinamento in una posizione di garanzia nei confronti dei creditori, i quali ripongono la garanzia dell’adempimento delle obbligazioni dell’impresa sul patrimonio di quest’ultima. Ne deriva la diretta responsabilità del gestore di questa ricchezza per la sua conservazione in ragione dell’integrità della garanzia. La perdita ingiustificata del patrimonio o l’elisione della sua consistenza danneggia le aspettative della massa creditoria ed integra l’evento giuridico sotteso dalla fattispecie di bancarotta fraudolenta»; Cass., Sez. V pen., 3 luglio 2015, n. 2295, P., ivi: «l’evento del reato di bancarotta deve intendersi quello, in senso giuridico, costituito dal fatto capace di ledere il bene protetto dalla norma. Questo è costituito dalla esposizione a pericolo del patrimonio della società mediante atti distruttivi, tali da ridurre la garanzia dei creditori in caso di fallimento»; Cass., Sez. V pen., 26 settembre 2011, n. 44933, Pisani, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2012, pp. 564 e ss.: «per la speciale configurazione del precetto, la protezione penale degli interessi creditori è assicurata mediante la sua connotazione di reato di pericolo. L’offesa penalmente rilevante è conseguente anche all’esposizione dell’interesse protetto alla probabilità di lesione, onde la penale responsabilità sussiste non soltanto in presenza di un danno attuale ai creditori, ma anche nella situazione di messa in pericolo dei loro interessi»; Cass., Sez. V pen., 10 novembre 2011, n. 1843, M., in DeJure, che assegna alla bancarotta funzione di «tutela dei creditori». (75) V. supra, al richiamo della nota 14. (76) Cass., Sez. Un. civ., 25 giugno 1997, n. 5668, in Danno e Resp., 1997, p. 767. 154 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica o l’ente di norma interagisca» (77). I fatti di bancarotta contestati agli imputati, avendo ad oggetto beni, libri e scritture contabili necessari alla ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari, non solo hanno leso gli interessi patrimoniali dei privati entrati in rapporto con la società, ma hanno altresì inciso sulla considerazione che questi ultimi hanno del soggetto deputato al controllo necessario ad assicurare l’affidabilità, nei loro confronti, della fiduciaria. La reputazione del Ministero presso la categoria dei consociati coinvolti dall’attività della società, quindi, ha subito un notevole scadimento per effetto delle condotte poste in essere dagli imputati. Le peculiarità del caso di specie ulteriormente depongono in tal senso. Da un lato, il delitto di ostacolo all’esercizio delle funzioni dell’autorità pubblica di vigilanza è contestato con l’aggravante di cui all’art. 61, n. 2, c.p.; dall’altro, i reati di bancarotta e quello di cui all’art. 2638 c.c. sono unificati, secondo l’impianto accusatorio, dal vincolo della continuazione (78). (77) Cass., Sez. III civ., 4 giugno 2007, n. 12929, in DeJure. (78) Discussa è la compatibilità fra reato continuato e aggravante di cui al n. 2 dell’art. 61 c.p., soprattutto dopo la riforma dell’art. 81 ad opera del d.l. 11 aprile 1974, n. 99. Una prima opinione (G. VASSALLI, La riforma penale del 1974, Vallardi, Milano, 1975, p. 63; G. FIANDACA - E. MUSCO, Diritto penale, cit., p. 451; F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., pp. 489-490) muove dalla profonda analogia, se non identità di situazione psicologica, fra medesimezza del disegno criminoso e nesso teleologico, che si differenzierebbero unicamente per le opposte conseguenze, di favor in un caso e aggravanti nell’altro. L’intima contraddittorietà, priva di plausibile giustificazione tanto sul piano dogmatico che della prassi applicativa, dovrebbe condurre a ritenere tacitamente abrogata l’aggravante di cui al n. 2 dell’art. 61 c.p., per incompatibilità con l’art. 81, cpv. Nel senso della inapplicabilità dell’art. 61 n. 2 quando i reati teleologicamente connessi siano omogenei, con applicazione del solo art. 81, prima della riforma del 1974, v. C.F. PALAZZO, Considerazioni sulla compatibilità fra le aggravanti dell’esposizione alla pubblica fede e dell’uso di violenza o di mezzi fraudolenti e sulla compatibilità fra reato continuato ed aggravante teleologica, in Temi, 1971, p. 184. A sostegno della compatibilità tra disegno criminoso e connessione teleologica, si è invece osservato (V. ZAGREBELSKY, Reato continuato, ed. II, Giuffrè, Milano, 1976, pp. 162 e ss.; A. PAGLIARO, I reati connessi, Priula, Palermo, 1956, p. 173) come il primo, a differenza della seconda, non esiga mai un determinato ordine logico e cronologico tra i vari reati e che la seconda, a differenza del primo, disciplina il singolo reato-mezzo in una determinata relazione psichica con un altro reato, non svolgendo il diverso ruolo di qualificare unitariamente un complesso di reati riconducibili alla medesima ideazione. Per una critica ad entrambe le tesi e la configurazione della connessione teleologica tra reati in continuazione come variazione del disegno criminoso, v. G. DE FRANCESCO, La connessione teleologica nel quadro del reato continuato, in Riv. it. dir. proc. pen., 1978, pp. 109 e ss. Più di recente, L. BRIZI, La coniugabilità della continuazione di reati e in particolare del “medesimo disegno criminoso” con lo “stato di tossicodipendenza”, in Cass. pen., 2015, pp. 3600- 3601, ritenendo poco plausibile la conclusione dell’abrogazione tacita dell’aggravante in questione, ricava proprio da qui la necessità di interpretare il “disegno” di cui all’art. 81, cpv. differentemente rispetto al nesso teleologico, dunque «in chiave intellettiva “pura”, quale, cioè, rappresentazione mentale anticipata, in via sufficientemente dettagliata, delle singole condotte», ferma la possibilità che esso possa maggiormente caratterizzarsi, rientrando nel suo ambito anche il rapporto mezzo-fine di cui all’art. 61, n. 2. La prevalente giurisprudenza di legittimità ritiene che «non sussiste incompatibilità logico-giuridica tra la continuazione e l’aggravante del nesso teleologico, agendo il vincolo della continuazione sul piano della riconducibilità di più reati ad un comune programma criminoso ed essendo il nesso teleologico connotato dalla strumentante di un reato rispetto ad un altro, alla cui esecuzione od al cui oc- CONTENZIOSO NAZIONALE 155 Sotto il primo profilo, le condotte contestate ex art. 2638 c.c. sono state poste in essere, oltre che per ostacolare l’esercizio delle funzioni di vigilanza, anche per agevolare, in tal modo, la commissione dei reati di infedeltà patrimoniale. In altri termini, il pieno ed efficace svolgimento dei controlli da parte del Ministero è stato impedito dagli imputati per poter compiere i reati di bancarotta, così vanificandosi la funzione del Ministero medesimo. Ne deriva che il danno riportato dai soggetti privati, creditori della fiduciaria, riverbera inevitabilmente, diminuendola, sulla considerazione che questi hanno del soggetto che avrebbe dovuto assicurare il regolare svolgimento dell’attività fiduciaria, ma non ha potuto perché impedito dalle condotte degli imputati. L’unicità dell’ubi consistam della fonte del pregiudizio patito dal Ministero, comprensiva di tutti i reati de quibus, risulta poi avvalorata dall’essere state le condotte realizzate nell’esecuzione di un medesimo disegno criminoso, intendendosi quest’ultimo quale «unico programma, deliberato sin dall’inizio nelle sue linee essenziali, per conseguire un determinato fine» idoneo a “cementare” le singole violazioni (79). cultamento il primo è preordinato; e se è vero che normalmente il nesso teleologico è sintomo anche di identità del disegno criminoso, non può dirsi, invece, che il vincolo della continuazione implichi o contenga in sé il nesso teleologico, che, invero, ben può mancare, ed ordinariamente difetta, tra i vari episodi di un reato continuato. Né può sostenersi che l’incompatibilità deriverebbe dall’impossibilità che un istituto ispirato al favor rei, come la continuazione, possa, al contempo, fungere da causa di aggravamento della pena, essendo evidente come tale ultimo effetto consegua non già all’affermazione del vincolo della continuazione bensì all’applicazione della circostanza aggravante di cui all’art. 61 c.p. , n. 2, in nessun modo contenuta od implicita nell’identità della matrice ideativa dei due reati teleologicamente connessi» (Cass., Sez. I pen., 6 marzo 1996, n. 3442, Laezza, in CED Cass. rv. 204326). Cfr. anche Cass., Sez. V pen. 27 settembre 1995, n. 10508, Iaquinta, in CED Cass. rv. 202499 («la circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 2 c.p. (nesso teleologico) è compatibile con il vincolo della continuazione; e ciò in quanto mentre il nesso teleologico aggrava il reato per la maggiore intensità del dolo e la maggiore pericolosità di chi commette il crimine, il vincolo della continuazione, invece, ha la funzione di ridimensionare la pena escludendo il cumulo materiale»); Cass., Sez. II pen., 17 novembre 2004, n. 48317, Emiliano, in CED Cass. rv. 230427 («è da escludere che la circostanza aggravante del nesso teleologico, prevista dall’art. 61 c.p., n. 2, sia concettualmente assorbita dall’unicità del disegno criminoso che, pertanto, il riconoscimento della continuazione ex art. 81 c.p. non consenta la configurabilità della predetta circostanza»); Cass., Sez. I pen., 3 novembre 2004, n. 46270, Dellagaren, in CED Cass. rv. 230188 («Il vincolo della continuazione è compatibile con l’aggravante del nesso teleologico, in quanto il primo agisce sul piano della riconducibilità di più reati ad un comune programma criminoso, mentre il secondo è connotato dalla strumentalità di un reato rispetto ad un altro, alla cui esecuzione o al cui occultamento è preordinato»). Da ultimo, v. Cass., Sez. IV pen., 6 marzo 2015, n. 45231, P., in Leggi d’Italia, che ribadisce tutti i suddetti precedenti. (79) Cass., Sez. I pen., 18 novembre 2008, n. 43004, I., in Guida dir., 2009, n. 5, p. 91. Trattasi di orientamento consolidato: in senso conforme, tra le altre, Cass., Sez. II pen., 22 ottobre 2010, n. 40123, M., in CED Cass. rv. 248862; Cass., Sez. IV pen., 17 dicembre 2008, n. 16066, Di Maria, in CED Cass. rv. 243632; da ultimo Cass., Sez. I pen., 6 aprile 2016, n. 20503, B., in DeJure: «l'unicità del disegno criminoso presuppone l’anticipata ed unitaria ideazione di più violazioni della legge penale, già presenti nella mente del reo nella loro specificità». Per una efficace sintesi delle nozioni di “medesimo disegno criminoso” elaborate dalla dottrina, si rimanda ancora a L. BRIZI, La coniugabilità della continuazione di reati e in particolare del “medesimo disegno criminoso” con lo “stato di tossicodipendenza”, cit., pp. 3597-3599. 156 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 5. Legitimatio ad causam nel processo penale secondo la più recente giurisprudenza di legittimità. L’affermazione del danno così individuato ed eziologicamente riferito alle condotte degli imputati, è di per sé sufficiente a fondare la legittimazione alla costituzione di parte civile nel processo penale. Correttamente pertanto il Giudice ha disatteso le eccezioni delle difese, che quella legittimazione contestavano. Giova infatti ricordare quanto di recente precisato dalla giurisprudenza penale, in recepimento delle elaborazioni di quella civile (80), a sua volta debitrice della migliore dottrina processualcivilistica (81). Posto che soggetto danneggiato, al quale, ex artt. 185 c.p. e 74 c.p.p., spetta il risarcimento del danno da reato, è chiunque abbia riportato un danno eziologicamente riferibile all’azione od omissione del soggetto attivo del reato (82), ne consegue che «soggetto legittimato alla costituzione di parte civile è chiunque affermi di aver riportato un danno eziologicamente riferibile all’azione od omissione del soggetto attivo del reato, a prescindere dall’accertamento dell’effettiva sussistenza del diritto azionato, che riguarda il merito della decisione»; la legittimazione ad agire, infatti, costituisce «una condizione dell’azione diretta all’ottenimento, da parte del giudice, di una qualsiasi decisione di merito, la cui esistenza va verificata esclusivamente alla stregua della fattispecie giuridica prospettata dalla parte a fondamento dell’azione, in relazione al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, ed indipendentemente dalla effettiva titolarità della posizione soggettiva (attiva o passiva) affermata» (83). (80) V. Cass., Sez. II civ., 27 giugno 2011, n. 14177, in CED Cass. rv. 618438: «la legittimazione ad agire costituisce una condizione dell’azione diretta all’ottenimento, da parte del giudice, di una qualsiasi decisione di merito, la cui esistenza è da riscontrare esclusivamente alla stregua della fattispecie giuridica prospettata dall’azione, prescindendo, quindi, dalla effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa che si riferisce al merito della causa, investendo i concreti requisiti di accoglibilità della domanda e, perciò, la sua fondatezza. Ne consegue che, a differenza della legitimatio ad causam (il cui eventuale difetto è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio), intesa come il diritto potestativo di ottenere dal giudice, in base alla sola allegazione di parte, una decisione di merito, favorevole o sfavorevole, l’eccezione relativa alla concreta titolarità del rapporto dedotto in giudizio, attenendo al merito, non è rilevabile d’ufficio, ma è affidata alla disponibilità delle parti e, dunque, deve essere tempestivamente formulata». Nello stesso senso, ex multis, Cass., Sez. III civ., 6 marzo 2006, n. 4796, in CED Cass. rv. 588202; Cass., Sez. II civ., 19 maggio 2010, n. 11284, in CED Cass. rv. 613149; Cass., Sez. II civ., 23 maggio 2012, n. 8175, in CED Cass. rv. 622407; Cass., Sez. III civ., 11 luglio 2014, n. 15759, in CED Cass. rv. 632277. (81) V. per tutti C. MANDRIOLI, Diritto processuale civile, vol. I, Nozioni introduttive e disposizioni generali, ed. XXII a cura di A. CARRATTA, Giappichelli, Torino, 2012, pp. 67 e ss. (82) Cass., Sez. VI pen., 20 ottobre 1997, n. 10126, Mozzati, in CED Cass. rv. 208820; Cass., Sez. I pen., 8 novembre 2007, n. 4060, S., in CED Cass. rv. 239189. (83) Cass., Sez. II pen., 21 ottobre 2014, n. 49038, S., in DeJure. Nel caso di specie uno degli imputati lamentava il difetto di legittimazione dei costituiti Ministeri della Giustizia, dell’Interno e della Difesa, sostenendo che la legittimazione ad agire nei suoi confronti spettasse, essendo egli magistrato, unicamente alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. La Corte ha dichiarato la doglianza manifesta- CONTENZIOSO NAZIONALE 157 Quanto alla riferibilità eziologica del danno affermato rispetto all’azione od omissione dell’imputato, autorevole dottrina, nell’interpretazione dei requisiti di cui all’art. 1223 c.c. (84), ha di recente puntualizzato che quando, come di frequente accade, il reato cagioni anche danni diversi da quelli concernenti gli interessi specificamente protetti - come nel caso qui in esame, ove si ritenga la bancarotta lesiva degli interessi patrimoniali dei creditori -, la relazione causale estranea al fatto di reato, quella cioè fra il fatto e quell’evento ulteriore rispetto all’evento componente essenziale del reato, ossia il danno giuridicamente rilevante, comunque andrà accertata alla stregua degli artt. 40 e 41 c.p. (85). Facendo applicazione della disciplina così individuata al caso di specie, ne risulta adempiuta la richiesta condizione della riferibilità eziologica, necessaria a fondare la legitimatio ad causam. mente infondata, avendo i Ministeri costituiti «puntualmente posto a fondamento dell’azione esercitata una propria pretesa risarcitoria, vantata nei confronti dell’imputato […] in relazione ai reati indicati negli atti di costituzione, e ciò è quanto occorre al fine di ritenerne sussistente la legitimatio ad causam», sulla base del principio di diritto così affermato: «la legittimazione all’azione di parte civile nel processo penale (legitimatio ad causam) va verificata esclusivamente alla stregua della fattispecie giuridica prospettata dalla parte a fondamento dell’azione, in relazione al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, ed indipendentemente dall’effettiva titolarità del vantato diritto al risarcimento dei danni, il cui accertamento riguarda il merito della causa, investendo i concreti requisiti di accoglibilità della domanda e, perciò, la sua fondatezza, ed è collegato all’adempimento dell’onere deduttivo e probatorio incombente sull’attore». (84) Come noto, la disposizione in parola, richiamata dall’art. 2056 c.c. in tema di risarcimento da fatto illecito, ricomprende nel risarcimento del danno per inadempimento o ritardo «così la perdita subita […] come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta». Sul problema se l’art. 185 c.p. si riferisca unicamente al danno diretto o ricomprenda anche il danno indiretto, v. G. LOZZI, Lezioni di procedura penale, pp. 131 e ss. (85) M. GALLO, La piccola frase di Mortara, Giappichelli, Torino, 2014, pp. 72 e ss. L’illustre Autore giunge a questa conclusione a fronte del potere del giudice penale di decidere sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento (art. 538 c.p.p.) e di pronunciare condanna generica (art. 539 c.p.p.), poteri da esercitare ricorrendo agli artt. 40 e 41 c.p., non prospettando la legge criteri diversi o ulteriori. In giurisprudenza v. Cass., Sez. Un. pen., 10 luglio 2002, n. 30328, Franzese, in Foro it., 2002, II, cc. 601 e ss.: «il principio stabilito dal codice penale si applica anche nel distinto settore della responsabilità civile, a differenza di quanto avviene per il diritto anglosassone e nordamericano». LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ Uno dei problemi provocati dal “bail in” Glauco Nori* 1- Sulle ultime vicende bancarie, concluse con il c.d. bail in, oltre ai commenti che sono stati fatti, sarebbe stata utile qualche verifica di principio, slegata dalle singole situazioni. Dopo interventi finanziari, di peso notevole, effettuati da diversi governi di Stati membri in favore delle banche nazionali, sono intervenute norme comunitarie, interpretate nel senso che dal momento della loro entrata in vigore avrebbero precluso interventi analoghi. La necessità dei sostegni finanziari è sorta per la situazione economica internazionale della fine del decennio passato che ha provocato difficoltà ad un certo numero di banche, anche tra le maggiori. Alcune banche, per il ritardo con il quale i governi rispettivi si sono mossi, non hanno potuto ricevere il sostegno avuto dalle altre. In pratica, malgrado si siano trovate in difficoltà per la stessa combinazione di fatti, alcune hanno ottenuto un trattamento più favorevole di altre per l’entrata in vigore, nel frattempo, di nuove norme comunitarie. Si è arrivati a questo risultato passando sopra ad alcune questioni preliminari che sarebbe stato il caso di affrontare: - se fosse, o non, coinvolto il principio di uguaglianza; - se, in caso affermativo, le norme comunitarie andassero interpretate nel senso di assicurarne il rispetto; - se, in caso negativo, potessero sorgere dubbi sulla loro legittimità; - se, una volta confermata la legittimità delle norme anche nell’interpretazione preclusiva, fossero da verificare gli effetti della legge di esecuzione dei trattati comunitari. (*) Professore, Avv. dello Stato, Presidente emerito del Comitato scientifico di questa Rassegna. 160 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 2- Quando, a seguito di una stessa sequenza di fatti, che mette in difficoltà più soggetti, interviene una norma che impedisce per alcuni il trattamento che altri hanno già ricevuto, dovrebbe sorgere almeno il dubbio che possa prospettarsi una questione di uguaglianza. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea non ha avuto dubbi (1). In quanto fondamentale dell’ordinamento dell’Unione, il principio di uguaglianza va seguito anche nella valutazione delle norme comunitarie. La Commissione ha ritenuto che il sostegno finanziario alle banche, che ne hanno beneficiato, fosse consentito ai sensi dell’art. 107, paragrafo 3, lett. b) del TFUE. Per impedirlo, attraverso il diritto derivato, nei confronti delle altre banche che si erano trovate in difficoltà per le stesse ragioni, sarebbero state necessarie differenze rilevanti. In linea di principio si sarebbero potute vedere nel ritardo delle iniziative dei governi nazionali; nei rischi minori, corsi da alcune banche, che avevano ritardato la percezione immediata dei pericoli; nella minore entità degli interventi finanziari. Nessuno di questi elementi sembra che potesse giustificare una differenza di trattamento così rilevante. Il sostegno finanziario era destinato a far superare certe difficoltà. Ai fini dell’uguaglianza era della causa delle difficoltà che si sarebbe dovuto tenere conto, non del tempo dell’intervento; anche i sostegni consentiti erano stati disposti in tempi diversi. Le banche, in favore delle quali non si era intervenuti negli stessi tempi, si erano trovate inizialmente in condizioni per le quali non era stato considerato necessario un sostegno urgente nella previsione che fossero in grado di rientrare autonomamente in sicurezza. Questa diversità avrebbe potuto giustificare che gli interventi fossero di importi diversi, ma non che fossero autorizzati in pratica solo quelli di importo maggiore. Il divieto di aiuti di stato tutela la concorrenza; sarebbe contraddittorio che si derogasse solo per quelli più consistenti che alterano maggiormente le condizioni di mercato. Il divieto è stato desunto dalla Direttiva 2014/59 ed il Regolamento 806/2014 (si possono trascurare le decisioni della Commissione che non incidono autonomamente sulla questione che si sta affrontando). Nei due atti non si trovano riferimenti per i quali debbano essere interpretati, senza alternative, nel senso di avere reso non più applicabile dopo la loro entrata in vigore l’art. 107, paragrafo 3, lett. b), nemmeno alla crisi precedente. (1) “A norma dell'art. 7, il principio di non discriminazione spiega i suoi effetti ‘nel campo di applicazione del (...) trattato’ e ‘senza pregiudizio delle disposizioni particolari dallo stesso previste’. Esprimendosi in questi termini, l'art. 7 rimanda segnatamente ad altre disposizioni del trattato che fanno concreta applicazione del principio generale da esso sancito a situazioni specifiche” (sentenza Cowan, 186/87, 2 febbraio 1989, punto 14). LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 161 Dal Regolamento si potrebbe addirittura desumere una volontà normativa diversa quando è detto che “[L]a crisi finanziaria ed economica ha tuttavia mostrato che il funzionamento del mercato interno in questo settore è minacciato e che sussiste un crescente rischio di frammentazione finanziaria”. Quando il rischio è lo stesso, non dovrebbero essere consentite discipline tanto differenti. Secondo il principio di conservazione dei valori giuridici, valido anche nell’ordinamento comunitario, delle interpretazioni possibili dovrebbe essere seguita quella che non provoca la invalidità dell’atto. Il Regolamento andrebbe, pertanto, interpretato nel senso che non impedisce il sostegno alle banche che si trovano nelle stesse condizioni di quelle che lo hanno già ricevuto. Se questa interpretazione si ritenesse non consentita, il Regolamento verrebbe ad essere illegittimo, sempre per la stessa violazione. Se poi, una volta sollevate le questioni, il Giudice comunitario dichiarasse che il Regolamento è legittimo anche nella interpretazione che preclude qualunque sostegno successivo alla sua entrata in vigore, sorgerebbe una questione sulla esecuzione dei trattati comunitari. 3- Le banche straniere, che hanno ricevuto l’aiuto, hanno loro filiali in Italia, in concorrenza con le banche italiane che lo stesso aiuto non hanno potuto ricevere. Che le condizioni competitive siano state alterate dovrebbe essere fuori dubbio. Secondo la Corte costituzionale i principi fondamentali della Costituzione non possono essere oggetto di revisione costituzionale: la loro modifica potrebbe intervenire solo con una nuova Costituzione. Durante le discussioni parlamentari sulla legge di esecuzione già per il trattato CECA, ci fu chi sostenne che, per introdurre nell’ordinamento italiano limiti alla sua sovranità, sarebbe stata necessaria una legge costituzionale. Si ritenne sufficiente una legge ordinaria in base all’art. 11 Cost. Una volta data alla normativa comunitaria una interpretazione che altera la portata dell’art. 3 Cost., la legge ordinaria di esecuzione viene ad essere non più sufficiente. Di conseguenza non sarebbe efficace nei confronti dello Stato Italiano il divieto di sostegni finanziari alle banche nazionali per rimediare agli effetti della crisi internazionale del 2007-2008. La competenza a decidere sarebbe della Corte costituzionale dal momento che da verificare sarebbe la legittimità di una legge italiana. La Corte di Giustizia non avrebbe titolo per intervenire. Non è la prima volta che sorge il problema della compatibilità di normative comunitarie coi principi fondamentali delle costituzioni degli Stati membri. Sarebbe il caso che le Istituzioni comunitarie, prima di arrivare, anche se in via solo interpretativa, a normative restrittive non ragionevoli, facessero una verifica su quella compatibilità per non ottenere come risultato di renderle inefficaci. 162 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 La tutela dei beni superindividuali: evoluzione normativa e giurisprudenziale Maria Luisa Costanzo* I beni superindividuali rappresentano una categoria aperta, in continua evoluzione. Ne fanno parte, accanto a quelli tradizionali, quali l’amministrazione della giustizia, anche altri di recente emersione, come ad esempio, l’ambiente. In particolare, si tratta di beni privi di una consistenza materiale, facenti capo ad una collettività indeterminata di soggetti e dotati, altresì, di copertura costituzionale diretta, perché espressamente contemplati (ad esempio la salute, art. 32 Cost.) o indiretta, perché la loro tutela è strumentale a quella di altri beni presenti in Costituzione (è il caso della fede pubblica, la cui tutela è strumentale a quella dell’amministrazione della giustizia) (1). L’elevato rango costituzionale e la natura di tali beni hanno portato il legislatore ad anticipare le soglie di tutela e a configurare, quindi, degli illeciti di pericolo, in cui viene incriminata la lesione potenziale del bene stesso. Al riguardo, la dottrina, facendo leva sulla differente tecnica di tipizzazione legislativa ha inizialmente distinto tra illeciti di pericolo concreto, da un lato e illeciti di pericolo presunto e astratto, dall’altro. Nei primi il pericolo è elemento essenziale della fattispecie ed è compito del giudice accertarne l’esistenza, attraverso un giudizio retrospettivo, concreto e prognostico. La valutazione viene, cioè, effettuata al momento del fatto storico, proiettata verso il futuro in termini ipotetici e condotta sulla base di tutte le circostanze esistenti al momento del fatto. Nei secondi, invece, il legislatore presume, in base ad una regola d’esperienza fondata su conoscenze scientifiche, che ad una data condotta consegua automaticamente la messa in pericolo del bene protetto. Quest’ultima categoria è stata considerata di dubbia compatibilità con le garanzie proprie del diritto penale. Infatti, posto che in base ai principi di materialità, offensività e colpevolezza il reato ricorre quando la volontà criminosa si materializza in un comportamento idoneo a ledere o a porre in pericolo il bene protetto, può accadere che ad una condotta non consegua l’effettiva messa in pericolo del bene. In altri termini, una politica criminale ispirata al principio di offensività deve contemplare la punibilità solo quando l’agente abbia determinato un pericolo effettivo per il bene giuridico. Allo scopo di (*) Dottore in Giurisprudenza, già praticante forense presso l’Avvocatura dello Stato di Bologna. (1) Così G. FIANDACA - E. MUSCO, Diritto penale, parte generale, 2009, p. 14; F. BRICOLA, Teoria generale del reato, in Novissimo digesto italiano, XIX, 1973, p. 43; C.F. PALAZZO, Corso di diritto penale, Parte generale, Torino, 2007, p. 66; Corte Cost., 23 novembre 2006, n. 394 in www.iusexplorer.it che riconosce carattere strumentale alla fede pubblica, perché finalizzato alla tutela di beni ulteriori. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 163 evitare che il diritto penale si trasformi in un complesso cautelare di polizia, parte della dottrina sostiene che il ricorso alla categoria del pericolo astratto vada limitata alla protezione dei beni fondamentali della persona, dignità, vita e salute, con esclusione di ogni tutela anticipata per beni meramente strumentali e istituzionali (2). Dottrina e giurisprudenza hanno riconosciuto la legittimità della categoria degli illeciti in parola, in quanto si consente al giudice di recuperare offensività nelle ipotesi in cui il legislatore non abbia tipizzato in modo pregnante la fattispecie. A tal fine, in dottrina si distinguono reati di pericolo astratto, ove i tratti essenziali del fatto tipico sono coperti da pregnanza semantica (ad esempio, l’art. 438 c.p.) e reati di pericolo presunto, ove sarà compito dell’interprete restituire alla norma la necessaria offensività (ad esempio, il reato in materia di coltivazione di sostanze stupefacenti) (3). In particolare, si riconosce al legislatore una certa discrezionalità nell’individuazione delle condotte pericolose, legittima a condizione che le determinazioni assunte non siano irrazionali o arbitrarie, ciò che avviene quando esse non siano ricollegabili all’id quod plerumque accidit (4). Come noto, infatti, il principio di offensività ha una duplice funzione: per un verso, rappresenta un limite alla discrezionalità del legislatore nell’individuazione di interessi meritevoli di tutela; per altro verso, è un canone interpretativo, di cui il giudice deve tener conto nell’applicazione delle disposizioni penali (5). Nell’ottica di anticipazione delle soglie di tutela, parte della dottrina ha ritenuto che l’omogeneo sviluppo delle fattispecie di pericolo astratto sia rappresentato dal principio di precauzione (6). (2) M. RONCO, Il reato. Struttura del fatto tipico. Presupposti oggettivi e soggettivi dell’imputazione penale. Il requisito dell’offensività del fatto, Bologna, 2011, p. 105. (3) Al riguardo, la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di costituzionalità inerente alla parte della normativa degli stupefacenti che non escludeva dall’area della punibilità le condotte di coltivazione destinate all’uso personale. Al tempo stesso, ha, tuttavia, sconfessato quell’orientamento giurisprudenziale che tendeva ad attribuire rilievo penale automatico alle condotte di coltivazione, senza accertarne in concreto la potenzialità lesiva (Corte Cost., 24 luglio 1995, n. 360 in www.iusexplorer.it). Nello stesso senso, la Corte di Cassazione ha affermato la rilevanza penale delle condotte di coltivazione di sostanze stupefacenti, anche laddove il prodotto fosse destinato all’uso personale, dal momento che non è possibile individuare un nesso immediato tra coltivazione e uso personale. L’unica eccezione è data dal caso in cui la sostanza, ricavabile dalla coltivazione, sia di per sè inidonea a produrre un effetto stupefacente in concreto, non ravvisandosi in tal caso alcuna offensività (Cass. pen., sez. un., 24 aprile 2008, n. 28605 in www.iusexplorer.it). Ulteriori pronunce della Corte di Cassazione hanno precisato che la condotta è punibile in presenza di due requisiti: formale (rientrare negli elenchi tabellari) e sostanziale (avere effetto stupefacente), in assenza del quale manca la potenzialità lesiva (Cass. pen., 28 ottobre 2008, n. 1222; Cass. pen., 16 gennaio 2013, n. 13107; Cass. pen., 10 gennaio 2013, n. 9198; Cass. pen., 10 dicembre 2012, n. 12612 in www.iusexplorer.it) (4) Corte Cost., 11 luglio 1991, n. 333 in www.iusexplorer.it. (5) M. RONCO, Il reato, op. cit., p. 106. 164 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 Quest’ultimo è un principio di matrice comunitaria (art. 191, par. 2 TFUE, ex art. 174 par. 2 Trattato CE), la cui definizione è fornita dall’art. 7 del regolamento n. 178/2002, il quale prevede: “Qualora, in circostanze specifiche a seguito di una valutazione delle informazioni disponibili, venga individuata la possibilità di effetti dannosi per la salute, ma permanga una situazione di incertezza sul piano scientifico, possono essere adottate le misure provvisorie di gestione del rischio necessarie per garantire il livello elevato di tutela della salute che la comunità persegue, in attesa di una valutazione più esauriente del rischio”. In base alla considerazione per cui il principio in esame sia destinato ad operare in settori di incertezza scientifica, parte della dottrina ritiene che lo stesso possa solo svolgere una funzione orientativa sul piano politico criminale (7). Si osserva, infatti, che l’anticipazione delle soglie di tutela nei reati di pericolo si giustifica ed è coerente con l’art. 3 della Costituzione, solo in quanto si abbia una conoscenza del problema, fondata su basi scientifiche, le quali permettano di affermare che il pericolo possa sfociare in lesione (8). Le disposizioni, frutto di una scelta politico criminale improntata alla precauzione, si rintracciano nel D.Lgs. n. 224/2003 agli articoli 34, 35, 36, nel D.Lgs. n. 70/2005 e nell’art. 10 D.Lgs. n. 115/1995, di attuazione della direttiva 92/59/CEE relativa alla sicurezza generale dei prodotti, oggi modificato e confluito nell’art. 112 del Codice del Consumo (D.Lgs. n. 206/2005). Attualmente rappresentano un caso isolato, ma - come osservato in dottrina - la situazione potrebbe mutare. Si osserva, infatti, che il consolidamento dello Stato sociale avvenuto nel secondo dopoguerra ha permesso l’ingresso dell’idea di “prevenzione” all’interno del diritto penale. Ciò ha contribuito allo spostamento del baricentro dell’intervento legislativo: mentre, il diritto penale proprio del periodo liberale aveva il suo fulcro nella repressione ex post delle condotte lesive di beni giuridici, attualmente, il quadro è mutato e l’intervento si è spostato ex ante, in un momento anteriore all’effettiva lesione del bene (9). Tanto premesso, occorre sottolineare che l’individuazione dei beni e delle tecniche di tutela è fortemente influenzata dal momento storico politico. Ciò si nota dall’impostazione del Codice Rocco, varato in epoca fascista, che, per un verso, colloca i delitti contro la personalità dello Stato in apertura alle fattispecie di parte speciale; per altro verso, ricorre a illeciti di attentato e (6) M. DONINI, Il volto attuale dell’illecito penale, Milano, 2004, p. 119 e ss. (7) F. GIUNTA, Le interpretazioni “radicali” del principio di precauzione, in Diritto penale, i dizionari sistematici, Milano, 2008, p. 908, per il quale “Il principio precauzione sembra avere maggior agio a operare come criterio di politica legislativa, piuttosto che come nuova dogmatica penale”. (8) D. CATRONUOVO, Principio di precauzione e diritto penale, Roma, 2012, p. 48. (9) E. CORN, Il principio di precauzione nel diritto penale. Studio sui limiti dell’anticipazione della tutela penale, Torino, 2013, p. 42. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 165 di sospetto, che mal si conciliano con i principi costituzionali di materialità e offensività. Infatti, i delitti di attentato colpiscono già gli atti preparatori di condotte destinate a offendere interessi attinenti alla personalità dello Stato; i reati di sospetto incriminano fatti che in sè considerati non ledono, né pongono in pericolo il bene protetto (10). Il legislatore e la giurisprudenza sono, quindi, intervenuti per aggiornare e rendere compatibile con il nuovo assetto costituzionale il catalogo degli illeciti. La giurisprudenza ha, in primo luogo, dichiarato incostituzionali quelle disposizioni che tutelavano interessi in contrasto con il mutato panorama costituzionale o che non risultavano conformi ai nuovi principi, in particolare a quello di offensività. In merito al primo punto, si fa riferimento all’art. 502 c.p. che sanzionava, nel Titolo dedicato a delitti contro l’economia pubblica, la serrata del datore di lavoro e lo sciopero del lavoratore a fini contrattuali, in contrasto quindi con il sistema di libertà sancito agli articoli 39 e 40 Cost. (11). In relazione al secondo punto, si fa riferimento all’art. 688 II co. c.p., norma posta a presidio della pubblica sicurezza. In particolare, inizialmente la norma sanzionava penalmente la condotta di chi fosse colto in luogo pubblico o aperto al pubblico (I co.) e prevedeva una circostanza aggravante laddove l’autore fosse stato condannato per taluni delitti (II co.); in seguito alla depenalizzazione, il primo comma è stato trasformato in illecito amministrativo e il secondo comma è divenuto fattispecie autonoma. In tal modo, tuttavia, la sola qualità del soggetto (condannato per taluni delitti) avrebbe trasformato in reato un fatto che per tutti non costituiva illecito penale. La Corte Costituzionale ne ha quindi dichiarato l’illegittimità per contrasto con il principio di offensività, riconoscendo a quest’ultimo rango costituzionale (art. 25 II co. Cost.) (12). In secondo luogo, la giurisprudenza ha fornito interpretazioni costituzionalmente orientate delle norme poste a presidio dei beni superindividuali. (10) Sul punto si veda M. PELISSERO, Reati contro la personalità dello Stato e contro l’ordine pubblico, Torino, 2010, p. 150 ss. (11) Corte Cost., 4 maggio 1960, n. 29 in www.iusexplorer.it. (12) Corte Cost., 17 luglio 2002, n. 354, in www.iusexplorer.it. La Corte ha, per la prima volta, riconosciuto apertamente il fondamento costituzionale del principio di offensività. La Corte sostiene, infatti, che si sarebbe in presenza di “Una contravvenzione che assumerebbe, quindi, i tratti di una sorta di reato d'autore, in aperta violazione del principio di offensività del reato, che nella sua accezione astratta costituisce un limite alla discrezionalità legislativa in materia penale posto sotto il presidio di questa Corte (sentenze n. 263 del 2000 e n. 360 del 1995). Tale limite, desumibile dall'articolo 25, secondo comma, della Costituzione, nel suo legame sistematico con l'insieme dei valori connessi alla dignità umana, opera in questo caso nel senso di impedire che la qualità di condannato per determinati delitti possa trasformare in reato fatti che per la generalità dei soggetti non costituiscono illecito penale”. 166 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 Ne costituisce esempio, in materia di pubblica sicurezza, l’interpretazione che la Corte Costituzionale ha fornito dell’art. 707 c.p. Tale norma configura un reato ostativo, in quanto incrimina il possesso ingiustificato di chiavi e grimaldelli da parte di colui che già sia stato condannato per taluni delitti, al fine di prevenire la commissione di futuri reati. La Corte ha rigettato le questioni di legittimità, ritenendola compatibile con il principio di offensività. In particolare, nell’interpretazione fornita, la disposizione non configura una responsabilità per modo di essere dell’autore: l’offensività in astratto (come descritta dalla norma) trova riscontro nell’offensività in concreto (come accertata dal giudice), laddove possa desumersi dalle circostanze la disponibilità illecita degli oggetti (13). La norma è volta a tutelare la commissione di delitti contro il patrimonio, fermo restando il rigoroso scrutinio del giudice sull’attualità e concretezza del pericolo nel caso di specie (14). La giurisprudenza, infine, ha fornito un’interpretazione restrittiva di alcune disposizioni, escludendo dal loro ambito di applicazione quelle condotte che, pur astrattamente sussumibili nella fattispecie, non integravano il disvalore penale del fatto. A tal fine, si è fatto ricorso alla figura del reato impossibile (art. 49 II co.), quale referente codicistico del principio di offensività. In particolare, nell’ambito dei reati contro l’amministrazione della giustizia, si è escluso il reato di calunnia, quando la condotta avvenga con modalità tali da far apparire inverosimile il fatto oggetto della falsa denuncia (15). Ulteriori esempi si scorgono nell’ambito dei delitti contro la fede pubblica, laddove il reato non sussiste nei casi di falsità tollerabile. Sono i casi di falso grossolano, ove la falsità è facilmente riconoscibile, di falso innocuo, inidoneo ad offendere l’interesse tutelato e del falso inutile, dal quale non deriva alcun effetto giuridico (16). Con riferimento all’evoluzione normativa, il legislatore ha operato in più direzioni. In primo luogo, si è proceduto a trasformare alcuni illeciti penali in illeciti amministrativi. La depenalizzazione ha riguardato reati eterogenei per con- (13) Corte Cost., 20 giugno 2008, n. 225, in www.iusexplorer.it. La Corte, inoltre, aveva già “salvato” dalla declaratoria di incostituzionalità l’art. 707 c.p. con sentenza 2 novembre 1996, n. 370, con la quale era stato dichiarato illegittimo, per violazione degli articoli 3 e 25 Cost., l’art. 708 c.p. (14) Corte Cost., 20 giugno 2008, n. 225, in www.iusexplorer.it . (15) Ex multis, Cass. pen. 20 luglio 2011, n. 29579, in www.iusexplorer.it. (16) In merito alla configurabilità del delitto di cui all’art. 474 c.p, occorre tuttavia segnalare a prevalenza dell’indirizzo giurisprudenziale che ritiene configurabile il delitto anche in presenza di merci grossolanamente contraffatte. È ritenuta irrilevante la circostanza che la falsità sia facilmente riconoscibile: il reato non tutela la libera determinazione del compratore, ma la fiducia di tutti i consociati, i quali, nel vedere utilizzati prodotti contraffatti, vengono ingannati in ordine alla genuinità del marchio commerciale (Cass. pen., 12 marzo 2008, n. 21787, in Diritto penale processuale n. 3, 2009, con commento critico di I. GIACONA, Punibilità delle merci grossolanamente contraffatte). LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 167 dotta e oggetto, il cui comune denominatore è rappresentato dall’esiguo spessore sanzionatorio. Può essere richiamato, ad esempio, l’art. 688 c.p. che in passato prevedeva la pena dell’arresto e dell’ammenda per chiunque fosse colto in stato di ubriachezza in luogo pubblico o aperto al pubblico e che, a seguito della legge n. 507/99, contempla la sola sanzione amministrativa. In secondo luogo, sono state introdotte nuove fattispecie per fronteggiare situazioni non presenti all’epoca in cui il codice è stato varato. Si fa riferimento, in particolare, ai delitti volti a fronteggiare il terrorismo e, segnatamente, all’art. 270 bis, introdotto per adeguare i reati associativi alle nuove realtà comparse sul finire degli anni Settanta. L’articolo in questione, inoltre, è stato ulteriormente aggiornato nei primi anni Duemila, per combattere il terrorismo internazionale. Il terzo comma chiarisce che “la finalità di terrorismo ricorre anche quando gli atti di violenza sono rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale”. In tal modo, si consente la repressione di nuove forme di criminalità che sarebbero andate esenti da pena, stante il limite che la giurisprudenza avrebbe incontrato nel divieto di analogia. Il legislatore, infine, ha introdotto nuove fattispecie a tutela di beni di recenti emersione, tra i quali l’ambiente. Quest’ultimo è espressamente contemplato dalla Costituzione, all’art. 117 II co., lett. s) tra le materie di legislazione esclusiva statale. Un’ulteriore richiamo, sia pure indiretto, si scorge all’art. 9 Cost., ove è previsto che la Repubblica “tutela il paesaggio”. L’importanza del bene “ambiente” avvertita, inizialmente, quale riflesso delle trasformazioni economico-sociali (17) è oggi apertamente riconosciuta dalla giurisprudenza costituzionale, la quale è orientata a considerare l’ambiente un valore primario e trasversale, che abbraccia beni materiali e concreti utilizzi delle risorse naturali (18). Sulla scorta di tale considerazione, la giurisprudenza ha espresso la necessità di massima protezione. Sono state, quindi, ritenute costituzionalmente legittime le disposizioni che sanzionano la realizzazione di opere non autorizzate in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, anche quando intervenga successivamente l’autorizzazione del sindaco (19). In tal caso, tuttavia, la dottrina (17) V. MAGNINI, Bene giuridico, in Diritto penale, dizionari sistematici, a cura di F. GIUNTA, Milano, 2008, p. 79. (18) Corte Cost., 7 novembre 2007, n. 367, in www.iusexplorer.it; per una panoramica sull’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in materia di ambiente si veda G. PERULLI, Ruoli e procedure nella tutela ambientale, ne Il danno ambientale, a cura di G. PERULLI, Torino, 2012, p. 56 ss., nonché B. CARAVITA, Diritto dell’ambiente, Bologna, 2001, p. 34 ss. (19) Corte Cost., 8 maggio 1998, n. 158, in www.iusexplorer.it che ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità degli artt. 1 ter e 1 sexies, d.l. 27 giugno 1985, n. 312 (“Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale”), introdotti dall’art. 1, l. di conv. 8 agosto 1985, n. 431 e dall’art. 7, l. 29 giugno 1939, n. 1497. 168 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 ha messo in luce come la disciplina penale rischi di diventare una mera appendice sanzionatoria del diritto amministrativo (20). Un riferimento di fondamentale importanza per il diritto penale ambiente è rappresentato dal diritto dell’Unione Europea, sia nell’enunciazione dei principi generali (in particolare, i principi di prevenzione, precauzione e il principio “chi inquina paga”), che nel diritto derivato (regolamenti, direttive, decisioni). Dalla normativa sovranazionale emerge, precipuamente, l’obiettivo di assicurare un elevato livello di tutela, obiettivo che, non di rado, si scontra con i principi garantistici del diritto penale. Si è rilevato, infatti, che l’interpretazione comunitariamente conforme assume, nel diritto penale ambientale interno, il significato di interpretazione estensiva, meno favorevole all’imputato rispetto ad altre sostenibili in base alla lettera della legge (21). Altre tensioni derivano dall’applicazione del principio di precauzione, recepito in materia ambientale all’art. 3 ter del Codice dell’Ambiente (d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152) (22). Si è osservato, tuttavia, come il citato principio di derivazione comunitaria non indirizzi il legislatore nazionale verso la costruzione di fattispecie necessariamente penali: ciò che conta è l’effettività della tutela, quale che sia la branca dell’ordinamento tesa a garantirla (23). Nonostante, ad oggi, l’ambiente sia riconosciuto come bene di primaria importanza, per lungo tempo, è stato tutelato solo indirettamente, quale riflesso dell’incolumità pubblica. La disposizione cui la giurisprudenza faceva sovente riferimento era data dall’art. 434 c.p., che, con la nozione di “altro disastro”, contemplava la figura del disastro innominato (24). La Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità della disposizione per carenza del requisito della sufficiente determinatezza, aveva dichiarato infondata la questione di costituzionalità (25). In quell’occasione, la Corte aveva ritenuto che la nozione “altro disastro” si connettesse all’impossibilità pratica di elencare analiticamente tutte le situazioni idonee a met- (20) F. GIUNTA, Tutela dell’ambiente (diritto penale), in Enc. Dir., Annali, II, tomo 2, Milano, 2008, p. 1154. (21) C. RUGA RIVA, Diritto penale dell’ambiente, Torino, 2016, p. 26. (22) Con riferimento ai fondamenti storici e normativi del principio di precauzione e la loro interpretazione da parte della giurisprudenza comunitaria si veda F. ROCCO, Alcuni spunti giurisprudenziali comunitari e un’importante enunciazione della giurisprudenza italiana sul principio di precauzione e sul conseguente obbligo risarcitorio, in Il danno ambientale, Torino, 2012, p. 14 e ss. (23) C. RUGA RIVA, Diritto penale dell’ambiente, op. cit., p. 39. (24) Relativamente al delitto previsto dall’art. 434 c.p., una pronuncia della Cassazione ha affrontato in modo approfondito la esegesi della norma. Si è precisato che il termine “disastro” implica che sia cagionato un evento di danno o di pericolo per la pubblica incolumità “straordinariamente grave e complesso”, ma non “eccezionalmente immane”; pertanto “è necessario e sufficiente che il nocumento abbia un carattere di prorompente diffusione che esponga a pericolo collettivamente un numero indeterminato di persone” (Cass. pen., 29 febbraio 2008, n. 9418, in www.iusexplorer.it). (25) Corte Cost., 1 agosto 2008, n. 327, in www.iusexplorer.it. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 169 tere in pericolo astrattamente la pubblica incolumità. L’utilizzo di concetti elastici, non comportava, pertanto, un vulnus al parametro costituzionale di cui all’art. 25 Cost., quando la descrizione complessiva del fatto consentisse al giudice di stabilire il significato di tale elemento, mediante un’operazione interpretativa, avuto riguardo alle finalità e al contesto in cui si collocasse l’incriminazione. Stante l’assenza di una norma specifica a tutela del bene giuridico in questione, una parte della dottrina aveva ravvisato nell’art. 423 bis c.p. (incendio boschivo) una norma posta espressamente a presidio dell’ambiente. La ragione risiedeva nel fatto che il legislatore avesse costruito una fattispecie autonoma sulla base di un dato (l’oggetto su cui ricade l’incendio, ovvero l’ambiente) che, in passato, rappresentava solo una circostanza aggravante del delitto di incendio di cui all’articolo precedente (26). La tutela penale era, per il resto, affidata a due disposizioni di natura contravvenzione, gli articoli 727 bis e 733 bis c.p., introdotte nel 2011, su impulso dell’Unione Europea (27). L’intervento legislativo non aveva soddisfatto larga parte della dottrina, la quale evidenziava come la forma contravvenzione presentasse numerosi svantaggi, fra i quali: la preclusione di taluni mezzi di prova (intercettazioni telefoniche e ambientali, artt. 266 ss. c.p.p.), la non punibilità del tentativo, la prescrizione del reato in tempi brevi, dovuta anche all’inapplicabilità dei termini più lunghi previsti per la recidiva (circoscritta ai soli delitti) (28). Il panorama normativo è mutato a seguito della legge n. 68 del 2015, la quale ha introdotto un nuovo Titolo nel codice penale (Delitti contro l’ambiente) e, al tempo stesso, ha apportato modifiche al Testo Unico Ambientale. Si è, in particolare, previsto un meccanismo di estinzione degli illeciti contemplati nello stesso decreto, quando i medesimi non abbiano cagionato un danno o un pericolo concreto di danno (29). Il sistema di tutela è, quindi, ad oggi, strutturato in tre livelli: gli illeciti per i quali opera il meccanismo estintivo; le contravvenzioni e i delitti. Si è in presenza di un “sistema tipizzato a tutela crescente”, in cui le contravvenzioni rappresentano il primo gradino di un quadro di progressiva gravità (30). Le novità legislative hanno riguardato l’introduzione di cinque nuovi de- (26) S. CORBETTA, Il nuovo delitto di “incendio boschivo”: poche luci e (molte ombre), in Diritto penale e processo, 9, 2000, p. 1172. (27) Art. 1, d.lgs. 7 luglio 2011, n. 121, di attuazione della direttiva 2008/99/CE. (28) C. RUGA RIVA, Diritto penale dell’ambiente, op. cit., pp. 22 - 23. (29) Sulla disciplina dei nuovi reati ambientali, si veda P. FIMIANI, La tutela penale dell’ambiente, Milano, 2015; L. MASERA, I nuovi delitti contro l’ambiente, in www.dirittopenalecontemporaneo.it; C. BERNASCONI, Il “bastone” e la “carota” nella nuova disciplina dei reati ambientali, in Studium Iuris, 12, 2012, p. 1403. (30) P. FIMIANI, La tutela penale dell’ambiente, op. cit., p. 12. 170 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 litti, l’allungamento dei termini prescrizionali e l’inserimento, tra i reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti, di alcuni reati in materia ambientale. La nuova disciplina segna un’inversione di tendenza rispetto al passato. Da un lato, si è passati da fattispecie contravvenzionali di condotta, che sanzionavano l’immissione di sostanze oltre le soglie di legge (reati di pericolo astratto), a reati di evento, ove viene punita la causazione di un pregiudizio all’ambiente. Dall’altro, mentre in passato la contaminazione era punita solo se pericolosa per la pubblica incolumità, l’attuale articolo 452 bis c.p. punisce l’inquinamento in quanto tale. La visione antropocentrica ha lasciato, dunque, spazio ad una ecocentrica (31). In conclusione, l’individuazione dei beni e delle tecniche di tutela appare fortemente influenzata dal momento storico politico. Al riguardo, si osserva che, con l’avvento della società del rischio, sono comparsi nuovi beni da tutelare (tra cui, l’ambiente), in modo conforme ai principi costituzionali (in particolare al principio di offensività). È significativo, in proposito, che le nuove fattispecie di delitti ambientali siano strutturate come reati di evento e non di pericolo. (31) C. RUGA RIVA, Diritto penale dell’ambiente, op. cit., p. 18. CONTRIBUTI DI DOTTRINA Lo « Stato -Autoproduttore » Dalle origini giurisprudenziali alla codificazione dell’in house providing Domenico Andracchio* Colui che può distruggere una cosa, ha il pieno controllo di quella cosa (Frank Herbert) SOMMARIO: 1. Premessa - 2. La cura concreta degli interessi pubblici e l’ampia discrezionalità della p.a. nella scelta degli «strumenti»: esternalizzazione, partenariato pubblicoprivato e in house providing. La sequenza logica “interessi pubblici-mezzi-strumenti” - 3. Le origini giurisprudenziali dell’in house providing e i requisiti del «controllo analogo» e della «attività prevalentemente svolta in favore dell’ente pubblico» - 4. La dubbia natura dell’in house providing: «ordinarietà» versus «derogatorietà» - 5. Critica alla «derogatorietà». Le tre ragioni che giustificano la configurazione dell’in house providing come modello organizzatorio ordinario: la incostituzionalità dei limiti all’utilizzo della autoproduzione, i vincoli di finanza pubblica imposti dal Patto di Stabilità Interno (P.S.I.) e il principio di auto-organizzazione amministrativa - 6. L’in house providing nelle nuove direttive appalti e il processo di «positivizzazione-integrazione» dei requisiti dell’istituto: il carattere misto della nuova autoproduzione - 7. I nuovi requisiti del «controllo analogo» e della «attività prevalente» come elaborati nelle nuove direttive in materia di appalti e di concessioni: l’influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative della struttura in house e lo svolgimento di un’attività pubblica nella misura dell’oltre 80 % - 8. Le fattispecie di autoproduzione disciplinate nelle nuove direttive in materia di appalti e di concessioni: in house verticale ed invertito, in house orizzontale, in house frazionato e la cooperazione pubblico-pubblico non istituzionalizzata - 9. La «forma giuridica» dell’in house providing prima e dopo l’adozione delle direttive europee. Società in mano pubblica, fondazioni pubbliche e associazioni no pro- (*) Cultore di Giustizia amministrativa presso l’Università della Calabria, già praticante forense presso l’Avvocatura dello Stato. 172 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 fit - 10. Considerazioni conclusive: le questioni affrontate dalla più recente giurisprudenza amministrativa in tema di in house providing e il nuovo Codice degli appalti pubblici. 1. Premessa. Le attività che la pubblica amministrazione pone in essere nell’esercizio delle funzioni di cui è attributaria sono numerose. Qualunque sia la specifica morfologia che viene assumendo l’attività amministrativa, ci si viene a trovare, in ogni caso, dinanzi ad una serie di fatti materiali ed atti giuridici correlati tra di loro e permeati, irrimediabilmente, dal principio di legalità. Tale principio può coprire interamente l’attività amministrativa oppure lasciare un certo margine di apprezzamento: nel primo caso si avrà la c.d. attività vincolata, nel secondo la c.d. attività discrezionale. Con riferimento all’attività vincolata, il legislatore disciplina, in maniera puntuale e precisa, sia i presupposti sia le modalità di esercizio del potere pubblico, di guisa che il soggetto titolare del potere dovrà limitarsi ad accertare la sola sussistenza delle «condizioni» e dei «presupposti» alla cui ricorrenza la legge subordina l’esercizio di quel potere. Diversamente, per quel che concerne l’attività discrezionale, il legislatore si limita a fissare le finalità che debbono essere perseguite, così da lasciare alla pubblica amministrazione la possibilità di individuare - previa ponderazione degli interessi pubblici (primari e secondari) e degli interessi privati sottesi alla fattispecie concreta - l’assunzione della scelta più «ragionevole» e «proporzionale». Ognun sa che la pubblica amministrazione si sostanzia in un «complesso di soggetti e di strutture» (1) deputate a porre in essere «quella serie di azioni ad utilità di tutta la società politica, eseguita per autorità sovrana o delegata sopra le materie appartenenti a tutta la società medesima» (2). Va da sé che, tanto nelle ipotesi di «attività discrezionale» quanto in quelle di «attività vincolata », la complessa organizzazione che sovraintendere all’esercizio della funzione amministrativa ha bisogno di risorse. I canali attraverso i quali gli è possibile «procurarsi» queste risorse sono essenzialmente due: il ricorso al mercato e l’autoproduzione. Facendo ricorso al mercato, il soggetto pubblico mira ad individuare l’operatore economico che, dotato di adeguate capacità organizzative ed operative, gli consentirà di assolvere alla sua missione istituzionale; la necessità di garantire la parità di trattamento gli impone l’espletamento di una procedura selettiva che metta in concorrenza tra di loro la pluralità di operatori economici interessanti alla commessa. (1) SCOCA F.G., La pubblica amministrazione come organizzazione, in MAZZAROLLI L. - PERICU G. - ROMANO A. - ROVERSI MONACO F.A. - SCOCA F.G. (a cura di), Diritto amministrativo, Bologna, 2001, p. 459. (2) ROMAGNOSI G.D., Istituzioni di civile filosofia ossia di giurisprudenza teorica, Firenze, 1939, p. 359. DOTTRINA 173 Talvolta, però, può essere più conveniente rinunciare alle dinamiche proprie della realtà mercantile, costituendo delle strutture organizzative che, controllate dalla pubblica amministrazione alla stregua di un ufficio interno, permettono alla stessa di conseguire, ugualmente, le risorse occorrenti per la cura dell’interesse generale: in questi casi si discorre di autoproduzione ovvero (secondo l’idioma anglofono) di in house providing. Il presente saggio è incentrato proprio sullo studio dell’in house providing, il quale è stato (ed è tutt’ora) al centro di un recente processo di «trasformazione » che gli ha permesso di divenire un istituto, non più contemplato soltanto dalla giurisprudenza, ma financo disciplinato da una formale normativa. Dopo aver esaminato le caratteristiche indefettibili di esso, così come erano state elaborate dalla giurisprudenza europea e nazionale negli anni passati, si giunge all’analisi dell’istituto alla luce delle recenti direttive europee (nn. 2014/23/Ue, 2014/24/Ue e 2014/25/Ue) e del D.lgs. n. 50/2016 (c.d. nuovo codice appalti). 2. La cura concreta degli interessi pubblici e l’ampia discrezionalità della p.a. nella scelta degli «strumenti»: esternalizzazione, partenariato pubblico-privato e in house providing. La sequenza logica “interessi pubblici-mezzistrumenti”. Le pubbliche amministrazioni per assolvere la funzione istituzionale di «cura concreta» degli interessi pubblici si avvalgono di una serie di strumenti d’azione, molti dei quali previsti dalla legge (c.d. strumenti tipici), altri rimessi, di contro, alla loro prudente valutazione discrezionale (c.d. strumenti atipici). I caratteri indefettibili dell’attuale contesto istituzionale evidenziano come nell’alveo degli interessi pubblici assumono sempre maggiore importanza quelli suscettibili di valutazione economico-patrimoniale. Questi interessi possono essere distinti, a loro volta, in «interessi formalmente pubblici», i quali rientrano nella titolarità dell’apparato amministrativo (ad es. l’interesse alla costruzione di un manufatto edilizio da adibire a sede di uffici) e in «interessi sostanzialmente pubblici», il cui soddisfacimento viene rivendicato, invece, dalla comunità assoggettata al potere di gubernaculum (ad. es. l’interesse alla erogazione del servizio idrico in una determinata località). In base a quello che è il contenuto specifico dell’interesse pubblico da soddisfare, i mezzi attraverso i quali le pubbliche amministrazioni si prodigano a tale scopo possono sostanziarsi ora nella costruzione, nella demolizione, nel recupero ovvero nel restauro e/o nella manutenzione di opere edilizie o di genio civile (lavori pubblici), ora nell’acquisto o nella locazione di prodotti (forniture pubbliche), ora nella erogazione di prestazioni tese al soddisfacimento di esigenze della vita quotidiana delle persone (servizi pubblici). Alla tripartizione delle commesse pubbliche in lavori, servizi e forniture corrisponde un altrettanto celeberrima classificazione di quelli che sono gli 174 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 strumenti con cui è consentito alle pubbliche amministrazioni avvalersi del mezzo più idoneo a soddisfare l’interesse pubblico venuto in gioco. Difatti, i lavori, le forniture e i servizi potranno essere garantiti (a seconda di quelle che sono le specifiche circostanze del caso) mediante tre diversi strumenti d’azione: a) l’esternalizzazione (outsourcing), la quale permette di individuare, tra due o più operatori messi in competizione, quello più idoneo ad eseguire la commessa; b) la cooperazione (partenariato-pubblico privato), la quale consente alle autorità pubbliche di realizzare lavori, servizi o forniture avvalendosi della collaborazione dei soggetti privati che abbiano manifestato la disponibilità a stipulare un contratto in forza del quale, dietro acquisizione del diritto di gestire e di sfruttare economicamente l’opera realizzata, si obbligano a sopportare il costo (totale o parziale) dell’opera medesima; c) l’autoproduzione (in house providing), la quale ricorre tutte le volte in cui la pubblica amministrazione realizza un lavoro, acquista un bene o eroga un servizio avvalendosi di una propria articolazione organizzativa interna. Non esiste una norma giuridica (comunitaria o nazionale) dalla quale sia consentito desumere degli elementi che impongono la predilezione per l’uno, piuttosto che per gli altri strumenti. Emblematico è quell’insegnamento giurisprudenziale nel quale, dopo essere stato precisato che né l’ordinamento europeo tampoco quello nazionale impongono alle «autorità pubbliche di ricorrere ad una particolare forma giuridica per assicurare il corretto esercizio delle loro funzioni pubbliche, essendo addirittura consentito alle amministrazioni aggiudicatrici - in alternativa allo svolgimento di una di procedura di evidenza pubblica - di stipulare un “accordo” a titolo oneroso con persone giuridiche soggette, comunque, ad un penetrante controllo da parte delle prime», si chiarisce che «una cooperazione del genere non pregiudica l’obiettivo principale delle norme comunitarie in materia di appalti pubblici, vale a dire la libera circolazione dei servizi e l’apertura alla concorrenza non falsata in tutti gli Stati membri, poiché l’attuazione di tali forme gestione delle commesse pubbliche è retta unicamente da considerazioni e prescrizioni connesse al perseguimento di obiettivi d’interesse pubblico e, per tal ragione, nessun impresa privata viene posta in una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti» (3). Dei tre sopraccennati strumenti a disposizione della pubblica amministrazione, quello sul quale ci si soffermerà in questa sede è quello dell’in house providing; un istituto che, nel rivestire un «posto di assoluto rilievo nel panorama delle società pubbliche» (4), è stato (e continua ad essere) al centro di numerosi dibattiti dottrinali e giurisprudenziali. Sebbene la più diffusa forma giuridica delle entità organizzative deputate ad operare in regime di in house (3) Cons. St., Sez. V, 10 settembre 2010, n. 6548, in www.giustizia-amministrativa.it. (4) VOLPE C., Le nuove direttive sui contratti pubblici e l’in house providing: problemi vecchi e nuovi, in www.giustamm.it, 2015, p. 1. DOTTRINA 175 sia quella societaria, nel perimetro dell’istituto possono farsi rientrare le più diverse figure soggettive (ad es. società cooperative, consorzi, enti pubblici economici, etc.). Ne discende che esso si configura come un istituto strettamente collegato al fenomeno delle partecipazioni pubbliche. Se si considera che «nel 2012 sono 11.024 le unità per le quali si registra una forma di partecipazione pubblica in Italia, con un peso in termini di addetti pari a 977.792 unità» (5), si fa presto a capire che ci si trova in presenza di una realtà (quella delle c.d. partecipate pubbliche) capace di involgere dei rilevanti principi aventi copertura costituzionale. Ed è anche in ragione del fatto che vengono in rilievo i principi che sovraintendono alla finanza pubblica e alla contabilità dello Stato che il giudice amministrativo preferisce impiegare un atteggiamento prudente tutte le volte in cui è chiamato a comporre delle questioni che attengono alle commesse pubbliche e, tra queste, soprattutto quelle concernenti l’in house providing. 3. Le origini giurisprudenziali dell’in house providing e i requisiti del «controllo analogo» e dell’«attività prevalentemente svolta in favore dell’ente pubblico ». Nell’attuale sistema giuridico multilivello, in cui accanto ad un ordinamento sovraordinato (quello europeo) coesistono e si intersecano una pluralità di ordinamenti sottordinati (quelli dei singoli Stati membri), la Corte di giustizia europea è venuta ad assumere un ruolo determinante nella creazione ed armonizzazione di nozioni, di categorie e di istituti destinati ad avere un effetto dirompente sugli equilibri normativi degli ordinamenti dei singoli Stati membri. Non è un caso che si è già avuto modo di segnalare l’opportunità di qualificare il diritto europeo (quindi di rimando anche le “porzioni” del diritto nazionale che promanano dall’acquis comunitario) come «diritto giurisprudenziale »; ciò al fine di sottolineare che le «decisioni della Corte europea costituiscono non solo una formidabile cinghia di trasmissione fra il diritto dell’Unione e i sistemi nazionali, ma anche uno dei principali momenti di creazione e innovazione delle regole nazionali, nonché di ridefinizione degli equilibri fra ordinamento europeo e ordinamenti nazionali» (6). Trattasi di osservazioni che hanno suscitato le perplessità di quella autorevole dottrina che, nel prendere contezza di quanto la funzione legislativa, in sede europea, sia sempre più erosa dalla pervasività della giurisprudenza della (5) RAPPORTO ISTAT - 2014, in www.istat.it, p. 16. (6) COZZIO M., Il contributo della giurisprudenza all’evoluzione delle regole sugli appalti pubblici, in Il dir. dell’econ., XXVI, 2013, p. 168. Per approfondimenti dottrinali sull’incidenza del formante giurisprudenziale alla creazione del diritto europeo e, quindi, dei singoli diritti nazionali si rinvia, tra i tanti, alla lettura di: GIOVANETTI T., L’Europa dei giudici. La funzione giurisdizionale nell’integrazione comunitaria, Torino, 2009 e di MARTINICO G., L’integrazione silente. La funzione interpretativa della Corte di Giustizia e il diritto costituzionale europeo, Napoli, 2009. 176 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 Corte di giustizia, non ha esitato ad affermare che «la perimetrazione mediante regole giurisprudenziali di istituti e nozioni giuridiche (perciò aventi contorni non perfettamente delineati), benché sia certamente utile e apprezzabile (e assuma l’efficacia di binding judicial precedent) non sembra potersi sostituire all’opportunità, talvolta alla necessità, di un intervento normativo che fornisca orizzonti di sistema agli istituti e maggiori certezze sul diritto applicabile» (7). Le nozioni e gli istituti giuridici che hanno tratto origine dalla forza creatrice della giurisprudenza europea sono diversi e tra questi deve farsi rientrare l’in house providing (8). La prima comparsa del fenomeno dell’autoproduzione nel mondo del diritto è da farsi risalire alla fine del secolo scorso. La Corte di giustizia europea, invero, con la ormai nota sentenza Teckal (9) ebbe modo di riconoscere, per la prima volta, la possibilità di derogare alla regola (7) SANDULLI M.A., Riflessioni sulla responsabilità civile degli organi giurisdizionali, in PORTALURI P.G. (a cura di), L’Europa del diritto: i Giudici e gli ordinamenti, Napoli, 2012, p. 513. (8) Tra i molti contributi dottrinali dedicati al fenomeno dell’in house providing si rinvia a: CATRICALÀ A., Affidamenti in house: la posizione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, in App. e contratti, 2008, pp. 54 ss.; GOISIS F., Nuovi sviluppi comunitari e nazionali in tema di in house providing e i suoi confini, in Dir. amm., III, 2008, pp. 579 ss.; COLOMBARI S., Il modello in house providing tra mito “interno” e realtà “comunitaria” (commento a C.G.A. Sicilia, sez. giurisd., 4 settembre 2007, n. 719), in Urb. e app., II, 2008, pp. 211 ss.; RIZZO I., Affidamento in house e controllo analogo: una certezza irraggiungibile? (commento a Cons. di Stato, sez. V, 31 marzo 2009, n. 5082 sez. V, 9 marzo 2009, n. 1365 sez. V, 3 febbraio 2009, n. 591), in Urb. e app., XI, 2009, pp. 1345 ss.; CARANTA R., La Corte di giustizia chiarisce i contorni dell’in house pubblico (commento a Corte di giustizia delle Comunità europee, sez. III, 13 novembre 2008, C-324/07), in Giurispr. it., V, 2009, pp. 1251 ss.; PALLIGGIANO G., Affidamento in house: il “controllo analogo” va verificato secondo un criterio generale. La scelta del metodo cosiddetto sintetico facilita le esigenze degli enti territoriali (commento a Cons. di Stato, sez. V, 26 agosto 2009, n. 5082), in Guida al diritto, 2009, XXXVII, pp. 54 ss.; DE PAULI L., Gli enti in house e l’evidenza pubblica «a valle» (commento a Consiglio di Stato, sez. V, 30 aprile 2009, n. 2765), in Urb. e app., IX, 2009, pp. 1104 ss.; CARUSO L.M., L’in house providing nell’evoluzione giurisprudenziale comunitaria e nazionale (commento a Tar Campania, Napoli, sez. VII, 6 dicembre 2008, n. 21241), in Giurispr. merito, V, 2009, pp. 1378 ss.; CORSO G. - FARES G., Crepuscolo dell’«in house»? (nota a Corte cost., 23 dicembre 2008, n. 439), in Foro it., V, 2009, pp. 1319 ss.; DI GIACOMO RUSSO B., L’affidamento in house è un modello di sussidiarietà orizzontale? (commento a TAR Sardegna, sez. I, 21 dicembre 2007, n. 2407), in Riv. trim. app., I, 2009, pp. 203 ss.; SCARALE P., La Corte di giustizia modifica la propria giurisdizione sull’in house? (commento a Corte di giustizia europea, sez. II, 17 luglio 2008, n. C-371/05), in Riv. trim. appalti, I, 2009, pp. 165 ss.; PULVIRENTI M.G., Recenti orientamenti in tema di affidamenti in house (commento a Consiglio di Stato, ad. plen., 3 marzo 2008, n. 1), in Foro amm. - CDS, I, 2009, pp. 93 ss.; FORTUNA G., L’in house providing tra diritto interno e diritto dell’Unione europea (nota a margine alla sentenza della Corte costituzionale n. 325/2010), in www.giustamm. it, 2010; ROMEO M., In tema di affidamento diretto di un servizio, ampliato per ambito territoriale e per importo, rispetto a quello precedentemente assegnato mediante procedura ad evidenza pubblica (commento a TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 12 aprile 2010, n. 457), in Contr. St. e ent. pubbl., III, 2010, pp. 345 ss.; DE SANTIS S. - DI FILIPPO E., Affidamento «in house» e controllo analogo, in Coop. e cons., VI, 2010, pp. 41 ss.; NICODEMO A., Il “controllo analogo congiunto” nell’in house providing, in Riv. amm. Rep. it., V, 2010, pp. 307 ss.; DELLO SBARBA F., La compatibilità degli affidamenti in house con l’art. 23-bis. D.L. 112/2008: il g.a. anticipa l’art. 15, D.L. 135/2009 (commento a Tar Toscana, sez. I, 8 settembre 2009, n. 1430), in Urb. e app., II, 2010, pp. 227 ss.; IAONE C., Società in house. Contributo allo studio dei principi di auto-organizzazione a autoproduzione degli enti locali, Napoli, 2012. (9) C. giust. Ce, 18 novembre 1999, C-107/98, in www.curia.europa.eu. DOTTRINA 177 dell’evidenza pubblica in tutte le ipotesi in cui fosse stato possibile individuare la contestuale esistenza di due presupposti: il «controllo analogo» e «l’attività prevalentemente svolta in favore dell’ente pubblico di appartenenza», quali caratteristiche identificative dell’in house providing. Quest’affermazione non deve però confondere a causa del dubbio (comprensibile) circa il “se” l’in house debba considerarsi come un «modello organizzativo » oppure come un «modulo d’azione» della pubblica amministrazione. Esso, molto semplicemente, è entrambe le cose: può essere considerato sia sotto un profilo oggettivo che sotto un profilo soggettivo. Da una punto di vista oggettivo costituisce una procedimento amministrativo che conduce la pubblica amministrazione - senza previo esperimento di una gara - ad affidare una commessa pubblica ad una determinato soggetto, mentre da un punto di vista soggettivo rappresenta un’entità organizzativa che, per essere assoggettata ad un controllo analogo rispetto a quello che la pubblica amministrazione esercita sui propri uffici interni, rende legittima l’attribuzione diretta di una commessa pubblica. Si tratta allora di capire la portata dei requisiti indefettibili dell’in house providing, considerati da un’angolazione prospettica soggettiva: il «controllo analogo» e l’«attività prevalente». Il «controllo analogo» si sostanzia nella «capacità dell’ente affidante di determinare le scelte di gestione e d’organizzazione per la produzione dell’ente in house, che perciò esclude una negoziazione bilaterale delle condizioni di fornitura del bene o di prestazione del servizio» (10), di guisa che, proprio in forza di un controllo siffattamente invasivo, il soggetto affidatario si configura come una «articolazione organizzativa interna facente parte della “casa”» (11). Il requisito «dell’attività prevalente», invece, esclude che le attività svolte dall’organizzazione interna possano essere scelte liberamente sulla base di valutazioni tese ad intercettare delle propizie occasioni mercantili capaci di assicurare del profitto, trattandosi, piuttosto, di un’attività «irrefutabilmente vincolata alla soddisfazione dei fini pubblici, la cura dei quali è demandata dall’ordinamento giuridico all’ente pubblico socio della struttura in house» (12). Proprio in forza di quest’ultimo requisito v’è stato chi ha attribuito all’in house providing la qualifica di «impresa dimezzata», all’uopo evidenziando che «l’ordinamento giuridico, nell’imporre, quale limite esterno dell’organizzazione in house, che l’attività prevalente di quest’ultima sia svolta per conto degli enti pubblici controllanti, ha configurato questa organizzazione come un (10) CAVALLO PERIN R., Il modulo “derogatorio”: in autoproduzione o in house providing, in BONURA H. - CASSANO M. (a cura di), L’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza economica, Torino, 2011, p. 123. (11) Concl. Avv. gen., 20 settembre 2007, C-453/06 in www.curia.europa.eu. (12) MAZZAMUTO M., Brevi note su normativa comunitaria e in house providing, in Dir. Ue (Il), IV, 2001, p. 540. 178 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 imprenditore non rivolto in via principale a qualsiasi mercato di beni o servizi; sicché l’organizzazione in house può essere considerata un’impresa dimezzata o addirittura un “non imprenditore” (es. artt. 2602 ss. c.c.) quando la legge o lo statuto dell’organizzazione in house escludano ogni produzione per conto o a favore di enti non di controllo» (13). Le linee direttrici sviluppate dalla Corte di giustizia europea nella sentenza Teckal sono state recepite dalla giurisprudenza nazionale. È al Consiglio di Stato che deve essere attribuito il merito di avere elaborato una delle definizioni più sofisticate e complete dell’in hous. Nell’Adunanza plenaria 3 marzo 2008, n. 1, dopo essere stato ribadito che «l’istituto dell’in house providing è ritenuto ammissibile solo nel rispetto di alcune rigorose condizioni (individuate dalla giurisprudenza comunitaria ed elaborate anche da quella nazionale) rappresentate da: 1) il cosiddetto controllo analogo a quello svolto sui propri servizi, necessariamente esercitato dall’ente pubblico nei confronti dell’impresa affidataria; 2) il rapporto di stretta strumentalità fra le attività dell’impresa in house e le esigenze pubbliche che l’ente controllante è chiamato a soddisfare», si è pure precisato che «l’in house providing ricorre tutte le volte in cui un ente pubblico decida di affidare una commessa pubblica, al di fuori del sistema della gara, avvalendosi di una società esterna (ossia, soggettivamente separata) che presenti caratteristiche tali da poterla qualificare come una “derivazione” ovvero una “longa manus” dell’ente stesso» (14). Ma quand’è che ricorrono, praticamente, i requisiti del «controllo analogo » e «dell’attività prevalentemente svolta per il soddisfacimento delle esigenze pubbliche dell’ente controllante»? La giurisprudenza successiva alla sentenza Teckal non si è potuta esimere dal compiere i necessari sforzi ermeneutici volti a fornire una risposta all’interrogativo; il rischio sarebbe stato quello di consentire alle pubbliche amministrazioni di eludere, troppo facil- (13) CAVALLO PERIN R. - CASALINI D., L’in house providing: un’impresa dimezzata, in Dir. amm., II, 2006, p. 52. In giurisprudenza si è pronunziata in senso analogo Cons. giust. amm. Sicilia, Sez. giurisd., 4 settembre 2007, in Foro amm. - CDS, 2007, n. 709, p. 2602 ss., ove si è stabilito che «dall’esame della giurisprudenza europea e del Consiglio di Stato emerge con chiarezza che questo imprenditore non può essere un vero imprenditore. Egli non rischia, costituisce solo un braccio operativo della Pubblica Amministrazione, professionalizzato e capace di acquisire sul mercato i mezzi e le professionalità necessarie, ma sostanzialmente equiparabile a quelle figure tradizionali del diritto amministrativo, ormai scomparse, quali le aziende autonome o gli organi con personalità giuridica. I motivi per cui un soggetto pubblico opera la scelta di agire attraverso una società per azioni ad hoc costituita, anziché apprestare all’uopo un ufficio tecnico, possono essere i più vari. Dalla esigenza di sottrarsi alla contabilità pubblica, a quella di acquisire uomini e mezzi in maniera flessibile attingendo al mercato, e quindi aderendo alle sue logiche dei prezzi e delle retribuzioni; dalla temporaneità della intrapresa, alla particolare professionalità non reperibile attraverso il reclutamento pubblico etc. Ciò non rileva molto, ciò che l’Unione europea pretende è che tale esperienza rimanga confinata all’interno del soggetto pubblico azionista o proprietario, e che un tale imprenditore non abbia margini e discrezionalità per invadere il mercato libero». (14) Cons. St., Ad. pl., 3 marzo 2008, n. 1, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 2008, p. 1319 ss. DOTTRINA 179 mente, la regola in ossequio alla quale i lavori, i servizi e le forniture pubbliche debbono essere affidati, attraverso il previo esperimento di una procedura di evidenza pubblica, ad un operatore economico (formalmente e sostanzialmente) terzo rispetto all’amministrazione. Con riferimento al «controllo analogo» si è stabilito che «la sola partecipazione pubblica totalitaria al capitale sociale dell’impresa affidataria non è garanzia della ricorrenza dei presupposti dell’in house, occorrendo anche un’influenza determinante da parte del socio pubblico sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti» (15). Sicuramente più utili sembrano essere, però, le indicazioni offerte dalla giurisprudenza amministrativa nazionale, la quale, nel prediligere un approccio più pratico, ha stabilito che «sussiste il requisito del controllo analogo, necessario per l’affidamento diretto ad una società di gestione a dominanza pubblica totalitaria, allorché: a) lo statuto non consenta che una quota del capitale sociale possa essere alienata a soggetti privati; b) il consiglio di amministrazione abbia rilevanti poteri gestionali ed all’ente affidante sia consentito esercitare poteri maggiori rispetto a quelli riconosciuti dal diritto societario alla maggioranza sociale; c) la società di gestione non possa acquisire una vocazione commerciale che renda precario il controllo dell’ente affidante attraverso, tra l’altro, la possibilità dell’ampliamento dell’oggetto sociale, l’apertura di capitali, l’espansione territoriale della attività sociale; d) le più importanti decisioni degli organi societari siano sottoposti al vaglio preventivo dell’ente affidante» (16). (15) C. Giust. Ce, 11 maggio 2006, C-340/04, in www.curia.europa.eu. (16) Con. St., Ad. pl., 3 marzo 2008, n. 1, cit. Sulla portata del «controllo analogo», tra le più recenti pronunce, si vedano: Cons. St., Sez. III, 27 aprile 2015, n. 2154, in Il Foro. amm., 2015, p. 1049 ss., ove è stato affermato che «i requisiti individuati dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale perché possa farsi luogo ad affidamento in house sono: la totale partecipazione pubblica con divieto di cedibilità a privati; l’esclusività (destinazione prevalente dell’attività a favore dell’ente affidante); il controllo analogo (esercizio di influenza decisiva sugli indirizzi strategici e sulle decisioni significative del soggetto affidatario, tale da escludere la sostanziale terzietà dell'affidatario rispetto al soggetto affidante)»; T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, Sez. I, 19 novembre 2014, n. 929, in Red. Giuffrè, 2015, che ha stabilito che «il requisito del “controllo analogo”, condizione fondamentale per ricorrere all’affidamento in house, idoneo ad escludere la sostanziale terzietà dell’affidatario domestico rispetto al soggetto affidante, è da ritenersi sussistente solo in presenza di un potere assoluto di direzione, coordinamento e supervisione dell’attività del soggetto partecipato da parte dell’ente controllante-affidante, che consenta cioè a quest’ultimo di dettare le linee strategiche e di influire in modo effettivo ed immediato sulle decisioni dell’affidatario»; T.A.R. Friuli-Venezia Giulia, Trieste, Sez. I, 4 dicembre 2014, n. 629, in Il Foro amm., 2014, p. 3198 ss., in cui si è inteso ribadire che «é impossibile la partecipazione ancorché in percentuale minima di soggetti privati alle società in house. È pacifico, nell’attuale stato di soluzione giurisprudenziale, che il requisito della totalità della proprietà pubblica del capitale della società in house debba sussistere in termini assoluti. Invero, l’affidamento diretto (in house) di un servizio pubblico viene consentito tutte le volte in cui un ente pubblico decida di affidare la gestione del servizio, al di fuori del sistema della gara, avvalendosi di una società esterna (ossia, soggettivamente separata), che presenti caratteristiche tali da poterla qualificare come una derivazione o una longa manus dell’ente stesso. Infatti, in ragione del c.d. controllo analogo, che richiede non solo la necessaria partecipazione pubblica totalitaria (posto che la partecipazione, pur minoritaria, di un’impresa privata al capitale di una società, alla quale partecipi 180 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 Quanto all’«attività prevalentemente svolta in favore dell’ente affidante» si è invece scritto che un tale requisito debba ritenersi integrato «tutte le volte in cui l’impresa in house si astenga dall’espletare le sua attività in favore di soggetti diversi rispetto alla pubblica amministrazione controllante ovvero quando li espleti in favore di soggetti diversi rispetto all’amministrazione controllante, ma in misura quantitativamente irrisoria e qualitativamente irrilevante sulle strategie aziendali, ed in ogni caso non fuori dalla competenza territoriale dell’ente controllante» (17). È consolidato quell’insegnamento secondo il quale, al fine di stabilire se l’attività della struttura in house possa considerarsi prevalentemente svolta in favore dell’ente pubblico controllante, è necessario compiere «un giudizio pragmatico nel caso concreto che si basi non solo sull’aspetto quantitativo, ma anche su quello qualitativo, con la conseguenza che la natura dei servizi, delle opere o dei beni resi al mercato privato, oltre alla sua esiguità, deve anche dimostrare la quasi inesistente valenza nella strategia aziendale e nella collocazione dell’affidatario diretto sul mercato pubblico e privato» (18). I requisiti costitutivi dell’in house providing devono essere interpretati dall’operatore giuridico in maniera attenta e restrittiva, dal momento che un utilizzo inappropriato di esso potrebbe sortire - tra l’altro - effetti distorsivi per il mercato e per le dinamiche concorrenziali che debbono contraddistinguerlo; se così non fosse, risulterebbero violati, oltre ai principi generali che sovraintendono a tutta l’azione amministrativa (trasparenza, imparzialità, pubblicità, efficienza, efficacia, economicità, etc.), anche «il divieto di discriminazione nell’esercizio delle attività di impresa, la libertà di prestazione dei servizi e la tutela della libera concorrenza, quali principi del Trattato istitutivo della Comunità europea applicati nelle pronunce della Corte di giustizia, che anche l’Amministrazione aggiudicatrice, esclude in ogni caso che tale Amministrazione possa esercitare sulla medesima un controllo analogo a quello che essa svolge sui propri servizi) e la presenza di strumenti di controllo da parte dell’ente più incisivi rispetto a quelli previsti dal diritto civile. Inoltre, non deve essere statutariamente consentito che una quota del capitale sociale, anche minoritaria, possa essere alienata a soggetti privati; il consiglio di amministrazione della società deve essere privo di rilevanti poteri gestionali; all’ente pubblico controllante deve essere consentito l’esercizio di poteri maggiori rispetto a quelli che il diritto societario riconosce normalmente alla maggioranza sociale; l’impresa non deve acquisire una vocazione commerciale che renda precario il controllo dell’ente pubblico, con la conseguente apertura obbligatoria della società ad altri capitali, fino all’espansione territoriale dell’attività a tutta l’Italia e l’estero; le decisioni più importanti devono essere sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante, e della c.d. destinazione prevalente dell’attività (cioè il rapporto di stretta strumentalità fra le attività dell’impresa e le esigenze pubbliche che l’ente controllante è chiamato a soddisfare), l’ente in house non può ritenersi terzo rispetto all’Amministrazione controllante, ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell’Amministrazione stessa. Al contrario, per escludere radicalmente ogni possibilità di legittimo affidamento in house è sufficiente che vi sia, sebbene in minima percentuale, una partecipazione privata al capitale sociale». (17) GIOVAGNOLI R., Gli affidamenti in house tra lacune del codice e recenti interventi legislativi, in www.giustizia-amministrativa.it, 2007, p. 15. (18) C. Giust. Ue, 11 gennaio 2005, C-26/03, in www.curia.europa.eu. DOTTRINA 181 hanno efficacia diretta nell’ordinamento interno degli Stati membri e che vincolano il giudice nazionale» (19). A quest’ultimo riguardo, si soggiunga che, sebbene sia pacifico ritenere che «i principi comunitari e nazionali in materia di tutela della concorrenza e del libero mercato in sede di aggiudicazione degli appalti e delle concessioni, pur presupponendo un necessario rapporto fra la pubblica amministrazione ed il mercato, non possono vietarle di sottrarre al mercato attività in relazione alle quali la medesima ritenga di dover provvedere direttamente con la propria organizzazione» (20), la necessità di tutelare il libero gioco della concorrenza costituisce un’esigenza improcastinabile nelle ipotesi in cui l’impresa in house si determini ad adottare strategie aziendali che, postulando la partecipazione alle gare pubbliche indette da altri enti, rischiano di dissimulare dei comportamenti anticoncorrenziale. 4. La dubbia natura dell’in house providing: «ordinarietà» versus «derogatorietà ». La “fisiologica” modalità attraverso la quale le pubbliche amministrazioni si determinano ad affidare le commesse pubbliche è rappresentata dall’indizione di una gara, in quanto le gare bandite ai fini dell’assegnazione del «monte contrattuale» sono in grado di garantire alla pubblica amministrazione tutta una serie di vantaggi (economici e giuridici) non altrimenti conseguibili con le altre due diverse modalità operative: il partenariato pubblico-privato e l’in house providing. La dottrina e la giurisprudenza più sensibili, muovendo dalla considerazione preliminare che le «gare sono di per sé stesse strumenti atti a perfezionare i meccanismi di scelta e valgono a correggere imperfezioni dei processi di scambio e difetti di mercato» (21), hanno individuato gli inte- (19) T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. II, 13 febbraio 2006, n. 198, in Foro amm. - TAR, 2006, pp. 754 ss., in cui si è precisato, tra l’altro, che «l’affidamento “in house” deve essere considerato un metodo di carattere eccezionale, la cui legittimità è subordinata al rigoroso rispetto delle condizioni dettate dall’art. 113 comma 5 T.U.E.L. e, tra queste, in particolare, la prevalenza dello svolgimento dei servizi da parte dell’affidataria nei confronti dell'ente o degli enti pubblici che la controllano». (20) T.A.R. Sardegna, Cagliari, Sez. I, 21 dicembre 2007, n. 2407, in Foro amm. - TAR, 2007, p. 3959. Nel commentare la pronuncia, ELEFANTE F., Gli affidamenti “in house” nei servizi pubblici locali: il lungo cammino verso il riconoscimento della eccezionalità del modello gestionale societario a partecipazione pubblica totalitaria, in Foro amm. - TAR., I, 2008, p. 265 ss., ha precisato che «la vera novità della pronuncia è costituita dall’affermazione per cui il modello in house, seppur astrattamente compatibile, deve qualificarsi come «un’eccezione»; da qui la necessità, in primo luogo, di motivare «le circostanze eccezionali» e, in secondo, di interpretare «restrittivamente» «le due condizioni» che giustificano la deroga al vincolo comunitario della concorrenza, da intendersi non solo nell’accezione, per così dire, negativa della parità di condizioni - c.d. libera concorrenza «nel mercato» - ma soprattutto in senso positivo, come potenziale apertura dell’intero settore dei servizi pubblici alla concorrenzialità - cd. libera concorrenza «per il mercato». Attraverso la partecipazione dell’Italia all’ordinamento comunitario, infatti, «l’intera logica di tale disciplina si è trasformata - in adesione ai principi europei - da quella della tutela primaria dell’interesse dell’amministrazione a quella delle libera circolazione e concorrenza». (21) CAFAGNO M., Lo Stato banditore. Gare e servizi locali, Milano, 2001, p. 119. 182 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 ressi maggiormente tutelati dalla gara pubblica nella «convenienza» ed «efficienza » contrattuale, nella «imparzialità» e nel «controllo» dell’azione amministrativa, nonché nello «sviluppo» della concorrenza. È stato rilevato che «man mano che il ricorso al mercato da parte di pubbliche amministrazioni diviene parte rilevante dell’economica pubblica, la ragione per cui l’ordinamento impone alle amministrazioni, che non intendono provvedere da sole ad opere o servizi, di scegliere (con gara pubblica) la controparte con la quale stipulare il contratto non risiede soltanto nella possibilità, per la p.a., di effettuare la scelta più conveniente e di salvaguardare l’imparzialità delle pubbliche amministrazioni, come valore considerato in sé stesso, ma altresì, e inscindibilmente, nella possibilità di promuovere la prosperità collettiva rispettando la libertà d’iniziativa economica e la genuinità della concorrenza » (22). (22) Cons. St., Sez. V, 20 agosto 1996, n. 937, in Riv. trim. app., 1997, pp. 140 ss. Una plastica e illuminante individuazione degli interessi tutelati con le gare pubbliche è contenuta anche in: T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 6 giugno 1997, n. 1248, in Foro amm. - TAR, 1997, p. 1256, nella quale si è stabilito che «con il termine “amministrazione aggiudicatrice” la normativa comunitaria ha individuato, nell’ambito di appalti di lavori pubblici, gli “organismi di diritto pubblico”, quali soggetti, pubblici e privati, istituiti per il soddisfacimento di bisogni di carattere generale e obbligati al rispetto delle norme di evidenza pubblica, implicanti, in quanto norme di azione, la giurisdizione del giudice amministrativo. Tale conclusione non può essere disattesa avendo riguardo all’interesse tutelato dalla disciplina comunitaria quale la libertà di concorrenza, al quale viene riconosciuta natura privatistica; la limitazione dell’applicabilità di detta disciplina alle sole amministrazioni e agli organismi di diritto pubblico, comporta, infatti, una strumentalizzazione della tutela della concorrenza al perseguimento di fini generali affidati alle pp.aa. dei Paesi membri, che per l’Italia trovano espressione nei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento e, per la comunità si risolvono nel progresso economico e sociale dei cittadini dell’Unione europea», ma, ancora, più emblematico è il passaggio contenuto in: T.A.R., Valle d’Aosta, Sez. I, 13 febbraio 2015, n. 13, in Foro amm. - TAR, 2015, pp. 568 ss., nella cui motivazione si afferma che «l’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 163 del 2006 dispone che l’affidamento dei pubblici appalti deve rispettare, tra gli altri, i principi di libera concorrenza e parità di trattamento. L’obbligatorio rispetto del principio di parità di trattamento corrisponde all’essenza stessa delle direttive in materia di appalti pubblici, che mirano in particolare a favorire lo sviluppo di una concorrenza effettiva nei settori rientranti nelle loro rispettive sfere di applicazione e che enunciano criteri di attribuzione dell’appalto miranti a garantire una siffatta concorrenza. Detti principi, oltre ad essere il cardine del Trattato e delle direttive comunitarie in materia, rappresentano la declinazione dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento, di cui all’art. 97 Cost., che sovrintendono all’azione amministrativa, nonché della stessa libertà di iniziativa economica ex art. 41 Cost., e verrebbero ad essere del tutto obliterati laddove l’ordinamento ammettesse, in generale e nelle relazioni con le P.A., posizioni di vantaggio ovvero squilibri e/o disomogeneità di trattamento e di rapporti. Si tratta, dunque, di principi di tipo imperativo, la cui violazione può essere fatta valere come eccesso di potere, sotto il profilo dello sviamento, qualora in una data fattispecie emerga che dalla loro violazione sia derivata una posizione di favore, o di vantaggio, in capo ad uno o più partecipanti alla gara. In particolare, sul versante procedimentale, costituisce lesione di detto principio l’inadempimento dell’obbligo, posto in capo alle Amministrazioni aggiudicatrici, di assicurare eguali condizioni di partenza a tutte le imprese partecipanti alle gare, se del caso escludendo dalla competizione quei soggetti che, in virtù dello svolgimento di incarichi professionali precedenti, abbiano non soltanto contribuito a definire il contesto tecnico di riferimento, ma abbiano anche beneficiato di più occasioni di confronto e approfondimento, tali da determinare un potenziale «vantaggio competitivo» idoneo ad influire significativamente sull’esito di una gara». DOTTRINA 183 Agli interessi protetti mediante la gara pubblica sono correlati, in via del tutto complementare, dei costi che vengono abbattuti proprio mediante la messa in competizione degli operatori economici che partecipando alla procedura concorsuale: i «costi di transazione» e i «costi di influenza». Tra le precipue voci che possono essere ricondotte nella categoria dei «costi di transazione», la dottrina è concorde nel ritenere che tra le complicazioni del settore dei contratti pubblici debbono annoverassi «le asimmetrie informative derivanti dal fatto che l’operatore privato che partecipa alla gara pubblica, conoscendo analiticamente le caratteristiche del mercato, dispone di informazioni nascoste che non è disposto a rivelare né alla pubblica amministrazione, tampoco alle imprese concorrenti» (23), unitamente al «limited commitement, ossia le spese fisiologicamente legate alla necessità, per la p.a., di dare luogo a ripetute e talvolta schizofreniche fasi di contrattazione con il privato operatore economico per ovviare all’incompletezza dei testi contrattuale causati, per l’appunto, dalle asimmetrie informative» (24) e agli oneri dovuti alla necessità di «predisporre dei dispendiosi meccanismi di controllo volti a prevenire errori o a scoraggiare l’opportunistico sfruttamento del vantaggio posseduto dalla parte più consapevole (cioè l’operatore privato) in sede precontrattuale ovvero postcontrattuale» (25). Tali costi di transazione possono essere abbattuti mediante il ricorso alla gara pubblica, in quanto con essa si riesce ad attuare una comparazione delle offerte che «stimola i candidati a rivelazioni più sincere, nello sforzo di sbaragliare la concorrenza, ed affina il bagaglio delle conoscenze dell’amministrazione, riducendo il divario informativo» (26). Va da sé che con la riduzione delle asimmetrie informative si determina, a cascata, la riduzione dei costi connessi alla rinegoziazione (la p.a. non avrà più bisogno di intavolare plurime e ripetute trattative), così come la riduzione dei costi legati all’attivazione di meccanismi di controllo (la p.a. non avrà più bisogno di prevedere e di controllare, passo dopo passo, il comportamento dell’operatore privato, in quanto potrà valutare, allorché lo ritenga opportuno o necessario, la conformità di esso con il meticoloso ed esaustivo contenuto delle clausole contrattuali). I «costi di influenza», invece, ricomprendono tutte le voci connesse alle diseconomie che verrebbero registrandosi ogniqualvolta i funzionari incaricati di assolvere il ruolo di componente della commissione giudicatrice si presterebbero a tenere - dietro pressioni ed influenze esercitate dagli operatori privati - i comportamenti tipici di «persone venali e inclini a favoritismi» (27); ciò (23) PORRINI D., Asimmetrie informative, selezione avversa e azzardo morale, in CHIANCONE A. - PORRINI D. (a cura di), Lezioni di analisi economa del diritto, Torino, 1998, p. 191. (24) ZILLOTTI M., Teoria dei contratti di fornitura pubblica e regolamentazione, Milano, 1997, p. 9. (25) GUISO L. - TERLIZZESE D., Economia dell’incertezza e dell’informazione, scelte individuali, mercati, contratti, Milano, 1994, p. 319. (26) CAFAGNO M., Lo Stato banditore, cit., p. 151. 184 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 che avverrebbe qualora il contratto fosse assegnato, in modo arbitrario e scriteriato, ad un operatore economico che non abbia presentato l’offerta migliore. Poiché le «decisioni pubbliche sono ordinariamente atte ad incidere sugli interessi di un’ampia gamma di gruppi di pressione e sono assunti in un ambiente nel quale il pericolo di collusione e più intenso, a causa della separazione tra proprietà delle risorse e potere decisionale e dell’assenza di precisi indici rivelatori dei comportamenti individuali» (28), è indubbio che mediante «l’allestimento di procedure formali di raccolta e di elaborazione» (29) e attraverso la puntuale individuazione del soggetto «responsabile del procedimento» di gara, si riduce, notevolmente, l’entità dei costi di influenza; quest’ultimo meccanismo, consentendo di «fisicizzare» in un persona determinata i complessi sub-procedimenti di selezione e valutazione di cui consta la gara, disincentiva i fenomeni corruttivi che potrebbero alterare l’ordinato dispiegarsi delle fasi in cui si snoda l’evidenza pubblica (30). Nondimeno, la giurisprudenza amministrativa ha individuato nei principi di concentrazione e di continuità un ulteriore strumento capace di incidere, abbattendoli o comunque riducendoli, i costi di influenza; è stato infatti precisato che «nelle gare pubbliche, sebbene le garanzie d’imparzialità, pubblicità, trasparenza e speditezza dell’azione amministrativa postulino che le sedute di una commissione di gara debbano ispirarsi al principio di concentrazione e continuità e che, conseguentemente, la valutazione delle offerte tecniche ed economiche deve avvenire in una sola seduta, senza soluzione di continuità, al fine di scongiurare possibili influenze esterne ed assicurare l’as- (27) Per quanto possa rilevare in questa sede, si tratta di una definizione recentemente impiegata dalla giurisprudenza di legittimità in sede di descrizione della fattispecie incriminatrice del millantato credito ai sensi dell’art. 346 c.p. In C. Cass., Sez. VI, 11 dicembre 2014, n. 51688, in Dir. & giust., 2015, si è invero affermato che «considerato che il reato di cui all’art. 346 c.p., è stato concepito per tutelare il prestigio della pubblica amministrazione piuttosto che il patrimonio del solvens, si è focalizzato l’attenzione sulla condotta dell’agente, che si fa dare il denaro rappresentando i pubblici impiegati come persone venali, inclini a favoritismi». (28) CAFAGNO M., Lo Stato banditore, cit., p. 178. (29) PANUNZI F., Autorità, struttura organizzativa e costi di influenza, in MONTESANO A. (a cura di), Teorie economiche dell’organizzazione, Bologna, 1996, p. 115. (30) La funzione centrale che il R.u.p. (Responsabile unico del procedimento) assolve nell’ambito delle gare pubbliche è evidenziata, molto efficacemente, da quella giurisprudenza che si è occupata di stabilire i rapporti tra R.u.p. e commissione giudicatrice. Al riguardo, in Cons. St., Sez. V, 12 giugno 2009, n. 3716, in Foro amm. - CDS, 2009, pp. 1471 ss., si è precisato che «non vi è incompatibilità tra le funzioni di presidente della commissione di gara e quella di responsabile del procedimento, analogamente deve ritenersi nel caso in cui al dirigente di un ente locale che ha svolto le funzioni di presidente del seggio e di responsabile del procedimento sia stato anche attribuito il compito di approvare gli atti della commissione di gara, atteso che detta approvazione non può essere ricompresa nella nozione di controllo in senso stretto, ma si risolve in una revisione interna della correttezza del procedimento connessa alla responsabilità unitaria del procedimento spettante alla figura dirigenziale». In dottrina, tra i tanti contributi, si veda: GIOVAGNOLI R., Il responsabile del procedimento: punti di contatto e dissonanza tra la disciplina codicistica e quella sul procedimento amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it, 2012. DOTTRINA 185 soluta indipendenza di giudizio dell’organo incaricato della valutazione stessa; tale principio, comunque, è da considerasi tendenziale ed è suscettibile di deroga, ben potendo verificarsi situazioni particolari che obiettivamente impediscono l’espletamento di tutte le operazioni in una sola seduta, dovendo in questo caso essere minimo l’intervallo tra le sedute e dovendo essere predisposte adeguate garanzie di conservazione dei plichi» (31). Le «qualità» e le «specificità» che caratterizzano le gare pubbliche hanno fatto in modo - come s’è detto - che le stesse venissero considerate come il metodo ordinario (rectius, normale) attraverso il quale gestire l’affidamento di lavori, servizi e forniture pubbliche. Il ché ha indotto, in via del tutto speculare, ad interrogarsi in merito alla natura da dover attribuire alle altre modalità di gestione delle commesse pubbliche e, specificamente, alla c.d. autoproduzione: si tratta di un forma organizzativa ordinaria oppure derogatoria? Siffatto quesito ha animato un appassionato dibattito, dal quale sono scaturiti due opposte tesi interpretative. Da un lato v’è quell’orientamento che, muovendo dall’assunto secondo il quale il «modello dell’in house providing si configura, con tutta evidenza, come un’eccezione alle regole generali del diritto comunitario, le quali richiedono che l’affidamento degli appalti pubblici avvenga mediante la gara» (32), si è spinto sino al punto di (31) Cons. St., Sez. V, 22 gennaio 2015, n. 257, in Foro amm. - CDS, 2015, pp. 76 ss. In senso analogo si veda anche: T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, Sez. I, 30 gennaio 2015, n. 83, in Foro amm. - TAR, 2015, p. 177, ove è dato leggere che «il principio della concentrazione della valutazione delle offerte non implica necessariamente che le offerte debbano essere esaminate nella stessa seduta, soprattutto se per la loro complessità tecnica richiedono un esame approfondito, ciò poiché se è vero, da una parte, che le sedute di una commissione di gara devono ispirarsi al principio di concentrazione e continuità e che conseguentemente la valutazione delle offerte tecniche ed economiche deve avvenire senza soluzione di continuità, al fine di scongiurare possibili influenze esterne ed assicurare l’assoluta indipendenza di giudizio dell’organo incaricato della valutazione stessa, è anche vero, dall’altra, che il principio di continuità e speditezza va coniugato con altri concorrenti principi che informano l’azione amministrativa nelle gare di appalto ed è derogabile in presenza di ragioni oggettive, quali la complessità delle operazioni di valutazione delle offerte, il numero delle offerte in gara, l’indisponibilità dei membri della commissione, la correlata necessità di nominare sostituti che giustificano il ritardo anche in relazione al preminente interesse alla effettuazione di scelte ponderate» e in T.A.R. Puglia, Bari, Sez. II, 26 aprile 2014, n. 808, in Foro amm. - TAR, 2014, pp. 1837, in cui si è affermato che «nelle gare pubbliche, il principio della continuità e della concentrazione della gara costituiscono espressione della più generale regola della imparzialità e della par condicio, in quanto mirano ad assicurare l’indipendenza di giudizio di chi presiede la gara stessa ed a sottrarlo a possibili influenze esterne; principio la cui violazione comporta l’invalidità della procedura a prescindere dalla verifica delle conseguenze pratiche, e che subisce eccezioni soltanto in particolari situazioni, che obiettivamente impediscano la conclusione delle operazioni di gara in una sola seduta». (32) In tal senso si vedano: Cons. St., Sez. II, 18 aprile 2007, n. 456, in Foro it., 2007, p. 611 ss., ove è dato leggere che «questa Sezione condivide pienamente - come già affermato nel precedente parere n. 3162/06 (cfr. pure, in termini, la citata decisione della VI Sezione n. 1514/07) - le affermazioni secondo le quali la figura dell’in house providing si configura come un modello eccezionale, i cui requisiti vanno interpretati restrittivamente poiché costituiscono una deroga alle regole generali del diritto comunitario. Ciò è stato chiarito con fermezza dalla Corte di giustizia nelle sue successive pronunce (cfr. le note sentenze 11 gennaio 2005, causa C-26/03 - Stadt Halle e RPL Lochau, su cui si tornerà più avanti per altri 186 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 concepire in capo ad ogni operatore economico un «interesse tutelato a contestare la scelta della p.a. di non procedere all’indizione di una procedura di gara pubblica, in quanto tale decisione viene a ledere l’interesse sostanziale di ciascun imprenditore operante sul libero mercato a competere, secondo pari parità, ai fini dell’ottenimento di commesse da aggiudicarsi secondo procedura ad evidenza pubblica» (33); un’impostazione che, del resto, sarebbe corroborata dalla necessità di «interpretare restrittivamente i requisiti dell’in house providing» (34), quale forma organizzativa congeniale alla realizzazione del pernicioso fenomeno delle c.d. «scatole cinesi» (o catene societarie), mediante le quale, l’azionista pubblico di controllo, celandosi dietro la «volontà di aumentare l’economicità del processo produttivo, migliorando le combinazioni produttive e ricercando le dimensioni più efficaci» (35), otterrebbe la concreta opportunità di creare un contorto sistema di collegamenti con le realtà imprenditoriali assoggettate al suo controllo, che gli permetterebbe di beneficiare, anzitutto, di limitazione della responsabilità nei confronti degli stakeholder (una responsabilità generalmente circoscritta al solo patrimonio delle società controllate) e, secondariamente, di «assumere decisioni non corrispondenti agli interessi dell’azienda, così come di ottenere benefici privati di natura monetaria (dai compensi sovradimensionati degli amministratori, all’utilizzo personale di risorse aziendali anche molto ingenti e alla attribuzione di servizi ad imprese delle quali il suddetto controllore possiede quote di maggioranza) ovvero di altra natura (come il mantenimento della posizione di controllo)» (36). profili; 21 luglio 2005, causa C-231/03 - Corame; 13 ottobre 2005, causa C-458/03 - Parking Brixen GmbH; 10 novembre 2005, causa C-29/04 - Mödling o Commissione c/ Austria; 6 aprile 2006, causa C- 410/04 - ANAV c/ Comune di Bari; 11 maggio 2006, causa C-340/04 - Carbotermo; 18 gennaio 2007, causa C-220/05 - Jean Auroux). Il ridimensionamento dell’istituto è da ricondursi anche a fenomeni di distorsione nel ricorso a tale modello, del quale si tende ad abusare attraverso il fenomeno delle c.d. catene societarie e dei controlli indiretti, nonché attraverso le attività svolte nei confronti di terzi»; nonché, più di recente, anche Cons. St., Sez. III, 7 maggio 2015, n. 2291, in www.giustizia-amministrativa.it e Cons. St., Sez. II, 30 gennaio 2015, n. 298, in Foro amm. - CDS, 2015, pp. 126 ss. (33) T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. II, 4 ottobre 2007, n. 3436, in Foro amm. - TAR, 2007, pp. 3244 ss., nel quale, specificamente, è stato disposto che «alla luce del generalissimo principio nazionale e comunitario di libera concorrenza e del criterio di effettività del diritto alla tutela giurisdizionale, ogni impresa operante in un determinato settore ha un interesse tutelato a contestare la scelta della p.a. di non procedere all’indizione di una procedura di gara pubblica, in quanto tale decisione viene a ledere l’interesse sostanziale di ciascun imprenditore operante sul libero mercato a competere, secondo pari opportunità, ai fini dell’ottenimento di commesse da aggiudicarsi secondo procedure ad evidenza pubblica». (34) In questo senso, ex plurimis, C. Giust, Ue, 6 aprile 2006, C-410/04, in www.curia.europa.eu, in cui si è stabilito che «i requisiti dell’in house providing, costituendo un’eccezione alle regole generali del diritto comunitario, devono essere interpretati restrittivamente». (35) AZZALI S., Il reddito e il capitale del gruppo, Milano, 2012, p. 119. (36) ZANDA L., Scatole cinesi, è giusto regolamentarle?, in Proprietà e controllo dell’impresa: il modello italiano stabilità o contendibilità?, Atti del convegno di studio “Adolfo Beria di Argentine”. Problemi attuali di diritto e procedurale civile, Milano, 2008, p. 34. DOTTRINA 187 Sul fronte opposto, invece, si attesta quell’opzione ermeneutica secondo la quale l’autorità pubblica può adempiere i suoi compiti mediante propri strumenti, senza che debba ritenersi obbligata a fare ricorso ad entità esterne, poiché «l’affidamento diretto “in house”, lungi dal configurarsi come un’ipotesi eccezionale e residuale di gestione delle commesse pubbliche, costituisce una delle tre normali forme organizzative degli stessi (mediante il mercato, oppure mediante il cd. partenariato pubblico-privato, ovvero con l’affidamento “in house”), con la conseguenza che la decisione di un ente di avvalersi dell’affidamento diretto “in house” (sempre che ne ricorrano tutti i requisiti), costituisce frutto di una scelta ampiamente discrezionale, che deve essere motivata in maniera adeguata circa le ragioni di fatto e di convenienza che la giustificano e che, come tale, sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che non sia manifestamente inficiata da illogicità, irragionevolezza, irrazionalità ed arbitrarietà ovvero non sia fondata su di un altrettanto macroscopico travisamento dei fatti» (37). I corifei di questa teoretica ritengono, infatti, che non sussiste alcuna valida ragione che possa giustificare la collocazione dell’in house providing in una posizione di specialitas rispetto alla gara pubblica. Le garanzie e i vantaggi che quest’ultima è idonea a garantite in tanto assumono rilievo in quanto il soggetto pubblico decida di approvvigionarsi sul mercato; se, nello sciogliere l’opzione “mercato-non mercato”, la pubblica amministrazione si persuada della circostanza che sussistano i presupposti (di fatto e di diritto) capaci di rendere l’autoproduzione come una scelta opportuna, non potrà essere dedotta la violazione di nessuna norma; ciò in quanto la struttura interna affidataria della commessa pubblica, potendo esercitare solo delle attività preordinate al soddisfacimento degli interessi pubblici alla cui cura è demandata l’amministrazione affidante, si trova ad operare in una realtà mercantile autonoma, parallela e decisamente più angusta rispetto a quella in cui operano le imprese private, le quali non patiscono - in linea di principio - i nocumenti derivanti da eventuali alterazioni e distorsioni della concorrenza dovuti alla presenza di (37) T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, Sez. I, 18 dicembre 2014, n. 905, in Foro amm. - TAR, 2014, p. 3235 ss. Analogamente anche Cons. St., Sez. V, 10 settembre 2010, n. 6548, in www.giustizia-amministrativa.it, in cui si legge che «il diritto comunitario non impone in alcun modo alle autorità pubbliche di ricorrere ad una particolare forma giuridica per assicurare in comune le loro funzioni di servizio pubblico, consentendo, invece, alle amministrazioni aggiudicatrici, in alternativa allo svolgimento di una di procedura di evidenza pubblica di scelta del contraente, di stipulare un accordo a titolo oneroso con altra amministrazione pubblica, cui affidare il servizio. Una cooperazione del genere tra autorità pubbliche non può rimettere in questione l’obiettivo principale delle norme comunitarie in materia di appalti pubblici, vale a dire la libera circolazione dei servizi e l’apertura alla concorrenza non falsata in tutti gli Stati membri, poiché l’attuazione di tale cooperazione è retta unicamente da considerazioni e prescrizioni connesse al perseguimento di obiettivi d’interesse pubblico e poiché viene salvaguardato il principio della parità di trattamento degli interessati di cui alla direttiva 92/50, cosicché nessun impresa privata viene posta in una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti». 188 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 imprese che, atteggiandosi come «quasi amministrazioni» (38) opererebbero in una posizione di vantaggio e di supremazia. Le strutture in house non possono comportarsi come “squali” che, già forti del nutrimento somministratogli in cattività (la commessa pubblica ottenuta senza gara), sono autorizzati a conquistare, proprio grazie all’ausilio di questa sostanza dopante, le “acque agitate” dell’economia aperta e in libera concorrenza, dovendo piuttosto astenersi dall’effettuare «determinati investimenti di risorse economiche in altri mercati - anche non contigui - al fine di un’eventuale espansione in settori diversi da quelli rilevanti per l’ente pubblico conferente» (39). 5. Critica alla «derogatorietà». Le tre ragioni che giustificano la configurazione dell’in house providing come modello organizzatorio ordinario: la incostituzionalità dei limiti all’utilizzo della autoproduzione, i vincoli di finanza pubblica imposti dal Patto di Stabilità Interno (P.S.I.) e il principio di autoorganizzazione amministrativa. Tra le due sopraesposte teoretiche si ritiene di dover accordare prevalenza alla seconda; ciò per tutta una serie di ragioni. Primariamente, perché a seguito dell’esito del referendum del 12 e 13 giugno 2011, con il quale è stato formulato (tra gli altri) il quesito «volete voi che sia abrogato l’art. 23 bis (Servizi pubblici locali di rilevanza economica) del decreto legge 25 giugno 2008 n. 112 “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria” convertito, con modificazioni, in legge 6 agosto 2008, n. 133, come modificato dall’art. 30, comma 26 della legge 23 luglio 2009, n. 99 recante “Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia” e dall’art. 15 del decreto legge 25 settembre 2009, n. 135, recante “Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della corte di giustizia della Comunità europea» convertito, con modificazioni, in legge 20 novembre 2009, n. 166, nel testo risultante a seguito della sentenza n. 325 del 2010 della Corte costituzionale?», è stata abrogata la norma che stabiliva come modalità ordinaria di gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza economica l’affidamento a soggetti pri- (38) CLARICH M., Società di mercato e quasi amministrazioni, in www.giustizia-amministrativa.it, 2009, p. 21. (39) C. cost., 15 dicembre 2008, n. 439, in www.cortecostituzionale.it. Ancora più significativamente, C. cost., 30 luglio 2008, n. 326, in ibidem, ha disposto che «le esigenze di tutela della concorrenza impongono di tenere distinto lo svolgimento di attività amministrativa posta in essere da una società di capitali per conto di una pubblica amministrazione dal libero svolgimento di attività di impresa; un’esigenza finalizzata ad evitare che un soggetto, che svolge attività amministrativa, eserciti allo stesso tempo attività d’impresa, beneficiando dei privilegi dei quali esso può godere in quanto pubblica amministrazione ». DOTTRINA 189 vati attraverso gara o l’affidamento a società a capitale misto pubblico-privato. Nonostante l’esito della consultazione referendaria, è stato necessario un ulteriore intervento della Corte costituzionale. Per vero, dopo solo poco tempo, il Governo è reintervenuto sulla materia con l’art. 4 del D. lg. 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148; ma tale norma - come anticipato - è stata presto dichiarata incostituzionale, per via del fatto che, il Giudice delle leggi, ha considerato la norma «contraddistinta dalla medesima ratio di quella abrogata, in quanto opera una drastica riduzione delle ipotesi di affidamenti in house, al di là di quanto prescritto dalla normativa comunitaria, ma è anche letteralmente riproduttiva, in buona parte, di svariate disposizioni dell’abrogato art. 23-bis e di molte disposizioni del regolamento attuativo del medesimo art. 23-bis contenuto nel D.P.R. n. 168 del 2010» (40). (40) Si veda sul punto la celebre sentenza C. cost., 20 luglio 2012, n. 199, in www.cortecostituzionale.it, il cui aspetto cruciale dello snodo motivazione, testualmente, recita così: «Il citato art. 4 è stato adottato con d.l. n. 138 del 13 agosto 2011, dopo che, con decreto del Presidente della Repubblica 18 luglio 2011, n. 113 (Abrogazione, a seguito di referendum popolare, dell’articolo 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008, e successive modificazioni, nel testo risultante a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 325 del 2010, in materia di modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica), era stata dichiarata l’abrogazione, a seguito di referendum popolare, dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, recante la precedente disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. Quest’ultima si caratterizzava per il fatto che dettava una normativa generale di settore, inerente a quasi tutti i predetti servizi, fatta eccezione per quelli espressamente esclusi, volta a restringere, rispetto al livello minimo stabilito dalle regole concorrenziali comunitarie, le ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, di gestione in house dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, consentite solo in casi eccezionali ed al ricorrere di specifiche condizioni, la cui puntuale regolamentazione veniva, peraltro, demandata ad un regolamento governativo, adottato con il decreto del Presidente della Repubblica 7 settembre 2010 n. 168 (Regolamento in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica, a norma dell’articolo 23-bis, comma 10, del d.l. n. 112 del 2008). Con la richiamata consultazione referendaria detta normativa veniva abrogata e si realizzava, pertanto, l’intento referendario di «escludere l’applicazione delle norme contenute nell’art. 23-bis che limitano, rispetto al diritto comunitario, le ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, quelle di gestione in house di pressoché tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica (ivi compreso il servizio idrico)» (sentenza n. 24 del 2011) e di consentire, conseguentemente, l’applicazione diretta della normativa comunitaria conferente. A distanza di meno di un mese dalla pubblicazione del decreto dichiarativo dell’avvenuta abrogazione dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, il Governo è intervenuto nuovamente sulla materia con l’impugnato art. 4, il quale, nonostante sia intitolato «Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dall’Unione europea», detta una nuova disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, che non solo è contraddistinta dalla medesima ratio di quella abrogata, in quanto opera una drastica riduzione delle ipotesi di affidamenti in house, al di là di quanto prescritto dalla normativa comunitaria, ma è anche letteralmente riproduttiva, in buona parte, di svariate disposizioni dell’abrogato art. 23-bis e di molte disposizioni del regolamento attuativo del medesimo art. 23-bis contenuto nel d.P.R. n. 168 del 2010. Essa, infatti, da un lato, rende ancor più remota l’ipotesi dell’affidamento diretto dei servizi, in quanto non solo limita, in via generale, «l’attribuzione di diritti di esclusiva alle ipotesi in cui, in base ad una analisi di mercato, la libera iniziativa economica privata non risulti idonea a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunità» (comma 1), analogamente a quanto disposto dall’art. 23-bis 190 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 Una circostanza che ha quindi indotto la giurisprudenza amministrativa a rilevare che «proprio per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 199 del 20 luglio 2012, le commesse pubbliche possono, in definitiva, essere gestite indifferentemente secondo tre differenti modalità: a) mediante ricorso al mercato (ossia individuando all’esito di una gara ad evidenza pubblica il soggetto affidatario); b) attraverso il c.d. partenariato pubblico-privato (ossia per mezzo di una società mista e quindi con una « gara a doppio oggetto » per la scelta del socio e per la gestione del servizio); c) attraverso l’affidamento diretto, in house, senza previa gara, a un soggetto che solo formalmente è diverso dall’ente, ma che ne costituisce sostanzialmente un diretto strumento operativo, ricorrendo in capo a quest’ultimo i requisiti della totale partecipazione pubblica, del controllo (sulla società affidataria) « analogo » (a quello che l’ente affidante esercita sui propri servizi) e della realizzazione, da parte della società affidataria, della parte più importante della sua attività con l’ente o gli enti che la controllano» (41). (comma 3) del d.l. n. 112 del 2008, ma la àncora anche al rispetto di una soglia commisurata al valore dei servizi stessi, il superamento della quale (900.000 euro, nel testo originariamente adottato; ora 200.000 euro, nel testo vigente del comma 13) determina automaticamente l’esclusione della possibilità di affidamenti diretti. Tale effetto si verifica a prescindere da qualsivoglia valutazione dell’ente locale, oltre che della Regione, ed anche - in linea con l’abrogato art. 23-bis - in difformità rispetto a quanto previsto dalla normativa comunitaria, che consente, anche se non impone (sentenza n. 325 del 2010), la gestione diretta del servizio pubblico da parte dell’ente locale, allorquando l’applicazione delle regole di concorrenza ostacoli, in diritto o in fatto, la «speciale missione» dell’ente pubblico (art. 106 TFUE), alle sole condizioni del capitale totalmente pubblico della società affidataria, del cosiddetto controllo “analogo” (il controllo esercitato dall’aggiudicante sull’affidatario deve essere di “contenuto analogo” a quello esercitato dall’aggiudicante sui propri uffici) ed infine dello svolgimento della parte più importante dell’attività dell’affidatario in favore dell’aggiudicante. Dall’altro lato, la disciplina recata dall’art. 4 del d.l. n. 138 del 2011 riproduce, ora nei principi, ora testualmente, sia talune disposizioni contenute nell’abrogato art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 (è il caso, ad esempio, del comma 3 dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 “recepito” in via di principio dai primi sette commi dell’art. 4 del d.l. n. 138 del 2011, in tema di scelta della forma di gestione del servizio; del comma 8 dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008 che dettava una disciplina transitoria analoga a quella dettata dal comma 32 dell’art. 4 del d.l. n. 138 del 2011; così come del comma 10, lettera a), dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza n. 325 del 2010, sostanzialmente riprodotto dal comma 14 dell’art. 4 del d.l. n. 138 del 2011), sia la maggior parte delle disposizioni recate dal regolamento di attuazione dell’art. 23-bis (il testo dei primi sette commi dell’art. 4 del d.l. n. 138 del 2011, ad esempio, coincide letteralmente con quello dell’art. 2 del regolamento attuativo dell’art. 23-bis di cui al d.P.R. n. 168 del 2010, i commi 8 e 9 dell’art. 4 coincidono con l’art. 3, comma 2, del medesimo regolamento, mentre i commi 11 e 12 del citato art. 4 coincidono testualmente con gli articoli 3 e 4 dello stesso regolamento)». (41) T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. I, 13 marzo 2015, n. 700, in Foro amm. - TAR, 2015, pp. 870 ss. Per il principio si veda anche T.A.R. Sardegna, Cagliari, Sez. I, 21 dicembre 2007, n. 2407, in www.giustizia-amministrativa.it, ove si legge che «per la gestione dei servizi pubblici l’amministrazione locale può scegliere di optare tra “outsourcing” e “in house providing”, e tale scelta non è sindacabile alla stregua del diritto comunitario. La creazione di un mercato comune e l’applicazione delle regole di tutela della concorrenza per garantirne il mantenimento incontrano il limite del potere di organizzazione della p.a. riconosciuta agli stati membri dalle istituzioni comunitarie. Tale limite non rappresenta una deroga alla disciplina europea delle libertà economiche tutelate dal mercato comune, ma è definizione DOTTRINA 191 Nondimeno, deve essere ricordato che l’in house providing si prefigura, in talune ipotesi, come una modalità, se non necessaria, quanto meno opportuna per consentire alla pubblica amministrazione di soddisfare delle primarie esigenze che le gare pubbliche rischierebbe di lasciare inevase. La prassi amministrativa italiana dimostra, infatti, che la p.a. tende a prediligere il modello dell’autoproduzione quando deve acquisire uomini e mezzi in maniera flessibile, avviare una intrapresa con carattere temporaneo e, ancora di più, quando le ragioni di contabilità pubblica lasciano prevedere che la indizione di una gara pubblica (che di per sé comporta dei costi) non consentirebbe di rispettare i vincoli derivanti dal c.d. patto di stabilità interno. Il patto di stabilità interno - come noto - è lo strumento impiegato per «far cessare politiche dissennate dei conti pubblici» (42). Esso consiste nell’insieme delle disposizioni della legge finanziaria con cui lo Stato italiano fissa gli impegni di finanza pubblica che le amministrazioni decentrare sono obbligate a rispettare al fine di consentire al Paese di mantenere l’impegno assunto con l’Unione europea in forza del c.d. Patto di Stabilità e crescita. La sua origine è da farsi risalire alla legge n. 448/1998 (c.d. Legge finanziaria ’99) che, al suo art. 28, stabilisce che «le Regioni, le Province autonome, le Province, i Comuni e le Comunità montane concorrono alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica assunti dall’Italia con l’adesione al Patto di stabilità e crescita, impegnandosi a diminuire progressivamente il finanziamento in disavanzo delle proprie spese e ridurre il rapporto tra il proprio ammontare di debito e il prodotto interno lordo». Se ne ricava che, in forza delle condizioni del Patto di stabilità, le pubbliche amministrazioni sono tenute a garantire il pareggio di bilancio (ad un determinato ammontare di uscite deve corrispondere un identico ammontare di entrate). Per ragioni di trasparenza e pubblicità è fatto divieto alle pubbliche amministrazioni di anticipare il prezzo della commessa pubblica in favore dell’operatore terzo che sia risultato aggiudicatario della gara; un divieto che, combinato con i rigidi parametri fissati nel Patto di stabilità interno, è causa della non infrequente situazione in cui «le pubbliche amministrazioni, pur in presenza di un impegno di spesa lecitamente assunto in un precedente esercidi ciò che non è mercato. La disciplina della concorrenza per l’aggiudicazione degli appalti e delle concessioni presuppone un rapporto con il mercato, ma la libera decisione dell’amministrazione di rivolgersi a esso non può essere coartata per realizzare l’apertura al mercato di taluni settori di attività in cui l’amministrazione pubblica, voglia, invece, ricorrere all’autoproduzione. In altri termini, le norme comunitarie non interferiscono sui poteri delle p.a. di adottare soluzioni organizzative che siano le più rispondenti alle esigenze che esse stesse ritengano di dover soddisfare conformemente alle leggi che le disciplinano». (42) IURESCIA P., Il patto di stabilità interno negli enti locali. Problematiche operative e strategie gestionali, in Fin. loc. (La), II, 2012, p. 20. In dottrina si rimanda per approfondimenti a: BISIO L. - NICOLAI M., Patto di stabilità e federalismo fiscale, Rimini, 2010; RUFFINI P., Il patto di stabilità interno per gli enti locali, Rimini, 2012. 192 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 zio, e pur disponendo delle risorse finanziarie per provvedere al pagamento, si trovino vincolate a non effettuare il pagamento, mancando flussi di entrata in conto capitale ad esso equiparabili» (43). Ne discende il rischio concreto per la pubblica amministrazione, costretta a ritardare i pagamenti in forza del Patto di stabilità, di trovarsi coinvolta in un giudizio avente ad oggetto l’accertamento della sua responsabilità per ritardato pagamento; e alla somma originariamente dovuta verranno a cumularsi gli interessi legali e moratori di cui all’art. 4 del D.lgs. n. 231/2002 oltre ai danni patrimoniale e non patrimoniali ex art. 1224, comma 2, c.c. subiti dal contraente privato, per via del fatto che «la necessità di carattere generale di rispettare i vincoli derivanti dal rispetto del Patto di stabilità non esime la Stazione appaltante dall’obbligo di liquidare gli interessi legali e moratori per ritardato pagamento dei crediti relativi all’esecuzione di appalti pubblici» (44). Una simile evenienza può quindi disincentivare il ricorso alla gara pubblica, in luogo dell’autoproduzione. Giova però dare conto che la Corte costituzionale, nella consapevolezza che il Patto di stabilità interno possa giustificare un inappropriato e imperante abuso dell’in house providing, ha chiarito che le regole del Patto di stabilità interno sono estese anche alle società in house (45). Ma questo non fa venire meno la “convenienza” dell’autoproduzione, in taluni casi, rispetto alla esternalizzazione, poiché la circostanza (affatto secondaria) che il personale della struttura organizzativa in house sia messo nella condizione di poter sviluppare (rispetto al terzo affidatario che rimane soggetto estraneo) uno spiccato senso di appartenenza alla pubblica amministrazione controllante rende più agevole e proficua l’instaurazione di (43) PANDOLFINI V., Il ritardo di pagamento nelle transazioni commerciali, Torino, 2013, p. 55. (44) A.V.C.P., 8 novembre 2007, n. 300, in www.anticorruzione.it. (45) C. cost., 20 marzo 2013, n. 46, in www.cortecostituzionale.it, nella quale si legge che «secondo la normativa comunitaria, le condizioni integranti tale tipo di gestione ed alle quali è subordinata la possibilità del suo affidamento diretto (capitale totalmente pubblico; controllo esercitato dall’aggiudicante sull’affidatario di “contenuto analogo” a quello esercitato dall’aggiudicante stesso sui propri uffici; svolgimento della parte più importante dell’attività dell’affidatario in favore dell’aggiudicante) debbono essere interpretate restrittivamente, costituendo l’in house providing un’eccezione rispetto alla regola generale dell’affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica. Tale eccezione viene giustificata dal diritto comunitario con il rilievo che la sussistenza delle suddette condizioni esclude che l’in house contract configuri, nella sostanza, un rapporto contrattuale intersoggettivo tra aggiudicante ed affidatario, perché quest’ultimo è, in realtà, solo la longa manus del primo». Quindi, una diversa disciplina che favorisca le società in house rispetto all’aggiudicante Amministrazione pubblica si potrebbe porre in contrasto con la stessa disciplina comunitaria, in quanto verrebbe a scindere le due entità e a determinare un ingiustificato favor nei confronti di questo tipo di gestione dei servizi pubblici dato che il bilancio delle società in house non sarebbe soggetto alle regole del patto di stabilità interno. Le suddette regole, invece, debbono intendersi estese a tutto l’insieme di spese ed entrate dell’ente locale sia perché non sarebbe funzionale alle finalità di controllo della finanza pubblica e di contenimento delle spese permettere possibili forme di elusione dei criteri su cui detto “Patto” si fonda, sia perché la maggiore ampiezza degli strumenti a disposizione dell’ente locale per svolgere le sue funzioni gli consente di espletarle nel modo migliore, assicurando, nell’ambito complessivo delle proprie spese, il rispetto dei vincoli fissati dallo stesso Patto di stabilità». DOTTRINA 193 forme di transazione per le eventuali ipotesi di ritardata erogazione delle voci stipendiali e, in ultima battuta, scongiura il rischio del coinvolgimento della pubblica amministrazione in un giudizio risarcitorio per ritardi nei pagamenti; un rischio tutt’altro che remoto nei rapporti contrattuali che si instaurano a valle di una procedura di gara pubblica. Sempre per il tramite della costituzione di strutture organizzative in house, la pubblica amministrazione controllante ha la possibilità di mettersi al “riparo” dalle eventuali azioni giudiziali esperite dai terzi operatori economici che abbiano stipulato rapporti contrattuali con l’articolazione interna, dal momento che per i danni che siano stati causati dagli amministratori della struttura in house ai soggetti terzi (ad esempio per il mancato pagamento di una fattura relativa all’acquisto di beni strumentali all’esercizio delle sue attività) l’unico centro patrimoniale che rimane aggredibile è quello della struttura in house, poiché in queste ipotesi «il danno incide solo sul patrimonio della società, che resta privato e separato da quello dei soci, e non determina una diretta e illecita depauperazione del patrimonio dello Stato ovvero di altro ente pubblico» (46). L’altra ragione che porta ad escludere il carattere eccezionale dell’in house providing discende, direttamente, dal principio che ne costituisce il fondamento: il principio di auto-organizzazione amministrativa. Tale principio, che comprende anche il potere della pubblica amministrazione di scegliere le modalità di gestione delle commesse pubbliche reputate più opportune al soddisfacimento delle esigenze della collettività, si intreccia con il principio di libertà della concorrenza. Benché il legislatore comunitario sia titolare di una competenza esclusiva nella definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato unico, lo stesso «non può obbligare i pubblici poteri dei Paesi membri ad utilizzare particolari strutture organizzative per raggiungere i fini comunitari imposti, così come non può imporre agli stessi di fare ricorso al mercato, soprattutto quando la medesima funzione pubblica o i medesimi beni o servizi possano essere offerti mediante l’uso di «propri strumenti» (47). Per questa via si è giustamente affermato che la libertà di organizzazione amministrativa si pone come un «limite esterno alle regole sulla concorrenza, le quali presentano un carattere recessivo laddove vi sia spazio per l’autonomia (46) Cass., SS.UU., 5 aprile 2013, n. 8352, in Foro amm. - CDS, 2013, pp. 1836. Sul fronte della responsabilità erariale in Cass., SS.UU., 26 marzo 2014, n. 7177, in Dir. & giust., 2014, p. 333 ss. è stato invece stabilito che essa sussiste tutte le volte in cui «l’amministratore che rappresenta l’ente pubblico che detiene la partecipante totalitaria (o comunque maggioritaria) alla struttura in house abbia trascurato di esercitare i propri diritti di socio, in tal modo pregiudicando il valore della partecipazione, ovvero in comportamenti tali da compromettere la ragione stessa della partecipazione sociale dell’ente pubblico, strumentale al perseguimento di finalità pubbliche ed implicante l’impiego di risorse pubbliche o da arrecare direttamente pregiudizio al suo patrimonio». (47) C. Giust. Ue, 11 marzo 2003, C-186/01, Dory, in www.curia.europa.eu.it. 194 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 organizzativa dei pubblici poteri di escludere in radice la concorrenza “per” o “nel” mercato» (48). Di talché, il solo fatto che l’in house providing possa configurarsi come «legittima declinazione di un principio generale» (49), vale ad escludere che lo stesso sia «un’eccezione al diritto comunitario degli appalti e delle concessioni» (50). La pubblica amministrazione, con un ampio margine di discrezionalità, può scegliere «ordinariamente» se rivolgersi o meno al mercato; l’obbligo di assicurare un adeguato livello di concorrenza “per” e “nel” mercato sussistente soltanto nel caso in cui si propenda per l’approvvigionamento mercantile, senza che per questo debba considerarsi «eccezionale» e «residuale» tutto ciò che non preveda (come nella ipotesi dell’autoproduzione) il contatto tra i poteri pubblici e l’economia. 6. L’in house providing nelle nuove direttive appalti e il processo di «positivizzazione- integrazione» dei requisiti dell’istituto: il carattere misto della nuova autoproduzione. L’autoproduzione è stata coinvolta nel più ampio disegno di riforma della materia degli appalti pubblici e delle concessioni del legislatore europeo. Nelle tre direttive europee è possibile riscontrare la presenza di una norma - topograficamente collocata in articoli diversi, ma contraddistinta da un contenuto identico - che disciplina, in modo puntuale e specifico, il fenomeno dell’in house providing; si tratta dell’art. 12 della direttiva 2014/24/Ue (appalti nei settori classici), dell’art. 28 della direttiva 2014/25/Ue (appalti nei settori speciali) e dell’art. 17 della direttiva 2014/23/Ue (concessioni). (48) IAIONE C., Le società in house. Contributo allo studio dei principi di auto-organizzazione e auto-produzione degli enti locali, Napoli, 2007, p. 137. (49) Cons. St., Sez. VI, 18 maggio 2015, n. 2515, in www.giustizia-amministrativa.it, in cui si legge che «in coerente applicazione di principi di matrice in primis eurounitaria, deve ritenersi che l’organismo in house (al di là del formale “velo societario”) si qualifichi come mera articolazione organizzativa interna dell’ente o organismo che lo controlla, in tal modo qualificando l'istituto medesimo come legittima declinazione del generale principio dell’autoproduzione (ovvero, per utilizzare la pregnante terminologia della direttiva 2014/23/UE, come corollario del principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche)». (50) T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. II, 1 dicembre 2014, n. 2986, in Foro amm. - TAR, p. 2986, in cui è stato stabilito che «l’istituto dell’in house, più che un’eccezione al diritto comunitario degli appalti e delle concessioni, è espressione di un principio generale riconosciuto sia dal diritto dell’Unione che dall’ordinamento nazionale, cioè del principio di auto-organizzazione amministrativa o di autonomia istituzionale, in forza del quale gli enti pubblici possono organizzarsi nel modo ritenuto più opportuno per offrire i loro servizi o per reperire le prestazioni necessarie alle loro finalità istituzionali; ed invero l’affidamento diretto, in house, lungi dal configurarsi come un’ipotesi eccezionale e residuale di gestione dei servizi pubblici locali, costituisce una delle normali forme organizzative della stessa, con la conseguenza che la decisione di un ente in ordine alla concreta gestione dei servizi pubblici locali, ivi compresa quella di avvalersi dell’affidamento diretto, in house, costituisce frutto di una scelta ampiamente discrezionale, che deve essere adeguatamente motivata circa le ragioni di fatto e di convenienza che la giustificano e che, in quanto tale, sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che non sia manifestamente inficiata da illogicità, irragionevolezza, irrazionalità ed arbitrarietà ovvero non sia fondata su di un altrettanto macroscopico travisamento dei fatti». DOTTRINA 195 Per la prima volta si è giunti a dettare delle disposizioni volte a disciplinare l’autoproduzione; il ché è stato salutato dalla più attenta dottrina come la prima rilevante novità, in specie se si considera che la positivizzazione dell’in house providing era stata più volte “tentata”. Già in sede di valutazione della direttiva 2004/18/Ce si era discusso in ordine alla possibilità di introdurre una norma che, sotto la rubrica «appalti aggiudicati a entità costituite da amministrazioni aggiudicatrici», avrebbe dovuto disciplinare l’istituto degli affidamenti interni. Malgrado i buoni propositi, non se ne fece nulla e così nel testo della precedente direttiva appalti non venne inserita nessuna norma all’interno della quale fosse possibile riscontrare, anche solo incidentalmente, elementi concernenti l’in house providing. Del pari, in ambito nazionale, la Commissione incaricata di redigere il testo del precedente Codice degli appalti pubblici aveva considerato l’opportunità di inserire nell’articolato una norma (rubricata «affidamenti interni») che avrebbe disciplinato l’istituto, ma anche questo tentativo venne arenandosi. Sarebbe sufficiente già solo questo per comprendere la portata rivoluzionaria delle nuove direttive europee. Ma ovviamente v’è di più. Sebbene nella elaborazione delle direttive del 2014 non si fosse mai dubitato della opportunità di codificare l’istituto dell’in house providing, non sono mancate delle discussioni quanto al modo in cui codificarlo. Alla tesi (sostenuta dalla Commissione europea) secondo la quale l’articolo dedicato all’in house si sarebbe dovuto risolvere in una pedissequa riproduzione dei principi elaborati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia Ue, si è opposta quell’impostazione (fortemente sostenuta da alcuni Stati membri) in ossequio alla quale il legislatore europeo avrebbe dovuto costruire un nuovo modello di autoproduzione. Da tale scontro - come evidenziato da una attenta dottrina - il «modello che ne è derivato può dirsi di carattere misto, poiché in parte ricognitivo dell’esistente e in parte decisamente innovativo» (51). Nel testo delle nuove direttive europee non compare mai la locuzione di in house providing. Trattasi di un elemento di novità che non rileva soltanto sotto un profilo stilistico, ma, al contrario, si pone in perfetta linea con l’in- (51) CONTESSA C., L’in house providing quindici anni dopo: cosa cambia con le nuove direttive, in www.giiustizia-amministrativa.it, 2014, p. 3, dove viene evidenziato, peraltro, che la natura mista del nuovo “in house” «ha indotto taluni osservatori a dubitare della stessa legittimità in parte qua del risultato normativo finale. Si è infatti osservato che, in tema di in house providing, le direttive ‘appalti/concessioni’ del 2014 si sarebbero ingiustificatamente discostate dalle insuperabili ipotesi eccezionali che la Corte di Lussemburgo aveva individuato in modo sostanzialmente tassativo nel corso degli anni, desumendole in via diretta dall’applicazione dei principi del Trattato di Roma (secondo un modus operandi che il Legislatore europeo derivato non avrebbe potuto a propria volta ulteriormente derogare). Spetterà, quindi, alla stessa Corte di giustizia stabilire (nell’ambito del controllo di cui all’articolo 263 del TFUE) se le disposizioni delle direttive 2014 in tema di ‘Appalti pubblici tra enti nell’ambito del settore pubblico’ risultino invalide per aver superato gli ambiti normativi legittimamente esercitabili in sede di formazione europea derivata». 196 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 tenzione del legislatore europeo di ampliare l’ambito di applicazione dell’istituto a nuove fattispecie; nella direttiva appalti riguardanti i settori ordinari si parla di «appalti pubblici tra enti nell’ambito del settore pubblico», in quella in materia di appalti nei settori speciali si parla di «appalti tra amministrazioni aggiudicatrici» e, ancora, in quella relativa alle concessioni di «concessioni tra enti nell’ambito del settore pubblico». Occorre allora domandarsi: quali sono gli elementi di novità introdotti dalle nuove direttive? L’esame di essi deve essere preceduto dalla preliminare considerazione che essi possono essere suddivisi in due diversi «blocchi». 7. I nuovi requisiti del «controllo analogo» e della «attività prevalente» come elaborati nelle nuove direttive in materia di appalti e di concessioni: l’influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative della struttura in house e lo svolgimento di un’attività pubblica nella misura dell’oltre 80 %. Il primo «blocco di novità» è costituito dalla «positivizzazione integrativa » dei presupposti alla ricorrenza dei quali può dirsi che una persona giuridica di diritto pubblico ovvero di diritto privato faccia parte della “casa” della pubblica amministrazione. I requisiti del «controllo analogo» e della «attività prevalentemente svolta in favore dell’ente controllante» sono stati riprodotti e contestualmente integrati di aspetti che la giurisprudenza non aveva contemplato. In questa prospettiva - a tratti conservativa e ad altri ammodernante - è stata dapprima formulata una più puntuale definizione del «controllo analogo», successivamente riconosciuta la possibilità che soggetti privati possano detenere partecipazioni nel patrimonio della struttura in house e, infine, è stata fissata una soglia quantitativa idonea ad attestare l’esistenza del requisito «dell’attività prevalente». Il requisito del «controllo analogo» ricorre tutte le volte in cui «l’amministrazione aggiudicatrice esercita sulla persona giuridica di cui trattasi un controllo analogo a quello da essa esercitato sui propri servizi». Questa formula - in verità assai ricorrente - è stata arricchita dalle nuove direttive europee di ulteriori specificazioni. Dopo essere stato perspicuamente chiarito che una pubblica amministrazione esercita su altra persona giuridica un «controllo analogo » a quello esercitato sui propri servizi soltanto qualora sia in grado di esercitare «un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della persona giuridica controllata», viene altresì disposto che, sempre ai fini del requisito de quo, «nella persona giuridica controllata non deve esservi alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportano controllo o potere di veto». A ben vedere, la conformazione del requisito del «controllo analogo», così come risultante dalle direttive del 2014, presenta indubbi aspetti di innovazione. DOTTRINA 197 È stato finalmente superato l’annoso dibattito (52) relativo al “se” il controllo analogo dovesse intendersi come controllo di tipo «strutturale» ovvero «funzionale ». Sul punto era infatti venuta consolidandosi una giurisprudenza che, ondivagamente, poneva, talvolta, l’accento sul profilo funzionale del «potere assoluto di direzione, coordinamento e supervisione dell’attività del soggetto partecipato» (53) e, tal’altra, sul profilo strutturale del «controllo gestionale e finanziario stringente» (54). La circostanza che il contenuto di tale requisito sia da identificarsi in un posizione di supremazia dalla quale discende il potere di influenzare sia gli “obiettivi strategici” che le “decisioni significative”, lascia desumere che il controllo analogo debba essere sia strutturale che funzionale. Ulteriore innovazione consiste nell’aver voluto confermare l’esistenza del requisito del «controllo analogo» anche in presenza di «partecipazioni di capitali privati che non comportano l’attribuzione di poteri di controllo ovvero di veto». Questo è un elemento di assoluta rottura rispetto al passato, ove la dottrina e la giurisprudenza erano unanimi nel ritenere che «la sussistenza del controllo analogo viene esclusa in presenza di una compagine societaria composta anche da capitale privato, essendo necessaria la partecipazione pubblica totalitaria; la partecipazione (pure minoritaria) di un’impresa privata al capitale di una società, alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare su detta società un controllo analogo a quello che essa svolge sui propri servizi» (55). È stato peraltro dipanato ogni dubbio con riferimento all’ammissibilità del «controllo analogo indiretto», che ricorre nelle ipotesi in cui sussiste (52) Per una ricostruzione, sufficientemente esaustiva, del dibattito venuto alimentandosi, soprattutto, nell’ambito della giurisprudenza nazionale si v.: CASSATELLAA., Partecipazione “simbolica” alle società in house e requisito del controllo analogo, in Giur. it., VII, 2014, p. 2588 ss. Diversamente, la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea ebbe modo di precisare la necessità che il «controllo analogo» comprendesse tanto elementi strutturali quanto elementi funzionali già in tempi non sospetti; al riguardo, tra le altre, si ricordano: C. Giust. Ue, 13 ottobre 2005, C-458/03, nonché C. Giust. Ue, 11 maggio 2006, C-340/04, in www.curia.europa.eu. (53) T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. I, 22 marzo 2012, n. 892, in Foro amm. - TAR, p. 693 ss., in cui si è stabilito che «nel caso di “in house providing”, in particolare, il requisito del “controllo analogo”, idoneo ad escludere la sostanziale terzietà dell’affidatario domestico rispetto al soggetto affidante, è da ritenersi sussistente solo in presenza di un potere assoluto di direzione, coordinamento e supervisione dell’attività del soggetto partecipato da parte dell’ente controllante-affidante, che consenta cioè a quest’ultimo di dettare le linee strategiche e di influire in modo effettivo ed immediato sulle decisioni dell’affidatario. (54) T.A.R. Sardegna, Cagliari, Sez. I, 21 dicembre 2007, n. 2407, in Foro amm. - TAR, 2008, p. 3959, ove si è affermato che «le condizioni per ritenere legittimo l’affidamento diretto di un servizio pubblico locale ad una società appositamente costituita (c.d. in house providing) sono costituite dalla sussistenza sia di una partecipazione pubblica totalitaria, sia del c.d. “controllo analogo”, consistente in un rapporto equivalente, ai fini degli effetti pratici, ad una relazione di subordinazione gerarchica (quando cioè sussiste un controllo gestionale e finanziario stringente dell’ente pubblico sull’ente societario)». (55) T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VII, 5 dicembre 2008, n. 21241, in Giur. merito, 2009, pp. 1378 ss. Oltre che la celebre, e già menzionata, Adunanza plenaria del 3 marzo 2008, n. 1, in cui si legge che «la sussistenza del “controllo analogo” viene esclusa in presenza di una compagine societaria composta anche da capitale privato, essendo necessaria la partecipazione pubblica totalitaria». 198 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 una pubblica amministrazione che, essendo titolare di una vasta e ramificata rete di strutture intermedie controllate, può esercitare un’influenza determinante sulle entità in house per il tramite di una delle organizzazioni intermedie. Una siffatta forma di controllo, inizialmente esclusa da quella giurisprudenza europea secondo la quale «nel considerare il controllo analogo, non è sufficiente il fatto che l’ente pubblico abbia sulla società aggiudicataria, un’influenza indiretta perché esercitato tramite una holding» (56), viene quindi riconosciuta come possibile; nelle nuove direttive si afferma infatti che il controllo analogo «può anche essere esercitato da una persona giuridica diversa, a sua volta controllata allo stesso modo dall’amministrazione aggiudicatrice». Il requisito «dell’attività prevalentemente svolta in favore dell’ente pubblico » ha formato oggetto di un intervento novellatore che è giunto sino al punto di fissare una precisa quota percentuale. Nelle nuove direttive si è infatti affermato che il requisito dell’attività prevalente può dirsi integrato solo quando «oltre l’80 % delle attività della persona giuridica controllata siano effettuate nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre persone giuridiche controllate dall’amministrazione aggiudicatrice di cui trattasi». La formula impiegata dal legislatore europeo - è innegabile - si presenta come assai fortunata, ponendo fine a non pochi dubbi. La dottrina ha rilevato che la prescrizione normativa in questione «oltre a superare quell’orientamento giurisprudenziale secondo cui il secondo requisito Teckal poteva dirsi sussistente soltanto laddove l’organismo controllato realizzasse in regime di quasi esclusività, dal punto di vista quantitativo e qualitativo, le proprie attività nei confronti dell’Ente conferente, comporta anche il superamento del dibattito sul “se” la parte più importante dell’attività dell’organismo in house fosse da riferire alle attività svolte nei confronti dell’ente conferente ovvero alle attività svolte per conto di tale ente, poiché la formulazione finale del testo è di un’ampiezza tale da ricomprendere entrambi i profili» (57). Quanto, poi, ai parametri che l’operatore giuridico è tenuto a considerare al fine di stabilire se il requisito «dell’attività prevalente» possa dirsi sussistente, essi sono stati identificati nel «fatturato totale medio, o in un’idonea misura alternativa basata sull’attività, quali i costi sostenuti dalla persona giuridica o amministrazione aggiudicatrice in questione nei campi dei servizi, delle forniture e dei lavori per i tre anni precedenti l’aggiudicazione dell’appalto ». (56) C. Giust. Ue, 11 maggio 2006, C-340/04, in www.curia.europa.eu. (57) CONTESSA C., L’in house providing quindici anni dopo: cosa cambia con le nuove direttive, cit., p. 14. DOTTRINA 199 8. Le fattispecie di autoproduzione disciplinate nelle nuove direttive in materia di appalti e di concessioni: in house verticale ed invertito, in house orizzontale, in house frazionato e la cooperazione pubblico-pubblico non istituzionalizzata. Il secondo «blocco di novità» concerne l’introduzione di alcune peculiari figure di in house providing. Sono state innanzitutto create due possibili modalità organizzative dell’autoproduzione, che la dottrina ha inteso enfaticamente ribattezzare come in house verticale ed invertito e come in house orizzontale. L’in house verticale ed invertito si configura quando in sede di affidamento di un appalto o di una concessione viene a registrarsi un capovolgimento soggettivo nei ruoli che caratterizzano, tradizionalmente, i rapporti sottesi ad un appalto pubblico ovvero ad una concessione: aggiudicatrice o concedente, da un parte, e aggiudicataria o concessionaria, dall’altra. Nei casi di in house providing verticale ed invertito la commessa pubblica non viene affidata dalla pubblica amministrazione controllante alla struttura in house, ma, al contrario, è quest’ultima che, assumendo le vesti di stazione appaltante, si determina ad affidare (in maniera diretta) alla prima un appalto o una concessione. Nelle nuove direttive europee, a proposito di questa fattispecie, si è così stabilita l’esclusione dalla disciplina vigente in materia di appalti pubblici e concessioni «anche quando una persona giuridica controllata (cioè la struttura in house) aggiudica un appalto alla propria amministrazione aggiudicatrice controllante». È tuttavia evidente che una siffatta ipotesi di autoproduzione si presenta come idonea ad arrecare un pesante dubbio in ordine alla sua riconducibilità al fenomeno dell’in house providing. Se corrisponde al vero che l’in house può dirsi perfettamente integrato soltanto qualora ricorrano i due requisiti del «controllo analogo» e della «attività prevalentemente pubblica», è altrettanto vero che nella ipotesi di in house verticale ed invertito manca del tutto il requisito del controllo analogo. Come giustificare, allora, l’inserimento di una tale fattispecie nell’ampio fenomeno dell’in house providing? La risposta viene dal dato che l’entità in house (pur ricoprendo il ruolo di aggiudicatrice/concedente) continua a configurarsi come un «prolungamento endorganizzativo» asservito, strutturalmente e funzionalmente, alla pubblica amministrazione che (pur ricomprendo il ruolo di aggiudicataria/concessionaria) rappresenta «l’apparato organizzativo dominante» dalla cui sfera di autonomia ha tratto origine, appunto, la struttura in house; ciò che equivale ad affermare - molto più significativamente - che alle modificazioni soggettive dell’in house verticale ed inverso non corrisponde nessuna modificazione della titolarità del potere di controllo, il quale rimane una prerogativa della pubblica amministrazione che ha inteso costituire una struttura interna alla propria “casa” (58). 200 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 L’in house orizzontale ricorre, invece, quando la struttura interna affida un appalto o una concessione ad una persona giuridica soggiogata alla medesima pubblica amministrazione, che controlla la struttura interna. Qui si dà un’unica pubblica amministrazione controllante e due soggetti in house che, controllati dal medesimo soggetto pubblico, hanno la possibilità di dar vita ad un fenomeno di «reciproca trasmigrazione» di appalti e/o di concessione, a condizione che nella persona giuridica alla quale viene aggiudicato l’appalto o affidata la concessione «non vi sia alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportano controllo o potere di veto prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata». La fattispecie in parola pone due problemi: al fine della configurabilità dell’in house orizzontale è forse necessario che il controllo analogo venga esercitato dalla struttura in house (aggiudicatrice/concedente)? Quale tipo di rapporti si instaura tra le due strutture controllate e tra queste e la pubblica amministrazione controllante? Le due domande si pongono in rapporto di stretta complementarietà, di guisa che dal tipo di risposta che si dà all’una, dipende la risposta che potrà essere offerta all’altra. Dell’in house orizzontale si è recentemente occupata la giurisprudenza europea (59), la quale è giunta ad affermare che il generale fenomeno dell’au- (58) In analogo senso si sono espressi: FOÀ S. - GRECO D., L’in house providing nelle direttive appalti 2014: norme incondizionate e limiti dell’interpretazione conforme, in www.federalismi.it, 2015, i quali hanno affermato che «la giustificazione a tale possibilità di affidamento diretto si troverebbe nel fatto che, essendo la controllata un’appendice dell’amministrazione aggiudicatrice al quale viene affidato direttamente il contratto, si può ritenere che ci si trovi comunque in una mera forma di delegazione interorganica, benché opposta a quella tradizionale». (59) C. giust. Ue, 8 maggio 2014, C-15/13, in www.curia.europa.eu, la cui massima è così sintetizzabile: «L’articolo 1, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, deve essere interpretato nel senso che un contratto avente ad oggetto la fornitura di prodotti, concluso tra, da un lato, un’Università che è un’amministrazione aggiudicatrice ed è controllata nel settore delle sue acquisizioni di prodotti e servizi da uno Stato federale tedesco e, dall’altro, un’impresa di diritto privato detenuta dallo Stato federale e dagli Stati federali tedeschi, compreso detto Stato federale, costituisce un appalto pubblico ai sensi della medesima disposizione e, pertanto, deve essere assoggettato alle norme di aggiudicazione di appalti pubblici previste da detta direttiva». La vicenda riguardava un’ipotesi di affidamento diretto di un appalto di forniture da parte di un ateneo universitario della Città di Amburgo in favore di una società tedesca. Benché tra l’Università (aggiudicatrice) e la società (aggiudicataria) non vi era alcun rapporto di controllo, la Città di Amburgo controllava, assieme alla Repubblica federale di Germania e ad altri Stati federati tedeschi, sia l’Università che la società. La Corte di giustizia europea, investita delle quaestio iuris, ha escluso che la fattispecie potesse integrare un’ipotesi di in house orizzontale per via del fatto che il controllo esercitato dalla Città di Amburgo sull’ateneo universitario si estende solo su una parte dell’attività di quest’ultima. Pertanto, essendo in presenza di una in una situazione di “controllo parziale” non è configurabile il controllo analogo proprio dell’in house orizzontale, venendo meno la possibilità di determinare (tutti) gli obiettivi strategici e (tutte) le decisioni significative del soggetto controllato. DOTTRINA 201 toproduzione sussiste anche nelle ipotesi in cui la pubblica amministrazione decida di procedere alla cura concreta di interessi pubblici avvalendosi non già di un sola struttura organizzativa interna, quanto piuttosto di due. Ciò posto, quanto al primo quesito si è dell’avviso che il controllo analogo (come emerge dalla lettera della norma) debba essere esercitato soltanto dalla pubblica amministrazione controllante e che, peraltro, debba configurarsi come un controllo «totale e non limitato soltanto ad alcune delle attività svolte dai soggetti controllati». Una tale considerazione è rafforzata dal fatto che il tratto maggiormente caratterizzante dell’in house providing risiede in ciò che il rapporto che si instaura tra la p.a. e l’articolazione organizzativa interna (sia essa una ovvero più di una) non può considerarsi come un «incontro di due volontà autonome, rappresentative di interessi e strategie negoziali distinte» (60), venendo piuttosto a crearsi una stretta relazione di “immedesimazione organica” dalla quale discende l’esistenza di un unico centro decisionale facente capo all’amministrazione controllante che, perciò tale, è idoneo a rendere tutte le singole manifestazioni di volontà delle strutture in house come mere proiezioni/riproduzioni di una volontà formatasi in una sede strategicamente diversa rispetto a quella degli organi decisionali di cui l’organigramma delle articolazioni domestiche risulta essere dotato. Ammettere, per assurdo, che il controllo analogo debba essere esercitato dalla struttura in house che affida l’appalto o la concessione, equivarrebbe a negare l’esistenza stessa dell’in house providing; così facendo si ammetterebbero due autonomi centri di volontà (quello della pubblica amministrazione controllante e quello della struttura in house affidante) che, per l’effetto, traccerebbe un’inconcepibile scissione di quel collegamento «uno e trino» che deve necessariamente esistere tra l’amministrazione controllante, la struttura controllata che affida la commessa pubblica e la struttura controllata che si vede affidare l’appalto o la concessione. Con riferimento al secondo quesito non è condivisibile quell’orientamento dottrinale per il quale la «particolarità dell’in house orizzontale risiederebbe proprio nel fatto che il compito di interesse pubblico verrebbe assolto attraverso un affidamento diretto tra detti enti controllati, del quale l’amministrazione controllante non risulterebbe parte; un legame, quello sussistente tra i due enti contraenti, che in quanto mediato da un terzo soggetto controllante, risulta più tenue rispetto a quello esistente in un affidamento in house di tipo verticale» (61). La circostanza - come s’è detto - che anche nell’in house providing orizzontale esista un unico centro decisionale facente capo alla pubblica amministrazione controllante fa in modo che il rapporto che si instaura tra le due (60) COMBA M. - TREUMER S., The in house providing in european law, Copenhagen, 2010, p. 35. (61) PESCATORE G., L’inedito modello dell’in house orizzontale, in www.treccani.it, 2015. 202 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 strutture controllate veda come “parte formale” la struttura controllata che affida l’appalto o la concessione e come “parte sostanziale” la pubblica amministrazione controllante; questa, infatti, nell’esercitare un identico «controllo analogo» su entrambe le strutture domestiche è senz’altro titolare di un’incontrastabile potere di influenza. È la pubblica amministrazione controllante che può decidere se consentire alle strutture in house di dar luogo al cennato fenomeno della «trasmigrazione reciproca di appalti e/o di concessioni» oppure scegliere di creare una nuova struttura coinvolta in un rapporto di in house verticale o, ancora, di fare ricorso al mercato mediante l’indizione di una gara pubblica. Diversamente argomentando non si vede in che cosa consisterebbe il requisito del «controllo analogo»; non è pensabile che l’influenza determinante esercitata dalla pubblica amministrazione sulle strutture in house sia transeunte e temporalmente limitata, così che le strutture in house, una volta dotate di quel primo soffio vitale, potrebbero atteggiarsi a «creature prometeiche » capaci di sfuggire alle linee direttrici della p.a. Un’altra forma di in house providing introdotta dalle nuove direttive è quella dell’in house frazionato o pluripartecipato. Benché con riferimento al requisito «dell’attività prevalente», l’in house frazionato non differisce dalla tradizionale figura dell’autoproduzione, poiché anche in questa ipotesi è richiesto che «oltre l’80 % delle attività di tale persona giuridica controllata siano effettuate nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dalle amministrazioni aggiudicatrici controllanti o da altre persone giuridiche controllate dalle amministrazioni aggiudicatrici» e che «nella persona giuridica controllata non vi sia alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportano controllo o potere di veto», lo stesso se ne differenzia quanto al requisito del «controllo analogo». Difatti, questo si considera perfezionato tutte le volte in cui una pubblica amministrazione, non essendo in grado (da sola) di esercitare «un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative» della struttura in house, si avvale delle partecipazioni detenute nella struttura controllata da altre pubbliche amministrazioni. Giacché il requisito del «controllo analogo» si presenta “contaminato” dalla presenza di una pluralità di centri decisionali, non sono mancati quanti hanno inteso qualificare tale fattispecie di autoproduzione nei termini di «quasi in house» (62). (62) In questo senso si espresso CONTESSA C., L’in house providing quindici anni dopo: cosa cambia con le nuove direttive, cit., p. 3, il quale, nel soffermarsi sulla ragione che ha indotto il legislatore europeo a non impiegare, espressamente, la locuzione in house providing, la individua nella circostanza che, così facendo, ha fatto in modo di ricomprendere nell’istituto «sia il fenomeno dell’in house providing in senso proprio; sia ipotesi che possono essere definite come di “quasi-in house” (come nel caso del c.d. ‘in house frazionato’ o del ‘controllo analogo congiunto’ di cui al paragrafo 3); sia - e più in generale - ulteriori forme di cooperazione fra amministrazioni pubbliche che non comportano l’istituzione di un organismo gestionale ad hoc (si tratta della c.d. “cooperazione pubblico-pubblico”)». DOTTRINA 203 L’esistenza di una pluralità di pubbliche amministrazioni che soltanto congiuntamente sono in grado di influenzare in modo determinate le scelte strategiche della struttura in house induce a ritenere che nessuna di quelle pubbliche amministrazioni può dirsi, effettivamente, collocata in una posizione di supremazia. La struttura e le attività dell’organizzazione in house potranno essere influenzate soltanto qualora vi sia comunione d’intenti tra una moltitudine di autonomi centri decisionali facenti capo ad una pluralità di pubbliche amministrazioni controllanti; circostanza che viene palesandosi se si tiene conto che le pubbliche amministrazioni, per giungere alla costituzione di una organizzazione in house, è necessario che convengano di stipulare un contratto, un accordo o una convezione, il contenuto dei quali deve regolare, in modo quanto più puntuale ed esaustivo, i principali aspetti organizzativi e funzionali della struttura interna alla “casa”. La riscontrabilità di incertezze e/o di insufficienze contenutistiche dell’atto convenzionale dal quale trae origine la struttura in house è senz’altro idonea a giustificare delle pronunce giurisdizionali con le quali venga dichiarata l’inesistenza di un modello organizzativo riconducibile alla figura dell’in house. Beninteso: la questione non è meramente teorica. Allorché dall’atto costitutivo di una struttura deputata all’autoproduzione non sia possibile desumere la ripartizione delle partecipazioni sociali tra i soggetti controllanti, potrebbero registrarsi delle pregiudizievoli ricadute economiche sugli equilibri della finanza pubblica. Si può pensare, ad esempio, alla ipotesi in cui la pluralità di soggetti controllanti si determinano ad affidare - senza previa indizione di una gara - una commessa pubblica alla struttura in house, dal cui atto costitutivo non è consentito comprendere quale sia la misura delle partecipazioni sociali ripartite tra la pluralità di amministrazioni controllanti. D’un tratto, però, uno dei soggetti controllanti, ritenendo che fosse più ragionevole procedere ad una gara ai fini dell’affidamento della commessa, e rivendicando la titolarità di una partecipazione sociale maggioritaria, deduce l’inesistenza del suo consenso all’affidamento diretto alla “struttura domestica” e, quindi, la invalidità della decisione adottata dagli altri soggetti controllanti, per difetto del quorum deliberativo. Nel giudizio instauratosi a seguito del ricorso proposto dal soggetto controllante interverranno, plausibilmente, ai sensi dell’art. 50 c.p.a. (63), le imprese operanti nel settore in cui la commessa è stata affidata in maniera diretta alla struttura in house, poiché «ogni impresa operante in un determinato settore ha un interesse tutelato a contestare la scelta della pubblica amministrazione (63) T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VII, 7 gennaio 2015, n. 22, in www.giustizia-amministrativa.it, nella cui motivazione si legge che «nel processo amministrativo, chiunque abbia interesse in base all’art. 28 comma 2, c.p.a. e non sia decaduto dall’esercizio delle relative azioni, può intervenire in giudizio nei termini e con le forme previste dall’art. 50 c.p.a., accettando lo stato e il grado di giudizio in cui si trova». 204 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 di non procedere all’indizione di una procedura di gara pubblica a tutela del principio della libera concorrenza e del criterio di effettività del diritto alla tutela giurisdizionale» (64). Verrebbe quindi instaurandosi un processo plurisoggettivo al termine del quale potrebbero registrarsi una pluralità di conseguenze, quali: a) l’annullamento del provvedimento di affidamento diretto; b) lo stallo dell’azione amministrativo e, quindi, la possibilità delle imprese di pretendere l’indennizzo da mero ritardo ex art. 2-bis, comma 1-bis, L. n. 241/90, in quanto tale stallo si sarebbe potuto evitare se solo i soggetti controllanti avessero, ad initio, indetto una gara pubblica; c) la possibilità per gli utenti (se la commessa pubblica riguarda servizi) di avanzare pretese risarcitorie tese ad ottenere la riparazione dei danni causati dalla tardiva attivazione di un servizio pubblico. Quel che è certo è che, nonostante l’in house frazionato si presenta come istituto di dubbia natura, una certa dottrina, evidenziandone l’utilità nell’ambito dei servizi pubblici, ha affermato che «l’accorto ricorso alla figura delle società di gestione cc.dd. pluripartecipate potrà rappresentare uno strumento strategico per il conseguimento degli obiettivi di razionalizzazione della gestione e di individuazione degli ambiti o bacini territoriali omogenei che presiede all’attuale - sintetica - disciplina di settore. Tale modalità organizzativa e gestionale potrà anche contribuire ad individuare un adeguato punto di equilibrio fra diversi elementi difficilmente riconducibili ad unità, fra cui: i) l’esigenza di offrire servizi pubblici di qualità a bacini di utenza adeguatamente dimensionati; ii) l’esigenza di razionalizzare le forme di gestione e i relativi costi, evitando le inevitabili duplicazioni connesse alla moltiplicazione dei soggetti gestori; iii) l’esigenza di agire comunque nell’ambito di regole certe al livello comunitario, sfruttando nel modo più adeguato i principi e le disposizioni in tema di cc.dd. cooperazioni pubblico-pubblico» (65). Da ultimo, le nuove direttive europee contemplano una peculiare forma di collaborazione tra pubbliche amministrazioni: la cooperazione orizzontale ovvero cooperazione pubblico-pubblico non istituzionalizzata (66). Nelle di- (64) Cons. St., Sez. V, 14 novembre 2008, n. 5693, in Guida al dir., 2009, pp. 103 ss., ove viene altresì specificato che «l’assenza di indizione di una procedura di evidenza pubblica viene a ledere, infatti, l’interesse sostanziale di ciascun imprenditore operante sul libero mercato a competere, secondo pari opportunità, ai fini dell'ottenimento di commesse da aggiudicarsi secondo le prescritte procedure. Né risulta necessario che l’impresa del settore ricorrente dimostri di possedere tutti i requisiti tecnici e finanziari occorrenti per partecipare alla gara, risultando l’interesse fatto valere indirizzato a censurare la soluzione organizzativa adottata e non già a riportarne l’aggiudicazione, atteso che con l’accoglimento del ricorso viene soddisfatto l’interesse strumentale tendente alla rimessa in discussione del rapporto controverso e alla possibilità di partecipare alla gara per l’affidamento dei lavori, servizio o fornitura, nella cui futura ed eventuale sede l’amministrazione potrà verificare se l’impresa possiede in concreto i requisiti per prendervi parte». (65) CONTESSA C., L’in house providing quindici anni dopo: cosa cambia con le nuove direttive, cit., p. 18. DOTTRINA 205 rettive è consentito leggere che «un contratto concluso esclusivamente tra due o più amministrazioni aggiudicatrici non rientra nell’ambito di applicazione della presente direttiva, quando sono soddisfatte tutte le seguenti condizioni: a) il contratto stabilisce o realizza una cooperazione tra le amministrazioni aggiudicatrici partecipanti, finalizzata a garantire che i servizi pubblici che esse sono tenute a svolgere siano prestati nell’ottica di conseguire gli obiettivi che esse hanno in comune; b) l’attuazione di tale cooperazione è retta esclusivamente da considerazioni inerenti all’interesse pubblico; e c) le amministrazioni aggiudicatrici partecipanti svolgono sul mercato aperto meno del 20 % delle attività interessate dalla cooperazione». L’ipotesi cooperativa rappresenta una fattispecie ontologicamente diversa rispetto all’in house providing, tant’è che potrebbe essere sindacata - sotto un profilo stilistico e topografico - la scelta del legislatore europeo di giungere a disciplinare il partenariato pubblico-pubblico nell’ambito dell’in house. Il principale elemento di discrimine tra l’in house providing e il partenariato pubblico-pubblico è rinvenibile nell’esistenza di una struttura organizzativa ad hoc soltanto nel primo caso. Mentre l’in house providing presuppone che le amministrazioni controllanti provvedano alla creazione di una struttura organizzativa che, nonostante sia parte integrante della “casa”, deve considerarsi soggettivamente distinta rispetto ai soggetti controllanti, il fenomeno della cooperazione orizzontale non postula, al contrario, la creazione di un apposita struttura. Quest’ultimo si limita a richiedere la stipulazione di un «contratto» tra pubbliche amministrazioni, al fine di regolare la erogazione di un servizio pubblico strumentale al conseguimento di obbiettivi comuni a tutte le amministrazioni contraenti; ciò che si pone in linea con l’insegnamento della giurisprudenza europea in ossequio al quale «il diritto comunitario non impone alle autorità pubbliche di utilizzare una particolare forma giuridica per assicurare lo svolgimento in comune delle funzioni di servizio pubblico, in quanto l’attuazione di tale cooperazione è retta unicamente da considerazioni e prescrizioni connesse al perseguimento di obiettivi d’interesse pubblico» (67). Orbene, la regola della procedura di evidenza pubblica non trova applicazione nelle ipotesi di partenariato pubblico-pubblico: le pubbliche amministrazioni che intendano dare vita ad una forma di partenariato (non istituzionalizzato) non sono tenute a selezionare le altre pubbliche amministrazioni interessate alla stipulazione di una simile contratto, previa indizione di una gara pubblica. Nel diritto privato - è noto - il buon esito di una trattativa negoziale è de- (66) VOLPE C., L’affidamento in house. Questioni aperte sulla disciplina applicabile, in www.giustamm.it, 2014, p. 15. (67) C. Giust. UE, 9 giugno 2009, C-480/06, in www.curia.europa.eu. 206 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 terminato, anche, da taluni imprevedibili fattori empirici che, sebbene non siano contemplati dalla legge, possono talora rivelarsi di cruciale importanza: suggestioni, ambizioni, impressioni, simpatie ed alchimie. Tutto questo non accade allorché le parti contraenti siano pubbliche amministrazioni, non foss’altro che se i soggetti incaricati di rappresentare le pubbliche amministrazioni sono tenuti a valutare degli elementi rigidamente predeterminati dal legislatore. Ecco che allora non sorprende che anche per la cooperazione orizzontale tra pubbliche amministrazioni siano stati puntualmente individuati gli elementi che debbono sussistere affinché possa essere giustificato il mancato ricorso alla gara pubblica. È necessario, infatti, che il contratto tra le pubbliche amministrazioni sia funzionalmente orientato a garantire l’erogazione di un servizio pubblico idoneo ad assicurare il conseguimento di obbiettivi comuni. Inoltre la cooperazione deve trovare la sua ratio giustificatrice un interesse pubblico, di guisa che le amministrazioni contraenti non possono pretendere di stipulare un contratto di cooperazione con la finalità, principale o prevalente, di conseguire un massimizzazione dei profitti; poiché risulterebbe impedita, ristretta o falsata la concorrenza per il mercato, il contratto di cooperazione potrebbe essere colpito dalla nullità prevista per le intese di cui all’art. 2 della L. 10 ottobre 1990, n. 287. Normativa antitrust che è senz’altro applicabile anche alle pubbliche amministrazioni, come riprovato da quell’orientamento interpretativo dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), il quale nello stabilire che, «laddove venga accertato che un atto della pubblica amministrazione di particolare rilevanza economica sia illegittimo per violazione delle norme comunitarie e nazionali a tutela della concorrenza, l’AGCM ha la legittimazione ad impugnarlo davanti agli organi della giustizia amministrativa, avvalendosi dell’Avvocatura dello Stato» (68), ha indotto il legislatore ad introdurre l’art. 21 bis, della L. n. 287/90, ai sensi del quale «l’Autorità garante della concorrenza e del mercato è legittimata ad agire in giudizio contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato» (69). Trattasi di una norma che «rivela la volontà del legislatore di (68) AGCM (AS659), Proposte di riforma concorrenziale ai fini della legge annuale per il mercato e la concorrenza, in www.agcm.it, 2010, p. 10. (69) L’art. 35 della L. 22 dicembre 2011, n. 214 ha inserito, nella L. n. 287/90, l’art. 21-bis (rubricato: Poteri dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato sugli atti amministrativi che determinano distorsioni della concorrenza), il quale dispone che: «1. L’Autorità garante della concorrenza e del mercato è legittimata ad agire in giudizio contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato. 2. L’Autorità garante della concorrenza e del mercato, se ritiene che una pubblica amministrazione abbia emanato un atto in violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato, emette, entro sessanta giorni, un parere motivato, nel quale indica gli specifici profili delle violazioni riscontrate. Se la pubblica amministrazione non si conforma nei sessanta giorni successivi alla comuni- DOTTRINA 207 valorizzare la tradizionale funzione consultiva e di segnalazione (c.d. competition advocacy) attribuita ab origine all’AGCM. La legittimazione ad agire innanzi al giudice amministrativo conferisce, infatti, a tale funzione (in passato, mera espressione di un’opinione dell’Autorità, ancorché suscettibile di effetti di moral suasion, sull’esistenza di situazioni distorsive della concorrenza derivanti da norme di legge, di regolamento o provvedimenti amministrativi) veri e propri effetti costitutivi, sia pure conseguibili in via mediata attraverso lo scrutinio giurisdizionale. È in ragione di tale correlazione che l’iniziativa dell’Autorità deve essere necessariamente preceduta da un’attività amministrativa procedimentalizzata, essendo il procedimento paradigma comune sia alle autorità amministrative tradizionali che indipendenti. Come nel settore delle intese e degli abusi di posizione dominante - in cui l’Autorità possiede autonomi poteri di enforcement (decisori e di sanzione) - l’Autorità cazione del parere, l’Autorità può presentare, tramite l’Avvocatura dello Stato, il ricorso, entro i successivi trenta giorni. 3. Ai giudizi instaurati ai sensi del comma 1 si applica la disciplina di cui al Libro IV, Titolo V, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104». In dottrina, sull’art. 21 bis della L. n. 287 90, tra i diversi contributi, si rinvia a: ARENA F., Atti amministrativi e restrizioni della concorrenza: i nuovi poteri dell’autorità antitrust italiana, contributo per la X edizione del Convegno “Antitrust fra Diritto Nazionale e Diritto dell’Unione Europea”, Treviso, 17- 18 maggio 2012, in www.giustizia-amministrativa.it, 2012; CINTIOLI F., Osservazioni sul ricorso giurisdizionale dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (art. 21 bis della legge n. 287 del 1990), in www.federalismi.it, 2012; PECCHIOLI N., «Teologia della concorrenza» o crisi di cooperazione? Note critiche sulla legittimazione dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ad impugnare atti amministrativi e regolamenti, in www.giustamm.it, 2012; URBANO G., I nuovi poteri processuali delle Autorità Indipendenti, in Giorn. dir. amm., X, 2012, pp. 1022 ss.; CIFARELLI R., Verso un nuovo protagonismo delle Autorità Indipendenti? Spunti di riflessione intorno all'art. 21-bis della legge n. 287 del 1990, in www.amministrazioneincammino.luiss.it, 2012; POLITI R., Ricadute processuali a fronte dell'esercizio dei nuovi poteri rimessi all’AGCM ex art. 21-bis della l. 287/1990. Legittimazione al ricorso ed individuazione dell'interesse alla sollecitazione del sindacato. Ovvero: prime riflessioni sul nuovo protagonismo processuale dell'autorità antitrust, tra il Minosse di Dante ed il giudice di De André, in www.federalismi.it, 2012; SATTA F., Intorno alla legittimazione dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato a chiamare in giudizio pubbliche amministrazioni, in www.apertacontrada.it, 2012; DE BENEDETTO M., Le liberalizzazioni e i poteri dell’Agcm, in Giorn. dir. amm., III, 2012, pp. 236 ss.; GHENGHI F., L’attività di segnalazione e consultiva dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato: inquadramento generale, attività di coordinamento amministrativo e normativo della Presidenza del Consiglio dei Ministri, casi pratici, in www.amministrativ@mente.com, 2012; GIOVAGNOLI R., Atti amministrativi e tutela della concorrenza. Il potere di legittimazione a ricorrere dell’AGCM nell’art. 21-bis legge n. 287/1990, in www.giustamm. it, 2012; ID., Ricadute processuali a fronte dell'esercizio dei nuovi poteri rimessi all'AGCM ex art. 21-bis della legge 287/1990. Legittimazione al ricorso ed individuazione dell'interesse alla sollecitazione del sindacato, in www.giustamm.it, 2012; SANDULLI M.A., Introduzione a un dibattito sul nuovo potere di legittimazione al ricorso dell’AGCM nell’art. 21 bis l. n. 287 del 1990, in www.federalismi.it, 2012. ID., Il problema della legittimazione ad agire in giudizio da parte delle autorità indipendenti, Relazione al Convegno «Le Autorità Amministrative Indipendenti. Bilancio e prospettive di un modello di vigilanza e regolazione dei mercati», tenutosi a Roma, Palazzo Spada, il 28 febbraio 2013, in www.astrid-online.it, 2013; GOISIS F., Il potere di iniziativa dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato ex art. 21-bis l. 287 del 1990: profili sostanziali e processuali, in Dir. proc. amm., II, 2013, pp. 471 ss.; D’URBANO A., Il nuovo potere di legittimazione a ricorrere dell’Agcm al vaglio del giudice amministrativo. (Nota alla sentenza non definitiva del TAR Lazio, Sez. III - ter, 15 marzo 2013 n. 2720), in www.federalismi.it, 2013. 208 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 agisce in contraddittorio con le imprese, così è logico ritenere che, nei confronti degli eventuali abusi di potere regolatorio e/o provvedimentale, compiuti da soggetti pubblici ad essa pariordinati (siano essi espressione dello Stato - apparato, ovvero come pure è possibile altre autorità indipendenti), vi sia una medesima esigenza di procedimentalizzazione, attraverso cui l’AGCM contestualizza e concretizza la propria valutazione circa la regola giuridica da applicare al caso concreto. In tal modo, essa concorre direttamente alla formazione e al mantenimento di un complessivo quadro legale atto a favorire le dinamiche della concorrenza» (70). Nell’ambito del menzionato art. 21 bis può farsi rientrare anche la costituzione di una forma di partenariato pubblico-pubblico. L’esplicito richiamo che la norma in parola fa agli atti amministrativi generali, ai regolamenti e ai provvedimenti amministrativi non deve indurre a pensare di poter escludere il contratto di partenariato pubblico-pubblico dai possibili «fatti distorsivi della concorrenza». La norma in esame, benché nel suo comma 1 faccia richiamo agli atti amministrativi generali, ai regolamenti e ai provvedimenti amministrativi, nel successivo capoverso (così come anche nella sua rubrica) fa un più ampio riferimento agli atti amministrativi adottati in violazione delle norme a tutela della concorrenza e del mercato; una circostanza idonea a disvelare l’intenzione del legislatore di ricomprendere nel novero dei “fatti pubblici” distorsivi del libero gioco della concorrenza qualsiasi «tipo di manifestazione dell’azione amministrativa». (70) T.A.R., Lazio, Roma, Sez. II, 6 maggio 2013, n. 4451, in Foro amm. - TAR, 2013, pp. 1562 ss. Per quanto possa rilevare in questa sede, si ritiene inoltre opportuno segnalare la pronuncia del Supremo Consesso della giustizia amministrativa con la quale sono state chiarite le specifiche caratteristiche della procedura che sovraintende alla legittimazione processuale dell’AGCM ad impugnare le manifestazioni dell’attività amministrativa idonee ad alterare il libero gioco della concorrenza. Appunto, in Cons. St., Sez. V, 30 aprile 2014, n. 2246, in Foro amm. - CDS, 2014, pp. 1089 ss., si stabilisce che «ai sensi dell’art. 21 bis, l. 10 ottobre 1990 n. 287, aggiunto dall’art. 35 comma 1 d.l. 6 dicembre 2011 n. 201, conv. con modificazioni dalla l. 22 dicembre 2011 n. 214, il potere dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato di agire in giudizio contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti e i provvedimenti amministrativi da essa ritenuti lesivi della libertà di concorrenza e mercato deve essere necessariamente preceduto, a pena di inammissibilità, da una fase precontenziosa caratterizzata dall’emanazione, da parte sua, di un parere motivato rivolto alla p.a. nel quale sono segnalate le violazioni riscontrate e indicati i rimedi per eliminarli e ripristinare il corretto funzionamento della concorrenza e del mercato; la funzione di detto parere motivato è duplice: sollecitare la p.a. a rivedere le proprie determinazioni e a conformarsi agli indirizzi dell’Autorità, mediante uno speciale esercizio del potere di autotutela giustificato dalla particolare rilevanza dell’interesse pubblico in gioco, in tal modo auspicando che la tutela di quest’ultimo sia assicurata innanzitutto all’interno della stessa p.a. e restando il ricorso all’Autorità giudiziaria amministrativa extrema ratio, non essendo l’Autorità dotata di poteri coercitivi nei confronti dell’amministrazione pubblica; d’altro canto, la fase precontenziosa e il relativo parere, in coerenza con i principi comunitari, sono stati ragionevolmente concepiti anche come significativo strumento di deflazione del contenzioso, potendo ammettersi che il legislatore guardi con disfavore le situazioni in cui due soggetti pubblici si rivolgano direttamente ed esclusivamente al giudice per la tutela di un interesse pubblico». DOTTRINA 209 9. La «forma giuridica» dell’in house providing prima e dopo l’adozione delle direttive europee. Società in mano pubblica, fondazioni pubbliche e associazioni no profit. Le direttive europee del 2014 hanno introdotto delle interessanti novità anche per quanto concerne la forma giuridica delle strutture in house. I dati statistici offerti dalla prassi amministrativa italiana confermano che la pubblica amministrazione ha di gran lunga manifestato una predilezione per il modello societario: le strutture in house presentato, nella quasi totalità dei casi, la forma giuridica della società (71). Il sistema economico nazionale risulta caratterizzato da una massiccia ed imperante presenza di operatori economici aventi una natura (parzialmente ovvero totalmente) pubblica: nel primo caso si avranno le c.d. società miste, mentre nel secondo le società in house. Nell’intento di comprendere la effettiva portata della presenza delle pubbliche amministrazione nel mercato è stato di recente rilevato che «da un’analisi dei dati contenuti nella relazione Istat 2015, attualmente ci sono 7.757 organismi attivi (anche diversi dalle società) a partecipazione pubblica, con un totale di 953.100 impiegati. Di questi organismi, circa 5.000 sono società a partecipazione pubblica (con netta prevalenza delle società partecipate da enti territoriali), con un numero complessivo di impiegati intorno alle 500.000 unità. Avendo riguardo alle sole società partecipate dagli enti territoriali, la relazione della Corte dei Conti per l’anno 2015 individua circa 3.000 società che svolgono attività strumentali, a fronte di altre 1.700 che svolgono attività di servizio pubblico. Inoltre, la stessa relazione segnala che: sono 988 le società con numero di addetti inferiore ai membri del consiglio di amministrazione; 2.479 le società con numero di addetti inferiore a 20; 1.600 le società con valore della produzione inferiore al milione di euro; (71) Per un’ampia panoramica dottrinale sulle società pubbliche si rinvia a: VISENTINI G., Partecipazioni pubbliche in società di diritto comune e di diritto speciale, Milano, 1979; MARASÀ G., Le “società” senza scopo di lucro, Milano, 1984; ID., voce Società speciale e società anomale, in Enc. giur. Treccani, XXIX, Roma, 1993; CIRENEI M.T., Le società a partecipazione pubblica, in COLOMBO G.E. - PORTALE G.B. (a cura di), Trattato delle s.p.a., Torino, 1992; IBBA C. Le società legali, Torino, 1992; ID., Le società a partecipazione pubblica locale fra diritto comune e diritto speciale, in Riv. dir. priv., II, 1999, pp. 22 ss.; SCOCA F.G., Il punto sulle c.d. società pubbliche, in Dir. econ. (Il), II, 2005, pp. 239 ss.; PIZZA P., Le società per azioni di diritto singolare tra partecipazioni pubbliche e nuovi modelli organizzativi, Milano, 2007; CAMMELLI M. - DUGATO M., Lo studio delle società a partecipazione pubblica: la pluralità dei tipi e le regole del diritto privato. Una premessa metodologica e sostanziale, in AA.VV. (a cura di), Studi in tema di società a partecipazione pubblica, Torino, 2008; DE NICTOLIS R. - CAMERIERO L., Le società pubbliche in house e miste, Milano, 2008; GRÜNER G., Enti pubblici a struttura di s.p.a. - Contributo allo studio delle società “legali” in mano pubblica di rilievo nazionale, Torino, 2009; DEMURO I., Società con partecipazione dello Stato o di enti pubblici, in COTTINO G. - BONFANTE G. - CAGNASSO O. - MONTALENTI P. (a cura di) Il nuovo diritto societario nella dottrina e nella giurisprudenza: 2003-2009, Bologna, 2009, pp. 878 ss.; CLARICH M., Le società partecipate dallo Stato e dagli enti locali fra diritto pubblico e diritto privato, in GUERRERA F. (a cura di), Le società a partecipazione pubblica, Torino, 2010. 210 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 984 le società con valore della produzione maggiore di un milione e inferiore a cinque milioni di euro» (72). Le società a partecipazione pubblica non si allontanano molto dal tradizionale modello societario disciplinato dal codice civile. Mentre in base alla partecipazione pubblica (parziale o totalitaria) suole distinguersi tra società miste ovvero società in house, in base alla natura (centrale o periferica) della pubblica amministrazione titolare della partecipazione si distingue tra società a partecipazione pubblica statale e società a partecipazione pubblica regionale o locale. Ma la classificazione che maggiormente degna di pregio giuridico è quella che distingue tra «società a partecipazione pubblica di diritto comune» e «società a partecipazione pubblica di diritto speciale» (73): le prime svolgono un’attività preordinata al conseguimento di guadagni, le seconde (derogando al modello civilistico della società) svolgono un’attività che, di là dalla massimizzazione dei profitti, è finalisticamente orientata ad esercitare ora una funzione amministrativa (c.d. società pubbliche in senso stretto), ora ad erogare un servizio pubblico in favore di una determinata collettività (c.d. società di gestione dei servizi pubblici) ora ad assicurare servizi o forniture in favore di una o più pubbliche amministrazioni (c.d. società strumentali). Diversamente dal passato, ove non era infrequente riscontrare società pubbliche di diritto comune, una tale possibilità è ormai preclusa. La legge del 24 dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria del 2008) ha infatti fissato il divieto di «costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere direttamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società» (74), quale norma che «ha posto un limite all’impiego dello strumento societario non tanto per assicurare la tutela della concorrenza - che di per sé lo strumento dell’impresa pubblica non potrebbe pregiudicare - quanto per garantire, in coerenza con l’esigenza di rispettare il principio di legalità, il perseguimento dell’interesse pubblico, così che può ri- (72) Cons. St., Comm. spec., 21 aprile 2016, n. 968, in www.giustizia-amministrativa.it. (73) CIRENEI M.T., Le società a partecipazione pubblica, in COLOMBO G.E. - PORTALE G.B. (a cura di), Trattato delle s.p.a., Torino, 1992, pp. 1 ss. (74) L’art. 3, comma 27 della L. 24 dicembre 2007, n. 244 dispone che: «Al fine di tutelare la concorrenza e il mercato, le amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, non possono costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere direttamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società. È sempre ammessa la costituzione di società che producono servizi di interesse generale e che forniscono servizi di committenza o di centrali di committenza a livello regionale a supporto di enti senza scopo di lucro e di amministrazioni aggiudicatrici di cui all’articolo 3, comma 25, del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, e l’assunzione di partecipazioni in tali società da parte delle amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nell’ambito dei rispettivi livelli di competenza». DOTTRINA 211 tenersi, pertanto, che, allo stato, esiste una norma imperativa che - esprimendo un principio già in precedenza immanente nel sistema - pone un chiaro limite all’esercizio dell’attività di impresa pubblica rappresentato dalla funzionalizzazione al perseguimento dell’interesse pubblico» (75). La “bussola più affidabile” che la normativa vigente offre all’operatore giuridico al fine di distinguere le società pubbliche rispetto alle società di diritto comune è rappresentata dall’oggetto sociale di queste: le società di diritto comune stanno allo svolgimento di attività dirette alla massimizzazione dei profitti come le società a partecipazione pubbliche stanno allo svolgimento di attività dirette alla cura concreta dell’interesse generale. Quanto alla disciplina applicabile, è pacifico che «la società pubblica deve essere assoggettata, sul piano sostanziale, allo statuto privatistico dell’imprenditore, con applicazione soltanto di alcune regole pubbliche» (76). Pertanto può dirsi che la disciplina della società pubblica è il frutto di una cumulativa commistione tra il diritto civile e il diritto pubblico; una commistione dalla quale deriva che ad esse si applica «tanto la disciplina codicistica (norme specificamente dettate nel codice civile per tutte le società partecipate dallo Stato o da enti pubblici, nonché norme e istituti codicistici di carattere generale), quanto la disciplina extracodicistica (norme dettate da apposite leggi per le società pubbliche o quanto meno per alcune di esse)» (77). Di base esse sono regolate dalla disciplina propria delle società di capitali (e, più precisamente, da quella della s.p.a. o da quella della s.r.l. a seconda del tipo societario in concreto adottato), ma, nondimeno, risultano destinatarie di norme speciali che derogano alla disciplina del codice civile. Nel nutrito alveo di queste norme speciali vi rientrano: a) quelle che escludono la possibilità per le società pubbliche, che abbiano registrato delle perdite per tre esercizi consecutivi, di essere beneficiari di aumenti di capitale, trasferimenti straordinari ovvero aperture di credito, rilascio di garanzie, salvo che ciò avvenga a fronte di convenzioni, contratti di servizio o di programma di investimento ovvero previa autorizzazione del Presidente del Consiglio dei Ministri (art. 6, comma 19, del D.lg. n. 68/2010, convertito nella L. n. 122/2010); b) quelle che impongono l’attivazione di idonee procedure selettive, rispettose dei principio di trasparenza, di pubblicità e di imparzialità, per procedere al recluta- (75) Cons. St., Sez. VI, 20 marzo 2012, n. 1574, in Foro amm - CDS, 2012, pp. 696 ss. (76) T.A.R. Sardegna, Sez. II, 23 maggio 2008, n. 1051, in Foro amm. - TAR, 2008, p. 1494, ove si afferma, ancora più incisivamente, che «l’utilizzazione, per il perseguimento di pubblici interessi, di figure soggettive formalmente privatistiche, di strutture, di moduli organizzativi e di azione della p.a. “di confine” tra il pubblico e privato in luogo dei tradizionali enti pubblici costituisce il presupposto per la creazione di regimi giuridici di diritto speciale, connotati sia da aspetti pubblicistici che da profili privatistici» (77) IBBA C., Le società a partecipazione pubblica: tipologia e discipline, in IBBA C. - MALAGUTI M.C. - MAZZONI A. (a cura di), Le società pubbliche, Torino, 2012, p. 5. 212 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 mento del personale (art. 35, del D.lgs. n. 165/2001) (78); c) quelle che espongono gli amministratori delle società pubbliche anche al regime di responsabilità per danno erariale allorché, violando gli obblighi connessi alla carica ricoperta, arrechino un danno al patrimonio della pubblica amministrazione detentrice della partecipazione sociale (79); d) quelle che riconoscono i caratteri della inalienabilità, della imprescrittibilità, della inusucapibilità e della inespropriabilità dei beni demaniali (art. 822 c.c.) e, in certa misura, dei beni patrimoniali indisponibili (art. 826, comma 2, c.c.) di cui dovessero essere proprietarie» (80). Per le società in house valgono - in buona parte - le considerazioni svolte con riferimento alle società pubbliche tout court. Anche le strutture in house costituite nella forma giuridica della società sono soggette alla combinata applicazione delle norme del codice civile e di alcune peculiari norme che derogano rispetto al diritto comune delle società. Tuttavia, le società in house presentano delle caratteristiche che le allontanano, ancora più marcatamente, rispetto al tradizionale modello civilistico delle società: l’esercizio da parte del socio pubblico di un potere di controllo (78) In dottrina, tra i tanti, si rinvia a: AMENDOLA M., Concorso a pubblico impiego, in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, pp. 619 ss.; TESSAROLO C., Le assunzioni del personale da parte delle società a partecipazione pubblica, in www.dirittodeiservizipubblici.it, 2008; PIPERITA G., L’attualità a proposito delle recenti disposizioni in materia di personale delle società pubbliche: anatomia di una riforma e patologia, in Lav. Pubbl. amm. (Il), IV, 2009, pp. 647 ss.; GUZZO G., Reclutamento del personale nelle società pubbliche e principio di autonomia degli enti locali: i dubbi e le incertezze sollevati dal D.lg. del 25 giugno 2008, in www.pubblic-utilities.it, 2008; SAPORITO A., Società pubbliche e reclutamento del personale: profili problematici, in www.giustamm.it, 2016. (79) GASPARRINI D., La responsabilità degli amministratori nonché dei dipendenti delle società a partecipazione pubblica. Il difficile rapporto con la responsabilità amministrativa per danno all’erario, in www.giustamm.it, 2009; GHIGLIONE P. - BIALLO M., La responsabilità degli amministratori di società a partecipazione pubblica: l’orientamento delle SS. UU. (commento a Cassazione Civile, sez. un., ord., 15 gennaio 2010, n. 519 e Cassazione Civile, sez. un., 19 dicembre 2009, n. 26086), in Le società, VII, 2010, pp. 803 ss.; ROMAGNOLI G., La responsabilità amministrativa dei componenti degli organi di gestione delle società a partecipazione pubblica. Tra “brusche frenate” e “annunciate accelerazioni”, in www.giustamm.it, 2010; DALFINO D., Società pubbliche, responsabilità degli amministratori e riparto di giurisdizione (commento a Cassazione civile, sez. un., 23 febbraio 2010, n. 4309), in Le società, XI, 2010, pp. 1361 ss; TITA A., La responsabilità degli amministratori nelle società a partecipazione pubblica: prospettive nel 2011, dopo le novità del 2010, e rimedi assicurativi proponibili, in ww.lexitalia.it, 2011; TORCHIA L., Società pubbliche e responsabilità amministrativa: un nuovo equilibrio, in Giorn. dir. pubbl., III, 2012, pp. 323 ss. (80) FALZONE G., I beni del «patrimonio indisponibile», Milano, 1957; CASSARINO S., La destinazione dei beni degli enti pubblici, Milano, 1962, 148 ss.; GIANNINI M.S., I beni pubblici, Roma, 1963; CASSESE S., I beni pubblici: circolazione e tutela, Milano, 1969; CERULLI IRELLI V., Proprietà pubblica e diritti collettivi, Padova, 1975; CAPUTI JAMBRENGHI V., Premesse per una teoria dell’uso dei beni pubblici, Napoli, 1979; ID., Beni pubblici, in Enc. giur., Roma, 1988; COLOMBINI G., Demanio e patrimonio dello Stato e degli enti pubblici, in Dig. pubbl., V, Torino, 1990, 1 ss.; ID., I beni pubblici tra regole di mercato e interessi generali. Profili di diritto interno e internazionale, Napoli, 2009; POLICE A., I beni pubblici, tutela, valorizzazione e gestione, Milano, 2008; TONOLETTI B., Beni pubblici e concessioni, Padova, 2008; MERCATI L., Pubblico e privato nella valorizzazione del patrimonio immobiliare, Torino, 2009; MARELLA M.R., Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, Verona, 2012. DOTTRINA 213 analogo a quello svolto sugli uffici interni e la necessità di svolgere la propria attività prevalentemente in favore del socio pubblico. Due caratteristiche che finiscono col depauperare la autonomia gestionale ed organizzativa di cui una persona giuridica deve essere attributaria al fine di potersi sussumere nel modello societario. È per questo che certa dottrina, partendo dal presupposto che «può dirsi ormai acquisito il carattere anomalo del fenomeno dell’in house nel panorama del diritto societario, laddove è difficile ammettere una società che non abbia alcuna autonomia gestionale», ha ritenuto che le società in house siano, proprio per le caratteristiche indefettibili del controllo analogo e dell’attività prevalentemente svolta in favore dell’ente controllante, delle società ancora più speciali rispetto alle già speciali società pubbliche (81). Oltre alla forma giuridica della società, la prassi attesta che le pubbliche amministrazioni hanno inteso pure costituire delle strutture in house nella forma della «fondazione pubblica». Le fondazioni pubbliche si configurano, alla stregua di quelle private, come espressione «di un atto di disposizione patrimoniale attraverso il quale il fondatore destina un patrimonio al conseguimento di uno scopo, nonché di un atto di organizzazione, che determina, attraverso una struttura organizzativa, il modo di attuazione dello scopo» (82). La loro costituzione «non è disciplinata diversamente a seconda del fatto che il promotore o i promotori siano soggetti privati o enti pubblici, poiché il momento iniziale della vita di un soggetto di cui all’art. 14 c.c non è influenzato neanche dalla tipologia degli interessi, siano essi pubblici, generali, diffusi o privati, che si intende perseguire con il costituendo ente» (83). A prescindere da queste affinità di disciplina (84), ragioni di certezza del diritto impongono all’operatore giuridico di essere in grado di poter distinguere una «fondazione privata» da una «fondazione pubblica»; è stata così elaborato una puntuale (ma non tassativa) catalogazione delle più frequenti tipologie di fondazioni costituite dalla pubblica amministrazione È tutt’ora avallata la tripartizione che distingue tra le fondazioni a base privata (ad es. le fondazioni di origine bancaria»), le fondazioni a partecipazione privata (ad es. i musei e gli enti lirici e musicali) e le fondazioni strumentali all’ente pubblico fonda- (81) VOLPE C., L’affidamento in house. Questioni aperte sulla disciplina applicabile, cit., p. 12. (82) RESCIGNO G.U., Negozio privato di fondazione e atto amministrativo di riconoscimento, in Giur. it., I, 1968, p. 1358. (83) SARCONE V., Le fondazioni pubbliche, in www.amministrativ@mente.it, 2012, p. 2. (84) Per quel che riguarda la disciplina applicabile alle fondazioni pubbliche, si rinvia a: T.A.R. Basilicata, Sez. I, 10 marzo 2015, n. 163, in Foro amm. - TAR, 2015, p. 950 ss., nella quale si legge che «in assenza di norme di legge che, in casi particolari, ne definiscano un regime giuridico diverso, le fondazioni costituiscono enti di diritto privato integralmente soggetti alla relativa disciplina civilistica anche ove perseguano finalità di rilevanza pubblica in connessione con le funzioni di una pubblica amministrazione, con la conseguenza che le controversie relative alla loro attività, riguardando atti adottati iure privatorum, restano devolute alla cognizione del giudice ordinario». 214 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 tore, delle quali quest’ultimo si avvale allo scopo di perseguire il più efficace esercizio delle proprie funzioni (85). La natura non tassativa di questa catalogazione ha indotto il formante dottrinale e giurisprudenziale - com’era prevedibile - ad individuare degli «indici generalmente applicabili» ai fini di determinare la natura privata o pubblica di una fondazione. Quand’è che una fondazione può dirsi pubblica? La giurisprudenza, rilevando che «la volontà legislativa di connotare in termini pubblicistici una persona giuridica può essere esplicata, oltre che con una qualificazione espressa, anche con la previsione di indici sintomatici rivelatori della matrice pubblicistica dell’ente; di guisa che in assenza di un’esplicita volontà espressa nell’atto costitutivo della persona giuridica, il ricorso ad indici indiretti, rivelatori della natura pubblica, sia condotto con cautela, con la conseguenza che se l’atto costitutivo attribuisce all’ente esplicitamente la natura privata, il superamento della volontà consacrata in tale atto può avvenire soltanto allorché tali indici assumano valenza univoca, tale da superare e prevalere sulla configurazione formale» (86), ha tentato di enucleare gli indici sintomatici della natura pubblica delle fondazioni. In linea con il menzionato indirizzo giurisprudenziale, la Corte di cassazione ha affermato che un soggetto formalmente privato, qual è la fondazione, può essere considerato di natura pubblicistica allorquando sia ravvisabile la sussistenza dei seguenti requisiti: a) la preminente rilevanza dello Stato nei finanziamenti; b) il conseguente assoggettamento al controllo della Corte dei conti; c) il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato; d) l’inclusione nel novero degli organismi di diritto pubblico soggetti al d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163» (87). Tuttavia, il richiamo fatto dalla giurisprudenza di legittimità al patrocinio dell’Avvocatura dello Stato e alla riconduzione nell’alveo degli organismi di diritto pubblico avrebbe comportato, ab absurdo, che le fondazioni costituite dalle Regioni e dagli enti locali - che non godono del patrocinio della difesa erariale - si sarebbero dovute considerare, (85) In questo senso, per un approfondimento si rinvia a: NAPOLITANO G., Le fondazioni pubbliche, in Dir. amm., III, 2006, p. 573; FOÀ S., Le fondazioni di diritto pubblico tra salvaguardia delle competenze regionali e rispetto dell’autonomia fondazionale. La fondazione strumentale all’ente pubblico fondatore, in Foro amm. - CDS, XI, 2005, p. 3196 ss.; MERUSI F., La privatizzazione per fondazioni tra pubblico e privato, in Dir. amm., IV, 2004, p. 234 ss.; IMMORDINO M., Le fondazioni teatrali e la loro incerta collocazione tra pubblico e privato, in Nuove Auton., VI, 2005, p. 913 ss., il quale evidenzia, tra l’altro, che «secondo la dottrina civilistica la forma della fondazione è neutra, nel senso che non implica necessariamente la qualificazione privatistica della persona giuridica che ne è rivestita, potendosi i relativi caratteri rinvenire anche in enti pubblici. Insomma, non è tanto la trasformazione imposta dalla legge a determinare tale discrasia rispetto al tipo codicistico, essendo prassi regolare per la privatizzazione di un ente pubblico l’intervento del legislatore, quanto, piuttosto, la disciplina che n’è stata dettata, derogatoria rispetto a quella dettata dal Titolo II del Libro I del codice (e dalle relative norme di attuazione) per le fondazioni di diritto privato». (86) T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 19 aprile 2013, n. 3971, in www.giustizia-amministrativa.it. (87) C. Cass., SS.UU., 8 febbraio 2006, n. 2637, in Serv. pubbl. & app., 2006, pp. 320 ss. DOTTRINA 215 sempre e comunque, fondazioni di diritto privato. Oltretutto, il riferimento al finanziamento pubblico. Con il dichiarato intento di fare chiarezza, la dottrina e la giurisprudenza successive hanno evidenziato che per qualificare una fondazione come soggetto di natura pubblica è necessario che il giudice accertati la sussistenza di quelli che sono i tre requisiti indefettibili dell’organismo di diritto pubblico. Occorre cioè che la fondazione: a) sia stata costituita per soddisfare specificamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale; b) sia dotata di personalità giuridica; c) la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, da enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico, oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi o il cui organo di amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico (88). Orbene, se con riguardo al modello societario non si è mai dubitato circa la sua astratta idoneità a configurarsi come forma giuridica idonea alla costi- (88) L’«organismo di diritto pubblico» non può essere considerato un modello organizzativo in senso stretto della pubblica amministrazione, al pari dei Ministeri, delle Regioni, delle società in mano pubblica, etc. Esso, infatti, rappresenta piuttosto una qualificazione giuridica astratta e funzionalizzata: astratta perché, a prescindere dall’esplicito nomen iuris che la legge o l’atto costitutivo accorda al soggetto giuridico, la qualifica di organismo di diritto pubblico può essere, indifferentemente, attribuita a qualsiasi soggetto di diritto pubblico o di diritto privato; funzionalizzata perché si tratta di una qualificazione giuridica che viene attribuita in funzione di stabilire se un determinato soggetto di diritto pubblico o privato sia obbligato a rispettare la normativa (europea e nazionale) in materia di appalti pubblici e concessioni. Tra i molteplici contributi dedicati all’organismo di diritto pubblico si rinvia a: GRECO G., Ente pubblico, impresa pubblica, organismo di diritto pubblico, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 1995, p. 1284 ss.; GAROFOLI R., Organismo di diritto pubblico: criteri di identificazione e problemi di giurisdizione, in Urb. e app., II, 1997, pp. 960 ss.; FISCHIONE G., L’organismo di diritto pubblico tra mito e realtà, in Arch. giur. op. pubbl., II, 1997, pp. 967 ss.; ID., L’organismo di diritto pubblico: orientamenti interpretativi del giudice comunitario e dei giudici nazionali a confronto, in Foro it., IV, 1998, pp. 134 ss.; GUCCIONE C., Gli organismi di diritto pubblico di nuovo al vaglio del Consiglio di Stato, in Giorn dir. amm., I, 1999, pp. 215 ss.; ID., La nozione di organismo di diritto pubblico nella più recente giurisprudenza comunitaria, in Giorn. dir. amm., X, 2003, pp. 1032 ss.; CHITI M.P., L’organismo di diritto pubblico e la nozione comunitaria di pubblica amministrazione, Bologna, 2001; CASALINI D., L’organismo di diritto pubblico e l’organizzazione in house, Napoli 2003; PERFETTI L. R., Organismo di diritto pubblico e rischio di impresa (Nota a Corte giust. CE, Sez. V, 22 maggio 2003, in C-18/01), in Foro amm. - CDS, II, 2003, pp. 2498 ss.; LOTTINI M., Bisogni non economici e attività non economiche? Sulla controversa nozione comunitaria di “organismo di diritto pubblico” (Nota a Corte giustizia CE, sez. VI, 16 ottobre 2003, n. 283), in www.iuritalia.it, 2003; MAMELI B., L’organismo di diritto pubblico. Profili sostanziali e processuali, Milano, 2003; CARANTA R., L’organismo di diritto pubblico questo sconosciuto, in Giur. it., IV, 2003, pp. 1687 ss.; ID., Organismo di diritto pubblico e impresa pubblica, in Giur. it., II, 2004, pp. 2415 ss.; CERBO P., L’effetto utile nella giurisprudenza comunitaria sull’organismo di diritto pubblico, in Urb e app., II, 2004, pp. 649 ss.; PAPI ROSSI A. - SIRONI C., La qualificazione di organismo pubblico e la sottoposizione alla normativa sugli appalti, in Contr. St. e ent. pubb., I, 2007, pp. 569 ss.; CARINGELLA F., La nozione comunitaria di pubblica amministrazione: la controversa categoria di organismo di diritto pubblico nel settore degli appalti pubblici, in CARINGELLA F. (a cura di), Corso di diritto amministrativo, V, 2008, pp. 919 ss.; DELLA SCALA M.G., Organismo di diritto pubblico, in Dig. disc. pubbl., Torino, 2010, pp. 340 ss. 216 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 tuzione di una organizzazione in house, la stessa cosa non può dirsi con riferimento alle fondazioni pubbliche. Sul punto si è registrata una non irrilevante disparità di vedute. Un primo orientamento dottrinale era nel senso di affermare che «in considerazione del principio che il fondatore è libero di costituire una fondazione di diritto privato fissando le regole di funzionamento della stessa, l’affidamento in house providing nei confronti di una fondazione da parte di un ente pubblico può essere legittimo: la legittimità dell’operazione risiederebbe nella misura in cui verranno predisposte clausole statutarie utili a garantire la presenza di un penetrante controllo in capo all’ente conferente» (89). Di contro, v’è stato chi ha ritenuto che il modello della fondazione fosse inidoneo a costituire la forma giuridica di una struttura in house poiché sarebbe possibile riscontrare in essa soltanto il requisito dell’attività prevalentemente svolta in favore dell’ente pubblico controllante, ma non anche il requisito del controllo analogo. Questo perché «se si tiene conto che il controllo analogo postula la totale proprietà delle azioni, o comunque del capitale, da parte del soggetto pubblico, non ci si può non accorgere che qualsiasi fondazione (come disciplinata dagli artt. 16 ss. c.c.) non dispone né di azioni, tampoco di un capitale in senso tecnico-giuridico, potendo al più disporre soltanto di un patrimonio, che, sebbene sia inizialmente costituito al 100 % da fondi dei soci pubblici costituisce essenzialmente “proprietà” della fondazione stessa che si configura giuridicamente come ente autonomo, munito di personalità giuridica di diritto privato» (90). In altri e più significativi termini, per il richiamato orientamento dottrinale, la fondazione sarebbe inadatta a configurarsi come forma giuridica dell’in house providing per due ragioni intimamente correlate tra di loro. In primo luogo, la fondazione sarebbe dotata soltanto di un patrimonio e non anche di un capitale, quale presupposto per la sussistenza del requisito del controllo analogo. Trattasi di una differenza non marginale, colta da quella dottrina secondo cui «il patrimonio indica un complesso di beni, siano essi denaro o altri beni (a seconda della natura dei conferimenti), mentre il capitale designa un’entità numerica, la quale esprime in termine monetari il valore complessivo dei conferimenti» (91). In secondo luogo, sostanziandosi l’essenza propria della fondazione nell’esistenza di un patrimonio (che essendo la conditio sine qua non della fondazione è ontologicamente refrattario ad ogni forma di controllo e di direzione che il soggetto pubblico controllante dovesse voler concretare in un momento (89) CASAVECCHIA C., Affidamento in house providing di servizi socio-sanitari a fondazioni di diritto privato, in Nuova Rass., XIV, 2009, p. 8 (90) MANDUCAV.E. - PARISE C., In house providing e fondazioni a capitale pubblico: una prassi legittima?, in www.ratioiuris.it, 2012, p. 7. (91) PALUMBO A., Le società in generale e le società di persone, Milano, 2008, p. 144. DOTTRINA 217 successivo all’atto di costituzione) varrebbe ad escludere qualsiasi possibilità di esercitare su di essa un controllo analogo a quello che il soggetto pubblico esercita sui propri uffici interni. Anche la giurisprudenza sembrava essersi attestata su posizioni analoghe, giungendo ad affermare che «la fondazione non pare essere lo strumento più idoneo per la gestione dei servizi pubblici di rilevanza economica (ma, a ben vedere, anche quelli privi di tale rilevanza) in considerazione del fatto che la fondazione, per la sua natura e per l’elemento patrimoniale che la caratterizza, male si concilia con il requisito del «controllo analogo» a quello esercitato sui propri organi/uffici previsto dalla disciplina comunitaria per l’affidamento in house dei servizi» (92). I dubbi sulla compatibilità delle fondazioni rispetto al fenomeno dell’in house providing debbono essere considerati ormai superati per effetto delle nuove direttive europee del 2014. Poiché in esse viene fatto riferimento ad una non meglio specificata «persona giuridica di diritto pubblico o di diritto privato», la dottrina non ha tardato a precisare che la relazione ipotizzata tra un’amministrazione aggiudicatrice e una generica persona giuridica di diritto pubblico o di diritto privato «estende i confini dell’in house al di fuori del fenomeno delle società» (93). Dal tenore della disposizione contenuta nelle nuove direttive europee si ha modo di giungere alla conclusione che, oltre alla società pubbliche, qualsiasi forma giuridica si presenta ex se compatibile con il fenomeno dell’in house providing; comprese le fondazioni. Sono considerazioni che vengono ulteriormente suffragate dalla circostanza che le nuove direttive europee hanno disancorato il requisito del «controllo analogo» da qualsivoglia riferimento alla maggioritaria titolarità di (92) T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. II, 9 giugno 2015, n. 831, in Foro amm. - TAR, 2015, pp. 1747 ss. In senso analogo anche C. Conti, Sez. reg. Lombardia, 10 gennaio 2013, n. 25 in www.corteconti.it, ove si legge che «le fondazioni, come riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale, hanno natura privata e sono espressione organizzativa delle libertà sociali, costituendo i cosiddetti corpi intermedi, collocati fra Stato e mercato, che trovano nel principio di sussidiarietà orizzontale, di cui all’ultimo comma dell’art. 118 della Costituzione, un preciso presidio rispetto all’intervento pubblico (Corte costituzionale 28 settembre 2003, n. 300 e n. 301). Per ciò che attiene le fondazioni in partecipazione, inoltre, fermo restando quanto affermato in merito alla natura privata della fondazione ed all’elemento costitutivo essenziale determinato dal patrimonio la sezione lombarda della Corte dei Conti afferma che: “Tale modello sorge dalla constatata limitatezza dello schema classico previsto dal codice civile, trattandosi di fondazioni non più istituite da un singolo soggetto, sia esso persona fisica ovvero giuridica, ma da una pluralità di soggetti (privati e/o pubblici), che condividono una medesima finalità. Nella prassi, rappresenta lo strumento attraverso il quale un ente pubblico persegue uno scopo di utilità generale, nel tentativo di creare una partnership pubblico-privato e consentire di usufruire di maggiori disponibilità finanziarie e di attività di management nella gestione dei servizi sociali, venendosi così a ridurre il rischio associato all’attività di produzione di servizi. Pertanto, per individuare la disciplina applicabile, occorre avere riguardo alla fattispecie concreta e, in particolare, alle clausole statutarie». (93) VOLPE C., Le nuove direttive sui contratti pubblici e l’in house providing: problemi vecchi e nuovi, cit., p. 9 218 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 azioni ovvero di capitale. La scelta del legislatore europeo di limitarsi ad individuare l’essenza del «controllo analogo» nel potere di esercitare un’influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative della persona giuridica controllata palesa l’intenzione di attrarre nell’ambito dell’in house qualunque modalità (giuridicamente assentita) attraverso la quale il soggetto pubblico ha modo di collocarsi in una posizione di supremazia rispetto agli organi di vertice del soggetto controllato e rispetto ai soggetti privati che detengono partecipazioni irrisorie nella struttura controllata. Da ultimo devono essere dedicate dei brevi cenni anche alla forma giuridica dell’associazione. La pubblica amministrazione italiana, sul presupposto dell’esistenza di una rapporto in house, ha provveduto ad affidare (senza il previo espletamento di una gara) delle commesse pubbliche a quel peculiare modello di associazione, che suole definirsi come associazione no profit. Queste sono degli «organismi che svolgono la propria attività per scopo ideali, senza alcuna remunerazione per il servizio prestato, ben potendo stipulare convenzioni con gli enti pubblici, senza necessità di far precedere tale convenzione da una procedura concorsuale, visto che la prestazione dalle stesse erogata non rientra nell’ambito dei servizi economici, per i quali, invece, è necessario l’espletamento di una selezione competitiva» (94). In considerazione del favor che la normativa italiana riserva alle organizzazioni no profit per garantire l’efficace ed efficiente erogazione di servizi alla collettività, lo Stato, le Regioni e gli enti locali - in ossequio alle prescrizioni contenute nella L. 8 dicembre 2000, n. 328 (c.d. legge sui servizi sociali) - si sono impegnati a riconoscere e agevolare il ruolo degli organismi senza finalità di lucro nell’intraprendere «delle iniziative atte ad erogare quei servizi che sono prioritariamente rivolti al soddisfacimento dei diritti sociali; si pensi alla sanità, all’istruzione, alla previdenza e all’assistenza sociale in genere» (95). Nel periodo antecedente l’adozione delle direttive europee del 2014, si riteneva che il modello dell’in house providing potesse considerarsi compatibile con la forma giuridica dell’associazione soltanto qualora la commessa da affidare a quest’ultima avesse ad oggetto un servizio pubblico privo di rilevanza economica. Sennonché, la sola circostanza che il servizio erogato dall’associazione fosse privo di rilevanza economica si profilava come una «condizione necessaria ma non sufficiente» a confermare l’esistenza di un rap- (94) MICHETTI E., In house providing. Modalità requisiti, limiti, Milano, 2011, p. 52. (95) CANCILLA F.A., Servizi di welfare e diritti sociali nella prospettiva dell’integrazione europea, Milano, 2009, p. 1. Per un inquadramento generale sul tema dei servizi sociali si vedano: FERRARI E., Servizi sociali, Milano, 1986; BALBONI E., I servizi sociali, in AMATO G. - BARBERAA. (a cura di), Manuale di diritto pubblico, Bologna, 1998; FREGO LUPPI S., Servizi sociali e diritti della persona, Milano, 2004; FINOCCHI GHERSI R., Servizi sociali, in CASSESE S. (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, pp. 5536 ss; ALBANESE A., Diritto all’assistenza e servizi sociali: intervento pubblico e attività dei privati, Milano, 2007; GUALDANI A., Servizi sociali tra universalismo e selettività, Milano, 2007. DOTTRINA 219 porto in house tra la pubblica amministrazione e l’associazione, tale da giustificare l’affidamento diretto della commessa. Gli ulteriori elementi che sarebbero dovuti ricorrere affinché le associazioni no profit potessero considerarsi compatibili con il modello dell’autoproduzione sono stati individuati dalla giurisprudenza nazionale ed europea. In una sentenza (non proprio recente), il giudice amministrativo nazionale ha infatti statuito che «la qualifica soggettiva di un ente come non profit e lo svolgimento della relativa attività non orientata al profitto, non costituiscono di per sé elementi preclusivi all’applicazione delle regole concorrenziali (interne e comunitarie) nell’affidamento del servizio; tuttavia, in costanza di una situazione di urgenza qualificata risulta legittimo il ricorso alla trattativa privata per il rinnovo di una convenzione concernente l’affidamento del servizio di trasporto dei malati» (96). A ben vedere, la giurisprudenza nazionale ha inteso affiancare alla non rilevanza economica del servizio affidato all’associazione no profit la necessità che l’affidamento diretto trovasse la sua giustificazione in una situazione di urgenza qualificata. Ma anche la giurisprudenza europea ha avuto modo di offrire delle ulteriori specificazioni in merito. La Corte di Giustizia ha ritenuto che un’indagine sulla compatibilità delle associazioni no profit con il fenomeno dell’autoproduzione non può discostarsi da quelli che sono i requisiti propri dell’in house providing: controllo analogo e attività prevalentemente svolta in favore dell’amministrazione controllante. È recente la sentenza con la quale il giudice europeo ha ritenuto che «qualora l’aggiudicatario di un appalto pubblico sia un’associazione di pubblica utilità senza scopo di lucro che, al momento dell’affidamento di tale appalto, comprende tra i suoi membri non solo enti che fanno parte del settore pubblico, ma anche istituzioni caritative private che svolgono attività senza scopo di lucro, la condizione relativa al «controllo analogo », dettata dalla giurisprudenza della Corte affinché l’affidamento di un appalto pubblico possa essere considerato come un’operazione «in house» non è soddisfatta e pertanto la direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2014, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, è applicabile » (97). (96) T.A.R. Liguria, Genova, Sez. II, 23 dicembre 2002, n. 1206, in Foro amm. - TAR, 2003, pp. 85 ss. (97) C. Giust. Ue, 19 giugno 2014, C-574/12, in www.curia.europa.eu. La controversia sulla quale è stata chiamata a pronunciarsi la Corte di Giustizia prende le mosse dalla scelta di un centro ospedaliero pubblico (Centro Hospitalar de Setúbal - EPE) di assegnare - senza previo espletamento di una gara - ad un’associazione senza scopo di lucro (Serviço de Utilização Comum dos Hospitais - SUCH) un appalto avente ad oggetto l’erogazione di un servizio (nella specie la fornitura pasti e personale) preordinato a soddisfare le esigenze organizzative degli ospedali pubblici, che erano membri dell’associazione affidataria del servizio. Questi i passaggi cruciali della sentenza: «Occorre anzitutto ricordare che la circostanza che l’aggiudi- 220 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 Dalle argomentazioni sviluppante nella decisione è consentito desumere che il principale motivo ad aver indotto la Corte di Giustizia a negare la sussistenza di un’ipotesi di in house providing è rinvenibile nel fatto che l’associazione no profit alla quale era stata affidata direttamente la gestione del servizio comprendeva al suo interno tanto soggetti pubblici quanto soggetti privati di solidarietà sociale; ciò che sfregiava il principio (vigente sino a prima delle direttive del 2014) in ossequio al quale nelle strutture in house non era ammessa alcuna partecipazione privata. catario è costituito in forma di associazione di diritto privato e non persegua scopo di lucro è priva di rilevanza ai fini dell’applicazione delle norme del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici e, di conseguenza, della giurisprudenza della Corte relativa all’eccezione riguardante le operazioni «in house». Infatti, una simile circostanza non esclude che l’entità aggiudicatrice di cui trattasi possa esercitare un’attività economica (v., in tal senso, sentenze, sentenze Sea, C 537/07, EU:C:2009:532, punto 41, e CoNISMa, C 305/08, EU:C:2009:807, punto 45). Occorre rilevare, poi, che la questione che si pone essenzialmente nel caso di specie è quella di stabilire se la giurisprudenza espressa nella sentenza Stadt Halle e RPL Lochau (EU:C:2005:5) si applichi, dal momento che il SUCH non è costituito in forma di società e non è quindi dotato di un capitale sociale e che i suoi membri, non rientrando nel settore sociale, non sono imprese nei termini di cui alla citata sentenza. A tale proposito, occorre sottolineare che l’eccezione riguardante l’affidamento «in house» è fondata sull’impostazione secondo cui, in tali casi, si può considerare che la pubblica amministrazione aggiudicatrice ha fatto ricorso alle proprie risorse per svolgere le sue funzioni di interesse pubblico. Uno dei motivi che hanno portato la Corte alle conclusioni espresse nella sentenza Stadt Halle e RPL Lochau (EU:C:2005:5) era fondato non sulla forma giuridica degli enti privati facenti parte dell’entità aggiudicatrice e neppure sulla finalità commerciale di essi, ma sul fatto che tali enti privati seguivano considerazioni inerenti ai loro interessi privati, che erano di natura diversa da quella delle finalità di interesse pubblico perseguite dall’amministrazione aggiudicatrice. Per tale motivo, quest’ultimo non poteva esercitare sull’aggiudicatario un controllo analogo a quello che esercitava sui propri servizi (v., in tal senso, sentenza Stadt Halle e RPL Lochau, EU:C:2005:5, punti 49 e 50). Alla luce della circostanza, rilevata dal giudice del rinvio, secondo cui il SUCH è un’associazione senza scopo di lucro e i soci privati, che facevano parte di tale associazione al momento dell’aggiudicazione dell’appalto di cui al procedimento principale, erano istituti privati di solidarietà sociale, anch’essi senza scopo di lucro, occorre rilevare che il fatto che la Corte si sia riferita nella sentenza Stadt Halle e RPL Lochau (EU:C:2005:5) a nozioni come quella di «impresa» o di «capitale sociale» è dovuto alle circostanze della causa che ha dato luogo a tale sentenza e non significa che la Corte abbia voluto limitare le sue conclusioni ai soli casi della partecipazione nell’ente aggiudicatore, di imprese commerciali aventi scopo di lucro. Un’altra ragione che ha condotto la Corte alle conclusioni esposte nella sentenza Stadt Halle e RPL Lochau (EU:C:2005:5) è che l’aggiudicazione diretta di un appalto offrirebbe all’entità privata presente all’interno dell’entità aggiudicatrice un vantaggio rispetto ai suoi concorrenti (v., in tal senso, sentenza Stadt Halle e RPL Lochau, EU:C:2005:5, punto 51). Nella causa principale i membri privati del SUCH perseguono interessi e finalità che, per quanto apprezzabili da un punto di vista sociale, sono di diversa natura rispetto agli obiettivi di interesse pubblico perseguiti dalle amministrazioni aggiudicatrici che sono contemporaneamente membri del SUCH. Inoltre, come ha rilevato l’avvocato generale al paragrafo 37 delle sue conclusioni, non è escluso che i membri privati del SUCH, nonostante il loro status di associazioni caritative senza scopo di lucro, possano esercitare un’attività economica in concorrenza con altri operatori. Di conseguenza, l’attribuzione diretta di un appalto al SUCH sarebbe suscettibile di offrire ai membri privati di quest’ultimo un vantaggio concorrenziale. Pertanto, le considerazioni che hanno indotto la Corte ad adottare le conclusioni esposte ai punti 36 e 38 della presente sentenza sono altresì valide in circostanze come quelle del procedimento principale. La circostanza che la partecipazione dei membri privati all’ente aggiudicatario sia solo minoritaria, non può rimettere in discussione tali conclusioni (v., DOTTRINA 221 Tuttavia, con una pronuncia ancora più recente, il giudice europeo sembra aver riveduto la posizione del 2014, assumendo un atteggiamento più cauto, che non riconnette, automaticamente, alla presenza di soggetti privati nelle associazioni no profit l’esercizio di attività lucrative. Ed infatti, sul presupposto che il ricorso ad associazioni di volontariato senza scopo di lucro è idoneo a garantire, tanto l’efficiente erogazione di servizi capaci di contribuire al soddisfacimento dei diritti sociali, quanto il rispetto delle condizioni di equilibrio economico da parte delle pubbliche amministrazioni, si è affermato che «gli articoli 49 TFUE e 56 TFUE devono essere interpretati nel senso che non ostano a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che consente alle autorità locali di attribuire la fornitura di servizi di trasporto sanitario mediante affidamento diretto, in assenza di qualsiasi forma di pubblicità, ad associazioni di volontariato, purché il contesto normativo e convenzionale in cui si svolge l’attività delle associazioni in parola contribuisca effettivamente a una finalità sociale e al perseguimento degli obiettivi di solidarietà ed efficienza di bilancio» (98). Come per le fondazioni, non pare improbabile ritenere che, anche per la forma giuridica dell’associazione, il revirement giurisprudenziale stando al quale non è da escludersi la possibilità che un appalto pubblico sia affidato direttamente ad una associazione non profit sia ulteriormente giustificato dal fatto che le nuove direttive ammettono anche partecipazioni minoritarie di soggetti privati nella struttura in house. in tal senso, sentenza Stadt Halle e RPL Lochau, EU:C:2005:5, punto 49). Infine, occorre rilevare che il fatto che, in conformità del suo statuto, il SUCH disponesse esclusivamente della facoltà di ammettere tra i suoi membri degli enti privati non è in linea di principio rilevante. L’elemento rilevante nel caso di specie è che, al momento dell’aggiudicazione dell’appalto di cui trattasi nel procedimento principale, il SUCH era effettivamente composto non solo da membri pubblici, ma anche da enti rientranti nel settore privato. Alla luce delle considerazioni che precedono, occorre risolvere la prima questione nel senso che, qualora l’aggiudicatario di un appalto pubblico sia un’associazione di pubblica utilità senza scopo di lucro che, al momento dell’affidamento di tale appalto, comprende tra i suoi membri non solo enti che fanno parte del settore pubblico, ma anche istituzioni caritative private che svolgono attività senza scopo di lucro, la condizione relativa al «controllo analogo», dettata dalla giurisprudenza della Corte affinché l’affidamento di un appalto pubblico possa essere considerato come un’operazione «in house» non è soddisfatta e pertanto la direttiva 2004/18 è applicabile». (98) C. Giust. Ue, 28 gennaio 2016, C-50/2014, in www.curia.europa.eu, nella quale sono stati, peraltro, affermati i seguenti principi di massima: «Qualora uno Stato membro consenta alle autorità pubbliche di ricorrere direttamente ad associazioni di volontariato per lo svolgimento di determinati compiti, un’autorità pubblica che intenda stipulare convenzioni con associazioni siffatte non è tenuta, ai sensi del diritto dell’Unione, a una previa comparazione delle proposte di varie associazioni. Qualora uno Stato membro, che consente alle autorità pubbliche di ricorrere direttamente ad associazioni di volontariato per lo svolgimento di determinati compiti, autorizzi dette associazioni a esercitare determinate attività commerciali, spetta a tale Stato membro fissare i limiti entro i quali le suddette attività possono essere svolte. Detti limiti devono tuttavia garantire che le menzionate attività commerciali siano marginali rispetto all’insieme delle attività di tali associazioni, e siano di sostegno al perseguimento dell’attività di volontariato di queste ultime». 222 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 10. Considerazioni conclusive: le questioni affrontate dalla più recente giurisprudenza amministrativa in tema di in house providing e il nuovo Codice degli appalti pubblici. La codificazione dell’in house providing deve essere considerato un evento da accogliere positivamente, poiché attribuisce maggiori margini di certezza ad un istituto che per troppo tempo è stato coperto da una “fitta nebbia”. Il dibattito tra coloro che hanno preferito qualificarlo come modello ordinario, al pari della gara pubblica, e quelli che, al contrario, hanno inteso considerarlo come modello derogatorio non ha condotto a soluzioni dotate di sufficiente certezza. Con la scelta del legislatore europeo di dettare un’articolata disciplina dell’autoproduzione non pare possa più essere refutato in dubbio che il modello dell’in house sia divenuto un modello ordinario, il quale obbliga comunque il giudice a condurre un attento accertamento, non soltanto in merito alla ricorrenza dei due requisiti indefettibili di esso, ma anche sulla ragionevolezza della scelta della pubblica amministrazione di non procedere alla indizione di una gara pubblica. Lo scontro sulla natura ordinaria o derogatoria dell’in house providing poteva avere una sua utilità quando non esisteva una normativa che ne dettasse la disciplina: si poteva ragionevolmente sostenere che, l’origine giurisprudenziale dell’autoproduzione, palesasse l’idea di considerare l’in house un modello del tutto eccezionale rispetto all’istituto della gara pubblica, disciplinato espressamente dalla legge. Lo scenario oggi è mutato. Tra due istituti parimenti dotati di un fondamento normativo cade l’utilità (pratica e teorica) del dibattito sulla ordinarietà/eccezionalità dell’in house providing. Esso è oramai un istituto ordinario che non impone più al giudice nazionale di valutare se la scelta di affidare un appalto pubblico in maniera diretta sia lesiva della concorrenza, in quanto se ci fosse stato il rischio di una tale lesività, non si sarebbe giunti - a rigor di logica - a positivizzare un istituto contrario alla normativa antitrust. La valutazione che il giudice oggi deve compiere in tema di in house providing si snoda in due tipi di accertamento. Un primo accertamento (di tipo formale) è quello volto a verificare la sussistenza dei due requisiti cui è subordinata la sussistenza dell’in house (controllo analogo e attività prevalentemente svolta nell’interesse delle amministrazioni pubbliche). Un secondo accertamento (di tipo sostanziale) è volto a verificare se la scelta di avvalersi della struttura in house sia idonea a garantire «la qualità, l’efficienza, l’economicità e l’efficacia dell’appalto o del servizio e, in sostanza, la virtuosità per l’amministrazione, la collettività e gli utenti dei servizi» (99). Solo qualora (99) VOLPE C., Le nuove direttive sui contratti pubblici e l’in house providing: problemi vecchi e nuovi, cit., p. 18. DOTTRINA 223 il giudice si avveda del fatto che la struttura in house sia inadatta alla realizzazione dell’oggetto della commessa pubblica affidatagli direttamente (ad. es., perché sia stata proposta nei confronti del soggetto in house un’azione di classe pubblica di cui al D.lgs. n. 198/2009 ovvero perché sia stato proposto un elevato numero di domande giurisdizionali tese ad ottenere il risarcimento dei danni causati da episodi di disservizio), lo stesso potrà pronunciare l’illegittimità della scelta di non indire una gara pubblica, ordinando alla pubblica amministrazione - nel rispetto della c.d. riserva di funzioni amministrative - di indire una gara. L’adozione delle nuove direttive europee in materia di appalti pubblici e concessioni ha determinato l’insorgere di talune specifiche problematiche, che hanno visto impegnati i giudici nazionali. La prima di tali questione riguarda l’applicabilità delle direttive: esse si applicano direttamente oppure necessitano del recepimento nazionale? Sul punto, il Consiglio di Stato ha propugnato due inconciliabili opzioni ermeneutiche. Un primo orientamento, sostenuto in sede consultiva, dopo aver ribadito che «l’in house providing aveva ricevuto una disciplina esclusivamente giurisprudenziale e l’art. 12 della direttiva europea 2014/24 ha in parte recepito tale giurisprudenza, ma in una parte rilevante ha profondamente innovato, definendo in modo parzialmente diverso le condizioni di esclusione dalla direttiva medesima», ed aver ritenuto che «sebbene la direttiva 2014/24 non è stata ancora recepita, non è dubbio che, se non vi è addirittura un’applicazione immediata del tipo self-executing, non può in ogni caso non tenersi conto di quanto disposto dal legislatore europeo, secondo una dettagliata disciplina in materia, introdotta per la prima volta con diritto scritto e destinata a regolare a brevissimo la concorrenza nei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture nell’U.E.» (100), è giunto a considerare legittimo un affidamento diretto realizzato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca in favore del consorzio CINECA, partecipato da enti pubblici di ricerca e, in una parte minoritaria, da istituti privati. Quindi, muovendo dall’assunto che le nuove direttive europee ammettono delle partecipazioni minoritarie di soggetti privati nelle strutture in house, il giudice amministrativo ha ritenuto legittimo un affidamento diretto ad un consorzio partecipato (in minima parte da soggetti privati), prima ancora che le direttive venissero formalmente recepite nell’ordinamento italiano e, quindi, quando ancora doveva ritenersi vigente la giurisprudenza europea che imponeva, ai fini della configurabilità dell’in house providing, la totale partecipazione di soggetti pubblici; ciò in quanto le direttive europee troverebbero applicazione immediata. (100) Cons. St., Sez. II, 30 gennaio 2015, n. 298, in www.giustizia-amministrativa.it. In dottrina si veda la nota di: BRIGANTE V., La crisi della soggettività nel diritto amministrativo: l’in house providing alla luce del parere del Consiglio di Stato n. 298/2015, in www.lexitalia.it, 2015. 224 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 Conclusioni opposte sono state rassegnate dal Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale. La questione ha nuovamente visto come protagonista il CINECA, questa volta come affidatario diretto dei servizi informatici relativi all’attivazione del sistema U-GOV e ESSE3 da parte dell’Università della Calabria. Il giudice amministrativo ha affermato l’illegittimità dell’affidamento diretto ad una struttura partecipata (ancorché minoritariamente) da soggetti privati, in quanto «deve escludersi che la nuova direttiva, nonostante il suo contenuto in alcune parti dettagliato, possa ritenersi self-executing per la dirimente considerazione che è ancora in corso il termine previsto per la sua attuazione da parte dello Stato. È vero che la giurisprudenza comunitaria riconosce una forma di rilevanza giuridica alla direttiva anche prima che sia scaduto il termine per il suo recepimento. Si tratta, però, di una rilevanza giuridica certamente minore rispetto al c.d. effetto diretto (che implica l’immediata applicazione della direttiva dettagliata ai rapporti c.d. verticali), che si traduce semplicemente, in nome del principio di leale collaborazione, in un dovere di stand still, ovvero nel dovere per il legislatore di astenersi dall’adottare, nel periodo intercorrente tra la pubblicazione della direttiva nella GUUE e il termine assegnato per il suo recepimento, qualsiasi misura che possa compromettere il conseguimento del risultato prescritto e per il giudice di astenersi da qualsiasi forma di interpretazione o di applicazione del diritto nazionale da cui possa derivare, dopo la scadenza del termine di attuazione, la messa in pericolo del risultato voluto dalla direttiva. Non si tratta, quindi, del dovere di immediata applicazione o dell’obbligo di interpretazione conforme (che operano solo dopo che è scaduto il termine di recepimento), ma soltanto di un obbligo negativo, che si sostanzia nel dovere di astenersi dall’interpretazione difforme potenzialmente pregiudizievole per i risultati che la direttiva intende conseguire. Si tratta, in altri termini, di un obbligo attenuato rispetto a quello di interpretazione conforme in quanto discende da un principio sì fondamentale del diritto dell’Unione, quale è quello di leale cooperazione, ma, pur tuttavia, gerarchicamente sotto ordinato a quello del primato, il cui mancato rispetto mina la stessa essenza dell’ordinamento dell’Unione. Come è stato efficacemente evidenziato in dottrina, se l’obbligo d’interpretazione conforme ha un valore prossimo all’effetto diretto, lo stesso valore non può riconoscersi all’obbligo di astensione da un’interpretazione difforme dal diritto dell’Unione europea che non consente una lettura della norma interna additiva, dovendosi altrimenti ritenere i due istituti giuridici sovrapponibili. Non si può, quindi, ritenere che la mera pubblicazione della direttiva determini, prima che sia scaduto il termine per il suo recepimento, il superamento automatico e immediato di una disciplina preesistente di derivazione comunitaria. Per ragioni analoghe, non appare corretto ritenere immediatamente operativa la possibilità di partecipazione di capitali privati house richiamando il c.d. obbligo di in- DOTTRINA 225 terpretazione conforme da parte del giudice nazionale. A venire in rilievo non è, infatti, una norma nazionale “ambigua” o “plurivoca”, suscettibile di più interpretazioni, di cui almeno una conforme al contenuto di una direttiva comunitaria sopravvenuta. Viene al contrario in rilievo una nozione di in house di matrice comunitaria (elaborata da una giurisprudenza pietrificata, tanto da costituire diritto vivente) che è univoca nell’escludere la compatibilità dell’istituto con la partecipazione di soggetti privati. Ritenere da subito possibili forme di partecipazione di capitali privati significherebbe, pertanto, disapplicare la fin qui consolidata giurisprudenza comunitaria sui limiti all’in house, dando prevalenza ad una nozione meno restrittiva prevista da una direttiva sopravvenuta ancora in corso di recepimento. Non si tratterebbe, quindi, di interpretare il diritto nazionale in maniera conforme al diritto eurounitario sopravvenuto, ma, al contrario, di disapplicare o correggere l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, per assicurarne la conformità alla direttiva sopravvenuta, la quale, però, (non essendo scaduto il termine di recepimento) non è ancora cogente all’interno degli ordinamenti nazionali» (101). La seconda questione che ha visto impegnata la giurisprudenza nazionale concerne la portata del secondo requisito dell’in house providing: quello «dell’attività prevalente». La difficoltà di interpretare la nuova conformazione di tale requisito ha indotto il Consiglio di Stato a chiedere alla Corte di Giustizia europea «se, nel computare l’attività prevalente svolta dall’ente controllato, debba farsi anche riferimento all’attività imposta da un’amministrazione pubblica non socia a favore di enti pubblici non soci, nonché se, nel computare l’attività prevalente svolta dall’ente controllato, debba farsi anche riferimento agli affidamenti nei confronti degli enti pubblici soci prima che divenisse effettivo il requisito del c.d. controllo analogo» (102). Tanto posto, giova evidenziare che l’auspicio che lo Stato italiano potesse “profittare” di quest’occasione per positivizzare, anche in sede nazionale, un istituto fondamentale, soprattutto in un periodo in cui si fanno sempre più pressanti le esigenze di equilibrio della finanza pubblica, ha trovato un compiuto riscontro. I principi elaborati dalla giurisprudenza europea e le prescrizioni contenute nelle direttive appalti del 2014 sono state infatti recepite nel c.d. nuovo codice appalti. Il D.lgs. n. 18 aprile 2016, n. 50, recante «Attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d'appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici (101) Cons. St., Sez. VI, 26 maggio 2015, n. 2660, in www.giustizia-amministrativa.it. (102) Cons. St., Sez V, 20 ottobre 2015, n. 4793, in Foro amm. - CDS, 2015, pp. 2515 ss. 226 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 relativi a lavori, servizi e forniture» detta la disciplina dell’in house providing al suo articolo 5 (103). (103) L’art. 5 del D.lgs. n. 50/2016, sotto la rubrica Principi comuni in materia di esclusione per concessioni, appalti pubblici e accordi tra enti e amministrazioni aggiudicatrici nell’ambito del settore pubblico, così dispone: «Una concessione o un appalto pubblico, nei settori ordinari o speciali, aggiudicati da un’amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore a una persona giuridica di diritto pubblico o di diritto privato non rientra nell'ambito di applicazione del presente codice quando sono soddisfatte tutte le seguenti condizioni: a) l'amministrazione aggiudicatrice o l'ente aggiudicatore esercita sulla persona giuridica di cui trattasi un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi; b) oltre l'80 per cento delle attività della persona giuridica controllata è effettuata nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall'amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre persone giuridiche controllate dall'amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore di cui trattasi; c) nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati previste dalla legislazione nazionale, in conformità dei trattati, che non esercitano un'influenza determinante sulla persona giuridica controllata. Un'amministrazione aggiudicatrice o un ente aggiudicatore esercita su una persona giuridica un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi ai sensi del comma 1, lettera a), qualora essa eserciti un'influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della persona giuridica controllata. Tale controllo può anche essere esercitato da una persona giuridica diversa, a sua volta controllata allo stesso modo dall'amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore. Il presente codice non si applica anche quando una persona giuridica controllata che è un'amministrazione aggiudicatrice o un ente aggiudicatore, aggiudica un appalto o una concessione alla propria amministrazione aggiudicatrice o all’ente aggiudicatore controllante o ad un altro soggetto giuridico controllato dalla stessa amministrazione aggiudicatrice o ente aggiudicatore, a condizione che nella persona giuridica alla quale viene aggiudicato l'appalto pubblico non vi sia alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati che non comportano controllo o potere di veto prescritte dalle legislazione nazionale, in conformità dei trattati, che non esercitano un'influenza determinante sulla persona giuridica controllata. Un'amministrazione aggiudicatrice o un ente aggiudicatore può aggiudicare un appalto pubblico o una concessione senza applicare il presente codice qualora ricorrano le condizioni di cui al comma 1, anche in caso di controllo congiunto. Le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti aggiudicatori esercitano su una persona giuridica un controllo congiunto quando sono soddisfatte tutte le seguenti condizioni: a) gli organi decisionali della persona giuridica controllata sono composti da rappresentanti di tutte le amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori partecipanti. Singoli rappresentanti possono rappresentare varie o tutte le amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori partecipanti; b) tali amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori sono in grado di esercitare congiuntamente un'influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative di detta persona giuridica; c) la persona giuridica controllata non persegue interessi contrari a quelli delle amministrazioni aggiudicatrici o degli enti aggiudicatori controllanti. Un accordo concluso esclusivamente tra due o più amministrazioni aggiudicatrici non rientra nell'ambito di applicazione del presente codice, quando sono soddisfatte tutte le seguenti condizioni: a) l’accordo stabilisce o realizza una cooperazione tra le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti aggiudicatori partecipanti, finalizzata a garantire che i servizi pubblici che essi sono tenuti a svolgere siano prestati nell'ottica di conseguire gli obiettivi che essi hanno in comune; b) l'attuazione di tale cooperazione è retta esclusivamente da considerazioni inerenti all'interesse pubblico; c) le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti aggiudicatori partecipanti svolgono sul mercato aperto meno del 20 per cento delle attività interessate dalla cooperazione. Per determinare la percentuale delle attività di cui al comma 1, lettera b), e al comma 6, lettera c), si prende in considerazione il fatturato totale medio, o una idonea misura alternativa basata sull'attività, quale i costi sostenuti dalla persona giuridica o amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore DOTTRINA 227 La lettera della norma consente di desumere, nell’immediato, che il legislatore delegato ha attuato il recepimento del diritto europeo vigente in materia di commesse pubbliche in maniera pienamente conforme alle indicazioni provenienti dall’acquis comunitario. Sotto questo punto di vista, dunque, il D.lgs. n. 50/2016 si pone in linea con i risultati, in certo senso, positivi che l’Italia inizia, sia pure timidamente, a far registrare in merito alla tempestività del recepimento del diritto europeo. Non è un caso che un’attenta dottrina ha evidenziato che «il principale indicatore della capacità di uno Stato membro di attuare il diritto dell’Unione è rappresentato dal numero di procedure di infrazione aperto nei suoi confronti. Alla fine del 2002, pendevano nei confronti dell’Italia 201 procedure, delle quali 65 per mancata trasposizione di direttive entro il termine. Negli anni successivi, il numero di procedure è aumentato progressivamente, fino a raggiungere, alla metà del 2005, la quota massima di 275 (di cui 69 per mancato recepimento di direttive). Da allora, grazie a una serie di accorgimenti e al rafforzamento degli strumenti di dialogo con la Commissione, si è assistito a un sensibile miglioramento. Alla fine del 2012 il governo ha raggiunto l’obiettivo di contenere il numero di procedure, per la prima volta dopo quindici anni, al di sotto di ‘‘quota cento’’» (104). Malgrado il rispetto del termine di recepimento, deve essere comunque rilevato quell’atavica passività del legislatore italiano nel recepimento delle norme comunitarie. Anche in questo caso, come già accaduto in altre ipotesi, lo Stato italiano, non incidendo minimante sulla conformazione della normativa, ha riprovato la fondatezza di quanto denunciato da quella dottrina, secondo cui «a dispetto dei buoni risultati conseguiti negli ultimi anni sul piano dell’attuazione del diritto europeo, i tradizionali problemi italiani, in questo ambito, non possono ritenersi risolti. Resta aperto, in particolare, il problema della inadeguata preparazione europea e della scarsa capacità di analisi e valutazione delle nostre amministrazioni, a livello centrale e, ancor più, territoriale. Il problema si riflette innanzitutto sulla fase ascendente. Fatte salve poche eccezioni, gli apparati burocratici italiani - a differenza di quelli di altri grandi paesi europei - non sono muniti delle capacità di analisi e di valutazione, appunto, oltre che di coordinamento, richieste da una partecipazione nei settori dei servizi, delle forniture e dei lavori per i tre anni precedenti l'aggiudicazione dell'appalto o della concessione. Se, a causa della data di costituzione o di inizio dell'attività della persona giuridica o amministrazione aggiudicatrice o ente aggiudicatore, ovvero a causa della riorganizzazione delle sue attività, il fatturato o la misura alternativa basata sull'attività, quali i costi, non è disponibile per i tre anni precedenti o non è più pertinente, è sufficiente dimostrare, segnatamente in base a proiezioni dell'attività, che la misura dell'attività è credibile. Nei casi in cui le norme vigenti consentono la costituzione di società miste per la realizzazione e gestione di un'opera pubblica o per l'organizzazione e la gestione di un servizio di interesse generale, la scelta del socio privato avviene con procedure di evidenza pubblica». (104) SAVINO M., L’attuazione della normativa europea, in Giorn. dir. amm., V, 2013, p. 471. 228 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 attiva (e non meramente reattiva) al decision-making europeo. Perciò, le nostre amministrazioni non sono in grado di reagire prontamente alle sollecitazioni della Commissione e di incidere sulle scelte di fondo incorporate nelle proposte legislative dell’Unione. Le ricadute sulla fase discendente sono inevitabili. Il fatto che la partecipazione delle amministrazioni italiane alla fase ascendente sia particolarmente debole spiega, infatti, perché l’Italia sopporti costi di adattamento più elevati rispetto ad altri paesi; perché gli uffici italiani si trovino in costante ritardo quando si tratti di recepire direttive complesse, non essendo state previamente valutate le ricadute; e perché la qualità del recepimento non sia elevata: la continua rincorsa porta ad una elaborazione frettolosa delle misure di recepimento, che si traduce in difformità e incongruenze rispetto alle norme sovranazionali da attuare» (105). L’unico elemento di novità che è stato inserito in sede di recepimento delle direttive europee è rinvenibile nel disposto di cui all’192 del D.lgs. n. 50/2016, il quale prevede l’istituzione presso l’Autorità Nazionale Anticorruzione (A.N.A.C.) dell’elenco delle stazioni appaltanti che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie società in house (106). La ragione giustificativa è rinvenibile nell’esigenza di agevolare l’Authority nell’attività di vigilanza e controllo (107) sul rispetto della normativa in materia di appalti e concessioni da parte delle pubbliche amministrazioni, così da prevenire od estirpare i focali corruttivi che potrebbero celarsi dietro la scelte di rinunziare al mercato. (105) Savino M., op. ult. cit., 2013, p. 474. (106) L’art. 192 del D.lgs. n. 50/2016 dispone che: È istituito presso l'ANAC, anche al fine di garantire adeguati livelli di pubblicità e trasparenza nei contratti pubblici, l'elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie società in house di cui all'articolo 5. L'iscrizione nell'elenco avviene a domanda, dopo che sia stata riscontrata l'esistenza dei requisiti, secondo le modalità e i criteri che l'Autorità definisce con proprio atto. La domanda di iscrizione consente alle amministrazioni aggiudicatrici e agli enti aggiudicatori sotto la propria responsabilità, di effettuare affidamenti diretti dei contratti all'ente strumentale. Resta fermo l'obbligo di pubblicazione degli atti connessi all'affidamento diretto medesimo secondo quanto previsto al comma 3. Ai fini dell'affidamento in house di un contratto avente ad oggetto servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza, le stazioni appaltanti effettuano preventivamente la valutazione sulla congruità economica dell'offerta dei soggetti in house, avuto riguardo all'oggetto e al valore della prestazione, dando conto nella motivazione del provvedimento di affidamento delle ragioni del mancato ricorso al mercato, nonché dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta, anche con riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche. Sul profilo del committente nella sezione Amministrazione trasparente sono pubblicati e aggiornati, in conformità alle disposizioni di cui al decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, in formato open-data, tutti gli atti connessi all'affidamento degli appalti pubblici e dei contratti di concessione tra enti nell'ambito del settore pubblico, ove non secretati ai sensi dell'articolo 162». (107) Per una ricostruzione dei nuovi poteri dell’A.N.A.C. si v.: STICCHI DAMIANI S., I nuovi poteri dell’Autorità Anticorruzione, in Libro dell’anno 2015, www.treccani.it; LONGOBARDI N., L’Autorità Nazionale Anticorruzione e la nuova normativa sui contratti pubblici, in www.giustamm.it, 2016. DOTTRINA 229 Il valore doganale nel transfer pricing Francesco Meloncelli* SOMMARIO: 1. Premessa metodica. A) LA DESCRIZIONE DEL VALORE DOGANALE NEL TRANSFER PRICING. 2. Il significato delle parole “valore doganale” e “transfer pricing” e il relativo concetto - 3. La parametrazione interna - 3.1. Il dato normativo - 3.2. Il principio di effettività temperato dal criterio della normalità - 3.3. Il concetto di “legame - 3.4. Il valore accettabile - 4. Excursus sul metodo scientifico di approssimazione - 5. L’accertamento per approssimazione nel transfer princing - 6. La parametrazione esterna. B) IL REGIME GIURIDICO DEL VALORE DOGANALE. 7. Dalla struttura alla funzione - 8. Il fondamento dell’istituto. C) IL REGIME PROCESSUALE DEL VALORE DOGANALE NEL TRANSFER PRICING. 9. Dai profili sostanziali a quelli processuali - 10. Il fattore temporale della dichiarazione in dogana - 11. L’onere della prova - 12. La prova dell’abuso di diritto - 13. Il concetto di legame. D) CONCLUSIONE. 1. Premessa metodica. Il compito affidatomi è quello d’illustrare il regime giuridico del “Valore doganale nel transfer pricing”. Assumiamo per ipotesi, con riserva di dimostrazione, che il “valore doganale nel transfer pricing” sia un istituto giuridico, val a dire che esso sia un fenomeno al quale l’ordinamento giuridico italiano abbia dedicato un insieme di norme di natura tale da formare un subsistema normativo, cioè un complesso di norme ordinate e coerenti, di livello minimo e armonicamente collocato nel sistema ordinamentale statale e comunitario. L’ipotesi risulterà dimostrata se da quel subsistema normativo si saranno potuti desumere quattro profili del regime del valore doganale nel transfer pricing che risultino uniti in due coppie di elementi determinati secondo i concetti collegati e contrapposti di normalità (o fisiologia) e anormalità (patologia), a loro volta articolabili in sfere connesse e distinte secondo i concetti di struttura e di funzione. L’esposizione, quindi, premessa una sommaria descrizione dei dati, sia lessicali sia parametrici, tanto interni quanto esterni, affronterà il nucleo essenziale del tema seguendo il percorso, consolidato in dottrina, illustrativo della natura di un istituto giuridico. A) La descrizione del valore doganale nel transfer pricing. 2. Il significato delle parole “valore doganale” e “transfer pricing” e il relativo concetto. *) Avvocato dello Stato. Il presente scritto costituisce la Relazione svolta il 22 maggio 2015 a Roma, nel Seminario n. 2 del Corso di alta formazione in Diritto Doganale e del Commercio internazionale organizzato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore. 230 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 Il transfer price è il prezzo di trasferimento tra soggetti di gruppo. Si tratta di un fenomeno economico che è il risultato di più comportamenti di soggetti diversi operanti coordinatamente: il transfer pricing. Com’è d’uso fare tra i giuristi, i quali lavorano, anzitutto e soprattutto, con le dichiarazioni normative, conviene partire, nella descrizione del fenomeno, dal significato delle parole che lo designano, tenendo conto che la tematica è di origine internazionale. Ciò significa che la fonte del regime giuridico vigente in Italia, relativo al transfer pricing nel settore doganale, ha una derivazione internazionale: esso è contenuto in trattati internazionali a cui ha aderito lo Stato italiano, in conformità alle direttive e alle linee guida elaborate da organizzazioni internazionali, qual è l’Organizzazione mondiale del commercio. Tuttavia, dati i limiti fissatimi, la mia relazione si concentrerà solo sull’esame del diritto comunitario con particolare riferimento al diritto interno italiano, con la conseguenza che, pur tenendo conto che il lessico impiegato nel settore costituisce prevalentemente una traduzione da testi normativi redatti in lingua inglese o in lingua francese, noi ragioneremo sul significato delle parole usate negli atti normativi comunitari in lingua italiana. Ciò precisato, possiamo muovere dal significato che nel linguaggio comune assume la parola “valore” di un bene. In generale, il valore è la caratteristica di un bene in forza della quale gli si riconosce una qualità positiva, che rende il bene pregevole, stimabile, apprezzabile e, quindi, desiderabile. Due sono le accezioni con le quali la parola “valore” può essere impiegata nei settori comportamentali che noi dobbiamo analizzare: anzitutto, essa può designare la capacità del bene di soddisfare un bisogno, cosicché il valore si specifica, in senso economico, come valore d’uso, assumendo un significato che è, ai nostri fini, privo d’interesse; in secondo luogo, il valore può equivalere a valore di scambio, designando così la proprietà del bene di consentire l’acquisto di altri beni, assumendo il significato di prezzo relativo. Sottolineo che in questa definizione di valore come valore di scambio è già insito il concetto di comparabilità ed è incluso anche l’ulteriore significato di valore come stima. È, quindi, ineliminabile una certa dose di soggettività valutativa nel concetto di valore; se ne avrà conferma nell’analisi di diritto positivo che condurremo tra poco. Se questo è il significato nel linguaggio comune della parola “valore”, anche le altre parole che designano il fenomeno in esame cominciano a loro volta a precisare il loro senso: “transfer” equivale, nel linguaggio giuridico, a ”trasferimento” o “cessione”, e “to price” è l’azione di fissare un prezzo. Però, se il significato dell’espressione “prezzare il trasferimento” può essere colto da chiunque, quando ci si inoltra nel linguaggio giuridico del settore commerciale e tributario, questo termine si arricchisce di un’accezione ulteriore. Si tratta, cioè, di un trasferimento artificiale della sopportazione del costo di un bene tra soggetti correlati; detto altrimenti, si tratta di un aggiustamento arti- DOTTRINA 231 ficiale del prezzo di un bene tra soggetti collegati o, come dicono gli atti normativi UE, “legati”. Di questo significato giuridico di transfer pricing si trova conferma nei dati diritto positivo, che andiamo ad esaminare per identificare il fenomeno giuridico del transfer pricing nel diritto doganale, cominciando dai suoi elementi strutturali al fine di desumerne il concetto, sia in sé sia in relazione ai fenomeni contrapponibili e ai fenomeni assimilabili. A tal fine, prendiamo le mosse dall’art. 29 del Regolamento del Consiglio della Comunità europea 12 ottobre 1992, n. 2913 (1), che prescrive quale sia (1) Ricordo, per comodità del lettore, che la testuale formulazione dell’art. 29 del Regolamento (CEE) 12 ottobre 1992, n. 2913/92 del Consiglio, che istituisce un codice doganale comunitario, era la seguente: <<1. Il valore in dogana delle merci importate è il valore di transazione, cioè il prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci quando siano vendute per l'esportazione a destinazione del territorio doganale della Comunità, previa eventuale rettifica effettuata conformemente agli articoli 32 e 33, sempre che: a) non esistano restrizioni per la cessione o per l'utilizzazione delle merci da parte del compratore, oltre le restrizioni che: - sono imposte o richieste dalla legge o dalle autorità pubbliche nella Comunità, - limitano l'area geografica nella quale le merci possono essere rivendute, oppure - non intaccano sostanzialmente il valore delle merci, b) la vendita o il prezzo non sia subordinato a condizioni o prestazioni il cui valore non possa essere determinato in relazione alle merci da valutare, c) nessuna parte del prodotto di qualsiasi rivendita, cessione o utilizzazione successiva delle merci da parte del compratore ritorni, direttamente o indirettamente, al venditore, a meno che non possa essere operata un'adeguata rettifica ai sensi dell'articolo 32, e d) il compratore ed il venditore non siano legati o, se lo sono, il valore di transazione sia accettabile a fini doganali, ai sensi del paragrafo 2. 2. a) Per stabilire se il valore di transazione sia accettabile ai fini dell'applicazione del paragrafo 1, il fatto che il compratore e il venditore siano legati non costituisce di per sé motivo sufficiente per considerare inaccettabile detto valore. Se necessario, le circostanze proprie della vendita sono esaminate e il valore di transazione ammesso, purché tali legami non abbiano influito sul prezzo. Se, tenuto conto delle informazioni fornite dal dichiarante o ottenute da altre fonti, l'amministrazione doganale ha motivo di ritenere che detti legami abbiano influito sul prezzo, essa comunica queste motivazioni al dichiarante fornendogli una ragionevole possibilità di risposta. Qualora il dichiarante lo richieda, le motivazioni gli sono comunicate per iscritto. b) In una vendita tra persone legate, il valore di transazione è accettato e le merci sono valutate conformemente al paragrafo 1 quando il dichiarante dimostri che detto valore è molto vicino ad uno dei valori qui di seguito indicati, stabiliti allo stesso momento o pressappoco allo stesso momento: i) il valore di transazione in occasione di vendita, tra compratori e venditori che non sono legati, di merci identiche o similari per l'esportazione a destinazione della Comunità; ii) il valore in dogana di merci identiche o similari, quale è determinato ai sensi dell'articolo 30, paragrafo 2, lettera c); iii) il valore in dogana di merci identiche o similari, quale è determinato ai sensi dell'articolo 30, paragrafo 2, lettera d). Nell'applicare i predetti criteri si tiene debitamente conto delle differenze accertate tra i livelli commerciali, le quantità, gli elementi enumerati all'articolo 32 ed i costi sostenuti dal venditore in occasione di vendite nelle quali il compratore e il venditore non sono legati e i costi che questi non sostiene in occasione di vendite nelle quali il compratore ed il venditore sono legati. c) I criteri di cui alla lettera b) devono essere applicati su iniziativa del dichiarante e soltanto a fini comparativi. Non possono essere stabiliti valori sostitutivi ai sensi della predetta lettera b). 232 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 il valore doganale, ossia la base imponibile su cui si applica il dazio doganale ad valorem (2). 3. La parametrazione interna. 3.1. Il dato normativo. Dal rapporto tra i vari elementi, che compongono la definizione normativa del valore doganale in caso di transfer pricing, si desume un’importante differenza: da un lato, in generale, il valore in dogana delle merci è costituito dal valore di transazione (art. 29.1), salve le condizioni indicate ancora dal comma 1 dell’art. 29 alle lettere da a) a d), delle quali è qui rilevante l’ultima così formulata: <>; dall’altro, in caso di parti correlate, il valore doganale - al quale è dedicato il comma 2 dell’art. 29 - è il valore di transazione (in)accettabile tra soggetti “legati”. Questa è la definizione di valore doganale secondo l’art. 29 del Codice comunitario doganale del 1992, che nel regolamento del 2013, all’art. 70, è definito in maniera leggermente differente, ossia come valore di transazione tra soggetti collegati quando la relazione ha influenzato il prezzo. In realtà, nella definizione attuale non si fa altro che specificare direttamente che l’accettabilità del valore di transazione dichiarato dipende dal fatto che quel prezzo di transazione non sia stato influenzato dalla relazione tra il soggetto venditore e il soggetto compratore (3). 3. a) Il prezzo effettivamente pagato o da pagare è il pagamento totale effettuato o da effettuare da parte del compratore al venditore, o a beneficio di questo ultimo, per le merci importate e comprende la totalità dei pagamenti eseguiti o da eseguire, come condizione della vendita delle merci importate, dal compratore al venditore, o dal compratore a una terza persona, per soddisfare un obbligo del venditore. Il pagamento non deve necessariamente essere fatto in denaro. Esso può essere fatto, per via diretta o indiretta, anche mediante lettere di credito e titoli negoziabili. b) Le attività, comprese quelle riguardanti la commercializzazione, avviate dal compratore per proprio conto, diverse da quelle per le quali è prevista una rettifica all'articolo 32, non sono considerate un pagamento indiretto al venditore, anche se si può ritenere che il venditore ne sia il beneficiario e ch'esse siano state avviate con l'accordo di quest'ultimo; il loro costo non è aggiunto al prezzo effettivamente pagato o da pagare per la determinazione del valore in dogane delle merci importate>>. (2) Devo precisare il senso del richiamo ad un atto normativo del 1992, che, com’è noto, è stato abrogato dal Codice doganale comunitario contenuto nel Regolamento CE 23 aprile del 2008 n. 450/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio, che istituisce il codice doganale comunitario (Codice doganale aggiornato), a sua volta abrogato dall’art. 286.1 Regolamento UE 9 ottobre 2013 n. 952/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, che istituisce il codice doganale dell’Unione. Infatti, la disciplina in esso contenuta ha ricevuto una lunga applicazione, dalla quale si possono desumere delle linee interpretative ancor oggi valide. Le variazioni successivamente intervenute sono, invero, non radicali, cosicché la normativa di passaggio - quella del 2008 - non differisce sostanzialmente dalla precedente ed è rimasta in vigore per così poco tempo, che, in un’analisi evolutiva del sistema, la si può considerare, con qualche approssimazione, sostanzialmente sovrapponibile a quella precedente. DOTTRINA 233 3.2. Il principio di effettività temperato dal criterio della normalità. Se, ora, si analizzano nel dettaglio i singoli elementi impiegati dalle disposizioni normative citate per comporre la struttura del valore doganale nel transfer pricing, è agevole constatare che esse fanno riferimento, anzitutto, al valore di transazione. Il richiamo del legislatore a questo concetto vincola a ritenere che il sistema è basato sul principio di effettività della transazione, dello scambio, in un libero mercato, temperato da un criterio di normalità. In altri termini, da un lato, si conferisce rilievo alla concreta operazione economica posta in essere e, quindi, tendenzialmente al valore attribuito dalle parti alla merce nel singolo caso; dall’altro lato, tuttavia, si ha la consapevolezza che questo principio di base, il principio di effettività, può e deve essere temperato da un criterio di normalità, perché, se in un libero mercato, astrattamente perfetto, l’operazione, la singola operazione, indica effettivamente la base imponibile, si ha la consapevolezza che non sempre, o quasi mai, ci si trova in quella condizione e, in ogni caso, nell’ipotesi di parti “legate”, è indispensabile effettuare un paragone con dei valori normali per verificare se il prezzo dichiarato dalle parti sia realistico. Più dettagliatamente si può ricordare che l'effettività del valore di transazione è concepibile, nel diritto comunitario, soltanto in un un libero mercato: è necessario che la transazione venga effettuata con il rispetto di alcune condizioni preliminari, ovverosia che non vi siano restrizioni alla concorrenza previste per legge o per convenzione, che non sussista un regime concorrenziale alternativo al prezzo di mercato, ovvero che il bene venduto non ritorni pattiziamente al venditore, ossia sostanzialmente che la vendita non sia fittizia. Se queste sono le con- (3) L’art. 70 Regolamento (UE) 9 ottobre 2013, n. 952, è così formulato: <>. 234 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 dizioni perché possa valere il valore di transazione dichiarato dalle parti in corrispondenza a quello effettivo dello scambio, la loro verificazione attribuisce attendibilità al valore dichiarato dalle parti secondo il principio di effettività. La Corte di giustizia, nella sentenza C-111/79, sia pur a proposito del regime giuridico comunitario anteriore a quello qui esaminato, ha stabilito comunque che la definizione del valore di transazione non può essere indipendente dal prezzo normale, il che vale quanto dire che il principio di effettività dev’essere temperato dalla comparazione con un valore che possa assumersi come normale. Di qui nasce il riferimento al concetto di comparabilità, che avevo segnalato in occasione dell’illustrazione del concetto di valore come inclusivo in sé del concetto di “stima”, di “valutazione”. 3.3. Il concetto di “legame”. Altro elemento che si rinviene nella definizione di diritto positivo del transfer pricing nel diritto doganale è il concetto di “legame”. Mi sia permesso di fare un rinvio all’art. 143 del Regolamento applicativo del Codice comunitario (DAC) (4), il quale enumera tutti gli indici di un legame rilevante giuridicamente. Essi sono talmente numerosi che non è possibile qui analizzarli singolarmente. Val la pena, tuttavia, di notare che il concetto di legame si desume da una serie così numerosa e variegata di fatti che, nel diritto doganale, al fine della determinazione del valore, si devono considerare “legate” tra loro persone che ordinariamente non lo sono nel diritto interno. Mi spiegherò meglio, ma anticipo questa indicazione: per il diritto comunitario viene adottato un concetto di gruppo di imprese così ampio, da in- (4) Regolamento (CEE) 2 luglio 1993, n. 2454/93 della Commissione, che fissa talune disposizioni d'applicazione del regolamento (CEE) n. 2913/92 del Consiglio che istituisce il codice doganale comunitario, il cui Articolo 143 è così formulato: <<1. Ai fini dell'applicazione degli articoli 29, paragrafo 1, lettera d) e 30, paragrafo 2, lettera c) del codice, due o più persone si considerano legate solo se: a) l'una fa parte della direzione o del consiglio di amministrazione dell'impresa dell'altra e viceversa; b) hanno la veste giuridica di associati; c) l'una è il datore di lavoro dell'altra; d) una persona qualsiasi possegga, controlli o detenga, direttamente o indirettamente, il 5 % o più delle azioni o quote con diritto di voto delle imprese dell'una e dell'altra; e) l'una controlla direttamente o indirettamente l'altra; f) l'una e l'altra sono direttamente o indirettamente controllate da una terza persona; g) esse controllano assieme, direttamente o indirettamente, una terza persona; oppure se h) appartengono alla stessa famiglia. Si considerano appartenenti alla stessa famiglia solo le persone tra le quali intercorre uno dei seguenti rapporti: - marito e moglie - ascendenti e discendenti, in linea diretta, di primo grado - fratelli e sorelle (germani e unilineari) - ascendenti e discendenti, in linea diretta, di secondo grado - zii/zie e nipoti - suoceri e generi o nuore - cognati e cognate>>. DOTTRINA 235 cludervi anche relazioni tra soggetti che non siano neanche formalizzate sul piano giuridico e che, tuttavia, di fatto possono determinare un'influenza di un soggetto su un altro. Questo spiega anche la ragione per cui nell'art. 29 del regolamento del 1992 è espressamente previsto che il solo legame non è sufficiente a rendere inaccettabile il valore doganale, cioè a presumere l’influenza sul prezzo. Si può intendere questa precisazione come una conseguenza dell’ampiezza del concetto di legame tra soggetti: il legislatore si è visto costretto a prevedere che l’autorità doganale non può rettificare il prezzo sulla sola base del rapporto tra il soggetto venditore e il soggetto compratore. 3.4. Il valore accettabile. Altro elemento è quello del valore accettabile, cioè non influenzato dal rapporto. L’art. 29 e l’art. 70 dei rispettivi citati regolamenti del 1992 e del 2013 indicano che il transfer pricing all’interno di un gruppo d’imprese, di per sé, non rende inaccettabile, cioè non rende irrealistico, il valore dichiarato, purché esso sia molto vicino, quantitativamente e temporalmente, ad un valore di transazione che è, o può essere, determinato secondo tre metodi. Si vede, dunque, come il principio di effettività venga temperato: nel caso di transfer pricing, quando sussista un legame e l’autorità doganale abbia il fondato sospetto che il prezzo ne risulti influenzato, il valore dichiarato è accettabile quando esso sia molto simile ad un valore di transazione altrimenti determinato per “vicinanza” - è proprio la legge ad usare questa parola - e, dunque, inevitabilmente costruito per approssimazione. Il richiamo indirizza l’attenzione sul fatto che l’impiego di un concetto giuridico indeterminato comporta che la sua determinazione non possa esser effettuata altro che per approssimazione, cioè soltanto in base a una stima. In altri termini, è la stessa legge a prevedere che per la determinazione del valore in dogana si adotti un metodo di approssimazione. 4. Excursus sul metodo scientifico di approssimazione. Il fenomeno dell’approssimazione nell’attività di accertamento dei fatti e, quindi, nella determinazione dell’oggetto dell’imposizione, è così rilevante che si ritiene opportuno soffermarsi ad effettuarne un breve inquadramento metodico, allo scopo ulteriore di chiarire il rapporto di sussunzione normativa e i requisiti di legittimità del provvedimento amministrativo, che decida intorno ad un caso di specie ultima. Ricordiamo, in via preliminare, che il concetto di approssimazione è ampiamente utilizzato, in generale, a fini epistemologici (5). Infatti, se il compito della scienza è quello di conoscere un dato oggetto e, quindi, di rea- (5) Sul punto v., per tutti, Massimo GALUZZI - Krzystof MOSZYNSKI- AndrzejWAKULICZ Approssimazione, in Enciclopedia (Torino, Einaudi) I, 1977, 765 ss. 236 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 lizzarne la rappresentazione mentale “vera”, sia sotto il profilo della quantità (conoscen-za di tutti i suoi elementi), sia sotto il profilo della qualità (natura del fenome-no), è agevole rendersi conto che nella stragrande maggioranza dei casi la conoscenza effettivamente raggiungibile non può essere che approssimativa e, dunque, “non propriamente vera” o soltanto “parzialmente vera”; tuttavia, poiché, data la natura delle cose, la conoscenza solo parzialmente vera è l’unica possibile, si è costretti ad accettarla e, in effetti, è quella che si adotta in ogni campo dell’attività umana. Si può ricordare, al riguardo, ad esempio, che nella matematica il calcolo infinitesimale è basato sull’approssimazione spinta fino al “limite”. Significativa è, poi, l’esperienza vissuta dalla scienza fisica alla fine del XIX secolo, allorché si ritenne che, sotto il profilo qualitativo, non ci fosse più nulla da scoprire e che non restasse ormai che migliorare sempre di più le tecniche della misurazione dei fenomeni fisici. Poi, precedute dagli studi probabilistici delle teorie termodinamiche dei gas (6), sopravvennero la teoria della relatività (7) e la teoria quantistica (8) e tutto fu rimesso in discussione. Neanche nelle scienze sociali si può prescindere dall’approssimazione: nella vita dei grandi gruppi sociali, i fenomeni che la caratterizzano e, in particolare, i fatti economici - e qui ci si avvicina decisamente al nostro tema - sono conoscibili solo in maniera approssimata attraverso l’analisi statistica e, quindi, probabilistica; nella linguistica si rinuncia a priori alla precisione quando si sostiene, non a torto, che l’unica cosa di cui possono essere certi due soggetti, che usino una data lingua per comunicare tra loro, è ciò su cui convengono di concordare, delegando l’eventuale insanabile contrasto ad un terzo dotato del potere, a lui riconosciuto per accordo o per autorità (9), di stabilire in loro vece quel che essi devono assumere come certo (10). Non v’è da meravigliarsi, dunque, se anche per la conoscenza dei fenomeni giuridici, e per l’interpre- (6) Ad opera di Ludwig Boltzmann, su cui EduardoARROYO PÉREZ Boltzmann. La termodinamica e l’entropia. L’universo morirà di freddo. Milano, RBA Italia, 2013, 65 ss. (7) Dell’isolato Albert Einstein, su cui Armando MASSARENTI (cur.) Albert Einstein. Relatività: esposizione divulgativa. Autobiografia scientifica. Milano, Il sole 24 ore, 2012. (8) Di un gruppo consistente di studiosi: Max Planck, anzitutto, oltre allo stesso Einstein, e poi, soprattutto Niels Bohr, Werner Heisenberg, Wolfgang Pauli, Erwin Schrödinger, Paul Dirac ed altri. V. Manjit KUMAR Quantum. Da Einstein a Bohr, la teoria dei quanti, una nuova idea della realtà. Milano, Mondadori, 2011. (9) Per coloro che si avvalgano di dichiarazioni giuridicamente rilevanti come le norme giuridiche, i provvedimenti autoritativi, i negozi giuridici, le dichiarazioni giuridiche di specie ultima, il terzo risolutore del loro contrasto è il giudice pubblico, fissato d’autorità, o il giudice privato (o arbitro), scelto dai contendenti. (10) LudwigWITTGENSTEIN, nella sua opera postuma e frammentata: Della certezza. L’analisi filosofica del senso comune. Torino, Einaudi, 1978, fornisce idee illuminanti in proposito: dopo aver premesso che la concordanza di due persone con la realtà <> (p. 34) e che quel che conta non è quello che io so <>, ma quel che io concordo con altri (pp. 44-45), conclude affermando che quello DOTTRINA 237 tazione della legge e per la sua applicazione, si ricorra al metodo per approssimazione, nonostante il relativo concetto e le sue applicazioni sembrino non aver ancora ricevuto, da parte della scienza giuridica, l’attenzione che essi meriterebbero. La rilevanza dell’approssimazione per il diritto deriva, anzitutto, dal fatto che il fenomeno giuridico è costituito in gran parte dal formante normativo e dal fatto che le norme giuridiche sono strutturate per categorie, ossia per ge-neri, quasi sempre di livelli differenti, cosicché ogni volta che una norma deb-ba essere applicata, si pone il problema della riconduzione alle categorie generali, da essa impiegate per la scelta dei tre suoi elementi strutturali non standardizzati - oggetto, contenuto e destinatari -, dei corrispondenti elementi della fattispecie di grado ultimo, o specie infima, <> (11). È il problema della sussunzione del fatto di specie ultima sotto la sua norma regolatrice. Se il genere utilizzato dalla norma è così ampio e così elevato da abbracciare molteplici generi subordinati, intermedi fino al grado della specie ultima, e se le specie ultime possono essere determinate secondo la libera volontà delle parti, la sussunzione è inevitabilmente, per la natura logica delle cose, gravata dell’onere dell’approssimazione. La complessità dell’assolvimento di tale onere risulta particolarmente evidente in tutte le ipotesi in cui il formulatore delle norme impieghi dei concetti giuridici indeterminati e tutte le volte che le fattispecie ultime siano tanto variabili da poter esser determinate solo probabilisticamente, proprio come avviene per le molecole dei gas, per la fisica subatomica, per i fatti economici e per i che si sa è quello che si crede che credano anche gli altri (p. 46). Quando questa concordanza, o accettazione o convenzione, sul significato delle proposizione linguistiche normative non si riesca a stabilire, si può o si deve ricorrere ad un’autorità, che non è la generica <> (p. 29), ma l’autorità di quegli uomini cui sia stato conferito il potere di comando - eteronomo - di fissare per altri il punto e la linea di concordanza, cioè quale sia la conoscenza - della specie della scienza o del giudizio - da assumere come certa. A quel punto non si può più “congetturare”, ma si tratta di “credere” e, se quell’autorità è un giudice subordinato alla legge, si tratta di “credere nella legge” (p. 81). Per l’inquadramento del contributo di Wittgenstein alla certezza nel suo sistema di pensiero v. ALDO G. GARGANI Introduzione a Wittgenstein. Roma-Bari, Laterza 1988, 4.ed., 103-104. Della sintetizzata teoria convenzionale del linguaggio si è fatta espressa applicazione nella giurisprudenza della Corte di cassazione per l’individuazione del regime dell’incertezza normativa oggettiva; vedansi, in proposito, le sentenze di base: 28 novembre 2007, n. 24670, 21 marzo 2008, n. 7765, 11 settembre 2009, n. 19638. (11) La distinzione tra elementi standardizzati ed elementi non standardizzati della norma giuridica è operata da Achille MELONCELLI Manuale di diritto pubblico. Milano, Giuffrè, 2005, 3.ed., 44 ss. Quanto alla contrapposizione genere/specie, fondamentale per l’interpretazione normativa, i concetti e il lessico qui utilizzati sono ispirati alla nota dottrina di PORFIRIO Isagoge. Milano, Rusconi Libri, 1995, 57 ss. e, in particolare, 67. Sulla mediazione tra platonismo ed aristotelismo operata da Porfirio v. Giuseppe GIRGENTI L’Isagoge di Porfirio nell’ottica della concordia tra Platone ed Aristotele, in PORFIRIO Isagoge. Milano, Rusconi Libri, 1995, 7 ss. Sui problemi connessi all’impiego, in generale, della teoria porfiriana della classificazione per generi e per specie, Umberto ECO L’antiporfirio, in Gianni VATTINO - Pier Aldo RAVATTI Il pensiero debole. Milano, Feltrinelli, 1988, 52 ss.; Umberto ECO Semiotica e filosofia del linguaggio. Torino, Einaudi, 1984, 91 ss., 150 ss., 183, 190 ss., 193. 238 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 fatti sociali. Il ricorso alla probabilità e, quindi, all’approssimazione pone dei problemi delicati dal punto di vista epistemologico, se è vero che, <> (12). Non è affatto scandaloso, dunque, che all’approssimazione si ricorra talvolta anche nell’esperienza giuridica ed è tanto più doveroso metterlo in ri-lievo quanto più si constati che il suo impiego è ben frequente e di particolare rilievo. Basti pensare all’interpretazione normativa analogica, sia sotto la specie dell’analogia legis sia sotto la specie dell’analogia iuris, per l’utilizzazione che ciascuna di esse comporta degli altri insiemi di fenomeni - diversi dalla fattispecie ultima in esame - laterali o superiori, nella piramide della classificazione porfiriana dei fenomeni specificativi, a vari livelli, dell’unico genere sommo (13). All’approssimazione, tuttavia, si ricorre anche quando si debbano operare valutazioni inevitabilmente qualitative; ne è un esempio quanto mai significativo l’accertamento della conoscenza posseduta da un soggetto, come accade per gli esami scolastici (14) o per i procedimenti concorsuali (15). Si opera per approssimazione, poi, anche ogni volta che per la determinazione dell’esistenza di un fatto, per il suo accertamento, ci si avvalga del rapporto di causalità e si presuma che, dato un fatto noto, esso trovi la sua causa in un fatto ignoto precedente, che, pertanto, risulta accertato proprio in quanto causa del fatto conosciuto. È la tecnica di prova, abbondantemente usata nell’esperienza giuridica, della presunzione. Più recentemente si è operato un altro tentativo di approssimazione: si è proposto di sostituire la tecnica di approssimazione della presunzione con la più precisa, ma sempre approssimativa, tecnica della semanticità, rilevandosi l’identificazione tra segno e senso, tra sintomi di un fatto e il fatto stesso, che è tecnica più precisa della presunzione perché consente il rinvio da sé a sé. Già la legge operava così - intuitivamente, si (12) Karl POPPER Logica della scoperta scientifica. Il carattere autocorrettivo della scienza. Torino, Einaudi, 1970, 213. (13) L’applicazione del pensiero di PORFIRIO Isagoge. Milano, Rusconi Libri, 1995, si manifesta particolarmente proficuo nell’interpretazione normativa per analogia. (14) Per la cui valutazione si opera un’approssimazione tanto che ci si esprima in termini numerici - il cosiddetto voto - quanto che ci si esprima con lettere (A, B, C e così via), o usando categorie falsamente qualitative (insufficiente, sufficiente, mediocre, buono, ottimo, eccezionale o analoghe). (15) Così, ad esempio, nel procedimento di concorso ad impiego pubblico, lo scopo di determinare quale sia l’idoneità di una persona fisica a svolgere un dato compito, comparandola con quella degli altri concorrenti, è così difficile che non si sfugge al difetto metodico della conversione delle qualità in quantità, attraverso la dosatura numerica o comunque il ricorso a categorie quantitative o linguistiche indeterminate. Più in generale, si può dire che tutti i concorsi pubblici - quello ad impiego pubblico, quello della scelta del contraente con l’amministrazione pubblica, le elezioni a cariche rappresentative - sono procedimenti di approssimazione, così come accade inevitabilmente anche per le selezioni del personale da parte dei privati, a dimostrazione della forza della natura delle cose, che, non a caso, è uno dei fattori condizionanti dell’interpretazione normativa. DOTTRINA 239 potrebbe dire - per l’eccesso di potere amministrativo e legislativo; ma la consapevole utilizzazione del contributo della semantica si riscontra, non solo negli studi giuridici sulla conoscenza dell’insolvenza dell’imprenditore (16), ma anche per la focalizzazione dei molteplici fenomeni realizzantisi “di fatto” (l’edificabilità di fatto di un’area, l’esistenza di una famiglia di fatto, la configurazione dell’amministratore di fatto della società commerciale o del rappresentante di fatto, la pericolosità sociale al fine della confisca di prevenzione). Questi fenomeni, o almeno alcuni di essi, potrebbero essere ricondotti alla categoria, di teoria generale del diritto, della situazione giuridica oggettiva, ossia a quella condizione che è giuridicamente rilevante in sé e per sé, ma che produce effetti anche nella sfera giuridica di quei soggetti che si vengano a trovare immersi in essa o che con essa abbiano comunque un contatto, cosicché la situazione giuridica oggettiva è sempre anche relativamente soggettiva. Quel fenomeno che i teorici generali del diritto chiamano situazione giuridica oggettiva ha una natura sostanziale semantica perché deriva la sua rilevanza giuridica, oggettiva e relativamente soggettiva, da quella che i semiologi hanno individuato come un “sistema di significazione”, come fatto genetico di un “processo di significazione” e che è portatrice di un “significato situazionale” (17). Con tali espressioni s’intende, da parte della semiologia, che, quando uno o più fatti, che, pur non essendo elementi di un codice, siano percepiti, da coloro che entrano in contatto con essi, come fatti che stiano per qualcosa d’altro, ci si trova dinanzi a una situazione significante o a un significato situazionale (18). In particolare, si segnala che, in applicazione, proprio in materia tributaria, di questa nuova impostazione teorica interdisciplinare, la tecnica approssimativa della presunzione, che è quella standard adottata dai giuristi, è stata sostituita dalla tecnica di approssimazione categoriale per l’esercizio di poteri provvedimentali riguardanti fenomeni futuri; è la soluzione adottata recen- (16) FrancescoMELONCELLI La conoscenza dello stato d’insolvenza nella revocatoria fallimentare. Milano, Giuffrè, 2002. (17) Umberto ECO Trattato di semiotica generale. Milano, La nave di Teseo, 2016 [1975], 29-30; ID. Semiotica e filosofia del linguaggio. Torino, Einaudi, 1984, 65 ss. (18) Stefano GENSINI Elementi di semiotica. Roma, Carocci, 2015, 32. Occorre, peraltro, guardarsi dalle applicazioni indiscriminate di tali delicati strumenti interpretativi, evitando di seguire la tendenza della cultura contemporanea <>, come consiglia Umberto ECO Semiotica e filosofia del linguaggio. Torino, Einaudi, 1984, 300. Per un esempio d’impiego incauto dei concetti della semiologia nell’ambito del diritto commerciale, v. Fabio IOZZO Le azioni di responsabilità nella s.r.l. tra vecchia e nuova disciplina, in Giurisprudenza commerciale 2005, II, 53 ss., il quale, facendo proprie un buon numero di pagine già dedicate all’insolvenza nella mia monografia poc’anzi già citata, le ha acriticamente riferite all’“incapienza”, cosicché anche l’incapienza è diventata d’emblée un fenomeno semantico. Per una più approfondita critica, con altre argomentazioni, all’uso distorto del metodo in argomento e ai consequenziali erronei risultati, v. anche Francesco MELONCELLI Azione di responsabilità spettante [d]ai creditori sociali e prescrizione, in Giurisprudenza commerciale 2006, I, 691 ss. 240 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 temente per la determinazione del valore di mercato dei beni oggetto di atti da sottoporre a registrazione (19). 5. L’accertamento per approssimazione nel transfer pricing. Tutto ciò premesso e brevemente illustrato sul piano della teoria generale, per dar conto della base su cui si fondano le considerazioni che si stanno svolgendo, torniamo al nostro tema per mettere in evidenza che anche nel transfer pricing la natura delle cose impone che l’accertamento del valore sia effettuato con un metodo approssimativo che si applica ad una situazione giuridica oggettiva, portatrice di un significato situazionale. Infatti, anche se il legislatore non lo enuncia espressamente, prendendosi atto che non può mai giungere a costituire un automatismo ogni tentativo, anche delle autorità doganali, d’indicare dei criteri guida, generali, in base ai quali le imprese possano regolarsi per determinare le loro politiche di prezzi infragruppo, la legge prevede, come ratio del sistema, che per l’applicazione dei dazi doganali sia effettuata una valutazione per approssimazione. Ciò è per un verso positivo, perché consente un’estrema flessibilità e l’adeguamento del sistema normativo al caso specifico. Per altro verso, ciò rende più difficile la programmazione dell’attività d’impresa. Sarà, quindi, una sfida per il futuro quella di contemperare le due esigenze, per lo meno a legislazione vigente. Ritornando all’accettabilità del valore, essa si realizza se il valore dichiarato in dogana è vicino a quello che si può determinare applicando uno dei tre seguenti metodi. Il primo è chiamato metodo del confronto di prezzo tra soggetti non correlati per merci identiche o simili. È il metodo in base al quale l’autorità doganale ricerca il valore di transazione effettivo di compravendite effettuate tra soggetti che non appartengono al gruppo di imprese che ha effettuato la transazione oggetto di verifica - e in questo caso si dice che il confronto è esterno - oppure tra uno dei soggetti che fa parte di un gruppo ed un soggetto da esso indipendente - e in questo caso si dice che il confronto è interno. È ovvio che queste ultime transazioni danno maggiore affidabilità circa la corrispondenza a realtà del valore di transazione rispetto alle operazioni infragruppo, in cui l’artificiosità del prezzo può essere più facilmente preordinata. E si noti che le merci devono essere identiche o simili secondo il significato indicato dalle norme: la relazione d’identità o similarità di merci è indicata nell’art. 30 del Codice Doganale Comunitario del 1992 e nell’art. 142 del Reg. CE di attuazione del 1993, n. 2454. Il secondo metodo è quello del prezzo di rivendita tra soggetti non correlati per merci identiche o simili. In estrema sintesi, si verifica quale sia il (19) CTR Lazio 24 novembre 2015, n. 6261/4/15. DOTTRINA 241 prezzo a cui viene rivenduto il bene che è stato compravenduto al fine dell’importazione e si scomputano a ritroso un margine di profitto e altri elementi per giungere al costo originario della transazione. Il terzo è il metodo del costo maggiorato tra soggetti non correlati per merci identiche o simili. Questa volta si parte dal costo del bene e vi si aggiungono i margini di profitto di ogni impresa che effettua la transazione fino ad arrivare a quella che interessa. Questi sono i tre metodi principali. Ve ne è, per la verità, un altro residuale, che è un metodo calcolato e dedotto, quando, mancando qualunque riferimento esterno, si possono utilizzare quegli elementi specifici, che sono indicati dall’art. 30 del Codice doganale comunitario e che chiunque può verificare analizzando il testo normativo, per giungere comunque alla determinazione di un prezzo da comparare con quello dichiarato nell’operazione relativa al transfer pricing. Segnalo anche, come ultimo elemento strutturale, che si evince dalla definizione normativa del fenomeno, che l’accettabilità del valore dichiarato relativo all’operazione infragruppo dipende anche dal livello commerciale al quale avviene la transazione all’interno del gruppo, dalla quantità della merce trasferita e anche dal raffronto tra i costi che un soggetto sopporta in una catena di vendita infragruppo e quelli che vengono sopportati in una catena all’esterno del gruppo, che possono essere differenti. Sono tutti elementi che inducono ancora una volta a ritenere che nel sistema normativo doganale si miri ad individuare il valore concreto dell’effettiva operazione svolta. 6. La parametrazione esterna. Il concetto di transfer pricing rilevante nel diritto doganale può esser meglio identificato se si effettua anche una parametrazione esterna, operando un confronto con un fenomeno simile, costituito dal transfer pricing nell’imposizione sul reddito, la cui disciplina è contenuta negli art. 110 e 9 TUIR. In particolare, l’art. 110 TUIR prevede che i componenti del reddito di un membro di un gruppo di società siano valutati al valore normale. È utile individuare prima quali siano gli elementi distintivi che contrappongono la definizione del transfer pricing, rilevante ai fini dell’imposizione diretta, con quelli che caratterizzano il transfer pricing rilevante nel settore doganale. Si deve evidenziare, anzitutto, che una differenza concerne il concetto di legame, perché nell’imposizione sui redditi ci si richiama al concetto di controllo ex art. 2359 cc, quindi a un concetto molto specifico che riguarda i gruppi di società e non anche i gruppi d’imprese, che è un fenomeno più ampio, e per di più con richiamo al concetto di influenza dominante e non di influenza notevole, perché solo l’influenza dominante dà luogo al controllo societario, mentre il concetto di legame nel diritto doganale è molto più ampio e molto più specificato dalla legge, tant’è vero che si prendono in considera- 242 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 zione anche i legami di parentela tra soggetti, i legami tra gli amministratori e così via (v. art. 143 Reg. com. di attuazione) (20). Altro elemento distintivo del transfer pricing doganale dal transfer pricing reddituale è la rilevanza giuridica attribuita ai fini dell’imposta diretta solo nel caso in cui si produca un aumento del reddito, cioè solo nel caso in cui la fattispecie si arricchisca strutturalmente di un altro fatto, altrimenti (caso della diminuzione di reddito, che non sia però oggetto di un trattato sulla doppia imposizione) restando irrilevante la fattispecie del transfer pricing, per così dire, ridotta di quel dato (aumento del reddito). In altri termini, se il prezzo è artificiosamente aumentato nella transazione internazionale perché la società di diritto italiano, in qualità di acquirente, può dedurre dal proprio reddito in misura maggiore rispetto a quella corrispondente alla realtà, il fenomeno è rilevante; se, invece, la società italiana paga un prezzo inferiore, e quindi il suo reddito imponibile non diminuisce, il fenomeno è irrilevante, a meno che l’Italia non abbia stipulato un accordo internazionale a salvaguardia dell’imposizione dello Stato contraente. Invece, secondo il diritto doganale, il transfer pricing è rilevante qualunque sia il valore doganale che ne subisce l’influenza, cioè tanto se esso sia in aumento quanto se esso sia in diminuzione. Da notare, poi, un’altra differenza: mentre nel diritto doganale il valore normale viene determinato con riferimento a casi singoli, quindi sempre puntuali, secondo metodi precisi e ben graduati nella loro utilizzabilità, l’art. 110 TUIR, richiamando l’art. 9 dello stesso atto normativo, si avvale di un diverso concetto di valore normale, perché fa riferimento alla stima dei prezzi effettuati nelle transazioni di beni simili o identici, cioè appartenenti alla stessa specie, come ci accingiamo a mostrare, considerati non puntualmente, ma nel loro valore medio, ossia mediante il richiamo a una normalità. Non a caso la legge italiana parla di “valore normale”, mentre la normativa comunitaria non parla di normalità del valore, ma di un valore di comparazione o di un valore comparato. Più specificamente, da una parte, nel diritto interno si fa riferimento a un valore medio, quindi a un valore non reale, che potrebbe non essere proprio di alcuna transazione, proprio perché si tratta di un valore calcolato su valori reali; dall’altra parte, si deve sottolineare la voluta aderenza del diritto doganale alla realtà vissuta, storica, perché il valore da confrontare dev’essere un valore reale, nel senso che si dev’essere verificato che almeno una transazione sia stata effettivamente conclusa ad un dato prezzo che non sia un prezzo fissato infragruppo. Se questo non esiste, si ricorre allora al sistema sussidiario del valore calcolato dall’Agenzia delle dogane utilizzando qualunque elemento informativo a disposizione. In entrambi i casi si tratta di una determinazione del valore per approssimazione: nel valore reddituale l’approssimazione deriva (20) Sul punto vedasi ora Corte di cassazione 22 aprile 2016, n. 8130. DOTTRINA 243 dall’utilizzazione di un valore categoriale di genere superiore a quello in cui si colloca la specie ultima in esame; nel valore doganale si assume come riferimento almeno una transazione verificatasi allo stesso livello di genere/specie. È una differenza molto importante, perché, come stiamo per vedere, si collega alla stessa funzione dell’istituto. Desidero, infine, mettere in rilievo anche un’altra differenza: nel fare il confronto per verificare se il valore dichiarato è il valore accettabile al fine dell’imposizione, il diritto doganale nell’art. 142 del DAC fa riferimento o alle merci identiche o alle merci similari, cioè appartenenti a specie contigue dell’albero porfiriano, sia in senso orizzontale (specie dello stesso livello, similarità orizzontale) sia in senso verticale (specie di livello superiore o inferiore); nell’affermare che si possano individuare transazioni su beni identici, l’art. 142 definisce le merci identiche come le merci prodotte nello stesso paese e uguali sotto tutti gli aspetti, ivi comprese le caratteristiche fisiche, la qualità e la rinomanza. È vero che poi si dice che le differenze di scarso rilievo non impediscono di considerare identiche merci conformi alla presente definizione; però, le merci devono essere uguali. La legislazione interna, invece, non solo, come ho appena accennato, prende in considerazione la media tra valori di transazioni effettuate su merci simili, ma, senza richiamare l’identità della merce in alternativa all’appartenenza delle merci a specie simili, afferma che le merci oggetto del confronto possono appartenere alla stessa specie o a specie simili. Quindi, i due ambiti del confronto non coincidono, realizzando approssimazioni alla realtà di grado diverso. Per quanto riguarda, invece, le similarità tra i due regimi, faccio presente che i valori sono confrontabili se si prendono in considerazione transazioni dello stesso livello commerciale, dello stesso luogo approssimato e dello stesso tempo approssimato. Le transazioni da comparare, infatti, devono essere effettuate più o meno nello stesso periodo di tempo, più o meno nello stesso luogo e devono riguardare beni simili e o identici secondo le definizioni già fornite. B) Il regime giuridico del valore doganale. 7. Dalla struttura alla funzione. Una volta che abbiamo esaminato gli elementi strutturali principali del fenomeno, anche effettuandone un confronto con fenomeni simili, possiamo enuclearne il regime giuridico fisiologico: se il valore dichiarato in dogana, relativo a una transazione infragruppo, è accettabile, si applica il regime ordinario, cosicché il valore dichiarato è quello posto alla base del sistema di applicazione del dazio. Se, invece, il valore dichiarato è effetto di un transfer pricing, cioè di un processo di aggiustamento artificioso del prezzo, e quindi il valore dichiarato non è accettabile, in quanto influenzato da rapporti di grup- 244 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 po, allora deve aver luogo la rettifica da parte delle autorità doganali secondo uno dei metodi secondari di determinazione del valore in dogana previsti dall’art. 30 del Codice doganale comunitario del 1992 o dall’art. 74 del Codice doganale comunitario del 2013, cioè secondo uno dei metodi da utilizzare per la comparazione dei prezzi. Quindi, il valore viene riportato a quello normale, nel senso doganale del termine. Dal punto di vista strutturale del regime fisiologico del fenomeno possono evincersi i suoi aspetti funzionali. Poiché la funzione di un istituto giuridico si desume anzitutto dall’analisi degli effetti e poiché il principale effetto del transfer pricing è la riconduzione del valore doganale al valore temperato, al valore ricalcolato secondo un criterio di probabilità, di normalità approssimata, se ne deduce che il principale scopo della normativa - non l’unico - è quello antielusivo; si vuole evitare, infatti, che gli operatori si attribuiscano volontariamente un vantaggio fiscale ingiustificato economicamente. Che quello antielusivo non sia l’unico scopo del valore doganale nel transfer pricing è stato, per la verità, recentemente evidenziato da una parte della dottrina. L’osservazione merita di essere condivisa, se si tiene conto delle ragioni economiche che possono essere sottese ad una preventiva determinazione dei prezzi all’interno di un gruppo. Ne ricordo qualcuna: l’esigenza di palesare una maggiore profittabilità nella società capogruppo quotata rispetto alle società figlie; l’esigenza di influenzare la valutazione di credito di alcune società del gruppo; l’intento di minimizzare l’utile quando siano presenti soci di minoranza per non distribuire loro degli utili oltre una certa misura; lo scopo di assolvere la richiesta di liquidità di singole imprese all’interno del gruppo, perché mediante l’aggiustamento dei prezzi si determina, invero, un ricarico di costi maggiori o minori dell’una o dell’altra. Addirittura, secondo alcuni, una delle finalità potrebbe essere quella di scoraggiare le rivendicazioni salariali locali. Insomma, il prezzo di trasferimento può dipendere anche da finalità economiche relative al mercato di sbocco o al prezzo finale dei propri prodotti: un’impresa deve tener conto che in un certo mercato non può vendere oltre un certo prezzo, che può dipendere dalle caratteristiche di un mercato o di un sottomercato. In estrema sintesi, la ragione economica dell’aggiustamento di prezzo potrebbe essere indipendente dalla finalità di ottenimento di un vantaggio fiscale, ma potrebbe risiedere nel modello di attività economica adottato dal gruppo. Se tutto ciò fosse vero, bisognerebbe considerare attentamente la possibilità di difesa del contribuente rispetto ad un’attività di transfer pricing che non abbia una finalità elusiva. La legge, del resto, non esclude che la finalità del transfer pricing possa essere diversa rispetto a quella di limitare la potestà impositiva statale; la legge stessa, tuttavia, sembra connotare negativamente il fenomeno, prediligendo la finalità di ripristino della corretta allocazione della base imponibile, secondo il principio di territorialità per l’imposta sui DOTTRINA 245 redditi per effetto del criterio approssimato di valore normale e secondo, invece, il principio di effettività temperata, volto ad ottenere una realistica individuazione del valore doganale ai fini dell’applicazione dei dazi doganali. 8. Il fondamento dell’istituto. In ogni caso, dalle funzioni così enucleate può trarsi il fondamento dell’istituto: la legge, anche comunitaria, prende in considerazione il transfer pricing per contemperare interessi contrapposti: da un lato, gli interessi delle imprese alla libertà dell’iniziativa economica (art. 41 Cost.), alla libera circolazione delle merci, all’istituzione di un mercato unico interno, all’istituzione di unione doganale (art. 26 28 e 32 TUE), con il connesso interesse a che la concorrenza si svolga lealmente e, quindi, che l’artificiosità del prezzo non venga utilizzata per sfruttare vantaggi fiscali ingiustificati; dall’altro, si contrappongono gli interessi erariali all’incasso dell’effettivo debito tributario commisurato alla capacità contributiva. C) Il regime processuale del valore doganale nel transfer pricing. 9. Dai profili sostanziali a quelli processuali. Il regime giuridico del valore doganale nel transfer pricing di diritto comunitario presenta, oltre agli aspetti strutturali e funzionali di natura sostanziale che si sono appena illustrati, anche alcuni interessanti profili processuali, come, in particolare, quelli riguardanti la prova processuale dell’istituto. 10. Il fattore temporale della dichiarazione in dogana. Preliminarmente devo segnalare che la giurisprudenza in ambito doganale è scarsissima; maggiore è quella nel settore delle imposte sui redditi. Tuttavia, dalle poche sentenze in argomento si può evincere un dato di fatto assodato, cioè che il fattore temporale della dichiarazione in dogana assume molta rilevanza. Stando alla sentenza della Corte di cassazione 27 marzo 2013, n. 7716, il transfer pricing che sia effettuato dalle società del gruppo successivamente alla dichiarazione presentata in dogana è irrilevante ai fini dei dazi doganali. In altri termini, non può essere effettuata una rettifica né d’ufficio né su istanza di parte, che sia basata su aggiustamenti di prezzo che le società del gruppo abbiano effettuato mediante accordi contrattuali stipulati, in seguito alla dichiarazione doganale, che aggiustino il prezzo dichiarato in dogana. In assenza di quell’accordo, se non sussistono altre condizioni, l’accordo dichiarato è accettato. In ogni caso, il sistema, afferma la Corte di cassazione, è impostato nel senso che il valore doganale è un valore puntuale, cioè è il valore che ha la merce al momento della transazione effettuata per l’importazione. Ciò esclude che il transfer pricing sia rilevante giuridicamente quando il fenomeno si venga a creare successivamente alla dichiarazione doganale. 246 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 11. L’onere della prova. Questo è uno dei pochi problemi specifici di anomalia che è stato risolto dalla giurisprudenza. Si potrebbe dire che sussiste il regime ordinario per l’onere della prova, per cui spetta al dichiarante denunciare il valore, mentre incombe sull’autorità doganale l’onere di contestazione sulla base di dubbi fondati: essa deve fornire la dimostrazione della fondatezza dei dubbi, attraverso le informazioni fornite dal dichiarante oppure mediante elementi conoscitivi tratti da altre fonti che attestino l’influenza della relazione soggettiva sul prezzo. È bene precisare che si discute ampiamente in dottrina sull’identificazione delle informazioni del dichiarante di cui l’autorità doganale può tener conto, perché è attuale il problema dell’efficacia probatoria dei documenti relativi alle politiche strategiche del gruppo relative al transfer pricing che vengono elaborate per iscritto dal gruppo di imprese per dimostrare il valore normale in caso di contestazione da parte dell’Agenzia delle entrate per le imposte sui redditi. Riterrei che sarebbe bene che questi documenti potessero e dovessero essere valutati anche dall’autorità doganale, ovviamente secondo i criteri imposti dalla legge per il diritto doganale. Sarà, quindi, onere del gruppo d’impresa elaborare quei documenti per tener conto della diversità delle discipline che abbiamo visto esser ineliminabile al momento attuale. Sarebbe anche opportuno, perciò, che nel settore doganale si estendesse quella norma, contenuta nell’art. 26.1 DL 31 maggio 2010, n. 78, convertito in L. 30 luglio 2010 n. 122, introduttiva del comma 2-ter nell’art. 1 DLgs 18 dicembre 1997, n. 471 (21), in base alla quale non si applicano le sanzioni previste dal comma 2, nell’ipotesi in cui, ove l’Agenzia delle entrate ritenesse non corretta la stima del valore di transazione in conformità al valore normale, il gruppo di società presenti preliminarmente all’Agenzia delle entrate propri documenti sul transfer pricing; si premierebbe così il comportamento leale (21) L’art. 26.1 DL 31 maggio 2010, n. 78, è così formulato: <<1. A fini di adeguamento alle direttive emanate dalla Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico in materia di documentazione dei prezzi di trasferimento ed ai principi di collaborazione tra contribuenti ed amministrazione finanziaria, all'articolo 1 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, dopo il comma 2-bis, è inserito il seguente: «2-ter. In caso di rettifica del valore normale dei prezzi di trasferimento praticati nell'ambito delle operazioni di cui all'articolo 110, comma 7, del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, da cui derivi una maggiore imposta o una differenza del credito, la sanzione di cui al comma 2 non si applica qualora, nel corso dell'accesso, ispezione o verifica o di altra attività istruttoria, il contribuente consegni all'Amministrazione finanziaria la documentazione indicata in apposito provvedimento del Direttore dell'Agenzia delle Entrate idonea a consentire il riscontro della conformità al valore normale dei prezzi di trasferimento praticati. Il contribuente che detiene la documentazione prevista dal provvedimento di cui al periodo precedente, deve darne apposita comunicazione all'Amministrazione finanziaria secondo le modalità e i termini ivi indicati. In assenza di detta comunicazione si rende applicabile il comma 2». DOTTRINA 247 di ostensione anticipata delle imprese nei confronti dell’autorità fiscale. Le autorità doganali godono di amplissimi poteri nell’assumere le informazioni, ma non si può arrivare, a mio avviso, fino al punto di obbligare le imprese a mostrare la documentazione preventivamente creata per supportare il valore di transazione della merce per la compravendita infragruppo, perché vale il principio nemo tenetur se detegere, cioè nessuno può essere obbligato a denunciare se stesso. Tuttavia, la fornitura di questi documenti dovrebbe essere apprezzata come comportamento leale nei confronti dell’autorità fiscale. Si potrebbe, inoltre, suggerire che un altro elemento di prova per la aderenza alla realtà di mercato del valore doganale dichiarato nell’operazione infragruppo possa essere desunto dal bilancio di società - in particolare delle società di capitale italiane, ma discorso analogo si potrebbe fare per le società europee - visto che i bilanci delle società di capitali sono stati oggetto di uniformazione nel diritto comunitario. Mi riferisco all’art. 2428, n. 2, cc, nel quale si prevede che all’interno della relazione di gestione, scritta dagli amministratori della società, siano illustrati i rapporti infragruppo. Se gli amministratori delle società non si limitassero ad intendere formalisticamente questa previsione, cioè nel senso che sarebbe loro prescritto solamente di enunciare i rapporti di gruppo, ovverosia l’appartenenza di gruppo, ma anche d’illustrare in concreto come si svolgano i rapporti di gruppo, si potrebbe ben pensare che assumano rilevanza nella relazione di gestione anche le politiche di prezzo assunte dal gruppo e dovrebbero, quindi, anch’esse essere espresse almeno nelle loro linee essenziali. Le autorità doganali ne trarrebbero un ausilio per la valutazione del valore di transazione effettivamente corretto. 12. La prova dell’abuso di diritto. Un secondo problema merita attenta considerazione: muovendosi sempre nel campo patologico, non è ben chiaro se debba essere data la prova dell’abuso del diritto, se cioè l’artificiosità del prezzo debba essere collegato con la volontà di ottenere un vantaggio fiscale ingiustificato economicamente. Non è ben chiaro, infatti, se l’onere della prova riguardi soltanto la normalità e l’accettabilità del valore di transazione rispetto al valore normale tra soggetti indipendenti o se debba essere dimostrato anche l’intento elusivo; o se il contribuente possa giustificare l’operazione, cioè l'accettabilità del prezzo, soltanto sulla base di criteri prettamente oggettivi, cioè la comparazione con le altre transazioni secondo i metodi previsti dalla legislazione doganale o se possa essere utile per lui anche fornire la giustificazione economica di un siffatto valore anomalo. In altri termini, ci si domanda se l’anomalia possa venir meno anche quando il valore si discosti eccessivamente, quindi non sia vicino a quello normale, qualora il contribuente possa fornire quella giustificazione economica che può sussistere relativamente ad obiettivi, non fiscali, della politica dei prezzi. 248 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 Resta, comunque, fermo che gli elementi forniti dall’Agenzia delle dogane non costituiscono una presunzione assoluta, ma una presunzione relativa, cosicché è lasciata al contribuente la possibilità di fornire prova contraria: la scelta se attribuire o no un peso alla giustificazione economica e, quindi alla natura del valore non abusivo del valore doganale dichiarato, dipende dalla nozione che si abbia della funzione dell’istituto. Questo ha dei riflessi molto importanti anche relativamente al collegamento con il principio di capacità contributiva, perché, se il contribuente potesse fornire la giustificazione di un valore anomalo sulla base di ragioni economiche, l’imposizione sarebbe effettivamente più aderente alla sua capacità contributiva; se, invece, ciò fosse impedito, e tanto più nel regime interno di transfer pricing nell’imposizione sui redditi che fa riferimento alla media dei valori, la capacità contributiva tenderebbe a tramutarsi in una capacità contributiva categoriale, sulla cui compatibilità con la Costituzione si potrebbero nutrire seri dubbi, proprio in quanto categoriale, derivante cioè da una media. Questo indurrebbe, quindi, a ritenere che si debba riconoscere al contribuente la possibilità di fornire una giustificazione economica del fenomeno e che, pertanto, ciò possa rendere accettabile l’aggiustamento del prezzo ancorché non sia vicino a quello assunto come normale. Nel campo doganale, però, questa conclusione sembra contrastata dal diritto positivo, perché, come ho evidenziato precedentemente, l’art. 29 del Regolamento del 1992 definisce come accettabile, cioè non influenzato dal transfer pricing, il valore che è molto vicino al prezzo di confronto. Questo è un dato oggettivo: a prescindere dalle ragioni economiche, il valore dichiarato dev’essere molto vicino, altrimenti il prezzo è anomalo e, quindi, non può essere accettato. E ciò dà complessivamente maggior certezza al sistema. Data l’assenza di giurisprudenza in argomento, non posso che evidenziare la problematica, senza pretendere di fornire soluzioni definitive, e segnalare quindi che il tema dell’onere della prova si presenta come un campo ancora tutto da arare. 13. Il concetto di legame. Tra le anomalie va inclusa anche l’interpretazione estensiva o restrittiva del concetto di legame, traendo spunto dalla giurisprudenza di legittimità in materia doganale, nella quale si sostiene che dovrebbe essere adottata l’interpretazione la più restrittiva possibile, perché per l’art. 143 DAC sono legate soltanto le imprese che presentano i rapporti descritti in un elenco, che, pur presentandosi come tassativo, è così lungo che il concetto adottato ne risulta vastissimo, come ho già avuto modo di sottolineare. Un altro spunto problematico è tratto dalla sentenza del 1980, n. C/111/79 della Corte di giustizia europea, la quale precisa che nel transfer pricing, perché sia accettabile il valore, l’autonomia commerciale è necessaria, ma non è DOTTRINA 249 sufficiente. La giurisprudenza comunitaria attribuisce rilevanza giuridica ad un fatto indice, al fine di giudicare anomalo il prezzo, per contrastare il cui valore probatorio appare doversi fornire una prova diabolica: anche se il contribuente dimostrasse che esiste effettivamente un’autonomia commerciale tra le società del gruppo, un prezzo sensibilmente inferiore a quello normale è considerato indice prevalente di relazioni finanziarie e commerciali o di altro genere che influenzano comunque il prezzo in maniera anomala. Se non incorro in qualche abbaglio, la sentenza risulta stranamente argomentata sotto il profilo logico, perché, se c’è autonomia commerciale riconosciuta, è difficile dire che il prezzo è anomalo solo perché è inferiore, deducendone la mancanza di autonomia commerciale. Un altro tema interessante sotto l’aspetto patologico è quello della similarità dei beni. Ci si domanda se questa qualità dei beni debba essere intesa nella prospettiva della natura delle cose o se si debba considerare rilevante anche la similarità del mercato di vendita. Infatti, due merci, che pure possano essere considerate fisicamente uguali, potrebbero essere completamente diverse e, quindi, avere prezzi diversi in mercati di vendita distinti. Si assuma ad esempio la differenza che è stata introdotta nel mercato delle sigarette elettroniche, in cui in un primo tempo, ai fini dell’imposta diretta sono state rese oggetto d’imposizione i caricabatterie, che possono essere utilizzati anche per altri scopi, qual è quello della ricarica dei telefonini. Tuttavia, quando - da una legge per la verità dichiarata poi incostituzionale dalla Corte costituzionale con sentenza 15 maggio 2015, n. 83 - venivano venduti insieme alle sigarette elettroniche, i caricabatterie subivano un’imposizione che non si applicava quando li si vendevano in un ordinario negozio di materiale elettrico. Trasferiamoci ora nel settore del diritto doganale; il produttore potrebbe differenziare i prezzi anche a seconda del mercato di destinazione: se il carica-batterie fosse stato destinato a un mercato (nell’esempio, il mercato delle sigarette elettroniche) cui si applica un’imposta indiretta che in un altro mercato non figura, potrebbe praticare un prezzo diverso - più alto o più basso - per tener conto del fatto che ivi ci si imbatte in un’imposta altrove inesistente. Potrebbe essere questa una politica di prezzi giustificatissima dal punto di vista economico, che induce a ritenere che la similarità dei beni, di cui parla il diritto doganale, non sia solo una similarità nel senso merceologico del termine, nel senso fisico caratteristico della natura delle cose, ma anche nel senso commerciale del mercato di sbocco, del luogo nel quale la merce è destinata ad essere venduta. C) Conclusione. A conclusione del cammino percorso si può ritenere che sia verificata l’ipotesi iniziale che il valore doganale nel transfer pricing sia un istituto giuri- 250 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 dico in senso proprio, perché si è potuto fornire, dopo l’iniziale descrizione del fenomeno, la sua definizione, sia positiva sia negativa e contrappositiva; attraverso l’analisi interpretativa strutturale, poi, si sono individuati gli elementi che ne compongono la struttura, mentre la successiva analisi interpretativa funzionale ha consentito di evidenziarne gli effetti, lo scopo e il fondamento. Così esaurito il profilo di normalità del regime del valore doganale nel transfer pricing, si sono, infine, illustrati alcuni dei principali aspetti di anomalia dell’istituto in connessione con i problemi processuali che sono ad essi collegati. Insomma, il sistema subnormativo che regola il valore doganale nel transfer pricing, alimentato dai tre fondamentali formanti del diritto - normazione, dottrina e giurisprudenza - ne fanno un istituto autonomo. BIBLIOGRAFIA ARROYO PÉREZ, Eduardo Boltzmann. La termodinamica e l’entropia. L’universo morirà di freddo. Milano, RBA Italia, 2013, 65 ss. AVOLIO, Diego - SANTACROCE, Benedetto - SBANDI Ettore La Corte di cassazione esclude il rimborso dei dazi in eccedenza per rettifiche "transfer pricing”, in Corriere tributario 2013, 2217 ss. BALLANCIN, Andrea Natura e ratio della disciplina italiana sui prezzi di trasferimento internazionali, in Rassegna tributaria 2014, 1 ss. BONTEMPO, Francesco Transfer pricing: le preziose indicazioni della Corte di Cassazione per smascherare le operazioni infragruppo con finalità elusive, in Fisco 2007, 33 ss. CAPOLUPO, Saverio D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito - Transfer pricing. 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Corte di cassazione 13 ottobre 2006, n. 22023. Corte di cassazione 16 maggio 2007, n. 11226. 252 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 Corte di cassazione 31 marzo 2011, n. 7343. Corte di cassazione 24 febbraio 2012, n. 2845. Corte di cassazione13 luglio 2012, n. 11949. Corte di cassazione 19 ottobre 2012, n. 17953. Corte di cassazione 20 dicembre 2012, n. 23551. Corte di cassazione 8 maggio 2013, n. 10742. Corte di cassazione 24 luglio 2013, n. 17955. Corte di cassazione 19 dicembre 2014, n. 27087 Corte di cassazione 24 luglio 2015, n. 15642. Corte di cassazione 18 settembre 2015, n. 18392. Corte di cassazione 22 aprile 2016, n. 8130. GIURISPRUDENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA (CGUE) CGUE 13 marzo 1980, in causa C-111/79. CGUE 17 luglio 1997, in causa C-242/95. CGUE 17 luglio 1997, in causa C-142/96. CGUE 5 dicembre 2002, in causa C-379/00. CGUE 20 novembre 2003, in causa C-152/01. CGUE 16 gennaio 2003, in causa C-422/00. CGUE 20 ottobre 2005, in causa C-486/03. CGUE 23 febbraio 2006, in causa C-491/04. CGUE 16 novembre 2006, in causa C-306/04. CGUE 6 novembre 2008, in causa C-248/07. CGUE 19 marzo 2009, in causa C-256/07. CGUE 15 luglio 2010, in causa C-354/09. CGUE 12 dicembre 2013, in causa C-116/12. CGUE 27 febbraio 2014, in causa C-571/12. CGUE 13 marzo 2014, in causa C-29/13 e C-30/13. CGUE 25 giugno 2015, in causa C-187/14. CGUE 21 gennaio 2016, in causa C-430/14. DOTTRINA 253 Gli effetti dell’annullamento dell’aggiudicazione sul contratto Alfonso Mezzotero* e David Romei** SOMMARIO: 1. Premessa - 2. La tesi dell’annullabilità del contratto - 3. La tesi della nullità del contratto - 4. La tesi dell’inefficacia del contratto - 5. La tesi della caducazione automatica del contratto - 6. La soluzione accolta dal legislatore - 7. Le sanzioni alternative - 8. I profili risarcitori. 1. Premessa. Particolarmente dibattuto negli ultimi anni, anche in ragione della sua estrema rilevanza pratica, è il tema delle conseguenze determinate dall’annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione sulla sorte del contratto medio tempore stipulato dall’Amministrazione. La questione, prima dell’abrogazione a far data dal 19 aprile 2016 (1), rinveniva una sua espressa disciplina negli artt. 245-bis e 245-ter, d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (c.d. Codice degli appalti), che contenevano delle mere norme di rinvio alle norme dettate sul punto dal codice del processo amministrativo. In particolare, il rinvio è agli artt. 121 e 122 c.p.a., i quali, a loro volta, riproducono il testo degli artt. 245-bis e 245-ter cod. app. così come riscritti dal legislatore a seguito del recepimento della direttiva ricorsi operata con il d.lgs. n. 53/2010. Le norme del codice del processo amministrativo costituiscono la risposta positiva del legislatore alla nota querelle che ha lungamente diviso tanto la dottrina quanto la giurisprudenza, sia ordinaria che amministrativa, circa la patologia che affligge il contratto allorquando il procedimento amministrativo prodromico alla sua stipulazione venga caducato dall’autorità giudiziaria ovvero dalla stessa amministrazione stipulante in via di autotutela. In questa sede non si analizzeranno i risvolti di carattere processuale che la problematica assume con riferimento al profilo del riparto di giurisdizione e, segnatamente, relativamente all’individuazione del giudice competente a decidere sulla sorte del contratto stipulato successivamente all’annullamento (giurisdizionale o in autotutela) dell’aggiudicazione definitiva (2), ma ci si soffermerà esclusivamente sui profili di diritto sostanziale della problematica e, in particolare, sulla natura del vizio che inficia il contratto in conseguenza (*) Avvocato dello Stato. (**) Avvocato. (1) Il d.lgs. n. 163/2006 è stato abrogato dall’art. 217, comma 1, lett. e), d.lgs. 19 aprile 2016, n. 50 (in Gazz. Uff. 19 aprile 2016, n. 91, S.O. n. 10) contenente il nuovo codice dei contratti pubblici. (2) Per un approfondimento sul tema, ci si permette di rinviare a MEZZOTERO - ROMEI, Il riparto di giurisdizione e gli strumenti di tutela, in Appalti e contratti pubblici. Commentario sistematico, a cura di F. SAITTA, Padova, 2016, ove ampi richiami di dottrina e giurisprudenza. 254 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 dell’annullamento dell’aggiudicazione, secondo le teorie nel tempo elaborate. 2. La tesi dell’annullabilità del contratto. La tesi più risalente, tradizionalmente fatta propria dalla giurisprudenza ordinaria, riteneva che il contratto stipulato a seguito dell’annullamento del provvedimento di aggiudicazione divenisse annullabile ai sensi dell’art. 1441 c.c. (3). Tale teoria muoveva dalla considerazione per cui gli atti amministrativi che precedono la stipulazione dei contratti conclusi jure privatorum dalla pubblica amministrazione rappresenterebbero dei meri mezzi di integrazione della capacità e della volontà dell’ente stesso, sicché i relativi vizi, attenendo alla capacità e volontà dell’ente pubblico, non avrebbero potuto che comportare l’annullabilità (relativa) del contratto. Il fondamento della richiamata impostazione risiedeva nella considerazione secondo cui le norme che disciplinano le procedure ad evidenza pubblica sarebbero poste esclusivamente a tutela dell’interesse dell’amministrazione, considerato che la loro funzione preminente sarebbe quella di assicurare la corretta formazione della volontà della parte pubblica nella scelta del miglior contraente possibile fra tutti i partecipanti alla gara (4). Ne derivava che, in ossequio alle regole civilistiche poste in materia di annullabilità, il vizio inficiante il contratto sarebbe stato deducibile, in via di azione o di eccezione, soltanto dal soggetto nel cui interesse erano poste le norme sull’evidenza pubblica violate, ovverosia il medesimo ente pubblico contraente (5), non potendo, di contro, derivare dall’annullamento dell’aggiudicazione alcun effetto caducatorio automatico sul negozio. Al terzo non aggiudicatario (che pure aveva ottenuto l’annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione illegittimamente disposta) la tesi in esame accordava una tutela meramente risarcitoria, non rientrando questi tra i soggetti legittimati ad agire al fine di ottenere l’annullamento del contratto. Corollario della su esposta impostazione era la possibilità attribuita alla (3) Cfr., ex plurimis, Cass. civ., sez. I, 26 luglio 2012, n. 13296, in Giust. civ. Mass., 2012, 7-8, 973 e in Giust. civ., 2013, 11-12, I, 2549; id., sez. III, 9 aprile 2009, n. 8707, in Giust. civ. Mass., 2009, 4, 616; id., sez. III, 10 ottobre 2007, n. 21265, ivi, 2007, 10 e in Giust. civ., 2008, 2, I, 357; id., sez. I, 30 luglio 2002, n. 11247, in Giust. civ. Mass., 2002, 1402; id., sez. II, 8 maggio 1996, n. 4269, in Contratti, 1997, 128, con nota di MUCIO e in Nuova giur. civ. comm., 1997, I, 518, con nota di SALANITRO; id., sez. I, 28 marzo 1996, n. 2842, in Giust. civ. Mass., 1996, 453 e in Foro it., 1996, I, 2054; id., sez. II, 21 febbraio 1995, n. 1885, ivi, 1995, 398. (4) In tal senso Cass. civ., sez. I, 17 novembre 2000, n. 14901, in Giust. civ. Mass., 2000, 2358. (5) A sostegno della teoria dell’annullabilità si v. S.S. SCOCA, Evidenza pubblica e contratto: profili sostanziali e processuali, Milano, 2008, 164 e ss.; GOISIS, In tema di conseguenze sul contratto dell’annullamento del procedimento di aggiudicazione conclusivo di un procedimento ad evidenza pubblica e di giudice competente a conoscerne, in Dir. proc. amm., 2004, 214 e ss.; M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, 1988, II, 847 e ss.; S. BUSCEMA - A. BUSCEMA, I contratti della pubblica amministrazione, in Trattato di diritto amministrativo, diretto da SANTANIELLO, Padova, 1987, 22 e ss. DOTTRINA 255 stazione appaltante di convalidare il contratto illegittimamente concluso in applicazione del disposto di cui all’art. 1444 c.c. (6). Nell’ambito dei sostenitori della c.d. tesi tradizionale, era possibile, ad ogni modo, riscontrare una serie diversificata di posizioni interpretative in ordine all’inquadramento teorico dell’annullabilità relativa. Per un primo indirizzo, l’annullabilità che vizierebbe il contratto in seguito all’annullamento dell’aggiudicazione sarebbe stata riconducibile ad un’ipotesi di incapacità a contrarre ai sensi dell’art. 1425 c.c. Un differente orientamento, invece, riconduceva l’annullabilità ad un vizio del consenso dell’amministrazione e, segnatamente, alla fattispecie dell’errore essenziale e riconoscibile disciplinata dagli artt. 1428 e 1429 c.c. (7). Infine, un’isolata e più risalente impostazione (peraltro, autorevolmente sostenuta), muovendo dalla premessa secondo cui tutti i vizi della procedura ad evidenza pubblica si tradurrebbero automaticamente in un difetto di potere rappresentativo dell’ente pubblico, inquadrava la fattispecie in esame nella disciplina del contratto concluso dal falsus procurator (8). Nella congerie di teorie emerse non è mancato chi, dubitando della correttezza sistematica delle su esposte posizioni, opinava nel senso che la figura dell’annullabilità relativa non potesse essere ricondotta solo ai tipici vizi della volontà contemplati dal codice civile (errore, violenza e dolo), ma avesse carattere più ampio ricollegandosi ad un vizio “atipico”, soltanto indirettamente riconducibile ad un difetto di volontà dell’amministrazione (9), sicché l’invalidità da esso derivante doveva essere più correttamente inquadrata in un tertium genus di annullabilità relativa peculiare dei soli contratti pubblici in seguito all’annullamento degli atti di gara (10). Malgrado la teoria (tradizionale) dell’annullabilità abbia lungamente prevalso nella giurisprudenza civile, ben presto la dottrina, sulla scia di diverse pronunce del Consiglio di Stato (11), ha rivisitato in chiave critica tale approccio dogmatico (12). (6) Cfr. Cass. civ., sez. I, 30 settembre 2004, n. 19617, in Giust. civ. Mass., 2004, 11; id. 28 marzo 1996, n. 2842, in Foro it., 1996, I, 2054. (7) Cfr. in questo senso Cass. civ., sez. un., 20 marzo 1986, n. 2091, in Giust. civ. Mass., 1986, 3, in Giust. civ., 1986, I, 1273 e in Foro it., 1986, I, 904.; id., sez. I, 28 settembre 1984, n. 4820, in Giust. civ. Mass., 1984. (8) M.A. SANDULLI, Deliberazione di negoziare e negozio di diritto privato della P.A., in Riv. trim. dir. proc. civ., 1965, 1 e ss. (9) VALAGUZZA, Illegittimità della procedura pubblicistica e sue interferenze sulla validità del contratto, in Dir. proc. amm., 2004, I, 284 e ss. (10) In senso critico rispetto alla ricostruzione dell’annullabilità del contratto quale conseguenza di un vizio atipico della volontà della p.a., VALAGUZZA, op. cit., 285 e ss.; GRECO, I contratti dell’Amministrazione tra diritto pubblico e diritto privato. I contratti ad evidenza pubblica, Milano, 1986, 132 e ss. (11) Cfr. Cons. St., sez. V, 28 maggio 2004, n. 3465, in Riv. giur. edil., 2004, I, 2079; id., sez. VI, 19 novembre 2003, n. 7470, in Foro amm. CdS, 2003, 3413; id., sez. VI, 5 maggio 2003, n. 2332, in Dir. proc. amm., 2004, 177, con nota di GOISIS; id., sez. V, 5 marzo 2003, n. 1218, in Riv. trim. app., 2003, 78. 256 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 In particolare, le maggiori perplessità nei confronti della tesi dell’annullabilità si sono appuntate su tre aspetti principali. Anzitutto, appariva scorretto l’assunto di partenza, secondo cui le norme sull’evidenza pubblica sarebbero poste a tutela esclusiva dell’interesse pubblico alla corretta formazione della volontà negoziale della p.a. Invero, com’è noto, tali norme, lungi dall’essere preordinate alla tutela esclusiva del contraente pubblico, hanno portata molto più ampia, essendo poste a presidio dei principi di concorrenzialità e libertà del mercato, oltre che della sfera giuridica degli operatori di mercato che partecipano alle procedure ad evidenza pubblica, trovando il loro fondamento nei principi di imparzialità e buon andamento della p.a. sanciti dall’art. 97 Cost. (13) (14). Parimenti criticabile era anche l’osservazione - pure sostenuta dai fautori della tesi tradizionale - per cui il procedimento ad evidenza pubblica dovesse essere qualificato, sul piano strettamente civilistico, come una complessa manifestazione di volontà contrattuale della p.a. Come già evidenziato, infatti, il procedimento ad evidenza pubblica è preordinato non soltanto alla tutela dell’interesse pubblico generale, ma anche (12) Per un’approfondita ricostruzione delle principali obiezioni mosse alla teoria dell’annullabilità si veda BENETAZZO, Contratti della P.A. e annullamento dell’aggiudicazione, Padova, 2012; CARINGELLA, Rapporti tra annullamento della gara e sorte del contratto, in I contratti pubblici di lavori, servizi e fornitura, a cura di DE NICTOLIS, Milano, 2007, 726 e ss.; CINTIOLI, Annullamento dell'aggiudicazione, buona fede e metodo giuridico, in www.giustizia-amministrativa.it; CARPENTIERI, Annullamento dell’aggiudicazione e contratto (Nota a Cons. St., Sez. IV, 27 ottobre 2003, n. 6666), in Giorn. dir. amm., 2004, 17 e ss. (13) Cfr., tra i tanti, CARINGELLA, Rapporti tra annullamento della gara e sorte del contratto, cit., 726; CHIEPPA - LOPILATO, Studi di diritto amministrativo, Milano, 2007, 478 e ss.; TRIMARCHI BANFI, Questioni in tema di contratti di diritto privato dell’amministrazione pubblica, in Studi in onore di Feliciano Benvenuti, Modena, 1996, IV, 1676 e ss.; CALENDA, I contratti pubblici, in Il contratto, a cura di BUFFONE - DE GIOVANNI - NATALI, Padova 2013, 1702 e ss. Nello stesso senso anche Corte cost., 14 dicembre 2007, n. 431, in Giur. cost., 2007, 6 e in Foro amm. CdS, 2007, 12, 3359, secondo cui “nel settore degli appalti pubblici, la disciplina delle procedure di gara e in particolare la regolamentazione della qualificazione e selezione dei concorrenti, delle procedure di affidamento e dei criteri di aggiudicazione mirano a garantire che le medesime si svolgano nel rispetto delle regole concorrenziali e dei principi comunitari della libera circolazione delle merci, della libera prestazione dei servizi, della libertà di stabilimento, nonché dei principi costituzionali di trasparenza e parità di trattamento. Esse, in quanto volte a consentire la piena apertura del mercato nel settore degli appalti, sono dunque riconducibili all'àmbito della tutela della concorrenza ex art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, di esclusiva competenza del legislatore statale”; id., 23 novembre 2007, n. 401, in Foro it., 2008, 6, 1787; id., 15 novembre 2004, n. 345, in Giur. cost., 2004, 6, 3839, con nota di FARES, e in Foro amm. CdS, 2004, 3069, con nota di NISPI LANDI. (14) In tal senso si v. anche Cons. St., sez. VI, 5 maggio 2003, n. 2332, cit., secondo cui “le norme sull’evidenza pubblica interna e comunitaria, plasmano allora un complesso rapporto amministrativo in seno al quale l’amministrazione aggiudicatrice è soggetto in certa misura passivo, obbligato all’osservanza di norme poste a tutela di un interesse anche trascendente quello specifico del singolo contraente pubblico in quanto collegato al valore imperativo della concorrenza e, quindi, anche all’interesse particolare delle imprese che sono tutelate dalle prescrizioni volte alla tutela ed alla stimolazione della dinamica competitiva”. DOTTRINA 257 alla garanzia delle posizioni soggettive dei partecipanti alla gara in ossequio ai principi del favor partecipationis e della par condicio competitorum. Sul piano dell’effettività della tutela delle posizioni soggettive, appariva, poi, incongruo, sotto il profilo dell’equità sostanziale e dell’effettività della tutela giurisdizionale, che l’unico soggetto legittimato ad agire per far dichiarare la violazione delle norme sull’evidenza pubblica e, conseguentemente, ottenere la caducazione del contratto medio tempore stipulato fosse la stessa parte (la pubblica amministrazione) che, attraverso il suo contegno, aveva provocato il vizio del negozio. Analogamente irragionevole appariva, infine, accordare al terzo non aggiudicatario una tutela meramente patrimoniale. Tale limitata forma di ristoro frustra, evidentemente, la posizione soggettiva del terzo non aggiudicatario, il quale, pur risultando vittorioso all’esito del giudizio impugnatorio del provvedimento di aggiudicazione, avrebbe potuto ottenere soltanto la liquidazione del risarcimento per equivalente del danno patito, senza poter aspirare al conseguimento del bene della vita costituito dall’aggiudicazione della commessa. 3. La tesi della nullità del contratto. Le critiche mosse alla tesi dell’annullabilità del contratto furono ben presto recepite dalla giurisprudenza, sia ordinaria che amministrativa, nonché da parte della dottrina, le quali hanno elaborato ricostruzioni del fenomeno alternative alla teoria tradizionale. La più risalente di queste soluzioni riteneva che il vizio che colpiva il contratto in seguito all’annullamento dell’aggiudicazione dovesse essere inquadrato in termini di nullità (15). Tale interpretazione traeva spunto da un duplice ordine di considerazioni: in primis, si sosteneva che gli atti della procedura ad evidenza pubblica non rappresentassero meri strumenti di integrazione della volontà della stazione appaltante, ma atti costitutivi dell’assunzione del vincolo contrattuale da parte della stessa; in secundis, veniva evidenziato che le norme sull’evidenza pubblica sono poste esclusivamente a tutela di interessi superindividuali e indisponibili che l’amministrazione deve necessariamente osservare anche qualora agisca jure privatorum. Muovendo da tali assunti, la tesi della nullità è stata argomentata seguendo due diversi percorsi ricostruttivi. Secondo un primo indirizzo, l’invalidità che inficia il contratto sarebbe una conseguenza diretta della violazione delle norme sull’evidenza pubblica, le quali, dettando le modalità da seguire nella scelta del contraente, sancirebbero, seppur implicitamente, un divieto assoluto a contrarre con soggetti che siano stati illegittimamente dichiarati aggiudicatari della gara. Da ciò consegue (15) Per un’approfondita disamina dell’orientamento in parola si veda BENETAZZO, op. cit., 67 e ss. 258 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 che l’annullamento degli atti di gara, provocando la caducazione ex tunc del provvedimento di aggiudicazione, determinerebbe l’invalidità originaria del consenso espresso dalla stazione appaltante al momento della conclusione del negozio e, di conseguenza, la nullità del contratto stipulato ai sensi del combinato disposto degli artt. 1418, comma 2, e 1325, comma 1, c.c. (16). Questa impostazione - seppur autorevolmente sostenuta - è stata superata dall’avvento del cod. app. Infatti, l’art. 11, comma 7, prevede espressamente che l’aggiudicazione definitiva non equivale ad accettazione dell’offerta, ponendo, così, una netta cesura tra la fase pubblicistica della procedura ad evidenza pubblica e quella privatistica di insorgenza del vincolo negoziale. Una differente ricostruzione riteneva, invece, che il vizio inficiante il contratto dovesse essere ricondotto alla categoria della nullità virtuale per violazione di norme imperative di cui all’art. 1418, comma 1, c.c. (17). Per i sostenitori di questo filone interpretativo, le norme sull’evidenza pubblica avrebbero tutte carattere imperativo, essendo poste a garanzia di interessi e diritti superindividuali (quali la libertà di concorrenza, la par condicio competitorum, l’efficienza ed il buon andamento dell’azione amministrativa) aventi copertura non solo costituzionale (artt. 3, 41 e 97 Cost.), ma anche comunitaria (artt. 2, 3, par. 1, lett. g), e 4 del Trattato CE), la cui violazione non potrebbe che comportare la radicale nullità del contratto, ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c. Sebbene avesse l’indubbio pregio di assicurare una maggiore protezione ai diritti del terzo non aggiudicatario (il quale, dopo aver ottenuto l’annullamento dell’aggiudicazione illegittima, avrebbe potuto agire anche al fine di sentir dichiarare la nullità del contratto), la tesi della nullità è stata aspramente criticata dalla dottrina maggioritaria (18). Le maggiori perplessità si sono appuntate su due aspetti fondamentali. Anzitutto, è stato osservato che la nullità costituisce una patologia genetica del contratto che ne condiziona ab origine la validità; viceversa - seguendo la tesi in commento - nella materia dei contratti pubblici l’invalidità non deriverebbe da un vizio originario del negozio, ma da un fatto sopravvenuto, ovverosia l’annullamento dell’aggiudicazione. In secondo luogo, ritenere che il negozio sia radicalmente nullo compor- (16) A sostegno di tale impostazione si veda LOPILATO, Vizi della procedura di evidenza pubblica e patologie contrattuali, in Foro amm. TAR, 2006, 1537 e ss. In tal senso, in giurisprudenza, Cass. civ., sez. III, 9 gennaio 2002, n. 193, in Giust. civ. Mass., 2002, 35; Cons. St., sez. V, 28 marzo 2008, n. 1328, in www.giustizia-amministrativa.it. (17) Cfr. CERULLI IRELLI, L’annullamento dell’aggiudicazione e la sorte del contratto, in Giorn. dir. amm., 2002, 1195 e ss.; SATTA, L’annullamento dell’aggiudicazione e i suoi effetti sul contratto, in Dir. amm., 2003, 645 e ss. Nello stesso senso anche Cons. St., sez. V, 5 marzo 2003, n. 1218, in Riv. trim. app., 2003, 78. (18) Per una approfondita critica della tesi in esame si veda CARINGELLA, Rapporti tra annullamento della gara e sorte del contratto, cit., 733-735. DOTTRINA 259 terebbe, sul versante processuale, conseguenze inaccettabili per l’ordinamento: l’imprescrittibilità della relativa azione e la legittimazione generalizzata a far valere l’invalidità del contratto. L’accoglimento della teoria in esame, consentendo a chiunque vi abbia interesse di poter ottenere la caducazione del contratto anche a distanza di molto tempo dalla sua conclusione, finirebbe, in sostanza, con il minare in radice il principio di certezza dei rapporti giuridici imputabili all’amministrazione, specie in un settore particolarmente rilevante, anche dal punto di vista economico, qual’è quello dei contratti pubblici (19). 4. La tesi dell’inefficacia del contratto. Un’ulteriore impostazione, anch’essa nata per sopperire alle criticità emerse in seno alla tesi tradizionale, riteneva che, successivamente all’annullamento dell’aggiudicazione, il contratto divenisse inefficace (inefficacia relativa). In particolare, secondo i sostenitori della teoria in esame - che trovò largo seguito nella coeva giurisprudenza amministrativa (20) - la caducazione, in sede giurisdizionale (o amministrativa), di atti della fase della formazione della volontà contrattuale della stazione appaltante finirebbe per privare quest’ultima, con efficacia ex tunc, della legittimazione a negoziare. Pertanto, l’organo amministrativo che aveva stipulato il contratto, una volta venuto a cadere, con effetto ex tunc, uno degli atti del procedimento costitutivo della volontà dell’amministrazione (come la deliberazione a contrattare, il bando o l’aggiudicazione), si troverebbe nella condizione di aver stipulato injure, cioè, privo della legittimazione che gli è stata conferita dai precedenti atti amministrativi (21). La categoria dogmatica entro cui ricondurre il vizio che inficia il contratto non sarebbe, dunque, l’annullabilità, bensì l’inefficacia. Nei contratti ad evidenza pubblica, infatti, gli atti della serie pubblicistica e quelli della serie privatistica sono indipendenti quanto alla validità; i primi condizionerebbero, però, l’efficacia dei secondi, di modo che il contratto diverrebbe ab origine inefficace se uno degli atti del procedimento venisse meno per una qualsiasi causa (22). (19) Per una ampia difesa della tesi della nullità si veda Cons. St., sez. IV, ord. 21 maggio 2004, n. 3355, in Foro it., 2005, III, 549, con nota di LAMORGESE. (20) Cfr. Cons. St., sez. V, 28 settembre 2005, n. 5194, in Foro amm. CdS, 2005, 9, 2629, e 2005, 11, 3341, con nota di PERFETTI, Società affidatarie di servizi pubblici locali, partecipazione a gare e tutela della concorrenza; id., 12 novembre 2004, n. 7346, in www.giustizia-amministrativa.it; id., sez. IV, 27 ottobre 2003, n. 6666, in Dir. proc. amm., 2004, 178, con nota di GOISIS; id., sez. IV, ord. 21 maggio 2004, n. 3355, in Foro it., 2005, III, 549, con nota di LAMORGESE, e in Giust. civ., 2005, 9, I, 2205, con nota di MICARI, L’Adunanza Plenaria di fronte alla problematica ma necessaria sistematicità del diritto (giurisprudenziale) amministrativo; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 22 novembre 2007, n. 6409, in Foro amm. TAR, 2007, 11, 3380. (21) Cfr., sul punto, anche Cass. civ., sez. I, 20 novembre 1985, n. 5712, in Rass. avv. St., 1986, 1, 208. (22) Cfr. Cass. civ., sez. III, 5 aprile 1976, n. 1197, in Foro it., 1976, voce Contratti della p.a., n. 11. 260 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 La teoria in esame presentava l’indubbio pregio di assicurare maggiore tutela tanto al partecipante ingiustamente pretermesso in sede di gara, quanto ai terzi che avessero acquistato in buona fede dei diritti sulla base di atti compiuti in esecuzione del contratto, favorendo la certezza e stabilità dei rapporti giuridici in cui fosse parte una p.a. Sotto il primo profilo, infatti, essendo il contratto strutturalmente perfetto, ma soltanto improduttivo di effetti, l’unico soggetto legittimato a dolersi della sua inefficacia relativa sarebbe il terzo (non aggiudicatario) che avesse preventivamente ottenuto l’annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione. Nei confronti dei terzi, invece, troverebbe applicazione la disciplina dettata dal codice civile in materia di associazioni e di fondazioni - in quanto esprimente principi generali, applicabili anche alla P.A., quale persona giuridica ex art. 11 c.c., soggetta, quindi, oltre che alle norme di diritto pubblico, anche alle norme civilistiche essenziali che disciplinano le persone giuridiche - in forza della quale l’annullamento della deliberazione esprimente la volontà contrattuale dell’amministrazione non pregiudica i diritti acquistati dai terzi in buona fede sulla base di atti compiuti in esecuzione della deliberazione medesima (23). 5. La tesi della caducazione automatica del contratto. Un ultimo orientamento, avallato dalla giurisprudenza amministrativa immediatamente precedente l’emanazione del cod. app. (24), riteneva che all’annullamento, giudiziale o in autotutela, dell’aggiudicazione conseguisse la caducazione automatica degli effetti del contratto, a prescindere, dunque, dall’intermediazione di una pronuncia giurisdizionale sul punto (25). Questa teoria valorizzava l’esistenza di una connessione funzionale tra la sequenza procedimentale pubblicistica e la conseguente stipulazione del contratto, tale da implicare, in analogia alla figura civilistica del collegamento negoziale, la caducazione del negozio dipendente nel caso di annullamento di quello presupposto, in applicazione del noto principio racchiuso nel brocardo simul stabunt simul cadent (26). (23) A sostegno della tesi della inefficacia relativa, si veda VALLA, Annullamento della procedura di evidenza a monte e sorte del contratto a valle: patologia o inefficacia?, in Urb. e app., 2004, 192 e ss. (24) Cfr. Cons. St., sez. V, 10 gennaio 2007, n. 41, in www.giustizia-amministrativa.it; id., 28 settembre 2005, n. 5194, ivi; id., sez. VI, 5 maggio 2003, n. 2332, cit.; id., 30 maggio 2003, n. 2992, in Dir. e Form., 2003, 1445, con nota di CINTIOLI; id., sez. IV, 14 marzo 2003, n. 1518, ibidem; id., sez. V, 5 marzo 2003, n. 1218, ibidem; id., sez. VI, 14 gennaio 2000, n. 244, in Foro amm., 2000, 108; id., sez. V, 25 maggio 1998, n. 677, ibidem.; id., 29 marzo 1992, n. 435, ibidem. (25) A sostegno della tesi della caducazione automatica, si veda AUDITORE, Caducazione automatica del contratto a seguito di annullamento dell’aggiudicazione, in Cons. Stato, 2004, I, 1160; SCIARROTTA, Annullamento dell’aggiudicazione e sorti del contratto, ibidem, 1164. (26) Cfr. Cass. civ., sez. I, 27 marzo 2007, n. 7481, in Riv. giur. edil., 2007, I, 1280, in Giust. civ. Mass., 2007, 3 e in Foro amm. CdS, 2007, 5, 1398; id., 26 maggio 2006, n. 12629, in Foro it., 2008, 1, DOTTRINA 261 Il venir meno di un atto della sequenza procedimentale ad evidenza pubblica determinerebbe, quindi, la produzione di un effetto viziante “a cascata”, per cui l’annullamento dell’atto “a monte” (l’aggiudicazione) causerebbe, quale conseguenza naturale e indefettibile, quindi senza necessità di una pronuncia che disponesse sul punto, la caducazione automatica dell’atto “a valle” ad esso conseguenziale (il contratto). A sostegno di tale teoria veniva portato anche un dato di carattere testuale. L’art. 246, comma 4, cod. app., infatti, nella formulazione antecedente al codice del processo amministrativo, prevedeva che, relativamente alle infrastrutture ed agli insediamenti strategici, la sospensione o l’annullamento dell’affidamento non comportasse la caducazione del contratto già stipulato. Dalla lettura a contrario della disposizione citata alcuni Autori ricavavano che la regola generale applicabile alla sorte dei contratti a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione fosse proprio quella della caducazione automatica, derogabile, per espressa previsione legislativa, soltanto nella materia delle infrastrutture strategiche (27). Sebbene, avesse l’indubbio pregio di riportare al centro della querelle sulla sorte del contratto l’interesse pubblico all’esecuzione dell’opera, la tesi in esame ha, nondimeno, destato forti perplessità in dottrina (28), fatte proprie anche da alcune isolate pronunce del Consiglio di Stato (29). In prima battuta, è stato osservato come, già sotto il profilo strettamente lessicale, il termine “caducazione” pecchi di ambiguità, essendo estraneo tanto al lessico proprio del diritto privato, quanto a quello del diritto pubblico. Proprio l’utilizzo di un’espressione così ambigua e atecnica sarebbe, dunque, sintomatica dell’incertezza di fondo cui la stessa ricostruzione sistematica dell’istituto soggiacerebbe (30). I, 256; id., sez. lav., 24 marzo 2004, n. 5941, in Giust. civ. Mass., 2004, 3, in Foro amm. CdS, 2004, 684 e in Giust. civ., 2004, I, 3205. (27) Disposizione analoga a quella contenuta nella norma citata era quella di cui all’art. 20, comma 8, d.l. 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, in l. 28 gennaio 2009, n. 2 (recante “Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e imprese e per ridisegnare, in funzione anti-crisi, il quadro strategico nazionale”), il quale, con riferimento alle opere esecutive di progetti facenti parte del quadro strategico nazionale, prevedeva espressamente che “le misure cautelari e l’annullamento dei provvedimenti impugnati non comportano, in alcun caso, la sospensione o la caducazione degli effetti del contratto già stipulato, e il Giudice che sospende o annulla detti provvedimenti dispone il risarcimento degli eventuali danni solo per equivalente”. (28) Per un critica a questa interpretazione cfr. GRECO, La direttiva 2007/66/CE: illegittimità comunitaria, sorte del contratto ed effetti collaterali indotti, in www.giustamm.it; F.G. SCOCA, Annullamento dell’aggiudicazione e sorte del contratto, ibidem; CARPENTIERI, Annullamento dell’aggiudicazione e contratto, in Giorn. dir. amm., 2004, 1, 22. (29) Cfr., per tutte, sez. IV, 27 ottobre 2003, n. 6666, in Dir. proc. amm., 2004, 178, e in Dir. e giust., 2003, 40, 79 con nota di FEA, Annullamento atti di gara e sorte del contratto: ora tocca all’inefficacia. Nullità, annullabilità e caducazione, strade già percorse. (30) Cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 20 luglio 2009, n. 4398, in Foro amm. TAR, 2009, 7- 8, 1970. 262 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 In secondo luogo, si è rimarcato come la soluzione della caducazione pecchi di eccessiva rigidità, poiché configura la privazione degli effetti del contratto come una conseguenza sempre necessaria ed automatica dell’annullamento dell’aggiudicazione, senza distinguere a seconda del tipo e della gravità della violazione in cui è incorsa la stazione appaltante, dello stato di (maggiore o minore) avanzamento dell’esecuzione del contratto, della buona o cattiva fede del terzo aggiudicatario. L’assenza di graduazione della gravità delle violazioni commesse dalla stazione appaltante, infatti, si pone in netta antitesi con quanto disposto dalla direttiva 2007/66/CE, ove si afferma chiaramente come non ogni violazione del diritto comunitario (ad eccezione della mancata pubblicazione del bando) debba determinare la privazione di effetti del contratto, dovendo essere tale estrema conseguenza il risultato di una valutazione demandata ad un organo di ricorso indipendente dall’amministrazione aggiudicatrice, che, tenuto conto delle circostanze e degli interessi in gioco, potrebbe anche decidere di mantenere in vita il contratto. In seguito alle insuperabili critiche cui è stata sottoposta, la tesi della caducazione automatica è stata fatta oggetto di un parziale ripensamento in sede pretoria (31). Secondo la rilettura prospettata, i termini della questione dovevano essere ricostruiti alla luce della categoria dell’inefficacia successiva, che ricorre allorché il negozio pienamente efficace al momento della sua nascita divenga inefficace per il sopravvenire di una ragione nuova di inefficacia, quest’ultima da intendersi come inidoneità funzionale in cui venga a trovarsi il programma negoziale per l’incidenza ab externo di interessi giuridici di rango poziore incompatibili con l’interesse interno negoziale. Tale interferenza non implicherebbe alcuna alterazione strutturale della fattispecie contrattuale, incidendo unicamente sulla funzione dell’atto ovvero sul momento effettuale. In questi casi, dunque, ci si troverebbe di fronte ad un contrasto fra situazioni effettuali, non venendo in rilievo l’atto sotto il profilo genetico (validità o invalidità), bensì la sua efficacia. L’inefficacia successiva, al pari della nullità successiva, agirebbe, peraltro, retroattivamente, ma diversamente da questa incontrerebbe un duplice limite: da un lato, quello dell’intangibilità delle situazioni soggettive che si siano già consolidate in capo ai terzi fino alla proposizione della domanda volta a far dichiarare l’inefficacia (ex artt. 1452, 1458, comma 2, 1467 e 2901 c.c.); dall’altro, e con specifico riferimento ai contratti di durata, la non ripetibilità delle prestazioni già eseguite in esecuzione dell’accordo (32). (31) Cfr. Cons. St., sez. V, 28 maggio 2004, n. 3465, in Giust. civ., 2005, 9, I, 2205, con nota di MICARI, L’adunanza plenaria di fronte alla problematica ma necessaria sistematicità del diritto (giurisprudenziale) amministrativo, e in Foro amm. CdS, 2004, 1435. DOTTRINA 263 6. La soluzione accolta dal legislatore. La disputa che ha lungamente impegnato dottrina e giurisprudenza in ordine alle ricadute dell’annullamento del provvedimento di aggiudicazione sul contratto medio tempore stipulato ha, infine, trovato una composizione negli artt. 245-bis e 245-ter cod. app. (introdotti dal d.lgs. n. 53/2010), con i quali il legislatore ha recepito i principi dettati dalla seconda direttiva ricorsi in materia. Come accennato supra, le richiamate disposizioni, prima della loro recente abrogazione, contenevano un mero rinvio agli artt. 121 e 122 c.p.a., che disciplinano i casi in cui all’annullamento dell’aggiudicazione debba conseguire, quale effetto obbligatorio o meramente eventuale (in relazione alla maggiore o minore gravità delle violazioni procedimentali poste in essere dalla stazione appaltante), l’inefficacia del contratto (33). Prima di esaminare la disciplina dettata dal codice di rito, occorre premettere che, sebbene le nuove disposizioni si riferiscano esplicitamente all’inefficacia del contratto a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione, il legislatore ha omesso ogni indicazione utile circa il preciso inquadramento concettuale di tale fenomeno nell’alveo delle tesi dottrinarie richiamate nei precedenti paragrafi. La riflessione dottrinale che ha investito la questione si è attestata su due posizioni antitetiche. Per una prima impostazione, l’inefficacia del contratto di appalto dovrebbe essere classificata nella species della c.d. inefficacia in senso lato, ovvero in quella conseguente ad un contratto nullo per violazione di norme imperative poste a tutela di interessi pubblici e che atterebbero alla validità del contratto. L’inefficacia sarebbe, quindi, una conseguenza della nullità del contratto, la quale, a sua volta, discenderebbe dall’invalidità del provvedimento di aggiudicazione per violazione di norme del procedimento ad evidenza pubblica. Pertanto, ai fini della declaratoria di inefficacia, sarebbe necessario il preventivo annullamento del provvedimento amministrativo viziato. Tale forma di invalidità si distaccherebbe, dunque, dalla disciplina tradizionale della nullità propria dei contratti di diritto comune, legata alla concezione pandettistica formale che presuppone la sussistenza di un difetto originario e strutturale della fattispecie e cioè di un vizio intrinseco alla fattispecie stessa, costituendo, piuttosto, una ipotesi di “nullità speciale”, frutto di (32) A sostegno dell’inefficacia caducante successiva, si veda GAROFOLI, L’annullamento del provvedimento di aggiudicazione e la sorte del contratto, in SANDULLI - DE NICTOLIS - GAROFOLI (a cura di), Trattato sui contratti pubblici, Milano, 2008, 3922 e ss. (33) Per un’analitica lettura delle norme in esame si veda DE NICTOLIS, Artt. 121-125, in Il processo amministrativo. Commentario al d.lgs. 104/2010, a cura di A. QUARANTA - V. LOPILATO, Milano, 2010, 1012 e ss. 264 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 un sindacato complesso in ordine ad una serie di elementi che, pur non attenendo ad un profilo strutturale del contratto, ne possono condizionare il giudizio di validità (34). Più condivisibilmente, è stato ritenuto che l’inefficacia prevista dal codice del processo amministrativo debba essere qualificata in termini di inefficacia in senso stretto o da contratto valido. Un’approfondita disamina della disciplina delle procedure ad evidenza pubblica che ne valorizzi la struttura bifasica (pubblicistica e privatistica), evidenzia come la connessione esistente tra l’illegittimità dell’aggiudicazione e contratto attenga al piano fattuale del rapporto negoziale, non a quello dell’atto, sicché il vizio procedimentale non impinge alla struttura del negozio, ma attiene esclusivamente al relativo piano effettuale (35). Questa conclusione è, del resto, la sola in grado di fornire una soluzione idonea a consentire il costante bilanciamento degli interessi pubblici che deve guidare l’interprete nella valutazione della convenienza della declaratoria di inefficacia del contratto. Sul piano strettamente positivo, l’art. 121 c.p.a. stabilisce che l’inefficacia del contratto consegue obbligatoriamente all’annullamento dell’aggiudicazione qualora: a) l’aggiudicazione definitiva sia avvenuta senza previa pubblicazione del bando o avviso con cui si indice una gara, quando tale pubblicazione è prescritta dal codice appalti; b) l’aggiudicazione definitiva sia avvenuta con procedura negoziata senza bando o con affidamento in economia fuori dai casi consentiti e questo abbia determinato l’omissione della pubblicità del bando o avviso con cui si indice una gara, quando questa sia prescritta dal codice appalti; c) il contratto sia stato stipulato senza rispettare il termine dilatorio di trenta giorni decorrenti dalla comunicazione dell’aggiudicazione (c.d. standstill sostanziale), qualora tale violazione abbia privato il ricorrente della possibilità di avvalersi di mezzi di ricorso prima della stipulazione del contratto e sempre che tale violazione, aggiungendosi a vizi propri dell’aggiudicazione definitiva, abbia influito sulle possibilità del ricorrente di ottenere l’affidamento; d) il contratto sia stato stipulato senza rispettare la sospensione obbligatoria del termine per la stipulazione derivante dalla proposizione del ricorso giurisdizionale avverso l’aggiudicazione definitiva (c.d. standstill processuale), qualora tale violazione, aggiungendosi a vizi propri dell’ag- (34) In tal senso LOPILATO, Categorie contrattuali, contratti pubblici e i nuovi rimedi previsti dal decreto legislativo n. 53 del 2010 di attuazione della direttiva ricorsi, in www.giustizia-amministrativa.it; CARPENTIERI, Sorte del contratto nel nuovo rito sugli appalti, ibidem. (35) ORRÙ, L’inefficacia del contratto ad evidenza pubblica tra vecchi problemi e nuove soluzioni normative, in Contratto pubblico e principi di diritto privato, a cura di CICERO, Padova, 2011, 169 e ss. DOTTRINA 265 giudicazione definitiva, abbia influito sulle possibilità del ricorrente di ottenere l’affidamento. Dall’esame del dato testuale di cui all’art. 121, comma 1, c.p.a. emerge come il legislatore abbia voluto differenziare l’ambito di applicazione del primo gruppo di ipotesi di inefficacia obbligatoria (lett. a) e b)), rispetto a quello previsto dal secondo gruppo (lett. c) e d)). Se, infatti, nel primo caso il meccanismo dell’inefficacia opera automaticamente al semplice riscontro dell’omissione della pubblicazione del bando e degli avvisi di gara (36), essendo le violazioni gravi di cui alle lett. a) e b) direttamente ricollegate ad ipotesi in cui la violazione dei principi di trasparenza dell’azione amministrativa ha leso la correttezza della gara, nel caso della violazione dello standstill (tanto sostanziale che processuale) la norma richiede un quid pluris, consistente nell’accertamento della contemporanea sussistenza di altre due condizioni: da un lato, l’idoneità causale della violazione a privare il concorrente della possibilità di avvalersi dei mezzi di tutela e, dall’altro, il sacrificio, o comunque la compromissione, della sua possibilità di conseguire l’aggiudicazione, dovuta non solo alla violazione dello standstill, ma anche ad ulteriori vizi propri dell’aggiudicazione (37). Ne discende che la semplice violazione dei termini di standstill, non accompagnata dalla compresenza degli ulteriori elementi previsti dall’art. 121, comma 1, lett. c) e d), c.p.a., “imporrà, di fatto, una derubricazione della vio- (36) In questo senso, POLITI, op. cit.; LAMBERTI, L’annullamento dell’aggiudicazione e la sorte del contratto nel codice del processo amministrativo, in www.giustamm.it. In senso contrario Cons. St., sez. VI, 12 dicembre 2012, n. 6374, in Foro amm. CdS, 2012, 12, 3283, secondo cui “dopo l’entrata in vigore delle disposizioni attuative della direttiva 2007/66/Ce, ora riprese negli artt. 121 e 122 c.p.a., in caso di annullamento giudiziale dell’aggiudicazione di una pubblica gara, spetta al giudice amministrativo il potere di decidere discrezionalmente (anche nei casi di violazioni gravi) se mantenere o meno l’efficacia del contratto nel frattempo stipulato. Tale sistema normativo, in base al quale l’inefficacia del contratto non è conseguenza automatica dell’annullamento dell’aggiudicazione, ma costituisce oggetto di una specifica pronuncia giurisdizionale, si pone come innovazione rispetto alla logica sequenza procedimentale che vede la privazione degli effetti del contratto strettamente connessa all’annullamento dell’aggiudicazione, e da questa dipendente. La caducazione del contratto stipulato a seguito dell’aggiudicazione poi annullata costituisce, quindi, in via generale, la conseguenza necessitata dell’annullamento: di tale conseguenza l’art. 122 c.p.a. costituisce una deroga, imperniata sulle esigenze di semplificazione e concentrazione delle tutele ai fini della loro effettività”. Nello stesso senso, id., sez. III, 1 aprile 2016, n. 1308, in www.giustizia-amministrativa. it; id., sez. V, 1 ottobre 2015, n. 4585, ibidem; id., sez. III, 10 aprile 2015, n. 1839, ibidem; id., sez. V, 26 settembre 2013, n. 4752, in Foro amm. CdS, 2013, 9, 2509; T.A.R. Puglia, Bari, sez. I, 9 ottobre 2013, n. 1378, in Foro amm. TAR, 2013, 10, 3185; T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 8 marzo 2011, n. 2122, ivi, 2011, 3, 879; T.A.R. Toscana, sez. I, 27 gennaio 2011, n. 154, in D&G - Dir. e Giust., 2011. (37) Cfr. POLITI, op. cit. In tal senso anche la giurisprudenza amministrativa: cfr., ex plurimis, T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 4 gennaio 2016, n. 2, in Foro amm., 2016, 1; T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. II, 25 giugno 2013, n. 610, in Foro amm. TAR, 2013, 6, 1846; id., 18 aprile 2013, n. 363, ibidem, 4, 1115; T.A.R. Lazio, Roma, sez. I-bis, 30 maggio 2011, n. 4842, ivi, 2011, 7-8, 2583; T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, sez. I, 20 ottobre 2010, n. 942, in Guida al dir., 2010, 45, 85, con nota di GIUNTA. 266 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 lazione (riguardata con riferimento agli effetti indotti sullo strumento negoziale) verso l’ambito dispositivo di cui al comma 1 del successivo art. 122, ampliando, corrispondentemente, la latitudine dell’apprezzamento del Giudice e, con essa, l’espansione del potere (di merito) in materia veicolante la conclusiva determinazione giudiziale” (38). Malgrado la regola generale tratteggiata dal codice di rito sia quella della privazione degli effetti del contratto nelle ipotesi di gravi violazioni procedimentali, nondimeno, nel successivo comma 2 dell’art. 121 c.p.a., il legislatore ha introdotto una norma di salvaguardia al fine di garantire il più possibile la sopravvivenza del contratto, con ciò, di fatto, dilatando enormemente l’ambito dei poteri concessi al giudice (39). Tale norma stabilisce, infatti, che anche in presenza delle violazioni di cui al comma 1, rimane attribuita al giudice la possibilità di far salva l’efficacia del contratto, qualora venga accertato che il rispetto di esigenze imperative connesse ad un interesse generale imponga che i suoi effetti siano mantenuti. Come acutamente rilevato (40), l’interesse generale che giustifica il mantenimento in vita del contratto pur a fronte della violazione delle norme sul procedimento e, indirettamente, dei principi di trasparenza e concorrenzialità dev’essere inteso come quello dell’intera collettività alla celere realizzazione delle opere pubbliche e non come interesse della sola stazione appaltante. Tra le esigenze imperative che giustificano una deroga al principio dell’inefficacia del contratto nel caso di gravi violazioni procedimentali (esemplificativamente elencate dal legislatore), il codice indica, anzitutto, quelle imprescindibili di carattere tecnico o di altro tipo, tali da rendere evidente che i residui obblighi contrattuali possono essere rispettati solo dall’esecutore attuale (41). In queste ipotesi, il giudice dovrà operare un apprezzamento tecnico- discrezionale tramite il quale valutare se la residua parte dell’opera non possa che essere eseguita dall’aggiudicatario in ragione della particolarità dell’oggetto, della tipologia dei lavori o della loro durata. Di contro, gli interessi economici della stazione appaltante potranno essere valutati in termine di esigenze imperative soltanto in circostanze eccezionali in cui l’inefficacia del contratto stesso condurrebbe a conseguenze sproporzionate, avuto anche riguardo all’eventuale mancata proposizione della (38) Così POLITI, op. cit. (39) Cfr. T.A.R. Sicilia, Catania, sez. II, 11 novembre 2013, n. 2746, in Foro amm. TAR, 2013, 11, 3570. (40) DE NICTOLIS, Artt. 121-125, cit., 1022. (41) Cfr. T.A.R. Sicilia, Catania, sez. II, 11 novembre 2013, n. 2746, in Foro amm. TAR, 2013, 11, 3570, secondo cui fra le esigenze imperative, incluse quelle imprescindibili di carattere tecnico o di altro tipo (art. 121, comma 2, c.p.a.), devono ricomprendersi quelle connesse all’ipotesi in cui il contratto sia stato da tempo eseguito e sia da tempo intervenuto il collaudo e l’utilizzo della fornitura da parte dell’amministrazione. DOTTRINA 267 domanda di subentro nel contratto nei casi in cui il vizio dell’aggiudicazione non comporti l’obbligo di rinnovare la gara. In ogni caso, il codice espressamente prevede che non potranno in alcun caso costituire esigenze imperative gli interessi economici legati direttamente al contratto, che comprendono, fra l’altro, i costi derivanti dal ritardo nell’esecuzione del contratto stesso, dalla necessità di indire una nuova procedura di aggiudicazione, dal cambio dell’operatore economico e dagli obblighi di legge risultanti dalla dichiarazione di inefficacia. Al fine di prevenire uno straripamento di potere giurisdizionale, la locuzione “esigenze imperative” deve, comunque, essere interpretata con estremo rigore, limitandone il richiamo ai casi in cui risulti altrimenti impossibile garantire gli interessi pubblici perseguiti tramite il contratto (42), ovvero nel caso in cui sussistano ragioni tecniche (quali, ad es., particolari diritti di privativa industriale o di know-how) tali da far ritenere che gli obblighi negoziali nascenti dal contratto stesso potranno essere rispettati soltanto dall’attuale esecutore (43). Discutibile è, invece, l’inclusione tra i criteri di ponderazione degli interessi economici non afferenti al contratto dell’eventuale mancata proposizione della domanda di subentro nei casi in cui il vizio dell’aggiudicazione non comporti l’obbligo di rinnovare la gara, posto che tale circostanza non è prevista quale condizione per la declaratoria di inefficacia del contratto (44). A stemperare il rigore della previsione di cui al comma 1 dell’art. 121 c.p.a. contribuisce anche il disposto di cui al successivo comma 5, che contempla le ipotesi in cui, malgrado l’omessa pubblicazione del bando o dell’avviso di indizione della gara, non può, comunque, essere dichiarata l’inefficacia del contratto. Ciò avviene allorché la stazione appaltante abbia posto in essere la seguente procedura: a) abbia, con atto motivato anteriore all’avvio della procedura di affidamento, dichiarato di ritenere che la procedura senza previa pubblicazione del bando o avviso è consentita dal codice appalti; b) abbia pubblicato un avviso volontario per la trasparenza preventiva ai sensi dell’art. 79-bis del Codice, in cui manifesta l’intenzione di concludere il contratto; c) il contratto non sia stato concluso prima di almeno dieci giorni decorrenti dal giorno successivo alla data di pubblicazione dell’avviso di cui alla lett. b). (42) TORRICELLI, Il contenzioso sugli appalti pubblici sotto la spinta del diritto europeo. Tradizione e discontinuità nel modello di tutela offerto da giudice amministrativo, in Rivista de la Escuela Jacobea de Posgrado, n. 4/2013, 18, e in www.revista.jacobea.edu. (43) DE PAOLIS, Il processo amministrativo, Padova, 2012, 589-590. (44) Sul punto si veda LOPILATO, op. cit. 268 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 La ratio sottesa alla previsione legislativa risiede nella volontà di apprestare una forma forte di tutela per l’amministrazione e per l’aggiudicatario anche nel caso in cui siano omessi i prescritti oneri di pubblicità della procedura. In tali casi, la pubblicazione dell’avviso volontario per la trasparenza preventiva è ritenuto un adempimento idoneo a supplire agli effetti tipici della pubblicità del bando, surrogandone tutti i contenuti e consentendo agli interessati di avere, comunque, piena conoscenza della volontà di contrarre dell’amministrazione (45). La clausola di salvezza di cui al comma 5, specie ove letta unitamente all’ulteriore norma “scriminante” contenuta nel comma 2, non può non destare più di qualche perplessità. Difatti, l’evidente tensione del legislatore alla salvezza degli effetti contrattuali, pur a fronte della violazione di norme esprimenti principi fondamentali dell’ordinamento (quali quelli di trasparenza, concorrenza, libero mercato, efficienza, buon andamento dell’azione amministrativa) poste in essere dalla stazione appaltante, testimonia un indebolimento della complessiva risposta legislativa alle irregolarità commesse nel corso delle procedure ad evidenza pubblica, con evidenti nefaste ricadute tanto sull’interesse pubblico che su quello degli operatori economici partecipanti alla gara. Accanto alla previsione di una serie di ipotesi in cui l’inefficacia del contratto deve obbligatoriamente conseguire alla commissione di una violazione “grave” da parte dell’amministrazione, il codice di rito (art. 122, già art. 245- ter cod. app.), con norma di chiusura, attribuisce al giudice il potere discrezionale di dichiarare l’inefficacia del contratto anche a seguito dell’accertamento di ulteriori violazioni c.d. “non gravi” commesse dalla stazione appaltante, non ricomprese negli artt. 121, comma 1, e 123, comma 3, c.p.a. In questi casi, il giudice che annulla l’aggiudicazione definitiva stabilisce se dichiarare l’inefficacia del contratto, fissandone la decorrenza, tenuto conto, in particolare, degli interessi delle parti, dell’effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire l’aggiudicazione alla luce dei vizi riscontrati, dello stato di esecuzione del contratto e della possibilità di subentrare nel contratto, nei casi in cui il vizio dell’aggiudicazione non comporti l’obbligo di rinnovare la gara e la domanda di subentrare sia stata proposta (46). La giurisprudenza ha opportunamente evidenziato che il subentro nel contratto da parte del nuovo aggiudicatario disposto ai sensi dell’art. 122 c.p.a. nel caso di annullamento dell’aggiudicazione dev’essere inteso in senso atec- (45) In tal senso POLITI, op. cit.; DE PAOLIS, op. cit., 591; VACCARI, La dichiarazione di inefficacia del contratto ex artt. 121 e 122 c.p.a. come misura processuale satisfattoria, in Dir. proc. amm., 2015, 255. (46) Cfr. Cons. St., sez. VI, 8 agosto 2014, n. 4225, in Foro amm. CdS, 2014, 7-8, 2030; id., sez. V, 25 giugno 2014, n. 3220, ibidem, 6, 1743; T.A.R. Sicilia, Catania, sez. IV, 12 febbraio 2014, n. 446, in Riv. giur. ed., 2014, 2, I, 409; T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 19 ottobre 2012, n. 8695, in Foro amm. TAR, 2012, 10, 3189. DOTTRINA 269 nico, ovvero non quale successione nel medesimo rapporto contrattuale intercorso con l’originario aggiudicatario, che anzi viene meno all’esito del giudicato amministrativo, bensì in termini di necessità di stipulare un nuovo contratto che consenta di completare le prestazioni residue (47). Nonostante il tenore letterale della disposizione, tra le norme contenute negli artt. 121 e 122 c.p.a. non è possibile riscontrare un vero e proprio rapporto di residualità. Infatti, il contenuto precettivo dell’art. 121 c.p.a., riconnesso alla tutela di ineliminabili esigenze di pubblicità, trasparenza e partecipazione, impone che, in ogni caso in cui sussistano delle violazioni delle disposizioni tese a prevenire forme illegittime di affidamento diretto, il rimedio applicabile dev’essere sempre quello dell’inefficacia, fatte salve le eccezioni dovute ad esigenze imperative connesse ad un interesse generale (48). Di contro, la norma in esame, relativa alla «inefficacia del contratto negli altri casi» (cioè quelli che concernono le violazioni «non gravi» o meno gravi), attribuisce innovativamente al giudice il potere di decidere se dichiarare o meno inefficace il contratto fuori dai casi espressamente regolati dagli artt. 121 e 123, in base ad una serie di parametri che, seppure oggettivi, sono, però, da combinare in vario modo tra loro, in relazione alle specifiche e variabili caratteristiche della situazione di fatto di volta in volta in esame, vale a dire degli interessi delle parti, dell’effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire l’aggiudicazione alla luce dei vizi riscontrati e, conseguentemente, dello stato di esecuzione del contratto e della correlata possibilità di subentrare nel contratto stesso, sempreché il vizio dell’aggiudicazione non comporti, invece, il mero obbligo di rinnovare la gara e la domanda di subentrare sia stata proposta (49). La scelta legislativa di assegnare al giudice un amplissimo potere discrezionale circa l’individuazione dei casi in cui dichiarare l’inefficacia del contratto anche in fattispecie estranee a quelle tassativamente indicate dall’art. 121 c.p.a. appare di dubbia legittimità. Essa rischia, infatti, di determinare un insanabile vulnus dei principi di certezza delle situazioni giuridiche, oltre che di quelli di legalità e tassatività delle misure sanzionatorie (50). Presupposto necessario a giustificare l’esercizio del potere giudiziale è la presentazione di idonea domanda di subentro nel contratto da parte del ricorrente. Soltanto a seguito del positivo accertamento dell’esistenza di tale domanda il giudice potrà procedere a valutare se dichiarare o meno l’ineffica- (47) In terminis, Cons. St., sez. V, 30 novembre 2015, n. 5404, in Banca dati De Jure. (48) Sul punto si veda LOPILATO, op. cit. (49) Cfr., in tal senso, T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 8 giugno 2012, n. 5222, in Foro amm. TAR, 2012, 6, 1969; T.A.R. Sicilia, Catania, sez. IV, 7 novembre 2011, n. 2645, ivi, 2011, 11, 3741. (50) Parimenti critico nei confronti della disposizione in esame GE. FERRARI, L’annullamento del provvedimento di aggiudicazione dell’appalto pubblico e la sorte del contratto già stipulato nella disciplina dettata dal nuovo c.p.a., in Giur. mer., 2011, 919. 270 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 cia del contratto, bilanciando tutti i parametri indicati dall’art. 122 c.p.a. (la possibilità per il ricorrente di conseguire l’aggiudicazione alla luce dei vizi riscontrati, la possibilità di subentrare nel contratto, il suo stato di esecuzione e l’interesse delle parti) (51). Particolarmente ardua appare la ponderazione dell’elemento relativo allo stato di esecuzione del contratto. In questi casi, il giudizio dovrà tener conto sia degli interessi pubblici sottesi all’esecuzione dell’appalto, quali i costi e le tempistiche necessarie al subentro del terzo pretermesso in relazione alla sollecita esecuzione dell’opera, sia di quelli dell’impresa subentrante, non solo dal punto di vista strettamente economico, ma anche da quello del prestigio professionale derivante dalla commessa (52). Il favor mostrato dal legislatore per la sopravvivenza del contratto è ulteriormente sottolineato dalle recenti modifiche apportate al c.d. rito appalti dal nuovo codice dei contratti pubblici. In particolare, l’art. 204, comma 1, lett. f), d.lgs. 8 aprile 2016, n. 50, ha introdotto nell’art. 120 c.p.a. il comma 8-ter, il quale prevede che: “nella decisione cautelare, il giudice tiene conto di quanto previsto dagli articoli 121, comma 1, e 122, e delle esigenze imperative connesse a un interesse generale all’esecuzione del contratto, dandone conto nella motivazione”. Come evidenziato dal Consiglio di Stato in sede consultiva sulla bozza del nuovo codice appalti (53), la previsione può essere ritenuta quale formale esplicitazione dei parametri già utilizzati in sede di bilanciamento, attraverso un giudizio prognostico. Se ne desume, pertanto, che, ai fini della positiva delibazione dell’istanza cautelare formulata dal ricorrente, dovrà assumere carattere preminente la ponderazione circa l’eventuale sopravvivenza del contratto all’esito del giudizio di merito onde evitare inutili rinvii nell’inizio dell’esecuzione dei lavori. Sarà, comunque, necessario attendere le prime indicazioni interpretative che la giurisprudenza dovrà fornire circa il significato da attribuire all’espressione “esigenze imperative connesse a un interesse generale all’esecuzione del contratto”, ovvero, se la stessa debba essere interpretata in termini di effettiva presunzione della sussistenza di tale interesse o di mera valutazione della sua eventuale esistenza (54). Resta, però, auspicabile che in sede di applicazione della nuova normativa “l’organo giudicante dovrà in ogni caso operare un bilanciamento dei contrapposti interessi, senza sentirsi in alcun (51) Una schematizzazione del bilanciamento dei su esposti parametri si può rinvenire in DE NICTOLIS, op. ult. cit., 1024-1028; nonché ID., Il recepimento della direttiva ricorsi, cit. (52) Cfr., tra le tante, T.A.R. Sicilia, Catania, sez. IV, 26 marzo 2012, n. 839, in Foro amm. TAR, 2012, 1025. (53) Cfr. Commissione speciale consultiva, 1 aprile 2016, n. 855, in www.giustizia-amministrativa.it. (54) L’osservazione è di M.A. SANDULLI, Il rito speciale in materia di contratti pubblici, in www.federalismi.it. DOTTRINA 271 modo vincolato a un giudizio preferenziale per l’interesse alla sollecita esecuzione del contratto, che, in nessun caso, può legittimamente prevalere su quello alla selezione di un’offerta che, sotto il profilo soggettivo e oggettivo, rispetti i requisiti di legge e soddisfi al meglio le esigenze del committente e della collettività” (55). 7. Le sanzioni alternative. Allo scopo di stigmatizzare il comportamento dell’amministrazione che abbia violato le norme sulla trasparenza e la pubblicità delle procedure ad evidenza pubblica, il comma 4 dell’art. 121 c.p.a. prevede, con evidente finalità dissuasiva, che nei casi in cui, nonostante le violazioni, il contratto sia considerato efficace ovvero l’inefficacia sia temporalmente limitata, il giudice debba applicare nei confronti della stazione appaltante le sanzioni alternative di cui al successivo art. 123 (il quale riproduce pedissequamente il testo originario dell’art. 245-quater cod. app.). La norma contempla due distinte tipologie di sanzioni applicabili sia in via alternativa che cumulativamente. La prima, di natura economica, consiste in una sanzione pecuniaria a carico della stazione appaltante di importo compreso tra lo 0,5% ed il 5% del valore del contratto, inteso come prezzo di aggiudicazione. La seconda è costituita dalla riduzione della durata del contratto, ove possibile, da un minimo del 10% ad un massimo del 50% della sua durata residua alla data di pubblicazione del dispositivo. L’applicazione delle sanzioni pecuniarie è da ritenersi conseguenziale all’annullamento dell’aggiudicazione definitiva, alternativa all’inefficacia parziale o totale del contratto, la cui pronuncia è correlata alla domanda di parte volta all’annullamento dell’aggiudicazione. È l’ordinamento, infatti, a considerare gravi determinati comportamenti assunti dal soggetto aggiudicatore e, nel caso in cui, nonostante le violazioni, il contratto sia considerato efficace (o l’inefficacia sia temporalmente limitata), a punire, per ciò stesso, il soggetto cui è oggettivamente imputabile l’accaduto, disponendo l’irrogazione nei suoi confronti della sanzione alternativa di cui all’art. 123 (56). L’applicazione cumulativa delle sanzioni è possibile nelle ipotesi contemplate dall’art. 123, comma 3, c.p.a., qualora il contratto sia stato stipulato senza rispettare i termini di stand still sostanziale o processuale, allorché la violazione non abbia privato il ricorrente della possibilità di avvalersi di mezzi di ricorso prima della stipulazione del contratto stesso e non abbia influito (55) Così M.A. SANDULLI, Nuovi limiti al diritto di difesa introdotti dal d.lgs. n. 50 del 2016 in contrasto con il diritto eurounitario e la Costituzione, in www.lamminisstrativista.it. (56) Cfr. T.A.R. Piemonte, Torino, sez. II, 11 aprile 2013, n. 452, in Foro amm. TAR, 2013, 4, 1094. 272 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 sulle possibilità del ricorrente stesso di ottenere l’affidamento. In tali casi, il legislatore ha introdotto un automatismo, che assume un’impronta marcatamente sanzionatoria (57), finalizzato a punire l’inosservanza delle norme procedimentali e processuali che fissano il termine finale per la sottoscrizione del contratto, anche quando ciò non abbia arrecato alcun pregiudizio al ricorrente sul piano della tutela giurisdizionale (58). Non è, invece, consentita l’applicazione cumulativa delle sanzioni nei casi di violazioni gravi che comportino, quale conseguenza ineluttabile, la dichiarazione di inefficacia del contratto (art. 121, comma 1, lett. a) e b), c.p.a.), considerato che le sanzioni alternative sono applicabili soltanto qualora il contratto non debba essere privato degli effetti in modo totale o parziale (59). In ogni caso, non costituisce sanzione alternativa la condanna al risarcimento dei danni patiti dal terzo non aggiudicatario in conseguenza dell’illegittima condotta della stazione appaltante, sicché la domanda risarcitoria potrà sempre cumularsi con l’irrogazione di una sanzione alternativa. A differenza della sanzione pecuniaria, che è posta esclusivamente a carico dell’amministrazione, la riduzione della durata del contratto incide anche sulla posizione dell’aggiudicatario, assumendo, così, i tratti di una vera pena inflitta al privato, ove questi abbia favorito il comportamento illegittimo della stazione appaltante. Competente ad irrogare le sanzioni è il giudice amministrativo, il quale deve determinarne la misura, affinché le stesse risultino effettive, dissuasive, proporzionate al valore del contratto ed alla gravità della condotta della stazione appaltante e all’opera svolta dalla stessa per l’eliminazione (o l’attenuazione) delle conseguenze delle violazioni, assicurando il rispetto del principio del contraddittorio (art. 123, comma 2, c.p.a.) (60). Già all’indomani della sua entrata in vigore, parte della dottrina ha (57) Cfr. T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. II, 25 giugno 2013, n. 610, in Foro amm. TAR, 2013, 6, 1846; id., 18 aprile 2013, n. 363, ivi, 4, 1115. (58) DE PAOLIS, op. cit., 594; GE. FERRARI, op. cit. (59) E. FOLLIERI, Le sanzioni alternative nelle controversie relative a procedure di affidamento di appalti pubblici, in Il contenzioso sui contratti pubblici un anno dopo il recepimento della direttiva ricorsi, a cura di F. SAITTA, Milano, 2011, 86. (60) In ordine ai criteri di quantificazione della sanzione, si veda T.A.R. Lazio, Latina, sez. I, 19 luglio 2012, n. 574, in Foro amm. TAR, 2012, 7-8, 2396, secondo cui “va applicata la sola sanzione pecuniaria nei confronti della stazione appaltante e non anche la riduzione della durata del contratto, di cui all'art. 123 commi 1 e 2 c.p.a., qualora risulti che l’aggiudicataria si sia comunque premurata di rappresentare l’impedimento di diritto e quindi la necessità di osservare il "tempo di attesa" di cui all’art. 11 comma 10 ter, d.lg. 12 aprile 2006 n. 163; per converso, alcuna utilità può la stazione appaltante trarre dal richiamo ai favorevoli effetti economici conseguenti all’anticipata contrattualizzazione del servizio in concessione in quanto tale vicenda non elide la connotazione di una condotta illecita perché contraria al fine sotteso alle clausole di cd. stand still palesato dalla connessione tra le distinte fasi - procedimentali e processuali - quindi dalla tensione ad assicurare al rapporto una fonte, il contratto appunto, tendenzialmente stabile”. DOTTRINA 273 espresso forti dubbi circa la legittimità costituzionale dell’impianto sanzionatorio predisposto dal legislatore (61). È stata, anzitutto, criticata la scelta di attribuire al giudice amministrativo un potere di tipo “penalistico” diretto non a tutelare la posizione giuridica di una delle parti processuali, ma, piuttosto, a stigmatizzare il comportamento dell’amministrazione (o anche quello del terzo nel caso in cui la sanzione irrogata sia la riduzione della durata del contratto), assolutamente estraneo alle previsioni contenute nella direttiva ricorsi. In secondo luogo, è apparsa scarsamente compatibile con il dettato dell’art. 113 Cost. la mancanza di giustiziabilità della sanzione, qualora questa venga irrogata per la prima volta all’esito del giudizio di appello innanzi al Consiglio di Stato. Infine, è parsa discutibile la possibilità di comminare una sanzione in grado di pregiudicare (anche gravemente) la posizione del terzo aggiudicatario a prescindere dalla valutazione dell’elemento soggettivo di quest’ultimo. Benché autorevolmente sostenute, le perplessità sollevate attorno all’istituto in esame non paiono cogliere nel segno (62). Relativamente alla prima critica sollevata, è agevole osservare che, sotto il profilo sistematico e di concentrazione della tutela giurisdizionale, appare corretto che sia lo stesso giudice che accerta l’esistenza della violazione ad irrogare la conseguente sanzione. Parimenti infondati sono anche i dubbi di incostituzionalità della norma in esame, considerato che il principio del doppio grado di giurisdizione nel processo amministrativo implica esclusivamente che avverso una sentenza di primo grado non possa essere preclusa la proposizione dell’appello, senza che ciò comporti il divieto che un giudizio si svolga in unico grado innanzi ad un giudice superiore. Infine, sotto l’ultimo profilo, va sottolineato che le sanzioni alternative non hanno natura esclusivamente sanzionatoria, essendo la loro funzione anche quella di consentire il ripristino della legalità violata attraverso un’aggiudicazione illegittima. In quest’ottica, il sacrificio dell’interesse del terzo, anche in buona fede, appare senz’altro giustificato dal perseguimento del preminente interesse pubblico rappresentato dalla garanzia del rispetto dei principi di concorrenza, buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa. (61) Sul punto si vedano F.G. SCOCA, Relazione al Seminario su “L’attuazione della nuova direttiva ricorsi”, in www.giustamm.it; CINTIOLI, In difesa del processo di parti, ibidem; LIPARI, Il recepimento della direttiva ricorsi, cit.; GRECO, Illegittimo affidamento dell’appalto, sorte del contratto e sanzioni alternative nel d.lgs. 53/2010, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2010, n. 3/4, 729 e ss. (62) DE NICTOLIS, op. ult. cit., 1029; CERBO, Le sanzioni alternative nell’attuazione della direttiva ricorsi (e nel codice del processo amministrativo), in Urb. e app., 2010, 884; GE. FERRARI, op. cit.; E. FOLLIERI, Le sanzioni alternative, cit., 96 e ss. 274 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 8. I profili risarcitori. L’art. 245-quinques, comma 1, cod. app. (introdotto a seguito del recepimento della direttiva ricorsi) stabiliva che l’accoglimento della domanda diretta a conseguire l’aggiudicazione del contratto fosse subordinata alla previa declaratoria di inefficacia dello stesso ai sensi degli artt. 245-bis e 245-ter. Nel caso in cui l’inefficacia del contratto stesso non potesse essere dichiarata, la norma attribuiva al giudice il potere di accordare al terzo non aggiudicatario, dietro formulazione di rituale domanda in tal senso, il risarcimento per equivalente del danno subito e provato, limitatamente ai casi in cui quest’ultimo avesse comunque titolo per l’aggiudicazione del contratto. Dalla lettura della disposizione in esame appare evidente come l’intento del legislatore fosse quello di escludere la risarcibilità del danno da perdita di chance, ossia della mera probabilità di vittoria, dovendo il ricorrente provare che avrebbe certamente conseguito l’aggiudicazione della gara qualora le illegittimità procedimentali fossero state sanate. Senonché, in sede di trasposizione della norma all’interno del codice di rito, il legislatore ha condivisibilmente espunto dal testo definitivo la locuzione “a favore del solo ricorrente avente titolo all’aggiudicazione”, sicché deve oggi ritenersi pienamente ammissibile anche la risarcibilità del danno da perdita di chance (63). Parimenti assente dal testo dell’art. 124 c.p.a. è l’inciso secondo cui, ai fini della risarcibilità del danno lamentato, è necessaria la proposizione di apposita domanda da parte del ricorrente. Malgrado ciò, non vi è dubbio che, in applicazione del noto principio della deducibilità in giudizio delle pretese azionabili a cura della parte interessata, il giudice giammai potrà procedere ex officio alla liquidazione del danno non richiesto (64). Ai fini della condanna al risarcimento del danno per equivalente, il ricorrente deve fornire la prova dell’an e del quantum del danno subito ai sensi dell’art. 2697 c.c., non essendo applicabile in via automatica il previgente criterio forfettario del 10% del valore dell’appalto, al quale deve sostituirsi quello dell’utile effettivo che l’impresa avrebbe potuto conseguire (65). Tale utile (63) Perplessità sulla originaria scelta legislativa erano state espresse anche dai primi commentatori della novella: BARTOLINI - FANTINI - FIGORILLI, op. cit., 661; De NICTOLIS, Il recepimento della direttiva ricorsi, cit. (64) Cfr. POLITI, op. cit.; LIPARI, La direttiva ricorsi, cit.; LAMBERTI, op. cit. Per l’affermazione del principio in giurisprudenza si veda, ex plurimis, T.A.R. Sicilia, Catania, sez. III, 25 luglio 2012, n. 1930, in Foro amm. TAR, 2012, 7-8, 2595. (65) Cons. St., sez. IV, 12 giugno 2014, n. 3003, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 8 luglio 2014, n. 7229, in Foro amm. TAR, 2014, 7-8, 2155; id., sez. III, 5 marzo 2013, n. 2358, ivi, 2013, 3, 875; T.A.R. Sicilia, Catania, sez. III, 25 luglio 2012, n. 1930, ivi, 2012, 7-8, 2595; T.A.R. Puglia, Bari, sez. I, 14 giugno 2012, n. 1192, ivi, 6, 2070; T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, sez. I, 29 dicembre 2011, ivi, 2011, 12, 3996; T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. II, 4 novembre 2010, n. 4552, ivi, 2010, 11, 3447. DOTTRINA 275 può essere desunto, in via principale, facendo riferimento all’offerta economica presentata in sede di gara (66). La condanna al risarcimento del danno non richiede la prova della colpa dell’amministrazione. L’art. 124 c.p.a., in linea con la giurisprudenza europea (67), ha, difatti, introdotto un’ipotesi di responsabilità oggettiva a carico della stazione appaltante (68). Le garanzie di trasparenza e di non discriminazione operanti in materia di aggiudicazione dei pubblici appalti fanno sì che una qualsiasi violazione degli obblighi di matrice sovranazionale consenta all’impresa pregiudicata di ottenere un risarcimento dei danni, a prescindere da un accertamento in ordine alla colpevolezza dell’ente aggiudicatore e, dunque, dall’imputabilità soggettiva della lamentata violazione, rispondendo il rimedio risarcitorio al principio di effettività della tutela previsto dalla normativa comunitaria (69). Il comma 2 dell’art. 124 c.p.a. prevede che la condotta processuale della parte che, senza giustificato motivo, non abbia proposto domanda di conseguire l’aggiudicazione o non si sia resa disponibile a subentrare nel contratto, è valutata dal giudice ai sensi dell’art. 1227 c.c. La norma, confermando l’ottica sanzionatoria che sostiene tutto l’impianto risarcitorio e delle misure di cui all’art. 123 c.p.a. costruito dal codice di rito, non esclude la risarcibilità del danno per il caso della mancata proposizione delle domande di conseguimento o subentro nel contratto, limitandosi, di contro, a valutare (negativamente) la mala fede di chi, non mostrando un reale interesse ad ottenere l’aggiudicazione del contratto, si prefiguri di bloccare l’azione amministrativa, avendo sin dall’inizio, come unico fine, quello di ottenere un risarcimento monetario (70). (66) Cons. St., sez. III, 25 giugno 2013, n. 3437, in Foro amm. CdS, 2013, 6, 1561; id., sez. V, 7 giugno 2013, n. 3135, ivi, 1649; id., sez. III, 14 dicembre 2012, n. 6444, ivi, 2012, 12, 3198; id., sez. V, 5 luglio 2012, n. 3940, ivi, 7-8, 1965; id., sez. III, 12 maggio 2011, n. 2850, ivi, 2011, 5, 1485; id., sez. VI, 9 dicembre 2010, n. 8646, ivi, 2010, 12, 2732; T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 9 gennaio 2014, n. 255, in Foro amm. TAR, 2014, 1, 271. (67) Il riferimento è, in particolare, a Corte giust. UE, sez. III, 30 settembre 2010, n. 314, in Europa e dir. priv., 2011, 1, 313, con nota di GUFFANTI PESENTI, secondo cui la vigente normativa europea che regola le procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi non consente ad una normativa nazionale di subordinare il diritto ad ottenere un risarcimento, a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di un’amministrazione aggiudicatrice, al carattere colpevole di tale violazione. (68) Cfr., ex plurimis, Cons. St., sez. V, 14 ottobre 2014, n. 5115, in www.giustizia-amministrativa.it; id., 10 settembre 2014, n. 4586, ibidem; id., sez. VI, 14 luglio 2014, n. 3611, in Foro amm. CdS, 2014, 7-8, 2028; id., sez. V, 8 aprile 2014, n. 1672, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Sicilia, Palermo, sez. III, 3 marzo 2015, n. 590, ibidem; id., 16 gennaio 2015, n. 119, ibidem; T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 11 settembre 2013, n. 8208, in Foro amm. TAR, 2013, 9, 2758. (69) Cfr., tra le tante, Cons. St., sez. III, 10 aprile 2015, n. 1839, in www.giustizia-amministrativa.it; id., sez. V, 31 dicembre 2014, n. 6450, ibidem; id., 21 giugno 2013, n. 3397, in Riv. giur. ed., 2013, 5, I, 881; T.A.R. Veneto, sez. I, 28 aprile 2015, n. 451, ibidem; T.A.R. Liguria, sez. I, 17 marzo 2015, n. 292, in Foro amm. TAR, 2015, 3, 884. 276 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 Tale disposizione, pur non presupponendo la sussistenza di una pregiudizialità di rito, dimostra l’intento del legislatore di apprezzare, sul versante sostanziale, la rilevanza eziologica dell’omessa impugnazione come fatto valutabile al fine di escludere la risarcibilità dei danni, che, secondo un giudizio causale di tipo ipotetico, sarebbero stati presumibilmente evitati in caso di tempestiva reazione processuale nei confronti del provvedimento potenzialmente dannoso (71). Peraltro, l’ipotetica incidenza eziologica non è propria soltanto della mancata impugnazione del provvedimento dannoso, ma riguarda anche l’omessa attivazione di altri rimedi potenzialmente idonei ad evitare il danno, quali i ricorsi amministrativi e gli atti di iniziativa finalizzati alla stimolazione dell’autotutela amministrativa (c.d. invito all’autotutela). (70) Cfr., sul punto, DE NICTOLIS, Il recepimento della direttiva ricorsi, cit.; POLITI, op. cit. (71) In questo senso si vedano Cons. St., ad. plen., 23 marzo 2011, n. 3, in D&G - Dir. e Giust. online, 2011, 12 aprile; id., sez. VI, 29 gennaio 2015, n. 407, in Foro amm. CdS, 2015, 1, 119; id., 8 agosto 2014, n. 4225, ivi, 2014, 7-8, 2030; id., sez. V, 10 luglio 2012, n. 4067, ivi, 2012, 7-8, 1970; id., sez. VI, 27 marzo 2012, n. 1800, ivi, 3, 708; id., sez. III, 18 luglio 2011, n. 4355, in Guida al dir., 2011, dossier n. 9, 43, con nota di ZANETTINI; T.A.R. Sicilia, Catania, sez. IV, 16 dicembre 2010, n. 4735, in Foro amm. TAR, 2010, 12, 4075. RECENSIONI ALFONSO MEZZOTERO (*) - DAVID ROMEI (**), Il patrocinio delle Pubbliche Amministrazioni. La Difesa innanzi alle Giurisdizioni Ordinarie e Speciali. (CSA EDITRICE, 2016, PP. 348) Negli ultimi anni, per far fronte alle più svariate esigenze - dalla semplificazione dei riti, alla razionalizzazione della spesa pubblica - il legislatore ha intrapreso un’opera di profonda destrutturazione e trasformazione della pubblica amministrazione, sì da renderne i complessi schemi organizzativi più snelli ed efficienti, al fine di ridurre il livello di “iper-burocratizzazione” dell’ordinamento italiano. Questo processo di “destrutturazione” e semplificazione dell’apparato burocratico nazionale, oltre che sul piano sostanziale, non poteva non incidere anche sotto un altro profilo: ovvero quello della rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e degli altri enti pubblici comunque sottoposti alla vigilanza dello Stato. (*) Avvocato dello Stato, già Procuratore dello Stato, presso l’Avvocatura distrettuale di Catanzaro. È stato consulente giuridico del Commissario delegato per il superamento della situazione di emergenza nel settore dei rifiuti urbani nel territorio della Regione Calabria; componente del Comitato di consulenza giuridica della Giunta Regionale della Calabria; docente di diritto amministrativo e diritto processuale amministrativo presso la Scuola di Specializzazione per le professioni legali dell’Università degli Studi Magna Graecia di Catanzaro. È autore di numerose pubblicazioni in materia di diritto amministrativo e degli appalti pubblici. (**) Avvocato, attualmente consulente giuridico di diritto amministrativo e diritto degli appalti pubblici per Siram S.p.A., nota multinazionale operante nel settore dei servizi energetici e del facility management. Si occupa prevalentemente di contenzioso in materia di diritto amministrativo, con particolare riguardo ai settori degli appalti pubblici e degli enti locali. Nell’ottobre 2013 ha conseguito il Master di II livello in Diritto amministrativo e Scienze dell’Amministrazione presso l’Università degli Studi Roma Tre. È autore di numerosi articoli e contributi in opere collettanee su diverse tematiche di diritto amministrativo, degli appalti pubblici e degli enti locali. 278 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 Nel quadro di tali epocali cambiamenti deve, tuttavia, volgersi lo sguardo indietro, cercando di riflettere sulle ragioni storiche che, più di un secolo orsono, hanno dato vita a quello che ben può definirsi come lo statuto processuale della Pubblica Amministrazione. Non è un caso, infatti, che il patrocinio delle Amministrazioni dello Stato e degli Enti pubblici in genere sia connotato da significativi elementi di differenziazione rispetto a quello ordinario delle persone fisiche o giuridiche, che, a monte, si appuntano nella precostituzione ex lege del loro Difensore istituzionale (l’Avvocatura dello Stato). Queste differenze, introdotte in un’epoca in cui, in ossequio al c.d. privilegium fisci, il legislatore riservava all’Autorità pubblica un’indubbia prevalenza rispetto ai privati, permangono ancor oggi, nonostante sia ormai venuto meno il principio della primazia dello Stato sui diritti e gli interessi dei cittadini. Mutata rispetto alle origini è, tuttavia, la ratio ispiratrice di questa diversità: non più la volontà di accordare un anacronistico privilegio per l’Autorità, ma consentire una valutazione unitaria dell’interesse pubblico che muove e condiziona l’agere della P.A. unitamente ad un’interpretazione unitaria degli istituti giuridici tramite i quali questa tipicamente agisce. Muovendo da questo angolo prospettico, apparirà chiara al lettore la indeclinabile centralità del ruolo di guida delle Amministrazioni (non solo sul versante strettamente processuale) che l’ordinamento attribuisce al loro Difensore istituzionale. Su queste direttrici, l’Opera si propone di collegare, in una visione unitaria, l’analisi della specialità dello statuto processuale delle Amministrazioni statali alla specialità del loro Difensore istituzionale, illustrandone le diverse funzioni attribuitegli nel vigente ordinamento. Saranno, in particolare, scrutinate le peculiarità dei giudizi, celebrati tanto innanzi alle giurisdizioni ordinarie che a quelle speciali, in cui sia parte un’Amministrazione erariale, ovvero un soggetto pubblico rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura dello Stato. In questo ambito, saranno esaminate le più significative vicende che, dal punto di vista sostanziale e da quello processuale, determinano una deroga ai principi generali del processo in ossequio al c.d. privilegium fisci, rivisitato in chiave moderna. Nel far ciò si rivolgerà, anzitutto, l’attenzione alle diverse tipologie di patrocinio erariale ed al loro ambito applicativo, esaminandosi, in particolare, i nodi problematici del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato rispetto ad alcune peculiari categorie di soggetti pubblici (ad. es. le Università o le Autorità portuali) ovvero in peculiari tipologie di giudizi (ad es. i giudizi lavoristici ovvero quelli di incandidabilità). A questa rigorosa analisi di ordine sostanziale farà seguito l’esegesi delle speciali norme processuali dettate per le Amministrazioni erariali in tema di notificazione degli atti giudiziali e stragiudiziali, individuazione dell’Autorità giu- RECENSIONI 279 diziaria competente all’esame delle controversie nonché successione tra enti pubblici e le relative ricadute sul versante processuale che tale evento determina. Nell’esposizione non ci si limiterà a dar conto delle modifiche alle regole processuali nei soli giudizi celebrati innanzi all’Autorità giudiziaria ordinaria, ma, in considerazione della visione multidisciplinare che ispira l’Opera, si approfondiranno anche le deroghe processuali relative ai giudizi celebrati innanzi alle Autorità giudiziarie speciali (Tribunali Amministrativi Regionali, Corte dei Conti e Commissioni tributarie) oltre che nello speciale rito celebrato innanzi alla Corte costituzionale. Lungi dal costituire una elaborazione meramente accademica, l’Opera si prefigge di fornire a tutti gli operatori del diritto (magistrati, avvocati, avvocati e procuratori dello Stato, dirigenti pubblici) un’indispensabile bussola per risolvere tutte le più complesse problematiche applicative che quotidianamente si trovano costretti ad affrontare quando parte del giudizio sia un’Amministrazione statale o un ente a patrocinio erariale. Per rispondere a quest’esigenza l’Opera è arricchita di un amplissimo corredo giurisprudenziale (in larga parte inedito) tramite il quale si darà conto dei più disparati orientamenti assunti dalla giurisprudenza (di merito e di legittimità) relativamente a pressoché tutti gli aspetti problematici analizzati. Maggio 2016. Gli Autori PREFAZIONE Luigi Maruotti (*) L’Avvocatura dello Stato, pur non avendo una «copertura costituzionale», ha un indiscusso ruolo centrale nella attuale architettura istituzionale. Oltre a difendere innanzi alle varie giurisdizioni (anche internazionali) le Amministrazioni statali e le altre Amministrazioni individuate dalla legge, l’Avvocatura dello Stato svolge altre importanti funzioni, tra le quali quella di consulenza e quella di amicus curiae, nei giudizi innanzi alla Corte Costituzionale. Per qualsiasi operatore del diritto, è essenziale la conoscenza di tali funzioni, così come è essenziale la conoscenza delle regole processuali sulla difesa dello Stato, in tema di competenza dei giudici, di formalità riguardanti le notifiche, ecc. Eppure, nell’attuale panorama dottrinario, non vi sono testi approfonditi e completi, che diano conto delle molteplici competenze della Avvocatura dello (*) Presidente di Sezione del Consiglio di Stato. 280 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 Stato, di come vadano impostati i giudizi che si intendano intentare nei confronti delle Amministrazioni statali, di quali siano le specifiche regole processuali, di quali siano le esigenze sostanziali tenute in considerazione dal legislatore. Nei Manuali, di solito vi è un fugace richiamo alle complesse funzioni della Avvocatura dello Stato e alla sua articolata struttura organizzativa. Il testo di Alfonso Mezzotero e di David Romei, su «Il patrocinio delle Pubbliche Amministrazioni», è invece un testo completo e aggiornato, nel quale vi è la ricostruzione di un sistema organico ed unitario. Sulla base di una accurata ricostruzione anche dei precedenti storici, il testo si caratterizza per la esaustiva esposizione degli istituti rilevanti e per i suoi continui approfondimenti, che tengono però sempre conto delle esigenze pratiche degli operatori e dell’esigenza di orientare il lettore anche nella individuazione delle soluzioni giurisprudenziali sulle questioni controverse. Il testo risulta un ausilio indispensabile non solo per coloro che vogliano conoscere la normativa e le prassi riguardanti l’Avvocatura dello Stato, ma anche per coloro che vogliano meglio conoscere tutte le Istituzioni dello Stato, che necessariamente si pongono in rapporto anche con l’Avvocatura dello Stato. Si tratta di un ottimo lavoro, al quale auguro ogni successo, non solo per l’affetto che mi lega agli Autori, ma anche perché si pone come un preziosissimo ausilio di conoscenza delle Istituzioni. RECENSIONI 281 FABIO FASANI (*), Terrorismo islamico e diritto penale. PUBBLICAZIONI DELLA UNIVERSITÀ DI PAVIA FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA, STUDI NELLE SCIENZE GIURIDICHE E SOCIALI (CEDAM, 2016, PP. I-XII,491) INTRODUZIONE “E così questa è la mia ultima parola Crivellato di colpi Battezzato nel sangue Come avevo sperato” [Dal messaggio di addio ritrovato nelle tasche di Mohammed Bouyeri, assassino del regista olandese Theo van Gogh (1) ] Nei Paesi occidentali, fino all’11 settembre 2001, il terrorismo di matrice islamica veniva scrutato come un fenomeno lontano spazialmente e culturalmente, che non spaventava più di tanto, dal momento che pareva affliggere esclusivamente altri popoli e altri Paesi (2). Persino i mezzi d’informazione si dimostravano pigramente disinteressati al nascente fondamentalismo islamico militante e con essi - ovviamente - l’opinione pubblica, che non aveva ancora elementi sufficienti per capire, nemmeno in maniera vaga, le dinamiche geopolitiche in mutazione (3). Prima di quella data la stessa figura di Osama bin Laden era sostanzialmente ignota presso la popolazione italiana e l’analisi della situazione mediorientale e del nascente fenomeno jihadista era confinata agli studi di pochi Autori e di poche riviste di settore (4). (*) Ricercatore di diritto penale, Università degli Studi di Pavia. (1) Mohammed Bouyeri credeva evidentemente che sarebbe stato freddato dalla polizia, divenendo così un martire. In realtà, il terrorista venne arrestato, processato e sconta ora una condanna a vita nel carcere olandese di Nieuw Vosseveld. (2) Si legga, al proposito, l’analisi ex post del sociologo Renzo Guolo che osserva: “Le macerie delle Twin Towers hanno mandato in soffitta l’illusione che un mondo «connesso», attraverso la sua compressione spazio-temporale, potesse tenere fuori dal suo centro motore conflitti pensati fino a quel momento come esterni” (R. GUOLO, L’islam è compatibile con la democrazia?, Roma-Bari, 2004, p. 7). (3) Il complesso rapporto fra potere politico, mass-media e opinione pubblica resterà sullo sfondo nel prosieguo della ricerca, ma non potrà non affiorare talvolta, risultando indispensabile alla comprensione di taluni fenomeni socio-politici essenziali. Per un primo approfondimento sul tema si possono leggere A. BARATTA, Problemi sociali e percezione della criminalità, in Dei delitti e delle pene, 1983, p. 15 ss.; T. MATHIESEN, Contemporary Penal Policy. A Study in Moral Panics, in U. BONDESON (ed.) Crime and Justice in Scandinavia, Copenhagen, 2005, p. 445 ss.; M. QUIRICO, Capro espiatorio, politiche penali, egemonia, in Dei delitti e delle pene, 1993, p. 115 ss.; A. DINO, I media e i nemici della democrazia, Quest. giust., 2006, p. 824 ss.; C.E. PALIERO, La maschera e il volto (percezione sociale del crimine ed "effetti penali" dei media), in Riv it. dir. proc. pen., 2006, p. 467 ss. (4) Fra gli scritti, piuttosto scarsi, che prima del settembre 2001 sono apparsi in Italia, investendo il tema della nascita e della diffusione del fondamentalismo islamico e del connesso terrorismo jihadista, possono essere citati B. ETIENNE, L'islamismo radicale, Milano, 1988; Y.M. CHOUEIRI, Il fondamentali- 282 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 Eppure a quei tempi, la “guerra globale” era già stata dichiarata ed intrapresa da parte di al-Qaeda (5) - “fondata” nel 1988 (6) -, Osama bin Laden aveva già sollevato la ummah al jihad (7) e numerosi attentati terroristici erano già stati realizzati con successo da parte di gruppi di matrice islamico-radicale (8). Fra questi, i più eclatanti erano sicuramente stati l’attentato del 7 agosto 1998 che colpì simultaneamente le ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania, provocando complessivamente 257 morti ed oltre 5000 feriti (9) e l’attentato suicida, datato 12 ottobre 2000, alla nave USS Cole ancorata presso Aden nello Yemen, nel quale rimasero uccisi 17 marinai americani (10). Il punto è che questi fatti sanguinosi avevano una caratteristica comune: erano stati realizzati in terre lontane, afflitte da guerre, scontri etnici e guerriglie; terre da cui le notizie di morti e di bombe giungevano con costanza tale da far perdere, agli occhi degli occidentali, le tracce degli scopi degli attori. Questa importante limitazione geografica aveva subito fino al 2001 solo rare eccezioni, connotate peraltro da un clima geo-politico assai diverso e da una minore “colorazione religiosa” nella percezione collettiva. Si ricordino, ad esempio, gli attentati realizzati in Francia negli anni Ottanta (11) e Novanta (12) e quelli realizzati negli Stati Uniti sempre negli anni Novanta (13). smo islamico, Bologna, 1993; G. KEPEL, Jihad. Ascesa e declino, Roma, 2001. Si vedano anche, fra i contributi di taglio maggiormente giornalistico, M. ALLAM, I fanatici di Allah stanno già conquistando l’Egitto, in liMes, 1994, II, p. 127 ss.; S. PERES, Il mio sogno: Israele come Rialto, il ponte degli affari, in liMes, 1995, IV, p. 29 ss.; I. MAN, Il risveglio islamico e le sue conseguenze, in Gnosis, 2000, n. 18; V. BELOKRENICKIJ, Il ‘triangolo islamico’, in liMes, 1998, IV, p. 221 ss. (5) La nascita e lo sviluppo di al-Qaeda verranno analizzati con maggiore attenzione infra all’interno del Capitolo I, al quale si rinvia. Per un inquadramento generale, comunque, si veda subito L. WRIGHT, Le altissime torri. Come al-Qaeda giunse all’11 settembre, Milano, 2007, passim. (6) Cfr. D. COOK, Storia del jihad, Torino, 2007, p. 198. (7) Risale al 23 febbraio 1998 il primo richiamo al “jihad contro gli ebrei ed i crociati”, lanciato dal sedicente Fronte Islamico Mondiale e firmato da cinque militanti, fra i quali spiccano i nomi di Ayman al-Zawahiri e dello stesso Osama bin Laden. Cfr. Jihad Against Jews and Crusades. World Islamic Front Statement, all’indirizzo web http://www.fas.org/irp/world/para/docs/980223-fatwa.htm. All’indirizzo web http://www.library.cornell.edu/colldev/mideast/fatw2.htm si trova la versione originale in arabo, apparsa sul quotidiano londinese al-Quds al-Arabi il 23 febbraio 1998 a p. 3. (8) Per una ricostruzione storica degli eventi si veda anche AR. SPATARO, Le forme attuali di manifestazione del terrorismo nella esperienza giudiziaria: implicazioni etniche, religiose e tutela dei diritti umani, in C. DE MAGLIE - S. SEMINARA (a cura di), Terrorismo internazionale e diritto penale, Padova, 2007, p. 163 ss. (9) Cfr. L. WRIGHT, Le altissime torri, cit., p. 330 ss. e anche M.S. HAMM, Terrorism as crime. From the Order to Al-Qaeda and Beyond, New York, 2007, p. 51 ss. (10) Cfr. L. WRIGHT, Le altissime torri, cit., p. 387 ss. (11) Tra il 1985 e il 1986 diverse bombe vennero fatte esplodere a Parigi dal sedicente “Comitato di solidarietà con i prigionieri politici arabi e medio-orientali”. (12) Il riferimento va agli attentati di matrice algerina che insanguinarono la Francia negli anni 1994 e 1995, motivati dal supporto fornito da quel Paese al governo di Algeri durante la coeva guerra civile. (13) Si pensi, ad esempio, al primo attacco dinamitardo al World Trade Center, realizzato il 26 febbraio 1993, che provocò 6 morti ed oltre 1000 feriti. Sul punto, L. WRIGHT, Le altissime torri, cit., p. 220 ss. RECENSIONI 283 Parallelamente, la convinzione che il terrorismo religioso fosse una realtà “esotica”, che non poteva in alcun modo riguardare la vita dei Paesi democratici occidentali, lasciò sullo sfondo, anche a livello politico, la disamina dei complessi meccanismi sociali, culturali e geopolitici che andavano esprimendosi in radicalismi particolarmente pericolosi e sanguinosi. Eppure, alcune cellule della rete transnazionale del terrore, già dai primi anni Novanta, erano dislocate sul territorio nazionale e svolgevano diverse attività di supporto ai gruppi che all’estero - specie in Medio Oriente - con tenacia propugnavano e mettevano in pratica il jihad, realizzando attentati terroristici ed ingaggiando vere e proprie forme di guerriglia con governi considerati empi e meritevoli di essere sovvertiti. Queste cellule vennero indagate dalla magistratura inquirente e dalle forze di polizia, ma tali indagini furono rivolte contro i singoli sodalizi criminosi, composti spesso da pochi individui, e presero di mira esclusivamente i reatimezzo di criminalità comune che venivano compiuti in Italia (14). In altri termini, si combatteva la realizzazione di reati-mezzo, ma non si considerava il “disegno comune” del terrorismo e non se ne riusciva ad ipotizzare la componente consociativa. Ciò derivava principalmente dalla circostanza che, fino all’entrata in vigore del D.L. 18 ottobre 2001, n. 374 (convertito con legge 15 dicembre 2001, n. 438) e quindi alla novella dell’art. 270-bis c.p. (15), l’associazione con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico era punita, all’interno del nostro ordinamento, esclusivamente quando gli atti di violenza erano diretti all’eversione dell’ordine democratico dello Stato italiano, essendo tutelato il bene giuridico dell’ordinamento costituzionale italiano. A ciò seguiva l’impossibilità di perseguire, almeno in relazione alla più grave ipotesi di cui all’art. 270-bis c.p., sodalizi che si proponessero il compimento di atti terroristici all’estero e che in Italia svolgessero, in ipotesi, esclusivamente attività preparatoria o logistica (16). Queste circostanze impedirono altresì che l’attenzione dei penalisti si con- (14) Per alcune precisazioni sul punto e per un quadro sulle sentenze che, in assenza della normativa ad hoc introdotta nel 2001, giudicarono le cellule fondamentaliste presenti in Italia per i soli reatiscopo di criminalità comune si veda AR. SPATARO (a cura di), Dati sulle sentenze di condanna pronunciate in Italia, successivamente all’11 settembre 2001, per i reati di terrorismo internazionale o per i reati collegati al terrorismo internazionale, in R.E. KOSTORIS - R. ORLANDI (a cura di), Contrasto al terrorismo interno ed internazionale, Torino, 2006, p. 454 ss. I dati sono aggiornati al 15 ottobre 2006. Per un aggiornamento al 23 luglio 2007 si veda una nuova versione, inedita, predisposta dal curatore nell’ambito del progetto “Terrorism and Security: Coordination and Cooperation”, presso la New York University, Center on Law and Security, School of Law. (15) Vd. infra, Cap. III. (16) Cfr. Cass. pen., Sez. VI, sent. n. 737 del 24 febbraio 1999, Abdaoui e altri, in Dir. pen. proc., 2000, p. 485, con nota di A. PECCIOLI, Associazione a base italiana con finalità eversiva di un ordinamento straniero. Vd. anche P.L. VIGNA, La finalità di terrorismo ed eversione, Milano, 1981, p. 38 ss. 284 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 centrasse sull’applicabilità ai gruppi islamici fondamentalisti - pur già presenti sul territorio nazionale - della disciplina dell’associazione terroristica e sui problemi gravissimi che, da più punti di vista, questa operazione pone. Le cose cambiarono radicalmente, da ogni punto di vista, con l’attentato alle Twin Towers prima e con gli attentati di Madrid e di Londra poi (17). Del fatto che spesso solo eventi tragici e clamorosi come quelli riescano a sollevare l’opinione pubblica e a sensibilizzare il potere politico è sempre stato ben conscio lo stesso Osama bin Laden, il quale, intervistato il 20 ottobre 2001 dal capo dell’ufficio di Kabul della televisione satellitare al-Jazira Taysir Alluni sui fatti del mese precedente (18), osservava: “Di fronte ai recenti attacchi, viste anche le conseguenze che questi hanno portato, Bush e Blair hanno reagito con prontezza, dicendo che ora è tempo di creare una nazione indipendente in Palestina. Incredibile! Possibile che non ci sia stato un momento più opportuno negli ultimi dieci anni per affrontare questa questione, se non dopo quegli attacchi? Evidentemente non rinsaviscono se non con il linguaggio della violenza e della morte” (19). A partire da questo momento, infatti, l’attenzione dell’opinione pubblica italiana venne prima monopolizzata e poi comunque fortemente attratta dal fenomeno neoterroristico, che resta ancora oggi un motivo di forte interesse e timore collettivo. Timore legato soprattutto all’eventualità che anche sul territorio italiano possano essere realizzati attentati terroristici analoghi a quelli citati in precedenza ed a quelli ancora più recentemente eseguiti a Parigi nel corso del 2015. Né la morte di Osama bin Laden nel 2011 e le successive mutazioni del network jihadista globale hanno in alcun modo fatto scemare le preoccupazioni dell’Occidente. L’attenzione, anzi, si rivolge ora con terrore al nuovo fenomeno dell’ISIS, che del terrorismo islamico appare sinora l’estrinsecazione più temibile. Il problema del terrorismo internazionale di matrice islamica, già ovviamente intravisto dagli addetti ai lavori, si inserì quindi in primo piano nell’agenda politica degli Stati occidentali e venne alla ribalta (anche) da un punto di vista strettamente penalistico solo a partire dal 2001, allorquando vari Paesi, fra cui l’Italia, iniziarono a dotarsi di una normativa penale e amministrativa ad hoc. Tale esplosione del fenomeno terroristico e la sua preoccupante manifestazione anche nei Paesi occidentali ha costretto questi ultimi a enormi sforzi politici e sociali, tesi a ridurre il rischio di immani tragedie. (17) Il concetto è ben espresso da R. BETTINI, Delenda America. L’escalation del terrorismo internazionale islamista e la giustizia, in Iustitia, 2002, p. 144: “L’allucinante, truce attentato terroristico di gruppi islamici dell’11 settembre 2001, ed i commenti grotteschi dei relativi fomentatori, hanno dato agli occidentali brividi da Apocalisse imminente”. (18) Il testo integrale dell’intervista, tradotta in italiano, è ora riportato in B. LAWRENCE, Messaggi al mondo, Roma, 2007, p. 177 ss. (19) B. LAWRENCE, Messaggi, cit., p. 185 s. RECENSIONI 285 Ripercorrendo la tradizionale partizione dei poteri statuali, è possibile osservare come tutti e tre i poteri abbiano finito per costituire un corpo unitario contro la minaccia terroristica e abbiano, nel bene e nel male, adoperato tutte le proprie forze per respingere tale pericolo. Mi pare, tuttavia, che non tutti gli aspetti di questa battaglia siano stati chiariti dalla letteratura, la quale ha sviscerato, spesso in senso fortemente critico, l’operato dei legislatori e dei governi, senza quasi mai concentrarsi sul ruolo fondamentale che la giurisprudenza ha in questa partita. Quanto ai poteri legislativo ed esecutivo, infatti, appartiene ormai alla tradizione penalistica e processual-penalistica di questi ultimi anni il dibattito attorno al tema del cd. diritto penale del nemico e delle logiche d’autore nel contrasto al terrorismo islamico. La questione, sulla quale tornerò approfonditamente (20), fornisce la cifra della politica criminale adottata contro il terrorismo e concerne segnatamente i limiti che tali due poteri devono darsi nel contrasto allo jihadismo militante, con riferimento al necessario bilanciamento di interessi fra la tutela della pubblica incolumità e la protezione dei diritti fondamentali dei singoli individui coinvolti (presunti terroristi o terzi estranei che siano) (21). Tanta attenzione non è invece stata prestata alla lotta che contestualmente stanno compiendo le magistrature, chiamate ad applicare le vecchie categorie normative al fine di debellare un fenomeno criminale nuovo e sconosciuto nelle sue linee strutturali. Le difficoltà interpretative sembrano essersi concentrate, a livello giudiziario, attorno a due temi: uno abbondantemente sviscerato dalla dottrina e dalla giurisprudenza; uno sostanzialmente negletto o comunque decisamente sottovalutato. Il primo tema è sicuramente quello della nozione di terrorismo. Su tale profilo, pur interessantissimo, si sono già diffusamente intrattenuti gli Autori e gli operatori del diritto, tanto da lasciar credere che, anche alla luce dell’introduzione dell’art. 270-sexies c.p., esso abbia progressivamente acquisito sufficiente stabilità e meriti di essere solo accennato nel prosieguo (22). Il secondo tema, invece, è quello concernente la sussumibilità del nuovo terrorismo entro le vecchie fattispecie e le vecchie categorie dogmatiche. Sul punto, sono davvero scarsi gli studi che, partendo dalle profonde peculiarità strutturali delle reti cellulari jihadiste e scendendo sul terreno del diritto penale in action, si propongano, da un lato, di saggiare i limiti della compatibilità di tali strutture rispetto al reato associativo e alle altre fattispecie (direttamente o indirettamente) antiterroristiche e, dall’altro lato, di valutare l’eventuale necessità di adottare differenti tecniche di controllo della criminalità. (20) Infra, Cap. II. (21) In generale, cfr. R. BARTOLI, Lotta al terrorismo internazionale. Tra diritto penale del nemico, jus in bello del criminale e annientamento del nemico assoluto, Torino, 2008, passim. (22) Infra, Cap. III, § 3. 286 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 Su tali complesse fondamenta si innesta la presente ricerca che si propone di rispondere a una domanda cruciale: che fisionomia deve assumere lo strumento penale rispetto al terrorismo islamico per garantire, allo stesso tempo, la sicurezza dei cittadini e i loro diritti fondamentali? Si tratta di una questione apparentemente semplice, che nasconde peraltro infinte insidie e che presuppone la soluzione di una serie di successive problematiche intermedie, che il presente lavoro si propone di passare in rassegna. Anzitutto, non può procedersi ad alcuna valutazione di natura giuridica senza la preventiva analisi del complesso fenomeno socio-criminale in indagine. Occorre, in altri termini, sgombrare il campo dai luoghi comuni e dalle semplificazioni massmediatiche, per dedicarsi a un approfondimento delle dinamiche dello jihadismo militante. Il primo capitolo prende così le mosse da una sintetica analisi storico-sociologica della religione islamica e delle sue ricorrenti estrinsecazioni in fenomeni violenti di natura jihadista. In seguito la ricerca entra nel merito e fornisce un compiuto inquadramento del fenomeno terroristico di matrice islamico-radicale, ricostruito attraverso l’ausilio di copiose fonti giuridiche ed extragiuridiche di provenienza italiana, ma soprattutto internazionale (relazioni di polizia, fonti di intelligence e giornalistiche, materiali sequestrati, relazioni delle commissioni governative, informazioni riferite da pentiti ed infiltrati ecc.). Del fenomeno in discussione vengono indagati tutti i livelli, dal presunto livello macroscopico della rete globale fino al livello atomistico del singolo terrorista. In questa sede, sono analizzate le diverse estrinsecazioni dell’islamismo violento, dall’ormai longeva “nebulosa” di Al-Qaeda sino all’attuale e “materialissima” struttura para-statuale del cd. Stato Islamico. Il successivo passaggio consiste nel valutare l’approccio politico-criminale che si intende tenere contro un fenomeno criminale tanto pericoloso, dal momento che le concrete scelte legislative non possono che dipendere da questa preventiva presa di posizione. A tal proposito, nel secondo capitolo, formulate talune premesse di natura storico-filosofica, viene ripreso un confronto, frequente in letteratura, tra i due opposti modelli culturali e politico-criminali che si sono affermati nei Paesi occidentali in risposta al terrorismo islamico. In prima battuta viene analizzato il modello statunitense, scelto a livello comparatistico proprio per la sua tendenza estrema ad esasperare le logiche di contrasto all’“autore terrorista”, anche a discapito della tutela dei diritti individuali, secondo un approccio che è stato efficacemente descritto quale diritto penale del nemico. Di tale impostazione viene anche sottolineata la tendenza a rifuggire dallo strumento penale, in favore di opzioni di natura pseudo-amministrativa, più “snelle” e molto meno garantiste. Scartato tale modello, perché ritenuto illegittimo, viene posto al centro del discorso, in seconda battuta, il modello europeo continentale, il quale prevede l’impiego di altri meno invasivi strumenti di lotta, senz’altro più rispettosi delle garanzie individuali. RECENSIONI 287 Il favore verso l’approccio europeo, teso a perseguire il terrorismo attraverso l’ordinario sfruttamento del diritto penale, risolve una prima alternativa e porta così alla necessità di confrontarsi con le fattispecie delittuose attualmente utilizzate nella repressione del terrorismo stesso. In tale ottica, emerge il precipuo interesse per il reato associativo, dal momento che il delitto di associazione terroristica ex art. 270-bis c.p. rappresenta lo strumento adoperato in via quasi esclusiva dalla giurisprudenza italiana ed europea nel contrasto dello jihadismo violento. Per risolvere uno dei problemi principali di questa ricerca - ossia quello della compatibilità delle strutture del terrorismo islamico con le categorie dogmatiche del reato associativo - viene fornita, nel terzo capitolo, un’accurata ricostruzione degli elementi costitutivi dell’art. 270-bis c.p. e delle disposizioni che concorrono ad integrarlo, seguendo le orme del tradizionale dibattito circa gli elementi organizzativo e teleologico dell’associazionismo criminoso. Il confronto fra la (de)strutturazione del terrorismo islamico, indagata nel primo capitolo, e le categorie del reato associativo, recuperate nel terzo, lasciano ipotizzare l’idea che queste ultime non siano idonee a “coprire” il fenomeno criminale in indagine, in ragione del profondo gap strutturale che separa il nuovo terrorismo da un diritto sorto su basi criminologiche del tutto difformi. Nel quarto capitolo, pertanto, attraverso l’analisi di sentenze di legittimità e soprattutto di merito, molte delle quali inedite, si giunge alla dimostrazione della tesi appena indicata, secondo cui le (già descritte) categorie dogmatiche sono tendenzialmente incompatibili con le strutture cellulari del terrorismo transnazionale di matrice islamica, attualmente presenti in Occidente. Le difficoltà nel ricondurre le realtà cellulari del terrorismo islamico al reato associativo e le forzature che in tal senso vengono praticate spingono verso la ricerca di strumenti normativi differenti. In particolare, dal punto di vista del reato associativo, all’interno del quinto capitolo viene gettato un primo sguardo sull’ordinamento spagnolo, selezionato a livello comparatistico in ragione di alcuni elementi fondamentali: i) la tendenziale scelta politicocriminale di mantenere, analogamente all’Italia, l’azione dello Stato entro l’alveo del diritto penale “del cittadino”, evitando le esasperazioni dell’approccio statunitense; ii) l’analoga base categoriale, dovuta alla comune influenza dell’impostazione teorica europeo-continentale su entrambi i sistemi penali; iii) le rilevanti novità legislative, introdotte in Spagna nel 2010 e nel 2015, con le quali si è proceduto, espressamente per ragioni di tutela della sicurezza pubblica scaturenti dal fenomeno terroristico di matrice islamica, ad alcune importanti modifiche delle fattispecie antiterroristiche. In questo capitolo, in particolare, viene approfondito - come si diceva - il versante dei reati associativi, attraverso l’analisi, ante e post riforma del 2010, degli istituti della “asociación ilicita”, della “organización terrorista” e del “grupo terrorista”. Un particolare approfondimento, in vista di successive osservazioni in tema di con- 288 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2016 trollo della criminalità, viene riservato proprio alla fattispecie associativa “minore” di grupo, nata espressamente nel 2010 per superare le tensioni che - in Spagna come in Italia - si avvertono nel tentativo di adattare alla rete cellulare del nuovo terrorismo le vecchie categorie dell’asociación e dell’organización. Lasciate le “secche” del reato associativo, il sesto capitolo approfondisce il tema della possibile repressione del terrorismo internazionale di matrice islamica attraverso le fattispecie espressamente antiterroristiche, diverse dal reato associativo. A tal proposito vengono di nuovo comparati l’ordinamento italiano e quello spagnolo che, anche in questo caso, mostrano talune differenze a livello di sistema, pur nella comune impostazione di massima. Dell’ordinamento italiano, in particolare, sono prese in considerazione le fattispecie antiterroristiche non associative presenti nel codice e nelle leggi speciali e, fra queste, precipuamente le ipotesi di arruolamento e addestramento con finalità di terrorismo (artt. 270-quater e 270-quinquies c.p.), recentemente novellate da un’importante riforma del 2015. Vengono quindi analizzate le due ragioni fondamentali della sostanziale disapplicazione dei delitti in parola: i) la natura onnivora dell’associazione terroristica, intesa nei termini sbiaditi, in precedenza evidenziati; ii) la complessa struttura tipologica delle menzionate fattispecie antiterroristiche, le quali, richiedendo il dolo specifico (talvolta addirittura duplice), richiamano la complessa definizione di cui all’art. 270- sexies c.p. e così pretendono note di idoneità rispetto alla realizzazione di gravissimi fatti di terrorismo. A questo scenario, viene contrapposta l’impostazione normativa adottata in Spagna. Il legislatore iberico, andando persino oltre le già discutibili richieste comunitarie di criminalizzazione, ha infatti creato una normazione penale talmente pervasiva ed arretrata da essere stata efficacemente descritta quale “orgía punitiva” ed è giunto a livelli inediti di arretramento della tutela penale, giungendo all’incriminazione di chi consulta siti estremisti e di chi detiene materiale di propaganda jihadista. L’ultimo capitolo del libro è dedicato alle conclusioni e alle prospettive di intervento sulla legislazione vigente. A tal proposito, vengono indicate alcune soluzioni de lege lata e de lege ferenda, finalizzate alla prevenzione e al controllo della criminalità terroristica, attraverso strumenti che siano allo stesso tempo efficaci e rispettosi del ruolo che deve essere assegnato ad un diritto penale garantista, democratico e costituzionalmente orientato. In questo contesto, viene quindi ribadita l’inconciliabilità con i principi del nostro Stato di diritto del modello del cd. “diritto penale del nemico”, ma viene anche enucleata una categoria più subdola, ivi definita “diritto penale (del cittadino) adattato alle forme del nemico”. Anche questa impostazione viene respinta, perché ritenuta distorsiva rispetto a tradizionali categorie dogmatiche che non possono essere a tal punto plasmate per finalità repressive, secondo pericolose direttrici di distorsione probatoria. Alla luce di queste riflessioni, de lege lata, si indicano: i) gli stretti limiti di applicazione dell’associazione terroristica, RECENSIONI 289 ricavati attraverso un’interpretazione che non snaturi i requisiti strutturali del reato associativo e che non confonda quest’ultimo con la mera comunanza di basi socio-culturali e di aspirazioni estremistiche; ii) gli spazi di operatività delle fattispecie non associative espressamente terroristiche, così come ricavati dalla corretta lettura del requisito del dolo specifico che le connota; iii) la possibilità, sinora trascurata, di colpire le condotte (potenzialmente) prodromiche rispetto a condotte terroristiche attraverso reati comuni, che siano egualmente efficaci e che non forzino la prova della tensione teleologica verso condotte con finalità di terrorismo. De lege ferenda, invece, vengono formulati alcuni caveat ed alcune proposte. Dal primo punto di vista, sono riassunte le ragioni che depongono contro l’indiscriminato arretramento della tutela penale, sancendo così la scarsa appetibilità dei (pur diversi tra loro) modelli statunitense e spagnolo. A livello propositivo, per contro, vengono sondati e problematizzati due possibili interventi di riforma. In primo luogo, seguendo ed approfondendo gli auspici della migliore letteratura penalistica, viene proposta una modifica del reato associativo (recte: una generale norma definito-ria), che colmi la lacuna nella definizione del concetto di “associazione” attraverso l’introduzione espressa dei profili statici e dinamici della struttura criminale. In secondo luogo, viene valutata la possibilità di introdurre specifici reati, anche di natura ostativa, che evitino le difficoltà probatorie scaturenti dall’accertamento della finalità di terrorismo e che, anche attraverso una corretta modulazione penologica, apprestino una tutela efficace ma ragionevole, senza forzature ermeneutiche ed eccessi sanzionatori. Finito di stampare nel mese di settembre 2016 Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo S.p.A. Vicolo della Guardiola n. 22 - 00186 Roma