ANNO LXVII - N. 2 APRILE - GIUGNO 2015 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO COMITATO SCIENTIFICO: Presidente: Michele Dipace. Componenti: Franco Coppi - Giuseppe Guarino - Natalino Irti - Eugenio Picozza - Franco Gaetano Scoca. DIRETTORE RESPONSABILE: Giuseppe Fiengo - CONDIRETTORI: Giacomo Arena e Maurizio Borgo. COMITATO DI REDAZIONE: Lorenzo D’Ascia - Gianni De Bellis - Sergio Fiorentino - Paolo Gentili - Maria Vittoria Lumetti - Francesco Meloncelli - Marina Russo - Massimo Santoro - Carlo Sica - Stefano Varone. CORRISPONDENTI DELLE AVVOCATURE DISTRETTUALI: Andrea Michele Caridi - Stefano Maria Cerillo - Luigi Gabriele Correnti - Giuseppe Di Gesu - Pierfrancesco La Spina - Marco Meloni - Maria Assunta Mercati - Alfonso Mezzotero - Riccardo Montagnoli - Domenico Mutino - Nicola Parri - Adele Quattrone - Pietro Vitullo. HANNO COLLABORATO INOLTRE AL PRESENTE FASCICOLO: Domenico Andracchio, Guglielmo Bernabei, Maria Elena Caprio, Francesco Maria Ciaralli, Lucrezia D’Avenia, Roberto De Felice, Gianna Maria De Socio, Roberto Di Renzo, Emanuela Favara, Fabrizio Fedeli, Claudio Guccione, Domenico Maimone, Massimo Massella Ducci Teri, Francesco Molinaro, Glauco Nori, Gabriele Pepe, Nicola Pistilli, Francesco Scardino, Antonio Tallarida, Ilaria Tortelli. E-mail: giuseppe.fiengo@avvocaturastato.it - tel. 066829313 maurizio.borgo@avvocaturastato.it - tel. 066829562 ABBONAMENTO ANNUO ..............................................................................€ 40,00 UN NUMERO .............................................................................................. € 12,00 Per abbonamenti ed acquisti inviare copia della quietanza di versamento di bonifico bancario o postale a favore della Tesoreria dello Stato specificando codice IBAN: IT 42Q 01000 03245 348 0 10 2368 05, causale di versamento, indirizzo ove effettuare la spedizione, codice fiscale del versante. I destinatari della rivista sono pregati di comunicare eventuali variazioni di indirizzo AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO RASSEGNA - Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma E-mail: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it Stampato in Italia - Printed in Italy Autorizzazione Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 INDICE - SOMMARIO TEMI ISTITUZIONALI Modalità di redazione degli atti dinanzi al G.A., Circolare AGS 13 giugno 2015 prot. 280380 n. 26. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Controversie sulla responsabilità civile dei magistrati ai sensi della legge n. 117/1988. Modifiche introdotte dalla legge n. 18/2015. Prime indicazioni. Modalità di costituzione nel giudizio di Cassazione nelle residue controversie sulla ammissibilità della domanda (c.d. “fase filtro”). Attività di monitoraggio delle cause pendenti nelle sedi distrettuali, Circolare AGS 16 giugno 2015 prot. 285336 n. 27 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE Domencio Andracchio, Tutela dell’ambiente marino, sorveglianza delle attività marittime e condivisione del «patrimonio informativo pubblico europeo» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Roberto De Felice, La CEDU sulla tutela delle coppie omosessuali in Italia. L’onda lunga di Schalk e Kopf (C. europea dei diritti dell’uomo, Sez. IV, sent. 21 luglio 2015, Oliari ed altri c. Italia). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Stefano Varone, La Corte di giustizia e il principio di non discriminazione nel rapporto di lavoro a tempo determinato (C. giustizia Ue, Sez. Terza, sent. 9 luglio 2015, causa C-177/14) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Emanuela Favara, L’abuso del diritto nelle triangolazioni doganali (C. giustizia Ue, Sez. Quarta, sent. 9 luglio 2015, causa C-607/13) . . . . . . . CONTENZIOSO NAZIONALE Gabriele Pepe, Necessità di un’adeguata motivazione della legge restrittivamente incidente nella sfera giuridica dei cittadini? (C. cost., sent. 30 aprile 2015 n. 70) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Francesco Molinaro, Il procedimento di contrattazione in tema di vendita immobiliare (Cass. civ., Sez. Un., sent. 6 marzo 2015 n. 4628). . . . . . . . Lucrezia D’Avenia, Il sindacato e la figura istituzionalmnete preposta alla tutela dei lavoratori (Trib. Napoli, Sez. lavoro e previdenza, decr. 27 aprile 2015 n. 14536) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Domenico Maimone, Sul rimborso delle spese di patrocinio legale a dipendente della Regione Sicilia: il giudizio di congruità dell’Avvocatura dello Stato (Trib. Catania, Sez. I civ., sent. 11 maggio 2015 n. 2060) . . . Maria Elena Caprio, La responsabilità civile dello Stato legislatore per la lesione del diritto di voto: l’atto defensionale dell’Avvocatura dello Stato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Nicola Pistilli, L’arco temporale di operatività delle astreintes: oscillazioni pretorie e orizzonti di riforma (Cons. St., Sez. V, sentt. 12 maggio 2015 nn. 2340, 2341, 2342, 2343, 2344) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1 ›› 6 ›› 11 ›› 47 ›› 63 ›› 79 ›› 107 ›› 136 ›› 157 ›› 161 ›› 167 ›› 178 Sul fermo amministrativo ex art. 69, ult. co., R.D. 2440/1923 (T.a.r. Lazio, Sez. Terza, ord. 19 giugno 2015 n. 2616). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO Lorenzo D’Ascia, Modalità di erogazione dei contributi pubblici ai privati per interventi di ricostruzione in Abruzzo (sisma 2009) . . . . . . . . . . Gianna Maria De Socio, Semplificazione ed accelerazione del processo di esecuzione: sull’accesso all’Anagrafe Tributaria . . . . . . . . . . . . . . . . Fabrizio Fedeli, Agenzia delle Entrate: validità degli atti sottoscritti da funzionari incaricati di mansioni dirigenziali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ Francesco Scardino, Una analisi del “Decreto antiterrorismo” . . . . . . . Antonio Tallarida, Quote latte: fine di un regime controverso . . . . . . . . Ilaria Tortelli, Roberto Di Renzo, Una pausa di riflessione sull’art. 51 T.u.e.l.: interruzione della continuità del mandato di sindaco in caso di gestione commissariale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Claudio Guccione, La finanza di progetto nell’affidamento della concessione di servizi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . CONTRIBUTI DI DOTTRINA Glauco Nori, Osservazioni sulla legge Severino (che poi legge non è) . . Guglielmo Bernabei, Ordinanze di protezione civile e riserva di decretazione d’urgenza. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Francesco Maria Ciaralli, Contratti autonomi di garanzia e contributi pubblici alle imprese: stato dell’arte e recenti decisioni giurisprudenziali RECENSIONI Guglielmo Bernabei, Giacomo Montanari, Tributi Propri e Autonomie Locali. Difficile sviluppo di un sistema di finanza propria degli enti locali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 187 ›› 189 ›› 199 ›› 209 ›› 215 ›› 240 ›› 252 ›› 256 ›› 275 ›› 280 ›› 311 ›› 323 TEMI ISTITUZIONALI Avvocatura Generale dello Stato CIRCOLARE N. 26/2015 Oggetto: Modalità di redazione degli atti dinanzi al G.A. Si trasmette il decreto del Presidente del Consiglio di Stato in data 25 maggio 2015, pubblicato sulla G.U. del 5 giugno 2015, n. 128, e allegata relazione, che contiene alcune indicazioni sulle modalità di redazione degli atti defensionali dinanzi al Giudice Amministrativo alle quali le SS.LL. avranno cura di attenersi. L'AVVOCATO GENERALE Massimo Massella Ducci Teri Decreto n. 40 Consiglio di Stato Il Presidente VISTO l'articolo 120 dell'allegato I al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, come modificato dall'articolo 40 del decreto legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito in legge 11 agosto 2014, n. 114, nella parte in cui dispone che le dimensioni del ricorso e degli altri atti difensivi sono contenute nei termini stabiliti con decreto del Presidente del Consiglio di Stato, in coerenza con il principio di sinteticità di cui all'articolo 3, comma 2, del medesimo allegato I al decreto legislativo n. 104 del 2010; RAVVISATA la necessità dì emanare tale decreto; SENTITI il Consiglio nazionale forense e l'Avvocato generale dello Stato, nonché le associazioni di categoria riconosciute degli avvocati amministrativisti; DECRETA 1. Il presente decreto disciplina la dimensione dei ricorsi e degli altri atti difensivi nei giudizi di cui all’articolo 120 dell'allegato I al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, come rnodìficato dall'articolo 40 del decreto legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito in legge 11 agosto 2014, n. 114. 2 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2 /2015 2. Salvo quanto previsto ai numeri 8 e 9, le dimensioni dell'atto introduttivo del giudizio, del ricorso incidentale, dei motivi aggiunti, degli atti di impugnazione principale ed incidentale della pronuncia di primo grado, della revocazione e dell'opposizione di terzo proposti avverso la sentenza di secondo grado, dell'atto di costituzione, delle memorie e di ogni altro atto difensivo non espressamente disciplinato dai numeri seguenti, sono contenute, per ciascuno di tali atti, nel numero massimo di 30 pagine, redatte in conformità alle specifiche indicate al numero 12. 3. La domanda di misure cautelari autonomamente proposta successivamente al ricorso e quella dì cui all'articolo 111 del codice del processo amministrativo sono contenute, per ciascuno di tali atti, nel numero massimo di 10 pagine. 4. Le memorie di replica sono contenute, ciascuna, nel numero massimo di 10 pagine. 5. L'atto di intervento e le memorie della parte non necessaria del giudizio sono contenute, per ciascun atto, nel numero massimo di 10 pagine. 6. La dimensione dell'atto di motivi aggiunti è autonomamente computabile soltanto qualora venga proposto in relazione ad atti o fatti la cui conoscenza sia intervenuta successivamente a quella degli atti impugnati con il ricorso cui accede. 7. Dai limiti di cui ai numeri 2, 3, 4, e 5 sono escluse le intestazioni e le altre indicazioni formali dell'atto, comprendenti, in particolare: - l'epigrafe dell'atto; - l'indicazione delle parti e dei difensori e relative formalità; - l'individuazione dell'atto impugnato; - il riassunto preliminare, di lunghezza non eccedente le due pagine, che sintetizza i motivi dell'atto processuale; - le ragioni, indicate in non oltre due pagine, per le quali l'atto processuale rientri nelle ipotesi di cui ai numeri 8 o 9 e la relativa istanza ai fini di quanto previsto dal numero 11; - le conclusioni dell'atto; - le dichiarazioni concernenti il contributo unificato e le altre dichiarazioni richieste dalla legge; - la data e luogo e le sottoscrizioni delle parti e dei difensori; - l'indice degli allegati; - le procure a rappresentare le parti in giudizio; - le relazioni di notifica e le relative richieste e dichiarazioni. 8. Con il decreto di cui al numero 11 sono autorizzati limiti dimensionali non superiori, nel massimo a 50 pagine per gli atti indicati al numero 2 ed a 15 pagine per gli atti indicati ai numeri 3, 4 e 5, qualora la controversia presenti questioni tecniche, giuridiche o di fatto particolarmente complesse ovvero attenga ad interessi sostanziali perseguiti di particolare rilievo anche economico; a tal fine vengono valutati, esemplificativamente, il valore della causa, comunque non inferiore a 50.000.000 curo, determinato secondo i criteri relativi al contributo unificato; il numero e l'ampiezza degli atti e provvedimenti effettivamente impugnati, la dimensione della sentenza impugnata, l'esigenza di riproposizione di motivi dichiarati assorbiti ovvero di domande od eccezioni non esaminate, la necessità di dedurre distintamente motivi rescindenti e motivi rescissori, l'avvenuto riconoscimento della presenza dei presupposti di cui ai numeri 8 o 9 nel precedente grado del giudizio, la rilevanza della controversia in relazione allo stato economico dell'impresa; l'attinenza della causa a taluna delle opere di cui all'articolo 125 del codice del processo amministrativo. 9. Con il decreto dì cui al numero 11 può essere consentito un numero di pagine superiore a quelli indicati al numero 8, qualora i presupposti di cui ai medesimo numero 8 siano TEMI ISTITUZIONALI 3 di straordinario rilievo, tale da non permettere una adeguata tutela nel rispetto dei limiti dimensionali da esso previsti. 10. Nei casi di cui ai numeri 8 e 9, è sempre redatto il riassunto preliminare dei motivi proposti. 11. La valutazione in ordine alla sussistenza dei presupposti di cui ai numeri 8 e 9 è effettuata dal Presidente della Sezione competente o dal magistrato da lui delegato. A tal fine il ricorrente formula in calce al ricorso istanza motivata, sulla quale il Presidente o il magistrato delegato si pronuncia con decreto entro i tre giorni successivi. In caso di mancanza o di tardività della pronuncia l'istanza si intende accolta. Il decreto favorevole ovvero l'attestazione di segreteria o l'autodichiarazione del difensore circa l'avvenuto decorso del termine in assenza dell'adozione del decreto sono notificati alle controparti unitamente al ricorso. I successivi atti difensivi di tutte le parti seguono il medesimo regime dimensionale. 12. Ai fini delle disposizioni precedenti, gli atti debbono essere redatti su foglio A4, mediante caratteri di tipo corrente (ad es. Times New Roman, Courier, Arial o simili) e di dimensioni di almeno 12 pt nel testo e 10 pt nelle note a piè di pagina, con un'interlinea di 1,5 e margini orizzontali e verticali di almeno cm. 2,5 (in alto, in basso, a sinistra e a destra della pagina). 13. In caso di utilizzo di caratteri, spaziature e formati diversi da quelli indicati al numero 12, ne deve essere possibile la conversione in conformità alle specifiche tecniche sopra indicate. 14. Il presente decreto si applica alle controversie il cui termine di proposizione del ricorso di primo grado o di impugnazione inizi a decorrere trascorsi trenta giorni dalla pubblicazione del decreto medesimo sulla Gazzetta Ufficiale. 15. Nella prima attuazione del presente decreto, relativamente ai giudizi il cui ricorso di primo grado sia stato proposto antecedentemente alla data di entrata in vigore di cui al numero 14, in sede di impugnazione il Presidente o il magistrato delegato si pronuncia ai sensi del numero 11 valutando anche le dimensioni del ricorso e degli atti difensivi del giudizio di primo grado. 16. Le disposizioni del presente decreto sono applicate in via sperimentale, ai sensi dell'articolo 40, comma 2-bis, del decreto legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito nella legge 11 agosto 2014, n. 114. È fatta riserva di loro modifica o integrazione ad esito del monitoraggio del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa previsto dalla medesima norma. Il presente decreto sarà pubblicato nella Gazzetta Ufficìale della Repubblica Italiana. 25 MAGGIO 2015 Il Presidente del Consiglio di Stato Avv. Giorgio Giovannini CONSIGLIO DI STATO RELAZIONE Il presente provvedimento attua la disposizione contenuta nell'art. 40 del decreto legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito nella legge 11 agosto 2014, n. 114, il quale, come è noto, nel modificare l'art. 120 del codice del processo amministrativo, per i giudizi ivi contemplati ha demandato al Presidente del Consiglio di Stato di determinare, con proprio decreto, la dimensione del ricorso e degli altri atti difensivi, in coerenza con il principio di sinteticità di cui all'art. 3, comma 2, del medesimo codice del processo amministrativo. In sede istruttoria sono stati acquisiti gli avvisi dell'Avvocato generale dello Stato e degli organismi espressivi dell'Avvocatura previsti dallo stesso art. 40. Sono state inoltre svolte indagini a campione presso il Consiglio di Stato ed i Tribunali 4 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2 /2015 amministrativi regionali del Lazio e della Lombardia, al fine di verificare le dimensioni medie dei ricorsi depositati nel periodo di tempo considerato. Si è altresì tenuto conto dei provvedimenti di matrice europea i quali, con valenza peraltro prevalentemente non cogente, disciplinano le dimensioni degli atti difensivi dinanzi agli organi giudiziari operanti nell'ambito dell'Unione europea e della Convenzìone europea dei diritti dell'uomo. Nella formulazione del decreto si è mirato a comporre le esigenze di particolare sinteticità degli atti sottese alla norma, con quella del rispetto del principio di effettività della tutela giurisdizionale. In ordine alle singole prescrizioni si osserva quanto segue. 1. Viene definito l'ambito di applicazione del provvedimento e, cioè, la sua afferenza al contenzioso di cui all'art. 120 del codice del processo amministrativo. 2. Viene determinata nel numero massimo di 30 pagine la dimensione dei ricorsi e degli altri atti difensivi specificamente elencati e comunque non considerati nei numeri seguenti del decreto. Tale limite si pone nell'ambito della fascia dimensionale prevalentemente stabilita in sede europea e recepisce quanto rappresentato sul punto dal Consiglio nazionale forense e da una delle associazioni degli avvocati amministrativisti. 3, 4 e 5. Vengono stabilite dimensioni massime più ristrette per una serie di atti difensivi caratterizzati dall'essere accessivi ad altri atti già acquisiti al giudizio (domanda di misure cautelari presentata successivamente al ricorso, memorie di replica, intervento adesivo dipendente). 6. Viene precisato che l'atto di motivi aggiunti è autonomamente computabile soltanto se venga proposto - come peraltro è la regola - in relazione ad atti o fatti venuti a conoscenza dell'istante o resisi a lui conoscibili dopo la proposizione del ricorso cui accede. Si vuole con ciò evitare la possibilità che, attraverso la concomitante proposizione dell'impugnazione principale e di motivi aggiunti, entrambi basati sui medesimi elementi, vengano elusi i limiti dimensionali del ricorso fissati dal presente provvedimento. 7. In conformità alla previsione contenuta nell'art. 40 cit., vengono enumerati ì vari elementi costituenti le indicazioni formali dell'atto, che non vanno computati ai fini del raggiungimento del numero massimo dì pagine. Si segnala che tra tali elementi sono compresi il riassunto preliminare che sintetizza i motivi dell'atto processuale nonché la esposizione delle ragioni per le quali l'atto si assuma rientrare nelle deroghe di cui ai successivi numeri 8 e 9. Per entrambi tali casi è fissato il numero massimo di 2 pagine. 8. Viene stabilito il maggiore numero massimo di 50 pagine per gli atti di cui al n. 2 e di 15 pagine per gli atti di cui ai numeri 3, 4 e 5 qualora la controversia presenti questioni tecniche, giuridiche o di fatto particolarmente complesse ovvero attenga ad interessi sostanzìali perseguiti di speciale rilievo anche economico. La prescrizione si conforma a quanto previsto sul punto dall'art. 40 cit. e indica, in via puramente esemplificativa, una serie di elementi che potranno essere considerati in sede di valutazione ai fini dell'assunzione del decreto previsto dal successivo numero 11. Si segnala in particolare l'elemento del valore della causa, determinato secondo i criteri relativi al contributo unificato (art. 14, comma 3-ter, d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 e successive modificazioni), che potrà a tal fine essere considerato soltanto ove non inferiore a 50.000.000 di euro. 9. Viene previsto che, in sede di decreto ex numero 11, sia consentito un numero superiore di pagine, qualora i presupposti di cui al numero 8 siano dì straordinario rilievo, tale da non permettere una adeguata tutela nel rispetto dei limiti dimensionali da esso previsti. Si ìntende così garantire comunque, per casi assolutamente eccezionali, l'effettività della tutela giurisdizionale, in aderenza anche a quanto previsto dalle normative europee. TEMI ISTITUZIONALI 5 10. Relativamente alle cause per le quali siano riconosciute le ragioni di deroga di cui ai numeri 8 e 9, viene richiesta, al fine di agevolarne l'esame da parte del Collegio, la redazione del riassunto preliminare dei motivi proposti. Si rinvia a quanto indicato a proposito del numero 7. Non è prevista una particolare sanzione in ipotesi di mancato assolvimento di tale onere, rimettendosi al Collegio di decidere se imporlo, con conseguente rinvio della causa, o se pronunciarsi indipendentemente da esso, fatta salva la sua valutazione ai fini delle spese del giudizio. 11. Tra le varie possibili soluzioni circa la rilevazione dei casi di cui ai numeri 8 e 9, si è ritenuto di stabilire che, ancora prima della notificazione del ricorso, l'istante debba formulare in seno allo stesso apposita domanda motivata al fine di fruire della maggiore consistenza dimensionale prevista dai numeri stessi. L'istanza è rimessa alla decisione, con decreto, del Presidente della Sezione competente (o, ovviamente, nei Tribunali amministrativi regionali privi di Sezione al Presidente del Tribunale) o del magistrato da lui delegato. Tale procedura, che accoglie una espressa richiesta in tal senso del Consiglio nazionale forense e di una delle associazioni degli avvocati amministrativisti, assicura la massima anticipazione della decisione sugli aspetti dimensionali della controversia, offrendo immediata certezza sul punto anche alle controparti chiamate a redigere i rispettivi atti di difesa in identico regime. È stabilito il termine di tre giorni per la pronuncia sulla istanza. A garanzia del richiedente la mancata adozione del decreto o la sua adozione tardiva comportano silenzio assenso. A sua volta a garanzia delle controparti si prevede l'obbligo di notifica ad esse, unitamente al ricorso, del decreto del Presidente o del magistrato delegato ovvero della certificazione di segreteria circa l'avvenuta formazione del silenzio assenso ovvero ancora, a fini semplificatori, della autodichiarazione al riguardo da parte dell'istante. Ovviamente tutti i successivi atti delle parti del giudizio seguono il medesimo regìme dimensionale. Non si è ritenuto di fissare una prescrizione circa la sorte delle censure contenute nelle pagìne del ricorso che siano eventualmente presentate in numero eccedente quello consentito con il decreto. Si tratta, infatti, di questione attinente all'interpretazione dell'art. 40 cit., che può trovare soluzione soltanto in via giurisprudenziale. 12 e 13. Vengono definite le specifiche grafiche mediante le quali gli scritti debbono essere redatti. Si segnala che la prescrizione del numero 12 ricalca quella già operante presso la Corte di giustizia dell'Unione europea (Istruzioni pratiche alle parti, pubblicate in G.U.U.E. 31 gennaio 2014, L 31, punto 35, secondo alinea). 14 e 15. Viene stabilito che il provvedimento si applichi alle controversie il cui termine di proposizione inizi a decorrere, sia quanto ai ricorsi di primo grado sia quanto alle impugnazioni, trascorsi trenta giorni dalla pubblicazione del provvedimento stesso sulla Gazzetta Ufficiale. La previsione si informa allo stesso criterio seguito dal comma 2 dell'art. 40 cit., a proposito dell'operatività delle nuove norme processuali da esso stabilite. Non ne è apparsa possibile l'applicazione ai giudizi già in corso, perché ciò avrebbe significato una sperequazione tra le dimensioni (libere) degli atti depositati antecedentemente alla data predetta e quelle (limitate) degli atti successivi. In questa medesima ottica per il caso in cui il giudizio di primo grado si sia svolto sotto il regime dimensionale libero e quello di impugnazione debba invece svolgersi sotto il nuovo regime dimensionale limitato, è previsto che la pronuncia ai sensi dell'art. 11, tenga anche conto delle dimensioni con cui sono stati redatti, di fatto, gli atti di primo grado. 16. Si conferma la previsione dell'art. 40 cit., comma 2-bis, secondo cui le disposizioni del decreto si applicano in via sperimentale e ne viene fatta riserva di modifica od integrazione ad esito del monitoraggio del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa previsto dalla norma stessa. Giorgio Giovannini 6 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2 /2015 CIRCOLARE N. 27/2015 Oggetto: Controversie sulla responsabilità civile dei magistrati ai sensi della legge n. 117/1988. Modifiche introdotte dalla legge n. 18/2015. Prime indicazioni. Modalità di costituzione nel giudizio di Cassazione nelle residue controversie sulla ammissibilità della domanda (c.d. "fase filtro"). Attività di monitoraggio delle cause pendenti nelle sedi distrettuali. Come è noto, le controversie in materia di responsabilità civile dei magistrati disciplinate dalla legge n. 117/1988 sono state oggetto di un recente intervento di modifica ad opera della legge n. 18/2015 (in G.U. 4 marzo 2015, n. 52), entrata in vigore il 19 marzo 2015. Non essendo stata prevista una disciplina transitoria, la nuova formulazione della legge pone problemi interpretativi di diritto intertemporale che riguardano, in particolare: a) l'eliminazione della fase di delibazione sull'ammissibilità della domanda - c.d. "fase filtro" - ad opera dell'art. 3 della legge 18/2015 che ha abrogato l'art. 5; b) la previsione del più lungo termine di decadenza di tre anni per la proposizione dell'azione in luogo del precedente termine di due anni (art. 3 della legge 18/2015 che ha modificato gli artt. 5 e 4, commi 2 e 4), termine che è rimasto ancorato all'esaurimento dei rimedi previsti dall'ordinamento per l'eliminazione del provvedimento lesivo; c) la previsione del più lungo termine di due anni per l'esercizio dell'azione di rivalsa (definita espressamente obbligatoria) nei confronti del magistrato, decorrente dal risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o di titolo stragiudiziale (nuova formulazione dell'art. 7); d) l'aumento della misura dell'obbligo di rivalsa a carico del magistrato, fino ad una somma che non può superare "la metà di una annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui l'azione di risarcimento è proposta" in luogo del limite precedentemente previsto pari ad un terzo di una annualità dello stipendio, sempre al netto delle trattenute fiscali (nuova formulazione dell'art. 8, comma 3). Limitatamente a tali questioni, e con riserva di ulteriori approfondimenti, si forniscono le seguenti indicazioni sulle linee difensive da adottare. a) Abolizione della c.d. fase filtro In relazione alla fase di delibazione sull'ammissibilità della domanda (c.d. fase filtro), per le controversie introdotte con atto di citazione notificato o con ricorso depositato anteriormente alla data del 19 marzo 2015 di entrata in vigore della legge 18/2015 - a fronte di possibili eccezioni delle controparti o della sottoposizione da parte del giudice al contraddittorio della relativa questione - si potrà sostenere che la predetta fase processuale continua ad essere applicabile ratione temporis in quanto: 1) la nuova disciplina ha abolito una intera fase processuale e non ha eliminato singoli atti o adempimenti nell'ambito dello stesso rito, per cui il principio dell'immediata applicabilità delle norme processuali non trova diretta applicazione nella fattispecie; 2) la fase prevista dall'art. 5 legge 117/1988 era deputata a valutare l'ammissibilità della domanda prevedendo che "La domanda è inammissibile quando non sono rispettati i termini o i presupposti di cui agli articoli 2, 3 e 4 ovvero quando è manifestamente infondata". Trattandosi, pertanto, di valutazione di ammissibilità della domanda collegata al rispetto dei termini e dei presupposti, il giudizio va effettuato al momento della sua proposizione, rimanendo indifferenti i successivi mutamenti legislativi in quanto non idonei a disciplinare i requisiti di un atto processuale (ivi compresa la domanda giudiziale) già posto in essere dalla parte; TEMI ISTITUZIONALI 7 3) la giurisprudenza, sia pure nella diversa situazione in cui il legislatore, senza una disciplina di carattere transitorio, aveva abolito una condizione di procedibilità della domanda, ha ritenuto che "La procedibilita della domanda deve ... essere apprezzata alla stregua delle disposizioni allora vigenti" (cfr. Cass. 7 febbraio 2006 n. 2527 e Cass. 13 aprile 2000 n. 4803 in materia di locazione); 4) il nuovo intervento legislativo ha mantenuto immutato l'art. 6, comma 3 in base al quale "Il magistrato cui viene addebitato il provvedimento non può essere assunto come teste né nel giudizio di ammissibilità, né nel giudizio contro lo Stato". La circostanza che il legislatore abbia lasciato inalterata la predetta disposizione, può costituire utile argomento per sostenere l'attuale vigenza (per le cause gia iniziate) del "giudizio di ammissibilità", formulazione che non sarebbe stata evidentemente mantenuta qualora ii legislatore avesse voluto abolire tout court la fase filtro anche per i processi in corso; 5) lo Stato convenuto in un'azione proposta sotto la vigenza dell'art. 5 L. 117/88 poteva legittimamente limitare la sua difesa esclusivamente in relazione alla fase di ammissibilità della domanda potendo il giudizio concludersi in tale fase preliminare. Conseguentemente ove non si applicasse più il filtro (in una causa già incardinata) sarebbe leso il diritto di difesa del convenuto che potrebbe non aver assunto una completa posizione difensiva sul merito della lite. In definitiva, in mancanza di una disciplina transitoria che preveda l'immediata caducazione dei giudizi di ammissibilità in corso, deve ritenersi che gli stessi possano legittimamente proseguire sulla base della previgente disciplina. La tesi risulta confortata dalla recente giurisprudenza della Suprema Corte che, nel decidere una controversia avente ad oggetto un provvedimento di inammissibilità della domanda, reso in sede di c.d. "filtro" ex art. 5 1. 117/88, ha ritenuto testualmente: "È superfluo annotare che non può trovare applicazione alla fattispecie la legge 27 febbraio 2015, n. 18, che ha modificato in più parti la legge 13 aprile 1988, n. 117, mediante - tra l'altro - la soppressione della fase preliminare di vaglio di ammissibilità e la rimodulazione dei termini di proposizione: in quanto essa, priva di disciplina transitoria, non può che regolare le fattispecie successive alla sua entrata in vigore (19 marzo 2015), quale certamente non è quella odierna". (Cass. Civ., Sez. VI-3, ordinanza n. 10121/2015 depositata in data 18 maggio 2015). b) Il nuovo termine di decadenza triennale per l'azione di danni In relazione alla previsione del più lungo termine di decadenza per la proposizione dell'azione - di tre anni in luogo del termine di due anni (art. 3 della legge 18/2015 che ha modificato l'art. 4, commi 2 e 4, ed abrogato l'art. 5) - si può sostenere che la nuova disposizione non è applicabile nei casi in cui, alla data della sua entrata in vigore (19 marzo 2015) fosse già maturato il termine di decadenza biennale. Viceversa coloro per i quali, alla predetta data, non fosse già maturata la decadenza potranno usufruire del più lungo termine triennale. A sostegno della tesi sopra esposta oltre alla sopra citata ordinanza (Cass. Civ., Sez. VI- 3 n. 10121/2015), si potrà far riferimento alla costante giurisprudenza della Suprema Corte nell'analoga fattispecie dell'aumento da 18 a 48 mesi del termine di decadenza per il rimborso di tributi non dovuti di cui all'art. 38 del D.P.R. n. 602/1973: "il più ampio termine di decadenza ... mentre trova applicazione nel caso in cui, alla data di entrata in vigore di detta legge (18 maggio 1999), sia ancora pendente il termine originario, non è applicabile qualora, alla data predetta, tale termine sia già scaduto, avendo ciò determinato, in base ai principi generali in tema di efficacia delle leggi nel tempo, il definitivo esaurimento del rapporto tra il contribuente, che pretende il rimborso, e l'amministrazione finanziaria. Per i versamenti già effettuati alla data di entrata in vigore della novella del 1999, pertanto, ciò che conta, al fine 8 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2 /2015 di poter beneficiare del prolungamento del termine, è che alla data stessa sia ancora pendente il termine previgente, mentre non assume rilievo la pendenza di una controversia nella quale si discuta della tempestività di detta istanza" (da ultimo, Cass. 29 gennaio 2014 n. 2016; si veda, altresì, Cass. civ. Sez. V, Sent., 22 gennaio 2014, n. 1255 secondo cui "in assenza di un regime transitorio, una norma che prolunghi la durata di un termine decadenziale stabilito da una precedente disposizione - e che entri in vigore quando ancora il primo termine non sia decorso, cioè prima che si sia verificata la decadenza dal diritto - esplica la sua efficacia sul rapporto giuridico ancora pendente; e, perciò, pur non essendo retroattiva, vale a prolungare il termine precedente per la nuova durata da essa stabilita (Cass. sez. trib. n. 924 del 2005; Cass. sez. trib. n. 20978 del 2004; in tema, limitrofo, di prescrizioni, conformi, Cass. sez. lav. n. 8236 del 1994; Cass. sez. lav. n. 4961 del 1980"). Potrà, inoltre, fondatamente richiamarsi il principio generale in virtù del quale qualsiasi situazione o rapporto giuridico diviene irretrattabile in presenza di determinati eventi (quali lo spirare di termini di prescrizione o di decadenza, l'intervento di una sentenza passata in giudicato, o altri motivi previsti dalla legge) a tutela del fondamentale e irrinunciabile principio, di preminente interesse costituzionale, della certezza delle situazioni giuridiche (su cui di recente cfr. Cassazione civile sez. un. 16 giugno 2014 n. 13676 in materia di declaratoria di incompatibilità comunitaria di una norma interna, che non ha riflessi sulle decadenze già maturate). In coerenza con tali principi le nuove disposizioni che hanno previsto un diverso e più lungo termine per la proposizione della domanda di responsabilità, si ritengono applicabili alla sole situazioni in cui gli effetti del rapporto giuridico non siano già esauriti a causa del decorso del previgente termine di legge. Si coglie l'occasione per segnalare che il dies a quo di decorrenza del termine è rimasto ancorato all'esaurimento dei rimedi previsti dall'ordinamento per l'eliminazione del provvedimento lesivo (art. 4 comma 2: "L'azione di risarcimento del danno contro lo Stato può essere esercitata soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell'ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno"; cfr. al riguardo la recente Cass. 17 aprile 2015 n. 7924). c) Il nuovo termine biennale per l'azione di rivalsa Per analoghe considerazioni anche il nuovo termine per l'azione di rivalsa (due anni dal risarcimento) sarà immediatamente applicabile solo laddove, alla data di entrata in vigore della legge 18/2015, non sia già maturato il termine annuale previsto dalla precedente disciplina. Ad ogni modo, trattandosi di azione che va proposta dall'Avvocatura dello Stato nell'interesse della P.C.M., per opportuna cautela nei casi di controversie già pendenti alla data di entrata in vigore della legge 18/2015, in cui occorra esercitare l'azione di rivalsa, si avrà cura di rispettare il precedente termine annuale decorrente dall'avvenuto risarcimento (sulla base di titolo giudiziale o di titolo stragiudiziale: art. 7). d) L'aumento della misura della rivalsa La misura della somma dovuta dal magistrato in sede di rivalsa dovrà essere ancorata alla legge in vigore al momento in cui l'azione di risarcimento è proposta, trattandosi di norma di natura sostanziale che limita la responsabilità civile del magistrato. La nuova disciplina sul punto non potrà pertanto trovare applicazione in relazione a fatti commessi prima dell'aggravamento della responsabilità in via di rivalsa (19 marzo 2015). TEMI ISTITUZIONALI 9 Ne consegue che per le cause di risarcimento contro lo Stato introdotte sia prima che dopo il 19 marzo 2015 ma relative a fatti posti in essere prima di tale data, la successiva azione di rivalsa potrà essere esercitata nel limite massimo di un terzo di una annualità dello stipendio al netto delle trattenute fiscali (ex art. 8, comma 3, previgente). Solo per le cause di risarcimento introdotte nel vigore della nuova disciplina e relative a fatti posti in essere dopo la suddetta data, la rivalsa a carico del magistrato potrà arrivare fino alla "metà di una annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui l'azione di risarcimento è proposta" (art. 8, comma 3, testo attuale). * * * * Modalità di costituzione nel giudizio di Cassazione nella fase di ammissibilità della domanda. Per quanto concerne la trattazione delle controversie in corso, si coglie l'occasione per fornire indicazione sulla gestione delle relative cause nella fase di legittimità. Come è noto la già richiamata "fase filtro" può comportare una declaratoria di inammissibilità della domanda da parte del Tribunale, reclamabile dinnanzi alla Corte di Appello che si pronuncia anch'essa in camera di consiglio, con decreto impugnabile in Cassazione. In particolare, ai sensi dell'art. 5, comma 4 della legge 117/1988 "... Contro il decreto di inammissibilità della corte d'appello può essere proposto ricorso per cassazione, che deve essere notificato all'altra parte entro trenta giorni dalla notificazione del decreto da effettuarsi senza indugio a cura della cancelleria e comunque non oltre dieci giorni. Il ricorso è depositato nella cancelleria della stessa corte d'appello nei successivi dieci giorni e l'altra parte deve costituirsi nei dieci giorni successivi depositando memoria e fascicolo presso la cancelleria. La corte, dopo la costituzione delle parti o dopo la scadenza dei termini per il deposito, trasmette gli atti senza indugio e comunque non oltre dieci giorni alla Corte di cassazione che decide entro sessanta giorni dal ricevimento degli atti stessi ". Consegue da quanto sopra che, in caso di notifica di un ricorso per cassazione ad istanza della controparte, la difesa nel giudizio di legittimità non avviene, secondo le regole generali, attraverso la notificazione di un controricorso, bensì attraverso il deposito, presso la cancelleria del giudice a quo, di una memoria e del fascicolo di parte, deposito da effettuarsi nel breve termine di 20 giorni dalla notificazione del ricorso per cassazione. La difesa nel giudizio di legittimità ai sensi dell'art. 5 comma 4 dovrà pertanto essere curata dalla competente Avvocatura Distrettuale che provvederà a depositare presso la locale Corte d'appello la memoria ed il fascicolo di parte, inviandone successivamente copia alla Scrivente per l'ulteriore prosieguo del giudizio davanti alla Suprema Corte. In ordine alle modalità di notificazione del ricorso per Cassazione ad istanza delle controparti, si evidenzia che la Corte di Cassazione (sezione I civile, sentenza 28 novembre 2003 n. 18191) ha ritenuto in passato, in linea con le regole generali, che la notifica del ricorso nel giudizio di legittimità "...va effettuata nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri presso l'Avvocatura generale dello Stato; pertanto, se la parte abbia notificato il ricorso al Presidente del Consiglio dei ministri presso l'Avvocatura distrettuale dello Stato, qualora questi non si sia costituito nel giudizio di legittimità, deve essere disposta la rinnovazione della notificazione". Si osserva, tuttavia, che il predetto orientamento non è stato rigorosamente seguito dalla Corte che, in talune occasioni (cfr. ad es. ordinanza n. 13985/2014, ma anche la già citata Cass. Civ., Sez. VI-3, ordinanza n. 10121/2015), ha deciso nel merito il ricorso notificato presso l'Avvocatura distrettuale, senza ordinare la rinnovazione della notificazione ex art. 291 c.p.c. 10 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2 /2015 In considerazione di quanto sopra nonché del limitato rilievo temporale delle controversie ancora assoggettate alla "fase filtro", si ritiene opportuno che la notificazione dell'impugnazione presso l'Avvocatura Distrettuale sia considerata comunque idonea a far decorrere il termine per la costituzione in giudizio ai sensi dell'art. 5, comma 4. Conseguentemente: a) nel caso di notificazione del ricorso per cassazione presso l'Avvocatura Distrettuale, questa curerà la tempestiva costituzione in giudizio, trasmettendo all'Avvocatura Generale copia della memoria depositata e della documentazione di causa; b) nel caso di notificazione del ricorso per cassazione presso l'Avvocatura Generale, l'atto introduttivo verrà trasmesso senza indugio alla competente Avvocatura Distrettuale per il seguito di competenza. * * * * Attività di monitoraggio delle cause pendenti nelle Sedi distrettuali. In considerazione della delicatezza delle controversie di cui alla legge n. 117/1988 è necessario un puntuale e costante monitoraggio delle cause in corso, finalizzato non solo al coordinamento dell'attività difensiva, ma anche a consentire la celere ed efficace elaborazione dei dati relativi al contenzioso. Per quanto sopra si dispone che le Avvocature Distrettuali informino in via telematica direttamente la Segreteria dell'Avvocato Generale (segreteria.particolare@avvocaturastato.it): a) delle controversie in materia di responsabilità civile dei magistrati disciplinate dalla legge n. 117/1988 introdotte successivamente all'entrata in vigore (19 marzo 2015) della legge n. 18/2015 (in G.U. 4 marzo 2015, n. 52); b) della pendenza di tutte le controversie in materia di responsabilità civile dei magistrati disciplinate dalla legge n. 117/1988 introdotte prima all'entrata in vigore (19 marzo 2015) della legge n. 18/2015 (in G.U. 4 marzo 2015, n. 52), ma non ancora definite, in cui vengano in rilievo le questioni di diritto intertemporale esaminate nella presente circolare. Tali informazioni dovranno essere complete degli eventuali provvedimenti resi ed, in ogni caso, dovranno contenere la segnalazione delle questioni di particolare rilevanza che dovessero essere oggetto di causa (a titolo esemplificativo questioni di costituzionalità, di compatibilità con il diritto dell'U.E., specificamente riguardanti gli aspetti di diritto intertemporale ovvero nuove in relazione alle modifiche introdotte dalla 1. 18/2015). L'AVVOCATO GENERALE DELLO STATO Massimo Massella Ducci Teri CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE Tutela dell’ambiente marino, sorveglianza delle attività marittime e condivisione del «patrimonio informativo pubblico europeo» Domenico Andracchio* Perché quelle acque dove giungono, risanano e là dove giungerà il torrente tutto rivivrà. (Ezechiele 47,7) SOMMARIO: 1. Premessa - 2. Le acque come componente indefettibile del “bene-ambiente” - 3. L’ambiente marino: da risorsa naturale sfruttata (nelle prime antiche civiltà) a risorsa strategica depauperata (nella civiltà moderna) - 4. La trasversalità delle materie coinvolte nell’ambito del CISE (Common Information Sharing Environment) e il principio di ripartizione delle competenze tra Unione europea e Stati membri - 5. La proliferazione dei tipi di minaccia alla sicurezza marittima derivanti dalla crescita esponenziale dei traffici via mare e le inefficienze connesse all’assenza di strumenti di coordinamento delle informazioni acquisite dalle Autorità competenti a garantire l’applicazione della legge nell’ambiente marino come ratio giustificatrice del CISE (Common Information Sharing Environment) - 6. La condivisione del c.d. patrimonio informativo pubblico europeo quale fulgida attuazione del principio di «leale cooperazione» tra Istituzioni europee e Stati membri. Il procedimento (consultivo e decisionale) per la elaborazione del sistema comune di condivisione delle informazioni sulla sicurezza marittima (CISE) - 7. L’avvio del processo decisionale da cui ha tratto origine la consapevolezza delle Istituzioni europee e degli Stati membri di dovere condividere le informazioni utili a garantire la salubrità e la sicurezza dell’ambiente marino. La (*) Dottore in Giurisprudenza, gia praticante forense presso l’Avvocatura dello Stato. Il presente saggio giuridico è stato redatto dall’Autore su rielaborazione di parte della sua tesi finale per un Master: “Si tratta di un contributo dedicato ad un progetto europeo che, basato sulla condivisione dei dati, dovrebbe rendere più sicure le acque europee, così da consentire alle Autorità competenti di poter meglio fronteggiare le sfide che le acque, oggi, pongono: dalla salubrità dei mari e degli oceani al controllo delle dogane, dall’immigrazione al traffico di sostanze stupefacenti, etc.”. 12 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 comunicazione della Commissione europea COM (2009) 538 “Verso l’integrazione della sorveglianza marittima: un sistema comune per la condivisione delle informazioni sul settore marittimo dell’UE” - 7.1. (segue) La presentazione della comunicazione COM (2009) 538 al Consiglio dell’Unione europea - Affari Generali e le relative conclusioni del 14 giugno 2010 con cui è stata fissata una precisa scansione temporale per la elaborazione di una tabella di marcia - 7.2. (segue) La comunicazione della Commissione COM (2010) 584 relativa a un progetto di “tabella di marcia” per la creazione di un sistema comune per la condivisione delle informazioni ai fini della sorveglianza del settore marittimo dell'UE - 8. Lo stato attuale del processo collaborativo per la realizzazione del sistema comune di condivisione delle informazioni utili alla sicurezza marittima integrata (CISE). I risultati ottenuti e le successive tappe da attuare. La comunicazione della Commissione COM (2014) 451 “Rafforzare la cooperazione tra le autorità di sorveglianza marittima per un’azione consapevole ed efficace: le prossime tappe nell’ambito del sistema comune per la condivisione delle informazioni sul settore marittimo dell’UE” - 9. Considerazioni conclusive. 1. Premessa. Per l’Unione europea il mare e gli oceani costituiscono un’importante risorsa economica e strategica. Questo non soltanto per via del fatto che le coste europee sono bagnate da quattro mari e da due oceani, ma anche perché l’Europa continua ad essere, a tutt’oggi, il più importante operatore economico nei traffici marittimi. Nondimeno è sempre l’Europa a doversi interfacciare, in maniera assai ravvicinata, con i Paesi dell’Africa settentrionale e, soprattutto, con le complesse questioni (di vario ordine e natura) che stanno trascinando con sé i flussi migratori di quella gente costretta ad abbandonare il dramma delle loro terre natie e quindi a vedere nel Continente antistante l’anelata meta di approdo. E si tratta - come d’ovvio - di questioni dinanzi alle quali gli Stati membri e le Istituzioni europee, per ragioni etico-morali e in virtù di obblighi internazionali, non possono di certo riservare “orecchie sorde”. Fatto è che la libera ed incondizionata accessibilità delle acque europee, da parte di qualunque soggetto (pubblico e privato), hanno reso l’ambiente marittimo, specie negli ultimi anni, il teatro privilegiato per la realizzazione di scambi e attività non sempre lecite e destinate ad incidere, in misura diversa, sulla salubrità delle acque e sulla sicurezza delle frontiere. Pertanto, la Commissione europea e i singoli Stati membri, nel prendere atto della necessità di creare dei meccanismi che, basati sul principio di leale cooperazione, siano capaci di consentire la individuazione tempestiva delle migliori strategie da adottare al fine di prevenire e/o reagire alle sfide che le acque pongono, si sono convinti che il procedere in maniera separata ed autonoma non permette alle competenti Autorità (nazionali ed europee, civili e militari) di calibrare adeguatamente la loro azione di prevenzione, di pattugliamento e di tutela dell’ambiente marittimo. Da una tale consapevolezza è così discesa la logica certezza che le sfide e le problematiche connesse alle «zone acquatiche» debbono essere affrontate con un approccio condiviso ed intersettoriale: le diverse CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 13 Autorità, quindi, per esercitare le funzioni loro attribuite in modo adeguato e tempestivo dovranno cooperare lealmente tra di loro. Ma cosa significa, più specificamente, in questa sede, cooperare lealmente tra di loro? Posta la pluralità di contorni e di sfumature che il principio di leale cooperazione è suscettibile di assumere, alla domanda si può rispondere che nell’ambito della sicurezza marittima integrata europea gli si è inteso dare la fisionomia propria della cooperazione informativa in forza della quale gli attori coinvolti si impegneranno a condividere tutte le informazioni utili a garantire, appunto, una maggiore salubrità dell’ambiente marino e un più elevato tasso di sicurezza dei flussi marittimi. È in questo che si sostanzia il progetto di creare un sistema comune per la condivisione delle informazioni relative alla sicurezza marittima (c.d. CISE Common Information Sharing Environment) ed è a questo ambizioso progetto europeo che è dedicato il presente contributo. Questa la struttura del saggio: dopo essere stata evidenziata (alla luce del vivace dibattito dottrinale registratosi sul punto) la riconducibilità delle acque alla più ampia nozione di ambiente, e dopo essere state analizzate le ragioni che hanno portato alla elaborazione del progetto di condivisione delle informazioni pertinenti all’ambiente marino e alle attività svolte in esso con il correlato processo decisionale che ne è scaturito, si giungerà a rassegnare alcune considerazioni conclusive nelle quali saranno individuate, sommessamente, talune criticità che rischiano di minacciare la realizzazione dell’iniziativa di cui trattasi e che sembrano essere state sottovalutate dalla Commissione europea. Cos’è il CISE? Quali sono le ragioni che hanno indotto la Commissione europea e gli Stati membri a pensare di creare un sistema comune di condivisione delle informazioni? Quali sono i suoi tratti maggiormente caratteristici? Come è venuto articolandosi il processo decisionale che ha portato alla sua elaborazione? Quali sono le fasi di attuazione indicate dalla Commissione europea? Quali sono i vantaggi che esso assicurerà e quali i passi sinora fatti dagli Stati membri? Quali sono i possibili ostacoli alla sua concreta realizzazione? Sono queste ed altre le domande alle quali si cercherà di dare risposta e che perciò hanno assolto il difficile compito di fungere da “stella polare” a cui è stato improntato tutto lo snodo narrativo. Dunque, nonostante il CISE sia un progetto - come meglio si vedrà - ancora in fase di realizzazione e benché la produzione letteraria non vi abbia ancora dedicato particolare attenzione è parso tutt’altro che inutile addentrasi nell’analisi di una iniziativa europea che, se portata a compimento per come si spera, sarà indubbiamente capace di cambiare le sorti delle acque d’Europa e di creare il più grande sistema di condivisione del patrimonio informativo pubblico che la storia delle organizzazioni internazionali abbia mai conosciuto. 14 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 2. Le acque come componente indefettibile del “bene-ambiente”. Il mare e gli oceani d’Europa rivestono un’importanza fondamentale per la sopravvivenza dell’umanità intera, ma, ancor di più, per il quotidiano e frenetico agire dell’uomo moderno, ribattezzato convenzionalmente dai più autorevoli esponenti delle scienze sociali come homo oeconomicus, quale «essere razionale sempre più ad agio nei panni di giudice competente ed esclusivo dei propri interessi, fortemente orientato a massimizzarne la realizzazione ed indotto a fare ciò sulla base di una qualunque forma di calcolo utilitario» (1). Quale che sia la prospettiva (laica o religiosa) dalla quale si intenda prendere le mosse, non può essere refutato in dubbio che l’ambiente acquatico è, a rigore, inevitabilmente legato alla comparsa delle prime forme di vita. Se la scienza è dell’avviso che «l’origine della vita sulla Terra è da farsi coincidere con la comparsa di acqua allo stato liquido sulla superficie terrestre, avvenuta circa 4,4 miliardi di anni fà» (2), nondimeno nelle Sacre Scritture le acque vengono concepite come presupposto necessario per la vita, dal momento che nel libro della Genesi si precisa come «Dio disse: Le acque brulichino di esseri viventi (…)» (3). Peraltro, a confermare la straordinaria importanza delle acque concorrono anche le caratteristiche fisiche e morfologiche della Terra: unico pianeta del sistema solare coperto per il 71% di acqua (costituita per il 97,5% da acqua salata e per la restante percentuale da acqua dolce localizzata per il 68,9% in ghiacciai e nevi perenni, per il 29,9% nel sottosuolo e per il 0,3% in fiumi e laghi). Nella sua accezione strettamente chimica, l’acqua (H2O) non ha occasionato particolari problemi di carattere definitorio. Essa si sostanzia in un composto chimico, in verità assai semplice, costituito da due atomi di idrogeno legati ad un atomo di ossigeno. E però, uscendo dai confini chimici, il quadro delle cose viene a mutare. Può dirsi - senza timore di smentita - che l’acqua è legata da un rapporto di species ad genus alla più ampia nozione di ambiente, costituendone una componente. Va da sé, che da questo punto di vista, le acque rimangono - per così dire - fatalmente imprigionate nella evanescenza e nella vaporosità della nozione di ambiente. Occorre allora chiedersi come può essere definito l’ambiente, giacché solo così facendo sarà possibile prendere sentore della rilevanza strategica che i mari e gli oceani assumono nella moderna economia, unitamente alle complesse sfide che le Istituzioni pubbliche sono chiamate ad affrontare di- (1) Per un’analisi davvero dettagliata delle plurime problematiche (semantiche, giuridiche, economiche e filosofiche) connesse alla tematica, assai dibattuta, dell’homo oeconomicus si v. CARUSO S., Homo oeconomicus. Paradigma, critiche, revisioni, Firenze, 2012, p. 11. (2) WILDE S.A. - VALLEY J.W. - PECKW.H. - GRAHAM C.M., Evidence from detrital zircons or the existence of continetal crust and oceans on the Earth 4.4. Gyr ago, in Nature, n. 409/2011, pp. 175 ss. (3) GENESI 1:20-31. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 15 nanzi ad un utilizzo sempre crescente di essi. Orbene, gli studiosi di ogni settore, nel tentativo di formulare una definizione quanto più possibile esaustiva di ambiente, sono giunti a conclusioni non sempre univoche. Dalla celeberrima definizione offerta nel 1673 da Galileo Galilei, stando alla quale «l’ambiente è lo spazio circostante l’uomo», di passi in avanti ne sono stati fatti; specie nell’ambito del diritto, le elaborazioni propugnate dal legislatore (nazionale e internazionale) e dalla giurisprudenza della Corte costituzionale italiana sono state in grado di mettere in evidenza degli aspetti connessi al “bene-ambiente” che la originaria definizione galileiana rischiava - forse troppo - di lasciare celati. Negli anni, la letteratura giuridica si è divisa in conseguenza di una opposta concezione dell’ambiente come bene «plurimo» e «divisibile» ovvero, all’opposto, come bene «unitario» ed «indivisibile». Ne è derivata l’esistenza di due diversi orientamenti: la tesi pluralista, da un lato, e quella monista dall’altro. Secondo i sostenitori della prima teoretica «l’ambiente costituisce una semplice espressione convenzionale comprendente i diversi beni giuridici delle bellezze paesistiche e culturali, dell’ambiente inteso come insieme di spazi terrestri, acquatici, aerei nonché dell’ambiente in relazione al governo del territorio » (4). Come è stato giustamente rilevato (5), quello testé richiamato è un orientamento dottrinale che, seppure autorevole e suggestivo, deve considerarsi anacronistico, in quanto «legato ad un periodo storico superato, nel quale il diritto all’ambiente non si era ancora affermato pienamente». Va da sé, quindi, che risultano assai più conformi con le categorie dogmatiche e con i principi ispiratori che sovraintendono al diritto amministrativo dell’ambiente, gli assunti sui quali si fonda la teoria monista. I corifei di essa sono dell’avviso che «l’ambiente è un “bene-sintesi” perché caratterizzato dalla relazione tra le singole res che lo compongono, così che le leggi di settore non vanno considerate come leggi rivolte alla tutela del bene cui fanno riferimento, ma al sovrapposto “bene-ambiente” che subisce una lesione ogniqualvolta si danneggi un bene sottostante» (6). È a quest’ultimo orientamento dottrinale che occorre accordare usbergo (4) GIANNINI M.S., Primi rilievi sulla nozione di gestione dell’ambiente e del territorio, in Riv. trim. dir. pubbl., n. 2/1975, pp. 479 ss. (5) BERTUZZI R., La nuova definizione di ambiente secondo la Corte costituzionale (nota a C. Cost., 23 gennaio 2009, n. 12), in www.federalismi.it, 2009. (6) La teoria monista dell’ambiente è stata fortemente sostenuta, tra gli altri, da LOMBARDI P., I profili giuridici della nozione di ambiente: aspetti problematici, in Foro. amm. - TAR, n. 2/2002, p. 764 ss. L’autore, in particolare, ritiene che il crescente interessamento riservato dalle Istituzioni europee alle tematiche ambientali ha posto i fondamenti per l’enucleazione di un concetto unitario di ambiente. Tra gli interventi normativi attuati in sede comunitaria, rilevano, senza dubbio, i contenuti della Direttiva sulla valutazione di impatto ambientale (Direttiva 85/337/Cee del 27 giugno 1985), nella quale l’ambiente viene considerato unitariamente composto da uomo, fauna, flora, suolo, acqua clima, paesaggio, patrimonio culturale e dall’interazione tra gli stessi. 16 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 giuridico. Per vero, non può essere sottaciuto che la tesi monista ha trovato pieno riconoscimento in quel consolidato insegnamento giurisprudenziale della Corte costituzionale in ossequio al quale «la disciplina unitaria e complessiva del bene ambiente inerisce ad un interesse pubblico di valore costituzionale “primario” (sentenza n. 151 del 1986) ed “assoluto” (sentenza n. 641 del 1987), e deve garantire (come prescrive il diritto comunitario) un elevato livello di tutela, come tale, inderogabile dalle altre discipline di settore» (7). Dunque, le acque (assieme a tutte le altre singole componenti che concorrono a formare quel bene composito ed unitario che è l’ambiente) devono essere studiate, in un’ottica unitaria, nel più ampio contesto delle problematiche ambientali; non è né ammissibile tampoco utile un approccio per “compartimenti stagni”. Per converso, poiché le questioni che interessano direttamente una singola componente dell’ambiente finiscono con l’avere delle ripercussioni indirette sulle altre, quindi sull’ambiente tutto, si impone alla comunità scientifica e alle Autorità deputate ad occuparsi (a qualsiasi livello) di tematiche ambientali, di prediligere un approccio sistemico che tenga conto dell’elevatissimo grado di interrelazione esistente tra le plurime componenti dell’ambiente. Una emergenza ambientale non può essere affrontata in modo efficace se non si tenga conto di una siffatta interrelazione; il rischio più alto, sul piano delle scelte strategico-istituzionali, è senza dubbio quello di sottovalutare e/o sopravvalutare la portata del fenomeno da contrastare e, conseguentemente, di non riuscire a calibrare gli strumenti di intervento di cui doversi avvalere (8). Così, per fare un esempio, si pensi al fenomeno del surriscaldamento del Pianeta: in esso sono coinvolti tanto l’aria (per via dell’eccessiva immissione di anidride carbonica nell’atmosfera terrestre), quanto le acque (per via dello (7) Corte costituzionale, 23 gennaio 2009, n. 12, in www.cortecostituzionale.it. Tra le altre definizioni moniste del concetto di ambiente si ricordano: a) le definizione elaborata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità secondo la quale «L’ambiente è l’insieme dei fattori fisici, chimici, biologici e sociali che esercitano una influenza apprezzabile sulla salute ed il benessere dell’uomo»; b) la Dichiarazione delle Nazioni Unite alla Conferenza su “L'Ambiente Umano” tenutasi a Stoccolma dal 5 al 16 giugno 1972, che ha considerato il bisogno di prospettive e principi comuni al fine di inspirare e guidare i popoli del mondo verso una conservazione e miglioramento dell'ambiente umano, nella quale l’ambiente viene ad essere identificato nelle «risorse naturali della Terra ivi comprese l'aria, l’acqua, la terra, la flora e la fauna, e particolarmente i campioni rappresentativi degli ecosistemi naturali, devono essere preservati nell’interesse delle generazioni presenti e future, attraverso un'adeguata pianificazione e gestione»; c) Corte Internazionale di Giustizia (parere consultivo in tema di minaccia dell’uso di armi nucleari, 8 luglio 1996) definisce l’ambiente come «lo spazio in cui vivono gli essere umani e dal quale dipendono la qualità della loro vita e la loro salute, anche per le generazioni future». (8) Per approfondimenti sul tema della stretta connessione tra le tematiche ambientali, sotto il profilo giuridico, interessanti spunti di riflessione si rinvengono in MEZZETTI L., Manuale di diritto ambientale, Padova, 2001; CANGELOSI G., Tutela dell'ambiente e territorialità dell'azione ambientale, Milano, 2009; MAGLIA S., Diritto Ambientale. Alla luce del TU ambientale e delle novità del 2011, Assaglio, 2011; GIUFFRIDA R., Diritto europeo dell'ambiente, Torino, 2012; DELL’ANNO P. - PICOZZA E., Trattato di diritto dell'ambiente - vol. II. Discipline ambientali di settore, Padova, 2013. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 17 scioglimento dei ghiacciai a cui fa seguito l’innalzamento dei mari e degli oceani) e la fauna (per via delle migrazioni, verso altri luoghi, a cui sono costrette alcune specie animali). 3. L’ambiente marino: da risorsa naturale sfruttata (nelle prime antiche civiltà) a risorsa strategica depauperata (nella civiltà moderna). Come si è visto, le acque (marine, oceaniche e dolci) sono da farsi rientrare nella più ampia nozione di ambiente. Da ciò ne discende che, per ragioni prima ancora logiche che argomentative, tutte le esigenze di tutela ambientale si estendono - con le loro specifiche caratterizzazioni - alle acque presenti su tutta la superficie terrestre. La salute del globo dipende anche della concreta attuazione di efficaci programmi di controllo e prevenzione che, nel coinvolgere una platea quanto più vasta di police maker disposti a cooperare lealmente tra di loro, possano rivelarsi idonei a salvaguardare il corretto utilizzo delle acque. Per vero, come avvertiva una autorevole dottrina, «la salute del pianeta Terra è divenuto un compito che solo la comunità internazionale, agendo con il massimo spirito di collaborazione, può assumersi» (9). L’esigenza di realizzare dei programmi funzionalmente preordinati a tutelare, in maniera adeguata, le plurime componenti che concorrono a formare quel “bene-unitario” che è l’ambiente (quindi anche le acque) ha iniziato ad essere avvertita come un’esigenza emergenziale ed improcrastinabile a partire dal secondo dopoguerra; circostanza, questa, da farsi coincidere con il mutamento di concezione delle acque e dell’importanza strategica di esse. È vero che anche le antiche civiltà fecero presto a capire che le acque costituivano una risorsa fondamentale per la loro autoconservazione. I luoghi maggiormente interessati da giacimenti di acqua, per essere connotati da una più ricca varietà di flora e di fauna, permettevano di avere delle migliori aspettative di vita, poiché l’acqua consentiva di poter meglio curare l’igiene personale, di coltivare i campi ed allevare il bestiame e, non in ultimo, di “curare” infezioni ed abrasioni cutanee di cui gli uomini dell’antichità erano frequentemente affetti. Non è casuale il fatto che le prime grandi civiltà siano nate in luoghi connotati dalla presenza di corsi d’acqua; basti pensare ai Mesopotami (10), che vissero in una zona (corrispondente con l’attuale Iraq) attraversata dal Tigri e dall’Eufrate; ai Fenici, che invece vissero lungo le coste orientali del Mediterraneo (in una località corrispondente con l’attuale Libano) (11); (9) BALLARINO T., Azioni di diritto privato, in Riv. dir. intern., 1990, pp. 849 ss. (10) FOREST J.D., Mesopotamia. L’invenzione dello Stato, Milano, 1996; GILLES M., Iraq. Diecimila anni in Mesopotamia, Torino, 2003; BUCCELLATI G., Il paese delle quattro rive. Corpus mesopotamico, Milano, 2013. (11) ACQUARO E. - DE VITA P., Fenici. Storia e tesori di un’antica civiltà, Novara, 2010; SOMMER M., I fenici, Bologna, 2010; QUILICI F., Il mare dei fenici, Firenze-Milano, 2008. 18 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 agli Egizi (12), che arrivarono a riconoscere una dimensione divina al fiume Nilo; ai Romani (13), le cui antiche tribù, abbondonarono le zone montuose in cui si erano inizialmente insediati, per trasferirsi sulla sponda sinistra del Tevere. Tuttavia, le ridottissime conoscenze tecniche a disposizione degli antichi popoli impedivano a questi di valorizzare, al massimo, le infinite potenzialità delle acque. Non che questi non avessero già iniziato a sfruttare i corsi d’acqua per fini latamente strategici ed economici, ma il volume di affari marittimi non era certo così significativo da porre il problema di fissare delle regole finalizzate a regolamentare, per l’appunto, l’utilizzo delle acque. È con il repentino sviluppo della tecnica, registratosi nella seconda metà del secolo scorso, combinato con la crescita esponenziale dei traffici marittimi, che l’uomo ha iniziato ad utilizzare le acque non più come risorsa naturale per lo più impiegabile al fine di soddisfare esigenze di vita quotidiana, bensì come risorsa strategica. Si è giustamente scritto che in questo momento storico «l’uomo ha iniziato ad essere consapevole del fatto che può concepire il mare come un vasto campo di sfruttamento e utilizzazione, non solo per quanto riguarda i prodotti che può ricavarne, ma anche per i trasporti, di cose o persone, che avvengono per mezzo di esso» (14). Tra le acque, sono i mari e gli oceani a costituire il “teatro” privilegiato per la realizzazione di operazioni della più disparata natura: dal trasporto di persone e di merci alla pesca (15). Una tale classificazione è tuttavia troppo riduttiva. Nelle due sopraccennate macro-aree si inseriscono, infatti, tutta una serie di attività presupposte, connesse e consequenziali che sovente si traducono in comportamenti contra ius perché posti in essere in ispregio della normativa (nazionale ed internazionale) a tutela dell’ambiente marino e della sicurezza dei flussi marittimi: si pensi, ad exempli causa, alla commercializzazione illecita di merci contraffatte e/o di animali esotici che può nascondersi dietro una normale attività di trasporto marittimo di merci, alla tratta di schiavi dissimulata da un regolare traporto di persone via mare, al rastrellamento abusivo dei fondali marini con tecniche di pesca vietate ovvero in zone non aperte alla pesca libera, alle attività militari non autorizzate che possono mettere a repentaglio l’ordine pubblico, la sovranità o la sicurezza di uno Stato, etc. Nel voler tipizzare sommariamente le condotte illecite che possono essere perpetrate in mare, si è dell’avviso che ci si possa avvalere delle enfatiche parole contenute nel paragrafo 1 del Preambolo della Dichiarazione (12) WILKINSON T. - GIACONE L., L’antico Egitto. Storia di un impero millenario, Segrate, 2012. (13) CRESCIMARRONE G. - ROHORVIO F. - CALVELLIL., Roma antica. Storia e documenti, Bologna, 2014. (14) CANDIDA L., Il mare. Corso monografico di geografia economia, Venezia, 1966, pp. 175 ss. (15) Nella relazione della Commissione Europea “Progressi della pesca marittima integrata dell’UE” del 11 settembre 2010, si dice che «i mari e gli oceani d’Europa costituiscono una fonte di innovazione, di crescita e di occupazione ricca e spesso sottovalutata, poiché offrono servizi ecosistemici e risorse preziose da cui dipendono tutte le attività marittime». CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 19 delle Nazioni Unite sull’ambiente umano del 1972 e nell’art. 19 (dedicato al concetto di passaggio inoffensivo) della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del Mare del 1982. Dalla combinata lettura dei due richiamati referenti normativi è consentito ricavare il seguente sillogismo aristotelico: poiché «nella lunga e laboriosa evoluzione della razza umana sulla Terra è arrivato il momento in cui, attraverso il rapido sviluppo della scienza e della tecnologia, l’uomo ha acquisito la capacità di trasformare il suo ambiente in innumerevoli modi e in misura senza precedenti» (16), al punto tale che, con specifico riguardo alla dimensione marittima, l’uomo moderno è potenzialmente in grado di impiegare una propria nave per realizzare un passaggio (nelle acque di uno Stato straniero) pregiudizievole per la pace, il buon ordine e la sicurezza dello Stato costiero (17), le Autorità deputate al controllo dei mari debbono prodigarsi a collaborare intensamente tra di loro per prevenire e, se del caso, reprimere tutte quelle condotte che possono arrecare pregiudizio all’ambiente marino o che comunque si servono di esso per ledere altri beni giuridicamente rilevanti come la vita umana, la salute pubblica, la pace, la sovranità statuale, etc. In una tale prospettiva si colloca l’iniziativa intrapresa dalla Commissione Europea di creare un sistema comune per la condivisione delle informazioni, denominato CISE (Common Information Sharing Environment), in cui i competenti Soggetti istituzionali sono chiamati a cooperare, scambiandosi reciprocamente i dati e le informazioni in loro possesso, per “efficentare” i meccanismi di protezione dell’ambiente marino e per reagire a tutte le condotte illecite poste in esso. (16) Preambolo, par. 1, Dichiarazione delle Nazioni Unite alla Conferenza “su L'Ambiente Umano” tenutasi a Stoccolma dal 5 al 16 giugno 1972, che ha considerato il bisogno di prospettive e principi comuni al fine di inspirare e guidare i popoli del mondo verso una conservazione e miglioramento dell’ambiente umano. (17) Ai sensi dell’art. 19 della Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti del Mare del 1982: «Il passaggio è inoffensivo fintanto che non arreca pregiudizio alla pace, al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero. Tale passaggio deve essere eseguito conformemente alla presente Convenzione e alle altre norme del diritto internazionale. Il passaggio di una nave straniera è considerato pregiudizievole per la pace, il buon ordine e la sicurezza dello Stato costiero se, nel mare territoriale, la nave è impegnata in una qualsiasi delle seguenti attività: a) minaccia o impiego della forza contro la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dello Stato costiero, o contro qualsiasi altro principio del diritto internazionale enunciato nella Carta delle Nazioni Unite; b) ogni esercitazione o manovra con armi di qualunque tipo; c) ogni atto inteso alla raccolta di informazioni a danno della difesa o della sicurezza dello Stato costiero; d) ogni atto di propaganda diretto a pregiudicare la difesa o la sicurezza dello Stato costiero; e) il lancio, l’appontaggio o il recupero di aeromobili; f) il lancio, l'appontaggio o il recupero di apparecchiature militari; g) il carico o lo scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero; h) inquinamento intenzionale e grave, in violazione della presente Convenzione; i) attività di pesca; j) la conduzione di ricerca scientifica o di rilievi; k) atti diretti a interferire con i sistemi di comunicazione o con qualsiasi altra attrezzatura o installazione dello Stato costiero; l) ogni altra attività che non sia in rapporto diretto con il passaggio». 20 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 4. La trasversalità delle materie coinvolte nell’ambito del CISE (Common Information Sharing Environment) e il principio di ripartizione delle competenze tra Unione europea e Stati membri. Le sfide connesse all’ambiente marino non attengono alle sole questioni inerenti l’esigenza di salvaguardare la salubrità delle acque mediante la attivazione di meccanismi e di strumenti tesi a tenere sotto controllo tutte quelle possibili condotte e quei possibili fenomeni che si atteggiano a causa di contaminazione ed inquinamento della «zona acquatica». Le acque, infatti, sono un humus talmente esteso e così liberamente accessibile che si configurano, spesse volte, come luogo di fenomeni trasversali che finiscono con l’interessare una pluralità assai variegata di materie rientranti nella sfera di competenza di Soggetti diversi. Costituisce una plastica dimostrazione di quanto detto proprio il progetto di creare, nell’ambito della politica marittima integrata dell’Unione europea, un sistema comune di condivisione delle informazioni (CISE). Lo scopo di tale politica è quello di ottenere un quadro della situazione circa le attività svolte in mare che esercitano un impatto sulla sicurezza e sulla protezione marittima, sul controllo delle frontiere, sull’inquinamento dei mari e l'ambiente marino, sul controllo della pesca, sull’applicazione della legge in generale, sulla difesa e sugli interessi economici dell’UE, in modo da facilitare l’adozione di decisioni adeguate. A ben vedere, quindi, sono molteplici gli ambiti di competenza che si trovano ad essere coinvolti. Essi, però, non sono degli ambiti attribuiti alla sola competenza esclusiva dell’Unione europea, ma, al contrario, si tratta di materie che, seppur rientranti nella «cornice generale degli affari marittimi», ricadono nella sfera di competenza concorrente tra UE e singoli Stati membri. Ne è derivata la necessità di rispettare le norme europee che sovraintendono al riparto di competenze. A questo riguardo giova preliminarmente rammentare che il legislatore comunitario non ha mai ritenuto di affrontare le delicate questioni che attengono al riparto di competenze tra Unione europea e Stati membri con un sistema di riparto rigido. La dottrina conviene nel ritenere che, sino a prima del Trattato di Lisbona sul Funzionamento dell’Unione europea, «i Trattati non avessero mai previsto in modo esplicito una ripartizione di competenze tra Stati e Comunità (oggi Unione)» (18). La ragione di ciò risiede nella inequivocabile intenzione dei Padri fondatori della costruzione europea di creare un ordinamento istituzionale (sovranazionale) in cui le Istituzioni rappresentative della più grande unione di Stati e di popoli mai esistita potessero accrescere le proprie funzioni attraverso una costante erosione di potere dai singoli Stati membri. Depongono in tal senso le pronunce della (18) BILANCIA P. - D’AMICO M., La nuova Europa dopo il Trattato di Lisbona, Milano, 2009, p. 100. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 21 Corte di Giustizia dell’Unione europea con le quali è stata elaborata la c.d. teoria dei poteri impliciti. Il giudice comunitario, infatti, ha stabilito, a più riprese, che l’Unione può considerarsi competente all’adozione di determinate misure, pur in mancanza di una espressa attribuzione di competenza, quando l’adozione di tali misure risulti necessaria (19). Della opportunità di mutare un tale approccio si è iniziato a discutere solo nel corso dei lavori della Convenzione sull’Avvenire dell’Europa del 2000 (20), in cui il tema delle competenze era divenuto questione nodale, dal momento che gli Stati membri ritenevano che «per rendere l’Unione più trasparente e credibile agli occhi dei cittadini, fosse anche necessario chiarire gli ambiti di intervento propri dell’Unione rispetto a quelli degli Stati membri» (21). Non è questa la sede per approfondire tutti gli aspetti (in parte ancora irrisolti) che sono connessi al riparto di competenze tra Stati membri e l’Unione europea, ma quel che è certo, è che con l’entrata in vigore del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea il quadro delle competenze dell’Unione e quelle degli Stati membri si atteggia in maniera assai più chiara e precisa. La disciplina è contenuta negli artt. 2 ss. del TFUE, dalla combinata lettura dei quali è possibile desumere che oggi esistono materie di competenze esclusiva dell’Unione europea e materie di competenza concorrente UE-Stati membri. Nello specifico, se ai sensi dell’art. 3 TFUE «L’Unione ha competenza esclusiva nei seguenti settori: a) unione doganale; b) definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno; c) politica monetaria per gli Stati membri la cui moneta è l’euro; d) conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca; e) politica commerciale comune», l’art. 4, TFUE, nel disciplinare le materie di competenza concorrente, dispone che «L’Unione ha una competenza concorrente con quella degli Stati membri nei principali seguenti settori: a) mercato interno; b) politica sociale, per quanto riguarda gli aspetti definiti nel presente trattato; c) coesione economica, sociale e territoriale; d) agricoltura e pesca, tranne la conservazione delle risorse biologiche del mare; e) ambiente; f) protezione dei consumatori; g) trasporti; h) reti transeuropee; i) energia; j) spazio di libertà, sicurezza e giustizia; k) problemi comuni di sicurezza in materia di sanità pubblica, per quanto riguarda gli aspetti definiti nel presente trattato. Nei settori della ricerca, dello sviluppo tecnologico e dello spazio, l’Unione ha competenza per condurre azioni, in particolare la definizione e l'attuazione di programmi, senza che l'esercizio di tale competenza possa avere per effetto di impedire agli Stati membri di esercitare la (19) Corte Giustizia Ue, 28 marzo 1996, parere 2/94, in www.curia.eu.it. (20) Per un’ampia e puntuale ricostruzione del dibattito si v. ATRIPALDI V., Verso un Trattato che stabilisce una Costituzione per l’Europa, Torino, 2003. (21) BILANCIA P. - D’AMICO M., op cit., p. 102. 22 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 loro. Nei settori della cooperazione allo sviluppo e dell'aiuto umanitario, l’Unione ha competenza per condurre azioni e una politica comune, senza che l'esercizio di tale competenza possa avere per effetto di impedire agli Stati membri di esercitare la loro». È sufficiente un semplice raffronto tra il contenuto delle norme menzionate e le materie sulle quali la sorveglianza marittima integrata è idonea ad incidere, per rendersi conto di come il CISE sia un “progetto a geometria variabile”, nel quale si mescolano, fino al punto di confondersi, delle materie di competenza esclusiva dell’Unione europea con materie di competenza concorrente. Perciò, al fine di scongiurare la violazione delle norme del Trattato attraverso la concretazione di sconfinamenti e di travalicazioni del riparto di competenze, la Commissione europea ha ritenuto di dover puntualizzare, quanto al CISE, che «la gestione dei vari livelli spetta ai detentori delle informazioni corrispondenti a livello degli Stati membri e dell’Unione europea, conformemente alle disposizioni degli strumenti giuridici in vigore; vengono in tal modo pienamente rispettate le competenze delle autorità nazionali, nonché i mandati delle agenzie UE definiti nei suddetti strumenti». 5. La proliferazione dei tipi di minaccia alla sicurezza marittima derivanti dalla crescita esponenziale dei traffici via mare e le inefficienze connesse all’assenza di strumenti di coordinamento delle informazioni acquisite dalle Autorità competenti a garantire l’applicazione della legge nell’ambiente marino come ratio giustificatrice del CISE (Common Information Sharing Environment). La dottrina ha già avuto modo di evidenziare che, «alla stregua di una massima di comune esperienza, ogni disciplina ambientale, in ognuno dei settori e comparti rilevanti (acqua, aria, suolo, inquinamento di varia fonte), abbia il proprio incipit nel diritto internazionale ed in quello dell’Unione europea (a cominciare, ovviamente, dal diritto comunitario originario)» (22). Non si discosta da un tale assunto il CISE: un “programma” propugnato dalla Commissione europea e teso a tutelare l’ambiente marino attraverso la riduzione dei rischi connessi allo straordinario livello di traffici che interessa quotidianamente i mari e gli oceani europei. Prima di procedere all’analisi dei principali tratti fisionomici del CISE, non pare inutile ricordare quelle che sono state le ragioni che hanno indotto l’Unione Europea ad intraprendere l’iniziativa di cui ci si occupa. È indubbio che la scelta di creare un’architettura volta a salvaguardare l’ambiente marino attraverso la «realizzazione di un sistema di sorveglianza maggiormente integrato per riunire i sistemi di monitoraggio e di localizzazione esistenti che vengono attualmente (22) R. FERRARA, voce Ambiente (dir. amm.), in S. PATTI (a cura di), Il diritto, Enc. giur., “Il Sole 24 Ore”, p. 290. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 23 utilizzati per garantire la sicurezza e la protezione in mare, la tutela dell’ambiente marino, il controllo della pesca, il controllo delle frontiere esterne e altre attività rivolte all’applicazione della legge» (23) rappresenti il risultato ultimo della lucida presa di coscienza di quanti elevati siano i rischi connessi ad un sempre crescente utilizzo dei mari e degli oceani d’Europa e di quanto sia necessario sorvegliare le condotte poste in essere nelle acque europee. La necessità di realizzare, nell’ambito della politica marittima integrata dell’Unione europea, un sistema di sorveglianza marittima basato (anche) sulla condivisione delle informazioni è riprovata dalla straordinaria importanza strategica che le acque assumo per l’Europea. Come affermato dalla Commissione nel Libro blu recante “Una politica marittima integrata per l’Unione europea” «i mari sono la linfa vitale dell’Europa. Gli spazi marittimi e i litorali costituiscono un elemento essenziale del suo benessere e della sua prosperità. Essi offrono rotte commerciali, fungono da regolatore climatico e rappresentano una fonte di alimentazione, energia e risorse e un luogo favorito dai suoi cittadini come residenza e per le attività ricreative» (24). Sebbene l’Unione Europea sia il principale attore del commercio marittimo a livello mondiale, al punto che, possedendo 80 000 Km di coste che si affacciano su due oceani e quattro mari (oceano Atlantico e Artico, mari Baltico, del Nord, Mediterraneo e Nero), il 90% del suo commercio estero e il 40% del suo commercio interno avvengono via mare, sono state sottovalutate (forse troppo a lungo) tanto la circostanza che «l’importanza dei flussi marittimi globali per l’Unione è aumentata esponenzialmente quale conseguenza della crescita economica, della globalizzazione e della crescente interdipendenza globale» (25), quanto il fatto che «la povertà, la mancanza di sviluppo, i bassi livelli di controllo statale e di applicazione della legge e la vulnerabilità delle rotte facilitano la proliferazione di vari tipi di minacce alla sicurezza marittima derivanti sia dai comportamenti degli Stati interessati a perturbare i flussi marittimi internazionali sia dalle attività illegali di attori non statali, quali la criminalità transnazionale (per esempio, traffico di armi o sostanze stupefacenti), il terrorismo internazionale o la pirateria» (26). Del pari, sono state a lungo sottovalutate le criticità connesse al modus agendi seguito dalle Autorità (europee e nazionali, civile e militari) create allo scopo di gestire e fronteggiare le innumerevoli sfide che l’ambiente marino, e il suo sempre più intenso utilizzo, pone. Si allude «all’utilizzo sub-ottimale (23) COM(2007) 575 definitivo, del 10 ottobre 2007, anche nota come Libro blu sulla politica marittima integrata dell’Unione Europea, consultabile in http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:52007DC0575&from=IT. (24) COM (2007) 575, cit. (25) P7_TA(2013) 0380 “Risoluzione del Parlamento europeo del 12 settembre 2013 sulla dimensione marittima della politica di sicurezza e di difesa comune (2012/2318(INI)”. (26) P7_TA(2013) 0380, cit. 24 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 delle poche risorse disponibili», quale conseguenza del fatto che le attività di sorveglianza relative alla pesca, all’ambiente, al controllo dei mari o all’immigrazione venivano svolte dagli Stati membri in maniera indipendente tra di loro sino a prima che l’Unione europea elaborasse il Libro blu sulla politica marittima integrata (di cui il CISE rappresenta lo strumento per la realizzazione del progetto “sorveglianza marittima integrata”); ne derivavano, perciò, inefficienze e costi eccessivi. Ai fini della acquisizione e della elaborazione di una stessa informazione, invero, ciascuno Stato membro era obbligato ad attivare procedimenti di raccolta dei dati perfettamente identici a quelli attivati (magari solo poche ore prima o addirittura nello stesso frangente di tempo) da altro Stato membro. Ma v’è di più, in quanto, sempre nel periodo ante politica marittima integrata dell’UE, non erano infrequenti i casi in cui le Autorità di uno stesso Stato membro procedevano ad acquisire, più volte, la stessa informazione. Si era quindi in presenza di un sistema amministrativo multilivello (verticale ed orizzontale) che a causa dell’assenza di regole di coordinamento risultava grandemente viziato da caoticità ed inefficienze; un sistema che non potrebbe essere meglio descritto se non con la massima della Corte costituzionale secondo la quale «la pletora amministrativa [in assenza di regole chiare e precise] è sempre causa di disordine, perché impone una artificiosa distribuzione di compiti, un frazionamento irrazionale di funzioni, una sovrapposizione o una duplicazione di competenze; e ovviamente ne risultano ritardi e intralci nello svolgimento dell’attività degli uffici» (27). In un contesto marittimo siffattamente critico ed insidioso, le Istituzioni europee e gli Stati membri, dopo avere sviluppato la ferma convinzione circa la sussistenza di un interesse vitale ad un ambiente marino sicuro, accessibile e pulito che consenta il libero transito del commercio e delle persone oltre all’uso pacifico, legale, equo e sostenibile delle ricchezze degli oceani, sono giunti ad individuare il mezzo attraverso il quale garantire il pieno soddisfacimento dell’anzidetto interesse nello «spirito di impegno, comprensione, reciproca e reale solidarietà» tra Stati membri e l’Unione europea; da un tale spirito ha preso vita lo strumento del sistema comune di condivisione delle informazioni marittime (CISE). 6. La condivisione del c.d. patrimonio informativo pubblico europeo quale fulgida attuazione del principio di «leale cooperazione» tra Istituzioni europee e Stati membri. Il procedimento (consultivo e decisionale) per la elaborazione del sistema comune di condivisione delle informazioni sulla sicurezza marittima (CISE). Il CISE è un «processo collaborativo» di matrice europea che per un di- (27) C. Cost., n. 123 del 9 ottobre 1968, in www.cortecostituzionale.it. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 25 verso ordine di ragioni si presenta come assai articolato. Esso rappresenta uno degli strumenti di attuazione della sorveglianza marittima integrata, quale progetto (anch’esso europeo) che, nel rientrare tra le priorità della politica marittima integrata dell’Unione europea (28), è funzionale all’ottenimento di «un (28) La politica marittima integrata (il fondamento giuridico della quale è dato dal Libro blu “Una politica marittima integrata per l’Unione europea” contenuto nella comunicazione della Commissione COM(2007) 575 del 10 ottobre 2007 http://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/PDF/?uri=CELEX:52007DC0575&from=EN e, ancor prima, nel Libro verde “Verso una politica marittima dell'Unione: una visione europea degli oceani e dei mari” contenuto nella comunicazione COM(2006) 275 del 7 giugno 2006 http://ec.europa.eu/transparency/regdoc/rep/1/2006/EN/1-2006-275-EN-F1-1.Pdf) rappresenta un complesso di decisioni, di strategie, di programmi e di linee guida assunti a livello europeo al fine di «far fronte alle sfide della globalizzazione e della competitività, al cambiamento climatico, al degrado dell’ambiente marino, alla sicurezza marittima nonché alla sicurezza e alla sostenibilità dell'approvvigionamento energetico» mediante la elaborazione di strumenti comuni alle Istituzioni europee e ai singoli Stati membri, in quanto «l’adozione di decisioni a compartimenti stagni non risultano più adeguati a nessun livello». Per il più efficacie conseguimento degli obiettivi perseguito sono stati articolari diversi sub-progetti che concorrono a formare, nel loro insieme, quella che, per l’appunto, è stata denominata politica marittima integrata. I progetti nei quali sia articola la politica marittima integrata sono: a) uno spazio per il trasporto marittimo europeo senza frontiere; b) una strategia europea per la ricerca marina; c) lo sviluppo da parte degli Stati membri di politiche marittime integrate nazionali; d) una rete europea per la sorveglianza marittima; e) una tabella di marcia per la pianificazione dello spazio marittimo da parte degli Stati membri; f) una strategia volta a mitigare gli effetti del cambiamento climatico sulle regioni costiere; g) la riduzione delle emissioni di CO2 e dell’inquinamento dovuti al trasporto marittimo; h) l'eliminazione della pesca illegale e della pesca al traino distruttiva in alto mare; i) una rete europea di poli marittimi; l) un esame delle esenzioni previste dal diritto del lavoro dell'UE per il settore del trasporto marittimo e il settore della pesca. Per quanto qui di interesse, nel paragrafo 3.2.1. del sopraccennato Libro blu si precisa che «La sorveglianza marittima è fondamentale per garantire l'uso sicuro dei mari e la protezione frontiere marittime europee. Il miglioramento e l'ottimizzazione delle attività di sorveglianza marittime, nonché l'interoperabilità a livello europeo, sono importanti per consentire all'Europa di rispondere alle difficoltà e alle minacce connesse alla sicurezza della navigazione, all'inquinamento marino, all'applicazione delle leggi e alla sicurezza generale. Le attività di sorveglianza vengono svolte dagli Stati membri, ma la maggior parte delle difficoltà e minacce che essi affrontano sono di natura transnazionale. Nella maggior parte degli Stati membri, le attività di sorveglianza relative alla pesca, all'ambiente, al controllo dei mari o all'immigrazione rientrano nelle competenze di vari enti preposti all'applicazione delle leggi che operano indipendentemente tra loro. Ciò porta spesso ad un uso subottimale delle poche risorse disponibili. La Commissione sottolinea pertanto la necessità di un più elevato grado di coordinamento in materia di sorveglianza marittima grazie a una più stretta cooperazione tra le guardie costiere dei vari Stati membri e altri enti competenti. La graduale realizzazione di una rete integrata di sistemi per il monitoraggio delle navi e la navigazione elettronica nelle acque costiere dell'Europa e in alto mare, inclusa la sorveglianza via satellite e l’identificazione e la localizzazione a lungo raggio (LRIT), costituirebbero uno strumento prezioso per le autorità pubbliche. La Commissione: promuoverà una migliore collaborazione tra le guardie costiere degli Stati membri e altri servizi competenti; provvederà alla realizzazione di un sistema di sorveglianza maggiormente integrato per riunire i sistemi di monitoraggio e di localizzazione esistenti che vengono attualmente utilizzati per garantire la sicurezza e la protezione in mare, la tutela dell'ambiente marino, il controllo della pesca, il controllo delle frontiere esterne e altre attività rivolte all'applicazione della legge». 26 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 quadro informativo della situazione con riguardo alle attività svolte in mare che esercitano un impatto sulla sicurezza e sulla protezione marittima, sul controllo delle frontiere, sull’inquinamento dei mari e l’ambiente marino, sul controllo della pesca, sull’applicazione della legge in generale, sulla difesa e sugli interessi economici dell’UE, in modo da facilitare l’adozione di decisioni adeguate ». Attraverso il CISE, l’Unione europea e gli Stati membri hanno infatti inteso realizzare un’architettura (organizzativa e procedimentale) volta ad incidere, in un modo o nell’altro, su di una pluralità di settori strategici connessi, inestricabilmente, tra di loro (dalla tutela dell’ambiente marino al controllo della pesca, al controllo delle dogane, alla prevenzione e soppressione dei reati perpetrati nelle acque europee, etc.). L’elemento indefettibile di esso è costituito dall’informazione (29) pubblica. Il suo tratto maggiormente caratterizzante è invece rinvenibile nella condivisione, quanto più ampia e celere, dell’anzidetta informazione pubblica. La Commissione europea e i singoli Stati membri si sono persuasi del fatto che solo condividendo le informazioni in possesso di tutte le competenti Autorità sarà possibile affrontare le innumerevoli problematiche connesse all’ambiente marino; qualunque altro diverso strumento che non sia fondato sullo scambio delle informazioni è da considerasi destinato all’insuccesso. Sicché è indubbio che quando si giungerà alla concreta e definitiva attuazione di un tale programma ci si troverà in presenza del più grande patrimonio informativo pubblico che sia mai stato realizzato nella storia delle unioni di Stati: ciascuna delle Autorità attributaria di funzioni e prerogative dal cui corretto esercizio dipendano le sorti dell’ambiente marino nonché di uno o più dei settori strategici che al primo risultano collegati (dogane, immigrazione, inquinamento, etc.) dovrà ottemperare al dovere di leale cooperazione ex art. 4 TFUE che, in questa sede, viene ad assumere i tratti fisionomici della leale e sincera dispo- (29) Quanto al significato polisemico che la nozione di informazione è in grado di assumere si v. ZENCHOVIC Z., voce Informazione (profili civilistici), in Dig. disc. priv., Vol. IX, Torino, 1993, p. 421 ss. in cui l’autore fa notare che: «Il termine informazione ha assunto nell’era contemporanea una molteplicità di significati, spesso rilevanti per il giurista. In un primo senso, contenutistico, per informazione si intende qualsiasi dato rappresentativo della realtà che viene conservato da un soggetto oppure comunicato da un soggetto ad un altro. In un secondo senso, funzionalistico, sotto il termine informazione si ricomprendono quelle attività di comunicazione al pubblico svolte da taluni mezzi, quali la stampa, la radio e la televisione. In una terza accezione, specialistica, l’informazione integra un obbligo posto a carico di taluni soggetti quando entrano in rapporto con altri, come avviene nelle trattative contrattuali o nella presentazione di beni e servizi oggetto di rapporti giuridici. A questa plurima - e per nulla esaustiva - classificazione si aggiunge, per rendere il quadro ancora più nebuloso, la circostanza che il termine «informazione» - come avviene per tutti i sottolinguaggi, e quindi anche per quello giuridico - è di «moda» sicché il suo uso e abuso è assai frequente. Esso è nella bocca di politici, giornalisti, scienziati, sociologi e ovviamente giuristi, non solo civilisti, ma anche pubblicisti e penalisti. Sicché ci si imbatte negli usi più svariati del termine: dall’«era dell’informazione», all’«informazione spettacolo», dal «diritto di informazione», al «diritto all’informazione», dal «bene informazione», all’«informazione societaria», dall’«informazione del consumatore», al «sistema dell’informazione», dalla «scienza dell’informazione», all’«informazione dei lavoratori»». CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 27 nibilità a condividere (trasmettendole e ricevendole) le informazioni in loro possesso che possono risultare utili, se non anche necessarie, all’esercizio delle funzioni proprie delle Autorità marittime europee ovvero di quelle dei singoli Stati membri. Ognun sa che per patrimonio informativo pubblico (30) deve intendersi il complesso di informazioni e di dati (in qualunque forma riprodotti) di cui sono in possesso le Pubbliche Amministrazioni. Un’attenta dottrina ha avvertito lucidamente che «le informazioni concorrono al formarsi delle decisioni pubbliche, accompagnano l’evolversi delle politiche, si rivelano decisive per accrescere il consenso, costituiscono parametro per la valutazione dell’efficacia dell’attività amministrativa» (31). Se ne ricava che, nella società dell’informazione, ove il compimento delle attività della più disparata natura è quasi sempre condizionato alla puntuale conoscenza di antefatti e post-fatti, l’informazione pubblica si profila come «bene giuridico» (32) ido- (30) Tra i più significativi contributi dottrinali dedicati al patrimonio informativo pubblico si v. MERLONI F., Attività conoscitive delle amministrazioni pubbliche e statistica ufficiale. Profili organizzativi e funzionali, in Riv. trim. dir. pubbl., 1994, pp. 242 ss; ID., Funzione conoscitiva e pubblici poteri, Milano,1996; CAMELLI M. - GUERRA M.P., Informazione e funzione amministrativa, Rimini, 1997; AMBRIOLA V. - MARTINI F., Gestione e fruibilità del patrimonio informativo pubblico, in Dir. informaz. informat., 2002, pp. 873 ss.; MERLONI F., L’informazione delle pubbliche amministrazioni, Rimini, 2002; MARTINI F., Il sistema informativo pubblico, Torino, 2006; MOROGIU D., I dati delle pubbliche amministrazioni come patrimonio economico nella società dell’informazione, in Informat. e dir., 2008, pp. 355 ss. Inoltre, tra i più autorevoli accademici che hanno dato un contributo scientifico, costante ed instancabile, allo studio dell’informazione pubblica (sotto il profilo della comunicazione di essa) si v. CALIGIURI M., Comunicazione Pubblica, formazione e democrazia. Percorsi per l’educazione del cittadino nella società dell’informazione, Soveria Mannelli, 2003, p. 46, in cui l’autore afferma che la comunicazione pubblica (alla cui locuzione ci si sente di poter attribuire, anche, il significato di condivisione infra-istituzionale del patrimonio informativo pubblico) «può diventare un modello di comparazione non solo con le esperienze di riforma della pubblica amministrazione che vanno maturando in altri Paesi, ma può rappresentare un fecondo terreno d’incontro per più settori disciplinari, che spaziano dalle comunicazioni di massa al diritto, dall’economia alla pubblicità, dall’informatica alla statistica, dalla politica alle scienze sociali». Degli interessanti spunti di riflessione si rinvengono anche in CALIGIURI M., Lineamenti di comunicazione pubblica, Soveria Mannelli, 1997; ID. La comunicazione nella pubblica amministrazione che cambia, in Problemi dell’Informazione, II, 1997, pp. 275 ss.; ID., Lo Stato nella società dell’informazione, in Società dell’informazione, II, L’Aquila, 1999, pp. 62 ss.; ID., La Comunicazione Pubblica risorsa del mezzogiorno, Rende, 2000; ID., La funzione strategica dell’informazione pubblica. Il ruolo delle Università delle S.S.P.A., Reggio Calabria, 2005. (31) LAZZARO M.F., Coordinamento informativo e pubbliche amministrazioni, in Istituzioni del federalismo, n. 3, 2011, p. 659. (32) Nella dottrina italiana, il primo a qualificare l’informazione nei termini di bene giuridico è stato PERLINGIERI P., L’informazione come bene giuridico, in Rass. dir. civ., 1990, pp. 326 ss. Da lì in poi, rivisitando il significato da attribuire alla disposizione contenuta nell’art. 810 c.c. ai sensi del quale «Sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti», la dottrina, pur lasciando immutata il criterio di discrimen tra cosa e bene (in virtù del quale il bene è la cosa idonea a soddisfare una esigenza umana, in ciò differenziandosi dalla cosa in senso stretto), è giunta a condividere l’assunto che l’informazione possa, senza dubbio, farsi rientrare nella nozione di bene giuridica dal momento che essa si profila come risorsa che, con la sua portata conoscitiva, risulta strumentale al soddisfacimento di bisogni umani aventi natura tanto patrimoniale quanto non personale. 28 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 neo a svolgere un «ruolo fondamentale per il corretto funzionamento del mercato e la libera circolazione di merci, di servizi e di singoli individui» (33). Ma l’informazione pubblica, e particolarmente la sua condivisione, è fondamentale anche allo scopo di fronteggiare le numerose sfide che attengono alla tutela dell’ambiente (34). Si soggiunga che la centralità che il patrimonio informativo pubblico riveste nell’ottica di consentire agli apparati amministrativi il conseguimento degli scopi di sicurezza pubblica e di coesione economico-sociale è riprovata - a livello di ordinamento nazionale - dalla circostanza che il legislatore nazionale ha ritenuto di dover inserire nel novero delle materie di rilevanza costituzionale anche il «coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione nazionale, regionale e locale»; una materia, questa, attribuita, ai sensi dell’art. 117, comma secondo, lett. r) Cost., alla competenza legislativa esclusiva dello Stato. Per quel che qui può interessare, valga ricordare che in dottrina si è discusso circa la esatta natura da riconoscere all’attività contemplata nel cennato art. 117, comma secondo, lett. r) Cost.: ci si è domandati, cioè, se il coordinamento delle informazioni pubbliche dovesse essere considerato una materia sticto sensu oppure, al contrario, una “materia-non materia” o, se si preferisce, una “materia-competenza”. L’orientamento prevalente, facendo leva sul postulato che l’attività di coordinamento ex art. 117, comma secondo, lett. r) Cost. è idonea, per sua intrinseca natura, a riguardare qualunque informazione concernente le più disparate materie sulle quali sono destinati ad incidere i poteri delle Pubbliche Amministrazioni, propende per la seconda chiave di lettura. Ci si trova, cioè, in presenza di una “materia” rigidamente costruita soltanto a livello sub-cutaneo, ma che ciò nonostante è fisiologicamente predisposta ad assumere, di volta in volta, le sembianze di quella piuttosto che di quell’altra materia annoverata nell’art. 117 Cost., finendo, perciò, col rimanere assorbita da queste. Un’autorevole dottrina, molto laconicamente, ha colto nel segno affermando che «la materialità dell’azione di coordinamento si sostituisce alla materia costituzionale » (35). Dunque, sebbene il coordinamento delle informazioni pubbliche non risulti compreso nel novero delle materie che sottendono al riparto di compe- (33) Comunicazione della Commissione europea COM(1998)585 “Libro verde sull’informazione del settore pubblico nella società dell’informazione”, consultabile in ftp://ftp.cordis.europa.eu/pub/econtent/docs/gp_it.pdf. (34) Sull’informazione dell’ambiente si v. CARAVITA B., I principi della politica comunitaria in materia ambientale, in Riv. giur. amb., 1991, pp. 207 ss.; DE CESARIS A.L., Informazione ambientale e accesso ai documenti amministrativi, in Riv. trim. dir. pubbl., 1991, pp. 851 ss.; FAMELLI E. - LO PRESTI A., Diritto all’informazione ambientale, trasparenza della pubblica amministrazione e tecnologie informatiche, in Inf. dir., 1996, pp. 171 ss. (35) D’ATENA A., Materie legislative e tipologia delle competenze, in Quad. cost., 2003, pp. 15 ss. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 29 tenze tra Unione europea e Stati membri oggi previsto dal Trattato sul Funzionamento dell’UE, sembra potersi affermare che anche, in ambito europeo, valgono le stesse considerazioni fatte sopra quanto alla natura di tale “materia”. Una precisazione è però d’obbligo: a livello nazionale - come detto - la competenza legislativa in materia di coordinamento delle informazioni in possesso della Pubblica Amministrazione è attribuita in via esclusiva allo Stato, diversamente, il fatto che a livello europeo nessuna norma dei Trattati faccia riferimento al coordinamento de quo induce a ritenere che la competenza rimanga attribuita, in linea di principio, ai singoli Stati membri, ma l’Unione europea è senza dubbio legittimata dal sistema dei poteri impliciti ad esercitare il potere di legiferare su di una tale materia tutte le volte che ciò si profili come necessario. La Commissione europea, del resto, nella comunicazione COM (2014) 451, dopo aver ritenuto di affermare che «i servizi operativi di scambio d’informazioni sulla sorveglianza marittima tra le autorità rientrano nella competenza degli Stati membri», non ha mancato di specificare che è comunque «necessario un intervento a livello di Unione in quanto lo scambio d’informazioni ha anche una dimensione transnazionale che di solito comporta una cooperazione a livello regionale o del bacino marino». A questo punto, fermo che il coordinamento ricomprende anche la condivisione delle informazioni pubbliche, non può essere sottaciuto che la individuazione e l’assunzione delle misure idonee a prevenire od arginare i rischi insiti al verificarsi di taluni fenomeni naturali o antropici rivelati nelle acque sarà tanto più efficace quanto più le informazioni pubbliche in possesso delle competenti Autorità vengano condivise. Ma la condivisione delle informazioni pubbliche potrà dirsi idonea ad assicurare una efficace sorveglianza dell’ambiente marino soltanto qualora le competenti autorità siano disponibili ad osservare delle best practices atte ad individuare le giuste modalità per il trattamento e la gestione dei dati e delle informazioni utili. Una condivisione informativa che si appalesi come scriteriata per via dell’assenza di archetipi comportamentali accettati da tutte le comunità di utilizzatori si profilerebbe come causa di controversie tra Unione europea e Stati membri e, ancor più, tra questi ultimi e i privati cittadini (si pensi, a titolo d’esempio, alla illegittima condivisione di informazioni commerciali quali sono quelle che concernono il trasporto di merci realizzato, via mare, da un determinato vettore che ha tutto l’interesse a non fare sapere alle imprese concorrenti che operano nel settore del trasporto marittimo i dettagli della spedizione da essa realizzata per conto di un “cliente appetibile”). La creazione di un tale sistema di condivisione delle informazioni ha però incontrato il suo principale ostacolo nella pluralità di Soggetti che debbono essere, necessariamente, coinvolti nel processo decisionale. Come il “più” sta al “meno”, ad una pluralità di settori strategici corrisponde un’altrettanta pluralità di interessi (politici, economici e militari) spesse volte contrapposti e, 30 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 non in ultimo, una ulteriore pluralità di Soggetti (pubblici e privati) che di quegli interessi sono portatori e che, in quanto tali, si determinano ad agire con il dichiarato fine di garantire il più elevato soddisfacimento delle pretese e delle aspettative che a quegli interessi sono sottesi. In un quadro così complesso, per riuscire “a fare sintesi” era necessario attivare un iter procedimentale multifasico, nel quale tutti gli attori coinvolti fossero messi nelle condizioni di potere interloquire tra di loro (con i mezzi e nei modi consentiti o invalsi nella pratica) per riuscire ad individuare, e quindi convergere, sullo strumento e/o sulla strategia più congeniale per una pronta e sollecita soluzione del problema. La necessità (rectius il dovere) di attivare dei meccanismi di dialogo tra tutte le parti coinvolte in una determinata iniziativa europea trova il suo più rilevante fondamento nel principio di «leale cooperazione» tra Istituzioni e Stati membri espressamente previsto dall’art. 4, par. 3, TUE, che, nel richiamare esplicitamente il principio di leale cooperazione, ne individua il contenuto nella doverosa necessità che «l’Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dai Trattati». Ma ancora più incisivamente, il contenuto del principio in questione è stato chiarito in una celebre sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, la quale ne ha precisato la portata nei seguenti termini: «Il principio di leale cooperazione non impone soltanto di rispettare le attribuzioni rispettivamente riconosciute alle Istituzioni europee e agli Stati membri, ma autorizza anche la messa in atto di procedure che permettano di assicurare il “buono svolgimento” del processo decisionale» (36). Quanto al significato da accordare al «buono svolgimento del processo decisionale », una autorevole dottrina è dell’avviso che alla locuzione (probabilmente troppo vaga e generica) di cui ha inteso avvalersi il Giudice europeo per tracciare il perimetro semantico del principio debba essere attribuito anche il significato di «garanzia del pluralismo»: il buono svolgimento del processo decisionale potrà dirsi, difatti, garantito soltanto qualora venga assicurata la più ampia compartecipazione decisionale a tutti i Soggetti interessati all’assunzione di una determinata decisione (37). (36) Corte di Giustizia UE, sentenza 30 marzo 1995, C-65/93, Parlamento c. Consiglio, in www.curia.europa.eu.it. (37) ADAM R. - TIZZANO A., Lineamenti di diritto dell’Unione europea, Torino, 2014, pp. 60-61. Sempre a proposito del principio di leale cooperazione, DRAETTA U., Elementi di diritto dell’unione europea. Parte Istituzionale. Ordinamento e struttura dell’Unione europea, Milano, 2009, p. 75, ha precisato che la norma contenuta nell’art. 4, par. 3 TUE «è divenuta, di fatto, il fondamento di un obbligo degli Stati membri (autonomo rispetto a quello derivante dal principio pacta sunt servenda), che è stato da tempo definito dalla Corte come obbligo di leale cooperazione o di buona fede comunitaria. In ottemperanza a tale obbligo gli Stati membri, in sostanza, devono porre tutte le proprie strutture e meccanismi interni (organi legislativi, organi esecutivi e giudici nazionali) al servizio dell’interesse generale perseguito dall’UE, garantendo, anche attraverso misure non previste dal diritto nazionale, il raggiungimento del risultato voluto da quel particolare ordine giuridico che è quello dell’UE». CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 31 In perfetta linea di coincidenza con quanto sin qui si è detto, la realizzazione del CISE è stata preceduta dall’attivazione di procedimenti e di sub-procedimenti (consultivi e decisionali) che, in ossequio al principio di leale cooperazione, hanno visto attivamente coinvolti le Istituzioni europee e gli Stati membri. Soltanto al termine di un complesso procedimento decisionale, ampiamente condiviso, si è infatti giunti, in primo luogo, alla elaborazione di una “Tabella di marcia” da parte della Commissione europea e, secondariamente, alla progressiva attuazione (ancora in corso), ad opera di ciascuno Stato membro, delle singole fasi operative, indicate nel roadmap. 7. L’avvio del processo decisionale da cui ha tratto origine la consapevolezza delle Istituzioni europee e degli Stati membri di dovere condividere le informazioni utili a garantire la salubrità e la sicurezza dell’ambiente marino. La comunicazione della Commissione europea COM (2009) 538 “Verso l’integrazione della sorveglianza marittima: un sistema comune per la condivisione delle informazioni sul settore marittimo dell’UE”. Il sistema comune di condivisione delle informazioni relative al settore marittimo ha preso le mosse da una iniziativa del Consiglio dell’Unione europea - Affari generali del 8 dicembre 2008, per il tramite della quale la Commissione è stata invitata ad attivarsi per favorire una quanto più elevata interoperabilità dei sistemi nazionali e comunitari preposti alla sorveglianza marittima, così da consentire di ottimizzare i costi per il compimento delle operazioni di sorveglianza marittima. Un tale sistema - come chiarito dalla stessa Commissione - dovrebbe essere in grado di «consentire alle autorità degli Stati membri di utilizzare in modo più efficace le informazioni relative alla sorveglianza marittima». Per poter realizzare ciò, la “via maestra” è stata identificata nella opportunità/necessità di elaborare, a livello comunitario, norme e standard comuni preordinati ad ottimizzare lo scambio di informazioni fra le diverse comunità di utilizzatori, alle quali occorre riconoscere, fattivamente, la possibilità di fornire e ricevere informazioni provenienti da sistemi e meccanismi di sicurezza internazionali, regionali, comunitari, militari e civili. Come è stato giustamente affermato, «quello del coordinamento, dell’uniformità e della standardizzazione nelle attività di raccolta e di condivisione dei dati è un problema essenziale per i policy maker deputati alla gestione e alla realizzazione delle problematiche, sempre impellenti ed imprevedibili, che si affacciano nella cornice internazionale e comunitaria» (38), ma ciò malgrado le Autorità competenti ad occuparsi del settore marittimo procedevano, sino a prima della elaborazione del CISE, alla raccolta e alla archiviazione dei dati e delle infor- (38) ROVITO C., La sorveglianza marittima nella politica marittima integrata dell’Unione europea, in www.dirittoambiente.net, 2012. 32 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 mazioni utili per fronteggiare le problematiche del “mondo marino” in maniera autonoma e separata, atteggiandosi, per tal modo, come causa e vittime di sprechi ed inefficienze amministrative. In risposta all’invito del Consiglio, la Commissione europea, nell’avvalersi della consulenza del sottogruppo di esperti degli Stati membri sull’integrazione della sorveglianza marittima (c.d. “Gruppo di esperti degli Stati membri”), ha così adottato in data 15 ottobre 2009 la comunicazione “Verso l’integrazione della sorveglianza marittima: un sistema comune per la condivisione delle informazioni sul settore marittimo dell’UE” (39) con il dichiarato obiettivo di «esporre i principi guida per l’elaborazione di un sistema comune per la condivisione delle informazioni sul settore marittimo dell’UE e avviare il processo che porterà alla sua attuazione». Nel documento in parola, sono stati, dapprima, illustrati i problemi che si pongono per la realizzazione di una tale sistema (quali la molteplicità delle comunità di utenti e operatori, la diversità dei quadri giuridici, le minacce transfrontaliere e le disposizioni giuridiche specifiche) (40), e poi rimarcati i vantaggi che l’Unione europea e gli Stati membri avrebbero modo di conseguire dalla creazione di esso. Segnatamente, i vantaggi sono stati individuati: a) nella interoperabilità (consentendo lo scambio di informazioni fra i sistemi di sorveglianza già operativi e quelli in fase di elaborazione da parte dell’Unione europea); b) nel miglioramento della conoscenza della situazione (potendo beneficiare, l’Unione europea e gli Stati membri, di una notevole quantità di informazioni precise ed attendibili sullo stato delle acque (39) COM (2009)538 definitivo. (40) Nel testo della comunicazione è dato leggere quanto che «I problemi che attualmente pone l’elaborazione di un sistema comune per la condivisione delle informazioni sul settore marittimo dell’UE sono i seguenti. Molteplicità delle comunità di utenti e di operatori: sia a livello nazionale che a livello comunitario le autorità nazionali responsabili della difesa, del controllo alle frontiere, delle dogane, dell’inquinamento marino, del controllo della pesca, della sicurezza e protezione in mare, della gestione del traffico navale, della risposta ad incidenti e calamità, della ricerca e soccorso e dell’applicazione della legge raccolgono informazioni per finalità proprie. Sebbene esistano i mezzi tecnologici per condividere tali informazioni in maniera utile, la maggior parte dei dati necessari per acquisire questa conoscenza della situazione marittima viene ancora raccolta a livello nazionale, comunitario e internazionale mediante numerosi sistemi settoriali. In alcuni casi le autorità responsabili ignorano che informazioni simili sono raccolte da altri sistemi e autorità, ma anche quando sono a conoscenza di questo fatto, non sono in grado di scambiarsi reciprocamente le informazioni in quanto solo alcune comunità di utilizzatori dispongono delle norme, degli accordi e delle politiche necessari allo scambio di dati. Diversità di quadri giuridici: le diverse attività di sorveglianza marittima rientrano nel campo di applicazione di ciascuno dei tre pilastri dell’UE. I sistemi di sorveglianza sono stati elaborati sulla base di normative settoriali internazionali e comunitarie. A prescindere dal quadro comunitario esistente, nulla dovrebbe impedire agli Stati membri di integrare le rispettive attività di sorveglianza marittima. Minacce transfrontaliere: le minacce cui devono far fronte gli Stati membri del settore marittimo dell’UE richiedono spesso un approccio transnazionale e talvolta transettoriale rafforzato, in particolare per quanto riguarda l’alto mare. Disposizioni giuridiche specifiche: la normativa internazionale e comunitaria disciplina le attività di sorveglianza marittima in alto mare e con riguardo al trattamento dei dati personali, confidenziali o riservati». CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 33 e sulle condotte in esse concretate); c) nella efficienza (consentendo la creazione di una “banca dati” unitaria e comune capace di evitare la inutile e spesse volte dispendiosa duplicazione dei processi di raccolta di dati ed informazioni); d) nella sussidiarietà (consentendo agli Stati membri di creare un meccanismo unico di coordinamento attraverso il quale procedere alla verifica delle informazioni raccolte dalle Agenzie nazionali e da ogni altro operatore nazionale e, se del caso, gestire i diritti di accesso dei terzi alla informazioni raccolte) (41). 7.1. (segue) La presentazione della comunicazione COM (2009) 538 al Consiglio dell’Unione europea - Affari Generali e le relative conclusioni del 14 giugno 2010 con cui è stata fissata una precisa scansione temporale per la elaborazione di una tabella di marcia. La Commissione europea, nell’intento di garantire un processo decisionale all’interno del quale fosse stato possibile dare rilievo agli interessi dell’Unione europea e dei singoli Stati membri, si è così determinata a sottoporre (41) Tra gli altri significativi aspetti che la Commissione ha ritenuto di dover affrontare nella COM(2009) 538, meritano di essere segnalate anche le considerazioni svolte nel paragrafo 4.1.1. rubricato “Altri aspetti da considerare”, ove vengono chiariti gli aspetti che potranno garantire il successo del sistema nei seguenti termini: «Un sistema flessibile per la condivisione delle informazioni: il sistema comune per la condivisione delle informazioni deve essere sufficientemente sicuro, ma al tempo stesso abbastanza flessibile da adattarsi alle nuove esigenze e situazioni degli utilizzatori. Questa constatazione mette in evidenza la necessità che ciascuna comunità di utilizzatori partecipante al sistema comune per la condivisione delle informazioni possa avere accesso a quante più informazioni possibile in modo da elaborare il quadro della situazione che meglio risponda alle proprie esigenze operative. Tale necessità è stata ad esempio individuata nelle operazioni congiunte Frontex per prevenire attività illegali alle frontiere esterne meridionali dell’UE. Un accesso a informazioni complete per migliorare il processo decisionale: la capacità decisionale può essere migliorata solo con il contributo di tutte le comunità. Ad esempio, lo scambio di informazioni deve avvenire in entrambe le direzioni fra le autorità civili e le forze di difesa nel rispetto delle norme per la sicurezza delle informazioni». Parimenti significativo è il paragrafo 4.1.2 rubricato “Raccomandazioni”, nel quale è dato così leggere: «Evitare la duplicazione dei dati: i dati relativi al monitoraggio del traffico devono essere diffusi solo una volta mediante il sistema Safe-Sea-Net. Questi stessi dati potrebbero poi essere messi a disposizione di tutti gli utilizzatori riconosciuti, compreso il settore della difesa, conformemente al quadro giuridico UE esistente o alle sue eventuali modifiche. Interoperabilità fra le comunità degli utilizzatori dell’UE: affinché le forze armate dell’UE possano sostenere il settore civile nell’ambito della sicurezza e della protezione in mare, compresi gli interventi di gestione delle calamità, è necessario migliorare l’interoperabilità e il collegamento di tutti i partecipanti a livello nazionale. Coordinamento nazionale: la gestione delle questioni inerenti alla sorveglianza marittima va migliorata in primo luogo a livello nazionale. A tal fine si raccomanda che le autorità che fungono già da centri di informazione settoriali servano da interfacce nel sistema comune per la condivisione delle informazioni. Cooperazione internazionale e regionale: parallelamente alla creazione di interfacce fra i diversi sistemi di sorveglianza marittima all’interno dell’UE, occorre esaminare con attenzione la possibilità di condividere determinati elementi di informazione con i paesi terzi. In tal caso si devono prendere in considerazione le questioni legate alla sicurezza e alla reciprocità di tali informazioni. I cinque bacini marittimi regionali (Mar Baltico, Mare del Nord, Oceano Atlantico, Mar Mediterraneo e Mar Nero) e le regioni ultraperiferiche costituiscono una vasta zona esposta a minacce specifiche, per rispondere adeguatamente alle quali sono necessari ulteriori sforzi». 34 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 la comunicazione del 15 ottobre 2009, n. 538 all’attenzione dei competenti ministri riuniti in seno al Consiglio dell’Unione europea - Affari Generali, di modo da consentire a questi di valutare e discutere in ordine ai rilevanti vantaggi che sarebbe stato possibile conseguire. Le conclusioni del Consiglio, rassegnate il 17 novembre 2009 (42), hanno fatto trasparire, in maniera inequivocabile, la straordinaria attenzione riservata dagli Stati membri alla tematica della sicurezza marittima, al punto da indirizzare parole di incoraggiamento nei confronti della Commissione per una quanto più sollecita realizzazione della tabella di marcia con cui individuare le singole fasi nel rispetto delle quali giungere alla concreta realizzazione di un sistema comune di condivisione delle informazioni relative alla sicurezza marittima (CISE). Nelle conclusioni, il Consiglio, dopo avere incoraggiato «il gruppo di esperti degli Stati membri sull’integrazione della sorveglianza marittima, istituito presso la Commissione, a continuare a lavorare alla tabella di marcia per la creazione di un sistema comune per la condivisione delle informazioni sul settore marittimo dell’UE, in collaborazione con i rispettivi gruppi settoriali» e sollecitato «la cooperazione adeguata tra i settori civile e militare in tale contesto» è giunto ad esortare «la Commissione a ultimare, in collaborazione con gli Stati membri, la succitata tabella di marcia entro il 2010 e a sottoporla al Consiglio» (43). Le parole di vibrante incoraggiamento che il Consiglio dell’Unione europea ha consacrato formalmente nelle proprie conclusioni hanno costituito quel fondamentale endorcement che i Governi dei singoli Stati membri hanno (42) Il testo integrale delle conclusioni del Consiglio dell’Unione europea sulla opportunità di realizzare una tabella di marcia per la realizzazione di un sistema comune di condivisione delle informazioni riguardanti la sicurezza marittima è consultabile all’indirizzo http://register.consilium.europa.eu/doc/srv?l=EN&f=ST%2010300%202010%20INIT. (43) Nelle conclusioni del 14 luglio 2010, si è disposto, per quel che qui rileva, che il Consiglio «INCORAGGIA il gruppo di esperti degli Stati membri sull'integrazione della sorveglianza marittima, istituito presso la Commissione, a continuare a lavorare alla tabella di marcia per la creazione di un sistema comune per la condivisione delle informazioni sul settore marittimo dell'UE, in collaborazione con i rispettivi gruppi settoriali; INCORAGGIA la cooperazione adeguata tra i settori civile e militare in tale contesto; ESORTA la Commissione a ultimare, in collaborazione con gli Stati membri, la succitata tabella di marcia entro il 2010 e a sottoporla al Consiglio. La tabella di marcia sarebbe ulteriormente dettagliata nel 2011 al fine di tener conto dei risultati dei progetti intersettoriali e transfrontalieri e dei progetti di ricerca e sviluppo pertinenti, in particolare dei progetti pilota e degli insegnamenti tratti dalle operazioni PESD sulla sorveglianza marittima integrata. RAMMENTANDO le conclusioni del Consiglio del 26 aprile 20109, la tabella di marcia dovrebbe inoltre, ove opportuno, tener conto di qualsiasi altro contributo pertinente come ad esempio i lavori del gruppo di esperti (Wise Pen); SI COMPIACE dei progetti di sorveglianza in corso e dell’avvio promettente dei due progetti pilota BlueMassMed e Marsuno, che forniscono tra l'altro la base politica necessaria alla volontà di una maggiore cooperazione in materia; SOLLECITA affinché i due progetti spronino al raggiungimento della necessaria coerenza tra le molteplici iniziative prese nel settore; e RACCOMANDA di esplorare maggiormente la possibilità di elaborare un progetto nell’Oceano Atlantico e nel Mar Nero». Per una lettura integrale delle conclusioni, il documento è consultabile all’indirizzo http://register.consilium.europa.eu/doc/srv?l=EN&f=ST%2010300%202010%20INIT. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 35 inteso dare alla scelta dell’Unione Europea di creare un sistema di condivisone delle informazioni marittime attraverso il quale contribuire a garantire - in cooperazione con gli Stati membri - la sicurezza delle acque europee; una cooperazione che ivi si atteggia come necessaria, giacché l’Unione europea, da sola, «non può garantire la sicurezza marittima globale» (44). È allora evidente che il CISE può considerarsi un’iniziativa europea la cui attuazione è subordinata alla effettiva disponibilità degli Stati membri a cooperare, lealmente, tra di loro e con le Istituzioni europee per curare un interesse pubblico, qual è quello della sicurezza marittima, che, a causa delle caratteristiche morfologiche dell’ambiente marino (quale spazio liberamente accessibile, esteso e privo di barriere fisiche) rischierebbe di rimanere insoddisfatto, con non poche ricadute critiche sugli equilibri economici internazionali, sulla salvaguardia della fauna e della flora e, ancor di più, sulla sicurezza e sull’ordine pubblico. 7.2. (segue) La comunicazione della Commissione COM (2010) 584 relativa a un progetto di “tabella di marcia” per la creazione di un sistema comune per la condivisione delle informazioni ai fini della sorveglianza del settore marittimo dell'UE. Nel pieno rispetto della esortazione che il Consiglio dell’Unione europea ha inteso indirizzare alla Commissione con le sopramenzionate conclusioni del 14 giugno 2010, quest’ultima ha proceduto, avvalendosi della coadiuzione di un Gruppo di esperti, alla elaborazione della tabella di marcia atta a individuare le singole fasi in ottemperanza delle quali creare il sistema comune per la condivisione delle informazioni ai fini della sorveglianza marittima. Dopo solo pochi giorni dalle conclusioni del Consiglio, il 20 giugno 2010 la Commissione ha elaborato la tabella di marcia con la comunicazione COM(2010) 584 (45), presentandola al Consiglio medesimo e al Parlamento europeo. In questa comunicazione sono stati innanzitutto illustrati i profili generali del CISE. Per tal modo, dopo essere stato premesso che la varietà di contesti giuridici rende davvero improbabile che una soluzione tecnica unica possa essere idonea a consentire lo scambio di qualsiasi tipologia di informazioni all’interno del CISE, si è precisato che, proprio per una tale ragione, l’architettura del sistema deve essere concepita come una «interconnessione decentrata, con un buon rapporto costi-efficacia, fra diversi livelli di informazione, che aumenti l’efficienza dei sistemi di sorveglianza marittima colmando le lacune esistenti in materia di informazione ed evitando di creare (44) Risoluzione del Parlamento europeo del 12 settembre 2013 sulla dimensione marittima della politica di sicurezza e di difesa comune (2012/2318(INI)), p. 4. (45) Il testo integrale della comunicazione COM(2010) 584 definitivo è consultabile all’indirizzo http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2010:0584:FIN:EN:PDF. 36 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 una duplicazione dei dati». Una volta svolte le considerazioni di ordine generale, nella comunicazione de qua si è poi proceduto ad illustrare le sei fasi da dovere progressivamente attuare al fine di una coordinata e proficua realizzazione del CISE. La prima fase è volta ad indentificare le comunità di utilizzatori delle informazioni relative alla sicurezza marittima. Come si è già avuto modo di dire, il mare è una risorsa strategica che rileva sotto plurimi e molteplici profili (dalla tutela dell’ambiente marino, alla regolazione delle attività di pesca, al controllo delle dogane, alla prevenzione e repressione dei reati perpetrati via mare, etc.), così che la cura di ciascuno dei settori connessi all’ambiente marino si presenta, in ogni singolo Stato membro, come la prerogativa attribuita ad una determinata Autorità (ad es., quanto all’Italia, la Guardia Costiera, il Ministero della Difesa, l’Agenzia delle Dogane, il Ministero dell’Interno, le Autorità giudiziarie, etc.). Nell’intento di evitare fenomeni di confusione e disorganizzazione, sotto il profilo dei Soggetti che avranno l’onere di ricevere e/o trasmettere le informazioni relative all’ambiente marino e alla sicurezza marittima, la Commissione ha quindi enumerato le «funzioni» in rapporto alle quali ciascuno Stato membro dovrà identificare le sette comunità di utenti (46). Esse sono: 1) sicurezza marittima (inclusi la ricerca e il salvataggio in mare), protezione marittima e prevenzione dell’inquinamento provocato dalle navi (47); 2) il controllo delle attività di pesca (48); 3) la preparazione e capacità di intervento in caso di inquinamento marino (49); 4) le dogane (50); 5) il controllo delle frontiere (51); 6) l’applicazione della legge in generale (52); 7) la difesa (53). (46) In proposito, nella comunicazione COM(2010) 584 si legge che «ciascuno Stato membro deve identificare la o le autorità che svolgono le funzioni sopra menzionate. Per ogni funzione può essere indicata più di un’autorità. Le autorità così identificate saranno riconosciute come membri della comunità di utilizzatori e come tali avranno diritto a “fornire e/o ricevere informazioni a livello nazionale provenienti da sistemi e meccanismi di sicurezza internazionali, regionali, comunitari, militari e interni, in linea con le condizioni di utilizzo e i diritti di accesso degli utilizzatori predefiniti, al fine di elaborare un quadro della situazione rispondente ai propri criteri” (principio 1 della comunicazione del 2009). Ciascuna autorità così identificata dovrà inoltre segnalare la sua eventuale appartenenza a una rete nazionale, regionale o europea e indicare gli altri membri di tale rete». (47) La funzione SICUREZZA MARITTIMA comprende le seguenti attività: «Controllo del rispetto della normativa in materia di sicurezza e prevenzione dell'inquinamento provocato dalle navi (costruzione, attrezzature, equipaggio/passeggeri, cargo); sostegno alle operazioni volte all'applicazione della legge. Controllo del rispetto della normativa sulla sicurezza della navigazione (sicurezza del traffico marittimo); sostegno alle operazioni volte all’applicazione della legge. Controllo del rispetto della normativa sulla sicurezza delle navi; sostegno alle operazioni volte all’applicazione della legge. Azioni a favore della sicurezza e della fluidità del traffico marittimo; gestione del traffico marittimo. Allarme tempestivo/identificazione delle navi e persone in difficoltà; sostegno alle operazioni di soccorso (ricerca e salvataggio, recupero, luoghi di rifugio). Allarme tempestivo/identificazione delle minacce alla sicurezza marittima nel quadro della convenzione SOLAS, capitolo XI-2; sostegno alle operazioni di intervento. Allarme tempestivo/identificazione delle minacce/atti di pirateria o attacchi armati; sostegno alle operazioni di intervento». CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 37 Mediante la seconda fase, invece, si intende procedere alla mappatura dei dati, nonché del divario esistente tra l’offerta e la domanda di informazioni relative all’ambiente marino per il conseguimento della dichiarata finalità di identificare, ad opera di ciascuna comunità di utilizzatori, «i dati di sorveglianza pertinenti di cui attualmente si dispone (mappatura dell'offerta) e quelli che si vorrebbe ricevere da altre comunità (mappatura della domanda), indicando per ciascuna serie di dati la base giuridica corrispondente e l’eventuale presenza di informazioni che costituiscono dati a carattere personale o informazioni coperte da diritti di proprietà intellettuale (DPI) o da qualsiasi altro vincolo giuridico». Un tale compito dovrà essere facilitato da un gruppo tecnico consultivo multidisciplinare ad hoc (GTC) composto da rappresentanti di ciascuna comunità di utilizzatori, un rappresentante di Bluemassmed e Marsuno nonché rappresentanti delle agenzie e delle iniziative dell’UE pertinenti, il quale sarà assistito nel proprio compito dal Centro comune di ricerca della Commissione europea. La terza fase si sostanzia, poi, nella creazione di tecniche comuni di classificazione dei dati immagazzinati da ciascuna delle Autorità mediante «la elaborazione di un raffronto sinottico con riguardo all’attribuzione di livelli di classificazione (ad. UE Riservato, UE Riservatissimo, ecc.) e con la «verifica, da parte delle comunità di utilizzatori, delle pratiche attualmente in uso con riguardo all’attribuzione dei livelli di classificazione alle serie di dati interessati». (48) La funzione CONTROLLO DELLA ATTIVITÀ DI PESCA comprende le seguenti attività: «Controllo del rispetto delle norme in materia di pesca; sostegno alle operazioni volte all'applicazione della legge. Allarme tempestivo/identificazione delle attività di pesca o degli sbarchi di pesce illegali; sostegno alle operazioni di intervento». (49) La funzione CAPACITÀ DI INTERVENTO IN CASO DI INQUINAMENTO MARINO comprende le seguenti attività: «Controllo del rispetto delle norme sulla protezione dell'ambiente marino; sostegno alle operazioni volte all'applicazione della legge. Allarme tempestivo/identificazione degli incidenti/ eventi che possono avere conseguenze ambientali; sostegno alle operazioni di intervento in caso di inquinamento». (50) Le funzione DOGANE comprende le seguenti attività: «Controllo del rispetto delle norme doganali relative all'importazione, esportazione e movimentazione delle merci; sostegno alle operazioni volte all'applicazione della legge. Allarme tempestivo/identificazione dei traffici illeciti di merci (stupefacenti, armi, ecc.); sostegno alle operazioni di intervento». (51) La funzione CONTROLLO DELLE FRONTIERE comprende le seguenti attività: «Controllo del rispetto delle norme in materia di immigrazione e attraversamento delle frontiere; sostegno alle operazioni volte all'applicazione della legge. Allarme tempestivo/identificazione delle operazioni di immigrazione clandestina o traffico di esseri umani; sostegno alle operazioni di intervento». (52) La funzione APPLICAZIONE DELLA LEGGE IN GENERALE comprende le seguenti attività: «Controllo del rispetto delle norme applicabili nelle zone marittime in cui le parti interessate dispongono di competenze in materia di sorveglianza e repressione; sostegno alle operazioni volte all'applicazione della legge e/o alle operazioni di intervento». (53) La funzione DIFESA comprende le seguenti attività: «Controllo a sostegno di mansioni di difesa generale, quali: esercizio della sovranità nazionale in mare; lotta al terrorismo e ad altre attività ostili al di fuori dell'UE; altre mansioni nell'ambito della politica di sicurezza e di difesa comune, quali definite agli articoli 42 e 43 del trattato UE». 38 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 Con la quarta fase, inoltre, si intende creare un quadro di assistenza del CISE attraverso la elaborazione di un linguaggio informatico comune idoneo a consentire alle comunità di utilizzatori di tradurre i dati provenienti dai propri sistemi in un formato concordato accessibile a tutte le comunità di utilizzatori e leggibile da qualsiasi sistema informatico autorizzato ad accedere alla rete secondo un sistema open source. È intuibile che il principale vantaggio di una scelta siffatta è quello di garantire alle comunità di utilizzatori di poter operare in un ambiente comune per la condivisione delle informazioni secondo modalità relativamente semplici (evitando un grosso lavoro di standardizzazione fra i diversi sistemi di sorveglianza) da elaborare passo per passo a partire dalle informazioni che si prestano maggiormente ad essere condivise. La quinta fase consiste nel determinare i diritti di accesso alle informazioni di cui è in possesso ciascuna comunità di utilizzatori, le quali dovranno stabilire, sulla base di un formulario tipo, i diritti di accesso che sono disposti a concedere alle altre comunità per ogni serie di dati (UE o nazionali) che ritengono di potere condividere con le altre comunità di utilizzatori. In ultimo, con la sesta fase si mira a realizzare un quadro giuridico coerente ed uniforme che possa consentire di superare le limitazioni esistenti previste dalla normativa in materia di trattamento dei dati di cui constano i diversi ordinamenti giuridici dei singoli Stati membri. Soltanto portando a compimento la scansione fasica elaborata dalla Commissione europea sarà possibile realizzare compiutamente un sistema di condivisione delle informazioni inerenti la sicurezza marittima che, di là da una sua esistenza meramente formale, possa essere concretamente azionato da tutte le competenti Autorità per il conseguimento dei plurimi scopi per i quali è stato ideato. 8. Lo stato attuale del processo collaborativo per la realizzazione del sistema comune di condivisione delle informazioni utili alla sicurezza marittima integrata (CISE). I risultati ottenuti e le successive tappe da attuare. La comunicazione della Commissione COM (2014) 451 “Rafforzare la cooperazione tra le autorità di sorveglianza marittima per un’azione consapevole ed efficace: le prossime tappe nell’ambito del sistema comune per la condivisione delle informazioni sul settore marittimo dell’UE”. Il CISE è un «processo collaborativo» la cui concreta realizzazione non è ancora stata portata a compimento a causa della sua complessità tecnica e dei numerosi ostacoli giuridici, istituzionali e politici che ad esso si frappongono. Delle fasi che sono state indicate dalla Commissione europea nella “tabella di marcia” elaborata all’interno della comunicazione COM (2010) 584 ne sono state portate a compimento soltanto alcune, ma in maniera «indiretta» ed «incidentale». Cioè mediante la partecipazione, da parte degli Stati membri, a taluni progetti piloti che, nell’essere pure preordinati a potenziare la sicurezza CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 39 marittima e, nel basarsi anch’essi sulla condivisione delle informazioni in possesso delle plurime Autorità competenti, hanno offerto delle importanti indicazioni circa i vantaggi che potranno derivare dal CISE; si tratta dei progetti “BlueMassMed”, “MARSUNO” e “Cooperazione” (54). Ciò nonostante, è però certo che la straordinaria importanza che il CISE riveste nell’ambito della politica marittima europea ha fatto sì che la Commissione europea tornasse ad occuparsi dello stesso in una sua recente comunicazione del 8 luglio 2014: la comunicazione COM (2014) 451 «Rafforzare la cooperazione tra le autorità di sorveglianza marittima per un’azione più consapevole ed efficace: le prossime tappe nell’ambito del sistema comune per la condivisione delle informazioni sul settore marittimo dell’UE». Si tratta di una comunicazione contraddistinta, ictu oculi, da un contenuto ibrido, in quanto a tratti «compilativo-estimatorio» ad altri «propositivo- programmattico». La Commissione europea, per quel che concerne la parte «compilativo-estimatoria», si è prodigata nello specificare i vantaggi ottenuti sinora dalla attuazione di alcune delle fasi indicate nella roadmap del 2010, affermando che un maggiore e più efficace scambio di informazioni consentirà ai Soggetti interessati di: a) rafforzare la conoscenza della situazione in mare così da riuscire a prevenire, a prepararsi e a reagire adeguatamente agli incidenti sul fronte della sicurezza marittima connessi alla criminalità organizzata transfrontaliera (ad esempio traffici illeciti, pesca illegale, pirateria e rapine a mano armata, terrorismo), alla sicurezza marittima, agli scarichi illegali in mare e all'inquinamento marino; b) ridurre lo sforzo di raccolta dei dati; c) ridurre i costi amministrativi e operativi delle attività di sorveglianza marittima (55). (54) Come è stato evidenziato dalla Commissione europea nella comunicazione COM (2014)451: «Gli Stati membri che partecipano al progetto BlueMassMed (Francia, Grecia, Italia, Malta, Portogallo e Spagna) hanno sviluppato il concetto di “nodi TI” che in futuro potranno avere funzione di poli nazionali d’informazione. Gli Stati membri che partecipano al progetto MARSUNO (Svezia, Belgio, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Lettonia, Lituania, Norvegia e Polonia con la Russia in qualità d’osservatore) hanno compiuto progressi in particolare nel riesame della situazione giuridica e hanno presentato proposte per un’eventuale struttura di gestione. Gli Stati membri che partecipano al progetto Cooperazione (Finlandia, Bulgaria, Estonia, Francia, Germania, Irlanda, Norvegia, Portogallo, Romania, Svezia e Spagna) hanno calcolato il potenziale valore aggiunto del CISE marittimo in scenari reali di sorveglianza marittima. Hanno altresì condotto uno studio sui diritti d’accesso delle autorità allo scambio d’informazioni, sviluppando il concetto di “lingua informatica comune” flessibile (modello comune di dati) che si può usare, all’occorrenza, per assicurare l’interoperabilità dei sistemi di informazione relativi alla sorveglianza». (55) Nello specifico, all’interno della comunicazione COM (2014) 451 consultabile in http://eurlex.europa.eu/legalcontent/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52014DC0451&fr m=IT, è scritto che «I risultati ottenuti finora hanno dimostrato che il CISE marittimo può portare una serie di vantaggi evidenti. In particolare, un maggiore scambio delle informazioni è una condizione importante per conseguire gli obiettivi seguenti: rafforzare la conoscenza e disporre di un miglior quadro della situazione in mare in modo da prevenire, prepararsi e reagire adeguatamente agli incidenti sul fronte della sicurezza marittima connessi alla criminalità organizzata transfrontaliera (ad esempio traffici illeciti, pesca illegale, 40 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 Ma i contenuti più interessanti della comunicazione sono, indubbiamente, quelli di tipo «propositivo-programmattico», giacché da essi trapelano, oltre alla ferma intenzione della Commissione europea di portare a compimento quanto iniziato, anche le linee operative che essa intenderà seguire assieme agli Stati membri nel dichiarato intento di migliorare la sicurezza dei mari e degli oceani d’Europa attraverso la condivisione delle informazioni. Preso atto dei risultati positivi che sono stati raggiunti e che continueranno ad essere conseguiti grazie alla attuazione delle fasi indicate nella “tabella di marcia”, è stato affermato che: a) verrà lanciato (cosa in verità già avvenuta), nell’ambito del Settimo programma quadro di ricerca dell’UE (FP7), un progetto per provare la efficacia del CISE quanto alla scambio intersettoriale di informazioni tra Autorità civili e militari: b) sarà realizzato, entro il 2016, un manuale non vincolante recante buone prassi e indicazioni sulle modalità di applicazione del CISE; c) saranno elaborate delle soluzioni informatiche per realizzare un modello comune di dati basato su tecnologie informatiche ed elettroniche conformi al diritto europeo; d) incoraggerà gli Stati membri ad attuare un significativo ammodernamento dei propri sistemi informatici di sorveglianza marittima; e) solleciterà gli Stati membri ad indurre le Autorità competenti a cercare soluzioni idonee a garantire la protezione dei dati; f) riesaminerà la legislazione settoriale per rimuovere eventuali ostacoli giuridici alla condivisone delle informazioni intersettoriali; g) rifletterà, assieme agli Stati membri, sulle strutture amministrative necessarie per gestire il CISE marittimo. Non v’è dubbio che quello soprariportato, è un elenco di adempimenti ed iniziative sicuramente destinato ad essere integrato, non foss’altro che la stessa Commissione si è impegnata ad avviare entro il 2018 un processo di revisione per valutare l’attuazione del CISE marittimo da parte dei singoli Stati membri. Ad ogni modo, non pare possa dubitarsi che qualora gli Stati membri manifepirateria e rapine a mano armata, terrorismo), alla sicurezza marittima, agli scarichi illegali in mare e all’inquinamento marino accidentale. Dalle valutazioni cui partecipano gli esperti degli Stati membri è risultato che le autorità gestirebbero assai meglio le attività di sorveglianza marittima se tutte le informazioni pertinenti fossero a loro disposizione durante la programmazione e l'esecuzione delle operazioni. In questo modo si potrebbe arrivare a ridurre del 30% in media i rischi e le minacce. Un esempio potrebbe essere lo scambio d’informazioni tra autorità militari e civili sull’afflusso di migranti verso lo spazio Schengen attraverso il Mediterraneo; o ancora, la sorveglianza generale e gli strumenti di gestione delle emergenze intorno ad un bacino marittimo potrebbero venire interconnessi con un semplice “click” in caso di emergenza; sostanziale riduzione dello sforzo di raccolta dei dati. I portatori d’interesse hanno segnalato la presenza di una forte domanda di più ampio scambio d’informazioni, in particolare tra autorità militari e civili, in quanto più del 40% dei dati dell’UE è raccolto da varie autorità nello stesso tempo, ad esempio le informazioni su obiettivi non cooperativi e sull’identificazione delle navi; riduzione dei costi amministrativi e operativi delle attività di sorveglianza marittima. Dai calcoli degli esperti degli Stati membri risulta che il potenziale risparmio generato dal potenziamento dello scambio d’informazioni nell'economia europea potrebbe aggirarsi intorno ai 400 milioni di EUR all'anno, mentre il risparmio diretto delle autorità pubbliche sarebbe di almeno 40 milioni di EUR all’anno. Le spese d’investimento corrispondenti ammonterebbero a circa 10 milioni di EUR all’anno per i primi dieci anni». CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 41 stino un atteggiamento di piena rispondenza al principio di leale cooperazione, il CISE marittimo sarà destinato a diventare un progetto non soltanto allettante sulla “carta”, bensì notevolmente utile nel pratico operare delle competenti Autorità marittime (europee e nazionali, civili e militari). 9. Considerazioni conclusive. Formulare delle considerazioni conclusive - quand’anche brevi - sul sistema comune di condivisione delle informazioni relative alla sicurezza marittima europea è impresa tanto azzardata quanto improficua. Questo perché il CISE marittimo è un’iniziativa europea ben confezionata nella sua dimensione teorica, ma ancora da realizzare sul piano pratico. I vantaggi che potrà assicurare e gli ostacoli (di vario ordine e natura) che possono rallentarne o addirittura impedirne la realizzazione sono stati bene individuati dalla Commissione europea. Tuttavia, dal momento che non si può non cogliere la attendibilità dell’affermazione enfatica del filosofo svizzero Henri-Frédéric Amiel, secondo il quale «vivere non è concepire ciò che bisogna fare, è farlo», non si può parimenti ignorare che, allo stesso modo di quanto accade durante i lavori cantieristici necessari per la costruzione degli ambiziosi progetti dell’ingegneria moderna, è indubbio che gli attori istituzionali coinvolti in questo progetto prenderanno contezza delle difficoltà che sussistono per la creazione del CISE, mano a mano che procederanno a dare attuazione alle singole fasi indicate nella “tabella di marcia” creata dalla Commissione. Va da sé che quelle svolte in questa sede più che appartenere al mondo pragmatico delle considerazioni scientifiche su di un determinato istituto, assumono la portata, assai più onirica, e quindi opinabile, delle suggestioni e delle prime, primissime, impressioni che possono aversi su un progetto complesso ancora da realizzare. Se questo è, l’impressione che si ha dalla lettura degli atti della Commissione europea è il frutto di un sentimento misto: entusiasmo da una parte e scetticismo dall’altra. L’entusiasmo discende dal fatto che ci si trova in presenza di un progetto che, qualora portato a compimento, sarà sicuramente in grado di generare benefici (patrimoniali e non patrimoniali) per tutti i cittadini dell’Unione europea. Di fatti, se è vero che ad un più penetrante ed incisivo controllo corrispondono maggiori standard di sicurezza, se ne ricava che con la compiuta creazione del CISE le acque europee diventerebbero assai più sicure sia quanto alla salubrità di esse, sia quanto alle attività che vi potranno essere espletate; si ridurrà, notevolmente, la possibilità per chiunque di porre in essere condotte illecite, come lo scarico abusivo di materiali nocivi e cancerogeni, la pesca realizzata in zone marine e/o con tecniche vietate dal diritto europeo, la migrazione clandestina, il traffico di sostanze stupefacenti e di animali, etc. Nondimeno, dalla condivisione delle informazioni da parte delle singole Autorità competenti, i cittadini europei finirebbero col beneficiare anche di 42 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 vantaggi di natura patrimoniale, quali quelli derivanti da una minore pressione fiscale connessa alla riduzione dei costi che le Amministrazioni Pubbliche dovrebbero sopportare per la raccolta e la gestione dei dati utili a prevenire o reprimere i fenomeni marittimi. Senza che si debba ricorrere a chissà quale complesso algoritmo macroeconomico, è lapalissiano che un sistema in cui una Autorità marittima ha la possibilità di chiedere ad altra Autorità (dello stesso Stato così come di altro Stato membro) la ricezione di una informazione utile alla prevenzione e/o repressione di un fenomeno marittimo comporta, per l’Autorità richiedente e per i cittadini che contribuiscono - attraverso i meccanismi propri del sistema fiscale-contributivo - al finanziamento di essa, un costo decisamente minore rispetto a quello che dovrebbe essere sopportato qualora l’Autorità di cui trattasi fosse costretta (a causa di una rigida assenza di intercomunicabilità) ad attivare, più e più volte, dei procedimenti amministrativi finalizzati alla raccolta di informazioni già esistenti. Lo scetticismo è invece connesso alla circostanza che il CISE è un progetto che si fonda interamente sul principio di leale cooperazione europea. Non è certo questa la sede per analizzare la portata di tale principio; valga però ricordare che le plurime interpretazioni che ne sono state fornite possono essere ricondotte - sia pure con qualche ovvia imprecisione dovuta alla semplificazione classificatoria - su due posizioni: quella (meno recente) che considera il principio di leale cooperazione come una sorta di aulico sermone, di principio lirico privo di cogenza giuridica, e quella (più recente) che considera il principio di leale cooperazione come fonte di un obbligo giuridico (56). Benché tra le due opposte teoretiche debba essere accordata prevalenza alla seconda, il principio di leale cooperazione europea, a causa della sua palpabile astrattezza, si presta, a rigore, ad essere soggetto a varie forme di elusione da parte degli Stati membri, in specie nel lungo periodo. Si vuole dire che l’ana- (56) Sul principio di leale cooperazione europea si v. SPADARO A., Sui principi di continuità dell’ordinamento, di sussidiarietà e di cooperazione fra Comunità/Unione europea, Stato e Regioni, in Riv. trim. dir. pubb., 1994; BIFULCO R., La Cooperazione nello Stato unitario composto, 1995; CASTORINA E., Certezza del diritto e ordinamento europeo: riflessioni intorno ad un principio comune, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1998; GAETA F., La Comunicazione sulla cooperazione la Commissione Europea e le Autorità nazionali, in Riv. dir. eu., 1998; BIN R., Il principio di leale cooperazione nei rapporti tra poteri, in Riv. dir. cost., 2001; CARUSO F., Il principio di leale cooperazione: cardine del processo di integrazione europea in ROLLA G. (a cura di) La definizione del principio unitario negli ordinamenti decentrati. 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CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 43 lisi dell’esperienza amministrava europea dimostra che il grado di intensità della disponibilità degli Stati membri a cooperare tra di loro e con le Istituzioni europee è inversamente proporzionale all’inesorabile decorso del tempo; è la componente cronologica il principale nemico della tenuta del principio di leale cooperazione. Un pò come accade nella vita di ogni persona, anche gli Stati membri manifestano una prima calda disponibilità a cooperare, con lealtà e solidarietà, nel breve periodo; disponibilità, questa, che viene sovente sfilacciandosi nel medio-lungo periodo a causa di congiunture politiche, economiche e sociali. Così, non è infrequente che gli Stati membri, dopo aver assunto l’impegno di cooperare lealmente alla realizzazione di un progetto europeo, si trovino a voler/dover disattendere gli obblighi assunti. È nella scarsa considerazione che la Commissione europea sembra aver dato alle implicazioni pregiudizievoli che il “tempo” è in grado di sortire sul principio di leale cooperazione che si ritiene possa riscontrarsi un primo indizio di debolezza del CISE. Per vero, dopo essere stato più volte invocato il principio di leale cooperazione, la portata di esso sembra essere oltremodo affievolita dalla circostanza che «il CISE marittimo non incide sulle strutture amministrative degli Stati membri (…). Data la diversità di strutture amministrative negli Stati membri, lo sforzo per attuare questa iniziativa a livello nazionale dipenderà dalla situazione di ciascuno Stato membro» (57). Il ché equivale a dilatare, più di quanto già non sia, la portata del principio di leale cooperazione. Quindi, ciascuno Stato membro potrà lasciare inalterata la conformazione della proprie strutture amministrative deputate a svolgere funzioni inerenti la sicurezza marittima anche se queste risultino totalmente diverse con quelle degli altri Stati membri; il che non è una cosa di poco conto sul lato dell’efficienza e dell’efficacia dell’azione che l’Unione europea mira ad attuare al fine di migliorare la sicurezza delle acque. Il fatto che ciascuno Stato membro continuerà ad avvalersi di sistemi amministrativi totalmente diversi tra di loro sarà una probabile causa di ritardi ed inefficienze poiché - in una pletora amministrativa così diversificata e babelica - non saranno del tutto improbabili delle situazioni in cui non si saprà quale Autorità dovrà trasmettere l’informazione e quale potrà chiederne la ricezione. Chi gestirà la coordinata utilizzazione di questa sorta di gigantesca banca dati su cui si fonda il CISE? Chi verificherà che le diverse strutture amministrative dei singoli Stati membri adempino al dovere di trasmettere le informazioni in loro possesso così da consentire alle altre strutture amministrative di esercitare il diritto di richiedere ed ottenere l’informazione cercata? La Commissione europea nel non dire nulla al riguardo dice tutto. Affermare che il CISE non inciderà sulle strutture amministrative dei singoli Stati membri (57) COM (2014) 451 cit. 44 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 significa, tra le altre cose, che il sistema comune di condivisione delle informazioni si fonda sul principio di leale cooperazione comunitaria, non soltanto nella fase di propulsione (tesa a creare il CISE), ma anche in quella di esecuzione (tesa a fare funzionare il CISE). Ed è proprio questo - lo si ribadisce - che espone il CISE al rischio che gli Stati membri, non essendo più disposti, nel lungo periodo, a conformarsi al principio di leale cooperazione, abbandonino un tale importante progetto. Né può essere considerato un rimedio sufficiente a prevenire una tale evenienza la redazione (come ha dichiarato di voler fare la Commissione entro il 2016) di un manuale di buone pratiche sulle modalità di utilizzazione del CISE; non foss’altro che le indicazioni in esso contenute - come espressamente affermato - non avranno carattere vincolante. Pertanto, sarebbe più opportuno riflettere sulla possibilità di creare, magari, una Agenzia europea ad hoc (alla quale poter dare il nome di Agenzia per la Condivisione delle Informazioni relative alla Sicurezza Marittima Europea) con il compito, tra l’altro, di: a) dettare una normativa tecnica e vincolante sulle modalità di utilizzo del CISE da parte delle singole comunità di utilizzatori; b) verificare che le strutture amministrative dei singoli Stati membri utilizzino, in maniera effettiva e corretta, il sistema comune di condivisione delle informazioni; c) irrogare delle sanzioni amministrative pecuniarie nei confronti degli Stati membri le cui strutture amministrative ciò non facciano. Ma, qualora una siffatta prima proposta dovesse essere ritenuta inattuabile per le più disparate ragioni, non sarebbe comunque peregrina la possibilità di attribuire le funzioni sopraindicate alla già esistente Agenzia europea “FRONTEX”, chiamata ad esercitare funzioni strettamente affini alla sicurezza marittima integrata europea. Un ulteriore elemento che induce a nutrire un sentimento di scetticismo e di perplessità in ordine alla possibilità che il CISE venga portato a compimento così da essere reso funzionante è rappresentato dalla circostanza che la Commissione sembra avere sottovalutato le differenze normative esistenti all’interno degli ordinamenti nazionali quanto alla gestione dell’informazione pubblica e, correlatamente, sopravvalutato la incondizionata e imperitura disponibilità degli Stati membri ad adottare degli interventi legislativi tesi a superare quelle differenze. Uno dei principali problemi che verrà a sorgere è quello che attiene al segreto di Stato. La decisione di apporre il segreto di Stato su determinati atti, documenti, notizie, attività e ogni altra cosa la cui diffusione sia in grado di arrecare danno all’integrità della Repubblica, all’indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati nonché alla preparazione e alla difesa militare dello Stato è connotata da un ampissimo margine di discrezionalità, al punto che si è discusso (e si discute tutt’oggi) in merito alla sussumibilità dell’atto di apposizione del segreto di Stato nella categoria degli atti politici piuttosto che in quella degli atti amministrativi (58). La conseguenza fisiologica e inevitabile di una siffatta ampia discrezionalità è che ciascuno Stato CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 45 membro potrà considerare coperti da segreto di Stato dei dati e delle informazioni che, invece, in altro Stato membro non risultano secretati. Per di più il sistema di classificazione della segretezza (segretissimo, segreto, riservatissimo, riservato) può differire da Stato membro a Stato membro; ben potrà essere che un dato classificato come segretissimo in uno Stato sia considerato, al più, come riservatissimo in altro. Ma v’è di più, in quanto alla diversità delle discipline legislative nazionali sul segreto di Stato e alla possibile diversa classificazione di segretezza, il diritto europeo comprende una norma ai sensi della quale «nessuno Stato membro è tenuto a fornire informazioni la cui divulgazione sia dallo stesso considerata contraria agli interessi essenziali della propria sicurezza» (art. 346 TFUE). Ecco che allora il cerchio si chiude. Se la Commissione europea, d’intesa con i singoli Stati membri, non provvederà ad uniformare le singole discipline nazionali sul segreto di Stato e i sistemi di classificazione della segretezza (quanto meno con solo specifico riguardo alle informazioni e ai dati utili per la sicurezza marittima) è probabile che gli Stati membri disserteranno l’attuazione del principio di leale cooperazione opponendo, non già la sussistenza di opinabili congiunture economiche, politiche e sociali, ma molto più semplicemente ed efficacemente il dettato normativo contenuto nel richiamato art. 346 TFUE. È cioè possibile che i vantaggi che il CISE dovrebbe essere in grado di assicurare (almeno sul piano teorico) finiscano col atteggiarsi come illusioni ed utopie per via del fatto che gli Stati membri, facendo leva sulle (58) In Italia, la Legge 3 agosto 2007, n. 124 recante la disciplina del “Sistema di informazione per la sicurezza delle Repubblica e nuove disciplina del segreto” attribuisce, in via esclusiva, al Presidente del Consiglio «l’apposizione e la tutela del segreto di Stato». In dottrina sulla tematica concernente la natura giuridica da attribuire all’atto di apposizione del segreto di Stato si v., tra gli altri, ANZON A., Interrogativi sui riflessi sostanziali della nozione di segreto di Stato individuata dalla Corte costituzionale (nota a Corte Costituzionale n. 86/1977), in Giur. Cost., 1977, pp. 869 ss.; CAVALLARI V., Dal segreto politico-militare al segreto di Stato, in Giust. Pen., III, 1979, p. 156 ss.; RODRIGUEZ M., Sicurezza dello Stato e pubblici segreti nella prospettiva dei rapporti tra poteri, in Riv. Dir. Proc., 1997, pp. 57 ss.;AA.VV., I servizi di informazione e il segreto di Stato (Legge 3 agosto 2007, n. 124), Milano, 2008, pp. 514 ss. Trattazioni di più ampio respiro sul segreto di Stato sono invece contenute in DE MARSICO A., La nozione di “segreto” nei delitti contro la personalità dello Stato, in Arch. pen., II, 1949; BONACCI A., Un istituto penalistico da riesaminare: il segreto di Stato, in Democ. e dir., 1968, BARBA A., Segreto politico - militare e diritti di libertà, in La Giust. pen., 1971, II, pp. 116 ss.; FERRAJOLI M., Segreto e informazione nello Stato contemporaneo, in Democ. e dir., 1974, pp. 721 ss.; ANZON A., Segreto di Stato e Costituzione, in Giur. cost., 1976, pp. 1770 ss.; PISA P., Il segreto di Stato di fronte alla Corte costituzionale: luci ed ombre in attesa della “riforma”, in Giur. cost., 1977, I, pp. 1206 ss.; ID., Il segreto di Stato, Profili penali, Milano, 1977; CAVALLARI V., Dal segreto politicomilitare al segreto di Stato, in La Giust. pen., 1979, pp. 158 ss.; BARILE P., Democrazia e segreto, in Quad. cost., 1987; BONZANO C., Segreto (tutela processuale del segreto di Stato), in Enc. giur. Trecc., XXVIII, 1992; ALIBRANDI A., Sul fondamento, l’oggetto ed i limiti del segreto di Stato, in Riv. pen., 1994, pp. 449 ss.; ROSSI MERIGHI U., Segreto di Stato tra politica e amministrazione, Napoli, 1994; BONZANO C., voce Il segreto di Stato, in Il diritto, Enc. giur. Il Sole 24 Ore, 2008; FLAMINI G. - NUNZIATA C., Segreto di Stato, uso e abuso, Roma, 2002. 46 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 loro discipline nazionali in materia di segreto di Stato e, ancor di più, sull’art. 346 TFUE giungano a rifiutare la trasmissione di dati ed informazioni occorrenti ad altra Autorità al fine di prevenire o reprimere minacce marittime. In definitiva, anche per questa ragione, il CISE potrebbe rimanere un’importante progetto destinato, però, a rimanere solo sulla carta o, al più, realizzato soltanto in minima parte. In disparte tutto quanto fino a qui detto, e in attesa di vedere i successivi sviluppi, una cosa sembra essere certa: il progetto di realizzare un sistema comune per la condivisione delle informazioni utili alla sicurezza marittima europea rappresenta un’occasione preziosa per dimostrare che l’Unione europea è una organizzazione internazionale di Stati che vive ed esiste non soltanto nell’ambito di tematiche che attengono all’economia finanziaria e al sistema bancario, ma anche con riguardo a fenomeni capaci di incidere sulla vita quotidiana delle “persone comuni”. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 47 La CEDU sulla tutela delle coppie omosessuali in Italia L’onda lunga di Schalk e Kopf NOTA A CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, SEZIONE IV, SENTENZA 21 LUGLIO 2015, RICORSI 18766 E 36030 DEL 2011, OLIARI ED ALTRI C. ITALIA Roberto De Felice* 1. La decisione in commento si occupa di due ricorsi, riuniti. Nel primo, due cittadini italiani, costituenti una coppia omosessuale, avevano impugnato il rifiuto della pubblicazione del loro matrimonio, da loro richiesta all'ufficiale di stato civile, soccombendo tanto avanti il tribunale di Trento quanto avanti la relativa Corte d'appello. La Corte d'appello, per altro, prima di decidere aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale degli articoli 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143 bis, 231 del codice civile per violazione dell'articolo 3 della costituzione repubblicana. La Corte Costituzionale, peraltro, con la sentenza 138 del 2010 (1) aveva ritenuto inammissibile la proposta questione. Nel secondo ricorso una prima coppia omosessuale aveva direttamente proposto ricorso alla Corte di Strasburgo a seguito del rifiuto oppostole della richiesta di pubblicazione del matrimonio che intendeva contrarre; una seconda coppia, a sua volta, si era limitata, sempre a seguito di un rifiuto di pubblicazione di matrimonio, ad adire infruttuosamente il competente tribunale, senza percorrere gli ulteriori gradi della giurisdizione. 2. La ECHR dichiara ammissibili i ricorsi. Sotto il profilo del requisito del previo esaurimento dei ricorsi interni, la Corte ribadisce la propria giurisprudenza risalente in ordine alla effettività del rimedio (2). Tuttavia, poiché la Corte Costituzionale si era pronunciata con la sentenza numero 138 anteriormente alla proposizione dei due ricorsi, la EHCR, constatato che la Consulta aveva deciso e ritenuto di non potere che invitare il legislatore ad approvare una disciplina sul riconoscimento e la tutela delle coppie omosessuali, essendole preclusa una sentenza additiva di ampia portata, che introducesse la complessa disciplina sostanziale di un nuovo istituto, i giudici nazionali non avrebbero potuto che adeguarsi a quanto da essa deciso. Pertanto, correttamente, riteneva che i ricorrenti non avrebbero potuto proporre utilmente ricorsi, rispettivamente, alla Corte di Cassazione, alla Corte d'appello di Milano, al Tribunale di Milano, a seconda dei casi, che fossero fondati e (*) Avvocato dello Stato. (1) http://www.Cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2010&numero=138. (2) Vedi Ilhan, Grande Sezione, 27 giugno 2000 §§ 57-62. I rimedi interni devono essere effettivi in teoria e in pratica. Ovviamente che manchi un rimedio effettivo interno non implica la violazione della CEDU di per sé, come dimostra la sentenza in commento laddove respinge il ricorso per violazione dell’art. 12. 48 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 suscettibili di far loro ottenere il bene della vita preteso. La questione di diritto, sostanzialmente, era già stata decisa dalla citata sentenza 138. 3. Per quanto concerne, poi, il termine perentorio di sei mesi (art. 35 co. 1 CEDU), che presto sarà ridotto a quattro mesi (3), la Corte decideva, sempre in conformità ai propri precedenti, che nei casi in cui si verificasse una situazione di durata, la allegata violazione delle norme della convenzione si verifica de die in diem (4) in assenza di un rimedio effettivo, e detto termine, in mancanza di una decisione definitiva dell'autorità giudiziaria in assenza di un rimedio nazionale effettivo, non ha un dies a quo, come nella fattispecie, non essendo le situazioni di fatto dedotte, cioè le relazioni tra le tre coppie di ricorrenti, mai cessate, e quindi non essendo mai cessata la allegata violazione dei loro diritti fondamentali. 4. Dopo avere dichiarato ammissibile ciascuno dei ricorsi proposti, la Corte li ha esaminati nel merito. Deve premettersi che la EHCR ha respinto il primo ricorso nella parte in cui lamentava la violazione dell'articolo 12 della convenzione, in quanto l’ordinamento italiano, non prevedendolo, avrebbe violato il diritto al matrimonio delle coppie omosessuali. Non senza avere ricordato che la convenzione è uno strumento vivente, e che il diritto al matrimonio non deve essere considerato come limitato alle coppie eterosessuali in tutti i casi ai sensi della CEDU (5), la EHCR conferma la propria giurisprudenza. Poiché solo undici Stati su 47 appartenenti al Consiglio d'Europa am- (3) Protocollo addizionale XV alla CEDU, Strasburgo 24 giugno 2013, sottoscritto da 41 Stati e ratificato da 22 (stranamente, non dalla Repubblica Italiana, che pur avrebbe interesse alla ratifica, atteso l’alto numero di ricorsi proposti contro la medesima in quella sede). Il Protocollo entra in vigore il primo giorno del mese successivo alla ratifica da parte di tutti gli Stati contraenti. (4) EHCR, Grande Sezione, 17 settembre 2014, Mocanu. Id. 18 settembre 2009, Varnava § 159. Agrotexim, § 58. (5) EHCR, I Sezione, sentenza 24 giugno 2010, Schalk und Kopf, http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-99605#{%22itemid%22:[%22001-99605%22]}. La Corte in quel caso si è occupata del ricorso di una coppia omosessuale che si era vista negare dal Sindaco e dal Governatore di Vienna (adito in via gerarchica) le formalità preliminari al matrimonio, con decisione confermata dalla Corte Costituzionale, cui i cittadini austriaci hanno accesso diretto. La EHCR, pur notando che il matrimonio protetto dall’art. 12 CEDU “Regard being had to Article 9 of the Charter, the Court would no longer consider that the right to marry enshrined in Article 12 must in all circumstances be limited to marriage between two persons of the opposite sex’’ riteneva che l’estensione del matrimonio a dette coppie fosse dipendente dalle scelte del legislatore nazionale, non vincolate da un consensus sul punto. Tuttavia, quanto alla tutela della vita familiare, superava alla luce della evoluzione sociale il proprio precedente Mata Estévez del 2001, concludendo considers it artificial to maintain the view that, in contrast to a different-sex couple, a same-sex couple cannot enjoy “family life” for the purposes of Article 8. Tuttavia il legislatore austriaco aveva nelle more approvato la legge sulle unioni civili, sicché non sussisteva nemmeno violazione dell’art 8. In Vallianatos, la EHCR, Grande Sezione, 7 novembre 2013, http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-128294#{%22itemid%22:[%22001-128294%22]}, la Corte, ribadendo i principi del caso Schalk, condanna la Grecia per non avere esteso le proprie unioni civili a siffatte coppie, per discriminazione ai sensi degli artt. 14 e 8 CEDU, aggiungendo che the applicants’ relationships in the present case fall within the notion of “private life” and that of “family life”, just as would the relationships of different-sex couples in the same situation. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 49 mettono il matrimonio egualitario non si può considerare esistente un consensus tale da far considerare l'articolo 12 come interpretabile nel senso di imporre un obbligo agli Stati membri di accordare necessariamente alle coppie omosessuali il matrimonio. 5. La Corte ricorda che il rispetto dei singoli diritti garantiti dalla convenzione comporta non solo obblighi negativi e di non ingerenza nell'esercizio dei medesimi diritti, ma anche obblighi positivi (6) e di riconoscimento degli stessi. Così, per esempio, in tema di diritto al matrimonio ex articolo 12 della convenzione, uno Stato non è solamente obbligato a non proibire o non ostacolare il matrimonio a una particolare categoria di persone (come ad esempio, i detenuti, o, per assurdo e ricordando ere buie, le persone appartenenti a “razze’’ diverse), ma anche ad adottare misure legislative o di altro genere volte ad assicurare efficacia, tutela e riconoscimento alle coppie sposate. Pertanto, se uno Stato si limitasse a consentire la celebrazione del matrimonio davanti ad una autorità religiosa, senza però far discendere da quello status alcun effetto civile, lo Stato membro, non avendo adottato una legislazione di tutela e protezione del matrimonio, avrebbe violato gli obblighi positivi discendenti dall'articolo 12. In materia di obblighi positivi si ricorda che la Corte, in un caso concernente il rispetto della vita familiare di cui all'articolo 8 della convenzione, relativo a procedimento di restituzione al genitore affidatario, residente negli Stati Uniti d'America, di un minore, per il giudice americano illegittimamente sottratto all'affidatario e portato in territorio francese, evidenziava l'importanza di tali obblighi positivi (7). Così, ai sensi dell'articolo 11 della Convenzione dell'Aja (8), lo stato ha l'obbligo di agire in modo spedito per assicurare il ritorno di questi minori; tuttavia, nel caso di specie, doveva essere considerata l'accurata ponderazione delle circostanze del caso dell'interesse del minore. 6. La Corte rileva che in Italia è assolutamente carente una disciplina di riconoscimento e di tutela dei diritti fondamentali delle coppie omosessuali, respingendo, in modo del tutto condivisibile, l'argomento che alcune tutele sarebbero riconosciute, ad esempio, dai registri comunali delle unioni civili, che non hanno che un valore meramente simbolico, affermando la scarsa rilevanza i cosiddetti accordi di convivenza che non hanno lo scopo del riconoscimento e della tutela della coppia. Nel paragrafo 169 della sentenza, questo assume una particolare pregnanza. A fronte della persino fastidiosa diatriba in ordine a vari disegni di legge all'esame del Parlamento, è stato sostenuto (9) che la futura disciplina delle unioni civili dovrebbe con- (6) Per tutti, EHCR, Grande Sezione, Odièvre. (7) EHCR, III Sezione, Maumousseau. (8) Trattato del 25 ottobre 1980, ratificato con Legge 15 gennaio 1994, n. 64. Oggi in ambito UE sostituita dal Regolamento CE 2201/2003 (Cons.). 50 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 templare solo il riconoscimento dei diritti dei singoli membri di tale formazione sociale. La decisione della Corte smentisce la validità e sufficienza di tale limitata soluzione al problema esigendo l'esplicito riconoscimento della tutela della coppia in sé. Né sono sufficienti gli sporadici casuali e non normativamente previsti, benefici per siffatte coppie accordati talvolta da strutture sanitarie e ospedaliere, da sentenze di singoli giudici, ad esempio in ordine al riconoscimento e alla trascrizione di adozione, perfezionate da queste coppie all'estero. Invero in tale ultimo caso è centrale la considerazione dell'interesse del minore. 7. La Corte ricorda che nell'adempimento di questi obblighi ai sensi dell'articolo 8 allo stato è concesso un margine di apprezzamento. Esistono dei fattori che contribuiscono a restringere ovvero ad ampliare tale margine. In primo luogo va considerato il disposto normativo, che potrebbe imporre un obbligo limitato e preciso ovvero ampio e indeterminato. In questo caso l’obbligo, come rilevato già da Corte Cost. 138/10, è ampio. In secondo luogo, sempre la giurisprudenza sull'articolo 8, ritiene che nei casi in cui sia in gioco l'esistenza o l'identità di un individuo tale margine sia ristretto. Tuttavia, se la questione suscita questioni moralmente e politicamente sensibili, come nell'ambito della Repubblica italiana, tale margine può essere ampliato a meno che non vi sia un consensus all'interno degli stati membri sull'importanza dell'interesse da tutelare ovvero sui mezzi per tutelarlo. 8. La Corte ribadisce quanto deciso nelle sue precedenti decisioni in ordine alla identica capacità delle coppie omosessuali di costituire relazioni stabili e impegnative. La Repubblica italiana, come altri Stati, non si è adeguata alle raccomandazioni (10) del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa che invitavano gli Stati membri a considerare la possibilità di introdurre delle partnership registrate o unioni civili. La questione assume una particolare rilevanza per le coppie omosessuali, perché le stesse non hanno la possibilità di sposarsi, se non nei citati sei stati. Si deve, pertanto concludere, che la Corte avrebbe respinto il ricorso se il medesimo fosse stato proposto da coppie di fatto eterosessuali, in grado di accedere all'Istituto del matrimonio e alle conseguenti tutele. Invero, al di là del giudizio sulla crescente tendenza delle coppie eterosessuali a non accedere all'Istituto matrimoniale, tendenza particolarmente preoccupante per quanto concerne la tutela della parte debole della coppia, di norma, ancor oggi, la donna, il che non può certo esonerare l'operatore del diritto da un critico riconoscimento che una forse eccessiva tutela della parte debole abbia potuto fungere esattamente da deterrente per il (9) http://www.huffingtonpost.it/2015/05/11/unioni-civili-giovanardi_n_7258288.html . (10) https://wcd.coe.int/ViewDoc.jsp?Ref=CM/Rec%282010%295&Language=lanItalian&Ver=original&Sit e=COE&BackColorInternet=C3C3C3&BackColorIntranet=EDB021&BackColorLogged=F5D383 . CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 51 matrimonio. La Corte, osservando l'imponenza anche statistica del fenomeno nella popolazione italiana ritiene del tutto ingiustificato che lo Stato non abbia mai approvato un quadro normativo di riconoscimento e tutela delle coppie omosessuali, se non sotto la forma del matrimonio, sotto la forma di una unione civile o Istituto corrispondente, soprattutto alla luce del consensus che sembra essersi formato tra gli stati membri del consiglio d'Europa, la maggioranza dei quali riconosce le unioni civili per le coppie omosessuali, maggioranza cui andranno aggiunti nei prossimi mesi la Repubblica ellenica (11) e la Repubblica greca di Cipro (12). 9. Non è stata provata in giudizio la esistenza di interessi, contrapposti a quelli dei ricorrenti, da tutelare, essendosi lo Stato limitato alla deduzione della necessità di reperire un unanime consenso tra diverse correnti di pensiero anche di ispirazione religiosa, unanime consenso che, si aggiunge, è evidentemente impossibile, alcune religioni aborrendo l'omosessualità. Peraltro, alla valutazione dell'ampiezza del margine di apprezzamento concorrono due fattori contrastanti: da una parte la sussistenza di questioni etiche, dall'altra il carattere fondamentale ed identitario del riconoscimento della tutela delle coppie. Essere sposato o, mutatis mutandis, essere partner di un’unione civile è un aspetto della identità personale e della dignità sociale di un individuo. La EHCR cura di notare che la legge che l'Italia non ha ancora approvato dovrebbe occuparsi dei diritti fondamentali e basilari della coppia, diritti e doveri che per la definizione non dovrebbero suscitare alcuna lesione di interessi morali di terzi. Al contrario il caso non verte su diritti supplementari, espressione che questo interprete ritiene di dovere esplicitare, ad esempio, nel diritto ad avvalersi di tecniche di riproduzione assistita ovvero nel diritto di poter richiedere una adozione plenaria di un minore che sia stato dichiarato lo stato di adottabilità ex art. 6 L 184/83. Tali valutazioni, ovviamente, sono limitate al ristretto quadro di applicazione e interpretazione dei diritti garantiti dalla CEDU. La Corte rimprovera all'Italia di non aver adempiuto ai moniti contenuti sia nella sentenza 138 della Corte Costituzionale sia nella nota decisione della Corte di Cassazione sulla trascrivibilità dei matrimoni perfezionati all'estero da coppie omosessuali. Il legislatore, nel corso di 30 anni, è stato incapace di approvare una normativa in materia; pertanto, in assenza di un contrapposto interesse allegato dal governo, e in presenza dello speculare obbligo dello Stato di riconoscere con azioni positive dette coppie, alla luce, altresì dei favorevoli sondaggi di opinione che dimostrerebbero che la maggioranza della popolazione italiana sarebbe favorevole alla tutela di tali coppie, ha accolto il ricorso. (11) http://www.ekathimerini.com/197764/article/ekathimerini/news/bill-to-allow-for-civil-unions-for-same-sex-couples. (12) http://in-cyprus.com/civil-unions-stalled/ . 52 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 10. È opportuno notare che la difesa ha ammesso che alcuni apparati dello Stato, come il potere giudiziario, manifesterebbero una maggiore accettazione del fenomeno, ma si stigmatizza la circostanza che il Governo abbia “ostinatamente’’ esercitato il suo diritto a opporsi a tali pretese, così dimostrando uno scarso appoggio per le decisioni, favorevoli alle coppie omosessuali, rese dai tribunali. L'argomento ha elementi di criticità ed elementi di verità. In realtà il Governo non può non tenere conto della sentenza 4184 della Corte di cassazione, che sancisce la intrascrivibilità di detti matrimoni. Nel caso, citato dalla decisione, del decreto del Tribunale di Grosseto, l'azione è stata esercitata, poi, dal pubblico ministero, organo neutrale e deputato dalla legge ad agire. Se, quindi, il Governo deve rispettare quel precedente non può essergli rimproverato di avere esercitato “in modo ostinato’’ il diritto a opporsi a tali domande. La stessa serie di controversie amministrative relative all’avvenuto esercizio di un affermato potere di autotutela del Prefetto in ordine alla trascrizione di matrimoni di coppie omosessuali perfezionati all'estero, pur avendo avuto esiti sfavorevoli in giudizio, sino alla data del presente scritto, li ha avuti in dipendenza di una questione di attribuzione del potere di cancellare dette trascrizioni, che il Tar del Lazio (13) e il Tar FVG hanno ritenuto, a mio avviso correttamente, spettare alla autorità giudiziaria ordinaria ai sensi degli articoli 453 e 455 del codice civile. Tuttavia le sentenze di Roma e di Trieste chiariscono espressamente che la questione sostanziale, cioè quella della trascrivibilità del matrimonio, va decisa secondo i principi affermati dalla Corte di cassazione. E va decisa, si accennava, dall'autorità giudiziaria, su istanza, in primo luogo, del pubblico ministero, e, a nostro modesto avviso, anche dello stesso prefetto, rappresentato e difeso dall'avvocatura dello Stato. Infatti l'azione di cui all'articolo 95 del d.p.r. 396 del 2000 spetta a chiunque ne abbia interesse, e, pur non essendo probabilmente munito di poteri di autotutela nel caso di specie, il Prefetto, per le sue attribuzioni di vigilanza e controllo sullo Stato civile, ha sicuramente non solo il potere di segnalare al procuratore della Repubblica e al procuratore generale della Repubblica la necessità di agire per cancellare dette trascrizioni, ma anche il potere e l'interesse e la legittimazione di promuovere la stessa causa o di intervenirvi, se e in quanto promossa dal PM o da altri. Sin qui la criticità: non va imputato al governo un atteggiamento di critica avversione. Piuttosto, il governo, esattamente come il potere giudiziario (14), sconta le inevitabili incertezze dipendenti dalla inazione del legislatore. Questa invece, sembra essere il punto di verità della critica mossa dalla Corte alla Repubblica italiana. (13) Tar Lazio Sez. I ter sent. 3907/15 del 9 marzo; Tar FVG 228/15 del 21 maggio. Contra, Tar Veneto 878/15 del 29 luglio. (14) Cass. 4184/12 lascia perplessi laddove afferma che pur essendo un matrimonio same sex non CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 53 11. La Corte ha ritenuto violata la norma di cui al comma primo dell'articolo 8 della convenzione. La decisione implica, di conseguenza che tutti gli Stati membri del Consiglio d'Europa devono ritenersi obbligati a porre in essere delle misure volte al riconoscimento e alla tutela delle coppie omosessuali. Tuttavia, pur essendo una decisione applicativa della violazione del diritto in sé alla tutela della vita familiare, i continui riferimenti alla situazione italiana, attraverso statistiche, sondaggi di opinione, la storia dei disegni di legge che hanno così profondamente turbato il dibattito pubblico in ordine alla materia in questione, è tagliata su misura della Repubblica italiana. 12. Elemento assai rilevante nell'argomentare sui casi italiani sottoposti alla Corte è la presenza della sentenza 138/2010 della Corte Costituzionale e di plurime sentenze dei giudici ordinari disattese dal legislatore. La decisione 138 invero riconosce un diritto fondamentale di tali coppie al riconoscimento: Orbene, per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone - nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge - il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri. La Corte EDU evidenzia quanto sia pericoloso per i principi sottesi alla Convenzione che il legislatore ometta di attualizzare i diritti riconosciuti dai giudici. Vi è in questo una profonda sintonia fra le due corti e le relative pronunce. Di fatto i giudici di Strasburgo imputano alla Repubblica di non aver dato concretezza al riconoscimento dei diritti contenuto nella sent. 138/2010. 13. Tre giudici, nella loro opinione concorrente, sostengono, perfino, che doveva essere applicato il secondo comma dell'articolo otto riguardante i controlimiti del diritto sancito al primo comma. In particolare, nell'interpretazione di questi giudici, la Corte Costituzionale, nella sua sentenza 138, ribadita da ordinanze successive, e la Corte di cassazione, avrebbero riconosciuto l'esistenza di un diritto della coppia omosessuale al riconoscimento, pur non potendo intervenire con una sentenza additiva coinvolgente complessi aspetti rimessi alla valutazione del legislatore. Dunque, l'Italia non avrebbe rispettato questo diritto per ben cinque anni così compiendo una ingerenza in esso, non giustificata, in nessun modo, secondo i criteri dell'articontrario all’ordine pubblico internazionale, né inesistente o nullo, sarebbe “assolutamente inefficace’’, nozione che in dommatica può trovare spazio negli effetti verso terzi di un atto o negozio, nella situazione di pendenza di una condizione (non certo predicabile per il matrimonio, actus legitimus) o nella invalidità radicale (nullità o inesistenza) o dichiarata (annullabilità) di un atto. In più è quasi scontato che sia trascritto un qualche matrimonio nullo (ad esempio in caso di delitto, quando il delitto sia ancora occulto e segua la celebrazione) o un atto pubblico nullo. E quindi inefficace in modo assoluto. 54 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 colo 8 comma due. L’opinione concorrente ha un fondamento politico molto importante. Premessa maggiore del sillogismo è che il diritto delle coppie omosessuali a un riconoscimento e alla tutela dei loro diritti fondamentali è già stato riconosciuto in Italia: quindi, la decisione non avrebbe alcun effetto su quegli stati del consiglio d'Europa che non solo non si limitano a non prevedere alcunché per le coppie omosessuali, ma che addirittura reprimono l'omosessualità se non direttamente attraverso le sue manifestazioni sociali, violando diverse norme della CEDU (15), come risulta da un rapido esame della sua giurisprudenza. Se la decisione fosse stata resa in questi termini, nell'ottica di un giudice sovranazionale, non avrebbe preoccupato i Governi di molti Stati dell’ex blocco sovietico e della Turchia essendo limitata alla situazione italiana. Tuttavia, la valutazione dell'intento apprezzabile di self restraint della EHCR dei giudici concorrenti, rende evidente che tutti i giudici della Sezione, dando rilievo alle omologhe valutazioni dei giudici nazionali, trovano direttamente nella Convenzione e nella sent. 138 il fondamento al diritto fondamentale al riconoscimento della vita familiare delle coppie dello stesso sesso. 14. Altro punto di interessante dialogo fra le supreme magistrature è quello relativo alla necessità per le coppie di ricorrere ai giudici per vedersi riconosciuti singoli diritti che pare mettersi in relazione con il passaggio della sent. 138 in cui la Consulta si riservava di intervenire nell'inerzia del legislatore (16). I giudici di Strasburgo sembrano sottolineare che tale meccanismo di supplenza, benché possibile, non possa essere considerato adeguato a garantire il godimento del diritto alla vita familiare, che richiede l'intervento troppo a lungo atteso del legislatore. 15. La causa in commento è stata trattenuta in decisione quattro giorni dopo la pubblicazione della nota sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti d'America (17) che ha ritenuto che nessuno stato possa vietare, ritenere nullo o in qualunque modo invalido, il matrimonio tra due persone dello stesso sesso ai sensi della propria legge, unica competente in materia, né tan- (15) ECHR, 12 maggio 2015, Identoba, sulla omessa repressione delle violenze commesse contro i partcipanti a un autorizzato gay pride in Georgia. Violazione del divieto di tortura; Id., Baczkowski e Alekseyev, rispettivamente sulla Polonia e la Federazione Russa, violazione del diritto di libera associazione. (16) Cfr. la sentenza 138: Può accadere, infatti, che, in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza. In Oliari, attualmente, al fine di ricevere tale protezione i ricorrenti, così come altri nella loro posizione, devono sollevare numerose identiche questioni presso le Corti nazionali e probabilmente anche la Corte Costituzionale alla quale non hanno accesso diretto. Dalla giurisprudenza portata all'attenzione della Corte, traspare che mentre il riconoscimento di determinati diritti è stato rigorosamente sostenuto, altre materie connesse con le unioni omosessuali rimangono nell'incertezza. (17) Obergefell v. Hodges, 576 US__(2015), da me tradotta in Foro Italiano Alfa, Merito ed Extra, 2015.368. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 55 tomeno negare riconoscimento a matrimoni celebrati legittimamente in un altro Stato dell'unione o all'estero. È probabile che la decisione della Corte suprema degli Stati Uniti d'America (18) avrà un profondo impatto culturale anche sulla giurisprudenza della Corte europea. La Corte suprema, infatti, ha ritenuto che queste leggi violino principi fondamentali di giustizia in quanto le coppie omosessuali le coppie eterosessuali adempiono alla medesima funzione sociale e quindi non possono essere trattate diversamente, né, tantomeno, può essere privata del matrimonio una categoria di persone come risulta gli omosessuali che non possono che ragionevolmente sposarsi tra loro. Con la decisione in commento la Corte europea ha affermato che il riconoscimento di queste coppie almeno a livello delle cosiddette unioni civili, è obbligatorio in tutti gli stati del consiglio d'Europa. Tenuto conto della circostanza che gli stati del Consiglio d'Europa che ammettono il matrimonio egualitario sono già undici: Francia, Regno unito, Regno di Spagna, Regno dei Paesi Bassi, Regno del Belgio, Granducato del Lussemburgo, Slovenia, Finlandia (dove mancano dei decreti attuativi), Repubblica d'Irlanda (dove manca una legge attuativa ma la costituzione è stata modificata ad hoc), Andorra, Islanda, è verosimile che i principi recati da Obergefell v. Hodges saranno incorporati nella giurisprudenza della Corte europea nell'arco di una decina di anni. Tanto, in virtù del dialogo tra le corti (19) che caratterizza le decisioni di queste supreme istanze. Non resta nel frattempo che attendere che il legislatore, la cui concreta operatività è ostacolata da regolamenti parlamentari obsoleti e che certo non mirano all'efficienza, si pronunci sulla questione anche per evitare ulteriori condanne da parte della stessa Corte europea, e, cosa da non sottovalutare, da parte del giudice nazionale in presenza di situazioni simili a quelle dei ricorrenti della causa in questione, per risarcimento del danno non patrimoniale morale da lesione di un diritto fondamentale al riconoscimento alla tutela della relazione di coppia riconosciuto dalla Corte europea dei diritti umani. (18) Cfr.: La natura del matrimonio è che, attraverso il suo legame durevole, le due persone insieme possono ottenere altre libertà, di espressione di sé, di intimità, di spiritualità. Windsor, ediz. provvisoria, pag. 22-23. Questo è vero per tutte le persone quale che sia il loro orientamento sessuale. (19) Vedi SPERTI A., Il dialogo tra le corti costituzionali ed il ricorso alla comparazione giuridica nella esperienza più recente, Rivista Associazione italiana costituzionalisti, http://archivio.rivistaaic.it/materiali/anticipazioni/comparazione/index.html. 56 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 Corte Europea dei diritti dell’uomo, Sezione IV, sentenza 21 luglio 2015 nei ricorsi 18766 e 36030 del 2011- Pres. Päivi Hirvelä, Giud. Guido Raimondi, Ledi Bianku, Nona Tsotsoria, Paul Mahoney, Faris Vehabovic, Yonko Grozev (Concurring opinion Tsostsoria, Vehabovic e Mahoney) - Oliari et al. Rispetto della vita privata e familiare - Coppie omosessuali - Omessa previsione di riconoscimento e tutela - Violazione dell’art. 8 Cedu - Sussiste. La Repubblica Italiana, non avendo riconosciuto né tutelato, almeno mediante l’istituto delle unioni civili o partnership registrate, le coppie omosessuali, ha violato il diritto al rispetto della loro vita privata e familiare. (CEDU, art. 8). (Traduzione a cura dell’avvocato dello Stato Roberto de Felice). [OMISSIS] 2) Valutazione della Corte (a) Articolo 8 (i) Principi generali 159. Mentre lo scopo essenziale dell'articolo 8 è quello di proteggere gli individui nei confronti di una interferenza arbitraria a opera delle pubbliche autorità, esso può anche imporre a uno stato determinate obbligazioni positive per assicurare un effettivo rispetto dei diritti protetti dall'articolo 8 (vedi, tra altri precedenti, X and Y v. the Netherlands, 26 Marzo 1985, § 23, Series A no. 91; Maumousseau and Washington v. France, no. 39388/05, § 83, 6 Dicembre 2007; Söderman v.Sweden [GC], no. 5786/08, § 78, ECHR 2013; e Hämäläinen v. Finland [GC], no. 37359/09, § 62, ECHR 2014). Questi obblighi possono includere l'adozione di misure finalizzate ad assicurare il rispetto per la vita privata o la vita familiare anche nella sfera delle relazioni interindividuali (v., inter alia, S.H. and Others v. Austria [GC], no. 57813/00, §87, ECHR 2011, e Söderman, supra, § 78). 160. I principi applicabili per valutare gli obblighi positivi e negativi di uno Stato ai sensi della Convenzione sono simili. Si deve avere riguardo all’equo contemperamento che deve essere effettuato tra gli interessi confliggenti dell'individuo e della comunità nel suo complesso, poiché gli scopi di cui al secondo paragrafo dell'articolo 8 sono di una certa rilevanza (v. Gaskin v. the United Kingdom, 7 July 1989, § 42, Series A no. 160, e Roche v. the United Kingdom [GC], no. 32555/96, § 157 ECHR 2005). 161. La nozione di “rispetto” non è nettamente definita, soprattutto per quanto riguarda gli obblighi positivi: avendo riguardo alla diversità delle pratiche seguite e delle situazioni esistenti negli Stati contraenti, i requisiti di questa nozione sono destinati a variare considerevolmente da caso a caso (v. Christine Goodwin v. the United Kingdom [GC], no. 28957/95, § 72, ECHR 2002-VI). Nondimeno alcuni fattori sono stati considerati rilevanti per la valutazione del contenuto di quegli obblighi positivi incombenti agli Stati (v. Hämäläinen, cit., § 66). Nel presente caso è rilevante l'impatto su un ricorrente di una situazione dove sussiste una discrepanza tra la realtà sociale e la legge, dovendosi considerare la coerenza delle pratiche amministrative e legislative all'interno dell'ordinamento nazionale come un fattore importante nella valutazione condotta ai sensi dell'articolo 8 (v., mutatis mutandis, Christine Goodwin, cit., §§ 77-78; I. v. the United Kingdom [GC], no. 25680/94, § 58, 11 July 2002, e Hämäläinen, cit., § 66). Altri fattori si riferiscono all'impatto del preteso obbligo positivo in questione sullo CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 57 Stato interessato. La questione qui se l'asserito obbligo sia limitato e preciso ovvero ampio e indeterminato (v. Botta v. Italy, 24 Febbraio 1998, § 35, Reports 1998-I) ovvero sulla dimensione di ogni possibile onere che l'obbligo imporrebbe allo Stato (v. Christine Goodwin, cit., §§ 86-87). 162. Gli Stati godono di un certo margine di apprezzamento nell'adempiere i loro obblighi positivi ai sensi dell'articolo 8. Nel determinare l'ampiezza di quel margine devono prendere in considerazione alcuni fattori. Nel contesto della vita privata la Corte ha considerato che laddove sia in gioco un aspetto particolarmente importante per l’esistenza e/o l'identità di un individuo il margine concesso allo Stato sia ristretto (v. ad ex. X and Y, cit., §§ 24 e 27; Christine Goodwin, cit., § 90; v. anche Pretty v. the United Kingdom, no. 2346/02, § 71, ECHR 2002-III). Tuttavia, laddove non vi sia un consensus all’interno degli Stati membri del Consiglio d'Europa, o quanto all'importanza relativa degli interessi in gioco, o quanto ai mezzi migliori di proteggerlo, in particolare dove il caso suscita questioni moralmente e politicamente sensibili, il margine è destinato a essere più ampio (v. X, Y and Z v. the United Kingdom, 22 Aprile 1997, § 44, Reports 1997-II; Fretté v. France, no. 36515/97, § 41, ECHR 2002-I; e Christine Goodwin, cit., § 85). Solitamente vi è un margine ampio se si richiede allo Stato di trovare un punto di equilibrio tra interessi pubblici e privati, o diritti derivanti dalla Convenzione, in conflitto (v. Fretté, cit., § 42; Odièvre v. France [GC], no. 42326/98, §§44-49, ECHR 2003-III; Evans v. the United Kingdom [GC], no. 6339/05, §77, ECHR 2007-I; Dickson v. the United Kingdom [GC], no. 44362/04, §78, ECHR 2007-V; e S.H. and Others, cit., § 94). (ii) La recente giurisprudenza rilevante e l’oggetto della presente causa. 163. La Corte è già stata investita da ricorsi concernenti la mancanza di riconoscimento delle unioni omosessuali. Tuttavia, nel recentissimo caso Schalk and Kopf v. Austria, quando la Corte ha reso il proprio giudizio i ricorrenti avevano già ottenuto l'opportunità di costituire una partnership registrata. Così la Corte dovette semplicemente determinare se lo Stato resistente avesse dovuto munire i ricorrenti di un metodo alternativo di riconoscimento legale della loro partnership prima di quando lo fece, cioè prima del 1 gennaio 2010. Dopo aver notato l’emersione di un consensus europeo in rapido sviluppo nel decennio precedente, ma che non c'era ancora una maggioranza di stati che prevedesse il riconoscimento legale delle coppie omosessuali, al tempo 19 Stati, la Corte considerò che l'ambito in questione fosse un'area di diritti in evoluzione senza un consensus stabilito, dove gli Stati godevano di un margine di apprezzamento quanto al tempo di introdurre cambiamenti legislativi (§ 105). Così la Corte concluse che, benché non fosse all'avanguardia, il legislatore austriaco non potesse essere censurato per non avere approvato la legge sulla partnership registrata prima del 2010 (§ 106). In quel caso, la Corte riteneva anche che l'articolo 14 in combinato disposto con l'articolo 8 non imponesse agli Stati contraenti un obbligo di accordare alle coppie omosessuali l'accesso al matrimonio (ibid. §101). 164. Nel presente caso i ricorrenti, a tutt'oggi, non hanno la possibilità di costituire un'unione civile o una partnership registrata (in assenza di matrimonio) in Italia. Pertanto la Corte deve determinare se l'Italia alla data della presente analisi, cioè nel 2015, abbia omesso di adempiere l'obbligo positivo per assicurare il rispetto della vita familiare e privata dei ricorrenti, in particolare attraverso la previsione di un quadro legale che consenta loro di avere la loro relazione riconosciuta e protetta ai sensi della legge nazionale. (iii) Applicazione dei principi generali al caso di specie 165. La Corte ribadisce che ha già ritenuto che le coppie omosessuali sono capaci come le 58 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 coppie eterosessuali di costituire relazioni stabili e impegnative, e che sono in una situazione notevolmente simile a una coppia eterosessuale per quanto riguarda il loro bisogno di riconoscimento legale e di protezione della loro relazione (v. Schalk and Kopf, § 99, e Vallianatos, §§78 e 81, citt.). Ne segue che la Corte ha già riconosciuto che le coppie omosessuali necessitano di un riconoscimento legale e della protezione della loro relazione. 166. Quella stessa necessità, così come la volontà di prendere provvedimenti in ordine ad essa è stata espressa dall'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, che ha raccomandato che il Comitato dei ministri inviti gli Stati membri, tra l’altro, “ad adottare una legislazione che preveda le partnership registrate’’ ben 15 anni fa, e più recentemente dal comitato dei ministri (nella sua raccomandazione CM/Rec(2010)5), che ha invitato gli Stati membri dove legislazione nazionale non riconoscesse o non attribuisse diritti e obblighi alle partnership omosessuali registrate di considerare la possibilità di munire le coppie omosessuali di mezzi legali o di altro genere per risolvere i problemi pratici relativi alla realtà sociale in cui vivono. 167. La Corte nota che i ricorrenti nel presente caso, che non hanno la possibilità di sposarsi, non hanno avuto la possibilità di accedere a un quadro giuridico specifico come quello delle unioni civili o delle partnership registrate, in grado di munirli del riconoscimento del loro stato e di garantire loro determinati diritti rilevanti per una coppia che si trovi in una relazione stabile e duratura. 168. La Corte esamina la situazione dei ricorrenti all'interno dell'ordinamento nazionale italiano. Per quanto riguarda la registrazione delle unioni omosessuali dei ricorrenti con i registri locali per le unioni civili, la Corte nota che dove ciò è possibile (in meno del 2% dei Comuni esistenti) questa misura ha un valore meramente simbolico ed è rilevante solo a fini statistici, non conferisce ai ricorrenti nessuno stato civile ufficiale e in nessun modo accorda diritti di qualsiasi genere alle coppie omosessuali. È anche priva di qualunque valore probatorio (di una unione stabile) di fronte alle Corti nazionali. 169. L'attuale status dei ricorrenti nel contesto legale interno può essere considerato soltanto una unione di fatto, che può essere regolata da certi accordi contrattuali privati dallo scopo limitato. Per quanto riguarda gli accordi di coabitazione menzionati, la Corte nota che mentre essi prevedono alcuni accordi domestici relativi alla coabitazione, tali accordi privati mancano di provvedere ad alcuni bisogni essenziali che sono fondamentali per il regime di una relazione tra una coppia di persone in una unione stabile ed esclusiva, come per esempio tra i diritti e gli obblighi reciproci che essi hanno l'uno nei confronti dell'altro inclusi l'assistenza morale e materiale, le obbligazioni alimentari e i diritti ereditari (cfr. Vallianatos, § 81 in fine, e Schalk and Kopf, § 109, citt.). Il fatto che lo scopo di tali contratti non sia quello del riconoscimento e della tutela della coppia è evidente dal fatto che essi sono aperti a chiunque coabiti indipendentemente da se si tratti di una coppia in una relazione stabile ed esclusiva. Inoltre, tali contratti esigono che le persone coabitino; tuttavia, la Corte ha già accettato che l'esistenza di un'unione stabile sia indipendente dalla coabitazione. Invero nel mondo globalizzato di oggi varie coppie sposate o in partnership registrata, sperimentano periodi durante i quali conducono la loro relazione a distanza avendo necessità di mantenere la propria residenza in paesi diversi per ragioni professionali o di altro genere. La Corte considera che quel fatto in sé non ha rilevanza sull'esistenza di una relazione stabile ed esclusiva e sulla necessità che essa sia protetta. Ne segue che pur prescindendo dal fatto che gli accordi di coabitazione non erano nemmeno disponibili ai ricorrenti prima del dicembre 2013, alle corti non possono essere considerati come accordanti il riconoscimento e la indispensabile tutela delle unioni dei ricorrenti. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 59 170. Inoltre, non è stato provato che le Corti nazionali possano pronunziare un accertamento di riconoscimento formale, né il Governo ha spiegato quali sarebbero state le implicazioni di un siffatto accertamento. Mentre le Corti nazionali hanno ripetutamente sostenuto la necessità di assicurare protezione per le coppie omosessuali e di evitare un trattamento discriminatorio, attualmente, al fine di ricevere tale protezione i ricorrenti, così come altri nella loro posizione, devono sollevare numerose identiche questioni presso le Corti nazionali e probabilmente anche la Corte Costituzionale alla quale non hanno accesso diretto. Dalla giurisprudenza portata all'attenzione della Corte, traspare che mentre il riconoscimento di determinati diritti è stato rigorosamente sostenuto, altre materie connesse con le unioni omosessuali rimangono nell'incertezza, dato che, come ripetutamente affermato dal Governo, le corti rendono decisioni caso per caso. Il governo ha anche ammesso che la protezione delle unioni omosessuali ha ricevuto una maggiore accettazione in determinati apparati dello Stato piuttosto che in altri. A questo proposito si è anche notato che il Governo ha esercitato con ostinazione il suo diritto a opporsi a tali domande (vedi per esempio l'appello contro la decisione del Tribunale di Grosseto) e così mostra uno scarso appoggio per le decisioni dalle quali esse dipendono. 171. Come indicato dalla Associazione Radicale Certi Diritti (ARCD), la legge contempla esplicitamente il riconoscimento di un partner omosessuale in circostanze estremamente limitate. Ne segue che anche le più ordinarie necessità che sorgano nel contesto di una coppia omosessuale devono essere determinate dal giudice, nelle incerte circostanze sopra menzionate. Nell'opinione della Corte la necessità di ricorrere ripetutamente alle Corti nazionali per invocare l'eguaglianza di trattamento rispetto a ciascuno dei molteplici aspetti che interessano i diritti e doveri tra i membri di una coppia, si rivela già una non insignificante ostacolo agli sforzi dei ricorrenti di ottenere il rispetto della loro vita privata e familiare. Ciò è ulteriormente aggravato da uno stato di incertezza. 172. Da quanto sopra consegue che la tutela attualmente disponibile non è solo carente di contenuto, in quanto omette di provvedere per le necessità basilari che sono rilevanti per una coppia in una relazione stabile e duratura, ma anche non sufficientemente stabile - dipende dalla coabitazione, come anche dall’atteggiamento del giudice o talvolta dell’autorità amministrativa nel contesto di un Paese che non è vincolato dal sistema del precedente (v. Torri and Others v. Italy, (dec.), nos. 11838/07 and 12302/07, § 42, 24 gennaio 2012). A questo proposito la Corte ribadisce che la coerenza delle pratiche legali e amministrative all'interno dell'evento giuridico nazionale va considerata come un fattore importante nella valutazione condotta ai sensi dell'articolo 8. 173. In relazione ai principi generali menzionati nel paragrafo 161, la Corte osserva che dal superiore esame del contesto nazionale risulta esistere un conflitto tra la realtà sociale dei ricorrenti, che per la maggior parte vivono la loro relazione apertamente in Italia, e la legge che non gli consente alcun riconoscimento ufficiale sul territorio. Nell'opinione della Corte un obbligo di prevedere il riconoscimento e la protezione delle unioni omosessuali, e così di consentire alla legge di riflettere le realtà delle situazioni dei ricorrenti, non comporterebbe alcun particolare onere per lo Stato italiano, sia esso legislativo, amministrativo o di altro genere. Inoltre, tale legislazione servirebbe un'importante bisogno sociale - come osservato dalla ARCD, le statistiche nazionali ufficiali dimostrano che ci sono circa 1 milione di omosessuali o bisessuali nella sola Italia centrale. 174. Alla luce delle superiori considerazioni la Corte ritiene che, in assenza del matrimonio, le coppie omosessuali, come i ricorrenti, hanno un interesse specifico a ottenere la facoltà di 60 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 costituire una forma di unione civile o partnership registrata, dal momento che questo sarebbe il modo più appropriato in cui potrebbero vedere legalmente riconosciuta la loro relazione e che garantirebbe loro la relativa tutela nella forma dei diritti fondamentali spettanti a una coppia in una relazione stabile ed esclusiva, senza ostacoli non necessari. Inoltre la Corte ha già ritenuto che tali civil partnerships hanno un valore intrinseco per le persone nella posizione dei ricorrenti, indipendentemente dagli effetti giuridici, limitati o estesi che siano, che esse produrrebbero (cfr. Vallianatos, cit, §81). Questo riconoscimento arrecherebbe inoltre un senso di legittimazione alle coppie omosessuali. 175. La Corte ribadisce che, nel valutare gli obblighi positivi di uno Stato si deve avere riguardo all'equo contemperamento che deve essere tracciato tra gli interessi in conflitto dell'individuo e della comunità nel suo complesso. Avendo identificato in precedenza gli interessi degli individui in gioco, la Corte deve procedere a valutarli nei confronti degli interessi della comunità. 176. Nondimeno, a questo riguardo, la Corte nota che il Governo italiano ha omesso di evidenziare in modo esplicito ciò che a sua opinione corrisponderebbe agli interessi della comunità nel suo complesso. Il Governo tuttavia ha ritenuto che “era necessario tempo per raggiungere una graduale maturazione di una comune visione della comunità nazionale sul riconoscimento di questa nuova forma di famiglia’’. Il Governo ha fatto anche riferimento “alle diverse sensibilità su una questione sociale talmente delicata e profondamente avvertita’’ e alla ricerca di un “unanime consenso di differenti correnti di pensiero e di sentire anche di ispirazione religiosa presenti nella società’’. Allo stesso tempo il Governo ha categoricamente negato che l'assenza di un quadro giuridico specifico che preveda il riconoscimento della tutela delle unioni omosessuali tenterebbe di proteggere il concetto tradizionale della famiglia o la morale sociale. Il Governo invece si è affidato al proprio margine di apprezzamento nella scelta dei tempi e dei modi di uno specifico quadro giuridico, ritenendo di essere il soggetto più in grado di valutare il modo di sentire della propria comunità. 177. Per quanto riguarda la ampiezza del margine di apprezzamento, la Corte nota che dipende da vari fattori. Mentre la Corte può accettare che la materia oggetto del presente caso possa essere collegata a questioni morali o etiche che consentono un più ampio margine di apprezzamento in assenza di consensus tra gli Stati membri, nota che il presente caso non si occupa di certi determinati e specifici diritti ‘’supplementari’’ (nel senso di opposti a basilari) che possano o non possano sorgere da un'unione e che possono essere soggetti a una aspra controversa controversia alla luce della loro dimensione sensibile. A questo proposito la Corte ha già ritenuto che gli Stati godono di un certo margine di apprezzamento per quanto riguarda il preciso status conferito da metodi alternativi di riconoscimento e ai diritti e gli obblighi derivanti da siffatte unioni o partnership registrate (v. Schalk and Kopf, cit., §§ 108-109). Invero il caso di specie concerne esclusivamente la necessità generale di un riconoscimento giuridico e la protezione essenziale dei ricorrenti come coppie omosessuali. La Corte ritiene che questi ultimi siano aspetti dell'esistenza dell'identità di un individuo a cui dovrebbe applicarsi il relativo margine di apprezzamento. 178. In aggiunta a quanto sopra è importante per la valutazione della Corte anche la tendenza al riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali che ha continuato a svilupparsi rapidamente in Europa dal giudizio della Corte Schalk und Kopf. Attualmente una stretta maggioranza degli stati del consiglio d'Europa (24 su 47) hanno legiferato in favore di tale riconoscimento e della relativa tutela. Lo stesso rapido sviluppo può essere notato su scala globale con particolare riferimento ai paesi nelle Americhe e dell'Australasia. Le informazioni dispo- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 61 nibili così vanno a dimostrare una tendenza continuativa verso il riconoscimento giuridico (su scala) internazionale, al quale la Corte non può che attribuire importanza (v., mutatis mutandis, Christine Goodwin, § 85, e Vallianatos, §91, citt.) 179. Ritornando alla situazione in Italia, la Corte osserva che, se il Governo è usualmente nelle condizioni migliori per valutare gli interessi della comunità, nel caso presente il legislatore italiano non sembra avere dato particolare importanza alle indicazioni poste dalla comunità nazionale comprese le più alte autorità giudiziarie in Italia e la popolazione in generale. 180. La Corte nota che in Italia alla necessità di riconoscere e tutelare tale relazione è stato dato un alto profilo dalle supreme autorità giudiziarie inclusa la Corte costituzionale e la Corte di Cassazione. Si fa in particolare riferimento alla sentenza della Corte costituzionale numero 138 del 2010 nella causa dei due ricorrenti Oliari e X, le conclusioni della quale furono ribadite in una serie di decisioni successive negli anni seguenti. In tali casi la Corte Costituzionale ha ripetutamente ed esplicitamente invocato il riconoscimento giuridico dei diritti e i doveri relativi alle coppie omosessuali, una misura che potrebbe essere adottata solo dal Parlamento. 181. La Corte osserva che tale espressione riflette i sentimenti della maggioranza della popolazione italiana, come dimostrato da statistiche ufficiali. Le statistiche prodotte indicano che c'è nella popolazione italiana un'accettazione da parte della gente comune delle coppie omosessuali come anche un appoggio popolare per il riconoscimento della loro tutela. 182. Invero, nelle sue osservazioni di fronte a questa Corte, lo stesso Governo italiano non ha negato la necessità di una tale tutela, argomentando che non era limitata al riconoscimento, necessità che inoltre, ammetteva il Governo, cresceva continuamente in popolarità nella comunità italiana. 183. Nondimeno, a dispetto di alcuni tentativi lungo tre decenni il legislatore italiano è stato incapace di approvare la relativa normativa. 184. A questo riguardo la Corte ricorda che, sebbene in un contesto differente, ha previamente deciso che un tentativo premeditato di impedire l'esecuzione di una sentenza definitiva ed esecutiva, che sia inoltre tollerato se non tacitamente approvato dai poteri esecutivo e legislativo dello Stato, non può essere spiegato in termini di un qualsiasi legittimo pubblico interesse o degli interessi della comunità nel suo complesso. Al contrario è suscettibile di minare la credibilità e l'autorità dell'autorità giudiziaria e di mettere a rischio la sua efficacia, fattori che sono della massima importanza dal punto di vista dei principi fondamentali sottostanti alla convenzione (v. Broniowski v. Poland [GC], no. 31443/96, § 175, ECHR 2004-V). Mentre la Corte è consapevole delle importanti differenze giuridiche e di fatto tra la causa Broniowski e il presente caso, nondimeno ritiene che in questo caso il legislatore volontariamente o in difetto della necessaria determinazione ha lasciato inascoltati i ripetuti appelli delle Supreme Corti d’Italia. Invero, il presidente della Corte costituzionale stesso, nella relazione annuale della Corte, lamentava la mancanza di una risposta da parte del legislatore alla pronuncia della Corte costituzionale nel caso dei primi due ricorrenti. La Corte ritiene che questa ripetuta omissione del legislatore di tenere conto delle pronunce della Corte costituzionale o delle raccomandazioni che in esse si riferivano alla coerenza con la costituzione, per un significativo periodo di tempo, potenzialmente indebolisce le responsabilità del potere giudiziario e nel presente caso ha lasciato le persone interessate in una situazione di incertezza giuridica che deve essere presa in considerazione. 185. In conclusione, nell'assenza di un interesse prevalente della comunità allegato dal Governo italiano contro il quale equilibrare i fondamentali interessi dei ricorrenti sopra identificati, e alla luce delle conclusioni delle Corti nazionali sulla materia, che sono rimaste 62 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 inascoltate, la Corte ritiene che il Governo italiano ha ecceduto il suo margine di apprezzamento e ha mancato di adempiere il suo obbligo positivo di assicurare che ai ricorrenti fosse disponibile uno specifico quadro legale che prevedesse il riconoscimento per la tutela delle loro unioni omosessuali. 186. Per concludere diversamente, oggi, la Corte dovrebbe rifiutare di tenere conto della situazione in cambiamento dell'Italia e dovrebbe essere riluttante nell'applicazione della convenzione in un modo che fosse pratico ed effettivo. 187. Vi è conseguentemente stata una violazione dell'articolo 8 della Convenzione. (...) 188. Avuto riguardo alle sue conclusioni ai sensi dell'articolo 8 la Corte ritiene che non sia necessario esaminare se in questo caso vi sia anche stata una violazione dell'articolo 14 in combinato disposto con l'articolo 8. [OMISSIS] CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 63 La Corte di Giustizia e il principio di non discriminazione nel rapporto di lavoro a tempo determinato NOTA A CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, TERZA SEZIONE, SENTENZA 9 LUGLIO 2015, CAUSA C-177/14 Stefano Varone* Con la pronuncia in esame la Corte di Giustizia ha fornito un ulteriore tassello al quadro interpretativo inerente l’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, del 18 marzo 1999, allegato alla direttiva 1999/70/CE. Le norme che vengono in questione sono la clausola 3 dell’accordo predetto, che definisce le figure del lavoratore a tempo determinato e di quello a tempo indeterminato comparabile, nonché la clausola 4, che enuncia il principio di non discriminazione dei lavoratori a tempo determinato rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato comparabili. Il primo comma della disposizione da ultimo citata in particolare dispone che, “per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive”, mentre il quarto comma precisa che “i criteri del periodo di anzianità di servizio relativi a particolari condizioni di lavoro dovranno essere gli stessi sia per i lavoratori a tempo determinato sia per quelli a tempo indeterminato, eccetto quando criteri diversi in materia di periodo di anzianità siano giustificati da motivazioni oggettive” (1). Nel caso di specie si trattava di stabilire se fosse contraria al principio di “non discriminazione” (2) una normativa (spagnola) la quale esclude che al (*) Avvocato dello Stato. (1) A livello di normativa nazionale di recepimento l’art. 6 d.lgs. n. 368 del 2001 aveva stabilito che “Al prestatore di lavoro con contratto a tempo determinato spettano le ferie e la gratifica natalizia o la tredicesima mensilità, il trattamento di fine rapporto e ogni altro trattamento in atto nell'impresa per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato comparabili, intendendosi per tali quelli inquadrati nello stesso livello in forza dei criteri di classificazione stabiliti dalla contrattazione collettiva, ed in proporzione al periodo lavorativo prestato sempre che non sia obiettivamente incompatibile con la natura del contratto a termine”. La norma è stata quindi abrogata dall'art. 55, comma 1, lett. b), D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81 e la normativa da ultimo citata prevede ora, all’art. 7, che “Il lavoratore a tempo parziale non deve ricevere un trattamento meno favorevole rispetto al lavoratore a tempo pieno di pari inquadramento”. (2) È tuttavia da valutare se si sia in presenza di un principio di non discriminazione ovvero più propriamente di un principio di parità di trattamento sì che ogni differenza di trattamento del lavoratore a termine rispetto al lavoratore a tempo indeterminato comparabile dovrebbe presumersi illegittima, salvo non ricorrano ragioni oggettive che la giustifichino. Si veda al riguardo A. LEPORE “Principio di non discriminazione” in Le nuove leggi civ. comm., 2002, 85. 64 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 personale reclutato occasionalmente nella pubblica amministrazione si possano applicare gli scatti triennali retributivi, che sono invece attribuiti al personale assunto a tempo indeterminato. L’ordinamento nazionale spagnolo escludeva l’equiparazione retributiva in ragione delle peculiarità del rapporto, caratterizzato dallo svolgimento di funzioni espressamente qualificate di fiducia o assistenza speciale, dalla nomina effettuata al di fuori di qualsivoglia procedura selettiva, dalla indiscriminata libertà di cessazione del rapporto. Si sarebbe potuto ipotizzare, pertanto, che la speciale figura avesse come requisiti caratterizzanti non la durata del rapporto di lavoro e la professionalità del soggetto assunto, ma esclusivamente il vincolo fiduciario che lega il primo con la figura apicale di riferimento, delineando pertanto una tipologia di rapporto ben diversa da quello “ordinario”, tale da escludere la comparabilità delle figure e quindi la possibilità di un trattamento retributivo differente. Il dubbio era pertanto se gli elementi che contraddistinguono il rapporto d’impiego dei lavoratori occasionalmente assunti, rispetto al rapporto di lavoro di ruolo a tempo determinato, fossero o meno atti ad escludere la comparabilità con il personale a tempo determinato o indeterminato e, in caso di risposta positiva, se costituissero ragioni oggettive idonee a determinare un trattamento retributivo deteriore. Orbene la Corte ha confermato integralmente la valenza “espansionista” dell’accordo quadro che già era stata fornita in precedenti pronunce rese sulla nozione di “ragioni oggettive” (3) ed ha ribadito che la clausola esprime un principio di diritto sociale dell’Unione che non può essere interpretato in modo restrittivo (4). Al fine di verificare il rispetto della disciplina europea si tratta pertanto di appurare dapprima se il lavoratore a tempo determinato interessato sia trattato, per quanto attiene ad una condizione di impiego, in maniera meno favorevole rispetto ad un lavoratore a tempo indeterminato comparabile, in un secondo tempo, di verificare se una siffatta disparità di trattamento possa essere giustificata da una ragione oggettiva (5). (3) Si fa riferimento alle sentenze 4 luglio 2006, C-212/04; 7 settembre 2006 C-53/04; 23 aprile 2009, C- 378/07; 23 novembre 2009, C-162/08 e 1 ottobre 2010, C-3/10. (4) Per l’analisi della parallela questione inerente il riconoscimento del periodo pre ruolo in caso di stabilizzazione e per l’analisi della giurisprudenza comunitaria in materia si veda F. SIOTTO, "Anzianità" fa rima con "parità ": il principio di non discriminazione per i lavoratori a tempo determinato "stabilizzati" e il diritto agli scatti retributivi periodici, in Argomenti Dir. Lav., 2013, 975 (5) Sul piano della giurisprudenza nazionale a ragioni oggettive pare richiamarsi Cass. Sez. lav. n. 887 del 29 gennaio 1998 a mente della quale "la norma contrattuale collettiva escludente la corresponsione del premio di produzione a favore dei lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro non contrasta nè con l'art. 37 Cost., comma 3, di tutela dei minori sotto il profilo della parità retributiva a parità di lavoro, nè con i principi di parità di trattamento retributivo, ai sensi degli artt. 3 e 36 Cost., poichè il contratto di formazione e lavoro, che può riguardare soggetti di età compresa tra i quindici e CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 65 Nella pronuncia in esame la Corte conferma sostanzialmente che la disparità di trattamento deve essere giustificata dall’esistenza di elementi precisi e concreti, che contraddistinguono la condizione di lavoro, nel particolare contesto in cui essa si colloca e in base a criteri oggettivi e trasparenti, il tutto nel rispetto del principio di proporzionalità: è cioè necessario che il differente regime corrisponda ad un reale bisogno, sia idoneo a conseguire l’obiettivo perseguito e sia necessario a tal fine. Il riferimento alla mera natura temporanea del lavoro del personale della pubblica amministrazione pertanto non può costituire una ragione oggettiva, la quale dovrà essere rinvenuta essenzialmente nella particolare natura delle mansioni per l’espletamento delle quali sono stati conclusi contratti a tempo determinato e dalle caratteristiche inerenti alle mansioni stesse (6). In questo senso viene ribadito quanto già affermato nella sentenza 8 settembre 2011 (7) c-177/10: in linea generale si afferma che talune differenze relative all’assunzione dei dipendenti di ruolo, alle qualifiche richieste e alla natura delle mansioni di cui devono assumere la responsabilità potrebbero, in linea di principio, giustificare una differenza di trattamento, ma con la precisazione che (punto 80 della sentenza da ultimo citata) “una condizione generale ed astratta secondo cui il periodo di servizio richiesto dev’essere stato prestato integralmente come dipendente pubblico di ruolo, senza che vengano prese in considerazione, segnatamente, la natura particolare delle mansioni da svolgere né le caratteristiche inerenti ad esse, non corrisponde ai requisiti elaborati dalla giurisprudenza relativa alla clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro”. Sembra pertanto potersi concludere che per la Corte di Giustizia che il termine essenziale (8) di raffronto è rappresentato dalla prestazione da svolgere e dalle eventuali qualifiche per l’espletamento della stessa in un quadro di rii ventinove anni e quindi anche lavoratori maggiorenni, ha una causa giuridica mista (scambio tra lavoro retribuito e addestramento del lavoratore rivolto all'acquisizione della professionalità necessaria per l'immissione nel mondo del lavoro), che comporta un'attività produttiva ridotta e giustifica quindi l'esclusione del lavoratore interessato da elementi retributivi, quali il premio di produzione, diretti a compensare una partecipazione piena ai risultati produttivi dell'impresa". (6) Non pare pertanto si possa convenire con quanto affermato da A. RONDO “Divieti di discriminazione nel contratto a termine” in Lavoro nella Giur., 2014, 6, 553 secondo il quale “In astratto, una distinzione di trattamento tra lavoratori a tempo indeterminato e a termine basata semplicemente su ragioni oggettive, come previsto dalla direttiva, potrebbe trovare origine ad esempio in fattori contingenti, come la particolare situazione che sta attraversando l'impresa, che potrebbe al limite giustificare diversità di trattamento (per semplici ma oggettive ragioni di convenienza, in forza delle quali - in oggettivi contesti di difficoltà - può essere sensato remunerare con forme aggiuntive al trattamento tabellare solo il lavoro a tempo indeterminato) anche se di per sé non incompatibile con il termine”. (7) Sulla sentenza in questione cfr. R. CONTI, Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato in Corriere Giur., 2012, 2, 257. (8) Essenziale in quanto non esclusivo: la Corte ha infatti avuto modo di precisare che un eventuale trattamento di sfavore può ritenersi legittimo se funzionalizzato ad una finalità di politica sociale di uno Stato membro (sent. 4 luglio 2006, C-212/04, punti 69 e 70). 66 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 ferimento caratterizzato dalla regola della parità di trattamento rispetto alla quale le eccezioni sono di stretta interpretazione (9). Ciò in ragione del fatto che l'obiettivo dell'accordo quadro consiste “nel miglioramento della qualità del lavoro a tempo determinato, fissando requisiti minimi atti a garantire l'applicazione del principio di non discriminazione” (10) ed esso “mira a dare applicazione a tale principio nei confronti dei lavoratori a tempo determinato, al fine di impedire che un rapporto di impiego di tale natura venga utilizzato da un datore di lavoro per privare questi lavoratori di diritti riconosciuti ai lavoratori a tempo indeterminato” (11). Corte di giustizia dell’Unione europea, Terza Sezione, sentenza 9 luglio 2015, causa C- 177/14 - Pres. M. Ilešic, Rel. A.Ó Caoimh, Avv. gen. P. Mengozzi - Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunal Supremo (Spagna), con decisione del 31 gennaio 2014, pervenuta in cancelleria il 10 aprile 2014, nel procedimento María José Regojo Dans contro Consejo de Estado. «Rinvio pregiudiziale – Politica sociale – Direttiva 1999/70/CE – Accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato – Clausole 3 e 4 – Principio di non discriminazione – Personale “eventual” – Rifiuto di accordare una maggiorazione corrispondente allo scatto triennale di anzianità – Ragioni oggettive» 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione delle clausole 3, punto 1, e 4, punto 4, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 (in prosieguo: l’«accordo quadro»), contenuto in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato (GU L 175, pag. 43). 2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia fra la sig.ra Regojo Dans e il Consejo de Estado (Consiglio di Stato), suo datore di lavoro, riguardo al rifiuto di quest’ultimo di concederle maggiorazioni corrispondenti a scatti triennali di anzianità, stante la sua qualità particolare di personale «eventual» ai sensi del diritto spagnolo (in prosieguo: il «personale reclutato occasionalmente»). (9) In tale contesto potrebbe non risultare pienamente coerente con i principi espressi dalla Corte europea quanto affermato dalla cassazione nella sentenza 3 marzo 2014, n. 4911 che si è occupata della verifica della legittimità di una gratifica particolare riservata solo ai lavoratori assunti nel primo semestre dell'anno precedente a quello di corresponsione, meccanismo che ne precludeva il godimento da parte di coloro che venivano assunti a termine per periodi inferiori ad un anno. In detta occasione infatti la Suprema Corte ha fondato la propria decisione (evidentemente anche in ragione dei motivi di ricorso dedotti dalle parti) sulla natura del compenso e sulla correlata compatibilità con rapporti a durata determinata, fondando la propria decisione sul rilievo che “gli emolumenti in esame erano destinati per loro essenza e funzione a compensare un'attività lavorativa connotata dai requisiti della continuità e della pienezza di partecipazione all'attività aziendale, caratteristiche, queste, non presenti nelle diverse tipologie negoziali del contratto a termine e di formazione e lavoro”. (10) Secondo ZAPPALÀ, La parità retributiva dei lavoratori flessibili nell'ordinamento comunitario, in Riv. it. dir. lav. 2008, 326 alla tutela antidiscriminatoria è attribuito dalla normativa europea un ruolo centrale proprio al fine di migliorare la qualità dei lavori flessibili. (11) Corte di giustizia sent. 12 dicembre 2013 c 361/11. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 67 Contesto normativo Diritto dell’Unione 3 Ai sensi dell’articolo 1 della direttiva 1999/70, quest’ultima persegue lo scopo di «attuare l’accordo quadro (...), che figura nell’allegato, concluso (...) fra le organizzazioni intercategoriali a carattere generale (CES, CEEP e UNICE)» 4 In base alla clausola 1 dell’accordo quadro l’oggetto di quest’ultimo è: «a) migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione; b) creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato». 5 La clausola 2, punto 1, dell’accordo quadro, è formulata come segue: «Il presente accordo si applica ai lavoratori a tempo determinato con un contratto di assunzione o un rapporto di lavoro disciplinato dalla legge, dai contratti collettivi o dalla prassi in vigore di ciascuno Stato membro». 6 La clausola 3, punto 1, dell’accordo quadro, definisce il «lavoratore a tempo determinato » come «una persona con un contratto o un rapporto di lavoro definiti direttamente fra il datore di lavoro e il lavoratore e il cui termine è determinato da condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico». 7 La clausola 3, punto 2, dell’accordo quadro, definisce un «lavoratore a tempo indeterminato comparabile» come «un lavoratore con un contratto o un rapporto di lavoro di durata indeterminata appartenente allo stesso stabilimento e addetto a lavoro/occupazione identico o simile, tenuto conto delle qualifiche/competenze. In assenza di un lavoratore a tempo indeterminato comparabile nello stesso stabilimento, il raffronto si dovrà fare in riferimento al contratto collettivo applicabile o, in mancanza di quest’ultimo, in conformità con la legge, i contratti collettivi o le prassi nazionali». 8 La clausola 4 dell’accordo in parola, intitolata «Principio di non discriminazione», prevede, nei suoi punti 1, 3 e 4: «1. Per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive. (…) 3. Le disposizioni per l’applicazione di questa clausola saranno definite dagli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali e/o dalle parti sociali stesse, viste le norme comunitarie e nazionali, i contratti collettivi e la prassi nazionali. 4. I criteri del periodo di anzianità di servizio relativi a particolari condizioni di lavoro dovranno essere gli stessi sia per i lavoratori a tempo determinato sia per quelli a tempo indeterminato, eccetto quando criteri diversi in materia di periodo di anzianità siano giustificati da motivazioni oggettive». 9 La clausola 5 del menzionato accordo quadro, intitolata «Misure di prevenzione degli abusi», così dispone: «1. Per prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma delle leggi, dei contratti collettivi e della prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione 68 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative a: a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti. 2. Gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali, e/o le parti sociali stesse dovranno, se del caso, stabilire a quali condizioni i contratti e i rapporti di lavoro a tempo determinato: a) devono essere considerati “successivi”; b) devono essere ritenuti contratti o rapporti a tempo indeterminato». Il diritto spagnolo 10 L’articolo 149, paragrafo 1, punto 18, della Costituzione spagnola attribuisce allo Stato la competenza esclusiva relativamente alla fissazione del regime giuridico delle pubbliche amministrazioni e del regime statutario dei loro dipendenti. 11 Sulla base di tale competenza lo Stato ha adottato la legge 7/2007, del 12 aprile 2007, recante le norme di base applicabili ai dipendenti pubblici (Ley 7/2007 del Estatuto básico del empleado público) (BOE n. 89, del 13 aprile 2007, pag. 16270; in prosieguo: la «legge 7/2007»). 12 L’articolo 8 della legge 7/2007, intitolato «Definizione e classificazione dei dipendenti pubblici», così dispone: «1. Sono dipendenti pubblici i lavoratori che svolgono funzioni retribuite presso le amministrazioni pubbliche al servizio degli interessi generali. 2. I dipendenti pubblici si inquadrano nelle seguenti categorie: a) dipendenti di ruolo. b) dipendenti temporanei. c) agenti reclutati con contratto permanente, a tempo indeterminato o determinato. d) personale reclutato occasionalmente». 13 L’articolo 9 della legge 7/2007 definisce i dipendenti di ruolo nei seguenti termini: «1. Sono dipendenti pubblici di ruolo le persone designate dalla legge che fanno parte di un’amministrazione pubblica in forza di un rapporto statutario disciplinato dal diritto amministrativo, per svolgere in via permanente servizi professionali retribuiti. 2. In ogni caso, l’esercizio delle funzioni che implicano la partecipazione diretta o indiretta all’esercizio dei poteri pubblici o alla salvaguardia degli interessi generali dello Stato e delle amministrazioni pubbliche spetta esclusivamente ai dipendenti pubblici nei termini stabiliti nella legge di attuazione di ciascuna amministrazione pubblica». 14 L’articolo 12 della legge 7/2007 così definisce il personale reclutato occasionalmente: «1. È personale reclutato occasionalmente il personale che, in virtù di una nomina e con carattere non permanente, svolge soltanto funzioni espressamente qualificate di fiducia o assistenza speciale, con retribuzione a carico delle linee di bilancio destinate a tal fine. 2. Le leggi sulla funzione pubblica emanate in attuazione del presente statuto determinano gli organi di governo delle amministrazioni pubbliche che potranno disporre di questo tipo di personale. Il numero massimo è stabilito dai rispettivi organi di governo. Tale numero e le condizioni retributive devono essere resi pubblici. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 69 3. La nomina e la cessazione del rapporto di lavoro sono libere. La cessazione ha luogo, in ogni caso, quando viene meno l’autorità alla quale si presta la funzione di fiducia o di assistenza. 4. La condizione di personale reclutato occasionalmente non costituisce merito per l’accesso alla funzione pubblica o per la promozione interna. (…) 5. Al personale reclutato occasionalmente si applica, nella misura in cui sia adeguato alla natura della sua condizione, il regime generale dei dipendenti di ruolo». 15 Ai sensi dell’articolo 22 della legge 7/2007, incluso nel capitolo III della legge in parola relativo al regime delle retribuzioni dei dipendenti pubblici, le retribuzioni dei dipendenti di ruolo comprendono retribuzioni di base e retribuzioni integrative. 16 L’articolo 23 della legge 7/2007 dispone quanto segue: «Le retribuzioni di base, che sono fissate nella Ley de Presupuestos Generales del Estado (legge finanziaria), sono integrate unicamente ed esclusivamente dalle seguenti voci: a) lo stipendio attribuito a ciascun sottogruppo o gruppo di classificazione professionale, nel caso in cui quest’ultimo non comprenda un sottogruppo; b) gli scatti triennali (trienios), che consistono in una maggiorazione, uguale per ciascun sottogruppo o gruppo di classificazione professionale, nel caso in cui quest’ultimo non comprenda un sottogruppo, attribuita per ciascun triennio di servizio». 17 L’articolo 25 della legge 7/2007 prevede la retribuzione dei dipendenti temporanei nei termini seguenti: «1. I dipendenti temporanei percepiscono le retribuzioni di base e quelle straordinarie corrispondenti al sottogruppo o gruppo di classificazione professionale, nel caso in cui quest’ultimo non comprenda un sottogruppo. Percepiscono altresì le retribuzioni integrative di cui alle lettere b), c) e d) dell’articolo 24 e quelle corrispondenti alla categoria di ingresso nella categoria o scatto in cui sono nominati. 2. Vengono riconosciuti gli scatti triennali corrispondenti ai servizi prestati anteriormente all’entrata in vigore del presente statuto che avranno effetto ai fini retributivi unicamente a decorrere dalla data di entrata in vigore dello stesso». 18 L’articolo 26 della legge 2/2012, legge finanziaria per l’anno 2012 (Ley 2/2012 de Presupuestos Generales del Estado para el año 2012), del 29 giugno 2012 (BOE n. 156, del 30 giugno 2012, pag. 46432), al paragrafo 4 così prevede: «Il personale reclutato occasionalmente percepisce le retribuzioni a titolo di stipendi e retribuzioni straordinarie corrispondenti al gruppo o sottogruppo di classificazione al quale il Ministerio de Hacienda y Administraciones (ministero delle Finanze e delle Amministrazioni pubbliche) assimili le sue funzioni e le retribuzioni integrative corrispondenti al posto di lavoro, riservato al personale reclutato occasionalmente, da esso occupato (…). I dipendenti di ruolo che, in situazione di servizio attivo o in posizione di distacco (servicios especiales), occupino posti di lavoro riservati al personale reclutato occasionalmente percepiscono le retribuzioni di base corrispondenti al loro gruppo o sottogruppo di classificazione, comprese le maggiorazioni corrispondenti agli scatti triennali, eventualmente, e le retribuzioni integrative corrispondenti al posto di lavoro da essi occupato». 19 La legge 30/1984 recante misure per la riforma della funzione pubblica (Ley 30/1984 de Medidas para la Reforma de la Función Pública), del 2 agosto 1984 (BOE n. 185, del 3 agosto 1984, pag. 22629; in prosieguo: la «legge 30/1984»), contiene un articolo 70 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 19, intitolato «Procedura per la copertura di posti di lavoro». Ai paragrafi 2 e 3 detto articolo così dispone: «2. Il governo e, nell’ambito delle loro competenze, i Consejos de Gobierno (consigli dei ministri) delle Comunidades Autónomas (Comunità autonome) e il Pleno (giunta) delle Corporaciones Locales (comuni e altri enti locali) stabiliscono il numero di posti, con le rispettive caratteristiche e retribuzioni, riservati al personale reclutato occasionalmente, sempre nei limiti delle linee di bilancio destinate a tal fine. Il personale reclutato occasionalmente esercita soltanto funzioni espressamente definite di fiducia o assistenza speciale e la nomina e cessazione, che saranno libere, spettano esclusivamente ai ministri e ai Secretarios de Estado (sottosegretari) e, eventualmente, ai Consejeros de Gobierno (ministri regionali) delle Comunità autonome e ai presidenti delle Corporaciones Locales. Il personale reclutato occasionalmente cessa dal servizio automaticamente quando venga meno l’autorità alla quale presta la sua funzione di fiducia o assistenza. 3. In nessun caso l’attività prestata in un posto di lavoro riservato al personale reclutato occasionalmente costituisce merito per l’accesso alla funzione pubblica o per la promozione interna». Procedimento principale e questioni pregiudiziali 20 La ricorrente di cui al procedimento principale presta servizio, dal 1° marzo 1996, presso il Consejo de Estado con la qualifica di personale reclutato occasionalmente, esercitando la funzione di capo della segreteria di un Jefe de la Secretaría del Consejero Permanente (consigliere permanente). 21 Nel periodo compreso fra il 4 luglio 1980 e il 1° marzo 1996 ella è stata parimenti impiegata nella veste di personale reclutato occasionalmente presso il Tribunal Constitucional (Corte costituzionale) e il Consejo Económico y Social (Consiglio economico e sociale). 22 Il 25 gennaio 2012 la ricorrente di cui al procedimento principale ha presentato al Consejo de Estado una domanda diretta, da un lato, a che le fosse riconosciuto il diritto a percepire le maggiorazioni corrispondenti agli scatti triennali di anzianità per i servizi prestati presso svariate amministrazioni dal 1980 e, dall’altro, a che le fosse versato l’importo ad esse corrispondente per gli ultimi quattro anni. 23 La domanda veniva respinta con decisione del Presidente del Consejo de Estado del 24 luglio 2012. 24 La ricorrente di cui al procedimento principale ha quindi proposto, dinanzi al giudice del rinvio, un ricorso diretto all’annullamento della menzionata decisione, adducendo che la stessa non sarebbe conforme al diritto dell’Unione e, segnatamente, alla clausola 4 dell’accordo quadro. 25 Detto giudice fa presente che la legge 7/2007 non prevede l’attribuzione delle maggiorazioni corrispondenti agli scatti d’anzianità in parola al personale reclutato occasionalmente, contrariamente a quanto previsto per i dipendenti di ruolo o temporanei. In forza della legge 2/2012, un dipendente di ruolo in posizione di distacco, destinato ad un posto riservato al personale reclutato occasionalmente, percepisce le retribuzioni di base corrispondenti al suo gruppo o di classificazione d’origine, comprese le maggiorazioni corrispondenti agli scatti triennali di anzianità. 26 Dal fascicolo presentato alla Corte risulta che, secondo la giurisprudenza del Tribunal Supremo (Corte suprema) relativa al personale reclutato occasionalmente, i posti di sif- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 71 fatta natura sono eccezionali e limitati alle missioni «di fiducia e assistenza speciale». Di conseguenza, il succitato giudice considera che detto personale non può svolgere funzioni rientranti nelle normali attività della pubblica amministrazione, che si tratti della fornitura di prestazioni di servizi all’amministrazione o dell’adozione di atti collegati alla mera organizzazione amministrativa. Siffatte prestazioni professionali, per la loro diretta connessione con i principi costituzionali di obiettività e di efficacia amministrativa, dovrebbero essere assegnate unicamente al personale pubblico selezionato secondo i principi di uguaglianza, merito e capacità. 27 Tenuto conto di tale giurisprudenza, ma parimenti della particolare relazione che unisce l’amministrazione al personale reclutato occasionalmente, basata sull’assistenza speciale e la fiducia, il giudice del rinvio si chiede, da un lato, se il personale di cui trattasi può essere paragonato ai lavoratori a tempo indeterminato ai sensi della clausola 3 dell’accordo quadro. D’altro lato, esso si interroga sul punto se non sarebbe necessario circoscrivere il ricorso al personale reclutato occasionalmente alle ipotesi in cui la cui necessità del medesimo sia chiaramente giustificata, al fine di evitare abusi e di stabilire retribuzioni che rispettino un equilibrio con quelle previste per altri dipendenti del settore pubblico con funzioni di contenuto professionale simile. 28 In considerazione di quanto precede il Tribunal Supremo ha deciso di sospendere il processo e di sottoporre alla Corte le questioni pregiudiziali seguenti: «1) Se [sia] compres[o] nella definizione di “lavoratore a tempo determinato”, di cui alla clausola 3, punto 1, dell’accordo quadro (...) il personale reclutato occasionalmente il cui regime giuridico è disciplinato attualmente dall’articolo 12 della [legge 7/2007,] (...) il cui regime giuridico era disciplinato in precedenza dall’articolo 20, paragrafo 2, della [legge 30/1984]. 2) Se a detto personale reclutato occasionalmente sia applicabile il principio di non discriminazione di cui alla clausola 4, punto 4, dell’[accordo quadro] affinché gli siano riconosciute e versate le retribuzioni che a titolo di anzianità sono corrisposte ai dipendenti di ruolo, agli agenti assunti con contratto a tempo indeterminato, ai dipendenti temporanei e agli agenti assunti con contratto a tempo determinato. 3) Se il regime di nomina e di cessazione libere, fondato su motivi di fiducia, applicabile a detto personale reclutato occasionalmente di cui alle due leggi spagnole summenzionate rientri tra le ragioni oggettive che detta clausola 4 indica per giustificare una diversità di trattamento». Sulle questioni pregiudiziali Sulla prima questione 29 Con la prima questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se la nozione di «lavoratore a tempo determinato», ai sensi della clausola 3, punto 1, dell’accordo quadro, debba essere interpretata nel senso che si applica a un lavoratore quale la ricorrente nel procedimento principale. 30 Come risulta dallo stesso dettato della clausola 2, punto 1, dell’accordo quadro, la sfera di applicazione di quest’ultimo è concepita in modo ampio, di modo che essa concerne in maniera generale i «lavoratori a tempo determinato con un contratto di assunzione o un rapporto di lavoro disciplinato dalla legge, dai contratti collettivi o dalla prassi in vigore di ciascuno Stato membro» (v. sentenze Adeneler e a., C-212/04, EU:C:2006:443, punto 56, nonché Fiamingo e a., C-362/13, C-363/13 e C-407/13, EU:C:2014:2044, punto 28 e giurisprudenza ivi citata). 72 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 31 Inoltre, la definizione della nozione di «lavoratore a tempo determinato» ai sensi dell’accordo quadro, enunciata nella clausola 3, punto 1, di quest’ultimo, include tutti i lavoratori, senza operare distinzioni basate sulla natura pubblica o privata del loro datore di lavoro e a prescindere dalla qualificazione del loro contratto in diritto nazionale (sentenza Fiamingo e a., C-362/13, C-363/13 e C-407/13, EU:C:2014:2044, punto 29 e giurisprudenza ivi citata). 32 Tenuto conto dell’importanza del principio della parità di trattamento e del divieto di discriminazione, che fanno parte dei principi generali del diritto dell’Unione, alle disposizioni previste dalla direttiva 1999/70 e dall’accordo quadro al fine di garantire ai lavoratori a tempo determinato di beneficiare degli stessi vantaggi riservati ai lavoratori a tempo indeterminato comparabili, a meno che un trattamento differenziato non si giustifichi per ragioni oggettive, dev’essere riconosciuta una portata generale, in quanto costituiscono norme di diritto sociale dell’Unione di particolare importanza, di cui ogni lavoratore deve usufruire in quanto prescrizioni minime di tutela (sentenza Del Cerro Alonso, C-307/05, EU:C:2007:509, punto 27). 33 Conseguentemente, la direttiva 1999/70 e l’accordo quadro si applicano all’insieme dei lavoratori che forniscono prestazioni retribuite nell’ambito di un rapporto di lavoro a tempo determinato che li vincola al loro datore di lavoro (sentenze Del Cerro Alonso, C-307/05, EU:C:2007:509, punto 28, nonché Fiamingo e a., C-362/13, C-363/13 e C-407/13, EU:C:2014:2044, punto 30 e giurisprudenza ivi citata). 34 È d’uopo rilevare che la mera circostanza che un lavoratore sia qualificato come reclutato occasionalmente sulla base del diritto nazionale o che il suo contratto di lavoro presenti taluni aspetti peculiari, quali, nel procedimento principale, un carattere temporaneo, una libera nomina o cessazione del rapporto di lavoro, o ancora la circostanza che si consideri che siffatto lavoratore svolga una missione di fiducia e di assistenza speciale, è priva di rilevanza sotto questo aspetto, pena rimettere seriamente in questione l’efficacia pratica della direttiva 1999/70 e quella dell’accordo quadro nonché la loro applicazione uniforme negli Stati membri, riservando a questi ultimi la possibilità di escludere, a loro discrezione, talune categorie di persone dal beneficio della tutela voluta da tali strumenti dell’Unione (v., per analogia, sentenza Del Cerro Alonso, C-307/05, EU:C:2007:509, punto 29). 35 Dalla formulazione letterale della clausola 3, punto 1, dell’accordo quadro, risulta che un contratto o un rapporto di lavoro a tempo determinato è caratterizzato dalla circostanza che la fine del suddetto contratto o del suddetto rapporto di lavoro «è determinata da condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico». Un contratto o un rapporto di lavoro, quindi, come quello in discussione nel procedimento principale, che cessa automaticamente quando l’autorità presso la quale la missione del lavoratore in parola è svolta viene revocata, deve essere considerato come inclusivo di un termine la cui scadenza è determinata dal «verificarsi di un evento specifico» ai sensi della summenzionata clausola 3, punto 1. 36 Pertanto, un lavoratore che si trovi in una siffatta situazione rientra nell’ambito di applicazione della clausola 3, punto 1, dell’accordo quadro. 37 Si deve di conseguenza rispondere alla prima questione dichiarando che la nozione di «lavoratore a tempo determinato», ai sensi della clausola 3, punto 1, dell’accordo quadro, deve essere interpretata nel senso che si applica a un lavoratore quale la ricorrente nel procedimento principale. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 73 Sulla seconda e sulla terza questione 38 Con la seconda e la terza questione, che occorre trattare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se la clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro, debba essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale, come quella in discussione nel procedimento principale, la quale esclude, prescindendo da qualsiasi giustificazione per ragioni oggettive, il personale reclutato occasionalmente dal diritto di percepire le maggiorazioni corrispondenti agli scatti triennali di anzianità accordate, segnatamente, ai dipendenti di ruolo. 39 Come risulta dalla loro formulazione stessa, le suddette questioni non concernono l’interpretazione della clausola 5 dell’accordo quadro, la quale è specificamente volta a prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato (sentenza Deutsche Lufthansa, C-109/09, EU:C:2011:129, punto 32). 40 Conformemente alla clausola 1, lettera a), dell’accordo quadro, uno degli obiettivi dello stesso consiste nel migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione. Del pari, il preambolo dell’accordo quadro precisa, al suo terzo comma, che esso «indica la volontà delle parti sociali di stabilire un quadro generale che garantisca la parità di trattamento ai lavoratori a tempo determinato, proteggendoli dalle discriminazioni». Il considerando 14 della direttiva 1999/70 indica a tale riguardo che l’obiettivo del menzionato accordo quadro consiste, in particolare, nel migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato fissando requisiti minimi idonei a garantire l’applicazione del principio di non discriminazione (v. sentenze Gavieiro Gavieiro e Iglesias Torres, C-444/09 e C-456/09, EU:C:2010:819, punto 47, e Nierodzik, C-38/13, EU:C:2014:152, punto 22, nonché ordinanze Montoya Medina, C-273/10, EU:C:2011:167, punto 29, e Lorenzo Martínez, C-556/11, EU:C:2012:67, punto 34). 41 L’accordo quadro, in particolare la sua clausola 4, mira a dare applicazione a tale divieto nei confronti dei lavoratori a tempo determinato, al fine di impedire che un rapporto di impiego di tale natura venga utilizzato da un datore di lavoro per privare questi lavoratori di diritti riconosciuti ai lavoratori a tempo indeterminato (sentenze Del Cerro Alonso, C-307/05, EU:C:2007:509, punto 37; Gavieiro Gavieiro e Iglesias Torres, C-444/09 e C-456/09, EU:C:2010:819, punto 48, e Nierodzik, C-38/13, EU:C:2014:152, punto 23, nonché ordinanze Montoya Medina, C-273/10, EU:C:2011:167, punto 30, e Lorenzo Martínez, C-556/11, EU:C:2012:67, punto 35). 42 Alla luce degli obiettivi perseguiti dall’accordo quadro, quali rammentati nei due precedenti punti della presente sentenza, la clausola 4 di quest’ultimo dev’essere intesa nel senso che esprime un principio di diritto sociale dell’Unione che non può essere interpretato in modo restrittivo (v. sentenze Del Cerro Alonso, C-307/05, EU:C:2007:509, punto 38; Impact, C-268/06, EU:C:2008:223, punto 114; Gavieiro Gavieiro e Iglesias Torres, C-444/09 e C-456/09, EU:C:2010:819, punto 49, e Nierodzik, C-38/13, EU:C:2014:152, punto 24, nonché ordinanze Montoya Medina, C-273/10, EU:C:2011:167, punto 31, e Lorenzo Martínez, C-556/11, EU:C:2012:67, punto 36). 43 Per quanto riguarda le maggiorazioni corrispondenti agli scatti triennali di anzianità, la Corte ha già giudicato che siffatte maggiorazioni, la cui assegnazione era riservata dal diritto spagnolo al personale dipendente di ruolo dei servizi sanitari assunto a tempo in- 74 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 determinato, con esclusione del personale temporaneo, nonché a docenti assunti quali dipendenti di ruolo di una Comunità autonoma, escludendo invece docenti assunti quali dipendenti temporanei, e a assistenti docenti con dottorato di ricerca di una Comunità autonoma, escludendo invece gli aspiranti dottori di ricerca, ricadono nella nozione di «condizioni di impiego» di cui alla clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro (v., in tal senso, sentenze Del Cerro Alonso, C-307/05, EU:C:2007:509, punti 47 e 48, nonché Gavieiro Gavieiro e Iglesias Torres, C-444/09 e C-456/09, EU:C:2010:819, punti da 50 a 58, e ordinanze Montoya Medina, C-273/10, EU:C:2011:167, punti da 32 a 34, e Lorenzo Martínez, C-556/11, EU:C:2012:67, punto 37). 44 Orbene, come emerge dalla giurisprudenza della Corte, per quanto riguarda le maggiorazioni corrispondenti agli scatti triennali di anzianità, come quelle in discussione nel procedimento principale, le quali costituiscono condizioni di impiego ai sensi della clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro, i lavoratori a tempo determinato non devono ricevere un trattamento che, al di fuori di qualsiasi giustificazione obiettiva, sarebbe meno favorevole di quello riservato al riguardo a lavoratori a tempo indeterminato comparabili (v., in tal senso, sentenze Del Cerro Alonso, C-307/05, EU:C:2007:509, punti 42 e 47; Impact, C-268/06, EU:C:2008:223, punto 126, nonché Gavieiro Gavieiro e Iglesias Torres, C-444/09 e C-456/09, EU:C:2010:819, punto 53). 45 È d’uopo ricordare, in proposito, che il «lavoratore a tempo indeterminato comparabile» è definito alla clausola 3, punto 2, dell’accordo quadro, come «un lavoratore con un contratto o un rapporto di lavoro di durata indeterminata appartenente allo stesso stabilimento e addetto a lavoro/occupazione identico o simile, tenuto conto delle qualifiche/competenze». 46 Al fine di valutare se le persone interessate svolgano un lavoro identico o simile, nel senso dell’accordo quadro, occorre, in conformità delle clausole 3, punto 2, e 4, punto 1, di quest’ultimo, tenere conto di un insieme di fattori, come la natura del lavoro, le qualifiche e competenze, le condizioni di formazione e le condizioni di impiego (v., in tal senso, sentenza Rosado Santana, C-177/10, EU:C:2011:557, punto 66, nonché ordinanze Montoya Medina, C-273/10, EU:C:2011:167, punto 37, e Lorenzo Martínez, C-556/11, EU:C:2012:67, punto 43). 47 Nel caso di specie il governo spagnolo fa notare che il personale reclutato occasionalmente costituisce una categoria professionale distinta dalle altre categorie di dipendenti pubblici previste nel diritto spagnolo, in considerazione tanto dei loro rapporti di lavoro, delle funzioni o delle missioni che essi svolgono, dei criteri di reclutamento o ancora del loro regime retributivo. Secondo il menzionato governo, quindi, le differenze di trattamento fra il personale reclutato occasionalmente e gli altri dipendenti pubblici nazionali non si riducono unicamente alle maggiorazioni corrispondenti agli scatti di anzianità in discussione nel procedimento principale. 48 Il governo in parola sottolinea peraltro che, diversamente dai dipendenti di ruolo che sono selezionati, conformemente al diritto nazionale, secondo procedure che garantiscono il rispetto dei principi costituzionali di uguaglianza, merito e capacità, il personale reclutato occasionalmente è nominato liberamente ai fini dello svolgimento di una missione specifica non permanente di fiducia e di assistenza speciale. La cessazione del rapporto di lavoro è del pari libera e si verifica automaticamente quando l’autorità presso la quale la suddetta missione è svolta viene revocata. Secondo detto governo, tale sistema di nomina e di cessazione del rapporto di lavoro è giustificato dalla peculiarità della CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 75 funzione affidata al personale reclutato occasionalmente basata sulla fiducia nell’ambito di un posto di natura politica o affine. 49 Tuttavia, come sembra risultare dalla decisione di rinvio, la funzione esercitata dalla ricorrente di cui al procedimento principale non consiste nello svolgimento di una missione specifica collegata all’autorità pubblica, bensì riguarderebbe piuttosto l’esecuzione di compiti di collaborazione relativi ad attività di natura amministrativa. 50 In ogni caso, in circostanze siffatte, spetta al giudice del rinvio accertare se, per quanto riguarda la percezione delle maggiorazioni corrispondenti agli scatti triennali di anzianità in discussione nel procedimento principale, i dipendenti di ruolo e il personale reclutato occasionalmente, rispetto al quale si lamenta una differenza di trattamento concernente le condizioni di impiego, si trovino in una situazione analoga (v., in tal senso, sentenza Rosado Santana, C-177/10, EU:C:2011:557, punto 67, nonché ordinanze Montoya Medina, C-273/10, EU:C:2011:167, punto 39, e Lorenzo Martínez, C-556/11, EU:C:2012:67, punto 44). 51 Qualora il succitato giudice constatasse che le funzioni svolte dalla ricorrente nel procedimento principale in qualità di personale reclutato occasionalmente del Consejo de Estado non fossero identiche o analoghe a quelle esercitate da un dipendente di ruolo all’interno dell’amministrazione in parola o di enti pubblici nei quali ella ha in precedenza lavorato con detta medesima qualifica, ne conseguirebbe che la ricorrente nel procedimento principale non si trova in una situazione comparabile a quella di un dipendente di ruolo. 52 Qualora, invece, detto giudice ritenesse che la ricorrente nel procedimento principale ha svolto, in qualità di personale reclutato occasionalmente, una funzione identica o analoga a quella svolta da un dipendente di ruolo del Consejo de Estado o di un altro ente simile, l’unico elemento che sarebbe tale da differenziare la sua situazione da quella di un dipendente di ruolo sembrerebbe essere la natura temporanea del rapporto di lavoro che la vincola al suo datore di lavoro nello svolgimento di periodi di servizio in quanto personale reclutato occasionalmente. 53 In un’ipotesi siffatta la ricorrente in parola si troverebbe in una situazione comparabile a quella del menzionato dipendente di ruolo e si dovrebbe verificare se sussiste una ragione oggettiva che giustifichi la differenza di trattamento fra tali lavoratori, differenza che nella fattispecie risulterebbe dal rifiuto della concessione di maggiorazioni corrispondenti agli scatti triennali di anzianità per il suddetto periodo di servizio della ricorrente nel procedimento principale. 54 Secondo una costante giurisprudenza della Corte, la nozione di «ragioni oggettive», ai sensi della clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro, dev’essere intesa nel senso che essa non consente di giustificare una differenza di trattamento tra i lavoratori a tempo determinato e i lavoratori a tempo indeterminato per il fatto che quest’ultima sia prevista da una norma interna generale ed astratta, quale una legge o un contratto collettivo (sentenze Del Cerro Alonso, C-307/05, EU:C:2007:509, punto 57, e Gavieiro Gavieiro e Iglesias Torres, C-444/09 e C-456/09, EU:C:2010:819, punto 54, nonché ordinanze Montoya Medina, C-273/10, EU:C:2011:167, punto 40, e Lorenzo Martínez, C-556/11, EU:C:2012:67, punto 47). 55 La nozione suddetta esige che la disparità di trattamento constatata sia giustificata dall’esistenza di elementi precisi e concreti, che contraddistinguono la condizione di lavoro in questione, nel particolare contesto in cui essa si colloca e in base a criteri oggettivi 76 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 e trasparenti, al fine di verificare se detta disparità risponda ad un reale bisogno, sia idonea a conseguire l’obiettivo perseguito e sia necessaria a tal fine. I suddetti elementi possono risultare, segnatamente, dalla particolare natura delle mansioni per l’espletamento delle quali sono stati conclusi contratti a tempo determinato e dalle caratteristiche inerenti alle mansioni stesse o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro (v. sentenze Del Cerro Alonso, C-307/05, EU:C:2007:509, punti 53 e 58, e Gavieiro Gavieiro e Iglesias Torres, C-444/09 e C-456/09, EU:C:2010:819, punto 55, nonché ordinanze Montoya Medina, C-273/10, EU:C:2011:167, punto 41, e Lorenzo Martínez, C-556/11, EU:C:2012:67, punto 48). 56 Per contro, il riferimento alla mera natura temporanea del lavoro del personale della pubblica amministrazione non è conforme a tali requisiti e non può dunque costituire una ragione oggettiva ai sensi della clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro (sentenza Gavieiro Gavieiro e Iglesias Torres, C-444/09 e C-456/09, EU:C:2010:819, punto 56, nonché ordinanze Montoya Medina, C-273/10, EU:C:2011:167, punto 42, e Lorenzo Martínez, C-556/11, EU:C:2012:67, punto 49). 57 Infatti, una disparità di trattamento che riguardi le condizioni di impiego tra i lavoratori a tempo determinato e i lavoratori a tempo indeterminato non può essere giustificata mediante un criterio che, in modo generale ed astratto, si riferisce alla durata stessa dell’impiego. Ammettere che la mera natura temporanea di un rapporto di lavoro basti a giustificare una siffatta disparità priverebbe del loro contenuto gli scopi della direttiva 1999/70 e dell’accordo quadro. Invece di migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato e di promuovere la parità di trattamento cui mirano sia la direttiva 1999/70 sia l’accordo quadro, il ricorso ad un siffatto criterio equivarrebbe a rendere permanente il mantenimento di una situazione svantaggiosa per i lavoratori a tempo determinato (v. sentenze Gavieiro Gavieiro e Iglesias Torres, C-444/09 e C-456/09, EU:C:2010:819, punto 57, e Nierodzik, C-38/13, EU:C:2014:152, punto 38, nonché ordinanze Montoya Medina, C-273/10, EU:C:2011:167, punto 43, e Lorenzo Martínez, C-556/11, EU:C:2012:67, punto 50). 58 Il governo spagnolo fa valere che la differenza di trattamento in discussione nel procedimento principale fra i dipendenti di ruolo e il personale reclutato occasionalmente è giustificata dalla sussistenza di siffatte ragioni oggettive. A tale proposito esso pone in rilievo, in primo luogo, che il personale reclutato occasionalmente è nominato per svolgere una missione che presenta un carattere temporaneo. La particolare natura dei compiti e la specificità della funzione del personale reclutato occasionalmente, consistente in una missione di fiducia o di assistenza speciale, non potrebbero essere assimilate a missioni che comportano compiti di carattere permanente nell’organizzazione amministrativa. Esso adduce, in secondo luogo, la circostanza che la nomina e la cessazione del rapporto di lavoro del personale di cui trattasi sono libere, nel senso che il datore di lavoro non è tenuto ad alcun formalismo in materia. In terzo luogo, i posti del personale reclutato occasionalmente avrebbero un carattere eccezionale e le persone occupate in siffatta qualità non sarebbero di norma mantenuti in servizio per un lungo periodo. Infine, in quarto luogo, poiché le maggiorazioni corrispondenti agli scatti triennali di anzianità in discussione nel procedimento principale sono una ricompensa accordata al personale che permane in modo continuo al servizio dell’amministrazione svolgendovi funzioni puramente amministrative, sarebbe con- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 77 traddittorio concederle al personale reclutato occasionalmente che non soddisfa tali criteri. 59 In proposito è d’uopo rilevare che, da un lato, se spetta, in via di principio, al giudice del rinvio valutare se i suddetti argomenti costituiscano ragioni oggettive ai sensi della clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro, tenuto conto della giurisprudenza rammentata ai punti da 54 a 57 della presente sentenza, la natura non permanente del personale reclutato occasionalmente non potrebbe in nessun caso essere considerata come una ragione del genere. 60 D’altro lato, seppure talune differenze relative all’assunzione dei dipendenti di ruolo, alle qualifiche richieste e alla natura delle mansioni di cui devono assumere la responsabilità potrebbero, in linea di principio, giustificare una differenza di trattamento rispetto al personale reclutato occasionalmente quanto alle loro condizioni di lavoro (v., per analogia, sentenza Rosado Santana, C-177/10, EU:C:2011:557, punto 78), tale non sembra essere l’ipotesi che ricorre nel procedimento principale. 61 Risulta, infatti, dalla formulazione letterale stessa dell’articolo 26, paragrafo 4, secondo comma, della legge 2/2012, che i dipendenti di ruolo in situazione di servizio attivo o in posizione di distacco che occupano un posto di lavoro riservato al personale reclutato occasionalmente percepiscono maggiorazioni corrispondenti agli scatti triennali di anzianità di cui al procedimento principale. La circostanza che siffatti dipendenti di ruolo possano godere delle menzionate maggiorazioni, incluso nel periodo in cui svolgono le funzioni affidate al personale reclutato occasionalmente, contraddice l’argomento secondo il quale la particolare natura della missione di fiducia o di assistenza speciale di cui è incaricato il personale reclutato occasionalmente distingue i due suddetti tipi di personale e giustifica una differenza di trattamento fra gli stessi per quanto riguarda l’attribuzione delle maggiorazioni in parola. 62 Alla luce del complesso delle suesposte considerazioni, si deve rispondere alla seconda e alla terza questione dichiarando che la clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro, deve essere interpretata nel senso che osta ad una normativa nazionale, come quella in discussione nel procedimento principale, la quale esclude, prescindendo da qualsiasi giustificazione per ragioni oggettive, il personale reclutato occasionalmente dal diritto di percepire una maggiorazione corrispondente allo scatto triennale di anzianità accordata, segnatamente, ai dipendenti di ruolo, quando, relativamente alla percezione della maggiorazione di cui trattasi, le due summenzionate categorie di lavoratori si trovano in situazioni comparabili, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. Sulle spese 63 Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara: 1) La nozione di «lavoratore a tempo determinato», ai sensi della clausola 3, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, contenuto in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che si applica a un lavoratore quale la ricorrente nel procedimento principale. 78 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 2) La clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato deve essere interpretata nel senso che osta ad una normativa nazionale, come quella in discussione nel procedimento principale, la quale esclude, prescindendo da qualsiasi giustificazione per ragioni oggettive, il personale reclutato occasionalmente dal diritto di percepire una maggiorazione corrispondente allo scatto triennale di anzianità accordata, segnatamente, ai dipendenti di ruolo, quando, relativamente alla percezione della maggiorazione di cui trattasi, le due summenzionate categorie di lavoratori si trovano in situazioni comparabili, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 79 L’abuso del diritto nelle triangolazioni doganali NOTA A CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA, QUARTA SEZIONE, SENTENZA 9 LUGLIO 2015, CAUSA C-607/13 Emanuela Favara* SOMMARIO: 1. Un caso di triangolazione - 2. La vicenda - 3. L’ordinanza di rinvio - 4. Le posizioni delle parti - 5. Le conclusioni dell’Avvocato generale Sharpston - 6. L’interpretazione della Corte - 7. L’abuso del diritto - 8. L’abuso nel diritto italiano - 9. L’abuso nel diritto internazionale e dell’Unione Europea - 10. L’abuso nel diritto tributario - 11. Esiti della concettualizzazione dell’abuso del diritto. 1. Un caso di triangolazione. La pronuncia del 9 luglio 2015, resa dalla Quarta Sezione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella causa C-607/13, su rinvio pregiudiziale, proposto ex art. 267 TFUE dalla Corte di Cassazione italiana, rappresenta un ulteriore vademecum per operatori economici e giurisperiti, nell’ambito delle importazioni nel mercato interno e dei giudizi relativi alle reprimende frodi fiscali. In Cimmino e a., infatti, la Corte suggerisce e rimarca linee guida invalse, sia sul fronte del perseguimento dei reati di contrabbando e falso ideologico, la cui concettualizzazione e trasposizione pratica è demandata al giudice nazionale, che su quello, di ancor più generale interesse giuridico, dell’abuso del diritto entro ed oltre i confini dell’ordinamento comunitario (qui più che mai inteso come commistione anelata tra l’ordinamento sovranazionale e quelli dei singoli Stati membri, luoghi di attuazione concreta del diritto dell’Unione). La questione si pone sulla scia di altre precedenti (ex multis, citate anche dalle parti nelle loro memorie, dall’Avvocato Generale Sharpston nelle sue conclusioni e dalla stessa Corte nella pronuncia in commento, le sentenze Emsland- Sta¨rke (1) e la più recente SICES (2), entrambe relative ad abusi in materia di dazi su importazioni), consentendo ai giudici di Lussemburgo di rimarcare, pur non trascendendo il ruolo interpretativo loro proprio, la propria posizione in merito alle cosiddette “triangolazioni”, sempre più numerose nel panorama delle importazioni internazionali. 2. La vicenda. Il procedimento che ha dato luogo alla pronuncia pregiudiziale trae ori- (*) Dottore in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. (1) Corte di Giustizia, sentenza del 14 dicembre 2000, nel procedimento C-110/99 Emsland- Sta¨rke c. Hauptzollamt Hamburg-Jonas. (2) Corte di Giustizia, sentenza del 13 marzo 2014, nel procedimento C-155/13, Sices e altri c. Agenzia Dogane Ufficio delle Dogane di Venezia. 80 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 gine da una serie di operazioni di importazione di banane originarie di Paesi ACP e Paesi terzi all’interno del territorio dell’Unione Europea, formalmente effettuate da società aventi la qualifica di “operatori nuovi arrivati”. A questi ultimi, ai sensi del regolamento n. 2362/98 della Commissione recante modalità d’applicazione del regolamento (CEE) n. 404/93 del Consiglio, con riguardo al regime d’importazione delle banane nella Comunità, spettano, all’interno dei contingenti tariffari istituiti dal regolamento n. 404/93, titoli di importazione a tasso più favorevole e percentuali riservate rispetto ai cosiddetti “operatori tradizionali”. Ciò al fine, esplicitato anche nel sesto considerando dello stesso regolamento n. 2362/98, di garantire a tali nuovi operatori di impegnarsi nel commercio delle banane, altrimenti monopolizzato dai grandi importatori tradizionali, e favorire una sana concorrenza all’interno del mercato bananiero. In tale ambito, a seguito di una indagine della Guardia di Finanza risalente ai primi anni duemila, emergeva l’esistenza di pratiche commerciali qualificabili come fraudolente tra la SIMBA, operatore tradizionale nel mercato delle banane, la Rico Italia, operatore nuovo arrivato, ed altri operatori nuovi arrivati (Cimmino e altri, da cui il riferimento della sentenza in commento). L’accordo sarebbe stato concepito come una triangolazione, volta ad eludere il divieto contenuto nell’art. 21, paragrafo 2, comma 2, del regolamento n. 2362/98, di trasferimento dei diritti derivanti dai titoli d’importazione da un operatore nuovo arrivato ad un operatore tradizionale, permettendo, in tal modo, a quest’ultimo di beneficiare concretamente di un dazio agevolato, formalmente preclusogli. Lo schema sarebbe stato il seguente: la SIMBA vendeva alla Rico Italia banane situate al di fuori del territorio doganale dell’Unione; quest’ultima le rivendeva ad una serie di operatori nuovi arrivati (Cimmino e altri), i quali le importavano all’interno del territorio dell’Unione, per rivenderle, dopo lo sdoganamento, alla Rico Italia, la quale, infine, le rivendeva alla SIMBA. Veniva avviato un procedimento penale a carico dei legali rappresentanti delle società coinvolte nella triangolazione fraudolenta, per i reati di contrabbando e falso ideologico. Si costituivano parte civile nel procedimento penale il Ministero dell’Economia e delle Finanze, l’Agenzia delle dogane e dei monopoli e la Commissione europea. Il Tribunale di Verona dichiarava il rappresentante della Rico Italia responsabile dei reati ascrittigli, assolveva gli altri imputati e, pronunciandosi sulle questioni civili, condannava il reo al risarcimento del danno subito dalle parti civili e al versamento di una provvisionale a favore del Ministero dell’Economia e delle Finanze, nonché dell’Agenzia delle dogane (ma non a favore della Commissione europea). Tale sentenza veniva appellata dal condannato e dalle parti civili innanzi alla Corte d’Appello di Venezia, la quale rilevava l’estinzione per prescrizione CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 81 dei reati contestati al rappresentante della Rico Italia, pronunciando sentenza di non doversi procedere, ma confermava la pronuncia di primo grado per quel che riguardava le statuizioni sulle questioni civili e l’assoluzione degli altri imputati. 3. L’ordinanza di rinvio. La Corte di Cassazione, innanzi alla quale la sentenza d’appello veniva impugnata dalle parti civili, ha sollevato l’incidente interpretativo di fronte alla Corte di Giustizia, sottoponendole tre questioni pregiudiziali: «1) Se l’articolo 11 del regolamento (CE) n. 2362/98, il quale prevede a carico degli Stati membri l’onere di accertare se gli operatori esercitano un’attività di importazione per proprio conto come entità economica autonoma quanto alla direzione, al personale e all’esercizio, debba essere interpretato nel senso che sono escluse dai benefici doganali accordati tutte le attività di importazione eseguite per conto di un operatore tradizionale qualora queste siano svolte da soggetti solo formalmente in possesso dei requisiti previsti per i “nuovi operatori” dallo stesso regolamento. 2) Se il regolamento (CE) n. 2362/98 consenta ad un operatore tradizionale di vendere banane che si trovano al di fuori del territorio dell’Unione ad un operatore nuovo arrivato accordandosi con quest’ultimo perché provveda a far entrare nel territorio dell’Unione le banane a dazio agevolato e le rivenda allo stesso operatore tradizionale ad un prezzo concordato prima dell’intera operazione, senza sopportare alcun effettivo rischio d’impresa e senza fornire alcuna organizzazione di mezzi quanto a tale operazione. 3) Se l’accordo di cui alla seconda questione integri una violazione del divieto di cessione di diritti dagli operatori nuovi agli operatori tradizionali di cui all’articolo 21, paragrafo 2, del regolamento (CE) n. 2362/98, con la conseguenza che la cessione effettuata resta priva di effetto e il dazio risulta dovuto nella misura piena e non in quella agevolata, ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 3, del regolamento n. 2988/95». 4. Le posizioni delle parti. Gli operatori coinvolti, premettendo le proprie argomentazioni sull’irricevibilità dei quesiti, sostenevano la legittimità delle pratiche poste in essere ed oggetto del contendere, sia in ossequio al più generale principio di affidamento (per cui vi sarebbe stato un generale convincimento circa la legittimità delle pratiche poste in essere), sia facendo leva sull’esclusione dell’abusività delle condotte da parte dei giudici nazionali, anche in ragione della asserita non necessità di strutture fisiche per la maturazione ed il trasporto delle banane ai fini dell’iscrizione come operatori nuovi arrivati. Essi ritenevano che l’unico limite, posto dalla normativa comunitaria e mai formalmente oltrepassato, fosse quello della cessione diretta dei certificati 82 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 o titoli d’importazione da un operatore nuovo arrivato ad un operatore tradizionale e che incriminare condotte meramente elusive avrebbe determinato un inaccettabile contrasto con il principio di legalità. Di opposto tenore le osservazioni della Commissione e del Governo Italiano. La prima riteneva che il giudice di rinvio si fosse trovato innanzi a transazioni sulla cui genuinità era ragionevole dubitare, in quanto gli operatori nuovi arrivati non avrebbero agito in modo indipendente ed autonomo, bensì organizzando i propri affari a fini elusivi del diritto dell’Unione e, per ciò solo, richiedeva al giudice comunitario di fornire i necessari strumenti interpretativi al giudice nazionale. La Commissione sottolineava come incomba sulle autorità procedenti l’onere di provare una pratica illecita da parte degli operatori interessati, in particolare, accertando la sussistenza di requisiti oggettivi e soggettivi idonei a dimostrare siffatta abusività. Tuttavia, più parca nelle conclusioni generali, essa riteneva che l’articolo 11 del regolamento n. 2362/98 non potesse essere interpretato nel senso che dovessero essere esclusi dai benefici doganali di cui all’art. 18 del regolamento n. 404/93 operatori solo formalmente in possesso dei requisiti richiesti per il commercio delle banane e, altresì, non considerava vietate, alla luce del regolamento stesso, attività di importazione prive di ogni rischio d’impresa e senza effettiva organizzazione di mezzi. Ciò non le impediva di rilevare che, nel giudizio a quo, le autorità competenti avevano correttamente dimostrato l’elemento oggettivo e quello soggettivo dell’abuso (così come delineati dalla Corte nella precedente sentenza SICES) tali che il recupero della differenza tra il diritto doganale ridotto e quello normalmente applicabile si imponeva come conseguenza della natura abusiva del vantaggio ottenuto. Più risoluta la soluzione profilata dalla difesa erariale, la quale sollecitava alla Corte di Giustizia una risposta affermativa ad ognuna delle tre questioni sollevate dal giudice del rinvio, in ragione dello sviamento concorrenziale realizzatosi a seguito degli accordi triangolari abusivi, contrari agli scopi della normativa comunitaria ed elusivi delle prescrizioni in materia di dazi all’importazione (3). 5. Le conclusioni dell’Avvocato generale. Nelle sue lucide conclusioni, l'Avvocato generale Sharpston isolava il reale punctum dolens della questione: considerando assodata l’esistenza di accordi triangolari tra gli importatori coinvolti, ella si chiedeva (4) se tale catena di operazioni sottendesse qualche irregolarità e, se sì, quali ne fossero le conseguenze. (3) Cfr. le Osservazioni del Governo della Repubblica Italiana, a cura dell’avvocato dello Stato Anna Collabolletta, pubblicate in questa rivista, n. 3, 2014, 72-79. (4) Paragrafo 50 delle conclusioni dell’Avvocato generale Sharpston. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 83 Nel corso di una squisita analisi del concetto di “soddisfacimento formale” delle condizioni necessarie per l’iscrizione nel registro degli operatori nuovi arrivati e, soprattutto, per la rinnovazione di tale iscrizione o per l’ottenimento della qualifica di operatore tradizionale, a fronte del versamento di una cauzione per l’iscrizione nel registro, l’Avvocato generale sottolineava come la necessità che il nuovo operatore dovesse importare per proprio conto nel periodo previsto almeno il 50 % del quantitativo di banane assegnatogli non significasse né, da un lato, che egli potesse sfruttare il rimanente 49,9% per conto di un altro operatore, né che l’importazione di quantitativi inferiori al 100% influisse sul mantenimento dello status, potendo essere ciò dettato da una precisa strategia imprenditoriale, anche a costo di perdere parte della cauzione versata. Ella, tuttavia, rimarcava come il divieto di cui all’art. 21, paragrafo 2, del regolamento n. 2362/98, di trasferimento dei titoli da operatori nuovi arrivati ad operatori tradizionali, avrebbe perso di significato se i primi avessero comunque importato banane per conto dei secondi e sollecitava le verifiche degli Stati membri, ai sensi dell’art. 11 paragrafo 1 del regolamento, sia ai fini della acquisizione che della conservazione dello status di operatore nuovo arrivato. La linea sottile tra l’accordo legittimo e necessitato dalle caratteristiche del mercato (5) e quello abusivo avrebbe potuto arguirsi da una serie di circostanze, tra cui l’assenza di rischio di impresa a fronte di operazioni di importazione o di profitti significativi per l’operatore economico, sicché un rapporto fisiologicamente concorrenziale sarebbe sfociato in una subordinazione abusiva perché contraria agli scopi della normativa regolamentare europea. L’Avvocato generale concludeva le proprie osservazioni con una provocazione (6), poi non raccolta dalla Corte nella sentenza in commento, inerente al terzo quesito, sul pregiudizio arrecato agli interessi finanziari dell’Unione dalle condotte in oggetto, in quanto la giurisprudenza pregressa della Corte sembrava aver sottoposto alle medesime condizioni applicative le sanzioni di cui all’art. 2, paragrafo 2, del regolamento n. 2988/95, soggette al principio di stretta legalità in materia penale, e le più blande misure amministrative di cui all’art. 4 dello stesso regolamento. (5) Par. 76 delle conclusioni dell’Avvocato generale Sharpston. (6) Par. 115. «Non mi è del tutto chiaro come la giurisprudenza della Corte sulla necessità di una base giuridica distinta per le misure amministrative (se questa è l’interpretazione corretta) possa essere conciliata con la presenza dell’articolo 4, paragrafo 4, e con la formulazione dell’articolo 2, paragrafo 2, del regolamento n. 2988/95, che impone tale condizione preliminare per le sanzioni amministrative e, nel fare ciò, riflette il principio generale «nulla poena sine lege». Avrei immaginato che l’imposizione di una sanzione non fosse lo stesso che recuperare un vantaggio che è stato conseguito abusivamente o comunque illecitamente e, pertanto, che non dovesse essere circoscritta dalle stesse precise condizioni. Tuttavia, non sembra necessario qui analizzare ulteriormente la questione». 84 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 6. L’interpretazione della Corte. La Corte, rilevata la ricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale, ritenuta necessaria per la soluzione della controversia principale, ha così risolto le tre questioni interpretative sottopostele dalla Corte di Cassazione: 1) Il combinato disposto dell’articolo 7, lettera a), e dell’articolo 11 del regolamento (CE) n. 2362/98 della Commissione, del 28 ottobre 1998, recante modalità d’applicazione del regolamento (CEE) n. 404/93 del Consiglio, con riguardo al regime d’importazione delle banane nella Comunità, come modificato dal regolamento (CE) n. 1632/2000 della Commissione, del 25 luglio 2000, dev’essere interpretato nel senso che il requisito secondo cui un agente economico deve esercitare un’attività commerciale come importatore «per proprio conto e a titolo autonomo» è richiesto non solo per la registrazione di tale agente come operatore «nuovo arrivato» ai sensi di tale disposizione, ma anche per consentirgli di mantenere tale qualifica ai fini dell’importazione di banane nell’ambito dei contingenti tariffari previsti dal regolamento (CEE) n. 404/93 del Consiglio, del 13 febbraio 1993, relativo all’organizzazione comune dei mercati nel settore della banana, come modificato dal regolamento (CE) n. 1257/1999 del Consiglio, del 17 maggio 1999, sul sostegno allo sviluppo rurale da parte del Fondo europeo agricolo di orientamento e di garanzia (FEAOG) e che modifica ed abroga taluni regolamenti. 2) L’articolo 21, paragrafo 2, del regolamento n. 2362/98, come modificato, dev’essere interpretato nel senso che esso osta a operazioni, come quelle di cui al procedimento principale, attraverso le quali un operatore nuovo arrivato acquista, con l’intermediazione di un altro operatore registrato come nuovo arrivato, merce da un operatore tradizionale prima che venga importata nell’Unione, per poi rivenderla a tale operatore tradizionale, per il tramite del medesimo intermediario, dopo averla importata nell’Unione, qualora tali operazioni integrino una pratica abusiva, circostanza che spetta al giudice del rinvio determinare. 3) L’articolo 4, paragrafo 3, del regolamento (CE, Euratom) n. 2988/95 del Consiglio, del 18 dicembre 1995, relativo alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità, dev’essere interpretato nel senso che dall’accertamento di una pratica abusiva, in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, consegue che l’operatore che si è artificiosamente posto in una situazione che gli consente di beneficiare indebitamente del dazio agevolato per l’importazione di banane è tenuto a pagare i dazi riguardanti i prodotti interessati, ferme restando, se del caso, le sanzioni amministrative, civili o penali previste dalla normativa nazionale. Quanto al primo quesito, ne emerge una riformulazione da parte della Corte, che - come già nelle citate Eco Cosmetics e Raiffesenbank St. Georgen (7) - sposta il baricentro concettuale: non si tratta di valutare la legittimità delle operazioni dell’importatore nuovo arrivato, allorché queste siano svolte per CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 85 conto dell’operatore tradizionale, ma lo stesso concetto di autonomia imprenditoriale ai fini della registrazione e del mantenimento dello status di operatore nuovo arrivato (8) (così la Corte ha aderito alla soluzione proposta dall’Avvocato generale nelle sue conclusioni, par. 58 e ss.). Dalla lettera dell’articolo 7 del regolamento 2362/98, la Corte deduce che i requisiti necessari ad ottenere la qualifica di operatore nuovo arrivato ed i benefici connessi alla stessa non devono sussistere esclusivamente al momento della registrazione, in quanto questa è acquisita «ai fini dell’importazione nell’ambito dei contingenti tariffari». La Corte qualifica come elusiva della normativa comunitaria in materia di importazione delle banane una attività svolta da un operatore nuovo arrivato, pur in possesso di tutti i requisiti formali atti a garantirne la registrazione, il quale, tuttavia, operi come mandatario di un operatore tradizionale, così permettendogli di estendere il proprio volume di affari, beneficiando del regime daziario agevolato ben oltre i limiti fissati. Sulla seconda questione, pur riconoscendo che il divieto formale posto dall’articolo 21, paragrafo 2, del regolamento 2362/98 riguardi esclusivamente il trasferimento di titoli da un operatore nuovo arrivato ad un operatore tradizionale (e, perciò, la triangolazione oggetto del procedimento principale non vi sarebbe rientrata, in quanto i trasferimenti si erano realizzati tra operatori nuovi arrivati), la Corte ritiene, sulla scorta della sentenza S.I.C.E.S. che tali operazioni costituiscano un abuso di diritto «quando siano state concepite artificiosamente allo scopo essenziale di beneficiare del dazio agevolato» (9). Anche in questo caso, si è rimessa al giudice nazionale la valutazione in merito alla sussistenza degli elementi costitutivi di una pratica abusiva, i quali, tuttavia, vengono compiutamente individuati dalla Corte. Essi, già rammentati dalle parti nelle loro memorie e, poi, dall’Avvocato generale, risultano da circostanze oggettive, per cui, nonostante il rispetto formale della normativa comunitaria da parte degli operatori, l’obiettivo previsto dalla stessa non è stato raggiunto e da un elemento soggettivo, che si concreta nella volontà di ottenere (7) Corte di Giustizia, sentenza del 4 settembre 2014, nelle cause riunite eco cosmetics GmbH & Co. KG c. Virginie Laetitia Barbara Dupuy (C-119/13), e Raiffeisenbank St. Georgen reg. Gen. mbH c. Tetyana Bonchyk (C-120/13). (8) Par. 41. “Pertanto, occorre leggere la prima questione pregiudiziale come volta a determinare se il combinato disposto dell’articolo 7, lettera a), e dell’articolo 11 del regolamento n. 2362/98 debba essere interpretato nel senso che il requisito secondo cui un agente economico deve esercitare un’attività commerciale come importatore «per proprio conto e a titolo autonomo» si riferisce unicamente alla registrazione di tale agente come operatore «nuovo arrivato», ai sensi dell’articolo 7, lettera a), del regolamento n. 2362/98, ovvero se il possesso del requisito in parola sia altresì richiesto per consentire a detto agente di mantenere tale qualifica ai fini dell’importazione di banane nell’ambito dei contingenti tariffari previsti dal regolamento n. 404/93”. (9) Par. 58 della sentenza in commento. 86 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 un indebito vantaggio derivante dalla norma europea, creando fittiziamente le condizioni atte ad acquisirlo. Ebbene, operazioni del tipo di quelle oggetto del procedimento principale risulteranno oggettivamente contrarie alla normativa comunitaria allorché realizzassero, di fatto, un indebito trasferimento di titoli ad operatori tradizionali, altrimenti vietato e possibile solo attraverso il fittizio trasferimento della merce destinata allo sdoganamento. Esse, inoltre, saranno soggettivamente volte a conseguire un vantaggio indebito allorché siano state concepite al solo scopo di procurare un tale vantaggio all’operatore tradizionale e siano prive di alcun rischio d’impresa o profitto significativo per l’operatore nuovo arrivato che le pone in essere. Ai fini di tale accertamento, la Corte suggerisce (10) al giudice del rinvio di considerare l’insieme dei nessi giuridici, economici e/o personali tra gli operatori coinvolti in tali operazioni, pur non dimenticando le peculiarità del commercio delle banane, che, per il tipo di prodotto, la sua deperibilità e le grandi distanze geografiche dal luogo di produzione a quello di commercializzazione, potrebbero tollerare delle strategie imprenditoriali non sempre in linea con quanto formalmente può essere definito conveniente o profittevole in altri settori. Con la soluzione della terza questione, la Corte delinea le conseguenze dell’eventuale accertamento dell’abusività delle condotte da parte del giudice di rinvio. Esse vengono individuate nell’art. 4, paragrafo 3, del regolamento n. 2988/95, secondo cui all’accertamento di condotte abusive e volte ad ottenere indebiti vantaggi seguiranno il mancato conseguimento o la revoca dei suddetti. È qui (paragrafi 73 e seguenti) che la Corte sceglie di non approfondire quanto sollevato dall’Avvocato generale nelle sue conclusioni, in materia di stretta legalità per quel che riguarda le misure amministrative, limitandosi ad un mero richiamo della propria giurisprudenza precedente. 7. L’abuso del diritto. Il tema dell’abuso del diritto rappresenta, come già anticipato, il punto centrale della pronuncia in commento (11). Esso, infatti, in ragione della sua fluida natura ossimorica (12) (se il diritto soggettivo è l’insieme delle pretese, facoltà, immunità, e poteri riconosciuti al singolo per la soddisfazione di un suo interesse secondo il suo libero apprezzamento (13), si pone in apparente (10) Par. 67 della sentenza in commento. (11) Per una compiuta analisi del tema, si rimanda a GAMBARO A., Abuso del diritto in Enc. Giur., Treccani, 1998. (12) Sul singolare accostamento tra ciò che è attribuito ai singoli dall’ordinamento in quanto diritto soggettivo e la figura dell’abuso, si veda MERONE G., Introduzione allo studio del concetto di abuso del diritto nell’ordinamento nazionale ed in quello internazionale in “L’abuso del diritto nel dialogo tra le corti nazionali ed internazionali”, Ed. scientifiche italiane, 2014, 15. (13) Cfr. TRIMARCHI, Istituzioni di Diritto Privato, Giuffrè, 2009, 48. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 87 contraddizione con tale spazio di libertà illimitata concesso dall’ordinamento un profilo di abuso sanzionabile), può dar luogo a contraddizioni, in quanto concetto giuridico impregnato, altresì, di etica inter relazionale. D’altronde, in passato, colui che abusava del diritto, non essendosi posto in palese contrasto con il dettato normativo, poteva andare esente da sanzione e rimanere, al massimo, oggetto del mero biasimo dei consociati (14). In seguito, il tardo Ottocento francese faceva già da sfondo ai primi dibattiti giurisprudenziali sul concetto di abuso in materia di proprietà (15), che si instillavano tra le maglie del rigido formalismo (di reazione alle “smanie” del giusnaturalismo illuminista) del Code Napoléon, il quale non avrebbe altrimenti tollerato sviamenti dalla lettera del jus positum. Superata la linea di confine dell’etica e assurto al rango di concetto giuridico, il divieto di abuso del diritto è oggi definito come il limite all’esercizio di un diritto che, in assenza del limite stesso, sfocerebbe nel travisamento degli obiettivi della norma attributiva. L’abuso del diritto, dunque, deriva dalla stessa esistenza di una posizione giuridica soggettiva di vantaggio, che ne è imprescindibile presupposto. In materia tributaria, per quel che qui peculiarmente interessa, l’abuso del diritto consiste nel cattivo impiego di una costruzione giuridica, con conseguente assenza di sostanza economica dell’azione, posta in essere al solo fine di aggirare l’imposizione fiscale (16). Essendo l’abuso del diritto figura appena oltre il limite della liceità, di non sempre semplice individuazione, dottrina (17) e giurisprudenza italiana (18) ed eurocomunitaria (19) hanno tentato di individuarne i presupposti: da un lato, la forma dell’operazione economica, che si concreta nella verifica del grado di coerenza della stessa alla luce degli scopi perseguiti dal contribuente e dei mezzi utilizzati per raggiungerli; dall’altro, l’intenzione del contribuente in relazione all’operazione (la cui individuazione è affidata all’utilizzo di presunzioni). (14) Cfr. GAIO, Institutiones, I, 53 “male enim nostro jure uti non debemus”. (15) Celebri i casi decisi dalle corti di Colmar e di Compiègne, che ravvisarono la natura di atto emulativo e, quindi, abusivo, rispettivamente nella condotta del soggetto che aveva disseminato di finti comignoli il proprio tetto al solo scopo di privare il vicino della vista del panorama e in quella del proprietario di un fondo attiguo ad un campo di atterraggio di dirigibili, il quale disseminò la sua proprietà di pali, che ostacolavano l’atterraggio, al solo scopo di vendere al vicino la stessa ad un prezzo maggiore. Cfr. TURCO, Lezioni di Diritto Privato, Giuffrè, 2011, 168. (16) Cfr. PIANTAVIGNA, Abuso del diritto fiscale nell’ordinamento europeo, Giappichelli, 2011, 2. (17) Ibidem, 3. (18) In materia tributaria, cfr. ex multis, Cass. civ., sez. V, 4 aprile 2008, n. 8772 per cui «… (l)'elaborazione giurisprudenziale comunitaria e nazionale in tema di "abuso di diritto", inteso come ricorso a forme o strumenti giuridici che, seppure legali, consentono di eludere il fisco, mediante operazioni non simulate ma realmente volute ed immuni da invalidità, effettuate, però, essenzialmente allo scopo di trarne un vantaggio fiscale impone di cogliere la vera natura della prestazione…». (19) Corte di Giustizia, sentenza Halifax e a., causa C-255/02. 88 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 Sebbene taluno (20) abbia criticato la propagazione degli effetti dell’abuso come concepito dal giudice comunitario in settori non completamente armonizzati (quale è quello delle imposte dirette), è innegabile l’incidenza del concetto nella qualificazione delle condotte elusive. 8. L’abuso del diritto nell’ordinamento italiano. Il codice civile italiano del ’42 (borghese e liberale, tutto teso a salvaguardare la certezza dei rapporti giuridici attraverso la chiarezza dello jus positum) non contiene una espressa sanzione dell’abuso del diritto (sebbene il progetto dello stesso prevedesse, all’art. 7, una disposizione in base alla quale nessuno poteva esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per cui questo gli era stato riconosciuto dall’ordinamento giuridico). Diversamente che in Germania (in cui il BGB del 1900 contempla al § 226 la figura del Rechtmissbrauch), in Svizzera, in Spagna e negli ordinamenti di Common Law (nei quali, pur mancando un principio generale di divieto dell’abuso, è presente l’istituto del tort of nuisance), l’Italia e la Francia (ove, come si è accennato, emergeva, in verità, l’esigenza di dare forma e risposta giuridica alle ipotesi di abuso) optavano per la non formalizzazione del divieto di abuso. L’unica disposizione cui l’abuso del diritto veniva generalmente ricondotto era quella dell’art. 833 c.c., contenente il divieto di atti emulativi (21), ricondotti in rapporto di specialità al più generale principio dell’abuso (22). Successivamente, l’individuazione dell’abuso verrà ricondotta alla clausola generale di buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., per cui l’assenza di buona fede pur in ossequio formale alla disciplina avrebbe potuto costituire un illecito. Inizialmente circoscritta all’ambito civilistico, la figura dell’abuso emerge anche in altri settori dell’ordinamento (nel diritto del lavoro, in merito ai congedi parentali indebitamente richiesti, o nel diritto commerciale, relativamente alle delibere assembleari adottate ad esclusivo vantaggio dei soci di maggioranza). La figura assume rilevanza anche in ambito tributario, suscitando il più ampio interesse di dottrina e giurisprudenza (23), enfatizzato anche dall’incidenza sul diritto internazionale e dell’Unione europea in materia economica e di fluidità degli scambi. (20) TESAURO, Abuso del Diritto e vincolo da giudicato, in Giur. It., 2008, 1301. (21) «Il proprietario non può fare atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri». (22) Cfr. RUFFOLO U., Atti emulativi, abuso del diritto e «interesse» nel diritto, in Riv. dir. civ., 1973, II, pp. 73 e ss. (23) GENTILI A., Abuso del diritto, giurisprudenza tributaria e categorie civilistiche, in Ianus, n. 4, 2009. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 89 9. L’abuso del diritto nell’ordinamento dell’Unione Europea. Già riconosciuta nel panorama internazionale nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1948) dell’Assemblea Generale della Nazioni Unite (24), la protezione dei diritti dell’uomo è presto materia di interesse all’interno del vecchio continente, in cui la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo del Consiglio d’Europa (firmata nel 1950 ed entrata in vigore nel 1953) contiene una disposizione intitolata Divieto di abuso del diritto (25). Come spesso è accaduto, l’ordinamento comunitario trova invece nella Corte di Giustizia il codificatore del principio. Essa, in particolare, tenta di elaborare una teorica dell’abuso volta ad impedire che l’esercizio delle libertà fondamentali nell’Unione sia strumento per eludere le normative nazionali di settore (26). Come nel caso in commento, è nell’esercizio della libertà di circolazione che più spesso si profilano ipotesi di abuso del diritto, dissimulate dagli operatori sotto la veste di operazioni economiche profittevoli. Oggi, la Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea (che, dopo il Trattato di Lisbona, ha valore giuridico pari a quello dei Trattati), proclamata a Nizza nel 2000 e, a seguito dell’abortito tentativo costituente, solennemente riproclamata a Strasburgo nel 2007, si chiude con l’art. 54 (27), anch’esso intitolato Divieto di abuso del diritto, prima vera codificazione eurocomunitaria dello stesso, seguita dalle discipline di settore in materia di esercizio delle libertà fondamentali, contenute negli atti secondari dell’Unione. 10. L’abuso del diritto in materia tributaria. In ambito fiscale, si considera abuso del diritto qualsiasi attività volta al conseguimento di un indebito risparmio fiscale da parte di colui che la ponga in essere. Rileva, anche in questo caso, il principio generale di buona fede nella gestione dei traffici. A livello nazionale, l’abuso del diritto in materia tributaria è ora disci- (24) Art. 30 «Nulla nella presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto per un qualsiasi Stato, gruppo o persona, di esercitare un’attività o di compiere un atto mirante alla distruzione di alcuno dei diritti e delle libertà in essa enunciati». (25) Art. 17 «Nessuna disposizione della presente Convenzione può essere interpretata nel senso di comportare il diritto di uno Stato, un gruppo o un individuo di esercitare un’attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti o delle liberta` riconosciuti nella presente Convenzione o di imporre a tali diritti e liberta` limitazioni più ampie di quelle previste dalla stessa Convenzione». (26) MERONE G., Introduzione allo studio del concetto di abuso del diritto nell’ordinamento nazionale ed in quello internazionale in “L’abuso del diritto nel dialogo tra le corti nazionali ed internazionali”, Ed. scientifiche italiane, 2014, 27. (27) Art. 54 «Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata nel senso di comportare il diritto di esercitare un’attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti o delle liberta` riconosciuti nella presente Carta o di imporre a tali diritti e liberta` limitazioni più ampie di quelle previste dalla presente Carta». 90 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 plinato dall’art. 10 bis della l. n. 212/2000, per cui [c]onfigurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Tali operazioni non sono opponibili all'amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni (28). Anche nell’ordinamento comunitario il divieto di abuso del diritto, inizialmente circoscritto alle normative di settore e condizionato ad un approccio casistico, ha avuto una generale consacrazione nel già citato art. 54 della Carta di Nizza-Strasburgo. Ma è stata la giurisprudenza della Corte di Giustizia, negli autorevoli precedenti alla sentenza in commento, a tracciare più compiutamente le linee dell’abuso. Nella sentenza Halifax (29), la Corte isola il concetto di abuso del diritto in materia di IVA quando, nonostante l’ossequio formale della normativa contenuta nella sesta direttiva in materia tributaria e della legislazione di attuazione, gli operatori conseguano un vantaggio fiscale indebito, perché contrario agli stessi scopi della direttiva. Conseguenza di tale abuso è un ripristino della situazione quale sarebbe stata se esso non fosse stato posto in essere (30). Già nella sentenza Emsland-Sta¨rke (31), la Corte aveva individuato i presupposti identificativi dell’abuso (richiamati ora dall’Avvocato Generale Sharpston, dalla difesa del Governo italiano e dalla Corte stessa nella sentenza in commento, per cui vd. supra) ed affermava che l'obbligo di rimborso non costituirebbe una sanzione, per la quale sarebbe necessario un fondamento giuridico chiaro e non ambiguo, bensì la semplice conseguenza della constatazione che le condizioni richieste per l'ottenimento del beneficio derivante dalla normativa comunitaria sono state create artificiosamente, rendendo indebite le restituzioni concesse e giustificando, di conseguenza, l'obbligo di restituzione (32). (28) Sul preferito approccio casistico alla figura di abuso, definito da Cass., sez. trib., 14 novembre 2005, n. 22932 un “principio tendenziale”, si veda MERONE G., Introduzione allo studio del concetto di abuso del diritto nell’ordinamento nazionale ed in quello internazionale in “L’abuso del diritto nel dialogo tra le corti nazionali ed internazionali”, Ed. scientifiche italiane, 2014, 49. (29) Corte di Giustizia, sent. 21 febbraio 2006, nel procedimento C- 255/02, Halifax Plc e altri c. Commissioners of Customs and Excise. (30) Par. 86. «Perché possa parlarsi di comportamento abusivo, le operazioni controverse devono, nonostante l'applicazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della sesta direttiva e della legislazione nazionale che la traspone, procurare un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all'obiettivo perseguito da quelle stesse disposizioni. Non solo. Deve altresì risultare da un insieme di elementi obiettivi che le dette operazioni hanno essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale». (31) Cfr. nota 1. (32) Paragrafo 56. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 91 La successiva sentenza SICES (33), in materia di importazioni di aglio cinese nell’Unione, rimarca il principio e costituisce il precedente ideale della sentenza Cimmino. Anche in questo caso la Corte asserisce che (s)econdo una giurisprudenza costante, i singoli non possono avvalersi fraudolentemente o abusivamente delle norme dell’Unione (34). La Cassazione ha accolto l’interpretazione del giudice comunitario, isolando una sorta di tertium genus, che si aggiunge alla bipartizione tra condotte patologiche e condotte fisiologiche in materia di abuso ed elusione fiscale. L’abuso sussiste allorché il comportamento del contribuente sia volto esclusivamente a conseguire il beneficio fiscale, in assenza di una reale ragione economica che giustifichi l’operazione (35). Il divieto dell’abuso del diritto, come codificato dalla Corte di Lussemburgo, trova ingresso diretto nel nostro ordinamento per quel che riguarda i settori armonizzati e, per gli altri settori, trova una legittimazione nell’art. 53 della Costituzione (36), in quanto clausola generale. 11. Esiti della concettualizzazione dell’abuso del diritto. È evidente, a questo punto, come la pronuncia in commento ponga un ulteriore tassello nel reticolato giurisprudenziale in materia di abuso del diritto in materia tributaria. Come già nelle citate sentenze Emsland-Sta¨rke e SICES, la Corte individua gli elementi dell’abuso volto ad eludere le normative in materia fiscale. Il divieto di abuso del diritto, assurto al rango di principio generale di diritto dell’Unione, anche allo scopo di armonizzare le normative statali eventualmente discrepanti rispetto a quella sovranazionale, ha costituito uno dei principali luoghi di esercizio dell’attivismo giudiziale della Corte di Giustizia (37). Come detto, la Corte ha riconosciuto per la prima volta l’esistenza nel diritto dell’Unione di una clausola generale in materia di abuso del diritto nel campo dell’imposizione fiscale nella sentenza Halifax, individuando i requisiti oggettivi e soggettivi costitutivi dell’abuso. Alla giurisprudenza comunitaria precedente, confermata anche nella sentenza in commento, la Corte di Cassazione italiana aveva già fatto riferimento, (33) Cfr. nota 2. (34) Par. 29, in cui si richiamano, altresì, le sentenze del 12 maggio 1998, Kefalas e a., C-367/96, punto 20; del 23 marzo 2000, Diamantis, C-373/97, punto 33, nonché del 21 febbraio 2006, Halifax e a., C-255/02, punto 68. (35) Cass., sez. trib. 5 maggio 2006, n. 10353. (36) Cfr. Cass. S.U., sent. 23 dicembre 2008, n. 30055. (37) In tema di attivismo giudiziale si veda ARNULL, “Judicial activism and the European Court of Justice: how should academics respond?” in Judicial activism at the European Court of Justice, 2013, pp. 211-232. 92 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 per postulare un più generale principio di divieto di abuso del diritto comunitario a fini di risparmio d’imposta (38). Le ragioni del sollevamento della questione pregiudiziale nel caso in esame, a fronte di una tradizione interpretativa pressoché consolidata (confermata dalla scarsa innovatività della sentenza Cimmino rispetto ai suoi precedenti), sono forse da rinvenirsi nel labile confine tra il corretto esercizio delle libertà economiche derivanti dall’ordinamento comunitario e l’utilizzo contra legem delle stesse, allo scopo di creare indebiti vantaggi. In ragione della sottigliezza di tale demarcazione, il giudice di legittimità voleva, probabilmente, evitare il rischio di interpretazioni incongruamente estensive o restrittive del concetto di abuso, che avrebbero inciso, da un lato, sul corretto esercizio delle libertà economiche (39) e, dall’altro, sull’efficacia repressiva di condotte abusive. Nel giuoco di rimbalzi incrociati che caratterizza il rapporto interpretativo fra le Corti nell’ordinamento dell’Unione, è possibile che la Corte di Cassazione cercasse nel giudice comunitario la legittimazione a qualificare più o meno severamente le condotte oggetto del giudizio a quo. Ciò in quanto preservare lo scopo della normativa regolamentare, che la Corte di Giustizia individua correttamente nell’incentivo alla concorrenza in un mercato classicamente monopolistico, ai fini del più fluido esercizio delle libertà economiche, non esclude un (apparentemente) ritorno al monopolio (40), allorché gli operatori minori, privati di qualsivoglia soluzione compromissoria tra l’asservimento agli operatori tradizionali (vietato) e l’esercizio assolutamente svincolato (ma forse utopistico) delle proprie libertà nel mercato non trovino più, in ragione dei virtuosismi restrittivi della normativa comunitaria, alcuno spazio favorevole all’interno dello stesso. D’altro canto, la deprecabile conseguenza di posizioni eccessivamente lascive sarebbe certamente la proliferazione delle condotte elusive e degli abusi di posizione dominante (41) da parte degli operatori tradizionali. Difficile, anche in questo caso, sfuggire dall’apparente contraddizione insita nell’ordinamento dell’Unione, che si concreta in una discrasia tra interpretazione ed applicazione. I giudici di Kirchberg, detentori qualificati del monopolio interpretativo comunitario, rimangono arroccati in tale empireo super partes, demandando al giudice nazionale la deiezione applicativa, ac- (38) Ex multis, Cass. 17 ottobre 2008, n. 25374; Cass. 11 dicembre 2013, n. 27711, citate anche da RAZZOLINI in “Il difficile confine fra uso e abuso del diritto di stabilimento: il caso degli avvocati stabiliti” in Diritto delle Relazioni Industriali, fasc. 4, 2014, pag. 1169. (39) Per questo, si veda CARPENTIERI, “L’ordinamento tributario tra abuso e incertezza del diritto” in Rivista di Diritto Tributario, n. 12, 2008, pag. 1055 e ss. (40) Per le definizioni di concorrenza, monopolio e concorrenza monopolistica, si veda BEGG, VERNASCA, FISCHER, DORNBUSCH, Economia, McGraw- Hill, Milano. (41) Cfr. articolo 3 della legge n. 287/90. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 93 cettando il rischio che, nel viaggio verso il giudice naturale, il verbo tracimi i suoi volutamente labili confini, impregnandosi, a volte macchiandosi, di discrezionalità. Risulta, dunque, estremamente delicato e rischioso il compito del giudice nazionale, che, di fronte alla più o meno evidente natura elusiva delle operazioni poste in essere nei casi concreti, dovrà usare la massima attenzione nella qualificazione delle condotte, ai fini del componimento degli squilibri patologici del mercato e rifuggendo demonizzazioni di quelli, fisiologici ed ordinari, che ne sono linfa. Corte di giustizia dell’Unione europea, Quarta Sezione, sentenza 9 luglio 2015, causa C- 607/13 - Pres. L. Bay Larsen, Rel. K. Jürimäe, Avv. Gen. E. Sharpston - Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Corte suprema di cassazione (Italia) con ordinanza del 10 luglio 2013, pervenuta in cancelleria il 25 novembre 2013 - Ministero dell’Economia e delle Finanze e a. / Francesco Cimmino e a. «Rinvio pregiudiziale – Agricoltura – Organizzazione comune dei mercati – Banane – Regolamento (CE) n. 2362/98 – Articoli 7, 11 e 21 – Contingenti tariffari – Banane originarie dei paesi ACP – Operatore nuovo arrivato – Certificati d’importazione – Non trasferibilità dei diritti derivanti da determinati titoli d’importazione – Pratica abusiva – Regolamento (CE) n. 2988/95 – Articolo 4, paragrafo 3» 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli articoli 11 e 21 del regolamento (CE) n. 2362/98 della Commissione, del 28 ottobre 1998, recante modalità d’applicazione del regolamento (CEE) n. 404/93 del Consiglio, con riguardo al regime d’importazione delle banane nella Comunità (GU L 293, pag. 32), come modificato dal regolamento (CE) n. 1632/2000 della Commissione, del 25 luglio 2000 (GU L 187, pag. 27; in prosieguo: il «regolamento n. 2362/98»), nonché dell’articolo 4, paragrafo 3, del regolamento (CE, Euratom) n. 2988/95 del Consiglio, del 18 dicembre 1995, relativo alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità (GU L 312, pag. 1). 2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia che contrappone il Ministero dell’Economia e delle Finanze, l’Agenzia delle dogane e la Commissione europea ai legali rappresentanti di società importatrici, nell’Unione europea, di banane originarie dei paesi dell’Africa, Caraibi e Pacifico (in prosieguo: i «paesi ACP») nonché di altri paesi terzi, tra le quali la SIMBA SpA (in prosieguo: la «SIMBA») e la Rico Italia srl (in prosieguo: la «Rico Italia»), in merito all’importo dei dazi doganali applicati nei confronti di tali società a seguito di dette importazioni. Contesto normativo Il regolamento (CEE) n. 404/93 3 Il titolo IV del regolamento (CEE) n. 404/93 del Consiglio, del 13 febbraio 1993, relativo all’organizzazione comune dei mercati nel settore della banana (GU L 47, pag. 1), come modificato dal regolamento (CE) n. 1257/1999 del Consiglio, del 17 maggio 1999, sul sostegno allo sviluppo rurale da parte del Fondo europeo agricolo di orientamento e di garanzia (FEAOG) e che modifica ed abroga taluni regolamenti (GU L 160, pag. 80; in prosieguo: il «regolamento n. 404/93»), è intitolato «Regime degli scambi con i paesi 94 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 terzi». Gli articoli da 16 a 20 del regolamento n. 404/93, che compaiono all’interno di detto titolo IV, disciplinano i contingenti tariffari applicabili alle banane provenienti dai paesi terzi. 4 L’articolo 16 di tale regolamento così dispone: «Gli articoli da 16 a 20 incluso del presente titolo si applicano soltanto ai prodotti freschi che rientrano nel codice NC ex 0803 00 19. Ai fini del presente titolo si intende per: 1) “importazioni tradizionali dai paesi ACP” le importazioni [nell’Unione] di banane originarie degli Stati elencati nell’allegato, limitatamente ad un volume annuo di 857 700 tonnellate (peso netto); tali banane sono denominate “banane ACP tradizionali”; 2) “importazioni non tradizionali dai paesi ACP” le importazioni [nell’Unione] di banane originarie degli Stati ACP, [che] non rientrano nella definizione di cui al punto 1); tali banane sono denominate “banane ACP non tradizionali”; 3) “importazioni dagli Stati terzi non ACP” le banane importate [nell’Unione], originarie di Stati terzi diversi dagli Stati ACP; tali banane sono denominate “banane di Stati terzi”». 5 L’articolo 18 di detto regolamento prevede quanto segue: «1. Ogni anno è aperto un contingente tariffario di 2,2 milioni di tonnellate (peso netto) per le importazioni di banane di Stati terzi e di banane ACP non tradizionali. Nell’ambito di questo contingente tariffario, le importazioni di banane di Stati terzi sono soggette all’imposizione di un dazio doganale pari a 75 [EUR]/t, mentre le importazioni di banane ACP non tradizionali sono soggette a dazio zero. 2. Ogni anno è aperto un contingente tariffario supplementare di 353 000 tonnellate (peso netto) per le importazioni di banane di Stati terzi e di banane ACP non tradizionali. Nell’ambito di questo contingente tariffario, le importazioni di banane di Stati terzi sono soggette all’imposizione di un dazio doganale pari a 75 [EUR]/t e le importazioni di banane ACP non tradizionali sono esenti da dazio. 3. Le importazioni di banane ACP tradizionali sono soggette a dazio zero. (...)». 6 L’articolo 19, paragrafo 1, del medesimo regolamento così dispone: «La gestione dei contingenti tariffari di cui all’articolo 18, paragrafi 1 e 2 e le importazioni di banane ACP tradizionali vengono espletate secondo un metodo che tiene conto dei flussi di scambi tradizionali (metodo noto come “tradizionali/nuovi arrivati”). (…)». Il regolamento n. 2362/98 7 I considerando 6, 8, 10 e 14 del regolamento n. 2362/98 enunciano quanto segue: «(6) considerando che una parte dei contingenti tariffari e delle banane ACP tradizionali deve essere riservata agli operatori nuovi arrivati; che tale assegnazione globale deve essere sufficiente a consentire agli operatori di impegnarsi in questo commercio d’importazione e a favorire una sana concorrenza; (...) (8) considerando che l’esperienza acquisita nel corso di vari anni di applicazione del regime comunitario d’importazione delle banane induce a rafforzare i criteri definiti per l’ammissibilità di nuovi operatori in modo da evitare la registrazione di semplici agenti prestanome e la concessione di assegnazioni per domande artificiose o speculative; che è opportuno esigere in particolare un’esperienza minima nel commercio d’importazione CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 95 di prodotti analoghi, dei prodotti freschi dei capitoli 7 e 8 e dei prodotti del capitolo 9, a determinate condizioni, della nomenclatura combinata; che per evitare parimenti domande di assegnazioni annue sproporzionate rispetto alle capacità effettive degli operatori e alle quali non farebbero seguito domande di titoli d’importazione per quantitativi corrispondenti, è opportuno subordinare la presentazione della domanda di assegnazione annua alla costituzione di una cauzione che sostituisca la cauzione relativa al titolo d’importazione (...); (...) (10) considerando che è opportuno adottare disposizioni per la registrazione degli operatori e la determinazione del loro quantitativo di riferimento o della loro assegnazione annua, secondo il caso, indicare le verifiche e i controlli che incombono alle autorità nazionali competenti e precisare le conseguenze in caso di inosservanza di determinati obblighi, in particolare per quanto riguarda le registrazioni e le dichiarazioni per l’ottenimento dei quantitativi di riferimento o delle assegnazioni nell’ambito del regime d’importazione; (...) (14) considerando che occorre precisare le condizioni e gli effetti del suddetto trasferimento di titolo, tenuto conto della definizione delle categorie di operatori contenuta nel presente regolamento; che la cessione limitata ad un solo cessionario per titolo o estratto di titolo favorisce l’evoluzione dei rapporti commerciali tra i diversi operatori registrati; che non è tuttavia opportuno suscitare la creazione di relazioni artificiose o speculative né turbare i normali rapporti commerciali consentendo la trasmissione da parte degli operatori nuovi arrivati agli operatori tradizionali». 8 L’articolo 2 di tale regolamento prevede che i contingenti tariffari e i quantitativi di banane ACP tradizionali, di cui rispettivamente all’articolo 18, paragrafi 1 e 2, e all’articolo 16 del regolamento n. 404/93, siano aperti per il 92% agli operatori tradizionali ai sensi dell’articolo 3 del regolamento n. 2362/98 e per l’8% agli operatori nuovi arrivati di cui all’articolo 7 del regolamento medesimo. 9 L’articolo 7 del regolamento n. 2362/98 è del seguente tenore: «Ai fini del presente regolamento operatore nuovo arrivato, ai fini dell’importazione nell’ambito dei contingenti tariffari e delle banane ACP tradizionali, è l’agente economico stabilito [nell’Unione] al momento della sua registrazione e in possesso dei seguenti requisiti: a) esercizio di un’attività commerciale come importatore nel settore degli ortofrutticoli freschi dei capitoli 7 e 8, come pure dei prodotti del capitolo 9 della nomenclatura tariffaria e statistica e della tariffa doganale comune qualora abbia effettuato anche importazioni dei prodotti suddetti dei capitoli 7 e 8, per proprio conto e a titolo autonomo, durante uno dei tre anni immediatamente precedenti l’anno per il quale è chiesta la registrazione; b) realizzazione, nell’ambito di tale attività, di importazioni per un valore dichiarato in dogana pari o superiore a [EUR] 400 000 (...) durante il periodo di cui alla lettera a)». 10 L’articolo 8, paragrafo 4, primo comma, di detto regolamento enuncia quanto segue: «Per ottenere il rinnovo della registrazione, l’operatore interessato deve fornire alle autorità competenti la prova che ha effettivamente importato, per proprio conto, almeno il 50% del quantitativo assegnatogli per l’anno in corso». 11 L’articolo 11, paragrafo 1, di tale regolamento così dispone: «Gli Stati membri controllano il rispetto delle disposizioni della presente sezione. 96 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 Verificano in special modo se gli operatori interessati esercitano un’attività d’importazione nel settore indicato all’articolo 7, per proprio conto, come entità economica autonoma quanto alla direzione, al personale e all’esercizio. Qualora vi fossero indizi che dette condizioni potrebbero non essere rispettate, la ricevibilità delle domande di registrazione e di assegnazione annua è subordinata alla presentazione, da parte dell’operatore interessato, di prove ritenute soddisfacenti dall’autorità nazionale competente». 12 Le modalità di rilascio dei titoli d’importazione sono disciplinate dagli articoli da 14 a 22 del medesimo regolamento. L’articolo 21, paragrafi 1 e 2, di quest’ultimo è del seguente tenore: «1. I diritti derivanti dai titoli d’importazione rilasciati conformemente al presente capo sono trasferibili, alle condizioni di cui all’articolo 9 del regolamento (CEE) n. 3719/88 [della Commissione, del 16 novembre 1988, che stabilisce le modalità comuni d’applicazione del regime dei titoli d’importazione, di esportazione e di fissazione anticipata relativi ai prodotti agricoli (GU L 331, pag. 1)] a un solo cessionario, salvo il disposto del paragrafo 2 del presente articolo. 2. Il trasferimento dei diritti può aver luogo come segue: a) fra operatori tradizionali registrati in applicazione dell’articolo 5; b) dagli operatori tradizionali agli operatori nuovi arrivati registrati in applicazione dell’articolo 8; o c) tra operatori nuovi arrivati. Il trasferimento dei diritti non è ammesso da un operatore nuovo arrivato a favore di un operatore tradizionale». Il regolamento n. 2988/95 13 L’articolo 4 del regolamento n. 2988/95 è così formulato: «1. Ogni irregolarità comporta, in linea generale, la revoca del vantaggio indebitamente ottenuto: – mediante l’obbligo di versare o rimborsare gli importi dovuti o indebitamente percetti; – mediante la perdita totale o parziale della garanzia costituita a sostegno della domanda di un vantaggio concesso o al momento della percezione di un anticipo. 2. L’applicazione delle misure di cui al paragrafo 1 è limitata alla revoca del vantaggio indebitamente ottenuto aumentato, se ciò è previsto, di interessi che possono essere stabiliti in maniera forfettaria. 3. Gli atti per i quali si stabilisce che hanno per scopo il conseguimento di un vantaggio contrario agli obiettivi del diritto [dell’Unione] applicabile nella fattispecie, creando artificialmente le condizioni necessarie per ottenere detto vantaggio, comportano, a seconda dei casi, il mancato conseguimento oppure la revoca del vantaggio stesso. 4. Le misure previste dal presente articolo non sono considerate sanzioni». Procedimento principale e questioni pregiudiziali 14 Nel corso degli anni 1999 e 2000, sono state effettuate operazioni di importazione nell’Unione di banane originarie di Stati ACP e di Stati terzi non ACP da parte di società aventi la qualifica di operatore «nuovo arrivato», ai sensi dell’articolo 7 del regolamento n. 2362/98, e in possesso dei titoli d’importazione «AGRIM» necessari nell’ambito dei contingenti tariffari previsti dal regolamento n. 404/93. A tale titolo, le importazioni interessate hanno beneficiato, a seconda dei casi, di un dazio zero o di un dazio ridotto di EUR 75 per tonnellata (in prosieguo: il «dazio agevolato»). 15 La SIMBA, rappresentata dal sig. e dalla sig.ra Orsero, è una società attiva sia sul mer- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 97 cato dell’importazione di banane, in quanto operatore tradizionale ai sensi dell’articolo 3 del regolamento n. 2362/98, sia sul mercato della commercializzazione di banane nell’Unione. La Rico Italia, rappresentata dal sig. Misturelli, è un importatore registrato come operatore nuovo arrivato. 16 Una verifica fiscale nei confronti della SIMBA effettuata dalla Guardia di Finanza ha rivelato l’esistenza di pratiche commerciali qualificabili come fraudolente tra la SIMBA, la Rico Italia e gli operatori nuovi arrivati di cui al procedimento principale. 17 Tali pratiche sarebbero state organizzate in modo da eludere il divieto, sancito dall’articolo 21, paragrafo 2, secondo comma, del regolamento n. 2362/98, di trasferimento dei diritti derivanti dai titoli d’importazione da un operatore nuovo arrivato a favore di un operatore tradizionale e, quindi, in modo da far indebitamente beneficiare la SIMBA del dazio agevolato per l’importazione delle banane attraverso titoli d’importazione «AGRIM» ottenuti dagli operatori nuovi arrivati di cui al procedimento principale. 18 Dall’ordinanza di rinvio emerge che le operazioni esaminate nel procedimento principale obbedivano al seguente schema: – in un primo tempo, la SIMBA vendeva sistematicamente alla Rico Italia banane situate al di fuori del territorio doganale dell’Unione; – in un secondo tempo, la Rico Italia rivendeva le banane agli operatori nuovi arrivati di cui al procedimento principale che disponevano dei titoli d’importazione necessari per poter beneficiare del dazio agevolato; – in un terzo tempo, gli operatori nuovi arrivati di cui al procedimento principale importavano le banane nell’Unione, per poi rivenderle, dopo il loro sdoganamento, alla Rico Italia; e – in un quarto tempo, la Rico Italia rivendeva le banane alla SIMBA. 19 È stato avviato un procedimento penale a carico dei rappresentanti della SIMBA, della Rico Italia e degli operatori nuovi arrivati di cui al procedimento principale per i reati di contrabbando e di falso ideologico. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze, l’Agenzia delle dogane e la Commissione si sono costituiti parti civili nell’ambito di tale procedimento. 20 In primo grado, il Tribunale di Verona (Italia) ha dichiarato il rappresentante della Rico Italia responsabile dei reati a lui ascritti e, pronunciandosi sulle questioni civili, lo ha condannato a risarcire le parti civili del danno dalle stesse subìto e a versare una provvisionale al Ministero dell’Economia e delle Finanze nonché all’Agenzia delle dogane. Detto Tribunale ha assolto gli altri imputati. 21 La Corte d’appello di Venezia (Italia), rilevando l’estinzione per prescrizione dei reati contestati al rappresentante della Rico Italia, ha pronunciato sentenza di non doversi procedere, ma ha confermato la pronuncia di primo grado per quanto riguardava le statuizioni sulle questioni civili. Detto giudice ha altresì confermato l’assoluzione degli operatori nuovi arrivati di cui al procedimento principale, disposta in primo grado, con la motivazione che questi ultimi, a differenza della Rico Italia, svolgevano un’effettiva attività nel settore degli ortofrutticoli freschi ed erano in possesso dei requisiti per l’attribuzione della qualifica di operatori nuovi arrivati ai sensi del regolamento n. 2362/98. 22 La Corte suprema di cassazione, dinanzi alla quale le parti civili hanno impugnato la sentenza della Corte d’appello di Venezia, ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se l’articolo 11 del regolamento (CE) n. 2362/98, il quale prevede a carico degli 98 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 Stati membri l’onere di accertare se gli operatori esercitano un’attività di importazione per proprio conto come entità economica autonoma quanto alla direzione, al personale e all’esercizio, debba essere interpretato nel senso che sono escluse dai benefici doganali accordati tutte le attività di importazione eseguite per conto di un operatore tradizionale qualora queste siano svolte da soggetti solo formalmente in possesso dei requisiti previsti per i “nuovi operatori” dallo stesso regolamento. 2) Se il regolamento (CE) n. 2362/98 consenta ad un operatore tradizionale di vendere banane che si trovano al di fuori del territorio dell’Unione ad un operatore nuovo arrivato accordandosi con quest’ultimo perché provveda a far entrare nel territorio dell’Unione le banane a dazio agevolato e le rivenda allo stesso operatore tradizionale ad un prezzo concordato prima dell’intera operazione, senza sopportare alcun effettivo rischio d’impresa e senza fornire alcuna organizzazione di mezzi quanto a tale operazione. 3) Se l’accordo di cui alla seconda questione integri una violazione del divieto di cessione di diritti dagli operatori nuovi agli operatori tradizionali di cui all’articolo 21, paragrafo 2, del regolamento (CE) n. 2362/98, con la conseguenza che la cessione effettuata resta priva di effetto e il dazio risulta dovuto nella misura piena e non in quella agevolata, ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 3, del regolamento n. 2988/95». Sulla domanda di riapertura della fase orale 23 La fase orale del procedimento è stata chiusa il 5 febbraio 2015 in seguito alla presentazione delle conclusioni dell’avvocato generale. 24 Con lettera del 19 marzo 2015, pervenuta alla Corte il giorno stesso, il sig. Surian ha chiesto a quest’ultima, da un lato, di disporre la riapertura della fase orale del procedimento e, dall’altro, di rivolgere alla Corte suprema di cassazione una richiesta di chiarimenti riguardante i fatti costituenti oggetto del procedimento principale, quali descritti da detto giudice nell’ordinanza di rinvio. Una domanda simile è stata formulata dal sig. e dalla sig.ra Orsero nonché dalla sig.ra Palombini, con lettere datate rispettivamente 20 e 26 marzo 2015, pervenute alla Corte nelle stesse date. 25 A sostegno delle loro domande, dette parti del procedimento principale fanno in sostanza valere – riproponendo argomenti esposti nelle loro osservazioni scritte, depositate dinanzi alla Corte, e nell’udienza dibattimentale – che taluni dei fatti illustrati nell’ordinanza di rinvio non corrispondono a quelli accertati in primo grado e in appello. Dette parti asseriscono che le conclusioni presentate dall’avvocato generale sono, pertanto, basate su fatti erronei, legati al contenuto inesatto di tale decisione. 26 A tale riguardo, si deve rilevare che la Corte, in qualsiasi momento, sentito l’avvocato generale, può disporre la riapertura della fase orale del procedimento, conformemente all’articolo 83 del suo regolamento di procedura, in particolare se essa non si ritiene sufficientemente edotta oppure quando la causa dev’essere decisa in base a un argomento che non è stato oggetto di dibattito tra le parti o gli interessati menzionati dall’articolo 23 dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea. 27 Nella fattispecie, la Corte, sentito l’avvocato generale, ritiene di disporre di tutti gli elementi necessari per rispondere alle questioni sollevate e che tali elementi siano stati dibattuti tra le parti. 28 Parimenti, la Corte non considera necessario rivolgere una richiesta di chiarimenti alla Corte suprema di cassazione. 29 Pertanto, le domande del sig. Surian, del sig. e della sig.ra Orsero nonché della sig.ra Palombini devono essere respinte. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 99 Sulla ricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale 30 Occorre rilevare che i fatti oggetto del procedimento principale sono contestati dagli operatori nuovi arrivati coinvolti nel medesimo procedimento, come emerge dalle loro osservazioni scritte depositate dinanzi alla Corte e dalle discussioni avvenute in udienza davanti alla medesima. Tali contestazioni riguardano, in particolare, le ipotesi in fatto sulle quali il giudice del rinvio avrebbe basato le proprie questioni, ipotesi che non corrispondono, secondo detti operatori, ai fatti accertati dai giudici di merito. 31 Alla luce di tali circostanze, gli importatori nuovi arrivati sostengono che la domanda di pronuncia pregiudiziale è irricevibile. 32 A tale riguardo, occorre ricordare che, secondo costante giurisprudenza della Corte, le questioni relative all’interpretazione del diritto dell’Unione sottoposte dal giudice nazionale nel contesto di diritto e di fatto che egli individua sotto la propria responsabilità, del quale non spetta alla Corte verificare l’esattezza, godono di una presunzione di rilevanza. Il rifiuto, da parte della Corte, di pronunciarsi su una domanda proposta da un giudice nazionale è possibile soltanto qualora appaia in modo manifesto che l’interpretazione del diritto dell’Unione richiesta non ha alcun rapporto con la realtà effettiva o l’oggetto del procedimento principale, qualora la questione sia di tipo teorico o, ancora, qualora la Corte non disponga degli elementi di fatto e di diritto necessari per rispondere in modo utile alle questioni che le sono sottoposte (v., in particolare, sentenza Genil 48 e Comercial Hostelera de Grandes Vinos, C-604/11, EU:C:2013:344, punto 26 e giurisprudenza ivi citata). 33 Si deve rilevare che, nel caso di specie, non ricorre alcuna di tali ipotesi. 34 Emerge, infatti, dalla domanda di pronuncia pregiudiziale che l’interpretazione delle disposizioni del regolamento n. 2362/98 e, in particolare, degli articoli 7, 11 e 21 del medesimo è necessaria per la soluzione della controversia principale, segnatamente al fine di determinare se le operazioni oggetto del procedimento principale costituiscano una pratica abusiva secondo il diritto dell’Unione. A tale riguardo, il ricorso per cassazione proposto dinanzi alla Corte suprema di cassazione verte sulla correttezza dell’interpretazione fornita a tali articoli dalla Corte d’appello di Venezia. 35 Inoltre, occorre anche ricordare che, nell’ambito del procedimento di cui all’articolo 267 TFUE, la Corte non può decidere su una controversia relativa ad una situazione in fatto. Una controversia del genere, come del resto qualsiasi valutazione dei fatti di causa, rientra tra le competenze del giudice nazionale (sentenza CEPSA, C-279/06, EU:C:2008:485, punto 30 e giurisprudenza ivi citata). 36 Ne consegue che la domanda di pronuncia pregiudiziale è ricevibile. Sulla prima questione 37 In limine, occorre ricordare che, secondo costante giurisprudenza della Corte, nell’ambito della procedura di cooperazione tra i giudici nazionali e la Corte istituita dall’articolo 267 TFUE, spetta a quest’ultima fornire al giudice a quo una soluzione utile che gli consenta di dirimere la controversia ad esso sottoposta. In tale prospettiva spetta alla Corte, se del caso, riformulare le questioni ad essa deferite (v., in particolare, sentenza Douane Advies Bureau Rietveld, C-541/13, EU:C:2014:2270, punto 18 e giurisprudenza ivi citata). 38 A tale proposito, la Corte può trarre dall’insieme degli elementi forniti dal giudice nazionale, e in particolare dalla motivazione dell’ordinanza di rinvio, gli elementi del diritto dell’Unione che richiedono un’interpretazione, tenuto conto dell’oggetto della 100 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 controversia (v., in tal senso, sentenza eco cosmetics e Raiffeisenbank St. Georgen, C-119/13 e C-120/13, EU:C:2014:2144, punto 33 nonché giurisprudenza ivi citata). 39 Nel caso di specie, anche se la questione posta ha ad oggetto l’interpretazione dell’articolo 11 del regolamento n. 2362/98, dall’intera formulazione di tale questione nonché dagli elementi forniti dal giudice nazionale nell’ordinanza di rinvio emerge che detto giudice si interroga, in realtà, sul requisito – previsto all’articolo 7, lettera a), di tale regolamento, in combinato disposto con l’articolo 11 del medesimo – secondo cui un operatore «nuovo arrivato» deve esercitare la propria attività di importazione «per proprio conto e a titolo autonomo». 40 Nel procedimento principale, infatti, pur essendo pacifico che gli operatori nuovi arrivati di cui a detto procedimento rispettavano tale requisito al momento della registrazione, il giudice del rinvio cerca di determinare se, a causa del loro coinvolgimento nelle operazioni esaminate nel procedimento principale, si possa affermare che gli operatori in parola hanno proseguito la propria attività d’importazione sul mercato della banana in modo conforme a quanto stabilito da detto regolamento. 41 Pertanto, occorre leggere la prima questione pregiudiziale come volta a determinare se il combinato disposto dell’articolo 7, lettera a), e dell’articolo 11 del regolamento n. 2362/98 debba essere interpretato nel senso che il requisito secondo cui un agente economico deve esercitare un’attività commerciale come importatore «per proprio conto e a titolo autonomo» si riferisce unicamente alla registrazione di tale agente come operatore «nuovo arrivato», ai sensi dell’articolo 7, lettera a), del regolamento n. 2362/98, ovvero se il possesso del requisito in parola sia altresì richiesto per consentire a detto agente di mantenere tale qualifica ai fini dell’importazione di banane nell’ambito dei contingenti tariffari previsti dal regolamento n. 404/93. 42 Occorre anzitutto rilevare che, per quanto riguarda l’importazione di banane nell’Unione, il regolamento n. 404/93 istituisce un regime di scambi con gli Stati terzi basato, in particolare, sui contingenti tariffari previsti all’articolo 18, paragrafi 1 e 2, di detto regolamento. 43 La gestione di tali contingenti tariffari viene espletata, ai sensi dell’articolo 19, paragrafo 1, di detto regolamento, secondo il metodo noto come «tradizionali/nuovi arrivati», che tiene conto dei flussi di scambi tradizionali, anche se, come indicato al tredicesimo considerando del medesimo regolamento, un quantitativo disponibile è riservato ai nuovi operatori che abbiano recentemente intrapreso o che intraprenderanno un’attività commerciale in tale settore. 44 In tale ottica, l’articolo 2 del regolamento n. 2362/98 prevede una ripartizione delle quantità di banane disponibili nell’ambito di detti contingenti tariffari tra gli operatori tradizionali e gli operatori nuovi arrivati. Dal considerando 6 del regolamento in parola emerge che tale ripartizione mira a consentire agli operatori nuovi arrivati di impegnarsi in questo commercio d’importazione delle banane e a favorire una sana concorrenza. 45 Al riguardo, il regolamento n. 2362/98 subordina a determinati requisiti specifici la partecipazione degli operatori ai contingenti tariffari, onde consentire di preservare la ripartizione menzionata al punto precedente della presente sentenza. 46 Tra tali requisiti rientrano quelli previsti all’articolo 7 del suddetto regolamento, relativi al conseguimento della qualifica di operatore «nuovo arrivato». Ai sensi di tale articolo, per operatore «nuovo arrivato» si intende l’agente economico stabilito nell’Unione al momento della sua registrazione il quale, in particolare, abbia esercitato un’attività commerciale come importatore nel settore degli ortofrutticoli freschi dei capitoli 7 e 8 della CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 101 tariffa doganale comune, per proprio conto e a titolo autonomo, durante uno dei tre anni immediatamente precedenti l’anno per il quale è chiesta la registrazione. 47 Anche se dai termini di tale articolo 7 emerge che, per ottenere la qualifica di operatore nuovo arrivato, un importatore deve essere in possesso «al momento della sua registrazione » dei requisiti previsti a detto articolo, risulta altresì dai termini medesimi che tale qualifica è acquisita «ai fini dell’importazione nell’ambito dei contingenti tariffari». 48 Quindi, in considerazione della finalità perseguita dalla ripartizione dei contingenti tariffari e della preservazione della sana concorrenza sul mercato dell’importazione delle banane, richiamata al punto 44 della presente sentenza, il requisito secondo cui l’attività di un operatore nuovo arrivato dev’essere esercitata «per proprio conto e a titolo autonomo» non può essere interpretato come riferito unicamente all’attività dallo stesso svolta nel periodo precedente alla sua registrazione, ma si estende al di là di tale periodo. 49 Infatti, la ripartizione dei contingenti tariffari tra gli operatori tradizionali e gli operatori nuovi arrivati implica che operatori nuovi arrivati veri e propri intervengano sul mercato e, quindi, svolgano pienamente le loro attività economiche (v., in tal senso, sentenza Di Lenardo e Dilexport, C-37/02 e C-38/02, EU:C:2004:443, punti 84 e 87). A tale riguardo, come emerge dal considerando 8 del regolamento n. 2362/98, i criteri definiti per l’ammissibilità di nuovi operatori mirano, nell’ambito della gestione dei contingenti tariffari, a evitare la registrazione di semplici agenti prestanome e, in tal modo, a contrastare le pratiche artificiose e speculative. 50 Pertanto, scopo del requisito legato all’autonomia dell’attività commerciale degli operatori nuovi arrivati, stabilito all’articolo 7, lettera a), del regolamento n. 2362/98, è di evitare che un operatore tradizionale che già beneficia di una parte dei contingenti tariffari possa appropriarsi, per il tramite di un altro operatore, della parte dei contingenti tariffari riservata agli operatori nuovi arrivati. 51 Ne consegue che tale requisito dev’essere interpretato come altresì riferito all’attività d’importazione di banane realizzata dagli operatori nuovi arrivati nell’ambito dei contingenti tariffari. Tale interpretazione è del resto corroborata dal contesto nel quale si inserisce l’articolo 7, lettera a), del regolamento n. 2362/98. 52 Infatti, in primo luogo, l’articolo 8, paragrafo 4, di tale regolamento dispone che, per ottenere il rinnovo annuale della registrazione, detti operatori devono fornire alle autorità nazionali competenti la prova di aver effettivamente importato, per proprio conto, almeno il 50% del quantitativo loro assegnato, a titolo individuale, per l’anno in corso. Come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 64 delle sue conclusioni, tale requisito impone a detti operatori un obbligo di utilizzo minimo dell’assegnazione annuale loro concessa, al fine di garantire che questi ultimi partecipino effettivamente al mercato dell’importazione delle banane e lo rendano quindi più competitivo. 53 In secondo luogo, ai sensi dell’articolo 11, paragrafo 1, del regolamento n. 2362/98, gli Stati membri devono assicurarsi che gli operatori nuovi arrivati esercitino un’attività d’importazione nell’Unione per proprio conto, come entità economica autonoma, e, in caso di dubbio quanto all’osservanza di tale condizione, l’operatore interessato, affinché la sua domanda di registrazione e di assegnazione annua venga considerata ricevibile e per dimostrare la sua autonomia di gestione, deve presentare all’autorità nazionale competente prove ritenute «soddisfacenti» da quest’ultima (v., in tal senso, sentenza Di Lenardo e Dilexport, C-37/02 e C-38/02, EU:C:2004:443, punto 86). 54 Di conseguenza, alla luce dell’insieme delle suesposte considerazioni, occorre rispon- 102 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 dere alla prima questione dichiarando che il combinato disposto dell’articolo 7, lettera a), e dell’articolo 11 del regolamento n. 2362/98 dev’essere interpretato nel senso che il requisito secondo cui un agente economico deve esercitare un’attività commerciale come importatore «per proprio conto e a titolo autonomo» è richiesto non solo per la registrazione di tale agente come operatore «nuovo arrivato» ai sensi di tale disposizione, ma anche per consentirgli di mantenere tale qualifica ai fini dell’importazione di banane nell’ambito dei contingenti tariffari previsti dal regolamento n. 404/93. Sulla seconda questione e sulla prima parte della terza questione 55 Con la seconda questione e la prima parte della terza questione, da esaminarsi congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 21, paragrafo 2, del regolamento n. 2362/98 debba essere interpretato nel senso che esso osta a operazioni, come quelle di cui al procedimento principale, attraverso le quali un operatore nuovo arrivato acquista, con l’intermediazione di un altro operatore registrato come nuovo arrivato, merce da un operatore tradizionale prima che venga importata nell’Unione, per poi rivenderla a tale operatore tradizionale, per il tramite del medesimo intermediario, dopo averla importata nell’Unione. 56 Ai sensi dell’articolo 21, paragrafo 2, del regolamento n. 2362/98, il trasferimento dei diritti derivanti dai titoli d’importazione rilasciati conformemente a tale regolamento non è ammesso quando è effettuato da un operatore nuovo arrivato a favore di un operatore tradizionale. 57 Nell’ambito delle operazioni esaminate nel procedimento principale, è pacifico che, in mancanza di trasferimento di titoli «AGRIM» o dei diritti derivanti da simili titoli da parte degli operatori nuovi arrivati di cui a detto procedimento a favore dell’operatore tradizionale SIMBA, l’articolo 21, paragrafo 2, del regolamento n. 2362/98, in linea di principio, non trova applicazione. 58 Tuttavia, con riferimento a operazioni di importazione nell’Unione comparabili, in sostanza, a quelle oggetto del procedimento principale, la Corte ha dichiarato, nella sua sentenza SICES e a. (C-155/13, EU:C:2014:145, punto 40), che, sebbene l’articolo 6, paragrafo 4, del regolamento (CE) n. 341/2007 della Commissione, del 29 marzo 2007, recante apertura e modalità di gestione di contingenti tariffari e istituzione di un regime di titoli di importazione e certificati d’origine per l’aglio e alcuni altri prodotti agricoli importati da paesi terzi (GU L 90, pag. 12), articolo che prevede un divieto di trasferimento dei diritti derivanti dai titoli d’importazione, non osti in linea di principio a operazioni siffatte, queste ultime costituiscono tuttavia un abuso di diritto quando siano state concepite artificiosamente allo scopo essenziale di beneficiare del dazio agevolato. 59 Orbene, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 95 delle sue conclusioni, la soluzione individuata nella sentenza SICES e a. (C-155/13, EU:C:2014:145) si attaglia al procedimento principale. 60 A tale riguardo, occorre precisare che sebbene la Corte, nel pronunciarsi su un rinvio pregiudiziale, possa, ove necessario, fornire precisazioni dirette a guidare il giudice nazionale nella sua interpretazione, spetta tuttavia a quest’ultimo verificare se sussistano, nel caso oggetto del procedimento principale, gli elementi costitutivi di una pratica abusiva. In tale contesto, la verifica dell’esistenza di una pratica abusiva esige che il giudice del rinvio prenda in considerazione tutti i fatti e le circostanze del caso di specie, incluse le operazioni commerciali precedenti e successive all’importazione di cui trattasi (sentenza SICES e a., C-155/13, EU:C:2014:145, punto 34 e giurisprudenza ivi citata). CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 103 61 Conformemente alla giurisprudenza della Corte, la prova di una pratica abusiva richiede, da una parte, un insieme di circostanze oggettive dalle quali risulti che, nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dalla normativa dell’Unione, l’obiettivo perseguito da tale normativa non è stato raggiunto e, dall’altra, un elemento soggettivo consistente nella volontà di ottenere un vantaggio derivante dalla normativa dell’Unione mediante la creazione artificiosa delle condizioni necessarie per il suo ottenimento (v., in particolare, sentenze Eichsfelder Schlachtbetrieb, C-515/03, EU:C:2005:491, punto 39, nonché, in tal senso, SICES e a., C-155/13, EU:C:2014:145, punti da 31 a 33). 62 Per quanto riguarda, in primo luogo, l’obiettivo perseguito dal regolamento n. 2362/98, tale regolamento, come ricordato in particolare al punto 44 della presente sentenza, mira, attraverso la ripartizione dei contingenti tariffari, a consentire a nuovi operatori veri e propri di svolgere le proprie attività sul mercato dell’importazione della banana allo scopo di favorire la sana concorrenza su detto mercato. A tal fine, come risulta dal considerando 14 di tale regolamento, il divieto di trasferimento dei titoli da parte di operatori nuovi arrivati a favore di operatori tradizionali, previsto all’articolo 21, paragrafo 2, secondo comma, del medesimo regolamento, è inteso a evitare la creazione di relazioni artificiose o speculative tra detti operatori o le turbative dei normali rapporti commerciali sul mercato dell’importazione della banana. 63 Occorre pertanto rilevare che l’obiettivo perseguito dalla normativa dell’Unione non può essere raggiunto qualora operazioni successive di acquisto, di importazione e di rivendita di banane, come quelle oggetto del procedimento principale, quand’anche giuridicamente valide se considerate singolarmente, equivalgano di fatto a un trasferimento vietato dei titoli di importazione o dei diritti derivanti da titoli siffatti da parte di un operatore nuovo arrivato a favore di un operatore tradizionale, e consentano a quest’ultimo di estendere la propria influenza al di là della parte dei contingenti riservatagli per importare nell’Unione banane a dazio agevolato. 64 In secondo luogo, quanto alle motivazioni alla base di tali operazioni, occorre altresì accertare, affinché risulti provata l’esistenza di una pratica abusiva, che lo scopo essenziale di dette operazioni sia di consentire all’operatore tradizionale interessato di importare le proprie banane al dazio agevolato nell’ambito della parte dei contingenti tariffari riservata agli operatori nuovi arrivati. 65 A tale riguardo, come dichiarato dalla Corte nella sentenza SICES e a. (C-155/13, EU:C:2014:145, punti da 37 a 39), affinché operazioni come quelle di cui al procedimento principale possano essere considerate come aventi lo scopo essenziale di procurare all’acquirente nell’Unione un vantaggio indebito, è necessario che gli importatori abbiano avuto l’intenzione di procurare un siffatto vantaggio a tale acquirente e che le operazioni siano prive di qualsiasi giustificazione economica e commerciale per i medesimi importatori, circostanze che spetta al giudice del rinvio verificare. Se anche operazioni di questo tipo fossero motivate dalla volontà dell’acquirente di beneficiare del dazio agevolato, e se anche gli importatori interessati ne fossero consapevoli, esse non potrebbero essere considerate a priori prive di giustificazione economica per questi ultimi. Tuttavia, non si può escludere che, in alcuni casi, operazioni del genere siano state ideate artificiosamente allo scopo essenziale di beneficiare del dazio agevolato. 66 Per quanto riguarda le operazioni di cui al procedimento principale, il carattere artificioso di tali operazioni potrebbe essere valutato, in particolare, alla luce dell’esistenza di indizi che mostrino che il ruolo degli operatori nuovi arrivati di cui al procedimento principale 104 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 si è in realtà limitato a quello di semplici agenti prestanome in favore della SIMBA. Alla luce degli elementi forniti in risposta alla prima questione, tale valutazione si risolverebbe, del resto, nel verificare se detti operatori abbiano chiesto la propria registrazione come operatore nuovo arrivato per ottenere titoli «AGRIM» al solo fine di procedere all’importazione di banane nell’Unione al dazio agevolato, per conto dell’operatore tradizionale SIMBA. 67 A questo scopo, il giudice del rinvio può prendere in considerazione l’insieme dei nessi giuridici, economici e/o personali tra gli operatori coinvolti in tali operazioni (sentenza Part Service, C-425/06, EU:C:2008:108, punto 62) e, basandosi sugli indizi che figurano al punto 39 della sentenza SICES e a. (C-155/13, EU:C:2014:145), tener conto, segnatamente, del fatto che l’operatore nuovo arrivato in possesso dei titoli «AGRIM» non ha assunto alcun rischio commerciale nell’ambito delle operazioni di cui al procedimento principale, dato che il rischio è stato in realtà sopportato dall’acquirente nell’Unione che è altresì operatore tradizionale, o del fatto che, alla luce dei prezzi di vendita e di rivendita della merce interessata, il margine di profitto per gli operatori nuovi arrivati si è rivelato insignificante. 68 Per contro, come sostenuto dagli importatori nuovi arrivati coinvolti nel procedimento principale nelle loro osservazioni scritte depositate dinanzi alla Corte, occorre precisare che, considerata la specificità del mercato dell’importazione della banana, il fatto che detti operatori disponessero di infrastrutture proprie per immagazzinare e trasportare le banane importate non è determinante per accertare l’artificiosità delle operazioni di cui al procedimento principale. Infatti, sarebbe in contrasto con l’obiettivo del regolamento n. 2362/98, consistente nel permettere a nuovi operatori di impegnarsi sul mercato dell’importazione delle banane, richiedere agli operatori nuovi arrivati di disporre di simili infrastrutture. 69 Inoltre, come fatto valere dalla Commissione nelle sue osservazioni, l’artificiosità delle operazioni di cui al procedimento principale potrebbe anche risultare dal coinvolgimento sistematico, nelle medesime, di una società intermediaria, nel caso di specie la Rico Italia, registrata come operatore nuovo arrivato, ove emerga che tale coinvolgimento era unicamente volto a dissimulare i nessi tra un operatore tradizionale, come la SIMBA, e operatori nuovi arrivati, come quelli di cui al procedimento principale, al fine di sottrarsi all’applicazione dell’articolo 21, paragrafo 2, del regolamento n. 2362/98. 70 Occorre pertanto rispondere alla seconda questione e alla prima parte della terza questione dichiarando che l’articolo 21, paragrafo 2, del regolamento n. 2362/98 dev’essere interpretato nel senso che esso osta a operazioni, come quelle di cui al procedimento principale, attraverso le quali un operatore nuovo arrivato acquista, con l’intermediazione di un altro operatore registrato come nuovo arrivato, merce da un operatore tradizionale prima che venga importata nell’Unione, per poi rivenderla a tale operatore tradizionale, per il tramite del medesimo intermediario, dopo averla importata nell’Unione, qualora tali operazioni integrino una pratica abusiva, circostanza che spetta al giudice del rinvio determinare. Sulla seconda parte della terza questione 71 Con la seconda parte della terza questione, il giudice del rinvio si interroga sulle conseguenze da trarre dall’accertamento di una pratica abusiva, nel caso in cui dovesse essere rilevata l’esistenza di una pratica siffatta nel caso oggetto del procedimento principale. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 105 72 A tale riguardo, occorre ricordare che l’articolo 4, paragrafo 3, del regolamento n. 2988/95 enuncia che «gli atti per i quali si stabilisce che hanno per scopo il conseguimento di un vantaggio contrario agli obiettivi del diritto [dell’Unione] applicabile nella fattispecie, creando artificialmente le condizioni necessarie per ottenere detto vantaggio, comportano, a seconda dei casi, il mancato conseguimento oppure la revoca del vantaggio stesso». 73 L’obbligo di restituire un beneficio indebitamente percepito tramite una pratica irregolare non costituisce una sanzione, bensì è la semplice conseguenza della constatazione che le condizioni richieste per l’ottenimento del beneficio previsto dalla normativa dell’Unione sono state create artificiosamente, rendendo indebito il vantaggio conseguito e giustificando, di conseguenza, l’obbligo di restituzione (v. sentenza Pometon, C- 158/08, EU:C:2009:349, punto 28 e giurisprudenza ivi citata). 74 Ne discende che operazioni implicate in una pratica abusiva devono essere ridefinite dal giudice del rinvio in maniera da ristabilire la situazione quale sarebbe esistita senza le operazioni integranti la pratica abusiva (v., per analogia, sentenza Halifax e a., C- 255/02, EU:C:2006:121, punto 94). 75 Pertanto, un operatore che si è artificiosamente posto in una situazione che gli consente di beneficiare indebitamente del dazio agevolato per l’importazione di banane è tenuto a pagare i dazi riguardanti i prodotti interessati, ferme restando, se del caso, le sanzioni amministrative, civili o penali previste dalla normativa nazionale (v., per analogia, sentenza Christodoulou e a., C-116/12, EU:C:2013:825, punto 68). 76 Occorre pertanto rispondere alla seconda parte della terza questione dichiarando che l’articolo 4, paragrafo 3, del regolamento n. 2988/95 dev’essere interpretato nel senso che dall’accertamento di una pratica abusiva, in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, consegue che l’operatore che si è artificiosamente posto in una situazione che gli consente di beneficiare indebitamente del dazio agevolato per l’importazione di banane è tenuto a pagare i dazi riguardanti i prodotti interessati, ferme restando, se del caso, le sanzioni amministrative, civili o penali previste dalla normativa nazionale. Sulle spese 77 Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Quarta Sezione) dichiara: 1) Il combinato disposto dell’articolo 7, lettera a), e dell’articolo 11 del regolamento (CE) n. 2362/98 della Commissione, del 28 ottobre 1998, recante modalità d’applicazione del regolamento (CEE) n. 404/93 del Consiglio, con riguardo al regime d’importazione delle banane nella Comunità, come modificato dal regolamento (CE) n. 1632/2000 della Commissione, del 25 luglio 2000, dev’essere interpretato nel senso che il requisito secondo cui un agente economico deve esercitare un’attività commerciale come importatore «per proprio conto e a titolo autonomo» è richiesto non solo per la registrazione di tale agente come operatore «nuovo arrivato» ai sensi di tale disposizione, ma anche per consentirgli di mantenere tale qualifica ai fini dell’importazione di banane nell’ambito dei contingenti tariffari previsti dal regolamento (CEE) n. 404/93 del Consiglio, del 13 febbraio 1993, relativo all’orga- 106 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 nizzazione comune dei mercati nel settore della banana, come modificato dal regolamento (CE) n. 1257/1999 del Consiglio, del 17 maggio 1999, sul sostegno allo sviluppo rurale da parte del Fondo europeo agricolo di orientamento e di garanzia (FEAOG) e che modifica ed abroga taluni regolamenti. 2) L’articolo 21, paragrafo 2, del regolamento n. 2362/98, come modificato, dev’essere interpretato nel senso che esso osta a operazioni, come quelle di cui al procedimento principale, attraverso le quali un operatore nuovo arrivato acquista, con l’intermediazione di un altro operatore registrato come nuovo arrivato, merce da un operatore tradizionale prima che venga importata nell’Unione, per poi rivenderla a tale operatore tradizionale, per il tramite del medesimo intermediario, dopo averla importata nell’Unione, qualora tali operazioni integrino una pratica abusiva, circostanza che spetta al giudice del rinvio determinare. 3) L’articolo 4, paragrafo 3, del regolamento (CE, Euratom) n. 2988/95 del Consiglio, del 18 dicembre 1995, relativo alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità, dev’essere interpretato nel senso che dall’accertamento di una pratica abusiva, in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, consegue che l’operatore che si è artificiosamente posto in una situazione che gli consente di beneficiare indebitamente del dazio agevolato per l’importazione di banane è tenuto a pagare i dazi riguardanti i prodotti interessati, ferme restando, se del caso, le sanzioni amministrative, civili o penali previste dalla normativa nazionale. CONTENZIOSO NAZIONALE Necessità di un’adeguata motivazione della legge restrittivamente incidente nella sfera giuridica dei cittadini? NOTA A CORTE COSTITUZIONALE, SENTENZA 30 APRILE 2015 N. 70 Gabriele Pepe * La pronuncia in commento si segnala per l’accoglimento di una delle censure presentate dai ricorrenti con conseguente declaratoria di incostituzionalità di una disposizione della c.d. legge Fornero e, segnatamente, dell’art. 24, co. 25, d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, co. 1, l. 22 dicembre 2011, n. 214. Si tratta della disposizione che, in una prospettiva di risanamento dei conti pubblici, ha imposto risparmi di spesa attraverso il blocco della indicizzazione di taluni trattamenti pensionistici per gli anni 2012 e 2013. Il presente articolo non mira ad una ricostruzione analitica dell’intera pronuncia della Corte bensì intende soffermarsi su due passaggi della sentenza, che sia pur incidentalmente, sembrano presentare nei termini in cui sono stati espressi, elementi di novità per l’ordinamento italiano. Inoltre l’articolo riserva talune considerazioni finali al sindacato di ragionevolezza operato dalla Consulta la quale, nella valutazione comparativa degli interessi costituzionalmente rilevanti, ha pretermesso di considerare l’interesse prioritario al pareggio di bilancio (art. 81 I co. Cost.). In due passaggi della sentenza, anche se non tra i profili apparentemente fondamentali, la Corte sembra introdurre un principio rivoluzionario per il sistema giuridico italiano: il principio secondo cui ogni legge che incida nega- (*) Avvocato del libero Foro, Ricercatore di Diritto Amministrativo presso l’Università degli Studi Guglielmo Marconi. Articolo editato in www.contabilità-pubblica.it - 16.05.2015. 108 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 tivamente nella sfera giuridica dei destinatari necessiti di una congrua ed adeguata motivazione in ordine alle specifiche ragioni della scelta normativa compiuta. Tale proposizione è chiarita dalla Corte nella parte della sentenza in cui statuisce che “la disposizione concernente l’azzeramento del meccanismo perequativo, contenuta nel comma 24 dell’art. 25 del d.l. 201 del 2011, come convertito, si limita a richiamare genericamente la “contingente situazione finanziaria”, senza che emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi” (1). Inoltre, sottolinea la Consulta, come l’interesse dei pensionati ed in particolare di quelli titolari di trattamenti previdenziali modesti, sia finalizzato alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui coerentemente discende il diritto ad una prestazione previdenziale adeguata. Aggiunge, infine, che “tale diritto, costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio”. Tali brevi ma significative statuizioni, pur rappresentando quasi un obiter nel contesto della pronuncia, hanno un fortissimo impatto sull’ordinamento italiano, sancendo, per la prima volta in modo così esplicito, la necessità di una congrua e pertinente motivazione dell’atto legislativo (2), ineludibile ai fini della valutazione comparativa degli interessi su cui è costruito il sindacato di legittimità costituzionale (3). Tale profilo innovativo si coglie agevolmente richiamando la distinzione, autorevolmente sostenuta in dottrina, tra ratio legis e motivazione. La prima si identifica negli interessi che l’atto intende regolare ed è ricavabile in ogni caso dal contesto normativo; la seconda, invece, va intesa quale esternazione (eventuale) dei motivi della legge (4); un (1) Inoltre, prosegue la sentenza, “anche in sede di conversione (legge 22 dicembre 2011, n. 214), non è dato riscontrare alcuna documentazione tecnica circa le attese maggiori entrate, come previsto dall’art. 17, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, recante «Legge di contabilità e finanza pubblica» (sentenza n. 26 del 2013, che interpreta il citato art. 17 quale «puntualizzazione tecnica» dell’art. 81 Cost.)”. (2) In dottrina si vedano, a titolo esemplificativo, i contributi di A. DE VALLES, La validità degli atti amministrativi, Roma, 1927, pp. 134 ss. V. CRISAFULLI, Sulla motivazione degli atti legislativi, in Riv. dir. pubbl., I, 1937, pp. 415-444, spec. p. 415: “Per motivazione può intendersi, tecnicamente, l'enunciazione, esplicita o implicita, contestuale o non, dei motivi che precedettero e determinarono l'emanazione di un atto giuridico, compiuta dallo stesso soggetto dal quale proviene l'atto motivato”. In tema più di recente S. BOCCALATTE, La motivazione della legge. Profili teorici e giurisprudenziali, Cedam, Padova, 2008, pp. 1 ss. M. PICCHI, L’obbligo di motivazione delle leggi, Giuffrè, Milano, 2011, pp. 1 ss. (3) F. MODUGNO, La ragionevolezza nella giustizia costituzionale, Editoriale scientifica, Napoli, 2007, p. 46: “Il giudizio costituzionale è istituzionalmente concepito come rivolto alla composizione della tensione tra legislazione e Costituzione, al fine di rendere la prima conforme o non incompatibile con la seconda, ossia le scelte, le discipline legislative non difformi, non contrastanti, ma conformi alle norme e ai principi costituzionali”. (4) M.S. GIANNINI, voce Motivazione dell’atto amministrativo, in Enc. dir., vol. XXVII, Milano, 1977, p. 258. CONTENZIOSO NAZIONALE 109 elemento considerato tradizionalmente non necessario ai fini della validità dell’atto legislativo. L’obbligo di motivazione, nei termini formulati dalla pronuncia, appare inedito nella giurisprudenza della Corte, pur inquadrandosi agevolmente nel trend evolutivo che ha caratterizzato la legge, e più in generale i pubblici poteri, nell’ordinamento italiano ed europeo. A partire dalla Rivoluzione francese la legge, espressione della volontà popolare, è stata ritenuta l’atto politico per eccellenza quale atto libero nel fine (atto cioè cui nessun fine è precluso) (5). In altri termini la legge si è identificata per molto tempo nella fonte posta al vertice dell’ordinamento, incarnando nel XIX e XX secolo l’egemonia della sovranità statale sulla produzione normativa (6); (c.d. onnipotenza legislativa frutto dell’esasperazione del positivismo giuridico). Un’egemonia che nell’esercizio della funzione di indirizzo politico l’atto legislativo ha esplicitato nella capacità di individuare da sé i fini pubblici da perseguire, senza limiti o forme di controllo, salvo vincoli autoimposti; per lungo tempo, infatti, la migliore dottrina ha ritenuto che il legislatore non fosse obbligato a motivare le proprie scelte a meno che non lo volesse (7). Nell’ordinamento italiano tale fenomeno ha caratterizzato il proscenio giuridico per tutta la vigenza dello Statuto albertino del 1848 (definito nel preambolo Legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile della Monarchia) (8); una Costituzione che, pur formalmente sovraordinata alla legge, in ragione della sua natura di Carta flessibile, poteva essere da una legge ordinaria modificata e derogata in ogni momento. L’avvento della Costituzione repubblicana del 1948, quale Costituzione rigida (9), ha progressivamente incrinato il consolidato assetto legicentrico del sistema giuridico italiano. Infatti la legge, sino a quel momento atto collocato al vertice dell’ordinamento, è stata imbrigliata in un sistema delle fonti (5) Sulla tradizionale concezione della legge quale atto libero nel fine, tra i tanti, in dottrina S. ROMANO - V. FEROCI, Principi generali del diritto e diritto costituzionale, Milano, 1928, pp. 1 ss. G. ZANOBINI, L’attività amministrativa e la legge, in Riv. dir. pubbl. 1924, ora in ID. (a cura di), Scritti vari di diritto pubblico, Giuffrè, Milano, 1955, pp. 205 ss. (6) P. GROSSI, Il costituzionalismo moderno fra mito e storia, in Giorn. st. cost., n. 11/2006, pp. 25 ss. (7) C.M. IIACCARINO, Studi sulla motivazione (con speciale riguardo agli atti amministrativi), Roma, 1933, pp. 49 ss. e 129 ss. G. LOMBARDI, voce Motivazione (Diritto costituzionale), in Noviss. Dig. it., vol. X, Torino, 1964, pp. 954 ss. (8) È convincimento diffuso che la denominazione Statuto, dovuta forse al suggerimento del segretario del re nobile Giovannetti sia stata accolta per evitare il temuto significato rivoluzionario dell’espressione Costituzione. Il termine che si collega alla tradizione legislativa riconducibile agli Statuti sabaudi (in proposito M. RUGGERO, L’eredità di Carlo Alberto, Milano, 1995, p. 295) ha avuto in seguito molta fortuna, venendo utilizzato anche in età Repubblicana per definire importanti settori dell’ordinamento italiano (Statuti regionali, Statuto dei lavoratori, Statuto del contribuente etc...). (9) Una Costituzione non più modificabile con semplice legge ordinaria bensì secondo una procedura aggravata descritta dall’art. 138 Cost. (E. CHELI, Lo Stato costituzionale. Radici e prospettive, Editoriale Scientifica, Napoli, 2006, pp. 24 ss.). 110 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 avente alla propria sommità la Carta costituzionale; quest’ultima prescrive principi da osservare e obiettivi da realizzare al legislatore (statale e regionale) nell’esercizio della funzione di indirizzo politico (10). Un duplice vincolo (positivo e negativo) viene, dunque, a gravare, sulla legge, la quale, da un lato, non deve porsi in contrasto con i principi, le regole ed i valori della Costituzione (11) e, dall’altro, è tenuta a dare attuazione ai criteri e alle direttive, specie nel caso di norme di scopo (contenute nella Costituzione stessa) impropriamente chiamate in modo tralaticio norme programmatiche (12). Per assicurare l’osservanza in concreto di tali precetti è stato istituito un apposito organo (la Consulta) cui è demandato, in via esclusiva, il compito di verificare la conformità delle leggi ai dicta e ai valori espressi dalla Costituzione (13). Evidentemente ciò non può che rappresentare il primo elemento tangibile tanto della dequotazione dello strumento legislativo quanto della progressiva trasformazione dei suoi caratteri tipici (14). Ad affievolire ulteriormente la centralità della legge nel sistema delle fonti hanno contribuito le Comunità europee prima e l’Unione europea poi (15). Del resto, le norme dell’ordinamento sovranazionale primeggiano in un sistema delle fonti policentrico e multilivello, adagiandosi su un piano gerarchicamente sovraordinato tanto alla Costituzione quanto alla legge nazionale (statale e regionale); in particolare l’atto legislativo è tenuto ad uniformarsi, a pena di illegittimità, a tutte le norme europee, scritte e non (16). Tale vincolo che sin dal ’48 rinviene il proprio fondamento nell’art. 11 Cost., sulle limitazioni di sovranità dello Stato in favore delle organizzazioni internazionali ivi previste cui esso partecipa (17), è oggi espressamente positi- (10) Sulla funzione di indirizzo politico si rinvia, senza pretese di completezza, agli studi di E. CHELI, Atto politico e funzione d’indirizzo politico, Giuffrè, Milano, 1961, pp. 1 ss. T. MARTINES, voce Indirizzo politico, in Enc. dir., vol. XXI, Milano, 1971, pp. 134 ss. M. DOGLIANI, voce Indirizzo politico, in Dig. disc. pubbl., vol. VIII, Torino, 1993, pp. 244 ss. (11) F. MODUGNO, L’invalidità della legge. Teoria dell’atto legislativo e oggetto del giudizio costituzionale, vol. II, Giuffrè, Milano, 1970, pp. 335 ss. (12) V. CRISAFULLI, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Giuffrè, Milano, 1952, pp. 36 e 48. (13) Più in generale sul fenomeno dell’interpretazione costituzionalmente orientata della legge M. RUOTOLO, Interpretare: nel segno della Costituzione, Editoriale Scientifica, Napoli, 2014. (14) Per un’analisi più generale della crisi dello strumento legislativo U. VINCENTI (cura di), Inchiesta sulla legge nell’Occidente giuridico, Giappichelli, Torino, 2005, spec. p. 7. (15) Sul depotenziamento della legge statale si rinvia a G. PEPE, Principi generali dell’ordinamento comunitario e attività amministrativa, Roma, 2012, pp. 26-34. Con riferimento alla necessità di un’interpretazione comunitariamente orientata delle leggi nazionali G. PISTORIO, Interpretazione e giudici. Il caso dell’interpretazione conforme al diritto dell’Unione europea, Editoriale Scientifica, Napoli, 2012, spec. pp. 111 ss. (16) C. PAGOTTO, La disapplicazione della legge, Giuffrè, Milano, 2008, p. 342: “Deve parimenti giungersi alla necessaria conclusione che la legge dello Stato è ad oggi sottoposta ad una molteplicità di influssi che tendono ad orientarne gli effetti sotto forma di apertura ad un maggior numero di parametri di legittimità ed in deroga al modello tradizionale nel quale solo gli autovincoli legislativi possono incidere in modo concreto sulla libertà del legislatore”. In tema di autovincoli legislativi A. PACE, Potere costituente, rigidità costituzionale, autovincoli legislativi, II ed. riv. e ampl., Cedam, Padova, 2002. CONTENZIOSO NAZIONALE 111 vizzato dall’art. 117 I co. novellato (18). Ai sensi di tale disposizione “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”. Conseguentemente nell’attuale sistema delle fonti, la legge viene ad essere progressivamente conformata (e limitata) tanto in ambito nazionale quanto in sede sovranazionale, dovendo rispettare vincoli e prescrizioni in passato sconosciuti. Alla luce del quadro ordinamentale vigente la legge, allora, non può più essere qualificata atto libero nel fine insindacabile e non motivabile (19). Del resto, l’atto legislativo soggiace all’osservanza di fonti gerarchicamente superiori nei cui riguardi è tenuto sia ad evitare azioni di effrazione sia a porre in essere azioni di implementazione ed attuazione dei fini generali in esse consacrati. Ne discende come la mancata osservanza degli obblighi gravanti sulla legge venga esplicitamente sanzionata, da un lato, con il sindacato della Consulta che può dichiarare l’illegittimità di una disposizione di legge lesiva della Costituzione, espungendola dall’ordinamento; dall’altro con l’obbligo di disapplicazione gravante sui giudici italiani ma anche sulle Pubbliche Amministrazioni domestiche avente ad oggetto le leggi nazionali in contrasto con le regole ed i principi europei (20). Tali fenomeni hanno rivestito un ruolo decisivo nella trasformazione, non sempre adeguatamente percepita, della legge da atto cui nessun fine è precluso (libero cioè nel fine) in atto i cui fini sono conformati ed imposti da fonti superiori (la Costituzione e le norme europee); la legge si è, conseguentemente, trasformata in un atto discrezionale, sia pure espressione di un’ampia discrezionalità qual è la discrezionalità politica. (17) Ai sensi dell’art. 11 Cost. “l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. In particolare con l’evoluzione delle Comunità europee nell’Unione europea l’Italia ha ceduto ulteriori porzioni della propria sovranità specie in ambito economico, finanziario e monetario. Infatti gravano sul nostro ordinamento vincoli di bilancio assai stringenti che impongono, tra le altre cose, l’adozione di piani di rientro del debito (M. STIPO, Una lettera “anomala” (la lettera Trichet-Draghi indirizzata al Primo Ministro italiano - Frankfurt/Rome, 5 August 2011), in Studi in onore di Claudio Rossano, vol. IV, Jovene, Napoli, 2013, pp. 2391 ss.). (18) Articolo modificato dalla l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3 (modifiche al titolo V parte seconda della Costituzione, in Gazz. uff. n. 248 del 24 ottobre 2001). In dottrina sul superamento della tradizionale concezione della legge quale atto libero nel fine a seguito della novella costituzionale N. LUPO, La motivazione delle leggi alla luce del nuovo titolo V Cost., in www.consiglio.regione.toscana.it, 2002, pp. 9 ss. B.G. MATTARELLA, voce Motivazione (Dir. com.), in Diz. dir. pubbl., vol. IV, a cura di S. CASSESE, Giuffrè, Milano, 2006, p. 3749. (19) Tuttavia una parte della dottrina continua ad escludere un obbligo generale di motivazione delle leggi anche dopo l’avvento della Costituzione e dell’ordinamento europeo in ragione della loro giustificazione democratica assicurata dalla pubblicità del procedimento legislativo e dal controllo diffuso dei cittadini (G. SCACCIA, Motivi della legge e valori preparatori nel giudizio costituzionale, in It. legis. n. 3/1998, pp. 15 ss. M. PICCHI, L’obbligo di motivazione delle leggi, op. cit., pp. 3-4.) (20) G. PEPE, Principi generali dell’ordinamento comunitario e attività amministrativa, op. cit., pp. 130 ss. 112 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 Il discrimen tra libertà e discrezionalità di un atto o di un’attività ha ricadute applicative rilevantissime, condizionando fortemente il modus operandi del soggetto o dell’organo chiamati ad agire. La nozione giuridica di libertà, applicata all’atto legislativo, implica il potere di individuazione dei fini da perseguire, con le modalità ed i mezzi ritenuti più opportuni, senza preclusione alcuna; inoltre essa postula l’assenza di organi e forme di controllo che verifichino la conformità dell’attività posta in essere a parametri di ordine superiore. Diversamente la nozione giuridica di discrezionalità (21) si esplica in un’attività di implementazione e di scelta sulla base e nei limiti di quanto statuito da una fonte normativa attributiva o comunque regolativa del potere. La discrezionalità politica, pur con i suoi caratteri peculiari, è pur sempre una species del più ampio genus della discrezionalità, mutuando da questa taluni elementi comuni. Del resto, la discrezionalità è una categoria di teoria generale (22) di cui costituiscono specificazioni la discrezionalità politico-legislativa, la discrezionalità amministrativa (23) e la discrezionalità giurisdizionale, ciascuna con i propri elementi tipici. Coerentemente la legge, lungi dall’essere qualificata oggi quale atto libero nel fine, deve viceversa considerarsi un atto discrezionale (24), sia pure particolare, ma comunque attratto nell’orbita del regime giuridico e dei limiti tipici di una funzione connotata da discrezionalità. La categoria generale della discrezionalità, in particolare, si ricollega indissolubilmente al concetto di potestà, quale situazione giuridica soggettiva mista attraverso cui si svolge una data funzione pubblica (c.d. munus) teleologicamente orientata alla cura di interessi pubblici (25), ossia di interessi non propri del soggetto agente ma ad esso alieni. La potestà si articola al proprio interno in un forza attiva (potere) cui necessariamente si affianca un quid di doverosità. Del resto, come autorevolmente sostenuto “nella potestà si riscon- (21) Sulle differenze tra arbitrio e discrezionalità N. TOMMASEO, Dizionario dei sinonimi della lingua italiana, VII ed., Milano, 1884, p. 493: “Nell’arbitrio c’è esercizio assoluto della volontà buona o cattiva ch’ella sia; nella discrezione tale esercizio è regolato da conoscenza e da giudizio”. (22) F. CORDERO, Le situazioni soggettive nel processo penale: studi sulle dottrine generali del processo penale, Giappichelli, Torino, 1956, pp. 161 ss. (23) In dottrina, tra i contributi più significativi, M.S. GIANNINI, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione. Concetto e problemi, Milano, 1939, spec. pp. 78 ss. A. PIRAS, voce Discrezionalità amministrativa, in Enc. dir., vol. XIII, Milano, 1964, pp. 65 ss. C. MORTATI, voce Discrezionalità, in Noviss. dig. it., vol. V, Torino, 1964, pp. 1098 ss. L. BENVENUTI, La discrezionalità amministrativa, Cedam, Padova, 1986, pp. 1 ss. G. AZZARITI, Dalla discrezionalità al potere, Cedam, Padova, 1989, spec. pp. 317 ss. (24) Contra G. SCACCIA, Gli strumenti della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, Giuffrè, Milano, 2000, pp. 175 ss. R. DICKMANN, Procedimento legislativo e coordinamento delle fonti, Cedam, Padova, 1997, pp. 385 ss., il quale nega la possibilità di configurare il vizio di eccesso di potere, sul postulato della natura libera e non già discrezionale della funzione legislativa. (25) F. MODUGNO, voce Funzione, in Enc. dir., vol. VIII, Milano, 1969, pp. 301 ss. CONTENZIOSO NAZIONALE 113 tra a fondamento dell’attribuzione dei poteri il dovere di esercitarli nell’interesse altrui” (26). Ciò significa che nell’esercizio di ciascuna potestà pubblica è indefettibilmente incluso un elemento di doverosità (27), che tuttavia non esaurisce il contenuto della funzione, affiancandosi ad esso una forza attiva intesa quale potere di scelta discrezionale. L’indissolubile collegamento tra potestà e funzione fa sì che la nozione giuridica di funzione si traduca, inoltre, in un comportamento giuridicamente doveroso, comportamento viceversa non configurabile nelle attività e negli atti liberi nel fine. A ciò si affianca l’esercizio di un potere discrezionale esplicantesi in una valutazione comparativa dei vari interessi in rilievo; valutazione all’esito della quale si realizza l’opzione tra più soluzioni tutte legittime, ragionevoli e plausibili; tale potere assume massima latitudine proprio nella discrezionalità politico-legislativa, rinvenendo, tuttavia, limiti e vincoli conformativi in fonti di rango superiore quali la Costituzione e le norme europee (28). Venendo all’esame della giurisprudenza costituzionale, la prima pronuncia della Corte, volta ad effettuare un controllo sulla discrezionalità politica del legislatore è la sentenza 22 gennaio 1957, n. 29 che si fonda sulla ricerca della ratio dell’atto legislativo nella verifica di conformità ai principi costituzionali (29). Come detto, l’applicazione alla discrezionalità politico-legislativa e all’atto di essa espressivo del regime generale della discrezionalità postula, inevitabilmente, un imprescindibile obbligo di motivazione o comunque di giustificazione delle scelte compiute; un obbligo di motivazione che tende progressivamente a generalizzarsi sino a definirsi in termini di congruità e adeguatezza nella pronuncia in commento. Tale evoluzione in ordine al contenuto dell’atto legislativo è certamente favorita dagli studi sulla motivazione degli atti amministrativi (30), giurisdizionali (31) ed europei. (26) M. STIPO, L’interesse legittimo nella prospettiva storica, Atti dei convegni per le celebrazioni dell’opera Giustizia amministrativa (1903) del Prof. Cino Vitta, 21 novembre 2003 e 16 luglio 2004, Consiglio di Stato, in Studi per il centenario della Giustizia amministrativa (1903) di Cino Vitta, a cura di M. STIPO, Tiellemedia, Roma, 2006, p. 107. (27) S. PUGLIATTI, Esecuzione forzata e diritto sostanziale, Milano, 1935, pp. 24 ss. Il concetto viene successivamente ripreso e chiarito da A. PIRAS, Interesse legittimo e giudizio amministrativo, Milano, 1962, vol. I, pp. 56 ss., vol. II, p. 53 ss, pp. 69 ss. e pp. 283 ss. F. BENVENUTI, Eccesso di potere per vizio della funzione, in Rass. dir. pubbl. 1950, pp. 1 ss. (28) Sui principi generali europei quali parametri della legittimità dei pubblici poteri nazionali G. PEPE, Principi generali dell’ordinamento comunitario e attività amministrativa, op. cit., spec. pp. 33, 51, 72 e 243. (29) Per maggiori approfondimenti su veda M. PICCHI, L’obbligo di motivazione delle leggi, op. cit., pp. 21 ss. (30) Sulla motivazione degli atti e dei provvedimenti amministrativi, senza pretese di esaustività, si vedano i contributi di A. QUARTAPELLE, La motivazione degli atti amministrativi, Roma, 1940, pp. 1 ss. G. FAZIO, Sindacabilità e motivazione degli atti amministrativi discrezionali, Giuffrè, Milano, 1965, 114 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 Con riferimento alla discrezionalità amministrativa l’obbligo di motivazione è formalmente previsto in via generale (e salvo talune eccezioni (32)) dall’art. 3 I co. l. 241/90 secondo cui “ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l’organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve essere motivato (…) La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”. Tuttavia, ancor prima dell’entrata in vigore della l. 241/90, la giurisprudenza amministrativa imponeva l’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi negativamente incidenti sulla sfera giuridica degli amministrati (33) e, segnatamente, in ciascun atto che comportasse una valutazione comparativa di interessi in conflitto (34). Per quanto concerne, poi, gli atti adottati dal potere giudiziario l’art. 111 co. VI Cost. significativamente statuisce che tutti i provvedimenti giurisdizionali debbano essere motivati. La motivazione si configura anche in questo caso quale strumento di controllo circa il corretto e legittimo esercizio della funzione discrezionale (specie giudiziaria). pp. 1 ss. L. VANDELLI, Osservazioni sull’obbligo di motivazione degli atti amministrativi, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1972, pp. 1595 ss. G. BERGONZINI, La motivazione degli atti amministrativi, Vicenza, 1979, pp. 1 ss. A. ROMANO TASSONE, Motivazione dei provvedimenti amministrativi e sindacato di legittimità, Giuffrè, Milano, 1987, pp. 1 ss. R. SCARCIGLIA, La motivazione dell’atto amministrativo. Profili ricostruttivi e analisi comparatistica, Giuffrè, Milano, 1999, passim. G. CORSO, voce Motivazione dell’atto amministrativo, in Enc. dir., vol. V, Agg. Milano, 2001, pp. 774 ss. (31) Con riferimento alla motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, a titolo esemplificativo, si vedano i contributi P.S. SAMPERI, Motivazione delle sentenze, Roma, 1937, pp. 1 ss. M. TARUFFO, La motivazione della sentenza civile, Cedam, Padova, 1974, pp. 1 ss. E. AMODIO, voce Motivazione della sentenza penale, in Enc. dir., vol. XXVII, Milano, 1977, pp. 181 ss. S. EVANGELISTA, voce Motivazione della sentenza civile, in Enc. dir., vol. XXVII, Milano, 1977, pp. 154-180. B. PELLINGRA, La motivazione della sentenza penale, Giuffrè, Milano, 1985, pp. 1 ss. E. FAZZALARI, voce Sentenza civile, in Enc. dir., vol. XLI, Milano, 1989, pp. 1245 ss. F. SANTANGELI, L’interpretazione della sentenza civile, Milano, 1996, spec. pp. 50 ss. (32) Ai sensi dell’art. 3 II co. l. 241/90 “la motivazione non è richiesta per gli atti normativi e per quelli a contenuto generale”. (33) Per i provvedimenti amministrativi adottati in carenza di motivazione e caducati in sede giurisdizionale è consentito alla Pubblica Amministrazione, in sede di riesercizio del potere, di adottare, ora per allora, un nuovo provvedimento perfettamente motivato. Ciò, risulta, viceversa, inammissibile per gli atti legislativi, in quanto è preclusa al legislatore la possibilità di intervenire ex post, con efficacia retroattiva, su una precedente legge, censurata per illegittimità costituzionale, al fine di aggiungere od integrare la motivazione del precedente atto. Il potere legislativo deve, dunque, considerarsi consumato ed in ogni caso non può essere esercitato in elusione del dictum della Consulta. (34) Prima degli anni ’90 del XX sec. la giurisprudenza aveva imposto la motivazione degli atti amministrativi restrittivi della sfera giuridica del destinatario, nella prospettiva della loro sindacabilità in sede giurisdizionale. Inoltre l ’obbligo di motivazione veniva, tradizionalmente, ricavato dal principio di imparzialità di cui all’art. 97 II co. Cost. In passato l’assenza di motivazione avrebbe rappresentato una figura sintomatica di eccesso di potere. (M.S. GIANNINI, voce Motivazione dell’atto amministrativo, in Enc. dir., vol. XXVII, op. cit., pp. 258 ss.). Viceversa con l’entrata in vigore dell’art. 2 l. 241/90 la carenza di motivazione integra il diverso vizio di violazione di legge. CONTENZIOSO NAZIONALE 115 L’obbligo di motivazione è altresì, espressamente previsto, in relazione agli atti normativi, dai Trattati europei ed in special modo dal Trattato di Lisbona che all’art. 296 TFUE (già art. 253 TCE) prevede che “gli atti giuridici sono motivati e fanno riferimento alle proposte, iniziative, raccomandazioni, richieste o pareri previsti dai Trattati”; da tale disposizione si evince come regolamenti, direttive e decisioni necessitino della motivazione come requisito essenziale ai fini del perfezionamento e della legittimità dell’atto (35); dunque per ogni atto normativo europeo occorre sempre l’indicazione della base giuridica di riferimento in omaggio al principio delle competenze di attribuzione. Diversamente nell’ordinamento italiano non si rintraccia alcuna norma di diritto positivo (36) né di rango ordinario né di rango costituzionale che espressamente prescriva un generale obbligo di motivazione per gli atti legislativi (37). (Un implicito obbligo di motivazione potrebbe riconoscersi eccezionalmente nelle ipotesi di decreti legge e leggi-provvedimento) (38). Ciononostante la problematica de qua deve essere osservata dal prisma di un esame integrato e contestuale delle norme costituzionali ed europee, in ragione, altresì, dell’evoluzione dei pubblici poteri e, segnatamente, del potere legislativo. Dal mutato contesto di riferimento in cui la legge attualmente si colloca quale atto di discrezionalità politica, può implicitamente ricavarsi un obbligo di motivazione, dalla portata ormai sempre più generalizzata. E di tutto ciò sembra rinvenirsi conferma nella sentenza in commento. A ben vedere la Corte costituzionale ha ritenuto in passato come la Costituzione non imponesse ma al tempo stesso nemmeno vietasse la motiva- (35) S. BOCCALATTE, La motivazione della legge. Profili teorici e giurisprudenziali, op. cit., pp. 267 ss. G. TESAURO, Diritto dell’Unione europea, VII ed., Cedam, Padova, 2012, pp. 152 ss. (36) Tale circostanza viene tradizionalmente evidenziata in dottrina da C.M. IACCARINO, Studi sulla motivazione (con speciale riguardo agli atti amministrativi), op. cit., pp. 129-130. V. CRISAFULLI, Sulla motivazione degli atti legislativi, in Riv. dir. pubbl., op. cit., p. 425. M.S. GIANNINI, voce Motivazione dell’atto amministrativo, in Enc. dir., vol. XXVII, op. cit., pp. 258 ss. L’Autore sottolinea come, a differenza dell’ordinamento italiano, nell’ordinamento francese sia invalsa la prassi di motivare gli atti legislativi, pur in assenza di un obbligo positivamente sancito. (37) Sulla configurabilità di un obbligo implicito di motivazione delle leggi, tra i tanti, in dottrina M. CARLI, Motivare le leggi: perché no?, in Poteri, garanzie, diritti a Sessanta anni dalla Costituzione. Scritti per Giovanni Grottanelli de’ Santi, a cura di A. PISANESCHI, L. VIOLINI, vol. I, Giuffrè, Milano, 2007, pp. 255-266. M. PICCHI, L’obbligo di motivazione delle leggi, op. cit., passim, spec. p. 251: “La motivazione costituisce (…) una componente sostanziale dell’atto legislativo; diviene, cioè, lo strumento in grado di confermare e valorizzare la prevalenza della legittimazione costituzionale, soddisfacendo ad un tempo anche la necessità di evidenziare la funzionalità oggettiva della scelta compiuta, agevolandone il recepimento da parte della comunità e, in ultima analisi, la sua effettività”. (38) C. MORTATI, Le leggi provvedimento, Giuffrè, Milano, 1968, pp. 134 ss. e 244 ss. A. BARBERA, Leggi di piano e sistema delle fonti, Giuffrè, Milano, 1968, pp. 79 ss. V. ITALIA, La deroga nel diritto pubblico, Giuffrè, Milano, 1977, pp. 123 ss.. R. BIN, Atti normativi e norme programmatiche, Giuffrè, Milano, 1988, pp. 310 ss. P. CARETTI, voce Motivazione (diritto costituzionale), in Enc giur. Treccani, vol. XX, Roma, 1990, pp. 1-6. F. SORRENTINO, Lezioni sul principio di legalità, Giappichelli, Torino, 2007, pp. 33 ss. 116 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 zione delle leggi (39), rimettendo quindi la scelta circa l’esplicitazione delle ragioni dell’atto alla volontà del legislatore. A partire dalla sentenza 24 febbraio 1964, n. 14, tuttavia, la Consulta, pur non imponendo alcun obbligo motivazionale al legislatore (40), si è orientata alla ricerca di una qualche motivazione dell’atto legislativo, tentando di ricostruirne le ragioni attraverso un sindacato esterno circa la palese arbitrarietà o manifesta irragionevolezza della legge (41); ciò denota quindi il primo tentativo latente di conferire implicita rilevanza alla motivazione nel bilanciamento degli interessi in rilievo ai fini del giudizio di legittimità costituzionale. Le successive pronunce della Consulta tra cui le sentenze 4-11 luglio 1989, n. 390 e 6 dicembre 2004, n. 379 sembrano collocarsi nel sentiero tracciato dalla sentenza del 1964, in quanto la Corte ha accentuato progressivamente il rilievo della motivazione della legge nel quadro del sindacato di costituzionalità. In special modo la pronuncia n. 379 del 2004, riallacciandosi all’art. 3 II co. l. 241/90 sulla motivazione degli atti amministrativi, ha evidenziato come nell’ordinamento europeo la motivazione degli atti normativi rappresenti una regola di ordine generale (42). Tuttavia sino alla sentenza che si annota la Consulta non si è mai spinta ad affermare in modo così esplicito e categorico la necessità di una congrua e pertinente motivazione della legge, specie se idonea ad incidere in modo afflittivo nella sfera giuridica dei destinatari. Il principio affermato assume, pertanto, un ruolo fortemente innovativo poiché rivela nell’ambito del sindacato di costituzionalità l’esigenza di una motivazione, puntuale e circostanziata, ai fini del bilanciamento degli interessi in conflitto; inoltre l’obbligo motivazionale, così come affermato dalla Consulta, rappresenta l’ennesima prova dell’irreversibile trasformazione della legge in un atto di discrezionalità politica, (39) G. SCACCIA, Gli strumenti della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, op. cit., p. 122, il quale afferma l’insussistenza di un obbligo generale di motivazione della legge in ragione del silenzio serbato in proposito dalla Costituzione. (40) Puntualizza la sentenza: “di norma non è necessario che l’atto legislativo sia motivato, recando la legge in sé, nel sistema che costituisce, nel contenuto e nei caratteri dei suoi comandi, la giustificazione e le ragioni della propria apparizione nel mondo del diritto”. In tale pronuncia la Corte ha fatto attenzione a non sovrapporre la motivazione o giustificazione della legge al movente politico. Per un commento a tale pronuncia M. PICCHI, L’obbligo di motivazione delle leggi, op. cit., pp. 27-28: “Secondo la Corte costituzionale, perciò, non sarebbe necessario dare una veste specifica alla motivazione, ma deve pur sempre essere possibile ricostruire le ragioni della scelta: devono sussistere gli elementi necessari e sufficienti per poter verificare l’adeguatezza della decisione assunta mettendo in relazione la finalità perseguita col criterio di ragionevolezza e i parametri costituzionali”. (41) F. MODUGNO, La ragionevolezza nella giustizia costituzionale, op. cit., p. 10: “È fin troppo noto che la forma argomentativa della ragionevolezza sorge nell’ambito del giudizio sull’uguaglianza delle leggi. Il controllo di uguaglianza (fuori dalle ipotesi di vera e propria discriminazione) è comunemente considerato il livello minimale del sindacato di ragionevolezza”. (42) C. PINELLI, Recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di qualificazione di “atti con forza di legge”, in La Corte costituzionale vent'anni dopo la svolta, Atti seminario Stresa, 12 novembre 2010, a cura di R. BALDUZZI, M. CAVINO, J. LUTHER, Giappichelli, Torino, 2011, pp. 305-315. CONTENZIOSO NAZIONALE 117 da motivarsi necessariamente ove negativamente incidente su talune categorie di cittadini (e non sulla platea di tutti i consociati) (43). Tra le righe della pronuncia della Consulta può evincersi come l’esercizio della funzione legislativa sia comunque espressione di una funzione discrezionale (politica), che sia pur ampia, va progressivamente conformandosi con l’imposizione di limiti, vincoli e direttive programmatiche, alla stregua di quanto accade per ogni potestà discrezionale. Del resto l’esercizio di qualsivoglia forma di discrezionalità postula necessariamente l’assolvimento di un obbligo, più o meno intenso, di motivazione che, giustificando la scelta compiuta, assicuri la legittimità della funzione esercitata. La Corte, tuttavia, non si limita nel caso di specie a prescrivere una motivazione purchessia, generica o meramente apparente, bensì richiede una motivazione particolareggiata che illustri in dettaglio le ragioni economico-finanziarie tali da giustificare un intervento restrittivo su alcune categorie di pensionati. In tale prospettiva la motivazione sembrerebbe divenire un requisito necessario dell’atto legislativo, traducendosi in elemento imprescindibile per il corretto bilanciamento degli interessi in rilievo (Rangordnung der interessen) che la Corte è chiamata ad operare (44). Il quesito cui occorre fornire soluzione concerne le ricadute applicative di una legge che non motivi adeguatamente la compressione della sfera giuridica dei destinatari incisi dall’intervento normativo. Nella vicenda de qua dall’accoglimento di uno dei motivi di ricorso, è possibile evincere l’invalidità costituzionale della legge Fornero per irragionevolezza dovuta ad un eccesso di potere; in altri termini il cattivo esercizio della funzione discrezionale legislativa, determinato altresì dall’assenza di un’adeguata motivazione della legge, comporterebbe la declaratoria di illegittimità di quest’ultima. Ictu oculi emergono chiari profili di novità. Del resto, mentre in origine il giudice delle leggi era solito limitarsi ad un sindacato di ragionevolezza dell’atto legislativo (45), essenzialmente fondato sulla violazione del principio di uguaglianza, progressivamente la Consulta si è andata sganciando da que- (43) La pronuncia della Corte costituzionale in commento sancisce il de profundis della concezione della legge quale atto libero nel fine espressivo della volontà popolare; una tesi pervicacemente viva anche dopo l’avvento della Costituzione e dell’ordinamento europeo tanto in dottrina quanto in giurisprudenza. (44) Più in generale sul bilanciamento tra diritti, interessi, principi e valori nel giudizio di costituzionalità della legge N. BOBBIO, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1990, pp. 9 ss. A. BALDASSARE, Fonti normative, legalità e legittimità: l’unità della ragionevolezza, in Queste istituzioni, 1991, p. 64. R. BIN, Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Giuffrè, Milano, 1992, passim. F. MODUGNO, La ragionevolezza nella giustizia costituzionale, op. cit., pp. 33 ss. G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite: legge, diritti, giustizia, Einaudi, Torino, 2013, p. 13 ss. (45) A. MOSCARINI, Ratio legis e valutazioni di ragionevolezza della legge, Giappichelli, Torino, 1996, pp. 1 ss.. G. SCACCIA, Gli strumenti della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, op. cit., passim. 118 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 sto collegamento necessario, rafforzando con la pronuncia in commento tale ultima posizione. In ogni caso la Corte costituzionale ha sempre rifiutato (come d’altronde anche nel caso di specie) l’uso della locuzione tecnica eccesso di potere legislativo (46) per non dare l’impressione di estendere il proprio sindacato al merito delle scelte politiche riservato al legislatore, circoscrivendo ogni verifica ai profili di esclusiva legittimità. Ciò in ossequio alla disposizione dell’art. 28 l. 11 marzo 1953, n. 87 ai sensi della quale “il controllo di legittimità della Corte costituzionale su una legge o un atto avente forza di legge esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull'uso del potere discrezionale del Parlamento”. Tale ultimo inciso che vieterebbe il sindacato della Consulta sull’esercizio della funzione discrezionale legislativa è stato ritenuto infelicissimo da autorevole dottrina, la quale sottolinea l’uso in senso atecnico della nozione di discrezionalità in luogo della più appropriata nozione di merito (47). Ciononostante la Corte costituzionale, rompendo talora gli argini di un controllo di pura e semplice legittimità, (pur senza mai confessarlo), ha frequentemente reso sempre più penetrante il proprio controllo di conformità a Costituzione della legge, senza tuttavia spingersi ad enunciare un obbligo di motivazione puntuale ed adeguato. Viceversa nella sentenza che si annota il giudice delle leggi sembra voler imporre l’idea di una nozione di legge giusta, una legge, cioè, conformata e funzionalizzata dai principi, dalle regole e dai valori della Carta costituzionale. D’altronde nel sistema dei pubblici poteri l’obbligo di motivazione ha sempre più una portata generalizzata che lo rende estensivamente applicabile a qualsivoglia atto espressione di autorità idoneo a restringere la sfera dei rispettivi destinatari. Come autorevolmente sostenuto in dottrina “lo Stato di diritto, insomma, si configura come uno Stato che si giustifica” (Rechtsstaat als rechtfertigender Staat) nell’esercizio delle sue funzioni (48). Inoltre l’applicazione dell’obbligo motivazionale agli atti dell’Unione europea, atti al vertice del sistema delle fonti, rappresenta un argomento ad adiuvandum per estendere siffatto obbligo anche alle leggi nazionali, sempre più conformate dai vincoli sia costituzionali sia europei. A ciò si aggiunga come l’esigenza di una motivazione esprima la definitiva evoluzione del baricentro (46) In tema C. MORTATI, Sull’eccesso di potere legislativo, in Giur. it., I, 1949, pp. 457 ss. L. PALADIN, Osservazioni sulla discrezionalità e sull’eccesso di potere del legislatore ordinario, in Riv. trim. dir. pubbl. 1956, pp. 993 ss. V. CRISAFULLI, Appunti di diritto costituzionale. La Corte costituzionale, Lezioni raccolte da Modugno, Cerri, Baldassarre, Bulzoni, Roma, 1967, pp. 108-109. C. PAGOTTO, La disapplicazione della legge, op. cit., pp. 42 ss. M. PICCHI, L’obbligo di motivazione delle leggi, op. cit., pp. 147 ss. (47) In dottrina V. CRISAFULLI, Appunti di diritto costituzionale. La Corte costituzionale, Lezioni raccolte da Modugno, Cerri, Baldassarre, op. cit., pp. 108-109. Secondo l’Autore il legislatore parla atecnicamente di discrezionalità laddove vuole dire merito, come invece sarebbe più proprio. (48) J. BRÜGGEMAN, Die richterliche Begründungspflicht, Berlín, 1971, p. 161. CONTENZIOSO NAZIONALE 119 dell’azione pubblica dal polo dell’autorità verso il polo delle libertà dei privati, i quali in ogni momento devono essere in grado di conoscere e di apprezzare le ragioni delle decisioni pubbliche siano essi provvedimenti giurisdizionali, amministrativi o politico-legislativi. Ciò si riallaccia, del resto, ad esigenze di pienezza ed effettività della tutela dei destinatari delle scelte pubbliche. Un altro interrogativo che occorre porsi è ove debba ricavarsi la motivazione della legge. Certamente non dai lavori preparatori (a differenza di quanto affermava in passato la scuola dell’esegesi francese), poiché le norme dell’atto legislativo, una volta che questo è promulgato ed entrato in vigore, vivono di vita propria cioè si oggettivizzano, inserendosi in un sistema che si evolve e, quindi, contrariamente all’atto che si esaurisce nel porre le norme stesse, si separano dalle loro fonti, prescindendo dalla voluntas dei propri autori (49). Anche perché nella volontà degli atti delle pubbliche autorità, secondo l’insegnamento della migliore dottrina, non devono rinvenirsi sfondi meramente psicologici ma tale volontà va considerata come una ipostasi (50). La motivazione deve evincersi chiaramente all’interno della legge medesima o dal complesso dell’articolato normativo o da singole sue parti come, ad esempio, dalle premesse al dispositivo (51). In base all’odierna pronuncia della Corte un’implicita o generica motivazione non risulta più idonea a preservare la legge da censure di legittimità costituzionale ove l’atto legislativo incida negativamente, con restrizioni, nella sfera giuridica dei destinatari; ne discende allora l’obbligo per il legislatore di esplicitare in maniera razionalmente congrua e pertinente le opzioni politiche compiute, facendole emergere espressamente dal contesto dell’atto compiuto. Diversamente, nell’ottica di un giudizio fondato sul pervasivo canone della ragionevolezza, l’atto legislativo esprimerà un qualcosa di analogo ad una tradizionale figura sintomatica di eccesso di potere, alle volte sulla falsariga di quanto avviene per gli atti amministrativi (52). L’irragionevolezza e l’irrazio- (49) Per descrivere la relazione che intercorre tra la legge ed i lavori preparatori si può ricorrere alla metafora del frutto separato dall’albero. In se stessa la legge deve rinvenire tutti gli elementi utili al suo perfezionamento ed alla sua validità, indipendentemente dai lavori preparatori. (V. CRISAFULLI, voce Atto normativo, in Enc. dir., vol. IV, Milano, 1959, p. 258. ID., Sulla motivazione degli atti legislativi, in Riv. dir. pubbl., op. cit., pp. 432 ss.). (50) M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, III ed., Giuffrè, Milano, 1993, p. 550. (51) Leggi italiane presentano, frequentemente, una giustificazione, vaga e generica, nel preambolo dell’atto legislativo. (52) V. CRISAFULLI, Appunti di diritto costituzionale. La Corte costituzionale, Lezioni raccolte da Modugno, Cerri, Baldassarre, op. cit., pp. 111-112. L’Autore opera una distinzione tra l’eccesso di potere legislativo in senso lato e l’eccesso di potere legislativo in senso stretto. Nel primo caso “etichettiamo come eccesso di potere tutte quelle ipotesi in cui il parametro alla stregua del quale va condotto il controllo di costituzionalità di una legge o di norme di legge è di carattere complesso, perché risulta bensì da norme deducibili dal testo della Costituzione o di altre leggi formalmente costituzionali” o da altre norme o criteri comunque “richiamati dalle norme formalmente costituzionali come condizioni di validità della legge in determinate materie”. Diversamente nel secondo caso “il vizio della legge si 120 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 nalità della legge determinano, coerentemente, la declaratoria di illegittimità costituzionale (53) e quindi la caducazione, normalmente ex tunc dell’atto legislativo per un profilo che attinge anche la motivazione. Il principio dell’obbligo di congrua motivazione pare, altresì, porsi quale monito per il legislatore che in futuro dovrà adeguarsi al dictum della Corte per scongiurare altrettante declaratorie di invalidità in casi simili. Dunque con la pronuncia in commento la Consulta ha intrapreso la strada di una tendenziale parificazione sotto il profilo dell’obbligo motivazionale degli atti legislativi nazionali agli atti normativi europei alla luce di un sistema integrato e multilivello delle fonti (54). Inquadrando l’obiter sull’obbligo di motivazione della legge nel più ampio contesto della sentenza è importante rilevare come la Corte, pur invocando più volte la violazione del principio di ragionevolezza, perpetrata dal blocco della indicizzazione delle pensioni, trascuri di considerare ed esplicitare nel proprio bilanciamento di interessi il principio del pareggio di bilancio introdotto dall’art. 81 I co. Cost. novellato (55). Tuttavia, in senso contrario potrebbe obiettarsi l’inapplicabilità della norma agli interventi previsti dalla c.d. legge Fornero del 2011 per gli anni 2012 e 2013, in ragione della decorrenza applicativa dell’art. 81 Cost. a partire dall’esercipuò configurare come eccesso di potere in senso stretto (…). Si pensi all’ipotesi in cui la motivazione di una legge (quando vi sia) appaia in contrasto con le disposizioni della stessa legge; oppure si consideri l’ipotesi in cui i titoli interni, nei quali si ripartisce la legge, o le rubriche siano in contrasto col contenuto normativo e le disposizioni dell’articolato”. In casi del genere ammettendo il sindacato di legittimità della Corte “non si tratta evidentemente di valutare la legge o la norma di legge rispetto al parametro costituzionale (…) ma sembra invece che si adombrino figure di eccesso di potere in senso stretto, paragonabili a quelle che nel diritto amministrativo vengono dette contraddittorietà del provvedimento e contrasto fra motivazione e dispositivo adottato”. (…) In questi casi non sussisterebbe violazione di nessun parametro costituzionale, ma vi sarebbe soltanto un vizio logico intrinseco della legge - che si potrebbe considerare come un vizio della volontà legislativa, in quanto esisterebbe un volere e disvolere nella stessa legge - il quale è molto simile alla figura dell’eccesso di potere nel diritto amministrativo”. (53) Sul giudizio di ragionevolezza delle leggi, tra i tanti, in dottrina, J. LUTHER, voce Ragionevolezza (delle leggi), in Dig. disc. pubbl., vol. XII, Torino, 1997, pp. 341 ss. L. PALADIN, voce Ragionevolezza (principio di), in Enc. dir., Agg., I, Milano, 1997, pp. 901 ss. A. MORRONE, Il custode della ragionevolezza, Giuffrè, Milano, 2001, pp. 275 ss. A. CERRI voce Ragionevolezza delle leggi, in Enc. giur. Treccani, vol. XXV, Roma, 2005, pp. 10 ss. G. SCACCIA, voce Ragionevolezza delle leggi, in Diz. dir. pubbl., vol. V, a cura di S. CASSESE, Giuffrè, Milano, 2006, pp. 4805 e ss. F. MODUGNO, La ragionevolezza nella giustizia costituzionale, op. cit., pp. 1 ss. (54) L’evoluzione prospettica della Corte, in favore del riconoscimento di un obbligo di adeguata motivazione per le leggi afflittive, sembra un fenomeno ormai irreversibile anche alla luce di un inevitabile processo di uniformazione con l’ordinamento europeo. (55) L. cost. 20 aprile 2012, n. 1 rubricata: “Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale”, le cui disposizioni si applicano a decorrere dall'esercizio finanziario relativo all'anno 2014. L’art. 81 I co. Cost. richiama, poi, la disposizione di cui all’art. 97 I co. secondo cui “le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l'ordinamento dell'Unione europea, assicurano l'equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico”. Tra le Pubbliche Amministrazioni rientra, a pieno titolo, anche l’Inps. CONTENZIOSO NAZIONALE 121 zio finanziario 2014; ad adiuvandum sembrerebbe rafforzare la tesi sopra enunciata l’argomento della retroattività delle pronunce di accoglimento della Corte costituzionale. L’obiezione prospettata, tuttavia, non coglie nel segno in quanto la sentenza della Consulta pur rivolgendosi al passato, ad un periodo cioè antecedente l’anno 2014, ha ricadute finanziarie successive, producendo una voragine nei conti pubblici dello Stato nell’esercizio finanziario 2015. Dirimente è poi la considerazione secondo cui l’art. 81 I co. Cost. fosse operativo nell’ordinamento giuridico, sin dall’anno di esercizio 2014, ergo l’anno antecedente la pronuncia di incostituzionalità in commento. Infine, la stessa retroattività della sentenza di accoglimento, secondo il principio del factum infectum fieri nequit (56), rinverrebbe un limite nell’esaurimento degli esercizi finanziari degli anni 2012 e 2013, rivelando viceversa un effetto di ultrattività sull’esercizio presente e sugli esercizi futuri (anni 2015 e seguenti) (57). Ne discende, come corollario, l’applicabilità dell’art. 81 I co. Cost. alla fattispecie de qua, che palesa chiaramente l’omissione della Corte la quale, nel sindacare l’atto legislativo, ha trascurato di valutare nel bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti il principio del pareggio di bilanciamento. In base a tale fondamentale principio “lo Stato assicura l'equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico” (58) (59). (56) Come è noto la retroattività degli effetti delle pronunce di annullamento delle leggi della Corte costituzionale non può spingersi sino a far rivivere ciò che è morto e, con peculiare riferimento alla materia contabile, non può determinare la riapertura di esercizi di bilancio ormai chiusi ed esauriti. (57) In una visione realistica e non meramente formalistica del diritto le spese o uscite dello Stato, relative alla fattispecie de qua, vanno imputate non già secondo il criterio della competenza agli anni 2012 e 2013 bensì secondo il criterio di cassa all’anno 2015, anno in cui effettivamente verranno erogati i “rimborsi” ai destinatari della mancata indicizzazione dei trattamenti pensionistici. (58) Prosegue poi l’art. 81 Cost.: “Il ricorso all'indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali. Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte. Le Camere ogni anno approvano con legge il bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo. L'esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi. Il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l'equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei princìpi definiti con legge costituzionale”. (59) Secondo gli economisti la nozione di equilibrio di bilancio divergerebbe dalla nozione di pareggio di bilancio, intendendosi con la prima un discostamento non eccessivo delle uscite dalle entrate, mentre con la seconda una loro perfetta coincidenza. Ciononostante, in una prospettiva strettamente giuridica, l’art. 81 I co. Cost. deve essere oggetto di un’interpretazione univocamente orientata nel senso dell’imposizione dell’obbligo del pareggio di bilancio, trattandosi di una disposizione puntualmente attuativa di norme sovranazionali ed europee che vincolano gli Stati, appunto, alla realizzazione di tale obiettivo. 122 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 Il principio del pareggio di bilancio, discendente in origine dal Patto di stabilità e crescita (60) e, successivamente, dall’Euro Plus Pact (61), dal Six pack (62) e dal Fiscal compact (63) sottoscritti dagli Stati in ambito europeo e sovranazionale, rappresenta un principio primario, di cui la Corte dovrebbe sempre tener conto nel proprio bilanciamento di interessi. Un principio che, essendo previsto da fonti europee, risulterebbe già applicabile all’interno dell’ordinamento italiano indipendentemente dalla previsione dell’art. 81 I co. Cost. (64); in questo modo la Corte Costituzionale, obliterandone la valutazione, avrebbe violato un duplice parametro, costituzionale ed europeo, giungendo ad una soluzione giuridica non del tutto scevra di profili di (60) Il Patto di stabilità e crescita è stato consacrato in due regolamenti ed in una risoluzione del Consiglio europeo (regolamento CE, 7 luglio 1997, n. 1466, regolamento CE, 7 luglio 1997, n. 1467 e risoluzione 17 luglio 1997). In proposito CORSO G., Manuale di diritto amministrativo, VII ed., Giappichelli, Torino, 2015, p. 128. Secondo l’Autore l’obiettivo a medio termine del Patto di crescita e stabilità “è quello di raggiungere il pareggio del bilancio (o un avvicinamento al pareggio dello 0,5%) salvi i periodi di recessione. In precedenza il Trattato di Maastricht aveva portato ad una modifica del Trattato di Roma del 1957. Sicchè oggi l’art. 104 di quest’ultimo prevede: - che gli Stati membri devono evitare disavanzi pubblici eccessivi; - che il rapporto tra disavanzo pubblico e prodotto interno lordo non deve superare un valore di riferimento (che il protocollo annesso al Trattato fissa nel 3%); - che il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo non deve superare un valore di riferimento (che il protocollo fissa nel 60%); - che la Commissione europea sorveglia l’evoluzione della situazione di bilancio e dell’entità del debito pubblico degli Stati membri”. (61) Tale accordo è stato approvato nel marzo 2011 dai Capi di Stato o di governo degli Stati membri della zona Euro e successivamente confermato dal Consiglio. Attraverso l’Euro Plus Pact gli Stati contraenti si sono vincolati alla realizzazione di alcuni prioritari obiettivi, tra cui la sostenibilità delle rispettive finanze pubbliche e la stabilità finanziaria del proprio ordinamento giuridico. I Paesi membri, poi, hanno deciso di recepire in Costituzione o nella legislazione ordinaria le regole contenute nell’accordo. (In proposito G. DELLACANANEA, La disciplina giuridica delle finanze dell’Unione e delle finanze nazionali, in Diritto amministrativo europeo, a cura di M.P. CHITI, Giuffrè, Milano, 2013, pp. 314-316). (62) Il Six pack è un insieme di misure approvate nel novembre 2011 in sede europea. Tale pacchetto si compone di una direttiva e cinque regolamenti, direttamente attuativi sia degli artt. 121, 126, 136 TFUE sia del Protocollo n. 12 del Trattato di Lisbona. (63) Il Fiscal Compact è un Trattato internazionale che a rigore non rientra direttamente nell’ordinamento giuridico europeo, pur se ad esso è riconducibile attraverso il rinvio operato dai Trattati UE, nei limiti di compatibilità con le norme europee. Gli Stati contraenti si sono impegnati a sostenere la Commissione nelle sue proposte e raccomandazioni relative all’applicazione della procedura per disavanzi eccessivi agli Stati membri, salvo vengano respinte dal Consiglio a maggioranza qualificata. A riguardo CORSO G., Manuale di diritto amministrativo, VII ed., op. cit., p. 128: “Il recente Fiscal Compact prevede che alla percentuale del 60% nel rapporto debito-pil gli Stati membri più indebitati (in prima linea l’Italia) debbano tornare con una riduzione annua del debito pari ad un ventesimo dell’eccedenza: il che dovrebbe implicare una riduzione progressiva del rapporto per effetto della crescita, cioè con l’aumento del denominatore. Tra le implicazioni di questi vincoli vi è stata, in Italia (ma non solo), una vasta campagna di privatizzazione allo scopo di conseguire entrate straordinarie da destinare al ripiano del debito. La privatizzazione dovrebbe comportare anche la dismissione di attività pubbliche che non è necessario mantenere in ambito pubblico e la conseguente riduzione della spesa”. (64) A. PACE, Pareggio di bilancio: qualcosa si può fare, in www.rivistaaic.it, 2011. G.L. TOSATO, I vincoli europei sulle politiche di bilancio, in www.apertacontrada.it, 2012. CONTENZIOSO NAZIONALE 123 irragionevolezza (65). Ciò anche alla luce della considerazione che la sentenza della Consulta, aprendo una voragine nei conti pubblici, determina pesanti ricadute politiche sul Governo ed il Parlamento nazionali (66), esponendo altresì lo Stato italiano ad una procedura di infrazione (67) per violazione del vincolo europeo (oggi costituzionalizzato) del pareggio di bilancio (68). Occorre poi osservare come secondo gli indirizzi formulati in sede europea non sia consentito imputare spese, sia pure di rispettiva pertinenza, ad un dato esercizio qualora tali spese ricadano finanziariamente su esercizi successivi. Nel caso di specie il rimborso delle somme da mancata indicizzazione delle pensioni, pur afferendo agli anni di esercizio 2012 e 2013, si ripercuote inevitabilmente sull’esercizio attuale, con conseguente obbligo del Governo di rinvenire nelle pieghe del bilancio, anche mediante manovra correttiva, le relative coperture. L’omissione della Corte si rivela, altresì, irragionevole in considerazione della circostanza che pochi mesi fa con la pronuncia 11 febbraio 2015, n. 10 la stessa Corte ha dichiarato l’illegittimità della c.d. Robin Tax (69) limitando, tuttavia, la decorrenza degli effetti retroattivi dal giorno della pubblicazione della sentenza. Ciò, proprio, in ossequio al principio di cui all’art. 81 I co. Cost. cui la Consulta ha dato prevalente applicazione nel bilanciamento degli interessi, al precipuo fine di scongiurare un grave squilibrio nel bilancio dello Stato. Soluzione analoga, del resto, la Corte avrebbe potuto (e dovuto) adottare nella vicenda in commento. La Consulta avrebbe, per esempio, potuto limitare gli effetti retroattivi della pronuncia facendoli decorrere ex nunc e dunque esclusivamente pro futuro; in alternativa avrebbe potuto adottare una sentenza additiva di principio, affermando sì l’obbligo (65) Diversamente la Consulta con la sentenza 17 dicembre 2013, n. 310 ha agito in un caso analogo in senso diametralmente opposto, considerando legittimo il blocco degli automatismi previsto per il personale non contrattualizzato della Pubblica Amministrazione, in base al principio del pareggio di bilancio. (66) Da indiscrezioni giornalistiche sembra che il Governo italiano intenda richiedere un parere non vincolante alla Corte di giustizia dell’Unione europea per chiarire l’incidenza della pronuncia della Corte costituzionale su eventuali profili di diritto europeo, al fine di intraprendere ogni azione necessaria per ottemperare alla pronuncia. (67) Per ora da quanto appreso dai principali quotidiani la Commissione europea avrebbe posto sotto sorveglianza il nostro Paese per la voragine nel bilancio cagionata dalla sentenza della Corte costituzionale. (68) G. DI GASPARE, Innescare un sistema in equilibrio della finanza pubblica ritornando all’art. 81 della Costituzione, in www.amministrazioneincammino.luiss.it, 2005. G. BOGNETTI, Costituzione e bilancio dello stato: il problema delle spese in deficit, in www.astrid-online.it, 2009. L. GIANNITI, Il pareggio di bilancio nei lavori della costituente, in www.astrid-online.it, 2011. (69) La questione era stata proposta nel 2011 dalla Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia in relazione alle disposizioni del D.L. n. 112/2008 che hanno introdotto, per il periodo d’imposta 2008, un prelievo aggiuntivo, qualificato come addizionale all’imposta sul reddito delle società (IRES), pari al 5,5%, da applicarsi ai soggetti operanti nei settori petrolifero ed energetico (tra cui, per esempio, le imprese che commercializzano benzine, petroli, gas e oli lubrificanti), con ricavi superiori a 25 milioni di euro nel periodo d'imposta 2007. 124 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 della rivalutazione ma per gli esercizi futuri, rinviando ogni intervento alle scelte politiche di Parlamento e Governo (70). Non può infatti sottacersi come il principio del pareggio tra entrate e uscite di bilancio assuma nell’odierno scenario italiano ed europeo un palpitante rilievo giuridico, politico ed economico-finanziario; conseguentemente la Corte nelle proprie sentenze non dovrebbe in nessun caso pretermetterne la valutazione nella comparazione degli interessi in rilievo, atteso il momento di gravissima congiuntura economica che sta vivendo il nostro Paese (71). Ciò sarebbe imposto al giudice delle leggi non soltanto dalla Carta costituzionale ma direttamente dall’ordinamento europeo, le cui norme, come è noto, conformano l’esercizio di tutti i pubblici poteri, allocandosi quale parametro di legittimità dei rispettivi atti (ivi incluse le pronunce della Corte costituzionale) (72). (70) L’Assemblea Costituente, nell’istituire la Corte costituzionale ha prefigurato, due soli possibili esiti al giudizio di legittimità delle leggi: l’uno di accoglimento, l’altro di rigetto. Tuttavia, nel corso dei decenni la Consulta ha progressivamente superato le strettoie di questa tradizionale e netta alternativa, adottando pronunce di nuovo conio e dagli effetti peculiari (si pensi per esempio alle sentenze additive, alle sentenze con decorrenza ex nunc, alle sentenze monito etc.). In questo modo la Corte ha manifestato, in più di un’occasione, la volontà di calibrare il proprio sindacato, caso per caso, in ragione di una valutazione degli interessi costituzionalmente rilevanti, che considerasse, sia pure a latere, le ricadute politiche, economiche e finanziarie delle proprie sentenze sul sistema Paese. (71) La Corte costituzionale riveste un ruolo sui generis, svolgendo un’attività giuridica che agli albori del terzo millennio ha ricadute politiche, economiche e finanziarie di non poco momento che il giudice delle leggi deve tenere in considerazione. D'altronde già autorevole dottrina (H. KELSEN, Lineamenti di dottrina pura del diritto, trad. it. Treves, Milano, 1952, passim) definiva la Corte costituzionale un organo di natura politica. A testimonianza di ciò milita poi la circostanza che l’Assemblea costituente decise di eliminare il precedente sindacato estrinseco sulla forma e sulla procedura della legge affidato dallo Statuto albertino alla Suprema Corte di Cassazione (C. ESPOSITO, La validità delle leggi: studio sui limiti della potestà legislativa, i vizi degli atti legislativi e il controllo giurisdizionale, Cedam, Padova, 1934, passim). Diversamente, i Padri costituenti hanno voluto, in netta discontinuità con il passato, istituire un nuovo organo (la Consulta) cui affidare un sindacato (di ragionevolezza) diverso e più stringente sulla legge alla luce di una Carta costituzionale di tipo rigido. Da un’attenta analisi, infatti, può evincersi come l’odierno sindacato di legittimità delle leggi, lungi dall’essere esclusivamente tecnico, presenti una portata necessariamente più ampia, non potendo la Consulta trascurare le conseguenze politiche, economiche e finanziarie delle proprie sentenze. In particolare nell’odierno contesto giuridico-politico, caratterizzato dall’appartenenza dell’Italia all’ordinamento europeo, ai sensi degli artt. 11 e 117 I co. Cost., tutti gli organi pubblici sono tenuti all’osservanza di puntuali vincoli di bilancio, vincoli che nemmeno la Corte costituzionale può disattendere. (72) A. CELOTTO - F. MODUGNO, L’impatto del diritto comunitario sulla giustizia costituzionale: il controllo misto sulle leggi, cap. XII, La giustizia costituzionale, in Lineamenti di diritto pubblico, a cura di F. MODUGNO, Giappichelli, Torino, 2010, pp. 734 ss.: “L’impatto del diritto dell’Unione europea sul nostro ordinamento ha carsicamente eroso il sistema di giustizia costituzionale, modificandolo profondamente e addirittura stravolgendolo (…) Si pensi che una legge interna se conforme a norma costituzionale, ma difforme da norma comunitaria, è comunque illegittima; mentre se difforme da norma costituzionale, ma conforme a norma comunitaria, può divenire persino… legittima, o quanto meno efficace (…) Tali devastanti effetti fanno addirittura pensare che oggi non si possa più parlare semplicemente, in Italia, di controllo di legittimità costituzionale delle leggi, ma occorra precisare che il controllo sugli atti legislativi è di tipo costituzional-comunitario (o qualcosa di simile)”. CONTENZIOSO NAZIONALE 125 In definitiva, l’imposizione di un’adeguata motivazione al legislatore, pur rilevante ai fini di un più idoneo sindacato di legittimità della legge, stride con l’omissione imputabile alla Consulta, la quale ha ingiustificabilmente pretermesso nel bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti la valutazione del principio del pareggio di bilancio; in tal modo la Corte ha dato prova di esercitare in modo non pienamente ragionevole la funzione di controllo sulle leggi assegnatale dalla Costituzione. Inoltre da indiscrezioni giornalistiche, non smentite, pare che, nonostante la delicatezza della questione esaminata, il collegio abbia assunto la decisione di accoglimento con il voto decisivo del Presidente in ragione della parità dei suffragi favorevoli e contrari (6 a 6) (73). Una simile circostanza è elemento che a fortiori conferma i dubbi espressi sul contenuto di una pronuncia che, obliterando del tutto le primarie esigenze economico-finanziarie imposte dalla Costituzione e dalle norme sovranazionali (74), rischia di riverberare pericolosi effetti tanto sulla sostenibilità del bilancio pubblico italiano (75) quanto sulla stabilità del globale assetto dell’Unione europea. Corte costituzionale, sentenza 30 aprile 2015 n. 70 - Pres. Criscuolo, Red. Sciarra - avv.ti R. Troiano per C.G., L. Caliulo e F. Mangiapane per l’INPS e l’avv. Stato G. Noviello per il Presidente del Consiglio dei ministri. Considerato in diritto 1.– Il Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro, con ordinanza del 6 novembre 2013 (r.o. n. 35 del 2014), la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna, con due ordinanze del 13 maggio 2014 (r.o. n. 158 e n. 159 del 2014) e la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Liguria, con ordinanza del 25 luglio 2014 (r.o. n. 192 del 2014), dubitano della legittimità costituzionale del comma 25 dell’art. 24, decreto-legge del 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento (73) Sulla prevalenza del voto del presidente della Corte costituzionale, a parità di suffragi, G. Pepe, La primazia negli organi collegiali pubblici, Editoriale, Scientifica, Napoli, 2014, pp. 194 ss. (74) In base agli artt. 11 e 117 I co. Cost. l’adesione dell’Italia all’ordinamento europeo impone al nostro sistema giuridico l’osservanza dei vincoli di bilancio statuiti in sede sovranazionale e recepiti, segnatamente, all’art. 81 I co. Cost. Il rispetto di tali vincoli non può non ripercuotersi anche sull’attività della Corte costituzionale la quale oggi, forse più che in passato, è tenuta a valutare le conseguenze economico- finanziarie che le proprie pronunce possono riverberare, in via diretta o riflessa, sui conti pubblici del Paese. Del resto, impreviste ed insostenibili voragini nel bilancio pubblico nazionale rischierebbero di condurre l’Italia al default; un default che imporrebbe la ripartizione dei relativi costi finanziari tra tutti gli Stati membri con conseguenze imprevedibili per la stabilità dell’Unione europea. (75) La Corte costituzionale in una nota ufficiale ha voluto smentire alcune indiscrezioni filtrate dalle agenzie di stampa sulla natura auto-applicativa della sentenza in base alla quale la pronuncia avrebbe un’immediata efficacia erga omnes, senza necessità di ricorsi da parte dei pensionati beneficiari. La Consulta si è viceversa affrettata a puntualizzare che dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione gli interessati possono intraprendere le iniziative ritenute necessarie e gli organi politici, ove lo ritengano, possono adottare i provvedimenti del caso nelle forme costituzionali. 126 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, nella parte in cui, per gli anni 2012 e 2013, limita la rivalutazione monetaria dei trattamenti pensionistici nella misura del 100 per cento, esclusivamente alle pensioni di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, in riferimento, nel complesso, agli artt. 2, 3, 23, 36, primo comma, 38, secondo comma, 53 e 117, primo comma della Costituzione, quest’ultimo in relazione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (CEDU), ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. Tutti i giudici rimettenti ritengono che il comma 25 dell’art. 24 sarebbe costituzionalmente illegittimo per violazione degli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., in quanto la mancata rivalutazione, violando i principi di proporzionalità e adeguatezza della prestazione previdenziale, si porrebbe in contrasto con il principio di eguaglianza e ragionevolezza, causando una irrazionale discriminazione in danno della categoria dei pensionati. La norma censurata recherebbe anche un vulnus agli artt. 2, 23 e 53 Cost., poiché la misura adottata si configurerebbe quale prestazione patrimoniale di natura sostanzialmente tributaria, in violazione del principio dell’universalità dell’imposizione a parità di capacità contributiva, in quanto posta a carico di una sola categoria di contribuenti. La sola Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia - Romagna censura, infine, la predetta disposizione, anche con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alla CEDU, richiamando, poi, gli artt. 6, 21, 25, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. 2.– I giudizi hanno ad oggetto la stessa norma, censurata in relazione a parametri costituzionali, per profili e con argomentazioni in larga misura coincidenti. Deve, pertanto, esser disposta la riunione dei giudizi al fine di un’unica pronuncia (ex plurimis, sentenza n. 16 del 2015, ordinanza n. 164 del 2014). Nel giudizio promosso dal Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro, ha spiegato intervento ad adiuvandum T.G., che non è parte nel procedimento principale, assumendo di aver proposto analogo ricorso dinanzi alla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Lazio, allo scopo di sentir riconosciuto il proprio diritto alla perequazione automatica del trattamento pensionistico, per gli anni 2012 e 2013, negato dall’INPS. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (per tutte, sentenza n. 216 del 2014), possono intervenire nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale le sole parti del giudizio principale ed i terzi portatori di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura. La circostanza che l’istante sia parte in un giudizio diverso da quello oggetto dell'ordinanza di rimessione, nel quale sia stata sollevata analoga questione di legittimità costituzionale, non è sufficiente a rendere ammissibile l'intervento (ex plurimis, ordinanza n. 150 del 2012). Conseguentemente, poiché T.G. non è stato parte del giudizio principale nel corso del quale è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale oggetto dell'ordinanza iscritta al n. 35 del reg. ord. 2014, né risulta essere titolare di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, l’intervento dallo stesso proposto va dichiarato inammissibile. 3.– La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna, nelle due ordinanze di rimessione, dubita della legittimità costituzionale del comma 25 dell’art. 24 del CONTENZIOSO NAZIONALE 127 d.l. n. 201 del 2011, come convertito dalla legge n. 214 del 2011, in riferimento, fra l’altro all’art. 117, primo comma, Cost. e invoca genericamente, quale parametro interposto, la CEDU, per poi richiamare, più specificamente, una serie di disposizioni contenute nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. In particolare, sono evocati, oltre al principio della certezza del diritto quale «patrimonio comune agli Stati contraenti», anche «gli altri diritti garantiti dalla Carta: il diritto dell’individuo alla libertà e alla sicurezza (art. 6), il diritto di non discriminazione, che include anche quella fondata sul “patrimonio”, (art. 21), il diritto degli anziani di condurre una vita dignitosa ed indipendente (art. 25), il diritto alla protezione della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale (art. 33), il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali (art. 34)». La questione, come prospettata, è inammissibile. Va preliminarmente rilevato che questa Corte ritiene configurarsi un’ipotesi di inammissibilità della questione, qualora il giudice non fornisca una motivazione adeguata sulla non manifesta infondatezza della stessa, limitandosi a evocarne i parametri costituzionali, senza argomentare in modo sufficiente in ordine alla loro violazione (ex plurimis, ordinanza n. 36 del 2015). In tale ipotesi, il difetto nell’esplicitazione delle ragioni di conflitto tra la norma censurata e i parametri costituzionali evocati inibisce lo scrutinio nel merito delle questioni medesime (fra le altre, ordinanza n. 158 del 2011), con conseguente inammissibilità delle stesse. Nel caso di specie, la Corte rimettente si limita a richiamare l’art. 117, primo comma, Cost., per violazione della CEDU «come interpretata dalla Corte di Strasburgo» senza addurre alcun elemento a sostegno di tale asserito vulnus, in particolare con riferimento alle modalità di incidenza della norma oggetto di impugnazione sul parametro costituzionale evocato. Inoltre il richiamo alla CEDU si rivela, nella sostanza, erroneo, atteso che esso risulta affiancato dal riferimento a disposizioni normative riconducibili alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Quest’ultima fonte, come risulta dall’art. 6, comma 1 del Trattato sull’Unione europea, come modificato dal Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con la legge 2 agosto 2008, n. 130, ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Pertanto, l’esame dell’ordinanza di rimessione non consente di evincere in qual modo le norme della CEDU siano compromesse, per effetto dell’applicazione della disposizione oggetto di censura. Una tale carenza argomentativa costituisce motivo di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale, in quanto preclusiva della valutazione della fondatezza. Il giudice a quo non fornisce sufficienti elementi che consentano di vagliare le modalità di incidenza della norma censurata sul parametro genericamente invocato ed omette di allegare argomenti a sostegno degli effetti pregiudizievoli di tale incidenza, richiamando erroneamente disposizioni normative afferenti al diritto primario dell’Unione europea. 4.– La questione di costituzionalità per violazione degli artt. 2, 3, 23 e 53 Cost., in relazione alla presunta natura tributaria della misura in esame, non è fondata. Tutte le ordinanze di rimessione affermano che, nel caso di specie, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato, la misura di azzeramento della rivalutazione automatica per gli anni 2012 e 2013, relativa ai trattamenti pensionistici superiori a tre volte il trattamento minimo INPS, configurerebbe una prestazione patrimoniale di natura tributaria, lesiva del principio di universalità dell’imposizione a parità di capacità contributiva, in quanto posta a carico di una sola categoria di contribuenti. Nell’imporre alle parti di concorrere alla spesa pubblica non in ragione della propria capacità contributiva, essa violerebbe il principio di eguaglianza. I rimettenti richiamano, in particolare, le decisioni n. 116 del 2013 e n. 223 del 2012 nella 128 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 parte in cui si afferma che la Costituzione non impone una tassazione fiscale uniforme, con criteri assolutamente identici e proporzionali per tutte le tipologie di imposizione tributaria, ma esige un indefettibile raccordo con la capacità contributiva, in un quadro di sistema informato a criteri di progressività, come svolgimento ulteriore, nello specifico campo tributario, del principio di eguaglianza (in tal senso, fra le più recenti, sentenza n. 10 del 2015). Ciò si collega al compito di rimozione degli ostacoli economico-sociali che di fatto limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini-persone umane, in spirito di solidarietà politica, economica e sociale di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione (ordinanza n. 341 del 2000, ripresa sul punto dalla sentenza n. 223 del 2012). L’azzeramento della perequazione automatica oggetto di censura, tuttavia, sfugge ai canoni della prestazione patrimoniale di natura tributaria, atteso che esso non dà luogo ad una prestazione patrimoniale imposta, realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio, destinato a reperire risorse per l’erario. La giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 219 e n. 154 del 2014) ha costantemente precisato che gli elementi indefettibili della fattispecie tributaria sono tre: la disciplina legale deve essere diretta, in via prevalente, a procurare una (definitiva) decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo; la decurtazione non deve integrare una modifica di un rapporto sinallagmatico; le risorse, connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione, devono essere destinate a sovvenire pubbliche spese. Un tributo consiste in un «prelievo coattivo che è finalizzato al concorso alle pubbliche spese ed è posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva» (sentenza n. 102 del 2008). Tale indice deve esprimere l’idoneità di ciascun soggetto all’obbligazione tributaria (fra le prime, sentenze n. 91 del 1972, n. 97 del 1968, n. 89 del 1966, n. 16 del 1965 e n. 45 del 1964). Il comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, che dispone per un biennio il blocco del meccanismo di rivalutazione dei trattamenti pensionistici superiori a tre volte il trattamento minimo INPS, non riveste, quindi, natura tributaria, in quanto non prevede una decurtazione o un prelievo a carico del titolare di un trattamento pensionistico. In base ai criteri elaborati da questa Corte in ordine alle prestazioni patrimoniali, in assenza di una decurtazione patrimoniale o di un prelievo della stessa natura a carico del soggetto passivo, viene meno in radice il presupposto per affermare la natura tributaria della disposizione. Inoltre, viene a mancare il requisito che consente l’acquisizione delle risorse al bilancio dello Stato, poiché la disposizione non fornisce, neppure in via indiretta, una copertura a pubbliche spese, ma determina esclusivamente un risparmio di spesa. Il difetto dei requisiti propri dei tributi e, in generale, delle prestazioni patrimoniali imposte, determina, quindi, la non fondatezza delle censure sollevate in riferimento al mancato rispetto dei principi di progressività e di capacità contributiva. 5.– La questione prospettata con riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. è fondata. La perequazione automatica, quale strumento di adeguamento delle pensioni al mutato potere di acquisto della moneta, fu disciplinata dalla legge 21 luglio 1965, n. 903 (Avviamento alla riforma e miglioramento dei trattamenti di pensione della previdenza sociale), all’art. 10, con la finalità di fronteggiare la svalutazione che le prestazioni previdenziali subiscono per il loro carattere continuativo. Per perseguire un tale obiettivo, in fasi sempre mutevoli dell’economia, la disciplina in questione ha subito numerose modificazioni. CONTENZIOSO NAZIONALE 129 Con l’art.19 della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), nel prevedere in via generalizzata l’adeguamento dell’importo delle pensioni nel regime dell’assicurazione obbligatoria, si scelse di agganciare in misura percentuale gli aumenti delle pensioni all’indice del costo della vita calcolato dall’ISTAT, ai fini della scala mobile delle retribuzioni dei lavoratori dell’industria. Con l’art. 11, comma 1, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, recante «Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’art. 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421», oltre alla cadenza annuale e non più semestrale degli aumenti a titolo di perequazione automatica, si stabilì che gli stessi fossero calcolati sul valore medio dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati. Tale modifica mirava a compensare l’eliminazione dell’aggancio alle dinamiche salariali, al fine di garantire un collegamento con l’evoluzione del livello medio del tenore di vita nazionale. L’art. 11, comma 2, previde, inoltre, che ulteriori aumenti potessero essere stabiliti con legge finanziaria, in relazione all’andamento dell’economia. Il meccanismo di rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici governato dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo) si prefigge di tutelare i trattamenti pensionistici dalla erosione del potere di acquisto della moneta, che tende a colpire le prestazioni previdenziali anche in assenza di inflazione. Con effetto dal 1° gennaio 1999, il meccanismo di rivalutazione delle pensioni si applica per ogni singolo beneficiario in funzione dell’importo complessivo dei trattamenti corrisposti a carico dell'assicurazione generale obbligatoria. L’aumento della rivalutazione automatica opera, ai sensi del comma 1 dell’art. 34 citato, in misura proporzionale all’ammontare del trattamento da rivalutare rispetto all’ammontare complessivo. Tuttavia, l’art. 69, comma 1, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001), con riferimento al meccanismo appena illustrato di aumento della perequazione automatica, prevede che esso spetti per intero soltanto per le fasce di importo dei trattamenti pensionistici fino a tre volte il trattamento minimo INPS. Spetta nella misura del 90 per cento per le fasce di importo da tre a cinque volte il trattamento minimo INPS ed è ridotto al 75 per cento per i trattamenti eccedenti il quintuplo del predetto importo minimo. Questa impostazione fu seguita dal legislatore in successivi interventi, a conferma di un orientamento che predilige la tutela delle fasce più deboli. Ad esempio, l’art. 5, comma 6, del decreto-legge 2 luglio 2007, n. 81 (Disposizioni urgenti in materia finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art.1, comma 1, della legge 3 agosto 2007, n. 127, prevede, per il triennio 2008-2010, una perequazione al 100 per cento per le fasce di importo tra tre e cinque volte il trattamento minimo INPS. In conclusione, la disciplina generale che si ricava dal complesso quadro storico-evolutivo della materia, prevede che soltanto le fasce più basse siano integralmente tutelate dall’erosione indotta dalle dinamiche inflazionistiche o, in generale, dal ridotto potere di acquisto delle pensioni. 6.– Quanto alle sospensioni del meccanismo perequativo, affidate a scelte discrezionali del legislatore, esse hanno seguito nel corso degli anni orientamenti diversi, nel tentativo di bilanciare le attese dei pensionati con variabili esigenze di contenimento della spesa. L’art. 2 del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali) previde che, in attesa della legge di riforma del sistema pensionistico e, comunque, fino al 31 dicembre 1993, fosse sospesa l’applicazione di ogni disposizione di legge, di regolamento o di accordi collettivi, che introducesse aumenti a titolo di perequazione automatica delle pensioni previdenziali ed as- 130 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 sistenziali, pubbliche e private, ivi compresi i trattamenti integrativi a carico degli enti del settore pubblico allargato, nonché aumenti a titolo di rivalutazione delle rendite a carico dell’INAIL. In sede di conversione di tale decreto, tuttavia, con l’art. 2, comma 1-bis, della legge 14 novembre 1992, n. 438 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384, recante misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali), si provvide a mitigare gli effetti della disposizione, che dunque operò non come provvedimento di blocco della perequazione, bensì quale misura di contenimento della rivalutazione, alla stregua di percentuali predefinite dal legislatore in riferimento al tasso di inflazione programmata. In seguito, l’art. 11, comma 5, della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza pubblica), provvide a restituire, mediante un aumento una tantum disposto per il 1994, la differenza tra inflazione programmata ed inflazione reale, perduta per effetto della disposizione di cui all’art. 2 della legge n. 438 del 1992. Conseguentemente, il blocco, originariamente previsto in via generale e senza distinzioni reddituali dal legislatore del 1992, fu convertito in una forma meno gravosa di raffreddamento parziale della dinamica perequativa. Dopo l’entrata in vigore del sistema contributivo, il legislatore (art. 59, comma 13 della legge 27 dicembre 1997, n. 449, recante «Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica ») ha imposto un azzeramento della perequazione automatica, per l’anno 1998. Tale norma, ritenuta legittima da questa Corte con ordinanza n. 256 del 2001, ha limitato il proprio campo di applicazione ai soli trattamenti di importo medio - alto, superiori a cinque volte il trattamento minimo. Il blocco, introdotto dall’art. 24, comma 25, come convertito, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, ora oggetto di censura, trova un precedente nell’art. 1, comma 19, della legge 24 dicembre 2007, n. 247 (Norme di attuazione del Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per favorire l’equità e la crescita sostenibili, nonché ulteriori norme in materia di lavoro e previdenza sociale) che, tuttavia, aveva limitato l’azzeramento temporaneo della rivalutazione ai trattamenti particolarmente elevati, superiori a otto volte il trattamento minimo INPS. Si trattava - come si evince dalla relazione tecnica al disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri il 13 ottobre 2007 - di una misura finalizzata a concorrere solidaristicamente al finanziamento di interventi sulle pensioni di anzianità, a seguito, dell’innalzamento della soglia di accesso al trattamento pensionistico (il cosiddetto “scalone”) introdotto, a decorrere dal 1° gennaio 2008, dalla legge 23 agosto 2004, n. 243 (Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all’occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria). L’azzeramento della perequazione, disposto per effetto dell’art. 1, comma 19, della legge n. 247 del 2007, prima citata, è stato sottoposto al vaglio di questa Corte, che ha deciso la questione con sentenza n. 316 del 2010. In tale pronuncia questa Corte ha posto in evidenza la discrezionalità di cui gode il legislatore, sia pure nell’osservare il principio costituzionale di proporzionalità e adeguatezza delle pensioni, e ha reputato non illegittimo l’azzeramento, per il solo anno 2008, dei trattamenti pensionistici di importo elevato (superiore ad otto volte il trattamento minimo INPS). Al contempo, essa ha indirizzato un monito al legislatore, poiché la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, o la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, entrerebbero in collisione con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità. CONTENZIOSO NAZIONALE 131 Si afferma, infatti, che «[…] le pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta». 7.– L’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, oggetto di censura nel presente giudizio, si colloca nell’ambito delle “Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici” (manovra denominata “salva Italia”) e stabilisce che «In considerazione della contingente situazione finanziaria», la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, in base al già citato meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della legge n. 448 del 1998, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del cento per cento. Per effetto del dettato legislativo si realizza un’indicizzazione al 100 per cento sulla quota di pensione fino a tre volte il trattamento minimo INPS, mentre le pensioni di importo superiore a tre volte il minimo non ricevono alcuna rivalutazione. Il blocco integrale della perequazione opera, quindi, per le pensioni di importo superiore a euro 1.217,00 netti. Tale meccanismo si discosta da quello originariamente previsto dall’art. 24, comma 4, della legge 28 febbraio 1986, n. 41 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 1986) e confermato dall’art. 11 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), che non discriminava tra trattamenti pensionistici complessivamente intesi, bensì tra fasce di importo. Secondo la normativa antecedente, infatti, la percentuale di aumento si applicava sull'importo non eccedente il doppio del trattamento minimo del fondo pensioni per i lavoratori dipendenti. Per le fasce di importo comprese fra il doppio ed il triplo del trattamento minimo la percentuale era ridotta al 90 per cento. Per le fasce di importo superiore al triplo del trattamento minimo la percentuale era ridotta al 75 per cento. Le modalità di funzionamento della disposizione censurata sono ideate per incidere sui trattamenti complessivamente intesi e non sulle fasce di importo. Esse trovano un unico correttivo nella previsione secondo cui, per le pensioni di importo superiore a tre volte il trattamento minimo INPS e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante, l’aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato. La norma censurata è frutto di un emendamento che, all’esito delle osservazioni rivolte al Ministro del lavoro e delle politiche sociali (Camera dei Deputati, Commissione XI, Lavoro pubblico e privato, audizione del 6 dicembre 2011), ha determinato la sostituzione della originaria formula. Quest’ultima prevedeva l’azzeramento della perequazione per tutti i trattamenti pensionistici di importo superiore a due volte il trattamento minimo INPS e, quindi, ad euro 946,00. Il Ministro chiarì nella stessa audizione che la misura da adottare non confluiva nella riforma pensionistica, ma era da intendersi quale «provvedimento da emergenza finanziaria». La disposizione censurata ha formato oggetto di un’interrogazione parlamentare (Senato della Repubblica, seduta n. 93, interrogazione presentata l’8 agosto 2013, n. 3 – 00321) rimasta inevasa, in cui si chiedeva al Governo se intendesse promuovere la revisione del provvedimento, alla luce della giurisprudenza costituzionale. Dall’excursus storico compiuto traspare che la norma oggetto di censura si discosta in modo significativo dalla regolamentazione precedente. Non solo la sospensione ha una durata biennale; essa incide anche sui trattamenti pensionistici di importo meno elevato. 132 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 Il provvedimento legislativo censurato si differenzia, altresì, dalla legislazione ad esso successiva. L’art. 1, comma 483, lettera e), della legge di stabilità per l’anno 2014 (legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato-legge di stabilità») ha previsto, per il triennio 2014-2016, una rimodulazione nell’applicazione della percentuale di perequazione automatica sul complesso dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo di cui all’art. 34, comma 1, della legge n. 448 del 1998, con l’azzeramento per le sole fasce di importo superiore a sei volte il trattamento minimo INPS e per il solo anno 2014. Rispetto al disegno di legge originario le percentuali sono state, peraltro, parzialmente modificate. Nel triennio in oggetto la perequazione si applica nella misura del 100 per cento per i trattamenti pensionistici di importo fino a tre volte il trattamento minimo, del 95 per cento per i trattamenti di importo superiore a tre volte il trattamento minimo e pari o inferiori a quattro volte il trattamento minimo del 75 per cento per i trattamenti oltre quattro volte e pari o inferiori a cinque volte il trattamento minimo, del 50 per cento per i trattamenti oltre cinque volte e pari o inferiori a sei volte il trattamento minimo INPS. Soltanto per il 2014 il blocco integrale della perequazione ha riguardato le fasce di importo superiore a sei volte il trattamento minimo. Il legislatore torna dunque a proporre un discrimen fra fasce di importo e si ispira a criteri di progressività, parametrati sui valori costituzionali della proporzionalità e della adeguatezza dei trattamenti di quiescenza. Anche tale circostanza conferma la singolarità della norma oggetto di censura. 8.– Dall’analisi dell’evoluzione normativa in subiecta materia, si evince che la perequazione automatica dei trattamenti pensionistici è uno strumento di natura tecnica, volto a garantire nel tempo il rispetto del criterio di adeguatezza di cui all’art. 38, secondo comma, Cost. Tale strumento si presta contestualmente a innervare il principio di sufficienza della retribuzione di cui all’art. 36 Cost., principio applicato, per costante giurisprudenza di questa Corte, ai trattamenti di quiescenza, intesi quale retribuzione differita (fra le altre, sentenza n. 208 del 2014 e sentenza n. 116 del 2013). Per le sue caratteristiche di neutralità e obiettività e per la sua strumentalità rispetto all’attuazione dei suddetti principi costituzionali, la tecnica della perequazione si impone, senza predefinirne le modalità, sulle scelte discrezionali del legislatore, cui spetta intervenire per determinare in concreto il quantum di tutela di volta in volta necessario. Un tale intervento deve ispirarsi ai principi costituzionali di cui agli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., principi strettamente interconnessi, proprio in ragione delle finalità che perseguono. La ragionevolezza di tali finalità consente di predisporre e perseguire un progetto di eguaglianza sostanziale, conforme al dettato dell’art. 3, secondo comma, Cost. così da evitare disparità di trattamento in danno dei destinatari dei trattamenti pensionistici. Nell’applicare al trattamento di quiescenza, configurabile quale retribuzione differita, il criterio di proporzionalità alla quantità e qualità del lavoro prestato (art. 36, primo comma, Cost.) e nell’affiancarlo al criterio di adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.), questa Corte ha tracciato un percorso coerente per il legislatore, con l’intento di inibire l’adozione di misure disomogenee e irragionevoli (fra le altre, sentenze n. 208 del 2014 e n. 316 del 2010). Il rispetto dei parametri citati si fa tanto più pressante per il legislatore, quanto più si allunga la speranza di vita e con essa l’aspettativa, diffusa fra quanti beneficiano di trattamenti pensionistici, a condurre un’esistenza libera e dignitosa, secondo il dettato dell’art. 36 Cost. Non a caso, fin dalla sentenza n. 26 del 1980, questa Corte ha proposto una lettura siste- CONTENZIOSO NAZIONALE 133 matica degli artt. 36 e 38 Cost., con la finalità di offrire «una particolare protezione per il lavoratore ». Essa ha affermato che proporzionalità e adeguatezza non devono sussistere soltanto al momento del collocamento a riposo, «ma vanno costantemente assicurate anche nel prosieguo, in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta», senza che ciò comporti un’automatica ed integrale coincidenza tra il livello delle pensioni e l’ultima retribuzione, poiché è riservata al legislatore una sfera di discrezionalità per l’attuazione, anche graduale, dei termini suddetti (ex plurimis, sentenze n. 316 del 2010; n. 106 del 1996; n. 173 del 1986; n. 26 del 1980; n. 46 del 1979; n. 176 del 1975; ordinanza n. 383 del 2004). Nondimeno, dal canone dell’art. 36 Cost. «consegue l’esigenza di una costante adeguazione del trattamento di quiescenza alle retribuzioni del servizio attivo» (sentenza n. 501 del 1988; fra le altre, negli stessi termini, sentenza n. 30 del 2004). Il legislatore, sulla base di un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali deve «dettare la disciplina di un adeguato trattamento pensionistico, alla stregua delle risorse finanziarie attingibili e fatta salva la garanzia irrinunciabile delle esigenze minime di protezione della persona» (sentenza n. 316 del 2010). Per scongiurare il verificarsi di «un non sopportabile scostamento» fra l’andamento delle pensioni e delle retribuzioni, il legislatore non può eludere il limite della ragionevolezza (sentenza n. 226 del 1993). Al legislatore spetta, inoltre, individuare idonei meccanismi che assicurino la perdurante adeguatezza delle pensioni all’incremento del costo della vita. Così è avvenuto anche per la previdenza complementare, che, pur non incidendo in maniera diretta e immediata sulla spesa pubblica, non risulta del tutto indifferente per quest’ultima, poiché contribuisce alla tenuta complessiva del sistema delle assicurazioni sociali (sentenza n. 393 del 2000) e, dunque, all’adeguatezza della prestazione previdenziale ex art. 38, secondo comma, Cost. Pertanto, il criterio di ragionevolezza, così come delineato dalla giurisprudenza citata in relazione ai principi contenuti negli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., circoscrive la discrezionalità del legislatore e vincola le sue scelte all’adozione di soluzioni coerenti con i parametri costituzionali. 9.– Nel vagliare la dedotta illegittimità dell’azzeramento del meccanismo perequativo per i trattamenti pensionistici superiori a otto volte il minimo INPS per l’anno 2008 (art. 1, comma 19 della già citata legge n. 247 del 2007), questa Corte ha ricostruito la ratio della norma censurata, consistente nell’esigenza di reperire risorse necessarie «a compensare l’eliminazione dell’innalzamento repentino a sessanta anni a decorrere dal 1° gennaio 2008, dell’età minima già prevista per l’accesso alla pensione di anzianità in base all’articolo 1, comma 6, della legge 23 agosto 2004, n. 243», con «lo scopo dichiarato di contribuire al finanziamento solidale degli interventi sulle pensioni di anzianità, contestualmente adottati con l’art. 1, commi 1 e 2, della medesima legge» (sentenza n. 316 del 2010). In quell’occasione questa Corte non ha ritenuto che fossero stati violati i parametri di cui agli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. Le pensioni incise per un solo anno dalla norma allora impugnata, di importo piuttosto elevato, presentavano «margini di resistenza all’erosione determinata dal fenomeno inflattivo». L’esigenza di una rivalutazione costante del correlativo valore monetario è apparsa per esse meno pressante. Questa Corte ha ritenuto, inoltre, non violato il principio di eguaglianza, poiché il blocco della perequazione automatica per l’anno 2008, operato esclusivamente sulle pensioni superiori ad un limite d’importo di sicura rilevanza, realizzava «un trattamento differenziato di situazioni obiettivamente diverse rispetto a quelle, non incise dalla norma impugnata, dei titolari di pensioni più modeste». La previsione generale della perequazione automatica è definita da questa Corte 134 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 «a regime», proprio perché «prevede una copertura decrescente, a mano a mano che aumenta il valore della prestazione». La scelta del legislatore in quel caso era sostenuta da una ratio redistributiva del sacrificio imposto, a conferma di un principio solidaristico, che affianca l’introduzione di più rigorosi criteri di accesso al trattamento di quiescenza. Non si viola il principio di eguaglianza, proprio perché si muove dalla ricognizione di situazioni disomogenee. La norma, allora oggetto d’impugnazione, ha anche superato le censure di palese irragionevolezza, poiché si è ritenuto che non vi fosse riduzione quantitativa dei trattamenti in godimento ma solo rallentamento della dinamica perequativa delle pensioni di valore più cospicuo. Le esigenze di bilancio, affiancate al dovere di solidarietà, hanno fornito una giustificazione ragionevole alla soppressione della rivalutazione automatica annuale per i trattamenti di importo otto volte superiore al trattamento minimo INPS, «di sicura rilevanza», secondo questa Corte, e, quindi, meno esposte al rischio di inflazione. La richiamata pronuncia ha inteso segnalare che la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, ovvero la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, «esporrebbero il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità», poiché risulterebbe incrinata la principale finalità di tutela, insita nel meccanismo della perequazione, quella che prevede una difesa modulare del potere d’acquisto delle pensioni. Questa Corte si era mossa in tale direzione già in epoca risalente, con il ritenere di dubbia legittimità costituzionale un intervento che incida «in misura notevole e in maniera definitiva» sulla garanzia di adeguatezza della prestazione, senza essere sorretto da una imperativa motivazione di interesse generale (sentenza n. 349 del 1985). Deve rammentarsi che, per le modalità con cui opera il meccanismo della perequazione, ogni eventuale perdita del potere di acquisto del trattamento, anche se limitata a periodi brevi, è, per sua natura, definitiva. Le successive rivalutazioni saranno, infatti, calcolate non sul valore reale originario, bensì sull’ultimo importo nominale, che dal mancato adeguamento è già stato intaccato. 10.– La censura relativa al comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, se vagliata sotto i profili della proporzionalità e adeguatezza del trattamento pensionistico, induce a ritenere che siano stati valicati i limiti di ragionevolezza e proporzionalità, con conseguente pregiudizio per il potere di acquisto del trattamento stesso e con «irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività» (sentenza n. 349 del 1985). Non è stato dunque ascoltato il monito indirizzato al legislatore con la sentenza n. 316 del 2010. Si profila con chiarezza, a questo riguardo, il nesso inscindibile che lega il dettato degli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. (fra le più recenti, sentenza n. 208 del 2014, che richiama la sentenza n. 441 del 1993). Su questo terreno si deve esercitare il legislatore nel proporre un corretto bilanciamento, ogniqualvolta si profili l’esigenza di un risparmio di spesa, nel rispetto di un ineludibile vincolo di scopo «al fine di evitare che esso possa pervenire a valori critici, tali che potrebbero rendere inevitabile l’intervento correttivo della Corte» (sentenza n. 226 del 1993). La disposizione concernente l’azzeramento del meccanismo perequativo, contenuta nel comma 24 dell’art. 25 del d.l. 201 del 2011, come convertito, si limita a richiamare genericamente la «contingente situazione finanziaria», senza che emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui CONTENZIOSO NAZIONALE 135 confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi. Anche in sede di conversione (legge 22 dicembre 2011, n. 214), non è dato riscontrare alcuna documentazione tecnica circa le attese maggiori entrate, come previsto dall’art. 17, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, recante «Legge di contabilità e finanza pubblica» (sentenza n. 26 del 2013, che interpreta il citato art. 17 quale «puntualizzazione tecnica» dell’art. 81 Cost.). L’interesse dei pensionati, in particolar modo di quelli titolari di trattamenti previdenziali modesti, è teso alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo consequenziale il diritto a una prestazione previdenziale adeguata. Tale diritto, costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio. Risultano, dunque, intaccati i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita (art. 36, primo comma, Cost.) e l’adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.). Quest’ultimo è da intendersi quale espressione certa, anche se non esplicita, del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e al contempo attuazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost. La norma censurata è, pertanto, costituzionalmente illegittima nei termini esposti. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, 1) dichiara inammissibile l’intervento di T.G.; 2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, nella parte in cui prevede che «In considerazione della contingente situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100 per cento»; 3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 23 e 53, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna e dalla Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Regione Liguria, con le ordinanze indicate in epigrafe; 4) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna, con le ordinanze indicate in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2015. 136 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 Il procedimento di contrattazione in tema di vendita immobiliare NOTA A CASSAZIONE CIVILE, SEZIONI UNITE, SENTENZA 6 MARZO 2015 N. 4628 Francesco Molinaro* SOMMARIO: 1. Il caso - 2. L’origine del contratto preliminare e lo sviluppo di figure contrattuali ad esso connesse - 3. La prima pronuncia della Suprema Corte sul “preliminare di preliminare” - 4. Il preliminare di preliminare alla luce della sentenza delle Sezioni Unite. 1. Il caso. Gli odierni ricorrenti nel novembre 1996, ritenendo di essere promittenti venditori di una porzione di fabbricato sita in Avellino, chiesero ai promissari acquirenti l’esecuzione in forma specifica dell’accordo preliminare stipulato nel luglio 1996. I promissari acquirenti rifiutarono tale pretesa in quanto ritennero che l’accordo del novembre 1996 fosse solo una puntuazione, di conseguenza non ha alcuna efficacia obbligatoria ed è insuscettibile di esecuzione specifica ex art. 2932 c.c. Il tribunale di Avellino rilevò che il contratto conteneva solo l’impegno a stipulare il preliminare di compravendita, allorquando il Banco di Napoli avesse dato assenso all’esclusione della porzione venduta dall’ipoteca gravante sul fabbricato. Successivamente il tribunale campano, qualificando tale contratto come preliminare di preliminare, ne ravvisò la nullità per difetto di causa. I promittenti venditori impugnarono la sentenza del Tribunale di Avellino. La Corte d’Appello di Napoli confermò la sentenza di primo grado in quanto ritenne che al contratto preliminare potesse riconoscersi una funzione giuridicamente apprezzabile solo se fosse idoneo a produrre effetti diversi da quelli del contratto preparatorio. Di conseguenza ne negò rilevanza poiché il secondo preliminare avrebbe prodotto gli stessi effetti previsti nel primo. Le parti hanno proposto ricorso in Cassazione, quest'ultima con l’ordinanza interlocutoria del 12 marzo 2014 n. 5779 ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, le quali si sono occupate di due questioni: a) se il contratto preliminare di preliminare obbliga solo al successivo preliminare o anche alla stipula del definitivo b) se sia valido il contratto preliminare che riproduce il suo contenuto al verificarsi di determinate circostanze. L‘interesse della sentenza in commento emerge con particolare evidenza poiché per la prima volta si è riconosciuta rilevanza al contratto “preliminare di preliminare”, seppure a determinate circostanze. (*) Dottore in Giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. CONTENZIOSO NAZIONALE 137 2. L’origine del contratto preliminare e lo sviluppo di figure contrattuali ad esso connesse. Il codice del 1865, ispirandosi al Code Napolèon, non disciplinava il contratto preliminare poiché si basava sul tradizionale principio napoleonico: “promessa di vendita vale vendita”, di conseguenza l’elaborazione del contratto preliminare si deve al diritto tedesco (Vorvertrag) (1). La diffusione di tale tipologia contrattuale ha segnato il progressivo abbandono dell’istituto “promessa di vendita” di matrice francese (2). La dottrina dell'Ottocento ha qualificato il contratto preliminare come un contratto in cui le parti, pur volendo concludere un negozio, non vogliono obbligarsi nel momento, differendone la conclusione in un momento futuro (3) (4). Il contratto preliminare è quel contratto con cui le parti si obbligano alla stipulazione di un successivo contratto, definitivo, i cui tratti essenziali sono stati già definiti nel preliminare (5). Tale tipologia contrattuale consente, alle parti, di definire i contenuti di un futuro contratto, che sarà obbligatoriamente stipulato tra le stesse a distanza di tempo. Quindi esso si differenzia dal contratto definitivo in quanto dà luogo solo ad effetti obbligatori e non ad effetti reali che, invece, si produrranno solo con la stipula del definitivo (6). Dall'orientamento espresso da autorevole dottrina emerge che la funzione del preliminare è quella di dare rilevanza ad un accordo che attualmente non può considerarsi definitivo, in quanto la parte non è nella disponibilità del bene o della cosa oggetto del preliminare (7). Questa sua funzione ha portato parte della dottrina ad affermare che il preliminare sia l'atto centrale dell'affare, poiché il contratto definitivo consiste in un completamento di quanto già affermato dalle parti nel preliminare (8). (1) F. GAZZONI, Il contratto preliminare, Torino, 2010, pag. 1. (2) A. CHINALE, Il preliminare di preliminare: intentio certa sese obligandi, in Notariato, 2010, pag. 43. (3) L. COVIELLO, Contratto preliminare, voce Enciclopedia Giuridica Italiana, III.III.II, Milano, 1902, pag. 68. (4) L. COVIELLO, I contratti preliminari, Milano, 1896, pag. 69, citando Giorgi afferma che la funzione del contratto preliminare è quella di consentire alle parti di tutelarsi “nei casi in cui non si può, da una parte, conchiudere il contratto definitivo, senza certe autorizzazioni che richiedono tempo, e dall’altro non si vuol rimanere, come suol dirsi, con le mosche in mano”. (5) F. CALISAI, Lo “smembramento” del contratto preliminare ad effetti anticipati alla luce della pronuncia delle Sezioni Unite: il promissario acquirente-comodatario (e quindi detentore) e il promittente venditore-mutuatario, in Rivista diritto commerciale, II, pag. 181. (6) F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2009, pag. 879. (7) P. CRISCUOLI, Il preliminare di cosa altrui, in Immobili e proprietà, 2011, pag. 552. (8) F. TOSCHI VESPASIANI, La situazione del promissario acquirente nel preliminare ad effetti anticipati al vaglio delle Sezioni Unite, in Studium Iuris, 2009, pag. 1197. 138 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 Dal contratto preliminare cosiddetto “puro”, sono derivate altre figure, oggetto di vivaci dibattiti in dottrina e giurisprudenza. In primo luogo si può menzionare il preliminare ad effetti anticipati. Tale figura contrattuale è nata nell’ambito della compravendita immobiliare (9), ma si sta sempre più espandendo in altri settori, ad esempio è frequentemente utilizzato il preliminare di vendita di cosa futura con pagamento integrale del prezzo pattuito. Il contratto preliminare ad effetti anticipati permette al promissario acquirente di essere immesso nel possesso del bene e al promittente venditore di ottenere il pagamento del bene, tuttavia il promissario acquirente non otterrà la proprietà del bene fino alla stipula del contratto definitivo (10), al pari, del promittente venditore che non perderà la proprietà del bene fino alla stipula del definitivo (11). La funzione di tale contratto è quella di permettere al promittente venditore di entrare, immediatamente, in possesso di tutta o di parte della somma pattuita per la vendita, mentre altrettanto immediatamente, permette al promissario acquirente di verificare l’effettiva utilità dell’acquisto e di sfruttarlo economicamente (12). In secondo luogo si può menzionare la figura del preliminare di cosa altrui. Il contratto preliminare di cosa altrui si configura nel contratto in cui il promittente venditore si obbliga a procurare al promissario acquirente l’acquisto della proprietà del bene, alla stipulazione del contratto definitivo. Ormai costante giurisprudenza ha sostenuto che il promittente venditore può far conseguire un tale effetto al promissario acquirente in due modi: acquistando il bene dall’attuale proprietario e trasferendolo al promissario acquirente (13) o facendo acquistare il bene al promissario acquirente direttamente dall’attuale proprietario (14). Tale figura contrattuale ha avuto molta diffusione nella prassi e soprattutto nel “trading”, in cui dei soggetti che già avevano stipulato convenzioni preliminari come promissari acquirenti di un immobile, trasferiscono il medesimo (9) P.E. CORRIAS, La nuova disciplina della trascrizione del contratto preliminare e le attuali prospettive di inquadramento del c.d. preliminare ad effetti anticipati, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1998, pag. 1007 (10) Cass. Civ. Sez. Un. del 27 marzo 2008 n. 7930/2008, in Giustizia Civile Massimario, 2008, pag. 463. (11) F. CALISAI, Lo “smembramento” del contratto preliminare ad effetti anticipati alla luce della pronuncia delle Sezioni Unite: il promissario acquirente-comodatario (e quindi detentore) e il promittente venditore-mutuatario, in Rivista diritto commerciale, II, pag. 181. (12) I.L. NOCERA, Preliminare ad effetti anticipati: spunti per l’ipotesi di possesso ai fini dell’usucapione, in Immobili e proprietà, 2013, pag. 161. (13) Cass. Civ. Sez. Un. del 18 maggio 2006 n. 116242, in Giurisprudenza Italiana Recentissime, 2006, pag. 248. (14) A.G. ANNUNZIATA, Preliminare di vendita di un bene altrui, in www.altalex.com, articolo del 23 marzo 2007. CONTENZIOSO NAZIONALE 139 immobile ad altri acquirenti. In tal modo il contratto finale sarà tra l’originario proprietario e l’ultimo acquirente. Quindi in tal caso il contratto preliminare di cosa altrui avrà la funzione di permettere al promittente venditore di ottenere una plusvalenza dalla stipulazione dei due contratti, nel primo in veste di promissario acquirente e nel secondo in veste di promittente venditore (15). Come vedremo successivamente, a tali questioni è connessa quella del contratto c.d. preliminare di preliminare, soprattutto alla luce del nuovo orientamento manifestato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. 3. La prima pronuncia della Suprema Corte sul “preliminare di preliminare”. Il contratto preliminare di preliminare può definirsi come il contratto con cui le parti si obbligano a stipulare un altro contratto preliminare, prima della stipula del definitivo (16). Nella prassi si verifica l’applicazione di un preliminare di preliminare nelle compravendite immobiliari concluse per mezzo dell’agenzia. Nelle compravendite immobiliari concluse per mezzo dell’agenzia, infatti, i contraenti danno luogo a un primo preliminare con l’accettazione della proposta di acquisto da parte del compratore, disciplinata dall’art. 1326 del codice civile. Tuttavia, nell’accettazione della proposta di acquisto, essendo indicati solo gli elementi essenziali del contratto (immobile, oggetto della vendita e prezzo), le parti, ravvisando la necessità di accordarsi anche su altri più dettagliati elementi, posticipano l’accordo su questi elementi ulteriori in un successivo contratto preliminare. A seguito di tale contratto, non appena raggiunto l’accordo su tutti gli elementi, procederanno alla stipula del definitivo. Quindi la compravendita immobiliare mediante agenzia si può distinguere in tre distinte fasi: nella prima vi è la stipula di un primo preliminare che ha ad oggetto solo gli elementi essenziali dell’affare; nella seconda vi è la stipula di un secondo preliminare in cui le parti hanno raggiunto l’accordo su elementi ulteriori a quelli essenziali; nella terza fase in cui le parti stipulano il contratto definitivo (17). Alla luce di quanto suesposto si può definire il “contratto preliminare di preliminare” come il contratto con cui le parti si accordano sugli elementi essenziali, rimandando l’accordo sugli altri elementi in un momento successivo, fermo restando l’obbligo di stipulare il definitivo. (15) D. FALCONIO, Preliminare di vendita di cosa altrui o parzialmente altrui ovvero un'aquila che si crede un pollo, in http://elibrary.fondazionenotariato.it. (16) C.M. BIANCA, Istituzioni di diritto privato, Milano, 2014, pag. 343. (17) M. BELLANTE, Il c.d. preliminare di preliminare concluso nelle compravendite immobiliari mediate da agenzia, in Rassegna di diritto civile, 2010, pag. 954. 140 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 I due contratti preliminari non hanno lo stesso contenuto in quanto il secondo ha elementi ulteriori che vanno a colmare le lacune presenti nel primo preliminare (18). Su tale figura contrattuale la dottrina si è divisa in due distinte posizioni. Nella prima vi sono coloro che attribuiscono già al primo accordo, in cui si è accettata la proposta di acquisto, il valore di un contratto preliminare, di conseguenza negano l’ammissibilità del “preliminare di preliminare”, in quanto sottolineano l’inutilità di una figura contrattuale che obbliga le parti ad obbligarsi, poiché le parti potrebbero benissimo obbligarsi la prima volta. I fautori di tale tesi negano l'ammissibilità del c.d. preliminare di preliminare, poiché sostengono che tale tipologia contrattuale non abbia una causa meritevole di tutela. Questa è stata la tesi maggiormente seguita dalla giurisprudenza che, nonostante il parere favorevole di parte della dottrina, ha escluso l’ammissibilità del contratto preliminare di preliminare. Nella seconda vi sono coloro che, facendo leva sulla causa in concreto avente ha ad oggetto l'interesse realmente perseguito dalle parti (19), intendono dare rilevanza al vincolo assunto da queste, riguardante l'obbligo a contrattare e non il diverso obbligo a stipulare. Occorre precisare che la nozione di causa in concreto, indicata come “la ragione concreta del contratto” (20) è ormai condivisa dalla giurisprudenza, superando cosi la nozione di causa come “astratta funzione economico-sociale del negozio” (21). Essi sostengono che la stipula di un preliminare di preliminare permetterebbe ai contraenti di conseguire un interesse meritevole di tutela, poiché consentirebbe a questi di prenotare, sulla base della fissazione degli elementi essenziali, un successivo effetto destinato a continuare nel secondo preliminare e a manifestarsi nella stipula del contratto definitivo. Quindi, con la stipula di due contratti preliminari, i contraenti trarrebbero l’indubbio vantaggio di giungere all’accordo definitivo mediante un progressivo intento di accordi dello stesso tipo, ma aventi, progressivamente, un contenuto più completo (22). Anche in giurisprudenza, già negli anni sessanta, si ravvisavano pronunce favorevoli sull’ammissibilità del preliminare di preliminare. (18) M.G. SALVADORI, La validità del c.d. preliminare di preliminare: una questione (non ancora) risolta, in Nuova giurisprudenza civile commentata, 2009, pag. 1003. (19) F. LONGOBUCCO, Contratto preliminare “ad effetti anticipati” e accordo atipico di cessione del possesso: una questione di interpretazione, in Giurisprudenza Italiana, 2011, pag. 553. (20) Cass. Civ., 12 novembre 2009, n. 23941, in Giustizia Civile Massimario, 2009, pag. 1582. (21) C.M. BIANCA, Istituzioni di diritto privato, Milano, 2014, pag. 434. (22) M. BELLANTE, Il c.d. preliminare di preliminare concluso nelle compravendite immobiliari mediate da agenzia, in Rassegna di diritto civile, 2010, pag. 955. CONTENZIOSO NAZIONALE 141 La Corte d’Appello di Napoli, facendo leva sul principio di autonomia negoziale, ha ritenuto ammissibile, dopo una prima intesa scritta, una successiva intesa volta alla stipulazione del contratto preliminare ed è giunta ad ammettere tale controversa figura contrattuale (23). Tuttavia la Corte di Cassazione, nella prima pronuncia (24) sul contratto preliminare di preliminare ha condiviso l’opinione maggioritaria della giurisprudenza, ritenendo che tale contratto non assolva un interesse meritevole di tutela, in quanto “l’obbligarsi ad obbligarsi darebbe luogo ad un inconcludente superfetazione”, poiché l’impegno può essere assunto immediatamente. La Suprema Corte ritiene che “obbligarsi ad obbligarsi” creerebbe solo un bis in idem, dato che si raggiungerebbe il medesimo obiettivo mediante una sola promessa (25). Nella sentenza del 2009 la Suprema Corte ha negato la rilevanza del preliminare di preliminare, anche sotto l’aspetto della causa del contratto, in quanto ha preferito accogliere la precedente nozione di causa, quale ragione economico sociale del contratto, piuttosto che condividere la nozione di causa concreta (26), accolta, negli ultimi anni, da costante giurisprudenza. Inoltre ha ravvisato che l’accordo sugli elementi essenziali ha già una tutela giuridica mediante la puntuazione o minuta. La puntuazione può definirsi come atto scritto contenente l’enunciazione degli elementi, sempre rivedibili, inerenti alle trattative svolte sino a quel momento. Essa ha la funzione di documentare l’intesa raggiunta dalle parti su alcuni punti (27). La puntuazione permetterebbe di tutelare i contraenti in quanto, considerando il punto di trattative raggiunto dalle parti, valuterà il recesso ingiustificato da queste (28). La differenza tra la puntuazione ed il primo preliminare è data dal fatto che, mentre quest’ultimo obbliga le parti alla stipula di un successivo contratto, la puntuazione non ha alcun effetto vincolante (29). Tale affermazione è stata espressa dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 4265 del 1995: “Ciò che distingue essenzialmente la cosiddetta “puntuactio” tanto dalla proposta contrattuale, quanto dal contratto preliminare è il fatto che essa, anziché contenere, sia pure in “nuce”, tutti gli elementi o, (23) Corte d’Appello Napoli, 11 ottobre 1967, in Diritto e giurisprudenza, 1968, pag. 550. (24) Cass. Civ., 2 aprile 2009, n. 8038, in Giustizia Civile Massimario, 2009, pag. 571. (25) A. CHINALE, Il preliminare di preliminare: intentio certa sese obligandi, in Notariato, 2010, pag. 45. (26) G. ALESSI, Configurabilità e validità della figura del “preliminare di preliminare”: la questione va alle Sezioni Unite, in La nuova procedura civile, 2014, pag. 109. (27) G. ADILARDI, Il contratto preliminare, Padova, 2008, pag. 9. (28) F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2009, pag. 879. (29) C. RESTIVO, Le Sezioni Unite chiamate a pronunciarsi sulla validità del “preliminare di preliminare”, in www.dirittocivilecontemporaneo.com. 142 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 quanto meno, quelli essenziali del contratto, contempli dati limitati o generici del contratto medesimo e, anziché documentare l’intesa raggiunta o essere diretta a provocare l’accettazione o la definizione dell’accordo, abbia carattere solo interlocutorio e preparatorio della stipulazione” ( 30). In ultimo ha ritenuto che il primo preliminare non sarebbe eseguibile in forma specifica, ex art. 2932 c.c., poiché rimandando ad un successivo contratto escluderebbe il rimedio giurisdizionale fin quando non sia intervenuta l’ulteriore scrittura che definisca il contenuto del contratto, di conseguenza solo il secondo preliminare sarà suscettibile di esecuzione forzata (31). 4. Il preliminare di preliminare alla luce della sentenza delle Sezioni Unite. L’acceso dibattito che ha suscitato il preliminare di preliminare in dottrina e giurisprudenza ha portato la Corte di Cassazione a rimettere la questione alle Sezioni Unite con l’ordinanza interlocutoria del 12 marzo 2014 n. 5779. Nell’affrontare tale problematica, le Sezioni Unite riconoscono che il contratto preliminare di preliminare è sorto nell’ambito della compravendita immobiliare e dell’attività di mediazione professionalmente gestita, laddove per la complessità di tali contratti si è formata la prassi di distinguere, come affermato in precedenza, in tre fasi la stipulazione del contratto finale. La questione sottoposta alle Sezioni Unite aveva ad oggetto un contratto intitolato “dichiarazione preliminare d’obbligo”, che conteneva gli elementi essenziali ma rimandava alla stipulazione del preliminare di vendita solo allorquando il Banco di Napoli avesse concesso la liberazione di ipoteca. Quindi alle Sezione Unite sono stati posti i seguenti quesiti: - Il contratto preliminare di preliminare obbliga solo al successivo preliminare o anche alla stipula del definitivo? - È nullo il contratto preliminare che prevede solo la riproduzione del suo contenuto al verificarsi di determinate circostanze? Le Sezioni Unite nella sentenza del 6 marzo 2015 n. 4628, prendendo posizione sulla prima questione sollevata nell’ordinanza interlocutoria, affermano che il contratto preliminare di preliminare non esaurisca il suo obbligo con la stipula del successivo preliminare, ma pone l’obbligo di stipulare il contratto definitivo. La posizione espressa dalle Sezioni Unite, in tale sentenza, contrasta apertamente con quanto affermato dalla Corte di Cassazione nel 2009, in quanto sostengono: “appare difficile in considerazione del principio generale di cui all’art. 1419 c.c. comma 1, ritenere che la nullità dell’obbligo di concludere (30) Cass. Civ. 13 aprile 1995 n. 4265, in G. ADILARDI, Il contratto preliminare, Padova, 2008, pag. 26. (31) F. TOSCHI VESPASIANI, Il preliminare di preliminare e la proposta di acquisto accettata, in I contratti, 2009, pag. 995. CONTENZIOSO NAZIONALE 143 un contratto preliminare riproduttivo di un contratto preliminare già perfetto possa travolgere anche l’obbligo, che si potrebbe definire finale, di concludere il contratto definitivo”. Le Sezioni Unite, per superare le posizioni espresse dalla precedente giurisprudenza, hanno fatto leva sulla causa concreta del contratto, come peraltro sostenuto da parte della dottrina, affermando che dovrà considerarsi prevalente l’interesse perseguito dalle parti. Per individuare il reale interesse delle parti si dovrà fare riferimento ai criteri indicati dagli art. 1362 c.c. e ss., verificando se le parti hanno voluto dare al primo atto una efficacia vincolante o meno. Il contratto preliminare di preliminare è un istituto affine alla puntuazione, la differenza tra i due sta nel carattere obbligatorio che deve riconoscersi al primo. Si potrebbe sostenere che mentre il preliminare di preliminare obbliga a contrarre, la puntuazione obbliga a contrattare. Quindi per verificare se le parti volessero dare origine a una semplice puntuazione o a un preliminare, occorrerebbe verificare l’interesse effettivo da esse perseguito (32). In tale accertamento si dovrà prendere in considerazione la volontà espressa dalle parti, per come espressa nel documento (33). Le Sezioni Unite sulla seconda questione hanno negato la sussistenza di un interesse meritevole di tutela nell’ipotesi in cui le parti stipulassero un secondo preliminare avente il medesimo oggetto del primo, in quanto vi sarebbe una “superfetazione” e si complicherebbe, inutilmente, la stipulazione tra le parti. Viceversa, tale interesse sussiste laddove le parti stipulassero un secondo preliminare avente un ulteriore contenuto rispetto al primo. Quindi si dovrà escludere la nullità del preliminare di preliminare quando nel primo preliminare siano indicati gli elementi essenziali del contratto (parti del contratto, bene oggetto del contratto e prezzo) e nel successivo ulteriori elementi che arricchiscano il contenuto del primo. Infatti se la causa del contratto va ricercata nella ragione concreta del contratto, sarebbe irragionevole negare alle parti la possibilità di far precedere la (32) G. TARANTINO, È ammissibile il preliminare del preliminare solo se conforme all’interesse delle parti, in Diritto e giustizia, 2015, pag. 45. (33) Cass. Civ. 14 luglio 2006 n. 16118: “In tema di minuta o di puntuazione del contratto, l'indagine del giudice deve accertare se le parti abbiano inteso porre realmente in essere il rapporto contrattuale sin dal momento dell'accordo, oppure se la loro intenzione sia stata quella di differire la conclusione del contratto ad una manifestazione successiva di volontà. A tal fine, la valutazione del giudice deve prevalentemente incentrarsi sul documento in ordine al quale si è formato l'accordo delle parti, fermo restando che la parte ha la più ampia facoltà di provare con elementi extratestuali il mancato perfezionamento del contratto e che le risultanze istruttorie, comunque ottenute e quale che sia la parte ad iniziativa della quale sono formate, concorrono tutte ed indistintamente alla formazione del convincimento del giudice”, in Il Civilista, 2008, pag. 86. 144 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 stipulazione del definitivo da due preliminari, qualora le parti abbiano interesse alla graduazione progressiva del contratto (34). Le Sezioni Unite hanno fatto bene a ritenere ammissibile il preliminare di preliminare in quanto, permettendo alle parti di scandire in più fasi il loro iter contrattuale, si tutelerebbe un apprezzabile interesse delle parti, ad esempio quello di ottenere maggiori informazioni sull'affare. Alla luce di quanto affermato, la soluzione a cui sono giunte le Sezioni Unite deve ritenersi condivisibile in quanto, come ritenuto da autorevole dottrina, non vi sarebbero motivi rilevanti volti a negare alle parti la possibilità di giungere alla stipula del definitivo attraverso più incontri, se tale via fosse la più idonea al perseguimento dell’interessi delle parti (35). Quindi, contrariamente a quanto sostenuto dalla Suprema Corte nel 2009, si deve riconoscere come meritevole di tutela l’interesse delle parti a graduare in più fasi la formazione del contratto. Inoltre il preliminare di preliminare, come si è potuto notare nel primo paragrafo, è in linea con altri istituti ammessi dalla giurisprudenza come il contratto preliminare di cosa altrui o il contratto preliminare di cosa futura, in cui l’iter contrattuale si scinde in due fasi distinte, consistenti nella stipula del preliminare e nella successiva stipula di un contratto obbligatorio, prima della stipula del definitivo (36). Di conseguenza, essendo già stati ammesse delle tipologie contrattuali che scindono la trattazione preliminare in due fasi, non vi sarebbe ragione per non ammettere un analoga scissione anche al preliminare di preliminare. Al pari di quanto affermato nel 2009 le Sezioni Unite concordano sull’inapplicabilità dell’esecuzione in forma specifica, ex art. 2932 c.c., in quanto questo è un rimedio applicabile solo al contratto definitivo. Le Sezioni Unite, contrastando la precedente giurisprudenza maggioritaria, hanno affermato l’ammissibilità del contratto preliminare di preliminare a determinate condizioni: “In presenza di contrattazione preliminare relativa a compravendita immobiliare che sia scandita in due fasi, con la previsione di stipula di un contratto preliminare successiva alla conclusione di un primo accordo, il giudice di merito deve preliminarmente verificare se tale accordo costituisca già esso stesso contratto preliminare valido e suscettibile di conseguire effetti ex art. 1351 e 2932 c.c., ovvero anche soltanto effetti obbligatori ma con esclusione dell'esecuzione in forma specifica in caso di (34) F. TOSCHI VESPASIANI, Il preliminare di preliminare e la proposta di acquisto accettata, in I contratti, 2009, pag. 996. (35) G.E. NAPOLI, Il Contratto preliminare del preliminare, in Rivista di diritto civile, 2010, pag. 91. (36) G.E. NAPOLI, Il Contratto preliminare del preliminare, in Rivista di diritto civile, 2010, pag. 92. CONTENZIOSO NAZIONALE 145 inadempimento. Riterrà produttivo di effetti l'accordo denominato come preliminare con il quale i contraenti si obblighino alla successiva stipula di un altro contratto preliminare, soltanto qualora emerga la configurabilità dell'interesse delle parti a una formazione progressiva del contratto basata sulla differenziazione dei contenuti negoziali e sia identificabile la più ristretta area del regolamento di interessi coperta dal vincolo negoziale originato dal primo preliminare”. Quindi le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno ammesso il c.d. preliminare di preliminare qualora si possa riscontrare la volontà delle parti a scandire la trattazione preliminare in due contratti, laddove nel secondo si disciplineranno ulteriori elementi, non trattati nel primo contratto. Sebbene tali conclusioni siano condivisibili e apprezzabili, lo stesso non può dirsi relativamente alle affermazioni relative alla violazione del contratto preliminare di preliminare: “si deve immaginare la pattuizione di un vincolo contrattuale che sia finalizzato ad ulteriori accordi e che il rifiuto di contrattare opposto nella seconda fase, se immotivato e contrario a buona fede, possa dar luogo a responsabilità contrattuale da inadempimento di un obbligazione specifica sorta nel corso della formazione del contratto e non propriamente ex contractu”. Di conseguenza, afferma che: “la violazione di tale accordo, in quanto contraria a buona fede, potrà dar luogo a responsabilità per la mancata conclusione del contratto stipulando, da qualificarsi di natura contrattuale per la rottura del rapporto obbligatorio assunto nella fase precontrattuale”. A prima facie emerge la contraddittorietà del ragionamento sostenuto, laddove si qualifica come contrattuale la responsabilità per la rottura del rapporto assunto nella fase precontrattuale. La dottrina si è divisa in ordine all'individuazione della natura della responsabilità precontrattuale. Le posizione espresse dalla dottrina si possono suddividere in tre tesi. Una prima tesi attribuisce alla responsabilità precontrattuale la natura di responsabilità contrattuale, tale tesi si incentra sul dovere di buona fede, a cui sono tenute le parti durante le trattative. Quest'ultime determinano il sorgere tra le parti di un vincolo giuridico, tale da qualificare la violazione di tale vincolo come inadempimento contrattuale (37). Una seconda tesi attribuisce alla responsabilità precontrattuale la natura di responsabilità extracontrattuale, in quanto ritiene che il contratto preliminare sia volto a tutelare un interesse della vita di relazione, individuato nella libertà negoziale. Quindi le parti contrattuali dovranno comportarsi, nello svolgimento del contratto secondo diligenza e buona fede (38). Tale tesi ha avuto il maggiore riscontro in giurisprudenza (39). (37) G. CAPO, A. MUSIO E G. SALITO, Il contratto preliminare, Padova, 2014, pag. 845. 146 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 I fautori della natura extracontrattuale, inoltre, sostengono che non si possa avere un rapporto contrattuale nella fase delle trattative o della formazione del contratto. Tale assunto appare chiaro anche considerando l'etimologia delle parole, in quanto la parola precontrattuale indica tutte le attività svolte prima della formazione del contratto. Quindi, facendo leva sulla etimologia stessa delle parole, la responsabilità contrattuale presuppone l'esistenza di un contratto in base al quale gli stipulanti dovranno tenere un determinato comportamento, che tuttavia manca nella fase delle trattative o del preliminare (40). Una terza tesi ritiene che la responsabilità precontrattuale dia luogo ad un tertium genus di responsabilità distinta da quella contrattuale e quella extracontrattuale. I fautori di tale tesi escludono la natura di responsabilità contrattuale in quanto non ritengono di ricondurre le attività precontrattuali nella nozione di contratto, mentre escludono la natura di responsabilità extracontrattuale poiché ritengono che la regola espressa nell'art. 1337 c.c. non riguardi solo aspetto risarcitorio (41). Tale tesi, invero minoritaria, non ha avuto riscontro in giurisprudenza, in quanto non si ritiene possibile inserire un altro tipo di responsabilità oltre la responsabilità contrattuale ed extracontrattuale (42). La conclusione a cui sono giunte le Sezioni Unite sulla responsabilità per la violazione del preliminare di preliminare non può essere condivisa in quanto si deve obiettare che seppure si stipulino due diversi contratti preliminari e sorga un rapporto obbligatorio, siamo sempre in una fase preliminare alla conclusione del definitivo. (38) C.M. BIANCA, Diritto Civile, III, Il Contratto, Milano, 2000, pag. 158. (39) Cass. Civ. Sez. III 29 luglio 2011 n. 6735 afferma: “La responsabilità precontrattuale derivante dalla violazione della regola di condotta, posta dall'art. 1337 c.c. a tutela del corretto dipanarsi dell'iter formativo del negozio, costituisce una forma di responsabilità extracontrattuale, cui vanno applicate le relative regole in tema di distribuzione dell'onere della prova. Ne consegue che, qualora gli estremi del comportamento illecito siano integrati dal recesso ingiustificato di una parte, grava non su chi recede la prova che il proprio comportamento corrisponde ai canoni di buona fede e correttezza, ma incombe, viceversa, sull'altra parte l'onere di dimostrare che il recesso esula dai limiti della buona fede e correttezza postulati dalla norma de qua”. Dello stesso avviso anche Cass. Civ. Sez. III 5 agosto 2004 n. 15040: “La responsabilità precontrattuale derivante dalla violazione della regola di condotta posta dall'art. 1337 c.c. a tutela del corretto dipanarsi dell'iter formativo del negozio costituisce una forma di responsabilità extracontrattuale, cui vanno applicate le relative regole in tema di distribuzione dell'onere della prova. Ne consegue che, qualora gli estremi del comportamento illecito siano integrati (come nella specie) dal recesso ingiustificato di una parte (in un contesto connotato dall'affidamento dell'altra parte nella conclusione del contratto), grava non su chi recede la prova che il proprio comportamento corrisponde ai canoni di buona fede e correttezza, ma incombe, viceversa, sull'altra parte l'onere di dimostrare che il recesso esula dai limiti della buona fede e correttezza postulati dalla norma "de qua"”. (40) G. CAPO, A. MUSIO E G. SALITO, Il contratto preliminare, Padova, 2014, pag. 846. (41) G. CAPO, A. MUSIO E G. SALITO, Il contratto preliminare, Padova, 2014, pag. 849. (42) C.M. BIANCA, Diritto Civile, III, Il Contratto, Milano, 2000, pag. 158. CONTENZIOSO NAZIONALE 147 Alla luce di quanto suesposto si deve ritenere che il dovere di buona fede, a cui si riferisce la sentenza, deve intendersi come l’obbligo delle parti di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto. La violazione dell’accordo sulla stipula del definitivo darà luogo ad abbandono ingiustificato delle trattative, poiché è palese che nel preliminare di preliminare le trattative siano giunte ad un punto tale da far confidare la controparte sulla conclusione del contratto (43). Quindi sarebbe stato più opportuno ravvisare nella violazione del preliminare di preliminare una responsabilità precontrattuale in quanto, seppure è vero che il primo preliminare obbliga le parti a stipulare il contratto definitivo, esso non avrà tutti gli elementi per poter addivenire alla stipula del definitivo. Di conseguenza si dovrebbe ravvisare una responsabilità contrattuale solo dopo la stipula del secondo contratto preliminare, in quanto si tratta del contratto che, avendo esaurito la fase delle trattative, contiene il reciproco accordo delle parti su tutti gli elementi contrattuali. Cassazione civile, Sezioni Unite, sentenza 6 marzo 2015 n. 4628 - Primo Pres. f.f. L.A. Rovelli, Pres. Sez. M.G. Luccioli, Pres. Sez. R. Rordorf, Rel. P. D’Ascola, P.M. U. Apice (difforme) - M.F., S.M. (avv. M. Agone) c. F.M. (avv. G. Grella). Svolgimento del processo 1) Gli odierni ricorrenti agirono nel novembre 1996 proclamandosi promittenti venditori di una porzione di fabbricato sita in Avellino. Chiesero l'esecuzione in forma specifica dell'accordo preliminare concluso il 9 luglio 1996 con i promissari acquirenti, i coniugi Fr.Gi. e F.M. I convenuti resistettero sostenendo che la scrittura privata del 9 luglio costituiva una semplice puntuazione, priva di efficacia obbligatoria, insuscettibile di esecuzione ex art. 2932 c.c. Il tribunale di Avellino rilevò che il contratto conteneva l'impegno a stipulare il contratto preliminare di compravendita, allorquando il Banco di Napoli avesse dato assenso all'esclusione della porzione venduta dall'ipoteca gravante sul fabbricato. Il tribunale ritenne che il contratto stipulato fosse da qualificare come "preliminare di preliminare" e che fosse nullo per difetto originario di causa. Pertanto respinse la domanda. Anche la Corte di appello di Napoli ha ritenuto che al contratto preliminare può riconoscersi funzione giuridicamente apprezzabile solo se è idoneo a produrre effetti diversi da quelli del (43) Cass. Civ. del 26 febbraio 2013 n. 4802: “Perché possa ritenersi integrata la responsabilità precontrattuale, è necessario che tra le parti siano in corso trattative; che le trattative siano giunte a uno stadio idoneo a far sorgere nella parte che invoca l'altrui responsabilità il ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto; che la controparte, cui si addebita la responsabilità, interrompa le trattative senza un giustificato motivo; che, infine, pur nell'ordinaria diligenza della parte che invoca la responsabilità, non sussistano fatti idonei a escludere il suo ragionevole affidamento sulla conclusione del contratto”, in Guida al diritto, 2013, pag. 16. 148 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 contratto preparatorio; che nella specie il secondo preliminare previsto dalle parti avrebbe prodotto gli stessi effetti di impegnarsi a stipulare alle medesime condizioni e sul medesimo bene; che pertanto l'accordo del 1996 era nullo, per difetto di causa autonoma rispetto al contratto preliminare da stipulare. Ha rigettato quindi la domanda di risoluzione e risarcimento danni, introdotta nel corso del giudizio di primo grado ex art. 1453 c.c., comma 2. Avverso questa sentenza, i promittenti venditori signori M. - S. hanno proposto ricorso per cassazione con unico motivo. Gli intimati inizialmente non hanno svolto attività difensiva. In vista della pubblica udienza, F.M. si è costituita con "memoria difensiva" del difensore nominato con procura speciale notarile. Con ordinanza interlocutoria 5779/14 del 12 marzo 2014 della seconda sezione civile, la causa è stata rimessa al primo Presidente, il quale la ha assegnata alle Sezioni Unite della Corte. Le parti costituite hanno depositato memorie. Motivi della decisione 2) Preliminarmente, con riferimento alla costituzione tardiva della intimata, va rilevato che la parte contro la quale il ricorso è diretto, se intende contraddirvi, deve farlo mediante controricorso contenente, ai sensi dell'art. 366 c.p.c., (richiamato dall'art. 370 c.p.c., comma 2), l'esposizione delle ragioni atte a dimostrare l'infondatezza delle censure mosse alla sentenza impugnata dal ricorrente. In mancanza di tale atto, essa non può presentare memoria, ma solamente partecipare alla discussione orale (Cass. 6222/12; 1737/05). 3) Con unico complesso motivo di ricorso i promittenti venditori denunciano violazione e falsa applicazione degli artt. 1321, 1322, 1324, 1351, 1362 ss., 1374, 2697 e 2932 c.c. Invocano le opinioni dottrinali e giurisprudenziali che, contrapponendosi alla corrente di pensiero accolta dai giudici di merito, ha riconosciuto "del tutto ammissibile e lecita la figura del preliminare di preliminare". Sostengono che non può essere negato che sussista un interesse delle parti a creare un "impegno provvisorio", scindendo la contrattazione preparatoria del contratto definitivo di vendita dell'immobile in due fasi. Affermano che la Corte di appello si è erroneamente allineata alle tesi che ritengono nullo per mancanza di causa il c.d. preliminare di preliminare, le quali ignorano il concreto svolgersi delle negoziazioni immobiliari e le esigenze della pratica. Ricordano che il contratto per cui è causa, intitolato "dichiarazione preliminare d'obbligo" conteneva gli elementi essenziali del negozio e prevedeva la stipula di un "regolare preliminare di vendita", qualora il Banco di Napoli avesse dato assenso alla liberazione dall'ipoteca. Parte ricorrente deduce che per "regolare preliminare" doveva intendersi "formale preliminare", espressione che assume oggi maggior significato in relazione alla possibilità di trascrivere i preliminari redatti "in base alla L. 28 febbraio 1997, n. 30". Evidenzia la apprezzabilità dell'interesse che le parti avevano a conoscere, nel percorso negoziale di progressivo avvicinamento, le decisioni dell'istituto bancario che vantava l'ipoteca. Il ricorso, che è concluso da congruo e concreto quesito, redatto ex art. 366 bis c.p.c., e completato da altra censura per contraddittorietà della motivazione, è fondato. 3) La Seconda Sezione ha ritenuto opportuno interpellare le Sezioni Unite, svolgendo le seguenti considerazioni: "Il collegio non ignora che questa S.C. ha già avuto occasione di affermare che il contratto in virtù CONTENZIOSO NAZIONALE 149 del quale le parti si obblighino a stipulare un successivo contratto ad effetti obbligatori (ovvero un contratto preliminare di preliminare) è nullo per difetto di causa, non essendo meritevole di tutela l'interesse di obbligarsi ad obbligarsi, in quanto produttivo di una inutile complicazione (sent. 2 aprile 2009 n. 8038, seguita, senza ulteriori approfondimenti da Cass. 10 settembre 2009) (n. 19557). Ritiene, tuttavia, che tale orientamento, nella sua assolutezza, potrebbe essere meritevole di precisazioni, con riferimento alle ipotesi che in concreto possono presentarsi. In primo luogo, potrebbe dubitarsi della nullità del contratto preliminare il quale si limitasse a prevedere un obbligo di riproduzione del suo contenuto al verificarsi di determinate circostanze, come nel caso di specie, in cui la stipulazione di un "regolare contratto preliminare" era subordinata al consenso del Banco di Napoli alla cancellazione dell'ipoteca gravante (anche) sulla porzione immobiliare promessa in vendita. Ma quello che più conta è che il contratto preliminare di contratto preliminare non esaurisce il suo contenuto precettivo nell'obbligarsi ad obbligarsi, ma contiene - come nel caso di specie - anche l'obbligo ad addivenire alla conclusione del contratto definitivo. Ora, appare difficile, in considerazione del principio generale di cui all'art. 1419 c.c., comma 1, ritenere che la nullità dell'obbligo di concludere un contratto preliminare riproduttivo di un contratto preliminare già perfetto possa travolgere anche l'obbligo, che si potrebbe definire finale, di concludere il contratto definitivo". 3.1) La sentenza 8038/09, alla quale l'ordinanza di rimessione fa riferimento, aveva così argomentato: "L' art. 2932 c.c., instaura un diretto e necessario collegamento strumentale tra il contratto preliminare e quello definitivo, destinato a realizzare effettivamente il risultato finale perseguito dalle parti. Riconoscere come possibile funzione del primo anche quella di obbligarsi... ad obbligarsi a ottenere quell'effetto, darebbe luogo a una inconcludente superfetazione, non sorretta da alcun effettivo interesse meritevole di tutela secondo l'ordinamento giuridico, ben potendo l'impegno essere assunto immediatamente: non ha senso pratico il promettere ora di ancora promettere in seguito qualcosa, anzichè prometterlo subito. Nè sono pertinenti i contrari argomenti esposti dai ricorrenti: in parte non attengono al reciproco rapporto tra le parti del futuro contratto definitivo, ma a quelli tra ognuna di loro e l'intermediario che le ha messe in relazione, sicchè non riguardano il tema in discussione; per il resto prospettano l'ipotesi di un preliminare già riferentesi al definitivo e da rinnovare poi con un altro analogo negozio formale, il che rappresenta una fattispecie diversa da quella del prepreliminare, di cui si è ritenuta in sede di merito l'avvenuta realizzazione nella specie. Correttamente, quindi, nella sentenza impugnata, esclusa la validità dell'accordo raggiunto dalle parti, ha ritenuto che esse si trovassero, in relazione al futuro contratto preliminare, nella fase delle trattative, sia pure nello stato avanzato della puntuazione, destinata a fissare, ma senza alcun effetto vincolante, il contenuto del successivo negozio". 3.2) Il confronto tra i provvedimenti soprariportati costituisce già eloquente documentazione delle incertezze che da qualche decennio agitano la dottrina e la giurisprudenza in ordine all'ammissibilità del c.d. contratto preliminare di preliminare. Si contrappongono infatti un orientamento che si può definire tradizionale, rispecchiato da Cass. 8038/09, che diffida (di "una certa diffidenza" discute per prima Pret. Bologna 9 aprile 1996, Giur. it., 1997, I, 2, 539) della configurabilità di un momento contrattuale anteriore al preliminare e un orientamento più possibilista, che considera benevolmente le ipotesi di c.d. "preliminare aperto" e ritiene possibile una tripartizione delle fasi che conducono alla stipula del definitivo. Un'analisi più approfondita della esperienza giurisprudenziale e dell'evolversi del dibattito 150 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 dottrinale può consentire di svelare contrasti solo apparenti, di riavvicinare le posizioni e di delineare senza schematismi i limiti in cui può espandersi l'autonomia privata. 3.3) In giurisprudenza viene affermato che: "In tema di minuta o di puntuazione del contratto, qualora l'intesa raggiunta dalle parti abbia ad oggetto un vero e proprio regolamento definitivo del rapporto non è configurabile un impegno con funzione meramente preparatoria di un futuro negozio, dovendo ritenersi formata la volontà attuale di un accordo contrattuale; per tale valutazione, ben può il giudice far ricorso ai criteri interpretativi dettati dall'art. 1362 c.c. e segg., i quali mirano a consentire la ricostruzione della volontà' delle parti, operazione che non assume carattere diverso quando sia questione, invece che di stabilirne il contenuto, di verificare anzitutto se le parti abbiano inteso esprimere un assetto d'interessi giuridicamente vincolante, dovendo il giudice accertare, al di là del nomen iuris e della lettera dell'atto, la volontà negoziale con riferimento sia al comportamento, anche successivo, comune delle parti, sia alla disciplina complessiva dettata dalle stesse, interpretando le clausole le une per mezzo delle altre". (Cass. 2720/09). Stabilire se la formazione di un accordo che riguardi solo i punti essenziali del contratto di compravendita (Cass. 23949/08; 2473/13; 8810/03; 3856/83) sia sufficiente a costituire un contratto preliminare suscettibile di esecuzione coattiva ex art. 2932 c.c., è questione di fatto che può risultare di difficile discernimento. Si rinvengono infatti non poche massime secondo le quali ai fini della configurabilità di un definitivo vincolo contrattuale, è necessario che tra le parti sia raggiunta l'intesa su tutti gli elementi dell'accordo, non potendosene ravvisare pertanto la sussistenza là dove, raggiunta l'intesa solamente su quelli essenziali ed ancorchè riportati in apposito documento, risulti rimessa ad un tempo successivo la determinazione degli elementi accessori. (Cass. 14267/06; 11371/10). Questo secondo filone giunge ad affermare che anche in presenza del completo ordinamento di un determinato assetto negoziale può risultare integrato un atto meramente preparatorio di un futuro contratto, come tale non vincolante tra le parti, in difetto dell'attuale effettiva volontà delle medesime di considerare concluso il contratto (910/05; 20701/07). 4) La questione rimessa oggi alla Corte non riguarda il rilievo della volontà nella conclusione del contratto e se essa sia la sola via per stabilire quando il preliminare venga definitivamente formato: è chiesto invece di indagare sulla dinamica degli accordi contrattuali in tema di compravendita immobiliare. È infatti evidente già da questa prima ricognizione quale sia l'incertezza del confine tra atto preparatorio e contratto preliminare, incertezza alimentata da una accentuata polarizzazione tra contratto preliminare (vincolante) da un lato e diniego di rilevanza negoziale, per difetto della causa, di accordi prodromici al preliminare, i quali al più vengono qualificati semplice "puntuazione". Occorre pertanto stabilire se e in quali limiti sia riconosciuto nell'ordinamento un accordo negoziale che rimandi o obblighi i contraenti a un contratto preliminare propriamente detto. 4.1) La problematica risulta affrontata più volte nella giurisprudenza di merito. Trib. Salerno 23 luglio 1948 (Dir. Giur., 1949, 101) ebbe ad affermare che la legge, nel fissare i due tipi fondamentali di contratti (preliminare e definitivo), esclude l'esistenza di un contratto preliminare relativo ad altro preliminare, il quale dovrebbe comunque rispettare il requisito di forma di cui all'art. 1351 c.c. Il tribunale di Napoli (23.11.1982 in Giustciv. 1983, 1, 283; 21.2.1985 n. 1480 Dir Giur. 1985, 725) ha aggiunto che il contratto con cui le parti si impegnano a stipulare un futuro contratto preliminare di analogo contenuto è nullo per mancanza di causa, "difettando di ogni funzione economica meritevole di tutela". La trattatistica censisce CONTENZIOSO NAZIONALE 151 vari altri casi (tra i quali: App Genova 21.2.2006, Obbl e contr., 2006, 648; App. Napoli 1.10.2003, Giur. mer. 2004, 63) che riecheggiano queste convinzioni. 4.1.1) Altre volte la giurisprudenza partenopea si è orientata in senso opposto. App. Napoli 11 ottobre 1967, (Dir. Giur. 1968, 550) ha ritenuto che "in virtù del principio dell'autonomia negoziale" sia ammissibile un regolamento contrattuale che preveda, dopo la prima intesa scritta, un'ulteriore scansione temporale, con la stipulazione del contratto preliminare, legata al versamento di una caparra. Trib. Napoli 28 febbraio 1995 (Dir. Giur. 1995, 163) muovendo dallo stesso presupposto ha considerato meritevole di tutela "il contratto preliminare del preliminare qualora lo stesso costituisca un momento ben caratterizzato dell'iter progressivo per il raggiungimento del compiuto regolamento di interessi". In altri casi i giudici di merito hanno espressamente ritenuto di non avventurarsi nella analisi, poichè hanno ravvisato già nel primo contratto gli elementi sufficienti a qualificare come preliminare ex art. 1351 c.c., l'accordo documentato (Pret. Firenze 19. 12. 1989 Giur. merito, 1990, 466) ovvero, all'opposto, la configurabilità di una condizione sospensiva, il cui mancato avveramento impedisce il perfezionamento della fattispecie negoziale (Trib. Firenze 10 luglio 1999, Nuovo dir., 2000, 487). 4.2) Queste oscillazioni mettono capo, come la giurisprudenza citata sub 3.3, al tema dell'identificazione del contratto preliminare e preannunciano il diffondersi di problematiche relative alla contrattazione in materia di vendita immobiliare, settore che ha segnato la fortuna del contratto preliminare nel nostro ordinamento. Prima di esaminare le valutazioni dottrinali in questa materia è quindi opportuno stabilire che solo questo è il campo di indagine, restando esclusi - e da salvaguardare - altri istituti di confine. Intorno al 1970, nel fissare le fondamenta concettuali del contratto preliminare, la dottrina ha avuto cura di distinguerli e di segnalare che il contratto preliminare non è "un recipiente di comodo" in cui inserire gli istituti dagli incerti confini. Va pertanto esemplificativamente ricordato che: la figura dell'opzione di contratto preliminare, di origine dottrinale (ma v. Cass. 1071/67), è un'ipotesi di "possibile allargamento della sfera di applicazione del patto di opzione" (per la distinzione, cfr Cass. 8564/12). Il patto di prelazione ha lo scopo essenziale di impedire che il promittente concluda un contratto con un terzo anzichè con il beneficiario del patto: non sembra quindi una figura diretta alla conclusione del contratto, come il preliminare, ma alla scelta del contraente, ancorchè in giurisprudenza venga qualificato come preliminare unilaterale (Cass. 3127/12). Anche il patto di contrarre con il terzo non può essere confuso con le ipotesi che ci occupano di pattuizione anteriore al preliminare, categoria al quale è estraneo, per il motivo determinante che non vi è ancora - con questo patto - una manifestazione di consenso intorno a un regolamento di interessi, ma una volontà manifestata a un soggetto diverso dal terzo con cui si dovrà in futuro contrarre. 4.3) Il vero insorgere della problematica è stato determinato dall'evoluzione della contrattazione immobiliare e dell'attività di mediazione professionalmente gestita. La complessità dei contatti, delle verifiche da effettuare, da un lato per saggiare la serietà dei proponenti, dall'altro per accertarsi della consistenza del bene e dell'affidabilità dei contraenti, hanno di fatto portato a una frequente tripartizione delle fasi contrattuali. Una prima fase in cui, a volte con la formula, almeno dichiarata, della proposta irrevocabile, l'aspirante acquirente offre un certo corrispettivo per l'acquisto del bene, atto che viene riscontrato dalla accettazione o dal rifiuto del proprietario. 152 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 Una seconda, espressamente prevista, di stipula del contratto preliminare propriamente detto. La terza, costituita dall'indispensabile rogito notarile con il saldo del prezzo. La pratica degli affari ci consegna una incalcolabile serie di varianti: inseguirle, è stato spiegato, sarebbe ozioso impegno di un giurista da tavolino. Alla variabilità della modulistica dei mediatori si aggiunge infatti la inesauribile creatività dei contraenti, assistiti o meno da consulenti legali. Il quesito che occorre risolvere concerne la configurabilità di due fasi anteriori al rogito o comunque all'atto traslativo, giustificabili l'una rispetto all'altra allo stesso modo in cui venne a suo tempo giustificata la "scissione" del contratto preliminare rispetto al definitivo. Si vuoi dire che la "scissione", in alcuni casi, dimostra che le parti sono incerte e intendono meglio orientarsi, cosicchè essa risponde all'esigenza di "fermare l'affare", ossia di dare vincoli giuridici all'operazione economica condivisa negli elementi essenziali, restando però, per una delle parti (di regola il compratore) l'esigenza di verificare con certezza la praticabilità dell'operazione, prima ancora che di definirla in termini più precisi e articolati. Ciò può avvenire sovente sui seguenti punti: a) assumere elementi di conoscenza sulla persona della controparte (es., se è imprenditore o comunque persona solvibile; escludere vicinanze "mafiose", etc.). Si tratta di elementi che non potrebbero, ove conosciuti come negativi, essere addotti a motivo di risoluzione di un contratto già concluso o forse neppure essere portati a conoscenza della controparte stessa, ragione per cui è necessario non dare carattere di assolutezza al vincolo. b) verificare con precisione lo stato della cosa; c) verificare la situazione urbanistica e svolgere le altre visure e ricerche necessarie. 5) Il ragionamento al quale si è rifatta Cass. 8038/09, e che nega la validità di un accordo ripetitivo, ha pregio se si ipotizza (come sembra sia stato comunque fatto anche in quel caso) che tra il primo e il secondo preliminare vi sia identità (bis in idem). In tal caso, mancando un contenuto nuovo in grado di dar conto dell'interesse delle parti e dell'utilità del contratto, si è parlato di mancanza di causa. La parte di dottrina che è tendenzialmente contraria ad ammettere queste pattuizioni riconosce che nelle trattative complesse il contratto si può formare progressivamente, ma nega che si possa parlare di obbligo a contrarre, preferendo l'aspetto descrittivo dell'obbligazione di contrattare. Nega anche rilievo alla differenziazione basata sulla ricorribilità al rimedio di cui all'art. 2932 c.c., solo in relazione al secondo contratto. Si pretende infatti che il rapporto tra i preliminari venga "valutato in termini di contenuto dispositivo e non già di sanzioni". È già questa una significativa apertura, ancorchè sia stata limitata a quelle fattispecie in cui le parti, impegnatesi in sede di primo accordo sui punti essenziali della futura compravendita, abbiano solo voluto rinviare la definizione di punti secondari. 5.1 Le Sezioni Unite della Corte intendono cogliere gli aspetti costruttivi di quel moderno orientamento che vuole riconoscere la libertà delle parti di determinarsi e di fissare un nucleo di interessi da trasfondere nei vari passaggi contrattuali. Viene in primo luogo in risalto, come evidenziato dal più recente dibattito dottrinale, la tematica della causa concreta. Una definizione di questa Corte (Cass. 10490/06) la qualifica come "scopo pratico del negozio... sintesi degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là del modello astratto utilizzato". Sono molti i casi in cui la Corte, dichiaratamente o meno, ha lasciato da parte la teorica della CONTENZIOSO NAZIONALE 153 funzione economico sociale del contratto e si è impegnata nell'analisi dell'interesse concretamente perseguito dalle parti nel caso di specie, cioè della ragione pratica dell'affare. L'indagine relativa alla causa concreta, - è stato evidenziato - giova sia come criterio d'interpretazione del contratto sia come criterio di qualificazione dello stesso: "La rispondenza del contratto ad un determinato tipo legale o sociale richiede infatti di accertare quale sia l'interesse che il contratto è volto a realizzare". Questa chiave di lettura conduce a riconsiderare gli approdi schematici ai quali sono pervenute in passato dottrina e giurisprudenza. È singolare, ma non casuale, che il profilo causale del contratto sia stato inteso in dottrina e giurisprudenza come ricerca della utilità del contratto, cioè della sua "complessiva razionalità" ed idoneità ad espletare una funzione commisurata sugli interessi concretamente perseguiti dalle parti attraverso quel rapporto contrattuale. È questo in fondo che la stessa Cass. 8038/09 richiede allorquando rileva che, in caso contrario, l'obbligo di obbligarsi ad ottenere un certo effetto è "una inconcludente superfetazione" priva di "senso pratico". 5.2 Le opinioni, pur partendo da prospettive diverse, coincidono dunque nel definire nulla l'intesa che si risolva in un mero obbligo di obbligarsi a produrre un vincolo che non abbia nè possa avere contenuto ulteriore o differenziato. Un secondo punto di convergenza si rinviene allorquando l'analisi del primo accordo conduce a ravvisare in esso i tratti del contratto preliminare, in quanto contenente gli elementi necessari per configurare tale contratto, quali, si osserva, l'indicazione delle parti, del bene promesso in vendita, del prezzo. La presenza della previsione di una ulteriore attività contrattuale può rimanere irrilevante, ma va esaminata alla luce delle pattuizioni e dei concreti interessi che sorreggono questa seconda fase negoziale. Giovano alcune esemplificazioni: a) Può darsi il caso che nell'accordo raggiunto sia stata semplicemente esclusa l'applicabilità dell'art. 2932 c.c.: si tratta, è stato osservato, di una esclusione convenzionalmente ammessa. La conseguenza sarà che, pur ravvisandosi un contratto "preliminare" in questa scrittura che ipotizzava un successivo accordo, si potrà far luogo, in caso di inadempimento, solo al risarcimento del danno. b) Può presentarsi l'ipotesi in cui la pattuizione della doppia fase risponda all'esigenza di una delle parti di godere del diritto di recesso, facoltà che può essere convenzionalmente prevista nel contratto preliminare e che può anche accompagnarsi alla prevista perdita di una modesta caparra penitenziale versata dal proponente l'acquisto; si tratta è stato detto, del costo del recesso da un contratto preliminare già concluso. c) È ipotizzabile, ed è quanto andrà vagliato con particolare attenzione dai giudici di merito nel giudizio odierno, che le parti abbiano raggiunto un'intesa completa, subordinandola però a una condizione. Tutte queste ipotesi, e le altre che sono immaginabili, sono apparentate da una conclusione che può regolare buona parte della casistica: va escluso che sia nullo il contratto che contenga la previsione della successiva stipula di un contratto preliminare, allorquando il primo accordo già contenga gli estremi del preliminare. L'assenza di causa che è stata rilevata quando si è discusso di "preliminare di preliminare" potrebbe in tali casi riguardare tutt'al più il secondo, ma non certo il primo contratto. 6) Dietro la stipulazione contenente la denominazione di "preliminare del preliminare" (nel senso che la conclusione dell'accordo precede la stipula del contratto preliminare) si possono dare situazioni fra loro differenti, che delineano sia figure contrattuali atipiche (quali quelle prima indicate), ma alle quali corrisponde una "causa concreta" meritevole di tutela; sia stadi 154 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 prenegoziali molto avanzati, cui corrisponde un vincolo obbligatorio di carattere ancora prenegoziale (almeno fra le parti del contratto in relazione al quale si assuma un impegno volto alla successiva stipula di un contratto preliminare) che vede intensificato e meglio praticato l'obbligo di buona fede di cui all'art. 1337 c.c.. Certo è però, che, in linea di massima, la previsione di dover dar vita, in futuro, all'assunzione dell'obbligo contrattuale nascente dal contratto preliminare, può essere sintomatica del fatto che le parti hanno consapevolezza che la situazione non è matura per l'assunzione del vincolo contrattuale vero e proprio. Ciò può dipendere segnatamente in relazione al grado di conoscenza di tutti gli elementi di fatto che occorre aver presenti per manifestare la volontà il cui incontro da vita all'accordo vincolante consacrato nel contratto preliminare. Posto, come si è detto prima, che non si può assegnare utilità al "bis in idem" in quanto volto alla mera ripetizione del primo contratto ad identici contenuti, se e quando le parti sono disposte al mutamento del contenuto del contratto, al cambiamento di esso, l'obbligazione assunta sembra avere per oggetto non il contrarre, ma il contrattare. 6.1) Anche la dottrina più rigorosa riconosce che da gran tempo è stata discussa la formazione progressiva del contratto e sembra ammettere che essa potrebbe atteggiarsi configurando una tripartizione del procedimento di compravendita immobiliare. Secondo le Sezioni Unite si deve immaginare la pattuizione di un vincolo contrattuale che sia finalizzato ad ulteriori accordi e che il rifiuto di contrattare opposto nella seconda fase, se immotivato e contrario a buona fede, possa dar luogo a responsabilità contrattuale da inadempimento di un'obbligazione specifica sorta nel corso della formazione del contratto e non propriamente ex contractu. È stato però osservato che si tratterebbe di ipotesi diversa da quella del preliminare di preliminare, che dovrebbe riguardare l'obbligo, assunto nella prima fase, di contrarre e non di contrattare, come invece avverrebbe quando siano state scandite solo tappe di una trattativa complessa. Si è quindi manifestata contrarietà all'ipotesi di un "preliminare aperto" - sottoscritto per lo più da parti che ancora non si conoscono o hanno deliberatamente lasciato alla seconda fase la regolazione di alcuni profili contrattuali - seguito da un preliminare chiuso. Questa ritrosia può essere giustificata in alcuni casi, ma non in tutti. È stato in precedenza sottolineato che va dato peso alla difficoltà di configurare come preliminare propriamente detto un rapporto obbligatorio in cui le parti non si conoscano e non siano in grado quindi di valutare le qualità soggettive dell'altro contraente. Rispetto a questa frequente ipotesi, non sembra corrispondere alle reali esigenze del traffico giuridico qualificare la prima intesa, che pur contenga gli altri elementi essenziali, come contratto preliminare. Vi sono esigenze, in una società complessa, interessata da pervasivi fenomeni criminosi, da sospette manipolazioni nel tessuto economico, da un fiorire incontrollabile di nullità contrattuali "minori", ma non per questo meno incisive negozialmente, di riservare il consenso vincolante, sottomesso all'esecuzione coattiva, a verifiche che sono da valutare soggettivamente. In altri casi il contraente resta libero da vincoli stringenti e assoggettato solo alle conseguenze risarcitorie che ha deliberamente assunto e contrattualmente delimitato, concordando espressamente la necessità di un vero e proprio preliminare e l'esclusione del disposto di cui all'art. 2932 c.c.. Una più esauriente determinazione del contenuto contrattuale può essere prevista per meglio realizzare l'interesse delle parti. Se si dovesse invece ricorrere sempre all'opzione CONTENZIOSO NAZIONALE 155 preliminare/definitivo si dovrebbero riempire i contenuti rimasti in sospeso con il meccanismo di cui all'art. 1374, integratore rispetto al primo accordo incompleto. 6.2) È stato autorevolmente sostenuto che se mancano violazioni di una legge imperativa, non v'è motivo per giudicare inammissibili procedimenti contrattuali graduali, la cui utilità sia riscontrata dalle parti con pattuizioni che lasciano trasparire l'interesse perseguito, in sè meritevole di tutela, a una negoziazione consapevole e informata. Le posizioni di coloro che pongono l'alternativa "preliminare o definitivo" amputano le forme dell'autonomia privata, sia quando vogliono rintracciare ad ogni costo il contratto preliminare in qualunque accordo iniziale, sia quando ravvisano nel c.d. preliminare chiuso il contratto definitivo, passibile soltanto di riproduzione notarile. La procedimentalizzazione della fasi contrattuali non può di per sè essere connotata da disvalore, se corrisponde a "un complesso di interessi che stanno realmente alla base dell'operazione negoziale". È vero che occorre guardarsi da un uso "poco sorvegliato" dell'espressione preliminare di preliminare", perchè l'argomento nominalistico non è neutro. Tuttavia, se ci si libera dell'ipotesi in cui appare che il primo contratto è già il contratto preliminare e che il secondo è, al più, solo la sua formalizzazione per la trascrizione, restano due "sequenze" variabili che si avvicinano: A) quella delle mere puntuazioni in cui le parti hanno solo iniziato a discutere di un possibile affare e senza alcun vincolo fissano una possibile traccia di trattative. In questa ipotesi, quanto maggiore e specifico è il contenuto, tanto più ci si avvicina al preliminare. B) Quella in cui il contratto non è ancora un vero preliminare, ma una puntuazione vincolante sui profili in ordine ai quali l'accordo è irrevocabilmente raggiunto, restando da concordare secondo buona fede ulteriori punti. Si tratta di un iniziale accordo che non può configurarsi ancora come preliminare perchè mancano elementi essenziali, ma che esclude che di quelli fissati si torni a discutere. In questa ipotesi man mano che si impoverisce il contenuto determinato ci si allontana dal preliminare propriamente detto. b1) Occorre qui ulteriormente ricordare la distinzione con l'ipotesi in cui la previsione del secondo preliminare esprime soltanto che la situazione conoscitiva delle parti non è tale da far maturare l'accordo consapevole, ma si vuole tuttavia "bloccare l'affare", anche a rischio del risarcimento del danno negativo in caso di sopravvenuto disaccordo. Ciò che conta chiarire è che, all'interno di una gamma di situazioni che ricevono risposte diverse, quelle contrassegnate sotto la lettera b sono riconducibili a una fase sostanzialmente precontrattuale, in cui la formazione del vincolo è limitata a una parte del regolamento. La violazione di queste intese, perpetrata in una fase successiva rimettendo in discussione questi obblighi in itinere che erano già determinati, da luogo a responsabilità contrattuale da inadempimento di un'obbligazione specifica sorta nel corso della formazione del contratto, riconducibile alla terza delle categorie considerate nell'art. 1173 c.c., cioè alle obbligazioni derivanti da ogni fatto o atto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico. 6.2.1) È evidente come questa linea interpretativa impone di vagliare caso per caso l'emergere dell'interesse delle parti, di questa loro volontà di rinviare il momento in cui operano sia l'integrazione suppletiva ex art. 1374 c.c. sia la cogenza del meccanismo proprio del preliminare ex art. 1351 e 2932 c.c.. Nella compravendita immobiliare l'ausilio giunge dal formalismo che contraddistingue la materia, sì da potersi di volta in volta cogliere i profili oggettivi non solo di una trattativa e della 156 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 successiva stipula di un preliminare, ma di una sequenza di atti caratterizzati da un contenuto differenziato e aventi portata contrattuale con le connesse conseguenze. 7) Alla luce di questi principi il ricorso è da accogliere. I giudici di merito hanno infatti in primo luogo omesso di valutare se il contratto in esame, sebbene prevedesse la stipula di un successivo contratto preliminare, avesse già le caratteristiche di un contratto preliminare completo, soltanto subordinato ad una condizione, cioè al consenso del Banco di Napoli alla cancellazione parziale dell'ipoteca, ipotesi da loro stessi contemplata (pag. 7 sentenza) ma scartata a causa della previsione dell'impegno a sottoscrivere un futuro preliminare. Hanno poi omesso di interrogarsi sulla validità del primo contratto, in ipotesi munito di tutti gli elementi essenziali del preliminare, e sulla possibile invalidità, in questo contesto, del secondo accordo, se meramente riproduttivo del primo. In quest'ottica hanno rovesciato la prospettiva che le Sezioni unite ritengono giuridicamente corretta. Hanno infine aderito all'orientamento che sanziona come nullo per difetto di causa un contratto che sia propedeutico al "successivo stipulando preliminare" senza verificare la sussistenza di una causa concreta dell'accordo dichiarato nullo tale da renderlo meritevole di tutela da parte dell'ordinamento, in quanto inserito in una sequenza procedimentale differenziata, secondo un programma di interessi realizzato gradualmente. Discende da quanto sposto l'accoglimento del ricorso. La sentenza impugnata va cassata e la cognizione rimessa ad altra sezione della Corte di appello di Napoli per nuovo esame dell'appello e la liquidazione delle spese di questo giudizio. Il giudice di rinvio si atterrà al seguente principio di diritto: In presenza di contrattazione preliminare relativa a compravendita immobiliare che sia scandita in due fasi, con la previsione di stipula di un contratto preliminare successiva alla conclusione di un primo accordo, il giudice di merito deve preliminarmente verificare se tale accordo costituisca già esso stesso contratto preliminare valido e suscettibile di conseguire effetti ex art. 1351 e 2932 c.c., ovvero anche soltanto effetti obbligatori ma con esclusione dell'esecuzione in forma specifica in caso di inadempimento. Riterrà produttivo di effetti l'accordo denominato come preliminare con il quale i contraenti si obblighino alla successiva stipula di un altro contratto preliminare, soltanto qualora emerga la configurabilità dell'interesse delle parti a una formazione progressiva del contratto basata sulla differenziazione dei contenuti negoziali e sia identificabile la più ristretta area del regolamento di interessi coperta dal vincolo negoziale originato dal primo preliminare. La violazione di tale accordo, in quanto contraria a buona fede, potrà dar luogo a responsabilità per la mancata conclusione del contratto stipulando, da qualificarsi di natura contrattuale per la rottura del rapporto obbligatorio assunto nella fase precontrattuale. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Napoli, che provvederà anche sulla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 7 ottobre 2014. CONTENZIOSO NAZIONALE 157 Il sindacato e la figura istituzionalmente preposta alla tutela dei lavoratori NOTA A TRIBUNALE DI NAPOLI - SEZ. LAVORO E PREVIDENZA - DECRETO 27 APRILE 2015 N. 14536 Lucrezia D’Avenia* Il decreto che si annota ha affrontato la questione giuridica della legittimazione attiva del Sindacato ad agire ex art. 28 L. 300/1970 nelle ipotesi in cui venga adottato un provvedimento in materia di sicurezza dei lavoratori, in violazione dell'obbligo di informazione e consultazione preventiva del Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza, previsto dall'art. 50 del d.lgs 81/2008. In particolare, il suddetto provvedimento, accogliendo la tesi sostenuta dall'Avvocatura di Stato ha riconosciuto che lo speciale rimedio previsto dall'art. 28 dello Statuto dei Lavoratori può essere esperito solo se, sotto il profilo oggettivo, la condotta del datore di lavoro configura una lesione dell'interesse del sindacato al libero esercizio dell'attività sindacale e del diritto allo sciopero. Tale strumento ha, dunque, una portata applicativa limitata alla tutela di diritti cd. "sindacali", ovvero diritti riconosciuti dalla legge o da norme contrattuali direttamente in capo al sindacato quale Ente collettivo, non potendo essere esteso alla tutela di diritti individuali dei lavoratori, quale è quello alla salute ed alla sicurezza sul luogo di lavoro. In tal senso si è espressa in più occasioni anche la Giurisprudenza di merito che, in fattispecie del tutto analoga alla presente, ha stabilito che: "L'eccezionale strumento previsto dall'articolo 28 dello Statuto dei lavoratori è finalizzato alla repressione della condotta antisindacale posta in essere dal datore di lavoro, ossia di quella condotta diretta a impedire o limitare l'esercizio della libertà e dell'attività sindacale nonché del diritto allo sciopero, di tal che "gli organismi locali delle associazioni nazionali che vi abbiano interesse" non sono legittimati ad agire in giudizio, azionando la predetta procedura, per ottenere la tutela di un diritto non sindacale, ma proprio dei singoli lavoratori, quale è quello alla loro sicurezza" (cfr. sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Sez. lavoro, del 26 aprile 2005). Si veda, in tal senso, anche la sentenza del Tribunale di Belluno, 23 ottobre 2002: “Non si applicano al datore di lavoro gli strumenti di repressione della condotta antisindacale predisposti dall’art. 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300, il cui atteggiamento sia teso a limitare l'attività del Rappresentante per la Sicurezza, previsto dall'art. 18 del DLgs 17 settembre 1994 n. 626". Pertanto, posto che il diritto alla sicurezza non è inquadrabile tra i diritti sindacali, e che lo statuto dei Lavoratori, con la formulazione dell'art. 28, ha ri- (*) Dottore in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato di Napoli. 158 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 conosciuto un'azione speciale, cui è legittimato il gruppo come tale e non i singoli membri, ammettere che il Sindacato agisca per condotta antisindacale a tutela di un diritto individuale significherebbe legittimare una sostituzione processuale in violazione dell'art. 81 c.p.c., in quanto, non sussistendo un legame immediato tra il titolare dell'azione ed il bene tutelato, la legittimazione ad agire non corrisponderebbe alla titolarità dell'interesse che si intende tutelare. Parte della Giurisprudenza di merito, sostiene, invece, che l'azionabilità dell'art. 28, L. 300/70, in merito ai diritti riferibili al Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza, discenda direttamente dalla lettura delle norme del D.L. 81/2008 (Testo Unico sulla Sicurezza sul Lavoro), in particolare: dall'art. 47 che prevede che nelle aziende con più di 15 lavoratori, il predetto rappresentante è eletto o designato dai lavoratori nell'ambito delle rappresentanze sindacali d'azienda; dall'art. 48 che prevede che le modalità di elezione o designazione dello stesso sono previste dalla contrattazione collettiva e dall'art. 50 che prevede che le modalità per l'esercizio delle funzioni sono stabilite dalla contrattazione collettiva e che l'RLS goda della medesima tutela dei componenti delle rappresentanze sindacali. Tale tesi non appare convincente. Invero, la lettera dell'art. 2, comma 1, lett. i) del D.lgs 81/2008, secondo cui l'RLS è "una persona eletta o designata per rappresentare i lavoratori per quanto concerne gli aspetti della salute e della sicurezza dei lavoratori ", chiarifica che l'intenzione del legislatore è quella di creare una figura dotata di rappresentanza generale e diretta dei lavoratori che prescinde dall'organizzazione sindacale di appartenenza del singolo rappresentante. Tale assunto trova conferma nella circostanza, evidenziata dal provvedimento in commento, che, secondo quanto previsto dall'art. 47 D.L. 81/2008, nelle piccole imprese ove non sono presenti le rappresentanze sindacali aziendali, “il Rappresentante dei lavoratori è di norma eletto dai lavoratori al loro interno”. Quanto esposto chiarisce che, una volta eletto, l'RLS assume la propria carica in forma autonoma, senza alcun rapporto di dipendenza dal sindacato di appartenenza e con il compito, attribuitogli direttamente dalla legge, di tutelare l'interesse individuale dei lavoratori nella specifica materia della salute e della sicurezza durante il lavoro. Tale ricostruzione è stata accolta dal provvedimento in esame, che ha ritenuto infondata l'argomentazione dell'organizzazione sindacale ricorrente, che aveva affermato la propria legittimazione attiva sulla (irrilevante) circostanza che, nel caso di specie, l'RLS, componente della RSU, apparteneva alla stessa sigla del Sindacato Ricorrente. CONTENZIOSO NAZIONALE 159 Tribunale di Napoli, Sez. lavoro e previdenza, decreto 27 aprile 2015 n. 14536. (omissis) Con ricorso del 4 marzo 2015 la UIL Pubblica Amministrazione - in persona del segretario Generale - ha agito nei confronti del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo ai sensi dell'art. 28 L. 300/1970, deducendo la antisindacalità della mancata informazione e/o consultazione preventiva del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza in occasione della adozione della determina dirigenziale del 26 febbraio 2015 nr. 3, con la quale per ragioni di sicurezza del personale - (oltre che degli utenti e del pubblico) - veniva disposto divieto assoluto di accesso, sosta e parcheggio di autoveicoli e motoveicoli all'interno del palazzo reale di Napoli. Ha chiesto ordinarsi alla amministrazione la rimozione del provvedimento, con affissione della parte dispositiva nella bacheca del palazzo reale di Napoli. Preliminarmente deve esaminarsi la questione della legittimazione attiva del sindacato ricorrente. È noto che la speciale procedura di cui all'art. 28 è riservata agli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse sicchè è la articolazione territoriale della associazione che abbia diffusione - e svolga attività sindacale - a livello nazionale l'unico soggetto legittimato alla azione. Gli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali sono costituiti dalle articolazioni più periferiche delle strutture sindacali nazionali e cioè, di norma, dai sindacati provinciali di categoria, dotati di una propria soggettività. Nella fattispecie di causa, indiscusso il carattere e la attività nazionale della associazione sindacale UIL Pubblica Ammnistrazione, resta da verificare se il soggetto agente - che si qualifica nell'epigrafe del ricorso Segretario Generale - sia o meno un rappresentante territoriale. Nel libero interrogatorio C.P. ha chiarito di rivestire la carica di legale rappresentante della UIL Pubblica Amministrazione Napoli e Campania, articolazione territoriale della UIL PA nazionale. Tale qualifica trova riscontro nel verbale del Congresso provinciale del Coordinamento UIL PA di Napoli in data 14 novembre 2009, nel quale il C. veniva nominato coordinatore provinciale della UIL PA di Napoli. Ne consegue la legittimazione attiva al ricorso ex art. 28, sotto il profilo della qualifica soggettiva. Sotto il profilo oggettivo occorre ulteriormente verificare se la condotta denunziata possa astrattamente configurare lesione delle libertà ad attività sindacali o se, piuttosto, nella fattispecie venga in rilevo, come pure eccepito dal Ministero resistente, un diritto individuale dei lavoratori, non azionabile dal sindacato. Una parte della giurisprudenza di merito si è espressa nel senso della azionabilità ai sensi dell’art. 28 L. 300/70 di diritti riferibili al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, muovendo dal rilievo che: - nelle aziende o unità produttive con più di 15 lavoratori questi è eletto o designato dai lavoratori nell'ambito delle rappresentanze sindacali in azienda, come prevede l’'art. 47 co. 4 DL.vo 81/2008 - gode, di una tutela identica a quella dei componenti delle rappresentanze sindacali (art. 50 c. 2 D.Lgs. 9 aprile 2008) - le modalità di elezione o designazione sono stabilite dalla contrattazione collettiva (artt. 47 co. 5 e 48 co. 2 D.Lvo 81/2008) - le modalità per l'esercizio delle funzioni sono stabilite in sede di contrattazione collettiva nazionale (art. 50 co. 3 D.Lvo 81/2008). 160 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 Questo Giudice ritiene di dare, tuttavia, alla questione una diversa soluzione, sulla base delle seguenti considerazioni. L'art. 2 comma 1 lettera i) del D.Lgs 81/2008 definisce il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza come "persona eletta o designata per rappresentare i lavoratori per quanto concerne gli aspetti della salute e della sicurezza durante il lavoro". Trattasi dunque di una figura che seppure individuata - nelle aziende di maggiori dimensioni nell’ambito delle rappresentanze sindacali in azienda ha una rappresentanza generale dei lavoratori (nella specifica materia) che prescinde dalla loro appartenenza sindacale; ciò è maggiormente evidente nelle piccole imprese dove, in assenza di rappresentanze sindacali in azienda, rappresentante della sicurezza è eletto direttamente dai lavoratori al loro interno (cosi come del resto accade nelle grandi aziende in cui manchino rappresentanze sindacali). In sostanza, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è la figura istituzionalmente preposta alla tutela dell’interesse collettivo alla salute dei lavoratori non nella qualità di rappresentante di un sindacato ma quale espressione in via diretta degli stessi lavoratori. La associazione sindacale non è dunque legittimata ad agire ex art. 28 per la tutela delle attribuzioni che l'art. 50 D.l.vo 81/2008 riconosce direttamente in capo al rappresentante dei lavoratori. Attraverso la speciale azione dell’art. 28, infatti, il sindacato può rivendicare libertà e diritti riconosciuti dalla legge o da norme contrattuali direttamente in capo ad esso, come ente collettivo e non anche tutelare gli interessi dei lavoratori. La organizzazione ricorrente fonda la propria legittimazione sulla circostanza che il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza all’interno del palazzo reale di Napoli, sig. F.C., componente della RSU, appartiene alla stessa sigla. Appare tuttavia evidente che il rappresentante della sicurezza una volta eletto o designato assume prerogative proprie ed autonome, che traggono la loro fonte direttamente dalla legge e non hanno alcun rapporto di derivazione dalla investitura ricevuta dal sindacato. Per completezza si osserva che non può essere utilmente evocata quella giurisprudenza secondo cui anche per i diritti appartenenti ai singoli lavoratori il sindacato conserva una legittimazione concorrente ad agire ex art. 28 L. 300/70 quando la condotta del datore di lavoro danneggi la sua immagine. Anche sotto questo profilo, non si ravvisa la lesività del comportamento del datore di lavoro: la figura istituzionale del rappresentante per la sicurezza resta distinta dalla organizzazione sindacale di provenienza sicchè gli inadempimenti del datore di lavoro non appaiono lesivi della immagine di quest'ultima. Del resto, come risulta dagli atti, nella specifica realtà aziendale i rappresentanti per la sicurezza sono stati nominati nell'ambito di sigle sindacali diverse (oltre alla signora C.F., i signori M.A. e S.G., appartenenti ad altre sigle sindacali) il che rende ancor più evidente la distinzione dal sindacato della figura istituzionalmente preposta alla tutela dei lavoratori. Il ricorso deve essere pertanto respinto. Le spese si compensano per la esistenza di giurisprudenza di segno contrario PQM Rigetta il ricorso per difetto di legittimazione attiva del sindacato ricorrente. Compensa le spese. Così deciso in Napoli, il 24 aprile 2015. CONTENZIOSO NAZIONALE 161 Sul rimborso delle spese di patrocino legale a dipendente della Regione Sicilia: il giudizio di congruità dell’Avvocatura dello Stato TRIBUNALE CATANIA, SEZ. I CIV., SENT. 11 MAGGIO 2015 N. 2060 (*) Da: domenico maimone [mailto:domenico.maimone@avvocaturastato.it] Inviato: mar 26/05/2015 19.06 A: Avvocati_tutti Oggetto: Visto di congruità su rimborsi spese per procedimenti giudiziari che interessano dipendenti pubblici (non statali) per fatti connessi con l'esercizio delle funzioni. Estendo a quanti si occupano dell'argomento, l’unita sentenza del Tribunale civile di Catania che, aderendo alla nostra impostazione, ha affermato il principio che il visto di congruità dell'Avvocatura si giustifica anche nelle ipotesi in cui non trovi applicazione diretta l’art. 18 d.l. 67/1997, conv. in l. 135/97 (norma dettata per i soli dipendenti dello Stato). Il caso affrontato riguardava un dipendente della Regione Siciliana il quale assumeva di aver diritto all'integrale rimborso di quanto esosamente richiesto dal proprio difensore per averlo questi assistito in sede penale (circa € 100.000 per un solo grado di giudizio penale e 12 udienze complessive, tra le quali ovviamente quelle di mero rinvio; si trattava di un abuso d'ufficio per due episodi di presunto uso illegittimo dell'auto di servizio!). L'attore riteneva che il nostro parere, richiesto dalla Regione prima di pagare - ed enormemente limitativo delle sue pretese economiche -, non potesse essere richiesto perché non espressamente previsto dall'art. 39 della legge regionale siciliana n. 145/1980 in tema di rimborsi spese per la difesa processuale dei dipendenti della Regione. Il Giudice svolge un ragionamento fondato su un’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata dell'ordinamento e giunge alla conclusione che il principio di oculato utilizzo delle finanze pubbliche 'imponga' la scelta operata dall'Amministrazione di rivolgersi all'Avvocatura dello Stato ed acquisirne il parere in via preventiva. Credo che il principio, per la sua portata generale, possa essere utilmente utilizzato in altre ipotesi ove vengano in rilievo PP.AA. da noi difese ma diverse dallo Stato (Università, Anas, Enac, Croce Rossa, Autorità Portuali, ecc.). Domenico Maimone (*) Si pubblica la sentenza unitamente alla annotazione inviate dall’avv. Stato Domenico Maimone ai Colleghi. 162 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 Tribunale di Catania, Prima Sezione civile, sentenza 11 maggio 2015 n. 2060 - Giud. Mariapaola Sabatino - R.R. (avv. G. Lipera) c. Assessorato Regionale del Territorio e dell’Ambiente - Comando del Corpo Forestale della Regione Sicilia (avv. distr. Stato Catania). RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO Con atto di citazione notificato in data 28 aprile 2010 R.R. conveniva in giudizio l'Assessorato Regionale del territorio e dell'ambiente, in persona del legale rappresentante pro tempore esponendo: che era dirigente del Servizio Ufficio Speciale Difesa del Suolo di Catania; che, a seguito di denuncia penale sporta da altro dipendente, nei suoi confronti aveva subito un procedimento penale conclusosi con una sentenza di assoluzione; che, avanzata una richiesta di rimborso delle spese legali per Euro 90.843,66, l'Assessorato, a seguito di parere negativo dell'Avvocatura di Stato, gli liquidava Euro 20.542,50; che tale limitazione era illegittima avendo, egli, un diritto al pieno rimorso delle spese legali ai sensi dell'art. 39 L.R. n. 145 del 1980. Chiedeva la condanna al pagamento della differenza tra il chiesto ed il liquidato ai sensi dell'art. 1720 c.c.; in subordine ai sensi dell'art. 2014 c.c.; in subordine ancora la somma rettamente rideterminata oltre al risarcimento dei danni subiti. Si costituiva l'Assessorato chiedendo il rigetto della domanda. La causa, istruita solo documentalmente, all'udienza del 3 febbraio 2015 veniva posta in decisione previa assegnazione dei termini di legge per il deposito delle comparse conclusionali. La domanda deve essere rigettata per i motivi che seguono. Preliminarmente inoperante è il richiamo all'art. 1720 c.c. fatto dall'attore in quanto, nel caso in oggetto, si applicano le norme speciali previste per il rimborso delle spese legali affrontate dal dipendente regionale e pubblico (art. 39 L.R. n. 145/1908 e art. 18 D.L. 67/97). Sostiene l'attore, in merito, di avere maturato il diritto al pieno rimborso delle spese legali affrontate per la difesa dal processo penale subito e conclusosi con una sentenza di assoluzione in quanto l'art. 39 citato, che deve essere applicato considerato il proprio ruolo di dipendente regionale, non subordina ad alcuna valutazione tecnico - amministrativa la richiesta di rimborso spese. Occorre, allora, valutare se vi siano i presupposti per disapplicare il parere negativo dell'Avvocatura di Stato e, quindi, il decreto di liquidazione delle spese emesso dalla convenuta ai fini di rideterminare il giusto rimborso. Questo Giudice non ritiene vi siano i presupposti per i seguenti motivi. Ed infatti, nei rapporti tra l'ordinamento regionale e quello statale vige il principio, consolidato, per cui: le norme di una legge quadro adottate nei confronti delle Regioni a statuto ordinario valgono anche per le Regioni ad autonomia speciale solo nel caso in cui stabiliscano principi generali e fondamentali dell'ordinamento. (cfr. Corte Cost. 1 luglio 1986 n. 165) (Consiglio di Stato, Sez. 06 Sent. num. 00834 del 3 giugno 1997). Nel caso in esame, l'Avvocatura dello Stato, nell'esprime il parere negativo, ha esercitato un potere - dovere volto al rispetto di principi generali e fondamentali dell'ordinamento, quali quello del buon andamento della P.A. e del controllo della spesa pubblica ex art. 97 Costituzione. Tale ragionamento è stato bene espresso dall'Avvocatura di Stato che ivi si richiama per intero alla luce del principio statuito in Corte di cassazione, Sezioni unite civili, Sentenza 16 gennaio 2015, n. 642. A) Profili generali sul rimborso delle spese giudiziarie ai dipendenti pubblici. In via preliminare, è opportuno ribadire come l'istituto del rimborso spese di difesa tecnica CONTENZIOSO NAZIONALE 163 sostenute dal dipendente sia prettamente caratterizzato dall'elemento dell'eccezionalità rispetto alle regole comuni (v. Parere C.G.A.R.S. n. 17/2009, il quale richiama Cass. sez. I, 3 gennaio 2008, n. 2; Corte dei Conti Basilicata, sez. giurisdiz. n. 219/1999; T.A.R. Liguria, sez. I, n. 709/2002). La pretesa al rimborso delle spese sostenute per la difesa in giudizio, occasionato da fatti commessi nell'esercizio delle funzioni e in correlazione a queste, non deriva, infatti, esclusivamente dalla disciplina generale del contratto di mandato (art. 1720 c.c.), in base alla quale compete al mandatario il diritto al rimborso delle anticipazioni e al risarcimento dei danni che egli ha subito a causa dell'incarico, ma è principalmente fondato sul rapporto di immedesimazione organica che lega il dipendente alla P.A. di appartenenza. L'eccezionalità di cui si discute giustifica la presenza di normative di settore, sia statali (D.L. 67/97) che regionali (v. ad es. l'art. 39 della L.R. Siciliana n. 145/1980; l'art. 57 della L.R. Abruzzo 12 dicembre 1997, n. 197; l'art. 1 della L.R. Piemonte 18 marzo 1989, n. 21; l'art. 89 della L.R. Veneto 10 giugno 1991, n. 12; l'art. 51 della L.R. Sardegna 8 marzo 1997, n. 8), le quali impongono il rispetto di determinate condizioni per dar corso al rimborso; condizioni che possono variamente atteggiarsi a seconda della natura dell'ente pubblico coinvolto: Stato, Regione, Ente Pubblico Istituzionale, Ente Pubblico Economico (parere di congruità dell'Avvocatura dello Stato, comune gradimento, etc.). Dalla varietà delle soluzioni previste nell'ordinamento, si può agilmente rilevare la presenza di un principio di carattere generale che connota la disciplina, ossia "l’esclusione di quasiasiforma di automatismo nell'accollo delle spese legali da parte dell'ente" (Corte dei Conti, Sez. Regionale di Controllo per il Veneto, par. n. 334/2013). L'applicazione del suddetto principio, infatti, richiede che la P.A. debba svolgere un controllo rigoroso in relazione all'ammissibilità ex se del rimborso (ex multis, Cons. Stato, sez. V, dec. n. 2242/2000; Cass., Sez. I, sent. 15724/2000), e tenere conto dei diversi interessi che emergano nel procedimento giudiziario cui l'istanza del dipendente si riferisce, ossia: «assicurare una buona e ragionevole amministrazione delle risorse economiche... a tutela del proprio decoro e della propria immagine» (Corte dei Conti, Sez. Regionale di Controllo per il Veneto, par. n. 334/2013 cit.). Di conseguenza, ciò che si richiede alla P.A. è una vera e propria valutazione di merito sull'ammissibilità del rimborso, valutazione caratterizzata da un bilanciamento degli interessi in gioco e comunque soggetta a controllo giurisdizionale per la verifica del rispetto dei principi di affidamento, ragionevolezza e tutela effettiva dei diritti (Cass. Sez. Lav., sent. n. 1418/2007). Ciò non toglie, tuttavia, che tale valutazione sia espressione di un potere discrezionale di natura tecnica (arg. ex Parere C.G.A.R.S. n. 17/2009 e Cass. Sez. Lav, sent. n. 1418/2007), dovendosi guardare il merito dell'an e del quantum del rimborso. Tra gli interessi che entrano in gioco nell'effettuare la prescritta valutazione un ruolo non secondario riveste "la buona e ragionevole amministrazione delle risorse economiche", ossia la compatibilità del rimborso con i vincoli di finanza pubblica imposti alla P.A. In particolare, tali vincoli, sono espressione di principi costituzionali e comunitari (Trattato UE) che impongono alla P.A. una valutazione fondata su «i necessari criteri di ragionevolera, congruenza ed adeguatezza, in relazione all'importanza dell'attività svolta, ed anche alla luce delle valutazioni da effettuarsi dall'ordine degli avvocati e dei procuratori» (Corte dei Conti, Sez. Regionale di Controllo per il Veneto, par. n. 334/2013 cit.). Su tali ferme premesse, i pareri dei Consigli dell'Ordine Forense espressi sulla congruità della parcella, ad istanza remunerata del professionista, costituiscono «un mero controllo sulla rispondenza delle voci indicate alla parcella a quelle previste in tariffa che, tuttavia, non avvalora in alcun modo i criteri assunti dal professionista per individuare il valore della 164 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 controversia e determinarne l’importanza» (Cass. Civ,, sez. II, sent. n. 932/1997). Di conseguenza, non assume alcun valore vincolante il visto di congruità apposto dal Consiglio dell'Ordine degli Avvocati, del cui costo, per ovvie ragioni, non potrà farsi carico l'Amministrazione: essa è piuttosto tenuta a rimborsare ciò che ritiene equo si faccia carico l'Erario; non ciò che, in linea teorica e salva contestazione, può chiedere il professionista al suo cliente. È dunque lo stesso rispetto dei vincoli, nazionali e comunitari, di finanza pubblica che richiede l'esercizio di una discrezionalità tecnica da parte dell'Amministrazione. Tale discrezionalità può essere esercitata direttamente o per il tramite di un organo tecnico di consulenza (v. ad es. l'art. 18 del d.l. 67/1997) e a prescindere dal tenore letterale della singola legge di disciplina dei rimborsi. E anche nell'ambito della legislazione regionale non può seriamente ritenersi che l'Amministrazione possa prescindere dal rigoroso rispetto dei vincoli di finanza pubblica definiti dagli artt. 81 e 117, 3° comma Cost. (in particolare, sull'applicabilità dei principi di coordinamento della finanza pubblica «anche alle autonomie speciali, in considerazione dell'obbligo generale di partecipazione di tutte le Regioni, ivi comprese quelle a statuto speciale, all'azione di risanamento della finanza pubblica» Corte Cost sentt. nn. 289, 190, 159, 120, 102 del 2008; 169 e 82 del 2007; 353 del 2004). Dal complesso delle precedenti argomentazioni, si può pertanto desumere la natura prettamente indennitaria del rimborso; ragion per cui la P.A. di appartenenza del dipendente “non è tenuta al rimborso pieno della parcella” (Corte dei Conti, Sez. Regionale di Controllo per il Veneto, par. n. 334/2013). B) La disciplina della Regione Sicilia sul rimborso delle spese processuali. Occorre, a questo punto, valutare se la normativa della Regione Siciliana risponda pienamente al quadro ricognitivo dei principi suesposti. L'art. 39 della L.R. 145/1980 dispone che: «Ai dipendenti che, in conseguenza di fatti ed atti connessi all'espletamento del servizio e dei compiti d'ufficio, siano soggetti a procedimenti di responsabilità civile, penale o amministrativa, è assicurata l'assistenza legale, in ogni stato e grado del giudizio, mediante rimborso, secondo le tariffe ufficiali, di tutte le spese sostenute, sempre che gli interessati siano stati dichiarati esenti da responsabilità». Se si volesse seguire un'interpretazione riduttivamente letterale della disposizione in esame, secondo la quale i requisiti per il rimborso sono definiti esclusivamente dalla legge, senza alcun ulteriore esercizio di discrezionalità tecnica dell'Amministrazione, si giungerebbe alla paradossale conseguenza di rendere il regime dei rimborsi nella Regione Sicilia incoerente con i principi generali sopra analizzati. In altri termini, una lettura siffatta del testo di legge precluderebbe quel giudizio di merito, consistente nella ponderazione e nel bilanciamento degli interessi in gioco. Giudizio che, come si è detto, si impone all'Amministrazione dal momento che è coinvolto il generale interesse a una buona, oculata e ragionevole gestione delle risorse economiche dell'Ente, ossia la compatibilità del rimborso con i vincoli di finanza pubblica imposti alle P.A. È pertanto opportuno sottolineare che una interpretazione letterale, così come avallata dalle argomentazioni di parte attrice, renderebbe la norma suddetta incoerente rispetto ai principi generali dell'ordinamento (v. art. 3 Cost. - per disparità con il trattamento degli altri dipendenti pubblici), tra cui quelli, di rango costituzionale ed europeo, di stabilità della finanza pubblica (art. 81 Cost.) e del coordinamento della finanza pubblica tra le Regioni, anche a statuto speciale, e lo Stato (art. 117, 3° comma, Cost). CONTENZIOSO NAZIONALE 165 Premesso ciò, la tenuta sistematica e costituzionale della norma è prospettabile solo riconoscendo alla P.A. un giudizio di ragionevolezza, di congruità e di adeguatezza del rimborso. Ma la soluzione adesso prospettata, fondata su una visione sistematica dell'ordinamento, trova un innegabile aggancio normativo anche di tipo testuale. Ancorché, invero, l'art. 39 in rassegna non preveda espressamente un giudizio di congruità rimesso ad un organo tecnico, similmente a quanto accade nel corrispondente istituto di matrice statale (art. 18 del d.1. 67/1997), l'art. 1 del d.lgs. 142/1948 estende alla Regione Sicilia la disciplina valevole per lo Stato in merito ai compiti assolti dalla Difesa Erariale. Infatti: «1. - Lefunioni dell'Avvocatura dello Stato nei riguardi delle Amministrazioni statali sono estese all'Amministrazione regionale siciliana. 2. - Nei confronti dell'Amministraione regionale siciliana si applicano le disposizioni del testo unico e del regolamento, approvati rispettivamente con RR.DD. 30 ottobre 1933, nn. 1611 e 1612, e successive modificazioni, nonché gli artt. 25 e 144 del codice di procedura civile.». Orbene, ai sensi del combinato disposto degli articoli 13 R.D. 1611/33 e 9 della sopravvenuta legge di riforma n. 103 del 3 aprile 1979 (Modifiche dell'ordinamento dell'Avvocatura dello Stato), la Difesa Erariale svolge un'attività di consulenza generale in favore delle Pubbliche Amministrazioni ammesse a fruire del suo patrocinio, in quanto: «provvede... alle consultazioni legali richieste dalle Amministrazioni e «provvede alla consulena nei riguardi di tutti gli uffici della propria circoscrizione». Si tratta di un'attività consultiva generale, a carattere facoltativo che, nella materia che più da vicino occupa l'adito Tribunale, diviene obbligatorio e vincolante ai sensi dell'art. 18 del D.L. 67/97, ove è previsto che «Le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall'Avvocatura dello Stato.». Come ha affermato la Corte di Cassazione: «Questa [l'Avvocatura, ndr] esegue una valutazione caratterizzata essenzialmente da aspetti di discrezonalità tecnica, in quanto riferita al parametro della tariffa penale, nonché alla natura e alla complessità della causa ed alla importanza delle questioni trattate, alla durata del processo, alla qualità dell'opera professionale prestata ed al vantaggio arrecato al cliente» (Cass. Sez. Lav., sent. n. 1418/2007). Quindi, l'Avvocatura svolge, mediante il suddetto parere obbligatorio con efficacia vincolante, quel giudizio di congruità, adeguatezza e ragionevolezza richiesto dall'ordinamento, il quale, come ben precisa la Corte dei Conti, rileva non solo nell'an del rimborso ma anche nel quantum, considerato che "la spesa incide negativamente sul bilancio dell'ente" (Corte dei Conti, Sez. Regionale di Controllo per il Veneto, par. n. 334/2013). Pertanto, in virtù dell'applicazione diretta degli artt. 1 d.lgs. 142/1948, 13 R.D. 1611/33 e 9 1. 103/79, e dell'estensione analogica dell'art. 18 d.l. 67/1997, deve concludersi che la legislazione regionale (art. 39 L.R. n. 145/1980) non possa che essere interpretata nel senso di riconoscere in capo all'Avvocatura dello Stato un potere di consultazione ed orientamento delle scelte discrezionali dell'Amministrazione pubblica sulla congruità delle somme rimborsabili al dipendente. In tal senso si è espresso, come già riferito in comparsa di costituzione, il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, nel parere n. 17/2009, secondo cui l'art. 18 D.L. 67/97 conv. L. 135/97 pone "un principio di sistema insito nell'ordinamento" che si applica anche alla normativa regionale. Ciò vuol significare che la formula generica contenuta nel richiamato art. 39 della L.R. 145/80 166 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 non possiede la forza di limitare, all'interno della competenza consultiva generale riconosciuta all'Avvocatura dello Stato, l'ambito del parere giuridico richiesto sedes materiae. Se ne deve desumere che, in tema di rimborso delle spese di patrocinio legale, l'Avvocatura dello Stato assume anche lo specifico compito di valutare - oltre che l'ammissibilità - la congruità della richiesta di rimborso avanzata dal pubblico dipendente. Opinare diversamente, è utile sottolinearlo ancora, esporrebbe l'Amministrazione all'arbitrio del richiedente, il quale potrebbe presentare istanze di rimborso per importi esorbitanti o comunque sganciati dall'effettiva attività professionale prestata. L'Amministrazione sarebbe tenuta a pagare a piè di lista, senza poter effettuare alcun sindacato tecnico sulla congruità della parcella. Postulata allora, per logica deduzione, la necessità di un vaglio critico di natura tecnica preliminare all'atto dispositivo della spesa, emerge la competenza consultiva generale attribuita istituzionalmente all'Organo di difesa erariale. Si osserva, infine, l'interpretazione proposta dell'art. 39 L.R. 145/1980 è coerente con l'orientamento giurisprudenziale della Corte Costituzionale secondo cui ricade sui giudici il poteredovere di ricostruire il contenuto delle disposizioni di legge alla stregua dei principi della Costituzione: «di fronte a più possibili interpretazioni di un sistema normativo, essi sono tenuti a scegliere quella che risulti conforme a Costituzione» (Corte Cost. sentt. nn. 356/1996 e 301/2003) (cfr. Comparsa conclusionale depositata dall'Assessorato in data 18 marzo 2015). Premesso e aderito a quanto sopra esposto, legittimamente l'Avvocatura ha espresso parere negativo vincolante per 1'Assessorato il cui decreto di parziale diniego della richiesta di rimborso spese è stato legittimamente adottato. Nel merito, inoltre, si conviene con il giudizio espresso dall'Avvocatura in ordine all'esosità del rimborso chiesto per le spese legali tenuto conto della natura del giudizio penale - avente ad oggetto il contestato abuso di auto di servizio - il numero delle udienze celebrate, pari a 12 di cui, inoltre, non è stato documentato il contenuto, - nonchè la mancanza di prova dell'attività difensiva asseritamente svolta. La domanda di rideterminazione del quantum richiesto a titolo di rimborso spese deve essere, quindi, rigettata. Deve, poi, essere rigettata la domanda di arricchimento senza causa non rivenendosene in alcun modo gli elementi costitutivi della fattispecie, non emerge, infatti, quale sia l'arricchimento goduto dall'Amministrazione a seguito della vicenda che ha interessato l'attore. Infine e di conseguenza, va rigettata, in quanto subordinata all'accoglimento delle domande spiegate in via principale, la domanda al risarcimento degli ulteriori danni asseritamente causati all'attore dall'Amministrazione proposta dal R. Le spese di lite, seguono la soccombenza e, liquidate come in dispositivo vanno poste a carico dell'attore R.R. P.Q.M. Il Tribunale, nella persona del G.U., d.ssa Mariapaola Sabatino, disattesa ogni diversa istanza o eccezione:rigetta le domande proposte da R.R. nei confronti dell'Assessorato Regionale del Territorio e dell'Ambiente e lo condanna al pagamento delle spese di lite che si liquidano in complessivi Euro 5.000,00 oltre IVA, CPA e spese generali come per legge. Catania, 6 maggio 2015. CONTENZIOSO NAZIONALE 167 La responsabilità civile dello Stato legislatore per la lesione del diritto di voto: l’atto defensionale dell’Avvocatura dello Stato SOMMARIO: 1. L’atto di citazione al Giudice di Pace - 2. La comparsa di costituzione e risposta dell’Avvocatura - 3. Uno scambio di e-mail in tema di responsabilità civile dello Stato legislatore. 1. L’atto di citazione al Giudice di Pace. GIUDICE DI PACE DI BUCCINO ATTO DI CITAZIONE Per: il sig. F.C., rappresentato e difeso dall'Avv. Edoardo Sessa ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in Eboli, ... PREMESSO CHE a) L'esponente non ha potuto esercitare il proprio diritto di voto secondo le modalità conformi ai principi costituzionali del voto "personale, uguale, libero e segreto" (art. 48 comma 2, Cost.) e "a suffragio universale e diretto (artt. 56 comma 1 e 58 comma 1 Cost.) nelle elezioni alla Camera dei deputati ed al Senato della Repubblica svoltesi negli anni 2006 (con formazione della XV legislatura della Repubblica Italiana) - 2008 (con formazione della XVI legislatura della Repubblica Italiana) - 2013 (con formazione della XVII legislatura della Repubblica Italiana) (V. scheda elettorale All. n. 1); b) tale lesione del diritto di voto è conseguente alla legge elettorale n. 270/2005 poi dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 1/2014, sentenza che ivi deve intendersi integralmente richiamata e trascritta (V. All. n. 2); c) in particolare l'esponente è stato privato della possibilità di esprimere la propria preferenza per un singolo candidato, possibilità esclusa dalla legge elettorale citata la quale affidava agli organi di partito il compito di compilare le liste dei candidati che venivano eletti secondo tale ordine sottratto al controllo democratico. L'esponente è stato altresi privato del diritto che il suo voto fosse eguale a quello di ogni altro cittadino violato dall'attribuzione del cosiddetto premio di maggioranza disposto sempre con la legge elettorale n. 270/2005. La medesima privazione risulta anche per il peculiare "premio di maggioranza" attribuito per l'elezione al Senato su base Regionale (essendo il numero dei seggi assegnati ad ogni regione proporzionale alla popolazione residente, il voto espresso dall'elettore residente nelle regioni piü popolose concorreva all'attribuzione di un premio di maggioranza decisamente piü elevato di quello cui poteva concorrere l'elettore delle regioni meno popolose); d) la lesione del diritto di voto ha determinato un pacifico danno di natura non patrimoniale in capo all'esponente. Tale danno, trattandosi di violazione di precetti costituzionali, è certamente risarcibile e dovrà essere liquidato, anche in via equitativa, secondo il prudente apprezzamento del Giudicante avuto anche ragione del fatto che la conseguente violazione non è stata rimossa neppure a seguito dell'intervento della Corte Costituzionale, posto che il Parlamento non è stato, sorprendentemente, sciolto dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con la conseguenza che la violazione della possibilità di esercitare il diritto di voto secondo i dettami costituzionali si sta ulteriormente prolungando nei suoi effetti ledendo così ancora più intensamente il bene protetto; e) la Corte Costituzionale nella sentenza n. 1/2014, per preservare il timore istituzionale dai 168 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 dirompenti effetti della sentenza, aveva richiamato l'istituto della prorogatio delle Camere ex art. 61 Cost., istituto che, come dovrebbe essere noto al Presidente della Repubblica, opera unicamente allorquando le Camere sono sciolte in attesa delle nuove elezioni e non già in un caso come quello che in oggi stiamo vivendo. Gravissimo quindi che le Istituzioni abbiano ignorato la pronuncia della Consulta; f) come noto una norma dichiarata incostituzionale cessa di avere effetti nell'ordinamento mentre, nel caso di specie, il Parlamento eletto in violazione della sovranità popolare continua a legiferare moltiplicando così le conseguenze della norma dichiarata illegittima. In questi giorni si parla addirittura di riforma costituzionale, fatto davvero sconcertante; g) in ogni caso, quantomeno per il periodo che va dall'anno 2005 al 2014, ovvero per ben nove anni, la democrazia in Italia è stata virtualmente sospesa attraverso la sottrazione del diritto di voto e ciò non può che costituire il maggiore dei danni possibili per qualsivoglia cittadino; h) come già chiarito dalla sentenza della Cassazione n. 8878/14 la pronuncia della Corte Costituzionale non ha fatto venir meno il diritto per ogni cittadino di far accertare la lesione del proprio e personale diritto di voto, con la conseguente piena legittimità per l'attrice di promuovere il presente giudizio; i) nel caso di specie sono in gioco interessi costituzionalmente tutelati lesi da un illecito civile quale quello della promulgazione di una legge elettorale contraria ai precetti costituzionali. Trattasi di una responsabilità ex art. 2043 c.c. fondata su solide basi normative. Come noto il Ministro proponente assume la responsabilità giuridica dei propri atti ai sensi e per gli effetti dell'art. 89 Cost. Inoltre gli atti che hanno valore legislativo sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio dei Ministri che ne è direttamente responsabile; l) pare quasi superfluo sottolineare che il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri stessi, prima di assumere le funzioni, prestano giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica con la seguente formula: "Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie fuzzioni nell'interesse esclusivo della nazione" e ciò ai sensi dell'art. 1 Legge n. 400/1988". m) conseguentemente o si ritiene tale giuramento un inutile orpello formale oppure si deve ammettere che allo stesso conseguano precise responsabilità giuridiche. La sottoscrizione di una legge incostituzionale da parte del Ministro proponente e da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri costituisce fatto illecito ex art. 2043 c.c.; n) il danno non patrimoniale è risarcibile laddove si è in presenza della lesione di un bene inviolabile previsto e protetto da una norma di rango costituzionale ed in tali casi, trattandosi di violazioni di principi costituzionali, il danno è da ritenersi in re ipsa. Innegabile, dunque, che la lesione del diritto di voto abbia determinato in ogni cittadino un nocumento di natura morale economicamente apprezzabile seppur oggettivamente di difficile quantificazione come sempre nei casi di risarcimento del danno non patrimoniale relativo ad un bene immateriale di cui è piena la casistica giurisprudenziale. Tutto quanto premesso, il sig. F.C. ut supra rappresentato, domiciliato e difeso CITA la Presidenza del Consiglio dei Ministri in persona del Presidente pro tempore, nonché il Ministero dell'Interno in persona del Ministro pro tempore, entrambi presso l'Avvocatura Distrettuale dello Stato corrente in Salerno, Corso Vittorio Emanuele, a comparire avanti al Giudice di Pace di Buccino, per l'udienza del giorno 29 giugno 2015, ore e luoghi di rito, invitando espressamente il convenuto a costituirsi in giudizio ai sensi e nelle forme dell'art. 319 c.p.c. con avvertimento che la tardiva costituzione implica le decadenze di cui agli artt. 38 e 167 c.p.c., e che CONTENZIOSO NAZIONALE 169 in difetto di costituzione si procederà in loro contumacia, per ivi sentire accogliere le seguenti CONCLUSIONI Piaccia all'Ill.mo Giudice di Pace adito, contraris reiectis, per le causali di cui in narrativa, accertare che l'esponente non ha potuto esercitare il proprio diritto di voto nelle elezioni per la Camera dei Deputati ed il Senato della Repubblica svoltesi successivamente all'entrata in vigore della L. n. 270/2005 (anni 2006 - 2008 - 2010) e sino alla data della presente citazione o quantomeno sino a quella della pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale n. 1/2014, secondo le modalità previste dalla Costituzione, del voto personale, eguale, libero e diretto e conseguentemente condannare, eventualmente anche in solido tra loro, la Presidenza del Consiglio dei Ministri in persona del presidente pro tempore nonché il Ministero dell'Interno in persona del Ministro pro tempore al risarcimento in favore del sig. F.C. del danno non patrimoniale conseguente alla lesione del bene previsto e tutelato (il voto) dalle norme di rango costituzionale citate e ciò ai sensi e per gli effetti del combinato disposto degli artt. 89 cost., 2043 c.c., 1 L. n. 400/1988 ovvero per le altre norme meglio viste e ritenute con quantificazione in via anche equitativa o nella misura che sarà determinata in corso di causa secondo il prudente apprezzamento del Giudicante ed in ogni caso non superiore alla somma di € 1.033,00. Condannare, altresì, la Presidenza del Consiglio dei Ministri in persona del presidente pro tempore nonché il Ministero dell'Interno in persona del Ministro pro tempore, in solido, alla rifusione delle spese e competenze del presente giudizio oltre il rimborso forfetario ex art. 15 T.P., IVA e CNA di causa, da attribuirsi al sottoscritto avv. Edoardo Sessa, per anticipazione fattane nell'interesse del sig. F.C. Con riserva di precisare, emendare e/o integrare la domanda, anche a seguito del comportamento processuale della parte convenuta. Si dichiara che, ai sensi dell'art. 14 del T.U. delle spese di giustizia, D.P.R. 115/2002, aggiornato con il D.L. n. 98 del 6 luglio 2011 e succ. mod., il valore della presente controversia è di euro 1.033,00 e, pertanto, il contributo unificato è pari ad euro 43,00. Si depositano documenti come da indice. Eboli, 5 maggio 2015 Avv. Edoardo Sessa 2. La comparsa di costituzione e risposta dell’Avvocatura. GIUDICE DI PACE DI BUCCINO Udienza di citazione del 29 giugno 2015 COMPARSA DI COSTITUZIONE E RISPOSTA PER la PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI (C.F. 80188230587), in persona del Presidente del Consiglio pro tempore, e per il MINISTERO DELL’INTERNO (C.F. 80014130928), in persona del Ministro pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura distrettuale dello Stato di Salerno, (C.F. 95009570656, P.E.C. ads.sa@mailcert.avvocaturastato.it, fax: 089.2586940), presso cui domiciliano, ope legis, al C.so Vittorio Emanuele, 58; convenuti CONTRO F.C., rappresentato e difeso dall’Avv. Edoardo Sessa, elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultimo in Eboli, alla via Don Michele Paesano n. 53; 170 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 * * * Con atto di citazione notificato in data 6 maggio 2015, l’istante ha convenuto in giudizio, davanti al Giudice di Pace di Buccino, la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero dell’Interno per sentirli condannare, eventualmente anche in solido, “al risarcimento… del danno non patrimoniale conseguente alla lesione del bene previsto e tutelato (il voto) dalle norme di rango costituzionale citate e ciò ai sensi e per gli effetti del combinato disposto degli artt. 89 cost., 2043 c.c., 1 L. n. 400/1988”. Al riguardo afferma di non avere potuto esercitare il proprio diritto di voto, nelle elezioni per la Camera dei Deputati ed il Senato della Repubblica svoltesi successivamente all’entrata in vigore della L. n. 270/2005 e sino alla data della citazione o quantomeno fino a quella della pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale n. 1/2014, secondo le modalità previste dalla Costituzione del voto personale, eguale, libero e diretto, essendo stato privato della possibilità di esprimere la propria preferenza per un singolo candidato e del diritto che il suo voto fosse eguale a quello di ogni altro cittadino a causa della previsione nella stessa legge n. 270/2005 del premio di maggioranza. Con il presente atto si costituisce in giudizio, nell’interesse delle Amministrazioni in epigrafe, l’esponente Avvocatura, impugnando e contestando tutto quanto ex adverso dedotto, rilevato ed eccepito chiedendone il rigetto in quanto del tutto inammissibile ed infondato per i seguenti MOTIVI 1) Incompetenza del Giudice di Pace adito. Si eccepisce in primo luogo l’incompetenza del Giudice di Pace di Buccino a decidere della presente controversia. Al riguardo si fa rilevare che l’invocato diritto al risarcimento presuppone ed implica l’accertamento di un diritto inerente ad uno status, quello di cittadino. La domanda risarcitoria costituisce, dunque, accessorium e necessaria conseguenza dell’accertamento della lesione di uno dei diritti inerenti il complesso status di cittadino, e, ai sensi dell’art. 31 c.p.c., segue la competenza di quella principale. Ebbene, in materia di status la competenza per materia è attribuita al Tribunale ai sensi dell’art. 9, comma 2, c.p.c., mentre la competenza per territorio viene regolata sulla base dei criteri generali di cui agli artt. 18 e 19 c.p.c., non essendo previsto per tale tipo di diritti alcun foro alternativo. Di conseguenza, secondo le regole ordinarie, nella fattispecie de qua si applicherebbe il criterio del foro del convenuto, che nel caso di specie coincide con il Tribunale di Roma dove hanno sede le Amministrazioni evocate in giudizio. Tale assunto trova riscontro in alcuni precedenti in materia di status. La Corte di Cassazione, nella sentenza n. 903 del 2012, ha affermato che la legittimazione passiva del Ministero dell’Interno nell’ambito del giudizio per riconoscimento dello stato di apolide determina la competenza territoriale del foro di Roma ove ha sede il convenuto. Anche nel presente giudizio, per analogia, la prospettata legittimazione passiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero dell’Interno incardina la competenza innanzi al Tribunale di Roma dove hanno sede le Istituzioni coinvolte nella presente vertenza che ha ad oggetto la tutela del diritto al voto riconducibile ad uno status di cittadino dell’istante. Al riguardo, deve ritenersi che, se in materia di status personae risulta applicabile il criterio del foro dove ha sede l’Amministrazione, che peraltro nella speciale materia agisce attraverso le sue ramificazioni sul territorio, a maggior ragione tale criterio deve essere ap- CONTENZIOSO NAZIONALE 171 plicato nella fattispecie in esame, in cui ad essere evocato in giudizio è proprio lo Stato centrale, che avrebbe determinato la lesione del preteso diritto azionato proprio attraverso l’azione del legislatore. Il luogo ove hanno sede le Istituzioni centrali resistenti è Roma, e, quindi, la competenza territoriale deve radicarsi innanzi al Tribunale della Capitale. Il foro di Roma, poi, va a coincidere con quello in cui ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato ai sensi dell’art. 25 c.p.c. che, per le cause nelle quali è parte un’amministrazione dello Stato, afferma la competenza del giudice del luogo dove ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato nel cui distretto si trova il giudice che sarebbe astrattamente competente secondo le regole ordinarie. Al riguardo si allega ordinanza del 30 aprile 2015 del Tribunale di Nocera Inferiore, resa proprio in materia di lesione del diritto di voto, che ha affermato la competenza del Tribunale di Roma. In subordine e per mero scrupolo, visto l’assorbente rilievo della precedente eccezione, si contesta comunque la competenza del Giudice di Pace di Buccino, in quanto dal tenore dell’atto di citazione non sono rinvenibili i collegamenti che, ai sensi dell’art. 20 c.p.c., possono radicare in via alternativa la competenza territoriale e, non essendo detta competenza inderogabile, deve ritenersi competente territorialmente il foro del convenuto e cioè il Giudice di Pace di Roma. 2) Improcedibilità delle avverse domande per difetto assoluto di giurisdizione. Nella fattispecie in esame il danno lamentato deriverebbe da un’attività legislativa, come tale prettamente politica. Ebbene, rispetto all’attività di tipo politico i soggetti privati coinvolti non possono vantare situazioni giuridiche soggettive suscettibili di tutela giurisdizionale, tanto è vero che neppure gli atti politici del Governo possono essere oggetto di impugnativa dinanzi al Giudice Amministrativo ai sensi dell’art. 7 c. 1, ult. per. del d.lgs. 2 luglio 2010 n. 104, dove si afferma che “non sono impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico”. La responsabilità dello Stato per l’esercizio dell’attività legislativa è stata riconosciuta unicamente in relazione all’attività di adeguamento alla normativa dell’Unione Europea (nella specie dell’omesso, tardivo o incompleto adeguamento a direttive) ovvero al contrasto tra la produzione legislativa nazionale e l’ordinamento dell’Unione. La fattispecie in esame, invece, riguarda l’esercizio dell’attività legislativa nazionale e, in particolare, la correttezza delle modalità del suo svolgimento rispetto alle prescrizioni della Costituzione. Non viene affatto in gioco, quindi, la questione relativa alla difformità rispetto a precetti dell’Unione. Sulla questione della insindacabilità dello svolgimento dell’attività legislativa la giurisprudenza di legittimità si è espressa più volte affermando che l’iniziativa della legge ha natura di atto politico, essendo manifestazione tipica della funzione politica e di governo, sicchè essa è inidonea a provocare la lesione di situazioni giuridiche soggettive (sia di diritto soggettivo che di interesse legittimo) ed è pertanto sottratta ad ogni sindacato giurisdizionale (Cass., sez. un., n. 124/1993). La Cassazione, con sent. n. 10617 dell’11 ottobre 1995, ha ancora affermato che le norme della Costituzione regolano la funzione legislativa, ripartendola tra il Governo e il Parlamento, quale espressione di potere politico, libero cioè nei fini e sottratto perciò a qualsiasi sindacato giurisdizionale, concludendo nel senso che di fronte all’esercizio del potere politico 172 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 non sono configurabili situazioni soggettive protette dei singoli (principio poi ribadito da Cass. n. 4915/2003). Alla luce delle suesposte argomentazioni, poichè rispetto alla condotta allegata da parte attrice quale fatto costitutivo della domanda risarcitoria non sono configurabili situazioni soggettive protette dei singoli, dovrà dichiararsi l’improcedibilità della domanda per difetto assoluto di giurisdizione. 3) In subordine, sottrazione della presente causa alla cognizione secondo equità del Giudice di Pace. Oggetto del presente giudizio è l’accertamento della lesione di un diritto costituzionalmente garantito, il diritto di voto. Ebbene, secondo l’orientamento consolidato della Corte di Cassazione (Sez. Un. n. 25520/2006), le questioni relative alla violazione di principi costituzionali non possono essere rimesse, sotto alcun aspetto, alla valutazione equitativa di un giudice, neanche dunque alla cognizione in equità del giudice di pace, anche se la domanda sia contenuta nel limite di valore ex art. 113 c. 2 c.p.c. Per questo motivo la presente causa andrà comunque decisa secondo diritto. 4) Nel merito, infondatezza della domanda. Si contesta in ogni caso la fondatezza dell’avversa domanda. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 1/2014, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza (sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica) alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha, altresì, dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Al riguardo si ricorda che la stessa Corte Costituzionale, nella sentenza n. 1/2014, chiarisce la portata e gli effetti della sentenza stessa affermando che la decisione di annullamento delle norme censurate, avendo modificato in parte la normativa che disciplina le elezioni politiche “produrrà i suoi effetti esclusivamente in occasione di una nuova consultazione elettorale, consultazione che - come afferma testualmente la Corte - si dovrà effettuare o secondo le regole contenute nella normativa che resta in vigore a seguito della presente decisione, ovvero secondo la nuova normativa elettorale eventualmente adottata dalle Camere. Essa, pertanto, non tocca in alcun modo gli atti posti in essere in conseguenza di quanto stabilito durante il vigore delle norme annullate, compresi gli esiti delle elezioni svoltesi e gli atti adottati dal Parlamento eletto”. Al riguardo la Corte di Cassazione, con sentenza n. 8878 del 16 aprile 2014, resa proprio a definizione del giudizio a quo relativo alla pronuncia della Corte Costituzionale n. 1/2014, ha statuito che “La sopra ricordata precisazione della Corte costituzionale, la quale ha osservato che le elezioni svolte costituiscono "un fatto concluso" idoneo a giustificare che i rapporti sorti nel vigore della legge annullata "rimangono regolati dalla legge dichiarata invalida" in quanto "esauriti", dimostra che la tutela riconosciuta dall'ordinamento ai ricorrenti elettori, oltre all'accertamento per il passato della lesione subita e del diritto al rimborso delle spese sostenute per conseguire tale risultato processuale (v. il successivo p. 7), è quella, pienamente satisfattiva, della riparazione in forma specifica per effetto della sentenza costituzionale che ha ripristinato la legalità costituzionale, potendo essi, a decorrere dal 13 gennaio 2014 ed attualmente, esercitare il diritto di voto secondo i precetti costituzionali”. CONTENZIOSO NAZIONALE 173 In altre parole, la Suprema Corte, dopo avere specificato che, per effetto della pronuncia n. 1/2014 della Corte Costituzionale, i ricorrenti elettori avevano ricevuto satisfattiva riparazione in forma specifica della lesione subita, ha riconosciuto soltanto a quei ricorrenti elettori che avevano agito in giudizio - e per il solo fatto che a seguito della loro iniziativa si era pervenuti alla declaratoria di incostituzionalità delle norme contenute nella legge elettorale n. 270/2005 - esclusivamente il diritto al rimborso delle spese legali sostenute per conseguire tale risultato processuale. Da tali assunti discende che parte istante non ha diritto ad alcun risarcimento del danno morale “consequenziale”; il disposto ripristino della legalità costituzionale pro futuro è infatti pienamente satisfattivo. Nella fattispecie in esame, cioè, l’accertamento per il passato della lesione del diritto di voto è già esplicitamente contenuto nella sentenza della Corte Costituzionale n. 1/2014 senza necessità che tale invocata lesione del diritto di voto venga singolarmente accertata nei confronti di ciascun cittadino. Le domande azionate sono pertanto evidentemente infondate non sussistendo nella fattispecie alcun danno risarcibile. Si fa in ogni caso rilevare che, secondo la pacifica giurisprudenza in tema di accertamento della responsabilità ex 2043 c.c. nell’ambito del giudizio secondo equità, tra i principi informatori della materia, ai quali il giudice di pace è vincolato ai sensi dell'art. 113, secondo comma, c.p.c. - nel testo risultante dalla pronuncia di parziale illegittimità costituzionale emessa dalla Corte costituzionale con sentenza n. 206 del 2004 - e la cui violazione è deducibile con ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 360, n. 3 c.p.c., rientra la necessità, nel giudizio di risarcimento del danno, di accertare che il danneggiante abbia cagionato un danno ingiusto, violando un interesse di altro soggetto tutelato dal diritto, ovvero violando la norma giuridica che attribuisce protezione a tale interesse, e che sia fornita la prova dell’esistenza del danno stesso (Cass., Sez. lav., Sent. n. 23029 del 15 novembre 2005). In particolare, con riferimento all’accertamento della risarcibilità del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., la giurisprudenza di legittimità ha affermato che, in tema di responsabilità per fatto illecito, rientra tra i principi informatori della materia, ai quali è tenuto ad uniformarsi il giudice di pace nel giudizio di equità, quello di cui al disposto dell’art. 2059 c.c., il quale, secondo una lettura costituzionalmente orientata, non disciplina un’autonoma fattispecie di illecito, produttiva di danno non patrimoniale, distinta da quella prevista dall'art. 2043 c.c., ma regola i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali, tra cui va annoverata la necessità - anche in caso di lesione di diritti costituzionali inviolabili, presieduti dalla tutela minima risarcitoria - che la lesione sia grave e che il danno non sia futile (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 26367 del 16 dicembre 2014) e sempre sul presupposto dell'esistenza di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito richiesti dall'art. 2043 c.c., con la peculiarità della tipicità di detto danno, stante la natura dell'art. 2059 c.c., quale norma di rinvio ai casi previsti dalla legge ovvero ai diritti costituzionali inviolabili, presieduti dalla tutela minima risarcitoria, e con la precisazione, in tale ultimo caso, che la rilevanza costituzionale deve riguardare l'interesse leso e non il pregiudizio in conseguenza sofferto, e che la risarcibilità del danno non patrimoniale presuppone, altresì, che la lesione sia grave e che il danno non sia futile (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 8703 del 9 aprile 2009). Alla luce dei suesposti principi, è onere di parte attrice allegare e provare tutti gli elementi costitutivi del fatto illecito ai sensi dell’art. 2043 c.c. Si contesta infine la invocata quantificazione equitativa del danno, non supportata da 174 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 elementi probatori e dati di fatto necessari a consentire che l’apprezzamento equitativo sia limitato e ricondotto alla sua caratteristica funzione di colmare soltanto le inevitabili lacune al fine della precisa determinazione del danno. 5) Si eccepisce, in ogni caso, anche la prescrizione dei diritti risarcitori ex adverso invocati. Parte attrice invoca infatti una tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c. Risulta pertanto applicabile il termine prescrizionale quinquennale ex art. 2947, comma 1, c.c. Di conseguenza, per l’invocato danno conseguente all’esercizio del diritto di voto nelle elezioni del 2006 e del 2008, il termine di prescrizione, avuto riguardo alla notifica dell’atto di citazione e in assenza di validi atti interruttivi, deve ritenersi ampiamente decorso. * * * Tanto esposto in fatto e in diritto, questa Avvocatura, nell’interesse dei Ministeri in epigrafe, rassegna le seguenti CONCLUSIONI “Preliminarmente dichiararsi l’incompetenza del Giudice di Pace di Buccino in favore del Tribunale di Roma, o, in subordine, del Giudice di Pace di Roma. In subordine, dichiararsi l’improcedibilità delle domande azionate per difetto assoluto di giurisdizione. In ulteriore subordine, rigettare la domanda di parte attrice siccome infondata in fatto e in diritto o, comunque, perché prescritta. Con vittoria delle spese di giudizio”. Si producono i seguenti documenti: 1) Ordinanza del 30 aprile 2015 del Tribunale di Nocera Inferiore; 2) Ordinanza del 18 dicembre 2013 del Tribunale di Roma. Salerno, 26 giugno 2015 Maria Elena Caprio Procuratore dello Stato 3. Uno scambio di e-mail sulla responsabilità civile dello Stato legislatore. Da: Avv. Maria Elena Caprio [mailto:mariaelena.caprio@avvocaturastato.it] Inviato: giovedì 25 giugno 2015 17:34 A: avvocati_tutti@avvocaturastato.it Oggetto: lesione del diritto di voto Cari colleghi, devo costituirmi in una serie di cause davanti al Giudice di Pace instaurate da singoli cittadini per ottenere la condanna della PCM e del Ministero dell'Interno al risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla lesione del diritto di voto così come costituzionalmente garantito, diritto che si assume leso in conseguenza della legge elettorale n. 270/2005 poi dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 1/2014. Gli attori limitano le richieste alla somma di € 1.033,00 e dunque entro i limiti del giudizio secondo equità del GdP. Vi chiedo se ci sono già precedenti analoghi ed eventuali sentenze. Grazie Maria Elena Caprio CONTENZIOSO NAZIONALE 175 (...) Da: Paolo Gentili [mailto:paolo.gentili@avvocaturastato.it] Inviato: gio 25/06/2015 20.58 A: Laspina Pierfrancesco; Nicotra Angelo; Caprio Maria Elena; Avvocati_tutti Oggetto: R: lesione del diritto di voto Secondo SS. UU. 25520/2006 e successive conformi, la violazione di principi costituzionali è sottratta alla cognizione in equità del giudice di pace, anche se la domanda sia contenuta nel limite di valore ex art. 113 c. 2 c.p.c. Mi sembra, poi, che la questione esuli comunque dalle competenze per materia del giudice di pace ex art. 7 c.p.c. Nel merito, a parte l'insussistenza di una responsabilità civile aquiliana per attività legislativa (semmai si può discutere se il caso sia assimilabile alla responsabilità contrattuale per atto lecito da inadempimento al diritto UE: SS.UU. 9147/2009, dove il problema è che tra costituzione e legislatore ordinario non si pone un rapporto tra ordinamenti distinti, ma solo un rapporto di gerarchia formale tra fonti del medesimo ordinamento), è importante ricordare che C. cost. 1/2014 ha chiarito che "7.– È evidente, infine, che la decisione che si assume, di annullamento delle norme censurate, avendo modificato in parte qua la normativa che disciplina le elezioni per la Camera e per il Senato, produrrà i suoi effetti esclusivamente in occasione di una nuova consultazione elettorale, consultazione che si dovrà effettuare o secondo le regole contenute nella normativa che resta in vigore a seguito della presente decisione, ovvero secondo la nuova normativa elettorale eventualmente adottata dalle Camere. Essa, pertanto, non tocca in alcun modo gli atti posti in essere in conseguenza di quanto stabilito durante il vigore delle norme annullate, compresi gli esiti delle elezioni svoltesi e gli atti adottati dal Parlamento eletto. Vale appena ricordare che il principio secondo il quale gli effetti delle sentenze di accoglimento di questa Corte, alla stregua dell’art. 136 Cost. e dell’art. 30 della legge n. 87 del 1953, risalgono fino al momento di entrata in vigore della norma annullata, principio «che suole essere enunciato con il ricorso alla formula della c.d. “retroattività” di dette sentenze, vale però soltanto per i rapporti tuttora pendenti, con conseguente esclusione di quelli esauriti, i quali rimangono regolati dalla legge dichiarata invalida » (sentenza n. 139 del 1984). Le elezioni che si sono svolte in applicazione anche delle norme elettorali dichiarate costituzionalmente illegittime costituiscono, in definitiva, e con ogni evidenza, un fatto concluso, posto che il processo di composizione delle Camere si compie con la proclamazione degli eletti. Del pari, non sono riguardati gli atti che le Camere adotteranno prima che si svolgano nuove consultazioni elettorali. Rileva nella specie il principio fondamentale della continuità dello Stato, che non è un’astrazione e dunque si realizza in concreto attraverso la continuità in particolare dei suoi organi costituzionali: di tutti gli organi costituzionali, a cominciare dal Parlamento. È pertanto fuori di ogni ragionevole dubbio - è appena il caso di ribadirlo - che nessuna incidenza è in grado di spiegare la presente decisione neppure con riferimento agli atti che le Camere adotteranno prima di nuove consultazioni elettorali: le Camere sono organi costituzionalmente necessari ed indefettibili e non possono in alcun momento cessare di esistere o perdere la capacità di deliberare. Tanto ciò è vero che, proprio al fine di assicurare la continuità dello Stato, è la stessa Costituzione a prevedere, ad esempio, a seguito delle elezioni, la prorogatio dei poteri delle Camere precedenti «finchè non siano riunite le nuove Camere» (art. 61 Cost.), come 176 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 anche a prescrivere che le Camere, «anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni» per la conversione in legge di decreti-legge adottati dal Governo (art. 77, secondo comma, Cost.)." Ciò si può interpretare nel senso che il parlamento attuale, anche se eletto in base a legge elettorale incostituzionale, è democraticamente rappresentativo nella stessa misura di un parlamento eletto in base a legge costituzionalmente conforme; e quindi non sussiste alcun danno risarcibile per aver dovuto esprimere il voto in base a legge incostituzionale. PG (...) Da: Fiorentino Sergio Inviato: gio 25/06/2015 21.12 A: Laspina Pierfrancesco Oggetto: Re: R: lesione del diritto di voto La responsabilitá civile dello Stato-legislatore é da almeno due decenni riconosciuta nel caso di violazione del diritto dell'Unione europea (che, peraltro, ridonda anche in violazione della Costituzione). Non vedo nessuna difficoltà a riconoscerla nel caso di violazione della Costituzione, perché la scelta politica, nella quale si esprime l'atto politico e la sua peculiaritá, si pone sempre "a valle" del rispetto di vincoli giuridici derivanti da fonti sovraordinate a quelle sulle quali il decisore politico puó incidere (nel caso del legislatore ordinario, la Costituzione). Altra questione é la responsabilitá individuale di chi attua la scelta politica (e qui si potrebbe fare un interessante parallelismo con la sentenza - che, al pari della legge, é espressione di funzione sovrana - e la responsabilitá individuale del giudice). S.F. Da: stefano cerillo [mailto:stefano.cerillo@avvocaturastato.it] Inviato: ven 26/06/2015 12.03 A: Caprio Maria Elena Cc: Avvocati_tutti Oggetto: R: R: lesione del diritto di voto Mi risultano pendenti 2 cause pilota proposte da Avvocati - ritengo facenti parte di associazione giuridica cfr. www.studiolegalemarcomori.it - per il risarcimento della lesione al diritto individuale di elettorato attivo derivante dall’applicazione di normativa elettorale contraria alla Costituzione (in astratto diritti inviolabili della persona suscettibili di tutela risarcitoria ex art 2059 c.c. ex multis cfr. Cass. 20/6/2013 n. 15481 e C.d.S. 5/9/2013 n. 4464). Oltre alla mia causa Avv. Calvello c: PCM Tribunale di Padova r.g. 2223/2015 mi risulta una precedente causa Muzio c. PCM proposta avanti Tribunale di Genova R.G.1338/2014 CT 1338/2014 avv. Guerra. La Cassazione ha già, peraltro, affermato nella sentenza 16 aprile 2014 n. 8878, resa a valle della sentenza n. 1/2014 della Corte Costituzionale,che “l’accoglimento delle proposte questioni di costituzionalità non ha esaurito la tutela invocata dai ricorrenti nel giudizio principale, che si può realizzare solo a seguito e in virtù della pronuncia con la quale il giudice ordinario accerta le conseguenze della pronuncia costituzionale, e, in particolare, SE VI SIA STATA UNA LESIONE GIURIDICAMENTE RILEVANTE DEL DIRITTO DI VOTO”. CONTENZIOSO NAZIONALE 177 La Cassazione ritiene pienamente satisfattiva della lesione del diritto di voto il ripristino della legalità costituzionale predicato nella sentenza costituzionale “potendo essi (gli elettori n.d.r.) a decorrere dal 13 gennaio 2014 ed attualmente, esercitare il diritto di voto secondo i precetti costituzionali”. Sui possibili dubbi circa il carattere pienamente satisfattivo della accertata lesione del diritto mi pare utile segnalare la nota alla sentenza della Suprema Corte del Prof. Claudio Consolo in Corriere giur., 2014, 12, 1551, tenendo conto che, a differenza che nel precedente giudizio a quo deciso con la citata sentenza della Suprema Corte nei casi ora in esame l’azione proposta non è di mero accertamento con valenza ripristinatoria pro futuro ma di condanna per già intervenute lesioni del diritto fatto valere. Mi pare quindi non tranquillizzante contrastare la pretesa esclusivamente con il richiamo al suaccennato effetto ripristinatorio ma occorrerebbe escludere una concreta efficienza lesiva della legge elettorale costituzionalmente illegittima sull’esercizio individuale del diritto di voto così come delineato dall’art.48 Cost. (personale, uguale, libero e segreto). Sul punto chiedo ai Colleghi ogni utile contributo. Stefano Cerillo Da: Gianni Cortigiani [mailto:gianni.cortigiani@avvocaturastato.it] Inviato: ven 26/06/2015 18.20 A: Gentili Paolo; Laspina Pierfrancesco; Nicotra Angelo; Caprio Maria Elena; Avvocati_tutti Oggetto: R: lesione del diritto di voto Complimenti a Paolo e Stefano per le acute indicazioni. Da (ex) badilante delle cause specializzandi non mi sembra che i principi affermati nella 9147/09 possano applicarsi nella fattispecie atteso che lì è stato rilevato l’inadempimento ad un obbligo sorgente da fonte sovranazionale. 178 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 L’arco temporale di operatività delle astreintes: oscillazioni pretorie e orizzonti di riforma NOTA A CONSIGLIO DI STATO, SEZ. V, SENTENZE DEL 12 MAGGIO 2015, NN. 2340, 2341, 2342, 2343, 2344 Nicola Pistilli* Con la sequenza di decisioni in commento il Consiglio di Stato ha fatto provvisoriamente chiarezza nella panoplìa di orientamenti giurisprudenziali in merito al momento iniziale di decorrenza della penalità di mora nel giudizio di ottemperanza, statuendo che la stessa è «da corrispondere per ogni giorno di ritardo nell'esecuzione della sentenza dopo il decorso dei termini prima assegnati […] dalla comunicazione o, se anteriore, notificazione della […] sentenza e fino all'effettivo pagamento ad opera dell'Amministrazione o del commissario ad acta». L’esigenza di una precisa delimitazione del segmento temporale lungo il quale operano le astreintes ha assunto un rilievo vieppiù significativo a seguito della decisione dell’Adunanza Plenaria n. 15 del 2014, la quale, com’è noto, ha avallato l’orientamento che ammette l’operatività della misura anche nei giudizi di ottemperanza volti ad ottenere dalla pubblica amministrazione l’esecuzione di obbligazioni pecuniarie. Trattandosi evidentemente della percentuale statisticamente più significativa dei giudizi di ottemperanza, è dunque di tutta evidenza l’importanza che viene ad assumere la questione del momento iniziale (e del termine finale) di decorrenza della penalità, atteso che l’adesione a uno o all’altro dei diversi orientamenti che di qui a breve si passeranno in rassegna comporta notevoli conseguenze sul versante dell’esborso di risorse a tal fine devolute (1). Ai fini di una maggiore chiarezza espositiva è opportuno preliminarmente discernere l’indirizzo, fatto proprio dalla giurisprudenza dei tribunali amministrativi regionali, che anticipa la decorrenza delle astreintes a partire da un momento anteriore rispetto alla sentenza che definisce il giudizio di ottemperanza, e quello che invece fissa l’operatività delle stesse da un momento coincidente o posteriore rispetto alla medesima sentenza. Nell’ambito del primo filone si articolano ben quattro orientamenti. Il primo individua la decorrenza delle astreintes dal giorno della notifica del ricorso per l’ottemperanza, «in applicazione del principio per il quale (*) Dottore in Giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. (1) Aspetto evidenziato anche nell’intervento del Vice Avvocato Generale Avv. Salvatore Messineo alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2015, dinanzi all’Assemblea Generale della Suprema Corte: in questa rivista, n. 4/2014, pag. 8. CONTENZIOSO NAZIONALE 179 gli effetti della sentenza retroagiscono al momento della proposizione della domanda» (2). Il secondo orientamento fa decorrere la penalità dal centoventesimo giorno successivo alla notifica del titolo, termine accordato in via generale alle amministrazioni e agli enti pubblici economici per l’adempimento di obbligazioni risultanti da titoli esecutivi di condanna al pagamento di somme di denaro ex art. 14 del d.l. n. 669/96 (3). Quest’ultimo termine è aumentato a sei mesi in altre pronunce (4), sulla scorta del principio fissato dalla giurisprudenza della Corte EDU, la quale, con specifico riferimento all’esecuzione delle condanne ex lege Pinto, ha fissato in tale misura il margine temporale massimo entro il quale l’amministrazione deve adempiere (5). Il quarto orientamento addirittura anticipa il termine iniziale alla data di notifica del provvedimento da ottemperare (6). Si tratta di una soluzione difficilmente giustificabile sul piano logico, atteso che non lascia all’amministrazione soccombente alcun lasso temporale, neppure minimo, per procedere al pagamento, gravando la stessa dell’onere di adempiere ad horas: attività inesigibile alla luce delle procedure contabili che la stessa è tenuta a rispettare. Le interpretazioni testé enunciate appaiono in radicale contrasto con la lettera della norma, nonché con la ratio dell’istituto. L’art. 114, comma 4, lett. e) del c.p.a. prevede che il giudice fissi la somma di denaro dovuta dal resistente «per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato». È dunque la pronuncia di ottemperanza che, constatando l’intervenuto inadempimento da parte dell’amministrazione, scandisce il termine iniziale minimo dal quale possono operare le penalità di mora. Presupposto della penalità di mora è invero da ravvisarsi non nell’inadempimento dell’amministrazione rispetto al decisum di cognizione, quanto piuttosto nell’intervenuto accertamento dell’inadempimento stesso e della sua perduranza. Come è stato lucidamente rilevato, le penalità di mora si configurano quale «strumento per contrastare non la "inottemperanza", ma il "protrarsi della stessa" nonostante l'intervenuto accertamento di essa. Il ritardo sanzionato non è quello che rende manifesta l'inottemperanza, ma quello che segue alla sua constatazione (la somma è irrogabile "per ogni violazione o (2) In particolare, tale tesi è stata avvalorata da alcune pronunce del T.A.R. Lazio - Roma (ad es., Sez. I bis, n. 629 del 15 gennaio 2015) nonché del T.R.G.A. di Trento (ad es. 29 gennaio 2015, n. 61). (3) Tale ricostruzione è da ultimo avallata anche dal TA.R. Lazio - Roma, con diverse pronunce (21 gennaio 2015, n. 2664; 16 febbraio 2015, n. 2669) nonché dal T.A.R. Basilicata, Sez. I, 5 maggio 2014, n. 313. (4) Da ultimo T.A.R. Lazio - Roma, Sez. I bis, 2 marzo 2015, nn. 3500, 3514, 3530. (5) Si veda, ex plurimis, Cocchiarella c. Italia. (6) T.A.R. Lazio - Roma, sez. II, 4 febbraio 2015, n. 3054. 180 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del giudicato"). Il ritardo non può insomma valutarsi se non con riferimento al fatto che la "esecuzione" sia stata appunto pronunciata come mancante e dunque ancora doverosa» (7). Diversamente ritenendo, e cioè se la penalità di mora fosse irrogata sulla base del fatto che già al momento del giudizio d’ottemperanza l’Amministrazione risulti inadempiente, la stessa perderebbe la sua funzione esclusiva, come peraltro riconosciuta dalla consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato (8), nonché dalla pressoché unanime dottrina (9), di stimolo all’adempimento, e latu sensu sanzionatoria, per assumere una funzione risarcitoria, estranea al dettato legislativo, e comunque già assicurata dalla corresponsione degli interessi legali. Tale funzione è stata di recente confermata dalla già citata Plenaria n. 15/2014, la quale ha ribadito che «la penalità di mora, come fin qui osservato, assolve ad una funzione coercitivo-sanzionatoria e non, o quanto meno non principalmente, ad una funzione riparatoria, come dimostrato, tra l'altro, dalle caratteristiche dei modelli di diritto comparato e dalla circostanza che nell'articolo 614 bis c.p.c. la misura del danno è solo uno di parametri di quantificazione dell'importo della sanzione». Tale lettura trova peraltro conforto nella circostanza che il comma 4 dell’art. 112 c.p.a., il quale prevedeva l’esperibilità della domanda risarcitoria direttamente in sede di ottemperanza, è stato abrogato dal d.lgs. 195/2011. La possibilità di anticipare il rimedio a un momento anteriore rispetto alla pronuncia di ottemperanza collide peraltro con la funzione di coazione indiretta del rimedio, atteso che non è possibile immaginare una funzione di deterrenza rispetto a un contegno (nella specie l’inadempimento) già tenuto dal soggetto. Tale conclusione non è peraltro giustificabile neanche seguendo le orme di quella dottrina (10) che, richiamando il principio di concentrazione processuale, ammette la possibilità che le penalità di mora siano fissate direttamente dal giudice della cognizione, sulla falsariga di quanto accade ad esempio nel processo amministrativo francese. Anche a voler aderire a tale opzione ermeneutica, giova infatti precisare che, per anticipare il rimedio a un momento anteriore rispetto alla pronuncia di ottemperanza, la misura dovrebbe essere (7) In questi termini cfr. Cons. Giust. Amm. Sicilia, 23 giugno 2014, n. 392. (8) In tal senso, tra le altre, Cons. Stato, Sez. VI, 6 agosto 2012, n. 4523; Cons. Stato, Sez. III, 30 maggio 2013, n. 2933. (9) In tema si veda CORRADINO, STICCHI DAMIANI, Il processo amministrativo, Torino, Giappichelli, 2014, pag. 462; MARI, Il giudizio di ottemperanza, in SANDULLI (a cura di), Il nuovo processo amministrativo, Milano, Giuffrè, 2013, vol. II, pag. 505; TARULLO, Il giudizio di ottemperanza, in SCOCA (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, Giappichelli, 2014, pag. 624. (10) Si veda per tutti VIOLA, Le astreintes nel nuovo processo amministrativo, in Urb. app., n. 2/2011, pag. 156 e ss. CONTENZIOSO NAZIONALE 181 comminata dal giudice della cognizione per l’eventuale inadempimento futuro, e non già applicata dal giudice dell’ottemperanza per quello pregresso. Pertanto anche in tale evenienza la penalità conserverebbe integra la sua veste di strumento coercitivo-sanzionatorio. Sulla scorta di tali considerazioni (11), il Consiglio di Stato - in direzione dichiaratamente contraria alla giurisprudenza innanzi riportata - si è espresso costantemente nel senso che le penalità non possano decorrere a far data da un momento antecedente rispetto alla pronuncia di ottemperanza. All’interno di tale indirizzo si registrano tuttavia due ordini di soluzioni. Alcune sentenze ritengono infatti che la penalità di mora decorra dal momento della notificazione o comunicazione della sentenza di ottemperanza (12). Un diverso filone di pronunce, al quale afferiscono quelle in commento, computa le astreintes, le quali, pur comminate, sarebbero destinate a operare solo in via eventuale, a far data dalla scadenza del termine per l’adempimento fissato nella pronuncia di ottemperanza (il quale decorre a sua volta dalla notificazione o comunicazione della sentenza stessa) (13). Pur non disconoscendo la corretta impostazione di fondo in cui si muovono entrambi gli orientamenti, non si conviene con quella dottrina la quale ammette che rientri nella discrezionalità del giudice la valutazione in ordine all’opportunità di concedere eventualmente un termine “libero” per adempiere, posticipando l’intervento del rimedio a partire dallo spirare dello stesso (14). Tale soluzione è stata peraltro avallata, seppure in via di obiter dictum, dall’Adunanza Plenaria n. 15/2014, la quale si è espressa nel senso dell’alternatività tra le due soluzioni, sentenziando che «l'astreinte, salva diversa valutazione del giudice, può essere di immediata esecuzione, in quanto è sancita da una sentenza che, nel giudizio d'ottemperanza di cui agli artt. 112 e seguenti c.p.a., ha già accertato l'inadempimento del debitore». Si ritiene che la soluzione abbracciata dal Consiglio di Stato con le pronunce in epigrafe, secondo le quali la penalità decorre, solo eventualmente, dallo spirare del termine concesso all’amministrazione per adempiere, sia più aderente alla lettera della norma. (11) Lucidamente riprese da Cons. Stato, Sez. IV, 22 maggio 2014, n. 2653, a tenore della quale «L’art. 114 comma 4 cpa [...] attribuisce al giudice dell’ottemperanza uno strumento per indurre indirettamente l’amministrazione ad eseguire tempestivamente l’ordine di pagamento dallo stesso formulato; strumento ovviamente non utilizzabile per gli inadempimenti pregressi, generanti, piuttosto, obbligazioni di natura risarcitoria». (12) La pronuncia citata nella nota precedente ha statuito che «la penalità decorre dal giorno della comunicazione o notificazione dell’ordine di pagamento formulato dal giudice dell’ottemperanza». (13) Si veda in tal senso Cons. Stato, Sez. III, 16 settembre 2014, n. 4711; T.A.R. Lombardia - Milano, Sez. III, 3 novembre 2014, n. 2614; T.A.R. Campania - Salerno, Sez. I, 29 luglio 2014, n. 1416; T.A.R. Emilia Romagna - Bologna Sez. I, 23 marzo 2015, n. 291. (14) Così SAVOAMODIO, Le “astreintes”, in Treccani. Il libro dell’anno del diritto 2013, pag. 734. 182 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 Invero l’art. 114, comma 4, lett. e) del c.p.a. prevede che il giudice dell’ottemperanza fissi la somma di denaro dovuta dal resistente «per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato». Il tenore della norma sembra deporre nel senso che il rimedio può operare soltanto qualora l’Amministrazione non rispetti il vincolo fissato dal giudice d’ottemperanza di adempiere entro un termine fissato nella sentenza medesima. Alteris verbis, con la locuzione “per ogni violazione successiva”, il legislatore ha verosimilmente inteso riferirsi agli inadempimenti, o comunque all’inerzia, “successivi” rispetto alla sentenza pronunciata all’esito del giudizio di ottemperanza. Se non si vuole svuotare l’aggettivo di ogni valenza autonoma, l’unico significato che può attribuirsi alla norma è nel senso che essa postuli, o quantomeno sottintenda, la necessità di un minimo lasso temporale tra la conoscenza legale della sentenza di ottemperanza e la sua attuazione. In tale lasso temporale la minaccia della misura compulsoria dovrebbe spingere l’amministrazione a ottemperare alla pronuncia nel termine fissato dal giudice e, in caso di infruttuoso decorso dello stesso, la penalità recupererebbe la sua duplice funzione: sanzionatoria, relativamente all’inadempimento pregresso, e deterrente rispetto a quello successivo. Ed è allora giocoforza concludere che la penalità, nella sua duplice veste deterrente e sanzionatoria, operi solo allorquando l’Amministrazione non abbia ottemperato nel termine prescritto dalla pronuncia stessa, ossia dal momento in cui la medesima dimostri la sua pervicace volontà di non attuare il giudicato (15), il quale a sua volta decorre dal giorno della comunicazione/notificazione della stessa. Conclusivamente si rileva che è allo studio una proposta di modifica del c.p.a. la quale recepisce le conclusioni delle pronunce in commento, anche al fine di fugare le residue incertezze sul punto. In seno ai lavori della Commissione ministeriale per la riforma della legge Pinto, istituita presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze, è emersa l’opportunità di inserire una novella in coda all’art. 114, comma 4, lett. e) del c.p.a., proprio nel senso divisato dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, con conseguente decorrenza delle astreintes dallo spirare del termine fissato nella sentenza di ottemperanza. Tale limitazione non sembra peraltro destinata a operare in caso di ottemperanza di decisioni diverse da quelle di condanna al pagamento di somme di denaro: presumibilmente la ratio è quella di non dar luogo a eccessive locupletazioni quando il ritardo nell’adempimento sia comunque compensato dalla decorrenza degli interessi legali. Le sentenze qui in commento offrono lo spunto per accennare a un’altra questione strettamente avvinta alla tematica testé approfondita, ossia quella concernente il termine finale di operatività del rimedio compulsorio. (15) In questi termini si veda Cons. Stato, Sez. V, 20 agosto 2013, n. 4180. CONTENZIOSO NAZIONALE 183 Pacifica l’ammissibilità del cumulo tra le due misure (16), atteso che le stesse si pongono su una scala di crescente ingerenza del giudice nell’attività amministrativa, resta da chiarire se i rimedi siano anche sovrapponibili dal punto di vista cronologico. La soluzione adombrata nelle odierne pronunce è nel senso che solo l’effettivo e integrale adempimento dell’obbligazione da parte dell’amministrazione determini la cessazione della misura, nonostante l’intervenuto insediamento del commissario ad acta (17). Tale statuizione si muove evidentemente in un’ottica di tutela rafforzata della controparte, per la quale è indifferente l’identità del soggetto cui la persistenza dell’inadempimento è addebitabile. Inoltre la perduranza della penalità opererebbe a presidio del dovere di massima collaborazione (18) che incombe sull’amministrazione al fine di agevolare il rapido ed efficace svolgimento delle mansioni del commissario. La questione, com’è evidente, involge la più generale problematica della sussistenza, in capo all’amministrazione, di residui margini di operatività anche in costanza del commissario (19). Nel momento in cui si ammette tale possibilità, è giocoforza ritenere che la penalità di mora continui ad attuare la sua funzione di coazione indiretta. In dottrina si è obiettato che la nomina del commissario ad acta segna il definitivo trasferimento del munus dall’amministrazione allo stesso, di talché l’eventuale protrarsi dell’inerzia non è più ascrivibile alla prima e pertanto le astreintes cessano con l’intervento dello stesso (20). La soluzione, pur rigorosa sul piano sistematico, sconta tuttavia un apprezzabile rischio di affievolimento della tutela delle ragioni di controparte. Nondimeno è stata accolta da parte della giurisprudenza. Sul punto si registra però una ulteriore divergenza di sfumature. Alcuni arresti invero fissano all’amministrazione un doppio termine: il primo per adempiere, alla scadenza del quale inizia a decorrere la penalità; il secondo, che segna la fine del rimedio compulsorio e il subentro del commissario (21). Altre pronunce, diversamente, individuano come termine finale l’effettivo insediamento del commissario stesso, in quanto solo in tale circostanza si perfezionerebbe la traslazione dell’obbligo di adempiere (22). (16) In dottrina, ex multis, CORRADINO, STICCHI, op. cit., pag. 464 e TARULLO, op. cit., pag. 624. (17) Nello stesso senso si veda T.A.R. Sicilia - Palermo, Sez. I, 2 aprile 2015, n. 823 nonché le su menzionate T.A.R. Campania - Salerno, Sez. I, 29 luglio 2014, n. 1416 e T.A.R. Emilia Romagna - Bologna Sez. I, 23 marzo 2015, n. 291. (18) T.A.R. Calabria - Reggio Calabria, Sez. I, 24 ottobre 2012, n. 623. (19) Sul punto, diffusamente, MARI, op. cit., pag. 513 e ss. (20) Così GAROFOLI, FERRARI, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2015, Neldiritto, pag. 2567. (21) Si veda la citata sentenza del T.A.R. Lombardia - Milano, Sez. III, 3 novembre 2014, n. 2614. (22) Si veda la già citata pronuncia del Cons. Stato, Sez. III, 16 settembre 2014, n. 4711; cfr. anche T.A.R. Lazio - Roma, Sez. I, 3 giugno 2015, n. 7752. 184 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 Non può infine sottacersi un recente ma (per il momento) isolato filone giurisprudenziale il quale ritiene che la misura compulsoria e quella surrogatoria non siano cumulabili: la nomina del commissario ad acta, in quanto rimedio sostitutivo, escluderebbe in radice l’esigenza di porre in essere ulteriori strumenti di coazione come le penalità di mora, le quali dovrebbero più opportunamente operare nel caso in cui sia preferibile che, atteso l’elevato tasso di discrezionalità dell’attività amministrativa da compiersi, l’amministrazione stessa vi provveda (23). In altri termini, la nomina del commissario previene a monte la possibilità che si verifichi un ulteriore ritardo (o comunque violazione) imputabile all’amministrazione (24). Consiglio di Stato, Sezione Quinta, sentenza 12 maggio 2015 n. 2340 - Pres. ff. Vito Poli, Est. Antonio Amicuzzi - C.M.M. (avv.ti G. Abbamonte e E.M. Zuppardi) c. Comune di Scafati (n.c.). FATTO e DIRITTO 1.- La signora M.C.M. ha proposto ricorso al T.A.R. Campania, Sezione di Salerno, contro il provvedimento con cui il Comune di Scafati la aveva esclusa dal concorso per la copertura di 18 posti di vigile urbano ed aveva approvato la nuova graduatoria di merito. 2.- Il T.A.R. ha respinto il ricorso con sentenza n. 65 del 1999, che è stata appellata dinanzi al Consiglio di Stato, il quale, con decisione n. 5457 del 2003 della Sezione V, ha accolto integralmente l'appello ed ha annullato il provvedimento di esclusione impugnato in primo grado. 3.- La deducente ha quindi nuovamente adito il T.A.R. per ottenere il risarcimento del danno patito a seguito del ritardo nella costituzione del rapporto di lavoro causato dall'illegittimo comportamento del Comune, ma il ricorso è stato respinto con sentenza n. 145 del 2008 nell'assunto che nella fattispecie difettava il requisito della colpa della Amministrazione. 4.- Avverso quest’ultima pronunzia la signora Celone ha proposto appello al Consiglio di Stato, che, con la sentenza n. 4343 del 31 luglio 2012 di questa Sezione, ha accolto il gravame nei limiti e nei termini di cui in motivazione ed ha riformato la prima decisione, con accoglimento del ricorso introduttivo del giudizio e condanna del Comune al risarcimento del danno arrecato alla parte appellante nei limiti e nei termini indicati (il 90% del trattamento retributivo al netto degli oneri fiscali e previdenziali, dal maggio 1998 al marzo 2004, decurtato dell’aliunde perceptum, oltre agli accessori sulla sorte capitale liquidati nella maggior somma fra interessi legali e rivalutazione monetaria secondo gli indici ISTAT, dalla maturazione e sino all’effettivo soddisfo, nonché la regolarizzazione contributiva e previdenziale ed il pagamento delle spese di lite in favore del difensore antistatario). La Sezione ha altresì disposto che il Comune avrebbe dovuto provvedere, entro sessanta giorni dalla pubblicazione della sentenza, a proporre alla parte la somma dovuta a titolo di risarcimento del danno ex art. 35 del d.lgs. n. 80 del 1998 e che, prima di fare la sua definitiva proposta, avrebbe dovuto convocare la parte per verificare in contraddittorio la quantificazione del risarcimento, senza pre- (23) Così, ex multis, T.A.R. Lazio - Latina, Sez. I, 15 aprile 2015, n. 339. (24) T.A.R. Veneto, Sez. III, 23 marzo 2015, n. 337. CONTENZIOSO NAZIONALE 185 giudizio del rispetto del termine di sessanta giorni per la proposta finale, provvedendo poi al pagamento entro sessanta giorni dall'accettazione della proposta. 5.- La sentenza, notificata al Comune di Scafati in data 6 febbraio 2013, è stata impugnata dal Comune, senza richiesta di sospensione della sua esecutività, presso la Corte di Cassazione, che, con sentenza n. 19612 del 27 agosto 2013, ha dichiarato inammissibile il ricorso ed ha confermato la giurisdizione del giudice amministrativo. 6.- Nonostante la notifica all’Amministrazione in data 5 novembre 2013 di detta sentenza della Corte di Cassazione afferma la parte ricorrente che il Comune di Scafati è ancora totalmente e gravemente inadempiente nei confronti della ricorrente ed ha omesso di avviare l'esecuzione di detta sentenza della Sezione n. 4343 del 2012 secondo le scansioni temporali ivi previste. 7.- La signora C. ha quindi chiesto che la Sezione: 1) Dichiari che il Comune di Scafati non ha dato esecuzione alla citata sentenza n. 4343 del 2012, notificata in data 6 febbraio 2013; 2) nomini sin d'ora, in caso di ulteriore inottemperanza, un commissario ad acta che dia piena e completa esecuzione alla sentenza stessa; 3) fissi, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 114, comma 4, lett. "e", del d.lgs. n. 104 del 2010, una somma di denaro a carico del Comune di Scafati da corrispondere alla parte ricorrente per ogni ulteriore violazione o inosservanza successiva, ovvero, per ogni ulteriore ritardo nell'esecuzione del citato provvedimento; 4) condanni l'Amministrazione intimata al pagamento delle spese, diritti ed onorari di giudizio, compreso il compenso spettante al commissario ad acta. 8.- All’udienza in camera di consiglio del 31 marzo 2015 il ricorso è stato trattenuto in decisione alla presenza dell’avvocato della parte ricorrente, come da verbale di causa agli atti del giudizio. 9.- Ritiene la Sezione che, assodato l’inadempimento del Comune di Scafati, che non ha attribuito alla signora C. il bene della vita cui aspirava, cioè il risarcimento del danno nei termini e nei limiti fissati con la sentenza della Sezione n. 4343 del 2012, in primo luogo debba essere dichiarato l’obbligo del Comune di adottare tutti gli atti e comportamenti (anche di eventuale reperimento di fondi), necessari o utili per eseguire il giudicato de quo agitur. A tanto il Comune dovrà materialmente provvedere entro il termine di giorni 90 (novanta) dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza o dalla sua notificazione, se anteriore, ad istanza di parte. Scaduto infruttuosamente tale termine, senza che in tutto o in parte sia stata prestata ottemperanza, il signor Prefetto di Salerno designerà, nel termine di giorni 10 dalla ricezione di apposita richiesta scritta da parte dell’interessata, un funzionario munito di adeguata professionalità, affinché provveda, quale commissario ad acta di questa Sezione, a porre in essere tutte le attività necessarie per l’esaustiva ottemperanza al giudicato in questione - anche in via di rimozione, integrazione o sostituzione dei relativi atti eventualmente emanati dalla predetta amministrazione medio tempore - nel termine di giorni 60 decorrenti dalla nomina e nel rispetto dei limiti fissati nella decisione de qua agitur. Il commissario potrà accedere agli atti della amministrazione ed avvalersi dei relativi apparati burocratici. Ad incarico espletato, l’Ente dovrà corrispondere al commissario il relativo compenso eventualmente spettante, secondo la liquidazione effettuata da questo giudice ai sensi degli artt. 71 e ss. del t.u. n. 115 del 2002. 186 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 Il commissario provvederà inoltre a denunciare alla competente Procura della Corte dei Conti gli specifici comportamenti omissivi di amministratori e funzionari che ne abbiano reso necessario l’intervento, con conseguenziale danno “erariale” corrispondente alle spese per l’intervento commissariale e quant’altro collegato all’inesecuzione della predetta sentenza. 10.- Inoltre, ritiene il collegio che debba essere accolta la specifica domanda presentata dalla parte ricorrente ex articolo 114, comma 4, lettera e) del c.p.a., che ha introdotto, in via generale, nel processo amministrativo, l’istituto della cd. penalità di mora, già regolato per il processo civile - con riguardo alle sentenze aventi per oggetto obblighi di fare infungibile o di non fare - dall’art. 614 bis del c.p.c., aggiunto dall’art. 49 della l. n. 69 del 2009. Anche con la sentenza di ottemperanza può, invero, essere fissata, salvo che ciò sia manifestamente iniquo e in assenza di ulteriori ragioni ostative, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell'esecuzione del giudicato, con una statuizione costituente titolo esecutivo (Consiglio di Stato, A.P. 25 giugno 2014, n. 15; Sezione V, 14 maggio 2012, n. 2744). Nel caso di specie risultano sussistenti tutti i presupposti stabiliti dall’art. 114 cit. per l’applicazione della sanzione: la richiesta di parte, formulata con il ricorso in esame, l’insussistenza di profili di manifesta iniquità e la non ricorrenza di altre ragioni ostative. La misura della sanzione va dunque effettuata, in difetto di disposizione sul punto da parte del c.p.a., in base ai parametri di cui all’art. 614 bis del c.p.c. e si deve valutare congrua, in ragione della gravità dell’inadempimento, del valore della controversia, della natura della prestazione, dell’entità del danno e delle altre circostanze, oggettive e soggettive, del caso concreto, la misura di € 50 (cinquanta) giornaliere, da corrispondere per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione della sentenza dopo il decorso dei termini prima assegnati di 90 (novanta) giorni dalla comunicazione o, se anteriore, notificazione della presente sentenza e fino all’effettivo pagamento ad opera dell’Amministrazione o del commissario ad acta. 11.- In conclusione il ricorso deve essere accolto nei limiti sopra precisati. 12.- Le spese di giudizio, regolamentate secondo l’ordinario criterio della soccombenza, sono liquidate in dispositivo tenuto conto dei parametri stabiliti dal regolamento 10 marzo 2014, n. 55. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sezione quinta), definitivamente pronunciando sul ricorso meglio specificato in epigrafe: a) lo accoglie secondo le modalità e i limiti indicati in motivazione; b) condanna il Comune di Scafati, ex art. 114, comma 4, lettera e), del c.p.a., a corrispondere alla signora M.C.M. la somma di € 50 (cinquanta) per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione della sentenza nei termini e con le modalità di cui in motivazione. c) condanna il Comune suddetto a rifondere in favore della signora M.C.M. le spese del presente giudizio che liquida in complessivi euro 2.000,00 (duemila/00), oltre accessori come per legge (I.V.A., C.P.A. e 15% a titolo di rimborso di spese generali). Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 31 marzo 2015. CONTENZIOSO NAZIONALE 187 Sul fermo amministrativo ex art. 69, ul. co., R.D. 2440/1923 TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER IL LAZIO, SEZIONE TERZA, ORDINANZA 19 GIUGNO 2015 N. 2616 L’ordinanza in rassegna - che è stata segnalata dall’avvocato dello Stato affidatario della causa, avv. Carmela Pluchino - nel valutare un provvedimento di fermo amministrativo suggerito dall’Avvocatura alle amminisrazioni interessate, motiva in ordine ad una serie di profili giuridici di rilievo. Tribunale ammnistrativo regionale per il Lazio, Sezione Terza, ordinanza 19 giugno 2015 n. 2616 - Pres. F. Corsaro, Est. C. Vallorani - Impresa A.C. s.r.l. (avv.ti F. Tedeschini, P.S. Pugliano, M. Scalise) c. Ministero Infrastrutture e Trasporti ed altre amm.ni (avv. gen. Stato). (...) per l'annullamento previa sospensione dell'efficacia, del provvedimento prot. n. 3454 del 02.03.15 avente ad oggetto il fermo amministrativo su ogni credito eventualmente dovuto alla società ricorrente dalle Amministrazioni Statali fino alla concorrenza di euro 2.012.644,74 (...) Considerato che, ad una prima sommaria delibazione propria della presente fase, il ricorso non presenta elementi che facciano prevedere un suo possibile accoglimento atteso che: - premesso che il provvedimento di “fermo amministrativo” di cui all’art. 69, ult. co., R.D. 18 novembre 1923, n. 2440 costituisce un misura di autotutela cautelare che l’ordinamento riconosce alle Amministrazioni dello Stato per la tutela delle proprie “ragioni di credito” verso soggetti privati, che siano a loro volta titolari di contro-crediti verso la p.A. rispetto ai quali si dispone la sospensione provvisoria dei pagamenti, fin quando non intervenga un provvedimento definitivo o la revoca della misura ovvero la compensazione tra le rispettive posizioni attive e passive tra Amministrazione e privato; - per consolidata giurisprudenza l’attivazione del rimedio non presuppone l’esistenza di crediti erariali certi, liquidi ed esigibili ma, al contrario, come lascia intuire l’espressione impiegata dalla norma (“ragioni di credito”) si estende a tutte le ipotesi in cui appaia probabile e plausibile la fondatezza della pretesa economica vantata dall’Amministrazione, anche sulla base di fattispecie ancora in corso di accertamento e nonostante le contestazioni del soggetto obbligato; in altri termini è all’uopo necessario e sufficiente un “fumus boni juris” in virtù del quale il credito vantato dalla p.A. non appaia arbitrario e/o pretestuoso; - siffatta apparenza di fondatezza sembra ben ravvisabile nella specie alla luce del decreto che dispone il giudizio ex art. 429 c.p.p. nei confronti del sig. D.A. e di numerosi altri coimputati (doc. 5 res.), nel procedimento in cui l’Amministrazione si è costituita parte civile e che vede lo stesso imputato per gravi e numerosi reati tutti perpetrati in danno dell’Amministrazione che ha subito danni patrimoniali ed all’immagine non ancora quantificabili con esattezza ma presumibilmente assai ingenti; - il fatto che il processo penale sia ancora pendente e ben lungi dall’essere definito (con conseguente indeterminatezza del credito) non costituisce motivo ostativo all’adozione del fermo proprio per la rammentata natura cautelare del medesimo; 188 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 - si ritiene che l’Amministrazione che dispone il fermo possa con esso disporre anche la sospensione del pagamento di somme dalla stessa dovute (cfr. Cass. N. 8417 / 2004), laddove il carattere non ancora liquido ed esigibile del credito da essa vantato non le consenta di avvalersi immediatamente della compensazione legale; in ogni caso, le ragioni di credito complessivamente vantate dal MIT sopravanzano di molto nel “quantum” prospettato il valore dei controcrediti a cui fa oggi riferimento la ricorrente;- appare adeguatamente motivato il fermo e la sua necessità emerge “in re ipsa” in relazione al rischio di insolvenza connesso alla congerie di reati imputati all’A. ed al prevedibile altissimo ammontare delle derivanti conseguenze economiche in danno dello Stato; RITENUTO, per tutto quanto precede, di respingere la proposta istanza cautelare e di disporre il pagamento delle spese di fase a carico della società ricorrente nella misura che si indica nel dispositivo P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza) respinge la domanda cautelare di sospensione del provvedimento impugnato. Condanna la ricorrente Impresa A.C. S.r.l., in persona del legale rappresentante p.t., alla refusione delle spese di fase in favore del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, in persona del Ministro p.t., che forfettariamente liquida in Euro 1.000,00 (mille/00), oltre oneri tutti di legge. La presente ordinanza sarà eseguita dall'Amministrazione ed è depositata presso la segreteria del tribunale che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 giugno 2015. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO Modalità di erogazione dei contributi pubblici ai privati per interventi di ricostruzione in Abruzzo (sisma 2009) PARERE 29/04/2015-204023, AL 10038/15, AVV. LORENZO D’ASCIA 1. Si riscontra la nota in epigrafe con la quale si chiede un parere in ordine agli strumenti azionabili per assicurare l’applicazione delle norme di prevenzione antimafia e, in particolare, il contrasto al rischio di infiltrazione della criminalità organizzata nell’attività di risanamento del patrimonio edilizio di proprietà di soggetti privati, a seguito del sisma del 6 aprile 2009 in Abruzzo, quando lo stesso sia finanziato attraverso l’erogazione di contributi pubblici a favore dei proprietari privati. In particolare, codesto Ministero evidenzia come, in questo ambito, siano emerse alcune criticità quando il beneficiario del contributo abbia affidato l’attività di progettazione ed esecuzione di lavori a imprese che, successivamente, siano state colpite da determinazioni antimafia interdittive. 2. Il Comitato di coordinamento per l’alta sorveglianza delle grandi opere ha emanato il 31 dicembre 2010 Linee Guida che impongono al proprietario beneficiario del contributo di inserire nel contratto di appalto clausole che gli consentano di risolvere il contratto ex art. 1456, c.c. nell’ipotesi in cui l’impresa appaltatrice sia colpita da interdittiva antimafia, e a sua volta obblighino quest’ultima a inserire analoghe clausole nell’eventuale contratto di subappalto. Codesto Ministero riferisce che alcuni dei beneficiari dei contributi hanno ritenuto di non risolvere i contratti, affermando che le Linee Guida non fossero vincolanti nei loro confronti, in assenza, a loro dire, di meccanismi sanzionatori nel caso di mancata attivazione della clausola risolutiva. A seguito di richiesta di documentazione integrativa formulata dalla Scrivente per le vie brevi, sono stati acquisiti alcuni dei provvedimenti di concessione emessi. Dal loro esame emerge che l’Amministrazione non ha precisato 190 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 in essi che l’erogazione del contributo è subordinata non solo al completamento dell’opera progettata, ma anche all’assenza in capo all’appaltatore di interdittiva antimafia, fino alla conclusione dell’opera stessa. È stato acquisito inoltre un contratto-tipo di appalto predisposto dagli Uffici del Commissario delegato per la Ricostruzione, nel quale è inserita, all’art. 19, la seguente clausola: “Nel caso in cui nei confronti dell’appaltatore venga emessa un’informazione prefettizia interdittiva tipica, il Committente è legittimato ad attivare la risoluzione automatica del contratto ex art. 1456 del c.c., con diritto al risarcimento dei danni, in misura pari al 10 % dell’importo contrattuale, fatto salvo il maggior danno”. L’art. 5 del contratto-tipo, intitolato “obblighi e oneri dell’appaltatore”, prevede inoltre: - che “l’appaltatore cui sono affidati i lavori di riparazione/ricostruzione e miglioramento sismico possiede l’attestazione SOA per le categorie e classifiche adeguate alla natura dei lavori, ovvero i requisiti previsti ai fini dell’ottenimento dell’attestazione SOA”; l’art. 76 DPR n. 207/2010 dispone che l’impresa che presenta alla SOA la domanda per il rilascio dell’attestazione di qualificazione ha l’obbligo di produrre il certificato della camera di commercio, industria e artigianato, completo di attestazione antimafia; - che “al contratto sono altresì allegati i certificati della Camera di Commercio muniti della dicitura antimafia, per tutte le imprese partecipanti, nel caso di ATI, nonché la fideiussione di cui all’art. 17, comma 3”. Il quesito formulato a questa Avvocatura investe la configurabilità di meccanismi tali da assicurare, con la normativa vigente, interventi dell’Amministrazione volti a scongiurare la deviazione, verso la criminalità organizzata, dei flussi finanziari derivanti dai fondi stanziati per il processo di ricostruzione delle località abruzzesi colpite dal sisma del 9 aprile 2009. 3. Deve preliminarmente rilevarsi che le norme che hanno disciplinato la materia, e che si sono succedute negli anni (dal 2009 al 2013), non forniscono in modo diretto e puntuale uno strumento che sanzioni con la risoluzione del contratto di appalto l’ipotesi in cui l’impresa appaltatrice (scelta da un committente privato) sia stata raggiunta da una interdittiva antimafia. Si osserva, poi, che, a rigore, l’art. 16, comma 4, D.L. n. 39/2009 attribuisce rilevanza normativa alle linee guida del Comitato di coordinamento per l’alta sorveglianza delle grandi opere unicamente in relazione ai controlli antimafia sui contratti pubblici (e sui successivi subappalti e subcontratti di lavori, servizi e forniture). Infine, va rilevato che l’art. 3-ter, D.L. n. 125/2010, con norma di interpretazione autentica, ha disposto che i contributi a fondo perduto erogati ai sensi del D.L. n. 39/2009 sono concessi a titolo di indennizzo per il ristoro dei danni causati dal sisma al patrimonio immobiliare e che i contratti di appalto stipulati dai privati per la ricostruzione non sono soggetti al codice dei contratti PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 191 pubblici, non essendo ricompresi tra quelli previsti dall’art. 32, comma 1, lettere d) ed e), d. lgs. n. 163/2006. Questa norma determina non pochi problemi nella ricerca di una soluzione interpretativa che, di fatto, finisca per qualificare i committenti privati alla stregua di un “sostituto” della pubblica amministrazione, come tale obbligato a recedere dal contratto di appalto ove, nel corso dell’esecuzione dello stesso, l’impresa appaltatrice sia colpita da interdittiva antimafia. 4. Com’è noto, l’interdittiva antimafia sopravvenuta determina il recesso dell’amministrazione committente dal contratto di appalto pubblico, o, in caso di concessione di contributi pubblici, la loro revoca, ma nel caso di specie, formalmente, il contratto tra committente e impresa non è un contratto pubblico, e il contributo non è erogato all’impresa appaltatrice, ma al committente, sub specie di indennizzo ristoratorio. La norma interpretativa sopra menzionata (art. 3-ter, D.L. n. 125/2010) potrebbe far dubitare del fatto che il contributo sia una provvista finanziaria vincolata alla ricostruzione del patrimonio immobiliare privato colpito dal sisma, integrando unicamente un indennizzo per i danni subiti. Tuttavia, altri indici normativi, frutto di interventi successivi del legislatore, conducono a una diversa conclusione. In particolare: - l’art. 3, comma 1, lettera a), D.L. n. 39/2009 prevede che la “concessione di contributi a fondo perduto” è funzionale alla “ricostruzione o riparazione di immobili adibiti ad abitazione considerata principale ai sensi del decreto legislativo 30 dicembre 1992 n. 504, distrutti, dichiarati inagibili o danneggiati ovvero per l’acquisto di nuove abitazioni sostitutive dell’abitazione principale distrutta”, ed è determinato in una misura “tale da coprire integralmente le spese occorrenti per la riparazione, la ricostruzione o l’acquisto di un alloggio equivalente”; - l’art. 3, comma 1, lettera e), D.L. n. 39/2009 prevede un contributo anche per la “ricostruzione o riparazione di immobili diversi da quelli adibiti ad abitazione principale, nonché di immobili ad uso non abitativo distrutti o danneggiati”; - l’art. 3, comma 1 ter, D.L. n. 39/2009 subordina il pagamento del saldo dei contributi ivi previsti alla presentazione della “documentazione che attesti che gli interventi sono stati realizzati ai sensi del decreto-legge 28 maggio 2004 n. 136”; - l’art. 3, comma 5, D.L. n. 39/2009 dispone che “la proprietà degli immobili per i quali è stato concesso il contributo o ogni altra agevolazione per la ricostruzione non può essere alienata per due anni dalla concessione del contributo”, a pena di nullità dell’eventuale atto di compravendita. Pare dunque evidente la volontà del legislatore di funzionalizzare l’erogazione del contributo al perseguimento dell’obiettivo, di interesse pubblico, della effettiva ricostruzione dei luoghi colpiti dal sisma. 192 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 Da quanto precede si ritiene di poter concludere che la norma interpretativa racchiusa nell’art. 3-ter, D.L. n. 125/2010 qualifica il contributo in esame come indennizzo, e non come provvista vincolata alla ricostruzione, solo ai fini dell’esclusione dell’applicazione generalizzata delle norme del codice dei contratti pubblici, e in particolare di quelle sulla obbligatorietà della procedura di evidenza pubblica di selezione dell’appaltatore. Resta invece fermo, anche alla luce di una rivisitazione normativa del legislatore, che la concessione del contributo è vincolata alla ricostruzione o riparazione immobiliare. 5. Pur non configurandosi un obbligo di procedura di evidenza pubblica a carico del committente, la concessione del contributo è subordinata, da specifiche norme, al rispetto da parte del beneficiario di alcuni limiti, segnatamente nella fase della scelta dell’impresa appaltatrice e di conclusione del contratto di appalto. In particolare: a) nel caso di interventi unitari in forma associata su aggregati di proprietà privata ovvero mista pubblica e privata, i proprietari devono costituirsi in consorzi obbligatori, i quali affidano i lavori “nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, parità di trattamento e trasparenza, previo invito rivolto ad almeno cinque imprese idonee, a tutela della concorrenza” (art. 67 quater, comma 4, D.L. n. 83/2012); b) i contratti per la redazione dei progetti e la realizzazione dei lavori di ricostruzione devono essere redatti per iscritto a pena di nullità e contenere, tra l’altro, l’indicazione dei “requisiti di ordine generale e di qualificazione del professionista e dell’impresa, indicando espressamente le esperienze pregresse e il fatturato degli ultimi cinque anni, nonché la certificazione antimafia e di regolarità del documento unico di regolarità contributiva” (art. 67 quater, comma 8, lettera b), D.L. n. 83/2012); c) il contratto di appalto deve indicare inoltre “la dichiarazione di voler procedere al subappalto dell’esecuzione dell’opera, ove autorizzato dal committente, indicandone la misura e l’identità del subappaltatore” (art. 67 quater, comma 8, lettera f), D.L. n. 83/2012); d) per l’efficacia dei controlli antimafia nelle erogazioni e concessioni di provvidenze pubbliche è prevista la tracciabilità dei relativi flussi finanziari nonché la costituzione di un elenco di fornitori e prestatori di servizi, non soggetti a rischio di inquinamento mafioso, cui possono rivolgersi gli esecutori dei lavori (art. 16, comma 5, D.L. n. 39/2009); e) è prevista l’istituzione di un elenco degli operatori economici interessati all’esecuzione degli interventi di ricostruzione, subordinata al possesso dei requisiti di cui all’art. 38 del codice dei contratti pubblici e alle verifiche antimafia effettuate dalle prefetture competenti (art. 67 quater, comma 9, D.L. n. 83/2012); PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 193 f) la domanda di riconoscimento dei contributi, presentata al comune di L’Aquila o al comune del cratere territorialmente competente deve essere corredata da almeno cinque offerte di imprese, o da tre offerte di progettisti, al fine di consentire valutazioni comparative (art. 2, D.P.C.M. 4.2.2013); g) le offerte devono provenire da imprese o progettisti iscritti nell’elenco di cui all’art. 10, D.P.C.M. 4 febbraio 2013 (previsto, come detto, dall’art. 67 quater, D.L. n. 83/2012), cui possono iscriversi, su base volontaria, gli operatori economici in possesso dei requisiti di cui all’art. 38, d. lgs. n. 163/2006 e dei requisiti di affidabilità tecnica stabiliti con preventivo avviso pubblico dall’Ufficio speciale per la ricostruzione competente sulla città dell’Aquila o dall’Ufficio speciale per gli altri Comuni. 6. Da quanto precede, e soprattutto dagli interventi normativi del 2012 e del 2013 (che sembrano ridimensionare l’impostazione sottesa alla norma interpretativa di cui all’art. 3 ter, D.L. n. 125/2010), discende che, anche non applicandosi integralmente la disciplina prevista dal codice dei contratti pubblici, l’erogazione dei contributi è subordinata al rispetto di alcune delle condizioni o dei principi che governano la stipulazione dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, e in particolare: 1) anche in assenza di gara, deve essere assicurata una valutazione comparativa tra le varie imprese offerenti, in modo da garantire trasparenza e concorrenza; 2) l’impresa appaltatrice deve possedere i requisiti di ordine generale prescritti dalla disciplina comunitaria e nazionale per i contratti pubblici, e i requisiti di affidabilità tecnica previsti invece, specificamente, per la ricostruzione delle località colpite dal sisma del 6 aprile 2009; questi requisiti sono funzionali all’iscrizione nell’elenco speciale di cui all’art. 67 quater cit., elenco che, come si riferisce nella nota in epigrafe, ad oggi non è stato ancora istituito; 3) a prescindere dall’istituzione dell’elenco, le imprese offerenti devono comunque essere in possesso della certificazione antimafia e del documento unico di regolarità contributiva, ai fini della validità del contratto di appalto (art. 67 quater, comma 8, lettera b)) (1). (1) Nella disciplina contenuta nel codice delle leggi antimafia sono contemplate solo la comunicazione e l’informazione antimafia (art. 84); deve dunque ritenersi che il riferimento dell’art. 67 quater, comma 8 alla “certificazione antimafia” sia da intendersi rivolto in generale alla “documentazione antimafia” (sia comunicazione che informazione), secondo le regole di cui agli artt. 82 e ss. del codice stesso. Si osserva che, nei casi e ai sensi dell’art. 89, codice antimafia, in allegato al contratto può essere prodotta l’autocertificazione dell’assenza di cause di divieto, decadenza o sospensione di cui all’art. 67, ferma restando la richiesta dell’amministrazione alla Prefettura di rilascio, secondo le soglie di valore del contratto, della comunicazione o informazione antimafia, al fine di verificare l’assenza di un requisito ostativo all’erogazione. Peraltro, ai sensi dell’art. 89 bis, codice antimafia (inserito dall’art. 2, comma 1, lett. d), d. lgs. n. 153/2014), quando in esito alla richiesta di comunicazione antimafia venga accertata la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, il prefetto adotta comunque un’informazione antimafia interdittiva senza emettere la comunicazione antimafia. 194 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 La ratio di queste norme pare evidente. Il legislatore intende assicurare che i fondi stanziati per la ricostruzione delle località colpite dal sisma, quando detta ricostruzione sia affidata all’iniziativa dei privati, siano effettivamente utilizzati per le finalità pubbliche perseguite, e intende a tal fine assicurare che i privati committenti selezionino imprese affidabili da un punto di vista tecnico ed economico. Si vuole inoltre garantire che l’erogazione di contributi economici per l’espletamento obbligatorio di attività di ricostruzione o risanamento immobiliare sia trasparente, non determini, per il tramite dei privati beneficiari, una lesione della concorrenza, e, infine, non finisca per costituire una fonte di arricchimento per imprese appartenenti alla (o soggette al condizionamento della) criminalità organizzata. Si tratta, in larga parte, delle medesime finalità che ispirano le norme in tema di contratti pubblici e di prevenzione antimafia, e che impongono, in presenza di vuoti normativi, un’applicazione analogica delle relative disposizioni, ivi incluse le norme che prevedono il recesso dell’amministrazione committente dal contratto di appalto con l’impresa raggiunta da una interdittiva antimafia, alla quale è precluso essere parte (anche nella fase esecutiva) in un contratto di appalto con la pubblica amministrazione. 7. Alla luce delle considerazioni che precedono, si ritiene di poter concludere che il riconoscimento del diritto al contributo e la sua erogazione sono dunque subordinati alla presentazione di offerte contrattuali di imprese o progettisti muniti di certificazione antimafia e al permanere di detti requisiti. 8. Occorre peraltro interrogarsi sui riflessi che l’interdittiva antimafia può determinare sul contratto di appalto concluso dal beneficiario / committente. Si pone innanzi tutto il problema del contratto di appalto con impresa che, fin dal momento della sottoscrizione, non era munita di certificazione antimafia. La disciplina in esame non consente di affermare con certezza se il possesso della certificazione antimafia al momento della conclusione del contratto di appalto sia prescritto a pena di nullità. L’art. 67 quater, comma 8 impone, a pena di nullità, che il contratto di appalto sia concluso con la forma scritta, e aggiunge una serie di prescrizioni limitative dell’autonomia negoziale delle parti, in ordine al contenuto che il contratto deve avere, tra cui l’indicazione della certificazione antimafia in possesso dell’appaltatore. Da questa prescrizione, volta a perseguire un interesse pubblico, si potrebbe evincere che l’ordinamento abbia così introdotto una norma imperativa che limita l’autonomia negoziale del committente nella scelta della parte appaltatrice, con conseguente nullità del contratto in caso di sua violazione (art. 1418, c.c.). Accedendo ad altra tesi, il mancato rispetto di queste prescrizioni potrebbe essere sanzionato non con la invalidità del contratto di appalto, ma solo PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 195 (e comunque) con la sospensione dell’erogazione del contributo, traducendosi la scelta di un’impresa non attinta da interdittiva antimafia in un onere legale che il committente deve assolvere per ottenere l’erogazione del contributo. Pare indubitabile, in ogni caso, che la sussistenza in capo all’appaltatore di una interdittiva antimafia determina l’impossibilità per l’Amministrazione di erogare il contributo funzionale all’esecuzione dell’opera. Ove, al momento dell’adozione del provvedimento di concessione del contributo, emerga che l’impresa appaltatrice è raggiunta da interdittiva antimafia, l’Amministrazione respinge dunque la domanda di contributo. Qualora detta impresa non sia colpita da interdittiva antimafia, e non ostino altri fattori, la domanda può essere accolta, ovviamente rebus sic stantibus. 9. Il sopraggiungere dell’interdittiva antimafia dopo l’emanazione del provvedimento di concessione, nel corso dell’esecuzione del contratto, determina la sospensione dell’erogazione del contributo stesso, per le prestazioni svolte successivamente all’emanazione dell’interdittiva antimafia, fatto salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite (arg. ex art. 94, d. lgs. n. 159/2001). In assenza di pronunce della giurisprudenza sulla materia, non può affermarsi con certezza se il sopraggiungere dell’interdittiva antimafia produca effetti solo sul rapporto concessorio (con sospensione dell’erogazione del contributo per i lavori effettuati successivamente), o incida anche sul rapporto privatistico tra committente e appaltatore. Riprendendo, mutatis mutandis, le considerazioni svolte in tema di nullità del contratto, potrebbe ritenersi che la norma imperativa desumibile dall’art. 67 quater, comma 8, cit. (e dalle altre disposizioni sopra richiamate che impongono un controllo antimafia anche su questi lavori), determini, in presenza di una interdittiva antimafia a carico dell’appaltatore, una ipotesi di risoluzione del contratto di appalto per impossibilità sopravvenuta. Si tratta infatti di contratto concluso per la realizzazione di un’opera finanziata dallo Stato, per il quale è giuridicamente impossibile - come avviene nell’ambito dei contratti pubblici - portare ad ulteriore esecuzione le reciproche prestazioni, fatta salva l’ipotesi di cui all’art. 94, comma 3, codice antimafia. 10. Il sistema così ricostruito, in attesa della istituzione dell’elenco di cui all’art. 67 quater, comma 9 cit., può operare a condizione che le Amministrazioni competenti alla erogazione del contributo: - siano informate dalle Prefetture dell’emanazione di interdittive antimafia a soggetti che abbiano concluso contratti per i quali sia stato concesso il contributo medesimo, - e informino a loro volta i relativi beneficiari/committenti affinché prendano atto della circostanza ostativa alla (ulteriore) erogazione del contributo, e si attivino, ove intendano finanziare l’ultimazione dell’opera con il contributo ancora da erogare, per l’acquisizione di altre offerte per il completamento dei lavori. 196 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 11. Nel dare seguito a detta ricostruzione, che investe il rapporto concessorio tra Amministrazione e beneficiario, non ci si può esimere dal prendere in considerazione la posizione del beneficiario del contributo, che è parte nel rapporto privatistico che lo lega all’impresa appaltatrice. In particolare può risultare problematico per il beneficiario/committente svincolarsi dal rapporto con l’appaltatore, tenuto conto che questi non pare essere stato preventivamente informato (all’atto dell’emanazione del provvedimento concessorio) dell’effetto preclusivo di una interdittiva antimafia rispetto all’erogazione del contributo. 12. Per i provvedimenti di concessione da adottare in futuro, appare utile adottare accorgimenti tali da scongiurare situazioni di incertezza, che favoriscono l’insorgere di un contenzioso che vedrebbe coinvolti, loro malgrado, soggetti oltre tutto già colpiti da gravi eventi calamitosi e dalle difficoltà della ricostruzione. In assenza di una specifica disposizione che regoli espressamente l’ipotesi in esame, si ritiene molto opportuno che l’Amministrazione concedente inserisca le seguenti prescrizioni nei provvedimenti di concessione del contributo da emanare in futuro: - l’erogazione dei contributi è subordinata risolutivamente al venir meno del possesso da parte dell’impresa appaltatrice (o, in caso di subappalto, da parte della subappaltatrice indicata nel contratto ai sensi dell’art. 67 quater, comma 8, lettera f), D.L. n. 83/2012) dei requisiti di legge in materia di documentazione antimafia, a far data dal momento in cui il beneficiario viene informato di questa circostanza ostativa; - è onere del beneficiario inserire nel contratto di appalto una condizione risolutiva legata all’evento dell’adozione di una comunicazione o informazione antimafia interdittiva a carico dell’impresa appaltatrice; - al verificarsi della condizione risolutiva, l’erogazione del contributo ancora dovuto per le opere da completare viene sospesa fin quando il beneficiario acquisisca una nuova offerta da impresa in possesso dei requisiti previsti dalla normativa in esame (ivi inclusa la certificazione antimafia) da sottoporre all’Amministrazione competente. L’Amministrazione competente alla concessione del contributo, ove la domanda di concessione sia accolta, acquisisce, prima di ogni erogazione, il contratto nel quale, come detto, deve risultare l’indicazione della certificazione antimafia ai sensi dell’art. 67 quater, comma 8, lett. b), cit. Nel caso in cui il beneficiario/committente privato non agisca nel senso sopra indicato, l’Amministrazione dichiara la sospensione del contributo, per l’intervenire di un fatto sopravvenuto ostativo all’erogazione. È salvo il caso, che nell’ambito considerato sembra poter trovare applicazione, previsto dall’art. 94, comma 3, codice antimafia. 13. Per quanto concerne i provvedimenti di concessione già emessi, nei PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 197 quali, come detto, risulta non essere stato precisato che l’erogazione integrale del contributo è subordinata all’assenza in capo all’appaltatore dell’interdittiva antimafia, si pone il problema degli effetti del sopraggiungere di detto evento. Alla luce dei numerosi indici normativi sopra illustrati, si ritiene che l’interdittiva antimafia abbia una portata ostativa all’ulteriore erogazione di contributi per lavori posti in essere successivamente al momento in cui il beneficiario/committente ne è stato informato. È fatto salvo il pagamento del contributo per coprire il valore delle opere già eseguite (arg. ex art. 94, d. lgs. n. 159/2001), nonché la possibilità di dare applicazione all’art. 94, comma 3, codice antimafia, in caso di opera in corso di ultimazione. L’erogazione del contributo viene riattivata allorquando il beneficiario acquisisce nuove offerte da imprese in regola con la certificazione antimafia e affida il completamento dei lavori all’impresa che ha presentato la migliore offerta. Come già accennato, occorre tuttavia farsi carico di salvaguardare la posizione del beneficiario/committente che può risultare, in assenza di prescrizioni puntuali, vincolato al contratto di appalto e comunque esposto al rischio di un contenzioso con l’appaltatore. Il beneficiario del contributo, per ottenere la riattivazione della sua erogazione, è tenuto infatti ad affidare il completamento dell’opera ad altra impresa munita di certificazione antimafia, ma nel contempo potrebbe essere chiamato in giudizio dal primo appaltatore per il risarcimento del danno derivante da un (asserito) ingiustificato recesso dal contratto di appalto. L’avvenuto inserimento nel contratto-tipo di una clausola risolutiva espressa può costituire uno strumento offerto al committente per risolvere il contratto. Per la verità, l’art. 1456 c.c. ricollega la risoluzione del contratto a un eventuale inadempimento della impresa appaltatrice, ma non pare che il (forse inesatto) nomen juris dato alla clausola (più propriamente una condizione risolutiva) possa escluderne l’applicazione nel senso di consentire al committente di chiedere la risoluzione del contratto. Anche in assenza di siffatta clausola, dalle disposizioni sopra richiamate sembra potersi desumere la norma imperativa per cui è preclusa l’esecuzione, con la relativa remunerazione, dell’opera finanziata con fondi pubblici da parte di soggetto colpito da interdittiva antimafia. Si è già osservato che, ad avviso della Scrivente (ma si tratta di tesi che, in assenza di precedenti giurisprudenziali, dovrà essere vagliata dall’autorità giudiziaria nel probabile contenzioso che ne deriverà), il contratto di appalto, in presenza di una interdittiva antimafia, sia suscettibile di risoluzione per impossibilità sopravvenuta, in quanto concluso per la realizzazione di un’opera finanziata dallo Stato, essendo giuridicamente impossibile - come avviene 198 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 nell’ambito dei contratti pubblici - portare ad ulteriore esecuzione siffatto contratto, fatta salva l’ipotesi di cui all’art. 94, comma 3, codice antimafia. Così ragionando, il committente sarebbe in grado di svincolarsi dal contratto di appalto e assolvere così all’onere imposto dalla legge per ottenere l’erogazione dell’ulteriore contributo dovuto. Pare opportuno peraltro che, nell’eventuale giudizio instaurato dall’appaltatore, l’Amministrazione supporti il beneficiario/committente, dal momento che è pubblico l’interesse all’estromissione di imprese attinte da interdittiva antimafia dalla ricostruzione dell’edilizia privata finanziata con fondi pubblici. Del resto, con la notificazione anche all’impresa appaltatrice dell’atto con cui si informa il beneficiario/committente del sopraggiungere di una interdittiva antimafia, si dispone la sospensione dell’erogazione del contributo e si intima, per la riattivazione dell’erogazione, di dichiarare risolto il contratto e acquisire l’offerta di altre imprese per l’ultimazione dei lavori, è presumibile che l’impresa appaltatrice impugni la comunicazione dell’Amministrazione convenendola in giudizio unitamente al committente. Sarebbe così attenuato il disagio per il committente (già colpito dai gravi eventi del sisma) di dover affrontare un contenzioso al fine di ottenere la riattivazione del contributo. * * * Si resta a disposizione per qualsiasi chiarimento o precisazione, anche alla luce di eventuali profili procedimentali, non emersi nella richiesta di parere o nel parere medesimo, che dovessero richiedere un ulteriore approfondimento, o di eventuali pronunce giurisprudenziali che medio tempore dovessero affrontare la questione. Sul presente parere è stato sentito il Comitato Consultivo che ha deliberato in conformità. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 199 Semplificazione ed accelerazione del processo di esecuzione: sull’accesso all’Anagrafe Tributaria PARERE 20/07/2015-336977, AL 25538/15, AVV. GIANNA MARIA DE SOCIO 1. Con la nota indicata a margine codesta Agenzia, dopo avere rappresentato le principali problematiche connesse alla entrata in vigore del D.L. 132/2014 conv. in L. 162/2014 (“Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell'arretrato in materia di processo civile”), ha chiesto il parere della Scrivente in ordine al corretto modo di gestione delle numerose autorizzazioni (alcune delle quali seguìte da diffide ad adempiere), rilasciate da vari Presidenti di Tribunale ai sensi dell'art. 155 quinquies disp. att. c.p.c. e 492-bis, co. 1 c.p.c. volte ad ottenere da codesta Agenzia le informazioni contenute nell'Anagrafe Tributaria e, in particolare, quelle contenute nella sezione denominata Archivio dei Rapporti Finanziari. In proposito codesta Amministrazione esprime l’avviso che la facoltà di accedere alle banche dati “tramite il gestore” (art. 155-quinquies citato) - non diversamente dalla facoltà di accesso diretto “mediante ufficiale giudiziario” (art. 492-bis citato) - sarebbe subordinata all'emanazione del decreto ministeriale di cui all'art. 155-quater disp. att. c.p.c. deputato a individuare “i casi, i limiti e le modalità di esercizio della facoltà di accesso alle banche dati di cui al secondo comma dell'articolo 492-bis del codice, nonché le modalità di trattamento e conservazione dei dati e le cautele a tutela della riservatezza dei debitori”. La necessità del predetto decreto discenderebbe da una duplice ragione: - in primo luogo, la formulazione letterale del medesimo art. 155-quinquies - applicabile “quando le strutture tecnologiche, necessarie a consentire l'accesso diretto da parte dell'ufficiale giudiziario alle banche dati … non sono funzionanti” - legittimerebbe l'interpretazione secondo cui l'accesso “mediante gestore” non potrebbe che avere gli stessi limiti e gli stessi presupposti dell'accesso “mediante ufficiale giudiziario”, sicchè la mancata adozione del suddetto decreto attuativo precluderebbe allo stato l'esercizio sia della prima che della seconda facoltà; - in secondo luogo, per quanto concerne la specifica Sezione dell’Anagrafe Tributaria denominata Archivio dei Rapporti Finanziari, codesta Agenzia fa presente che le norme istitutive della detta banca dati ne consentono l'utilizzazione dall'Agenzia “unicamente” per le finalità indicate dall'art. 7 co. 11 D.P.R. 29 settembre 1973, n. 605 (“Disposizioni relative all'anagrafe tributaria e al codice fiscale dei contribuenti” ) e precisate dall’art. 4 del D.M. 4 agosto 2000 n. 269, ed infatti il trattamento e la conservazione dei dati in esame sono stati ammessi dal Garante per la Privacy “per le sole finalità di natura fiscale e con le modalità disciplinate dalla speciale normativa di riferimento”. *** 200 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 2. Cominciando ad affrontare tale secondo profilo si osserva quanto segue. 2.1. L'Archivio dei Rapporti Finanziari è previsto dall'art. 7 co. 6 D.P.R. 605/1973, che nella attuale formulazione (derivante in particolare dalle modifiche introdotte dal D.L. 223/2006 e dal D.L. 201/2011) prevede a carico delle banche e degli altri soggetti ivi indicati l'obbligo di “ rilevare e ... tenere in evidenza i dati identificativi, compreso il codice fiscale, di ogni soggetto che intrattenga con loro qualsiasi rapporto o effettui, per conto proprio ovvero per conto o a nome di terzi, qualsiasi operazione di natura finanziaria ad esclusione di quelle effettuate tramite bollettino di conto corrente postale per un importo unitario inferiore a 1.500 euro”, prevedendo altresì che “l'esistenza dei rapporti e l'esistenza di qualsiasi operazione di cui al precedente periodo, compiuta al di fuori di un rapporto continuativo, nonché la natura degli stessi sono comunicate all'anagrafe tributaria, ed archiviate in apposita sezione, con l'indicazione dei dati anagrafici dei titolari e dei soggetti che intrattengono con gli operatori finanziari qualsiasi rapporto o effettuano operazioni al di fuori di un rapporto continuativo per conto proprio ovvero per conto o a nome di terzi, compreso il codice fiscale”. Il successivo co. 11 del richiamato art. 7 prevede che le rilevazioni e le evidenziazioni, nonché le comunicazioni sono utilizzate ai fini fiscali [di accertamento ai sensi dell' art. 32, co. 1 n. 7), D.P.R. 600/1972 e 51, co. 2 n. 7 D.P.R. 633/1972 e di riscossione mediante ruolo], nonché nell'ambito di procedimenti penali, “ovvero degli accertamenti di carattere patrimoniale per le finalità di prevenzione previste da specifiche disposizioni di legge e per l'applicazione delle misure di prevenzione”, finalità tutte specificamente regolamentate dall'art. 4 D.M. 269/2000. A tali specifiche previsioni l'art. 11 co. 4 del D.L. 201/2011 ha aggiunto altre due ulteriori finalità consistenti nella utilizzabilità dei dati: a) ai fini della “analisi del rischio di evasione”, nonché b) “ai fini della semplificazione degli adempimenti dei cittadini in merito alla compilazione della dichiarazione sostitutiva unica” (art. 10 del D.P.C.M. 5 dicembre 2013, n. 159), e “in sede di controllo sulla veridicità dei dati dichiarati nella medesima dichiarazione”. In tale contesto codesta Agenzia, supportata dalla posizione assunta dal Garante per la Privacy in vari contenziosi nati per lo più dal diniego di istanze di accesso, ha ritenuto che le informazioni comunicate dagli operatori finanziari contenute nell'Archivio dei Rapporti Finanziari siano utilizzabili “unicamente” per le finalità espressamente sopra indicate, motivata sulla considerazione che “superando i limiti imposti dal legislatore nella costituzione di tale Archivio” si esporrebbe “la totalità dei contribuenti ad una sproporzionata invasione della propria vita privata, ponendosi ... in conflitto con ... i principi di riservatezza e protezione dei dati personali”. 2.2. Occorre peraltro rilevare che la giurisprudenza del Consiglio di Stato non ha dato avallo a tale tesi, quanto meno nella sua formulazione più rigorosa. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 201 Nella recente sentenza della Sezione IV 14 maggio 2014, n. 2472 (avente ad oggetto il diritto di accesso vantato da un privato, al fine di esercitare i suoi diritti nei confronti del coniuge, proprio con specifico riferimento alle “comunicazioni inviate da tutti gli operatori finanziari dell'Anagrafe tributaria - sezione Archivio dei rapporti finanziari - relative ai rapporti continuativi, alle operazioni di natura finanziaria ed ai rapporti di qualsiasi genere” riconducibili al coniuge al fine di dimostrarne in giudizio la capacità reddituale), il Consiglio di Stato, infatti, ha avuto modo di chiarire quanto segue: «la normativa a cui fanno riferimento le Amministrazioni odierne appellanti (art. 7 del D.P.R. nr. 605 del 1973, come modificato dal D.L. 4 luglio 2006, nr. 223, convertito con modificazioni dalla L. 4 agosto 2006, nr. 248) ha previsto l'obbligo per ogni operatore finanziario di comunicazione, in un'apposita sezione dell'Anagrafe tributaria, denominata Archivio dei rapporti finanziari, dell'esistenza e relativa natura dei rapporti finanziari intrattenuti con qualsiasi soggetto. Tali norme però, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa erariale a sostegno della pretesa sottrazione all'accesso delle comunicazioni in questione, non contemplano affatto che queste, una volta riversate nell'Archivio dei rapporti finanziari da parte delle banche e degli operatori finanziari, possano essere utilizzate "unicamente" dall'Amministrazione finanziaria e dalla Guardia di Finanza, limitandosi a precisare che si tratta di atti certamente utilizzabili da tali soggetti per l'azione di contrasto all'evasione fiscale, senza affrontare per nulla il tema della loro ostensibilità e dell'eventuale conflitto con il diritto alla riservatezza del soggetto cui gli atti afferiscono”. Il Consiglio di Stato ha dunque affermato che la valutazione della accessibilità va effettuata in base ai “comuni principi ... come previsto dall’art. 24 comma 2, della citata L. n. 241 del 1990”, giungendo alla conclusione che: “la disciplina di riferimento si rinviene nel D.M. 29 ottobre 1996, nr. 603 (recante "Regolamento per la disciplina delle categorie di documenti sottratti al diritto di accesso in attuazione dell’art. 24, comma 2, della L. 7 agosto 1990, n. 241"), laddove alcuna previsione si rinviene nel senso sostenuto dalle Amministrazioni odierne appellanti: e, anzi, i documenti per cui è causa appaiono riconducibili alla previsione dell'art. 5 di tale norma (lettera a) : "documentazione finanziaria, economica, patrimoniale e tecnica di persone fisiche e giuridiche, gruppi, imprese e associazioni comunque acquisita ai fini dell'attività amministrativa", il quale precisa che, pur trattandosi di documenti sottratti all'accesso, va però garantita "la visione degli atti dei procedimenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per la cura o la difesa degli interessi giuridicamente rilevanti propri di coloro che ne fanno motivata richiesta". Tale ultima precisazione rinvia immediatamente alla previsione del comma 7 dell'art. 24 della L. n. 241 del 1990 ("... Deve comunque essere garantito ai richiedenti l'accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza 202 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici. ...”). La sentenza dunque - rigettata la tesi più estrema prospettata dalle Amministrazioni appellanti (Agenzia e Garante della Privacy) di inaccessibilità assoluta della suddetta banca dati - ha affermato invece l'“ostensibilità” dei dati dell'Anagrafe Tributaria (ivi compresi quelli contenuti nell'Archivio dei Rapporti Finanziari), limitandosi a porre solo due condizioni: a) l'istanza di accesso “deve essere motivata in modo ben più rigoroso rispetto alla richiesta di documenti che attengono al solo richiedente”, in quanto «incombe sul richiedente l'accesso dimostrare la specifica connessione con gli atti di cui ipotizza la rilevanza a fini difensivi e ciò anche ricorrendo all'allegazione di elementi induttivi, ma testualmente espressi, univocamente connessi alla "conoscenza" necessaria alla linea difensiva e logicamente intellegibili in termini di consequenzialità rispetto alle deduzioni difensive potenzialmente esplicabili (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 15 marzo 2013, nr. 1568)» (1). b) l'accesso è possibile «nella sola forma della “visione”», e non anche nel «rilascio di copia delle comunicazioni». 2.3. Ancorchè la decisione suddetta si collochi nel contesto di una controversia “familiare” (2), che presenta certamente aspetti peculiari rispetto a rapporti creditori di natura meramente economica, sembra potersi affermare che la predetta decisione sia espressione di un principio evolutivo di carattere generale tendenzialmente volto ad affermare la prevalenza della difesa dei diritti rispetto alla riservatezza. Nella stessa sentenza, infatti, si fa riferimento al principio - ritenuto ormai “pacifico” in giurisprudenza - secondo cui, dopo la L. 15/2005, è da ritenere “codificata la prevalenza del diritto di accesso agli atti amministrativi e considerato recessivo l'interesse alla riservatezza dei terzi, quando l'accesso sia esercitato prospettando l'esigenza della difesa di un interesse giuridicamente rilevante” (C.d.S. n. 2472/2014 cit.). (1) Si precisa che, nella giurisprudenza del Consiglio di Stato, viene posta in particolare risalto la necessità di una adeguata motivazione dell’istanza di accesso: cfr. Cons. Stato Sez. VI, Sent., 25 marzo 2015, n. 1585 secondo cui la preminenza del diritto di difesa sulle esigenze di tutela della riservatezza non assume carattere assoluto ma “postula, comunque, che la parte interessata dimostri la specifica connessione con gli atti di cui ipotizza la rilevanza a fini difensivi, all'uopo dimostrando la concreta consequenzialità rispetto alle deduzioni difensive potenzialmente esplicabili (Cons. Stato, IV, 14 maggio 2014, n. 2472), non essendo sufficiente l'allegazione di esigenze di difesa genericamente enunciate per garantire l'accesso (Cons. Stato, VI, 20 novembre 2013, n. 5515)”. (2) Infatti la sentenza fa riferimento, da un lato, alla necessità di “tutela degli interessi economici e della serenità dell'assetto familiare, soprattutto nei riguardi dei figli minori delle parti in causa” che “ prevale o quantomeno deve essere contemperata con il diritto alla riservatezza”; d’altro lato si evidenzia che la “richiesta di accesso sia provenuta dal marito della controinteressata, e non da un quisque de populo, e che l'interesse dello stesso, attuale e concreto, alla cura dei propri interessi in giudizio si presentasse sicuramente qualificato: donde la condivisibilità, in via di principio, delle conclusioni del primo giudice laddove ha ritenuto meritevole di accoglimento l'istanza di accesso anche con riferimento alle comunicazioni suindicate”. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 203 Analogo carattere “recessivo” del diritto alla riservatezza viene riconosciuto dalla giurisprudenza della Cassazione, in cui si trova affermato il principio (non riferito specificamente all'Archivio dei Rapporti Finanziari) secondo cui “l'interesse alla riservatezza dei dati personali, ... deve cedere a fronte di autentiche esigenze di difesa di altri interessi giuridicamente rilevanti, fra cui quello al corretto e coerente esercizio del diritto di difesa in giudizio” (Cass. civ. Sez. III, 3 aprile 2014, n. 7783, v. anche altri precedenti citati in nota 3). 2.4. Ciò induce a ritenere improbabile un ripensamento giurisprudenziale in ordine alla ormai riconosciuta “accessibilità” dell’Archivio dei Rapporti Finanziari anche da parte di soggetti e per finalità differenti da quelli di cui all’art. 7 D.P.R. 605/1973 (la stessa modifica di cui all’art. 492 bis c.p.c. ha codificato in via normativa l’utilizzabilità della predetta banca dati per le finalità previste, in aggiunta alle altre utilizzazioni indicate dall’art. 7 co. 11 del D.P.R. 605/1973). Dunque la tesi incentrata sulla accessibilità “limitata” dell'Archivio dei Rapporti Finanziari (ossia circoscritta “unicamente” ai soggetti e per le finalità indicate dall'art. 7 co. 11 D.P.R. 605/1973) non sembra utilmente coltivabile. La conseguenza è che al predetto Archivio - anche prescindendo dalle norme introdotte dal D.L. 132/2014 riguardanti il codice di procedura civile - dovrebbero ritenersi comunque applicabili i principi generali in materia di accesso e tutela della privacy. Il riferimento è all'art. 24 lett. f) del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), che anche senza il consenso del titolare consente di procedere al “trattamento” dei dati (inclusivo anche della loro “comunicazione” cfr. Cass. Pen. 26 marzo 2004, n. 28680) “per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, sempre che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento” (3). *** 3. In tale contesto normativo, interpretato dalla giurisprudenza nel senso di legittimare già ex se il diritto all'accesso ai dati “fiscali” (4), si colloca la (3) Sul punto si segnala Cass. civ. Sez. III, 3 aprile 2014, n. 7783, in cui si legge che: “L'interesse alla riservatezza dei dati personali, ... deve cedere a fronte di autentiche esigenze di difesa di altri interessi giuridicamente rilevanti, fra cui quello al corretto e coerente esercizio del diritto di difesa in giudizio, …Unica condizione richiesta è che l'utilizzazione dei dati personali - consentita in tal caso dall'art. 24 D.Lgs. n. 196/2003 (c.d. codice della privacy) senza il consenso dell'interessato - sia pertinente alla tesi difensiva e non eccedente le sue finalità; che sia, cioè, utilizzata esclusivamente nei limiti di quanto necessario al legittimo ed equilibrato esercizio della propria difesa. Sul punto v. anche Cass. civ. Sez. I, 20 settembre 2013, n. 21612 e Cass. civ. Sez. Unite, 8 febbraio 2011, n. 303. (4) Sul punto si ricordano le decisioni C.d.S. Sez. IV 20 settembre 2012 n. 5047, C.d.S. Sez. IV 22 dicembre 2014 n. 6342, TAR Lombardia Brescia 20 maggio 2014 n. 535, sulla cui base è stato reso un articolato parere dell’Avvocatura distrettuale di Bologna favorevole all’accesso (Ct. 1352/15 LP nota in data 8 maggio 2015). 204 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 modifica legislativa introdotta dal richiamato D.L. 132/2014 conv. in L. 162/2014, “Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell'arretrato in materia di processo civile”, che - com'è noto - al fine di semplificare ed accelerare il processo di esecuzione, in linea con i sistemi di altri ordinamenti europei, ha previsto per quanto qui interessa: - da un lato il potenziamento dei poteri di ricerca dei beni da parte degli ufficiali giudiziari mediante il loro accesso diretto, attraverso collegamento telematico, alle banche dati delle pubbliche amministrazioni e in particolare all'Anagrafe Tributaria, compreso l'archivio dei rapporti finanziari, per l'acquisizione di tutte le informazioni rilevanti per l'individuazione di cose e crediti da sottoporre ad esecuzione, comprese quelle relative ai rapporti intrattenuti dal debitore con istituti di credito e datori di lavoro o committenti (art. 492 bis c.p.c.); - d'altro lato (in linea con la tendenziale partecipazione del creditore a vari momenti del processo esecutivo) la facoltà per il creditore stesso - sempre subordinata alla “previa autorizzazione” del Presidente del Tribunale - di ottenere dai gestori delle banche dati le informazioni nelle stesse contenute quando “le strutture tecnologiche, necessarie a consentire l'accesso diretto da parte dell'ufficiale giudiziario ... non sono funzionanti” (art. 155-quinquies disp. att. c.p.c.). *** 4. Alla luce delle richiamate pronunce giurisprudenziali, già inclini a consentire l'ostensibilità dei dati contenuti nell'Anagrafe Tributaria (v. sopra par. 2.2 e 2.3), sembra possa affermarsi che l’“accesso diretto” dell'Ufficiale giudiziario ex art. 492 bis c.p.c., consegue l'effetto, non tanto di allargare l'ambito di accessibilità della predetta banca dati, quanto piuttosto di fornire una modalità di esercizio “accelerata”, operante nell'ambito dello stesso procedimento di esecuzione, ad un diritto che (al di fuori della novella introdotta dal D.L. 132/2014) sarebbe stato già tutelabile mediante la procedura dell'accesso. Da questo punto di vista, si potrebbe affermare che le norme introdotte dal D.L. 132/2014 (492-bis c.p.c. e 155-quinquies disp. att. c.p.c.) in definitiva pongano una presunzione “legale” di prevalenza del diritto di difesa rispetto al diritto alla riservatezza (in tal modo superando, in parte, l'onere motivazionale necessario in base ai principi sull'accesso), prevalenza peraltro subordinata alla ricorrenza delle condizioni di legge che costituiscono il presupposto per il rilascio dell’autorizzazione da parte del Presidente del Tribunale. *** 5. Tanto premesso in linea generale, si pone il problema delle modalità di esercizio delle facoltà introdotte dal D.L. 132/2014 (492-bis c.p.c. e 155- quinquies disp. att. c.p.c.). 5.1. La facoltà di cui all’art. 492 bis c.p.c. (“accesso diretto” dell'Ufficiale giudiziario) è subordinata (come condivisibilmente rilevato da codesta Agenzia) PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 205 all'adozione del decreto interministeriale di cui all'art. 155-quater disp. att. c.p.c. che, come sopra ricordato, dovrà individuare “i casi, i limiti e le modalità di esercizio della facoltà di accesso alle banche dati di cui al secondo comma dell'articolo 492-bis del codice, nonché le modalità di trattamento e conservazione dei dati e le cautele a tutela della riservatezza dei debitori”. 5.2. Il problema specifico posto nella richiesta di parere è se la seconda delle due previsioni (“accesso mediante gestore” - art. 155-quinquies) sia subordinata o meno, con particolare riferimento all'Archivio dei Rapporti Finanziari, all'adozione del menzionato decreto interministeriale previsto dall’art. 155-quater. 5.3. Sulla questione influisce il recente decreto legge D.L. 27 giugno 2015, n. 83 (Misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell'amministrazione giudiziaria), peraltro allo stato non ancora convertito, pubblicato in data 27 giugno u.s. dunque dopo la formulazione della richiesta di parere. L'art. 14 del predetto D.L. 83/2015 (rubricato Modifiche alle disposizioni per l'attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie e ad altre disposizioni), in vigore dal 27 giugno 2015, oltre a sopprimere la parola "procedente" riferita al creditore nella originaria formulazione dell'art. 155 quinquies disp.att. c.p.c., ha aggiunto un ulteriore comma al predetto 155-quinquies così formulato: «La disposizione di cui al primo comma si applica, limitatamente alle banche dati previste dall'articolo 492-bis del codice, anche sino all'adozione di un decreto dirigenziale del Ministero della giustizia, che attesta la piena funzionalità delle strutture tecnologiche necessarie a consentire l'accesso alle medesime banche dati. Il decreto di cui al periodo precedente è adottato entro tre mesi dall'entrata in vigore del decreto di cui all'articolo 155-quater. La disposizione di cui al presente comma perde efficacia se il decreto dirigenziale non è adottato entro dodici mesi dall'entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto». La norma sembra esplicitare l'espressa intenzione del legislatore di attribuire valenza non solo “suppletiva”, ma anche “transitoria” alla disposizione che concede l'accesso tramite gestore, ciò impedendo di valorizzare l'argomento “letterale” (incentrato sulla locuzione “mancato funzionamento”) secondo cui l'accesso “mediante gestore” sarebbe precluso fino a quando le strutture tecnologiche non saranno dichiarate funzionanti. Il D.L. 83/2015, infatti, ammette espressamente che la facoltà di cui all'art. 155-quinquies possa essere esercitata “anche prima dell’adozione del decreto che attesta la piena funzionalità delle strutture tecnologiche” (principio ribadito anche nella relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione). 5.4. Codesta Agenzia solleva, peraltro, anche un'ulteriore questione, ossia se la facoltà di “accesso mediante gestore” sia possibile o meno prima del- 206 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 l'adozione del decreto interministeriale di cui all'articolo 155-quater (ossia quello del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell'interno e con il Ministro dell'economia e delle finanze e sentito il Garante per la protezione dei dati personali, che individua i casi, i limiti e le modalità di esercizio della facoltà di accesso alle banche dati di cui al secondo comma dell'articolo 492-bis del codice). Sul punto la novella del 27 giugno si limita ad affermare che l'accesso “mediante gestore” è esercitabile (ma solo per “dodici mesi dall'entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”) anche in assenza e in attesa del “decreto dirigenziale” attinente alla funzionalità tecnica (decreto che deve essere emanato dopo tre mesi dal decreto interministeriale di cui all'art. 155-quater). La norma, tuttavia, non specifica espressamente se l'accesso sia consentito anche in assenza e in attesa del suddetto decreto interministeriale di cui all'art. 155-quater. 5.5. Una interpretazione complessiva delle norme induce a dare risposta affermativa al quesito per tre ordini di ragioni: a) la prima (di carattere sistematico) apparendo tale conclusione coerente con i principi già affermati in giurisprudenza con riferimento alla riconosciuta ammissibilità del diritto di accesso all’Archivio dei Rapporti Finanziari (cfr. punti 2.2 e 2.3); b) la seconda (di carattere letterale) in quanto l'inciso “limitatamente alle banche dati previste dall'articolo 492-bis del codice” (contenuto nel secondo comma dell'art. 155-quinquies) svela l'intento del legislatore di prendere in considerazione il momento temporale anteriore al decreto interministeriale di cui all'art. 155-quater (con il quale “sono individuate le ulteriori banche dati delle pubbliche amministrazioni … che l'ufficiale giudiziario può interrogare tramite collegamento telematico diretto o mediante richiesta al titolare dei dati” ); infatti se detto decreto fosse già adottato non vi sarebbe necessità di limitare l'accesso “mediante gestore” alle sole banche dati individuate dall'art. 492 bis c.p.c.; c) la terza ragione (di ordine giuridico e pratico) attiene alla considerazione che l’accesso “mediante gestore” viene comunque autorizzato con provvedimento del Presidente del Tribunale, sicchè l'eventuale inerzia dell'Amministrazione potrebbe comportare il rischio di azioni penali per inottemperanza ad un provvedimento del giudice. Tali considerazioni inducono dunque ad avallare una interpretazione in senso non restrittivo dell'art. 155-quinquies primo comma disp. att. c.p.c. 5.6. In definitiva, sia pure con numerose perplessità che derivano dalla formulazione delle norme in esame, l'insieme del contesto normativo e giurisprudenziale sopra descritto, e da ultimo dalla predetta novella introdotta dal D.L. 83/2015, induce a ritenere che l'accesso “mediante gestore” ai sensi del- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 207 l'art. 155-quinquies disp. att. c.p.c. sia immediatamente esercitabile senza essere subordinato all'adozione di alcun decreto attuativo (né quello interministeriale di cui all'art. 155-quater, né quello “dirigenziale” previsto dal secondo comma dell'art. 155-quinquies). *** 6. È evidente che ammettendo l’accesso “mediante gestore” prima che sia adottato il decreto interministeriale di cui all’art. 155 quater, si porranno delicati problemi applicativi, non solo con riferimento all'identificazione dei dati “ostensibili”, quanto - e soprattutto - con riferimento alle modalità di svolgimento dell'attività (che tra l'altro comporterà, senza corrispettivi, un sicuro impegno di risorse da parte dell'Agenzia), non essendo disciplinate per esempio le modalità di invio dei provvedimenti di autorizzazione da parte dei creditori, i tempi entro i quali devono essere forniti i dati, le modalità di trattamento e comunicazione degli stessi, la loro conservazione, le eventuali tutele da riconoscere al titolare dei dati in termini di informativa al fine di consentirgli l'esercizio dei diritti di cui all'art. 7 D.lgs. 196/2003 ecc. Nondimeno si ritiene che tali rilevanti problematiche, derivanti da un vuoto normativo da colmare, non consentono comunque di deviare dalla voluntas legi, che sembra essere volta ad assicurare l'immediata operatività dell'art. 155-quinquies. *** 7. In definitiva, nel ribadire l'evidente opportunità che il decreto interministeriale di cui all'art. 155-quater c.p.c. venga emanato quanto prima, i criteri da applicare medio tempore potrebbero essere i seguenti: - in presenza di un provvedimento del Presidente del Tribunale, l'onere di controllo incombente a codesta Agenzia è da ritenersi circoscritto alla sussistenza e validità formale dell’atto giudiziario, con esclusione di ogni valutazione critica in ordine al contenuto dello stesso; l'accesso potrà essere pertanto negato solo ove manchino i predetti requisiti formali; - tendenzialmente, e in quanto compatibile, sembra giustificato fare riferimento alla regolamentazione in materia di accesso e privacy; - in linea di principio, si ritiene che i dati possano essere forniti limitatamente alle informazioni rilevanti ai sensi del provvedimento autorizzatorio del Presidente del Tribunale. Al proposito - con riferimento ad eventuali responsabilità connesse alla comunicazione di tali dati - giova ricordare che l'art. 25 co. 2 del D.lgs. 196/2003 (Divieti di comunicazione e diffusione) esclude dal divieto “la comunicazione o diffusione di dati richieste, in conformità alla legge, ... dall'autorità giudiziaria”, e d'altra parte l'art. 24 co. 1 lett. f) del richiamato D.lgs. 196/2003, esime dall’acquisire il consenso del titolare quanto il trattamento “è necessario ... per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, sempre che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo 208 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 strettamente necessario al loro perseguimento, nel rispetto della vigente normativa in materia di segreto aziendale e industriale” (si suggerisce di riportare tale avvertenza nell’atto di ostensione dei dati); - quanto alle altre informazioni liberamente accessibili contenute nell'Anagrafe Tributaria, vale il principio, pacifico in giurisprudenza, secondo cui la loro comunicazione è legittima non essendo subordinata al consenso dell'interessato, nella misura in cui il trattamento riguardi dati provenienti da pubblici registri od elenchi conoscibili da chiunque (cfr. Cass. Pen. 17 novembre 2004, n. 5728). In caso di dubbi non altrimenti risolvibili, ferma naturalmente l'eventuale assistenza della competente Avvocatura dello Stato, potrà essere valutata la possibilità di promuovere un’istanza al Presidente del Tribunale che ha emesso l'autorizzazione per chiarire gli aspetti problematici insorti. Il presente parere viene trasmesso, per opportuno coordinamento, anche alle Amministrazioni in indirizzo che si assumeranno interessate alla emanazione del decreto interministeriale di cui all’art. 155 quater. Restando a disposizione per ogni eventuale chiarimento, si fa presente che sul parere è stato sentito il Comitato Consultivo di cui all’art. 26 della legge 3 aprile 1979 n. 103, che si è espresso in conformità nella riunione del 16 luglio 2015. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 209 Agenzia delle entrate: validità degli atti sottoscritti da funzionari incaricati di mansioni dirigenziali PARERE RESO IN VIA ORDINARIA IN DATA 17/04/2015-185276, AL 14491/15, AVV. FABRIZIO FEDELI Con la nota in riferimento, codesta Agenzia ha domandato l'avviso della Scrivente in merito agli effetti sulla validità degli atti sottoscritti da personale incaricato di funzioni dirigenziali, della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 8, comma 24, del Decreto Legge 2 marzo 2012 n. 16, conv. dalla L. 26 aprile 2012 n. 44, nella parte in cui prevede che, nelle more dello svolgimento delle procedure concorsuali, le Agenzie delle Entrate, delle Dogane e del Territorio, "salvi gli incarichi già conferiti, potranno attribuire incarichi dirigenziali a propri funzionari con la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato, la cui durata è fissata in relazione al tempo necessario per la copertura del posto vacante tramite concorso". Le ragioni della dichiarazione di illegittimità costituzionale sono riconducibili al difetto della natura temporanea delle mansioni dirigenziali di cui la norma autorizzava il conferimento ai funzionari, nelle more dell'espletamento delle procedure concorsuali per la copertura delle posizioni vacanti; ciò si desume dal punto 4.5 della motivazione dove la Consulta afferma che "In definitiva, l'art. 8, comma 24, del D.L. n. 16 del 2012, come convertito, ha contribuito all'indefinito protrarsi nel tempo di un'assegnazione asseritamente temporanea di mansioni superiori, senza provvedere alla copertura dei posti dirigenziali vacanti da parte dei vincitori di una procedura concorsuale aperta e pubblica. Per questo, ne va dichiarata l'illegittimità costituzionale per violazione degli arti. 3, 51 e 97 Cost.". 1.1. Gli effetti della declaratoria di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 37/2015. In primo luogo occorre precisare che la declaratoria di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 37/2015 non produce effetti immediati sulla validità degli atti tributari adottati dai funzionari incaricati di mansioni dirigenziali. L'art. 8, comma 24, del D.L. n. 16/2012, conferiva, infatti, conferma e supporto normativo ad un sistema di affidamento di incarichi dirigenziali basato sull'art. 24 del regolamento di amministrazione dell'Agenzia delle Entrate, varie volte prorogato nel tempo. Il giudizio sulla validità della norma del regolamento di amministrazione dell'Agenzia che consentiva il conferimento di incarichi dirigenziali in favore di funzionari non in possesso della relativa qualifica, pende tutt'ora dinanzi al Consiglio di Stato che, dopo aver sospeso - con ordinanza n. 5199 del 29 novembre 2011 - l'efficacia della sentenza di annullamento del T.A.R. del Lazio, pervenuta la restituzione degli atti dalla Consulta ha fissato l'udienza di discussione del merito per il prossimo 7 luglio 2015. 210 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 Il Consiglio di Stato, che ha già respinto con la sentenza non definitiva n. 5451/2013 le eccezioni pregiudiziali di rito e di merito al ricorso introduttivo sollevate nel gravame dell'Agenzia e dei contro-interessati intervenuti in appello, sarà chiamato a pronunciarsi, con la sentenza definitiva di merito, sulla validità della norma regolamentare e dovrà farlo in assenza del parametro legale offerto dall'art. 8, comma 24, del D.L. n. 16/2012, che poteva conferire un indubbio supporto a sostegno della legittimità dell'operato dell'Agenzia ed all'accoglimento dell'appello. È ragionevole ipotizzare che ora il Consiglio di Stato perverrà, nel merito, al rigetto dell'appello proposto nell'interesse di codesta Agenzia, confermando l'annullamento dell'art. 24 del Regolamento dell'Agenzia delle Entrate decretato dal TAR del Lazio, considerato che la sentenza n. 37/2015 ha accolto la questione di legittimità costituzionale in sintonia con il contenuto dell'ordinanza di rimessione che già dubitava circa la legittimità del sistema di conferimento degli incarichi dirigenziali ai funzionari dell'Arca terza invalso presso l'Agenzia nel corso degli anni. *** In ogni caso, un problema di validità degli atti adottati dai funzionari "incaricati" di mansioni dirigenziali non potrebbe sorgere, stante il carattere impugnatorio del processo tributario, in tutti i casi di: a) atti non impugnati entro il termine di decadenza (artt. 19-21 D.Lgs. n. 546/1992); b) atti impugnati senza dedurre un vizio riconducibile alla legittima investitura del funzionario incaricato di mansioni dirigenziali; c) giudizi ormai definiti con sentenza passata in giudicato nei quali sia stata esaminata e decisa una questione attinente all'investitura del funzionario incaricato di mansioni dirigenziali. 1.2. La teoria del funzionario di fatto. Va, inoltre, rappresentato che sulle conseguenze derivanti dalla caducazione degli atti di conferimento degli incarichi dirigenziali assumono rilevanza i principi elaborati dalla giurisprudenza in tema di "funzionario di fatto". Invero, nell'ipotesi di annullamento dell'atto d'investitura, è generalmente riconosciuto che, nel termine decadenziale, il terzo inciso dal provvedimento adottato dal funzionario di fatto possa chiederne l'annullamento per invalidità derivata. Diversa questione è se il terzo possa autonomamente impugnare l'atto d'investitura viziato ove sia stato pregiudicato da un provvedimento adottato dal funzionario illegittimamente investito della funzione. La giurisprudenza, infatti, tendenzialmente limita tale legittimazione al caso in cui sussista un nesso tra il procedimento d'investitura dell'organo e quello dell'adozione del provvedimento nel senso che l'organo deve essere costituito proprio in fun- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 211 zione dell'adozione della categoria dei provvedimenti del quale fa parte quello concretamente lesivo (si pensi all'investitura di una commissione di concorso e ad un provvedimento d'esclusione dalla graduatoria). La giurisprudenza tende così ad affermare che, allorché venga annullata in sede giurisdizionale la nomina del titolare di un organo, l'accertata invalidità dell'atto di investitura non ha di per sé alcuna conseguenza sugli atti emessi in precedenza, tenendo conto che quando l'organo è investito di funzioni di carattere generale, il relativo procedimento di nomina ha una sua piena autonomia, sicché i vizi della nomina non si riverberano sugli atti rimessi alla sua competenza generale (Cons. Stato Sez. IV, 27 giugno 2012, n. 3812; T.A.R. Abruzzo Pescara Sez. I, 3 luglio 2012, n. 333). Naturalmente, con riferimento agli atti posti in essere dal funzionario di fatto, essi non sono impugnabili, decorso il termine per l'impugnativa dell'atto di investitura (c.d. principio di conservazione). In ogni caso, occorre considerare che la teoria del funzionario di fatto riguarda l'annullamento dell'atto di investitura da cui deriva la cessazione del rapporto di servizio, mentre nel nostro caso, nonostante la caducazione del conferimento dell'incarico dirigenziale, il funzionario di Area terza conserva la preposizione in quale qualifica come organo dell'Agenzia, giustificando l'applicazione del principio di conversione e di conservazione degli atti. 1.3. La legittimità degli atti sottoscritti da funzionari dell'Agenzia incaricati di mansioni dirigenziali. Con riferimento ai giudizi pendenti (o ancora proponibili) nei quali sia eccepita la validità degli atti adottati da funzionari di Area terza (illegittimamente) incaricati di mansioni dirigenziali, la questione non è rimasta estranea al percorso motivazionale della sentenza n. 37/2015 laddove la Corte costituzionale ha affermato che, "considerando le regole organizzative interne dell'Agenzia delle entrate e la possibilità di ricorrere all'istituto della delega, anche a funzionari, per l'adozione di atti a competenza dirigenziale - come affermato dalla giurisprudenza tributaria di legittimità sulla provenienza dell'atto dall'ufficio e sulla sua idoneità ad esprimerne all'esterno la volontà (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione tributaria civile, sentenze 9 gennaio 2014, n. 220, 10 luglio 2013, n. 17044; 10 agosto 2010, n. 18515; sezione sesta civile - T, 11 ottobre 2012, n. 17400) - la funzionalità delle Agenzie non è condizionata dalla validità degli incarichi dirigenziali previsti dalla disposizione censurata ...". In definitiva, la Corte costituzionale ha escluso ogni ripercussione sulla funzionalità dell'Agenzia della possibile invalidità degli incarichi dirigenziali previsti dalla disposizione censurata. A tale conclusione si perviene in quanto la Corte costituzionale, con la sentenza n. 37/2015, ha inteso dichiarare l'illegittimità del conferimento - non 212 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 meramente temporaneo - dell'incarico dirigenziale ai funzionari, ma non della preposizione dei funzionari di Area terza, con la loro qualifica, alla guida degli uffici; in tal senso depone la considerazione della Consulta secondo cui il conferimento dell'incarico dirigenziale ai funzionari non sarebbe giustificato da ragioni di "funzionalità dell'Agenzia" i cui uffici avrebbero potuto essere guidati anche da personale appartenente alla (ex) carriera direttiva. L'atto emanato dall'Agenzia in base all'art. 24 del regolamento di amministrazione, da reputarsi nullo quale conferimento di incarico dirigenziale, in base al principio di conversione degli atti giuridici - derivante a sua volta dal generale principio di conservazione - dovrebbe allora considerarsi valido come atto di preposizione del funzionario di Area terza alla guida dell'ufficio. La Consulta richiama e fa proprio, infatti, l'orientamento della Corte di cassazione in terna di riferibilità degli atti emessi all'Amministrazione, così come desumibile dalle sentenze espressamente menzionate, affermando in termini inequivoci come la questione relativa alla validità degli incarichi dirigenziali non si riflette sulla funzionalità dell'Agenzia, né sulla idoneità degli atti emessi ad esprimere all'esterno la volontà dell'Amministrazione finanziaria. Ne consegue che la legittimità degli atti sottoscritti dal personale della carriera direttiva, sebbene illegittimamente incaricato di funzioni dirigenziali, dovrebbe rimanere fuori discussione. Si tratta di una conclusione tecnico-giuridica che esprime l'insegnamento consolidato della giurisprudenza di legittimità alle cui motivazioni - fatte proprie dalla Consulta - occorre pertanto fare riferimento. Nelle sentenze puntualmente richiamate e condivise dalla Consulta, la Cassazione ha fatto applicazione dei principi di conservazione dell'atto amministrativo e di certezza del diritto chiarendo che, ai fini della legittimità di un atto amministrativo-tributario, è sufficiente che lo stesso provenga da un funzionario della carriera direttiva e sia riferibile all'ufficio che lo ha emanato. Con la richiamata sentenza n. 220 del 2014, in particolare, la Cassazione pronunciandosi in ordine ad un asserito vizio di "illegittimità del diniego (di condono, n.d.r.), in quanto sottoscritto ... da direttore di Agenzia locale, peraltro asseritamente carente di qualifica dirigenziale" - ha disatteso la censura del contribuente chiarendo che "la provenienza dell'atto dall'ufficio e la sua idoneità ad esprimere la volontà si presume, finché non venga provata la non appartenenza del sottoscrittore all'ufficio o, comunque, l'usurpazione dei relativi poteri (cfr. Cass. 874/09)". In termini ancora più rilevanti ai nostri fini, la sentenza n. 18515 del 2010, richiamata dalla Consulta, si riferisce proprio all'ipotesi di un avviso di accertamento sottoscritto da personale incaricato di funzioni dirigenziali; in tale pronuncia la Cassazione, rigettando l'eccezione del contribuente secondo il quale "ai fini della valida sottoscrizione dell'atto impositivo non sarebbe sufficiente la qualifica di direttore dell'ufficio occorrendo altresì la qualifica di- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 213 rigenziale", ha chiarito che "il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 1, si limita a prevedere che ... gli accertamenti ... sono sottoscritti dal capo dell'ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato, senza richiedere assolutamente che il capo dell'ufficio debba rivestire la qualifica dirigenziale"; tale disposizione normativa individua "nel capo dell'ufficio, per il solo fatto di essere stato nominato tale, l'agente capace di manifestare la volontà della Amministrazione Finanziaria, negli atti a rilevanza esterna e di produrre gli effetti giuridici imputabili alla determinazione della sua volontà nella sfera giuridica dei contribuenti. Con la conseguenza che compete al titolare dell'ufficio, quale organo deputato a svolgere le funzioni fondamentali, ovvero ad un impiegato della carriera direttiva da lui delegato nell'esercizio dei poteri organizzativi dell'Ufficio, la funzione di sottoscrivere gli avvisi, con i quali sono portati a conoscenza dei contribuenti gli accertamenti, indipendentemente dal ruolo dirigenziale eventualmente ricoperto, la cui appartenenza esaurisce i propri effetti nell'ambito del rapporto di servizio con l'Amministrazione". A tale pronuncia ha dato continuità la sentenza n. 17044 del 2013, ove la Cassazione ha precisato che "l'atto impositivo può essere sottoscritto anche da "impiegato della carriera direttiva ..., delegato dal "capo dell'ufficio" (il quale, per Cass., trib., 10 agosto 2010 n. 18515, non deve affatto "rivestire la qualifica dirigenziale")". In conclusione, l'atto di conferimento di incarico dirigenziale a funzionario, ancorchè illegittimo in quanto tale siccome carente del requisito della temporaneità, si converte in un (comunque) valido atto di preposizione del funzionario della carriera direttiva a "capo dell'ufficio", salvaguardando così (secondo la sentenza n. 37/2015) le esigenze di funzionalità dell'Agenzia. Sulla base di questa investitura il funzionario di Area terza poteva adottare e sottoscrivere atti, ovvero delegare altro funzionario della carriera direttiva alla sottoscrizione (art. 42, comma 1, D.P.R. n. 600/1973). 1.4. Natura formale del vizio dell'atto sottoscritto da funzionario dell'Agenzia incaricato di mansioni dirigenziali. Dalle suesposte premesse discende una conseguenza in ordine alla natura del vizio da cui sarebbero affetti gli atti tributari, adottati dai funzionari di Arca terza illegittimamente incaricati di funzioni dirigenziali, che avrebbe natura meramente formale e, quindi, non invalidante posto che, anche in assenza ditale irregolarità, il procedimento non si sarebbe concluso con un provvedimento di contenuto diverso. L'atto tributario, infatti, poteva essere pur sempre emanato, con lo stesso contenuto, dal "Capo dell'ufficio", non in qualità di dirigente, ma di funzionario di Area terza, ovvero da un altro funzionario della (ex) carriera direttiva dal primo delegato; l'aspetto relativo alla qualifica dell'organo emanante tra- 214 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 smoda a mera irregolarità non invalidante una volta accertato che il funzionario poteva essere comunque preposto alla direzione dell'ufficio (anche se non come dirigente, ma come funzionario di Area terza). Per il principio di strumentalità delle forme (art. 21 octies L. n. 241/1990), il vizio consistente nell'illegittimo conferimento dell'incarico dirigenziale al funzionario non assume un valore invalidante dovendosi logicamente presumere che, anche qualora non fosse stato destinatario di un incarico dirigenziale, il funzionario di Area terza preposto a "capo dell'ufficio" (art. 42, comma 1, D.P.R. n. 600/1973) avrebbe adottato un provvedimento del medesimo contenuto. Analoghi principi sono affermati dalla giurisprudenza comunitaria (che assume rilievo per tutti i tributi armonizzati, quali l'IVA e le imposte doganali), che ha avuto modo di affermare come l'esistenza di vizi formali (nella fattispecie, del diritto ad essere sentiti prima della emanazione di un provvedimento) non dà luogo all'annullamento dell'atto qualora il suo contenuto, anche in assenza del vizio formale, non sarebbe stato diverso (CGUE sentenza Kamino 3 luglio 2014, cause riunite C-129/13 e 130/13, punto 79). Di tale pronuncia ha fatto di recente applicazione la Suprema Corte (sent. n. 5632 del 20 marzo 2015), che nel rigettare un motivo di ricorso diretto a censurare un atto impositivo per violazione dell'art. 12 comma 7 della legge n. 212/2000, ha espressamente affermato: «la Corte di giustizia, con la recente pronunzia del 3 luglio 2014 sul caso Kamino, ha dato copertura Eurounitaria al più generale principio giuspubblicistico di strumentalità delle forme (v. Cass. 5518113) e chiarisce che "il giudice nazionale, avendo l'obbligo di garantire la piena efficacia del diritto dell'Unione, può, nel valutare le conseguenze di una violazione dei diritti della difesa, in particolare del diritto di essere sentiti, tenere conto della circostanza che una sffatta violazione determina l'annullamento della decisione adottata al termine del procedimento amministrativo di cui trattasi soltanto se, in mancanza di tale irregolarità, tale procedimento avrebbe potuto comportare un risultato diverso" (conf. Cass. 961/15 e 992/15)». *** Le considerazioni che precedono inducono a ritenere che dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 37 del 2015 - e dall'eventuale pronunzia di rigetto del ricorso in appello proposto nell'interesse di codesta Agenzia da parte del Consiglio di Stato - non conseguono, in conformità ai principi di conservazione e conversione degli atti, nonché con riguardo alla natura solo formale del vizio, effetti invalidanti sugli atti adottati dai funzionari incaricati di funzioni dirigenziali. Si rimane a disposizione per ogni eventuale, ulteriore chiarimento. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ Una analisi del “Decreto antiterrorismo” Francesco Scardino* A partire dal 20 febbraio 2015 è in vigore il nuovo Decreto Legge n. 7/2015 “Misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale, nonché proroga delle missioni internazionali delle forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle Organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione” (1). Lo stesso, già approvato dalla Camera dei Deputati, è stato convertito in legge con modificazioni il 15 aprile 2015, a fronte dell’approvazione da parte del Senato della Repubblica. I primi due capi del neonato Decreto sono composti da dieci articoli attraverso i quali il nostro Governo manifesta la forte presa di posizione di voler reagire duramente e rispondere con il pugno di ferro a tutte quelle condotte ed episodi considerati come “terroristici”, anticipando inoltre l’area del penalmente rilevante fino a poter colpire e contrastare anche tutte quelle attività che possano sembrare, seppur lontanamente, propedeutiche agli stessi. Il Decreto n. 7/2015 si caratterizza per venire alla luce in un particolare momento storico, caratterizzato dal “susseguirsi di crudeli attacchi sferrati dai falsi profeti del jihad - e dai loro seguaci - ai valori fondanti della democrazia, volti a fomentare un totalitarismo fanatico che strumentalizza la religione per mezzo della violenza” (2). I lavori preparatori dello stesso prendono (*) Laureato in Giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Bologna. (1) Pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 41 del 19 febbraio 2015. (2) Con queste parole il Ministro degli Interni Angelino Alfano, durante la seduta n. 359 del 9 gennaio 2015. 216 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 infatti inizio solo pochi giorni dopo i tragici fatti che hanno scosso l’intero Occidente, vedendo Parigi e il giornale satirico Charlie Hebdo bersaglio di un vero e proprio attacco militare, dimostrante l’estrema pericolosità del fenomeno del reducismo e dei c.d. “foreign fighters”. L’eccidio consumatosi è di particolare allarme sociale anche per i suoi elementi di novità. Infatti, a dispetto di altri e precedenti attentati posti in essere sempre da componenti jihadisti, dove gli autori mettevano in conto che l’azione si sarebbe certamente conclusa con la loro morte, gli autori del massacro parigino hanno agito come un commando armato, utilizzando tecniche parabelliche verosimilmente acquisite a fronte di un addestramento militare, mirando unicamente a spargere morte, terrore e distruzione, senza nemmeno contemplare l’alternativa dell’immolarsi per tale “causa”, dimostrando così, nella forma più barbara l’odio e il disprezzo per la vita altrui (3). Altro campanello d’allarme è dato dal fatto che a colpire sono stati cittadini immigrati di seconda e di terza generazione, poco - o per niente - sospettabili, e apparentemente integrati. Tenendo conto della ferocia di tale barbarie e senza sottovalutare i rischi ai quali l’Italia è esposta, “a fronte del Suo privilegio di ospitare la massima autorità del cattolicesimo, della sua vocazione “atlantista” e della tradizionale amicizia con gli Stati Uniti d’America”, l’intero provvedimento punta la lente di ingrandimento sulla figura del “terrorista molecolare “home made”, capace di trasformarsi in un’impresa individuale terroristica, nel senso che si auto radicalizza e si auto addestra anche ricorrendo al web, si procura le armi e le istruzioni per il loro uso, progetta da solo - o comunque, senza apparenti e dimostrate appartenenze a reti strutturate - attacchi o azioni terroristiche” (4). L’intero Decreto, nella sua prima parte, ha riguardo proprio a questa nuova forma di minaccia, predisponendo un ventaglio di disposizioni sia penali sia di carattere preventivo, miranti a neutralizzare la potenzialità offensiva prima che essa si possa manifestare in concreto. Le motivazioni che stanno alla base del nuovo Decreto sono di tre diversi ordini di ragioni. L’intervento del Governo è volto infatti, da una parte, a perfezionare gli strumenti di prevenzione e contrasto del terrorismo, anche attraverso la semplificazione delle modalità di trattamento di dati personali da parte delle Forze di polizia; dall’altro, a predisporre urgentemente nuove misure, anche di carattere sanzionatorio, al fine di prevenire il reclutamento nelle organizzazioni terroristiche e il compimento di atti terroristici; ed infine è volto ad introdurre specifiche disposizioni volte ad assicurare il coordinamento dei (3) M. LANA, Rivolte arabe, terrorismo, diritti umani in I Diritti dell’uomo, 2012, fasc. 2, 3. (4) Con queste parole il Ministro degli Interni Angelino Alfano, durante la seduta n. 359 del 9 gennaio 2015. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 217 procedimenti penali e a prevenire il terrorismo, anche internazionale. Prima di procedere all’esame del neonato Decreto n. 7/2015 pare opportuno inquadrare il concetto di “terrorismo”, essendo lo stesso il perno attorno al quale ruota tutta la disciplina. A livello globale, tale termine compare per la prima volta nella Convenzione di Ginevra del 1937, adottata su iniziativa della Società delle Nazioni a seguito dell’attentato al re Alessandro di Jugoslavia, attraverso la quale si imponeva agli Stati di predisporre un adeguato sistema di norme volte a contrastare tutte quelle attività strumentali al compimento di atti terroristici (5). La stessa, tuttavia, non entrò mai in vigore a fronte del mancato raggiungimento del numero necessario di ratifiche. Venendo ad oggi e avendo innanzitutto riguardo a un profilo che prescinde dai limiti del nostro ordinamento nazionale, si osserva che tale concetto è il “grande assente” dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale. Tale lacuna ha fatto sì che finora la Corte Penale Internazionale non si sia mai pronunciata sulla violazione delle norme volte a contrastare gli atti di terrorismo, lasciando gli autori materiali di tali atti assoggettati in modo esclusivo alle norme penali e ai giudici dello Stato sul cui territorio gli stessi sono compiuti, dello Stato di nazionalità della vittima o dello Stato di nazionalità dei presunti autori o di quello su cui questi si vengono a trovare (6). Se è pacifica l’impossibilità di assoggettare gli atti terroristici alla giurisdizione della Corte penale internazionale riconducendo gli stessi nell’ambito dei “crimini di genocidio”, secondo alcuni autori la giurisdizione della Corte potrebbe essere estesa fino ad includere gli atti in questione attraverso una “forzatura” dell’art. 7 lett. k) dello Statuto, potendo in tale modo considerare gli atti terroristici come “atti inumani” e conseguentemente includerli tra i “crimini contro l’umanità”. Tale interpretazione estensiva non pare tuttavia condivisibile a fronte del fatto che la mancata inclusione degli atti terroristici tra le competenze della Corte non è affatto una dimenticanza, ma pare piuttosto essere una precisa scelta, come è confermato dalla bozza di definizione di “crimine di terrorismo” fotografata durante i lavori della conferenza diplomatica dello Statuto di Roma (7), che definisce tale crimine come ogni attività volta a “intraprendere, organizzare, sponsorizzare, ordinare, agevolare, finanziare, incoraggiare, tollerare atti di violenza contro un altro Stato che siano diretti contro persone o cose e di natura tale da creare terrore, paura o insicurezza nelle menti delle (5) A. PANZERA, in Enciclopedia Giuridica Treccani, voce Terrorismo, 2. (6) S. LA PISCOPIA, Verso la definizione del reato di terrorismo internazionale tra eccezioni mediorientali ed indebolimento della leadership indiana in La Giustizia Penale, fasc. 8, 2014, 495. (7) S. LA PISCOPIA, op.cit., 2014, 479. 218 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 figure pubbliche, di gruppi di persone, della pubblica opinione o della popolazione, per qualunque tipo di interesse e obiettivo di carattere politico, filosofico, ideologico, razziale, etnico, religioso, o di qualunque altra natura che possa essere invocata per giustificare tali atti”, sono altresì, sempre a norma della predetta bozza di definizione, considerati come terroristici “gli attacchi che prevedono l’impiego di armi da fuoco o altre armi, esplosivi e sostanze pericolose, nel caso in cui vengano utilizzate come strumento per perpetrare violenza indiscriminata che comporti la morte o gravi danni fisici a persone o gruppi di persone o popolazioni, come pure gravi danni alle loro proprietà”. Secondo alcuni autori la ragione dell’esclusione delle condotte c.d. terroristiche dalla competenza di qualsivoglia organo di giustizia internazionale è rinvenibile nella difficoltà, essenzialmente di carattere politico, di addivenire ad una definizione condivisa della relativa fattispecie; motivazione alla quale si aggiunge la convinzione dei singoli Stati di ritenere gli atti terroristici più facilmente perseguibili a livello nazionale (8). Sul versante nazionale, occorre considerare che il nostro codice penale prevede quattro fattispecie - rispettivamente gli artt. 270-bis, 270-ter, 270- quater, 270-quinquies - volte a sanzionare condotte ritenute “terroristiche”, inserite a partire dal 1980, ossia all’indomani del rapimento di Aldo Moro (9); al termine delle quali è collocato, a partire dal 2005, l’articolo 270-sexies, volto a specificare il concetto di “finalità di terrorismo”, conformemente a quanto previsto dall’art. 1 della decisione quadro del Consiglio 2002/475/GAI del 13 giugno 2002. L’art. 270-sexies ritiene commesse con finalità di terrorismo “le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia”. La definizione rimane dunque aperta, alla luce di quanto previsto dall’ultima parte del citato articolo che, facendo riferimento alle Convenzioni internazionali vincolanti per l’Italia, sottointende la volontà di conformarsi non soltanto ai Trattati già ratificati, ma anche a quelli futuri che verranno contrattati (10). La dilatazione della nozione di “finalità di terrorismo” ad atti diretti anche (8) V. MASARONE, Politica criminale e diritto penale nel contrasto al terrorismo internazionale, Napoli, 2013, 85. (9) M. BOUCHARD - G. CASELLI, in Enciclopedia Giuridica Treccani, vol. 31, voce Terrorismo. (10) F. BATTAGLIA, Il terrorismo nel diritto internazionale, Napoli, 2012, 87. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 219 contro Stati esteri - in quanto si parla di Paesi in generale - ed Organizzazioni internazionali, incide sulla definizione del bene giuridico protetto dalle norme in esame, non più circoscrivibile all’ordine costituzionale o alla convivenza civile interna, nonostante la collocazione sistematica della norma nell’ambito dei delitti contro la personalità dello Stato. L’interesse protetto sembra infatti essersi allargato alla tutela propria dei delitti contro l’umanità (11) e al generale “diritto alla pace”, il quale risulta essere alla base di tutti i diritti fondamentali (12). Nel codice penale inoltre, la finalità di terrorismo, insieme alla finalità di eversione dell’ordine democratico, costituisce una specifica circostanza aggravante, venuta alla luce attraverso l’art. 1 della legge n. 15 del 1980, in forza del quale “per i reati commessi con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, punibili con una pena diversa dall’ergastolo, la pena è aumentata della metà, salvo che la circostanza sia elemento costitutivo del reato”. A partire dal 2003, la commissione dei delitti con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico è altresì ricompresa, in virtù dell’art. 25- quater D.Lgs. n. 231/2001, tra i reati presupposto della responsabilità degli enti collettivi (13). In una logica di rafforzamento di tutela, il Decreto Legge n. 7/2015, per quanto riguarda il codice penale, introduce ex novo una fattispecie di delitto in materia di terrorismo, due nuove contravvenzioni, ed interviene infine, in un’ottica integrativa, su tutta una serie di altre disposizioni. Il primo capoverso dell’art. 1 del Decreto prevede l’aggiunta, al termine dell’art. 270-quater c.p., il quale punisce con la pena della reclusione da sette a quindici anni chiunque, al di fuori dei casi di cui all’art. 270-bis, arruoli una o più persone per il compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali con finalità di terrorismo; di un nuovo comma, volto ad estendere la punibilità, prevedendo la pena della reclusione da cinque ad otto anni (14), anche in capo alla persona arruolata. La neointrodotta disposi- (11) A. GAMBERINI, in Diritto penale, Lineamenti di parte speciale, Parma, 2011, 52. (12) In questo senso R. BOBBIO, come citato da M. LANA, Rivolte arabe, op. cit., 3. (13) Le sanzioni previste si caratterizzano per avere una natura pecuniaria, diversamente calibrata a seconda della gravità del reato commesso. La determinazione delle stesse avviene per quota, ossia prima occorre definire il numero di quote in relazione a tutta una serie di parametri considerati espressivi della maggiore o minore gravità del danno, e solo in un secondo momento il giudice assegnerà un valore ad ogni quota, spaziando entro la “forbice” legislativamente prevista e oscillante da un importo minimo di 258 euro ad uno massimo di 1549 per quota, in modo tale da evitare pene “di facciata” e di adeguare la risposta sanzionatoria alla concreta ed effettiva capacità patrimoniale dell’ente. Rammentando che è sempre stabilito come limite massimo il patrimonio dell’ente medesimo, nel caso di commissione di delitti con finalità di terrorismo, la sanzione potrà arrivare fino alle mille quote. Sono poi previste tutta una serie di misure interdittive, che si spingono fino all’interdizione definitiva nel caso estremo in cui l’ente o una sua unità organizzativa venga stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione dei reati in questione. (14) Il Decreto n. 7/2015, così come formulato dal Governo e approvato dalla Camera, prevedeva 220 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 zione presta attenzione a far salvo il caso dell’addestramento, in quanto tale ipotesi risulta già essere presa in considerazione, e più duramente punita, dal successivo 270-quinquies c.p. La ratio sottesa a tale intervento risulta, dunque, essere quella di anticipare l’area del penalmente rilevante, potendo intervenire prima che l’attività di addestramento, per la quale l’arruolamento risulta essere propedeutica, venga posta in essere. Il primo articolo del Decreto procede prevedendo l’introduzione, al seguito dell’art. 270-quater - il quale punisce con la reclusione fino ad anni quindici chiunque arruoli persone con finalità di terrorismo anche internazionale - di una nuova fattispecie criminosa, ossia l’art. 270-quater.1, rubricato “Organizzazione di trasferimenti per finalità di terrorismo”. Il neointrodotto articolo prevede che “Fuori dai casi di cui agli articoli 270-bis e 270-quater, chiunque organizza, finanzia o propaganda viaggi in territorio estero finalizzati al compimento delle condotte con finalità di terrorismo di cui all’articolo 270-sexies, è punito con la reclusione da cinque a otto anni” (15). Tale fattispecie, come evidenziato dal dato letterale, risulta avere una portata residuale, in quanto troverà applicazione unicamente quando la condotta non integri i più gravi delitti dalla stessa richiamati, ossia i delitti di Associazione con finalità di terrorismo anche internazionale, ed il delitto di Arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale. L’art. 270-quater.1 è volto a colpire tre precise condotte, ossia l’organizzazione, il finanziamento e la propaganda di viaggi finalizzati alla commissione di condotte con finalità di terrorismo. Se la condotta organizzativa presta attenzione a tutte quelle attività volte alla predisposizione di quanto necessario per il raggiungimento di un dato fine; quella del finanziamento consiste nel provvedere ai mezzi necessari per il compimento di una determinata attività; e infine, quella di propaganda si sostanzia nella diffusione di notizie volte ad influire sull’opinione pubblica, orientando la stessa verso una determinata direzione. Con riferimento alla seconda condotta, ossia quella del finanziamento, il legislatore italiano rimane coerente alle scelte precedentemente prese di non voler enucleare, a differenza di tanti altri ordinamenti, un’autonoma fattispecie di reato relativa al finanziamento medesimo. la più mite sanzione della reclusione da 3 a 6 anni. L’innalzamento della pena si è avuto in sede di approvazione da parte del Senato. (15) Anche in tal caso era originariamente prevista la pena della reclusione da 3 a 6 anni; trattamento sanzionatorio innalzato durante l’approvazione da parte del Senato della Repubblica. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 221 Anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 270-quater.1, tale condotta era infatti presa in considerazione unicamente nell’ambito dell’art. 270-bis, con tutte le perplessità derivanti da tale scelta legislativa, a fronte del fatto che “ancorare” la rilevanza penale del finanziamento al fenomeno associativo sembrerebbe esigere accertamenti molto più stringenti (16). Ovviamente risulta essere irrilevante il criterio qualitativo, non esistendo alcuna “soglia di rilevanza” della singola elargizione, risultando di contro sufficiente l’effettuazione di un qualsiasi versamento di denaro o di ogni altra utilità ad integrare la condotta in questione. Nel nostro ordinamento, una completa definizione dell’attività di “finanziamento del terrorismo” è stata introdotta per mezzo dell’art. 1 lett. a) del D.Lgs. n. 109/2007, in forza del quale integra la stessa “qualsiasi attività diretta, con qualsiasi mezzo, alla raccolta, alla provvista, all’intermediazione, al deposito, alla custodia o all’erogazione di fondi o di risorse economiche, in qualunque modo realizzati, destinati ad essere, in tutto o in parte, al fine di compiere uno o più delitti con finalità di terrorismo o in ogni caso diretti a favorire il compimento di uno o più delitti con finalità di terrorismo previsti dal codice penale, e ciò indipendentemente dall’effettivo utilizzo dei fondi e delle risorse economiche per la commissione dei delitti anzidetti” (17). Anche l’Unione Europea ha avviato una massiccia campagna di contrasto al finanziamento del terrorismo (18), prevedendo, attraverso la Direttiva comunitaria n. 2005/60/CE, l’obbligo per gli Stati membri di imporre in capo a tutti gli istituti di credito, specifici doveri di verifica della clientela e segnalazione nel caso, tra i tanti altri indicati, in cui sussista il semplice sospetto che l’operazione sia posta in essere a scopo di finanziamento del terrorismo. La lotta al terrorismo rende dunque trasparente il segreto bancario, “spogliando la libertà dei mercati della sua naturale riservatezza ogni volta che vi può essere il sospetto di un collegamento con attività criminali” (19). Su un altro versante, l’Unione Europea ha proceduto all’istituzione, attraverso la posizione comune 2001/931/PESC, adottata a seguito della Risoluzione del Consiglio n. 1372/2001 (20), di una “lista europea di terroristi”. A norma del primo articolo del paragrafo 4 della citata posizione comune, l’inserimento del nominativo di un soggetto nella predetta lista potrà avvenire solo se risulta (16) N. SELVAGGI, Brevi note sul finanziamento del terrorismo in Rivista trimestrale di diritto penale dell’economia, 2012, 227. (17) S. DE VIDO, Il finanziamento al terrorismo internazionale nella decisione quadro sul mandato d’arresto europeo in Diritto dell’Unione Europea, fasc. 2, 2011, 361. (18) M. BARTOLINI, Tutela dei diritti fondamentali e basi giuridiche delle sanzioni UE nei confronti di persone, o enti non statali, collegati con attività terroristiche in I diritti umani e diritto internazionale, 2013, fasc. 1, 222. (19) G. CONTI, Lotta al terrorismo e patrimonio costituzionale comune, Napoli, 2013, 120. (20) P. PERSIO, Lotta al finanziamento del terrorismo: strumenti di repressione e prevenzione, elementi di criticità in Diritto penale e processo, fasc. 9, 2011, 1140. 222 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 essere in corso un procedimento penale o se è stata esercitata l’azione penale nei confronti del soggetto stesso per un reato di terrorismo (21). Nel nostro ordinamento l’inserimento avviene a cura del Comitato di Sicurezza Finanziaria, e rappresenta condizione necessaria e sufficiente per l’applicazione della misura del congelamento della totalità dei beni di proprietà o comunque riconducibili al soggetto in questione. Relativamente alla natura giuridica di tale misura, parte della dottrina qualifica la stessa come una vera e propria sanzione penale, a fronte dell’elevato carattere afflittivo e punitivo; altra parte è invece incline a considerala una semplice misura preventiva. Tornando all’art. 270-quater.1, occorre evidenziare che la fattispecie venuta alla luce risulta essere delineata dal governo come un reato comune, potendo essere chiunque il potenziale autore. Non richiedendo la sussistenza di determinate qualifiche giuridiche o naturalistiche che devono preesistere alla commissione dello stesso, risulta essere estesa al massimo grado la tutela approntata. Tale scelta risulta essere giustificata dall’estrema importanza del bene giuridico protetto, il quale va ben oltre la tutela della vita, dell’ordine pubblico, dello Stato, della incolumità, risultando lo stesso essere la somma di tutti i principali e fondamentali beni giuridici tutelati dalle varie disposizioni penali presenti nel nostro ordinamento giuridico. Sempre dall’elevato rango del bene giuridico oggetto di tutela, deriva la configurazione del delitto in questione come un illecito di pericolo, in quanto non risulta essere necessaria la concreta ed effettiva verificazione del danno al bene tutelato, essendo di contro sufficiente la semplice messa in pericolo o lesione potenziale. Più specificamente, si tratta di un reato di pericolo astratto o presunto, in quanto il giudice è dispensato dall’onere di accertare la concreta messa in pericolo del bene, essendo la stessa presunta e connessa al compimento di determinate azioni (22). Il requisito soggettivo richiesto ai fini della punibilità è, conformemente a tutti gli altri reati c.d. terroristici, quello del dolo specifico. Come precisato fin dalla summenzionata posizione comune 2001/931/PESC del Consiglio, la nozione di “terrorismo” risulta essere basata su un elemento obiettivo, ossia la commissione di un fatto il cui disvalore è obiettivo secondo il diritto penale; e da un elemento soggettivo, ossia il dolo specifico rappresentato dall’agire per finalità di terrorismo (23). (21) M. PORCELLUZZI, La tutela dei diritti fondamentali nella lotta al terrorismo internazionale in Diritto del commercio internazionale, 2014, fasc. 1, 257. (22) G. FIANDACA - E. MUSCO, Diritto penale, parte generale, Bologna, 2010, 204. (23) G. CONTI, Lotta al terrorismo e patrimonio costituzionale comune, Napoli, 2013, 38. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 223 Non risulterà dunque sufficiente la semplice rappresentazione o conoscenza degli elementi costitutivi della fattispecie accompagnata dalla volontà di realizzare il fatto tipico (24), essendo richiesto un quid pluris, ossia il fondamentale requisito di aver agito in vista di un fine determinato, nel caso di specie consistente nel voler intimidire la popolazione, costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o dall’astenersi dal compiere un qualsiasi atto, o di destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale secondo quanto previsto dall’art. 270-sexies (25). Trattasi inoltre di una fattispecie monosoggettiva, non essendo contemplata la necessità di alcun vincolo associativo. In pratica tuttavia, la condotta tipizzata sarà posta in essere molto difficilmente da un unico soggetto, a fronte della complessità delle operazioni richieste per la sua integrazione. Come i più recenti fatti di cronaca hanno dimostrato, gli autori di tali delitti quasi mai agiscono da soli, avendo alle spalle, se non una vera e propria organizzazione (26), quantomeno una rete ben strutturata che fornisce ordini precisi ed assicura il coordinamento. Il reato risulta essere delineato come un reato istantaneo, non essendo richiesta la reiterazione nel tempo di più condotte della stessa specie, bastando di contro, il compimento anche di un unico atto di organizzazione, finanziamento o di propaganda per l’integrazione del delitto de quo. Venendo infine alla configurazione del tentativo, lo stesso risulta essere senza ombra di dubbio configurabile tutte le volte in cui il compimento dei vari atti posti in essere sia tale da integrare gli aspetti della idoneità e della non equivocità richiesti dall’art. 56 c.p., dovendosi tuttavia precisare, come evidenziato dalla giurisprudenza relativamente alla portata dell’art. 270-bis c.p. che “ la semplice idea [..], non accompagnata da propositi concreti e attuali di violenza, non vale a realizzare il reato” (27). Prestando attenzione ai profili processuali, il comma 3-quater dell’art. 51 c.p.p. prevede che “Quando si tratta di procedimenti per i delitti consumati o tentati con finalità di terrorismo le funzioni indicate nel comma 1, lettera a), sono attribuite all’ufficio del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente”. (24) G. FIANDACA - E. MUSCO, Diritto penale, parte generale, Bologna, 2010, 351. (25) F. BATTAGLIA, Il terrorismo nel diritto internazionale, Napoli, 2012, 87. (26) La definizione di organizzazione terroristica è fornita dall’articolo 2 della decisione quadro del Consiglio 2002/475/GAI 13.6.2002, la quale dispone che “per organizzazione terroristica si intende l’associazione strutturata di più di due persone, stabilita nel tempo, che agisce in modo concentrato allo scopo di commettere dei reati terroristici. Il termine associazione strutturata designa un’associazione che non si è costituita fortuitamente per la commissione estemporanea di un reato e che non deve necessariamente prevedere ruoli formalmente definiti per i suoi membri, continuità nella composizione o una struttura articolata”. (27) Cass. Pen., sez. I, n. 1072, 11 ottobre 2006, in De Jure. 224 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 Attraverso questa scelta legislativa, espressiva della logica del c.d. “doppio binario”, e posta in essere con l’intento di inasprire notevolmente il regime sanzionatorio per tutte le fattispecie di criminalità organizzata e di maggior allarme sociale, il delitto in esame è stato attratto nella competenza delle Direzioni Distrettuali Antimafia, attribuendo così le funzioni investigative ad uffici specializzati. Tale tipologia di reato interessa infatti vastissimi territori, presentando, per la sua stessa natura, profili internazionali, non potendo di conseguenza essere adeguatamente accertato e perseguito tenendo in piedi “la muraglia” territoriale entro la quale sono confinati i poteri propri delle Procure della Repubblica. Al riguardo, occorre aprire una parentesi sul Capo II del Decreto, il quale è dedicato al “Coordinamento nazionale delle indagini nei procedimenti per i delitti di terrorismo, anche internazionale”. L’art. 20 del Decreto, corroborando la ferma intenzione di fronteggiare nella maniera più adeguata i delitti connessi al terrorismo prevede che, a partire dalla data di entrata in vigore dello stesso Decreto, “le parole “Procuratore Nazionale Antimafia”, ovunque ricorrano, si intendono sostituite con “Procuratore Nazionale Antimafia ed Antiterrorismo” e le parole “Direzione Nazionale Antimafia” si intendono sostituite con “Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo””, prevedendo altresì che l’incarico di Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo sarà assunto, dalla data di entrata in vigore del Decreto, dal Procuratore Nazionale Antimafia in carica. Ancora, data la natura delittuosa del neointrodotto delitto ed il relativo regime sanzionatorio previsto, vi è la possibilità, in sede di indagini preliminari, di ricorrere a tutte le misure cautelari personali, inclusa quella della custodia in carcere, così come previsto dall’art. 280 c.p.p. Essendo la pena superiore a tre anni, risulta essere applicabile anche l’art. 381 c.p.p., il quale attribuisce agli agenti e agli ufficiali di polizia giudiziaria la facoltà di procedere all’arresto facoltativo in flagranza, eventualità ipotizzabile tuttavia unicamente in via teorica a fronte del fatto che molto difficilmente gli autori di tale condotta possano venire colti in flagranza. Infine, risulta essere esplicitamente esclusa la possibilità di ricorrere al rito alternativo dell’applicazione della pena su richiesta delle parti in forza dell’art. 444 comma 1-bis c.p.p., ma desta preoccupazione, e non solo per il delitto in questione ma per tutti i delitti concernenti il terrorismo, il fatto che il legislatore abbia lasciato aperta la porta del giudizio abbreviato, consentendo così all’imputato di poter beneficiare di un rilevante sconto di pena. Il terzo comma del primo articolo del Decreto n. 7, interviene sul corpo dell’art. 270-quinquies del codice penale, aggiungendo un inciso alla fine del primo comma. All’originario testo secondo il quale “Chiunque, al di fuori dei casi di LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 225 cui all’art. 270-bis addestra o comunque fornisce istruzioni sulla preparazione o sull’uso di materiali esplosivi, di armi da fuoco o di altre armi, di sostanze chimiche o batteriologiche nocive o pericolose, nonché di ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, con finalità di terrorismo, anche se rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. La stessa pena si applica nei confronti della persona addestrata”, è aggiunto “nonché della persona che avendo acquisito, anche autonomamente, le istruzioni per il compimento di atti di cui al primo periodo, pone in essere comportamenti univocamente finalizzati alla commissione delle condotte di cui all’articolo 270-sexies”. L’art. 270-quinquies, nella sua prima ed originaria parte, si caratterizza per indicare quali soggetti attivi (28) l’addestratore, ossia colui che non si limita a trasferire informazioni ma agisce somministrando specifiche nozioni, formando dunque i destinatari e rendendoli idonei ad una funzione determinata o ad un comportamento specifico; l’informatore, ossia colui che raccoglie e comunica dati utili nell’ambito di un’attività e che, quindi, agisce quale veicolo di trasmissione e diffusione di tali dati; e infine l’addestrato, ossia di colui che si rende pienamente disponibile alla ricezione non episodica di quelle specifiche nozioni alle quali si è fatto riferimento (29). L’innovazione consiste nell’estendere, sulla base del modello francese, lo stesso trattamento sanzionatorio previsto per il soggetto “addestratore” e per il soggetto “addestrato”, anche al soggetto che da solo, e dunque senza alcun ausilio altrui, si auto addestra alle tecniche terroristiche. In questo caso infatti viene meno “il contatto diretto” tra addestratore e addestrato e la relativa intenzione tra i due di porre in essere l’attività di addestramento (30). Anche tale fattispecie risulta essere delineata come un reato comune, di pericolo presunto e, come la totalità dei reati a “sfondo” terroristico, a dolo specifico. La formulazione della norma desta tuttavia perplessità in quanto per l’integrazione del reato è necessario che il soggetto agente ponga in essere “i comportamenti finalizzati alla commissione delle condotte di cui all’articolo 270-sexies”, risultando, di conseguenza, impunita - o meglio, punibile a livello di semplice tentativo - la condotta di auto addestramento ex se, nonostante la elevata pericolosità di cui è intrisa. L’inciso di nuova introduzione sembra rivolgersi ai c.d. “lupi solitari”, ossia singoli individui che scelgono di sostenere le cause della jihad lancian- (28) La giurisprudenza ha escluso la punibilità del mero “informato”, ossia di colui che è occasionale percettore di informazioni al di fuori di qualsiasi rapporto di apprendimento. (29) L. ALIBRANDI, Codice penale commentato con la giurisprudenza, Piacenza, 2013, 730. (30) Cass. Pen., sez. VI, n. 29670, 20 luglio 2011, in De Jure. 226 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 dosi in attacchi personali, non coordinati con altri e per questo molto difficili da prevenire (31). Infatti, tali soggetti operano al di fuori di cellule terroristiche, e come dimostrato dalla prassi, risulta che gli stessi abbiano appreso le specifiche modalità operative da Internet, per poi decidere singolarmente, e quindi in totale autonomia, quando agire (32). Infine, la lettera b) del terzo comma del primo articolo del Decreto, prevede l’aggiunta, al termine del già ristrutturato articolo 270-quinquies, di una nuova circostanza aggravante, prevedendo un aumento di pena nei casi in cui “il fatto di chi addestra o istruisce è commesso attraverso strumenti informatici o telematici”. La ratio di tale circostanza aggravante è rinvenibile nella presa di coscienza da parte del Governo delle grandi potenzialità offerte dalle moderne tecnologie e nella conseguente enorme pericolosità che può derivare da un uso contra ius delle stesse. La diffusione della propaganda terroristica è infatti estremamente facilitata dall’uso di internet e dei social media, e il “cyber terrorismo” permette ai soggetti interessati di tessere e intrattenere legami senza l’ostacolo fisico della distanza e delle frontiere, riducendo - o forse, azzerando - l’esigenza di disporre di basi o rifugi nei vari Paesi (33). Con l’ausilio della moderna tecnologia lo Stato Islamico cerca di presentare un’immagine politica contemporanea di se stesso, un’immagine positiva in netto contrato con le “decadenti e mal funzionanti” democrazie occidentali (34). È infatti evidente che internet rappresenta il principale canale di comunicazione, che in quanto tale può essere utilizzato per veicolare informazioni o progetti pericolosi, svolgere un’attività di vera e propria pubblicità delle cause perorate ed attrarre nuovi seguaci da ogni parte del mondo. Le recenti indagini hanno infatti confermato l’esistenza di svariati siti internet i quali rappresentavano il canale privilegiato per il reclutamento, essendo saggiamente strutturati in maniera tale da convincere l’“avventore” della grandezza e della lealtà delle cause ispiratrici (35) per poi fornire le necessarie istruzioni relative ad un eventuale addestramento “in loco” o da effettuare come “autodidatta” o ancora, fornire tutte le informazioni riguardanti la partecipazione a veri e propri campi di addestramento, prendendo in considerazione, oltre all’attività “formativa”, anche il viaggio. (31) M. MOLINARI, Il Califfato del terrore, Milano, 2015, 141. (32) Jamie Bartett, capo del programma “antiestremismo” di Demos, Londra, come citato da M. MOLINARI in Il califfato del terrore, Milano, 2015, 149. (33) In questo senso il Parlamento Europeo, Risoluzione 2015/2530, punto F. (34) L. NAPOLEONI, Isis, lo stato del terrore, Milano, 2014, 55. (35) L. BRAVO, La risposta della Comunità internazionale al fenomeno del terrorismo in La comunità internazionale, 2014, fasc. 1, 4. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 227 Ultimo problema derivante dalla c.d. “jihad digitale” è dato dal moltiplicarsi dei c.d. “disseminatori”, ossia di soggetti che di loro iniziativa postano sul web messaggi, video, notizie volte a “trasformare l’ideologia dello stato islamico in contagio”. Tali soggetti, che rappresentano la “versione digitale dei lupi solitari”, causano enormi difficoltà alle agenzie antiterrorismo per quanto riguarda l’attività di individuazione delle fonti di propaganda (36). Infine, il comma 3-bis del primo articolo del Decreto n. 7 introduce la pena accessoria della perdita della potestà genitoriale quale conseguenza obbligatoria della condanna per i delitti di cui agli artt. 270-bis, 270-ter, 270- quater, 270-quater1 e 270-quinquies c.p. (37). Ulteriori modifiche al codice penale sono apportate attraverso il secondo articolo del Decreto sulla base della medesima consapevolezza e preoccupazione di cui sopra. Il primo comma lett. a) prevede l’introduzione della circostanza aggravante relativa alla “commissione del fatto attraverso strumenti informatici o telematici” alla fattispecie disciplinata dall’art. 302 c.p., la quale prevede la punibilità con la reclusione fino ad otto anni di “chiunque istiga taluno a commettere uno dei delitti non colposi, preveduti dai capi primo e secondo di questo titolo, per i quali la legge stabilisce l’ergastolo o la reclusione”, a prescindere dal fatto se l’istigazione sia o meno accolta. Per effetto inoltre del comma 1 lett. b) dello stesso articolo, la medesima circostanza aggravante troverà applicazione per il reato di cui all’art. 414 terzo comma c.p., il quale commina la pena della reclusione fino a cinque anni in capo a chi pubblicamente fa l’apologia di uno o più delitti. È, inoltre, aggiunta una nuova circostanza aggravante al quarto comma dell’art. 414 c.p. che prevede l’aumento fino a due terzi della pena se l’istigazione o l’apologia riguarda delitti di terrorismo o crimini contro l’umanità ed è posta in essere con l’ausilio di strumenti informatici o telematici. L’intento del Decreto di ostacolare l’utilizzazione della rete internet per fini di proselitismo e agevolazione di gruppi terroristici, dopo l’aggravamento delle pene stabilite per i delitti di apologia e di istigazione al terrorismo qualora commessi con strumenti telematici, è palesato dalla seconda parte dell’art. 2, il quale prevede la possibilità per l’autorità giudiziaria di ordinare agli internet provider, attraverso un decreto motivato, di inibire l’accesso ed oscurare i siti che possono, seppur solo potenzialmente, essere utilizzati per commettere reati con finalità di terrorismo, compresi in un apposito elenco costantemente aggiornato dal Servizio Polizia Postale e delle Telecomunicazioni della Polizia di Stato. (36) M. MOLINARI, il Califfato del terrore, Milano, 2015, 141-144. (37) Tale previsione, assente nell’impianto originario del Decreto, è stata aggiunta in sede di approvazione da parte del Senato. 228 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 È previsto che i fornitori di connettività debbano adempiere all’ordine di rimozione del sito immediatamente, e comunque non oltre quarantotto ore dal ricevimento della notifica e che, in caso di inosservanza, possa essere la stessa autorità giudiziaria a disporre l’interdizione dell’accesso al dominio internet. Nel caso specifico in cui i contenuti “incriminati” risultino essere generati dagli utenti e ospitati su piattaforme riconducibili a soggetti terzi, è disposta la rimozione dei soli specifici contenuti illeciti, garantendo comunque, ove tecnicamente possibile, la fruizione dei contenuti estranei alle condotte illecite (38). La preoccupazione derivante dal vantaggio offerto dalle nuove tecnologie ai gruppi terroristici, è fortemente avvertita anche a livello europeo. È in quest’ottica che deve essere letta la richiesta rivolta dal Parlamento europeo alle imprese di tutti gli Stati membri operanti nel campo di internet e dei social media di cooperare con i rispettivi governi, sottolineando però l’esigenza di garantire sempre e comunque il rispetto dei principi generali della libertà di espressione e della tutela della vita privata (39). Ultimo ritocco al codice penale è posto in essere attraverso l’articolo 3 del Decreto, il quale introduce delle specifiche sanzioni, sia di ordine penale sia di ordine amministrativo, destinate a punire le violazioni degli obblighi in materia di controllo della circolazione di quelle sostanze che possono essere impiegate per costruire ordigni con materiali di uso comune (c.d. precursori di esplosivi). È così prevista l’introduzione, dopo l’art. 678 c.p. - il quale sanziona con l’arresto fino a 18 mesi e con l’ammenda fino ad euro 247 la fabbricazione e il commercio abusivi di materie esplodenti - del nuovo art. 678-bis. Lo stesso prevede la pena dell’arresto fino a 18 mesi e dell’ammenda fino a euro mille (40) in capo a “chiunque, senza averne titolo, introduce nel territorio dello Stato, detiene, usa o mette a disposizione di privati le sostanze o le miscele che le contengono indicate come precursori di esplosivi nell’allegato I del Regolamento CE n. 98/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 gennaio 2013”. La finalità del citato Regolamento, e di conseguenza della fattispecie penale di neointroduzione, è quella di contrastare e limitare la commercializzazione e l’uso distorto di determinate sostanze chimiche in quanto precursori per la fabbricazione illecita di esplosivi artigianali, risultando gli stessi quelli usati più spesso nella prassi per compiere atti terroristici. (38) Specificazione introdotta in sede di approvazione in Senato. (39) Risoluzione Parlamento Europeo n. 2530/2015, punto 19. (40) Nella versione originaria l’entità massima dell’ammenda era pari ad euro 247, innalzata in sede di approvazione in Senato. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 229 Tali sostanze risultano essere elencate negli allegati I e II del Regolamento comunitario, e sono sostanzialmente, tutte quelle che possono essere ricavate dai prodotti utilizzati nella vita di tutti i giorni, in quanto si rinvengono comunemente nei cosmetici, nei fertilizzanti e nei prodotti per la pulizia. È da sottolineare tuttavia che la sostanza qualificata come precursore di esplosivi subirà le limitazioni previste dal regolamento non in quanto tale, ma solo qualora sia presente in una concentrazione superiore al valore limite indicato dagli allegati al Regolamento medesimo. Le condotte prese in considerazione oltre che precisamente individuate dal legislatore, si caratterizzano per divenire penalmente rilevanti solo nel caso in cui vengano poste in essere in assenza dei titoli ex lege previsti. Tale articolo non si limita a punire solo condotte attive, come quelle dell’introduzione, dell’uso o della diffusione - messa a disposizione delle sostanze anzidette, colpendo anche condotte statiche come la semplice detenzione, prescindendo dunque dalla ricerca della prova della effettiva utilizzazione a cui il soggetto agente intende destinare le stesse. Il reato in questione risulta essere configurato come una contravvenzione, inserita nel libro terzo del codice penale nell’ambito “Delle contravvenzioni concernenti la prevenzione di infortuni nelle industrie o nella custodia di materie esplodenti”. Di nuovo conio, ed inserito nel medesimo ambito, risulta essere anche il successivo art. 679-bis c.p., rubricato “Omissioni in materia di precursori di esplosivi” - il quale prevede la pena dell’arresto fino a dodici mesi o dell’ammenda fino ad euro 371 - in capo a “Chiunque omette di denunciare all’Autorità il furto o la sparizione delle materie indicate come precursori di esplosivi negli allegati I e II del Regolamento Ce n. 98/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 gennaio 2013, e di miscele o sostanze che le contengono”. Lo stesso articolo prevede, inoltre, una sanzione amministrativa pecuniaria da mille a cinquemila euro nei confronti di “Chiunque omette di segnalare all’Autorità le transazioni sospette, relative alle sostanze indicate negli allegati I e II del Regolamento CE n. 98/2013 [..]”, avendo altresì cura di specificare che “Ai fini della presente disposizione, le transazioni si considerano sospette quando ricorrono le condizioni di cui all’art. 9, paragrafo 3, del predetto Regolamento”, ossia quando sussistono ragionevoli motivi per sospettare che la sostanza o la miscela sia destinata alla fabbricazione illecita di esplosivi. L’art. 9, par. 3 del Regolamento prevede altresì la possibilità, in capo agli operatori economici di riservarsi il diritto di rifiutare la transazione sospetta, segnalando di conseguenza la stessa senza alcun ritardo con gli estremi identificativi del cliente. Il medesimo articolo contempla inoltre dei “campanelli di allarme”, delle “spie rosse”, al ricorrere delle quali l’operatore economico ha motivo di dubitare seriamente sull’impiego che il suo interlocutore vuol fare delle sostanze 230 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 in questione, facendosi così riferimento alle ipotesi in cui il potenziale cliente non sia in grado di precisare l’uso previsto per la stessa; quando sembra essere estraneo all’uso previsto per la sostanza o miscela o non è in grado di spiegarlo in modo plausibile; quando intende acquistare le sostanze in quantità, combinazioni o concentrazioni insolite; quando è restio ad esibire un documento attestante l’identità o il luogo di residenza o quando insiste per utilizzare metodi di pagamento inconsueti, incluse grosse somme in contanti. Le due fattispecie in questione si caratterizzano per il coinvolgimento di soggetti privati, prevedendo delle sanzioni penali ed amministrative a fronte dell’omissione di doveri di denuncia e segnalazione imposti loro. Più specificamente, trattasi di reati omissivi c.d. propri, in quanto assume rilevanza il semplice mancato compimento dell’azione o del comando imposto, a prescindere dall’effettiva verificazione di un evento come conseguenza della condotta omissiva medesima (41). Il comma 3-bis dell’art. 3 (42), palesando l’intenzione del legislatore di voler monitorare e controllare tutto il ciclo concernente la vita di un’arma, munizione o sostanza esplodente, prevede l’obbligo, in capo ai soggetti di cui agli art. 35 e 55 del Regio Decreto n. 773/31 (c.d. T.U.L.P.S.), ossia in capo al fabbricante, commerciante, esercente attività di riparazione di armi e gli esercenti fabbriche, depositi o rivendite di esplodenti di qualsiasi genere, di comunicare tempestivamente alle questure territorialmente competenti le informazioni e i dati di tutte le operazioni “sospette”, avvalendosi dei mezzi telematici e informatici e rispettando le tempistiche e le modalità che a breve saranno stabilite con un Decreto disposto dal Ministro degli Interni sentito il Garante per la protezione dei dati. Altre modifiche riguardano il Decreto Legislativo n. 8/2010, attraverso il quale il nostro ordinamento ha proceduto al recepimento della Direttiva 2008/43/CE, volta all’istituzione di un sistema di identificazione e tracciabilità degli esplosivi per uso civile. Così, sempre dalla consapevolezza del possibile uso distorto che di certe sostanze può esser fatto, viene previsto l’obbligo, in capo alle imprese che operano in ogni anello della vita degli esplosivi di uso civile di istituire “un sistema di raccolta dei dati per gli esplosivi per uso civile, che comprenda la loro identificazione univoca lungo tutta la catena della fornitura e durante l’intero ciclo di vita dell’esplosivo” ovvero la possibilità per le stesse di “consorziarsi con altre imprese al fine di istituire e condividere un sistema di raccolta automatizzato dei dati relativi alle operazioni di carico e di scarico degli esplosivi che consenta la loro pronta tracciabilità”. L’art. 3 del Decreto procede poi con tutta una serie di disposizioni volte (41) G. FIANDACA - E. MUSCO, Diritto penale, parte generale, Bologna, 2010, 198. (42) Introdotto in sede di approvazione da parte del Senato. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 231 a rafforzare o prevedere ex novo obblighi di denuncia in capo ai privati possessori di armi di svariate tipologie. L’art. 4 del Decreto n. 7, in una logica preventiva, interviene apportando diverse modifiche al testo del D.Lgs. n. 159/2011 (c.d. Codice Antimafia) (43), inserendo ex novo un articolo ed apportando delle modifiche additive ad altri tre. L’intervento in questione riguarda esclusivamente il primo libro, ossia quello concernente le misure di prevenzione. Le stesse sono delle misure specialpreventive, dirette ad evitare la commissione di reati da parte di soggetti considerati come socialmente pericolosi, e si caratterizzano per il fatto di poter essere applicate indipendentemente dalla commissione di un precedente reato, qualificandosi così come una sorta di “misure del sospetto” (44). Il Decreto n. 7 interviene sugli articoli 4 e 9 del Codice Antimafia, ossia su articoli collocati nel titolo I, capo II del primo libro, relativo alle misure di prevenzione personali applicabili dall’Autorità giudiziaria. L’art. 4 del Codice Antimafia contempla l’indicazione dei soggetti destinatari dei provvedimenti previsti dal presente capo, prevedendo, tra gli altri, alla lettera d) “Coloro che, operanti in gruppi o isolatamente, pongano in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato, con la commissione di uno dei reati previsti dal capo I, titolo VI, del libro II del codice penale o dagli articoli 284, 285, 286, 306, 438, 439, 605, 630 dello stesso codice nonché alla commissione dei reati con finalità di terrorismo anche internazionale”.A tale statuizione si aggiunge, in virtù del Decreto n. 7, il periodo “ovvero a prendere parte ad un conflitto in territorio estero a sostegno di un’organizzazione che persegue le finalità terroristiche di cui all’art. 270-sexies del codice penale”. Tale aggiunta presta per la prima volta attenzione, all’interno del panorama legislativo italiano, ai c.d. foreign fighters, intendendo con tale neologismo tutti coloro che si spostano in uno Stato diverso da quello di residenza o cittadinanza al fine di perpetrare o preparare atti terroristici, o ancora, ricevere o impartire un addestramento a ciò mirato (45). La portata innovativa di tale introduzione è fondamentale a fronte del fatto che tutti i foreign fighter europei, come dimostrato dai servizi di intelligence, passano dall’Italia e utilizzano la stessa come “base” per organizzarsi e spesso in- (43) Il Decreto Legislativo n. 159/2011 risulta essere un testo composto da 120 articoli, divisi in quattro libri e relativi rispettivamente alla disciplina delle misure di prevenzione (Libro Primo), alla documentazione antimafia (Libro Secondo), alla disciplina relativa alle attività investigative nella lotta contro la criminalità organizzata (Libro Terzo) ed alla normativa di coordinamento e transitoria (Libro Quarto). (44) G. FIANDACA - E. MUSCO, Diritto penale, parte generale, op. cit., 970. (45) R. BARTOLI, Ancora equivoci in tema di terrorismo internazionale nei contesti di conflitto armato in Giurisprudenza Italiana, 2014, fasc. 7, 1733. 232 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 contrarsi con altri soggetti pronti a perorare la loro stessa causa, a fronte della posizione strategica del nostro Paese, che permette più facilmente il raggiungimento di tutti quei territori attraversati, in questo particolare momento storico, da conflitti interni. Il particolare allarme sociale del fenomeno è palesato dalle stime europee, secondo le quali ad oggi sono tra i 3500 e i 5000 i cittadini europei che hanno lasciato le proprie case per diventare “combattenti stranieri” a seguito dello scoppio della guerra e delle violenze in Siria, Iraq e Libia (46). Le misure di prevenzione personali che possono essere applicate dall’Autorità giudiziaria risultano essere la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e l’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale. È previsto che la proposta di applicazione delle stesse sia di competenza del questore, del Procuratore nazionale antimafia (da oggi “Procuratore nazionale antimafie e antiterrorismo”), del Procuratore della Repubblica del distretto di Corte d’appello e del direttore della direzione investigativa antimafia, i quali devono indirizzare la relativa proposta di applicazione al Presidente del Tribunale del capoluogo della provincia in cui dimora la persona in questione. Il tribunale dovrà provvedere con decreto motivato entro 30 giorni dalla proposta; e la relativa udienza, salvo espressa richiesta in senso contrario da parte dell’interessato, sarà celebrata senza la presenza del pubblico e con la presenza necessaria del difensore e del pubblico ministero. È il provvedimento del tribunale che stabilisce la durata della misura di prevenzione, la quale in ogni caso deve essere compresa entro la “forbice” legislativamente prevista e oscillante tra uno e cinque anni e le prescrizioni che la persona sottoposta a tale misura dovrà osservare (47). Il provvedimento con il quale è disposta la misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza si caratterizza per avere un contenuto standardizzato, in quanto lo stesso prescriverà al destinatario di vivere onestamente e rispettando le leggi, di non allontanarsi dalla dimora senza preventivo avviso all’autorità locale di pubblica sicurezza, di non associarsi abitualmente alle persone che hanno subito condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione o sicurezza, di non rincasare la sera più tardi e di non uscire la mattina più presto di una data ora senza comprovata necessità e senza averne dato preventiva notizia all’autorità locale di pubblica sicurezza, di non detenere armi e di non partecipare a pubbliche riunioni. Di contro, qualora sia applicata la misura dell’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale o del divieto di soggiorno, può essere (46) Risoluzione Parlamento Europeo, n. 2530/2015, considerando G. (47) Per esempio è previsto che qualora la misura disposta sia quella della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e si tratti di persona indiziata di vivere con il provento di reati, il tribunale possa prescrivere alla stessa di darsi, entro un congruo termine, alla ricerca di un lavoro, di fissare la propria dimora e farla conoscere entro lo stesso termine all’Autorità di pubblica sicurezza, e di non allontanarsene senza preventivo avviso. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 233 prescritto il divieto di allontanarsi dall’abitazione prescelta senza preventivo avviso all’autorità preposta alla sorveglianza o l’obbligo di presentarsi all’autorità di pubblica sicurezza nei giorni indicati e ad ogni chiamata di essa. È infine previsto, che alle persone destinatarie di tali misure di prevenzione personali, sia consegnata la c.d. “carta di permanenza” da portare con sé e da esibire ad ogni richiesta degli ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza. Animato dal medesimo intento di contrastare nel migliore dei modi i c.d. combattenti straneri è l’art. 2, comma 1, lett. b-bis, attraverso il quale viene modificato l’art. 497-bis c.p., il quale prevede la punibilità con la reclusione - così come modificato dall’articolo citato - da due a cinque anni di chiunque sia trovato in possesso di un documento falso valido per l’espatrio, prevedendo inoltre una circostanza aggravante in capo al soggetto che abbia fabbricato il documento medesimo. L’estrema esigenza di contrastare nel più efficace dei modi ogni spostamento dei foreign fighters è altresì palesata dall’inserimento, all’interno dell’art. 380, comma 2 c.p.p., della nuova lettera m-bis), per il tramite del comma 1-bis dell’art. 2 del Decreto n. 7. Il secondo comma dell’art. 380 c.p.p. prevede tutta una serie di ipotesi in presenza delle quali, anche se non si tratta di “delitto non colposo punibile con la pena dell’ergastolo e della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni e nel massimo a venti”, gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria sono tenuti a procedere all’arresto obbligatorio in flagranza. Tra le ipotesi che giustificano di procedere in tal senso vengono così inseriti i “delitti di fabbricazione, detenzione o uso di documento di identificazione falso previsti dall’art. 497-bis del codice penale” e, per effetto dell’art. 3, comma 3-bis) del Decreto in esame, i “delitti di promozione, direzione, organizzazione, finanziamento o effettuazione di trasporto di persone ai fini dell’ingresso illegale nel territorio dello Stato“, essendo tale ultima ipotesi palesemente diretta a contrastare l’attività dei trafficanti di migranti e gli scafisti del Mediterraneo. Tornando alle modifiche apportate dal Decreto n. 7 al corpo del Codice Antimafia, è da evidenziare l’aggiunta, al seguito dell’art. 9, del comma 2-bis. L’art. 9 ha riguardo a tutti quei casi in cui non possano attendersi, per le più svariate ragioni, le lungaggini processuali, prevedendo, al primo comma che, qualora venga presentata proposta di applicazione della misura della sorveglianza speciale con l’obbligo o divieto di soggiorno, il presidente del tribunale possa, con decreto e in pendenza del relativo procedimento, disporre il temporaneo ritiro del passaporto e la sospensione della validità ai fini dell’espatrio di ogni altro documento equipollente. Il secondo comma prevede poi che, nei casi in cui sussistano motivi di 234 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 particolare gravità è consentito al tribunale, di “anticipare ulteriormente” gli effetti della misura di prevenzione, disponendo che alla persona denunciata sia imposto, seppur in via provvisoria e fino a che non sia divenuta esecutiva la misura di prevenzione, l’obbligo o il divieto di soggiorno. Il comma 1 lett. b) del Decreto n. 7 aggiunge a tale articolo il nuovo comma 2-bis, il quale è volto a rendere ancora più stringenti ed efficaci le misure di prevenzione in questione se rivolte verso i soggetti indicati nell’art. 4, comma 1, lett. d) del codice antimafia. È così disposto che “nei casi di necessità e urgenza, il Questore, all’atto della presentazione della proposta di applicazione delle misure di prevenzione della sorveglianza speciale e dell’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale nei confronti delle persone di cui all’art. 4, comma 1, lett. d), può disporre il temporaneo ritiro del passaporto e la sospensione della validità ai fini dell’espatrio di ogni altro documento equipollente”. Per i particolari soggetti indicati, è consentito, dunque, anticipare ulteriormente l’adozione delle necessarie tutele, prevedendo la facoltà di ritirare il passaporto, o sospendere la validità dei documenti necessari per l’espatrio, in capo al Questore, e non in capo al Presidente del tribunale come invece previsto dal primo comma dell’art. 9. L’attribuzione di tale incisivo potere in capo al Questore è tuttavia assistito da tutta una serie di cautele, essendo previsto che lo stesso debba obbligatoriamente darne immediata comunicazione al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto ove dimora la persona, il quale, se non ritiene di disporne la cessazione, ne richiede la convalida, entro 48 ore, al presidente del tribunale del capoluogo della provincia in cui la persona dimora, il quale provvederà a sua volta, e nelle successive 48 ore, a confermarla con decreto motivato o caducarla. Il sesto articolo del Decreto n. 7 presta attenzione al Decreto Legge n. 144/2005, intitolato “Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale”, convertito in Legge n. 155/2005. Lo stesso si caratterizza per essere un testo normativo dal contenuto ristretto, composto da soli 24 articoli e posto in essere con l’intento di rafforzare gli strumenti di prevenzione e contrasto nei confronti del terrorismo internazionale. La prima modifica è apportata all’articolo 2, il quale disciplina una particolare categoria di permesso di soggiorno - c.d. “a fini investigativi” - che il Questore, anche su segnalazione del Procuratore della Repubblica o dei responsabili di livello almeno provinciale delle Forze di Polizia o dei Servizi informativi e di sicurezza, può rilasciare allo straniero quando, “nel corso di operazioni di polizia, di indagini o di un procedimento relativi a delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico”, sorga l’esigenza di garantire la permanenza nel territorio LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 235 dello Stato dello straniero indagato-imputato, qualora lo stesso “abbia offerto all’autorità giudiziaria o agli organi di polizia una collaborazione”. Tale tipologia di permesso di soggiorno, se da una parte, in una logica premiale rappresenta un forte incentivo alla collaborazione, è ovviamente funzionale a consentire il proseguimento delle indagini, tutte le volte in cui il soggetto, nei confronti del quale si procede, risulti adottare un comportamento cooperativo con l’autorità procedente, ed appaia inoltre essere in grado di fornire elementi utili al fine del contrasto dei reati di cui sopra (48). L’innovazione apportata dal Decreto n. 7 consiste nell’estendere la portata applicativa dell’art. 2 del Decreto n. 144 anche nei confronti dei cittadini stranieri indagati o imputati di aver commesso delitti con finalità di “criminalità transnazionale”. Tale intervento additivo estende notevolmente il raggio d’azione della disposizione sulla quale interviene, consentendo di avvalersi di tutta una serie di soggetti che possono essere in grado di fornire apporti decisivi per il contrasto di delitti che per loro stessa natura riguardano più Paesi, evitando in tal modo di perdere, a fronte del ritorno del soggetto in questione nel suo paese d’origine, un utile interlocutore. La ratio premiale di tale istituto è palesata infine dal quinto comma dell’art. 2 del Decreto n. 144, che prevede, nei casi in cui “la collaborazione offerta ha avuto straordinaria rilevanza per la prevenzione nel territorio dello Stato di attentati terroristici alla vita o all’incolumità delle persone o per la concreta riduzione delle conseguenza dannose o pericolose degli attentati stessi”, allo straniero possa essere concessa la carta di soggiorno. Ultima innovazione posta in essere dal Decreto n. 7/2015, attraverso l’art. 7, è costituita dall’integrale reiscrizione dell’art. 53 del Decreto Legislativo n. 196/2003 (c.d. Codice Privacy). Le finalità e i principi generali enunciati da tale testo normativo sono quelli di garantire a chiunque il diritto alla protezione dei dati personali che lo riguardano, quello di garantire che il trattamento dei dati medesimi si svolga nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità dell’interessato, con particolare riferimento alla riservatezza, all’identità personale e al diritto alla protezione dei dati personali. Il neointrodotto art. 53 si apre definendo il concetto di trattamento effettuato per finalità di polizia, affermando che ricorre tale ipotesi qualora i trattamenti di dati personali siano “direttamente correlati all’esercizio dei compiti di polizia di prevenzione dei reati, di tutela dell’ordine e della sicurezza pub- (48) È inoltre specificato che la durata di tale particolare tipologia di permesso di soggiorno sia annuale, e che possa essere rinnovato, permanendo le medesime esigenze sovraesposte, per uguali periodi; potendo di contro essere revocato in caso di condotta incompatibile con le finalità dello stesso. 236 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 blica, nonché di polizia giudiziaria, svolti, ai sensi del codice di procedura penale, per la prevenzione e repressione dei reati”. Dopo l’incipit di carattere definitorio, il nuovo art. 53 procede prevedendo un regime derogatorio alla disciplina ordinaria in tutti quei casi in cui il trattamento, in forza di specifiche disposizioni normative, sia posto in essere dal Centro elaborazione dati del Dipartimento della pubblica sicurezza o da parte delle Forze di Polizia su dati destinati a confluirvi, ovvero da organi di pubblica sicurezza o altri soggetti pubblici nell’esercizio delle attribuzioni conferite da disposizioni di legge e regolamento. Il regime delineato, caratterizzato dall’inapplicabilità di tutta una serie di disposizioni del Codice privacy risulta essere particolarmente semplificato qualora il responsabile del trattamento sia uno dei soggetti di cui sopra, e di riflesso, particolarmente insidioso per il soggetto destinatario, essendo lo stesso privato, anche se in nome di una causa superiore quale quella della prevenzione dei reati e di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, di una serie di diritti che fino a poco tempo fa rappresentavano dei pilastri portanti dell’impianto del D.Lgs. n. 196, con tutte le ricadute e i rischi di abuso che dal venire meno di tali garanzie possono derivare (49). Le principali disposizioni “congelate” risultano essere, per esempio, l’art. 10, la cui inapplicabilità determina il venire meno, in capo al soggetto titolare del trattamento di adempiere a tutta una serie di prescrizioni volte a semplificare e agevolare l’accesso da parte del destinatario ai dati che lo riguardano; l’art. 12, ossia il necessario rispetto dei codici deontologici e di buona condotta predisposti dal Garante quale condizione generale per la liceità e correttezza dell’operazione di trattamento. Maggiori perplessità desta la previsione relativa all’inapplicabilità dell’art. 16, il quale codifica e cristallizza ex ante la destinazione che dovrà essere data ai dati raccolti a fronte della cessazione, per qualsiasi causa, del trattamento. Il venir meno della rigida predeterminazione delle opzioni percorribili sembra rendere “padroni” dei dati raccolti, seppur in virtù di giustificate esigenze, i soggetti pubblici procedenti. Altrettanto preoccupante risulta essere la previsione dell’inapplicabilità, sempre in tali specifici e tassativi casi, dell’intero capo II, disciplinante i principi applicabili ai trattamenti effettuati da soggetti pubblici, composto dagli articoli compresi tra il 18 e il 22. In particolare, per effetto dell’inapplicabilità degli artt. 20 e 21, risulta essere smantellato il tradizionale principio della sussistenza di una preventiva disposizione legislativa autorizzante il trattamento dei dati personali sensibili e dei dati giudiziari (50). Ancora, a fronte della mancata applicazione degli artt. 37 e 38 commi da 1 a 5, viene meno l’obbligo di notificare preventivamente al Garante i casi in cui il trattamento riguarda particolari tipologie di dati personali come ad esem- LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 237 pio i dati genetici e in via generale i c.d. dati “supersensibili”, essendo questa una categoria coniata dalla dottrina volta a indicare tutti quei dati che ineriscono intimamente la persona. Ultima innovazione è data dalla previsione della inapplicabilità dell’intera terza sezione, dedicata alla tutela alternativa a quella giurisdizionale, e composta dagli articoli da 145 a 151, escludendo in tal modo la possibilità, in capo all’interessato, di far valere i fondamentali principi di cui all’art. 7 attraverso il ricorso al Garante. La nuova formulazione dell’art. 53 del Codice Privacy rappresenta senza dubbio una delle fondamentali innovazioni poste in essere dal Decreto n. 7, in quanto sembra dotare gli organi procedenti di amplissimi poteri volti a prevenire reati di particolare allarme sociale, ma allo stesso tempo desta forti perplessità a fronte del fatto che per i soggetti destinatari sembra creare una sorta di “zona grigia”, caratterizzata dall’inapplicabilità della quasi totalità dei principi fondamentali previsti dal Codice Privacy, con la possibile ricaduta che per tali soggetti si venga a creare una sorta di ritorno al passato, essendo data la possibilità di effettuare trattamenti nei loro confronti così come avveniva decenni or sono, ossia quando il concetto di “riservatezza” e di “privacy” non si erano ancora imposti prepotentemente nel nostro ordinamento giuridico come diritti fondamentali della persona (51). Completano il Decreto una serie di disposizioni, volte al potenziamento dell’impiego del personale militare appartenente alle forze armate per il contrasto della criminalità “anche il relazione alle straordinarie esigenze di sicurezza connesse alla realizzazione dell’Expo 2015” e alle “Missioni internazionali delle Forze Armate e di Polizia”. Risultano essere stati inseriti, in sede di approvazione da parte del Senato, l’art. 3-bis, attraverso il quale vengono stanziati oltre quaranta milioni di euro per il potenziamento dei dispositivi aeronavali di sorveglianza e sicurezza nel Mediterraneo, per far fronte “alle straorinarie esigenze di pre- (49) Puntare tutte le giustificazioni sull’importanza del bene protetto non pare convincere la dottrina più sensibile, a fronte del fatto che il bene medesimo è facilmente manipolabile dall’interprete. In questo senso A. MANNA, La strategia del terrore, op. cit., 62. (50) In forza delle definizioni fornite dall’art. 4, per dati sensibili e dati giudiziari si devono intendere rispettivamente “i dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, politico, filosofico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale” e“i dati personali idonei a rivelare i provvedimenti [..] in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti, o la qualità di imputato o indagato”. (51) Tutto ciò può portare all’estrema conseguenza di considerare dei soggetti come delle “non persone”, tali da meritare un trattamento meno garantista. In questo senso A. MANNA, La strategia del terrore, op. cit., 54. 238 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 venzione e contrasto del terrorismo e al fine di assicurare la tutela degli interessi nazionali”; e l’articolo 3-sexies, attraverso il quale si prevede la necessaria predisposizione, da parte del Ministro dell’Interno di concerto con il Ministro della difesa e del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di un decreto che - fermo restando quanto previsto dal codice della navigazione e dalla disciplina comunitaria - disciplini, dopo aver sentito l’Ente nazionale per l’aviazione civile (c.d. ENAC) le modalità di utilizzo, da parte delle Forze di Polizia, degli aeromobili a pilotaggio remoto (i c.d. droni), ai fini del controllo del territorio per finalità di pubblica sicurezza con particolare riferimento al contrasto del terrorismo e alla prevenzione dei reati di criminalità organizzata e ambientale. Concludendo, anche se negli ultimi anni e con particolare riferimento al provvedimento esaminato sono stati compiuti importanti passi avanti, la lotta conto l’“arte di chi procura terrore” (52) è ancora combattuta con strumenti impari, non essendo tutto ciò sufficiente ad arginare in toto il fenomeno. La guerra contro al terrorismo è infatti una guerra contro un nemico estremamente sfuggente, del quale è particolarmente difficile, se non impossibile, prevederne le azioni. È tuttavia da elogiare la strada intrapresa, la quale sembra essere un buon punto di partenza per rafforzare il nostro sistema penale e contrastare efficacemente gli autori di tali gravi crimini. La grande sfida che le Democrazie odierne devono affrontare sembra essere quella del bilanciamento tra la sicurezza nazionale e la tutela dei diritti umani, dovendo procedere all’individuazione di criteri oggettivi e criteri guida attraverso i quali rispondere all’emergenza (53). In tal senso, la direzione da seguire è stata recentemente indicata a livello comunitario, per il tramite della Risoluzione n. 2530 del 2015, attraverso la quale il Parlamento, dopo aver elevato il terrorismo e l’estremismo violento al rango di principale minaccia alla sicurezza e alla libertà, detta una linea d’azione comune che i vari Stati membri dovranno seguire, in modo da contrastare unitamente la piaga del terrorismo. Dopo aver ribadito la necessità di predisporre adeguate risposte sanzionatorie a livello penale, il Parlamento si rivolge ai vari Stati membri, invitando loro a prevenire la circolazione dei sospetti terroristi, rafforzando in particolare i controlli alle frontiere esterne, procedendo a controlli più sistematici ed efficaci dei documenti di viaggio, contrastando il traffico illegale di armi e l’uso fraudolento di identità. Viene poi ribadita l’importanza dell’attività di raccolta e soprattutto di (52) In questo senso l’Oxford Dictionary, come citato da G. CONTI in Lotta al terrorismo, op. cit., 12. (53) I. MARCHI, Quando l’emergenza non è più l’eccezione in L’indice penale, 2013, fasc. 2, 705. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 239 condivisione dei dati, attività che tuttavia devono avvenire nel costante rispetto dei diritti fondamentali propri di ogni persona umana; e la necessità di contrastare nel migliore dei modi tutte quelle che rappresentano le principali fonti dalle quali il terrorismo trae i suoi mezzi di sostentamento, quali il riciclaggio del denaro, la tratta di esseri umani e il commercio illegale delle armi. Infine, particolare attenzione è posta sulla prevenzione, gli Stati sono così invitati ad investire in sistemi che affrontino alla radice le cause della radicalizzazione, dalla quale poi deriva l’estremismo violento, prevedendo ad esempio programmi educativi tali da promuovere l’integrazione, l’inclusione sociale, l’uguaglianza, la tolleranza e la comprensione tra le diverse culture e religioni (54). Risulta essere infine essenziale, a fronte dell’impossibilità di confinare in un determinato ambito territoriale il fenomeno del terrorismo, promuovere un partenariato globale, cooperando strettamente con tutti i Paesi, Organizzazioni ed Organi di intelligence in grado di poter fornire un utile apporto. (54) Risoluzione del Parlamento Europeo n. 2530/2015, punto n. 6. 240 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 Quote latte: fine di un regime controverso Antonio Tallarida* SOMMARIO: 1. Premessa - 2. L’O.C.M. del latte e dei prodotti lattiero-caseari - 3. L’introduzione del regime delle quote latte - 4. L’applicazione in Italia e le contestazioni - 5. La riforma del 2003 e gli ultimi atti - 6. Il contenzioso - 7. La riscossione coattiva del prelievo - 8. Conclusioni. 1. Il 31 marzo 2015 è definitivamente cessato il regime comunitario delle quote latte. È così venuto meno quello che è stato definito come “una disavventura nel cammino verso l’Europa” da uno dei protagonisti del periodo più controverso della storia contemporanea dell’agricoltura italiana (1). Questo è il quadro impietoso che ne ha tracciato, nelle sue Valutazioni finali, la Sezione centrale di controllo sulle amministrazioni dello Stato della Corte dei Conti : “La conseguenza finanziaria della cattiva gestione trentennale delle quote latte - caratterizzata dalla confusione della normativa, delle procedure, delle competenze e delle responsabilità dei soggetti investiti e dall’incertezza sui dati produzione - si è tradotta in un esborso complessivo nei confronti dell’Unione europea, ad oggi, di oltre 4,4 miliardi di euro. Per il periodo precedente la campagna lattiera 1995/1996, l’onere si è scaricato interamente sull’erario, mentre le somme teoricamente recuperabili nei confronti degli allevatori - e già anticipate all’Unione a carico della fiscalità generale - superano l’importo di 2.537 milioni” (delib. n. 12/2014/G). Ancor più gravi e pesanti sono stati gli effetti del regime sul sistema produttivo lattiero. Secondo Coldiretti, solo 1 stalla su 5 è sopravvissuta al regime delle quote latte: all’inizio nel 1984, infatti, erano presenti 180 mila stalle, con il latte che veniva pagato in media agli allevatori 0,245 euro al litro mentre i consumatori lo pagavano 0,40 al litro. Oggi sono rimaste in vita solo 36 mila stalle mentre il prezzo è in media di 0,36 euro a fronte di un prezzo al consumo di 1,5 euro al litro. È quanto emerge dal “Dossier sull’attuazione delle quote latte in Italia” presentato in occasione della mobilitazione degli allevatori della Coldiretti il 31 marzo 2015 a Roma, in Piazza Foro di Traiano, con la pronipote della mucca Onestina simbolo della battaglia degli allevatori onesti. Disastroso infine il lascito del regime in termini di contenzioso, sviluppatosi in questi anni a tutti i livelli, dai Giudici di pace ai Tribunali ordinari, alla Cassazione, ai TAR, al Consiglio di Stato, sino alla Corte Costituzionale (*) Vice Avvocato Generale dello Stato in quiescenza. (1) R. BORRONI, Le quote latte in Italia ..., Franco Angeli, 2001. È stato sottosegretario di Stato all’Agricoltura tra il 1996 e il 2001. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 241 e alla Corte di Giustizia CE, ed ora particolarmente in sede esecutiva, avverso le cartelle di pagamento emesse per il recupero forzoso dei prelievi. Un’eredità pesante, in cui è difficile ricostruire colpe e responsabilità, ma che è doveroso ripercorrere e ricordare affinché ciò non accada più. 2. Il Reg. (CEE) n. 13/64 del Consiglio del 5 febbraio 1964 aveva previsto la graduale attuazione di una organizzazione comune dei mercati nel settore del latte e dei prodotti lattiero-caseari basata su un regime di prezzi unici (prezzo indicativo unico per il latte, prezzi d’entrata unici per ciascuno dei prodotti pilota attuati a mezzo di prelievi variabili, prezzo di intervento unico per il burro). Il successivo Reg. (CEE) n. 804/68 del Consiglio del 27 giugno 1968 aveva apportato una serie di adattamenti prevedendo l’instaurazione di un regime unico degli scambi alle frontiere esterne, l’introduzione di un sistema di prelievi all’importazione e di restituzioni all’esportazione per stabilizzare il mercato comunitario, la libera circolazione dei suddetti prodotti all’interno con l’eliminazione degli aiuti nazionali e l’applicazione di norme comuni di qualità e di commercializzazione per il burro. Essendosi peraltro rivelate insufficienti tali misure, il Reg. (CEE) n. 1079/77 del Consiglio del 17 maggio 1977 aveva istituito un prelievo di corresponsabilità nel settore dovuto da ogni produttore di latte di vacca consegnato a un’impresa di trattamento o di trasformazione e su talune vendite di prodotti lattiero-caseari alla fattoria, determinato dal Reg. (CEE) n. 1822/77 della Commissione nella misura, progressivamente aumentata di 0,4021 ecu o, nella misura ridotta, di 0,2681 ecu. 3. Il perdurare dello squilibrio tra l’offerta e la domanda di latte, al punto che “nonostante l’applicazione di detto prelievo di corresponsabilità l’aumento della raccolta lattiera continua ad un ritmo tale che lo smaltimento dei quantitativi supplementari crea oneri finanziari e difficoltà di mercato che mettono in causa l’avvenire stesso della politica agricola comune” (3° considerando), indussero la Comunità ad istituire per un periodo di cinque anni un prelievo supplementare sui quantitativi di latte raccolti oltre un limite di garanzia predeterminato. Il Reg. (CEE) n. 856/84 del Consiglio del 31 marzo 1984 che modifica il Reg. n. 804/68 relativo all’organizzazione comune dei mercati nel settore del latte e dei prodotti lattiero-caseari segna dunque l’atto di nascita del regime delle quote latte. Per questa sua peculiarità merita di essere riprodotto in parte qui di seguito: “Articolo 1 Il regolamento (CEE) n. 804/68 è completato dal seguente articolo: « Articolo 5 quater 1. Durante cinque periodi consecutivi di 12 mesi con inizio dal 1° aprile 242 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 1984, è istituito un prelievo supplementare a carico dei produttori o degli acquirenti di latte di vacca. Questo prelievo ha lo scopo di mantenere sotto controllo la crescita della produzione lattiera pur permettendo gli sviluppi e gli adeguamenti strutturali necessari, tenendo conto della diversità delle situazioni nazionali, regionali e delle zone di raccolta nella Comunità. Tuttavia il primo periodo inizia il 2 aprile 1984 ...”. Le nuove disposizioni prevedevano che il prelievo era dovuto da ogni produttore di latte consegnato che superasse il proprio quantitativo di riferimento (formula A) o dall’acquirente per i quantitativi consegnati in esubero dal produttore, salvo regresso (formula B). Il prelievo era dovuto anche sulle vendite dirette in eccedenza. Il quantitativo globale garantito, stabilito con riferimento al latte commercializzato nel 1981 aumentato dell’1%, ammontava a 98,2 milioni di tonn. di latte o equivalente latte. Tale quantitativo era ripartito tra i 10 Stati membri, salvo per 335 mila tonn. previste come riserva comunitaria. All’Italia era assegnato un quantitativo globale garantito (QGG) di 8.323.000 tonn., avendosi avuto riguardo alle consegne 1983, “considerando che in Italia la raccolta lattiera 1981 è stata la più scarsa degli ultimi dieci anni” (9° considerando). L’importo del prelievo era demandato a successivo provvedimento su proposta della Commissione. Su tale regolamento (e sulle relative disposizioni attuative reg. (CEE) n. 857/84, n. 1374/84, n. 1546/88) non vale la pena di scendere in ulteriori dettagli perché il regime delle quote latte - nonostante l’adozione di un apposito regolamento con D.M. 7 giugno 1989, n. 258 - non ha trovato pratica applicazione in Italia sino a metà anni ‘90. Infatti la legge 10 luglio 1991, n. 201, ha espressamente disposto che “Gli obblighi derivanti dalle disposizioni in materia di prelievo supplementare sul latte di vacca di cui al regolamento CEE n. 804/68 del 27 giugno 1968 e s.m.i., si applicano a partire dal periodo 1991- 1992 su tutto il territorio nazionale” (art. 1, comma 3), poi ulteriormente differito. L’inadempienza così perpetrata alle regole comunitarie non è però restata senza costi, avendo dovuto la stessa legge addossare alla gestione finanziaria dell’AIMA “i saldi contabili con la Cee derivanti dalla definizione delle procedure previste dalla normativa comunitaria e concernenti il prelievo supplementare sul latte di vacca dovuto per i periodi dal 1987-1988 al 1991- 1992” (comma 9). La disposizione si era resa necessaria perché nel frattempo l’Italia era stata condannata dalla Corte di Giustizia CE con sentenza del 17 giugno 1987 e la Corte dei Conti aveva avviato un giudizio di responsabilità amministrativa nei confronti dei Ministri dell’Agricoltura dell’epoca (2). (2) Su queste vicende si veda la puntuale ricostruzione contenuta nella Relazione approvata con deliberazione n. 20/2012/G della Corte dei Conti - Sezione centrale di controllo sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato. V. anche la successiva deliberazione n. 11/2013/G. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 243 Con l’art. 12 della legge 26 novembre 1992, n. 468, che definisce la ritardata attuazione del regime comunitario come “atto di indirizzo di politica economica in agricoltura al fine di tutelare l’utilità sociale” e con l’accordo Ecofin del 21 ottobre 1994, con cui l’Italia accetta di pagare 3.620 miliardi per prelievi supplementari e, più precisamente, per la campagna 1989, lire 397,8 miliardi; per quella 1990, lire 531,4 miliardi; per quella 1991, lire 615 miliardi; per quella 1992, lire 602 miliardi e, per quella 1993, lire 627 miliardi, questa prima fase del regime in Italia può dirsi conclusa. 4. La citata legge 26 novembre 1992, n. 468, segna l’inizio dell’attuazione in Italia del regime delle quote latte, in dichiarata applicazione dell’art. 5-quater del Reg. (CEE) n. 804/68. La legge prevede: a) attribuzione ai produttori di latte di una quota A, pari alla produzione dichiarata nel periodo 1988-1989 e di una quota B, pari alla maggiore quantità commercializzata nel periodo 1991-1992 (art. 2) b) gestione unitaria delle quote da parte delle associazioni dei produttori per gli aderenti a queste (art. 3) c) pubblicazione annuale entro il 31 gennaio da parte di AIMA in appositi bollettini provinciali degli elenchi aggiornati delle quote spettanti ai singoli produttori (art. 4) d) obbligo degli acquirenti di dichiarare i quantitativi di latte ritirato (mod. L1) e di trattenere il prelievo sulle eccedenze di produzione rispetto alla quota del conferente (art. 5) e) controllo delle Regioni e Province autonome sull’applicazione del regime da parte di acquirenti, produttori e associazioni (art. 8) f) trasferibilità della quota a titolo di cessione o affitto anche senza alienazione della terra e previsione di una riserva regionale (art. 10) g) sanzioni amministrative di competenza regionale (art. 11). L’avvio del regime ha incontrato subito difficoltà, sia per l’oggettiva insufficienza del QGG rispetto al fabbisogno interno e alla stessa produzione nazionale, sia per le resistenze degli allevatori, sia per l’inadeguatezza della gestione affidata ad UNALAT e alle altre associazioni (v. DM n. 258/1989 cit.). Così per rientrare nei limiti del quantitativo globale garantito e agevolare l’operatività del regime, con d.l. 23 dicembre 1974, n. 727, conv. in l. n. 46/1995, fu disposto il taglio percentuale della quota B (art. 2) e fu consentito ai produttori di autocertificare le proprie produzioni (art. 2-bis), provvedimenti questi che si ripercuoteranno sul seguito della gestione. Inoltre, nell’immediato prendeva corpo la modifica della regolamentazione comunitaria con l’entrata in vigore, nell’ambito della riforma della PAC, del nuovo Reg. (CEE) n. 3950/92 del Consiglio del 28 dicembre 1992, che prorogava il regime di ulteriori sette anni e apportava diversi aggiustamenti al sistema, con conseguente necessità di 244 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 adattamenti della normativa nazionale appena approvata. Il QGG veniva fissato per l’Italia a tonn. 10.100.482,000 per consegne e a tonn,. 213.578,000 per vendite dirette, con previsione di lievi aumenti per i periodi successivi. Tutto ciò non impedì lo sforamento del QGG, anche se l’impatto sulle singole posizioni fu attenuato dal sistema di compensazione in APL, che portava ad una sistemazione in sede associativa locale: la compensazione avveniva cioè nell’ambito delle singole associazioni tra i loro aderenti il che poteva consentire agli stessi, a conoscenza della realtà produttiva, di meglio regolare la propria produzione. Peraltro questo sistema non era in linea con la regolamentazione comunitaria e perciò, su pressione della Commissione, l’Italia addivenne alla sua soppressione e sostituzione con quello generale della compensazione nazionale ad opera di AIMA. Ciò fu disposto prima con dd.ll. 16 maggio 1996, n. 260, 8 luglio 1996, n. 353 e 6 settembre 1996, n. 463, non convertiti (era l’epoca in cui i decreti potevano essere reiterati) e poi con d.l. 23 dicembre 1996, n. 552, convertito nella legge n. 642/1996 (che faceva anche salvi gli effetti dei decreti precedenti) con decorrenza dal periodo 1995-1996 e obbligo di versamento del prelievo entro il 31 gennaio 1997 (art. 3). La reazione degli allevatori e del mondo agricolo fu violenta culminando nel blocco con trattori, produttori, agricoltori e mucche delle vie di accesso all’aeroporto di Linate (MI) e di altre strutture pubbliche e sfociando in molte assemblee di protesta. La contestazione partiva dal fatto innegabile che la modifica interveniva a campagna già terminata ma era al contempo radicale investendo lo stesso regime delle quote e la sua concreta attuazione, lamentandosi l’asserita ritardata pubblicazione dei bollettini, la loro scarsa conoscibilità, la non corrispondenza delle quote alle produzioni storiche o l’esistenza di quote di carta e di allevatori fantasma (quale la famosa stalla di piazza di Spagna a Roma) e naturalmente investiva l’entità stessa della effettiva produzione nazionale, che si diceva gonfiata o affetta da conteggi errati. La risposta del Governo fu tempestiva e ferma e si articolò in una serie di misure e decreti volti a ripristinare chiarezza e legalità nel settore attraverso la previsione della comunicazione individuale dei quantitativi di riferimento, l’accertamento della quantità di latte effettivamente prodotto nei periodi in questione, l’aggiornamento in contraddittorio delle singole quote spettanti, l’istituzione di una Commissione governativa di indagine sulle eventuali irregolarità di gestione del regime e la realizzazione di una Banca dati unica bovina (art. 1, commi 28 e 36, d.l. n. 11/1997, conv. in l. n. 81/1997). In pratica, la Commissione governativa di indagine, presieduta dal Gen. GdF Lecca, procedette alla individuazione delle principali anomalie ed irregolarità verificatesi nella gestione del regime (quali preventivamente esemplificate dall’art. 2, comma 1, d.l. n. 411/1997, conv. in l. n. 5/1998: mod. L1 non firmati o apocrifi, o privi dell’indicazione dei capi bovini, o contenenti LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 245 quantità di latte non compatibile con la consistenza di stalla, o rivelanti contratti di circolazione delle quote anomali, o con codici fiscali e partite IVA errate o inesistenti). Sulla base della Relazione della Commissione governativa di indagine, delle risultanze della rilevazione straordinaria dei capi bovini del Ministero della Sanità, di cui al d.l. n. 130/1997, dei controlli regionali nonché all’esito dei ricorsi di riesame presentati dai produttori e sotto la supervisione dell’apposita Commissione di Garanzia (istituita dall’art. 4-bis, d.l. n. 411/1997 cit.), l’AIMA provvide a rideterminare le quantità di latte prodotte e i quantitativi di riferimento spettanti per i periodi 1995-1996, 1996-1997, 1997-1998 e 1998-1999 e procedette alla rettifica delle relative compensazioni nazionali, ai sensi dell’art. 1 del d.l. n. 43/1999, conv. in l. n. 118/1999. “I risultati delle compensazioni nazionali effettuate ai sensi del presente articolo sono definitivi ai fini del pagamento del prelievo supplementare, dei relativi conguagli e della liberazione delle garanzie fideiussorie-surrogatorie” salvo per coloro che avessero promosso ricorso amministrativo o giurisdizionale, le cui decisioni peraltro “non producono effetti sui risultati complessivi delle compensazioni stesse, che restano fermi nei confronti dei produttori estranei ai procedimenti nei quali sono state emesse” (art. 1, commi 12 e 13, d.l. n. 43/1999 cit.) e ciò al fine di evitare che la correzione anche di una sola posizione si ripercuotesse sull’intera operazione nazionale. Ugualmente si procedette per i periodi successivi, essendosi estesa a questi la suddetta disciplina (art. 1, comma 5, d.l. 4 febbraio 2000, n. 8, conv. in l. n. 79/2000; v. anche art. 8, d.l. n. 268/2000, conv. in l. n. 354/2000). Nel contempo, il Ministro dell’agricoltura dell’epoca, on. prof. De Castro, si era attivato per un congruo aumento del QGG (Reg. (CE) n. 1256/1999 del Consiglio del 17 maggio 1999), affluito in riserva nazionale e riassegnato dalle Regioni (art. 1, d.l. n. 8/2000). Si è trattato di uno sforzo politico, normativo e amministrativo considerevole con il quale si è riusciti a mettere un qualche ordine in un settore particolarmente complesso e la cui buona riuscita è stata certificata dai favorevoli esiti giudiziari successivi. Infatti, da una parte la Corte di Giustizia e la Corte Costituzionale hanno riconosciuto la legittimità comunitaria e costituzionale della normativa approvata, dall’altra il TAR Lazio e il Consiglio di Stato hanno respinto la maggior parte dei ricorsi proposti dai produttori contro le operazioni effettuate dall’AIMA in applicazione della suddetta legislazione (v. oltre n. 6). 5. Superata l’emergenza, è apparso giunto il tempo per una più generale e organica riforma, sia al fine di assicurarne la coerenza con la nuova regolamentazione comunitaria sia per recepire le raccomandazioni in materia del Parlamento e della Corte dei Conti, sia per far tesoro dell’esperienza acquisita. 246 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 Pertanto con d.l. 28 marzo 2003, n. 49, conv. in legge n. 119/2003, è stata approvata la riforma della legge n. 468/1992 sulla applicazione del prelievo supplementare nel settore del latte e dei prodotti lattiero-caseari. La legge ridefinisce i compiti di Agea e Regioni, conferma che la quota spettante è quella storica, istituisce il Registro delle quote, conferma la comunicazione individuale, prevede la revoca di quota per mancato utilizzo, disciplina il riconoscimento degli acquirenti, accorda una favorevole rateizzazione, stabilisce regole stringenti per la circolazione delle quote, ma soprattutto innova prevedendo l’obbligo di trattenuta e di versamento mensile da parte degli acquirenti del prelievo dovuto e le operazioni di restituzione e compensazione al termine del periodo entro il 31 luglio. Si conferma altresì la blindatura dei risultati complessivi delle suddette operazioni in caso di contenzioso (art. 9, comma 7). Infine con D.M. 31 luglio 2003 sono state prontamente emanate le relative norme applicative. Anche questa volta è sopravvenuto nel giro di pochi mesi un aggiornamento della normativa comunitaria, con Reg. (CE) 29 settembre 2003 n. 1788/2003, che ha prorogato di altri sette anni il regime delle quote latte, portandolo alla fatidica data finale del 31 marzo 2015 e prevedendo in via obbligatoria la trattenuta del prelievo supplementare da parte dell’acquirente (prima era solo una facoltà). Altre modifiche riguardano la riserva nazionale, la revoca della quota per sottoutilizzazione, il riconoscimento degli acquirenti, la circolazione delle quote, le vendite dirette. Le modalità di applicazione sono state dettate con Reg. (CE) n. 595/2004 della Commissione del 30 marzo 2004. È seguito, senza sostanziali modifiche, il Reg. (CE) n. 1234/2007 del Consiglio, recante l’OCM dei mercati dei prodotti agricoli (regolamento unico), che ha confermato la proroga del regime ed ha rideterminato il QGG in tonn. 11.288.543,466, dal 2009-2010 alla fine (All. IX). Nei periodi successivi alla riforma la produzione lattiera si è venuta assestando, anche per la maggior presa di coscienza della gran parte dei produttori e il supporto delle maggiori Confederazioni agricole, sino al punto che a partire dal 2008-2009 e fino al 2013-2014 non si è verificato alcun sforamento del QGG. A tale risultato ha contribuito anche un nuovo intervento del Governo che ha adottato il d.l. 10 febbraio 2005, n. 5, convertito con modificazioni nella legge n. 33/2009, con cui, “al fine di consolidare la vitalità economica a lungo termine delle imprese, accelerare le procedure di recupero obbligatorio degli importi del prelievo latte dovuti dai produttori e deflazionare il relativo contenzioso” (art. 8-quater, c. 1), si è, fra l’altro, proceduto ad assegnare gli ulteriori aumenti del QGG accordati all’Italia dai Reg. (CE) n. 248/2008 e n. 72/2009 prioritariamente alle aziende in attività che avevano realizzato consegne di latte non coperte da quote nel periodo 2007-2008 (art. 8-bis). Tale assegnazione è però avvenuta sotto condizione risolutiva che queste provvedessero al pagamento del prelievo intimato o ne chiedessero la sua rateizzazione alle condizioni previste rinunciando contestualmente al contenzioso in atto (art. 8- LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 247 quinquies). Altra importante innovazione è stata l’istituzione del Registro nazionale dei debiti nel quale devono essere iscritti “tutti gli importi accertati come dovuti da produttori agricoli risultanti dai singoli registri debitori degli organismi pagatori riconosciuti… nonché quelli comunicati dalle regioni… connessi a provvidenze e aiuti agricoli dalle stesse erogati”. Essa vale come iscrizione a ruolo ai fini della procedura di recupero coattivo (art. 8-ter). Soltanto nell’ultimo periodo si è ripresentato il fenomeno dello sforamento del QGG con un prelievo di circa 32 mln di euro e il Governo è nuovamente intervenuto concordando con la Commissione UE una rateizzazione in tre annualità del prelievo dovuto per tale periodo 2014-2015 e fissando ulteriori regole per le restituzioni relative a questo ultimo periodo foriere di ulteriori ricorsi da parte dei produttori penalizzati e misure di sostegno al settore “anche in relazione al superamento del regime europeo delle quote latte” (d.l. 5 maggio 2015, n. 51, convertito in l. n. 91/2015). 6. Il contenzioso che ha attraversato tutto il periodo di applicazione nazionale del regime delle quote-latte si può sintetizzare in quattro fasi (3). La prima ha riguardato la normativa nazionale di recepimento del regime e si è consumata soprattutto avanti alla Corte Costituzionale. Questa infatti è stata chiamata a pronunciarsi, in via incidentale, già sulla legittimità costituzionale del differimento dell'applicazione del regime disposto con il D.L. n. 201/1991 (sentenza 7 maggio 1996, n. 146). Poi ha dichiarato non fondate le questioni del taglio della quota B e dell'autocertificazione di cui al D.L. n. 727/1994, accogliendo invece quelle relative al mancato coinvolgimento delle Regioni (sent. 28 febbraio 1995, n. 520). Quindi ha respinto le questioni riguardanti la legittimità delle disposizioni sulla titolarità e cessione delle quote, di cui all’art. 10, commi 1 e 2, legge n. 468/1992 (sent. 6 aprile 1998, n. 100) e quelle sul d.l. n. 552/1996 e relativa legge di conversione, con cui si era inteso porre rimedio alla precedente dichiarazione di incostituzionalità (sent. 11 dicembre 1998, n. 398). Infine la Corte si è pronunciata in senso favorevole sia sul d.l. n. 411/1997 sia sul d.l. n. 43/1999 (sent. 7 luglio 2005, n. 272). Tale pronuncia ha segnato una svolta decisiva, perché seguiva di poco la importante sentenza della Corte di Giustizia CE 26 marzo 2004 in causa 480- C, che ha riconosciuto natura non sanzionatoria ma di misura di regolazione del mercato al prelievo e quindi la possibilità ed anzi doverosità della correzione della procedura seguita, applicabile anche retroattivamente, non potendosi fare affidamento sulla permanenza di disposizioni contrastanti con la normativa comunitaria. In precedenza la Corte Costituzionale ha dichiarato infondate le questioni (3) Una ricognizione di giurisprudenza e dottrina in materia si può trovare in C. RUPERTO, La giurisprudenza sul codice civile. Coordinata con la dottrina. Libro V, Giuffrè 2012, 457. 248 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 di incostituzionalità dell’art. 10, d.l. n. 49/2003, sulla nomina di un Commissario straordinario alle quote latte (sent. n. 8 luglio 2004, n. 240). La seconda fase ha riguardato alcuni profili pregiudiziali quali la giurisdizione sulle vertenze in materia e la legittimazione attiva. Inizialmente i produttori e talora i primi acquirenti, responsabili in solido per il versamento del prelievo, hanno impugnato i provvedimenti di attribuzione delle quote o di determinazione del prelievo in esito alle operazione di compensazione nazionale avanti ai giudici ordinari, che in varie sentenze hanno effettivamente accolto tali ricorsi. Successivamente però è prevalso l’orientamento secondo cui la giurisdizione spettava al giudice amministrativo per gli elementi di discrezionalità presenti nei procedimenti e nei provvedimenti relativi, rimanendo anche escluso ogni profilo sanzionatorio del prelievo (v. Cass. SS.UU. n. 20252, 20253, 20254 del 2004; n. 7145, 8089, 9291 e numerose altre del 2005). È peraltro avvenuto che il Legislatore, con l’art. 1, comma 551, l. 30 dicembre 2004, n. 311 (legge finanziaria 2005) abbia disposto che “I provvedimenti amministrativi relativi a misure comunitarie sono impugnabili con i rimedi previsti dalla legge 24 novembre 1981, n. 689”. Tale disposizione che spostava la giurisdizione a favore del G.O. è stata abrogata, per mutati indirizzi politici, dall’art. 2-sexies, d. l. 26 aprile 2005, n. 63, convertito con modificazioni dalla l. n. 109/2005, che ha stabilito che “le controversie relative all’applicazione del prelievo supplementare nel settore del latte e dei prodotti caseari sono devolute alla giurisdizione esclusiva dei giudici amministrativi competenti territorialmente” (norma ora messa a regime dall’art. 133, comma 1, lett. t, cod. proc. amm.), aggiungendo che i giudizi civili precedentemente promossi “restano devoluti alla competenza dei giudici ordinari”, con la conseguenza che la giurisdizione per il periodo anteriore alla data di entrata in vigore della legge resta al G.O. limitatamente ai soli casi in cui questi l’avesse avuta (Cass. S.U. 29 novembre 2005, n. 25889; v. però Trib. Mantova 26 giugno 2006). Una competenza residua del G.O. è rimasta per le controversie relative alla spettanza del diritto alla quota in base ai criteri previsti dalla legge (Cass. S.U., 12 ottobre 2011, n. 20929 e 20930). Quanto alla legittimazione a ricorrere, è ormai giurisprudenza consolidata del TAR Lazio e del Consiglio di Stato che questa spetta al produttore e non anche al primo acquirente. La terza fase ha riguardato il merito dei giudizi promossi contro l’attribuzione delle quote di riferimento individuale o la determinazione del prelievo supplementare. In queste controversie sono state sollevate numerose questioni, oltre a quelle sopra indicate, basate su presunti vizi formali dei provvedimenti conclusivi, o sulla asserita inattendibilità dei dati presi a base delle operazioni di compensazione nazionale (valorizzandosi a tal fine anche un Rapporto del Nu- LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 249 cleo Carabinieri Politiche Agricole dell’aprile 2010 rimasto peraltro senza seguiti e disatteso dalle Autorità competenti), o per la pretesa insufficienza dei controlli o ancora per contrasto con la normativa comunitaria (come per la previsione di categorie prioritarie nella compensazione nazionale, smentito dalla stessa Commissione europea con nota 7 luglio 2010) o per errori nel calcolo degli interessi dovuti ecc. Salvo che per quest’ultimo aspetto, limitatamente al dies a quo, la giurisprudenza amministrativa formatasi dal 2011 in poi si è espressa unanimemente, in numerosissime sentenze, nel senso della infondatezza di tutte tali eccezioni, pur riconoscendosi che il sistema aveva avuto un avvio difficile (v. TAR Lazio, II ter, n. 4014/2012, n. 6557/2013; C. Stato, III, n. 4428, 5065, 5066, 5322/2013, n. 2041, 3478, 3743/2014 ). Si apprende da notizie di stampa che sono stati presentati ricorsi alla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo per denunciare la retroattività delle prime compensazioni nazionali e l’insufficienza dei controlli (4). La quarta fase riguarda le vertenze promosse contro l’attività di recupero dei prelievi non pagati (v. n. succ.). 7. Il problema della riscossione effettiva dei prelievi dovuti e non versati si è venuto manifestando in tutta la sua gravità specie nella coda del regime, non avendo avuto esito positivo, se non parzialmente, le procedure di rateizzazione, messe in campo dal Governo a seguito di accordi in sede comunitaria e previste dall’art. 10, comma 34, d.l. n. 49/2003 (fino a 30 anni, senza interessi) e dall’art. 8-quater, d.l. n. 5/2005 (da 13 a 30 anni a seconda dell’entità del debito, con rilevanti interessi a tasso calcolato dalla Commissione europea). In particolare quest’ultima disposizione ha collegato l’assegnazione di quote aggiuntive in favore di chi aveva prodotto in eccesso al pagamento del debito pregresso, anche tramite rateizzazione, sotto pena, in caso di inadempienza, della revoca di tali quote e dell’avvio della procedura esecutiva mediante ruolo, demandata ad Agea, con le forme dell’esecuzione esattoriale, che a tal fine si avvale del Corpo della Guardia di Finanza e di Equitalia, in base a convenzione. La proroga dei termini previsti in dette disposizioni (art. 2, comma 12- duodecies, d.l. n. 225 del 29 dicembre 2010, convertito con modificazioni dalla l. n. 10/2011) ha determinato la condanna da parte della Commissione europea per aiuto di Stato, peraltro annullata su ricorso dell’Italia dal Tribunale dell’UE, con sentenza del 24 giugno 2015 nella causa T-527/13. Altro sistema, più spedito e più efficace, di recupero dei prelievi dovuti è costituito dalla possibilità di compensare tali crediti con i contributi comu- (4) La Tribuna di Treviso - 23 marzo 2015. 250 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 nitari spettanti ai produttori a qualsiasi titolo (art. 01, comma 16, d.l. 10 gennaio 2006, n. 2, conv. in l. n. 81/2006), operazione questa ora agevolata dalla istituzione del Registro nazionale dei debiti (art. 8-ter, d.l. n. 5/2009). Nonostante tutto ciò, l’attività di recupero dei prelievi ha continuato a presentare aspetti di lentezza al punto da costituire oggetto di ripetute critiche da parte della Corte dei Conti, da ultimo con le deliberazioni della Sezione di controllo sulla gestione delle Amministrazioni dello Stato n. 12/2014/G del 9 ottobre 2014, in cui “si constata ancora una volta, un’inerzia ed una prassi amministrativa non conformi alla necessità di una decisa attività di recupero” e n. 11/2013/G del 21 novembre 2013, in cui si segnala “l’assenza di una inversione di tendenza nei recuperi e l’inerzia amministrativa che accompagna e fornisce linfa alle aspettative dei produttori inadempienti”. Di più, per il mancato recupero dei prelievi, la Commissione europea ha avviato una apposita procedura di infrazione (n. 2013/2092) contro l’Italia con parere motivato del 10 luglio 2014, prot. 4686, cui ha fatto seguito - nonostante l’argomentata risposta italiana del 13 ottobre 2014 - il deferimento dell’Italia alla Corte di Giustizia, per non aver preso le misure opportune per recuperare il prelievo dovuto dai singoli produttori, creando così distorsione nella concorrenza. Si ricorda al riguardo che il Consiglio UE aveva autorizzato l’Italia ad anticipare il versamento del prelievo dovuto per i periodi dal 1995-1996 al 2001-2002 salvo regresso (decisione 2003/530/CE). Le attività di recupero coattivo sono riprese all’inizio del 2015, dopo l’approvazione del modello di cartella di pagamento da parte dell’Agenzia delle Entrate, con provvedimento 28 agosto 2014, sulla base di una prima convenzione con Equitalia, ma subito è montata l’onda dei ricorsi in opposizione all’esecuzione e agli atti esecutivi da parte dei produttori destinatari delle cartelle. I principali motivi dedotti risultano riguardare: nullità o inesistenza della notifica, irregolarità della iscrizione a ruolo, carenza della motivazione, errori negli interessi, difetto dei presupposti di legge, altri vizi formali quando non si ripropongono le vecchie contestazioni di merito. Tali ricorsi si aggiungono a quelli proposti ai TAR avverso la ripresa delle attività di recupero per mancata conclusione del procedimento di rateizzazione per inadempienza del produttore, al fine di ottenerne la sospensione, su cui si annoverano alcune interessanti ordinanze del TAR Lombardia-sezione staccata di Brescia, tra cui quella del 24 luglio 2015, n. 1420/2015, la quale sottolinea come dopo le recenti iniziative della Commissione europea, “l’interesse nazionale non consente di inserire delle pause nella procedura di recupero del prelievo supplementare, né di mantenere senza necessità tempi di recupero troppo lunghi”. 8. In conclusione, deve riconoscersi che dopo un inizio difficile, l’Italia ha fatto ogni possibile sforzo per applicare ragionevolmente un regime che si LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 251 appalesava contrario agli interessi italiani, vista la deficienza strutturale della produzione nazionale rispetto al fabbisogno interno. Guardando retrospettivamente quanto è accaduto, non ci si può esimere dal constatare come il regime sia stato caratterizzato da una conflittualità senza pari anche nel complesso mondo agricolo, che ha visto contrapposti produttori in regola a produttori senza scrupoli, con in mezzo produttori che hanno fatto sacrifici per mettersi a posto anche comprando quote a caro prezzo. Così come va riconosciuto l’impegno dell’amministrazione, Ministero e Aima/Agea, di cercar di governare un sistema ingestibile. Se si può trarre un insegnamento da tutta questa vicenda è che forse si potevano trovare altre misure di regolamentazione del mercato, come ci si è avviati a fare ora dopo la fine del regime delle quote latte, con il Reg. (CE) 17 dicembre 2013 n. 1308/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio di approvazione della nuova PAC, che, tra le misure adottate per garantire lo sviluppo sostenibile della produzione e assicurare un tenore di vita equo ai produttori di latte, ha previsto il rafforzamento del potere contrattuale della categoria consentendo “alle organizzazioni di produttori costituite da produttori di latte, o alle loro associazioni, di negoziare collettivamente con le latterie le condizioni contrattuali, in particolare il prezzo, per la totalità o per una parte della produzione di latte crudo dei loro membri” (128° considerando). Sta di fatto che, allo stato, quel che resta del regime, è questo contenzioso residuo, ultimo vano tentativo di una frangia di “ irriducibili” di opporsi alla inevitabile resa dei conti con la storia, che ormai guarda avanti (5). Intanto sul settore già si addensano altre pesanti nubi di “una tempesta perfetta”, creata dall’effetto congiunto del crollo della domanda estera, unita all’embargo russo e alla fine del regime delle quote latte, con conseguenti nuove azioni di protesta degli allevatori (6). Evidentemente, la soluzione definitiva non può passare solo per le aule giudiziarie. (5) Sulla dichiarazione obbligatoria mensile dei primi acquirenti a partire dal 1° aprile 2015, v. D. Mipaaf 7 aprile 2015, in G.U. n. 115 del 20 maggio 2015. (6) A. ROMEO, Caos prezzi, piano EU da 500 milioni - Il Sole 24 Ore, Impresa & Territori, 8 settembe 2015, p. 74; F. BASSO, Perché il latte in Italia costa più caro e le stalle sono in crisi - Corriere della Sera, 8 settembre 2015, p. 22. 252 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 Una pausa di riflessione sull’art. 51 T.U.E.L.: interruzione della continuità del mandato di sindaco in caso di gestione commissariale Ilaria Tortelli, Roberto Di Renzo* Pennadomo, un piccolo comune di circa 300 abitanti in provincia di Chieti, è stato al centro di un contenzioso di interesse nazionale. La vicenda giudiziaria, durata oltre due anni, ha inizio nel novembre del 2012 ed ha per oggetto la corretta applicazione del regime dell’ineleggibilità del sindaco al terzo mandato consecutivo. I FATTI. Il primo mandato del Sindaco di Pennadomo dura più di 2 anni, sei mesi e un giorno; e, più precisamente, ha inizio il 13 giugno 2004 e termine il 29 marzo 2007, con il provvedimento del Ministro dell’Interno che scioglie il Consiglio comunale e nomina il Commissario Straordinario ai sensi del D.lgs. n. 267/2000. Esaurito il periodo di commissariamento, all’esito della tornata elettorale, viene riconfermato il medesimo Sindaco che stavolta resta in carica dal 14 aprile 2008 per tutti i cinque anni di mandato. In prossimità della scadenza di questo secondo mandato, il Sindaco chiede al Prefetto se può candidarsi per la terza volta. Il ragionamento è questo. L’art. 51, comma 2, del D.lgs. n. 267/2000, prevede che ; nel caso di specie, invece, il periodo di commissariamento del Comune, dal 29 marzo 2007 al 14 aprile 2008, avrebbe interrotto la sequenza dei mandati e non potrebbe perciò essere applicato il divieto di eleggibilità al terzo mandato consecutivo. Il problema posto con il quesito, dunque, è sostanzialmente se il periodo di gestione commissariale, intervenuto tra il primo e il secondo mandato, abbia o non abbia interrotto la continuità tra detti incarichi, e, di conseguenza se nel caso di specie ricorra o meno la fattispecie di terzo mandato consecutivo alla carica di sindaco vietato dall’art. 51, comma 2, del D.lgs. n. 267/2000. Al quesito il Prefetto risponde negativamente richiamando il parere del Ministero dell’Interno 15900/TU/00/51 del 23 febbraio 2008 motivato per relationem con la sentenza della Cassazione n. 13181 del 5 giugno 2007. Il Sindaco si dichiara insoddisfatto, giudicando il proprio caso “difforme” (*) Ilaria Tortelli, Viceprefetto, Ufficio stampa e comunicazioni Ministero dell’Interno. Roberto Di Renzo, assistente presso il Gabinetto del Ministro dell’Interno. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 253 da quello richiamato nel parere del Ministero dell’Interno e conferma, pertanto, la volontà di ricandidarsi alla carica, con il dichiarato obiettivo della rielezione. Il Prefetto rivolge alla Direzione Centrale delle Autonomie Locali del DAIT un quesito più circostanziato, senza però ottenere risposta. A trarre d'impaccio la Prefettura e la Direzione Centrale per le Autonomie Locali è la sottocommissione elettorale di Atessa che, chiamata ad esaminare le liste, ammette la «candidatura». Il sindaco uscente così partecipa alle elezioni comunali del 26 e 27 maggio 2013 e viene riconfermato con il 48,40% dei voti; quindi, nella prima seduta dell’8 giugno 2013 il Consiglio Comunale delibera la convalida degli eletti e concede il definitivo via libera all’insediamento del Sindaco. A questo punto il Prefetto chiede all'Avvocatura dello Stato di valutare "la possibilità di promuovere l'azione di decadenza del sindaco” il quale “potrebbe essere incorso nella fattispecie del divieto di terzo mandato, ai sensi dell'articolo 51 del Tuel". Sul punto l’Avvocatura si esprime nel senso che nel caso specifico l'«ineleggibilità » del sindaco deve essere esclusa "in quanto tra i due mandati è intervenuta una gestione commissariale che deve ritenersi utile ad interrompere la continuità dei mandati richiesti ai fini della disposizione in esame". Nel frattempo due Consiglieri di opposizione promuovono un'Azione popolare presso il Tribunale civile di Lanciano con cui chiedono “dichiararsi la «ineleggibilità» del sindaco di Pennadomo”. Il Tribunale di Lanciano però rigetta il ricorso e convalida l'elezione del Sindaco. L’ordinanza si basa sul principio che la limitazione al diritto di elettorato passivo prevista dalla norma ha carattere eccezionale e, nel dubbio, va interpretata in senso favorevole all’eletto; nella motivazione il Tribunale cita anche la sentenza n. 13181 della Cassazione del 5 giugno 2007 e il parere del Ministero del 23 febbraio 2008 per escludere la consecutività dei due mandati elettorali, intervallati da una gestione commissariale, in quanto anche in questo caso verrebbe meno il motivo che fa presumere l’esistenza di un vantaggio per il Sindaco ricandidato. I due Consiglieri di opposizione però insistono presentando ricorso alla Corte d’Appello dell'Aquila. Con la sentenza dell’8 aprile 2014 la Corte ribalta completamente la decisione del Tribunale di Lanciano. A tal fine sostiene che il contenuto precettivo dell’articolo 51, comma 2 del D.lgs n. 267/2000 è di porre una causa tipizzata (elezioni e non commissariamento) preclusiva della eleggibilità e non già della candidabilità; la norma, infatti, parla di successione di mandati, non di continuità dell’espletamento delle funzioni pubbliche. Insomma, per la Corte di Appello dell'Aquila è necessario e sufficiente attenersi al computo dei giorni in cui il sindaco è rimasto in carica. 254 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 Il Prefetto di Chieti, quindi, avvia subito le procedure per lo scioglimento del Consiglio Comunale inoltrando la richiesta al Ministero dell’Interno. A questo punto i legali dei due Consiglieri ricorrenti chiedono alla Prefettura e alla Direzione Centrale per le Autonomie l’immediato Commissariamento del Comune citando la sentenza della VI sezione del Consiglio di Stato del 9 ottobre 2007 n. 5309 e una circolare del 2007 del Ministero dell’Interno in cui si afferma che la permanenza del Consiglio e della Giunta in regime di prorogatio sine alle nuove elezioni e la sostituzione del sindaco con il suo vice, a seguito di una competizione elettorale definita «non genuina», «non rappresentano una adeguata risposta ad una situazione di chiara, consapevole illegalità, rappresentata dalla violazione del divieto di elezione al terzo mandato». La Direzione Centrale delle Autonomie locali del D.A.I.T. risponde al Prefetto di Chieti, richiamando il parere n. 1392 del 22 maggio 2002 con cui il Consiglio di Stato afferma che «solo la sentenza passata in giudicato o la sentenza di ultima istanza determina un accertamento definitivo della decadenza... ». Quindi occorre attendere, ove richiesto, il definitivo pronunciamento della Corte di Cassazione. “Nel frattempo - ricorda la Direzione delle Autonomie - l’efficacia esecutiva della sentenza di secondo grado con la quale il sindaco è stato dichiarato decaduto dalla carica comporta l’affidamento delle funzioni sindacali al vice sindaco ...”. I legali del sindaco dichiarato decaduto ricorrono intanto alla Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione che, nel respingere il ricorso con un giudizio piuttosto severo nei confronti del sindaco illegittimamente eletto nel 2013, conferma in pieno la sentenza della Corte d’Appello. Secondo la Corte il computo temporale dei due mandati, da considerare interi nel caso di specie, esclude l’applicabilità dell’eccezione al limite del terzo mandato introdotta dal 3° comma dell’art. 51. La ratio della norma - ribadisce la Suprema Corte - è di «evitare l'alterazione della par conditio alle elezioni successive alla seconda e le rendite di posizione nelle funzioni di governo locale ... (v. Cass. n. 7949/2013). Rispetto a questa ratio, è evidente che la possibilità che durante uno dei mandati vi sia stata una gestione commissariale non incide sull'operatività della norma...». Con questa sentenza definitiva i legali dei consiglieri ricorrenti tornano a chiedere al Ministero dell’Interno lo scioglimento del Consiglio comunale e la nomina di un Commissario prefettizio per la gestione del Comune fino alle elezioni. Il 9 giugno 2015 il Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dell’Interno, scioglie il Consiglio Comunale di Pennadomo. Il provvedimento, però, è assunto ai sensi del comma 1, dell'art. 53, del D.l.vo n. 267/2000 che cita testualmente: “In caso di impedimento permanente, rimozione, decadenza o decesso del sindaco o del presidente della provincia, la Giunta decade e si procede allo scioglimento del consiglio. Il LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 255 consiglio e la Giunta rimangono in carica sino alla elezione del nuovo consiglio e del nuovo sindaco o presidente della provincia. Sino alle predette elezioni, le funzioni del sindaco e del presidente della provincia sono svolte, rispettivamente, dal vicesindaco e dal vicepresidente...”. CONCLUSIONI. La sentenza della Corte di Cassazione, che ha definitivamente chiuso la vicenda giudiziaria in esame, ha ribadito che l’articolo 51 del T.U.E.L. è una norma che limita il diritto di elettorato passivo e non è suscettibile di applicazioni analogiche. Pertanto la gestione commissariale non può ritenersi utile ad interrompere la continuità dei mandati. Inoltre con l’approvazione, il 3 aprile 2014, del ddl Delrio il limite del terzo mandato per i Comuni sotto ai 3mila abitanti (circa 4550) è stato abolito. Il rischio di un altro «caso Pennadomo» è quindi ormai superato, ma può comunque costituire un utile spunto per la formulazione di riflessioni “de iure condendo”. Infatti la vicenda giudiziaria di Pennadomo potrebbe portare ad un chiarimento definitivo anche per gli altri 3500 comuni, superiori ai 3 mila abitanti, per i quali, continuando ad applicarsi il divieto del terzo mandato, si potrebbero riproporre problemi interpretativi della normativa in vigore. 256 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 La finanza di progetto nell’affidamento della concessione di servizi Claudio Guccione* SOMMARIO: 1. Premessa - 2. La programmazione nei servizi - 3. I requisiti del promotore e del concessionario - 4. La presentazione della proposta - 5. La valutazione della proposta e la nomina del promotore - 6. La procedura di gara - 7. Conclusioni. 1. Premessa. Il project financing, come noto, rientra tra le forme di partenariato pubblico- privato (1) di tipo contrattuale (2), insieme alla concessione, al leasing pubblico ed al contratto di disponibilità (3). Tale modello contrattuale, con riguardo ai servizi, pur essendo astrattamente ipotizzabile sin dall’emanazione del d.lgs. 163/2006, è divenuto concretamente attuabile solo con l’emanazione e l’entrata in vigore del D.P.R. 207/2010, Regolamento di attuazione del Codice dei Contratti Pubblici: l’art. 152, comma 3, del Codice, infatti, espressamente prevede che «le disposizioni del presente capo si applicano, in quanto compatibili, anche ai servizi, con le modalità fissate dal regolamento». Eb- (*) Avvocato del libero Foro. Articolo pubblicato in “Finanza di progetto e partenariato pubblico privato. Temi europei, istituti nazionali e operatività” a cura di GIAN FRANCO CARTEI e MASSIMO RICCHI, Editoriale Scientifica, Napoli 2015. (1) Cfr. Libro Verde della Commissione europea relativo ai partenariati pubblico - privati ed al diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni (marzo 2004). Il d.lgs. 152/08 (terzo decreto correttivo al Codice dei contratti pubblici) ha introdotto anche nell’ordinamento italiano un’elencazione esemplificativa dei contratti di partenariato pubblico - privato (vd. art. 3, comma 15-ter, del d.lgs. 163/2006). Sul partenariato pubblico-privato, in generale, cfr. A. MASSERA, Il Partenariato Pubblico- Privato e il diritto europeo degli appalti, in Il Partenariato Pubblico-Privato, a cura di M.P. CHITI, Bologna, 2005. Più specificamente, sui profili economici e giuridici del project financing, con riferimento alla normativa anteriore al terzo decreto correttivo, cfr. tra gli altri C.E. GALLO, La finanza di progetto, in AA.VV., L’appalto di opere pubbliche, a cura di R. VILLATA, Padova, 2001; F. CARINGELLA, M. PROTTO, Il project financing, in AA.VV., La nuova disciplina dei lavori pubblici, a cura di F. CARINGELLA e G. DE MARZO, Milano, 2003; G. DE MARZO, M. BALDI, Il project financing nei lavori pubblici, Milano, 2004; AA.VV., La finanza di progetto con particolare riferimento ai profili pubblicistici, a cura di E. PICOZZA, Torino, 2005; AA.VV., Finanza di progetto, a cura di G. MORBIDELLI, Torino, 2004; AA.VV., Project financing e opere pubbliche, a cura di G.F. FERRARI e F. FRACCHIA, Milano, 2004; S. SAMBRI, Project financing, la finanza di progetto per la realizzazione di opere pubbliche, Padova, 2006. (2) Per una disamina delle forme di PPP ad iniziativa privata (project di lavori ex art. 153, co. 19, leasing in costruendo ex art. 153, co. 20, project di servizi ex art. 278 del D.P.R. n. 207/2010) si veda C. GUCCIONE, M. FERRANTE, Partenariato pubblico-privato, così le imprese possono proporre progetti ai comuni “un po’ pigri”, in Edilizia e Territorio, 2 giugno 2014. (3) DI PACE, La finanza di progetto, in I contratti con la Pubblica amministrazione, a cura di FRANCHINI, II, Torino, 2007, 1029; MALINCONICO, Il project financing, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da SANDULLI, DE NICTOLIS, GAROFOLI, IV, Milano, 2008, 2613; D. SPINELLI, Guida pratica contratti pubblici lavori, servizi, forniture, VI ed., Gruppo 24 ore, 548 ss. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 257 bene, con l’art. 278 del D.P.R. 207/2010 è stata data attuazione a tale norma ed il project financing è divenuto finalmente utilizzabile anche per l’affidamento delle concessioni di servizi (4). Prima di entrare nel merito dell’esame della disciplina dell’istituto, appare fondamentale enucleare correttamente le ipotesi in cui tale procedura è utilizzabile: l’oggetto dell’affidamento deve necessariamente essere una concessione di servizi (5). La concessione di servizi è definita come «un contratto che presenta le stesse caratteristiche di un appalto pubblico di servizi, ad eccezione del fatto che il corrispettivo della fornitura di servizi consiste unicamente nel diritto di gestire i servizi o in tale diritto accompagnato da un prezzo» (6). La distinzione rispetto alla concessione di lavori pubblici, chiarita anche a livello comunitario (7), si fonda sul criterio di “prevalenza funzionale”: in sostanza, se un contratto di concessione prevede la costruzione di un’opera quale oggetto principale si tratterà di concessione di lavori; se, invece, i lavori o la costruzione dell’opera si configurano come meramente accessori rispetto all’oggetto principale del contratto, costituito dalla gestione del servizio, si tratterà di concessione di servizi. Così individuato il tratto distintivo tra la concessione di lavori e quella di servizi (8), afferente precipuamente all’enucleazione dell’oggetto del contratto affidato al concessionario, deve evidenziarsi che le caratteristiche principali dei due contratti sono pressoché le stesse. L’elemento che accomuna la concessione di lavori a quella di servizi, infatti, è il trasferimento del rischio al concessionario, il quale trae la sua remunerazione dalla gestione del servizio stesso: tale elemento, peraltro, è fondamentale perché si possa con- (4) Per una breve illustrazione della disciplina della finanza di progetto nei servizi ex art. 278 del D.P.R. 207/2010, si veda Unità Tecnica Finanza di Progetto DIPE - Presidenza del Consiglio dei Ministri, “UtFP: 100 domande & risposte”, II ed., maggio 2014, 37 ss. (5) Concessione di servizi, natura giuridica, retribuzione, precisazioni cfr. Corte di Giustizia UE, sez. III, sentenza 10 settembre 2009 n. C-206/08, in www.curia.europa.eu. (6) Cfr. art. 3, comma 12, del d.lgs. 163/2006; per una breve definizione di “concessione di servizi” si veda Dipartimento per la Programmazione e il Coordinamento della Politica Economica, cit., 37. (7) Cfr. Comunicazione interpretativa sulle concessioni in ambito comunitario pubblicata sulla GUCE del 29 aprile 2000; vedasi il commento di C. GUCCIONE, La comunicazione interpretativa della Commissione sulle concessioni nel diritto comunitario, in Giornale di diritto amministrativo, 12/2000; anche circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento Politiche Comunitarie del 1 marzo 2002 n. 3944. (8) Sul punto si veda, inoltre, Parere Avcp (ora A.N.A.C.) 24 ottobre 2012, n. 175, in www.Avcp.it (circa la corretta qualificazione della concessione del servizio di illuminazione votiva come concessione di servizi e non di lavori); ibidem, Parere A.N.A.C. prot. 22097/08/UAG del 15 aprile 2008, in www.Avcp.it (ora www.anticorruzione.it); Deliberazione A.N.A.C. del 27 giugno 2012, n. 64, in www.Avcp.it (secondo la quale è legittimo affidare il servizio di ripristino delle condizioni di sicurezza e viabilità post incidente a costo zero per gli Enti locali titolari delle strade mediante finanza di progetto, potendo ricondursi la concessione di tale servizio nell’ambito di applicazione dell’art. 278 del d.P.R. n. 207/2010. 258 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 figurare una concessione, che sia di lavori o di servizi, in quanto l’assenza di tale trasferimento di rischi determina la qualificazione del contratto come appalto. Per quanto riguarda, poi, lo specifico ambito dei servizi, oltre all’elemento del trasferimento del rischio, perché si possa parlare di concessione, il servizio deve essere reso in favore della collettività e non dell’Amministrazione, ancorché a determinate condizioni la stessa possa contribuire, in tutto o in parte, ai ricavi del concessionario, e la remunerazione deve provenire dal diritto di gestire i servizi e di farne propri i ricavi (9): in caso contrario, qualora il rapporto sia bilaterale, esclusivamente tra Amministrazione ed affidatario, il relativo contratto deve essere qualificato come appalto di servizi. Con riguardo alla disciplina applicabile, deve, sin da subito, evidenziarsi che l‘affidamento delle concessioni di servizi ad oggi non soggiace alla integrale applicazione del d.lgs. 163/2006 ma è disciplinato unicamente dall’art. 30 del medesimo decreto (10): tale norma prevede che la scelta del concessionario debba avvenire nel solo rispetto dei principi desumibili dal Trattato e dei principi generali relativi ai contratti pubblici e, in particolare, dei principi di trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento, proporzionalità, previa gara informale a cui sono invitati almeno cinque concorrenti, se sussisto no in tale numero soggetti qualificati in relazione all’oggetto della concessione, e con predeterminazione dei criteri selettivi (11). Tale esclusione delle concessioni di (9) Contra cfr. M. RICCHI, I contratti di concessione 2.€, in Finanza di progetto e partenariato pubblico privato. Temi europei, istituti nazionali e operatività, a cura di GIAN FRANCO CARTEI e MASSIMO RICCHI, Editoriale Scientifica, Napoli 2015. Sulla necessità del rapporto trilaterale per la configurabilità di una concessione di servizi, si veda, in giurisprudenza, CdS, sez. V, 16 aprile 2014, n. 1863; TAR Campania, Napoli, sez. I, 12 maggio 2014, n. 2614; Delibera ANAC 12 novembre 2014, n. 16; CdS, sez. V, 12 novembre 2013, n. 5421; Delibera ANAC, 4 maggio 2011, n. 47. (10) Cfr. F.G. SCOCA, La concessione come forma di gestione dei servizi pubblici, in Le concessioni di servizi, a cura di F. ROVERSI MONACO, Rimini, 1988, 26. Sulla natura dell’istituto concessorio cfr.: U. POTOTSCHNIG, Concessione ed appalto nell’esercizio dei pubblici servizi, in Jus, 1955 394 ss.; ID.., I pubblici servizi, Padova, 1964; E. SILVESTRI, Concessione amministrativa, in Enc. del dir., vol. VIII, Milano, 1961, 373 ss.; M.S. GIANNINI, Diritto Amministrativo, Milano, 1988, 869; A. ROMANO, In tema di concessioni contratto, in Foro amm., 1958; V. CAIANIELLO, Concessioni (diritto amministrativo), in Noviss. Dig. It., Appendice, II Torino, 1980, 234; CONTESSA, Le concessioni di lavori e servizi tra tradizione nazionale ed impulsi comunitari: le modalità del “Codice de Lise”, in www.giustamm.it; CLARIZIA, Concessioni, concessioni di servizi e project financing, in www.giustamm.it; MASTRAGOSTINO, Le concessioni di servizi, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da SANDULLI, DE NICTOLIS, GAROFOLI, Vol. I, Milano, 2008, 285; VILLATA, Pubblica amministrazione e servizi pubblici, Dir. Amm., 2003, 3, 493. (11) Si cfr. Deliberazione Avcp 20 giugno 2012, n. 61, in www.Avcp.it, in cui, per quanto riguarda gli affidamenti di concessioni di servizi, l’Avcp «ricorda che, diversamente da quanto asserito dalla stazione appaltante, l’art. 30, comma 2, del D.Lgs. 163/2006 prevede espressamente che la scelta del concessionario debba avvenire nel rispetto dei principi comunitari desumibili dal Trattato, tra cui quelli di trasparenza e di adeguata pubblicità. Per le concessioni di importo superiore alle soglie comunitarie, la LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 259 servizi dall’ambito oggettivo di applicazione della normativa comunitaria in materia di contratti pubblici è stata per lungo tempo sostenuta dal legislatore europeo al fine di favorire il più possibile la libertà di organizzazione dei singoli Stati membri nella gestione dei servizi pubblici essenziali (12), ma tale orientamento ha subito di recente, come noto, un revirement: infatti, ora, anche la concessione di servizi è disciplinata nella Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 2014/23/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione (13). 2. La programmazione nei servizi. Entrando ora nel merito della disciplina dell’istituto in esame, deve, innanzitutto, rilevarsi che il predetto art. 278 del Regolamento contiene un unico riferimento alla programmazione, ossia il primo periodo del secondo comma, ai sensi del quale «qualora l’amministrazione aggiudicatrice si avvalga della facoltà di cui all’articolo 271, è ammessa la presentazione di proposte con riferimento a servizi non indicati nel programma». Proprio l’art. 271, infatti, disciplina la facoltà (14) per le Amministrazioni di approvare ogni anno un programma annuale per l’acquisizione di beni e servizi relativo all’esercizio successivo: anche l’istituto della programmazione rappresenta una significativa novità introdotta dal DPR 207/2010 in materia di servizi, essendo in precedenza prevista solo per i lavori (15). A tal proposito, la questione che necessita di essere approfondita, dunque, è se l’aver proceduto all’approvazione di una programmazione da parte delle singole Amministrazioni costituisca o meno un presupposto imprescindibile per l’attivazione, da parte del privato, della procedura di finanza di progetto di servizi. Ai fini della risoluzione del quesito, è opportuno procedure alla disamina della norma mediante applicazione dei tradizionali canoni ermeneutici detta- Commissione Europea nella propria Comunicazione interpretativa sulle concessioni del 12 aprile 2000, sulla scorta di orientamenti costanti della Corte di Giustizia, ha indicato l’opportunità di pubblicare gli avvisi relativi alle concessioni sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea (si veda sul punto la Deliberazione n. 73 Adunanza del 20 luglio 2011, nonché la Deliberazione n. 13 del 12 marzo 2010»). (12) Si veda, in proposito, comunicazione della Commissione europea sulle concessioni del 12 aprile 2000, cit. (13) Pubblicata sulla GUUE del 28 marzo 2014, Serie L/94. Il termine per il recepimento da parte degli Stati membri è fissato al 18 aprile 2016. (14) Contrariamente a quanto disposto per i lavori, dove la programmazione rappresenta un obbligo ineludibile per le Amministrazioni, nell’ambito dei servizi la programmazione è prevista quale mera facoltà, esercitabile discrezionalmente dalle singole Amministrazioni. (15) D’altra parte non può che rilevarsi che il Regolamento del 2010 disciplina in modo molto più compiuto l’ambito dei contratti di servizi rispetto alla normativa previgente, contenendo anche numerose norme relative alla fase esecutiva del contratto specifiche e diversificate per i servizi, laddove in precedenza dovevano trovare applicazione in via analogica le disposizioni previste per i contratti di lavori. 260 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 tidall’art. 12 delle c.d. Preleggi (16), le “Disposizioni sulla legge in generale” che introducono il Codice Civile. Nel caso di specie, un’interpretazione letterale dell’art. 278 del Regolamento non può ritenersi dirimente, per cui è necessario ricercare quale sia l’interpretazione più coerente con il fine perseguito dal legislatore e con il sistema: da un’attenta analisi emerge che vi sono molteplici argomentazioni sulla base delle quali deve ritenersi che la programmazione dei servizi da parte dell’Amministrazione non debba considerarsi un presupposto indefettibile per l’attivazione della finanza di progetto nell’ambito dei servizi. In primo luogo, è importante raffrontare l’art. 278 del Regolamento sui servizi con l’art. 153 del Codice sui lavori pubblici (finanza di progetto in materia di lavori pubblici) sotto il profilo del dato testuale. Per quanto qui rileva, l’art. 278 è così impostato: «1. Ai fini dell’affidamento in finanza di progetto di contratti di concessione di servizi, soggetti privati possono presentare proposte [….] 2. Qualora l’amministrazione aggiudicatrice si avvalga della facoltà di cui all’articolo 271, è ammessa la presentazione di proposte con riferimento a servizi non indicati nel programma». In maniera del tutto differente, invece, l’art. 153 del Codice, nel suo incipit, stabilisce che «Per la realizzazione di lavori pubblici o di lavori di pubblica utilità, inseriti nella programmazione triennale e nell’elenco annuale di cui all’articolo 128, ovvero negli strumenti di programmazione formalmente approvati dall’amministrazione aggiudicatrice sulla base della normativa vigente, finanziabili in tutto o in parte con capitali privati, le amministrazioni aggiudicatrici possono, in alternativa all’affidamento mediante concessione ai sensi dell’articolo 143, affidare una concessione ponendo a base di gara uno studio di fattibilità, mediante pubblicazione di un bando finalizzato alla presentazione di offerte che contemplino l’utilizzo di risorse totalmente o parzialmente a carico dei soggetti proponenti». Successivamente, il medesimo articolo di legge, disciplina la specifica procedura utilizzabile, invece, per le opere non inserite nella programmazione da parte delle Amministrazioni interessate. Dalla lettura delle due disposizioni normative, appare chiara la diversa intenzione del legislatore: mentre per i lavori la programmazione è un presupposto ineludibile (17) , per i servizi il riferimento all’art. 271 del Regolamento (16) Tale previsione indica tre criteri: a) l’interpretazione letterale: le norme devono essere interpretate, in primo luogo, secondo il loro significato letterale; b) l’interpretazione logica o teleologica: nell’ipotesi di norme ambigue, deve essere ricercata la ratio della disposizione, il fine perseguito dal legislatore e, dunque, la norma deve essere considerata nel suo effetto pratico; c) l’interpretazione sistematica: infine, la norma deve essere interpretata come inserita nell’ordinamento complessivamente considerato e, dunque, in modo da risultare conforme con il sistema. (17) La disciplina della programmazione per i lavori pubblici è contenuta nell’art. 128 del D.lgs. n. 163/2006; G. BORMIOLI, La programmazione; V.M. BALDI, Programmazione amministrativa e project financing nella disciplina dei lavori pubblici, in Urbanistica e appalti, 2001; CIANFLONE, GIOVANNINI, L’appalto di opere pubbliche, Milano, 2003, 397; G. PELLEGRINO, in Codice dei contratti pubblici, a LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 261 è teso esclusivamente ad affermare che un eventuale programmazione predisposta dalle Amministrazioni non vincola i privati a proporre esclusivamente i servizi contemplati nello strumento programmatorio adottato. D’altra parte, tale interpretazione appare perfettamente lineare e ragionevole nell’ambito di un sistema normativo, quale è quello italiano, in cui la programmazione dei lavori è obbligatoria, mentre quella dei servizi è una mera facoltà. In via ulteriore, il confronto con l’art. 153 del Codice appare utile a confermare la medesima conclusione anche sotto un altro profilo. Come noto, nell’ipotesi dei lavori pubblici, vi sono due tipologie di project financing: su iniziativa delle Amministrazioni e su iniziativa privata (18). Solo nell’ipotesi di iniziativa privata, è consentito l’utilizzo della procedura per lavori non inseriti nella programmazione, con una procedura, peraltro, che ricalca perfettamente quella prevista per i servizi dall’art. 278 del Regolamento (si veda il nuovo comma 19, dell’art. 153, come modificato dal d.l. 70/2011) (19). Al contrario, nell’ambito dei servizi, non esiste un project financing su iniziativa pubblica, ma solo la possibilità che la proposta provenga dai privati: dunque, coerentemente con quanto previsto nei lavori, in materia di servizi la programmazione non si concreta in alcun modo in un presupposto indefettibile. Né per porre al vaglio critico la tesi appena illustrata, potrebbe dirsi che, cura di R. GAROFOLI e G. FERRARI, V ed., Tomo II, 1487 e ss.; STICCHI DAMIANI, La programmazione dei lavori pubblici, in L’appalto di opere pubbliche, a cura di VILLATA, Castenaso, 2004, 264 e ss.; S.C. MATTEUCCI, La programmazione dei lavori pubblici, in Manuale dei lavori pubblici, a cura di A. BARGONE e P. STELLA RICHTER, Milano, 2001. A livello normativo, si veda inoltre Decreto Ministero delle infrastrutture e dei trasporti del 24 ottobre 2014, pubblicato in G.U. del 5 dicembre 2014, n. 283, recante “Procedure e schemi-tipo per la redazione e la pubblicazione del programma triennale, dei suoi aggiornamenti annuali e dell’elenco annuale dei lavori pubblici e per la redazione e la pubblicazione del programma annuale per l’acquisizione di beni e servizi”. (18) M. RICCHI, La finanza di progetto nel codice dei contratti dopo il terzo correttivo, in Urbanistica e appalti, 2008, pag. 1385; T. D’ONZA, Il project financing, Analisi giuridica, economico-finanziaria, tecnica, tributaria, bancaria, assicurativa, Torino, 2012, 469 ss.; Documento ANCE 31 ottobre 2012, Il project financing in Italia - L’indagine Ance sulla realizzazione delle opere, in www.appaltiecontratti. it; V.M. BALDI, Programmazione amministrativa e project financing nella disciplina dei lavori pubblici, in Urbanistica e appalti; S.C. MATTEUCCI, La programmazione dei lavori pubblici, in Manuale dei lavori pubblici, a cura di A. BARGONE e P. STELLA RICHTER, Milano 2001; A. STEFANONI, Project financing per le opere pubbliche, relazione per Politecnico; G. GRECO, La concessione di lavori e di servizi nel quadro dei contratti di diritto pubblico, in Riv. It. Dir. Pubbl., 2003; G. IUDICA, Finanza di progetto: la prospettiva di diritto civile, in AA.VV., Project financing e opere pubbliche, problemi e prospettive alla luce delle recenti riforme, 2004. (19) Cfr. R. GRECO, La natura giuridica delle procedure di project financing dopo il terzo decreto correttivo al codice degli appalti, in www.giustizia-amministrativa.it, dove afferma che «è appena il caso di aggiungere che la discrezionalità in questione diviene massima nell’ipotesi di cui al comma 19 dell’art. 153, cui si è accennato in conclusione del paragrafo 2, laddove il dovere dell’amministrazione di “valutare” le eventuali proposte presentate dalle imprese al di fuori della programmazione non potrà giammai essere confuso con un inesistente obbligo di adottare e realizzare l’opera proposta, traducendosi in un mero onere di motivazione espressa a fronte dell’eventuale giudizio di non rispondenza all’interesse pubblico (con provvedimento al quale i proponenti potranno reagire in sede giurisdizionale, naturalmente nei limiti, evidentemente molto ristretti, del sindacato ammissibile avverso tale valutazione)». 262 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 benché sia possibile presentare una proposta per lavori non previsti nella programmazione, è necessario che vi sia una programmazione dei lavori da parte dell’Amministrazione interessata: tale conclusione, infatti, non discende dalla disciplina specifica della finanza di progetto, ma dalla normativa generale in materia di lavori pubblici che impone la programmazione come obbligo per le Amministrazioni. Nei servizi, invece, come detto in precedenza, la programmazione è una mera facoltà. Ad ulteriore supporto di quanto già affermato, si deve tener conto anche della diversa natura di lavori e servizi e dell’impatto che le proposte dei privati hanno sull’Amministrazione. I lavori, infatti, si estrinsecano nella previsione di una nuova opera: la programmazione è, dunque, necessaria a garantire che sia l’ente pubblico a mantenere piena discrezionalità nel decidere se realizzare o meno un’opera. In tale contesto, l’iniziativa dei privati al di fuori della programmazione non può che essere un’ipotesi eccezionale e residuale, onde evitare di incidere eccessivamente sulle scelte politiche pubbliche. Al contrario, nell’ambito dei servizi, lo specifico servizio già esiste, è intrinseco nell’attività dell’Amministrazione, e l’intervento dei privati è solo teso a proporne una differente modalità di gestione rispetto alla gestione in proprio da parte dell’Amministrazione: in questo caso, dunque, l’incidenza sulla discrezionalità è molto inferiore rispetto ai lavori e la programmazione non concerne l’an ma il quomodo. Il servizio, invero, è incluso nell’attività dell’Amministrazione, a prescindere dalla programmazione e, dunque, coerentemente, è chiaro che la programmazione non può costituire un presupposto che consenta al privato di proporne una diversa e più efficiente modalità di gestione. Peraltro, la medesima conclusione appare anche necessaria per rendere operativo l’istituto nonchè in una lettura sistematica dell’intero complesso normativo in materia. In primo luogo, infatti, intendere la programmazione quale presupposto per la presentazione delle proposte ai sensi dell’art. 278 del Regolamento si tradurrebbe nella sostanziale vanificazione della disciplina e, dunque, non avrebbe alcuna logica. A tal proposito, si ribadisce, la programmazione dei servizi è una mera facoltà per le Amministrazioni: è chiaro, quindi, che, se la programmazione fosse un presupposto necessario per consentire la presentazione di proposte e le Amministrazioni mai si avvalessero di tale facoltà, il project financing di servizi non potrebbe mai divenire operativo. Inoltre, la possibilità di presentare le proposte di cui all’art. 278 del Regolamento a prescindere da qualsivoglia attività di programmazione dell’Amministrazione è l’unica conclusione coerente con il favor generalizzato dell’ordinamento per l’esternalizzazione dei servizi, nell’ottica di ottenere una maggiore efficienza gestionale. Sul punto, infatti, rileva, in primo luogo, l’art. 118, comma 4, della Costituzione, il quale, sancendo un principio di sussidia- LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 263 rietà orizzontale, prevede che «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà». In applicazione di tale articolo, appare emanato l’art. 29 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (Legge Finanziaria 2002), rubricato “misure di efficienza delle pubbliche amministrazioni”, il cui comma 1 stabilisce che «le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nonché gli enti finanziati direttamente o indirettamente a carico del bilancio dello Stato sono autorizzati, anche in deroga alle vigenti disposizioni, a: a) acquistare sul mercato i servizi, originariamente prodotti al proprio interno, a condizione di ottenere conseguenti economie di gestione; b) costituire, nel rispetto delle condizioni di economicità di cui alla lettera a), soggetti di diritto privato ai quali affidare lo svolgimento di servizi, svolti in precedenza; c) attribuire a soggetti di diritto privato già esistenti, attraverso gara pubblica, ovvero con adesione alle convenzioni stipulate ai sensi dell’articolo 26 della legge 23 dicembre 1999, n. 488, e successive modificazioni, e dell’articolo 59 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, lo svolgimento di servizi di cui alla lettera b)». Emerge chiaramente, dalla lettura di tali norme, il favor del legislatore nazionale per l’esternalizzazione dei servizi, poiché nel tempo è stato riconosciuto che nella maggior parte dei casi è la soluzione più efficiente e conveniente per l’interesse pubblico. Nella stessa ottica, l’art. 278 del Regolamento, è teso a consentire ai privati di avere un ruolo più attivo in quest’ambito e di “sollecitare” l’Amministrazione ad esternalizzare un determinato servizio, dimostrandole che è la soluzione maggiormente rispondente all’interesse pubblico. In conclusione, dunque, sembra inconfutabile che la finanza di progetto nell’ambito dei servizi è liberamente attivabile da parte dei privati, a prescindere da qualunque attività programmatoria dell’Amministrazione. Né, d’altra parte, l’eventuale attività di programmazione impedisce ai privati di presentare proposte concernenti servizi non contenuti nella programmazione, in quanto la non obbligatorietà della programmazione è espressamente sancita, a scanso di equivoci, dal Regolamento stesso. 3. I requisiti del promotore e del concessionario. Prima di entrare nel merito della procedura, appare opportuno valutare quali soggetti possono presentare alle Amministrazioni le previste proposte di project financing nell’ambito dei servizi. A tal proposito né il codice dei contratti né il relativo regolamento di esecuzione contengono una disposizione che disciplini i requisiti del promotore 264 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 con specifico riferimento al project financing di servizi, per cui la risposta deve essere ricercata per via analogica ed interpretativa. Sul punto, deve ritenersi che trovi applicazione la disposizione contenuta nell’art. 96 del DPR 207/2010 relativo ai “requisiti del proponente e attività di asseverazione” con riferimento ai lavori (20), ai sensi del già richiamato art. 152 del Codice (21). Secondo tale disposizione possono presentare proposte realizzative relative ad interventi non previsti nella programmazione dell’amministrazione, oltre ai soggetti di cui all’artt. 34 e 90, comma 2, lett. b) del codice dei contratti, i soggetti che svolgono in via professionale attività finanziaria, assicurativa, tecnico-operativa, di consulenza e di gestione nel campo dei lavori pubblici o di pubblica utilità e dei servizi alla collettività, che negli ultimi tre anni abbiano partecipato in modo significativo alla realizzazione di interventi di natura ed importo almeno pari a quello oggetto della proposta. Il secondo comma della disposizione in commento precisa, quindi, che possono presentare proposte anche soggetti appositamente costituiti, nei quali comunque devono essere presenti in misura maggioritaria soci aventi i suddetti requisiti di esperienza e professionalità stabiliti nel comma 1 e sopra richiamati. Il terzo comma del medesimo art. 96 chiarisce, infine, che, per l’affidamento della concessione, il proponente deve comunque possedere, al momento dell’indizione della gara, anche associando o consorziando altri soggetti, i requisiti previsti dall’art. 95 (“requisiti del concessionario”) (22). Ciò significa, per le concessioni di servizi, che il promotore, ai fini della gara, dovrà possedere successivamente i requisiti specificamente prescritti dalla stazione appaltante, che sono liberamente determinabili nel caso dei servizi, anche associando o consorziando altri soggetti. 4. La presentazione della proposta. Con riguardo al contenuto delle proposte eventualmente presentate, l’art. 278 del Regolamento prescrive che esse debbano contenere uno studio di fat- (20) Cfr. R. IZZO, in Il nuovo regolamento appalti pubblici, a cura di R. GAROFOLI e G. FERRARI, Tomo I, Nel diritto Editore, Roma, 2012, 397 e ss.; BERCELLI, Procedimento di finanza di progetto e art. 14-quinquies delle legge n. 241 del 1990, in www.giustizia-amministrativa.it; GALLO, Finanza di progetto, in L’appalto di opere pubbliche, a cura di VILLATA, Padova, 2004, 1099; ABBATEMARCO, CECCONI, Il project financing nelle opere pubbliche, Rimini, 2007, 38 ss.; NASSETTI, Valutazione e predisposizione del piano economico finanziario, in Finanza di progetto, a cura di MORBIDELLI, Torino, 2004, 45 e ss. (21) Si ricorda che tale previsione prescrive l’applicabilità al project financing di servizi di tutte le norme previste per il project financing di lavori, ove compatibili. (22) Cfr. R. IZZO, in op. cit. sub nota 20, Tomo I, 391 e ss.; P. DELLA PORTA, C. SANTARELLI, Project Financing e concessione di lavori pubblici. Spunti casistici, in I contratti dello stato e degli enti pubblici, 2/2011, 145 e ss.; M. GIOVANELLI, Partecipazione alle gare d’appalto e violazioni fiscali, in Urbanistica e appalti, 6/2013; F. LILLI, Il nuovo regolamento sui contratti pubblici, a cura di R. GIOVAGNOLI, Milano, 2011; A. COLETTA, in Codice dell’appalto pubblico, a cura di S. BACCARINI, G. CHINÈ, R. PROIETTI, Milano, 2011. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 265 tibilità, una bozza di convenzione, un piano economico-finanziario asseverato, una specificazione delle caratteristiche del servizio e della gestione, nonché l’indicazione degli elementi di cui all’articolo 83, comma 1, del codice e delle garanzie offerte dal promotore all’amministrazione aggiudicatrice. Le proposte devono, inoltre, indicare l’importo delle spese sostenute per la loro predisposizione, nel limite di cui all’articolo 153, comma 9, ultimo periodo, del codice. Per quanto concerne, innanzitutto, lo studio di fattibilità, il Regolamento ne approfondisce il contenuto solo con riferimento ai lavori pubblici, per cui spetterà agli eventuali proponenti ed ai loro consulenti adattare la disciplina normativa all’ambito dei servizi. Peraltro, nel caso in cui la concessione sia esclusivamente di servizi (nel senso che non è prevista la realizzazione di alcun lavoro), lo studio di fattibilità, non essendovi alcuna esigenza progettuale in senso tecnico, non potrà che essere un documento molto snello, teso esclusivamente a specificare il contenuto del contratto di concessione proposto e ad evidenziare la convenienza della concessione per l’Amministrazione nella generale analisi costi-benefici. Entrando nello specifico dei contenuti dello studio di fattibilità, ai sensi dell’art. 14 del DPR 207/2010 (23) (che riprende in buona parte il contenuto della determinazione dell’Autorità per la Vigilanza sui contratti pubblici n. 1/2009), questo si compone di una relazione illustrativa contenente: • le caratteristiche funzionali, tecniche, gestionali, economico-finanziarie dei lavori da realizzare; • l’analisi delle possibili alternative rispetto alla soluzione realizzativa individuata; • la verifica della possibilità di realizzazione mediante i contratti di partenariato pubblico privato di cui all’art. 3, comma 15-ter, del codice dei contratti; • l’analisi dello stato di fatto, nelle sue eventuali componenti architettoniche, geologiche, socio-economiche, amministrative; • la descrizione, ai fini della valutazione preventiva della sostenibilità ambientale e della compatibilità paesaggistica dell’intervento, dei requisiti dell’opera da progettare, delle caratteristiche e dei collegamenti con il contesto nel quale l’intervento si inserisce, con particolare riferimento alla verifica dei vincoli ambientali, storici, archeologici, paesaggistici interferenti sulle aree o sugli immobili interessati dall’intervento, nonché l’individuazione delle misure idonee a salvaguardare la tutela ambientale e i valori culturali e paesaggistici. (23) Cfr. M. RICCHI, op. cit. sub nota 18; DE LUCA, La progettazione, in CARBONE, CARINGELLA, DE MARZO, L’attuazione della legge quadro sui lavori pubblici, Commentario a cura di, Milano, 2000, 89 ss; D. ALBONETTI, in “Regolamento di esecuzione del Codice dei contratti pubblici”, a cura di D. ALBONETTI, A. COSTANTINI, M. GRECO, A. MASSARI, Sant’Arcangelo di Romagna, 2010, 123 e ss. 266 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 Successivamente, il secondo comma del medesimo art. 14 dettaglia il contenuto dello studio di fattibilità nelle ipotesi in cui questo debba essere posto a base di gara, come nel caso del project financing di servizi, specificando che lo stesso si compone dei seguenti elaborati: • una relazione illustrativa generale contente (i) l’inquadramento territoriale e socio-economico dell’area oggetto dell’intervento; (ii) l’analisi della domanda e dell’offerta attuale e di previsione con particolare riferimento al bacino di utenza, alla stima dei bisogni dell’utenza mediante utilizzo di parametri fisici riferiti alla specifica tipologia dell’intervento, quali flussi di traffico e numero di accessi, all’individuazione, in termini qualitativi e di gradimento, dell’offerta attuale e di quella prevista nei medesimi settori di intervento; (iii) l’analisi delle alternative progettuali e (iv) lo studio di impatto ambientale riferito alla soluzione progettuale individuata e alle possibili soluzioni alternative; • una relazione tecnica contenente (i) le caratteristiche funzionali e tecniche dei lavori da realizzare; (ii) una descrizione, ai fini della valutazione preventiva della sostenibilità ambientale e della compatibilità paesaggistica dell’intervento, dei requisiti dell’opera da progettare, delle caratteristiche e dei collegamenti con il contesto nel quale l’intervento si inserisce nonché delle misure idonee a salvaguardare la tutela ambientale e i valori culturali e paesaggistici; (iii) un’analisi sommaria delle tecniche costruttive e indicazione delle norme tecniche da applicare; (iv) il cronoprogramma e (v) la stima sommaria dell’intervento; • elaborati progettuali stabiliti dal responsabile del procedimento tra quelli di cui all’art. 21 del medesimo DPR 207/2010; • un elaborato tecnico-economico contente (i) la verifica della possibilità di realizzazione mediante concessione rispetto all’appalto; (ii) l’analisi della fattibilità finanziaria (costi e ricavi) con riferimento alla fase di costruzione e, nel caso di concessione, alla fase di gestione; (iii) l’analisi della fattibilità economica e sociale; (iv) uno schema di sistema tariffario, nel caso di concessione e (v) gli elementi essenziali dello schema di contratto. Tenuto conto che, coerentemente a quanto delineato in precedenza, la possibilità di presentare la proposta può essere svincolata dalla presenza dell’intervento nella programmazione dell’ente concedente, riveste un’importanza cruciale nella verifica di fattibilità la valutazione quantitativa del Value for Money (VfM) (24) che la realizzazione dell’intervento, a cura del privato attraverso la concessione, assicura all’amministrazione. Tale indicatore, infatti, (24) I. ALLEGRO, Il processo di identificazione, selezione e controllo di una operazione di PPP in una prospettiva sociale e gestionale, in “Finanza di progetto e partenariato pubblico privato. Temi europei, istituti nazionali e operatività” a cura di GIAN FRANCO CARTEI e MASSIMO RICCHI, Editoriale Scientifica, Napoli 2015; L. MARTINELLO, Analisi dei rischi nelle Partnership Pubblico Private e riflessi contabili della decisione Eurostat 2004, in Finanza di progetto, a cura di G.F. CARTEI e M. RICCHI, Napoli, 2010, 589 ss. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 267 consente di supportare, con valutazioni specifiche e analitiche, le decisioni di convenienza circa l’utilizzo di forme di partenariato pubblico-privato andando a valutare, attraverso un’opportuna quantificazione e allocazione dei rischi di progetto, la convenienza del ricorso ai capitali privati rispetto alla realizzazione del medesimo esclusivamente con risorse pubbliche. Per quanto concerne il piano economico-finanziario (25), la cui normativa di riferimento non dà una definizione, deve evidenziarsi che questo riveste un’importanza fondamentale nell’ambito delle concessioni, essendo il documento principe atto a regolarle, unitamente alla convenzione: il piano economico- finanziario si sostanzia in una sorta di bilancio o conto economico del progetto su un orizzonte temporale pari alla durata della concessione, dal quale devono emergere tutti i costi di investimento ed i ricavi derivanti dai flussi di cassa legati al contratto in modo tale da rappresentare e garantire il c.d. equilibrio economico-finanziario (26) del progetto. Deve, peraltro, evidenziarsi che, nell’ambito di una concessione, gli indici di equilibrio economico-finanziario presenti nel piano economico-finanziario originario devono rimanere immutati per tutta la durata del contratto: in caso, infatti, di eventi sopravvenuti imprevedibili ed imprevisti che alterino tale equilibrio è possibile avvalersi della procedura di riequilibrio prevista dall’art. 143, comma 8, del Codice e richiamata dall’art. 30 del medesimo decreto legislativo nell’ambito delle concessioni di servizi. Ai fini del perfezionamento della presentazione il piano economico - finanziario deve essere “asseverato” (27) conformemente a quanto prescritto dall’art. 96 del DPR 207/2010. In particolare, la norma prescrive che l’asseverazione «consiste nella valutazione degli elementi economici e finanziari, (25) Per una definizione di piano economico finanziario si veda S.M. SAMBRI, Project financing, la finanza di progetto per la realizzazione di opere pubbliche, in Trattato di diritto dell’economia, Padova, 2013, II ed., Vol. III, 141 e ss., secondo il quale «Il piano economico finanziario ha come scopo fondamentale quello di accertare la sussistenza dell’equilibrio economico-finanziario dell’investimento. Ciò comporta, per quanto riguarda l’equilibrio economico, che il flusso attualizzato dei ricavi derivanti dall’applicazione delle tariffe deve essere almeno sufficiente per la realizzazione dell’impianto e per la gestione del servizio»; si cfr. Circolare della Cassa depositi e prestiti n. 1227 pubblicata in G.U. 24 marzo 1998, n. 69. (26) Per una definizione di “equilibrio economico - finanziario”, si veda la formulazione proposta dal NARS nel parere n. 7 del 6 novembre 2013, relativo al collegamento Orte-Mestre: «L’equilibrio del piano economico-finanziario si ha allorché si ha la contemporanea presenza delle condizioni di equilibrio economico (convenienza economica o redditività) ed equilibrio finanziario (sostenibilità finanziaria o bancabilità) dove: - per “convenienza economica” si intende la capacità del progetto di creare valore nell’arco di durata della concessione e di generare un livello di redditività per il capitale investito adeguato rispetto alle aspettative dell’investitore privato; - per “sostenibilità finanziaria” si intende la capacità del progetto di generare flussi di cassa sufficienti a garantire il rimborso dei finanziamenti attivati». (27) Cfr. G. FIDONE, L’asseverazione bancaria del piano economico finanziario, in Finanza di progetto, a cura di G.F. CARTEI e M. RICCHI, Napoli, 2010, 243 ss. 268 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 quali costi e ricavi del progetto e composizione delle fonti di finanziamento, e nella verifica della capacità del piano di generare flussi di cassa positivi e della congruenza dei dati con la bozza di convenzione». La valutazione economica e finanziaria deve avvenire almeno sui seguenti elementi, desunti dalla documentazione messa a disposizione ai fini dell’asseverazione: a) prezzo che il concorrente intende chiedere all’amministrazione aggiudicatrice; b) prezzo che il concorrente intende corrispondere all’amministrazione aggiudicatrice per la costituzione o il trasferimento dei diritti; c) canone che il concorrente intende corrispondere all’amministrazione; d) tempo massimo previsto per l’esecuzione dei lavori e per l’avvio della gestione; e) durata prevista della concessione; f) struttura finanziaria dell’operazione, comprensiva dell’analisi dei profili di bancabilità dell’operazione in relazione al debito indicato nel piano economico- finanziario; g) costi, ricavi e conseguenti flussi di cassa generati dal progetto con riferimento alle tariffe. Per quanto riguarda la richiesta specificazione delle caratteristiche del servizio, deve evidenziarsi che tale documento rappresenta un elemento cruciale nell’ambito della procedura in esame, concretando, di fatto, il capitolato prestazionale dell’intervento ed evidenziando il livello minimo di servizi da garantire ai fini dell’adempimento della concessione stessa. In quest’ottica, è necessario che il documento illustri chiaramente non sole le prestazioni attese per i singoli servizi, ma anche le metriche di misurazione del livello di servizio erogato e il sistema di gestione e controllo a presidio della qualità, nel tempo, delle prestazioni del concessionario. Tali elementi, dovrebbero, correttamente, trovare apposito riferimento in una disciplina sanzionatoria nell’ambito della convenzione a tutela dell’interesse pubblico al perfetto adempimento del contratto coerente con gli standard qualitativi attesi. Appare a questo punto opportuno soffermarsi sul contenuto dello schema di convenzione. A tale riguardo occorre fare riferimento a quanto stabilito all’art. 115 del DPR 207/2010 con riferimento allo schema di contratto di concessione di costruzione e gestione di lavori, non essendovi una disciplina specifica per la concessione di servizi, ed adattare la disciplina normativa all’ambito dei servizi, come si è già fatto per lo studio di fattibilità. Secondo tale disposizione lo schema di contratto di concessione deve indicare: • le condizioni relative all’elaborazione da parte del concessionario del progetto dei lavori da realizzare e le modalità di approvazione da parte dell’amministrazione aggiudicatrice; LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 269 • l’indicazione delle caratteristiche funzionali, impiantistiche, tecniche e architettoniche dell’opera e lo standard dei servizi richiesto; • i poteri riservati all’amministrazione aggiudicatrice, ivi compresi i criteri per la vigilanza sui lavori da parte del responsabile del procedimento; • la specificazione della quota annuale di ammortamento degli investimenti; • l’eventuale limite minimo dei lavori da appaltare obbligatoriamente a terzi secondo quanto previsto nel bando o indicato in sede di offerta; • le procedure di collaudo; • le modalità ed i termini per la manutenzione e per la gestione dell’opera realizzata, nonché i poteri di controllo del concedente sulla gestione stessa; • le penali per le inadempienze del concessionario, nonché le ipotesi di decadenza della concessione e la procedura della relativa dichiarazione; • le modalità di corresponsione dell’eventuale prezzo, anche secondo quanto previsto dall’articolo 143, comma 5, del codice; • i criteri per la determinazione e l’adeguamento della tariffa che il concessionario potrà riscuotere dall’utenza per i servizi prestati; • l’obbligo per il concessionario di acquisire tutte le approvazioni necessarie oltre quelle già ottenute in sede di approvazione del progetto; • le modalità ed i termini di adempimento da parte del concessionario degli eventuali oneri di concessione, comprendenti la corresponsione di canoni o prestazioni di natura diversa; • le garanzie assicurative richieste per le attività di progettazione, costruzione e gestione; • le modalità, i termini e gli eventuali oneri relativi alla consegna del lavoro all’amministrazione aggiudicatrice al termine della concessione; • nel caso di cui all’articolo 143, comma 5, del codice, le modalità dell’eventuale immissione in possesso dell’immobile anteriormente al collaudo dell’opera; • il piano economico-finanziario di copertura degli investimenti e della connessa gestione temporale per tutto l’arco temporale prescelto; • il corrispettivo per il valore residuo dell’investimento non ammortizzato al termine della concessione. Con specifico riguardo allo schema di convenzione è, inoltre, opportuno evidenziare che lo stesso deve essere formulato in maniera tale da concretare un effettivo trasferimento di almeno due dei tre rischi principali del contratto (disponibilità, mercato, esecuzione) al concessionario mediante apposite e puntuali clausole, coerentemente ai noti parametri Eurostat, in quanto tale condizione è imprescindibile per qualificare l’operazione di finanza di progetto come off-balance, soprattutto nel caso in cui la remunerazione sia in tutto o in parte a carico della P.A., per poter evitare che la concessione possa configurarsi come un appalto mascherato. 270 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 5. La valutazione della proposta e la nomina del promotore. Una volta che sia presentata una proposta di project financing, spetta alle Amministrazioni riceventi procedere alla valutazione della stessa per verificare se questa riveste un pubblico interesse che induca a procedere all’affidamento della concessione: tale valutazione, per espressa previsione dell’art. 278 del Regolamento in esame, deve avvenire entro sei mesi dalla presentazione della proposta stessa (28). Per quanto riguarda i criteri sulla base dei quali deve avvenire la valutazione, la stessa disposizione in commento evidenza che la fattibilità delle proposte presentate deve essere valutata sotto il profilo della funzionalità, della fruibilità del servizio, della accessibilità al pubblico, del rendimento, del costo di gestione e di manutenzione, della durata della concessione, delle tariffe da applicare, della metodologia di aggiornamento delle stesse, del valore economico del piano e del contenuto della bozza di convenzione, nonché dell’assenza di elementi ostativi alla loro realizzazione (29). A tal proposito, non può non evidenziarsi che l’attività valutativa in esame è soggetta alla discrezionalità amministrativa della stazione appaltante, per cui gli esiti sono difficilmente censurabili dal privato, se non nell’ottica della palese irragionevolezza od illogicità (30). Tuttavia, non può negarsi che, conformemente a quanto ritenuto dalla giurisprudenza (31) in materia di lavori, la valutazione sul pubblico interesse della proposta può essere legittimamente censurata in sede giudiziaria dall’aspirante promotore, in quanto lo stesso è titolare di una posizione di interesse legittimo giuridicamente rilevante alla dichiarazione di pubblico interesse, concretandosi questa nell’attribuzione di un diritto di prelazione (32) ai fini del successivo affidamento della concessione (33). (28) Si cfr. S.M. SAMBRI, Project financing, La finanza di progetto per la realizzazione di opere pubbliche, in op. cit. sub nota 25, 149 ss. (29) Si cfr. Cons. Stato, Sez. III, 20 marzo 2014, n. 1365 (punto 3 in diritto), in www.appaltiecontratti. it; Cons. Stato, Ad plen. 15 aprile 2010, n. 1; TAR Sicilia, Palermo, 5 aprile 2007, n. 1100; TAR Sicilia, sez. staccata di Catania, 29 giugno 2012 n. 1642; Cons. Stato, sez. III, 13 marzo 2013, n. 1495; Cons. Stato, sez. IV, 26 ottobre 2012, n. 5492; Parere Avcp, 19 settembre 2012, n. 14, rif. n. AG 14/12, in www.Avcp.it; Deliberazione 12 novembre 2010, n. 228, in www.appaltiecontratti.it; Determinazione Avcp, 20 maggio 2009 n. 3, recante Procedure di cui all’articolo 153 del Codice dei contratti pubblici: linee guida per i documenti di gara, in www.appaltiecontratti.it; TAR Sicilia Catania sez. IV 14 maggio 2014 n. 1349. (30) PASQUINI, Il project financing e la discrezionalità, Giornale di Diritto Amministrativo, 2006, 1112; Cfr. R. DE NICTOLIS, op. cit., 1231, secondo cui l’espressione “project financing” individua non una procedura di affidamento, ma un risultato raggiungibile con molteplici strumenti procedurali. (31) Si veda, in giurisprudenza, Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 28 gennaio 2012, n. 1, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. St., sez. V, 5 ottobre 2005, n. 5316, in Urb. e app., 2006, 456. (32) G. FIDONE, B. RAGANELLI, Finanza di progetto e diritto comunitario: compatibilità con il principio di parità di trattamento della c.d. «prelazione» del promotore, in Rivista italiana di diritto LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 271 Nell’ipotesi in cui le proposte siano positivamente valutate e, dunque, ritenute di pubblico interesse, le Amministrazioni le inseriscono nella propria programmazione, come espressamente previsto dall’art. 278 del Regolamento: tale previsione è di dubbia interpretazione, alla luce del fatto che, come sopra ampiamente evidenziato, nel caso dei servizi la programmazione da parte delle Amministrazioni non ha natura obbligatoria, ma meramente facoltativa. Ci si deve, dunque, interrogare sulla portata di tale previsione, ossia sull’obbligo della stazione appaltante, una volta che abbia ricevuto una proposta che si è rivelata essere di pubblico interesse, di procedere alla programmazione dei servizi e, in caso positivo, sull’alternativa se tale programmazione debba riguardare solo il singolo servizio oggetto della proposta o la complessiva attività dell’Amministrazione. Alla luce del fatto che il sopra richiamato art. 271 del Regolamento prevede che la programmazione nell’ambito dei servizi sia meramente facoltativa per le Amministrazioni, sembra doversi ritenere che l’art. 278 usi il termine in senso atecnico, con il solo scopo di indicare un onere della stazione appaltante di indire la successiva gara per l’affidamento della concessione, mentre non appare razionale (nell’ambito del sistema normativo come delineato) che la sola valutazione di pubblico interesse di una singola proposta possa trasformare la facoltà di programmazione in vero e proprio obbligo. In caso di pluralità di proposte, la norma prevede che le stesse debbano essere valutate comparativamente e che, ad esito di tale valutazione, venga individuato il soggetto promotore. Nulla è previsto per l’ipotesi in cui vi sia una sola proposta, dal che non può che conseguire che una fase di confronto concorrenziale, seppure informale, si debba aprire solo per il successivo affidamento della concessione, una volta che sia riconosciuto il pubblico interesse della proposta. 6. La procedura di gara. Una volta che la proposta presentata venga valutata di pubblico interesse, pubblico comunitario, 2005, n. 3, 949; A. CANCRINI, Project financing. Cenni ai problemi di compatibilità tra diritto di prelazione e ordinamento comunitario, in www. Treccani.it; FAVA, Diritto di prelazione senza rispetto del principio di evidenza pubblica?, (Nota a Cons. Stato sez. V 10 novembre 2005 n. 6287; Cons. Stato sez. V 5 ottobre 2005 n. 5316), in Urbanistica e Appalti, 4/2006, 456 ss.; C. MALINCONICO, Il Project financing, in Trattato sui contratti pubblici vol. IV, Le tipologie contrattuali, diretto da M.A. SANDULLI, R. DE NICTOLIS, R. GAROFOLI, Milano, 2008, 2610 ss. (33) La VIII commissione permanente del Senato con Parere n. 27 del 29 luglio 2008, ha considerato la figura dello jus praelationis a favore del promotore un aspetto necessario per suscitare interesse, l’interesse per le imprese a partecipare alle procedure di project financing; sul punto si cfr. L. GIAMPAOLINO, La finanza di progetto nel momento attuale, Relazione tenuta a Napoli il 6 giugno 2008, pubblicata su www.Giust.amm.it. È stato per la verità anche notato che, statisticamente, malgrado la soppressione del diritto di prelazione disposta con il d.lgs. n. 113 del 2007, non si è attenuato il favore del mercato per l’istituto: M. RICCHI, La finanza di progetto nel codice dei contratti dopo il terzo correttivo, in Urbanistica e appalti, 2008, 1385. 272 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 ai fini della scelta del concessionario di servizi, l’Amministrazione indice una gara informale ai sensi dell’art. 30, comma 3, del d.lgs. 163/2006, alla quale viene invitato il promotore, ponendo a base di gara la proposta da quest’ultimo presentata (34). Deve, innanzitutto, evidenziarsi che tale previsione è attualmente conforme alla disciplina normativa nazionale e comunitaria che, ad oggi, come sopra anticipato, esclude le concessioni di servizi dall’ambito di applicazione della normativa comunitaria in materia di contratti pubblici. Tuttavia, deve ritenersi che in un prossimo futuro, non appena sarà recepita la direttiva comunitaria sull’aggiudicazione delle concessioni (direttiva 2014/23/UE), la normativa nazionale dovrà adeguatamente disciplinare in maniera rigorosa anche la procedura di affidamento delle concessioni di servizi, almeno con riguardo ai contratti sopra soglia comunitaria (35). Attualmente, comunque, l’affidamento della concessione avviene mediante gara informale, cui devono essere invitati almeno cinque concorrenti, se ve ne sono sul mercato. Per la scelta dei concorrenti da invitare, le Amministrazioni hanno due opzioni: (i) effettuare una ricerca di mercato tesa ad individuare i soggetti in possesso dei richiesti requisiti per l’esecuzione della concessione, oppure (ii) pubblicare un avviso per la raccolta sul mercato delle manifestazioni di interesse da parte degli operatori economici. In tale seconda ipotesi, la stazione appaltante è tenuta ad invitare tutti i soggetti che ne abbiano fatto richiesta, senza poter escluderne alcuno, a condizione che dimostrino di possedere i prescritti requisiti richiesti nell’avviso. Lo svolgimento della gara è soggetto solo al rispetto dei principi generali di trasparenza e par condicio, senza che vi sia un obbligo di conformarsi a specifiche disposizioni del Codice o del Regolamento: peraltro, deve chiarirsi, nel caso in cui l’Amministrazione scelga, in sede di redazione della lex specialis, di richiamare le rigorose prescrizioni del Codice o del Regolamento, si vincola inderogabilmente a rispettarle nel successivo svolgimento della gara (36). In tale gara, in conformità alla disciplina prevista per i lavori, il promotore ha il c.d. diritto di prelazione, ossia il diritto di adeguare la propria proposta a (34) F. LOGIUDICE, Sulla gara informale in tema di concessione di servizi, TAR Puglia-Bari, sez. I, sentenza 21 novembre 2007, n. 2768, in www. altalex.com; F. PEIRONE, La scelta del concessionario di servizi - The selection of the service concessionaire, (nota a Cons. St., sez VI, 4 settembre 2012, n. 4682), in Il Foro amministrativo - CdS, 2/2013, 541 e ss. (35) Per quanto concerne l’individuazione del valore delle concessioni di servizi, la prassi dell’AVCP, ora ANAC, prevede che debba farsi riferimento al complesso dei flussi di cassa nell’intero periodo di durata del contratto. Si veda, in proposito, Parere Avcp (ora ANAC) del 6 febbraio 2013, n. 2; Determinazione Avcp (ora ANAC) dell’11 marzo 2010, n. 2; Parere Avcp (ora ANAC) precontenzioso del 28 gennaio 2010, n. 13; M.G. GRECO, Chiarimenti sull’istituto giuridico di concessione nella Direttiva 2014/23/UE. Il rischio “operativo” nel rapporto concessorio, in www.lineavcp.it. (36) Si cfr. Cons. Stato, Sez. V, 13 ottobre 2010, n. 7470; Cons. Stato, Sez. V, 22 marzo 2010, n. 1663; Corte dei Conti, Sez. contr., 14 dicembre 2010, n. 28, in Riv. Corte conti, 2010, 6, 10. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 273 quella di altro concorrente ritenuta dall’Amministrazione più conveniente, aggiudicandosi così la concessione. Tale previsione, così come prevista dal legislatore, pone seri dubbi di compatibilità comunitaria: infatti, non si può non ricordare che una norma siffatta era prevista originariamente già nella legge 109/94 ed è stata oggetto di una procedura di infrazione comunitaria per lesione della concorrenza (37), in quanto, nei fatti, al promotore viene attribuito il diritto all’affidamento di un contratto pubblico senza che vi sia una concorrenza a monte. Per poter ovviare a tale eventuale problematica, le Amministrazioni potrebbero, una volta che abbiano ricevuto una proposta ai sensi dell’art. 278 del Regolamento, rendere pubblica la presentazione di tale proposta, dando un congruo termine per la presentazione di eventuali ulteriori proposte concorrenti: tale termine dovrebbe essere tale da consentire alla stazione appaltante di valutare il pubblico interesse di tutte le eventuali proposte ricevute entro il termine di sei mesi dalla presentazione della prima proposta. In questo modo, l’attribuzione del diritto di prelazione al soggetto nominato promotore risulterebbe assolutamente incensurabile, essendo stata garantita la necessaria concorrenza tra gli operatori del mercato. Tale problematica risulta, inoltre, superata nel caso in cui la stazione appaltante, come da prassi che si sta diffondendo tra le Amministrazioni, riceva la proposta di project financing a seguito della pubblicazione di uno specifico avviso di sollecitazione ad inviare proposte. Anche in questo caso, infatti, la concorrenza sarebbe garantita a monte, per cui non vi sarebbero spazi di censurabilità sotto tale profilo. 7. Conclusioni. In conclusione, deve affermarsi che l’istituto del project financing di servizi risulta di indubbia utilità e convenienza sia per le Amministrazioni che per i privati e potrebbe divenire uno strumento essenziale per garantire un concreto e reale efficientamento della gestione dei servizi pubblici. (37) Si veda sentenza della Corte di Giustizia Ce, sez. II, 21 febbraio 2008, in C-412/04 Commissione Ce c. Repubblica Italiana. L’art. 3, comma 15-ter, del Codice degli appalti pubblici inserisce tra le forme di PPP “l’affidamento di lavori mediante finanza di progetto”. La primigenia codificazione della materia risale alla legge quadro n. 109/1994, meglio conosciuta come “legge Merloni”, poi novellata per effetto della legge n. 215/1995 (c.d. Merloni-bis). Tuttavia, sarà la legge n. 415 del 1998 (la legge cd. “Merloni-ter”) a collocare la finanza di progetto all’interno della legge quadro n. 109/1994 attraverso l’inserimento degli articoli dal 37-bis al 37-nonies. In seguito, la materia sarà ancora novellata dalla legge n. 166/2002 (c.d. Merloni-quater) che riconoscerà al promotore il diritto di prelazione. Tale diritto, però, verrà successivamente espunto dal nostro ordinamento con per effetto del d.lgs. n. 113/2007, in quanto contrastante con i principi comunitari tutt’oggi previsti dal TFUE ed attinenti alla libera concorrenza, alla parità di trattamento e al divieto di discriminazioni. La ratio dell’espunzione risiede nel fatto che il diritto di prelazione farebbe assumere al promotore un’indebita posizione di vantaggio rispetto agli altri concorrenti. 274 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 Si dovrà, tuttavia, attendere il recepimento della direttiva comunitaria sull’aggiudicazione delle concessioni per verificarne la portata sull’attuale disciplina, pur auspicandosi che la normativa di recepimento si limiti ad incidere esclusivamente sulla disciplina procedurale che presiede allo svolgimento della gara successiva alla dichiarazione di pubblico interesse delle proposte. CONTRIBUTI DI DOTTRINA Osservazioni sulla legge Severino (che poi legge non è) Glauco Nori* 1 - La Severino è una delle leggi che in questi ultimi tempi hanno avuto molto spazio nei c.d. media. È probabilmente arrivato il momento di dargli il nome giusto. Le norme più discusse e contestate non sono della legge, ma del decreto legislativo (n. 235/2012), emesso in base alla delega dell’art. 64 della legge (n. 190/2012), quella che legittimamente può essere chiamata legge Severino. Anche se sono di questi giorni le vicende che hanno interessato alcune sospensioni di elezioni a cariche regionali e locali, non c’è dubbio, almeno così sembra, che le norme di interesse maggiore siano quelle sulla incandidabilità alle elezioni del Parlamento. 2 - Non può essere candidato al Parlamento chi, per alcuni reati, ha riportato una condanna alla reclusione di almeno due anni. Si è seguito il criterio della incandidabilità e non quello della ineleggibilità, adottato dall'art. 65 Cost. I dubbi di legittimità sono stati risolti dalla Corte costituzionale che da tempo ha chiarito che la incandidabilità costituisce una figura di ineleggibilità, da accertare già al momento della formazione delle liste e non della proclamazione degli eletti. Dal punto di vista pratico le due figure non sono equivalenti. Gli effetti della condanna penale, ancora presenti quando le liste sono formate, potrebbero essere cessati al momento della elezione. Rimarrebbe escluso, pertanto, chi a quel momento avesse riacquistato i requisiti richiesti. La presenza nelle liste dei personaggi più rappresentativi, in particolare del leader, può richiamare voti anche se poi non potesse essere dichiarato eletto. La incandidabilità, (*) Professore, Avvocato Generale Aggiunto in quiescenza. 276 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 pertanto, può provocare al partito di appartenenza un danno maggiore della ineleggibilità. 3 - Secondo la delega dovevano restare ferme le disposizioni del codice penale in materia di interdizione dai pubblici uffici (lett. a), doveva essere determinata la durata dell'incandidabilità (lett. c) e le disposizione sulla incandidabilità andavano coordinate con le norme in vigore in materia di interdizione dai pubblici uffici (lett. e). Si è dato per scontato che sulla materia si potesse intervenire con decreto legislativo. I casi di ineleggibilità e di incompatibilità, secondo l’art. 65 Cost., sono determinati dalla legge. Il decreto legislativo non è legge anche se ne ha la stessa forza. Se per gli effetti sono equivalenti, in questo caso le cose potrebbero stare diversamente perché è in gioco l’autonomia delle Camere sulla quale il Governo non dovrebbe interferire. Secondo l’art. 66 Cost. “Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e della cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità”. In Assemblea Costituente ci fu la proposta di affidare il giudizio ad un organo in cui, in misura diversa, fosse rappresentata la giurisdizione perché l’“accertamento dei titoli di ammissione si compie attraverso un esame di pura legittimità, e quindi meglio può essere adempiuto da un organo che, per la sua composizione, dia affidamento di poterlo compiere con maggiore competenza e indipendenza”. Prevalse la tesi, sostenuta anche dal Presidente, che “nel Parlamento italiano si è affermato un principio che, se non è codificato, ha nondimeno un suo grande valore: il Parlamento si considera come zona extraterritoriale; la Camera ha un’amministrazione sua e persino un suo piccolo governo interno … Il che sta a provare che la Camera ha una sua sovranità che non tollera, neppure nelle cose di minore importanza, una qualsivoglia limitazione … ogni intromissione, sia pure della magistratura, è da evitarsi”. Che si potesse provvedere con decreto legislativo con l’intervento del Governo, sia pure a seguito di delega legislativa, non andava per certo: poteva essere uno dei casi nei quali la legge va intesa in senso formale. Il solo dubbio avrebbe giustificato che la questione fosse almeno affrontata. 4 - Per l'art. 76 Cost. la legge di delega legislativa indica i principi e i criteri direttivi ai quali si deve attenere il Governo. A proposito della durata dell'incandidabilità non è dato nessun criterio. Il Governo è stato delegato a determinarla a sua discrezione, senza alcun limite. Già per questo può profilarsi qualche dubbio sulla legittimità costituzionale della norma di delega per violazione dell’art. 76. La durata delle incandidabilità è stata disposta “per un periodo corrispondente al doppio della durata della pena accessoria dell'interdizione temporanea CONTRIBUTI DI DOTTRINA 277 dai pubblici uffici, comminata dal giudice. In ogni caso l'incandidabilità, anche in assenza della pena accessoria, non è inferiore ai sei anni”. Gli anni potevano essere anche quattro o otto. Perché sei, non si ricava da nessuna parte per la mancanza di indicazioni nella delega. Né va esclusa l’eventualità, se la Corte costituzionale giudicasse che i sei anni sono troppi, che la norma sia illegittima per una sua irragionevolezza. 5 - Le norme sulla interdizione dai pubblici uffici, che preclude anche l’accesso al Parlamento, dovevano restare “ferme” ed andavano coordinate con quelle sulla ineleggibilità. Facendo prevalere la incandidabilità, non si può dire che ci sia stato un vero coordinamento, salvo ad interpretare la delega nel senso che, per restare “ferma”, sarebbe stata sufficiente che l’interdizione fosse mantenuta in vigore, anche se non applicabile. È quello che si è verificato. La legge ad una sentenza, passata in giudicato, attribuisce un effetto ulteriore rispetto a quelli che la sentenza produce per sua natura. La durata dell'interdizione, quando è stata applicata dal giudice, serve solo a determinare quella della incandidabilità, che deve essere doppia, ma di sei anni almeno, come di sei anni deve essere se l'interdizione non c’è stata. In pratica la incandidabilità prevale sempre sulla interdizione: nel primo caso per la durata; nel secondo perché attribuisce alla decisione un effetto per il quale il giudice, non prevedendolo, ha evidentemente ritenuto che non ne ricorressero le condizioni. Da una parte c’è un giudice che, valutando il comportamento dell'imputato, ha ritenuto che non ci fosse motivo per interdirlo dai pubblici uffici o che l'interdizione fosse di una certa durata; dall'altro c'è una legge che, guardando solo alla pena e non al fatto imputato, dispone l'incandidabilità, limitando in modo automatico un diritto garantito dalla Costituzione. In pratica la legge, con un giudizio astratto, condizionato dall’entità della pena, qualunque sia stata la condotta, neutralizza gli effetti di un giudicato che in concreto, per la natura dei fatti accertati, ha escluso che l’interdizione andasse disposta. Non solo, ma tratta in modo identico situazioni diverse: rende incandidabile per sei anni chi non si è visto applicare l’interdizione, perché evidentemente ritenuta non appropriata, e chi è stato condannato alla interdizione per tre anni. 6 - È stato obiettato che la legge ha voluto solo precludere l’accesso al Parlamento, intervenendo in una sfera limitata dei pubblici uffici con una disciplina di carattere eccezionale. Il Parlamento verrebbe a costituire un organo, per quanto riguarda la possibilità di esservi ammessi, soggetto ad una disciplina diversa rispetto agli altri pubblici uffici per i quali le norme sulla interdizione sarebbero rimaste “ferme”. Se la legge avesse previsto una sanzione fuori dalla portata del giudice, si sarebbe potuto sostenere che si era aggiunto alla sentenza un effetto che di per sé non avrebbe potuto produrre. Il giudice, invece, giudicando sul fatto 278 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 imputato, può avere escluso l’interdizione o averla disposta in una certa misura che avrebbe ugualmente impedito l’accesso al Parlamento per il tempo corrispondente. Più che tra norme, si tratta di un rapporto tra un giudicato ed una legge e la Corte costituzionale ha avuto già occasione di chiarire che non è consentito ad una legge di neutralizzare un giudicato. Si è anche detto che il Parlamento, al di fuori della sfera di competenza del giudice, ha voluto solo fissare i requisiti che deve avere chi ne vuole fare parte: la sanzione avrebbe natura amministrativa. In quanto prevista da una legge di delega, che ne richiedeva il coordinamento con l’interdizione dai pubblici uffici, i dubbi sulla sua legittimità potrebbero addirittura aggravarsi perché il legislatore, invece di coordinarle, avrebbe fatto prevalere una sanzione amministrativa su di una pena accessoria, disposta da una sentenza. Resterebbe pur sempre una sanzione, in quanto limitazione di un diritto, e, amministrativa o penale che sia, sarebbe un effetto della sentenza penale non coerente col giudicato. Al dubbio sulla legittimità costituzionale della legge di delega si aggiunge, pertanto, quello sulla legittimità della legge delegata per non essersi attenuta alla delega, oltre che per essere irragionevole di per se stessa. 7 - La parola definitiva sarà della Corte costituzionale. Data la materia, sarebbe stato il caso che la Corte ne fosse già stata investita. Ma da chi? In ogni Camera c'è una Giunta che deve valutare se chi è stato eletto ne aveva i requisiti (art. 66 Cost.). La Corte costituzionale ha ritenuto che la Giunta, dichiarando la ineleggibilità o la decadenza dell'eletto, svolge una funzione giurisdizionale, anche se composta solo da politici. Non sarebbe stato coerente con la Costituzione che la limitazione di un diritto, garantito dalla Costituzione stessa, non fosse sottoposta alla verifica di un giudice. Per le questioni di sola legittimità, la decisione della Giunta è definitiva perché non è previsto nessun ricorso davanti ai giudici ordinari o amministrativi. Non è così quando le questioni sono di ordine costituzionale. La competenza a deciderle in via definitiva è solo della Corte costituzionale alla quale “il giudice” (e la Giunta lo sarebbe) deve rimetterle se non le ritenga manifestamente infondate. Dichiarare manifestamente infondata una questione, da parte di un organo a composizione politica, per non rimetterla alla Corte costituzionale quando sono in gioco diritti costituzionalmente garantiti, non sembra la migliore delle soluzioni. Stando a quello che è successo, sembra che non si sia tenuto conto della natura giurisdizionale della funzione della Giunta. Ne è una conferma che l’orientamento di una componente politica della Giunta è stato anticipato in televisione da chi non ne faceva nemmeno parte. Sia la collegialità sia la neutralità del giudice sono state così messe in pericolo. 8 - Si è anche escluso che la incandidabilità si inserisca nel sistema delle sanzioni: sarebbe solo un requisito richiesto per fare parte del Parlamento in CONTRIBUTI DI DOTTRINA 279 base ad un giudizio “di carattere certamente politico”. Questo carattere vale per tutte le leggi che sempre su un giudizio di natura politica sono fondate. Non è lo stesso dalla parte dell’interessato che perde qualcosa che aveva prima, effetto tipico della sanzione. Resta il fatto che la incandidabilità, comunque la si voglia definire, è pur sempre un effetto non giurisdizionale della sentenza penale. Nel prevederla la legge ne sovrappone gli effetti a quelli della sentenza, rendendoli inattuabili: sarebbe stato forse il caso di articolare le norme in forma più prudente. 280 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 Ordinanze di protezione civile e riserva di decretazione d’urgenza Guglielmo Bernabei* Il decreto-legge si pone come istituto emergenziale generale, la cui disciplina determina un vera e propria riserva di decreto-legge in casi straordinari di necessità ed urgenza. Ne consegue che al governo sarebbe preclusa la possibilità di intervenire, per disciplinare fatti emergenziali, con strumenti diversi. Le ordinanze di protezione civile, ex art. 5 legge n. 225/92, sono invece indizio della volontà del legislatore di creare un sistema di regolazione dell’emergenza alternativo rispetto a quello delineato dalla Costituzione. Infatti, dinanzi ad una individuazione legislativa alquanto generica, si è registrata una proliferazione di ordinanze di protezione civile nei settori più disparati del diritto pubblico. SOMMARIO: 1. Il potere necessitato di ordinanza - 2. Legge n. 225/1992 - 3. I limiti delle ordinanze necessarie e la “riserva” di decretazione d’urgenza - 4. Potere necessitato di ordinanza conforme a Costituzione. 1. Il potere necessitato di ordinanza. Il potere necessitato di ordinanza, in linea sia con la giuspubblicistica statutaria (1) sia con quella repubblicana (2), è stato inteso come un intervento finalizzato a fronteggiare un pericolo di danno grave ed imminente per la generalità dei cittadini, caratterizzato da un contenuto determinabile discrezionalmente e non prestabilito dalla legge, idoneo ad incidere, tramite la sospensione e la deroga, sulla legislazione in vigore, con efficacia tendenzialmente temporanea (3). Da questo potere sono prodotti atti che si giustificano sulla base della necessità e dell’urgenza del provvedere. Anticipando alcune tematiche, è possibile già affermare che questi atti si pongono in una posizione di difficile armonizzazione con il sistema costituzionale repubblicano; il fenomeno complessivo della molteplicità di ordinanze derogatorie finisce per (*) Dottore di ricerca e cultore della materia in diritto costituzionale, Università di Ferrara. (1) Cfr. V.E. ORLANDO, Intorno ai provvedimenti di urgenza secondo la legge comunale e provinciale, in Foro it., 1935, III, pag. 148; cfr. M.S. GIANNINI, Potere di ordinanza, requisizioni e occupazioni, in Giur. compl. Cass. Civ., XVII, 1945, pag. 400; cfr. L. PALADIN, Decreti-legge e provvedimenti d’urgenza delle Giunte regionali, in Giur. it.,1959, I, pag. 1265; cfr. F. BARTOLOMEI, voce Ordinanza (dir. amm.), in Enc. dir., XXX, Milano, 1980, pag. 970. (2) Cfr. P. RESCIGNO, Ordinanza e provvedimento di necessità ed urgenza, in Noviss. dig. It., Torino, 1965, pag. 93; cfr. F. MODUGNO - V. NOCILLA, Problemi vecchi e nuovi sugli stati di emergenza nell’ordinamento italiano, in Scritti in onore di Massimo Severo Giannini, Milano, 1988, vol. III, pag. 515; cfr. A. PACE, Ragionevolezza abnorme o stato di emergenza?, in Giur. Cost., 1982, I, pag. 108; cfr. R. CAVALLO PERIN, Potere di ordinanza e principio di legalità, Milano, 1990, pag. 56. (3) Cf. G. RAZZANO, L’amministrazione dell’emergenza. Profili costituzionali, Bari, 2010, pag. 139. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 281 intaccare parti rilevanti dell’ordinamento giuridico e per alterare competenze costituzionalmente stabilite (4). Ne consegue che le ordinanze si presentano in modo particolare come micro-ordinamenti derogatori dell’ordinamento generale e vengono spesso prorogate per anni. Ciò che rileva, pertanto, non è tanto il singolo atto quanto l’incisività di un insieme di tali atti nei confronti del sistema delle fonti del diritto. Nonostante gli sforzi della dottrina e le raffinate elaborazioni che ne sono scaturite, il nomen di ordinanza, senza altre specificazioni, conserva un significato atecnico e semplicemente idoneo a designare atti accomunati, oltre che dalla natura monocratica dell’organo, da una connotazione straordinaria, intesa, però in modo vario e spesso contraddittorio (5). In via generale, la partizione fondamentale è tra ordinanze ordinarie ed ordinanze straordinarie o necessitate; in merito a quest’ultime, si tratta di atti che l’autorità amministrativa adotta, in deroga alle norme vigenti, per fronteggiare un fatto emergenziale (6). All’interno della categoria, la dottrina (7) utilizza tre criteri di classificazione: i presupposti legittimanti che la norma attributiva della competenza pone per l’adozione delle ordinanze, il grado di predeterminazione del contenuto da parte della stessa norma attributiva, e il livello delle disposizioni og- (4) Cfr. A. CARDONE, La prassi delle ordinanze di protezione civile in tema di deroghe nel caso della XVI legislatura. La dimensione qualitativa del fenomeno ed alcuni spunti per limitarlo, in www.osservatoriosullefonti. it n. 1/2011; A. CARDONE, Il rapporto tra ordinanze del Governo e decreti-legge, in www.osservatoriosullefonti.it n. 2/2012; G. MARAZZITA, L’irresistibile tentazione del potere di ordinanza, in www.osservatoriosullefonti.it n. 2/2011; F. PAGANO, Dal decreto-legge alle ordinanze di protezione civile, ampiezza e limiti costituzionali del sindacato del giudice amministrativo sul potere extra ordinem del governo, in www.rivistaaic.it n. 4/2011; G. RAZZANO, Le ordinanze di necessità ed urgenza nell’attuale ordinamento costituzionale, in Scritti in onore di M. Scudiero, IV, Napoli, 2008, pag. 1993. (5) Cfr. G. MARAZZITA, L’emergenza costituzionale. Definizione e modelli, Milano, 2003, pag. 422. (6) Cfr. G.U. RESCIGNO, Ordinanza e provvedimento di necessità ed urgenza, cit., pag. 91, il quale definisce le ordinanze come “quegli atti generali o singolari non predeterminati quanto al contenuto, emanati in casi di urgente necessità da autorità amministrative diverse dal Governo”. Inoltre cfr. F. MIGLIARESE, Ordinanze di necessità, in Enc. Giur., XXII, Roma, 1990, pag. 1, il quale restringe la categoria agli atti “a contenuto non previamente determinato”. Secondo una impostazione dissimile cfr. F. BARTOLOMEI, Ordinanza (diritto amministrativo), cit., pag. 975, il quale ritiene che il potere di ordinanza può configurarsi “tutte le volte in cui la previsione normativa ipotizza delle potestà, attribuite normalmente ad un numero limitato di autorità amministrative, che permettono di provvedere, in occasione di determinati eventi già preventivamente indicati ed individuati in termini fenomenici”. (7) Cfr. G. MARAZZITA, L’emergenza costituzionale. Definizione e modelli, Milano, 2003, pag. 424; diversamente cfr. F. BARTOLOMEI, Potere di ordinanza e ordinanze di necessità, Milano, 1979, pag. 54, il quale distingue tra ordinanze “sussidiarie” ed ordinanze “primarie”, tra ordinanze “necessitate ordinarie” ed ordinanze “necessitate extra ordinem”; l’Autore critica la correttezza scientifica della individuazione della categoria delle ordinanze “libere”. Inoltre cfr. R. CAVALLO PERIN, Potere di ordinanza e principio di legalità, cit., pag. 25, e cfr. C. GALATERIA, I provvedimenti amministrativi d’urgenza. Le ordinanze, Milano, 1953, pag. 41. 282 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 getto di sospensione o deroga provvisoria. Dunque, in base al primo criterio, si hanno le ordinanze “generali”, idonee a fronteggiare i fatti emergenziali innominati, e le ordinanze speciali, previste per emergenze tipiche; per il secondo, si distingue il caso in cui il contenuto è determinato in concreto dal soggetto titolare del potere straordinario dal caso nel quale la legge predetermina, con un grado di dettaglio più o meno elevato, le misure emergenziali; infine vanno posti i provvedimenti che rispettano il principio gerarchico di preferenza della legge, le ordinanze amministrative in senso stretto, oppure provvedono in deroga ad ogni disposizione vigente, le ordinanze contra legem. Pertanto, se da un punto di vista formale le ordinanze appaiono come provvedimenti amministrativi, quanto al piano sostanziale va considerata non solo astrattamente la capacità derogatoria di tali atti nei confronti di una o più leggi, ma anche la circostanza di fatto per cui le deroghe operate, anziché delimitate, circoscritte e localizzate, sono ricorrenti, diffuse, prorogate e spesso indipendenti da una reale situazione di eccezionalità ed imprevedibilità (8). Si produce, di conseguenza, l’effetto derogatorio tipico delle norme speciali (9), supponendo che vi sia antinomia, nonostante l’applicazione del criterio di specialità abbia come fine preciso quello di individuare la norma applicabile concretamente, mediante la restrizione della portata della norma generale e la corrispondente operatività della norma speciale derogatoria. In tal senso si colloca la posizione di chi (10) ritiene che il criterio di specialità opera rispetto ad “antinomie improprie”, le quali si risolvono grazie all’interpretazione, al processo mediante il quale dalle disposizioni si traggono le norme. Oltre all’antinomia tra ordinanza e legge, conta quella di principio tra gli stati d’eccezione e l’ordinamento (11), nel tentativo di ricercare un equilibrio (8) Cfr. G. RAZZANO, L’amministrazione dell’emergenza. Profili costituzionali, cit., pag. 141, la quale precisa che “oltre al problema della legittimità delle deroghe operate dalla singola ordinanza, rileva il problema della legittimità dell’insieme di tali deroghe, così rilevanti, nel loro complesso, e soprattutto così perduranti, da derogare, in ultima analisi, a quei principi generali dell’ordinamento giuridico che la giurisprudenza e la stessa legge 225 del 1992 - come anche le leggi relative ai “commissari per le opere pubbliche” - hanno invece posto come limite invalicabile per la legittimità delle stesse ordinanze. (9) Cfr. F. MODUGNO, Norme singolari, speciali, eccezionali, in Enc. dir., 1978, pag. 517. Inoltre cf. G.U. RESCIGNO, Deroga (in materia legislativa), in Enc. dir., XII, 1964, pag. 304, il quale definisce la deroga come sopravvivenza di una norma di specie che vige contemporaneamente alla norma di genere secondo il rapporto regola-eccezione. (10) Cfr F. MODUGNO, Ordinamento giuridico (dottrine generali), in Enc. dir., XXX, 1980, pag. 704, da ultimo in Lineamenti di teoria del diritto oggettivo, Torino, 2009. (11) Cfr. V. FRANCO, I problemi della coerenza e della completezza dell’ordinamento, in F. MODUGNO, Appunti per una teoria generale del diritto. La teoria del diritto oggettivo, Torino, 1994, pag. 159, il quale ragiona sul fatto che l’ordinamento si ispira contemporaneamente sia al valore della libertà, sia a quello della sicurezza, affermando che questi sono “valori che di solito si considerano antinomici, perché la tutela della libertà si risolve in genere a discapito della sicurezza e la tutela della sicurezza tende a limitare la libertà”. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 283 ragionevole tra ciò che è straordinario e ciò che è ordinario; la deroga opera laddove si assista alla prevalenza di una norma rispetto ad un’altra secondo il presupposto che queste norme siano entrambe valide. Va però tenuto presente che “la deroga viene disposta di volta in volta dalle singole ordinanze” (12), senza una predeterminazione da parte della norma attributiva del relativo potere, in quanto questa è “tipicamente ed esclusivamente norma sulla produzione giuridica” (13), mentre le ordinanze sono “atti di produzione giuridica”, in modo che “la deroga corre solo fra norma derogata e ordinanza, mai fra norma derogata e norma attributiva del potere di ordinanza” (14). Sul carattere normativo delle ordinanze, autorevole dottrina (15) sostiene che “può anche accadere che le ordinanze assumano contenuto (…) generale-astratto nel senso di normativo, disponendo per una serie indefinita di situazioni possibili anche in deroga al diritto vigente”, senza che sia possibile “sottrarsi all’impressione che un’ordinanza a struttura normativa assomigli molto più ad una legge temporanea che non, ad esempio, ad una autorizzazione amministrativa o al provvedimento di esonero di un impiegato o ad un decreto di esproprio”. Altri (16) riflettono sul fatto che sia preferibile distinguere sulla base delle concrete ordinanze, ritenendo che nel caso in cui un’ordinanza, per scelta discrezionale, detti una disciplina in astratto, per ogni possibile ed eventuale situazione, questa avrà una natura normativa; non mancano posizioni ancora più determinate, come quella di chi (17) vede nelle ordinanze addirittura il carattere di atti con forza di legge, dato che “in realtà la struttura delle ordinanze stesse in nulla differisce da quella delle comuni norme generali, intesa la generalità anche nel senso della ripetibilità”, e come chi (18) sostiene il valore legislativo delle ordinanze, inteso come la capacità di incidenza a livello legislativo. Queste argomentazioni trovano riscontro nella prassi che continuamente fa ricorso a misure derogatorie, per esempio adottate da commissari straordinari, non giustificabili in termini di imprevedibilità ed eccezionalità, consen- (12) Cfr. G. RAZZANO, L’amministrazione dell’emergenza. Profili costituzionali, cit., pag. 143. (13) Cfr. G.U. RESCIGNO, Ordinanza e provvedimento di necessità ed urgenza, cit., pag. 92. (14) Cfr. G.U. RESCIGNO, op. cit., pag. 93. (15) Cfr. C. ESPOSITO, Decreto-legge, in Enc. Dir., IX, Milano, 1962, pag. 835; V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, II, Padova, 1993, VI, pag. 36, e Costituzione ed ordinanze sindacali dispositive della proprietà, in Foro.it., 1956, I, pag. 456. (16) Cfr. A. SANDULLI, L’attività normativa della pubblica amministrazione, Napoli, 1970, pag. 109. (17) Cfr. C. MORTATI, Atti con forza di legge e sindacato di costituzionalità, Milano, 1964, pag. 71, il quale rileva che quando le misure sono destinate ad un numero indeterminato ed indeterminabile di soggetti, durante la permanenza della situazione di danno e di pericolo, il carattere normativo risulta innegabile, mentre il carattere della singolarità appare “solo nel senso di eccezione alla normalità”. (18) Cfr. F. MODUGNO, Principi di diritto costituzionale, Torino, 2008, pag. 156. 284 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 tendo la formazione dei già menzionati “micro-ordinamenti” derogatori di tipo diffuso sulla base di presupposti scarsamente definiti. A questo si aggiunge il fenomeno della proroga del potere di ordinanza che provoca un prolungamento stabile nel tempo delle deroghe delle norme vigenti. Ai fini del presente studio, quanto fin qui detto a livello generale va ora inquadrato nel contesto della legge n. 225 del 1992, riguardante la protezione civile. Si sceglie, quindi, tra le diverse tipologie di ordinanze, di analizzare quelle ricomprese da questa normativa, sia per il grado elevato di diffusione sia perché si ritengono più adatte, anche per esigenze comparative, con l’analisi della decretazione d’urgenza (19). 2. Legge n. 225/1992. La legge n. 225 del 1992 istituisce il Servizio nazionale della protezione civile e ha come scopo quello di porre una disciplina sistematica delle attività necessarie a prevenire e a prevedere il fatto emergenziale (20). Il legislatore, dunque, pone un obbligo all’amministrazione di predisporre programmi di previsione e di prevenzione a livello nazionale, regionale e provinciale, nel tentativo di aumentare la portata qualificatoria del diritto ordinario (21) e ridurre al minimo il ricorso a misure straordinarie. La prassi non si è posta sulla linea del legislatore del 1992 e il riferimento alle misure necessarie ha finito per allentare le maglie del tessuto normativo, introducendo un rilevante margine di discrezionalità (22); infatti, è rimesso al titolare del potere d’eccezione la valutazione sulla necessità di fronteggiare la situazione con mezzi straordinari. In particolare, va analizzato l’art. 5, denominato “Stato di emergenza e potere di ordinanza”, il quale prefigura un sistema derogatorio che permette l’assunzione della gestione dell’emergenza, tramite delibera che determini la durata e l’estensione territoriale dell’emergenza, da parte del Consiglio dei Ministri. In secondo luogo, la potestà del Presidente del Consiglio o, per sua delega del Ministro per il coordinamento della protezione civile, di emanare ordinanze in deroga ad ogni disposizione vigente, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico (23). Da ricordare anche il terzo comma, per il quale (19) Cfr. E. ALBANESI - E. ZACCARIA, Le ordinanze di protezione civile “per l’attuazione dei decreti- legge (ed altri scostamenti dalla L. n. 225/1992), in Giur. cost., 2009, pag. 2245. (20) Cfr. L. GIAMPAOLINO, Il servizio nazionale di protezione civile, Milano, 1993, pag. 57. (21) Cfr. A. SEVERI, Le ordinanze della legge n. 225/92 sulla protezione civile, in Quaderni della Luiss, 2, 1996, pag. 18, in cui l’Autore sottolinea come il ricorso straordinario al potere di ordinanza presuppone il fallimento della fase preventiva e che in “tema di protezione civile uno dei problemi fondamentali consiste nell’individuare un nucleo di “ordinarietà” nelle situazioni di emergenza”. (22) Cfr. G. MARAZZITA, L’emergenza costituzionale. Definizione e modelli, cit., pag. 434. (23) Cfr. B. CARUSO, Protezione civile e potere di ordinanza: note sull’art. 5.1 l. 225/1992, in Foro.it, 1992, pag. 3054. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 285 si possono “emanare altresì ordinanze finalizzate ad evitare situazioni di pericolo o maggiori danni a persone o a cose”; si tratta di competenze a contenuto libero, la cui norma attributiva ne prevede espressamente la portata derogatoria (24) e, in questo senso, si inserisce anche il nuovo art. 5-bis che prevede che “le disposizioni di cui all’art. 5 della legge 24 febbraio 1992, n. 225 si applicano anche con riferimento alla dichiarazione dei grandi eventi rientranti nella competenza del Dipartimento della protezione civile e diversi da quelli per i quali si rende necessaria la delibera dello stato di emergenza”. Il sistema così delineato ha assunto uno specifico rilievo nel contesto delle funzioni di Governo (25), fino a diventare una normativa di carattere generale e fondamentale sia per l’indirizzo complessivo dell’azione amministrativa sia per la politica generale dell’Esecutivo, in relazione all’indirizzo politico fissato dal rapporto fiduciario con le Camere, in linea con l’impostazione della legge n. 400 del 1988. Il quadro predisposto dalla legge 225/1992 prevede una particolare modalità di intervento del Governo alternativa a quella ordinaria, in un ottica di complementarietà; infatti, il Consiglio dei Ministri dispone del potere di dichiarazione dello stato di emergenza e di quello di ordinanza ogniqualvolta valuti determinati eventi, non ben identificati dalla legge, come meritevoli di essere gestiti in modo straordinario (26), secondo la disciplina dell’art. 2, laddove si riferisce ad “altri eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari”. A questo si aggiunge il fatto che l’art. 5 prescrive anche un meccanismo che consente al Governo di incrementare il proprio spazio di azione da un punto di vista soggettivo, statuendo, al comma 4, che il Presidente del Consiglio ovvero, per sua delega, il Ministro per il coordinamento della protezione civile, “può avvalersi di commissari delegati”, anch’essi muniti del potere di ordinanza. Rilevanti modifiche sono state apportate dal decreto-legge n. 93/2013 del 14 agosto 2013, convertito in legge n. 119/2013, intitolato “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province”. Le disposizioni introdotte in tema di protezione civile riguardano la durata dello stato di emergenza, gli ambiti di intervento definiti dalle ordinanze di prote- (24) Cfr. A. SEVERI, Le ordinanze della legge n. 225/92 sulla protezione civile, cit., pag. 14, secondo cui non si tratta di provvedimenti attuativi di previsioni più o meno precise, ma di “strumenti di intervento innovativo, e perciò derogatorio, se ciò risulta necessario per affrontare la situazione”. (25) Cfr. L. PALADIN, voce Governo, in Enc. dir., XIX, Milano, 1970, pag. 675; L. PALADIN, Le fonti del diritto, Bologna, 1996 pag. 235 ss.; cfr. S. BARTOLE, Assetto del Governo e relazioni intergovernative, in Quad. cost., 1981, pag. 354; cfr. G. PITRUZZELLA, Il Presidente del Consiglio dei ministri e l’organizzazione del Governo, Padova, 1986, pag. 41. (26) Cfr. G. RAZZANO, L’amministrazione dell’emergenza. Profili costituzionali, cit., pag. 54. 286 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 zione civile e la definizione delle risorse necessarie a far fronte alle emergenze. In particolare, il decreto-legge 93/2013 modifica, nella legge n. 225/1992, alcuni commi dell’art. 5, che riguardano lo stato di emergenza e il potere di ordinanza e introduce al decreto legislativo n. 33/2013, che disciplina gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni, un nuovo comma all’art. 42, che riguarda gli obblighi di pubblicazione sugli interventi straordinari e di emergenza che comportano deroghe alla legislazione vigente; infine, abroga il comma 8 dell’art.1 del decreto-legge n. 245 del 30 novembre 2005, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 21 del 27 gennaio 2006, “Misure straordinarie per fronteggiare l'emergenza nel settore dei rifiuti nella regione Campania ed ulteriori disposizioni in materia di protezione civile” (27). (27) Rispetto alle modifiche all’art. 5 della legge n. 225/1992, si riportano le principali novità: cambia la durata dello stato di emergenza che ora può estendersi fino a 180 giorni, invece dei precedenti 90, ed essere prorogato fino a ulteriori 180 giorni, invece di 60. La modifica è introdotta nel comma 1- bis dell’art. 5 che sostituisce interamente il precedente comma 1-bis. L’amministrazione competente in ordinario non è più individuata nella delibera con cui è dichiarato lo stato di emergenza - com’era previsto dal precedente comma 1 dell’art. 5 -, ma è direttamente individuata nell’ordinanza per favorire e regolare il subentro dell'amministrazione pubblica competente in ordinario, emanata dal Capo del Dipartimento della Protezione Civile almeno dieci giorni prima della scadenza dello stato di emergenza. L’emanazione di quest’ordinanza era già prevista dal comma 4-ter dell’art. 5. Nel comma 2 dell’art. 5, poi, sono elencate le attività che possono essere disposte tramite ordinanze, entro i limiti delle risorse disponibili, che sono: a) organizzare e effettuare i servizi di soccorso e di assistenza alla popolazione interessata dall'evento; b) ripristinare la funzionalità dei servizi pubblici e delle infrastrutture di reti strategiche; c) realizzare interventi, anche strutturali, per la riduzione del rischio residuo strettamente connesso all'evento, dando priorità a quelli finalizzati alla tutela della pubblica e privata incolumità; d) fare una ricognizione dei fabbisogni per il ripristino delle strutture e delle infrastrutture pubbliche e private danneggiate, e dei danni subiti dalle attività economiche e produttive, dai beni culturali e dal patrimonio edilizio, da realizzare sulla base di procedure definite con la stessa o un’altra ordinanza; e) avviare l'attuazione delle prime misure per far fronte alle esigenze urgenti definite dalla lettera d), secondo le direttive dettate con delibera del Consiglio dei Ministri, sentita la Regione interessata. Rispetto quindi a quanto previsto dalla legge n. 100/2012, il decreto legge n. 93/2013 introduce la possibilità che con le ordinanze di protezione civile si dispongano gli interventi, anche strutturali, per la riduzione del rischio residuo e si avviino le prime misure per il ripristino di strutture e infrastrutture e per il risarcimento dei danni. Inoltre, la delibera con cui è dichiarato lo stato di emergenza individua le risorse finanziarie da destinare agli interventi per l’emergenza nell’attesa della ricognizione dei fabbisogni effettivi ed indispensabili che farà il Commissario delegato. La delibera autorizza la spesa nell'ambito dello specifico stanziamento del “Fondo per le emergenze nazionali” e individua, in particolare, la quota di risorse destinate alle attività di soccorso e di assistenza alla popolazione interessata dall'evento (attività previste dalla lettera a del comma 2, art. 5). Se il Capo Dipartimento della Protezione Civile verifica che le risorse destinate alle attività di soccorso e di assistenza alla popolazione risultano o stanno per risultare insufficienti rispetto agli interventi da realizzare, presenta tempestivamente una relazione motivata al Consiglio dei Ministri, perché siano presi provvedimenti per integrare le risorse. Queste novità sono inserite nel comma 1 dell’art. 5 che sostituisce interamente il precedente comma 1. Il Fondo da cui vengono attinte le risorse per fronteggiare le emergenze è definito “Fondo per le emergenze nazionali istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della Protezione civile”, e sostituisce il “Fondo Nazionale”, previsto dal precedente comma 5-quinquies. Il dl n. 93/2013 introduce anche un nuovo comma all'articolo 42 del decreto legislativo n. 33/2013 che disciplina gli obblighi di CONTRIBUTI DI DOTTRINA 287 Diversi elementi, pertanto, consentono di affermare che la legge 225/1992 possa essere posta accanto alla legge 400/1988, normativa sull’ordinamento della Presidenza del Consiglio prevista dall’art. 95 Cost., quale riferimento legislativo fondamentale e generale per l’attività di governo. In sintesi, questi requisiti consistono nell’indeterminatezza della fattispecie “grandi eventi” e la relativa discrezionalità qualificatoria del Governo, nella caratteristica della legge 225/1992 di emettere ordinanze anche in deroga alle leggi vigenti in un quadro di concorrenza e di alternativa con il decretolegge, e nella possibilità, per l’Esecutivo, di attuare il proprio indirizzo politico mediante questa particolare tipologia di atti, le ordinanze, che sfuggono al controllo delle Camere. Si rafforza una modalità di governo alternativa, e, come si vedrà, per molti aspetti in contrapposizione con quella ordinaria, la quale usufruisce troppo spesso di una disciplina dal contenuto speciale e derogatorio in luogo di una normativa di carattere fondamentale e generale. Preoccupazioni per un esito di siffatta natura erano già state espresse, fin dalla fase redazionale del testo normativo, dal Presidente della Repubblica (28) in un messaggio di rinvio alle Camere, in data 15 agosto 1990 (29); i ripubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni. Con l’introduzione del comma 1-bis i Commissari delegati svolgono direttamente le funzioni di responsabili per la prevenzione della corruzione e di responsabili per la trasparenza. Queste figure sono previste rispettivamente dall’art. 1, comma 7, della legge n. 190/2012 e dall'articolo 43 dello stesso decreto legislativo n. 33/2013. Infine il dl n. 93/2013 abroga il comma 8 dell’art. 1 del decreto-legge 30 novembre 2005, n. 245, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 gennaio 2006, n. 21 che prevedeva presso il Dipartimento della Protezione Civile la costituzione di un nucleo composto da personale dell’Arma dei Carabinieri, della Guardia di Finanza e del Corpo Forestale dello Stato per svolgere attività di monitoraggio e di accertamento delle iniziative adottate dalle strutture commissariali. (28) Cfr. G. GUARINO, Il Presidente della Repubblica Italiana. Note preliminari, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1951, pag. 959; cfr. P. BARILE, I poteri del Presidente della Repubblica, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1958, pag. 295; cfr. S. CALZOLAIO, Il rinvio delle leggi nella prassi, in Quad. Cost., 2006, pag. 864. (29) Cfr. www.quirinale.it. Il Capo dello Stato rinviava, ai sensi dell’art. 74 Cost., la legge approvata dalla I Commissione permanete del Senato della Repubblica il 28 giugno 1990 e in via definitiva dalla I Commissione permanente della Camera dei Deputati il 31 luglio 1990, in quanto ritenuta inopportuna nel “merito costituzionale”. Le “forti perplessità” del Presidente si concentravano sulla figura, ritenuta di “incerta qualificazione costituzionale” del Ministro per il coordinamento della protezione civile, contestandone la rilevante competenza politica, istituzionale e giuridica, a fronte di un atto di nomina del Presidente del Consiglio avente natura di semplice atto amministrativo, in quanto “non adottato, a differenza di quelli costituzionali di formazione del Governo, con atto del Presidente della Repubblica, controfirmato dal Presidente del Consiglio dei ministri”. Altro rilievo fu quello relativo alla dichiarazione dello stato di emergenza, nei confronti del quale il Presidente notava come la Costituzione avesse voluto ignorarlo, in quanto si trattava di “situazioni la cui gestione può richiedere un diverso ordine di funzionamento dei pubblici poteri (…) ed una capacità di deroga all’ordinamento vigente in via ordinaria”. Il Presidente affermava che anche con legge ordinaria fosse possibile prevedere stati di emergenza e regimi istituzionali particolari per la loro gestione, tuttavia, “da un lato la legittimità costituzionale richiede che essi si muovano strettamente nell’ambito del sistema delle garanzie e dei diritti del cittadino e nel sistema di Governo istituito dalla Costituzione; dall’altro, la convenienza e la correttezza costituzionale, oltre ad una ordinata tecnica legislativa, che peraltro acquista rilevanza per i valori di certezza e quindi 288 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 lievi presidenziali non vennero condivisi dal Parlamento e la legge 225/1992 fu successivamente approvata e pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 17 marzo 1992, n. 64. A conferma della perdurante attualità delle questioni già segnalate, va ricordato un comunicato della Presidenza della Repubblica, denominato: “A proposito di alcune dichiarazioni sugli atti relativi a stati di emergenza e grandi eventi” (30). Sempre in relazione alle questioni poste dalla legge 225/1992 aspetto non secondario riguarda le competenze legislative statali e regionali in tema di protezione civile. Già il d.lgs. n. 112 del 1998 statuiva che le funzioni relative alla protezione civile dovevano essere conferite alle Regioni e agli Enti locali in base al principio di sussidiarietà. Con la riforma del Titolo V, attuata con la legge costituzionale n. 3 del 2001, si dispone che la protezione civile diviene materia concorrente tra Stato e Regioni, demandando, in particolare, allo Statuto e alle leggi regionali la disciplina del conferimento e dell’esercizio delle funzioni amministrative, e alla potestà regolamentare degli Enti locali le disposizioni di dettaglio in riferimento all’organizzazione della protezione civile (31). In questo assetto, si verifica il fenomeno dell’attrazione della protezione civile in situazioni che sono unicamente determinate da inadeguatezza, ma prive dei requisiti emergenziali. A titolo di esempio, va ricordato l’art. 3 della legge n. 210 del 2008, che ha convertito il decreto-legge n. 172/2008, relativo allo smaltimento dei rifiuti in Campania, in cui, modificando il d.lgs n. 267 del 2000, è prevista la rimozione dei componenti eletti degli Enti locali laddove, ai sensi di una dichiarazione ex legge 225/1992, vi sia uno stato di emergenza nel settore dei rifiuti (32). riconoscibilità giuridica degli atti che esse predispone, richiedono la massima chiarezza e l’aderenza a rigorosi criteri di necessità nell’istituire regimi speciali di esercizio di funzioni amministrative, in deroga all’organizzazione ordinaria ed alla legislazione vigente in via permanete ed ordinaria”. (30) Cfr. www.quirinale.it, comunicato del 15 febbraio 2010, in cui, richiamando il discorso alle Alte Magistrature del 21 dicembre 2009, il Capo dello Stato evidenziava “il rischio del prodursi effetti negativi sul livello qualitativo dell’attività legislativa e sull’equilibrio del sistema delle fonti che derivano - oltre che dal frequente e ampio ricorso alla decretazione d’urgenza nonché dalla notevole estensione in sede di conversione del contenuto di tali provvedimenti - anche dal crescente uso e dilatazione delle ordinanze d’urgenza”. (31) Cfr. F. GANDINI - A. MONTAGNI, La protezione civile. Profili costituzionali e amministrativi, riflessi penali, Milano, 2007, pag. 56. (32) Cfr. G. RAZZANO, L’amministrazione dell’emergenza. Profili costituzionali, cit., pag. 203, nota 4, dove si afferma che “con riguardo alla modifica dell’art. 142 del T.u.e.l. non si può fare a meno di notare che il riferimento al Sottosegretario di Stato, istituito dal decreto-legge n. 90/2008 con riguardo ad una specifica emergenza, appare improprio nelle misura in cui è riferito a norme (l. 225/1992 e d.lgs n. 267/2000) che non prevedono tale figura. Va infine osservato che il d.l. 172/2008 era, su questo punto, meno stringente della legge di conversione n. 210/2008, in quanto non era originariamente previsto né che l’inosservanza fosse “grave”, né che fosse assegnato il “congruo termine” prima del provvedimento di rimozione”. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 289 Nella parte in cui il legislatore parla di “grave inosservanza di specifici obblighi posti a carico dei Comuni” si fa riferimento alle relative ordinanze che concorrono alla precisazione e specificazione di tali obblighi. Da questo, si evince che la questione delle ordinanze di protezione civile si congiunge e si mescola ai poteri sostitutivi statali nei confronti degli Enti locali (33), previsti dall’art. 120, comma 2, Cost. e dall’art. 8 della legge n. 131 del 2003, e in entrambi i casi il commissariamento (34) è la soluzione prescelta. Nonostante la riforma costituzionale del 2001, la legge 225/1992 resta la via più immediata e privilegiata per l’esercizio del potere sostitutivo statale, con conseguente compressione impropria dell’autonomia locale. Il quadro, dunque, si è alquanto complicato e, nel tentativo di evidenziare alcune linee guida, è opportuno rifarsi anche alla giurisprudenza costituzionale. In tal senso, degna di nota è la sentenza n. 127 del 1995 (35), in cui la Corte risolve un conflitto di attribuzione sollevato dalla Regione Puglia contro il Governo, che aveva dichiarato con d.P.C.M. lo stato d’emergenza e adottato una conseguente ordinanza. La Corte risolve il conflitto dichiarando, da un lato, che spetta allo Stato ricorrere alla dichiarazione dell’emergenza in ordine alla situazione determinatasi nella Regione Puglia, e, dall’altro, che non spetta allo Stato introdurre prescrizioni che conferiscano ad organi amministrativi poteri d’ordinanza non adeguatamente circoscritti nell’oggetto e tali da derogare a settori di normazione primaria richiamati in termini assolutamente generici (36). (33) Cfr. C. MAINARDIS, Poteri sostitutivi statali e autonomia amministrativa regionale, Milano, 2007, pag. 50, 198, 212, il quale distingue poteri sostitutivi in senso stretto e poteri surrogatori sganciati dall’inerzia regionale e adottati in situazioni di urgenza, sebbene ritenga possibile ricondurre gli uni e gli altri, qualora vi siano le condizioni, alla disciplina dell’art. 120 della Costituzione. (34) Cfr. R. DICKMANN, Competenza e regime giuridico dei provvedimenti adottati nell’esercizio dei poteri sostitutivi e di ordinanza del governo, in Foro amm. CdS, 2008, pag. 2549. (35) Cfr. Corte cost., sent. n. 127/1995, in Giur. cost., 1995, pag. 2140, in cui nel chiedere l’annullamento di due atti, la Regione lamenta la violazione degli artt. 117, 118, 119, 133 della Costituzione, oltre ad alcune disposizioni dello Statuto regionale. Secondo la Regione, non ricorrendo la “calamità naturale” o la “catastrofe”, la situazione non rientrerebbe nella lettera c) dell’art. 2 della legge 225/92 bensì nella lettera b) del medesimo articolo e, di conseguenza, non spettava all’Esecutivo l’intervento con “mezzi e poteri straordinari”, ma era sufficiente “l’intervento coordinato di più enti o amministrazioni competenti in via ordinaria”. In subordine la Regione richiede che la Corte costituzionale sollevi davanti a sé una serie di questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto la stessa legge istitutiva del Servizio nazionale della protezione civile, la più volte ricordata legge n. 225 del 24 febbraio 1992. Nello specifico la Regione lamenta l’illegittimità dell’art. 5, nella parte in cui consentirebbe, in tempi di emergenza, di vulnerare le competenze regionali nonostante si tratti di poteri aventi immediata copertura costituzionale e quindi inderogabili in ogni tempo. Le Regione poi denuncia l’illegittimità degli artt. 3, comma 5, e 5, comma 1, nella parte in cui, non condizionando il mantenimento dei poteri d’emergenza al sussistere dei presupposti giustificativi, conferiscono eccessiva discrezionalità al Governo, ponendosi in contrasto con gli artt. 1, 5, 11, 70, 76, 77, 117, 118, 119 della Costituzione. (36) Cfr. G.U. RESCIGNO, Sviluppi e problemi nuovi in materia di ordinanze di necessità ed urgenza e altre questioni in materia di protezione civile alla luce della sentenza n. 127 del 1995 della Corte costituzionale, in Giur. cost., 1995, pag. 2185. 290 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 Da questa sentenza emergono due principi generali, estensibili a tutte le ordinanze di necessità ed urgenza: il primo concerne che non è ammissibile, nonostante il fatto emergenziale, comprimere il ruolo delle Regioni, privandole del potere di co-decidere con altre autorità; il secondo riguarda la prescrizione per le ordinanze che elencano atti normativi derogabili di procedere in modo congruo e proporzionato, concedendo al giudice ordinario la facoltà di annullare o disapplicare l’elenco nella parte in cui non risulti né congruo né proporzionato (37). Pertanto, il potere di deroga della normativa primaria conferito ad autorità amministrative ha carattere eccezionale e si esplica in deroghe temporalmente delimitate e non anche in abrogazioni o modifiche di norme vigenti (38). Questo potere richiede una specifica autorizzazione legislativa, idonea a circoscriverne il contenuto, i tempi e le modalità di esercizio, in modo che emerga chiaramente la relazione di strumentalità che intercorre tra l’emergenza e le misure atte a fronteggiarla, le quali individuano le norme primarie di cui si consente la temporanea sospensione. Il fatto emergenziale, infatti, non legittima il sacrificio illimitato dell’autonomia regionale e locale, poiché il richiamo ad una finalità di interesse generale non può giustificare misure che portino con sé una violazione ad una sfera di interessi garantita costituzionalmente. Vi è poi un’altra importante sentenza che merita attenzione e che permette di comprendere meglio la complessità delle questioni legate all’emergenza, specie quando questa, prolungandosi per un periodo indeterminato, giunge a soppiantare l’ordinario assetto delle istituzioni locali. Si tratta della sentenza n. 277 del 2008 (39), in cui la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Calabria n. 27 del 28 dicembre 2007, denominata “Integrazione piano regionale dei rifiuti”, la quale aveva disposto la sospensione delle norma contenuta nel piano di gestione dei rifiuti della Regione, che autorizzava la realizzazione del raddoppio del termovalorizzatore di Gioia Tauro. Codesto piano di gestione era stato disposto con l’ordinanza n. 6294 del 30 ottobre 2007 da parte del commissario straordinario; ci si trova, quindi, nel problematico contesto di una amministrazione straordinaria, dinanzi ad una legge regionale successiva e contrastante con una ordinanza commissariale emanata in base agli artt. 2 e 5 della legge 225/92 (40). (37) Cfr. G.U. RESCIGNO, Sviluppi e problemi nuovi in materia di ordinanze di necessità ed urgenza e altre questioni in materia di protezione civile alla luce della sentenza n. 127 del 1995 della Corte costituzionale, cit., pag. 2202. (38) Cfr. G. MARAZZITA, L’emergenza costituzionale. Definizione e modelli, cit., pag. 441. (39) Cfr. Corte cost., sent. 277/2008, in Giur. cost., 2008, pag. 3119. (40) Cfr G. RAZZANO, L’amministrazione dell’emergenza. Profili costituzionali, cit., pag. 210, la quale ricostruisce il percorso giurisprudenziale operato dalla Corte costituzionale. In tema di competenze CONTRIBUTI DI DOTTRINA 291 Si afferma una posizione della giurisprudenza costituzionale secondo la quale, mediante la legge 225/92, “il legislatore statale ha rinunciato ad un modello centralizzato per una organizzazione diffusa a carattere policentrico”, sebbene “calamità naturali, catastrofi o altri eventi che, per intensità o estensione, richiedono mezzi e poteri straordinari” (41) siano di specifica competenza statale, l’esercizio di tali poteri deve avvenire d’intesa con le Regioni interessate. Sono pertanto da giudicarsi incostituzionali le leggi regionali contrastanti con i principi fondamentali della materia “protezione civile”, contenuti nell’art. 5 della legge 225/92. La Corte reputa fondato l’intervento statale ed afferma che le leggi regionali che intendano “neutralizzare” gli effetti prodotti da ordinanze d’urgenza emanate dai commissari straordinari delegati dall’Esecutivo sono invalide, perché contrarie ai principi fondamentali dettati dal legislatore statale in una materia di competenza concorrente, quale è quella della protezione civile (42). È fondata la definizione data della legge 225/92 come “norma di chiusura del sistema” (43), in quanto evidenzia che nella materia “protezione civile” può rientrare praticamente tutto. Dal contesto evidenziato si impone una riflessione sul significato dell’autonomia regionale, laddove entri in relazione con un intervento dello Stato ritenuto, date le circostanze, imprescindibile. La questione che si pone è quella della sussidiarietà, la quale è ancora troppo ancorata a logiche centralistiche ed ascensionali mentre andrebbe privilegiata una impostazione che sia in grado di permettere alle Regioni, e alle autonomie locali in generale, di esercitare le proprie competenze costituzionalmente garantite evitando, o riducendo al minimo i tempi dell’emergenza. Questo a conferma del fatto che il livello di governo maggiore risulta spesso inadeguato alla risoluzione dei problemi per i quali è stato adito sulla base della sussidiarietà, tralasciando che tale intervento dovrebbe sopraggiungere solamente ed unicamente come un sostegno in casi di effettiva e comprovata inadempienza ed incapacità del livello di governo inferiore, in un’ottica di rafforzamento della responsabilità delle autonomie locali (44). statali e regionali, “il giudice delle leggi richiama la legge n. 225 del 1992, il d.lgs n. 112 del 1998 e il d.l. 343 del 2001, convertito nella legge n. 401 del 2001, in quanto norme che concretizzano e specificano la norma costituzionale invocata a parametro, in questo caso, l’art. 117, terzo comma, Cost.”[…] “in particolare il d. lgs n. 112 del 1998 (art. 107, comma 1, lett. b e c), così come chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 82 del 2006 - quindi in un momento successivo alla riforma costituzionale - esclude che il riconoscimento di poteri straordinari e derogatori della legislazione vigente possa avvenire da parte della legge regionale, data l’esigenza di unitarietà, coordinamento e direzione”. (41) Cfr. Corte cost., sent. 347/2003, in Giur. cost., 2003, pag. 3624; cfr. Corte cost., sent. 129/2006, in Giur. cost., 2006, pag. 1198; cfr. Corte cost., sent. 284/2006, in Giur. cost., 2006, pag. 2916. (42) Cfr. G. RAZZANO, L’amministrazione dell’emergenza. Profili costituzionali, cit., pag. 211. (43) Cfr. F. MODUGNO, Riflessioni interlocutorie sulle conseguenze della trasformazione del decreto- legge, in Scritti in memoria di A. Piras, Milano, 1996, pag. 467. 292 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 La prassi contraria a questo disegno ha pertanto consentito, legittimamente, di parlare di “assistenzialismo consensuale” (45). Occorre evitare che si determini una “stabilizzazione dell’emergenza”, e questo è aggravato dal dato formale consistente nella coincidenza tra il titolare del commissariamento e il titolare dell’organo sostituito in quanto si viene, inevitabilmente, a spezzare il legame tra la comunità territoriale oggetto dell’intervento emergenziale e il suo rappresentante legittimamente eletto; in questo modo, si accresce il divario tra i cittadini e le decisioni di chi è chiamato ad amministrare poiché quest’ultimo, una volta dotato dei poteri ex art. 5 legge 225/92, sarà tenuto a rispondere della sua azione al Governo che lo ha nominato, in evidente contrasto con i principi di autonomia territoriale e con lo stesso principio di sussidiarietà (46). In riferimento alla legislazione e alla giurisprudenza finora riportata, è necessario un approfondimento sulla circostanza che la legge 225/92 rappresenta titolo di legittimazione ulteriore di interventi statali rispetto all’elencazione di materie operata dall’art. 117 della Costituzione. È ipotizzabile una configurazione, nel suo complesso, della stessa legge 225/92 anche come clausola generale, idonea, quindi, a permettere nuove azioni dello Stato a prescindere dalla allocazione di materia tra Stato e Regioni. Si verifica una estensione di quanto la Corte costituzionale ha affermato nella sentenza 303 del 2003 (47), in cui si è giustificato l’attrazione di funzioni amministrative a livello nazionale e la relativa disciplina legislativa statale (48). È infatti applicabile anche al potere necessitato d’ordinanza previsto dalla legge 225/92 la elaborazione data dalla Consulta secondo cui “limitare l’attività unificante dello Stato alle sole materie espressamente attribuitegli in potestà esclusiva o alla determinazione dei principi nelle materia di potestà (44) Cfr. G. RAZZANO, Sui principi di sussidiarietà, differenziazione, adeguatezza e leale collaborazione, in F. MODUGNO - P. CARNEVALE (a cura di), Nuovi rapporti Stato-Regione, dopo la legge costituzionale n. 3 del 2001, Milano, 2003, pag. 30. (45) Cfr. G. RAZZANO, L’amministrazione dell’emergenza. Profili costituzionali, cit., pag. 220, la quale riporta il pensiero della relazione finale del 15 febbraio 2006 della Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse, XIV legislatura, in cui si afferma che “la naturale riespansione del disegno costituzionale, anche a seguito delle modifiche conseguenti alla legge n. 3 del 2001, vuole il rispetto delle autonomie dei diversi livelli di governo delle comunità locali, come condizione dell’operatività ordinaria del principio di sussidiarietà: solo una distinzione chiara fra competenze, poteri di coordinamento ed interventi sostitutivi consentirà di non ripetere più l’azione sussidiaria come inscindibilmente collegata alla straordinarietà e, quindi, al commissariamento”. (46) Cfr. R. Cerulli Irelli, Principio di legalità e poteri straordinari dell’amministrazione, in Dir. Pubbl., 2007, pag. 360. (47) Cfr. Corte cost., sent. 303/2003, in Giur. cost., 2003, pag. 2675. (48) Cfr. R. DICKMANN, La Corte costituzionale attua (ed integra) il Titolo V (Osservazioni a Corte cost., 1° ottobre 2003, n. 303), in federalismi.it, n. 12/2003; cfr. G. RAZZANO, La “reinterpretazione” della sussidiarietà nella recente giurisprudenza costituzionale, con particolare riguardo alle novità introdotte dalla sent. n. 303/2003, in Giur. cost., 2005, pag. 201. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 293 concorrente (…) significherebbe bensì circondare le competenze legislative delle Regioni di garanzie ferree, ma vorrebbe dire svalutare oltremisura istanze unitarie che pure in assetti costituzionali fortemente pervasi da pluralismo istituzionale giustificano, a determinate condizioni, una deroga alla normale ripartizione delle competenze”. In tal modo, è possibile affermare che lo Stato interviene indipendentemente dalla distribuzione di materia disciplinata dall’art. 117 Cost. sia mediante l’interpretazione dinamica del principio di sussidiarietà, affermatasi nella sentenza n. 303/2003, sia mediante le procedure della legge 225/92, assieme agli “aggiornamenti in senso regionalistico” (49) di questa, ossia il d.lgs n. 118/1998 e la legge n. 401/2001, che hanno portato ad una importante riconsiderazione del ruolo delle intese tra Stato e Regioni, come contrappeso alla realizzatasi sottrazione di spazi regionali. È inoltre importante sottolineare l’impiego della nozione di deroga operata dalla Corte costituzionale; sempre nella sentenza n. 303/2003, il giudice delle leggi afferma che “i principi di sussidiarietà e di adeguatezza convivono con il normale riparto di competenze legislative contenuto nel Titolo V e possono giustificarne una deroga solo se la valutazione dell’interesse pubblico sottostante all’assunzione di funzioni regionali da parte dello Stato sia proporzionata, non risulti affetta da irragionevolezza alla stregua di uno scrutinio stretto di costituzionalità e sia oggetto di un accordo stipulato con la Regione interessata”. Questo medesimo significato di deroga è estensibile anche alla legge 225 del 1992 e, in tal modo, ne viene sottolineata la specialità della normativa stessa. 3. I limiti delle ordinanze necessarie e la “riserva” di decretazione d’urgenza. Si è finora evidenziato come la legge sulla protezione civile sia diventata un riferimento legislativo generale e fondamentale per l’attività di governo, producendo un numero tale di ordinanze da poter affermare che le stesse, anziché provvedimenti eccezionali, straordinari e residuali, abbiano assunto la natura di atti consueti, abituali e, di conseguenza, ordinari. Si tratta di atti amministrativi preferiti alle norme in considerazione della loro duttilità, della semplicità e della rapidità di adozione, i quali raramente vanno ad affrontare fatti emergenziali secondo i requisiti esposti. Il presupposto per la loro operatività non è più soltanto la calamità o l’imprevisto, ma qualunque situazione che le autorità legittimate dalla legge ritengano di dover gestire con mezzi e poteri straordinari, come recita l’art. 2, lettera c) della legge 225/92. (49) Cfr. A. FIORITTO, L’amministrazione dell’emergenza tra autorità e garanzie, Bologna, 2008, pag. 243; cfr. G. RAZZANO, L’amministrazione dell’emergenza. Profili costituzionali, cit., pag. 47. 294 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 Il tema che si pone all’attenzione è dunque quello dell’ammissibilità di tali ordinanze e i limiti che esse incontrano. La dottrina (50) che si è occupata della questione ha variamente argomentato sul merito e alcuni (51) fondano le proprie considerazioni sull’esistenza di un’autorizzazione legislativa finalizzata a legittimare la deroga alla legge nel rispetto del principio di legalità e delle riserve di legge relative; in relazione a quest’ultimo aspetto va segnalata la posizione di chi ritiene che “se la riserva relativa esige la previa indicazione dei criteri direttivi ai quali dovrà attenersi la pubblica amministrazione nell’usare il potere discrezionale che le è attribuito, la ricostruzione dei limiti alla discrezionalità permette di individuare in positivo quei criteri, quelle finalità, quegli ambiti particolari, in cui il potere può esplicarsi” (52). Altri sottolineano la presunta mancanza di natura normativa che escluderebbe una antinomia diretta con le leggi derogate, ritenendo decisivo l’argomento della tassatività della fonti del diritto (53); altri ancora riflettono sulla mancanza della forza di legge (54) o sulla necessità quale fonte del diritto ido- (50) Cfr. G.U. RESCIGNO, Ordinanza e provvedimenti di necessità ed urgenza, cit., pag. 89; cfr. F. BARTOLOMEI, Ordinanza (diritto amministrativo), cit., pag. 970; C. GALATERIA, I provvedimenti amministrativi di urgenza. Le ordinanze, cit., pag. 42; cfr. M.S. GIANNINI, Potere di ordinanza e atti necessitati, cit., pag. 388; cfr. V. POLACCO, Legge e provvedimento amministrativo in materia di diritto di sciopero, in Giur. cost., 1977, pag. 264. Si ricorda anche S. AGOSTA, Il potere d’ordinanza contigibile ed urgente quale laboratorio costituzionale a cielo aperto, in www.gruppodipisa.it; S. AGOSTA, Ruolo del Presidente della Repubblica e ordinanze contingibili ed urgenti del Governo, in Evoluzione del sistema politicoistituzionale e ruolo del Presidente della Repubblica, Atti di un incontro di studio, Messina-Siracusa, 19-20 Novembre 2010, a cura di A. RUGGERI, Torino, pag. 387 ss.; CARAPELLUCCI, Il potere d’ordinanza oltre l’emergenza: i problemi dell’impiego ordinario di uno strumento “extra ordinem”, in Foro amm., T.A.R., 2010. Pag. 328 ss; G. MARAZZITA, Conflitto tra autorità e regole: il caso del potere d’ordinanza, in www.forumcostituzionale.it. (51) Cfr. G.U. RESCIGNO, Ordinanza e provvedimenti di necessità ed urgenza, cit., pag. 95, secondo il quale se “non sembra contestabile che le norme attributive di poteri di ordinanza come minimo autorizzano la Pubblica Amministrazione a derogare in casi di necessità e di urgenza a norme poste da fonti subordinate alle leggi”, “risposta parimenti positiva deve darsi alla domanda se le ordinanze possono intervenire anche in deroga a legge in materie non coperte da alcuna riserva”. Sulla stessa linea inoltre cfr R. CAVALLO PERIN, Potere di ordinanza e principio di legalità, cit., pag. 8. (52) Cfr. A. SEVERI, Le ordinanze della legge n. 225/92 sulla protezione civile, cit., pag. 30, il quale già in precedenza (pag. 28) aveva affermato che “la possibilità per le ordinanze di disporre in materia coperta da riserva relativa” acquista un particolare rilievo in materia di protezione civile “poiché il potere derogatorio tende ad esprimersi soprattutto nei confronti del riparto delle competenze, che - come è ben noto - secondo l’art. 97 Cost. è stabilito secondo disposizioni di legge”. (53) Cfr. F. MIGLIARESE, Ordinanze di necessità, in Enc. giur., XXII, Roma, 1990, pag. 93, il quale sostiene che “ciascun ordinamento determina rispetto a sé quali siano gli atti normativi e quali no, sicché l’esame va compiuto per ciascun atto e non secondo criteri generali”. (54) Cfr. L. PALADIN, Commento all’art. 77, in Commentario alla Costituzione, a cura di BRANCA, Bologna, 1979, pag. 69, il quale esclude che alle ordinanze di necessità possa essere riconosciuta l’efficacia della legge sulla base della considerazione che tale efficacia può essere attribuita solo ad atti deliberati dal Consiglio dei Ministri e mai ad atti adottati da autorità diverse dal Governo. Ancora cfr. G.U. RESCIGNO, Ordinanza e provvedimenti di necessità ed urgenza, cit., pag. 94, il quale esclude l’attribuzione alle ordinanze della forza di legge in quanto non possono aversi atti non normativi con forza di CONTRIBUTI DI DOTTRINA 295 nea a legittimare interventi che sono necessitati in presenza di lacune dell’ordinamento giuridico (55). Infine, anche sulla base della giurisprudenza costituzionale, ci si concentra sull’applicazione del criterio secondo il quale la natura di atto-fonte va ricavata non argomentando in astratto ma prestando attenzione ad ogni dato utile che emerga dal diritto positivo (56). Nonostante la ponderazione e la capacità argomentativa di queste ricostruzioni, sulla base di quanto fin qui studiato, è lecito avanzare alcuni dubbi sulla piena costituzionalità del potere necessitato d’ordinanza sia in termini generali sia con particolare riferimento alla disciplina della legge 225/92. Nel tentativo di sostenere giuridicamente quanto appena affermato, è utile partire rilevando l’estrema eterogeneità delle norme contenute nella legge 225, all’interno della quale si evidenziano, da un lato, disposizioni riguardanti l’istituzione e la complessa articolazione del Servizio nazionale di protezione civile, dall’altro, emerge una disciplina che tocca punti nevralgici dell’ordinamento in relazione all’ampia ed indefinita possibilità derogatoria. Nella prassi si è imposta una natura normativa delle ordinanze di protezione civile che ha consentito di produrre diritto per ogni situazione possibile (57); ci si trova dinanzi, quindi, ad una sospensione delle norme vigenti, per effetto della deroga contenuta nelle ordinanze, ossia da fonte subordinata, senza alcun termine prefissato (58). Le disposizioni vigenti derogate assumono il carattere di norme “dispositive” o “suppletive”, come quando “provvedimenti concreti e puntuali, od legge, l’attribuzione di tale forza “ha significato in quanto serve ad individuare gli atti soggetti al solo giudizio della Corte costituzionale”, forza innovativa nell’ordine legislativo possiedono anche gli atti legali in deroga a norme dispositive, le ordinanze hanno una limitata e temporanea capacità innovativa mentre per forza di legge si intende una generale capacità di innovare stabilmente l’ordinamento giuridico. (55) Cfr. R. CAVALLO PERIN, Potere di ordinanza e principio di legalità, cit., pag. 70. (56) Cfr. F. MIGLIARESE, Ordinanze di necessità, cit., pag. 2; cfr. F. BARTOLOMEI, Ordinanza (diritto amministrativo), cit., pag. 970. (57) Cfr. G. RAZZANO, L’amministrazione dell’emergenza. Profili costituzionali, cit., pag. 191. (58) Cfr. F. MODUGNO, Norma singolare, in Enc. dir., 1978, pag. 520, il quale sostiene che “deroga e sospensione, più che due strumenti diversi per la posizione dell’eccezione, costituiscono gli aspetti, per così dire, positivo e negativo di uno stesso fenomeno”. Diversamente cfr. G.U. RESCIGNO, Deroga (in materia legislativa), in Enc. dir., vol. XII, Milano, 1964, pag. 304, il quale distingue deroga e sospensione, in quanto solo quest’ultima - anche se temporaneamente - priverebbe in tutto l’efficacia della norma sospesa; mentre nel fenomeno derogatorio, la norma derogata continua a dispiegare una qualche efficacia. Inoltre cfr. A. PINNA, L’emergenza nell’ordinamento costituzionale italiano, cit., pag. 59, per il quale occorre distinguere tra le leggi eccezionali d’emergenza e le leggi speciali in tempi normali; solo con riguardo alle prime vi sarebbe sospensione, ossia perdita di efficacia temporanea di una norma, mentre per le seconde opererebbe una deroga permanente, per cui l’efficacia della norma comune sarà di nuovo attuale non appena sopravvenga l’abrogazione della norma derogatoria. Infine, cfr. V. ANGIOLINI, Urgente necessità ed emergenza: la Corte costituzionale ci ripensa?, in Le Regioni, 1987, pag. 1571, secondo il quale la durata della sospensione è simile ad una deroga permanente, divenendo difficilmente individuabile la distinzione tra le stesse. 296 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 anche negozi privati, siano facoltizzati a derogare per singoli casi a norme di legge” (59). Tuttavia, oltre a ribadire che è la singola ordinanza a derogare norme primarie (60), è stato adeguatamente notato che non si tratta neppure di “singoli casi”, in quanto concretamente si è dinanzi ad una parte rilevante dell’apparato amministrativo che, secondo queste modalità, gestisce complessi interventi anche di portata economica (61). Da qui con più forza si è sottolineato l’emergere di “un’ampia zona sostanzialmente franca da controlli giuridici, in cui organi privi di investitura democratica o democraticamente legittimati ad esercitare poteri ordinari, nell’osservanza della normativa vigente, operano invece con potere di ordinanza in deroga ad ogni disposizione vigente” (62) . Questo quadro mette in luce le contraddizioni della legge 225/92, in cui da un lato sembra trovare applicazione il principio di legalità (63), dall’altro sono le ordinanze a prevalere sulla legge anche per lunghi periodi; calzante risulta l’impostazione di chi ha paragonato queste situazioni alle problematiche relative alle cosiddette norme penali “in bianco” (64) o alle delegificazioni compiute senza che l’intervento del legislatore si articoli nella determinazione di norme generali regolatrici della materia (65). Di conseguenza, dal momento che è stato segnalato che le deroghe alle leggi sono tante e tali da divenire deroghe ai principi, che invece dovrebbero costituire un limite per le ordinanze stesse (66), si rafforzano i dubbi sulla co- (59) Cfr. V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, II, Padova, 1993, VI ediz., pag. 222. (60) Cfr. G.U. RESCIGNO, Ordinanza e provvedimenti di necessità ed urgenza, cit., pag. 92. (61) Cfr. F. SALVIA, Il diritto amministrativo e l’emergenza derivante da cause e fattori interni all’amministrazione, in Il diritto amministrativo dell’emergenza, Annuario dell’Associazione italiana dei Professori di Diritto Amministrativo 2005, Milano, 2006, pag. 97. (62) Cfr. G. STAIANO, Note introduttive al volume Le autonomie al centro, a cura di SCUDIERO, Napoli, 2007, XXII. (63) Cfr. M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, I, Milano, 1970, pag. 81; inoltre cfr. F. MODUGNO, Principi generali dell’ordinamento, in Enc. giur., XXIV, 1991, pag. 5, secondo il quale le “sue virtualità immanenti” sono ormai intrecciate con il processo di costituzionalizzazione. In tal senso anche cfr. R. CERULLI IRELLI, Principio di legalità e poteri straordinari dell’Amministrazione, cit., pag. 345. (64) Cfr. G. AMATO, Sufficienza e completezza della legge penale, in Giur. cost., 1964, pag. 490; inoltre cfr. M. D’AMICO, Il principio di determinatezza in materia penale fra teoria e giurisprudenza costituzionale, in Giur. cost., 1998, pag. 391. (65) Cfr. T. MARTINES, Delegificazione e fonti del diritto, in Studi Biscaretti, II, Milano, pag. 31; cfr. V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, cit., pag. 153; cfr. MODUGNO - CELOTTO - RUOTOLO, Considerazioni sulla “crisi” della legge, in Studi parlamentari e di politica costituzionale, 1999, pag. 23. (66) Cfr. R. CERULLI IRELLI, Principio di legalità e poteri straordinari dell’Amministrazione, cit., pag. 360, il quale rileva che i principi generali dell’ordinamento non hanno mai rappresentato un riferimento normativo sicuro ed apprezzabile per il sindacato sulle ordinanze contingibili ed urgenti. L’Autore ha evidenziato che i poteri straordinari disegnano “fattispecie del tutto aperte, sia in ordine all’imputazione soggettiva, sia in ordine alla disciplina sostanziale”, e ha indicato come il principio dell’autonomia locale o quello della gara pubblica negli appalti sia costantemente violato nell’esercizio del potere necessitato d’ordinanza, senza alcuna sanzione giurisprudenziale. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 297 stituzionalità della legge 225/92, e queste perplessità possono essere così sintetizzate: l’indeterminatezza del presupposto richiesto per la dichiarazione d’emergenza, l’assenza di condizioni per la proroga e per il controllo, da parte delle Camere, del commissariamento, e la mancanza di previsione di un termine massimo per la durata dell’emergenza (67). Il notevole ricorso ad ordinanze in deroga a numerose leggi e a interi assetti normativi si pone in contrasto anche con il principio dell’art. 70 Cost., secondo cui la funzione legislativa spetta al Parlamento. Persino le ordinanze, e non solo gli atti di decretazione d’urgenza, sono in concorrenza con la legge parlamentare, aumentando le criticità del fenomeno della “crisi della legge” (68). Va poi aggiunta la lesione al principio di uguaglianza, dovuta al fatto che il territorio nazionale, a motivo delle varie emergenze, risulta amministrato in modo difforme ed estremamente eterogeneo, e questo avviene non per adempiere al principio di differenziazione (69) ma per la permanenza di regimi straordinari, a prescindere da una effettiva valutazione dei risultati ottenuti e delle responsabilità. L’eccessiva centralizzazione operata dalla legge 225/92 conferma la violazione del principio autonomistico, sancito dall’art. 5 della Costituzione (70). Un punto particolarmente critico riguarda la possibile individuazione di una riserva di decreto-legge in tema d’emergenza e la conseguente lesione della forza di legge da parte del potere necessitato d’ordinanza. È bene procedere con ordine in relazione a queste articolate argomentazioni. Si è già avuto modo di riflettere (71) sul fatto che l’art. 77 Cost. esclude (67) Cfr. G. RAZZANO, L’amministrazione dell’emergenza. Profili costituzionali, cit., pag. 195, la quale inoltre nota che “contro la vaghezza del presupposto, nulla ha potuto l’espressa previsione del limite dei principi generali dell’ordinamento”; cfr. A. CARDONE, La direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 14 marzo 2011 in materia di deliberazione dello stato di emergenza e di adozione ed attuazione delle ordinanze di protezione civile, in www.osservatoriosullefonti.it, n. 2/2011. Inoltre cfr. M. GNES, I limiti del potere d’urgenza, in Riv. Trim. dir. pubbl., 2005, pag. 677. (68) Cfr. MODUGNO - NOCILLA, Crisi della legge e sistema delle fonti, in Dir. e soc., 1989, pag. 415 e 425, in cui si sottolinea come lo Stato sia “divenuto ormai amministrativo”, ed anche in relazione a situazioni, gestite ancora in assenza della legge 225/92, si protraeva comunque l’emergenza e, con essa, un regime derogatorio. (69) Cfr. A. POGGI, Il principio di “differenziazione” regionale nel Titolo V e la “clausola di differenziazione” del 116, comma 3: modelli, prospettive, implicazioni, Relazione tenuta al Convegno Il regionalismo differenziato. L’esperienza italiana e quella spagnola a confronto, Centro Studi sul Federalismo, Moncalieri 23-24 novembre 2007. (70) Cfr. GIUFFRÉ, Calamità naturali ed emergenza nella transizione costituzionale italiana: spunti a proposito di retaggi statalistici e nuova ispirazione autonomistica, in Dir. e soc., 2001, pag. 111; cfr. B. ALBANESE, Il principio di sussidiarietà orizzontale: autonomia sociale e compiti pubblici, in Dir. pubbl., 2002, pag. 51; cfr. L. ANTONINI, Sulla giustiziabilità del principio di sussidiarietà orizzontale, in Quad. cost., 2003, pag. 635. (71) Cfr. G. BERNABEI, Riflessione critica sulla decretazione d’urgenza, in www.federalismi.it, n. 21/2014. 298 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 che le “leggi ordinarie possano prevedere che organi diversi dal Governo possano essere parimenti e concorrentemente abilitati a prendere provvedimenti extra ordinem in caso di necessità ed urgenza”(72), e che il richiamo costituzionale alla responsabilità governativa “vale anche ad escludere che possano in alcun modo equipararsi ai decreti-legge - ora per la loro natura, ora per il regime, ora per l’efficacia - le “ordinanze di necessità” e altri provvedimenti “contingibili e urgenti” che siano adottati da autorità diverse dal Governo sulla base di poteri loro conferiti dalla legislazione ordinaria” (73). Lo sviluppo di queste impostazioni conferma l’individuazione di una riserva di decreto-legge dinanzi al fatto emergenziale, in conformità a quanto statuito dal Costituente, il quale ha voluto regolare la situazione in cui sia necessario intervenire con atti aventi forza di legge, ma non sia possibile, per la criticità della contingenza, ricorrere alla legislazione ex art. 70 oppure ex art. 76 della Costituzione, comportando che, in tal evenienza, non solo si può utilizzare il decreto-legge ma lo si deve fare esclusivamente. Ne consegue che l’art. 77 Cost. pone un limite invalicabile per l’ammissibilità di atti necessitati diversi da quelli di decretazione d’urgenza e dimostra che il Costituente consapevolmente ha inteso evitare che in circostanze emergenziali possano aver luogo pericolosi sovvertimenti del sistema delle fonti e della forma di governo. La riflessione, infatti, non si deve esaurire unicamente sull’ammissibilità o meno di una determinata categoria di atti ma deve ampliarsi alla più rilevante questione della derogabilità della stessa forma di governo parlamentare; le Camere, secondo l’impostazione costituzionale, sono sempre tenute ad intervenire, seppur in momenti e con modalità diverse, nella produzione giuridica del Governo, mentre nel caso dell’esercizio del potere di ordinanza, l’Esecutivo, avendo il monopolio di ogni decisione, assume un ruolo preminente esclusivo, esautorando in toto il Parlamento (74). Questo aspetto merita di essere analizzato con attenzione, in quanto implica seri e fondati dubbi di legittimità costituzionale. Al contrario, la prassi ha optato per una sostanziale affinità tra il decretolegge e le ordinanze; questa tendenza va respinta e non può ritenersi costituzionalmente conforme, e tra gli atti di decretazione d’urgenza e quelli del potere necessitato di ordinanza corre una notevole differenza, già rilevabile che, da un (72) Cfr. C. ESPOSITO, Decreto-legge, cit., pag. 866. (73) Cfr. L. CIAURRO, Decreto legge, in Enc. giur., X, Roma, 1988, pag. 6. Inoltre cfr. R. DIKMANN, Il decreto-legge come fonte del diritto e strumento di governo, in www.federalismi.it; cfr. C. FRESA, Le circostanze di necessità ed urgenza nella problematica del decreto-legge, in AA.VV., Decreto legge e i suoi aspetti problematici, Roma, 1980, pag. 75, il quale afferma che “il Governo non può adottare provvedimenti normativi necessitati privi della forza di legge, che sarebbero sottratti al regime proprio di tali atti ed in particolare al controllo (politico) del Parlamento”. (74) Cfr. G. MARAZZITA, L’emergenza costituzionale. Definizione e modelli, cit., pag. 446. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 299 lato, si hanno atti con forza di legge, dall’altro, atti formalmente amministrativi. Ne deriva che la decretazione d’urgenza è riservata al Governo nella sua collegialità, mentre il potere di ordinanza è esercitato da organi amministrativi ad esso subordinato, ed anche quando, come nella legge 225/92, si prevede un intervento del Consiglio dei Ministri, questo è limitato a porre il presupposto per l’esercizio dello stesso potere di ordinanza, deliberando lo stato d’emergenza, per poi demandare ad altri soggetti l’adozione dei corrispondenti atti. A tale connotazione se ne aggiunge un’altra che merita maggiore considerazione e consiste nel fatto che, nel caso del decreto-legge, sussiste la precarietà dell’atto in mancanza di conversione da parte delle Camere; in questo modo, nel procedimento stesso delineato dall’art. 77 Cost., il legislatore costituente dimostra di avere come obbiettivo la centralità del Parlamento e si premura di conferire a questa un ampio riconoscimento, dal momento che, senza un intervento parlamentare, l’attività con forza di legge del Governo risulta come non esistita, e spetta di nuovo alle Camere la disciplina, eventuale, dei rapporti giuridici sorti a causa dei decreti non convertiti. Diversamente e contrariamente, nel caso degli atti del potere necessitato di ordinanza al Parlamento non è data alcuna centralità (75), resta estraneo alla decisione sulle norme da sospendere e/o derogare, e non è quindi nelle condizioni di esercitare, in via preventiva o successiva, alcuna forma di controllo. Tutto questo si verifica al di fuori di ogni previsione costituzionale e in difformità con l’impostazione generale della Costituzione repubblicana che vuole conferire in qualsiasi situazione, e dunque anche in contesti emergenziali, un pieno ruolo decisionale all’organo che rappresenta direttamente la sovranità popolare, caratterizzando la forma di governo secondo questo principio inderogabile. In sintesi, al fine di garantire che “ciascun soggetto costituzionale concorra al “governo” dello stato di emergenza, secondo il ruolo e la funzione costituzionalmente previsti, il risultato del massimo rilievo si ottiene attribuendo al provvedimento di eccezione la forma dell’atto avente forza di legge” (76), anziché quella amministrativa (77). (75) Cfr. S. AGOSTA, Ruolo del Presidente della Repubblica e ordinanze contingibili ed urgenti del Governo, in www.forumcostituzionale.it, il quale evidenzia le gravose ricadute sul principio della separazione dei poteri e su quello della tipicità degli atti causate dallo spregiudicato uso governativo delle ordinanze di necessità ed urgenza, affermando che il sistema giuridico entra in sofferenza per la presenza di atti del tutto esulanti dal tradizionale circuito potere-controllo-responsabilità, in quanto “se ne avrebbe un’innaturale concentrazione di potere in capo alla persona del Presidente del Consiglio - in particolare, attraverso la c.d. “auto-attivazione” - ed un corrispondente, non meno patologico, esautoramento delle funzioni in danno del Parlamento, ben oltre il diffuso rafforzamento della posizione dell’Esecutivo pure maturata nei più recenti sviluppi dell’esperienza politico-istituzionale”. (76) Cfr. A. PINNA, L’emergenza nell’ordinamento costituzionale italiano, cit., pag. 205. (77) Cfr. A. CARDONE, Le ordinanze di necessità ed urgenza del governo, in CARETTI (a cura di), Osservatorio sulle fonti 2006. Le fonti statali: gli sviluppi di un decennio, Torino, 2007, pag. 248. 300 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 In relazione alla problematica intersezione tra gli atti del potere necessitato di ordinanza e i decreti-legge è utile rifarsi ad episodi concretamente verificatisi affinché sia dimostrata nella specificità del dato materiale la fondatezza delle argomentazioni giuridiche svolte. In tal senso, si pensi al caso della legge n. 62 del 2003, denominata “Misure urgenti per il finanziamento di interventi nei territori colpiti da calamità naturali e per l’attuazione delle disposizioni di cui all’articolo 13, comma 1, della legge 1° agosto 2002, n. 166. Disposizioni urgenti per il superamento di situazioni di emergenza ambientale”, di conversione del decreto-legge n. 15 del 2003, in cui si è “confermato” provvedimenti annullati dal giudice amministrativo. In precedenza, infatti, il Consiglio di Stato (78) aveva accolto il ricorso di appello contro alcune ordinanze di protezione civile, ritenendo che la deroga al regime ordinario delle competenze fosse generica ed indeterminata nei suoi contenuti e in contrasto con il riformato Titolo V della Costituzione, specie in relazione alle funzioni amministrative dei Comuni. In sede di conversione, si è operata la sanatoria di questi provvedimenti derogatori annullati dal Consiglio di Stato, intervento criticato dalla Corte dei Conti, secondo la quale una disciplina di “salvezza” e di “conferma” di tale natura si pone in contrasto con il dettato costituzionale per la lesione delle prerogative di tutela giurisdizionale nei confronti di atti amministrativi illegittimi, sancite dagli artt. 24 e 113 della Costituzione (79). Da questo episodio emerge una valutazione problematica del rapporto tra decretazione d’urgenza e potere necessitato di ordinanza e quanto riportato rappresenta una ulteriore forma di abuso di entrambi gli strumenti, con rilevanti implicazioni di livello costituzionale. In particolare, oltre al ripresentarsi dell’annosa questione della sussistenza e del controllo della necessità e dell’urgenza, si sottolinea il tema della responsabilità per le relative soluzioni, aspetto, che nel caso esposto, si intreccia con pronunce giurisdizionali, in un contesto di confusa sovrapposizione di ruoli. Altro esempio significativo riguarda il decreto-legge 23 maggio 2008, n. 90, convertito nella legge n. 123 del 2008, recante “Misure straordinarie per fronteggiare l’emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti nella regione Campania e ulteriori disposizioni di protezione civile”. Con tale decreto-legge si è istituito e nominato un Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri per la specifica soluzione dell’emergenza rifiuti. Si è verificato una riorganizzazione di una emergenza da tempo irrisolta, e dunque non imprevista, conferendole una spiccata rilevanza politico-istituzionale in quanto attratta nell’articolazione stessa del Governo (80). (78) Cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 13 novembre 2002, n. 6280; cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 13 diembre 2002, n. 6809. (79) Cfr. G. RAZZANO, L’amministrazione dell’emergenza. Profili costituzionali, cit., pag. 232. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 301 In questa circostanza, si decide di superare il meccanismo predisposto dalla legge 225/92, data la comprovata inefficacia degli strumenti adottati nel tempo per risolvere l’emergenza in esame. Questo episodio mette in particolare risalto la segnalata criticità, nella prassi delle gestioni commissariali, dell’assenza di una precisa responsabilità politico-istituzionale corrispondente ai poteri che la legge sulla protezione civile assegna al Governo. La designazione di un referente, come il Sottosegretario per l’emergenza rifiuti, evidenzia la necessità di individuare un soggetto politicamente responsabile, nei confronti del quale possa concretamente esercitarsi il controllo delle Camere sia in riferimento al ruolo politico che questo soggetto svolge sia in riferimento agli atti di ordinanza adottati. In questo frangente la decretazione d’urgenza è quindi utilizzata per predisporre un meccanismo che permetta la verifica delle azioni compiute dal potere necessitato di ordinanza. Resta tuttavia la questione che il fatto emergenziale rappresentato dalle problematiche dei rifiuti campani è privo del requisito dell’imprevedibilità, trattandosi infatti di una situazione permeata dai caratteri della cronicità. Infine, merita attenzione il caso del decreto-legge n. 39 del 2009, recante “Interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici nella regione Abruzzo nel mese di aprile 2009 e ulteriori interventi urgenti di protezione civile”, convertito con modificazioni nella legge n. 77 del 2009; si ha qui un atto di rinforzo dell’emergenza, in quanto quest’ultima era già stata dichiarata, ai sensi della legge 225/92, in base al decreto del 6 aprile 2009, avente quindi ad oggetto la “Dichiarazione dello stato di emergenza in ordine agli eccezionali eventi sismici che hanno interessato la provincia dell’Aquila ad altri comuni della regioni Abruzzo il giorno 6 aprile 2009”. La vicenda segnala come l’intervento del decreto-legge sia finalizzato anche a consentire l’adozione di ordinanze di protezione civile dalle caratteristiche peculiari e diverse da quelle previste dalla legge 225 del 1992, dal momento che emerge l’esigenza di una emanazione effettuata di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, a causa delle forti implicazioni di natura fiscale e finanziaria. Nello specifico il decreto-legge disciplina interventi mirati, come la deroga del patto di stabilità interno della Regione Abruzzo, le misure di prevenzione del rischio sismico, i piani d’azione per la ricostruzione, le erogazioni liberali e lo spostamento della sede del G8. Questo conferma che il fatto emer- (80) Cfr. L. ELIA, I sottosegretari di Stato rivestono “funzioni di governo”?, in Scritti in memoria di A. Giuffré, III, Milano, 1967, pag. 447; cfr. G.U. RESCIGNO, La responsabilità politica, Milano, 1967, pag. 228. Cfr. G. QUADRI, I comitati di ministri, Milano, 1965, pag. 306. 302 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 genziale necessita di una disciplina normativa di valore maggiore rispetto alle ordinanze, e che quest’ultime possono intervenire con un ruolo ausiliare di supporto. La prassi ha invece visto spesso definire situazioni come emergenziali solo per comodità, per poter accedere ai meccanismi agili e privi di controlli sostanziali della legge 225/92. La vicenda, pertanto, dimostra la fondatezza di una interpretazione dell’art. 77 Cost. conforme all’impostazione originaria del Costituente, affinché il Governo adotti i provvedimenti con forza di legge aderenti alla concretezza dell’emergenza emersa e le Camere abbiano la possibilità di verificare i presupposti e le azioni intraprese. A questo si aggiungono i controlli di “merito costituzionale” (81), in sede di emanazione, del Capo dello Stato, e di legittimità da parte della Corte costituzionale (82). In tal modo, è salvaguardata la nozione stessa di Costituzione come fonte sulla produzione, la quale “crea essa stessa le fonti, le individua ma, al tempo stesso, le conforma e le condiziona” (83). In riferimento all’emergenza per il sisma in Abruzzo la soluzione di un decreto-legge che disciplini anche l’adozione di ordinanze di protezione civile risulta una soluzione consona alla tenuta costituzionale di entrambi gli strumenti, e per alcuni rappresenta l’unica strada da percorrere (84). La gestione del fatto emergenziale mediante atti di decretazione d’urgenza riconduce la questione, in sede di conversione, all’interno della logica parlamentare, consentendo l’operatività di principi quali la conoscibilità, la trasparenza e la pubblicità, che sarebbero inevitabilmente contraddetti dal ricorso esclusivo alle ordinanze di protezione civile. La procedura istaurata nel caso Abruzzo riafferma, nell’emergenza, il Parlamento nel ruolo di “centro delle decisioni d’eccezione” (85). Riassumendo questi tre esempi riportati, si è visto che nel primo il decreto- legge interviene per confermare atti di ordinanza in precedenza annullati dal giudice amministrativo; nel secondo caso la decretazione d’urgenza istituisce un nuovo Sottosegretario di Stato che a sua volta sarà competente ad emanare ordinanze di protezione civile in riferimento ad una particolare si- (81) Cfr. G. GUARINO, Il Presidente della Repubblica Italiana, Note preliminari, in Riv. trim. dir. pubbl., 1951, pag. 903. (82) Cfr. G. RAZZANO, L’amministrazione dell’emergenza. Profili costituzionali, cit., pag. 245. (83) Cfr. F. MODUGNO, Principi di diritto costituzionale, Torino, 2008, pag. 95, il quale svolge queste argomentazioni in relazione alla legge, sebbene il fenomeno della tipizzazione riguarda tutti gli “altri atti normativi, investendo tutti i cosiddetti “livelli” della gerarchia e comportando, almeno in linea di principio, più che l’integrazione, la vera e propria sostituzione del principio gerarchico con quello di competenza”. (84) Cfr. C. ESPOSITO, Decreto-legge, cit., pag. 866; L. PALADIN, Decreto-legge, cit., pag. 288; C. FRESA, Le circostanze di necessità ed urgenza nella problematica del decreto-legge, cit., pag. 75; cfr. G. MARAZZITA, L’emergenza costituzionale. Definizione e modelli, cit., pag. 453. (85) Cfr. A. PINNA, L’emergenza nell’ordinamento costituzionale italiano, cit., pag. 200. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 303 tuazione critica; nel terzo si è visto un decreto-legge che prevede e disciplina le ordinanze che saranno adottate. Come è già emerso e come sarà poi meglio argomentato, il rapporto tra atti di decretazione d’urgenza e atti del potere necessitato di ordinanza appare più corretto, dal punto di vista costituzionale, nell’ultima esemplificazione analizzata. Quanto esposto ripropone la validità del principio di legalità, secondo il quale i poteri dell’amministrazione devono essere vincolati in modo intrinseco alla legge (86). Questa riaffermazione non contraddice il fatto che possono aversi delle situazioni, le emergenze appunto, rispetto alle quali manca una disciplina legislativa ordinaria di dettaglio; in tali contesti, la lacuna normativa è la caratteristica di ogni circostanza emergenziale, ma essa non può di per sé legittimare alcuna attività normativa che non sia già tale in virtù delle norme sulla produzione. Pertanto, dinanzi ad una lacuna normativa, non qualsiasi rimedio è ammissibile ma soltanto quello che è previsto dall’ordinamento giuridico, e, di conseguenza, il fatto che le ordinanze di necessità siano in grado concretamente di rispondere alle esigenze dell’emergenza non risolve la questione della loro legittimità (87). Infatti le ordinanze sono ammissibili fino a quando restano all’interno delle caratteristiche delle fonti secondarie, mentre le criticità si manifestano nel momento stesso in cui si riscontra una antinomia tra ordinanza e atto avente forza legge. Nonostante la dottrina abbia dato argomentazioni diverse sul concetto di forza di legge (88), fino quasi a ritenerlo un tema ingannevole o meramente nominalistico (89), va comunque affermata la sua nozione essenziale coinci- (86) Cfr. A. CARDONE, Le ordinanze di necessità, cit., pag. 254, il quale ritiene che il potere di ordinanza debba arrestarsi di fronte a riserve assolute di legge. Inoltre cfr. C. PINELLI, Un sistema parallelo. Decreti-legge e ordinanze d’urgenza nell’esperienza italiana, Relazione al Convegno del Gruppo di S. Martino, Università di Milano Bicocca, 13 novembre 2009, su “Recenti novità sull’uso dei poteri normativi del Governo”, in astrid-online, il quale rileva il pericolo per la tenuta del principio di legalità a causa di una cattiva interpretazione della distinzione tra principi e norme, affermando che “un conto è distinguere gli uni dalle altre al fine di sostenere che il diritto per princìpi connota l’orizzonte di senso di uno Stato costituzionale, altro conto è presumere che in quel modello di convivenza organizzata la distinzione corrisponda drasticamente a quella tra legalità costituzionale e legalità ordinaria, trascurando il nesso di strumentalità al perseguimento dei princìpi di regole e istituti costituzionalmente previsti, a partire dalla riserva di legge”. Nello stesso senso ancora cfr. C. PINELLI, Il dibattito sull’interpretazione costituzionale fra teoria e giurisprudenza, in Scritti in memoria di Livio Paladin, III, Padova, 2004, pag. 1683. (87) Cfr. G. MARAZZITA, L’emergenza costituzionale. Definizione e modelli, cit., pag. 449. (88) Cfr. F. CUOCOLO, Gli atti dello Stato aventi forza di legge, in Riv. trim. dir. pubbl., 1961, pag. 158. Inoltre cfr. C. MORTATI, Atti con forza di legge e sindacato di costituzionalità, Milano, 1964, pag. 34; cfr. V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, cit., pag. 326. (89) Cfr. F. MODUGNO, Legge in generale, in Enc. Dir., XXXIV, Milano, 1973, pag. 891, il quale nota come il concetto di forza di legge sia stato ritenuto uno “pseudoconcetto” dal momento che non si 304 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 dente con la capacità di innovare nell’ordinamento legislativo non costituzionale preesistente e con la capacità di resistere alla “eliminazione, modificazione, sospensione, derogazione, dispensazione ad opera di atti non dotati della medesima forza” (90). L’attenzione si concentra sulla disciplina derogata per verificare se la limitazione di forza che la legge subisce ad opera delle ordinanze sia compatibile con il sistema costituzionale. Va dunque indagato se l’efficacia di legge possa essere limitata, seppure temporaneamente, da un atto che è e resta amministrativo. Le ordinanze di necessità, secondo la prassi che si è vista essere maggioritaria, incidono pesantemente sulla sfera di efficacia dell’atto sospeso o derogato; gli effetti della deroga sono combinati con quelli della sospensione, in modo da porre una disciplina transitoria, destinata, intrinsecamente, a perdere efficacia indipendentemente da un termine fissato di vigenza. L’ordinanza, pertanto, impedisce che, per un determinato periodo, il contenuto dispositivo di una certa legge si rivolga a tutti o ad alcuni dei suoi destinatari; di conseguenza, i giudici e la pubblica amministrazione non sono nelle condizioni di applicare la norma sospesa o derogata e su di essa non potrà neppure essere sollevata l’eccezione di legittimità costituzionale, dato la mancanza del requisito della rilevanza. A questo proposito, va sottolineato che nemmeno in sede di applicazione per singole fattispecie è permesso al giudice di disapplicare una legge, persino se la ritiene incostituzionale, dovendo, in tal caso, attivarsi per sollevare la relativa questione. Questo peculiare sistema di garanzie che circonda la legge, generalmente inteso come il “valore di legge”, non può consentire che una ordinanza basata su una “mera clausola autorizzativa” (91), inidonea ad incidere sul contenuto del potere esercitato dall’autorità amministrativa, sia in grado di limitare l’efficacia della normazione primaria (92). Va inoltre ricordato che è emersa una significativa distinzione, elaborata sia dalla dottrina (93) che dalla giurisprudenza (94), tra abrogazione e modifica, rivela utile a graduare la diversa efficacia degli atti riconducibili a differenti tipologie e che la questione della prevalenza di un atto, rispetto ad un altro, riconducibile ad un diverso tipo va posto nei termini della sindacabilità dell’uno rispetto all’altro. (90) Cfr. F. MODUGNO, Legge in generale, cit., pag. 890. (91) Cfr. L. CARLASSARE, Regolamento (dir. cost.), in Enc. Dir., XXXIX, Milano, 1988, pag. 622, la quale, analizzando il diverso significato che il principio di legalità assume nell’ordinamento statutario e nell’ordinamento costituzionale vigente, evidenzia che mentre “nella prassi statutaria la disposizione legislativa legittimante poteva limitarsi al mero conferimento di potere”, nella Costituzione repubblicana “la legalità viene ad assumere un valore sostanziale” e “lo stesso potere regolamentare deve trovarsi condizionato almeno dalle indicazioni di fondo e muoversi, appunto, in conformità della legge i cui principi deve rispettare e alle cui opzioni deve attenersi”; di conseguenza, il principio di legalità inteso in senso sostanziale viene “così a distinguersi solo quantitativamente dalla riserva di legge relativa”. (92) Cfr. G. MARAZZITA, L’emergenza costituzionale. Definizione e modelli, cit., pag. 453. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 305 da un lato, e sospensione e deroga temporanea, dall’altro. Si è affermato che soltanto le prime due innovano l’ordinamento giuridico, mentre le altre non comportano una vera e propria innovazione; tuttavia, ad una analisi precisa, non appare rilevabile una differenza apprezzabile tra le due categorie (95). È stato, infatti autorevolmente sostenuto che l’abrogazione non estingue le norme, ma solo ne limita ai rapporti antecedenti a una certa data l’efficacia qualificatoria, ossia l’obbligatorietà (96); le norme abrogate non scompaiono dal diritto oggettivo e, al momento dell’entrata in vigore della norma abrogante, subiscono una progressiva riduzione della propria efficacia che, con l’esaurirsi dei rapporti giuridici ancora pendenti, porta alla loro totale quiescenza. Anche la disciplina contenuta nelle ordinanze di necessità ed urgenza riducono l’efficacia qualificatoria delle norme sospese o temporaneamente derogate ma, rispetto all’abrogazione, si verifica che, da un lato, la limitazione d’efficacia, dovuta allo stato di emergenza, dispiega, immediatamente e in modo non graduato, la sua operatività, incidendo istantaneamente su ogni rapporto giuridico aperto durante la fase eccezionale, dall’altro, la stessa limitazione di efficacia è compresa tra il momento di entrata in vigore dell’ordinanza e il momento di cessazione dello stato emergenziale. Si è già rilevato che la durata del periodo eccezionale può essere anche indeterminata, e questa indeterminatezza rende la situazione più critica di quanto possa sembrare parlando di “provvisorietà” della deroga e della sospensione in contrapposizione alla modifica ed alla abrogazione. Pertanto in entrambi i casi, ci si trova dinanzi a parte del diritto oggettivo (93) Cfr. G.U. REASCIGNO, Deroga (in materia legislativa), in Enc. Dir., XII, pag. 305. (94) Cfr. Corte cost., sent. n. 201/1987, in Giur. Cost., 1987, pag. 1501, in cui si ammette un “effetto di deroga”, contrapposto alla “abrogazione” ed alla “modifica”, che sarebbe consentito da “una specifica autorizzazione legislativa”. (95) Cfr. A. PINNA, L’emergenza nell’ordinamento costituzionale, cit., pag. 62, secondo il quale la provvisorietà e la limitazione dell’efficacia sono gli elementi che caratterizzano la sospensione e valgono a distinguerla dall’abrogazione, in forza della quale “la norma legale perde ogni efficacia, e non può più riacquistarla in nessun modo, poiché se una legge ulteriore la richiama in vita non si ha reviviscenza della legge abrogata e riacquisto dell’efficacia di essa, bensì un atto legislativo che assume a contenuto proprio il precetto della legge abrogata”. Inoltre cfr. M. PATRONO, Legge, in Enc. Dir., XXIII, Milano 1973, pag. 922. (96) Cfr. V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, cit., pag. 193, il quale precisa che la limitazione di efficacia dell’abrogazione ha un carattere definitivo mentre quella della sospensione ha un “carattere intrinsecamente provvisorio e temporaneo” per cui sarebbe inesatto dire che le norme sospese “tornano in vigore” essendo preferibile dire che “riprendono ad esplicare in pieno la loro efficacia”. Inoltre, sul tema cfr. V. CRISAFULLI, Gerarchia e competenza nel sistema costituzionale delle fonti, in Studi in onore di Zanobini, Milano, 1962, pag, 45; cfr. S. PUGLIATTI, Abrogazione (Teoria generale e abrogazione degli atti normativi), in Enc. Dir., I, Milano, 1958, pag. 145; cfr. F. MODUGNO, Abrogazione, in Enc. Giur., I, Roma, 1988, pag. 1; cfr. G. GUARINO, Abrogazione e disapplicazione delle leggi illegittime, in Jus, 1951, pag. 356; cfr. F. SORRENTINO, L’abrogazione nel quadro dell’unità dell’ordinamento giuridico, in Riv. trim. Dir. Pubbl., 1972, pag. 3. 306 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 che, pur rimanendo nel sistema normativo, subisce una attenuazione della propria forza, cronologicamente delimitata e differenziata. Il dubbio sulla legittimità delle ordinanze di deroga a norme primarie emerge proprio dalla loro possibilità di superare la forza di legge, con il rischio concreto di provare una lesione del sistema delle fonti. 4. Potere necessitato di ordinanza conforme a Costituzione. L’analisi svolta consente di affermare che la legge 225 del 1992 si pone in una posizione di violazione della riserva di competenza sancita dall’art. 77 Cost., proprio perché crea una “dispensazione” dalle prescrizioni costituzionali a vantaggio di organi amministrativi, aspetto che non trova fondamento nelle norme sulla produzione e si pone in contrasto con gli stessi principi dello Stato di diritto. L’impostazione generale corretta è dunque quella di instaurare lo stato di emergenza mediante il ricorso ad atti di decretazione d’urgenza, i quali, in via eventuale, possono attribuire il potere di ordinanza a commissari delegati ed individuati in maniera precisa, stabilendo, nello stesso tempo, quali specifiche leggi sono oggetto di deroga. Si avrebbero, in questo caso, “ordinanze vincolate”. Può essere idoneo rifarsi allo schema operato nell’istituto della delegificazione. In questo modo, le leggi derogabili sono individuate da una fonte avente forza di legge, e il potere necessitato di ordinanza è ricondotto nell’ambito della discrezionalità amministrativa. Va precisato che, al fine di conservare la natura provvedimentale dell’atto di decretazione d’urgenza, l’individuazione delle leggi derogabili deve avvenire in maniera circoscritta e precisa, senza comportare una generale e sistematica rivisitazioni di interi settori dell’ordinamento. Una delle patologie più gravi dello Stato moderno consiste nella ridotta differenza tra organizzazione ordinaria e straordinaria, e non può più essere accettato un simile stravolgimento delle competenze costituzionali. Nell’ordinamento vigente, infatti, la priorità va data, anziché alla salvezza dello Stato inteso come una qualsiasi organizzazione della sovranità, alla salvezza della Costituzione, interpretata come una particolare tipologia di organizzazione della sovranità in cui si concretizza il patto sociale tra posizioni politicamente e socialmente eterogenee. La questione della continuità costituzionale va recepita come una tematica centrale ed imprescindibile all’interno del fatto emergenziale (97). Secondo questa linea di pensiero, dall’art. 77 della Costituzione è consentito desumere un principio organizzatore inderogabile anche, e a maggior ragione, nelle situazioni eccezionali, ovvero la tutela della forma di governo democratica nella sua specificazione parlamentare. (97) Cfr. V. CRISAFULLI, La continuità dello Stato, in Riv. dir. internazionale, 1964, pag. 363. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 307 In ogni contesto le Camere devono essere chiamate a svolgere il ruolo principale nella determinazione dell’indirizzo politico, assieme al Governo; potranno essere modificati le tempistiche, le modalità, l’articolazione formale di questo incontro di volontà, ma non vi può essere l’esclusione del Parlamento, come invece si è rilevato nell’esercizio del potere necessitato di ordinanza. Vanno dunque sottolineati i correttivi sostanziali che permettono di armonizzare il ricorso alle ordinanze di necessità ed urgenza con il sistema delineato dall’attuale assetto costituzionale. La questione deve essere impostata secondo un rapporto di adeguatezza e proporzionalità tra l’insorgere del fatto emergenziale e l’adozione degli strumenti previsti dal cosiddetto “diritto straordinario”. Le ordinanze di protezione civile ex art. 5 della legge 225/92 sono da intendere per quello che realmente sono, una anomalia normativa che introduce elementi di alterazione delle normali competenze dei soggetti istituzionali, con un evidente rischio di disarticolazione del sistema delle fonti del diritto, causato dalla neutralizzazione sostanziale della forza del controllo giuridico, mediante il riconoscimento di poteri di deroga normativa. Pertanto, ai fini di valutare la legittimità di un decreto dichiarativo dello stato di emergenza, emesso in base all’art. 5 della legge 225/92, va verificata la sussistenza dei relativi presupposti, quali l’effettiva impossibilità di fronteggiare la situazione emergenziale da parte degli organi istituzionalmente competenti attraverso i meccanismi previsti dalla vigente legislazione (98). Anche in questo caso, come si era evidenziato nell’accertamento dell’emergenza per consentire l’adozione del decreto-legge, occorre interrogarsi se lo strumento straordinario rappresenti davvero l’extrema ratio (99). Una volta acquisito il dato che il Governo è dotato del potere straordinario della decretazione d’urgenza ex art. 77 Cost., è possibile individuare una serie residuale di situazioni nelle quali è costituzionalmente corretto ipotizzare il ricorso a strumenti aventi la forma e il grado gerarchico dell’atto amministrativo. Una ipotesi significativa consiste nell’adozione di ordinanze che siano effettivamente amministrative, ossia ne presentino i requisiti formali e sostan- (98) Cfr. G. MARAZZITA, L’emergenza costituzionale. Definizione e modelli, cit., pag. 456. (99) Merita attenzione la decisione della Corte dei Conti, Sezione di controllo, del 19 novembre 1996, n. 151, secondo la quale “l’articolo 5 della legge 24 febbraio 1992 n. 225 riserva al Presidente del Consiglio dei ministri il potere di emanare ordinanze anche in deroga alla legislazione vigente relativamente alle calamità di interesse nazionale, e consente di affidare a commissari straordinari esclusivamente l’attuazione degli interventi previa fissazione dei limiti all’esercizio dei relativi poteri. Ciò comporta che non è conforme a legge un’ordinanza con la quale il predetto potere di derogare alla normativa - di esclusiva competenza, come si è detto, del Presidente del Consiglio dei ministri - viene delegato al commissario straordinario nominato per fronteggiare l’emergenza”. 308 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 ziali, in modo da non istaurare situazioni di sospensione o di deroga provvisoria della normativa primaria. Questo può realizzarsi in un contesto emergenziale nel quale le ordinanze siano in conformità con la vigente legislazione ordinaria. La loro eventuale capacità innovativa rimane nella sfera sub-legislativa. Accanto a questa situazione, deve essere posta un’altra, più frequente e, nell’ottica del presente studio, più consona alle esigenze sia di legittimità costituzionale sia di interventi mirati. Come già detto in precedenza, si sceglie l’ipotesi in cui le ordinanze di protezione civile siano meramente esecutive e prive di capacità innovative, dipendenti in tutto e per tutto da un decreto-legge (100) adottato dinanzi al fatto emergenziale, il quale, oltre a disporre direttamente concrete misure operative, attribuisce ad organi subordinati la potestà di provvedere ai singoli interventi in deroga a norme legislative, in modo che la derogabilità è ricondotta ad una fonte di livello primario (101). In questo modo, l’atto di decretazione d’urgenza individua direttamente, e con forza di legge, gli ambiti in cui debbono intervenire le ordinanze, mentre nel caso dell’art. 5, legge 225/92, difficilmente è realizzabile un intervento sistematicamente strutturato, in quanto la disposizione legislativa autorizzante è pensata in via generale, slegata dai singoli e materiali ambiti di azione. Il decreto-legge, invece, nasce in concomitanza dell’emergenza, e si presta ad essere modulato e “ritagliato” sul caso specifico. Il rispetto della sua natura provvedimentale consente di operare nella particolarità del fatto emergenziale e di predisporre quelle misure, come ad esempio l’utilizzo immediato di alloggi e di edifici pubblici, il transito su strade, ponti e autostrade, le espropriazioni e l’urbanistica, che poi le singole ordinanze, disciplinate dallo stesso decreto-legge, possono gestire nella loro operatività pratica, in quanto poi adottate da autorità che anche fisicamente si trovano in prossimità dei contesti eccezionali e che pertanto sono nelle condizioni di calibrare via via gli interventi secondo le esigenze richieste dall’evolversi delle situazioni. Un ulteriore correttivo è offerto dalla posizione di chi ritiene che possa essere utile una estensione del sindacato giurisdizionale al presupposto dell’adozione delle ordinanze d’urgenza; come infatti la Corte costituzionale è pervenuta a sindacare una “evidente mancanza” dei presupposti straordinari di necessità ed urgenza, così il giudice amministrativo potrebbe sindacare una “evidente mancanza” della necessità di ricorrere alle ordinanze di urgenza (102). (100) Cfr. G. RAZZANO, L’amministrazione dell’emergenza. Profili costituzionali, cit., pag. 237. (101) Cfr. G. MARAZZITA, L’emergenza costituzionale. Definizione e modelli, cit., pag. 457. (102) Cfr. C. PINELLI, Un sistema parallelo, cit., in astridonline. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 309 Altra ipotesi può consistere nel ricorso ad ordinanze a contenuto vincolato, nei confronti delle quali, nonostante la norma legislativa attributiva della competenza non indichi espressamente le leggi derogabili, la decisione sulla derogabilità è comunque fissata da una fonte primaria, all’interno di un ristretto margine di discrezionalità amministrativa (103). Infine vanno segnalate quelle situazioni che attualmente l’art. 2 della legge 225/92 denomina come “altri eventi che per intensità ed estensione debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari” e “grandi eventi”, le quali necessitano di importanti correttivi. Infatti, tali ipotesi andrebbero decisamente sottratte all’ambito applicativo di una legge sulla protezione civile, per essere piuttosto oggetto di un decreto-legge, dopo averne verificato la sussistenza dei presupposti dell’art. 77 della Costituzione (104). Questa esigenza è confermata dal fatto che la giurisprudenza non offre segnali incoraggianti nel momento stesso in cui esprime una tendenza a sostituire il criterio della imprevedibilità, che costituisce il più sicuro indice di assimilabilità degli eventi di volta in volta considerati alle calamità naturali, con quello della pericolosità (105) che “può protrarsi anche per un lungo periodo senza cagionare il fatto temuto” (106). (103) Alcuni casi di scuola possono essere individuati nel testo unico sanitario, R.D. 27 luglio 1934, il cui art. 129 prevede un potere condizionato al “caso di sospensione o interruzione di un servizio farmaceutico” che è a contenuto vincolato, in quanto il titolare del potere può ricorrere solo alle misure capaci di ripristinare il servizio, come ad esempio le sostituzioni o le precettazioni del personale. Nello stesso senso gli artt. 217, 258 e 261. Si veda inoltre l’art. 7 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, allegato E, di abolizione del contenzioso amministrativo, che attribuisce genericamente alla “autorità amministrativa” il potere di procedere a requisizioni ed espropriazioni, nonché l’art. 20 del vecchio T.U.L.C.P., le cui “ordinanze di carattere contingibile ed urgente”, seppure sostanzialmente generali, possono incidere soltanto sulla disciplina ordinaria dell’edilizia, della polizia locale e dell’igiene. (104) Cfr. G. RAZZANO, L’amministrazione dell’emergenza. Profili costituzionali, cit., pag. 250, nota 51, la quale riporta un passaggio della deliberazione della Corte dei Conti resa il 4 marzo 2010 e relativa alla Louis Vuitton World Series, che il giudice contabile non ha ritenuto essere un “grande evento”, nonostante la dichiarazione in tal senso effettuata con D.P.C.M., ex art. 5 bis, comma 5, della legge 401/2001. La Corte dei Conti afferma che “ove realmente sussistano i presupposti di straordinaria necessità ed urgenza di cui all’art. 77 della Costituzione, il Governo può adottare, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, peraltro sottoposti a verifica da parte del Parlamento e del Capo dello Stato, mentre le ordinanze di protezione civile, pur avendo l’effetto di derogare alle leggi, sono sottratte a qualsiasi controllo che non sia quello giurisdizionale”. (105) Cfr. C. PINELLI, Un sistema parallelo, cit., in astridonline. (106) Cfr. Cons. Stato, Sez. V, n. 1904/2001, in relazione al potere di ordinanza contingibile ed urgente attribuito al sindaco dall’art. 153 t. u. n. 148 del 1915, che al pari della legge 225/92, presupponeva la necessità di provvedere con immediatezza in ordine a situazioni di natura eccezionale ed imprevedibili. Inoltre cfr. Cons. Stato, Sez. V, n. 6352 del 2009, che respinge il ricorso contro la dichiarazione dello stato di emergenza in riferimento agli insediamenti di comunità nomadi nel territorio delle Regioni Campania, Lombardia e Lazio, desumendo la congruità dell’intervento normativo adottato da precedenti atti amministrativi attestanti un aumento dell’allarme sociale nelle zone in questione; infine cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 3765 del 2009, secondo cui la ragione giustificatrice delle ordinanze straordinarie “non consiste tanto nell’imprevedibilità dell’evento quanto nell’impossibilità di utilizzare tempestivamente i rimedi normali offerti dall’ordinamento”. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 311 Contratti autonomi di garanzia e contributi pubblici alle imprese: stato dell’arte e recenti decisioni giurisprudenziali Francesco Maria Ciaralli* SOMMARIO: 1. Premessa normativa - 2. La fisionomia dei contratti autonomi di garanzia - 3. Le questioni: il termine finale di efficacia della garanzia - 4. Segue: il titolo idoneo ad escutere la polizza - 5. La posizione della Suprema Corte - 6. Rilievi conclusivi. 1. Premessa normativa. Il decreto legge 22 ottobre 1992, n. 415, convertito con modificazioni nella legge 19 dicembre 1992, n. 488, reca la disciplina dei contributi pubblici rivolti alle imprese delle aree svantaggiate del Paese, preordinati alla realizzazione di programmi d’investimento nei settori dell’industria, turismo e commercio. Tali incentivi contemplano una quota di contributo in conto capitale ed un finanziamento agevolato, erogati alle imprese assegnatarie a séguito di istruttoria valutativa e di ammissibilità svolta dalla banca concessionaria convenzionata con il Ministero dello Sviluppo Economico, il quale predispone le apposite graduatorie pubblicate in Gazzetta Ufficiale (1). Al fine di assicurare, nell’evenienza di una revoca del finanziamento, il recupero delle somme erogate, il decreto ministeriale 20 ottobre 1995, n. 527, dispone che la domanda di agevolazione debba essere corredata dalla ricevuta del versamento di una cauzione da parte dell'impresa istante, ovvero di una fidejussione bancaria o polizza assicurativa di pari importo della cauzione medesima, a garanzia della volontà di quest’ultima di realizzare il programma agevolato (2). (*) Dottorando di ricerca in “Diritto ed Impresa” presso l’Università Luiss Guido Carli di Roma, già praticante forense presso l’Avvocatura dello Stato e tirocinante presso il Consiglio di Stato. (1) Per l’analisi sistematica della giurisprudenza in materia di revoca dei contributi pubblici alle imprese, nonché per un inquadramento generale della materia, si veda su questa Rassegna, CIARALLI F.M., La giurisdizione in materia di contributi pubblici alle imprese, 2014, 3, 180-195. (2) Si riporta l’art. 5, comma 4-bis, del menzionato D.M. 20 ottobre 1995, n. 527, a tenore del quale: “A garanzia della volontà dell’impresa di realizzare il programma agevolato, la documentazione allegata alla domanda comprende anche la ricevuta del versamento di una cauzione, effettuato dall’impresa istante su un conto appositamente aperto presso la banca concessionaria prescelta per l’istruttoria e fruttifero di interessi al tasso applicato alle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea, ovvero una fidejussione bancaria o una polizza assicurativa, di pari importo della cauzione medesima, irrevocabile, incondizionata ed escutibile a prima richiesta; l’ammontare relativo a detta cauzione, e gli interessi sullo stesso riconosciuti, ovvero alla fidejussione bancaria o alla polizza assicurativa sono determinati sulla base dei criteri fissati con decreto dal Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato tenuto anche conto dell’entità degli investimenti indicati dall’impresa nel modulo di domanda. Qualora le agevolazioni concesse nella misura richiesta dall’impresa siano revocate per successiva rinuncia alle stesse prima che sia avvenuta un’erogazione per stato d’avanzamento 312 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 La natura dei suindicati contratti, i relativi termini di efficacia e le condizioni di operatività sono al centro di un cospicuo contenzioso che ha interessato l’Amministrazione e le compagnie assicurative, sia in sede esecutiva che ordinaria di cognizione. I termini di tale contenzioso principalmente ruotano attorno all’interpretazione di alcune proposizioni normative che delineano la fisionomia delle prescritte garanzie bancarie ed assicurative. I connotati strutturali dei contratti di garanzia sono fissati dal D.M. 24 maggio 2000, articolo unico, intervenuto ad integrare il precedente decreto attuativo, il cui comma quinto stabilisce che “la fidejussione bancaria o la polizza assicurativa, redatta secondo lo schema di cui all’allegato n. 2 al presente decreto, è irrevocabile, incondizionata ed escutibile a prima richiesta, a favore del Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato”. Per quanto concerne il termine di efficacia della polizza, il medesimo comma prescrive che “essa ha effetto dalla data della domanda di agevolazione e durata fino a quando non siano maturate le condizioni per lo svincolo di cui al successivo comma 8 e, comunque, fino al termine massimo di 36 mesi decorrenti dalla data di efficacia del relativo decreto di concessione provvisoria delle agevolazioni” (3). La disciplina riguardante l’escussione della polizza è dettata dalla legge 23 luglio 2009, n. 99, la quale stabilisce che “ i commi 32 e 33 della L. 27 dicembre 1997, n. 449, art. 24, e successive modificazioni, si interpretano nel senso che il provvedimento di revoca delle agevolazioni disposte dal Ministero dell'industria, del commercio e dell'artigianato, dal Ministero delle attività produttive e dal Ministero dello sviluppo economico in materia di incentivi alle imprese costituisce titolo per l'iscrizione a ruolo degli importi corrisposti e dei relativi interessi, rivalutazioni e sanzioni nei confronti di tutti gli obbligati e quindi anche nei confronti dei soggetti che hanno prestato garanzia fideiussoria in relazione alle agevolazioni revocate” (art. 3, comma 8). ovvero qualora non sia rispettata la condizione di cui all’articolo 8, comma 1, lettera c 1), si procede a trattenere la cauzione, anche tramite escussione della fidejussione o della polizza, che confluisce nell’apposita sezione del fondo di cui all’articolo 4, comma 6 del decreto-legge 8 febbraio 1995, n. 32, convertito, senza modificazioni, dalla legge 7 aprile 1995, n. 104. In tutti gli altri casi la cauzione medesima, maggiorata dei relativi interessi maturati, è rimborsata all’impresa, ovvero la fidejussione o la polizza sono svincolate, entro un mese dal momento in cui si verifichino le condizioni per il rimborso o per lo svincolo, secondo le modalità fissate con il richiamato decreto ministeriale”. (3) I casi in cui si prevede di trattenere le somme versate ai sensi del comma 5 sono precisati nel successivo comma 9 del medesimo D.M. 24 maggio 2000, art. unico: “La cauzione viene trattenuta, ovvero la fidejussione o la polizza escussa, qualora, ad avvenuta concessione delle agevolazioni nella misura richiesta dall’impresa, quest’ultima vi rinunci prima che sia avvenuta un’erogazione per stato d’avanzamento, ovvero non rispetti la condizione di cui all’art. 8, comma 1, lettera c 1) del D.M. n. 527/95 e successive modifiche e integrazioni”. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 313 2. La fisionomia dei contratti autonomi di garanzia. Atteso che le fideiussioni bancarie e polizze assicurative cui fa riferimento la normativa devono essere corredate dalla clausola “a prima richiesta e senza eccezioni”, si è posta la questione della qualificabilità delle relative convenzioni in termini di contratti autonomi di garanzia. L’indagine sulla natura giuridica di tali negozi riveste importanza dirimente in ordine all’operatività del meccanismo contrattuale, con particolare riferimento all’autonomia del diritto dell’Amministrazione nei confronti del garante rispetto alla revoca delle agevolazioni erogate all’impresa, nonché con riferimento al regime delle eccezioni opponibili. Il contratto autonomo di garanzia, noto nell’ordinamento tedesco col nome di Garantievertrag, implica la scissione del rapporto di provvista (intercorrente tra debitore e garante) da quello di valuta (tra debitore principale e creditore), con conseguente inapplicabilità delle norme sulla fideiussione che delineano un vincolo di accessorietà e dipendenza tra il rapporto principale e quello di garanzia (4). In particolare, al contratto autonomo di garanzia, la cui natura atipica è riconosciuta da dottrina e giurisprudenza (5), non può applicarsi l’art. 1945 c.c., alla cui stregua il fideiussore può opporre al creditore tutte le eccezioni che spettano al debitore principale, fuorché quella derivante dall’incapacità (6). In disparte la questione della meritevolezza di tali contratti (7) nonché il (4) “Elisione del vincolo di accessorietà e scissione della garanzia dal rapporto di valuta caratterizzano sul piano funzionale il Garantievertrag, la cui causa concreta viene correttamente individuata in quella di assicurare la libera circolazione dei capitali e il pronto soddisfacimento dell'interesse del beneficiario (ovvero ancora in quella di sottrarre il creditore al rischio dell'inadempimento, trasferito nei fatti su di un altro soggetto, "istituzionalmente" solvibile), il quale può così porre affidamento su di una rapida e sollecita escussione di una controparte affidabile, senza il rischio di vedersi opporre, in sede processuale, il regime tipico delle eccezioni fideiussorie”, così la Cass. Sez. Un., 18 febbraio 2010, n. 3947. (5) Si segnalano, rispettivamente, FRATINI, Le garanzie reali e personali, Milano, 2010, 505 ss., e la Cass., sez. I, 17 gennaio 2008, n. 903. (6) A tal proposito è assai chiara la Cass. Sez. Un., 18 febbraio 2010, n. 3947, giusta la quale: “L'elemento caratterizzante della fattispecie in esame viene individuato nell'impegno del garante a pagare illico et immediate, senza alcuna facoltà di opporre al creditore/beneficiario le eccezioni relative ai rapporti di valuta e di provvista, in deroga agli artt. 1936, 1941 e 1945 c.c., caratterizzanti, di converso, la garanzia fideiussoria”. (7) In materia si indica in particolare MEO, Funzione professionale e meritevolezza degli interessi nella garanzie atipiche, Milano, 1991. Per quanto concerne il formante giurisprudenziale, la Cass., Sez. Un., 3947/10, cit., ha affermato che “par lecito discorrere, a proposito del contratto atipico di garanzia, di una funzione di tipo "cauzionale" - mentre la sua più frequente utilizzazione rispetto al deposito di una vera e propria cauzione trae linfa proprio in ragione della sua minore onerosità e della possibilità di evitare una lunga e improduttiva immobilizzazione di capitali (conseguenza ineludibile del deposito cauzionale): è in conseguenza di tali aspetti funzionali che la garanzia muta "geneticamente" da vicenda lato sensu fideiussoria in fattispecie atipica che, ai sensi dell'art. 1322 c.c., comma 2, persegue un interesse certamente "meritevole di tutela", identificabile nell'esigenza condivisa di assicurare l'integrale soddisfacimento dell'interesse economico 314 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 problema dell’astrazione sostanziale (8), entrambi generalmente risolti in termini positivi (9), mette conto esaminare il valore della clausola di escussione “a prima richiesta e senza eccezioni”, che ha dato adito a tre principali ricostruzioni ermeneutiche. Secondo una prima posizione tale clausola determinerebbe una mera inversione dell’onere probatorio, per cui il difetto dei presupposti legittimanti l’escussione deve essere asseverato dal garante che, in mancanza, è tenuto ad adempiere. L’indirizzo intermedio ravvisa in tale clausola un valore analogo a quello del patto “solve et repete”, alla cui stregua in sede di escussione il garante non può opporre al creditore le eccezioni fondate sul rapporto di valuta, salvo poter agire in ripetizione dell’indebito in caso di adempimento del debito principale. Secondo l’ultima opinione, condivisa anche dal Giudice di legittimità nella sua più autorevole composizione, tale clausola attribuisce al creditore il diritto di escutere la garanzia a prescindere dall’accertamento in ordine all’inadempimento del debitore, che non reagisce, se non in termini mediati ed indiretti, sul rapporto di garanzia (10). del beneficiario vulnerato dall'inadempimento del debitore originario e, di conseguenza, di conferire maggiore certezza allo scorrere dei rapporti economici (specie transnazionali)”. (8) Sul significato dell’astrazione materiale sono ancora dirimenti le parole di Francesco Santoro- Pasarelli, il quale evidenzia come “nel negozio astratto la causa è, come si dice, accantonata, stralciata, così che la sua eventuale mancanza o i suoi eventuali difetti non tolgono al negozio di essere valido e di produrre i suoi effetti, ma esplicano un’azione ritardata diretta a bilanciare gli effetti che il negozio abbia prodotti grazie alla sua astrattezza: rilevanza indiretta della causa” (SANTORO PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, IX, Napoli, 1966, 175). Proprio tale rilevanza indiretta della causa, generalmente individuata nella traslazione del rischio economico di un inadempimento del contratto principale dal patrimonio del creditore a quello del garante, è alla base delle eccezioni di dolo, generale o speciale, che sul rapporto principale si fondano e per le quali si veda infra. D’altra parte, la giurisprudenza non ha mai riconosciuto piena autonomia al contratto atipico di garanzia rispetto al rapporto principale, esprimendosi invece in termini di autonomia relativa (Cass. sez. III, 1 ottobre 1999, n. 10864). (9) Per un’analisi delle questioni, si veda CHINÉ, FRATINI, ZOPPINI, Manuale di diritto civile, Roma, 2014, 977 s. (10) In argomento, si indica la citata Cass. Sez. Un., 18 febbraio 2010, n. 3947, secondo cui “Criterio interpretativo utile ad orientare l'interprete verso l'autonomia della vicenda di garanzia divisata dalle parti riposa ancora sull'individuazione - nell'ambito di una lettura complessiva delle singole convenzioni negoziali - di una sua eventuale funzione "cauzionale": la peculiarità propria del Garantievertrag è difatti quella di consentire al creditore di escutere il garante con la stessa, tempestiva efficacia con cui egli potrebbe far proprio un versamento cauzionale. La funzione cauzionale sarebbe soddisfatta, e l'autonomia della garanzia sarebbe conseguentemente rinvenuta, secondo alcune pronunce di questa corte, tutte le volte che la relativa convenzione attribuisca al creditore la facoltà di procedere ad immediata riscossione delle somme, a prescindere dal rapporto garantito, realizzando così una funzione del tutto simile a quella dell'incameramento di una somma di denaro a titolo di cauzione (Cass. 17 maggio 2001, n. 6757; Cass. 21 aprile 1999, n. 3964; Cass. 6 aprile 1998, predicative di un principio di diritto condiviso da autorevole dottrina)”. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 315 Tale indiretta rilevanza del rapporto di valuta su quello di provvista, che ne determina il carattere solo relativamente autonomo, emerge in particolare con riferimento al regime delle eccezioni opponibili dal garante al creditore principale. Oltre alle eccezioni fondate sul rapporto di garanzia, il creditore può vedersi opporre la cosiddetta exceptio doli generalis seu praesentis nei casi in cui l’escussione della garanzia renda palese la condotta abusiva del beneficiario (limite funzionale all’autonomia del rapporto di provvista). Ciò è evidente nei casi in cui consti prima facie l’adempimento del debitore principale, l’inadempimento del creditore, ovvero del debitore cagionato da fatto del creditore (11). Si configura invece l’exceptio doli specialis seu praeteriti qualora il contratto autonomo di garanzia si atteggi a strumento per perseguire il risultato illecito cui è preordinato il rapporto principale, nullo per contrarietà a norme imperative o per illiceità della causa (limite genetico all’autonomia del rapporto di provvista) (12). Tali eccezioni confermano la definizione di astrazione sostanziale elaborata da Francesco Santoro - Passarelli, solo parzialmente insensibile alle vicende del rapporto sottostante, e preludono al tema del contenzioso tra Amministrazione e garanti in materia di contributi pubblici alle imprese. 3. Le questioni: il termine finale di efficacia della garanzia. Tra i principali aspetti che connotano il contratto autonomo di garanzia emerge la questione del termine finale di efficacia. Secondo talune compagnie assicurative, ai fini della valida escussione della garanzia, sarebbe necessario che entro il termine di trentasei mesi previsto dal decreto ministeriale 24 maggio 2000 si verifichi non soltanto l’inadempimento dell’impresa beneficiaria del contributo, ma anche l’adozione del Occorre considerare che, in precedenza, talune decisioni delle Sezioni semplici (ex plurimis, Cass., sez. III, 7 gennaio 2004, n. 52) avevano negato che l’inserzione della clausola “a prima richiesta” o simili valesse ex se ad individuare un contratto autonomo di garanzia, dovendosi a tal fine scandagliare più approfonditamente la complessiva volontà negoziale delle parti. (11) Ex multis, Cass. Civ., Sez. V, sentenza n. 15216 del 12 settembre 2012, alla cui stregua: “La "exceptio doli generalis seu praesentis" ha ad oggetto la condotta abusiva o fraudolenta dell'attore, che ricorre quando questi, nell'avvalersi di un diritto di cui chiede tutela giudiziale, tace, nella prospettazione della fattispecie controversa, situazioni sopravvenute alla fonte negoziale del diritto fatto valere ed aventi forza modificativa o estintiva dello stesso, ovvero esercita tale diritto al fine di realizzare uno scopo diverso da quello riconosciuto dall'ordinamento o comunque all'esclusivo fine di arrecare pregiudizio ad altri, o, ancora, contro ogni legittima ed incolpevole aspettativa altrui. Ne consegue che, in materia di contratto autonomo di garanzia, non possono essere addotte a fondamento della "exceptio doli" circostanze fattuali idonee a costituire oggetto di eccezione di merito opponibile nel rapporto principale dal debitore garantito al creditore e beneficiario della garanzia, in quanto elemento fondamentale di tale rapporto è la inopponibilità da parte del garante di eccezioni di merito proprie del rapporto principale”. (12) Ex multis, Cass, sez. III, 3 marzo 2009, n. 5044. 316 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 conseguente provvedimento di revoca, risultando altrimenti estinta la garanzia per intervenuto decorso del termine di efficacia. L’esame della normativa e della recente giurisprudenza induce, invece, a riaffermare il principio che per l’operatività della garanzia del fideiussore è sufficiente che, nel periodo di efficacia della garanzia, si sia verificato l'inadempimento di quest’ultimo, o comunque il fatto genetico della revoca, non occorrendo che anche questa, né l’escussione del fideiubente, intervengano nel detto periodo. E difatti il comma 5 del D.M. 24 maggio 2000 (articolo unico), prescrive sì che la garanzia ha efficacia per il periodo massimo di 36 mesi, ma in alcun modo richiede che entro il predetto termine debba venire a conoscenza della compagnia la richiesta di pagamento. Il termine di durata di 36 mesi della garanzia si riferisce, dunque, non alla richiesta di pagamento, ma piuttosto al verificarsi del ‘sinistro’ ovvero, nel caso specifico, dell'inadempimento da parte della ditta beneficiaria e, quindi, della sopraggiunta causa di revoca. È del tutto evidente che, nell’ipotesi talvolta sostenuta dai garanti, verrebbe sostanzialmente ridotto il periodo di reale efficacia della garanzia, entro il quale può intervenire un inadempimento che possa essere utilmente contestato. Dal che deriverebbe, tra l’altro, un indebito arricchimento della compagnia per i premi incassati nel periodo di garanzia non “fruibile”. Tale principio generale trova codificazione nell'art. 1917 che contempla il sistema "loss occurrence" (copertura per tutti i sinistri avvenuti nel periodo di garanzia), mentre è derogatorio l'impiego della clausola "claims made" (copertura per i sinistri denunciati nel periodo di garanzia), della cui legittimità si è sovente dubitato (così, sul punto, si era già espresso il Tribunale di Genova, Sez II, 8 aprile 2008: "in tema di assicurazione della responsabilità civile, la clausola cd. "claims made", perché contraria alla norma ex art. 1917 c.c., rende nullo il contratto"; e Tribunale di Roma - sez. XIII, 1 marzo 2006). In proposito, andrebbe in primis chiarito che il periodo di efficacia della garanzia è distinto dal termine per l’escussione di tale garanzia. L’impossibilità di far coincidere i due termini costituisce jus receptum nell’ormai dilagante giurisprudenza di merito, sulla scorta dell’insegnamento della Suprema Corte contenuto nella nota sentenza n. 4661/07 (13), e tale distinzione trae del resto fondamento dall’altro indiscusso orientamento di legittimità, in base al quale, appunto «occorre … distinguere tra il termine di scadenza della garanzia fideiussoria o autonoma ed il termine decadenziale per la sua escussione, poiché i due termini non coincidono. La scadenza della garanzia significa solo che il contenuto della stessa, sotto il profilo della sua estensione temporale, copre tutto quanto è maturato in favore del garantito (13) Ex multis, Tribunale di Roma, IV sez. civile, n. 17781 del 16 settembre 2011. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 317 fino a quella data. Successivamente alla data di scadenza dell’obbligazione di garanzia, possono solo sussistere termini decadenziali per l’esercizio del diritto garantito nei confronti del garante. É possibile, quindi, per il garante (sia esso autonomo o fideiussore), prevedere un termine decadenziale entro cui il diritto del creditore deve essere fatto valere, a tutela del suo interesse a conoscere la propria situazione debitoria. Questo termine, tuttavia, deve essere tale da non rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto del creditore nei confronti del garante, e tale ovviamente non può essere il termine che coincide con la scadenza dell'obbligazione (cfr. Cass. 9/03/2004, n. 4740). Nell’ipotesi che il termine di scadenza dell’obbligazione ed il termine decadenziale per l’escussione coincidano, si può determinare la nullità di quest’ultimo a norma dell’art. 2965 c.c., rendendo eccessivamente difficile al creditore garantito l’esercizio del diritto conseguente al contratto di garanzia. […] Il giudice di merito ha quindi correttamente ritenuto che la garanzia prestata dalla compagnia di assicurazione coprisse tutte le obbligazioni sorgenti dal contratto di locazione entro la data di scadenza dello stesso, ma non che entro la stessa data la garanzia dovesse essere escussa. Ne consegue che, coprendo la garanzia tutte le obbligazioni sorgenti dal contratto di locazione a carico della P., fino alla sua scadenza del 30.4.1997, è irrilevante che tale garanzia sia stata escussa dopo tale data di scadenza, poiché, come visto essa non costituisce anche termine decadenziale per chiedere l'adempimento» (Cass. Civ., 28 febbraio 2007 n. 4661). Con precedente sentenza n. 20909 del 27 ottobre 2005, sempre la III Sez. della Suprema Corte aveva già sancito l’applicabilità ai contratti di fideiussione dell’articolo 2956 c.c., che sancisce la nullità della clausola con la quale si stabiliscono termini di decadenza che rendono eccessivamente difficile a una delle parti l’esercizio del diritto. Ne consegue che è nulla la clausola con la quale, una volta stabilito che il termine d’efficacia della fideiussione coincida con quello di escussione della garanzia, si fissi tra questo termine ed il termine di scadenza dell’obbligazione garantita un periodo temporale così ristretto da rendere eccessivamente difficile, valutate anche le modalità di escussione (ad esempio, mediante lettera che debba pervenire entro un certo termine al garante), che il creditore possa avvalersi della garanzia prestata (v. anche Cass. civ., Sez. III, 9 marzo 2004, n. 4740). E a tali principi si è ormai uniformata la giurisprudenza di merito (14). 4. Segue: il titolo idoneo ad escutere la polizza. In coerenza con tali premesse, e con particolare riferimento alla non ne- (14) Ex multis, Tribunale di Roma, IV Sez. Civ., 8 maggio 2012, n. 9041; 16 settembre 2011, n. 17781. 318 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 cessità di un provvedimento di revoca, già l’art. 5.3 della circolare esplicativa n. 900315 del 14 luglio 2000, così come specificato dalla circolare n. 971.659 del 31 ottobre 2001, aveva sancito l'obbligo delle banche concessionarie di escutere le polizze e/o fideiussioni bancarie poste a copertura del versamento delle cauzioni e/o anticipazioni su erogazioni di prime quote di contributo, in prossimità delle scadenze delle stesse, qualora non fosse stato possibile disporne la liberazione e pur in assenza di un provvedimento di revoca. Mentre la circolare non fa cenno alcuno al presupposto della presenza di un decreto di revoca, né vi è coincidenza temporale tra il momento in cui scattano le condizioni per l'esercizio del diritto all'escussione e quello in cui si verificano i presupposti formali e sostanziali per l’adozione del provvedimento di revoca del contributo. Il che anche ha trovato conferma in una vasta giurisprudenza di merito. Così, ex plurimis, Corte d’Appello di Milano con la sentenza 9 gennaio 2013, n. 13 dove si stabilisce che «… l’asserita mancata conclusione del procedimento di revoca delle agevolazioni da parte del Ministero per i motivi che saranno meglio evidenziati nel prosieguo, non ha sostanzialmente a che vedere con le ragioni per le quali MPS Merchant ha provveduto a richiedere l’escussione della polizza all’appellata Coface, così determinando l’azione di regresso di quest’ultima. […] Inoltre, dalla natura di contratto autonomo di garanzia della polizza assicurativa in atti, discende anche che… sorgeva il diritto del Ministero (beneficiario della polizza) ad ottenere la restituzione della quota elargita a titolo di anticipazione derivando, tale obbligazione, dall’esplicito impegno assunto da Cancellaro Group SRL in sede di stipula del contratto fideiussorio». Si verranno qui di seguito a riportare testualmente altre proposizioni dell’accennata giurisprudenza di merito. «L’efficacia della garanzia è fissata nel periodo massimo di trentasei mesi dall’erogazione dell’importo garantito (art. 3). Nel sistema delineato il rapporto di natura negoziale intercorrente tra società garante e Ministero garantito è distinto e autonomo rispetto al rapporto tra impresa … e Pubblica Amministrazione, destinato a venire meno per effetto della revoca del beneficio disposta in via amministrativa in caso di inadempimento agli obblighi assunti dall’impresa. Il rapporto tra garante e garantito, quindi, non è influenzato, quanto a termine di efficacia, dal parallelo procedimento amministrativo [… ] Ne discende che, ai fini dell’esigibilità del credito dell’Amministrazione, è sufficiente una semplice richiesta di restituzione, sia pure formulata nei termini precisati dall’art. 1 delle condizioni generali, senza dovere attendere i definitivi accertamenti da compiersi per l’adozione del provvedimento di revoca. Il fatto che l’operatività della polizza prescinde dalla sottesa vicenda del finanziamento e dall’inadempimento dell’impresa beneficiaria risulta altresì dalla previsione, contenuta sempre nelle condizioni generali di assicurazione, di un CONTRIBUTI DI DOTTRINA 319 ulteriore meccanismo, che, operando in senso inverso, obbliga il contraente a rimborsare alla società garante, a semplice richiesta, le somme versate, con rinuncia ad ogni e qualsivoglia eccezione» (15). Ed ancora: «… per quanto attiene all’asserita obbligatorietà della revoca quale presupposto legale dell’escussione, devono essere ribadite in questa sede le argomentazioni più volte esposte … in analoghe controversie. In particolare, va rilevato che l’escussione della garanzia deve essere ritenuta legittima in tutte le ipotesi in cui siano verificati i presupposti sostanziali … mentre l’adozione del provvedimento di revoca non è riferibile alla fase di perfezionamento del credito … la preventiva revoca della concessione dell’agevolazione, peraltro, non è stata prevista in contratto quale condizione per l’escussione della polizza, emessa con pagamento “a prima e semplice richiesta” » (16). E, ancor più di recente: «il provvedimento di revoca non rappresenta affatto uno degli atti e dei fatti costitutivi dell’adempimento dell’obbligazione pecuniaria assunta in polizza …» (17). « … La richiesta di escussione è quindi svincolata dal rapporto garantito e ciò configura la polizza quale contratto autonomo di garanzia, con il conseguente obbligo da parte del garante di effettuare il pagamento a semplice richiesta del beneficiario della garanzia e la rinuncia ad opporre le eccezioni inerenti al rapporto principale …» (18). « ... Il credito vantato dall’Amministrazione diventa esigibile allo scadere del 15° giorno successivo alla ricezione della “semplice richiesta scritta” di restituzione delle somme, che - per espressa previsione pattizia - può essere formulata non solo dal Ministero, ma anche dalla stessa banca concessionaria … a nulla rilevando la circostanza che il titolo esecutivo si sia formato in epoca successiva…» (19). Sotto altro aspetto, e per completezza argomentativa, è stata più volte ed esplicitamente affermata l’indifferenza, giusta quanto precede, della priorità o posteriorità della comunicazione al fideiussore (‘escussione’) rispetto al provvedimento di revoca (20). (15) Trib. Roma 19 novembre 2012, n. 22163; nello stesso senso, ancor più recentemente, sempre Trib. Roma, Sez.II civ. n. 8819/13. (16) Trib. Roma, 22 aprile 2013, n. 8819. (17) Trib. Roma, sentenza del 28 marzo 2013, n. 6796. (18) Trib. Milano, VI Sez. civile, 23 marzo 2012 n. 3457. (19) Ord. Trib. Roma 29 novembre 2012; in tal senso, altresì, stesso Trib., sentenze 4 febbraio 2013, nn. 2345 e n. 2350; 3 agosto 2012 n. 15814; 11 luglio 2012 n. 14077; ord. 2 e 6 luglio, nn. 34572 e 35693 R.G. 2012; sentenze Sez. II, 25 luglio 2011, n. 15930; 30 giugno 2011 n.14066; ord. 11 aprile 2011; sent. 29 agosto 2011, n.17021, 2 novembre 2010, n. 22629; 22 settembre 2010 nn. 18995 e 19022. Sul correlativo obbligo della corresponsione dei premi, continuando l’efficacia delle polizze fino all’apposita dichiarazione di svincolo da parte del Ministero, Trib. Roma, Sez. IX Civile, 11 maggio 2011, n. 9780. (20) Trib. Roma, Sez. II, nn. 17021 e 22629/2011. 320 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 Occorre inoltre affrontare un altro diffuso equivoco, nella specie che laddove l’art. 3 comma 8 della legge 23 luglio 2009 n. 99 riconosce il provvedimento di revoca come titolo per l’iscrizione a ruolo dei relativi importi, ciò starebbe a significare che soltanto in forza di esso verrebbe meno il diritto al contributo o alla relativa anticipazione e dunque farebbe scattare la garanzia fideiussoria. Ma il dire che la revoca costituisce titolo, affatto non vuol dire che lo sia soltanto essa, e men che meno, stante lo jus receptum del carattere ‘autonomo’ della garanzia in questione, che l’operatività di questa conseguirebbe al cessare del diritto del beneficiario al contributo. Anche tale corollario del discorso che precede è ben chiaro alla cennata, ormai vasta, giurisprudenza di merito (21). Infatti, allorché l’articolo 3, comma 8, della legge 23 luglio 2009, n. 99 (22) afferma che “il provvedimento di revoca … costituisce titolo per l’iscrizione a ruolo” ciò vuol dire che in forza di quel “titolo”, che in tal contesto diviene così esecutivo, la P.A. può agire con cartella (in forza dell’art. 21 d.lgs. (21) Fra le tante, sul punto, Tribunale di Roma, Sez. II civile, 21 marzo 2012 n. 4690: «Le Condizioni Generali di Assicurazione … nella premessa di una durata della garanzia pari a trentasei mesi dall’erogazione dell’importo garantito (art. 3), prevedono in capo alla garante l’obbligo, irrevocabile ed incondizionato, “a rimborsare al Ministero l’importo garantito … «… Il medesimo regolamento negoziale stabilisce altresì che la garante “si impegna ad effettuare il rimborso a prima e semplice richiesta scritta e, comunque, non oltre 15 (quindici) giorni dalla ricezione della detta richiesta cui peraltro non potrà opporre alcuna eccezione” (art. 2 C.G.A.). Il meccanismo indicato vale a delineare un percorso parallelo ed autonomo - rispetto a quello in essere tra impresa ammessa ad agevolazione finanziaria ex l. 488/92 e P.A., destinato a venir meno giusta revoca in via amministrativa del beneficio - di natura squisitamente negoziale … «…il momento contrattuale tra garante di polizza, contraente di polizza e Ministero beneficiario non risulta influenzato quanto a termine di efficacia ed azionabilità dal parallelo procedimento amministrativo di revoca … «Nella specie i requisiti di azionabilità della garanzia fideiussoria risultano in tal modo soddisfatti dalla escussione intervenuta giusta lettera… «… Non è pertanto necessario che il procedimento di revoca venga portato a compimento conseguendo allo stesso il definitivo accertamento dell’inadempienza contestata all’impresa ed il connesso pregiudizio patrimoniale risentito dall’amministrazione. La polizza infatti opera secondo il meccanismo proprio della cauzione e quindi garantisce non il “facere” dell’impresa finanziata, ed il conseguente risarcimento da inadempimento, ma la restituzione di una somma di denaro, obbligo, quest’ultimo su cui si trasferisce, vicariandola, per l’appunto, l’originaria e diversa obbligazione di risarcimento del danno da inadempimento. Il credito dell’amministrazione godrà pertanto dei requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità al verificarsi dei segnati presupposti e ciò perché detto credito risulta contenuto nei limiti dell’importo garantito e non richiede come tale, il primo, accertamenti ulteriori da dispiegarsi invece in sede di adozione, per l’appunto, del provvedimento di revoca». (22) “I commi 32 e 33 dell’articolo 24 della legge 27 dicembre 1997, n. 449, e successive modificazioni, si interpretano nel senso che il provvedimento di revoca delle agevolazioni disposte dal Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato, dal Ministero delle attività produttive e dal Ministero dello sviluppo economico in materia di incentivi alle imprese costituisce titolo per l’iscrizione a ruolo degli importi corrisposti e dei relativi interessi, rivalutazioni e sanzioni nei confronti di tutti gli obbligati e quindi anche nei confronti dei soggetti che hanno prestato garanzia fideiussoria in relazione alle agevolazioni revocate”. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 321 26 febbraio 199, n. 46 (23)), e non certo che dalla revoca nasca il ‘titolo sostanziale’ di cui qui si discute, ossia la spettanza della garanzia in favore del Ministero. 5. La posizione della Suprema Corte. Con decisione del 27 febbraio 2015, n. 3980, la Sezione sesta della Corte di Cassazione ha nuovamente statuito sulla fisionomia ed operatività dei contratti autonomi di garanzia in materia di contributi pubblici alle imprese. Circa la questione del termine di efficacia della garanzia, il Giudice di legittimità ha affermato che “deve reputarsi decisivo che il D.M. 24 maggio 2000, art. unico, comma 9, preveda la restituzione della cauzione quando l'impresa, percepite le agevolazioni, versi nella condizione di inadempienza: quindi, non già che quest'ultima sia stata anche definitivamente accertata e posta a base e giustificazione del successivo decreto di revoca e dell'avvio delle azioni di recupero”. Si è dunque raggiunta la compiuta affermazione che, secondo il meccanismo della clausola “loss occurrence”, è l’inadempimento dell’impresa nei trentasei mesi successivi alla data di efficacia del decreto di concessione provvisoria del contributo che rileva, e non già il definitivo accertamento di tale inadempimento sancito dal provvedimento di revoca. D’altra parte, l’art. 1917 c.c., primo comma, stabilisce chiaramente che “Nell’assicurazione della responsabilità civile l’assicuratore è obbligato a tenere indenne l’assicurato di quanto questi, in conseguenza del fatto accaduto durante il tempo dell’assicurazione, deve pagare a un terzo, in dipendenza della responsabilità dedotta nel contratto“. Per quanto concerne l’ulteriore questione problematica inerente l’efficacia della nota della banca concessionaria al fine dell’escussione della garanzia, la Suprema Corte ha enunciato il seguente principio di diritto: “nel sistema di concessione di agevolazioni pubbliche ai sensi della disciplina per gli investimenti nel Mezzogiorno d'Italia (di cui alla L. 19 dicembre 1992, n. 488, di conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 22 ottobre 1992, n. 415), (23) “Art. 17. Entrate riscosse mediante ruolo “1. Salvo quanto previsto dal comma 2, si effettua mediante ruolo la riscossione coattiva delle entrate dello Stato, anche diverse dalle imposte sui redditi, e di quelle degli altri enti pubblici, anche previdenziali, esclusi quelli economici. “2. Può essere effettuata mediante ruolo affidato ai concessionari la riscossione coattiva delle entrate delle regioni, delle province, anche autonome, dei comuni e degli altri enti locali. “3. Continua comunque ad effettuarsi mediante ruolo la riscossione delle entrate già riscosse con tale sistema in base alle disposizioni vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto. “Art. 21. Presupposti dell'iscrizione a ruolo “1. Salvo che sia diversamente disposto da particolari disposizioni di legge, e salvo, altresì, quanto stabilito dall'art. 24 per le entrate degli enti previdenziali, le entrate previste dall'articolo 17 aventi causa in rapporti di diritto privato sono iscritte a ruolo quando risultano da titolo avente efficacia esecutiva”. 322 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 ove la polizza fideiussoria a garanzia della prima rata o quota sia stata stipulata con richiamo espresso alla normativa di settore e sia prevista per una durata di trentasei mesi senza possibilità di proroga, l'assicuratrice è tenuta al pagamento della cauzione promessa sol che l'inadempienza da parte del percettore delle agevolazioni sia contestata, dalla banca concessionaria, entro i trentasei mesi contrattualmente stabiliti per la durata della garanzia, non occorrendo che entro il medesimo termine intervenga pure un formale provvedimento di revoca delle dette agevolazioni”. 6. Rilievi conclusivi. La suindicata recente pronuncia della Suprema Corte parrebbe, invero, aver dischiuso profili problematici più profondi di quelli, in effetti, composti. Emerge infatti una distonia tra l’apparato argomentativo ed il principio di diritto enunciato, in particolare per quanto concerne l’operatività della clausola “loss occurrence”. Alla stregua dello snodo motivazionale riportato nel precedente paragrafo, si fa riferimento all’inadempimento dell’impresa nei trentasei mesi di efficacia della garanzia quale fatto legittimante l’escussione della polizza, salvo poi, nel principio di diritto, indicare il requisito ulteriore che entro il predetto termine l’inadempimento sia contestato dalla banca concessionaria. In tal modo, la Suprema Corte parrebbe adombrare una rilevanza mediata della clausola “claims made”, comunque richiedendo un adempimento ulteriore al mero fatto del ‘sinistro’, sia pure identificato nella nota della banca concessionaria anziché nel provvedimento di revoca. Proprio tale aspetto merita, necessariamente, un più approfondito esame della giurisprudenza. RECENSIONI GUGLIELMO BERNABEI (*), GIACOMO MONTANARI (**), Tributi Propri e Autonomie Locali. Difficile sviluppo di un sistema di finanza propria degli enti locali. PRIMICERI EDITORE, PAVIA, 2015, P. 250 PREMESSA In Italia la tassazione immobiliare è stata, negli ultimi anni, costantemente al centro del dibattito politico e giuridico. In un contesto caratterizzato da un profondo rallentamento economico, il legislatore ha dovuto perseguire due obiettivi: da un lato, il riequilibrio strutturale dei conti pubblici per ridurre rapidamente il peso del debito, dall’altro, una ricomposizione del prelievo da attuarsi riducendo il carico fiscale sulle imprese e sul fattore lavoro aumentando la tassazione sul patrimonio immobiliare. Gli immobili sono stati visti come la materia ideale per individuare una imposta di tipo patrimoniale posta a base di una imposizione ispirata dal principio di territorialità. A questo si legano importanti questioni di finanza locale. Negli ultimi cinque anni c'è stata una progressiva ed importante riduzione dei trasferimenti dallo Stato centrale al Comune. Sottrazione di risorse economiche che hanno creato non poche difficoltà nel funzionamento dell'ente locale e nella gestione del territorio da esso governato. Non essendo chiaramente pensabile per un Comune poter continuare a svolgere le proprie funzioni in assenza di risorse adeguate, il legislatore ha stabilito che quanto veniva a mancare nelle casse comunali, a seguito dei tagli ai trasferimenti, doveva essere raccolto con l'imposizione fiscale locale. Pertanto, a partire dal 2012 con l'introduzione dell'Imu e, a seguire, con l'aggiunta della Tasi e della Tari, l'ente locale comunale deve soddisfare alle proprie esigenze di gestione. La diminuzione dei trasferimenti dallo Stato si è tradotto in un aumento della pressione fiscale sui cittadini ma non si è avuto un tangibile beneficio per il Comune, sempre teso tra una politica di manteni- (*) Dottore di ricerca e cultore della materia in diritto costituzionale, diritto regionale e degli enti locali presso l’Università di Ferrara. (**) Laureato in Giurisprudenza presso l’Università di Ferrra, specializzato presso la scuola di specializzazione per le professioni legali dell’Università di Padova ed esperto di diritto tributario degli enti locali e di finanza locale. 324 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2015 mento e di miglioramento dei servizi e l’attenzione a non procedere ad ulteriori aumenti della pressione fiscale locale. Questo passaggio, poi, non è avvenuto sulla base di una chiarezza normativa ben definita in quanto vi è stato un susseguirsi di ritardi, interpretazioni e modifiche che ha reso il contesto della finanza locale ancora più complicato. Inoltre, un altro tecnicismo, entrato a regime dal 2013, merita di essere ricordato. Una parte delle imposte locali raccolte dall’ente comunale viene trattenuta direttamente dallo Stato al fine di costituire un fondo, destinato ad essere, in un secondo momento, redistribuito tra tutti i Comuni con il nome di Fondo di Solidarietà Comunale, sulla base di criteri di riparto piuttosto confusi. Ne deriva che alcuni Comuni si trovano a ricevere meno di quanto gli viene trattenuto, divenendo finanziatori dello Stato stesso. Partendo da un esame dell'evoluzione storica e concettuale della nozione di autonomia locale e dall’analisi dei profili di autonomia finanziaria inerenti il Titolo V della Costituzione, il presente studio si propone di approfondire il percorso dei tributi locali immobiliari, ripercorrendo il passaggio dall’Ici all’Imu fino a prefigurare la costruzione di un modello di Service Tax. Si è posta attenzione anche all’aspetto comparatistico, proponendo come paradigma il sistema della Council tax inglese. La trattazione, seguendo lo schema di una rassegna ragionata, intende evidenziare le criticità di un percorso di autonomia finanziaria locale accidentato, confuso e contraddittorio. L’introduzione al volume è stata redatta dal Prof. Giancarlo Pola, docente dell'Università di Ferrara e direttore del centro di studi e ricerche Eupolis della Regione Lombardia, tra i massimi esperti in materia di finanza locale, mentre la postfazione è stata curata dal dott. Pasquale Mirto, condirettore della Rivista "Tributi locali e regionali", dirigente del settore Entrate di unione di Comuni, esperto in tema di diritto tributario degli enti locali. A questi autorevoli studiosi della materia porgiamo il nostro sentito ringraziamento per il supporto e le indicazioni suggerite nella stesura del presente lavoro, il quale vuole essere un primo bilancio di un percorso di studio alle tematiche della finanza locale che conduciamo dal 2010. Un altro ringraziamento particolare va all’IFEL, Istituto per la Finanza e l'Economia Locale, Fondazione istituita dall'Associazione Nazionale dei Comuni Italiani (ANCI), per il contributo di sostegno e di promozione del testo. Guglielmo Bernabei Giacomo Montanari RECENSIONI 325 INDICE “TRIBUTI PROPRI E AUTONOMIE LOCALI” Difficile sviluppo di un sistema di finanza propria degli Enti locali INTRODUZIONE di Giancarlo Pola CAPITOLO PRIMO EVOLUZIONE DEL SISTEMA DI AUTONOMIA LOCALE NELL’ORDINAMENTO COSTITUZIONALE ITALIANO 1- Stato federale. Stato regionale e Federalismo fiscale. 2- Evoluzione del sistema di autonomia locale. 3- Il sistema di finanza locale prefigurato dalla Riforma del Titolo V: tratti generali. 4- Il coordinamento della finanza pubblica nel processo di attuazione del Titolo V. CAPITOLO SECONDO AUTONOMIA TRIBUTARIA E POTERE REGOLAMENTARE DEGLI ENTI LOCALI 1- Il Federalismo fiscale. 2- Finanza municipale: linee di sviluppo. 3- Potestà normativa in materia di tributi propri degli enti locali. 4- Condizione attuale del potere regolamentare degli enti locali. 5- Potestà regolamentare in materia di accertamento e riscossione. 6- Osservazioni. CAPITOLO TERZO TRIBUTI IMMOBILIARI E AUTONOMIE LOCALI: UNA RIFORMA MANCATA Premessa. 1- Cedolare secca sugli affitti. 2- Tasi-Imu e Service Tax: difficile sviluppo dei tributi locali. 2.1- Il contesto di riferimento. 2.2- Uno sviluppo difficile. 2.3- Tasi-Imu e prima casa. 2.4- Imu e immobili di lusso adibiti a prima casa. 2.5- Imu e possibili rilievi di legittimità costituzionale. 2.6- Una service tax mascherata. 3- Tari. 3.1- Premessa. 3.2- La disciplina della Tari. 3.3- Incerto fondamento della tassazione dei rifiuti solidi urbani. 4- Imu agricola. 4.1- Tasi e terreni agricoli. 4.2- Imu agricola: imposizione e forme di esenzione. 4.3- Imposizione fiscale locale e settore agricolo. 5- Assetto della finanza locale e introduzione della Iuc: questione aperta. CAPITOLO QUARTO PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO E AUTONOMIA FINANZIARIA: IL CASO IMIS. 1- Premessa. 2- Autonomia finanziaria. 3- La finanza propria. 4- Il caso Imis. 5- Verso la local tax. CAPITOLO QUINTO FEDERALISMO FISCALE E PROSPETTIVA COMPARATISTICA: UNA INTRODUZIONE 1- Premessa. 2- Federalismo fiscale e prospettiva comparatistica. 3- L’esperienza del Regno Unito: la Council tax. POSTFAZIONE di Pasquale Mirto APPENDICE NORMATIVA