ANNO LXV - N. 1 GENNAIO - MARZO 2013 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO COMITATO SCIENTIFICO: Presidente: Michele Dipace. Componenti: Franco Coppi - Giuseppe Guarino - Natalino Irti - Eugenio Picozza - Franco Gaetano Scoca. DIRETTORE RESPONSABILE: Giuseppe Fiengo - CONDIRETTORI: Giacomo Arena e Maurizio Borgo. COMITATO DI REDAZIONE: Lorenzo D’Ascia - Gianni De Bellis - Sergio Fiorentino - Paolo Gentili - Maria Vittoria Lumetti - Francesco Meloncelli - Antonio Palatiello - Marina Russo - Massimo Santoro - Carlo Sica - Stefano Varone. CORRISPONDENTI DELLE AVVOCATURE DISTRETTUALI: Andrea Michele Caridi - Stefano Maria Cerillo - Luigi Gabriele Correnti - Giuseppe Di Gesu - Paolo Grasso - Pierfrancesco La Spina - Marco Meloni - Maria Assunta Mercati - Alfonso Mezzotero - Riccardo Montagnoli - Domenico Mutino - Nicola Parri - Adele Quattrone - Pietro Vitullo. HANNO COLLABORATO INOLTRE AL PRESENTE FASCICOLO: Giuseppe Arpaia, Ferruccio Auletta, Stefano Bini, Lorenzo Capaldo, Maria d’Elia, Pasquale de Lise, Danilo Del Gaizo, Giuseppe della Pietra, Paolo Del Vecchio, Pierluigi Di Palma, Wally Ferrante, Angela Fragomeni, Arturo Froio, Giuliano Gambardella, Francesco Gaspari, Federico Maria Giuliani, Giovanni Leone, Simone Lucattini, Massimo Marrelli, Cesare Mastrocola, Glauco Nori, Giuseppe Palma, Giampaolo Rossi, Sabrina Scalini, Vincenzo Sciarabba, Antonio Tallarida, Giuseppe Tesauro, Francesco Testi. E-mail: giuseppe.fiengo@avvocaturastato.it - tel. 066829313 maurizio.borgo@avvocaturastato.it - tel. 066829597 ABBONAMENTO ANNUO ..............................................................................€ 40,00 UN NUMERO .............................................................................................. € 12,00 Per abbonamenti ed acquisti inviare copia della quietanza di versamento di bonifico bancario o postale a favore della Tesoreria dello Stato specificando codice IBAN: IT 42Q 01000 03245 348 0 10 2368 05, causale di versamento, indirizzo ove effettuare la spedizione, codice fiscale del versante. I destinatari della rivista sono pregati di comunicare eventuali variazioni di indirizzo AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO RASSEGNA - Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma E-mail: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it Stampato in Italia - Printed in Italy Autorizzazione Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 INDICE - SOMMARIO EDITORIALE L’impossibile assenza di un amico e maestro. TEMI ISTITUZIONALI Legittimazione passiva del Ministero della Salute nei giudizi aventi ad oggetto la concessione di benefici ai sensi della legge n. 210/92. Parere approvato dal Comitato consultivo nella seduta del 5 aprile 2013. Circolare A.G.S. del 23 aprile 2013 prot. 180144, n. 15 . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cancellazione delle società dal regisro delle imprese. Applicabilità dell’art. 2495 c.c. Effetti sostanziali e processuali. Sentenza 12 marzo 2003 n. 6070 della Corte di Cassazione resa a Sezioni Unite, Circolare A.G.S. dell’8 maggio 2013 prot. 198155, n. 16 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Notifica ai sensi dell’art. 55 della legge n. 69/09. Atto di impulso processuale dato alla notifica da parte di un Procuratore dello Stato. Consiglio di Stato, sentenza n. 769/2013, Circolare A.G.S. dell’8 maggio 2013 prot. 198200, n. 17 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Problematiche circa l’affidamento di difesa all’Ufficio Legale interno di un’Autorità Portuale e non all’Avvocatura dello Stato, Circolare A.G.S. dell’8 maggio 2013 prot. 199586, n. 19 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ammissione alla pratica forense, Circolare S.G. del 15 maggio 2013 prot. 211048, n. 21 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Lorenzo Capaldo, Rappresentanza e difesa in giudizio di amministrazioni pubbliche non statali in controversie individuali di lavoro (Cass. Sez. lav., sent. 21 marzo 2013 n. 7163) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . INCONTRI DI STUDIO Incontro di studio su “Il ruolo dell’avvocatura pubblica nel processo di crescita del Paese”. Napoli, Università Federico II, 9 novembre 2012. . Massimo Marrelli, Indirizzo di saluto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pasquale de Lise, Giuseppe Fiengo, Danilo Del Gaizo, Cesare Mastrocola, Arturo Froio, Maria d’Elia, introducono . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Giuseppe della Pietra, presenta il volume “Il processo nelle controversie di lavoro pubblico” di Michele Gerardo e Adolfo Mutarelli . . . . . . . . . . Paolo Del Vecchio, indirizza e modera gli interventi di. . . . . . . . . . . . . . Giuseppe Tesauro, “Profili dell’avvocato pubblico nei giudizi comunitari e costituzionali” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ferruccio Auletta, “La difesa della parte pubblica nel processo civile e nel rito del lavoro” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Giovanni Leone, “Il ruolo dell’avvocatura pubblica nel processo amministrativo”. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1 ›› 3 ›› 8 ›› 11 ›› 13 ›› 15 ›› 17 ›› 18 ›› 19 ›› 33 ›› 34 ›› 35 ›› 39 ›› 43 Giuseppe Arpaia, “La difesa diretta delle amministrazioni statali” . . . . Giuseppe Palma, “Prospettive sul ruolo dell’avvocatura pubblica nell’articolazione costituzionale della repubblica” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Giuseppe Fiengo, Sulla difesa in giudizio degli enti regionali (C. cost., sent. 22 maggio 2013 n. 91) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . CONTENZIOSO NAZIONALE Glauco Nori, A proposito della sentenza ILVA (C. cost., sent. 9 maggio 2013 n. 85) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Angela Fragomeni, Giuliano Gambardella, Giurisdizione esclusiva del G.A. Natura giuridica dell’articolo 2932 c.c. e sua compatibilità con la struttura del processo amministrativo e con i principi di effettività della tutela ex art. 1 c.p.a., nonchè con l’art. 24 Cost. (Cons. St., Ad. Plen., sent. 20 luglio 2012 n. 28) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ Federico Maria Giuliani, Sabrina Scalini, Illegittimità del decreto ministeriale “redditometro” e atti analoghi per nomofilachia dell’Adunanza Plenaria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pierluigi Di Palma, Francesco Gaspari, L’attuazione del golden power in Italia: dal potere regolamentare alla potestà regolatoria . . . . . . . . . . . . Wally Ferrante, Durata ragionevole del processo e novità introdotte dal “decreto crescita” n. 83/12 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Stefano Bini, Il mobbing: tra tutela delle condizioni di lavoro ed efficienza organizzativa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . CONTRIBUTI DI DOTTRINA Giampaolo Rossi, L’attualità di G.D. Romagnosi nell’eclissi dello statalismo. Considerazioni sul passato e sul futuro del diritto amministrativo Antonio Tallardia, Il “nuovo” giudizio di ottemperanza . . . . . . . . . . . . . Francesco Meloncelli, Natura giuridica della società per azioni di riscossione tributaria e sua legittimazione passiva nel processo tributario . . . Francesco Testi, Il concetto di degradazione nella giurisprudenza della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato (1910 - 1949) . . . . . . . . . . RECENSIONI Simone Lucattini, Modelli di giustizia per i mercati. Quaderni CESIFIN, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013. Prefazione di Fabio Merusi. . . . . Vincenzo Sciarabba, Il giudicato e la CEDU. Profili di diritto costituzionale, internazionale e comparato. Pubblicazioni della Università di Pavia, Facoltà di Giurisprudenza, Studi nelle scienze giuridiche e sociali, CEDAM 2012. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 49 ›› 56 ›› 69 ›› 77 ›› 101 ›› 141 ›› 153 ›› 187 ›› 191 ›› 199 ›› 233 ›› 245 ›› 299 ›› 333 ›› 335 EDITORIALE L’impossibile assenza di un amico e maestro Un triste male ha portato via alla Sua famiglia e a noi, in Avvocatura dello Stato, il collega Antonio Palatiello; lo smarrimento, la sensazione di vuoto, il dolore profondo per un amico che se ne va… Eppure, se c’è un senso nella vita professionale di Antonio Palatiello è proprio l’idea che Egli non possa ragionevolmente assentarsi, neppure in questa triste circostanza. Resta con noi il suo modo di lavorare, di intendere il mestiere di avvocato dello Stato ed i compiti che deve affrontare chi difende e consiglia le pubbliche amministrazioni; restano con noi gli insegnamenti che ha inteso darci, quelli che abbiamo accettato e quelli che non abbiamo condiviso. Caro Antonio, con la tua saggezza giuridica e la tua grande umanità sei entrato nella nostra vita e ci resterai, presente come ogni giorno, fino a quando, nani sulle spalle di giganti, continueremo a credere nel ruolo istituzionale che è chiamata a svolgere l’Avvocatura dello Stato. TEMI ISTITUZIONALI Avvocatura Generale dello Stato CIRCOLARE N. 15/2013 Oggetto: legittimazione passiva del Ministero della Salute nei giudizi aventi ad oggetto la concessione di benefici ai sensi della legge n. 210/92 - Parere approvato dal Comitato consultivo nella seduta del 5 aprile 2013. Si trasmette, per opportuna conoscenza, copia del parere in oggetto, approvato dal Comitato Consultivo nella seduta del 4 aprile 2012. Come noto, si è già da tempo prestata acquiescenza all'orientamento della giurisprudenza di legittimità che ha affermato la legittimazione passiva del Ministero della Salute nei giudizi di cui all'oggetto nei quali si faccia questione della concessione degli indennizzi ex lege 210/92 la cui istanza amministrativa sia stata presentata in epoca antecedente al trasferimento di funzioni e compiti amministrativi alle Regioni (21 febbraio 2001). Quanto ai giudizi in cui si controverta, invece, circa la concessione di indennizzi ex lege 210/92 la cui istanza amministrativa sia stata presentata in epoca successiva al trasferimento di funzioni e compiti amministrativi alle Regioni, si è finora sostenuta la tesi difensiva secondo la quale la sentenza della Corte di Cassazione SS.UU. n. 12538/11 avrebbe affermato la legittimazione passiva dell'Amministrazione statale limitatamente alle sole domande di accertamento, e non anche a quelle di condanna. Con il parere allegato alla presente Circolare, si è deliberato di desistere dal sostenere la predetta tesi, in considerazione del consolidarsi di una giurisprudenza di legittimità ad essa contraria. Si invitano pertanto, le SS.LL. a non impugnare le sentenze di merito che si uniformino alla summenzionata pronuncia delle Sezioni Unite, nonché a non coltivare ulteriormente le impugnative già pendenti, fondate esclusivamente sul suddetto argomento. Deve, inoltre, intendersi superata l'indicazione contenuta nel parere reso con nota prot. 326253 del 18 ottobre 2011 (anch'esso approvato dal Comitato Consultivo) di proporre domanda di manleva nei confronti delle Regioni. A tale domanda, ove proposta in giudizi pendenti, dovrà, pertanto, espressamente rinunciarsi. L'AVVOCATO GENERALE DELLO STATO Michele Dipace 2 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 Avvocatura Generale dello Stato Via dei Portoghesi, 12 - 13/04/2013-165064 P 00186 ROMA Roma POSTA PRIORITARIA Roma, MINISTERO DELLA SALUTE Partenza N. Dip. della Programmazione e Ordinamento Tipo Affare CT 41892/08 - Sez.V del Servizio Sanitario Nazionale Avv. RUSSO M. D.G. Dispositivi medici, servizio farmaceutico e sicurezza delle cure. Uff. VIII Viale Giorgio Ribotta, 5 00144 - ROMA OGGETTO: Parere in materia di legittimazione passiva del Ministero della Salute nei giudizi aventi ad oggetto la concessione di benefici ai sensi della legge n. 210/92 - stato della giurisprudenza dopo la sentenza Cass. SS.UU. n. 12538/11 - nuova valutazione. Con il presente parere si torna ad affrontare, alla luce dell’orientamento giurisprudenziale consolidatosi dopo la pronuncia della Cassazione SS.UU. 12538/11, la nota questione del difetto di legittimazione passiva del Ministero nei giudizi aventi ad oggetto il diritto all’indennizzo ex lege 210/92, la cui istanza amministrativa sia stata presentata in epoca successiva al trasferimento di funzioni e compiti amministrativi alle Regioni. Si ricorda che, sull’argomento, la Scrivente si è espressa con parere prot. 326253 del 18 ottobre 2011 (allegato in copia per comodità di consultazione) [n.d.r. Rass. 2011, IV, 259], ove si auspicava un riesame da parte della Corte di Cassazione dell’orientamento espresso dalle SS.UU. con la sentenza sopra menzionata. A tal fine ed in coerenza con il suddetto parere, la Scrivente ha continuato - come già ampiamente noto a codesta Amministrazione - a sostenere nei giudizi pendenti (anche) innanzi alla Suprema Corte la tesi secondo la quale le SS.UU avrebbero - sì - affermato la legittimazione passiva del Ministero, ma limitatamente alle sole domande d’accertamento, e non anche a quelle di condanna. Si è già avuto modo di rappresentare (in particolare, si veda la nota n. 472486 del 29 novembre 2012 ct 5226/07 avv. Marina Russo) che le argomentazioni fino ad oggi esposte a sostegno di tale impostazione sono state sistematicamente disattese dalla Suprema Corte Sez. lav., la quale - pur senza farsi carico di esplicitarne le ragioni - ha continuato a conformarsi pedissequamente alla pronuncia delle SS.UU (ex multis, sent. nn. 4469/12, 22898/11), come pure è puntualmente avvenuto da parte dei giudici di merito. Finalmente - anche a seguito delle reiterate insistenze della difesa di parte pubblica in occasione della discussione orale di numerosi giudizi sull’argomento - la Sezione lavoro con sentenza 12506/12, già costì trasmessa in allegato alla richiamata nota n. 472486 del 29 novembre 2012, ha per la prima volta affrontato - sia pur molto sinteticamente - le questioni proposte dall’Avvocatura ai fini dell’interpretazione della sent. 12538/11 nel senso indicato dal citato parere prot. 326253 del 18 ottobre 2011. La Cassazione peraltro, nella sentenza 12506/12, ha completamente disatteso le posizioni esposte dalla Scrivente, concludendo che la sentenza delle SS.UU. “non distingue affatto tra azioni di mero accertamento e di condanna”, confermando perciò ancora una TEMI ISTITUZIONALI 3 volta che il Ministero è legittimato a contraddire anche rispetto a giudizi concernenti istanze amministrative successive alla data di trasferimento di funzioni e compiti amministrativi alle Regioni nei quali siano avanzate domande di condanna al pagamento del beneficio. In considerazione di tutto quanto sopra, e benché l’orientamento della Suprema Corte continui a destare perplessità, anche in quanto sostanzialmente evasivo rispetto alle argomentazioni della difesa di parte pubblica, la Scrivente abbandonerà la tesi difensiva di cui al parere 326253 del 18 ottobre 2011, tanto nei giudizi di merito quanto cui quelli di legittimità, posto che essa andrebbe pressoché certamente incontro ad ulteriore insuccesso, con un aggravio di attività processuale sostanzialmente improduttiva, ed anzi foriera di maggiori spese per l’Amministrazione. Si rammenta inoltre che, nel summenzionato parere, la Scrivente prospettava - a superamento della problematica connessa all’orientamento giurisprudenziale delle SS.UU. - possibili soluzioni normative od amministrative. Sullo stato delle stesse si sono richieste aggiornate notizie nella già richiamata nota n. 472486 del 29 novembre 2012, rimasta peraltro ad oggi inevasa, ciò che lascia intendere che non constino novità sul punto. L’Amministrazione in indirizzo ben potrà, comunque, ancora valutare la praticabilità delle soluzioni suggerite dalla Scrivente, che - allo stato - sembrano costituire la sola strada in concreto praticabile per il superamento dei problemi posti dalla giurisprudenza, ormai consolidatasi in senso sfavorevole all’Amministrazione. Sulla questione, nella seduta del 5 aprile 2013, è stato sentito il Comitato Consultivo, che si è espresso in conformità. L'Avvocato estensore Marina Russo L’AVVOCATO GENERALE Michele Dipace CIRCOLARE N. 16/2013 Oggetto: Cancellazione delle società dal registro delle imprese. Applicabilità dell'art. 2495 c.c. Effetti sostanziali e processuali. Sentenza 12 marzo 2003 n. 6070 della Corte di Cassazione resa a Sezioni Unite. Con la recente sentenza 12 marzo 2013 n. 6070 (di contenuto analogo alle coeve decisioni n. 6071 e 6072), la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, si è pronunciata sulla rilevante questione degli effetti processuali e sostanziali derivanti dalla cancellazione delle società (di persone e di capitali) dal registro delle imprese, alla luce dell'art. 2495 c.c. nel testo introdotto con l'art. 4 del D.Lgs. 17 gennaio 2003 n. 6. Il nuovo art. 2495 così dispone: "Approvato il bilancio finale di liquidazione, i liquidatori devono chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese. Ferma restando l'estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle 4 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi. La domanda, se proposta entro un anno dalla cancellazione, può essere notificata presso l’ultima sede della società”. La Suprema Corte ha affermato i seguenti principi di diritto: «Qualora all'estinzione della società, conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale: a) le obbligazioni si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, essi fossero o meno illimitatamente responsabili per i debiti sociali; b) si trasferiscono del pari ai soci, in regime di contitolarità o di comunione indivisa, i diritti ed i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, ma non anche le mere pretese, ancorchè azionate o azionabili in giudizio, nè i diritti di credito ancora incerti o illiquidi la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale) il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato». «La cancellazione volontaria dal registro delle imprese di una società, a partire dal momento in cui si veriftca l'estinzione della società medesima, impedisce che essa possa ammissibilmente agire o essere convenuta in giudizio. Se l'estinzione della società cancellata dal registro intervenga in pendenza di un giudizio del quale la società è parte, si determina un evento interruttivo del processo, disciplinato dall'art. 299 c.p.a e segg., con possibile successiva eventuale prosecuzione o riassunzione del medesimo giudizio da parte o nei confronti dei soci. Ove invece l’evento estintivo non sia stato fatto constare nei modi previsti dagli articoli appena citati o si sia verificato quando il farlo constare in quei modi non sarebbe più stato possibile, l'impugnazione della sentenza pronunciata nei riguardi della società deve provenire o essere indirizzata, a pena d'inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci succeduti alla società estinta». In sintesi, la Corte di Cassazione ha precisato quanto segue: 1) sono confermati i principi già affermati dalle stesse SS.UU. nelle sentenze n. 4060, 4061 e 4062/2010, ad in particolare che: a) con l'entrata in vigore dall’1 gennaio 2004 del nuovo testo dell'art. 2495 c.c., la cancellazione di una società dal registro delle imprese ha natura "costitutiva" e comporta l’estinzione della stessa; b) la nuova disposizione ê applicabile alle cancellazioni effettuate dopo l’1 gennaio 2004; per quelle eseguite in data anteriore, l'effetto estintivo deve intendersi realizzato per tutte l’1 gennaio 2004, data di entrata in vigore della nuova normativa; c) l'estinzione si verifica anche nei confronti delle società di persone (alle quali, in linea di principio, l’art. 2495 c.c. non sarebbe applicabile), ancorché la relativa cancellazione abbia natura "dichiarativa" e non "costitutiva", superabile con prova contraria; 2) sono confermati i principi già affermati da Cass. SS.UU. n. 8426/2010 (erroneamente indicata in sentenza come n. 4826/2010) in tema di "cancellazione della cancellazione" della società ex art. 2291 c.c. allorchè "la società abbia continuato in realtà ad operare - e dunque ad esistere pur dopo l'avvenuta cancellazione dal registro"; 3) l’art. 2495 c.c. configura "un fenomeno di tipo successorio, sia pure sui generis, che coinvolge i soci ed è variamente disciplinato dalla legge a seconda del diverso regime di responsabilità da cui, pendente societate, erano caratterizzati i pregressi rapporti sociali"; 4) i soci sono "destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società TEMI ISTITUZIONALI 5 cancellata ma non definiti all'esito della liquidazione [...] fermo però restando il loro diritto di opporre al creditore agente il limite di responsabilità" in funzione del tipo di società a cui appartenevano; 5) la natura di successori dei soci non viene meno per il solo fatto che questi possano non essere tenuti a rispondere con il proprio patrimonio (come potrebbe avvenire, per le società di capitali, per effetto dell'art. 2495 comma 2 c.c.); tale circostanza non influisce pertanto sulla legittimazione passiva del socio medesimo, quale successore della società estinta; 6) può sussistere comunque un interesse dei creditori a proseguire il giudizio nei confronti dei soci, nonostante la limitazione di responsabilità degli stessi, "ad esempio in funzione dell'escussione di garanzia". A tale ipotesi formulata dalla Corte, si potrebbero aggiungere anche le seguenti: a) al fine di agire nei confronti del liquidatore ex art. 2945 comma 2 c.c.; b) al fine di evitare un effetto estensivo del giudicato ex art. 1306 c.c. nei confronti di condebitori solidali; c) in previsione di una "cancellazione della cancellazione" della società di cui al precedente punto 2 ecc.; 7) l’art. 2495 comma 2 c.c. ultima parte, laddove prevede che "La domanda [dei creditori sociali n.d.r.], se proposta entro un anno dalla cancellazione, può essere notificata presso l’ultima sede della società”, è una norma ispirata all'art. 303 comma 2 c.p.c., "che consente, entro l'anno dalla morte della parte, di notificare l'atto di riassunzione agli eredi nell'ultimo domicilio del defunto" (anche se la prima disposizione, precisa la Corte, non dovrebbe essere applicabile alle società di persone); 8) in relazione ai residui attivi, la cancellazione volontaria della società "senza tener conto di una pendenza non ancora definita, ma della quale il liquidatore aveva (o si può ragionevolmente presumere che avesse) contezza [è] da intendere come una tacita manifestazione di volontà di rinunciare alla relativa pretesa"; precisa al riguardo la Corte che un tale effetto di rinuncia può avvenire: a. quando si è in presenza "di mere pretese, ancorchè azionate o azionabili in giudizio, cui ancora non corrisponda la possibilità d'individuare con sicurezza nel patrimonio sociale un diritto o un bene definito, onde un tal diritto o un tal bene non avrebbero neppure perciò potuto ragionevolmente essere iscritti nell'attivo del bilancio finale di liquidazione"; b. allorché si configuri un diritto di credito, il quale "oltre che magari controverso, non sia neppure liquido: di modo che solo un'attività ulteriore da parte del liquidatore - per lo più consistente nell'esercizio o nella coltivazione di un'apposita azione giudiziaria - avrebbe potuto condurre a renderlo liquido, in vista del riparto tra i soci dopo il soddisfacimento dei debiti sociali"; 9) al di fuori dei casi suddetti, quando cioè si tratti "di un bene o di un diritto che, se fossero stati conosciuti o comunque non trascurati al tempo della liquidazione, in quel bilancio avrebbero dovuto senz'altro figurare, e che sarebbero perciò stati suscettibili di ripartizione tra i soci (al netto dei debiti)" con la conseguenza che "un'interpretazione abdicativa della cancellazione appare meno giustificata", si viene ad instaurare tra i soci "ai quali quei diritti o quei beni pertengono, un regime di contitolarità o di comunione indivisa, onde anche la relativa gestione seguirà il regime proprio della contitolarità o della comunione" (e tale regime opererebbe anche per i beni sopravvenuti alla cancellazione); 10) per effetto della cancellazione, la società non può "validamente intraprendere una causa, 6 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 né esservi convenuta" (da ciò la inammissibilità delle azioni proposte dalla società dopo la sua cancellazione ovvero proposte contro la stessa); 11) nell'ipotesi in cui la cancellazione avvenga nel corso del giudizio, poiché "Non v'è alcun soggetto diverso dal successore (cioè dai soci) nei cui confronti possa proseguire il processo di cui era parte la società frattanto cancellata dal registro [...j non v'è motivo per non ritenere applicabili a tale fattispecie le disposizioni dettate dall'art. 299 c.pc. e segg., in tema di interruzione e di eventuale prosecuzione o riassunzione della causa (così anche Cass. 16 maggio 2012, n. 7676)" (con l'unica eccezione della peculiare ipotesi prevista dall'art. 10 della Legge Fallimentare); conseguentemente sono applicabili i principi in tema di interruzione del processo per decesso della parte; 12) nei casi di impugnazione successiva all'estinzione della società (dichiarata o meno in causa), "il giudizio d'impugnazione deve esser sempre instaurato nei confronti della «giusta parte», cui soltanto ormai fa capo il rapporto litigioso"; conseguentemente una impugnazione diretta nei confronti di una società cancellata sarebbe da ritenersi inammissibile (salvo la possibilità, ricorrendone i presupposti, di ottenere una rimessione nei termini ex art. 153 c.p.c.); 13) la diversa giurisprudenza in tema di estinzione della società a seguito di fusione (che non ravvisa una inammissibilità nella ipotesi di cui al punto precedente: Cass. 19509/10 e 19698/2010), si giustifica per la diversa natura della fusione rispetto alla cancellazione volontaria della società. * * * La pronuncia delle Sezioni Unite ha indubbiamente contribuito a chiarire diverse problematiche conseguenti alla cancéllazione della società. Restano tuttavia alcune questioni ancora aperte, e precisamente: a) se la cancellazione della società e la conseguente successione dei soci dia luogo ad una ipotesi di litisconsorzio necessario fra tutti i soci. L'equiparazione che la Corte ha operato con la successione per causa di morte, rende plausibile l'applicazione dei principi elaborati in quella sede, secondo cui: a-1) qualora il decesso (e quindi l'estinzione della società) avvenga in corso di eansa, si realizza un'ipotesi di litisconsorzio processuale, indipendentemente dalla scindibilità o meno del rapporto sostanziale tra i soci (Cass. n. 1202/2007); a-2) qualora il decesso (e quindi l'estinzione della società) avvenga prima della instaurazione di un giudizio, sarà possibile agire anche separatamente nei confronti di uno o più soci, sulla base del grado e alla natura di responsabilità personale in ordine alle obbligazioni che facevano capo alla società; a-3) qualora il decesso (e quindi l'estinzione della società) avvenga in pendenza del termine per impugnare, risulterà applicabile anche l’art. 328 c.p.c. e conseguentemente: • verrebbe meno, ai sensi del comma 1, il termine breve della sentenza notificata prima della cancellazione (Cass. n. 5392/2003); • dovrebbe operare la proroga di cui al comma 3 dell' art. 328 c.p.c. in forza del quale "Se dopo sei mesi dalla pubblicazione della sentenza si verifica alcuno degli eventi previsti nell'art. 299, il termine di cui all'articolo precedente è prorogato per tutte le parti di sei mesi dal giorno dell'evento". Occorre a tale riguardo valutare gli effetti della norma rispetto al nuovo termine "lungo" di impugnazione, divenuto semestrale per le cause civili introdotte a partire dal 4 luglio 2009 (e per tutte quelle davanti al G.A.). Poiché la ratio della disposizione è quella di TEMI ISTITUZIONALI 7 concedere una proroga di sei mesi dalla data del decesso, può sostenersi che la riduzione a sei mesi del termine lungo ex art. 327 c.p.c. comporti la inapplicabilità dell'inciso "Se dopo sei mesi dalla pubblicazione della sentenza". Tale inciso aveva infatti il solo scopo di evitare che il successivo periodo ("il termine di cui all'articolo precedente è prorogato per tutte le parti di sei mesi dal giorno dell'evento") fosse improduttivo di effetti, in quanto la proroga semestrale - se intervenuta nel primo semestre - non avrebbe mai potuto superare il termine annuale. Conseguentemente la proroga semestrale sarebbe sempre operante. Cautelativamente è comunque opportuno astenersi ad una interpretazione letterale dell'art. 328 comma 3 c.p.c. (che di fatto ne limita l'utilizzazione al solo periodo successivo ai sei mesi per effetto di sospensione feriale dei termini) ed invocare la suesposta interpretazione sistematica nei soli casi in cui non sia stato possibile il rispetto del termine. Per coerenza si dovrà ovviamente evitare di eccepire alle controparti decadenze derivanti dalla interpretazione letterale. b) se la limitazione di responsabilità del socio derivante dalla natura della società cancellata (ovvero dall'importo "delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione" ex art. 2495 comma 2 c.p.c.) debba essere fatta valere necessariamente in sede di cognizione, ovvero possa essere eccepita per la prima volta in sede esecutiva. Sembra doversi preferire la prima soluzione, in coerenza con la giurisprudenza in materia di responsabilità degli eredi con beneficio d'inventarlo (Cass. 11084/1993), istituto al quale può assimilarsi l'ipotesi in esame. c) circa la possibilità di fornire la prova contraria, idonea a provocare la "cancellazione della cancellazione" dal registro delle imprese, (prova che secondo la Corte deve consistere nel fatto che la società, dopo la cancellazione "abbia continuato in realtà ad operare"), si pone il problema della rilevanza della natura della cancellazione, ritenuta dalla Corte "costitutiva" per le società di capitali ed invece "dichiarativa" per le società di persone. In quest'ultimo caso dovrebbe ritenersi consentito far valere la non operatività della cancellazione, direttamente in sede giudiziale. Così, ad esempio, qualora (come spesso accade) una società di persone abbia impugnato un atto impositivo nonostante la sua precedente cancellazione, ciò dovrebbe costituire ex se prova di esistenza della società stessa, suscettibile di superare la presunzione di inesistenza derivante dalla cancellazione (meramente "dichiarativa”) della stessa società dal registro delle imprese. Riflessi della sentenza della Corte in campo tributario. La disposta equiparazione, da parte della Suprema Corte, della estinzione delle società a seguito di cancellazione dal registro delle imprese ad una successione ereditaria, può avere rilevanti implicazioni anche in materia tributaria. In particolare si pone il problema dell'applicabilità, ai casi di cancellazione, delle disposizioni contenute nell'art. 65 (1) del D.P.R. n. 600/1973 ("Disposizioni comuni in materia di (1) L'art. 65 del D.P.R n. 600/1973 così dispone: "Gli eredi rispondono in solido delle obbligazioni tributarie il cui presupposto si è verificato anteriormente alla morte del dante causa. Gli eredi del contribuente devono comunicare all'ufficio delle imposte del domicilio fiscale del dante causa le proprie generalità e il proprio domicilio fiscale. La comunicazione può essere presentata direttamente all'ufficio o trasmessa mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento, nel qual 8 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 accertamento delle imposte sui redditi”), laddove si prevede (al comma 1) la responsabilità solidale degli eredi per le obbligazioni tributarie del dante causa, nonché (al comma 4) la possibilità di notificare gli atti "intestati al dante causa [...] agli eredi impersonalmente e collettivamente nell'ultimo domicilio dello stesso". * * * Tenuto conto delle conseguenze pregiudizievoli che possono derivare in campo processuale dalla cancellazione della società dal registro delle imprese, si evidenzia l'importanza, prima di agire giudizialmente (ovvero prima di proporre una impugnazione) contro una società, di accertarne lo stato collegandosi al sito https://telemaco.infocamere.it/ (user e password sono riportate nella home page delle banche dati sulla INTRANET) ed effettuare una visura ordinaria. In tal modo sarà possibile accertare: a) la sede legale della società; b) l'eventuale assoggettamento a procedere concorsuali; c) l'eventuale fusione o incorporazione in altra società; d) il nome e recapito del legale rappresentante; e) i nomi dei soci; f) l'eventuale cancellazione della società; g) il bilancio finale di liquidazione. L'AVVOCATO GENERALE DELLO STATO Michele DIPACE CIRCOLARE N. 17/2013 Oggetto: Notifica ai sensi dell'art. 55 della legge n. 69/09. Atto di impulso processuale dato alla notifica da parte di un Procuratore dello Stato. Consiglio di Stato, sentenza n. 769/2013. Con riferimento alla questione in oggetto, si rappresenta che il Consiglio di Stato, con sentenza n. 769/2013 (che si allega in copia), nel rigettare l'avversa eccezione di inammissibilità dell'appello - la cui richiesta di notifica, ex art. 55 della legge n. 69/09, proveniva da un Procuratore dello Stato - ha affermato che la richiesta di notifica dell'atto giudiziario (nella specie l'appello) effettuata dal procuratore dello Stato è valida; e ciò anche perchè l'art. 55 caso si intende fatta nel giorno di spedizione. Tutti i termini pendenti alla data della morte del contribuente o scadenti entro quattro mesi da essa, compresi il termine per la presentazione della dichiarazione e il termine per ricorrere contro l'accertamento, sono prorogati di sei mesi in favore degli eredi. I soggetti incaricati dagli eredi, ai sensi del comma 2 dell'articolo 12, devono trasmettere in via telematica la dichiarazione entro il mese di gennaio dell'anno successivo a quello in cui è scaduto il termine prorogato. La notifica degli atti intestati al dante causa può essere effettuata agli eredi impersonalmente e collettivamente nell'ultimo domicilio dello stesso ed è efficace nei confronti degli eredi che, almeno trenta giorni prima, non abbiano effettuato la comunicazione di cui al secondo comma”. TEMI ISTITUZIONALI 9 della legge n. 69 del 2009 autorizza l'Avvocatura dello Stato, intesa quale ufficio, ad impiegare la modalità di notificazione in esame non distinguendo affatto tra procuratori e avvocati dello Stato. L'AVVOCATO GENERALE Michele DIPACE N. 00769/2013REG.PROV.COLL. N. 08085/2012 REG.RIC. R E P U B B L I C A I T A L I A N A IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8085 del 2012, proposto da: Autorità per l’energia elettrica ed il gas, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12; contro Stars Energy s.r.l. e Sirio Energy s.r.l., in persona dei rispettivi legali rappresentanti, rappresentate e difese dagli avvocati Maria Stefania Masini, Enzo Robaldo e Michele Calleri, con domicilio eletto presso lo studio della prima in Roma, via della Vite, 7; nei confronti di Tesi s.r.l., in persona del legale rappresentante; per la riforma della sentenza 4 ottobre 2012, n. 2458 del Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, Milano, Sezione III. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; visti gli atti di costituzione in giudizio; viste le memorie difensive; visti tutti gli atti della causa; relatore nella camera di consiglio del giorno 4 dicembre 2012 il Cons. Vincenzo Lopilato e uditi per le parti gli avvocati dello Stato Palatiello e Robaldo. (omissis) DIRITTO (...) 2.– In via preliminare, deve essere esaminata l’eccezione di inammissibilità dell’appello per inesistenza della notifica. In particolare, le società appellate assumono che non è valida la notificata effettuata, come nella specie, da un procuratore dello Stato e non da un avvocato dello Stato. Il primo, infatti, non sarebbe «munito di valida procura alle lite, e come tale non abilitato al compimento di alcun atto di impulso processuale nell’ambito di un giudizio dinanzi ad una giurisdizione superiore». Si richiama, a tale proposito, quanto affermato dal Consiglio di Stato, V, 22 marzo 2012, n. 1631. L’eccezione non è fondata. 10 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 La legge 21 gennaio 1994, n. 53 (Facoltà di notificazioni di atti civili, amministrativi e stragiudiziali per gli avvocati e procuratori legali) prevede che l’avvocato, munito di procura alle liti e della autorizzazione del consiglio dell’ordine nel cui albo è iscritto, può eseguire la notificazione di atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale a mezzo del servizio postale. Il Consiglio di Stato, sez. V, con la citata sentenza n. 1631 del 2012 ha affermato che la legge n. 53 del 1994 vieta ad avvocato non abilitato all’esercizio del mandato innanzi alle Magistrature superiori di effettuare «l’atto di impulso processuale dato dalla notifica». L’art. 55 della legge 19 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile) prevede, al primo comma, che: «l’Avvocatura dello Stato può eseguire la notificazione di atti civili, amministrativi e stragiudiziali ai sensi della legge 21 gennaio 1994, n. 53». Al secondo comma si dispone che, per le suddette finalità, «l’Avvocatura generale dello Stato e ciascuna avvocatura distrettuale dello Stato si dotano di un apposito registro cronologico conforme alla normativa, anche regolamentare, vigente». Si tratta, pertanto, di stabilire se la limitazione posta agli avvocati del libero foro valga anche per gli avvocati dello Stato. L’art. 1, comma 2, del regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611 (Approvazione del testo unico delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull'ordinamento dell'Avvocatura dello Stato) stabilisce: «Gli avvocati dello Stato, esercitano le loro funzioni innanzi a tutte le giurisdizioni ed in qualunque sede e non hanno bisogno di mandato, neppure nei casi nei quali le norme ordinarie richiedono il mandato speciale, bastando che consti della loro qualità». L’art. 8, comma 3, della 3 aprile 1979, n. 103 (Modifiche dell’ordinamento dell'Avvocatura dello Stato) dispone: «I procuratori dello Stato possono assumere la rappresentanza in giudizio delle amministrazioni nei modi di cui al secondo comma dell'art. 1 del testo unico approvato con regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611». Dalla lettura combinata di queste disposizioni risulta come nessuna limitazione il sistema vigente preveda al riguardo per i procuratori dello Stato i quali, pertanto, possono esercitare, allo stesso modo degli avvocati dello Stato, le funzioni anche innanzi alle magistrature superiori. Ma anche a prescindere da tale rilievo, l’art. 55 della legge n. 69 del 2009 autorizza l’Avvocatura dello Stato, intesa quale ufficio, ad impiegare la modalità di notificazione in esame, il che significa che anche un procuratore dello Stato, incardinato nell’ufficio, è autorizzato a dare impulso processuale all’appello mediante la notificazione dello stesso. In definitiva, il principio espresso dalla sentenza di questo Consiglio di Stato n. 1631 del 2012, riferendosi alle notificazioni effettuate dai singoli avvocati del libero foro, non può estendersi, per le ragioni indicate, alle notificazioni effettuate dall’Avvocatura dello Stato. (...) P.Q.M. Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando: a) accoglie, nei sensi di cui in motivazione, l’appello e, per l’effetto, rigetta il ricorso di primo grado; b) dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. TEMI ISTITUZIONALI 11 Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 4 dicembre 2012 con l'intervento dei magistrati: Giuseppe Severini, Presidente Maurizio Meschino, Consigliere Roberto Giovagnoli, Consigliere Giulio Castriota Scanderbeg, Consigliere Vincenzo Lopilato, Consigliere, Estensore CIRCOLARE N. 19/2013 Oggetto: Problematiche circa l'affidamento di difesa all'Ufficio Legale interno di un'Autorità Portuale e non all'Avvocatura dello Stato. Si trasmette il parere, reso all'esito della seduta del Comitato Consultivo del 5 aprile 2013, con il quale è stato evidenziato che il carattere della organicità ed esclusività del patrocinio c.d. "autorizzato" dell'Avvocatura dello Stato nei confronti delle Autorità Portuali non viene meno neppure nelle ipotesi in cui l'Ente portuale abbia costituito un proprio Ufficio legale interno. L'AVVOCATO GENERALE DELLO STATO Michele Dipace Avvocatura Generale dello Stato Via dei Portoghesi, 12 - 11/04/2013-161082 P 00186 ROMA Roma TELEFAX Roma, All’Avvocaatura Distrettuale dello Stato di Partenza N. GENOVA Tipo affare CS 3898/13 - Sez. AG (rif. A.O. 203/2013 - Avv. Salvemini) Avv. Borgo 11/04/2013-161108 P e p.c. Al Ministero delle Infrastrtture Roma Trasporti TELEFAX Dipartimento per i Trasporti, la Navigazione, ed i Sistemi Informativi e Statistici Direzione Generale per i Porti ROMA OGGETTO: Problematiche circa l’affidamento di difesa all’Ufficio Legale interno dell’Autorità Portuale di Genova e non all’Avvocatura dello Stato. Si riscontra la nota del 7 febbraio 2013, prot. n. 5540, con la quale codesta Avvocatura Distrettuale ha sottoposto alle valutazioni della Scrivente la nota dell’Autorità Portuale di Genova del 6 febbraio 2013, prot. n. 2721 con la quale il predetto Ente ha recisamente 12 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 contestato le tesi sostenute da questo Generale Ufficio in ordine alla organicità ed esclusività del patrocinio c.d. autorizzato dell’Avvocatura dello Stato. Al proposito, si evidenzia come le argomentazioni, svolte dall’Autorità Portuale di Genova, non possano, in alcun modo, essere condivise. In primo luogo, deve evidenziarsi che la sentenza del T.A.R. del Lazio, Sez. III, n. 4640/09, menzionata dal predetto Ente - secondo la quale il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, una volta autorizzato, non opererebbe ex se ma necessiterebbe di una previa istanza dell’Autorità rivolta all’Avvocatura dello Stato - risulta smentita dalla successiva sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, del 9 febbraio 2010, n. 647 ove si afferma che, anche con riferimento all’ipotesi di patrocinio autorizzato, “non occorre mandato, né deliberazione”. A quanto sopra, si aggiunga che non è possibile affermare, come fatto dall’Autorità Portuale di Genova, che i caratteri della organicità ed esclusività siano predicabili, con riferimento al patrocinio autorizzato, ai soli fini di escludere il ricorso ad avvocati del libero foro e non anche a quelli facenti parte dell’Ufficio legale interno dell’Ente. Il carattere della organicità del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato deve essere, infatti, inteso proprio nel senso che fra l’ente patrocinato e l’Avvocatura erariale si instaura una vera e propria immedesimazione; da ciò consegue che anche gli avvocati appartenenti all’Ufficio legale interno, che esercitano lo ius postulandi quali avvocati iscritti all’albo speciale, non possono patrocinare (al pari degli avvocati del libero foro) l’Ente, proprio in ragione dell’autorizzazione concessa a questo ultimo di avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato (nel senso che la previsione di un ufficio legale all’interno di un ente pubblico (nel caso di specie, una Regione) “non solo non esclude ma è logicamente compatibile con il patrocinio” dell’Avvocatura dello Stato (si veda Corte Appello Campobasso, sentenza 25 ottobre 2012, n. 293). Da ultimo, si segnala che l’istituzione di un Ufficio legale interno non può essere considerato, di per sé, quale “caso speciale” che, ai sensi dell’art. 43, comma 5, del R.D. n. 1611/33, consente di derogare al patrocinio dell’Avvocatura dello Stato; il riferimento, contenuto nella predetta disposizione, deve essere inteso, invece, come riferito alle singole controversie ovvero anche (come giustamente osservato da codesto Ufficio distrettuale) a categorie di controversie su particolari materie, per le quali l’Autorità Portuale, previo accordo con l’Avvocatura dello Stato, ben potrà adottare la delibera motivata, da sottoporre al Ministero vigilante al fine di non avvalersi dell’Avvocatura dello Stato. In tale senso, la Scrivente si è già espressa con parere, di cui alla nota del 24 ottobre 2011, prot. n. 332607, reso dal Comitato Consultivo in relazione all’Autorità Portuale di Piombino, osservando che “Nulla osta, tuttavia, a che una tale (sempre necessaria) delibera riguardi non un’unica controversia, bensì un gruppo ben definito e omogeneo di giudizi (casi comunque “speciali”), nell’ipotesi in cui non si possa ricorrere – ad esempio, per impossibilità dell’Amministrazione di fornire adeguato supporto, o altre motivate ragioni – agli strumenti “ordinari” individuati negli articoli 2 e 3 del T.U. n. 1611/33. …Lo strumento della delibera di “carattere generale” potrà dunque essere attivato laddove, in considerazione dell’Autorità giudiziaria dinanzi alla quale i giudizi pendono (natura del Giudice; sua ubicazione), dell’oggetto delle cause (non particolare rilevanza economica e/o giuridica; ripetitività), dei tempi del giudizio, il ricorso a patrocinatore privato assicuri in determinati casi e in presenza di peculiari circostanze di fatto (a titolo meramente esemplificativo, la contiguità con l’Amministrazione e con il TEMI ISTITUZIONALI 13 Foro, tali da rendere più celere e agevole l’istruttoria e più facile la presenza in udienza) una più pratica difesa della parte pubblica e si risolva, in ultima analisi, in una soluzione pienamente conforme all’interesse pubblico”. Al riguardo è possibile che venga dichiarata, - con riferimento alle controversie pendenti per le quali deve essere escluso il subentro dell’Avvocatura dello Stato nella relativa trattazione - la nullità degli atti processuali sottoscritti dagli avvocati dell’Ufficio Legale dell’Autorità Portuale di Genova, per carenza di ius postulandi (cfr., in tale senso, ma con riferimento al mandato conferito dall’Autorità Portuale di Gioia Tauro ad un professionista del libero foro, Cons. Stato, sez. VI, ordinanza 12 novembre 2009, n. 5653). Il presente parere - in ordine al quale è stato sentito il Comitato Consultivo che, nella seduta del 5 aprile 2013, si è espresso in conformità - viene esteso, per conoscenza, al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, cui è attribuita la vigilanza sulle Autorità Portuali, ai fini delle valutazioni di competenza. L’AVVOCATO GENERALE DELLO STATO Michele Dipace L’AVVOCATO DELLO STATO ESTENSORE Maurizio Borgo CIRCOLARE N. 21/2013 Oggetto: Ammissione alla pratica forense. Per gli adempimenti di competenza delle SS.LL., si comunica che con D.A.G. in data 8 maggio 2013, che si allega in copia, è stato stabilito che a decorrere dal 1° settembre p.v. potranno essere ammessi a svolgere la pratica forense presso l'Avvocatura dello Stato solo i laureati che debbano svolgere almeno 12 mesi di pratica alla data di scadenza del termine di presentazione della domanda. Il sito intemet dell'Avvocatura sarà aggiornato con le nuove disposizioni. IL SEGRETARIO GENERALE Avv. Ruggero Di Martino L’Avvocato Generale dello Stato VISTO l'art. 24, co.2 del R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611; VISTO il D.A.G. in data 5.11.1990, con il quale sono stati fissati i criteri generali di selezione degli aspiranti alla pratica forense ed inoltre è stato stabilito in 50 il numero dei giovani che possono essere ammessi all’esercizio di tale pratica presso gli Uffici dell'Avvocatura Generale dello Stato; VISTO il D.A.G. in data 23.11.2005 con il quale sono stati modificati i criteri selettivi per l' ammissione alla pratica forense ed il D.A.G. in data 20.04.2012 con il quale sono state parzialmente modificate le precedenti disposizioni riguardo alle materie oggetto della selezione; 14 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 VISTO il D.A.G. in data 17.04.2013 con il quale è state incrementato fino a 100 (cento) unità il numero massimo di praticanti ammissibili alla pratica forense; VISTO l’art. 9 del D.L. in data 24.1.2012, n. 1 convertito in L. 24.03.2012, n. 27 che ha ridotto la durata della pratica forense da due anni a diciotto mesi; VISTA la L. 31.12.2012, n. 247 e la circolare interna del 26.02.2013 che ha evidenziato l’inapplicabilità dell'art.10 co.1, D.P.R. 7.08.2012, n. 137 che riduceva ad un anno la pratica in Avvocatura; RILEVATO che occorre pertanto adeguare la normativa interna alle disposizioni vigenti; CONSIDERATO che al fine di assicurare un'adeguata preparazione ai giovani tirocinanti, ed altresì di soddisfare le esigenze organizzative dell'Istituto, appare opportuno ammettere solo coloro che devono svolgere un periodo di pratica sufficientemente lungo; RITENUTO, tuttavia, opportuno fare decorrere l'applicazione delle nuove disposizioni successivamente alla selezione in corso anche al fine di non pregiudicare le legittime aspettative di coloro che avevano già presentato la domanda di ammissione alla pratica forense, facendo affidamento sulle precedenti regole DECRETA A decorrere dall'1 settembre 2013, possono essere ammessi a svolgere la pratica forense presso l'Avvocatura dello State solo i laureati che debbano svolgere non meno di un anno di pratica alla data di scadenza del termine di presentazione della domanda. Roma, 8 MAG.2013 L'AVVOCATO GENERALE Michele Dipace TEMI ISTITUZIONALI 15 Rappresentanza e difesa in giudizio di amministrazioni pubbliche non statali in controversie individuali di lavoro (Email a Cassazione, Sez. Lavoro, sentenza 21 marzo 2013 n. 7163) Da: Lorenzo Capaldo [mailto:lorenzo.capaldo@avvocaturastato.it] Inviato: martedì 16 aprile 2013 17.05 A: avvocati_tutti@avvocaturastato.it Riporto le considerazioni svolte da Cass., sez. lav., 21 marzo 2013 n.7163: “Le considerazioni fin qui svolte conducono alla conclusione che le Università, pur essendo enti pubblici autonomi, e dunque amministrazioni pubbliche diverse da quelle statali (vedi la menzione specifica delle "istituzioni universitarie" nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 1, comma 2), sono da ricomprendere tra le amministrazioni pubbliche equiparate a quelle statali ai fini della rappresentanza e difesa in giudizio. La norma, infatti, è chiara, nel riferirsi ad amministrazioni pubbliche, certamente non statali, per le quali opera in via normale la rappresentanza e difesa in giudizio dell'Avvocatura erariale (ancorchè il regime possa essere derogato sulla base di apposita delibera dell'ente), prescrivendo la notificazione presso l'ufficio dell'Avvocatura dello Stato nel cui distretto si trova il giudice individuato in base al foro del dipendente di cui all'art. 413, comma 4. Si tratta, evidentemente, di equiparazione che spiega effetti soltanto per le controversie individuali di lavoro, in forza di previsione normativa non applicabile a controversie di altra natura. Nel caso in esame, rimanendo lungo tale linea argomentativa, considerando che nei nei ricorsi introduttivi è stata dedotta l'esistenza di rapporti lavorativi subordinati (contratti di formazione e lavoro), non può dubitarsi che, in base al principio della prospettazione delle domande - conformemente all'assunto della Università - il ricorso introduttivo doveva essere notificato presso l'Avvocatura dello Stato e non, come avvenuto, presso l'Ateneo”. Si deve quindi ritenere che: nelle cause di lavoro, anche per gli enti non statali ma equiparati (Università, Agenzie Fiscali ecc.) la notifica debba essere effettuata presso l’Avvocatura, che poi determinerà se trattare la causa o affidarla all’amministrazione ex art. 417 bis c.p.c.. Logica e necessaria conseguenza dovrebbe essere che le predette amministrazioni non possono decidere autonomamente di trattare direttamente la causa, poiché l’ordinamento riserva questa decisione all’Avvocatura dello Stato. Un caro saluto. Lorenzo Capaldo INCONTRO DI STUDIO UNIVERSITÀ “FEDERICO II” - NAPOLI (*) Il ruolo dell'avvocatura pubblica nel processo di crescita del Paese INDIRIZZO DI SALUTO Prof. Massimo Marrelli, Rettore dell'Università degli Studi di Napoli Federico II INTRODUCE Dott. Pasquale de Lise, Presidente emerito del Consiglio di Stato Avv. Giuseppe Fiengo, Avvocato Distrettuale dello Stato di Napoli Avv. Danilo Del Gaizo, Avvocato dello Stato e Capo di Gabinetto del Presidente della Giunta regionale della Campania Dott. Cesare Mastrocola, Presidente Tar Campania Avv. Arturo Froio, Vice Presidente dell'Ordine degli avvocati di Napoli Avv. Maria d'Elia, Coordinatore dell'Avvocatura regionale della Campania INTERVENTI Avv. Paolo Del Vecchio, Avvocato dello Stato, indirizza e modera gli interventi Prof. Giuseppe Tesauro, Giudice della Corte Costituzionale, “Profili dell’avvocato pubblico nei giudizi comunitari e costituzionali” Prof. Ferruccio Auletta, ordinario di diritto processuale civile nell’Università degli Studi di Napoli Federico II “La difesa della parte pubblica nel processo civile e nel rito del lavoro” (*) Incontro di studio organizzato dall’Avvocatura Distrettuale di Napoli, dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati e dalla casa editrice Giuffrè, e tenutosi presso l’Aula Magna dell’Universita degli Studi di Napoli Federico II il 9 novembre 2012. Nel corso dell’incontro è stato presentato il volume di MICHELE GERARDO e ADOLFO MUTARELLI “Il processo nelle controversie di lavoro pubblico”, già recensito su questa Rass. (2012, II, 348). Presentazione del volume curata dal Prof. Giuseppe della Pietra (v. infra, p. 33). La Redazione e in modo particolare l’avvocato Giuseppe Fiengo ringraziano l’avvocato Paolo Del Vecchio che si è prodigato, oltre che nell’organizzazione dell’incontro, anche nella paziente raccolta/ predisposione del materiale per la pubblicazione su questa Rassegna. 18 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 Prof. Giovanni Leone, ordinario di diritto processuale amministrativo nell’Università degli Studi di Napoli Federico II, “Il ruolo dell’avvocatura pubblica nel processo amministrativo” Avv. Giuseppe Arpaia, Avvocato dello Stato, “La difesa diretta delle amministrazioni statali” Prof. Giuseppe Palma, emerito di diritto amministrativo nell’Università degli Studi di Napoli Federico II, “Prospettive sul ruolo dell’avvocatura pubblica nell’articolazione costituzionale della repubblica” INDIRIZZO DI SALUTO Prof. Massimo Marrelli, Rettore dell’Università degli Studi di Napoli Federico II Sono profondamente convinto che uno dei grandi problemi del Paese sia il funzionamento dell’ordinamento giuridico in generale, problema mai affrontato seriamente per una serie di eventi che si sono accavallati. Un esempio molto semplice è il dato che vi riporto sui numeri dei processi relativi alle gare di appalto, che in percentuale molto elevata vengono censurati dinanzi al T.A.R o innanzi ad altro Giudice. Il contesto storico in cui ci muoviamo è cruciale, ed è importante il ruolo di coloro che riescono a difendere gli interessi pubblici a fronte di quelli privati (il ruolo dell’Avvocatura dello Stato). Il tasso di litigiosità nei confronti della Pubblica Amministrazione deriva probabilmente dalla struttura della medesima, dalla non chiarezza delle leggi e dalla farraginosità delle procedure. Finché tale problema non troverà soluzione, cruciale è il ruolo dell’Avvocatura dello Stato. L’Università degli Studi Federico II è uno dei principali “clienti” dell’Avvocatura dello Stato, la cui collaborazione ed i cui consigli sono fondamentali per il corretto svolgimento delle funzioni dell’Ateneo. Se si collega questo aspetto con le ragioni della mancata crescita economica del nostro Paese, ci si rende conto che la funzione dell’Avvocatura non si sostanzia solo nel supportare l’Amministrazione nei processi. Vi è, altresì, la necessità dell’intervento - attraverso suggerimenti - per cambiare l’ordinamento giuridico, perché l’Avvocatura è operatore diretto, conosce i rallentamenti e gli ostacoli che la costruzione dell’ordinamento pone alla crescita. Vi sono principi che vanno rispettati, bisogna stare attenti a non andare alla deriva. L’Avvocatura dello Stato deve raccogliere i suggerimenti che vengono dagli operatori del diritto di parte pubblica per razionalizzare il sistema, ai fini di incentivare, far funzionare meglio “la macchina”, il cui malfunzionamento è il principale problema dell’Italia. Ringrazio gli organizzatori ed invito ad essere propositivi per quanto ri- INCONTRO DI STUDIO 19 guarda le iniziative da intraprendere per la crescita del Paese nel rispetto dei principi del diritto. Attenti alla deriva. INTRODUZIONE Pasquale de Lise Presidente emerito del Consiglio di Stato 1. Debbo confessare che provo sempre una certa emozione nel ritornare nella gloriosa Università Federico II dove sono entrato per la prima volta quasi sessanta anni fa, nel 1954, quale matricola di giurisprudenza. Anche per questo esprimo la mia gratitudine per essere stato invitato a partecipare all’incontro di studio sul ruolo dell’Avvocatura pubblica che - meritoriamente promosso dall’Avvocatura dello Stato, dal Consiglio dell’Ordine e dalla Giuffrè - è dedicato all’approfondimento di un tema importante, dalle molteplici implicazioni, ma si caratterizza anche per altri aspetti. Innanzitutto, perché ci consente di rinnovare le più vive felicitazioni e gli auguri per la sua futura attività al carissimo amico Michele Dipace, recentemente chiamato all’altissimo incarico di Avvocato Generale dello Stato, che ha voluto onorare questo Convegno con la sua presenza. Inoltre, è l’occasione per porgere il saluto di commiato all’Avvocato Distrettuale Giuseppe Fiengo, che, dopo l’opera intensa e proficua svolta qui a Napoli, ritorna all’Avvocatura Generale, accompagnato dall’auspicio di svolgervi funzioni ancora più rilevanti. L’avv. Fiengo, altro antico amico, ha avuto modo di dimostrare, durante la permanenza al vertice della Distrettuale di questa città, oltre alle sue indiscusse e ben note doti culturali e professionali, una non comune capacità organizzativa, di cui abbiamo avuto una testimonianza poco fa nel visitare la sede di via Diaz, divenuta, anche fisicamente, molto prestigiosa, arricchita dai gioielli artistici acquisiti, in virtù di una fattiva cooperazione tra Istituzioni, dal Museo di Capodimonte. Infine, l’incontro odierno costituisce l’occasione per presentare un interessante volume, opera degli avvocati dello Stato, Michele Gerardo e Adolfo Mutarelli, su un tema di notevole attualità e importanza, quale è quello delle controversie relative ai rapporti di lavoro privatizzati alle dipendenze della pubblica amministrazione. Le relazioni che seguiranno esamineranno l’argomento sotto molteplici aspetti. Io vorrei innanzitutto osservare che quando, agli inizi degli anni 90, si cominciò a parlare di privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, da cui sarebbe conseguito il trasferimento della giurisdizione al giudice ordinario, i giudici amministrativi trassero un sospiro di sollievo, che divenne entusiasmo con l’attuazione della riforma, operata con il D. Lgs. n. 80/1998 e con il D.P.R. n. 165/2001, sia pure con le eccezioni delle controversie relative, oltre ovvia- 20 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 mente alle categorie di personale rimasto in regime di diritto pubblico, agli atti di macro-organizzazione e ai concorsi pubblici, argomenti, questi, trattati nel terzo capitolo del volume (dove non manca il puntuale richiamo ad una recente decisione dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato [la n. 11/2011], che ha fatto chiarezza in ordine al significato che deve essere attribuito all’espressione “procedure concorsuali”). In realtà, con il decreto 80 vi fu una sorta di compensazione tra giurisdizioni perché, se è vero che il giudice amministrativo perdette la giurisdizione esclusiva in materia di pubblico impiego (che gli era stata attribuita fin dal 1923), acquistò quella nelle materie dei servizi pubblici, dell’edilizia e dell’urbanistica, anche se in seguito alquanto ridimensionate per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 4 del 2004, per cui esso divenne - particolarmente con la giurisdizione sui provvedimenti delle Autorità indipendenti - il giudice del diritto pubblico dell’economia. Per la verità non so se il mutamento della giurisdizione per l’impiego alle dipendenze della pubblica amministrazione, necessitato - ripeto - dall’avvenuta privatizzazione del rapporto, abbia prodotto dei vantaggi sia per le amministrazioni che per i dipendenti: forse più di un dubbio al riguardo resta. Di sicuro tale situazione è irreversibile ed è quindi senz’altro da apprezzare l’opera di Gerardo e Mutarelli, che offre al lettore esaurienti indirizzi valutativi e interpretativi dell’attuale disciplina, sì da soddisfare l’esigenza, sempre più avvertita da professionisti, amministrazioni e operatori, di disporre di validi strumenti di consultazione e di approfondimento. 2. Ora qualche cenno al tema del Convegno. Esso ha ad oggetto il ruolo non solo dell’Avvocatura dello Stato, ma, più in generale, dell’avvocato pubblico, ossia del difensore degli Enti pubblici e, in particolare, delle Regioni e degli enti territoriali. Queste figure, e le funzioni che esse sono chiamate a svolgere, sono state sicuramente influenzate dai profondi mutamenti che, a partire dall’inizio degli anni novanta del secolo scorso, hanno interessato la pubblica amministrazione e il suo rapporto con i cittadini. Non v'è dubbio che oggi l'amministrazione si presenti come una realtà molto più articolata e complessa rispetto alla tradizionale (e ormai anacronistica) visione monolitica e centralizzata del potere pubblico; le riforme che hanno riguardato la p.a. negli ultimi decenni hanno comportato la sostituzione del modello unitario con uno "policentrico", nel quale convivono molteplici soggetti, ciascuno dotato di propria autonomia e competenza. Ciò è vero, innanzitutto, a livello dell'organizzazione territoriale, a seguito dell'evoluzione della forma di Stato verso un modello federale, con il rafforzamento delle autonomie regionali e locali; ma un fenomeno analogo è rilevabile anche sul piano funzionale, con il progressivo abbandono dell’assetto organizzativo burocratico-centralistico in favore di modelli più agili, con la creazione di organismi autonomi (agenzie, autorità indipendenti e simili) e INCONTRO DI STUDIO 21 con il ricorso a modelli privatistici (società pubbliche o miste). Anche il fenomeno delle privatizzazioni in senso stretto - le sostanziali più che quelle meramente formali - ha contribuito alla c.d. "destrutturazione" del potere pubblico, con l'entrata in scena di soggetti privati cui è attribuito il perseguimento di finalità d'interesse pubblico, e che quindi si affiancano all'amministrazione "tradizionale" in un rapporto sinergico improntato a criteri di sussidiarietà e collaborazione. Un'evoluzione analoga ha caratterizzato la disciplina dell'attività della p.a. in rapporto agli amministrati. Ciò è avvenuto con la legge generale sul procedimento amministrativo del 1990, con le riforme del 2005 e del 2009 e con quelle ancor più recenti, mediante l'introduzione di una serie di regole d'azione relative all'esercizio dei poteri pubblici nei riguardi dei cittadini, nonchè del principio "di fondo" per cui l'amministrazione, nel perseguimento dell'interesse pubblico, è sempre tenuta a considerare e a valutare tutti gli interessi coinvolti, al fine di garantire la scelta della migliore soluzione possibile comportante il minore sacrificio delle situazioni giuridiche dei soggetti interessati. Si è assistito inoltre alla valorizzazione del momento partecipativo dei cittadini nell'attuazione del potere pubblico: in tale prospettiva si colloca la scelta "ideologica" in favore degli strumenti privatistici. Il nuovo policentrismo istituzionale che, in virtù del principio di sussidiarietà verticale, ha rafforzato le competenze degli enti territoriali più vicini ai cittadini, ha determinato l’esigenza di ridurre la complessità delle relazioni intersoggettive. A ciò si è provveduto, in particolare, mediante la previsione e l’impiego degli strumenti degli accordi e delle intese tra pubbliche amministrazioni nonché della conferenza dei servizi quale sede ove fare confluire i punti di vista dei soggetti competenti (in attesa che si giunga, anche nel nostro ordinamento, all’introduzione del débat public, istituto che consente di ascoltare preventivamente la voce dei soggetti interessati - privati, associazioni e simili - sì da costituire un importante strumento di partecipazione e, in ultima analisi, di democrazia). 3. L’Avvocatura dello Stato si è adeguata ai processi di cambiamento del Paese e quindi, se in ambito centrale si è attrezzata sempre meglio per la difesa dello Stato dinanzi alla Corte di Giustizia, alla CEDU e alla Corte costituzionale (di ciò parlerà il Prof. Tesauro) o ha gestito il ruolo sempre più rilevante del TAR del Lazio per effetto della sua competenza funzionale in molte (forse troppe!) materie (su cui si intratterrà il prof. Leone), in ambito periferico ha subìto modifiche ancor più incisive, per effetto, in particolare: 1) del D.lgs. 80/98, che con l’art. 42 ha introdotto l’art. 417 bis nel codice di procedura civile (modificato dall’art. 19 D.lgs. 387/98), attribuendo alle amministrazioni statali la difesa diretta nelle controversie di lavoro in primo grado (argomento che tratterà l’avvocato dello Stato Arpaia); 2) della riforma del Titolo V della Costituzione, di cui alla L. cost. 3/2001, 22 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 in virtù della quale il nuovo art. 118 - sostituendo al criterio statico del parallelismo tra poteri legislativi e amministrativi quello dinamico della distribuzione delle attribuzioni modulato alla luce dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza - ha consentito il conferimento alle Regioni e alle autonomie locali di competenze, già statali, ora ricomprese nella potestà legislativa esclusiva o concorrente delle Regioni (come in materia di energia, di infrastrutture e di trasporti). Queste innovazioni hanno inciso sull’attività dell’Avvocatura dello Stato, riducendo alcune competenze e determinando l’esigenza dell’Istituto di assumere un nuovo e più qualificato patrocinio. Incidentalmente vanno ricordati, sul piano contenzioso, due eventi recenti, che attengono all’esercizio delle funzioni dell’Avvocatura dello Stato: da un lato, l’emanazione del codice del processo amministrativo e dall’altro il conferimento all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, nonché alla istituenda Autorità di regolazione dei trasporti, della legittimazione ad agire in giudizio contro i provvedimenti amministrativi nelle materie di rispettiva competenza. Deve, peraltro, rilevarsi che, in tale situazione, l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli si è trovata ad essere all’avanguardia, per due ordini di ragioni. La prima attiene all’attribuzione di particolari filoni di contenzioso, derivanti dal terremoto del 1980, e quindi di quello (ordinario, amministrativo e arbitrale) originato dalla L. n. 219/1981 e dalle numerose leggi successive (di modifica e integrazione), che hanno comportato anche l’istituzione di Commissariati straordinari, spostando a Napoli numerose controversie che avrebbero dovuto svolgersi in altre sedi. Inoltre, grazie al dinamismo, alla solerzia, alla forza di persuasione dell’avv. Fiengo, sono state notevolmente ampliate le ipotesi di cd. patrocinio autorizzato, che, spesso, in passato, era affidato al libero Foro (come nel caso delle Università, per le quali la giurisprudenza si è attestata su posizioni univoche a favore dell’Avvocatura), nonché per le amministrazioni pubbliche non statali e gli enti sovvenzionati sottoposti a vigilanza dello Stato o di enti regionali, in base a quanto previsto dall’art. 43 del R.D. n. 1611/1933, come nel caso dell’assunzione del patrocinio dell’ARCADIS (Agenzia regionale difesa suolo) e dell’ARPAC (Agenzia regionale protezione ambiente). Una particolare vicenda ha interessato le Autorità portuali, le quali, dopo la L. n. 84/1994, hanno ottenuto il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato con DPCM 4 dicembre 1997. In precedenza vi erano stati molti dubbi sulla natura di questi soggetti che secondo alcuni avevano natura privatistica e, come tali, erano esclusi da tale patrocinio. È interessante al riguardo il parere del Comitato consultivo dell’Avvocatura con cui si riconosce a dette Autorità la natura di ente-organo statale, come tale soggetto al patrocinio obbligatorio dell’Avvocatura ex art. 1 del R.D. n. 1611/33. Comunque la questione dovrebbe essere risolta normativamente per ef- INCONTRO DI STUDIO 23 fetto della riforma della legislazione portuale, di cui al d.d.l. approvato dal Senato e ora in discussione alla Camera (A.C. n. 5453), che all’art. 7, che sostituisce l’art. 6 della L. n. 84/1994, qualifica espressamente l’autorità portuale come ente pubblico non economico di rilevanza nazionale (co. 2). L’aspetto più importante, in ambito periferico, concerne i rapporti tra le Avvocature Distrettuali e le Regioni. La Cassazione (29 aprile 2004, n. 8211) ha espressamente affermato che la costituzione con legge regionale di un servizio legale interno, cui venga istituzionalmente demandato il patrocinio e l’assistenza in giudizio della Regione non comporta - nel silenzio della legge - la rinunzia della Regione stessa ad avvalersi del patrocinio facoltativo dell’Avvocatura dello Stato né configura una abrogazione tacita dell’art. 107 del D.P.R. n. 616/1977. Anche nel caso in cui la Regione scelga di avvalersi, per la difesa in giudizio, non del proprio servizio legale ma dell’Avvocatura dello Stato, deve trovare integrale applicazione la normativa statale sul suddetto patrocinio facoltativo e, quindi, l’art. 1, comma secondo, del R.D. n. 1611/1933, richiamato dal successivo art. 45. Proprio nel caso della Regione Campania, anche per effetto della comune appartenenza all’Avvocatura dello Stato, oltre che, ovviamente, del Capo della Distrettuale avv. Fiengo, del Capo di Gabinetto del Presidente della Giunta Regionale, l’altro caro amico avv. Danilo Del Gaizo, si è determinata una proficua sinergia tra le due Istituzioni, poiché la consultazione dell’Avvocatura dello Stato su questioni di massima ha orientato positivamente l’intera azione amministrativa regionale. Ciò nel rispetto del ruolo dell’Avvocatura regionale, la quale svolge con grande competenza il proprio compito di difensore primario dell’amministrazione regionale, assicurando peraltro una piena collaborazione per “lavorare assieme” all’Avvocatura dello Stato su altre questioni. Del resto, la vicinanza dell’Avvocatura dello Stato alle Regioni vale a soddisfare un’esigenza di continuità con il proprio contenzioso per così dire storico: le competenze, attribuite alle Regioni dalla L. cost. n.3/2001 in tema di porti, aeroporti, attività relative a beni culturali ed altro, comportano un contenzioso che può considerarsi quasi ontologicamente statale e che quindi necessita di un ruolo di “guida e di coordinamento” da parte dell’Avvocatura dello Stato. In ciò si realizza il nuovo ruolo dell’ “avvocato pubblico”, una figura, cioè, che guarda al di là degli steccati delle autonomie e mira alla sostanza delle competenze e quindi continua ad assicurare quel bagaglio di conoscenze sia alla fase procedimentale che a quella processuale dell’attività amministrativa. Ciò non senza considerare che, come è noto, è stata avviata quella che chiamerei “controriforma” del Titolo V della Costituzione. Il Consiglio dei Ministri, nella riunione del 15 ottobre scorso, ha infatti approvato un d.d.l. costituzionale (A.S. n. 3520), che fra l’altro modifica l’art. 117, incidendo sul riparto della potestà legislativa tra Stato e Regioni e ponendo l’accento sul principio dell’unità giuridica ed economica della Repubblica come valore su- 24 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 premo dell’ordinamento costituzionale, la cui garanzia è attribuita alla legislazione ordinaria dello Stato. In questa prospettiva, e in attesa della conclusione dell’iter del d.d.l. (che non sarà semplice né rapido), è molto importante l’azione che l’Avvocatura dello Stato può svolgere in collaborazione con le altre Avvocature pubbliche. Forse proprio la linea tracciata dall’Avvocatura Distrettuale di Napoli, in un’ottica di sinergia istituzionale con la Regione Campania, vale a dimostrare che quelle competenze, nelle materie in precedenza proprie dello Stato (e che si vorrebbe che ritornassero statali), potrebbero anche “restare” regionali, nella logica del decentramento, ma con il sostegno consultivo e contenzioso prestato dall’Avvocatura dello Stato alle altre Avvocature. L’opera dell’Avvocatura dello Stato, infatti, vale a garantire la tutela non tanto e non solo dell’interesse contingente e settoriale della singola amministrazione, ma degli interessi pubblici generali, concorrendo a realizzare in concreto il principio di legalità. In tutti gli àmbiti nei quali opera, l’Avvocatura dello Stato, preposta non alla sola cura degli interessi dello Stato - apparato quanto di quelli dello Stato -comunità, svolge, in una posizione di indipendenza funzionale rispetto alle pubbliche amministrazioni e sulla base di una visione complessiva dell’interesse pubblico, un importante ruolo di collegamento e di mediazione fra le diverse Amministrazioni statali e fra queste, le Regioni e gli enti locali. 4. Ho già detto in altre occasioni che, con i rappresentanti dell’Accademia e del Foro, il Consiglio di Stato ha sempre condiviso i grandi processi di riforma delle istituzioni e della giustizia e le problematiche della loro “messa a regime”. Con il loro insostituibile apporto Accademia e Foro hanno spesso indicato alla giurisprudenza strade nuove e suggestive. Ciò vale, in particolare, per gli amici dell’Avvocatura dello Stato, a noi accomunati da quel “senso di servizio” che pervade sempre il nostro lavoro: servizio nei confronti non solo dei cittadini e delle imprese che chiedono tutela, ma anche delle Amministrazioni che sono interessate alla verifica della legittimità del loro operato. A questo riguardo ben possono definirsi “giustiziali” le funzioni svolte dall’Avvocatura dello Stato, ricordando l’invito rivolto ai suoi Avvocati dal primo Avvocato generale dello Stato Giuseppe Mantellini ad essere, nel trattare gli affari loro affidati, “prima giudici che avvocati”. Vorrei allora concludere con un concetto, che condivido pienamente, espresso dall’Avvocato Generale Fiumara, qualche anno fa, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione: “l’Avvocatura dello Stato fornisce un alto servizio al Potere esecutivo, rappresentando e difendendo in giudizio, in modo organico ed esclusivo, le amministrazioni e gli enti che si avvalgono del suo patrocinio; al Potere giudiziario, contribuendo con lealtà ed obiettività alla risoluzione delle controversie; al Potere legislativo, sugge- INCONTRO DI STUDIO 25 rendo direttamente o indirettamente le soluzioni idonee alla miglior tutela degli interessi pubblici; il tutto in una sintesi che rappresenta la reale funzione dell’Istituto a tutela dell’interesse pubblico e della collettività”. Avv. Giuseppe Fiengo Avvocato Distrettuale dello Stato di Napoli Nel ringraziare il Presidente de Lise per l’ampia introduzione ai temi del convegno, credo che sia opportuno in questa sede mettere in luce le logiche di fondo che sorreggono l’essere e l’attività di una “Avvocatura dello Stato” e, con esse, le ragioni di questo incontro. Va infatti ricordato come, dopo l’unificazione del Regno di Italia, si pose, nel nuovo Stato Liberale il problema (teorico e pratico) di sottoporre alla giurisdizione il Re e lo Stato sovrano. Come fare? I giudici infatti venivano nominati proprio dal Re e sembrava contraddittorio far giudicare l’amministrazione da chi traeva la propria legittimazione (ed il proprio stipendio) dalla Corona e, comunque dall’amministrazione statale. Sul piano teorico per le nuove democrazie parlamentari si trattava di un problema enorme. In Inghilterra, per esempio, c’è il principio che la “Corona non ha mai torto” e, per contro, in Italia c’era il principio che sanciva che la giurisdizione era prerogativa dello Stato e, se lo Stato viene a sua volta sottoposto alla giurisdizione c‘è qualcosa che non funziona. L’invenzione arrivò nel 1876 e fu come l’uovo di Colombo: ci sono gli avvocati, quelli normali, abilitati a difendere nelle cause civili e penali, ed il meccanismo fu quello di imporre, attraverso la rappresentanza processuale, una sorta di intermediazione necessaria di un soggetto (l’avvocato), tra il giudice e la pubblica amministrazione che consentisse al mondo liberale di sottoporre lo Stato alla giurisdizione: lo Stato sta in giudizio attraverso il suo difensore, come tutti gli altri cittadini, e non si mostra davanti ai giudici nella sua “solitudine sovrana”. Su questa semplice premessa sembra essersi poi basata gran parte dell’evoluzione del nostro diritto amministrativo. E allora nel momento in cui sono venuto a Napoli, come Avvocato Distrettuale, ho ripensato alle origini del mio Istituto e mi sono detto “l’avvocato dello Stato, così come è strutturato ed opera, non è un organo dello Stato”, ma persona fisica che, per la gran parte del suo lavoro, imputa alle amministrazioni che difende gli effetti dei suoi atti e non la sua attività, da rappresentante quindi e non da organo. Poi ho letto il nuovo titolo V della Costituzione, il quale stabilisce che la Repubblica non è solo lo Stato, ma anche i Comuni, le Province e le Regioni... Mi son detto, allora, c’e qualcosa da rivedere. E mi sono ricordato così di essere, prima di ogni altra cosa, un avvocato. Ed un avvocato ha come dovere quello servire con professionalità il cliente, 26 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 senza mai confondersi in toto con esso. E questo approccio mi ha indotto a guardare naturalmente ad una realtà più ampia, mi legava a tutti coloro che, con gli incarichi simili, sono professionalmente impegnati alla sfilza di enti che costituiscono la Repubblica (lo Stato, la Regione, la Provincia, etc.) Capivo inoltre che non avevo un esclusività nel mestiere di “avvocato dello Stato”, ma una funzione analoga e solidale con quella svolta dal cosiddetto Libero Foro e che l’Avvocatura dello Stato aveva al più alcune connotazioni specifiche (l’organizzazione, la tradizione, le garanzie interne ed esterne) che dovevano essere messe in risalto. In altre parole mi andavo convincendo che alle amministrazioni serve l’assistenza a 360 gradi da parte di avvocati e procuratori, sia pure incardinati in una struttura di grandi tradizioni e prestigio, quale è l’Avvocatura dello Stato. Non una pronuncia astratta di uno dei tanti organi che fanno diritto, ma l’assistenza legale concreta che può fornire al cliente un buon onesto avvocato: tutte le amministrazioni hanno bisogno di qualcuno che le supporti nelle scelte che intendono perseguire in un mondo nel quale amministrare in modo giuridicamente corretto è diventato difficile. All’estero, nei giudizi innanzi alla Corte Europea, i giudici mi chiedevano cosa fosse l’interesse legittimo, ed io non sapevo cosa rispondere. E questo vale a capire quanto è complesso il nostro mondo giuridico. In questo contesto ho incominciato a capire, a Napoli, che il diritto pubblico e la difesa dei soggetti pubblici, devono e possono trovare momenti di unificazione in un contesto che resta articolato: se Franco Bassanini ci dice che i funzionari amministrativi possono difendere direttamente i loro enti di appartenenza nelle cause di lavoro, si può anche fare. Però sono convinto che i funzionari che amministrano non lo debbano fare da soli: dobbiamo farlo insieme, noi che siamo avvocati, insieme con gli altri avvocati degli enti pubblici iscritti all’albo e che vivono la realtà di una professione forense. Giorno dopo giorno, momento dopo momento, abbiamo scoperto che questo sistema articolato ed aperto di collaborazione nella difesa, nel quale nessun organo si arroga un’unzione sacrale, portava ad offrire più dignità alla cosa pubblica (statale, regionale, comunale, etc..,) e siamo convinti che l’Italia non possa diventare europea, se non riscopre quella forza e quella coesione del pubblico, che sola garantisce la redditività delle imprese e delle iniziative private. Mario Draghi, al quale non può certo essere rivolta l’accusa di “statalista”, una volta, disse che l’Italia, a differenza della Francia e degli altri paesi europei, ha umiliato i luoghi dove si creavano e si formavano le esperienze professionali, quali la scuola, l’università, le pubbliche amministrazioni e questa scelta sbagliata finisce per diventare un gap per le stesse imprese e per la modernità di un Paese. L’Avvocatura dello Stato si vuole unire al mondo forense e alle altre avvocature pubbliche per dare a Napoli, in primis a se stessa e a tutti quelli che operano nel diritto e nelle amministrazioni - in una realtà complessa, difficile, farraginosa - un momento di dignità e soprattutto una prospettiva che renda il INCONTRO DI STUDIO 27 Paese appetibile all’investimento estero. È questo quello che abbiamo tentato di realizzare con il nostro lavoro di avvocati della cosa pubblica ed è quello che vorremmo si realizzasse. A questo richiamo ad una solidarietà “del pubblico” molti ci hanno risposto: le amministrazioni e le agenzie statali, l’Avvocatura Regionale, l’ente portuale, le Università, con i loro ottimi uffici legali, il Comune di Napoli col quale stiamo concludendo un accordo per andare avanti noi, avvocati dello Stato, nelle controversie dell’ex Commissariato al sottosuolo: è la prova concreta che, forse, questa Repubblica così articolata e così strana, “costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato” forse esiste davvero e può avere un seguito. Questo è il senso del convegno di oggi. Dott. Pasquale de Lise Presidente emerito del Consiglio di Stato Accogliamo l’invito alla sinergia ed alla collaborazione, capita anche ai Giudici Amministrativi e della Corte di Cassazione. Fa parte della cultura del dialogo, anche intenso. L’Avvocato Distrettuale Giuseppe Fiengo trasmette un messaggio di ottimismo, fiducia nel futuro. Avv. Danilo Del Gaizo Capo di Gabinetto della Giunta regionale della Campania ed Avvocato dello Stato Nel ringraziare dell’invito i colleghi dell’Avvocatura dello Stato, mi piace portare oggi un’esperienza concreta come contributo al Convegno e cioè quella tra Regione Campania ed Avvocatura dello Stato, che ormai è un fatto ineludibile. Tale collaborazione si è intensificata negli ultimi due anni e, visti i frutti prodotti, dovrebbe riprodursi presso tutte le amministrazioni regionali per il modo in cui sta cambiando il nostro ordinamento, oltre che per le funzioni peculiari che le regioni si trovano a svolgere e che in Campania abbiamo avuto modo di testare approfonditamente, vista la gran mole di affari che il Presidente della Regione è costretto a trattare come organo dello Stato. Credo che questo tema della collaborazione introdotto, sia il leit motiv di questo convegno relativo al ruolo dell’Avvocatura pubblica nel processo di crescita del paese. Il Presidente de Lise ci ha ricordato che la privatizzazione del pubblico impiego, prima ancora delle riforme Bassanini, fu l’occasione per il Giudice Amministrativo per trasformare la sua natura, evolvendosi, di fatto, al ruolo di Giudice dell’economia e dei rapporti privatistici. L’Avvocatura dello Stato e le altre Avvocature pubbliche, si sono trovate 28 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 ad affrontare un analogo percorso, non ancora del tutto compiuto, ma che spinge a riflettere più in generale sul ruolo dell’avvocato pubblico. Per l’Avvocatura dello Stato, la riforma Bassanini e la riforma del Titolo V della Costituzione hanno rappresentato un momento di profonda trasformazione delle funzioni dell’Avvocatura. Si è sviluppata l’antica funzione della difesa erariale, come nel caso della Agenzia delle Entrate, al punto che oggi da più parti viene reclamata la possibilità per le avvocature distrettuali di difendere innanzi alla Corte di Cassazione, in virtù della mole del contenzioso. Si ravvisa la necessità di un collegamento fra le cause a livello periferico e le cause innanzi al Giudice di legittimità. Poco prima della riforma del Titolo V della Costituzione ci fu un momento in cui il Governo sembrò voler attribuire alle Avvocature distrettuali dello Stato un più forte e definito ruolo di difesa delle regioni. Con la riforma del Titolo V della Costituzione apparve, invece, chiaro che le Regioni ottennero una maggior autonomia dal punto di vista costituzionale, e che, in qualche modo, l’Avvocatura dello Stato avrebbe dovuto essere maggiormente orientata verso la tutela degli interessi del Governo e, in periferia, dei suoi organi periferici, come il Prefetto, al quale la legge n. 131/03 (cd. Legge La Loggia) attribuiva controllo preventivo di verifica ai fini dell’impugnazione delle leggi regionali. Fu, tuttavia, un’occasione mancata, perchè questo potere fu esercitato in maniera leggera dalle Prefetture e dai rappresentanti dello Stato. Nel contempo, grazie a quelle riforme intervenute prima di quella del Titolo V Cost., si svilupparono le Avvocature regionali, alle quali furono attribuite sempre più competenze. Sull’onda di quel processo, vi è stata la legge n. 296/2006 (cd. finanziaria del 2007) che ha attribuito ai comuni la possibilità di gestire in forma associata anche uffici legali ovvero di unirsi per esercitare in comune alcune funzioni assieme ad altro ufficio dedicato. Naturalmente, lo sviluppo delle Avvocature pubbliche, ha avuto come causa sia la necessità di organizzare la mole di contenzioso maggiore che andava crescendo, sia la necessità di risparmiare sulle spese. Questo è un tema importante, poiché ci troviamo nella terza fase evolutiva dell’ordinamento. Si è passati, infatti, per evidenti ragioni di riequilibrio, ad una forte internalizzazione delle funzioni e dei servizi. Si pensi alle norme che impongono ad enti locali e territoriali la riduzione delle società partecipate in house, che costituiscono veri e propri plessi dell’amministrazione, gestiti in senso privatistico e vincolate al controllo contabile del settore pubblico. Ragion per cui questa necessità di ridurre la spesa pubblica ha determinato evidentemente anche un rafforzamento del ruolo delle Avvocature regionali. Esistono molte regioni, fra queste la Regione Campania, che con proprie leggi hanno esteso agli enti strumentali della regione e alle società partecipate INCONTRO DI STUDIO 29 la possibilità di difendere e di essere difesi dalle relative Avvocature Regionali, che si vanno configurando sempre più secondo il modello tipico dell’Avvocatura dello Stato, secondo cui il difensore pubblico esercita “in esclusiva” le funzioni di patrocinio. È vero, tuttavia, che questa estensione è stata contestata: si pensi per esempio, al fatto che pende davanti alla Corte Costituzionale una causa rimessa in un giudizio nel quale si contestava la possibilità di attribuire la difesa alla Avvocatura regionale degli enti strumentali della Regione, sul presupposto che l’ordinamento forense prevede solo la difesa degli enti di appartenenza. Tale questione è stata, tuttavia, posta sulla base di una lettura obsoleta delle norme dell’ordinamento forense, che risale al 1933 e non tiene conto dello sviluppo delle funzioni nell’ambito del settore pubblico, all’interno del quale enti strumentali svolgono funzioni strettamente connesse a quello dell’ente principale e dove, addirittura, le società in house rivestono un ruolo tale da essere considerati bracci operativi della P.A. nella sua articolazione amministrativa e, quindi, si pone un problema di revisione dell’ordinamento, alla luce del mutato assetto costituzionale, dell’ordinamento regionale e forse anche dell’ordinamento comunitario, il quale prevede che per le società in house debbano vigere regole di gestione tali da esercitare un controllo assoluto sulla società da parte dell’ente, anche in termini di difesa dello stesso. In proposito, è possibile svolgere una serie di considerazioni. 1. L’organizzazione delle Avvocature regionali e degli enti locali dovrebbe essere rivista proprio sul modello della Avvocatura dello Stato, la quale esercita un patrocinio in via organica ed esclusivo, essenziale per le esigenze del contenzioso statale e per le esigenze di spesa pubblica. Questo modello potrebbe essere esteso agli enti territoriali e alle avvocature degli enti locali, senza nulla togliere alle funzioni del libero foro che dovrebbero essere esercitate in quei settori nei quali ci sono conflitti di interessi ovvero altre esigenze. Per esempio, nel contenzioso costituzionale. 2. Una seconda riflessione nasce dal fatto che in questa fase di internalizzazione delle funzioni stiamo assistendo, a causa dei vincoli di bilancio imposti dal patto interno di stabilità e dall’Unione europea, ad una sempre maggiore integrazione fra finanza pubblica statale, regionale e locale. Vi sono norme sulla cessione delle quote del patto di stabilità da un ente all’altro, in senso verticale. Abbiamo norme che hanno ricentralizzato le tesorerie delle regioni e degli enti locali per esigenze di controllo della spesa pubblica, per cui il settore pubblico comincia a configurarsi in modo uniforme ed integrato. A ciò si aggiunga che alle regioni vengono attribuite, sulla base di norme speciali, funzioni che sono proprie della amministrazione statale, come ad esempio in materia di sanità, che assorbe il 90% del bilancio di una regione. In proposito, va segnalato che la presenza di molteplici commissariamenti delle regioni finalizzati a piani di rientro nel settore della sanità: allo stato vi 30 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 sono 7 o 8 Regioni commissariate su 20, con l’attribuzione ad un commissario ad acta delle funzioni di gestione del commissariamento statale. In questo caso, il commissario ad acta è un Organo dello Stato. Lo stesso avviene per i piani di stabilizzazione finanziaria e conseguenti alla violazione del patto di stabilità interno. Norma che è stata sperimentata in Regione Campania. Senza dimenticare le numerose funzioni che la Regione ha ereditato dallo Stato in termini non di decentramento, ma di trasferimento e di prosecuzione del contenzioso, basti pensare a tutti i commissariati in materia di rifiuti o acque pubbliche che richiedono una continuità della gestione del contenzioso e nello stesso tempo anche il riferimento ad una tradizione di conoscenze in possesso dell’Avvocato dello Stato. In questi casi appare chiaro che non solo è dovuto il ricorso da parte delle Regioni o da parte dei suoi enti all’Avvocatura dello Stato, ma che si dovrebbe ripensare il rapporto fra le avvocature in termini di maggiore sinergia. Il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato è organico ed esclusivo, e pertanto esclude l’affidamento del patrocinio congiunto con quello della avvocatura regionale. Questo principio dovrebbe essere superato. La gestione di questi affari comporta la sinergia fra le due avvocature, sempre più totalitaria per le ragioni sopra esposte. Infine, proprio i principi di coordinamento della finanza pubblica, ai quali si deve far riferimento nel settore dell’ organizzazione amministrativa e della gestione della vita degli enti pubblici, determina la necessità sempre maggiore per questi enti territoriali di interpretare norme oscure e che si susseguono con rapidità (ad esempio i decreti legge). Vi è la necessità di interpretare le norme a livello uniforme, poichè non basta il punto di vista locale. In questo caso una sinergia fra l’Avvocatura dello Stato e l’Avvocatura regionale in termini di consulenza e di collaborazione alla redazione di pareri nonché consultazione sull’interpretazione delle norme, sarebbe auspicabile. La fase che stiamo vivendo, la trasformazione dell’ordinamento costretta dagli effetti della crisi economica e dalla necessità di tenere sotto controllo i vincoli imposti dall’UE, impone di ripensare il ruolo dell’Avvocatura pubblica in senso complessivo, senza distinzione fra l’Avvocatura dello Stato, Avvocature regionali e degli enti locali, ma guardando alla funzione in modo unitario non solo attraverso forme di sinergia sopra descritte o proposte, ma anche in termini ordinamentali. Vale a dire che potremmo pensare al modello dell’Avvocatura dello Stato come paradigma dell’organizzazione delle avvocature regionali e delle avvocature dei grandi comuni, al fine di rendere più efficace la funzione. INCONTRO DI STUDIO 31 Dott. Cesare Mastrocola Presidente del Tribunale Amministrativo Regionale della Campania Il Giudice amministrativo constata diuturnamente quanto siano vere le cose sentite sin d’ora. Sicuramente, a partire dalla riforma del titolo V della Costituzione, nel nostro Paese sono avvenuti, in senso ordinamentale, molti cambiamenti. È, altresì, mutato il ruolo dell’Avvocatura pubblica in generale, ed in particolare il ruolo dell’Avvocato dello Stato, non solo quantitativamente, ma in termini anche di qualità. Basti pensare alla possibilità per il cittadino di ottenere il risarcimento del danno da lesione di interesse legittimo, che comporta per l’avvocato pubblico un’assunzione di maggiori responsabilità, ma c’è anche qualcos’altro di cui il Giudice Amministrativo è testimone giorno dopo giorno. Capita sempre più spesso, infatti, di trovarsi di fronte un ricorso con cui un comune impugna un provvedimento della Provincia o della Regione o una Regione impugna un provvedimento dell’Amministrazione centrale e allora qui le cose non stanno più come 20 anni fa. Viene allora da chiedersi chi sia il principe e chi il mugnaio in una situazione di questo genere. Questo comporta necessariamente per l’avvocatura pubblica un ripensamento su quello che è il proprio ruolo funzionale che deve tradursi in una regola ordinamentale. Abbiamo assistito al fallimento delle società miste: che queste società possano essere qualificate come enti in house e quindi avere un controllo come se fossero un proprio ufficio, credo sia una cosa insostenibile soprattutto se assumono la forma della s.r.l. o s.p.a., soggetti autonomi che agiscono secondo le norme del codice civile con i loro organi interni. Concludendo, penso che non sia possibile che l’Avvocatura dello Stato non possa assumere la co-difesa con altra avvocatura pubblica: in tal senso, ritengo che la funzione di necessario coordinamento nel nuovo assetto ordinamentale del nostro paese sia improcrastinabile. Non è possibile, infatti, rinunciare all’esperienza dell’Avvocatura dello Stato, che ha affinato un sistema di difesa che può essere proficuamente utilizzato dalle altre avvocature pubbliche per una comunanza di interessi che in qualche modo deve essere perseguita. Avv. Arturo Froio Vice Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli Le funzioni tra l’avvocato del libero foro e l’avvocato pubblico sono equivalenti, e questi contrasti di ruolo fra le due figure non possono che far crescere ed arricchire entrambe le categorie. 32 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 Questo confronto diretto ed immediato non può che essere un momento importante non solo per l’interpretazione della norma, ma anche per la crescita del nostro Paese. Avv. Maria d’Elia Coordinatore regionale dell’Avvocatura della Campania La presentazione del libro di Adolfo Mutarelli e Michele Gerardo sul processo del lavoro si caratterizza per la delicatezza dell’argomento trattato, concernente le controversie nell’ambito del pubblico impiego, le quali involgono quasi la metà del contenzioso della P.A., e costituisce l’occasione per una riflessione sul ruolo attuale dell’Avvocato pubblico. A tale ultimo proposito, si registra la crescente richiesta, da parte dei vertici della P.A., di assistenza legale specialistica negli affari pubblici, demandata, cioè, a soggetti che, per la loro specializzazione e “vicinanza al fatto”, assicurino la “qualità amministrativa”, nell’ottica del perseguimento non tanto del mero interesse di parte, bensì del pubblico interesse e del buon andamento dell’attività amministrativa, anche attraverso un appropriato utilizzo degli istituti deflattivi e preventivi del contenzioso. L’effettiva funzionalizzazione dell’esercizio dell’attività consultiva, oltre che di difesa in giudizio dell’ente pubblico, a presidio della legalità e del rispetto delle regole giuridiche e morali del vivere comune, rinviene, peraltro, il proprio presupposto imprescindibile nell’autonomia decisionale dell’avvocatura pubblica e, quindi, nella sua indipendenza tanto dalla politica quanto dall’amministrazione. Ebbene, se è questa la missione assegnata alle avvocature pubbliche, a partire da quella dello Stato, è pur vero che a differenza di quest’ultima - che dal 1933 ha ricevuto la propria disciplina in termini di ruolo, funzioni e struttura - le altre avvocature erariali locali non hanno ricevuto alcuna disciplina sostanziale. Le avvocature locali non hanno al momento alcuna legge di principio che disciplini il ruolo dell’Avvocatura pubblica in generale e la posizione giuridica dell’avvocato pubblico in particolare, costretto, di fatto, a figura border line, in bilico fra pubblico e privato, fra le esigenze di rispetto della contrattazione pubblica e della deontologia professionale. È per questo motivo, che nell’attesa, oramai annosa, dell’approvazione della “riforma” giacente alla Camera che contiene, per la prima volta, una norma specifica dedicata agli “avvocati degli enti pubblici”, va salutata con estremo favore l’iniziativa del legislatore regionale della Campania, che ha, di recente, istituito “il ruolo professionale degli avvocati della Regione Campania” per lo svolgimento, in posizione di “autonomia organizzativa”, dell’attività di consulenza legale e di patrocinio in giudizio dell’Ente la cui disciplina di dettaglio è demandata alla Giunta regionale, che ha configurato l’ufficio INCONTRO DI STUDIO 33 della Avvocatura quale ufficio speciale con una propria autonomia anche rispetto all’ordinamento amministrativo speciale della Regione Campania. Con riferimento ai rapporti fra avvocature pubbliche, in particolare con l’Avvocatura dello Stato, va rilevato che le riforme del Titolo V della Costituzione e le norme che si sono susseguite nel tempo, hanno determinato un cambiamento di competenze e tra la Regione e ovviamente l’Avvocatura erariale. In tal senso, abbiamo creato un rapporto di collaborazione e di sinergia, in particolare, per tutte quelle problematiche che hanno visto il subentro della Regione nel contenzioso che a una certa data rientrava nelle competenze dello Stato. Per quanto riguarda questa materia si segnala una esperienza interessante nel commissariamento sanità che ha visto l’Avvocatura regionale difendere, insieme con l’Avvocatura dello Stato, i provvedimenti del Presidente della Regione nella qualità di Commissario Straordinario e, certamente, l’esperienza maturata per quanto riguarda la materia dei trasposti, non mancherà di dare esiti positivi per l’interesse pubblico generale. PRESENTAZIONE DEL VOLUME “Il processo nelle controversie di lavoro pubblico”, di MICHELE GERARDO e ADOLFO MUTARELLI, Giuffré Editore, 2012 Prof. Giuseppe della Pietra, Associato di diritto processuale civile nell’Università degli Studi di Napoli “Parthenope” Il volume ha un grande pregio: si pone sul crinale fra l’utile manuale operativo e il piccolo-grande trattato in materia di pubblico impiego e delle relative controversie. Anzi, di più e meglio: offre una serie di mini-trattati, senza perdere nulla della fluidità e della omogeneità di un’opera unitaria. Di ogni argomento, gli autori sviscerano i singoli profili, di volta in volta svolgendo il percorso argomentativo che porta per mano il lettore a condividerne le soluzioni. In questa feconda linea ispiratrice s’inscrivono i primi due capitoli affidati alla penna, distesa e incisiva, di Michele Gerardo: la giurisdizione nelle controversie di lavoro pubblico e la contrattualizzazione del relativo rapporto. I capitoli da lui curati non sono i due soliti, stucchevoli saggi storici che ogni autore di diritto si crede in obbligo di premettere al suo volume, ma che poi restano slegati rispetto all’intera trattazione; hanno invece un legame fondante con il resto dell’opera, perché forniscono un quadro delle fonti da cui trae alimento il processo del pubblico impiego, del rapporto fra giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria, di quello che è stato il primo fenomeno di controversie collettive devolute al giudice ordinario. Non meno felice è la scelta del terzo capitolo, che tratta dei concorsi pubblici, in cui l’autore ha voluto far comprendere le particolarità e le resistenze che ancora 34 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 si avvertono nel trattare innanzi al giudice civile le controversie di pubblico impiego. Si passa poi al calamaio più vivace e guizzante di Adolfo Mutarelli, e con lui comincia la parte processuale del volume: dalle procedure conciliative ed arbitrali all’atto introduttivo del giudizio, dalle difese del convenuto alla difesa delegata, dalla pluralità di parti alla sentenza, dai provvedimenti sommari a quelli cautelari. Anche questo capitolo si giova del dono della sintesi e di quello della completezza, comune ad entrambi gli autori. Nel leggerlo, mi sono immaginato Mutarelli girare un immaginario caleidoscopio con cui, di figura in figura, rappresentarsi i singoli istituti del processo, ciascuno da usare poi come filtro per leggere le controversie di pubblico impiego. Un lavoro sartoriale, dunque, che all’eleganza del dettaglio non sacrifica, nel complesso dell’opera, la vestibilità dell’abito. Chiude l’opera il capitolo sull’esecuzione delle sentenze, il campo in cui forse ancora più si avverte quel soffio di preminenza che alita e continua ad alitare sulle controversie di pubblico impiego. Spatium adimplendi e pignorabilità del danaro, regole speciali e commissari ad acta, sono scenari sconosciuti all’esecuzione privata, che Mutarelli analizza con la consueta sapidità. L’opera che finisco di presentarvi, densa e preziosa, incrocia così tutti i campi oggetto dei successivi interventi: il ruolo dell’Avvocato pubblico innanzi alle alte Magistrature, la sua funzione innanzi al giudice amministrativo, la difesa della parte pubblica in sede civile, l’assistenza diretta e le prospettive nell’articolazione costituzionale, sono profili che tagliano tangenzialmente l’opera - per ciascuno di questi aspetti commendevole - di Gerardo e Mutarelli. INTERVENTI INDIRIZZA E MODERA Avv. Paolo Del Vecchio Avvocato dello Stato È un grande onore questa sera avere al tavolo relatori di chiarissima fama, che hanno accettato questo invito per riconoscere anche all’Avvocatura dello Stato un ruolo recentemente rafforzato dall’intensa attività del nostro avvocato distrettuale. Questo convegno ha tre finalità. 1. Parlare del libro, testo importante e di grande utilità; 2. Parlare del rinnovato ruolo dell’avvocatura pubblica alla luce delle trasformazioni intervenute nel nostro ordinamento, come indicato dal Presidente de Lise e dall’Avv. Del Gaizo; 3. Dare un saluto a Giuseppe Fiengo, che ha sicuramente in questi due anni incarnato (e comunicato a tutti noi) al meglio il nuovo ruolo dell’Avvo- INCONTRO DI STUDIO 35 catura pubblica, non più Avvocatura dello Stato, ma Avvocatura - guida di tutte le articolazioni dello Stato. Il testo che oggi presentiamo racconta come ha cambiato pelle l’Avvocatura dello Stato negli ultimi 10 anni, anche rispetto al pubblico impiego e, nello stesso tempo, come il patrocinio dell’Avvocato dello Stato sia divenuto un patrocinio più qualificato, anche in considerazione della rappresentanza e la difesa degli organismi di diritto pubblico. L’art. 43 T.U. del 1933 ha esteso di gran lunga le ipotesi di patrocinio autorizzato. Emblematico è il caso rappresentato dall’Autorità Portuale, che ha affidato, in via generale, all’Avvocatura dello Stato la propria difesa, e poi la Regione Campania, anche grazie all’opera dei colleghi Fiengo e Del Gaizo, che hanno ritenuto utile, per questioni particolarmente importanti, avere l’Avvocatura dello Stato al fianco della Avvocatura regionale. Quindi, anche se non è ancora prevista un’ipotesi di patrocinio congiunto, in ogni caso l’Avvocatura dello Stato lavora in sinergia con l’Avvocatura regionale. In questo senso, ringrazio anche l’Avv. Maria d’Elia che ha interpretato benissimo questo ruolo. Anzi, nella nuova riorganizzazione degli uffici regionali si prevede che l’avvocato capo possa raccordarsi con l’Avvocatura dello Stato, ogni qual volta ritenga opportuno il confronto. Cedo ora la parola al Presidente Giuseppe Tesauro, Giudice della Corte Costituzionale, che ci parlerà del ruolo della avvocatura pubblica nei giudizi comunitari e nei giudizi costituzionali. Prof. Giuseppe Tesauro Giudice della Corte Costituzionale “Profili dell’avvocato pubblico nei giudizi comunitari e costituzionali” Sono grato della vostra cortesia per avermi invitato. Forse non ero adatto a questo ruolo. Per fortuna mi avete dato un tema che mi consente di rimanere fuori dai problemi veri dell’avvocatura, cosi come mi sono stati ricordati. Le mie sono brevissime considerazioni. Le brevi considerazioni che vi sottopongo sono soprattutto testimonianze personali che ho avuto l’immeritato privilegio di vivere in lunghi anni di diritto sul campo. Sia il processo internazionale o comunitario sia il processo costituzionale fanno emergere il ruolo dell’Avvocatura dello Stato di rappresentanza e difesa dello Stato, considerato nella sua unità, in tutte le sue articolazioni. Nel processo comunitario ed in quello costituzionale l’Avvocato rappresenta lo Stato in senso tecnico, come parte del giudizio e come rappresentante dello stesso. 36 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 Cominciamo col processo comunitario, che ho vissuto da bambino dietro il banco degli avvocati di parte privata. È chiaro che in detto processo non sempre l’avvocato di parte privata ha un ruolo primario. Molto spesso sta dietro il banco degli avvocati, in particolare degli avvocati della commissione o della Avvocatura dello Stato. Di solito la parte privata, almeno nei processi che vedono di fronte l’Unione Europea e lo Stato membro sono processi nei quali la parte privata è la parte denunciante e quindi si trova dietro il bancone degli avvocati del servizio giuridico della commissione per sollecitarli a dire qualcosa piuttosto che un'altra. L’Avvocato dello Stato ha un ruolo di attore principale in tutte le procedure nelle quali è posta in discussione la compatibilità della legge nazionale o di un atto amministrativo o di una prassi, rispetto ad un parametro comunitario. Apro una parentesi. In realtà Costituzione e diritto comunitario hanno un ruolo pari. Nel senso che sono due cerchi di legalità supplementari rispetto a quello che la mia generazione ha cominciato ad apprezzare come il primo ed unico cerchio di legalità, e cioè la Legge, che è l’espressione massima della sovranità popolare e della funzione parlamentare. Anche la legge, però, deve fare i conti con i limiti che pone la Costituzione. Negli anni ’50, quando si iniziò a parlare di scrutinio di costituzionalità, sollevare una questione di costituzionalità sembrava una cosa enorme: nientemeno la legge, espressione del potere legislativo, potesse essere annullata! E lo stesso è capitato con l’altro cerchio di legalità supplementare che è il diritto comunitario, il Trattato prima, gli atti comunitari poi. La legge deve fare i conti con questi due cerchi di legalità e la difesa della legge nazionale è in tutti e due i casi affidata all’Avvocatura dello Stato. E può anche capitare che non si voglia difendere la legge. Capita anche nelle migliori famiglie che può esservi il riconoscimento di una legge sbagliata. Quando non si vuole difendere la legge, come nelle incidentali di costituzionalità ovvero nelle incidentali di compatibilità comunitaria, la Presidenza del Consiglio Ministri o la Avvocatura stessa, spontaneamente, non intervengono. Ritornando al processo comunitario, il ruolo dell’Avvocatura è primario nelle procedure in cui il controllo giurisdizionale è diretto sulla legge, come le procedure di infrazione. Nelle procedure di infrazione è lo Stato che si difende e, per esso, l’Avvocato dello Stato. Ed è sempre lo Stato nella sua unità perché pur nel doveroso rispetto delle realtà regionali è sempre responsabile dei comportamenti di tutte le sue articolazioni territoriali e non. Nelle procedure di infrazione il destino dell’Avvocato dello Stato è segnato, nel senso che difende la compatibilità delle misure nazionali colpite dalle censure della Commissione europea e portate davanti alla Corte di Giustizia. E qui, testimonianza personale, io ho avvertito un problema. INCONTRO DI STUDIO 37 L’attenzione dell’Avvocato dello Stato è attivata nel momento in cui si va in Corte e spesso è troppo tardi. La procedura di infrazione dura parecchio e comincia con un colloquio, continua con un dialogo, e prosegue spesso con un negoziato. Non è una critica all’Avvocatura, ma troppo spesso questo parlarsi fra Commissione, Servizio giuridico, Direzione competente e amministrazione italiana, è un dialogo fra sordi. L’amministrazione italiana, lo dico con grande rammarico e chiarezza, è totalmente insensibile, ancora oggi, alle questioni comunitarie. L’Italia ha sempre investito poco, credendoci poco, riempiendosene la bocca, ma credendoci poco. Quindi quel dialogo che, in quei mesi in cui si mette nell’incubatrice la censura ad una nostra legge, è un dialogo che non c’è. È un dialogo fra i soli funzionari del servizio giuridico da una parte e la direzione generale competente dall’altra. È assente un elemento essenziale di un dialogo di questo tipo. Il supporto tecnico della parte: l’Avvocato dello Stato. Quante volte con Oscar Fiumara con Piergiorgio Ferri abbiamo parlato di questa lacuna nel sistema del meccanismo originario in difesa dello Stato Italia, qualunque fosse il Ministero non faceva differenza. Perchè sentivo le lamentele giuste della commissione, che erano sconcertati di fronte a questa situazione. Resta il problema che quando si arriva in Corte con la lettera di messa in mora ed il parere motivato, i giochi sono fatti. Le procedure di infrazione, non solo per l’Italia, sono routine alla Corte. Spesso troppo, e non volentieri. Nelle procedure di infrazione e di rinvio pregiudiziale incidentale, anche qui, voglio attirare l’attenzione di quelli che poi gestiscono queste cose su un fatto che salta agli occhi a Lussemburgo. L’interesse esclusivo dell’Italia e dell’Amministratore per le pregiudiziali italiane. Sembra una cosa normale che uno si interessi delle cose proprie se fossero cose proprie, ma non lo sono, perché una legge danese in discussione non necessariamente non ha la sua sorellina in Italia uguale e non si capisce perché non ci debba essere almeno lo stesso interesse che hanno i danesi per la loro legge in un altro paese che abbia una legge uguale. Non solo. Ma quando ci sono Germania e Danimarca che litigano sul grana padano che loro chiamano granit padovanell non si capisce perché non si deve stimolare l’interesse dell’Italia che ha il suo Grana Padano. Questi sono due momenti della difesa degli interessi delle nostre leggi, le quali possono essere anche sbagliate, ma è l’occasione buona per cambiarle. Ma se non lo è, stiamoci attenti e stimoliamo le nostre Pubbliche Amministrazioni a discutere di cause che certamente ci interessano da vicino. E non lasciamo la difesa del parmigiano reggiano ai nostri amici finlandesi. In fin dei conti, la difesa nelle incidentali, è interessantissima ed ottima 38 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 quando c’è l’intervento dell’Avvocatura dello Stato. Il giudizio incidentale è un gioiellino come meccanismo, lo conosciamo attraverso la Corte Costituzionale, quindi non si sente tanto il tema, ma lì la Corte di Giustizia è come se fosse un convento con tante finestrelle che danno sul panorama e ogni pregiudiziale che arriva da un paese membro è come se fosse una finestra su quell’ordinamento giuridico. Da questo punto di vista, il ruolo dell’Avvocatura dello Stato è straordinario ed è una promozione del proprio ordinamento giuridico in un contesto dove i pregiudizi sono tanti. Pregiudizi che si possono vincere attraverso il lavoro. E dove la civiltà giuridica che noi portiamo non è seconda a nessuno. Sul processo comunitario ho detto tutto. Su quello costituzionale non c’è molto di diverso, in realtà nelle pregiudiziali nei giudizi incidentali si dice che l’Avvocatura è amicus curiae quando interviene: è un eufemismo, ma l’Avvocatura dello Stato difende la legge che viene messa in discussione in un giudizio nazionale, per verificare la compatibilità della legge con la Costituzione. È sempre lo Stato che è comunque parte, se non della controversia in senso proprio, è lo Stato regolatore. Di esso si discute, se ha fatto un buon lavoro o se non ha fatto un buon lavoro. Qui nemmeno c’è un problema con le regioni, quando lo Stato è convenuto. Il problema viene in rilievo quando è attore lo Stato nei confronti delle regioni nei giudizi principali. Qui l’Avvocatura ha il limite della delibera del Consiglio dei Ministri che vuole attaccare la legge regionale. Si verificano delle incomprensioni, perché la difesa erariale spesso invoca dei parametri che il Consiglio dei Ministri non aveva invocato. Siamo impossibilitati ad agire, a meno che con le pinze non riusciamo a dire che quel parametro, non presente nella delibera del CDM, può, però, ricavarsi dal contesto delle argomentazioni svolte dell’Avvocatura dello Stato, riuscendo qualche volta a salvare la situazione. Con riferimento all’art. 21 bis della 287/1990, esso conferisce all’Autorità Antitrust nientemeno che la legittimazione ad impugnare un atto di una P.A., come per esempio, il provvedimento di aggiudicazione di gara di appalto, bando di gare etc... Io non ne posso parlare che col sorriso sulle labbra, è in corso un giudizio principale, di una Regione contro questa legge dello Stato. È molto probabile prevedere l’esito del giudizio. È difficile che possa ridondare sulle competenze regionali. Lascia un po’ stupefatti, questa legittimazione, perché mischia sostanzialmente il private enforcement con il public enforcement e l’Autorità Antitrust rappresenta un organo del public. Tu scrivi la lettera d’amore, quelli fanno l’istruttoria e poi decidono. Questo non esclude la possibilità per un’impresa di andare direttamente dal giudice e far valere il proprio diritto a far valere la propria legge sulla concorrenza. Ma il INCONTRO DI STUDIO 39 private ha scarso successo, perché quando l’avvocato va dal giudice, deve portare un carico di prove e di documenti che non è in grado di sopportare da solo. L’Autorità, tuttavia, ha questa possibilità e non si capisce perché non possa aprire un procedimento invece di andare necessariamente al T.A.R. o dal giudice per far valere un diritto pubblico. Avv. Paolo Del Vecchio Avvocato dello Stato Ringrazio il Presidente per i complimenti e le critiche costruttive e per aver toccato un tasto, e cioè che l’Avvocatura dello Stato si trova spesso a difendere un amministrazione che spesso non vuole essere difesa in modo totale. L’Avvocato dello Stato deve supplire a volte alle carenze dell’amministrazione. Prof. Ferruccio Auletta Ordinario di diritto processuale civile, Università degli Studi di Napoli Federico II “La difesa della parte pubblica nel processo civile e nel rito del lavoro” Nel sito istituzionale dell’Avvocatura dello Stato ci sono alcune pagine esplicative della funzione. Leggendole, colgo per importanza questa affermazione: “l’Avvocatura provvede non tanto e non solo alla tutela delle singole Amministrazioni o di enti patrocinati, quanto al perseguimento degli interessi generali ed esclusivi dello Stato nella sua unità”. Questa è una posizione che assume rilevanza critica da quando nella nostra Costituzione, all’art. 114, compare l’affermazione per cui “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Lo Stato diviene una delle realtà costitutive e questa elementare osservazione non può che indurre un principio di ripensamento della funzione di un soggetto, l’Avvocatura dello Stato appunto, che inevitabilmente deve adeguare alla modificata consistenza della sua struttura della Repubblica il suo ruolo data la sua naturale aspirazione a rappresentare l’unità dell’interesse generale, della Repubblica, almeno come Stato-apparato. La mia riflessione, su una premessa del genere, può muovere così dal D.L. 203/2005 in base al cui art. 10 l’INPS subentra nell’esercizio delle funzioni residuali dello Stato in materia di invalidità civile. In particolare, il 6° comma dell’art. 10, che ha subito come spesso accade per le disposizioni normative del nostro Paese una vicenda molto accidentata (tale comma è stato infatti modificato dalla legge di conversione, successivamente da un decreto legge, quindi temporaneamente sospeso, infine, da ultimo, ancora modificato 40 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 per decreto legge nel febbraio 2012), recitava: “A decorrere dalla data di effettivo esercizio da parte dell'I.N.P.S. delle funzioni trasferite gli atti introduttivi dei procedimenti giurisdizionali in materia di invalidità civile, cecità civile, sordomutismo, handicap e disabilità, nonché le sentenze ed ogni provvedimento reso in detti giudizi devono essere notificati [anche] all'I.N.P.S. La notifica va effettuata [sia presso gli Uffici dell'Avvocatura dello Stato, ai sensi dell'articolo 11 del regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611, sia] presso le sedi provinciali dell'I.N.P.S.”. In questa ultima parte, la norma viene successivamente incisa e l’abrogazione finisce col riguardare proprio la notificazione presso gli uffici dell’Avvocatura di Stato. Con una circolare, l’Avvocato distrettuale di Catania, così scrive a diverse autorità, in particolare ai presidenti dei tribunali del Distretto, riferendosi alle controversie previdenziali: “l’art. 20, comma 5, del decreto n. 78/2009, ha eliminato, come da tempo auspicato, l’ormai inutile notifica degli atti introduttivi dei procedimenti giurisdizionali in materia di invalidità civile (…). Ciò premesso, con riferimento ai giudizi relativi ai ricorsi di primo grado depositati a decorrere dal 1° aprile 2007 - nelle ipotesi in cui dovessero ancora essere richieste da parte di privati notifiche di vario genere da effettuarsi all’INPS presso la sede di questa Avvocatura distrettuale - codesti Uffici notifiche e protesti (UNEP) vorranno denegare motivatamente l’ adempimento evidenziando agli interessati l’esistenza di un mutato quadro normativo e l’inutilità della richiesta notifica”. In buona sostanza, egli chiede di non coinvolgere oltremodo gli uffici dell’Avvocatura dello Stato perché “inutile”. Ora, il punto sul quale vorrei riflettere nella prospettiva del cambiamento, che è esigenza di cui l’Avvocatura dello Stato mi pare estremamente consapevole, è se non debba piuttosto essere considerata l’idea che l’Avvocatura di Stato divenga una sorta di centro nevralgico (soprattutto) per la difesa in giudizio, centro eventualmente propulsore di direttive di principio e non il soggetto che si accolla necessariamente la difesa in giudizio del convenuto, che deve curare adempimenti processuali connessi intimamente allo svolgimento della singola controversia. Il Codice dell’amministrazione digitale viene integrato, adesso, con una nuova norma che stabilisce facoltà di ogni cittadino di indicare alla P.A. un proprio indirizzo di posta elettronica certificata quale “domicilio digitale”: mi chiedo, allora, se in una modificata realtà di Giustizia digitale, come recita il pertinente titolo del c.d. Decreto sviluppo 2.0., non si possano riconsiderare quelle forme il cui modello abbiamo visto essere già risultato insopportabile all’Avvocato distrettuale di Catania, e per la nuova via digitale giungere a una canalizzazione della aggressione giudiziale nei confronti dei soggetti che costituiscono lo Stato in modo da creare un ente, l’Avvocatura, veramente capace di visione complessiva e unitaria dei fenomeni, di determinarsi consapevolmente su direttive di principio senza disperdersi nell’assistenza in giudizio della singola Amministrazione. INCONTRO DI STUDIO 41 Da questo punto di vista, l’archetipo, mi sembra che non vada troppo lontano da quello che da tempo è presente nell’art. 417-bis, 2° comma, c.p.c.: ai fini della rappresentanza e difesa in giudizio la disposizione dà la possibilità che i dipendenti delle amministrazioni svolgano il patrocinio per le stesse in primo grado, salvo che l’Avvocatura dello Stato competente per territorio rinvenga questioni di massima o aventi notevoli riflessi economici tali da determinarsi ad assumere direttamente la trattazione della causa dandone immediata comunicazione ai competenti uffici dell’amministrazione interessata, nonché al dipartimento della funzione pubblica anche per l’eventuale emanazione di direttive agli uffici per la gestione del contenzioso del lavoro. Mi sembra una norma dalla quale traspare con evidenza l’idea di una possibile funzione (sì) generale e (però anche) residuale e nello stesso tempo iperselettiva, che l’Avvocatura dello Stato può essere in grado di svolgere per sussidiare la difesa delle amministrazioni statali (o a queste equiparate). Dunque, si tratta di un modello funzionale che è già presente a livello normativo. Né mi sembra che fosse un esordio assoluto perché - per es. - nel T.U. del 1933 forme molto articolate di cooperazione difensiva della Avvocatura dello Stato erano già indubbiamente presenti. Mi riferisco anzitutto all’art. 44, norma che riguarda l’assunzione da parte dell’Avvocatura della rappresentanza e difesa degli impiegati. La norma dice che l’Avvocatura dello Stato assume la rappresentanza e la difesa degli impiegati e agenti delle amministrazioni dello Stato nei giudizi civili e penali che li interessano per fatti e cause di servizio, qualora le amministrazioni o gli enti ne facciano richiesta e l’Avvocatura generale dello Stato ne riconosca la opportunità. Da diversi punti di vista, l’art. 417-bis è norma che guarda al fenomeno dall’alto per cosi dire, in modo verticistico, richiedendo che l’Avvocatura dello Stato faccia suo il contenzioso qualora riconosca che debba intervenirvi per esigenze che superano l’interesse concretamente dedotto in giudizio. Invece, l’art. 44, norma più risalente, pare osserva il fenomeno dal basso: è l’Amministrazione che promuove istanza. In qualche misura, convergono queste due disposizioni tanto lontane nel tempo su un punto, cioè sulla possibilità di scardinare vuoi la esclusività, vuoi la necessarietà della funzione dell’Avvocatura. Peraltro, non è questo quello che interessa veramente qui; di più interessa individuare un ruolo dell’Avvocatura dello Stato nei giudizi civili che - anziché modulato in ragione della disarticolazione delle entità costitutive della Repubblica - si vada articolando piuttosto in relazione a funzioni diverse che la difesa in giudizio possa richiedere. Penso così alla funzione da rigorosamente mantenere in capo all’Avvocatura qual è la selezione del contenzioso meritevole della assistenza diretta e in generale alla funzione di imprimere direttive alle 42 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 amministrazioni che sempre più progrediscono nella interiorizzazione delle funzioni difensive. Del resto, forme di modulazione cooperativa dell’esercizio difensivo erano immaginabili già in base all’art. 1, comma 2, T.U. perché la delega di cui lì si dice, per la rappresentanza delle amministrazioni dello Stato nei giudizi che si svolgono fuori della sede degli uffici dell’Avvocatura dello Stato, rappresenta un altro schema funzionale che direi - sintomaticamente - va tenuto presente anziché affrontare il problema (come invece fa anche la norma citata da ultima) ancora e soltanto in relazione ai soggetti diversi che vanno complicando la realtà costitutiva della Repubblica. A mio avviso, il problema non sta tanto nella divergenza dei soggetti e degli intereressi quanto nella molteplicità delle funzioni oggi richieste per l’assistenza in giudizio, mentre si assiste nel processo civile, e con favore, allo scemare di antichi e non più giustificabili privilegi processuali (anche se mi accorgo che la Corte di Cassazione molto di recente, nel 2011, è dovuta tornare a occuparsi dei casi di applicazione del foro erariale, segno della persistenza - da una parte - di questioni obbiettivamente superate, e - dall’altro - della tendenza a manifestare pretese di privilegio che sono antistoriche: nella fattispecie, quella della Cassa per il Mezzogiorno di far valere il foro erariale è stata giustamente giudicata non corretta dalla Corte suprema). Molto rapidamente, vado alla conclusione. Il senso mutato dell’intervento della difesa pubblica nel processo civile e nel processo del lavoro farà anche in modo che l’Avvocatura si riappropri di quella che rimane la sua consistenza intima e spesso giustamente enfatizzata, cioè di difensore sul piano tecnico che in qualche misura non tiene in primaria considerazione l’esigenza della vittoria o della soccombenza, che rimane uno dei più bei proclami della peculiarità dell’avvocato pubblico, il quale può singolarmente non considerare primario questo valore, ma bilanciarlo insieme con altri. Ma anche questo passa per un allontanamento dell’Avvocatura dall’altrimenti inestricabile tessuto degli organi di governo amministrativo. In qualche misura, il piano del governo e il piano dell’assistenza dell’ Amministrazione nella diversificazione funzionale - che sto immaginando - sicuramente si allontanerebbero se l’Avvocatura dello Stato diventasse sempre meno avvocato dell’Amministrazione in causa e sempre più l’ideatore della linea difensiva praticabile: è del tutto evidente che questa separazione si andrebbe ad accentuare, secondo me, con grandissimo beneficio per la giusta e - direi: obbiettivamente - unica posizione non già dell’avvocato pubblico, ma proprio dell’Avvocatura dello Stato nel contesto istituzionale italiano. Un esempio, a proposito delle nostre consolidate idee che vanno ripensate. Lo traggo dalla mia esperienza di studioso del processo e di cultore dell’arbitrato. C’è una consolidata giurisprudenza della Cassazione, ma anche delle corti di merito in base alla quale la c.d. declinatoria (cioè la volontà di non deferire INCONTRO DI STUDIO 43 ad arbitri una determinata controversia) costituisca potere immanente all’Avvocato dello Stato il quale non ha bisogno di previa determinazione volitiva in tal senso da parte del soggetto che rappresenta l’Amministrazione della cui controversia si tratta. La Corte di cassazione lo ha affermato varie volte: l’invito all’arbitrato al quale abbia fatto accesso il privato può essere declinato - nelle ipotesi in cui questo potere è assentito - già soltanto dall’Avvocatura dello Stato. Ora, quell’allontanamento del piano di governo e quindi dell’interesse della P.A. e delle sue determinazioni volitive dalla difesa (non intesa quale nuda assistenza della parte ma quale posizione della linea difensiva), secondo me non può che riflettersi in questo contesto dove, per accidente, si trova assai di recente (mi riferisco alla c.d. Legge anti-corruzione) l’affermazione in base alla quale le controversie derivanti dall’esecuzione dei contratti pubblici possono essere deferite agli arbitri previa autorizzazione motivata da parte dell’organo di governo dell’amministrazione. Mi chiedo, allora: perché quel contrarius actus che è la declinatoria dovrebbe non appartenere ancora a detto organo ed essere rimesso invece all’Avvocatura dello Stato? Grazie. Avv. Paolo Del Vecchio Avvocato dello Stato Grazie per l’ottima relazione, condividiamo pienamente la figura dell’Avvocato dello Stato che lei ha tracciato, che guardi oggettivamente alla difesa della amministrazione senza quella volontà di difendere a tutti i costi spesso anche un amministrazione che magari emana provvedimenti di dubbia legittimità. Sui privilegi mi sento di dire che ne abbiamo sempre di meno, lo dico con un po’ di rammarico, dobbiamo comunque essere uguali, ma l’avvocato dello Stato esercita una funzione pubblica, ed il principio del foro erariale ci aiuta soprattutto a fronteggiare la dispersione di cause sul territorio, visto l’organico sempre più ridotto (siamo 340 circa in tutta Italia). In ogni caso, sulle ipotesi di patrocinio autorizzato, vale a dire quelle di cui stiamo parlando, il principio del foro erariale non si applica ed abbiamo eguale trattamento rispetto agli altri. Prof. Giovanni Leone, Ordinario di diritto processuale amministrativo, Università degli Studi di Napoli Federico II “Il ruolo dell’avvocatura pubblica nel processo amministrativo” Trattandosi di un intervento sollecitato sul ruolo dell’avvocatura pubblica nel processo amministrativo, devo necessariamente far presente che il tema 44 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 non è certamente esauribile in un tempo necessariamente breve, correlato peraltro alla presentazione di un volume così interessante. È pertanto, evidente che mi limiterò a brevissimi cenni o sintetiche riflessioni. Preliminarmente occorre dire che le Avvocature pubbliche hanno modellato la propria struttura - sia pure conservando o attuando talune specificità - su quella dell’Avvocatura dello Stato. Il compito più appariscente, anche per i non addetti ai lavori, esercitato dall’Avvocatura dello Stato sin dal momento della sua istituzione, consiste nella difesa degli enti pubblici svolta in sede giurisdizionale; ciò nondimeno, sfugge pure agli addetti ai lavori che, in tale frangente, l’Avvocatura è tenuta ad assolvere anche ad una funzione consultiva, da assumere sia nel corso del processo ma ancor prima che il processo si instauri, con lo scopo di tentare di risolvere bonariamente l’insorgente vertenza, per la tutela non solo dell’ente rappresentato, bensì dell’interesse pubblico generale. Per la verità il ruolo o il munus degli Avvocati dipendenti degli enti pubblici appare diverso da quello ricoperto dagli Avvocati dello Stato, in quanto i primi non sembrano godere delle guarentigie che l’ordinamento assicura ai secondi. V’è stato qualche tentativo normativo (che si deve a specifiche norme regionali, che hanno cercato di mutuare taluni istituti del Regio decreto del 1933) di assimilare i due ruoli, quanto a poteri, diritti e responsabilità; tuttavia, mentre lo status degli Avvocati degli enti pubblici diversi dallo Stato è, come noto, disciplinato da contratti collettivi nazionali di lavoro, quello degli Avvocati dello Stato è retto da una norma di legge, che, a mio parere, tuteli maggiormente questi ultimi. Il Presidente de Lise poc’anzi citava Mantellini, primo Avvocato generale dello Stato dopo l’unificazione: secondo Mantellini, «l’avvocato regio prima che difensore è paciere, ed è sempre consultore dell’amministrazione». Ritengo che questa opinione debba essere scolpita a caratteri cubitali in qualsiasi sede dell’Avvocatura italiana pubblica, se non addirittura nel logo dell’Avvocatura dello Stato, e rappresenti un ammonimento non solo e non tanto per gli Avvocati dello Stato, nella propria corrispondenza, quanto e soprattutto per i destinatari della corrispondenza medesima. Ciò posto, vorrei sin da subito esprimere una personalissima opinione, che troverà - immagino - non molte adesioni, in merito alla sovente invocata sinergia fra amministrazioni pubbliche regionali (e talvolta locali) ed Avvocatura dello Stato. Mi domando, in altre parole, come possa costruirsi e configurarsi una sinergia fra Avvocature (Distrettuali e Generale) in presenza di uno Stato federale. Mentre nel passato si tendeva ad identificare lo Stato con tutti gli enti pubblici, ivi compresi Regioni, Province, Comuni, Enti strumentali, ausiliari, ecc., dopo non tanto l’entrata in vigore della Costituzione, ma soprattutto dopo l’attuazione del disegno costituzionale (dagli anni ’70 in poi con l’istituzione delle Regioni a statuto ordinario) e del novellato Titolo V, lo Stato è entità oramai ben differenziata dagli altri enti, ai quali sono stati attribuiti compiti e po- INCONTRO DI STUDIO 45 teri delineati non sempre in modo puntuale. Difatti, non è infrequente constatare conflitti, politici, istituzionali che sfociano anche nelle aule giudiziarie, tra Regioni, enti locali ed in particolare tra Regioni e Stato. Quale ruolo deve rivestire l’Avvocato dello Stato (sottolineo dell’Ente Stato) in questi casi? Com’è ipotizzabile, ad esempio, che un Avvocato dello Stato, il quale è tenuto a consigliare, normalmente ed istituzionalmente, l’Ente Stato, svolga la sua prestazione richiesta dall’Ente Regione in virtù di un distacco (di carattere personale), oppure di una convenzione, se non di una legge (quindi, di carattere normativo-istituzionale)? Oppure allorquando si trovi ad aver contribuito alla predisposizione di un testo legislativo (regionale) che un altro suo collega deve esaminare al fine della proposizione di un conflitto di attribuzioni davanti alla Corte Costituzionale? Oppure, viceversa, allorquando gli viene chiesto dagli organi regionali se una norma statale abbia o meno invaso la competenza legislativa regionale? Egli non si troverà in una posizione di imbarazzo? Non vedo come ciò possa accadere. L’auspicata sinergia non mi pare praticabile. Secondo argomento. La costante trasformazione ed evoluzione, registrata negli ultimi anni, del ruolo dell’Avvocatura dello Stato nei processi amministrativi a causa della trasformazione della società, delle istituzioni e, quindi, della tipologia delle controversie. È sufficiente sfogliare le preziosissime pubblicazioni che l’Avvocatura generale dello Stato fino a qualche anno fa pubblicava per i tipi del Poligrafico, per convincersi del radicale nuovo ruolo assunto dall’Avvocatura dello Stato negli ultimi sessantacinque anni (ossia dall’entrata in vigore della Costituzione). A titolo meramente esemplificativo, le Relazioni dell’Avvocato generale più risalenti si soffermavano diffusamente sulle controversie del pubblico impiego (del resto, circa un terzo del contenzioso del Consiglio di Stato era occupato da tali cause). Dopo le varie riforme sulla contrattualizzazione del pubblico impiego, che ha comportato il trasferimento del contenzioso al Giudice del lavoro - salve le eccezioni del pubblico impiego non contrattualizzato, che riguarda magistrati, professori universitari, militari ecc. - dinanzi al Giudice amministrativo l’Avvocatura dello Stato è coinvolta solo per le controversie relative all’accesso ai ruoli della pubblica amministrazione (concorsi pubblici). C’è nostalgia da parte dei magistrati amministrativi per questa consistente fetta di competenza che è stata trasferita alla Giurisdizione ordinaria? Riterrei proprio di no. C’è nostalgia, all’opposto, da parte degli avvocati amministrativisti per tale operazione normativa? Riterrei proprio di sì (al di là del profilo della perdita meramente economica), per la semplice ragione che gli avvocati amministrativisti preferiscono non avventurarsi dinanzi al Giudice del lavoro a causa della particolarità del rito, e soprattutto perché il Giudice ordinario ha scarsa dimestichezza con il vizio dell’eccesso di potere, che inutilmente e con scarso successo - mi raccontano - viene dedotto in tale sede. 46 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 È una questione di diversità culturale. Alla stessa stregua potrebbe dirsi che anche il Giudice amministrativo incontra non poche difficoltà, avendo scarsa familiarità allorquando s’imbatte in vertenze concernenti la risarcibilità delle posizioni giuridiche lese. A proposito del nuovo ruolo assunto dall’Avvocatura dello Stato, ho sfogliato le pregevoli Relazioni che l’Avvocatura generale, con cadenze prestabilite, presentava al Presidente del Consiglio dei Ministri. Qui possiamo verificare con mano che la qualità (oltre che la quantità) del contenzioso è cambiata. L’Avvocato Generale dello Stato degli anni ‘50 faceva presente al Governo che il contenzioso maggiormente significativo era caratterizzato soprattutto da vertenze in materia di riforma fondiaria, di assegnazione di terre incolte, di edilizia sovvenzionata; viceversa, oggi, le controversie più impegnative che coinvolgono gli Avvocati dello Stato si celebrano davanti alla Corte Costituzionale, con particolare riferimento ai conflitti di attribuzioni fra Stato e Regioni. In tal senso, basti pensare al recente conflitto fra la Presidenza della Repubblica e la Procura della Repubblica di Palermo in merito alla segretezza delle conversazioni telefoniche del Capo dello Stato. Entrambe le parti hanno, nella propria denominazione, il termine «Repubblica», con un conflitto di attribuzioni singolare e assai delicato. Assistiamo, ciclicamente, ad una dilatazione ed a un restringimento di compiti e funzioni dell’Amministrazione pubblica ed, al contempo, ad un ampliamento e ad una riduzione della consulenza e del contenzioso dell’Avvocatura dello Stato a seconda delle esigenze della collettività e dei vari orientamenti politici. Si pensi, da ultimo, alla consulenza ed assistenza giudiziaria prestata in favore di nuovi organi o enti: ad esempio, l’istituto scolastico - il che prima era assolutamente impensabile - dovrà bandire gli appalti per la ristrutturazione degli edifici o delle aule. Nel passato a ciò provvedeva lo Stato attraverso il Provveditorato alle opere pubbliche, che era dotato di proprie e qualificate strutture. Un preside, o direttore didattico, di certo, non sa nemmeno cosa sia una gara pubblica: sicché l’Avvocatura dello Stato dovrà necessariamente prestare la propria attività consulenziale. L’Avvocatura dello Stato ha poi un ruolo assai delicato nei processi che coinvolgono le amministrazioni che sono comunque per legge ammesse al suo patrocinio. Era impensabile, per il legislatore del ’33, che più amministrazioni dello Stato fossero parti attrici ed al contempo convenute in uno stesso processo amministrativo: e nulla impedisce che oggetto della contestazione giudiziaria da parte dell’Ente Stato sia un provvedimento materialmente redatto sulla scorta di un parere di un Avvocato dello Stato. In realtà stiamo assistendo, consapevolmente o meno, alla destrutturazione INCONTRO DI STUDIO 47 dell’amministrazione pubblica (per dirla alla De Rita), a causa della diversa collocazione gerarchica degli enti, vuoi per la riforma del Titolo V della Costituzione, vuoi per la pervasiva presenza dell’Unione Europea nell’ordinamento nazionale. Un certo numero di controversie sorge per la necessità (trattasi di una sorta di costrizione derivante dal poco felice momento che attraversa tutto il modo occidentale) che spinge molti giovani esclusi, non ammessi o comunque dichiarati non idonei ad impugnare l’esclusione del concorso proprio allo scopo di cercare di conseguire in via giudiziaria ciò che viene loro negato in sede amministrativa. Conseguentemente, anche il Giudice amministrativo sta cambiando “pelle” e si è oramai trasformato da Giudice dell’atto amministrativo in Giudice dell’economia (pubblica). Sono assai ridotte di numero le vertenze concernenti l’accesso ai ruoli all’Amministrazione, ossia ai concorsi pubblici per le note restrizioni ed i “tagli” operati da varie leggi finanziarie; sicché, come accennavo poc’anzi, i giovani laureati in giurisprudenza, che cercano di accedere all’Avvocatura del libero foro si scontrano con la posizione assunta dalla giurisprudenza amministrativa (soprattutto di secondo grado), che ha adottato un orientamento restrittivo in merito alla sindacabilità delle prove scritte, giustificato soprattutto a causa dei grandi numeri dei compiti da correggere (questa è la motivazione inespressa nelle sentenze ma dichiarata “a voce” da alti Magistrati del Consiglio di Stato). Altre vicende che vedono protagonista l’Avvocatura dello Stato nei processi amministrativi, proprio in ragione del nuovo ruolo assunto, riguardano i provvedimenti delle Autorità indipendenti e gli appalti pubblici. Per non parlare poi delle controversie in materia di ciclo di smaltimento dei rifiuti, attribuite dal legislatore originariamente alla competenza funzionale del T.A.R. Lazio. Per queste ultime fattispecie v’è da osservare una certa qual strana diffidenza del Parlamento nei confronti dei Tribunali amministrativi regionali presso i quali dette vertenze avrebbero dovuto essere incardinate in relazione alla localizzazione delle opere o interventi nella predetta materia; queste controversie venivano introdotte davanti al TAR Lazio (ignoro se l’Avvocatura generale fosse o meno felice dell’attribuzione di questa consistente fetta di contenzioso), qualsiasi fosse il comune interessato, non soltanto laziale ma anche napoletano, siciliano, pugliese o veneto. Fortunatamente, anche a seguito della sollevata questione di legittimità costituzionale (non è stato necessario l’intervento della Consulta), la competenza è stata riassegnata ai TAR territorialmente competenti (d.lvo 195/2011). È da augurarsi che altrettanto si verifichi per la disposizione che attribuisce al TAR del Lazio la competenza in materia di scioglimento dei comuni per infiltrazioni mafiose o camorristiche, nonché per lo smisurato numero di materie attribuite dall’art. 135 del Codice del processo amministrativo alla sua competenza funzionale. C’è da chiedersi se la ratio subliminale di tale dispo- 48 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 sizione consista in una sfiducia o scarsa considerazione nei confronti dei TAR territorialmente competenti (ossia se, ad esempio, il TAR Campania sia condizionabile più facilmente del TAR romano), oppure se ciò preluda a nuovi interventi legislativi, i quali prevedano che qualsiasi atto, il quale abbia a che fare con materie assai delicate (penso alle informative antimafia), debba essere trattato in sede centrale. Se la mafia va combattuta, la battaglia può essere intrapresa dai magistrati, ordinari ed amministrativi che siano, - questa è la mia opinione - territorialmente competenti (ossia davanti al giudice naturale). Altro contenzioso importante e sempre più rilevante, quanto a numero di vertenze incardinate, è rappresentato dagli appalti pubblici. La ragione? La accennava poc’anzi il Magnifico Rettore. In un contesto economico, quale quello attuale, le imprese cercano di accaparrarsi, per la propria sopravvivenza, i mezzi economici e le commesse, sempre più rarefatte per le note carenze finanziarie delle amministrazioni pubbliche. A questo proposito, non si può non parlare del cd. contributo unificato. Tutti voi sapete che il contributo unificato è quella misura di tassazione che da qualche tempo sostituisce le marche da bollo. Tuttavia, per le vertenze in materia di pubblici contratti esso ammonta ad euro 4.000 per la sola presentazione del ricorso introduttivo. Se poi immaginiamo che, accanto al ricorso introduttivo avverso il bando (che contempla una clausola cd. escludente), va impugnata anche l’esclusione dalla partecipazione con motivi aggiunti, e poi occorre evidentemente impugnare anche il provvedimento definitivo di aggiudicazione, con altri motivi aggiunti, il conto è bell’e fatto: lo Stato richiede e percepisce ben 12.000 euro di contributo unificato. A ciò aggiungasi il rischio di un’eventuale condanna alle spese in caso di non accoglimento del ricorso. L’imprenditore, soprattutto se l’importo a base d’asta non è particolarmente elevato, preferisce non rivolgersi all’avvocato, ma battere altre strade. Il contributo unificato, che avrebbe dovuto avere al contempo ragione e natura di corrispettivo del “costo” della giustizia, diventa da un canto strumento meramente deflattivo del contenzioso e dall’altro incentivo a commettere illiceità, oppure a far sì che il Giudice penale svolga un’attività surrogatoria del Giudice amministrativo, occupando il suo ruolo naturale. Mi domando se questa possa considerarsi Giustizia, oppure se non si debba qualificare lo Stato che esige un pagamento o balzello del genere ad un cittadino che invoca giustizia “canaglia”, come ha definito un noto giornalista italiano, Piero Ostellino, in un suo fortunato ed illuminato saggio. Lo Stato deve garantire il principio di effettività della tutela giudiziaria (art. 1 del c.p.a.) rendendo il servizio “Giustizia” accessibile ai più: di certo il Parlamento non garantisce la tutela piena ed effettiva introducendo, nel processo civile, il “filtro” di ammissibilità degli appelli e incrementando, per tutti i processi di impugnazione l’importo del contributo unificato del 50% (sicché per gli appalti superiori ad 1 milione di euro (che, secondo il consolidato orien- INCONTRO DI STUDIO 49 tamento giurisprudenziale, in caso di esito favorevole potrebbe comportare un risarcimento di circa 50mila euro) il contributo è di 6.000 euro. Concludo, nella duplice veste di avvocato del libero foro e studioso del diritto processuale amministrativo, con un augurio ed un invito: che l’Avvocatura pubblica, sia quella statale sia quella di tutti gli enti pubblici, riconquisti nei giudizi amministrativi il pieno potere che la legge ad esse attribuisce, fermo restando il limite di intraprendere le iniziative processuali che incidono su interessi amministrativi di particolare importanza per l’amministrazione. Tuttavia, allorquando non ci sono questi prevalenti interessi, l’amministrazione deve assumere quel ruolo che Mantellini, primo Avvocato Generale dello Stato prefigurava: “non solo paciere, ma giudice degli interessi della collettività”. Avv. Paolo Del Vecchio Avvocato dello Stato Grazie Professore, io so che l’Avvocato Fiengo non vuole che si enfatizzino gli ultimi due anni nei quali ha guidato l’Avvocatura napoletana, ma uno degli aspetti che si è accresciuto di più è stato quello della consulenza. Siamo in un’ottica conforme alla 241 e alle leggi più recenti sul processo. Siamo vicini alla amministrazione nella fase procedimentale. Questo perché tutto sommato riteniamo che sia la fase più delicata per evitare provvedimenti illegittimi. Non che ci riusciamo sempre, ma ci proviamo, e cercheremo di assistere anche gli istituti scolastici. Avv. Giuseppe Arpaia Avvocato dello Stato “La difesa diretta delle amministrazioni statali” La difesa dello Stato in giudizio coinvolge distinte attività: lo jus postulandi, vale a dire la difesa tecnica intesa come capacità di stare nel processo e compiere attività processuali ed il potere di decisione in ordine all’instaurazione del giudizio o la resistenza nel medesimo, vale a dire la titolarità del rapporto sostanziale. I sistemi di rappresentanza in giudizio dello Stato possono essere: 1) rappresentanza affidata agli stessi funzionari titolari del rapporto sostanziale: si verifica in tal caso nei funzionari il cumulo delle attività predette, rivestendo così la figura di parte in causa (si pensi all’esperienza di alcuni Stati Preunitari); 2) rappresentanza affidata ad avvocati del libero foro (come avveniva nel Regno delle Due Sicilie); 3) rappresentanza affidata ad avvocati appositamente reclutati dallo Stato 50 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 in via cumulativa con i legali del libero foro ovvero in via esclusiva. Nulla in astratto vieta che, qualora lo jus postulandi venga attribuito ad un organo dello Stato, a quest’ultimo possano far capo anche poteri di disposizione sostanziale. La scelta è rimessa alle mutevoli circostanze storiche, anche se, naturalmente, è stato sempre escluso che ove lo Stato faccia ricorso all’opera di professionisti del libero foro questi possano essere investiti del potere di decisione in ordine alla instaurazione di una lite. Inizialmente lo Stato Italiano appena costituitosi optò per la rappresentanza in giudizio affidata ad avvocati del libero foro, a cui venne attribuito la rappresentanza in giudizio dello Stato; poi, essendosi verificati inconvenienti, il legislatore istituì nel 1875 la Regia Avvocatura, a cui venne affidata la rappresentanza processuale dello Stato, che divenne vero ed effettivo monopolio di questo organo dello Stato, rafforzato con la istituzione nel 1923 del Foro Erariale. Antecedente alla stessa istituzione dell’Avvocatura dello Stato è la presenza del funzionario in giudizio: l’art. 1 del R.D. 25 giugno 1865, n. 2361, emanato in esecuzione degli artt. 11, 14 e 16 della legge abolitiva del contenzioso amministrativo (20 marzo 1865, n. 2248, all. E), contemplava la possibilità per i funzionari delle Amministrazioni Statali di rappresentare le stesse “per qualsiasi giudizio civile”. Successivamente, l’art. 41 T.U. 26 giugno 1924, n. 1054, riconobbe all’Autorità che aveva emanato il provvedimento impugnato la facoltà di costituirsi e difendersi innanzi al Consiglio di Stato per il tramite di propri funzionari (norma, peraltro, rimasta inapplicata). Con il T.U. del 30 ottobre 1933, n. 1611 sulla rappresentanza e difesa dello Stato e sull’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato si realizza una completa disciplina organica della difesa dello Stato in giudizio, prevedendo anche in alcune ipotesi la difesa diretta delle amministrazioni statali intesa come difesa attuata dai funzionari senza il ricorso al patrocinio legale dell’Avvocatura. È bene premettere che la difesa in giudizio da parte del funzionario è una mera facoltà prevista dall’ordinamento, potendo assumere l’Avvocatura dello Stato la rappresentanza e difesa di qualsiasi giudizio riguardante l’Amministrazione statale (cfr. art.1 del cit. T.U. del 1933). La rappresentanza in giudizio dello Stato per mezzo di funzionari è prevista agli artt. 2 e 3 del citato T.U. Stricto sensu non rientra, nella difesa diretta delle amministrazioni statali la disciplina dell’art. 2 del cit. T.U., che “nei giudizi che si svolgono fuori della sede degli uffici dell’Avvocatura dello Stato, questa ha facoltà di delegare i funzionari dell’Amministrazione interessata”: infatti, in tal caso l’Avvocatura delega la rappresentanza, vale a dire la sola attività procuratoria, continuando a spettare all’Avvocatura la difesa, vale a dire la predisposizione e la firma degli atti e delle memorie, le istruzioni in corso di causa. La presenza del funzionario in giudizio ha, tuttavia, una sua rilevanza INCONTRO DI STUDIO 51 processuale: la giurisprudenza ritiene, infatti, che le notificazioni e le comunicazioni di atti endoprocedimentali possano essere validamente effettuate anche nei confronti del funzionario, invece che all’Avvocatura. I giudizi, per i quali vengono delegati i funzionari, sono quelli “fuori sede” per i quali non opera normalmente il foro Erariale: di tali cause alcune risultano elencate dall’art. 7 del citato T.U. (giudizi innanzi ai Giudici di Pace, che deve considerarsi il successore del giudice conciliatore, giudizi di opposizione alla esecuzione ex art. 615 e 617, giudizi relativi ai procedimenti fallimentari, giudizi riguardanti i danni dipendenti da urto di navi, così come disciplinati dall’art. 589 cod. navig., giudizi di opposizione ad ingiunzione fiscale ex R.D. n. 639/1910); la delega ex art. 2 viene, altresì, utilizzata allorché il Foro dello Stato risulti inizialmente violato dall’attore ovvero allorché l’Amministrazione Statale è chiamata quale terzo in garanzia (art. 6, 2°co., T.U.) e si intenda far valere il Foro Erariale in un giudizio correttamente instaurato inizialmente sotto il profilo della competenza territoriale. La vera difesa diretta dell’Amministrazione statale, intesa come rappresentanza e difesa di quest’ultima, è contemplata nel successivo art. 3 del cit. T.U.: la norma prevede che nei giudizi davanti al Pretore ed agli Uffici di Conciliazione, anche in quelli che si svolgono innanzi ad Autorità Giudiziarie aventi la medesima sede dell’Avvocatura, le Amministrazioni dello Stato possano, “intesa l’Avvocatura”, essere rappresentate dai propri funzionari che siano per tali riconosciuti. La norma si riferisce ai giudizi innanzi al Giudice di Pace per quanto innanzi precisato e per tutti i giudizi, ora di competenza del Tribunale e che erano di competenza del Pretore. L’ipotesi in parola concerne la vera e propria difesa diretta dell’Amministrazione Statale a mezzo di funzionario (cfr. Cass. 4 giugno 1980 n. 3635; 22 gennaio 1980 n. 485). L’autodifesa dell’Amministrazione trova titolo nella preventiva intesa con l’Avvocatura, con la quale quest’ultima può impartire direttive di massima: in ogni caso gli atti e le difese vengono predisposti e sottoscritti dal funzionario e il funzionario dispone di ogni discrezionalità nell’espletamento della difesa. Diversamente dal funzionario delegato il funzionario che rappresenta l’Amministrazione ex art. 3 non è tenuto a produrre alcuna designazione o lettera di incarico da parte delle P.A. rappresentate, essendo sufficiente che sia per tale riconosciuto, (ciò si deduce anche dall’art. 13 della l. n. 103/1979 in ordine ai giudizi per insinuazione tardiva di crediti nei quali l’Amministrazione è rappresentata dai suoi funzionari): trattasi, pertanto, di posizione del tutto analoga a quella dell’Avvocato dello Stato. La difesa diretta del funzionario si attua anche, come innanzi precisato, se il giudizio è incardinato presso un’Autorità Giudiziaria ove ha sede l’Avvocatura, non trovando il limite territoriale che, invece, incontra la rappresentanza delegata al funzionario ex art. 2 T.U. limitata ai giudizi fuori sede. In ordine al luogo di notifica delle sentenze, fermo restando che gli atti 52 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 introduttivi dei giudizi nei quali sono evocate le Amministrazioni dello Stato vanno notificati in ogni caso presso l’Avvocatura dello Stato, la giurisprudenza ritiene (cfr. Corte di Cassazione 6 marzo 1984 n. 1560) che vada eseguita personalmente nei confronti del funzionario presso l’Ufficio ove ha eletto domicilio, in deroga a quanto prevede l’art. 11, co. 2, T.U., secondo il quale le sentenze devono essere notificate presso l’Ufficio della competente Avvocatura dello Stato. Tale ultima norma trova, invece, integrale applicazione nelle ipotesi di giudizi in cui la rappresentanza è delegata al funzionario ex art. 2: infatti quest’ultimo è titolare di meri poteri procuratori derivanti non già da una procura, bensì da una mera delega, che esaurisce i suoi effetti con la pronuncia della sentenza (cfr. Cass. 18 giugno 1998 n. 6098). Altre ipotesi legislativamente disciplinate di autodifesa dell’Amministrazione sono previste nei giudizi di opposizione ad ordinanza ingiunzioni ex legge 24 novembre 1981 n. 689 e nei ricorsi contro i decreti di espulsione di cittadini stranieri ex d.lgs. 2 luglio 1998 n. 286, il primo regolato dal rito del lavoro, il secondo dal rito sommario di cognizione, ai sensi del d.lgs. n. 150/2011. Nei giudizi di opposizione l’art. 23, 4° co, l. 689/81 prevede che l’autorità che ha emesso l’ordinanza può stare in giudizio personalmente ovvero può avvalersi anche di funzionari appositamente delegati. Tale facoltà di vera e propria autodifesa diretta dell’Amministrazione si spiega con l’attribuzione all’ autorità statale periferica della capacità di essere parte: infatti in tali giudizi la legittimazione appartiene al Prefetto, all’Ispettorato Provinciale del Lavoro e via dicendo per l’intera durata del procedimento con la conseguenza che tutti gli atti, a cominciare da quelli introduttivi fino alle sentenze andranno notificati presso l’organo periferico. Tuttavia trattasi di autodifesa facoltativa, dal momento che la legge, come si è detto, prevede che l’Autorità che ha emesso l’ordinanza può stare in giudizio personalmente ovvero avvalendosi di funzionari delegati, per cui il patrocinio, se richiesto può essere assunto dall’Avvocatura, anche avvalendosi per la rappresentanza di un funzionario ex art. 2 T.U. n. 1611/1933. Analoghe considerazioni valgono per i giudizi innanzi al Tribunale avverso i decreti di espulsione dei cittadini stranieri. Inoltre, i funzionari possono rappresentare e difendere l’Amministrazione statale innanzi ai giudici speciali nei seguenti giudizi: 1) innanzi alle Commissioni Tributarie di 1^ e 2^ grado, l’Ufficio finanziario, nei cui confronti è proposto il ricorso, sta in giudizio direttamente o mediante l’Ufficio del Contenzioso dell’Agenzia delle Entrate (cfr. art. 11 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546); 2) innanzi ai Tribunali Amministrativi Regionali per il contenzioso sul diritto di accesso ai documenti amministrativi (cfr. art. 116, 3^ co., del vigente codice sul processo amministrativo); 3) innanzi alle sezioni giurisdizionale regionale della Corte dei Conti il INCONTRO DI STUDIO 53 funzionario può rappresentare e difendere le Amministrazioni statali nei giudizi pensionistici, così come previsto dall’art. 6 del d.l. 15 novembre 1993, n. 463 conv. nella l. 14 gennaio 1994, n. 19. In particolare, in tale fattispecie non è l’Avvocatura dello Stato a decidere se avvalersi del funzionario a fini della rappresentanza dell’amministrazione in giudizio bensì è l’amministrazione che di regola viene rappresentata in giudizio da un proprio dirigente o da un funzionario delegato a meno che non ritenga di avvalersi del patrocino dell’Avvocatura. L’art. 5 della legge 21 luglio 2000, n. 205 ha poi attribuito tali ultime controversie ad un giudice monocratico con applicazione degli artt. 420, 421, 429, 430 e 431 c.p.c., concernenti il rito speciale di lavoro. Pertanto, parlando del rito del lavoro conviene ora soffermarsi, in modo più diffuso, dell’attività di rappresentanza e difesa che il legislatore ha attribuito al funzionario in tema di controversie di lavoro pubblico. “L’autodifesa nelle controversie di lavoro pubblico statale” La difesa diretta dell’Amministrazione da parte del funzionario prevista dall’art. 417 bis c.p.c. trova causa nel processo di privatizzazione (rectius: contrattualizzazione) del rapporto di pubblico impiego, come è noto, culminato nel passaggio dalla giurisdizione del G.A. a quella del G.O.. Tale norma si è resa necessaria a causa della frantumazione territoriale che la competenza del Giudice del Lavoro comportava, ancorata al luogo dove ha sede l’ufficio al quale il dipendente è addetto, con la espressa inapplicabilità per le controversie dei dipendenti statali dalle norme poste a favore del Foro Erariale, nonché in considerazione delle precedenti esperienze di privatizzazione (es. Ferrovie dello Stato, Poste), che avevano determinato un sensibile incremento del contenzioso, a cui non avrebbero potuto fronteggiare le Avvocature Pubbliche, ivi compresa quella dello Stato. L’art. 417 bis c.p.c., come introdotto dal d.lgs. n. 80/1998, ha previsto, limitatamente al primo grado di giudizio, che le Amministrazioni possono stare in giudizio avvalendosi direttamente di propri dipendenti; tale disposizione trova applicazione come si è detto, anche per le Amministrazioni Statali, per le quali, tuttavia, è previsto che l’Avvocatura dello Stato possa assumere il patrocinio in considerazione del carattere di massima della questione ovvero per i notevoli interessi economici coinvolti: tale preventiva valutazione è possibile per effetto dell’art. 11 del T.U. n. 1611/1933 che prevede, tra gli altri la notifica presso l’Avvocatura dello Stato di tutti i ricorsi. Risulta evidente come il 417 bis c.p.c. appaia ispirato all’art.3 del T.u. n. 1611/1933 citato: tuttavia, diversamente da quanto accade nell’ipotesi di autodifesa delle amministrazioni ex art. 3 T.U. (nonché nelle ipotesi di difesa delegata ex art. 2) la rappresentanza e difesa nelle controversie di lavoro pubblico è attribuita ai dipendenti e non già ai funzionari, al fine di favorire maggiormente la difesa della parte pubblica. L’art. 417 bis c.p.c. va collegato con l’art. 12 del T.U. n. 165/2001, che 54 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 prevede la costituzione presso le Amministrazioni Pubbliche di appositi uffici di gestione del contenzioso lavoro, per cui sono i componenti di tali uffici normalmente legittimati all’esercizio dello jus postulandi, eccezionalmente loro attribuito dall’art. 417 bis. Il carattere eccezionale e speciale di tale norma, che deroga a tutta la normativa relativa ai soggetti abilitati per legge a rappresentare e difendere in giudizio, fa sì che la stessa sia di stretta interpretazione, ricomprendendo i soli contenziosi riguardanti i rapporti di lavoro dipendente e non già l’intero contenzioso lavoro: sono così esclusi i ricorsi ex art. 28 Stat. Lavoratori (concernente rapporti sindacali), i ricorsi proposti da lavoratori autonomi, da lavoratori parasubordinati e, più in generale, i ricorsi proposti da soggetti non legati da un rapporto di lavoro dipendente con l’Amministrazione, per es. dipendenti da ditte appaltatrici che lavorano per l’Amministrazione etc.. Il previgente testo dell’art. 417 bis attribuiva lo jus postulandi a funzionari muniti di mandato speciale, requisito poi soppresso nel testo definitivo della norma, per cui è sufficiente l’appartenenza del dipendente all’Amministrazione, o meglio, all’Ufficio Contenzioso Lavoro per attestarne la piena legittimazione a stare in giudizio. I poteri del dipendente che rappresenta e difende l’Amministrazione Statale innanzi al Giudice del lavoro sono gli stessi di qualsiasi legale: ha facoltà di chiamare terzi in garanzia, di proporre domande riconvenzionali, di chiedere l’ammissione di tutti i mezzi di prova ritenuti necessari, di sollevare eccezioni processuali e di merito etc.. L’attribuzione del patrocinio del primo grado di giudizio ai dipendenti della Pubblica Amministrazione comporta anche che questo ultimi possano predisporre ricorsi ex art.414 c.p.c., ricorsi per decreti ingiuntivi ovvero, come più spesso può verificarsi nella prassi, opposizioni a decreto ingiuntivo, nonché reclamo ex art. 669 terdecies cpc avverso le ordinanze di accoglimento dei ricorsi ex art.700 cpc. La riconducibilità anche di tale rimedio cautelare nell’ambito del 417 bis cpc discende dal chiarimento fatto in dottrina e in giurisprudenza sulla natura giuridica dell’atto di reclamo, che va qualificato non già come atto di impugnazione, come tale circoscritto ai soli motivi dedotti dal reclamante, bensì come fase ulteriore dell’unico procedimento cautelare, di cui costituisce la prosecuzione, avente ad oggetto l’intero thema decidendum. Naturalmente i poteri di rappresentanza e di difesa non comportano la titolarità del rapporto sostanziale, per cui il dipendente non potrà mai, per esempio, di sua iniziativa, transigere una controversia. Per far ciò è necessaria la delega o la procura del soggetto che per legge è legittimato a promuovere e resistere alle liti, vale a dire: i dirigenti di uffici dirigenziali generali di cui all’art. 16, co. 1, lett. f) del d.lgs n. 165/2001. Tale potere dei dirigenti generali comporta anche quello di conferire procura alle liti; la Corte di Cassazione ha precisato che l’art. 16 non è derogato INCONTRO DI STUDIO 55 dalla istituzione dell’ufficio contenzioso del lavoro e dalla attribuzione a tale ufficio, ai sensi dell’art. 12 del medesimo d.lgs. di detta funzione e del connesso potere sia pure limitatamente al contenzioso del lavoro, né allorquando la procura provenga dal dirigente di uffici dirigenziali generali sussiste alcun limite alla sede in cui presta servizio il dipendente delegato a rappresentare l’Amministrazione: pertanto, è stata ritenuta valida la procura alle liti rilasciata a un dirigente in servizio presso la Procura della Repubblica di un distretto diverso da quello del Tribunale innanzi al quale si celebrava la controversia di lavoro instaurata contro il Ministero della Giustizia (Cass. sent. n. 19558/2006). Nelle cause di lavoro, in sintesi, esistono per il primo grado di giudizio tre tipologie distinte di rappresentanza e difesa delle Amministrazioni statali: 1) jus postulandi integralmente affidato al dipendente statale incaricato della difesa, ai sensi dell’art. 417 bis c.p.c.; 2) per i giudizi fuori sede, delega da parte dell’Avvocatura dello Stato ai funzionari delle sole funzioni procuratorie ex art. 2 T.U.; 3) patrocinio da parte dell’Avvocatura per le controversie rilevanti per il particolare valore economico ovvero per il carattere di principio delle questioni trattate. Il regime delle preclusioni e decadenze che caratterizza fin dall’inizio il rito del lavoro ha reso necessario da parte dell’Avvocatura, a cui spetta la proposizione dell’appello per le sentenze sfavorevoli all’Amministrazione, un’azione di formazione dei dipendenti delle Amministrazioni, funzionale all’attività di rappresentanza e difesa prevista dall’art.417 bis cpc,, nonché di coordinamento e di documentazione. Anche quando la rappresentanza e difesa in giudizio viene svolta dai dipendenti della Pubblica Amministrazione trova applicazione l’art. 91 c.p.c., nel senso che a quest’ultima spettano le spese di lite allorché risulti essere parte vittoriosa. Se tale spettanza in ordine alle spese può dirsi certa per l’an, non altrettanto può dirsi in ordine al quantum. Per la quantificazione delle spese per le controversie di lavoro pubblico, sulla base di un indirizzo giurisprudenziale della Suprema Corte che prevedeva la condanna della parte soccombente alla rifusione delle spese vive sostenute dalla P.A. (cfr. e multis sent. 8 marzo 2000, n. 2642), i dipendenti in giudizio avevano adottato la prassi di depositare una nota spese, costituita dai costi per le ore lavorate dal funzionario per lo studio della controversia, per la predisposizione della memoria, per le trasferte, etc. Recentemente era intervenuto il legislatore con la legge n.183/2011 introducendo l’art. 152 bis disp. att.cpc, secondo il quale quando l’Amministrazione è difesa dai propri dipendenti ai sensi dell’art. 417 bis cpc, ai fini della liquidazione delle spese di giudizio a favore della parte pubblica si applica la tariffa vigente per gli avvocati con la riduzione del 20% degli onorari ivi previsti e la riscossione avviene mediante iscrizione a ruolo, ai sensi del DPR n. 600/1973 (tale norma già vigeva per i funzionari della Agenzie delle Entrate 56 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 nei giudizi tributari: art. 15, co. 2 bis, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546). Tale norma, valevole per la sola rappresentanza ex 417 bis cpc, doveva trovare applicazione dal 1^ gennaio 2012. Sennonché il d.l. n. 1/2012 convertito nella l. n. 27/2012, nell’abrogare il sistema delle tariffe professionali ha altresì, soppresso le disposizioni vigenti che, per la determinazione del compenso del professionista, rinviano alle tariffe, disponendo una transitoria applicazione della tariffe fino all’entrata in vigore dei decreti ministeriali, che avrebbero introdotto nuovi parametri per la liquidazione dei compensi, avvenuta, come è noto, con il D.M. del 20 luglio 2012, n. 140, entrato in vigore il 23 agosto 2012. L’art. 1, co. 2, del predetto decreto prevede che “l’organo giurisdizionale può sempre applicare analogicamente le disposizioni del presente decreto ai casi non espressamente regolati dallo stesso”. Pertanto, si ritiene, in assenza di una norma ad hoc che disciplina i compensi dovuti all’Amministrazione vittoriosa rappresentata dai suoi dipendenti, che i parametri fissati per gli avvocati possano essere utilizzati, in via analogica, con opportune riduzioni, anche per i funzionari in giudizio. Avv. Paolo Del Vecchio Avvocato dello Stato Grazie Geppino, un bel problema questo del pubblico impiego che l’avvocato Arpaia segue anche nei corsi per i funzionari perché, fra l’altro, c’è il problema del trasferimento delle nozioni di diritto processuale civile a funzionari che non hanno mai avuto esperienze di udienza. Un compito difficile. Prof. Giuseppe Palma Emerito di diritto amministrativo, Università degli Studi di Napoli Federico II “Prospettive sul ruolo dell’avvocatura pubblica nella articolazione costituzionale della repubblica” 1. Devo al lusinghiero invito fattomi dall’Avvocatura Distrettuale di Napoli, organizzatrice del Convegno sul “Ruolo dell’Avvocatura pubblica nel processo di crescita del Paese”, se mi è stata offerta l’occasione fortunata di portare l’attenzione, in termini tecnico-giuridici, sulla complessa ed interessante tematica dell’evoluzione, subita in più di centocinquanta anni dalla istituzione dell’Avvocatura dello Stato (per antonomasia pubblica) nell’ambito delle coordinate istituzionali statali; è ovvio, ed è appena il caso di precisare, come sia di estrema utilità interrogare l’intero percorso storico evolutivo della INCONTRO DI STUDIO 57 benemerita istituzione per poter intuire e disegnare le prospettive della sua azione di presenza attuale e futura, in garanzia della legalità dell’azione amministrativa nel consolidamento, che si augura sempre più netto e convinto, della civiltà ordinamentale repubblicana, secondo l’impellente suggerimento proveniente dalla sistematica costituzionale. Non è affatto un mistero la circostanza secondo cui la prospettiva di funzionamento di ogni soggetto istituzionale ed ancora più di ogni tematica istituzionale impone di interrogare il suo passato remoto, secondo una inovviabile sensibilità storico-politica, al fine di saggiare il ruolo che detti soggetti sono chiamati a svolgere nel mutato clima dell’ambiente istituzionale, e dunque appare di estrema utilità ai fini presenti, procedere all’esame del modulo operativo svolto dall’Avvocatura nel funzionamento complessivo al di sotto, ovvero al di sopra della normativa succedutasi nel tempo, affidandosi al principio, che a chi scrive appare incontrastabile, che sono quasi sempre le istituzioni che in forza del loro concreto operare, configurano il “regime” della propria azione e non la legge formale la quale, e sempre che subentri una adeguata attenzione, serve soltanto a verbalizzare le modifiche di funzionamento (e quindi di ruolo) che la quotidianità operativa si è incaricata di stabilizzare. E quanto si è appena rilevato assume soprattutto rilievo e consistenza argomentativa in ordine alla istituzione dell’Avvocatura dello Stato, sulla quale sono stato invitato a rimeditare, poiché soltanto una ingiustificata disattenzione potrebbe indurre a credere che il delicato ruolo funzionale, da essa svolta sin dalla unificazione dello Stato, si sia conservato inalterato nelle differenti fasi storico-politiche, che hanno nel tempo connotato la compagine nazionale. Infatti come si avrà cura di dimostrare l’Avvocatura dello Stato soltanto apparentemente sembra essere rimasta fedele alla sua originaria logica istituzionale, soprattutto se ci si affida ad interrogare lo scarso apparato di normazione formale, il quale a sua volta, sembra incedere mediante minime riforme (ma su questo punto si ritornerà), laddove l’organizzazione dell’Amministrazione pubblica ha registrato profondi mutamenti, che hanno impresso altrettante profonde modifiche nella funzionalità operativa di questa, effetto diretto (ma a volte non immediato) dei differenti regimi politico-istituzionali determinanti le ben note tappe della nostra vita nazionale. Sarebbe sufficiente memorizzare che l’istituzione in esame nasce nell’ordinamento giuridico unitario, vale a dire nel regime politico-istituzionale monarchico, per approdare, superato il regime autoritario, nel clima repubblicano e costituzionale attuale, per quanto quest’ultimo ancora in grado di una ricomposizione sistemica. Si comprende allora come debba apparire corretta la chiave di indagine adottata in questa occasione, nel senso specifico di avviarsi a dimostrare come i notevoli mutamenti, che possano riscontrarsi nel ruolo funzionale dell’Avvocatura, debbano essere considerati conseguenti, senza ragionevole dubbio, alle modifiche storiche del generale clima istituzionale e 58 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 starei per dire all’ambiente istituzionale generale nel cui ambito essa è destinata ad agire, progressivamente mutato, ma anche mi preme di aggiungere, al notevole accreditamento professionale dei suoi appartenenti lungo un ininterrotto itinerario, che risale alla sua stessa origine, sulla cui notevole professionalità e profonda cultura tecnico-giuridica la pubblica Amministrazione ha sempre costantemente fatto affidamento. Cosicché le successive vicende istituzionali del nostro Paese non hanno affatto, secondo l’opinione di chi scrive, interrotto l’indirizzo evolutivo impresso storicamente al ruolo funzionale dell’Avvocatura, anche perché l’elevato grado della sua competenza professionale ha, per così dire, confortato l’affidamento costante che l’Amministrazione (naturalmente governativa) ha sempre stimato di poter riporre in essa. Una tale ampia premessa è giustificata dalla constatazione, facilmente verificabile, che la dottrina giuridica, specialmente nel tratto della vita istituzionale postcostituzionale, ha trascurato lo studio dell’Avvocatura probabilmente a causa dell’assenza di previsione ad opera della Carta (diversamente ad esempio del Consiglio di Stato, della Corte dei Conti, ecc.), per cui, non si è penetrato funditus lo “spessore” dell’attività progressivamente svolta ed accreditata nella reale dialettica giuridica, tralaticiamente tramandando l’immagine dell’Avvocato di Stato nei termini inesaustivi del mero attore dell’agone contenzioso, vale a dire del solito contraddittore nel processo intentato dal privato- cittadino contro la p.A.. In verità non si deve obliterare che l’istituzione in esame è stato oggetto di pregevoli studi, soltanto ad opera di notevoli autorevoli rappresentanti della stessa Avvocatura, che ho avuto modo di consultare, come ad esempio le Relazioni dell’Avvocato Generale, tradizione a quanto pare malauguratamente interrotta, e di altri suoi preparatissimi componenti, ma una tale produzione di studi, ancorché di estremo interesse, non hanno obiettivamente ovviato alla più sopra rilevata “astensione” della ricerca dottrinale, specialmente espressa in termini di ricostruzione dommatica della istituzione, e ciò perché, e se ne comprendono facilmente le ragioni, gli Autori, componenti della istituzione, assecondano più i propri interessi di conoscenza operativa e difficilmente sono spinti ad obiettivizzare l’oggetto dell’indagine, nel senso più specifico il singolo componente- autore è quasi sempre indotto ad approfondire le problematiche, anche difficili e non si nega, coinvolgenti la propria concreta azione che si è attuata, ovvero si intende attuare, conformemente all’osservazione di chi è quotidianamente in “trincea”, in una situazione cioè inidonea solitamente a scorgere i tratti fondamentali della globale azione dell’istituzione. Queste ultime osservazioni rendono pienamente conto come la sensazione, da me nutrita nel dedicarmi allo studio dell’istituzione in parola, sia che un siffatto studio risulti immotivatamente negletto, anche in ragione della sopraggiunta convinzione che il “novellato” ruolo della Avvocatura, in termini di INCONTRO DI STUDIO 59 operatività funzionale, possa costituire un importante angolo visuale da cui saggiare l’attuale atteggiamento “fisiologico” di molte altre coordinate dell’istituzione repubblicana, infatti, non credo di errare, esse così vengono penetrate nel loro intimo funzionamento, più che nella loro configurazione formale. 2. Tutto quanto premesso passo ad esporre in termini più che brevi, i tratti che mi appaiono significativi del continuo evolversi del ruolo istituzionale dell’Avvocatura Pubblica, avvertendo di non considerare ultroneo, né addirittura inutile, che a tal fine sia costretto a richiamare alla memoria vicende giuridico- storiche abbastanza note, poiché non deve considerarsi improficuo ripercorrere conosciuti itinerari se ciò serve a pervenire a nuove ricostruzioni e quindi a rinnovare la conoscenza della tematica indagata. In proposito vi è anche da sottolineare che l’attenzione non si soffermerà soltanto sulla consueta impostazione che si limita a saggiare il ruolo dell’Avvocatura quasi esclusivamente, o comunque in modo preponderante, in termini dell’attività difensionale, nella quale si ritiene comunemente che si esaurisca l’azione di presenza dell’Avvocatura sulla scena processuale, per quanto anche quest’ultimo profilo ha subito un rilevante allargamento specie con l’avvento dell’ordinamento repubblicano-costituzionale, poiché è altrettanto influente che l’osservazione venga spostata anche sulla funzione consultiva tecnico-legale, la quale, come si dirà, viene sempre più svolta non soltanto in stretta connessione con l’attività difensionale ed in occasione della sua esplicazione, ma anche indipendentemente da questa sia pure teleogicamente collegata sempre alla garanzia della legalità ordinamentale, come si avrà modo di meglio precisare in seguito. In altri termini se si continua a fissare lo sguardo soltanto sul ruolo difensionale degli interessi pubblici, peraltro non molto differente dall’attività in concreto esercitata dall’avvocato del libero foro, si perde addirittura l’interesse ad incedere nella conoscenza dell’intima essenza della funzione esplicata dall’Avvocatura (e ciò forse può giustificare la più sopra rilevata emarginazione dell’argomento in ambito dottrinale), viceversa estendendo il raggio visivo anche sull’attività consultiva, che si è andata sempre più incrementando pur’anche in assenza di specifiche disposizioni formali, in quanto essa, soprattutto in concreto, anticipa o segue le stesse esigenze dell’esplicazione della funzione difensionale, si deve convenire, come nell’attuale momento, al fine di procedere alla esatta configurazione tecnico-giuridica dell’Avvocatura, nella sua complessiva essenza istituzionale, non si possa assolutamente evitare di esaminare entrambe le predette funzioni. E si preavverte che la funzione consultiva, sulla quale si pone in questa sede l’accento con insistenza, ha sortito una evoluzione tale che da una esistenza, per così dire, a basso rilievo ha assunto oggi una dimensione a tutto tondo, trascinando con sé, in questo movimento, l’intera Avvocatura, che ha finito per conquistarsi un ruolo proprio ed autonomo tra le maggiori istituzioni dell’ordinamento repubblicano, allontanandosi decisamente dalla originaria 60 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 consistenza di mero tratto dell’organizzazione burocratica statale. Va ricordato infatti che l’istituzione in esame nasce nel mondo giuridico dello Stato unitario, sulla falsariga dell’omologa istituzione del preesistente Stato toscano, come Avvocatura erariale e la denominazione rende ben conto anche dello scopo che era chiamata a privilegiare e cioè, sulla falsariga degli antichi Stati preunitari improntati alla filosofia politica dello stato patrimoniale di cui, in un certo modo, si faceva garante lo stesso vertice, l’autorevole Mantellini, già vertice dell’istituzione toscana, assumeva quasi l’esclusiva competenza della difesa del fisco, della finanza pubblica in un periodo di notevole crisi delle finanze del nuovo Stato a seguito del lungo periodo delle guerre di indipendenza, in altri termini e più precisamente l’Avvocatura erariale era preposta a garantire e tutelare gli interessi più strettamente legati alla maggiore prerogativa della compagine statale, connessi alla sua stessa sopravvivenza, in conseguenza si richiedeva una difesa strenua dei gelosi interessi fiscali, soprattutto se si considera che occorreva unificare i differenti sistemi fiscali esistenti negli stati preunitari. Era ovvio che l’Avvocatura fosse intesa e fosse stata configurata come “servente” della compagine governativa, come un semplice ufficio burocratico alle dipendenze di detta compagine e inquadrata nella complessiva, e per allora non ancora complicata in dimensione, organizzazione burocratico amministrativa, i cui componenti erano astretti a quest’ultima da una sorta di relazione gerarchica. In proposito non si obietti che, per alcune affermazioni del Mantellini, la configurazione giuridica dell’Avvocatura erariale sarebbe potuta essere delineata secondo una chiave differente, in quanto la sua prospettazione è da interpretarsi in termini di futura evoluzione, ed anche perché il suo maggiore apporto ricostruttivo deve apprezzarsi sul delicato piano della soluzione dei conflitti tra giudice ordinario e pubblica amministrazione, che affaticava gli studiosi di allora, conseguenza dell’adottata legge sull’abolizione del contenzioso amministrativo. D’altronde il sistema appena disegnato poggia profondamente sull’imperante ideologia del tempo, la quale, adottando sin dall’inizio la ben nota teoria economica liberista (leisser faire), induceva a limitare le funzioni statali a quelle ritenute essenziali per il consolidamento della nuova compagine, com’è storicamente comprovabile, in conseguenza il prelievo dei tributi e più in generale una regolare gestione delle finanza rappresentò per lungo tempo il compito principe dello Stato. Il tutto giustificato, anche sul piano teorico da un’organizzazione generale Stato-centrica, perseguita decisamente al grido “tutto nello Stato”, come la dottrina, anche suggestionata da indirizzi filosofici, ebbe cura di ampiamente illustrare. Ed anche quando, in seguito con l’avvento delle forze politiche progressiste, la classe politica nazionale si avviò, in principio timidamente, a recuperare nell’azione statale sempre più nuovi interessi sociali, e dunque nuovi compiti entrarono nell’ambito della gestione amministrativa, il favore per la INCONTRO DI STUDIO 61 teoria organizzatoria Stato-centrica non si attenuò minimamente anche quando vide la luce il fenomeno cd. binario, per cui furono creati numerosi enti pubblici, pubblici appunto perché essenzialmente statali; e si accreditò ancor più il preesistente sistema, nel quale può essere configurato, sul piano funzionale, il soggetto Stato come il sole intorno al quale gravitano e sono destinatati a gravitare i nuovi pianeti, vale a dire i soggetti entificati, che devono perciò sottostare all’indirizzo di azione impartito dalla maggioranza politica al potere, quasi sempre inglobato nella normazione legislativa di riferimento. È pur vero che l’Avvocatura, denominata in seguito Avvocatura dello Stato (e la nuova denominazione fu tutt’altro dettata da mere esigenze nominalistiche, come ben si comprenderà), a causa appunto dell’allargamento dell’azione statale, con la sempre maggiore “invasione” nella vita sociale, vide l’attenuarsi della tutela del profilo fiscale-finanziario ed il sopraggiungere, nei suoi compiti di istituto, la difesa dello Stato (ivi inclusi degli enti pubblici) anche in ordine ai nuovi interessi e quindi alle nuove funzioni che si assumevano progressivamente; pur tuttavia la posizione organizzatoria dell’Avvocatura dello Stato, riprendendo l’esposizione principale, non viene a mutare per la incrollabile fede nella teoria Stato-centrica. La qual cosa può confermarsi anche spostando lo sguardo sull’invalsa teoria, secondo cui la legalità dell’azione amministrativa andava garantita “nella Amministrazione”, poiché in quel tempo si reputava che, garantendo la legalità ed il rispetto della legge da parte della p.A., per ciò stesso venivano tutelate le situazioni giuridiche e con essi i diritti di libertà dei cittadini; e pertanto, sotto questo profilo, tutto doveva svolgersi nell’ambito dell’Amministrazione accentrata e gerarchizzata. In proposito va anche ricordato che mancava ancora un giudice amministrativo, il quale venne istituito dopo alcuni anni e pur sempre legato al rispetto del cordone ombelicale con il governo, in conseguenza le sorti delle situazioni giuridiche dei cittadini erano affidate esclusivamente all’esercizio dei ricorsi amministrativi gerarchici (ed anche con la successiva istituzione della GPA la situazione generale subì scarse modifiche). È comprensibile come l’Avvocatura rimanesse ai margini di un siffatto affresco e venisse meno anche l’interesse speculativo ad indagare la sopravvivenza di quella relazione che ho fin qui definito “servente” alla stessa logica esistenziale della pubblica Amministrazione (burocratica). 3. Era più che ovvio che una tale impostazione tecnico-giuridica dovesse ulteriormente irrigidirsi nella fase storica del fascismo, nella quale si ebbe cura di portare alle estreme conseguenze, a livello pratico, l’idea Stato-centrica che, rimaneva pur sempre un’idea filosofico-politica, basti pensare che anche le autonomie locali vennero statalisticamente “commissariate” mediante l’istituzione del podestà. Quel sole, di cui si è parlato prima, è come se avesse infinitamente aumentato l’irradiazione dei raggi gamma, invadendo la stessa vita sociale, nella 62 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 sua più intima organizzazione, pertanto ogni pur minimo concetto di indipendenza, anche nei meri termini di autonomia funzionale, venne abbandonata anche sul piano di ricostruzione concettuale ad opera della dottrina (ed ancora una volta si giustifica forse l’astinenza conoscitiva dell’istituzione in esame). In conseguenza la configurazione dell’Avvocatura, in termini di un ufficio perfettamente integrato nell’universo burocratico, ottenne la consacrazione ufficiale con il ben noto t.u. del 1933, con i quali i rapporti di servizio degli avvocati, nell’ambito dell’ufficio, venivano disciplinati in forza dei sanciti livelli, così come i restanti dipendenti pubblici. Per fortuna il sistema solare, per continuare con la metafora introdotta, non si è soltanto limitato ad assistere all’avanzare sulla scena giuridico-politica dei nuovi ordini concettuali che sono stati sistematicamente ed organicamente assunti nella Costituzione. È vero che l’istituzione dell’Avvocatura, come si è premesso, non risulta oggetto di una previsione costituzionale, diversamente ad esempio da altri organi, cui si è inteso conferire un’evidenza particolare, come Consiglio di Stato, Corte dei Conti, CNEL, e ciò va memorizzato per quanto si dirà in conclusione. Sotto un certo profilo la cosa può anche spiegarsi, perché la rinvenuta configurazione giuridica dell’Avvocatura come articolazione burocratica dovette convincere e non soltanto i Costituenti, ma soprattutto gli autorevoli studiosi, che svolsero interessanti studi in preparazione dei lavori dell’Assemblea, di tralasciare l’istituzione in parola, poiché appunto ritenuta fino ad allora un mero tratto della complessiva macchina amministrativa. In verità si potrebbe anche sostenere, all’unisono con alcuni settori dottrinali, che l’osservazione testè fatta troverebbe la sua giustificazione nel rilievo, secondo cui è l’intera p.A. a non rivenire nella Carta una più compiuta attenzione. Certo si potrebbe obiettare che in materia la disciplina “formale” costituzionale risulta innegabilmente “esigua”, ma certo non può ritenersi che ciò sia dovuto ad una mera disattenzione, specialmente ove si consideri che la disciplina costituzionale costituisce nella sua intima essenza una reazione al precedente regime, infatti sono convinto che, nel generale clima costituente, ci fosse una notevole sensibilità per l’organizzazione ed il funzionamento della struttura amministrativa, frutto dei preziosi studi di preparazione, si ricordino in proposito gli studi prodotti dalla 1° e 2° Commissione Forti (in questa occasione si pensò di disciplinare costituzionalmente addirittura il procedimento amministrativo); cosicché sotto quest’ultimo profilo, sorge la necessità di sensibilizzarsi sull’implicita potenzialità delle riscontrate scarne disposizioni approvate e soprattutto della disposizione contenuta nell’art. 97, 1° comma, per quanto qui interessa. Ai nostri specifici fini è sufficiente notare come sembri plausibile che la scena, proiettata in sede costituente, è quella che configura l’Avvocatura parte della preesistente Amministrazione, in conseguenza si può desumere come anche all’Avvocatura vada esteso il principio-valore della imparzialità e pertanto si impone che essa debba essere organizzata funzionalmente secondo l’evolversi INCONTRO DI STUDIO 63 storico di un siffatto valore; in conseguenza l’attenzione conoscitiva va indirizzata nella prospettiva di una potenziale indipendenza favorita dal progressivo suo “distanziamento” dal centro-governo, vertice dell’apparato burocratico. Ma ogni ulteriore argomentazione a suo tempo. Qui invece, e sempre a conforto di quanto appena detto, va osservato altresì che il sistema organico costituzionale ha infranto definitivamente la gravitazione del sistema solare (Stato - centrico), poiché a tale sistema, ed al suo antecedente logico filosofico, ha sostituito una sorta di galassia in forza della previsione di una pluralità di soggetti politici (ed amministrativi), che compongono per l’appunto una Amministrazione pluralista e che connota l’intero ordinamento repubblicano. Quest’ultimo aspetto sarà ripreso anche più avanti, però urge far notare come, a seguito dell’implosione della compatta struttura amministrativa, si sono moltiplicati i centri-soggetti istituzionali, fuoriuscenti in concreto dalla gravitazione politica dell’autorità governativa, secondo un fenomeno paragonabile a quello del distanziamento delle piattaforme continentali, realizzatosi in lontanissime ere geologiche, e si comprende perciò come anche l’istituzione Avvocatura, secondo il progressivo attestarsi di un siffatto fenomeno, finisca per assecondarlo e interrompendo la posizione di servente (ma ciò anche per altre ragioni che saranno espresse più avanti), produca, soprattutto in termini funzionali, un analogo fenomeno di distanziamento dalla restante struttura organizzatoria dell’Amministrazione statale (governativa), vale a dire dalla sua originaria connessione burocratica. Non nascondo che siffatti mutamenti istituzionali si realizzano in lunghi periodi storico - politici, prevenendo, come si è già detto, anche la stessa disciplina legislativa, per quanto in materia è da avvertire che il fenomeno descritto ha trovato una iniziale testimonianza nella intervenuta normazione del 1979, quindi in periodo post-costituzionale, in forza della quale i consacrati livelli sono stati sostituiti con le qualifiche funzionali, che hanno stemperato il tralaticio “sapore” di gerarchia burocratica, eredità di ben differenti coordinate istituzionali, (=Avvocatura erariale), e soprattutto, si sono introdotte, nell’organizzazione della istituzione Avvocatura generale, una notevole serie di articolazioni funzionali, le quali, in forza del favore prestato per un’attività tendenzialmente collegiale, funzionano (e possono funzionare) come forza attrattiva anche del normale dispiegarsi delle funzioni ad opera dei singoli componenti, causa ed al tempo stesso effetto dell’interruzione della soggezione gerarchica di questi; ma tutto ciò, come si comprende, spinge sempre più la istituzione ad intraprendere la via dell’indipendenza funzionale ed intendo la istituzione nella sua complessiva consistenza oltre che i singoli componenti nell’esercizio delle proprie funzioni. 4. Prima di indirizzare i passi verso la conclusione, che già forse può essere intuita, occorre rivolgere l’attenzione sulla reale essenza della funzione 64 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 che l’Avvocatura (ed i singoli avvocati) svolge da tempo, soltanto in parte in forza di dati normativi, poichè i connotati concreti di questa potenziata funzione possono suggerire un possibile indirizzo ricostruttivo. A tal proposito si può rilevare come l’accennato distanziamento dalla Amministrazione statale può dirsi ormai operata qualora si proceda a enumerare i molteplici enti che successive leggi hanno progressivamente affidato alla “cura” difensionale dell’Avvocatura (sul punto ci si limita a rinviare all’opera di M. GERARDO e A.MUTARELLI su “Il processo nelle controversie di lavoro pubblico”, che in questa si è presentato; l’opera contiene il completo elenco di detti enti e le rispettive disposizioni legislative di attribuzione). Tra questi enti conviene ricordare le Regioni a statuto speciale e quelle a statuto ordinario, qualora queste deliberino con atti generali debitamente pubblicati in Gazzetta o affidino singoli mandati difensionali; è da sottolineare che nella specie l’attività difensionale si estende anche a livello di funzioni delegate ai Comuni. Come pure è da ricordare che l’Avvocatura è chiamata anche a difendere il Governo innanzi alla Corte Costituzionale, ma in questa sede anche le Regioni che abbiano conferito il mandato, ed ancor più è chiamata a difendere lo Stato innanzi ai giudici europei e più in generale innanzi a quelli internazionali. In questa prospettiva è da anticipare una considerazione di sommo interesse, poiché non va sottaciuto che in queste sedi l’Avvocatura opera non più in difesa della legittimità dell’azione amministrativa, bensì in difesa anche dei diritti fondamentali, starei per dire in garanzia dell’ordinamento costituzionale e, quindi, della legalità costituzionale. E ciò accade anche e soprattutto in sede di giustizia europea (o internazionale), dappoichè molti diritti fondamentali sono introdotti nel nostro ordinamento ed ottengono ordinaria circolazione in forza del diritto europeo, ovvero in forza di trattati ed accordi internazionali. A questo livello è cosa nota che l’Avvocatura presta la propria opera affinché sia fatta chiarezza sull’ambito di influenza di detti diritti. Anzi è opportuno aggiungere che, come è pienamente riscontrabile negli ultimi tempi, la garanzia dei diritti fondamentali, anche a causa della non prevista facoltà per il cittadino di adire direttamente la Consulta, si va sempre più dislocando in sede europea, laddove la Corte Costituzionale viene preponderantemente interessata a risolvere i conflitti tra Stato e Regioni, specialmente dopo l’approvazione del nuovo Titolo V della Costituzione, che può prevedersi indurrà le Regioni a superare la finora mantenuta “timidezza”. Ma allora non si erra se si ammette che, nell’ambito della garanzia della legalità costituzionale, l’Avvocatura assume anche il ruolo di tutela della corretta dialettica instaurata tra i soggetti istituzionali di cui si compone la Repubblica e perciò, garantendo il relativo fisiologico esplicarsi, finisce per garantire l’ordinamento repubblicano. Non va peraltro sottovalutato, in ragione di quanto premesso, che quanto più la Comunità -Unione europea procederà INCONTRO DI STUDIO 65 sulla strada di “stringere” i ranghi in termini di una convinta unione politica, com’è auspicabile, il diritto europeo sarà destinato in conseguenza a ristrutturare anche concettualmente l’ordinamento interno e pertanto esso potrà essere maggiormente azionato innanzi ai giudici territoriali (del resto come già avviene), cosicché l’Avvocatura, avocata innanzi ai nostri giudici, finirà per garantire il rispetto dell’ordinamento comunitario e mediatamente quello interno. Si può far notare come, pur soffermandosi esclusivamente sull’attività difensionale, non possa (e non debba) sfuggire che l’Avvocatura, muovendo dalla mera difesa degli interessi gelosi dell’apparato dell’Amministrazione burocratica statale, ha finito per approdare nella “nobile” posizione di garante della legalità costituzionale e della fisiologica dinamica funzionale dell’ordinamento repubblicano. Ma questo mutamento a 180° è maggiormente apprezzabile spostando il cono di luce sulla connessa funzione consultiva, che pur si esplica largamente quantunque non sempre con emergenti atti formali. È da avvertire, in quanto utile alla conclusione, che l’attività consultiva esplicata dall’Avvocatura di Stato, nella sua intima essenza, si distingue ovviamente da quella formalmente esercitata dal Consiglio di Stato (ed in questa sede ci si limita a questo solo raffronto significativo), poiché, mentre la consulenza del Consiglio plana anche sul terreno dell’opportunità (cd. merito), quella dell’Avvocatura si svolge (e deve svolgersi) nei confini della consulenza tecnico-legale. Sotto quest’ultimo profilo e per accelerare l’andamento discorsivo, può ricordarsi che è possibile riscontrare una frequente interlocuzione con il Governo ed a volte anche con il Parlamento, tesa ad ottenere suggerimenti circa la corretta impostazione di una disposizione in termini tecnico-legali, ossia ad ottenere idonei suggerimenti sulle modifiche da apportare alle vigenti disposizioni sotto la prospettiva peculiare della loro difendibilità in eventuali giudizi contenziosi. Ancor più è da menzionare l’attività di consulenza che l’Avvocatura può svolgere a favore delle Regioni che affidano ad essa la funzione difensionale e qualora sia da queste sollecitata. Anzi a conti fatti una siffatta funzione può ritenersi in progressivo allargamento, ove si faccia attenzione alla circostanza che il TAR, e diversamente dal Consiglio di Stato, non è tenuto istituzionalmente ad emettere pareri. L’aspetto però che maggiormente merita una penetrazione argomentativa è quello attinente alla interconnessione funzionale, a dir così, tra i due profili: difensionale e consultivo nel cui ambito è tenuto ad esplicarsi l’intervento dell’Avvocatura. A tal proposito è sufficiente notare come sia difficile e per converso utile che la stessa attività difensionale si accompagni ad una preventiva valutazione tecnico-legale della correttezza (o meno) del comportamento assunto da un soggetto amministrativo. Il singolo avvocato dello stato, proprio in gloria della interruzione della relazione di “servente” e quindi della relativa indipendenza, conquistata sul campo per la pregevole professionalità dimostrata lungo il percorso storico della istituzione, deve, al fine di svolgere com- 66 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 piutamente il proprio ruolo, poter rilevare all’Amministrazione, che chiede la prestazione difensionale, le riscontrate illegittimità del proprio operato e dunque deve poter consigliare di non intraprendere un percorso contenzioso, nonché di apportare quelle modifiche stimate necessarie per ricondurre una data azione nel solco del rispetto della legge, minacciando pur’anche di non difenderla, quantomeno in futuro, stante la sicura sconfitta in giudizio e quindi la indefendibilità, sotto il profilo della legittimità, dell’orientamento amministrativo in via di consolidamento. In conseguenza, ove si fissi l’attenzione su questo specifico nodo problematico, si può dedurre come l’intervento dell’Avvocatura non si limiti ad assumere il ruolo del braccio, per così dire, anchilosato di difesa ad oltranza delle ragioni prospettate dalla singola Amministrazione, bensì rappresenta (ovvero è venuta nel tempo ad assumere un siffatto ruolo) quell’occhio vigile dedito a scrutare le ipotesi in cui la strategia amministrativa non trova fondamento nel fedele rispetto della legalità (pertanto non può condividersi l’atteggiamento che a volte assume l’Avvocato nel limitarsi ad introdurre in giudizio i documenti forniti dall’Amministrazione convenuta). Il ruolo attuale dell’Avvocatura di Stato dunque non si esaurisce, perlomeno non più, nella sua avocazione in giudizio, ma ha allungato il suo raggio visivo (perlomeno è legittimata a farlo) sull’intera azione amministrativa, ancorché in termini tecnico-legali, prima e dopo la vicenda contenziosa suggerendo, per esempio, di evitare di intraprenderla perché indifendibile, o dopo nel consigliare come conformarsi al giudicato al fine di escludere ulteriori complicazioni contenziose. Ecco perché, diversamente dal passato, si parla sempre meno della facoltà di far ricorso ad avvocati del libero foro, perché questi possono svolgere un siffatto apprezzamento nei confronti del cliente, ma ciò è connesso al grado di etica professionale del singolo professionista, laddove l’Avvocato di Stato è istituzionalmente tenuto, integrando un suo specifico dovere, poggiante sul complessivo ruolo assunto storicamente dall’istituzione. Se quanto premesso è condivisibile allora si può anche orientarsi nello scorgere nel nuovo ruolo, che l’Avvocatura ha assunto soprattutto in forza dei mutamenti subiti dalle generali coordinate istituzionali, non soltanto (e non tanto) quello del difensore degli interessi pubblici perseguiti in via amministrativa, ma anche (e piuttosto) quello di garantire il rispetto della legge da parte della pubblica Amministrazione, inquadrabile perciò tra i preesistenti presidii della legalità ordinamentale e costituzionale. In ordine a quest’ultima affermazione non si deve obliterare che l’azione amministrativa sta progressivamente cambiando i propri connotati in ragione della progressiva attuazione del dettato costituzionale, in questa successiva fase di incrementato vigore, come può rilevarsi dall’attenuarsi dell’antica rigorosa autoritatività a favore dei moduli partecipativi e consensuali, di modo che, con la piena esplicazione funzionale, l’Avvocatura di Stato acquista il INCONTRO DI STUDIO 67 merito anche di introdurre nelle antiche prassi burocratiche i “fermenti” dell’innovazione, riflessi della Costituzione. 5. Si è così pervenuti alla conclusione sulla base dei presupposti non soltanto argomentativi, ma anche tecnico-giuridici, messi a dimora nel lungo discorso, i quali possono essere condivisi esclusivamente da chi è capace di squarciare la nebulosità di una lettura formale e pervenga con notevole sensibilità giuridico-storica a tastare il polso del concreto svolgersi della funzione. Si è affermato come l’istituzione Avvocatura di Stato, soprattutto in forza della stimata professionalità dei suoi componenti, sia approdata nell’importante ruolo di presidio della legalità, garantendo che essa venga rispettata dalla pubblica Amministrazione e dai molteplici soggetti istituzionali di cui la prima si compone, nell’attuale clima democratico repubblicano, e ciò indipendentemente dall’essere divenuta oggetto specifico di normazione formale ed anche in assenza di una peculiare menzione costituzionale, diversamente da altri organi, come si avuto già l’occasione di ricordare, Consiglio di Stato, Corte dei Conti, i quali, ove attentamente si osservi anch’essi hanno subito modifiche rilevanti soprattutto sul piano della loro collocazione istituzionale (su questo punto non è il tempo di soffermarsi), in forza quasi esclusivamente del loro concreto atteggiarsi nella esplicazione delle funzioni istituzionali. A quanto pare tra questi menzionati presidi di legalità, che hanno avuto il privilegio della previsione costituzionale, in termini configurativi di organi ausiliari, per la lunga evoluzione subita, l’Avvocatura può correttamente essere inquadrata. In altri termini, sul consistente piedistallo di costituzione materiale, l’Avvocatura è andata guadagnandosi la configurazione istituzionale di organo ausiliario, ricollegandosi anch’essa alle altrettanto nobili ascendenze della Costituzione però “materiale” e pertanto, coerentemente ad una siffatta logica istituzionale, si è legittimato il suo attuale e futuro comportamento funzionale. L’onestà intellettuale impone che ricordi come una tale configurazione risulti già intrapresa da autorevoli studiosi come l’Avvocato Generale Mazzella ed il mio Maestro Sandulli nel suo ben noto Manuale; ma mentre il primo sembra di essersi espresso in termini assertivi, il secondo preferisce però includere l’Avvocatura in una amplissima categoria, ricomprendendovi anche i Consigli di Amministrazione dei singoli ministeri ed il Consiglio superiore della P.A, ecc.; senonchè una tale estensione dei confini categoriali non pare restituire giustizia alla istituzione qui in esame. Sembra infatti più giusto che una tale ricostruzione concettuale vada riservata a quegli (e soltanto a quegli) organismi che presentino un modello organizzatorio e funzionale analogo a quello attribuito e posseduto dalle istituzioni contemplate nella Costituzione formale. Ed è bene precisare che in ordine all’Avvocatura di Stato, a causa del forte impulso evolutivo subito senza soluzione di continuità, che ha impresso in termini di organizzazione ed in termini di funzioni espletate, un notevole grado di indipendenza, sembra di poterle riconoscere il paradigma organizzatorio e 68 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 funzionale di organo ausiliario, ma se questo costituisce il dedotto effetto, esso rappresenta anche la causa efficiente del suo attuale e futuro funzionamento; si può presumere infatti che una volta riconosciutole e legittimato il nuovo ruolo, l’ulteriore continuità dell’azione esplicata non potrà non produrre una sempre maggiore indipendenza funzionale, mentre sarà archiviata nei documenti degli storici il vecchio attribuito di “servente”. Poche ultime espressioni conclusive. Si è messo in evidenza come l’Avvocatura di Stato abbia fino a tempi recenti navigato a vista, pur attingendo professionalmente pregevoli riconoscimenti nella sua esistenza istituzionale, ora è da convenire come la navigazione futura possa e debba seguire la carta nautica, che si è andata progressivamente delineando, e non vi è dubbio, e ne sono convinto, che in essa si rinvengono esperti nocchieri capaci di tenere la rotta, la quale peraltro e sotto molti profili deve concorrere auspicabilmente a consolidare le fortune dell’ordinamento democratico repubblicano. INCONTRO DI STUDIO 69 Sulla difesa in giudizio degli enti regionali (Nota a C. Costituzionale, sentenza 22 maggio 2013, n. 91) La pubblicazione degli atti sulla Rassegna dell’incontro di studio, tenuto a Napoli nel novembre 2012, su “Il ruolo della avvocatura pubblica nel processo di crescita del Paese”, avviene in concomitanza con il deposito, il 22 maggio 2013, di una sentenza della Corte Costituzionale, la numero 91, che pone, in maniera puntuale e critica, una questione sui compiti delle “avvocature regionali”. La vicenda è semplice e non priva, alle origini, di una qualche connotazione sindacale, nascendo da un diniego espresso dagli stessi avvocati interessati a svolgere compiti, ritenuti, ultronei rispetto alle loro originarie funzioni di dipendenti del servizio legale della Regione. L’Avvocatura regionale della Campania, infatti, era stata investita, attraverso la Legge Finanziaria regionale del 2009, del compito di darsi carico anche della consulenza legale e della difesa in giudizio degli enti regionali e/o delle strutture entificate della stessa Regione Campania. L’allargamento dei compiti dell’avvocatura regionale sarebbe dovuta avvenire attraverso convenzioni organizzative con gli enti ausiliati. La scelta, “sorretta da apprezzabili finalità di contenimento della spesa pubblica” (come riconosce la stessa Corte Costituzionale), si pone tuttavia in contrasto con l’art. 117 comma 3 della Costituzione, che riserva alla sola legge statale il potere di fissare regole uniformi sulle modalità di esercizio della professione forense: gli avvocati degli enti, che mantengono la veste di veri e propri dipendenti e sono iscritti ad un albo professionale speciale, non possono quindi difendere al di fuori dell’ente cui appartengono. Si tratta, invero, di un forte limite pratico alla potestà generale delle regioni di organizzare in piena autonomia le proprie strutture amministrative “serventi”: se le dota di personalità giuridica autonoma non può “prestare” loro il suo ufficio legale interno, ma deve rivolgersi, ove l’ufficio ausiliato non disponga a sua volta di un servizio legale, ad avvocati del libero foro. La declaratoria di illegittimità costituzionale è ovviamente da condividere sul piano formale, ma impone - ad avviso di chi scrive - alcune riflessioni, che in qualche misura, riconducono al tema dell’incontro di studio di Napoli. Nel momento infatti in cui il legislatore nazionale incominciò ad articolare lo Stato unitario con le regioni a statuto speciale e, poi, a partire dagli anni Settanta, con le regioni a statuto ordinario, si fece carico di assicurare anche ai nuovi soggetti pubblici, che andava ad istituire, un sistema di consulenza legale e di difesa in giudizio coerente con la scelta di affidare in via obbligatoria ed esclusiva il patrocino delle amministrazioni dello Stato all’Avvocatura dello Stato. Il sistema, che in qualche misura si intendeva estendere alle regioni, aveva il vantaggio di assicurare trasparenza ed efficienza nella gestione 70 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 delle liti e tendeva a ricondurre anche il modello delle autonomie a quella parità tra potere pubblico, parte privata e giudice che la presenza di un “avvocato pubblico” in giudizio tradizionalmente garantisce. Oltre alla possibilità per le regioni di avvalersi in via esclusiva della difesa erariale attraverso una delibera di giunta a carattere generale - Art. 10 della legge n. 103/79: “Le funzioni dell'Avvocatura dello Stato nei riguardi dell'amministrazione statale sono estese alle regioni a statuto ordinario che decidano di avvalersene con deliberazione del consiglio regionale da pubblicarsi per estratto nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica e nel Bollettino ufficiale della regione… Qualora la regione abbia adottato la deliberazione di cui al primo comma, l'Avvocatura dello Stato assume la rappresentanza e difesa delle provincie, dei comuni, dei loro consorzi e degli altri enti per le controversie relative alle funzioni delegate o subdelegate, quando questi ne facciano richiesta”- la legislazione statale ha mantenuto - e vi sono conferme giurisprudenziali al riguardo - due norme, che possono diventare utili nel caso trattato davanti alla Corte Costituzionale. La prima è l’art. 107 comma 3 del vecchio DPR 24 luglio 1977 n. 616 a norma del quale “Le regioni possono avvalersi del patrocinio legale e della consulenza dell'Avvocatura dello Stato. Tale disposizione non si applica nei giudizi in cui sono parti l'amministrazione dello Stato e le regioni, eccettuato il caso di litisconsorzio attivo. Nel caso di litisconsorzio passivo, qualora non vi sia conflitto d'interessi tra Stato e regione, quest'ultima può avvalersi del patrocinio dell'Avvocatura dello Stato”. Si tratta di una norma generale, in grado di operare anche nel caso in cui manchi l’affidamento sistematico della rappresentanza e difesa regionale attraverso la deliberazione di cui al citato articolo 10 delle legge n. 103/79. Correlando tale norma alla potestà di autorganizzazione della regione, si potrebbe giungere facilmente ad un affidamento della difesa anche per gli enti regionali e sub regionali allorché risulti evidente che l’attribuzione della personalità giuridica autonoma non implica una separazione di interessi dell’ente rispetto alle competenze attribuite alle regioni (è il caso delle cosiddette Agenzie). La seconda norma è l’art. 43 del Regio Decreto 30 ottobre 1933, n.1611 che, emendato nel 1979, testualmente dispone: “1. L'Avvocatura dello Stato può assumere la rappresentanza e la difesa nei giudizi attivi e passivi avanti le Autorità giudiziarie, i Collegi arbitrali, le giurisdizioni amministrative e speciali, di amministrazioni pubbliche non statali ed enti sovvenzionati, sottoposti a tutela od anche a sola vigilanza dello Stato, sempre che sia autorizzata da disposizione di legge, di regolamento o di altro provvedimento approvato con regio decreto. 2. Le disposizioni e i provvedimenti anzidetti debbono essere promossi di concerto coi Ministri per la grazia e giustizia e per le finanze. 3. Qualora sia intervenuta l'autorizzazione, di cui al primo comma, la rappresentanza e la difesa nei giudizi indicati nello INCONTRO DI STUDIO 71 stesso comma sono assunte dalla Avvocatura dello Stato in via organica ed esclusiva, eccettuati i casi di conflitto di interessi con lo Stato o con le regioni. 4. Salve le ipotesi di conflitto, ove tali amministrazioni ed enti intendano in casi speciali non avvalersi della Avvocatura dello Stato, debbono adottare apposita motivata delibera da sottoporre agli organi di vigilanza. 5 Le disposizioni di cui ai precedenti commi sono estese agli enti regionali, previa deliberazione degli organi competenti”. È evidente quindi che sia le regioni che gli enti regionali hanno la possibilità astratta di ricorrere, per l’assistenza legale e la difesa giudiziale, ad un organismo tecnico dotato di una seria autonomia, quale l’Avvocatura dello Stato, garantendosi risparmi di spesa e trasparenza nella trattazione degli affari legali. Ma non v’è neppure un disfavore statale nei confronti della cosiddetta “difesa diretta”, cioè la trattazione del contenzioso giudiziale affidata ad uffici attrezzati interni delle singole strutture amministrative: si pensi ai giudizi innanzi al giudice di pace, alle cause di lavoro in primo grado, alla rappresentanza e difesa innanzi alle commissioni tributarie etc. Qui semmai il problema è quello di coordinare questa “difesa diretta” con le successive fasi di giudizio affidate all’Avvocatura dello Stato. Ma allora il tema proposto diventa uno solo, ed è quello di raccordare le funzioni di un istituto (ndr l’Avvocatura dello Stato) potenzialmente destinato ad assumere la difesa di tutte le articolazioni della Repubblica con il modo con il quale le regioni e gli enti regionali hanno inteso organizzarsi. Si tratta di proporre, attraverso aggiustamenti della legislazione statale, forme di intese istituzionali che garantiscano il risultato voluto di valorizzare la “difesa diretta”, e non alterino la regola, anch’essa istituzionale, che l’avvocato, anche quando difende l’ente cui appartiene, deve conservare - a tutela della funzione professionale - le garanzie che spettano al mestiere di avvocato. È questa la connotazione fondamentale della Avvocatura dello Stato che le consente potenzialmente di essere difensore tout court di tutte le amministrazioni pubbliche e in questo contesto l’idea di un patrocinio “in via organica ed esclusiva” può costituire utile volano per avviare forme di collaborazione e difesa coordinata di tutte le avvocature pubbliche. Ma, per avventura, era proprio questo il tema affrontato e discusso nell’incontro di studio a Napoli. G.F. 72 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 Corte Costituzionale, sentenza del 22 maggio 2013 n. 91 - Pres. Gallo, Rel. Cartabia - Giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 29, commi 1 e 2, della legge della Regione Campania 19 gennaio 2009, n. 1 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Campania – legge finanziaria anno 2009), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per la Campania (sezione terza) con ordinanza del 12 luglio 2011, nel procedimento vertente tra A. A. ed altri e la Regione Campania ed altri. Avvocati Alessandro Biamonte per A.A. ed altri, Riccardo Satta Flores per il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli e Beniamino Caravita di Toritto per la Regione Campania. Considerato in diritto 1.– Con ordinanza del 12 luglio 2011, iscritta al n. 249 del registro ordinanze dell’anno 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell’anno 2011, il Tribunale amministrativo regionale per la Campania (sezione terza) ha sollevato, in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 29 della legge della Regione Campania 19 gennaio 2009, n. 1 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Campania – legge finanziaria anno 2009), che abilita l’avvocatura regionale a svolgere attività di consulenza e a patrocinare in giudizio per gli enti strumentali della Regione e per le società il cui capitale è interamente sottoscritto dalla Regione e, allo scopo, consente la stipula di convenzioni tra la Giunta regionale da un lato, e gli enti strumentali e le singole società dall’altro, per regolare, in particolare, le modalità attraverso cui può essere richiesta l’attività dell’avvocatura regionale, quantificando anche i relativi oneri. La disposizione regionale censurata contrasterebbe con l’art. 3, secondo comma, del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578 (Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, e successivamente modificato dalla legge 23 novembre 1939, n. 1949 (Modificazioni alla legge forense), che prevede l’incompatibilità dell’esercizio della professione di avvocato con qualunque impiego o ufficio retribuito a carico del bilancio dello Stato o degli enti pubblici, stabilendo un principio derogabile, per quanto riguarda gli avvocati degli uffici legali di tali enti, solo per le cause e gli affari propri dell’ente presso il quale i professionisti prestano la loro opera e a condizione che siano iscritti nell’elenco speciale annesso agli albi professionali, ai sensi del medesimo art. 3, quarto comma, lettera b). La norma regionale censurata, secondo l’ordinanza di rimessione, estenderebbe illegittimamente le ipotesi di deroga alle incompatibilità previste dal legislatore statale, consentendo all’avvocatura regionale di svolgere attività di consulenza e di patrocinare in giudizio per enti diversi da quello d’appartenenza, dunque al di fuori di quanto consentito dalla normativa statale. Detta disposizione regionale, pertanto, violerebbe l’art. 117, terzo comma, Cost., che affida alla competenza legislativa statale la determinazione dei principi fondamentali in materia di professioni, tra cui rientrerebbe il menzionato art. 3 del regio decreto-legge n. 1578 del 1933. 2.– Occorre preliminarmente esaminare le eccezioni d’inammissibilità prospettate dalla difesa regionale. 2.1.– In primo luogo, deve essere rigettata l’eccezione relativa all’erronea individuazione e alla insufficiente specificazione dell’oggetto del giudizio da parte del giudice rimettente, il quale avrebbe censurato l’intero art. 29 della legge regionale n. 1 del 2009, che si compone di una pluralità eterogenea di disposizioni, aventi in comune la finalità di contenimento della spesa pubblica. INCONTRO DI STUDIO 73 In realtà, l’eterogeneità dell’articolo censurato non ostacola l’individuazione delle disposizioni impugnate. La lettura complessiva dell’ordinanza di rimessione, comprensiva della descrizione delle censure e delle relative argomentazioni, consente di identificare con precisione tanto il thema decidendum, quanto le disposizioni oggetto di giudizio, le quali, senza incertezza, corrispondono ai commi 1 e 2 dell’art. 29 della legge reg. n. 1 del 2009. Il primo stabilisce che «Nei casi in cui non ricorrono motivi di conflitto con gli interessi della Regione, l’avvocatura regionale è abilitata a svolgere attività di consulenza attraverso l’espressione di pareri e a patrocinare in giudizio gli enti strumentali della Regione e le società il cui capitale sociale è interamente sottoscritto dalla Regione»; mentre il secondo afferma che «Per i fini di cui al comma 1 le singole società e gli enti strumentali sottoscrivono con la Giunta regionale una convenzione che regola le modalità attraverso cui può essere richiesta l’attività dell’avvocatura regionale e che quantifica gli oneri a carico delle società e degli enti strumentali». Il successivo comma terzo dell’art. 29 è palesemente estraneo alle censure prospettate nell’ordinanza di rimessione. Sotto questo profilo, dunque, l’ordinanza soddisfa i principi stabiliti dalla giurisprudenza costituzionale sul punto (ex multis, ordinanza n. 312 del 2012) e il giudizio della Corte deve restare circoscritto ai primi due commi dell’art. 29 della legge della Regione Campania n. 1 del 2009. 2.2.– Deve essere altresì rigettata l’eccezione d’inammissibilità relativa al mancato esperimento del tentativo d’interpretazione conforme a Costituzione da parte del giudice a quo. Infatti, quest’ultimo dichiara esplicitamente di avere considerato questa possibilità e di averla tuttavia esclusa a causa del tenore testuale della disposizione impugnata. Come noto, propriamente «l’univoco tenore della norma segna il confine in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale» (ex plurimis, sentenza n. 78 del 2012). Di conseguenza, l’eccezione d’inammissibilità deve ritenersi infondata, in continuità con la giurisprudenza di questa Corte rilevante. 2.3.– Anche il terzo motivo d’inammissibilità evocato dalla Regione Campania, relativo alla irrilevanza della questione prospettata, per mancanza di nesso di pregiudizialità tra il giudizio principale e il giudizio di fronte a questa Corte, deve ugualmente essere rigettato. Infatti, il giudice rimettente adduce sufficienti e non implausibili motivazioni circa la rilevanza nel giudizio a quo della questione sollevata (come richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte: ex multis sentenze n. 170 e 34 del 2010), illustrando come il giudizio amministrativo verta sulla legittimità della delibera della Giunta della Regione Campania n. 603 del 27 marzo 2009, con cui è stato stabilito che l’avvocatura regionale rappresenti e difenda gli enti strumentali della Regione in base all’art. 29 della legge reg. n. 1 del 2009, e, in via derivata, della Convenzione n. 14162 del 10 aprile 2009, stipulata con l’Azienda sanitaria locale di Salerno, sulla base della predetta delibera giuntale. Trattandosi di atti che trovano il loro fondamento legislativo nella disposizione di legge regionale portata all’esame di questa Corte, non è implausibile ritenere, come sostiene il Tribunale amministrativo rimettente, che la norma regionale censurata debba necessariamente essere applicata nel giudizio a quo e che, dunque, l’eventuale illegittimità della stessa incida sul procedimento principale, come richiesto dall’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) e costantemente confermato dalla giurisprudenza di questa Corte (ex multis, sentenza n. 18 del 1989). 2.4.– Anche l’eccezione d’inammissibilità avanzata dalla Regione Campania in relazione alla carenza d’interesse da parte dei ricorrenti nel giudizio a quo deve essere respinta. Infatti, la ricostruzione del giudice rimettente, secondo cui l’atto impugnato nel procedimento a quo 74 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 costituirebbe un provvedimento di auto-organizzazione adottato in attuazione della legge reg. n. 1 del 2009 e idoneo a incidere direttamente sulle condizioni di lavoro dei ricorrenti, giustifica sufficientemente la sussistenza dell’interesse a ricorrere di questi ultimi, anche in riferimento al rapporto di correttezza deontologica nei confronti dell’ordine professionale di appartenenza che essi sono tenuti a osservare. D’altra parte spetta al giudice a quo verificare la sussistenza dell’interesse a ricorrere nel caso concreto, essendo la Corte costituzionale tenuta a effettuare piuttosto un controllo esterno sull’adeguatezza della motivazione dell’ordinanza di rimessione in punto di rilevanza (oltre che di non manifesta infondatezza), a garanzia dell’incidentalità e della concretezza del giudizio. 3.– Nel merito, la questione è fondata. 3.1.– La disciplina delle incompatibilità della professione forense è oggetto di legislazione statale sin dall’art. 3, secondo comma, del regio decreto-legge n. 1578 del 1933, che prevede che l’esercizio della professione di avvocato «è incompatibile con qualunque impiego o ufficio retribuito con stipendio sul bilancio dello Stato […] ed in generale di qualsiasi altra Amministrazione o istituzione pubblica». Tale rigoroso regime di incompatibilità è derogabile, per quanto riguarda gli avvocati afferenti agli uffici legali degli enti pubblici, solo «per quanto concerne le cause e gli affari propri dell’ente presso il quale prestano la loro opera» e a condizione che siano iscritti nell’elenco speciale annesso agli albi professionali, secondo quanto stabilito dall’art. 3, quarto comma, lettera b), del medesimo regio decreto-legge n. 1578 del 1933. Tali disposizioni sono state oggetto di interpretazione restrittiva da parte della Corte di cassazione, anche a sezione unite, nella cui giurisprudenza si rinviene un orientamento consolidato, che attribuisce alla deroga prevista dall’art. 3, quarto comma, lettera b), del regio decreto-legge citato, carattere di norma eccezionale, stante appunto la sua natura derogatoria rispetto al principio generale di incompatibilità. Tale previsione è stata perciò assoggettata a regole di stretta interpretazione e ritenuta insuscettibile di applicazione analogica (ex plurimis, Corte di cassazione, sezioni unite, 19 agosto 2009, n. 18359; 14 marzo 2002, n. 3733; 15 dicembre 1998, n. 12560; 26 novembre 1996, n. 10490). In forza dei suddetti vincoli interpretativi si è reputato, tra l’altro, che gli avvocati dipendenti da enti pubblici siano tenuti a svolgere attività professionale solo in relazione agli affari propri dell’ente presso il quale prestano la loro opera, non essendo consentito ritenere “propri” dell’ente pubblico datore di lavoro le cause e gli affari di un ente diverso, dotato di distinta soggettività. 3.2.– Del tutto coerente con detti orientamenti consolidati sul piano giurisprudenziale è l’intervento del legislatore statale che, ridisciplinando la professione forense con la legge 31 dicembre 2012, n. 247 (Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense), ha anzitutto ribadito il regime d’incompatibilità della professione d’avvocato con qualsiasi attività di lavoro subordinato, anche se con orario limitato (art. 18, comma 1, lettera d), e ha poi precisato le condizioni nel rispetto delle quali, in deroga al principio generale di incompatibilità, è consentito agli avvocati degli uffici legali istituiti presso gli enti pubblici svolgere attività professionale per conto dell’ente di cui sono dipendenti (artt. 19 e 23). Per quanto rileva nell’ambito del presente giudizio, gli avvocati dipendenti di enti pubblici sono abilitati alla «trattazione degli affari legali dell’ente stesso», a condizione che siano incardinati in un ufficio legale stabilmente costituito e siano incaricati in forma esclusiva dello svolgimento di tali funzioni. La sopravvenuta nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense non ha, dunque, mutato il quadro di riferimento rilevante nel presente giudizio, né, in particolare, ha inciso sui parametri interposti del giudizio di legittimità costituzionale, consentendo, dunque, a que- INCONTRO DI STUDIO 75 sta Corte di trattenere la questione per deciderla nel merito (ex multis, sentenza n. 12 del 2007). La nuova disciplina legislativa statale, infatti, conferma i principi evocati nell’ordinanza di rimessione, e semmai li precisa ulteriormente, in continuità con gli orientamenti giurisprudenziali da tempo maturati. 3.3.– La normativa regionale censurata, consentendo agli avvocati regionali di svolgere attività di patrocinio in giudizio e di consulenza anche a favore di enti strumentali della Regione e di società il cui capitale sociale è interamente sottoscritto dalla Regione, amplia la deroga al principio di incompatibilità, prevista dal legislatore statale esclusivamente in riferimento agli affari legali propri dell’ente pubblico di appartenenza, e pertanto si pone in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost. Infatti, la norma secondo cui gli avvocati dipendenti possono patrocinare per l’ente di appartenenza – e solo per esso – non è suscettibile di estensione da parte del legislatore regionale, ma rientra nell’ambito dei principi fondamentali della materia delle professioni, affidato alla competenza del legislatore statale. 3.4.– Non è, del resto, condivisibile l’argomento prospettato dalla Regione resistente in virtù del quale il legislatore regionale avrebbe agito entro i confini delle competenze ad esso spettanti in materia di professioni: sul punto la giurisprudenza di questa Corte ha costantemente affermato che la disciplina delle professioni «è riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato, rientrando nella competenza delle Regioni la disciplina di quegli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale» (ex multis, sentenze n. 300 e n. 131 del 2010, n. 93 del 2008). La legge regionale impugnata, riguardando il sistema delle incompatibilità professionali, si spinge in un ambito che non si presta a modulazioni sulla base di specificità territoriali. D’altra parte, l’apprezzabile finalità di contenimento della spesa pubblica che la Regione dichiara di voler perseguire con la legislazione in esame non giustifica l’invasione da parte della Regione della sfera riservata al legislatore statale, ma potrà semmai essere tenuta in considerazione da quest’ultimo. 3.5.– Né vale argomentare che il legislatore statale abbia talora previsto alcune ipotesi nelle quali gli avvocati di enti pubblici possono prestare la propria attività a favore di enti diversi da quello di appartenenza. Infatti, tali ipotesi sono state determinate dal medesimo legislatore statale, titolare, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., della competenza legislativa di principio in materia di professioni. In questo ambito, relativo al regime dell’incompatibilità tra la professione forense e le attività di lavoro subordinato, l’ampliamento del campo di applicazione delle deroghe è sempre possibile, ma può essere effettuato solo ad opera del legislatore statale. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 29, commi 1 e 2, della legge della Regione Campania 19 gennaio 2009, n. 1 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Campania – legge finanziaria anno 2009). Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 maggio 2013. CONTENZIOSO NAZIONALE A proposito della sentenza ILVA (Nota a Corte costituzionale, sentenza 9 maggio 2013 n. 85) Glauco Nori* La questione, che la Corte costituzionale ha risolto, era particolarmente sensibile, più di quanto lo sono in genere tutte quelle sui rapporti tra i poteri dello Stato. È stata affrontata con una motivazione essenziale che non dovrebbe lasciare dubbi su nessuno dei suoi aspetti. L’Autorizzazione Integrata Ambientale - ha premesso la Corte (punto 12.2) - costituisce “un presupposto per l’applicabilità dello speciale regime giuridico, che consente la continuazione dell’attività produttiva alle condizioni ivi previste. In quanto presupposto, essa rimane esterna all’atto legislativo, con tutte le conseguenze, in termini di controllo di legalità, da ciò derivanti. … Come può chiaramente desumersi dal testo della disposizione censurata, l’intento del legislatore non è stato quello di incorporare l’AIA nella legge, ma solo di prevedere … un effetto combinato di atto amministrativo e legge, effetto che mantiene la sua peculiarità e la sua efficienza rispetto al fine, a condizione che rimangano ferme la natura dell’uno e dell’altra”. Su queste premesse la Corte ha concluso (punto 12.6): “Né può essere ammesso che un giudice (ivi compresa questa Corte) ritenga illegittima la nuova normativa in forza di una valutazione di merito di inadeguatezza della stessa, a prescindere dalla rilevata violazione di precisi parametri normativi, costituzionali o ordinari, sovrapponendo le proprie valutazioni discrezionali a quelle del legislatore e delle amministrazioni competenti. Tale sindacato sarebbe possibile solo in presenza di una manifesta irragionevolezza della nuova disciplina dettata dal legislatore e delle nuove prescrizioni contenute nell’AIA riesami- (*) Avvocato dello Stato, Presidente emerito del Comitato Scientifico di questa Rass. 78 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 nata. Si tratta di un’eventualità da escludere, nella specie ... Ciò esclude … un “riesame del riesame”, che non compete ad alcuna autorità giurisdizionale”. Quest’ultima affermazione, da sottolineare, va coordinata con quello che la Corte aveva già rilevato (punto 10.3): “L’individuazione del bilanciamento, che dà vita alla nuova AIA è … il risultato di apporti plurimi, tecnici ed amministrativi, che può essere contestato davanti al giudice competente, nel caso si lamentino vizi di legittimità dell’atto da parte dei cittadini che si ritengono lesi nei loro diritti e interessi legittimi. Lo stesso atto, peraltro, non può essere contestato nel merito delle scelte compiute dalle amministrazioni competenti, che non possono essere sostituite da altre nella valutazione discrezionale delle misure idonee a tutelare l’ambiente ed a prevenire futuri inquinamenti, quando l’esercizio di tale discrezionalità non trasmodi in un vizio denunciabile nelle sedi giurisdizionali competenti”. Con qualche approssimazione, le argomentazioni della Corte possono essere così schematizzate: - gli interessi coinvolti sono, da una parte, quelli ambientale e della salute, dall’altra quello dell’occupazione; - entrambi sono tutelati dalla Costituzione come diritti fondamentali, tutti sullo stesso piano, perché non c’è un diritto più fondamentale dell’altro in mancanza di una gerarchia fissata dalla Costituzione; - il coordinamento tra i due è di competenza dell’autorità amministrativa, che lo fa con un provvedimento, l’AIA, soggetto, come qualsiasi altro, al controllo giurisdizionale; - il provvedimento ha natura discrezionale e le valutazioni, sulle quali è fondato, non sono soggette a verifica da parte di nessuna autorità giurisdizionale, sempre che non ricorrano i vizi tradizionali di legittimità, perché effettuate dall’organo competente a tutelare entrambi. Secondo la Corte costituzionale, dunque, alcuni interessi possono trovare la loro tutela solo in forma amministrativa per la necessità di valutazioni di opportunità, non consentite alla giurisdizione. Sarebbe stato comunque incongruo che l’ultima parola fosse lasciata al giudice penale che, chiamato ad applicare una norma che tutela solo la salubrità dell’ambiente, non avrebbe potuto tenere conto dell’occupazione, che sarebbe rimasta sacrificata senza scampo. Gli argomenti sviluppati dalla Corte potrebbero essere utilizzati anche per una questione ulteriore che ogni tanto si materializza ma che, per quello che risulta, non sembra che, almeno recentemente, sia stata affrontata come meriterebbe. Quando una norma è violata e un interesse resta pregiudicato ci si può sempre rivolgere al giudice, oppure è necessario verificare se sia proprio quello l’interesse che la norma ha voluto tutelare? Un esempio, di diversi anni fa, può rendere meglio l’idea. Una insegnante di scuola media, assegnata alla seziona A, impugnò davanti ad un TAR il provvedimento del preside che l’aveva spostata alla Sezione CONTENZIOSO NAZIONALE 79 C. La sua posizione giuridica restava la stessa: l’unico pregiudizio era che avrebbe dovuto salire due rampe di scale in più perché la Sezione C si trovava al piano superiore. Il ricorso contro il provvedimento di spostamento di sezione era fondato sul difetto di motivazione, che effettivamente era succinta ma che, si obiettò da parte del preside, non era necessaria perché l’interesse fatto valere (salire due piani di scale) era privo di tutela giuridica. Il Tribunale accolse il ricorso dell’insegnante: ritenne infatti che un provvedimento, per il fatto di essere comunque pregiudizievole, dovesse essere motivato, indipendentemente dalla rilevanza dell’interesse pregiudicato. È questo il modo di ragionare dei giudici che la Corte Costituzionale mostra di non condividere ... Alcuni interessi, secondo la Corte costituzionale, possono avere una tutela solo amministrativa quando sono richiesti giudizi di opportunità, che la legge assegna ad organi appositi. Altri, se non sono stati presi in considerazione dalla norma, potrebbero non averne nessuna, nel senso che se ne può godere solo fino a quando lo consenta la situazione, che peraltro può mutare. La Corte costituzionale si è posta sulla stessa linea della Corte di Giustizia: “il risultato di apporti plurimi, tecnici ed amministrativi” che ha portato la Corte a concludere che non possono essere contestate nel merito (il corsivo è aggiunto) “le scelte compiute dalle amministrazioni competenti, che non possono essere sostitute da altre nella valutazione discrezionale”, si coordina con la posizione della Corte di Giustizia: “… mentre il giudice comunitario esercita un sindacato generale e completo sulla sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 85, n. 1, il sindacato che esso esercita sulle valutazioni economiche fatte dalla Commissione si limita necessariamente alla verifica dell’osservanza delle norme di procedura e di motivazione, nonché alla esattezza materiale dei fatti, dell’insussistenza d’errore manifesto di valutazione e di sviamento di potere”. La fondatezza della soluzione trova una conferma anche da un diverso punto di vista normativo. Il procedimento penale è a carico di persone per le funzioni sociali svolte. Sul piano penale non poteva essere diversamente una volta che la responsabilità penale è personale (art. 27 Cost.). La società poteva restare coinvolta solo come responsabile civile o come parte civile, ma in entrambi i casi per questioni attinenti ai danni. Il sequestro del prodotto, come ha ricordato la Corte, era stato disposto ai sensi dell’art. 321 c.p.p., consentito anche su beni di proprietà di un soggetto diverso dall’imputato. La sospensione dell’attività a carico di un non imputato non è prevista dal codice di procedura penale. Si sarebbe, invece, potuta disporre ai sensi del decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231, che ha introdotto la responsabilità amministrativa delle società per i reati riportati negli artt. 24 e segg., quelli che sono definiti i reati presupposti (art. 9.2, lett. a) di tale decreto legislativo). 80 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 Secondo l’art. 15 (Commissario giudiziale) “se sussistono i presupposti per l’applicazione che determina l’interruzione dell’attività dell’ente, il giudice, in luogo dell’applicazione della sanzione, dispone la prosecuzione dell’attività dell’ente da parte di un commissario per un periodo pari alla durata della pena interdittiva che sarebbe stata applicata, quando … b) l’interruzione dell’attività dell’ente può provocare, tenuto conto delle dimensioni e delle condizioni economiche del territorio in cui è situato, rilevanti ripercussione sull’occupazione”. Il giudice non ha potere di scelta (è stato utilizzato l’indicativo dispone). C’è, dunque, la conferma che non è rimessa al giudice la tutela dell’occupazione. In quanto attinente alla politica economica è la legge che vi provvede: nel caso dell’ILVA, dal momento che il reato contestato tutela la salubrità dell’ambiente, attraverso l’AIA che realizza il coordinamento dei due interessi, tutelati entrambi dalla Costituzione. La n. 231 del 2012 è legge ordinaria, ma ugualmente utile per la soluzione della questione sottoposta alla Corte: attua la Costituzione, e non la viola, una norma che realizza la tutela coordinata di due interessi, protetti allo stesso modo dalla Costituzione, uno dei quali sarebbe rimasto pregiudicato per l’intervento del solo giudice penale, che ha il potere di tutelarne solo uno. C’è da rilevare una singolarità. La questione è stata sollevata da un giudice che non ha ritenuto di applicare una norma che gli avrebbe imposto quella tutela e senza pregiudizio dell’interesse tutelato dalla norma penale perché al coordinamento aveva provveduto la legge attraverso l’AIA, la cui legittimità non era stata contestata. Corte costituzionale, sentenza del 9 maggio 2013 n. 85 - Pres. Gallo, Red. Silvestri - Avv.ti Luisa Torchia, Francesco Mucciarelli e Marco De Luca per B.F., nella qualità di Presidente del consiglio di amministrazione e legale rappresentante di Ilva S.p.A., Francesca Fegatelli per l’Associazione Italiana per il World Wide Fund for Nature (WWF Italia) Onlus, Sergio Torsella per i signori F., Giuseppe Pericu per la Confederazione Generale dell’Industria Italiana (Confindustria) e per Federacciai - Federazione Imprese Siderurgiche Italiane e gli avv.ti Stato Maurizio Borgo e Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri. Considerato in diritto 1.– Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Taranto ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli articoli 1 e 3 della legge 24 dicembre 2012, n. 231 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207, recante disposizioni urgenti a tutela della salute, dell’ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale) – recte, degli artt. 1 e 3 del decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207 (Disposizioni urgenti a tutela della salute, dell'ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale), come convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 231 del 2012 – in relazione agli artt. 2, 3, 9, secondo comma, 24, primo comma, 25, primo comma, CONTENZIOSO NAZIONALE 81 27, primo comma, 32, 41, secondo comma, 101, 102, 103, 104, 107, 111, 112, 113 e 117, primo comma, della Costituzione. L’art. 1 del citato d.l. n. 207 del 2012 è censurato in quanto prevede che, presso gli stabilimenti dei quali sia riconosciuto l’interesse strategico nazionale con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri e che occupino almeno duecento persone, l’esercizio dell’attività di impresa, quando sia indispensabile per la salvaguardia dell’occupazione e della produzione, possa continuare per un tempo non superiore a 36 mesi, anche nel caso sia stato disposto il sequestro giudiziario degli impianti, nel rispetto delle prescrizioni impartite con una autorizzazione integrata ambientale rilasciata in sede di riesame, al fine di assicurare la più adeguata tutela dell’ambiente e della salute secondo le migliori tecniche disponibili. Il successivo art. 3 è oggetto di censura, invece, riguardo alle seguenti statuizioni: a) l’impianto siderurgico Ilva di Taranto costituisce stabilimento di interesse strategico nazionale a norma dell’art. 1; b) l’AIA rilasciata alla società Ilva il 26 ottobre 2012 produce gli effetti autorizzatori previsti dal citato art. 1; c) la società indicata è reimmessa nel possesso degli impianti e dei beni già sottoposti a sequestro dell’autorità giudiziaria; d) i prodotti in giacenza, compresi quelli realizzati antecedentemente alla data di entrata in vigore del decreto-legge, possono essere commercializzati dall’impresa. A parere del giudice rimettente, la disciplina censurata viola anzitutto l’art. 3 Cost., secondo molteplici profili. Vi sarebbe, in primo luogo, una discriminazione ingiustificata tra aziende con processi produttivi di analoga portata inquinante, a seconda che, sulla base di un provvedimento discrezionale del Presidente del Consiglio dei ministri (del quale la legge fisserebbe i presupposti in modo solo generico), i relativi stabilimenti siano dichiarati «di interesse strategico nazionale», nel qual caso l’attività illecita può proseguire per 36 mesi, oppure non lo siano, con conseguente applicabilità delle sanzioni di legge. Correlativamente, sarebbe introdotta una discriminazione illegittima tra cittadini tutti esposti ad emissioni inquinanti, a seconda che, sulla base del predetto provvedimento del Presidente del Consiglio dei ministri, gli stabilimenti dai quali provengono le emissioni siano o no dichiarati «di interesse strategico nazionale», posto che solo nel primo caso sarebbero inibite le azioni a tutela dei diritti delle persone interessate. Con specifico riguardo all’art. 3, comma 2, del d.l. n. 207 del 2012, il giudice rimettente considera i cittadini esposti alle emissioni inquinanti dell’Ilva S.p.A. discriminati rispetto ad altri, pure interessati da fenomeni di inquinamento ambientale: nel caso dell’Ilva, infatti, l’AIA rilasciata il 26 ottobre 2012, in sede di riesame, «assurge al rango di atto avente forza di legge», con la conseguenza che agli interessati è preclusa la possibilità di proporre ricorso giurisdizionale contro il provvedimento. Tale preclusione – può dirsi fin d’ora – implicherebbe anche la violazione dell’art. 113 Cost. In riferimento poi al comma 3 del citato art. 3, viene prospettata una illegittima difformità di trattamento (rilevante a norma dell’art. 3 Cost.) tra aziende i cui prodotti vengano sottoposti a sequestro o lo siano stati in epoca antecedente all’entrata in vigore del decreto-legge, poiché solo alla società Ilva sarebbe consentito di commercializzare tanto i prodotti già sequestrati che quelli in ipotesi assoggettabili ad ulteriori provvedimenti cautelari. Un secondo gruppo di censure attiene a violazioni degli artt. 101, 102, 103, 104, 107 e 111 Cost. La normativa in questione, infatti, sarebbe stata adottata per regolare un singolo caso concreto, oggetto di provvedimenti giurisdizionali già assunti e passati in «giudicato cautelare », con norme prive dei caratteri di generalità ed astrattezza, e senza modificare il quadro normativo di riferimento, così da vulnerare la riserva di giurisdizione ed «il principio costituzionale di separazione tra i poteri dello Stato». 82 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 Ancora, la disciplina censurata contrasterebbe con gli artt. 25, 27 e 112 Cost., in quanto elusiva dell’obbligo di accertare e prevenire i reati e del dovere, posto a carico del pubblico ministero, di esercitare l’azione penale: tale effetto, in particolare, si connetterebbe alla legittimazione dell’ulteriore corso, per 36 mesi, di attività produttive altamente inquinanti, ed alla previsione della sola pena pecuniaria, per un valore pari ad una quota del fatturato, riguardo ad eventuali violazioni delle prescrizioni impartite mediante l’AIA riesaminata. Per le ragioni appena esposte le norme censurate violerebbero gli artt. 25 e 27 Cost., implicando una sottrazione di fatti penalmente illeciti al loro «giudice naturale» e vanificando «il principio di responsabilità penale personale in capo agli autori» dei reati in questione. Nella stessa prospettiva, la disciplina contrasterebbe anche con l’art. 24 Cost., perché ne deriverebbe la preclusione, in danno dei cittadini danneggiati dalle emissioni inquinanti, della possibilità di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. Un ulteriore profilo «generale» di contrasto con il dettato costituzionale (ed in particolare con gli artt. 2, 9, 32 e 41 Cost.) è denunciato in quanto, consentendo l’esercizio dell’iniziativa economica privata con modalità tali da recare danno alla sicurezza ed alla dignità umana, la disciplina in questione annullerebbe la tutela del diritto fondamentale alla salute e all’ambiente salubre. Sarebbe violato, infine, anche il primo comma dell’art. 117 Cost., in relazione a diversi parametri interposti. La normativa censurata contrasterebbe, infatti, con gli artt. 3 e 35 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che proteggono il diritto di ciascuno all’integrità fisica e psichica ed alla salute. Vi sarebbe conflitto, ancora, con il disposto dell’art. 191 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, ove è fissato il principio di precauzione, disatteso nella specie attraverso la legittimazione di attività comprovatamente dannose. Da ultimo, il rimettente prospetta un contrasto con l’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in forza della lesione recata al diritto ad un equo processo. 2.– Il Tribunale ordinario di Taranto, in funzione di giudice di appello a norma dell’art. 322-bis del codice di procedura penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge n. 231 del 2012 – recte, dell’art. 3 del d.l. n. 207 del 2012, come convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 231 del 2012 – in relazione agli artt. 3, 24, 102, 104 e 122 Cost., nella parte in cui autorizza «in ogni caso» la società Ilva S.p.A. di Taranto «alla commercializzazione dei prodotti ivi compresi quelli realizzati antecedentemente alla data di entrata in vigore» del citato d.l. n. 207 del 2012, sebbene posti ad oggetto di un provvedimento di sequestro preventivo. Secondo il rimettente, la norma censurata violerebbe l’art. 3 Cost. sotto molteplici profili. Si tratterebbe anzitutto di una «legge del caso singolo», per mezzo della quale la società Ilva sarebbe ingiustificatamente favorita rispetto ad ogni altra società le cui merci, in quanto prodotto di un reato, siano state sottoposte a sequestro. La disciplina censurata sarebbe poi priva di ragionevolezza, in quanto l’autorizzazione a commercializzare prodotti in sequestro vanifica la funzione tipica della misura cautelare e non è giustificata, per altro verso, dal fine di consentire la continuazione delle attività produttive e la conservazione dei livelli occupazionali, per la cui assicurazione la disponibilità delle merci già sequestrate non sarebbe stata necessaria. Mancherebbe una ragionevole giustificazione, dunque, per l’efficacia «retroattiva» conferita alla norma censurata. Il Tribunale prospetta l’ulteriore violazione degli artt. 102 e 104 Cost., in quanto il legislatore avrebbe «direttamente modificato un provvedimento del giudice» (l’ordinanza posta ad oggetto dell’impugnazione dalla quale origina il procedimento a quo), «senza per altro modi- CONTENZIOSO NAZIONALE 83 ficare il quadro normativo sulla base del quale era stato emanato», ed avrebbe pregiudicato la possibilità di procedere a confisca in esito al giudizio, sebbene le merci in sequestro debbano tuttora considerarsi prodotto di reato. Infine, vi sarebbe un contrasto tra la norma censurata e gli artt. 24 e 112 Cost., per la provocata lesione del diritto di azione del privato leso nei suoi diritti e per l’ostacolo frapposto all’esercizio della funzione pubblica di accertamento, repressione e prevenzione dei reati. 3.– I giudizi introdotti dalle due ordinanze in epigrafe, data la parziale identità di oggetto, possono essere riuniti, al fine di una trattazione unitaria delle questioni sollevate. 4.– In via preliminare deve essere confermata l’ordinanza, adottata nel corso dell’udienza pubblica ed allegata alla presente sentenza, con la quale sono stati dichiarati inammissibili gli interventi spiegati, nel giudizio r.o. n. 19 del 2013, dalla Confederazione Generale dell’Industria Italiana (Confindustria), dalla Federacciai - Federazione Imprese Siderurgiche Italiane e dall’Associazione Italiana per il Word Wide Fund for Nature (WWF Italia) onlus, mentre è stato dichiarato ammissibile l’intervento dei signori A., V. e V. F.. Invero, i soggetti sopra indicati non sono parti nel giudizio a quo. Per nota ed ormai costante giurisprudenza di questa Corte, possono costituirsi nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale le sole parti del procedimento principale, mentre l’intervento di soggetti estranei (oltre al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale) è ammissibile soltanto per i terzi titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto ed immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura. Orbene, nel giudizio da cui traggono origine le questioni di legittimità costituzionale in discussione, la Confindustria, la Federacciai e il WWF Italia non sono parti, né sono titolari del predetto interesse qualificato. I signori A., V. e V. F., invece, hanno partecipato, in qualità di persone offese, all’incidente probatorio ammesso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Taranto con ordinanza del 27 ottobre 2010; essi, pertanto, sono titolari di un interesse qualificato, inerente al rapporto sostanziale dedotto nel giudizio principale, al quale accedono tanto l’incidente probatorio che le procedure concernenti i sequestri in atto. Ne derivano la declaratoria d’ammissibilità dell’intervento dei signori A., V. e V. F. e la declaratoria d’inammissibilità degli interventi della Confindustria, della Federacciai e del WWF Italia. 5.– Vanno considerati, a questo punto, alcuni profili che attengono all’ammissibilità delle questioni sollevate nell’ambito del giudizio r.o. n. 19 del 2013. 5.1.– Si è prospettato anzitutto, da parte del Presidente del Consiglio dei ministri, un vizio di intrinseca contraddittorietà della questione concernente la pretesa interferenza del potere legislativo con le prerogative della giurisdizione. In particolare, il Giudice per le indagini preliminari di Taranto avrebbe sostenuto, per un verso, la perdurante attualità della condizione di sequestro degli impianti dello stabilimento siderurgico e dei prodotti giacenti nelle relative aree di stoccaggio; per altro avrebbe lamentato una sorta di efficacia diretta della legge sul regime cautelare in atto. L’eccezione di inammissibilità, in questi termini, non è fondata. Il giudice a quo non sostiene che i provvedimenti di sequestro siano stati «automaticamente» travolti dalla normativa censurata, e neppure che sia venuta meno la condizione di sequestro dei beni cui si riferiscono i provvedimenti citati. Non ha dunque negato che la disciplina adottata da Governo e Parlamento debba trovare applicazione in provvedimenti dell’autorità giudiziaria investita della funzione cautelare, ed anzi tale assunto costituisce condizione di rilevanza delle questioni sol- 84 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 levate. Il rimettente ha inteso lamentare, piuttosto, un preteso svuotamento dell’efficacia delle cautele reali adottate nei confronti dell’Ilva, che sarebbe particolarmente incisivo quanto al materiale prodotto dopo il sequestro degli impianti e prima del decreto-legge: materiale destinato alla confisca ma di fatto irrimediabilmente distolto – a suo avviso – per effetto della commercializzazione prevista dalle norme sopravvenute. È vero che nell’ordinanza di rimessione viene evocato un effetto di «riforma» del provvedimento giudiziale che ha negato il dissequestro delle merci, attribuendo al legislatore, con riferimento alla modifica introdotta in sede di conversione nell’art. 3, comma 3, del decreto, l’atteggiamento di un «giudice di istanza superiore». L’argomento mira, però, ad evidenziare una presunta volontà legislativa di interferire nella disciplina del caso concreto, con efficacia retroattiva, e non una pretesa efficacia diretta della norma in punto di attualità della cautela. L’Avvocatura generale ha eccepito, inoltre, che le questioni poste nell’ambito del subprocedimento cautelare concernente il sequestro degli impianti sarebbero tardive, dato che la Procura di Taranto, in applicazione del comma 3 dell’art. 3 del decreto, aveva già immesso la società Ilva, al momento della relativa ordinanza di rimessione, nel possesso dello stabilimento. L’eccezione non può essere accolta. Non è infatti priva di plausibilità la prospettazione del rimettente secondo cui la normativa censurata, e lo stesso comma 3 dell’art. 3, devono trovare ulteriore applicazione, attraverso un provvedimento che riconosca e regoli la «facoltà d’uso» degli impianti, rimasti in condizione di sequestro, e mediante un provvedimento che valuti la perdurante necessità dell’ufficio dei custodi giudiziali, con specificazione, nel caso affermativo, del diverso compito loro spettante alla luce della disciplina sopravvenuta. Va escluso, infine, che si sia determinata una «sopravvenuta carenza di interesse» delle questioni concernenti il sequestro dei prodotti finiti o semilavorati, in considerazione del fatto che la stessa Autorità procedente ha ordinato, in epoca recente, la «vendita» delle merci. La commercializzazione dei prodotti risulta disposta in applicazione non già della norma censurata, bensì dell’art. 260, comma 3, cod. proc. pen. e dell’art. 83 delle relative disposizioni di attuazione. La relativa disciplina regola i casi in cui il bene sequestrato può deteriorarsi e non implica affatto il dissequestro del bene medesimo, tanto che il vincolo si trasferisce sulle utilità eventualmente ricavate attraverso l’alienazione: circostanza, questa, esplicitamente evidenziata nell’ordinanza del Giudice procedente. Non è venuto meno, quindi, l’interesse a stabilire se sia legittima la previsione di un inserimento delle merci nel normale ciclo economico dell’impresa, che comporta tra l’altro, per l’azienda, la diretta ed incondizionata acquisizione delle risorse ricavate dal commercio dei suoi prodotti. 5.2.– Sempre nell’ambito del giudizio r.o. n. 19 del 2013, la società Ilva ha prospettato una «radicale inammissibilità» della questione concernente il contrasto tra l’art. 1 del d.l. n. 207 del 2012 e l’art. 3 Cost. Il rimettente, in particolare, non avrebbe indicato il tertium comparationis in base al quale potrebbe essere sindacata la ragionevolezza della soglia minima di duecento dipendenti cui la normativa censurata subordina la possibilità che il Ministro dell’ambiente, in sede di riesame dell’AIA, autorizzi la prosecuzione dell’attività produttiva (comma 1 dell’art. 1). È senz’altro vero che una indicazione del genere non compare nell’ordinanza di rimessione. Va escluso, però, che si trattasse di una indicazione necessaria. Il rimettente non pare voler sindacare la ragionevolezza dell’indice numerico prescelto dal legislatore, in assoluto o nella comparazione con situazioni assimilabili, ma sembra piuttosto porre in discussione la legittimità di qualunque distinzione nel trattamento di aziende con produzioni inquinanti. In questo senso, pur nel contesto di una esposizione assai «discorsiva», va interpretata la questione di CONTENZIOSO NAZIONALE 85 legittimità. Del resto, se il rimettente avesse voluto invece sollevare la questione nei termini ipotizzati dalla parte, la stessa risulterebbe manifestamente inammissibile, dato il carattere oscuro della relativa formulazione. 5.3.– È fondata invece l’eccezione di inammissibilità prospettata, sempre nell’interesse della società Ilva, riguardo alle questioni formulate in relazione all’art. 117, primo comma, Cost. Il rimettente si limita in effetti ad evocare una generica corrispondenza tra le norme di tutela dei diritti fondamentali contenute nella Carta costituzionale, asseritamente violate dalle disposizioni oggetto di censura, ed alcune norme sovranazionali, comprese nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo o nell’ordinamento dell’Unione europea. Non viene proposta alcuna puntuale considerazione, però, sulle specifiche ragioni di conflitto tra il diritto nazionale ed i parametri interposti, dei quali non è illustrata, neppure in termini sommari, la concreta portata precettiva. Il diritto dell’Unione, in particolare, è genericamente evocato in rapporto ai principi di precauzione e di responsabilità per i danni da inquinamento (art. 191 TFUE), senza tenere in concreta considerazione la specifica produzione normativa in materia di siderurgia, compresi i recenti approdi rappresentati dalla decisione 28 febbraio 2012 (Decisione di esecuzione 2012/135/UE della Commissione […] che stabilisce le conclusioni sulle migliori tecniche disponibili (BAT) per la produzione di ferro e acciaio ai sensi della direttiva 2010/75/UE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alle emissioni industriali, notificata con il numero C[2012] 903) e dalle due risoluzioni assunte dal Parlamento europeo, sempre in tema di esercizio dell’industria siderurgica nell’ambito dell’Unione, il giorno 13 dicembre 2012. Va aggiunto che una completa carenza di motivazione, tale nella specie da implicare dubbi insuperabili sul senso delle relative censure, caratterizza le questioni sollevate in riferimento all’art. 25, primo comma, ed all’art. 27, primo comma, Cost. Non si comprende quale possa essere l’effettiva attinenza del principio del giudice naturale, precostituito per legge, nel contesto di affermazioni concernenti una pretesa immunità che deriverebbe ai responsabili dell’Ilva dalla normativa censurata. Se si fosse voluto sostenere che ogni norma di esenzione da punibilità «distoglie» l’interessato dal giudice «naturale» e che tale sarebbe l’effetto di una ipotetica dequalificazione del reato in illecito amministrativo, sarebbe stata necessaria una ben diffusa giustificazione dell’assunto. Ancor meno si comprende il senso dell’affermazione che, per l’asserita immunità accordata riguardo ai reati commessi nella gestione dello stabilimento di Taranto, sarebbe violata la regola di personalità della responsabilità penale. L’enunciato resta senza spiegazione sia che si guardi alla regola quale divieto di configurazione della responsabilità penale per fatto altrui, sia che si consideri il connesso principio di necessaria «colpevolezza» del fatto penalmente sanzionabile. Dunque, le questioni sollevate in riferimento ai parametri indicati devono essere dichiarate inammissibili. 6.– Sono state proposte eccezioni di inammissibilità anche nell’ambito del giudizio r.o. n. 20 del 2013. Si è già detto della tesi proposta dall’Avvocatura generale dello Stato, secondo cui la recente disposizione giudiziale di vendere i prodotti in sequestro implicherebbe una sopravvenuta «carenza di interesse» delle relative questioni. Non resta dunque che ribadire come permanga, al contrario, l’interesse a stabilire la legittimità della norma che consente alla società Ilva di commercializzare le merci nell’ambito del proprio ciclo economico e produttivo. La parte costituita, dal canto proprio, eccepisce l’irrilevanza della questione sollevata dal Tribunale, sull’assunto che l’ipotetica eliminazione dall’ordinamento del comma 3 dell’art. 3, e comunque dell’inciso inserito dal Parlamento in sede di conversione riguardo ai prodotti già 86 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 sequestrati prima dell’emanazione del decreto-legge, non influirebbe sulla decisione che il rimettente deve assumere nel caso concreto. Infatti – secondo la difesa dell’Ilva – le disposizioni citate avrebbero carattere di mera applicazione ed esplicazione della disciplina generale di cui all’art. 1 del decreto citato. In particolare, la previsione che i provvedimenti di sequestro assunti dall’autorità giudiziaria «non impediscono (…) l’esercizio dell’attività d’impresa» (comma 4) implicherebbe chiaramente la possibilità di commerciare prodotti che siano assoggettati a cautela reale, posto che il commercio della propria produzione, per una azienda manifatturiera, costituisce il nucleo fondamentale dell’attività. Dunque il Tribunale, se anche la norma censurata fosse dichiarata illegittima, dovrebbe comunque accogliere l’appello della società Ilva. L’eccezione deve essere disattesa a prescindere dalla corretta ricostruzione dei rapporti tra le varie previsioni evocate, sulla quale si tornerà trattando il merito delle questioni. Un profilo essenziale delle censure prospettate dal Tribunale, infatti, consiste nell’assunto che il comma 3 dell’art. 3 determina una situazione di ingiustificato privilegio per l’Ilva rispetto alla disciplina dettata per la generalità delle imprese. In particolare, l’inciso concernente la commercializzazione dei prodotti in sequestro, compresi quelli sottoposti alla cautela prima del decreto-legge, avrebbe carattere di vera e propria innovazione rispetto ai contenuti normativi della disposizione dettata d’urgenza, esplicando una indebita efficacia retroattiva. Il Tribunale avrebbe contraddetto la logica delle proprie censure se avesse impugnato anche l’art. 1 del decreto-legge, ed in particolare il relativo comma 4. Nei termini in cui è formulata, dunque, la questione di legittimità appare rilevante. Altro problema, com’è ovvio, è quello del suo fondamento, anche sotto il profilo dei relativi presupposti ermeneutici. Ma non potrebbe dirsi nella specie, come vorrebbe la parte costituita, che il rimettente abbia operato una carente (nel senso di incompleta) ricostruzione del quadro normativo di riferimento. 7.– Nel merito, le questioni aventi ad oggetto l’art. 1 del d.l. n. 207 del 2012 non sono fondate. 7.1.– Giova precisare l’effettiva portata dell’intervento normativo compiuto, mediante la norma censurata, in ordine alla crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale, volto a rendere compatibili la tutela dell’ambiente e della salute con il mantenimento dei livelli di occupazione, anche in presenza di provvedimenti di sequestro giudiziario degli impianti. 7.2.– Premessa generale dell’applicabilità della norma in questione è che vi sia stata la revisione dell’autorizzazione integrata ambientale di cui all’art. 4, comma 4, lettera c), del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), come modificato dall’art. 2, comma 1, del decreto legislativo 29 giugno 2010, n. 128 (Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale, a norma dell’art. 12 della legge 18 giugno 2009, n. 69). L’autorità competente rilascia l’AIA solo sulla base dell’adozione, da parte del gestore dell’impianto, delle migliori tecnologie disponibili (MTD), di cui l’amministrazione deve seguire l’evoluzione. L’AIA è dunque un provvedimento per sua natura “dinamico”, in quanto contiene un programma di riduzione delle emissioni, che deve essere periodicamente riesaminato (di norma ogni cinque anni), al fine di recepire gli aggiornamenti delle tecnologie cui sia pervenuta la ricerca scientifica e tecnologica nel settore. Questo principio è fissato dall’art. 13 della direttiva 15 gennaio 2008, n. 2008/1/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sulla prevenzione e la riduzione integrate dell’inquinamento) e attuato in Italia dall’art. 29-octies del codice dell’ambiente, il quale inoltre prevede (al comma 4) che si faccia luogo al riesame dell’AIA quando: a) l’inquinamento provocato dall’impianto è tale da rendere necessaria la revisione; b) le MTD hanno subito modifiche sostanziali, in grado di conseguire una riduzione CONTENZIOSO NAZIONALE 87 delle emissioni, senza imporre costi eccessivi; c) la sicurezza dell’impianto richiede l’impiego di altre tecniche; d) sono intervenute nuove disposizioni normative comunitarie o nazionali. Il comma 5 dello stesso art. 29-octies prevede, tra l’altro, che, nel caso di rinnovo o riesame dell’autorizzazione, l’autorità competente possa consentire deroghe temporanee ai requisiti del provvedimento originario, purché le nuove disposizioni assicurino il rispetto degli stessi requisiti entro un semestre, ed il progetto determini una riduzione dell’inquinamento. 7.3.– Ove si proceda al riesame dell’AIA, per uno dei motivi ricordati nel paragrafo precedente, il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare può autorizzare la prosecuzione dell’attività produttiva per un periodo di tempo determinato, non superiore a 36 mesi, quando si tratti di stabilimenti di «interesse strategico nazionale», individuati come tali da un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri. La qualificazione di cui sopra implica: a) che nello stabilimento sia occupato, da almeno un anno, un numero di lavoratori subordinati non inferiore a duecento, compresi quelli ammessi al trattamento di integrazione dei guadagni; b) che vi sia assoluta necessità di salvaguardia dell’occupazione e della produzione; c) che segua un provvedimento autorizzatorio del Ministro dell’ambiente, che pone la condizione dell’adempimento delle prescrizioni dell’AIA riesaminata, con il rispetto delle procedure e dei termini ivi indicati; d) che l’intervento sia esplicitamente finalizzato ad «assicurare la più adeguata tutela dell’ambiente e della salute secondo le migliori tecniche disponibili». Il comma 4 del citato art. 1 prevede che le disposizioni citate «trovano applicazione anche quando l’autorità giudiziaria abbia adottato provvedimenti di sequestro sui beni dell’impresa titolare dello stabilimento. In tale caso i provvedimenti di sequestro non impediscono, nel corso del periodo di tempo indicato nell’autorizzazione, l’esercizio dell’attività di impresa a norma del comma 1». 7.4.– L’art. 1 del d.l. n. 207 del 2012, al comma 2, stabilisce inoltre: «È fatta comunque salva l’applicazione degli articoli 29-octies, comma 4, e 29-nonies e 29-decies del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni». Il comma 3 del medesimo art. 1 prevede, in caso di inosservanza delle prescrizioni dell’AIA riesaminata, la «sanzione amministrativa pecuniaria fino al 10 per cento del fatturato della società risultante dall’ultimo bilancio approvato». La disposizione precisa il contesto normativo in cui la suddetta sanzione è applicabile: «Fermo restando quanto previsto dagli articoli 29-decies e 29-quattuordecies del decreto legislativo n. 152 del 2006 e dalle altre disposizioni di carattere sanzionatorio penali e amministrative contenute nelle normative di settore […]». 7.5.– È utile ricordare che il citato art. 29-decies del codice dell’ambiente (esplicitamente richiamato dalla norma censurata) prevede una serie di controlli e interventi, a cura delle autorità competenti, che possono sfociare in misure sanzionatorie di crescente intensità, in rapporto alla gravità delle eventuali violazioni accertate. In particolare: 1) i dati forniti dal gestore relativi ai controlli sulle emissioni richiesti dall’AIA sono messi a disposizione del pubblico, secondo le procedure previste dall’art. 29- quater (pubblicazione su quotidiani ed indicazione, su tali organi di stampa, degli uffici dove è possibile consultare la documentazione relativa); 2) l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA) deve accertare: a) il rispetto delle condizioni poste dall’AIA; b) la regolarità dei controlli a carico del gestore, con particolare riferimento alla regolarità delle misure e dei dispositivi di prevenzione dell’inquinamento nonché al rispetto dei valori limite di emissione; c) l’osservanza da parte del gestore degli obblighi di comunicazione periodica dei risultati della sorveglianza sulle emissioni del proprio impianto, specie in caso di 88 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 inconvenienti o incidenti che influiscano in modo significativo sull’ambiente. Possono essere disposte ispezioni straordinarie sugli impianti autorizzati alla prosecuzione dell’attività. È previsto altresì l’obbligo del gestore di fornire tutta l’assistenza tecnica necessaria per lo svolgimento di qualsiasi verifica relativa all’impianto, per prelevare campioni o per raccogliere qualsiasi informazione necessaria. Gli esiti dei controlli e delle ispezioni devono essere comunicati all’autorità competente ed al gestore, indicando le situazioni di mancato rispetto delle prescrizioni e proponendo le misure da adottare. Ogni organo che svolge attività di vigilanza, controllo, ispezione e monitoraggio sugli impianti e che abbia acquisito informazioni in materia ambientale, rilevanti ai fini dell’applicazione delle norme del codice dell’ambiente, comunica tali informazioni, ivi comprese le eventuali notizie di reato, all’autorità competente. I risultati del controllo delle emissioni richiesti dalle condizioni dell’AIA devono essere messi a disposizione del pubblico. In caso di inosservanza delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione, l’autorità competente procede, secondo la gravità delle infrazioni: a) alla diffida, assegnando un termine entro il quale devono essere eliminate le irregolarità; b) alla diffida e contestuale sospensione dell’attività autorizzata per un tempo determinato, ove si manifestino situazioni di pericolo per l’ambiente; c) alla revoca dell’AIA e alla chiusura dell’impianto, in caso di mancato adeguamento alle prescrizioni imposte con la diffida e in caso di reiterate violazioni, che determinino situazioni di pericolo o di danno per l’ambiente. Occorre ancora porre in rilievo che l’art. 29-quattuordecies prevede sanzioni a carico di chi viola le prescrizioni dell’AIA, o quelle comunque imposte dall’autorità competente, salvo che il fatto costituisca più grave reato (riferimento, quest’ultimo, che si risolve anche nel richiamo alle fattispecie del diritto penale comune). 8.– La semplice ricognizione della normativa sui controlli e sulle sanzioni, tuttora vigente ed esplicitamente richiamata dalla disposizione censurata, contraddice per tabulas l’assunto del rimettente Giudice per le indagini preliminari, e cioè che i 36 mesi concessi ad una impresa, che abbia le caratteristiche previste, per adeguare la propria attività all’AIA riesaminata, «costituiscono una vera e propria “cappa” di totale “immunità” dalle norme penali e processuali». Non solo la disposizione censurata non stabilisce alcuna immunità penale per il periodo sopra indicato, ma, al contrario, rinvia esplicitamente sia alle sanzioni penali previste dall’ordinamento per i reati in materia ambientale, sia all’obbligo di trasmettere, da parte delle autorità addette alla vigilanza ed ai controlli, le eventuali notizie di reato all’autorità “competente”, cioè all’autorità giudiziaria. La stessa disposizione non introduce peraltro alcuna forma di cancellazione o attenuazione delle responsabilità gravanti sui soggetti che abbiano compiuto violazioni delle norme penali poste a presidio dell’ambiente e della salute. In altri termini, la norma censurata non si configura né come abolitio criminis, né come lex mitior, e non incide pertanto in alcun modo sulle indagini, tuttora in corso, volte ad accertare la colpevolezza degli attuali indagati nel procedimento principale, per i quali, allo stato presente, non risulta essere stata ancora formulata richiesta di rinvio a giudizio. Tanto meno la disposizione è idonea a spiegare effetti di alcun genere sull’eventuale, futuro processo penale a carico dei medesimi soggetti. L’idea che nel periodo previsto dalla norma censurata sia possibile proseguire senza regole l’attività produttiva deriva, nella prospettazione del rimettente, dal rilievo che le sanzioni – come si è visto, anche penali – esplicitamente richiamate dalla stessa «non possono comunque CONTENZIOSO NAZIONALE 89 essere irrogate prima della scadenza dei 36 mesi. Unica sanzione applicabile prima dei 36 mesi in caso di inosservanza dei termini AIA è quella, come detto, del 10 % del fatturato. Sanzione che ovviamente risulta totalmente inadeguata a tutelare salute ed ambiente». Non è dato comprendere come si possa trarre, dalla lettura dell’art. 1 del d.l. n. 207 del 2012, la conclusione che la sanzione pecuniaria fino al 10% del fatturato sia l’unica irrogabile nel periodo considerato e che, dunque, la stessa sia sostitutiva delle altre sanzioni previste dalle leggi vigenti. È vero il contrario, giacché le espressioni usate dal legislatore – «fatta salva», «fermo restando» – si riferiscono in modo evidente ad una disciplina normativa complessiva e contestuale, nel cui ambito si aggiunge, alle preesistenti sanzioni amministrative e penali, la fattispecie introdotta dal comma 3 del citato art. 1, ovviamente dalla data di entrata in vigore del decreto-legge. I motivi di tale aggravamento di responsabilità si possono rinvenire nell’esigenza di prevedere una reazione adeguata delle autorità preposte alla vigilanza ed ai controlli rispetto alle eventuali violazioni in itinere delle prescrizioni AIA da parte di una impresa, già responsabile di gravi irregolarità, cui è stata concessa la prosecuzione dell’attività produttiva e commerciale a condizione che la stessa si adegui scrupolosamente alle suddette prescrizioni. Se l’effetto della nuova normativa fosse di rinviare alla scadenza del periodo previsto ogni intervento correttivo o sanzionatorio nei confronti dell’impresa che gestisce lo stabilimento di interesse strategico nazionale, cui è consentita la continuazione dell’attività nonostante il sequestro giudiziario, non avrebbe senso la previsione – contenuta nel comma 4 dell’art. 3 del d.l. n. 207 del 2012 – di un Garante «incaricato di vigilare sulla attuazione delle disposizioni del presente decreto». Secondo il comma 6 dello stesso articolo 3, il Garante «acquisisce le informazioni e gli atti ritenuti necessari che l’azienda, le amministrazioni e gli enti interessati devono tempestivamente fornire, segnalando al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e al Ministro della salute eventuali criticità riscontrate nell’attuazione della predetta autorizzazione e proponendo le idonee misure, ivi compresa l’eventuale adozione di provvedimenti di amministrazione straordinaria anche in considerazione degli articoli 41 e 43 della Costituzione». Lo stesso Garante deve promuovere tutte le iniziative atte a realizzare «la massima trasparenza per i cittadini». 8.1.– Se si leggono tali previsioni in combinazione con quelle che dispongono la perdurante applicabilità, nel corso dei 36 mesi, delle sanzioni amministrative e penali vigenti, si giunge alla conclusione che non solo non vi è alcuna sospensione dei controlli di legalità sull’operato dell’impresa autorizzata alla prosecuzione dell’attività, ma vi sono un rafforzamento ed un allargamento dei controlli sull’osservanza delle prescrizioni contenute nell’AIA riesaminata. La distinzione tra la situazione normativa precedente all’entrata in vigore della legge – e, nella generalità dei casi, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, di cui all’art. 1, comma 1 – e l’attuale disciplina consiste nel fatto che l’attività produttiva è ritenuta lecita alle condizioni previste dall’AIA riesaminata. Quest’ultima fissa modalità e tempi per l’adeguamento dell’impianto produttivo rispetto alle regole di protezione dell’ambiente e della salute, entro il periodo considerato, con una scansione graduale degli interventi, la cui inosservanza deve ritenersi illecita e quindi perseguibile ai sensi delle leggi vigenti. In conclusione sul punto, la norma censurata non rende lecito a posteriori ciò che prima era illecito – e tale continua ad essere ai fini degli eventuali procedimenti penali instaurati in epoca anteriore all’autorizzazione alla prosecuzione dell’attività produttiva – né “sterilizza”, sia pure temporaneamente, il comportamento futuro dell’azienda rispetto a qualunque infrazione delle norme di salvaguardia dell’ambiente e della salute. La stessa norma, piuttosto, 90 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 traccia un percorso di risanamento ambientale ispirato al bilanciamento tra la tutela dei beni indicati e quella dell’occupazione, cioè tra beni tutti corrispondenti a diritti costituzionalmente protetti. La deviazione da tale percorso, non dovuta a cause di forza maggiore, implica l’insorgenza di precise responsabilità penali, civili e amministrative, che le autorità competenti sono chiamate a far valere secondo le procedure ordinarie. Non è pertanto intaccato il poteredovere del pubblico ministero di esercitare l’azione penale, previsto dall’art. 112 Cost., che è pur sempre da inquadrare nelle condizioni generali poste dal contesto normativo vigente, ove, dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 207 del 2012, è considerata lecita la continuazione dell’attività produttiva di aziende sottoposte a sequestro, a condizione che vengano osservate le prescrizioni dell’AIA riesaminata, nelle quali si riassumono le regole che limitano, circoscrivono e indirizzano la prosecuzione dell’attività stessa. Non è vero neppure che la disciplina abbia inibito il ricorso allo strumento cautelare nell’ambito dei procedimenti penali volti all’accertamento di eventuali illeciti, commessi prima o dopo il rilascio del provvedimento riesaminato, ove ricorrano nuove esigenze di cautela. Il comma 4 dell’art. 1 consente chiaramente la permanenza delle misure già adottate e mira solo ad escludere che i provvedimenti di sequestro, presenti o futuri, possano impedire la prosecuzione dell’attività produttiva a norma del comma 1. 8.2.– Speculare rispetto al perdurante potere delle autorità competenti di accertare le responsabilità dei titolari dell’impresa de qua è il diritto dei cittadini, che si ritengano lesi nelle proprie situazioni giuridiche soggettive, di adire il giudice competente per ottenere i provvedimenti riparatori e sanzionatori previsti dalle leggi vigenti. Tale diritto non è inciso in senso sfavorevole dalla norma censurata, ma inserito, come ogni pretesa giuridica, nel contesto normativo di riferimento, che, come chiarito sopra, non azzera e neppure sospende il controllo di legalità, ma lo riconduce alla verifica dell’osservanza delle prescrizioni di tutela dell’ambiente e della salute contenute nell’AIA riesaminata. In definitiva, i cittadini non sono privati del diritto di agire in giudizio per la tutela delle proprie situazioni giuridiche soggettive, con relative domande risarcitorie, di cui agli artt. 24 e 113 Cost. 9.– La ratio della disciplina censurata consiste nella realizzazione di un ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, in particolare alla salute (art. 32 Cost.), da cui deriva il diritto all’ambiente salubre, e al lavoro (art. 4 Cost.), da cui deriva l’interesse costituzionalmente rilevante al mantenimento dei livelli occupazionali ed il dovere delle istituzioni pubbliche di spiegare ogni sforzo in tal senso. Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre «sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro» (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona. Per le ragioni esposte, non si può condividere l’assunto del rimettente giudice per le indagini preliminari, secondo cui l’aggettivo «fondamentale», contenuto nell’art. 32 Cost., sarebbe rivelatore di un «carattere preminente» del diritto alla salute rispetto a tutti i diritti della persona. Né la definizione data da questa Corte dell’ambiente e della salute come «valori primari» (sentenza n. 365 del 1993, citata dal rimettente) implica una “rigida” gerarchia tra diritti fondamentali. La Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti CONTENZIOSO NAZIONALE 91 fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. La qualificazione come “primari” dei valori dell’ambiente e della salute significa pertanto che gli stessi non possono essere sacrificati ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto. Il punto di equilibrio, proprio perché dinamico e non prefissato in anticipo, deve essere valutato – dal legislatore nella statuizione delle norme e dal giudice delle leggi in sede di controllo – secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale. 10.– Lo stesso giudice rimettente ritiene che la norma censurata «annienti completamente il diritto alla salute e ad un ambiente salubre a favore di quello economico e produttivo». Se questa valutazione fosse rispondente alla realtà normativa, ci si troverebbe senza dubbio di fronte ad una violazione dell’art. 32 Cost., in quanto nessuna esigenza, per quanto costituzionalmente fondata, potrebbe giustificare la totale compromissione della salute e dell’ambiente, per le ragioni prima illustrate. Tale conclusione non è tuttavia suffragata da una analisi puntuale della disposizione censurata. 10.1.– Come si è rilevato nei paragrafi precedenti, l’autorizzazione al proseguimento dell’attività produttiva è subordinata, dall’art. 1, comma 1, del d.l. n. 207 del 2012, all’osservanza delle prescrizioni dell’AIA riesaminata. La natura di tale atto è amministrativa, con la conseguenza che contro lo stesso sono azionabili tutti i rimedi previsti dall’ordinamento per la tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi davanti alla giurisdizione ordinaria e amministrativa. Il richiamo operato in generale dalla legge ha il valore di costante condizionamento della prosecuzione dell’attività produttiva alla puntuale osservanza delle prescrizioni contenute nel provvedimento autorizzatorio, che costituisce l’esito della confluenza di plurimi contributi tecnici ed amministrativi in un unico procedimento, nel quale, in conformità alla direttiva n. 2008/1/CE, devono trovare simultanea applicazione i princìpi di prevenzione, precauzione, correzione alla fonte, informazione e partecipazione, che caratterizzano l’intero sistema normativo ambientale. Il procedimento che culmina nel rilascio dell’AIA, con le sue caratteristiche di partecipazione e di pubblicità, rappresenta lo strumento attraverso il quale si perviene, nella previsione del legislatore, all’individuazione del punto di equilibrio in ordine all’accettabilità e alla gestione dei rischi, che derivano dall’attività oggetto dell’autorizzazione. Una volta raggiunto tale punto di equilibrio, diventa decisiva la verifica dell’efficacia delle prescrizioni. Ciò chiama in causa la funzione di controllo dell’amministrazione, che si avvale dell’ISPRA, con la possibilità che, in caso di accertata inosservanza da parte dei gestori degli impianti, si applichino misure che vanno – come già rilevato sopra – sino alla revoca dell’autorizzazione, con chiusura dell’impianto, in caso di mancato adeguamento alle prescrizioni imposte con la diffida o a fronte di reiterate violazioni che determinino pericolo o danno per l’ambiente. Le prescrizioni e misure contenute nell’AIA possono rivelarsi inefficaci, sia per responsabilità dei gestori, sia indipendentemente da ogni responsabilità soggettiva. In tal caso, trova applicazione la disciplina contenuta nell’art. 29-octies, comma 4, del codice dell’ambiente, che impone all’amministrazione di aprire il procedimento di riesame. 10.2.– La norma censurata parte da questo momento critico, nel quale sono accertate le carenze dell’AIA già rilasciata (che possono aver dato luogo anche a provvedimenti giudiziari di sequestro), ed avvia un secondo procedimento, che sfocia nel rilascio di un’AIA “riesaminata”, nella quale, secondo le procedure previste dalla legge, sono valutate le insufficienze delle precedenti prescrizioni e si provvede a dettarne di nuove, maggiormente idonee – anche per l’ausilio di più efficaci tecnologie – ad evitare il ripetersi dei fenomeni di inquinamento, che hanno portato all’apertura del procedimento di riesame. 92 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 In definitiva, l’AIA riesaminata indica un nuovo punto di equilibrio, che consente, secondo la norma censurata nel presente giudizio, la prosecuzione dell’attività produttiva a diverse condizioni, nell’ambito delle quali l’attività stessa deve essere ritenuta lecita nello spazio temporale massimo (36 mesi), considerato dal legislatore necessario e sufficiente a rimuovere, anche con investimenti straordinari da parte dell’impresa interessata, le cause dell’inquinamento ambientale e dei pericoli conseguenti per la salute delle popolazioni. 10.3.– Lo schema generale della norma censurata prevede quindi la combinazione tra un atto amministrativo – che tale rimane, come si vedrà più avanti, anche secondo la disciplina dettata per l’Ilva di Taranto – ed una previsione legislativa, che assume come punto di partenza il nuovo equilibrio tra produzione e ambiente delineato nell’AIA riesaminata. L’individuazione del bilanciamento, che dà vita alla nuova AIA, è, come si è visto, il risultato di apporti plurimi, tecnici e amministrativi, che può essere contestato davanti al giudice competente, nel caso si lamentino vizi di legittimità dell’atto da parte di cittadini che si ritengano lesi nei loro diritti e interessi legittimi. Lo stesso atto, peraltro, non può essere contestato nel merito delle scelte compiute dalle amministrazioni competenti, che non possono essere sostituite da altre nella valutazione discrezionale delle misure idonee a tutelare l’ambiente ed a prevenire futuri inquinamenti, quando l’esercizio di tale discrezionalità non trasmodi in un vizio denunciabile nelle sedi giurisdizionali competenti. Il punto di equilibrio contenuto nell’AIA non è necessariamente il migliore in assoluto – essendo ben possibile nutrire altre opinioni sui mezzi più efficaci per conseguire i risultati voluti – ma deve presumersi ragionevole, avuto riguardo alle garanzie predisposte dall’ordinamento quanto all’intervento di organi tecnici e del personale competente; all’individuazione delle migliori tecnologie disponibili; alla partecipazione di enti e soggetti diversi nel procedimento preparatorio e alla pubblicità dell’iter formativo, che mette cittadini e comunità nelle condizioni di far valere, con mezzi comunicativi, politici ed anche giudiziari, nelle ipotesi di illegittimità, i loro punti di vista. È appena il caso di aggiungere che non rientra nelle attribuzioni del giudice una sorta di “riesame del riesame” circa il merito dell’AIA, sul presupposto – come sembra emergere dalle considerazioni del rimettente, di cui si dirà più avanti, prendendo in esame le norme relative allo stabilimento Ilva di Taranto – che le prescrizioni dettate dall’autorità competente siano insufficienti e sicuramente inefficaci nel futuro. In altre parole, le opinioni del giudice, anche se fondate su particolari interpretazioni dei dati tecnici a sua disposizione, non possono sostituirsi alle valutazioni dell’amministrazione sulla tutela dell’ambiente, rispetto alla futura attività di un’azienda, attribuendo in partenza una qualificazione negativa alle condizioni poste per l’esercizio dell’attività stessa, e neppure ancora verificate nella loro concreta efficacia. 10.4.– In conclusione sul punto, in via generale, la combinazione tra un atto amministrativo (AIA) e una previsione legislativa (art. 1 del d.l. n. 207 del 2012) determina le condizioni e i limiti della liceità della prosecuzione di un’attività produttiva per un tempo definito, in tutti i casi in cui uno stabilimento – dichiarato, nei modi previsti dalla legge, di interesse strategico nazionale – abbia procurato inquinamento dell’ambiente, al punto da provocare l’intervento cautelare dell’autorità giudiziaria. La normativa censurata non prevede, infatti, la continuazione pura e semplice dell’attività, alle medesime condizioni che avevano reso necessario l’intervento repressivo dell’autorità giudiziaria, ma impone nuove condizioni, la cui osservanza deve essere continuamente controllata, con tutte le conseguenze giuridiche previste in generale dalle leggi vigenti per i comportamenti illecitamente lesivi della salute e dell’ambiente. Essa è pertanto ispirata alla finalità di attuare un non irragionevole bilanciamento tra CONTENZIOSO NAZIONALE 93 i princìpi della tutela della salute e dell’occupazione, e non al totale annientamento del primo. 11.– La norma generale censurata non si pone in contrasto con il principio di eguaglianza, di cui all’art. 3 Cost., perché non introduce – come invece affermano i rimettenti – una ingiustificata differenziazione di disciplina tra stabilimenti “strategici” e altri impianti, sulla base di un atto amministrativo – un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri – dotato di eccessiva discrezionalità, derivante dalla genericità dei criteri di individuazione di tali stabilimenti. Si deve osservare, in proposito, che l’interesse strategico nazionale ad una produzione, piuttosto che ad un’altra, è elemento variabile, in quanto legato alle congiunture economiche e ad un’altra serie di fattori non predeterminabili (effetti della concorrenza, sviluppo tecnologico, andamento della filiera di un certo settore industriale etc.). Si giustifica pertanto l’ampiezza della discrezionalità che la norma censurata riconosce al Governo, e per esso al Presidente del Consiglio dei ministri, in quanto organi che concorrono a definire la politica industriale del Paese. Trattandosi, peraltro, di provvedimento amministrativo, il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri può essere oggetto di impugnazione, al pari dell’AIA riesaminata del Ministro dell’ambiente, che, secondo la medesima norma, consente la prosecuzione dell’attività produttiva, anche in presenza di sequestri dell’autorità giudiziaria. Quanto all’indice numerico dei lavoratori occupati, va ricordato che si tratta della soglia già utilizzata dal legislatore nella disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, di cui all’art. 2 del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270 (Nuova disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, a norma dell’articolo 1 della legge 30 luglio 1998, n. 274). In tale disciplina, la tutela dell’attività imprenditoriale e dei livelli occupazionali, come indicati, giustifica la sottrazione dell’impresa insolvente al fallimento e l’ingresso in una procedura concorsuale ad hoc, con finalità di conservazione delle attività aziendali, mediante prosecuzione, riattivazione e riconversione dell’esercizio. La norma censurata presenta caratteristiche analoghe, in quanto mira a perpetuare l’esistenza di grandi aziende, la cui chiusura avrebbe gravi effetti sui livelli di occupazione. Si tratta quindi di una disciplina differenziata per situazioni a loro volta differenziate, meritevoli di specifica attenzione da parte del legislatore, che non viola pertanto il principio di eguaglianza. Quest’ultimo impone – come emerge dalla nota e costante giurisprudenza di questa Corte – discipline eguali per situazioni eguali e discipline diverse per situazioni diverse, con il limite generale dei princìpi di proporzionalità e ragionevolezza, che non viene nella fattispecie superato, giacché le ricadute sull’economia nazionale e sui livelli di occupazione sono diverse, per l’effetto combinato dei fattori cui prima si faceva cenno. Sarebbe, al contrario, irragionevole una disciplina che parificasse tutte le aziende produttive, a prescindere dalla loro dimensione e incidenza sul mercato e, quindi, dagli effetti che la loro scomparsa determinerebbe. 12.– L’art. 3, comma 1, del d.l. n. 207 del 2012 individua direttamente nell’impianto siderurgico della società Ilva di Taranto uno stabilimento di interesse strategico nazionale, di cui all’art. 1, comma 1, del medesimo atto normativo. Si tratta di legge in luogo di provvedimento, poiché sostituisce il proprio dettato al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri previsto dalla norma generale. 12.1.– Come è noto, la prevalente dottrina e la giurisprudenza di questa Corte non considerano la legge-provvedimento incompatibile, in sé e per sé, con l’assetto dei poteri stabilito dalla Costituzione. In particolare, si deve ribadire in questa sede che «nessuna disposizione costituzionale […] comporta una riserva agli organi amministrativi o “esecutivi” degli atti a contenuto particolare e concreto» (ex plurimis, sentenza n. 143 del 1989). 94 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 Le leggi provvedimento devono soggiacere tuttavia «ad un rigoroso scrutinio di legittimità costituzionale per il pericolo di disparità di trattamento insito in previsioni di tipo particolare e derogatorio» (ex plurimis, sentenza n. 2 del 1997; in senso conforme, sentenza n. 20 del 2012). Questa Corte ha inoltre precisato che la legittimità costituzionale di tale tipo di leggi va valutata in relazione al loro specifico contenuto, con la conseguenza che devono emergere i criteri che ispirano le scelte con esse realizzate, nonché le relative modalità di attuazione (ex plurimis, sentenze n. 137 del 2009, n. 267 del 2007 e n. 492 del 1995). Poiché gli atti legislativi normalmente non contengono motivazioni, «è sufficiente che detti criteri, gli interessi oggetto di tutela e la ratio della norma siano desumibili dalla norma stessa, anche in via interpretativa, in base agli ordinari strumenti ermeneutici» (sentenza n. 270 del 2010). Con riferimento alla funzione giurisdizionale, questa Corte ha stabilito altresì che non può essere consentito al legislatore di «risolvere, con la forma della legge, specifiche controversie e di vanificare gli effetti di una pronuncia giurisdizionale divenuta intangibile, violando i princìpi relativi ai rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale e concernenti la tutela dei diritti e degli interessi legittimi» (sentenza n. 94 del 2009, conforme a sentenza n. 374 del 2000). La giurisprudenza della Corte EDU ha costantemente affermato che «il principio dello stato di diritto e la nozione di giusto processo custoditi nell’art. 6 precludono, tranne che per impellenti ragioni di interesse pubblico, l’interferenza dell’assemblea legislativa nell’amministrazione della giustizia al fine di influenzare la determinazione giudiziaria di una controversia » (Corte EDU, sez. II, sentenza 14 dicembre 2012, Arras contro Italia, in conformità alla giurisprudenza precedente). Dal canto suo, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha costantemente affermato che contro tutti gli atti, anche aventi natura legislativa, «gli Stati devono prevedere la possibilità di accesso a una procedura di ricorso dinanzi a un organo giurisdizionale o ad altro organo indipendente ed imparziale istituito dalla legge» (sentenza 16 febbraio 2012, in causa C- 182/10, Solvay et al. vs. Région wallone, in conformità alla giurisprudenza precedente). 12.2.– Con riferimento all’individuazione diretta dell’impianto siderurgico della società Ilva di Taranto come «stabilimento di interesse strategico nazionale», si deve osservare che a Taranto si è verificata una situazione grave ed eccezionale, che ha indotto il legislatore ad omettere, per ragioni di urgenza, il passaggio attraverso un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri in vista della qualificazione di cui sopra. Sia la normativa generale che quella particolare si muovono quindi nell’ambito di una situazione di emergenza ambientale, dato il pregiudizio recato all’ambiente e alla salute degli abitanti del territorio circostante, e di emergenza occupazionale, considerato che l’eventuale chiusura dell’Ilva potrebbe determinare la perdita del posto di lavoro per molte migliaia di persone (tanto più numerose comprendendo il cosiddetto indotto). La temporaneità delle misure adottate risponde, inoltre, ad una delle condizioni poste dalla giurisprudenza di questa Corte perché una legislazione speciale fondata sull’emergenza possa ritenersi costituzionalmente compatibile (sentenza n. 418 del 1992). Le brevi notazioni in fatto relative all’incidenza, sull’ambiente e sull’occupazione nel territorio di Taranto, dell’attività produttiva dell’Ilva consentono, nella fattispecie, di rinvenire la ratio dell’intervento legislativo «nel peculiare regime che connota le situazioni di emergenza» (sentenza n. 237 del 2007). Il legislatore ha ritenuto di dover scongiurare una gravissima crisi occupazionale, di peso ancor maggiore nell’attuale fase di recessione economica nazionale e internazionale, senza tuttavia sottovalutare la grave compromissione della salubrità dell’ambiente, e quindi della salute delle popolazioni presenti nelle zone limitrofe. CONTENZIOSO NAZIONALE 95 Si deve notare, al proposito, che l’AIA riesaminata del 26 ottobre 2012, esplicitamente richiamata dall’art. 3 in esame, ha anticipato di quattro anni l’obbligo di adeguamento alle conclusioni delle migliori tecniche disponibili relative al settore siderurgico, di cui alla decisione della Commissione europea n. 2012/135/UE, già citata. Difatti, il considerando 8 di tale decisione, dopo aver richiamato l’art. 21 della direttiva n. 2010/75/UE, stabilisce che «entro quattro anni dalla data di pubblicazione delle decisioni sulle conclusioni sulle BAT [MTD], l’autorità competente riesamina e, se necessario, aggiorna tutte le condizioni di autorizzazione e garantisce che l’installazione sia conforme a tali condizioni di autorizzazione». Si deve pure sottolineare che l’art. 3 del d.l. n. 207 del 2012 non apporta alcuna deroga alla normativa generale contenuta nell’art. 1, ma si limita a dare alla stessa pedissequa esecuzione, per mezzo di un provvedimento con forza di legge, che è un atto del Governo, di cui fa parte il Presidente del Consiglio dei ministri, sottoposto al controllo del Parlamento in sede di conversione e della Corte costituzionale in sede di giudizio incidentale, come effettivamente avvenuto nel caso presente. Né può dirsi, come afferma il rimettente Giudice per le indagini preliminari, che la forma legislativa dell’individuazione dell’Ilva di Taranto come «stabilimento di interesse strategico nazionale» comprometta il diritto di tutela giurisdizionale, che sarebbe possibile invece esercitare in presenza di un atto amministrativo. Questa Corte ha infatti osservato che «in assenza nell’ordinamento attuale di una “riserva di amministrazione” opponibile al legislatore, non può ritenersi preclusa alla legge ordinaria la possibilità di attrarre nella propria sfera di disciplina oggetti o materie normalmente affidate all’azione amministrativa […] con la conseguenza che il diritto di difesa […] non risulterà annullato, ma verrà a connotarsi secondo il regime tipico dell’atto legislativo adottato, trasferendosi dall’ambito della giustizia amministrativa a quello proprio della giustizia costituzionale» (sentenza n. 62 del 1993). Non ha neppure fondamento l’affermazione, dello stesso rimettente, che vi sia stata una “legificazione” dell’AIA riesaminata, con la conseguenza che contro tale atto amministrativo, nel caso specifico dell’Ilva di Taranto, non sarebbero esperibili i normali rimedi giurisdizionali. È vero, al contrario, che l’AIA è pur sempre – come statuito in via generale dall’art. 1, non contraddetto dall’art. 3 – un presupposto per l’applicabilità dello speciale regime giuridico, che consente la continuazione dell’attività produttiva alle condizioni ivi previste. In quanto presupposto, essa rimane esterna all’atto legislativo, con tutte le conseguenze, in termini di controllo di legalità, da ciò derivanti. Il comma 2 dell’art. 3 richiama l’AIA del 26 ottobre 2012 allo scopo di ribadire lo stretto condizionamento della prosecuzione dell’attività all’osservanza delle nuove prescrizioni poste a tutela dell’ambiente e della salute, ferma restando naturalmente la natura dinamica del provvedimento, che può essere successivamente modificato e integrato, con relativa possibilità di puntuali controlli in sede giurisdizionale. In altri termini, sia la norma generale, sia quella che si riferisce in concreto all’Ilva di Taranto, si interpretano agevolmente nel senso che l’azienda interessata è vincolata al rispetto delle prescrizioni dell’AIA, quale è e quale sarà negli eventuali sviluppi successivi, e che l’entrata in vigore del d.l. n. 207 del 2012 non ha precluso né preclude tutti i rimedi giurisdizionali esperibili riguardo ad un atto amministrativo. La giurisprudenza di questa Corte ha riconosciuto l’esistenza di una presunzione di rinvio formale agli atti amministrativi, ove gli stessi siano richiamati in una disposizione legislativa, tranne che la natura recettizia del rinvio stesso emerga in modo univoco dal testo normativo (sentenza n. 311 del 1993); circostanza, questa, che non ricorre necessariamente neppure quando l’atto sia indicato in modo specifico dalla norma legislativa (sentenze n. 80 del 2013 e n. 536 del 1990). Come può chiaramente desumersi dal testo della disposizione censurata, 96 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 l’intento del legislatore non è stato quello di incorporare l’AIA nella legge, ma solo di prevedere – come illustrato nel paragrafo 10 – un effetto combinato di atto amministrativo e legge, effetto che mantiene la sua peculiarità e la sua efficienza rispetto al fine, a condizione che rimangano ferme la natura dell’uno e dell’altra. 12.3.– Dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 207 del 2012 – che contiene sia la disciplina generale dell’attività degli stabilimenti di interesse strategico nazionale sottoposti ad AIA riesaminata, sia la diretta individuazione dell’Ilva di Taranto come destinataria di tale normativa – il sequestro del materiale prodotto, disposto dal Giudice per le indagini preliminari, e il divieto della sua commercializzazione, hanno perduto il loro presupposto giuridico, che consisteva nell’inibizione, derivante dal precedente sequestro, della facoltà d’uso dello stabilimento. Quest’ultimo infatti trova la sua unica funzione nella produzione dell’acciaio e tale attività, a sua volta, ha senso solo se lo stesso può essere commercializzato. Occorre notare come la disciplina generale, di cui all’art. 1 del decreto-legge citato, preveda che, anche in costanza di provvedimenti di sequestro dei beni dell’impresa titolare dello stabilimento, è consentito «l’esercizio dell’attività di impresa» (comma 4), che comprende sia la produzione che la commercializzazione del materiale prodotto, l’una inscindibilmente connessa all’altra. Tanto la norma generale appena richiamata, quanto quella particolare riferentesi all’Ilva di Taranto, non prevedono né dispongono la revoca dei sequestri disposti dall’autorità giudiziaria, ma autorizzano la prosecuzione dell’attività per un periodo determinato ed a condizione dell’osservanza delle prescrizioni dell’AIA riesaminata. La ratio delle due discipline è dunque che si proceda ad un graduale, intenso processo di risanamento degli impianti, dal punto di vista delle emissioni nocive alla salute e all’ambiente, senza dover necessariamente arrivare alla chiusura dello stabilimento, con conseguente nocumento per l’attività economica, che determinerebbe a sua volta un elevato incremento del tasso di disoccupazione, già oggi difficilmente sostenibile per i suoi costi sociali. Se l’adeguamento della struttura produttiva non dovesse procedere secondo le puntuali previsioni del nuovo provvedimento autorizzativo, sarebbe cura delle autorità amministrative preposte al controllo – e della stessa autorità giudiziaria, nell’ambito delle proprie competenze – di adottare tutte le misure idonee e necessarie a sanzionare, anche in itinere, le relative inadempienze. 12.4.– Il rimettente Giudice per le indagini preliminari lamenta che il comma 3 dell’art. 3 del d.l. n. 207 del 2012 abbia invaso la sfera di competenza costituzionalmente riservata all’autorità giudiziaria ed abbia quindi violato il principio della separazione dei poteri. La lesione sarebbe dovuta sia alla reimmissione dell’Ilva S.p.A. nel possesso dei beni aziendali, sia all’autorizzazione alla commercializzazione dei prodotti, ivi compresi quelli realizzati antecedentemente alla data di entrata in vigore del medesimo decreto-legge. Sarebbe stata, in particolare, violata la riserva di giurisdizione, desumibile dal combinato disposto degli artt. 102, primo comma, e 104, primo comma, Cost. Tale riserva implicherebbe l’intangibilità del giudicato, che, nella specie, si presenterebbe come «giudicato cautelare», dato che il provvedimento di riesame sul sequestro degli impianti non è stato oggetto di ricorso per cassazione, e che la società Ilva ha rinunciato al gravame proposto contro l’analogo provvedimento assunto per i materiali lavorati e semilavorati. Si deve precisare preliminarmente che il cosiddetto «giudicato cautelare» non consiste in una decisione giurisdizionale definitiva, che conclude un processo, ma è un’espressione di creazione giurisprudenziale – oggetto tuttora di discussioni ed ancora non precisato in alcuni suoi aspetti – con cui viene indicata una preclusione endoprocessuale. Si deve altresì osservare che tale preclusione opera rebus sic stantibus, con la conseguenza che ogni mutamento signi- CONTENZIOSO NAZIONALE 97 ficativo del quadro materiale o normativo di riferimento vale a rimuoverla, reintroducendo il dovere del giudice di valutare compiutamente l’intera situazione. Sulla base delle precedenti considerazioni, si deve escludere che la norma censurata abbia travolto un “giudicato” nel senso tecnico-processuale del termine, e cioè – giova ripeterlo – la decisione giudiziale definitiva di una controversia. Si deve ritenere, invece, che la disposizione abbia modificato il quadro normativo sulla cui base sono stati emessi alcuni provvedimenti cautelari, ed abbia creato pertanto una nuova situazione di fatto e di diritto, in quanto la produzione può riprendere non con le modalità precedenti – che avevano dato luogo all’intervento dell’autorità giudiziaria – ma con modalità nuove e parzialmente diverse, ponendo le premesse perché si verifichino in futuro fatti che dovranno essere nuovamente valutati dai giudici, ove aditi nelle forme rituali. 12.5.– Occorre inoltre mettere maggiormente a fuoco la nozione di “riserva di giurisdizione”, posta dai rimettenti a fondamento della lamentata violazione del principio della separazione dei poteri. Con tale espressione si possono indicare due distinti, seppur collegati, princìpi, entrambi presenti nella Costituzione. Il primo – enunciato in modo esplicito da una serie di norme costituzionali (artt. 13, 14, 15 e 21) – consiste nella necessità che tutti i provvedimenti restrittivi di alcune libertà fondamentali debbano essere adottati «con atto motivato dell’autorità giudiziaria», a garanzia del modo indipendente ed imparziale di applicare la legge in questo campo. Intesa in questo senso, la riserva di giurisdizione risulta evidentemente estranea all’odierno giudizio. Il secondo principio – non enunciato esplicitamente da una singola norma costituzionale, ma chiaramente desumibile in via sistematica da tutto il Titolo IV della Parte II della Costituzione – consiste nella esclusiva competenza dei giudici – ordinari e speciali – a definire con una pronuncia secondo diritto le controversie, che coinvolgano diritti soggettivi o interessi legittimi, loro sottoposte secondo le modalità previste dall’ordinamento per l’accesso alle diverse giurisdizioni. Con riferimento alla giurisdizione penale, la «riserva di sentenza», di cui sinora s’è detto, è integrata nella Costituzione italiana dalla riserva al pubblico ministero dell’esercizio dell’azione penale, che costituisce un potere esclusivo, ma anche un dovere dei titolari di tale funzione giudiziaria (art. 112 Cost.). L’esame delle norme impugnate nel presente giudizio conduce alla conclusione che non vi è violazione della “riserva di giurisdizione” neppure nella seconda, più ampia, accezione illustrata. Pende attualmente davanti all’Autorità giudiziaria di Taranto un procedimento penale – ancora nella fase delle indagini preliminari – volto ad accertare la responsabilità penale di alcuni soggetti, in relazione a reati, di danno e di pericolo, derivanti dall’inquinamento provocato negli anni passati dall’attività dello stabilimento siderurgico Ilva S.p.A., attività che si assume tenuta in violazione di norme e prescrizioni a tutela della salute e dell’ambiente. Si può rilevare con certezza che nessuna delle norme qui censurate è idonea ad incidere, direttamente o indirettamente, sull’accertamento delle predette responsabilità, e che spetta naturalmente all’autorità giudiziaria, all’esito di un giusto processo, l’eventuale applicazione delle sanzioni previste dalla legge. Come si è già chiarito al paragrafo 8, le disposizioni censurate non cancellano alcuna fattispecie incriminatrice né attenuano le pene, né contengono norme interpretative e/o retroattive in grado di influire in qualsiasi modo sull’esito del procedimento penale in corso, come invece si è verificato nella maggior parte dei casi, di cui si sono dovute occupare la Corte costituzionale italiana e la Corte di Strasburgo nelle numerose pronunce risolutive di dubbi di legittimità riguardanti leggi produttive di effetti sulla definizione di processi in corso. 98 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 12.6.– Residua il problema della legittimità dell’incidenza di una norma legislativa su provvedimenti cautelari adottati dall’autorità giudiziaria non in funzione conservativa delle fonti di prova – nel qual caso si ricadrebbe nell’incidenza sull’esito del processo – ma con finalità preventive, sia in ordine alla possibilità di aggravamento o protrazione dei reati commessi o alla prevedibile commissione di ulteriori reati (art. 321, primo comma, cod. proc. pen.), sia in ordine alla conservazione di beni che possono formare oggetto di confisca, in caso di condanna degli imputati (art. 321, secondo comma, cod. proc. pen., in relazione all’art. 240 cod. pen.). Il sequestro degli impianti, senza facoltà d’uso, è stato disposto a norma del primo comma dell’art. 321 cod. proc. pen., in base all’assunto che la continuazione dell’attività produttiva avrebbe senza dubbio aggravato l’inquinamento ambientale, già accertato con perizia disposta in sede di incidente probatorio, e avrebbe provocato ulteriore nocumento ai lavoratori dell’impianto e agli abitanti delle aree viciniori. Si deve rilevare in proposito che l’aggravamento delle conseguenze di reati già commessi o la commissione di nuovi reati è preventivabile solo a parità delle condizioni di fatto e di diritto antecedenti all’adozione del provvedimento cautelare. Mutato il quadro normativo – che in effetti non è rimasto invariato, contrariamente a quanto sostenuto dai rimettenti – le condizioni di liceità della produzione sono cambiate e gli eventuali nuovi illeciti penali andranno valutati alla luce delle condizioni attuali e non di quelle precedenti. Si deve anche mettere in rilievo che la produzione siderurgica è in sé e per sé lecita, e può divenire illecita solo in caso di inosservanza delle norme e delle prescrizioni dettate a salvaguardia della salute e dell’ambiente. Mutate quelle norme e quelle prescrizioni, occorre una valutazione ex novo della liceità dei fatti e dei comportamenti, partendo dalla nuova base normativa. Né può essere ammesso che un giudice (ivi compresa questa Corte) ritenga illegittima la nuova normativa in forza di una valutazione di merito di inadeguatezza della stessa, a prescindere dalla rilevata violazione di precisi parametri normativi, costituzionali o ordinari, sovrapponendo le proprie valutazioni discrezionali a quelle del legislatore e delle amministrazioni competenti. Tale sindacato sarebbe possibile solo in presenza di una manifesta irragionevolezza della nuova disciplina dettata dal legislatore e delle nuove prescrizioni contenute nell’AIA riesaminata. Si tratta di un’eventualità da escludere, nella specie, per le ragioni illustrate nei paragrafi precedenti, che convergono verso la considerazione complessiva che sia il legislatore, sia le amministrazioni competenti, hanno costruito una situazione di equilibrio non irragionevole. Ciò esclude, come detto prima, un “riesame del riesame”, che non compete ad alcuna autorità giurisdizionale. Si deve ritenere, in generale, che l’art. 1 del d.l. n. 207 abbia introdotto una nuova determinazione normativa all’interno dell’art. 321, primo comma, cod. proc. pen., nel senso che il sequestro preventivo, ove ricorrano le condizioni previste dal comma 1 della disposizione, deve consentire la facoltà d’uso, salvo che, nel futuro, vengano trasgredite le prescrizioni dell’AIA riesaminata. Nessuna incidenza sull’attività passata e sulla valutazione giuridica della stessa e quindi nessuna ricaduta sul processo in corso, ma solo una proiezione circa i futuri effetti della nuova disciplina. La reimmissione della società Ilva S.p.A. nel possesso degli impianti è la conseguenza obbligata di tale nuovo quadro normativo, affinché la produzione possa continuare alle nuove condizioni, la cui osservanza sarà valutata dalle competenti autorità di controllo e la cui intrinseca sufficienza sarà verificata, sempre in futuro, secondo le procedure previste dal codice dell’ambiente. Il sequestro dei prodotti è stato disposto, invece, ai sensi sia del primo che del secondo comma dell’art. 321 cod. proc. pen., giacché si è inteso, da parte del giudice procedente, non solo prevenire la commissione di nuovi reati, ma anche preservare tali beni per l’ipotesi che CONTENZIOSO NAZIONALE 99 gli stessi possano essere confiscati, in seguito alla condanna definitiva degli imputati. Nella motivazione del sequestro dei materiali si può notare una mescolanza delle finalità connesse al primo e al secondo comma della norma processuale citata. Lo scopo addotto è infatti quello di «bloccare l’attività criminosa in corso, atteso che, allo stato, si versa nell’assurda, perdurante situazione che beni frutto di tale attività possano essere commercializzati ed essere fonte di guadagni in capo ai soggetti che la stessa hanno realizzato e continuato a realizzare. Senza ulteriore indugio occorre bloccare il prodotto dei reati contestati e quindi il profitto di essi che altrimenti si consoliderebbe nelle tasche degli indagati attraverso la commercializzazione dell’acciaio, cioè sulla “pelle” degli operai dell’ILVA e della popolazione interessata all’attività inquinante del siderurgico che invece occorre bloccare». E ancora, sarebbe indubbio che «la libera disponibilità del prodotto finito e/o semilavorato […] e la conseguente possibilità della sua remunerata collocazione sul mercato, stia incentivando gli organi aziendali a perseverare, nell’allettante ottica di ulteriori profitti, immediati e futuri, nella produzione industriale con modalità contrarie alla legge […]». Si evidenzia, come accennato, la stretta combinazione tra il sequestro delle strutture produttive e quello dei materiali prodotti: i due provvedimenti sono accomunati dalla finalità ultima, esplicitamente dichiarata, di provocare la chiusura dell’impianto, considerata l’unico mezzo per avviare un effettivo risanamento del territorio e l’unico strumento di tutela della salute della popolazione. Con il sequestro dei materiali giacenti nell’area dello stabilimento, in particolare, si mira a far mancare le risorse indispensabili per la prosecuzione dell’attività aziendale, che provengono, come per ogni impresa produttiva, dalla vendita dei prodotti sul mercato. L’incerta linea divisoria tra provvedimenti cautelari funzionali al processo, di competenza dell’autorità giudiziaria, e provvedimenti di prevenzione generale, spettanti, nel rispetto delle leggi vigenti, all’autorità amministrativa, è facilmente oltrepassabile sia in un senso che nell’altro. Quando però il confine risulta superato, non può certo determinarsi la conseguenza dell’inibizione del potere di provvedere secondo le attribuzioni costituzionali, ed in particolare della possibilità, per il legislatore, di disciplinare ulteriormente una determinata materia. L’avere l’amministrazione, in ipotesi, male operato nel passato non è ragione giuridico-costituzionale sufficiente per determinare un’espansione dei poteri dell’autorità giudiziaria oltre la decisione dei casi concreti. Una soggettiva prognosi pessimistica sui comportamenti futuri non può fornire base valida per una affermazione di competenza. A prescindere poi da ogni patologia della relazione tra cautela giudiziaria e funzioni amministrative regolate dalla legge, è fin troppo ovvio che l’attualità della prima non può inibire il dispiegarsi delle seconde, sul presupposto di una indefinita permanenza delle situazioni precedenti, venute in essere in un quadro normativo e in una situazione di fatto differenti. Alla luce di quanto detto, si può concludere che, nella fattispecie oggetto del presente giudizio, non sussiste alcuna lesione della riserva di giurisdizione. L’intervento del legislatore, che, con una norma singolare, autorizza la commercializzazione di tutti i prodotti, anche realizzati prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 207 del 2012, rende esplicito un effetto necessario e implicito della autorizzazione alla prosecuzione dell’attività produttiva, giacché non avrebbe senso alcuno permettere la produzione senza consentire la commercializzazione delle merci realizzate, attività entrambe essenziali per il normale svolgimento di un’attività imprenditoriale. Distinguere tra materiale realizzato prima e dopo l’entrata in vigore del decreto-legge sarebbe in contrasto con la ratio della norma generale e di quella speciale, entrambe mirate ad assicurare la continuazione dell’attività aziendale, e andrebbe invece nella direzione di rendere il più difficoltosa possibile l’attività stessa, 100 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 assottigliando le risorse disponibili per effetto della vendita di materiale non illecito in sé, perché privo di potenzialità inquinanti. Le considerazioni anzidette valgono anche con specifico riguardo alle modifiche introdotte nel comma 3 dell’art. 3 in sede di conversione, che presentano una chiara natura esplicativa del portato di quanto stabilito, sul piano generale come con riguardo specifico alla società Ilva. La norma censurata regola, in definitiva, una situazione di fatto che si è venuta a creare dopo l’entrata in vigore del decreto-legge, diversa dalla precedente e dunque suscettibile di una differente disciplina giuridica, che, per le ragioni esposte, non presenta profili di irragionevolezza. Quanto infine alla temuta dispersione di beni che potrebbero formare oggetto di una futura confisca, si deve riconoscere al legislatore, ancora una volta, la possibilità di modulare pro futuro l’efficacia e la portata stessa di un vincolo cautelare a seconda della natura del suo oggetto e degli interessi convergenti sulla situazione considerata. Il bilanciamento ormai più volte descritto, e più volte misurato in termini di ragionevolezza, ha implicato nella specie una forte attenuazione della garanzia reale nella sua attitudine ad impedire la circolazione della cosa sequestrata, che peraltro non è il solo ed assorbente profilo della cautela. In ogni caso, il decremento della garanzia è del tutto corrispondente al vantaggio perseguito per la tutela degli interessi di rilievo costituzionale che gravitano su beni necessari all’esercizio di imprese di rilievo strategico, con conseguenti ricadute occupazionali, e per tale ragione risulta non irragionevole. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 1 e 3 della legge 24 dicembre 2012, n. 231 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207, recante disposizioni urgenti a tutela della salute, dell'ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale) – recte, degli artt. 1 e 3 del decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207 (Disposizioni urgenti a tutela della salute, dell’ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale), come convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 231 del 2012 – sollevate dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Taranto, in riferimento agli artt. 25, primo comma, 27, primo comma e 117, primo comma, della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe; dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 3 della legge n. 231 del 2012 – recte, degli artt. 1 e 3 del decreto-legge n. 207 del 2012, come convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 231 del 2012 – sollevate dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Taranto, in riferimento agli artt. 2, 3, 9, secondo comma, 24, primo comma, 32, 41, secondo comma, 101, 102, 103, 104, 107, 111, 112 e 113 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe; dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge n. 231 del 2012 – recte, dell’art. 3 del decreto-legge n. 207 del 2012, come convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 231 del 2012 – sollevate dal Tribunale ordinario di Taranto, in riferimento agli artt. 3, 24, 102, 104 e 112 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 aprile 2013. CONTENZIOSO NAZIONALE 101 Giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo Natura giuridica dell’articolo 2932 c.c., e sua compatibilità con la struttura del processo amministrativo e con i principi di effettività della tutela ex art. 1 c.p.a., nonché con l’art. 24 Cost. (Nota a Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 20 luglio 2012 n. 28) Angela Fragomeni* Giuliano Gambardella** SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. La decisione. - 3. L’evoluzione storica dei poteri attribuiti al giudice ordinario e al giudice amministrativo. - 4. Natura giuridica dell’art. 2932 c.c. e la sua applicabilità da parte del giudice amministrativo. - 4.a) Fondamento e inquadramento sistematico dell’azione ex art. 2932 con specifico riferimento alla trascrizione. - 4.b) L’azione di esecuzione specifica ex art. 2932 c.c. nella giurisdizione esclusiva. Profili processuali alla luce dei più recenti orientamenti giurisprudenziali. - 4.c) Breve disamina sulla efficacia soggettiva del giudicato amministrativo e rapporto col giudizio di ottemperanza. - 5. Le principali ipotesi di giurisdizione esclusiva e relativa applicazione con riferimento ad edilizia economica e popolare. - 6. Conclusioni. 1. Premessa. Con la sentenza resa in Adunanza Plenaria n. 28/2012, il Consiglio di Stato torna ad occuparsi della problematica afferente all’applicabilità dell’articolo 2932 c.c. al processo amministrativo. In particolare, con la pronuncia in rassegna, i giudici di Palazzo Spada sono arrivati alla conclusione di attribuire alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e non anche a quella del giudice ordinario, l’applicabilità dell’azione ex art. 2932 c.c. con riferimento alle opere di urbanizzazione ed alla cessione gratuita all’ente delle aree stradali e dei servizi. Quello che più appare poco chiaro, nonché suscettibile di osservazioni all’interno della pronuncia in esame è l’aspetto inerente la natura giuridica dell’azione di cui all’art. 2932 c.c., con particolare riferimento al quomodo attraverso cui il giudice potrà procedere, effettivamente ed in concreto, all’ esecuzione forzata, non anche a quella coattiva. Se è vero infatti che si ha la legittima facoltà di procedere in ottemperanza ai fini della cessione di un bene della pubblica amministrazione, quid iuris laddove si proceda in ottemperanza per un bene privato? (*) Avvocato del libero Foro. (**) Dottorando di ricerca in Diritto amministrativo, Università degli Studi di Roma Tor Vergata. La nota che qui si pubblica è stata revisionata, prima dell’invio in redazione, dall’avv. IGNAZIO FRANCESCO CARAMAZZA. 102 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 2. Decisione. Nella decisione de qua, il Supremo Consesso Amministrativo ha risolto due importanti problematiche. Per quanto concerne la prima, si trattava di decidere sull’applicabilità o meno dell’articolo 2932 c.c. al processo amministrativo, ed il Consiglio di Stato ha accolto le tesi dell’Amministrazione. Per quanto concerne invece la seconda problematica, i giudici di Palazzo Spada dovevano verificare se sussisteva la giurisdizione, che è stata riconosciuta al giudice amministrativo. 3. L’evoluzione storica dei poteri attribuiti al giudice ordinario e al giudice amministrativo. La tematica affrontata dalla sentenza in rassegna richiede preliminarmente di soffermarsi sui poteri attribuiti dall’ordinamento al giudice ordinario e al giudice amministrativo. Per quanto concerne i poteri del giudice ordinario, bisogna distinguere principalmente tra poteri cognitori e poteri decisori, mentre la legge cui bisogna fare riferimento è quella abolitrice del contenzioso amministrativo, le cui disposizioni devono essere richiamate. Stabilisce l’articolo 2 della legge n. 2248 del 1865 allegato E., che il sindacato del giudice ordinario sulle controversie aventi ad oggetto un diritto soggettivo in cui sia parte una pubblica amministrazione non trovava e non trova ostacoli di carattere oggettivo, nel senso che non ostava e non osta la presenza di un formale provvedimento dell’autorità amministrativa, né rileva che si tratti di atti dell’amministrazione dello Stato o di altra pubblica amministrazione. A stabilire, più dell’articolo 2 una linea di demarcazione rispetto alla funzione amministrativa è l’articolo 3 della legge n. 2248/1865 e ciò lo si desume soprattutto dall’inciso “gli affari non compresi nell’articolo precedente” e che riservava all’amministrazione la tutela giustiziale in materia di interessi. Contrariamente all’articolo 3, l’articolo successivo parla esplicitamente di limitazioni, stabilendo che “i tribunali si limiteranno a conoscere degli effetti dell’atto in relazione all’oggetto dedotto in giudizio”, precisando subito dopo il contenuto di questi divieti: “l’atto amministrativo non potrà essere revocato né modificato, nemmeno dopo che sia stata accertata e dichiarata l’illegittimità”. A completare il divieto imposto al giudice ordinario e la riserva di amministrazione è l’articolo 4 secondo comma, che stabilisce che la revoca e/o modifica dell’atto pur dichiarato illegittimo, è appunto riservata “alle competenti autorità amministrative” alle quali l’interessato può richiederla. L’articolo appena menzionato, insieme all’articolo successivo, costituiscono un limite all’esercizio dei poteri del giudice ordinario e precisamente un limite interno, concernente appunto i poteri del G.O. in relazione agli atti amministrativi e tale limitazione trova fondamento nel principio di separazione dei poteri. Quest’ultimo comporta che ogni potere debba rimanere nei propri CONTENZIOSO NAZIONALE 103 limiti e perciò l’amministrazione è legittimata ad emanare i provvedimenti amministrativi, ed il giudice deve giudicare; se si ammettesse che quest’ultimo abbia la possibilità di annullare, revocare o modificare il provvedimento che gli viene sottoposto, gli si darebbe il potere, sia pure nel caso singolo, di sostituirsi all’organo amministrativo competente. Manca da esaminare però l’articolo 5, che, altro non è, se non un corollario dell’articolo precedente. Infatti quando la legge stabilisce che “applicherà gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi” significa che, ove questa conformità sia esclusa in conseguenza di un’accertata illegittimità, il giudice non solo non è tenuto ad applicarli, ma è tenuto a non applicarli e quindi a disapplicarli. Disapplicare il provvedimento significa risolvere la controversia come se il provvedimento non esistesse, ricostruendo quindi il rapporto controverso prescindendo dagli effetti dallo stesso prodotti. Voci autorevoli (1) usano distinguere tra disapplicazione principale ed incidentale. La prima si ha quando l’atto disapplicato è la fonte diretta della lesione (è il provvedimento che incide direttamente sul diritto soggettivo devoluto al giudice ordinario). Nel secondo caso, invece, il provvedimento da disapplicare avviene solo in via indiretta, senza essere la fonte diretta della lesione, nell’ambito del rapporto in cui oggetto principale è altro (ad esempio una controversia tra due proprietari confinanti in cui si discute la legittimità del permesso di costruire rilasciato dalla P.A. a favore di uno dei due). Va pertanto precisato che i limiti di cui agli artt. 4 e 5 L.A.C. non sono stati costituzionalizzati, nel senso che, non è precluso al legislatore ordinario attribuire al G.O. sempre a tutela di diritti soggettivi, anche il potere di annullare o modificare atti amministrativi (cosi come accade anche per le sanzioni amministrative, per i decreti di espulsione e per i provvedimenti del Garante della Privacy). Un altro approfondimento, per avere una visione completa e chiara dei poteri spettanti al giudice ordinario, va fatto con riferimento alla proponibilità delle azioni ed alle relative pronunce. Secondo autorevole dottrina (2), le pronunce del giudice ordinario nelle controversie in cui sia parte la P.A. possono essere classificate principalmente in: sentenze di condanna, sentenze dichiarative, sentenze di accertamento, sentenze costitutive, di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere un contratto ed azioni possessorie e di enunciazione. Per quanto concerne le sentenze di condanna a tutela dei diritti di credito, (1) R. CHIEPPA, R. GIOVAGNOLI, Manuale di diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 2011, p. 1026. (2) G. CHIOVENDA, Saggi di diritto processuale civile, Giuffrè, Milano, 1993. 104 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 è pacifica in linea di principio la loro ammissibilità, a condizione però che si specifichi il tipo di prestazione che viene imposta con la pronuncia, dato che non tutte le prestazioni possono essere ingiunte dal giudice ad una amministrazione, sempre in ossequio alle regole di riserva in favore di questa. Nessun problema, invece, si pone per l’ammissibilità delle sentenze di condanna al pagamento di una somma di denaro, trattandosi di un bene assolutamente fungibile. Nessun dubbio sull’ammissibilità delle sentenze dichiarative (dette anche di mero accertamento), che costituiscono la forma tipica delle sentenze del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione, dirette all’accertamento di uno stato di fatto o di diritto, in ordine all’accertamento della illiceità di un atto o comportamento e ciò al fine di eliminare l’incertezza e il dissenso interno ai medesimi e, nel contempo, di procurare una prova pubblica ed incontestabile della situazione accertata (3). L’altra tipologia delle sentenze, pacificamente ammesse, anche in dottrina (4) sono quelle di accertamento, che non pongono nel nulla alcun atto amministrativo, né impongono coattivamente prestazioni di vario genere, né si sostituiscono all’amministrazione nell’esercizio di una potestà amministrativa, limitandosi invece a fare chiarezza su un punto di fatto o di diritto controverso o comunque incerto, per riconoscere o contestare una pretesa che assuma di trovare il proprio fondamento proprio su di esso. Ed è a questo risultato di certezza ufficiale ed incontrovertibile (una volta che si sia formato il giudicato) che tende la domanda giudiziale e che questo tipo di sentenze assicura (5). Contrariamente alle precedenti sentenze, come osserva la più autorevole dottrina (6) è pacifica l’ammissibilità delle sentenze costitutive, in quanto modificative del preesistente rapporto tra le parti. Le limitazioni poste dall’art. 4 L.a.c. sono ostative a questo genere di sentenze, dato che l’annullamento o la (3) “Le azioni dichiarative, sempre consentite contro la P.A., sono quelle dirette all’accertamento di uno stato di fatto o di diritto (dichiarazione dell’illegittimità o dell’illiceità di un atto o un comportamento amministrativo) al fine di eliminare l’incertezza ed il dissenso interno ai medesimi e di procurare una prova pubblica ed inconfutabile della situazione accertata” in FRANCESCO CARINGELLA, Giustizia amministrativa, III ed., Simone, Napoli 2003. (4) “Del tutto pacifica l’ammissibilità dell’azione di accertamento: perché l’accoglimento della domanda non modifica l’assetto esistente (non incide cioè sull’atto emesso dall’autorità), ma si limita ad accertare una situazione giuridica o di fatto: per es., che una certa area che secondo l’autorità fa parte del demanio, in realtà è di proprietà privata” in G. CORSO, La giustizia amministrativa, II ed., Il Mulino, Bologna, 2002. (5) N. SAITTA, Sistema di giustizia amministrativa, Giuffrè, Milano, 2011, p. 22. (6) “Poiché il giudice ordinario non può sostituirsi all’autorità amministrativa nell’esercizio delle potestà pubblicistiche, è da escludersi, al di fuori delle ipotesi previste dalle leggi speciali (stato civile, liste elettorali, depenalizzazione), la proponibilità nei confronti della pubblica amministrazione di azioni costitutive, sia che esse tendano all’annullamento, revoca, riforma di un provvedimento richiesto dal privato (ad. es autorizzazione, concessione) e negato dall’amministrazione” in GUIDO ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, VIII ed., vol. II, Giuffrè, Milano, 1958. CONTENZIOSO NAZIONALE 105 semplice modifica di un provvedimento amministrativo comporta sempre effetto creativo, modificativo ed estintivo, in contrasto con il principio di separazione dei poteri dello Stato. Ancor più problematica, soprattutto nel caso di specie, è, secondo la dottrina più illuminante (7), l’ammissibilità nell’ambito delle sentenze costitutive, delle azioni dirette ad ottenere l’emanazione di una sentenza che, rilevato l’obbligo dell’amministrazione di concludere un contratto, tenga luogo del contratto non concluso (art. 2932 c.c.). A ben guardare, la proponibilità appare scontata sol che si rifletta sul carattere ormai vincolato dell’attività demandata all’amministrazione una volta che sia sorto l’obbligo di stipulare e sul fatto che il giudice, quando pronuncia a norma dell’art. 2932, “non impone alla P.A. un comportamento determinato, né realizza coattivamente la prestazione ad essa dovuta, ma attua la legge attraverso la pronuncia costitutiva” (8). Per completezza espositiva si citano anche le azioni possessorie, quelle di enunciazione o quasi possessorie, quando destinataria di esse sia una pubblica amministrazione. (7) M. NIGRO, Giustizia amministrativa, a cura di E. Cardi e A. Nigro, VI ed., Il Mulino, Bologna, 2002. (8) N. SAITTA, N. SAITTA bis. Della retrocessione dei beni espropriati non utilizzati o non utilizzabili per lo scopo per il quale erano stati originariamente espropriati, che nel caso in cui l’amministrazione espropriante non adempia al suo obbligo di restituire questi beni, obbligo che non è di sola e semplice dazione materiale del bene, ma anche di ritrasferimento della proprietà agli aventi diritto, il ricorso al giudice non può che mirare ad una sentenza che è solo per un aspetto di condanna alla restituzione, essendo, soprattutto, una sentenza costitutiva, dove il trasferimento della proprietà dei beni retrocedenti, ossia l’effetto costitutivo reale che sarebbe conseguito da un consensuale atto di compravendita, viene ricollegato direttamente ed esclusivamente alla pronuncia del giudice. In tal caso, ancorchè sia esatto che la sentenza tiene luogo del contratto non concluso (ipotesi del tutto identica all’art. 2932 c.c.), non può superficialmente affermarsi, per poi trarne un preteso divieto, che la volontà del giudice si sostituisce inammissibilmente a quella dell’amministrazione dato che la sentenza nulla aggiunge a quanto la stessa legge prevede (naturalmente a beni retrocedendi già individuati ed a prezzo di retrocessione già determinato), sicchè il ritrasferimento del diritto di proprietà non è imputabile ad una volontà (quella del giudice) diversa da quella dell’amministrazione espropriante ed alla quale si sostituirebbe, ma è opera della legge e la sentenza di retrocessione non è altro che lo strumento attraverso il quale si attua la volontà della legge stessa. Entrato in vigore il d. lgs. 80/1998, si pensò che le controversie in materia di retrocessione totale fossero ormai divenute di competenza del giudice amministrativo, con la conseguente vanificazione delle dispute di cui sopra circa il potere del giudice ordinario, che non potevano riguardare il giudice amministrativo subentrato al primo. Le pronunce della Corte Costituzionale hanno però rimescolato il tutto rimettendo in discussione la giurisdizione del giudice amministrativo in una materia che non presentava gli stessi elementi di esercizio di potere autoritativo, la retrocessione essendo interamente prefigurata dalla legge - indicati dalla giurisprudenza costituzionale come connotati indefettibili per l’attribuzione della competenza esclusiva al giudice amministrativo. Un riscontro significativo di questa ennesima svolta dell’esame delle questioni connesse alla retrocessione totale si registra in giurisprudenza (T.a.r. Toscana, Sez. I, 6 novembre 2006, n. 5079), dove si legge che “a seguito delle pronunce di incostituzionalità, le controversie in materia di diritto alla retrocessione totale ex art. 63 legge 25 giugno 1865, n.2359, già pacificamente devolute all’autorità giudiziaria ordinaria (Cass. Sez. Unite, 8 giugno 1998, n .5619), devono nuovamente ritenersi estranee alla giurisdizione esclusiva (T.a.r. Lazio, Sez. II, 13 marzo 2006, n. 1916; T.a.r. Puglia Sez.II, 6 Giugno 2005, n. 2742; T.a.r. Basilicata, 21 dicembre 2004, n. 839)”. 106 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 Entrambe le azioni possessorie tipiche non sono in linea di principio esperibili perché vi osta l’inammissibile prestazione che sarebbe ingiunta dalla sentenza di condanna a cui tendono. Analizzate le attribuzioni del giudice ordinario ed i suoi limiti, è ora necessario, per capire la decisione in commento, esaminare i poteri del giudice amministrativo. Autorevole dottrina (9), non aveva mancato di osservare che, la giurisdizione ammininistrativa ordinaria non è assolutamente unitaria, nel senso di presentare gli stessi contenuti e le stesse forme di esercizio della potestà giurisdizionale. Esistono tre tipi di giurisdizione, rispettivamente di legittimità, di merito e speciale. Originariamente prevista nel testo unico del Consiglio di Stato e poi confluita nel codice del processo amministrativo, questa classificazione è posta dalle norme; in particolare, l’art. 26 del testo unico prevede la competenza di legittimità; l’articolo successivo dello stesso testo, la competenza “anche nel merito”; l’articolo 29, della competenza esclusiva. Delle ultime due competenze si occupavano rispettivamente gli artt. 1 e 4 del t.u. delle giunte prov. Amministrative, non più in vigore, successivamente l’art. 7 della legge T.a.r. ed ora il codice del processo amministrativo che mantiene la tripartizione del 24, indicando i tre tipi di giurisdizione nel comma 3 dell’art. 7 per poi descriverne il contenuto nei tre commi successivi ed il quadro generale che ne risulta non è affatto nuovo. La classificazione non è omogenea (10), perché la distinzione tra i tre tipi di competenze non si fonda su di un criterio unico. Infatti la distinzione fra i due tipi di competenze, la competenza di legittimità e quella “anche in merito”, è ottenuta sulla base della considerazione del potere di cognizione, vale a dire del tipo di sindacato esercitato, del giudice amministrativo. Nella competenza di mera legittimità, esso giudica della legittimità dell’atto amministrativo e cioè della conformità dell’atto a principi e precetti giuridici e può pronunciare solo l’annullamento del medesimo; nella competenza di merito invece il giudice può sindacare anche l’opportunità dell’atto e cioè la conformità di esso a principi e regole di buona amministrazione e può non solo annullare l’atto amministrativo ma anche sostituirgli totalmente o parzialmente un proprio atto (artt. 26, 27 e 45 t.u. C.d.s. e art. 26 legge T.a.r.). Invece l’individuazione della giurisdizione esclusiva è ottenuta con riferimento alla natura delle situazioni giuridiche in ordine alle quali si esercita la giurisdizione, e più precisamente, con riferimento al fatto che essa cade anche su diritti soggettivi (art. 7 legge n. 1034/1971 come modificato dal d.lgs. 80 /1998): si tratta (9) M. NIGRO, Op. ult. cit., p. 215. (10) M. NIGRO, Op. ult. cit., p. 216. CONTENZIOSO NAZIONALE 107 cioè di materie in cui, in deroga ai principi fondamentali di riparto delle giurisdizioni, il giudice amministrativo conosce non solo di interessi legittimi, ma anche di diritti soggettivi, in contrapposizione quindi a quella giurisdizione la quale, sia di legittimità o sia di merito, cade solo su interessi legittimi. La dottrina più attenta (11) ha avuto modo di osservare che la distinzione tra competenza di legittimità, competenza “anche in merito” e competenza esclusiva risente, innanzitutto, di molte imprecisioni nelle collocazioni e qualificazioni operate dal legislatore. Esempio è l’art. 27 n. 3 t.u. C.d.s. che elenca tra le materie di competenza “anche nel merito” e cioè non esclusiva, le contestazioni sui confini fra Comuni e province, che è invece da ritenere cadano sui diritti soggettivi e l’art. 29 n. 4 e ultimo comma t.u. C.d.s., che estende anche nel merito la competenza esclusiva del giudice amministrativo sulle controversie tra lo Stato ed i suoi creditori, derivante dall’applicazione delle norme sul debito pubblico, nelle quali controversie non vi possono essere né valutazioni di opportunità, né provvedimenti sostitutivi. Esistono poi delle difficoltà di definire l’ambito esatto di alcune attribuzioni legislative di competenza; per esempio l’estensione della giurisdizione esclusiva dei T.a.r. nelle materie, attribuite loro dall’art. 33 del d.lgs. 80/1998 foriero di problematiche applicative (12). Si risente infine delle incertezze che altre volte i silenzi del legislatore ingenerano circa la natura della competenza attribuita al giudice amministrativo in certe materie. Con l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, i casi di giurisdizione esclusiva di competenza del giudice amministrative sono stati raggruppati in una “norma catalogo” dello stesso tipo di quelle che raggruppano i casi di giurisdizione di merito, di competenza funzionale, di rito speciale, oppure elencano le disposizioni pregresse da abrogare o coordinare. Merita precisare che il codice, all’art. 133, non offre ulteriori indicazioni di ordine procedurale che servano a caratterizzare sul piano applicativo le ipotesi di giurisdizione esclusiva, rispetto a quelle che già erano state fornite in precedenza dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Deroghe alle regole del processo amministrativo scaturiscono dal fatto che il giudice amministrativo, in queste circostanze, va a sindacare sui diritti soggettivi. La prima deroga concerne i termini prescrizionali entro i quali ricorrere, fermi restando i termini decadenziali nei casi in cui si impugni un atto non paritetico lesivo di interessi legittimi. Sotto il profilo processuale, una novità c’è e riguarda il fatto che il giudice amministrativo va a sindacare sui diritti soggettivi, pure ai fini risarcitori. (11) M. NIGRO, Op. ult. cit., p. 218. (12) F. VILLATA, Prime considerazioni sull’art. 35 del D. lgs. n. 80 del 1998, in Dir. Proc. Amm., 1999, p. 2888 e ss. 108 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 Pertanto la disposizione di cui all’art. 7 comma 5 fa da pendant con quella di cui all’art. 7 comma 4 del C.p.a., quest’ultima concernente la disciplina della giurisdizione generale di legittimità. Come è stato osservato da voci autorevolissime (13), la norma sulla giurisdizione rende palese che quella innanzi al giudice amministrativo è una giurisdizione piena, nel senso che per le diverse posizioni giuridiche soggettive azionabili davanti il giudice amministrativo sono esperibili adeguati strumenti di tutela ivi compresa quella risarcitoria. 4. Natura giuridica dell’art. 2932 c.c. e la sua applicabilità da parte del giudice amministrativo. 4.a) Fondamento e inquadramento sistematico dell’azione ex art. 2932 con specifico riferimento alla trascrizione. L’itinerario riformatore iniziato alla fine degli anni ’90 e, confermato nella sostanza dalla giurisprudenza costituzionale (14), ha avuto di recente un importante sbocco normativo, a carattere organico nel d. lgs. n. 104/2010, attuativo della delega di cui all’art. 44 l. n. 69/ 2009, che contiene importanti principi innovativi. Il mutamento dell’assetto della nostra giustizia amministrativa è stato rilevante. Ha acquistato un volto quasi irriconoscibile se comparato con quello anteriore. Contestualmente è mutato lo stesso diritto amministrativo come diritto sostanziale che regola i rapporti e stabilisce l’ambito delle situazioni protette che nei confronti dell’esercizio del potere emergono a tutela dell’ordinamento. Attiene infatti al diritto sostanziale la previsione dei mezzi di tutela (le azioni) di cui le situazioni protette usufruiscono alla stregua dell’ordinamento, attraverso i quali esse, appunto, rilevano come situazioni protette (o situazioni giuridiche soggettive) piuttosto che come meri interessi di fatto. Dal diritto sostanziale viene individuato il livello di protezione delle diverse situazioni, delle une rispetto alle altre, livello che può essere differente nella valutazione dell’ordinamento nonché nei limiti consentiti dai principi costituzionali (15). In tale nuovo assetto di tutela, le situazioni soggettive protette nei rapporti di diritto pubblico e raggruppate nel genus degli interessi legittimi ex art. 24 Cost. (16), tendono alla equiparazione rispetto alle situazioni protette nell’ambito dei rapporti di diritto comune, raggruppate nel genus dei diritti soggettivi (13) R. CHIEPPA, Il codice del processo amministrativo, Giuffrè, Milano, 2010. (14) Corte Costituzionale, storiche sentenze 204/2004, 191/2006 e 140/2007. (15) V. CERULLI IRELLI, Giurisdizione amministrativa e pluralità delle azioni (dalla Costituzione al Codice del processo amministrativo), in Diritto Processuale Amministrativo 2/2012, p. 470 e ss. (16) Art. 24 Cost. “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. La legge determina le condizioni ed i modi per la riparazione degli errori giudiziari”. CONTENZIOSO NAZIONALE 109 (17) ex art. 24 Cost., come quelle capaci di usufruire di tutti i mezzi di tutela riconosciuti dall’ordinamento giuridico. L’assetto appena descritto è, non soltanto conforme ai principi costituzionali, bensì attuativo di essi, nonché dei principi di tutela giurisdizionale elaborati in sede europea: in particolare nella giurisprudenza della Corte di Giustizia U.E., che in ordine alle controversie in cui si applica il diritto comunitario detta principi vincolanti per gli Stati membri (18). Questi si possono esprimere nel binomio della pienezza ed effettività della tutela (19) che, in termini generali, significa che tutte le situazioni protette devono poter usufruire dei mezzi di tutela, cioè le azioni, le quali, di fronte ad una determinata situazione protetta ed al tipo di rapporto in cui si colloca siano necessari ad assicurare che la protezione sia effettiva, quindi in grado di tradursi sul piano pratico nella soddisfazione sostanziale degli interessi che delle situazioni protette costituiscono il substrato sostanziale. L’estensione di tali principi alla tutela giurisdizionale nell’ambito dei rapporti di diritto pubblico, presuppone l’equiparazione del trattamento giuridico delle situazioni protette come situazioni sostanziali anche nei rapporti di diritto pubblico, laddove la peculiarità è che la soddisfazione dell’interesse è frutto nei casi concreti dell’esercizio del potere, la cui doverosità viene modulata diversamente rispetto ai rapporti di diritto comune. L’esigenza della pluralità delle azioni a tutela di situazioni protette nell’ambito del diritto pubblico acquista valore costituzionale e appare inoltre impostata sui valori del giusto processo (20). Insomma il pieno riconoscimento del carattere sostanziale degli interessi legittimi si identifica coi principi di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale e pertanto con la necessaria pluralità delle azioni (21). Gran parte delle azioni previste a tutela delle situazioni protette nelle controversie di diritto pubblico sono tipiche, cioè previste dalla legge e sottoposte alle discipline proprie. Vengono ammesse anche azioni atipiche, se richieste da particolari esi- (17) V. CERULLI IRELLI, Op. ult. cit., p. 471 ss. (18) V. da ultimo, Corte di giustizia 18 marzo 2010, C-317/08, C-320/08; 14 febbraio 2008, C- 450-2006; CEDU in Riv. Dir. Internaz., 2010, 842; 31 marzo 2009, in Dir Pubbl. Comp. Eur., 2009, 1111 con nota M. DE VITO, La Corte europea dei diritti dell’uomo si pronuncia ancora sul malfunzionamento della legge “Pinto” ma ne ribadisce l’effettività ex art. 13 Cedu; V. CERULLI IRELLI, Trasformazioni del sistema di tutela giurisdizionale nelle controversie di diritto pubblico per effetto della giurisprudenza europea, in Rivista It. Dir. Pubb. Com., 2008. (19) Consacrati dall’art. 1 c.p.a. che recita “La giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo”. (20) Che diventano pertanto principi di rango costituzionale, vincolanti per l’interprete e a fronte dei quali occorre stabilire la legittimità di norme e istituti. (21) A. PAJNO, Il codice del processo amministrativo ed il superamento dl sistema della giustizia amministrativa. Una introduzione al libro I, in Rivista di diritto processuale amministrativo, fasc. 1, 2011, p. 100 e ss. 110 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 genze di tutela della situazione sostanziale (22). Il principio di effettività, in particolare, trova nel nostro sistema fondamentale manifestazione nella previsione di un’efficace tutela esecutiva e relativa al giudizio di ottemperanza per alcuni aspetti dal carattere icastico rispetto alla tutela esecutiva di cui al codice di procedura civile; il che consente al giudice amministrativo, ricorrendo al commissario ad acta, di tradurre le sue statuizioni in atti e fatti che le pubbliche amministrazioni devono porre in essere a soddisfazione di pretese violate che il giudice accerti come fondate (23). Le sentenze e gli altri provvedimenti a contenuto decisorio (principalmente le ordinanze cautelari) del giudice amministrativo sono esecutivi. In talune ipotesi, tuttavia, un’attività esecutiva è necessaria perché il provvedimento del giudice nel suo contenuto accertativo o dispositivo possa in concreto tradursi in fatti satisfattivi delle pretese di parte che lo stesso giudice ha ritenuto fondate e che pertanto devono essere soddisfatte. A tal proposito, parte della dottrina è molto critica nei confronti del rimedio esecutivo come rimedio utile ad assicurare una pronuncia che non si limiti alla declaratoria del torto di una parte e del diritto dell’altra, bensì elimini dalla scena giuridica l’atto e i suoi effetti (24). Da qui quindi l’esigenza di verificare se la tutela nei confronti di situazioni potestative non possa godere in sede di giurisdizione civile di quel tasso di satisfattività che comporterebbe riconoscere all’organo giudicante la possibilità di produrre, tramite sentenza, l’effetto giuridico riconosciuto conforme all’ordinamento, ma non prodottosi, ricalcando altresì nei confronti dei poteri privati quella tecnica di difesa da lungo tempo sperimentata nel processo amministrativo rispetto al diritto pubblico. La dottrina e la giurisprudenza non ammettevano la possibilità di esercizio consensuale del potere in ordine alle materie di urbanistica ed edilizia, tanto che dottrina autorevole sosteneva che perfino la lottizzazione edilizia in realtà era esercizio di funzione autoritativa di programmazione urbanistica nella quale la convenzione di lottizzazione aveva un ruolo meramente accessivo ed integrativo dell’efficacia del procedimento di pianificazione. Lo strumento di pianificazione appena contemplato, veniva inquadrato o nell’ambito della cosiddetta autorizzazione alla lottizzazione (ex art. 28 della legge urbanistica) ovvero nei cosiddetti contratti ad oggetto pubblico (25). Ad ogni modo, in entrambe le soluzioni, per principio non poteva darsi luogo a fattispecie di applicazione dell’art. 2932 c.c., perché il potere discre- (22) S. RAIMONDI, Le azioni, le domande proponibili e le relative pronunzie, in Rivista di diritto processuale amministrativo, fasc. 8, 2011, p. 913 e ss. (23) B. SASSANI, Dal controllo del potere all’attuazione del rapporto. Ottemperanza amministrativa e tutela civile esecutiva, Giuffrè, Milano, 1997. (24) A. CORPACI, in Diritto pubblico, 1999, fasc. 2, p. 643 e ss. (25) M.S. GIANNINI, Diritto Amministrativo, vol. II, Giuffrè, Milano, 1993, p. 356 e ss. CONTENZIOSO NAZIONALE 111 zionale amministrativo e tecnico rimaneva nell’esclusiva sfera di disponibilità dell’amministrazione. Quel che appare pacifico è l’elemento della “personalità”, con riferimento all’art. 2932 c.c., il quale, pur avendo appunto natura personale, incide sulla sfera di autonomia di volontà del debitore, senza per questo però tangere la sua sfera giuridica. Si ricordi che la collocazione della norma all’interno del codice ha comportato qualche perplessità data l’ontologica differenza tra questa fattispecie rispetto agli altri tipi di esecuzione forzata. Nella Relazione di accompagnamento al Codice, infatti, si affermava che le ipotesi giuridiche riconducibili all’art. 2932 c.c. avrebbero potuto condursi più propriamente nella categoria dell’art. 2908 c.c. (sentenze costitutive). Tuttavia, è apparso più opportuno inserirlo nel quadro dell’esecuzione in vista della sua finalità. La ratio cha ha giustificato l’inserimento di questa norma è stata l’esigenza di superare il fermo orientamento giurisprudenziale che all’epoca escludeva l’esperibilità di tale azione in assenza di una specifica previsione normativa, in quanto si riteneva che l’obbligo di fare contenuto nel contratto preliminare fosse incoercibile. Quel che si sosteneva era l’impossibilità per il giudice di adottare un provvedimento volto a surrogare la volontà di una parte di concludere il contratto definitivo, in quanto appariva inverosimile rendere possibile l’attuazione di un qualcosa che avrebbe potuto compiere proprio e solo il debitore (26). Stando alla disciplina ad oggi vigente, la norma regola le fattispecie di violazione degli obblighi a contrarre di fonte non contrattuale, siano essi di fonte legale ovvero negoziale. La disposizione in parola non riguarda solo le ipotesi di inadempimento di un contratto preliminare, bensì ogni altra fattispecie da cui derivi l’obbligazione di prestare il consenso. Per quanto riguarda i preliminari che hanno ad oggetto la conclusione di contratti ad efficacia obbligatoria, si è ritenuto non dia luogo a sentenza produttiva di effetti del contratto non concluso l’ipotesi in cui sia previsto un mero obbligo di trasferimento del bene, senza che sia specificato o quantomeno indicato il tipo di contratto produttivo di tale effetto; ne consegue solo il risarcimento del danno in caso di inadempimento. La dottrina maggioritaria tende ad escludere l’applicabilità della presente disposizione ai preliminari ad effetti reali in ragione della mancanza del fatto materiale della traditio del bene oggetto del negozio che, unitamente alla manifestazione del consenso, costituisce elemento imprescindibile per tale tipologia di contratti (27). Essendo diretta a far valere un diritto di obbligazione nascente da un contratto al fine di conseguire una pronuncia che disponga il trasferimento del bene di pertinenza del pro- (26) L . COVIELLO, Contratto preliminare, in Enclopedia giuridica italiana, III, 3, 2, Milano 1902, p. 68 e ss. (27) G. CIAN, A.TRABUCCHI, Commento all’art. 2932 c.c. in Commentario breve al Codice Civile, VIII edizione, CEDAM, Padova, 2007, p. 3772. 112 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 mittente alienante, l’azione ex art. 2932 c.c. ha natura personale e non reale. Quindi potrà essere esperita nei confronti di chi ha assunto detta obbligazione. Con l’avvento del Codice del 1942, in realtà, si aprì la via a nuove costruzioni teoriche, fondate sull’idea che l’oggetto del preliminare non era la semplice manifestazione della volontà di contrarre, bensì la promessa la quale, attraverso il compimento del negozio risultava già tecnicamente perfetta ed idonea a far passare l’entità giuridica dalla sfera dell’alienante all’altrui sfera giuridica. La posizione soggettiva del creditore venne configurata come diritto assoluto a cui corrispondeva un mero obbligo del debitore di conformare il fatto al diritto, ovverosia l’obbligo di prestare il consenso. La volontà della stipulazione dell’atto si interpretò come una volontà di adempimento, meramente strumentale, che poteva essere sostituita dal provvedimento giudiziale in quanto l’obbligo risultava fungibile ope legis. La parte maggioritaria della dottrina sosteneva che il perno attorno a cui ruota questo tipo di architettura fosse il principio “solus consensus sufficit”, secondo cui la determinazione precettiva delle parti si traduce in un evento giuridico idoneo a trasporre in via immediata ed esecutiva il comportamento materiale del debitore inadempiente rispetto all’obbligo contenuto nel preliminare. L’obbligo che discende dal preliminare, cioè, non è un generico obbligo a contrarre, ma rappresenta un obbligo specifico del debitore di far conseguire al creditore un determinato risultato già insito nel suo diritto potestativo: il debitore, cioè, non deve fare nulla per creare la situazione giuridica che fa capo al creditore; nulla può realmente fare per non subire gli effetti che discendono ex lege da questa tipologia di diritti. Alla data odierna, appare pacifico che tutti i contratti, per cui sia necessaria la traditio rei per la realizzazione di interessi, sono validi ed efficaci in virtù dell’accordo (28). Per questo profilo, quindi, la ricerca è tesa a dimostrare la generalità dell’ambito applicativo dell’articolo 2932 c.c, inteso quale espressione di un principio che va oltre la fattispecie ivi contemplata della mancata conclusione del contratto, per riguardare complessivamente la varia realtà dell’inadempimento dell’obbligo di prestare dichiarazione di volontà efficiente, consentendo così di dare tutela in forma specifica a tutti quei diritti il cui conseguimento dipende dall’esercizio di situazioni potestative altrui (29). (28) G. PALERMO, Contratto preliminare, CEDAM, Padova, 1991, p. 36 e ss. (29) Art. 2932 c.c. rubricato Esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere un contratto: “Se colui che è obbligato a concludere un contratto non adempie l’obbligazione, l’altra parte qualora sia possibile e non sia escluso dal titolo può ottenere una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso. Se si tratta di contratti che hanno per oggetto il trasferimento del titolo della proprietà di una cosa determinata o la costituzione o il trasferimento di un altro diritto la domanda non può essere accolta, se la domanda che l’ha proposta non esegue la sua prestazione ovvero non ne fa offerta nei modi stabiliti dalla legge, a meno che la prestazione non sia ancora eseguibile”. CONTENZIOSO NAZIONALE 113 L’assegnazione alla previsione sull’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere un contratto del rango di norma generale legittimante la surrogazione ope legis della volontà dovuta e mancata, passa attraverso la relativa azione in termini di tutela esecutiva nella forma di un processo in cui alla struttura cognitiva si affianca la soddisfazione del diritto. In tal senso, allora, parte maggioritaria della dottrina si è espressa nel senso di una interpretazione generalizzante ed estensiva dell’art. 2932 c.c., che vada quindi oltre il contratto preliminare. In proposito, cioè, ricorrono le regole generali ermeneutiche ed applicative della legge in forza delle quali, ancor prima di valutare la generalità piuttosto che la specialità di una prescrizione normativa, occorre procedere all’analisi della sua ratio, quindi della funzione cui è teleologicamente orientata quella norma. È necessario, quindi, considerare la prescrizione quale risposta concreta ad un problema pratico, al fine di valutare se gli elementi del problema coincidano integralmente con quelli descritti dalla norma. La considerazione dell’art. 2932 c.c., come soluzione, permette quindi di affermare che il fatto che nella norma sia prevista la mancata conclusione del contratto identifica il mezzo di connotazione delle altre varietà di inadempimento dell’obbligo di prestare una dichiarazione di volontà efficiente. La legge, quindi, può rappresentarsi come produzione di effetti che ognuno ha diritto di chiedere con successivo diritto di vedere prodotti taluni effetti a seguito di provvedimento giudiziale (30). La sentenza che consente l’attuazione giurisdizionale del diritto al contratto rientra nel novero delle sentenze costitutive determinando ex nunc il mutamento della situazione sostanziale che si sarebbe dovuto produrre a seguito del consenso prestato dalla parte che vi si era obbligata, agendo in tal modo come surrogato del contratto definitivo. A seguito del passaggio in giudicato della sentenza, si origina un rapporto di natura negoziale e sinallagmatica e l’efficacia sostitutiva della sentenza emessa ex art. 2932 c.c. non impedisce che gli effetti traslativi della sentenza stessa siano condizionati all’adempimento da parte del promissario acquirente di specifiche obbligazioni previste nel contratto preliminare, posto che la pronuncia giudiziale, sostituendo il contratto che avrebbe dovuto concludersi, non può avere un contenuto diverso da quello della promessa, laddove ciò sia possibile e non escluso dal titolo. La sentenza ex art. 2932 c.c. dovrà rispecchiare integralmente e fedelmente le convenzioni negoziali fissate dalle parti nel preliminare (31). 4.b) L’azione di esecuzione specifica ex art. 2932 c.c. nella giurisdizione esclusiva. Profili processuali alla luce dei più recenti orientamenti giurisprudenziali. La sentenza ex art. 2932 c.c. è, in particolare, ammissibile solo laddove (30) A. CORPACI, Op. ult. cit., p. 645 e ss. (31) G. CIAN, A. TRABUCCHI, Op. ult. cit., p. 3775. 114 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 la stessa abbia incidenza puramente formale sulle situazioni giuridiche soggettive, essendo le stesse già comprese nell’assetto di interessi determinato dalle parti. Il giudice pertanto potrà solo intervenire in via integrativa, giammai nell’intento di surrogare la volontà del soggetto inadempiente (32). Tale limite, in verità, trae il proprio fondamento dal fatto che non sussiste nel costrutto normativo una deroga al principio della libertà di disporre, riconosciuto a livello costituzionale ex art. 41 Cost., nonché recepito nel vigente Codice civile anche attraverso norme specificamente volte al suo formale riconoscimento. Non si pensi erroneamente a tal punto che la sentenza rappresenti una mera riproduzione del contenuto del preliminare, giacchè il giudice potrà tener conto delle sopravvenienze solo nei limiti delle modificazioni necessarie per dare effettiva attuazione alla volontà privata (33). La domanda giudiziale prevista dall’art. 2932 c.c. è soggetta all’onere della trascrizione; parimenti soggetta alla trascrizione ex art. 2643 n. 14, è la sentenza relativa di accoglimento (34). L’art. 2643 c.c. contempla una serie di mutamenti giuridici cui occorre dare pubblicità, ai fini di cui all’art. 2644 c.c., quando rappresentino la conseguenza di certi atti o provvedimenti. Dall’art. 2645 c.c., poi, che dispone doversi rendere pubblico, sempre ai fini di cui al’art. 2644 c.c., anche ogni altro atto o provvedimento che produca in relazione ai beni immobili o ai diritti immobiliari taluno degli effetti dei contratti menzionati nell’art. 2643 c.c., si ricava che la trascrizione, quando venga in considerazione uno dei mutamenti giuridici contemplati nello stesso art. 2643 c.c., va effettuata a prescindere dalla tipologia dell’atto o del provvedimento medesimi: a prescindere cioè che si tratti di un negozio giuridico, di un provvedimento giudiziale o di un atto amministrativo, salvo che non risulti dalla legge che la trascrizione non è richiesta o è richietsa a fini diversi da quelli previsti ex art. 2644 c.c. (Stante la natura meramente obbligatoria degli effetti del contratto preliminare, non era consentito farlo rientrare nella previsione né dell’art. 2643 c.c. e neppure in quella dell’art. 2645 c.c. L’unica tutela era quella accordata dall’art. 2652 n. 2 c.c. attraverso la trascrizione della domanda giudiziale volta ad ottenere l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo a contrarre (35)). Si ricordi, dunque, che la risalente e minoritaria opinione per cui gli atti compiuti dalle pubbliche amministrazioni in tale loro qualità, ovverosia investite di potestà pubblica (ius imperii), dovrebbero ritenersi sottratti alle formalità della trascrizione, anche se produttivi del trasferimento, della modificazione o della perdita di un diritto immobiliare tradizionale, è stata su- (32) A. DI MAJO, La tutela civile dei diritti, Giuffrè, Milano, 1987, p. 334 e ss. (33) L. MARTINEZ, Giurisdizione amministrativa ed esecuzione forzata in forma specifica (art. 2932 c.c.), CEDAM, Padova, 2012, p. 12 e ss. (34) G. CIAN, A. TRABUCCHI, Op. ult. cit., p. 3776. (35) G. MARICORDA, Le pubblicità, Edizioni Scientifiche Italiane, 2009, p. 60. CONTENZIOSO NAZIONALE 115 perata dal dettato normativo (36). Sono soggette a trascrizione le sentenze costitutive; quindi anche la pronuncia di sentenza ex art. 2932 c.c. (37) (per stabilire specificatamente se ed in quali limiti un determinato diritto o una determinata domanda giudiziale siano opponibili a terzi occorre avere riguardo innanzitutto alla c.d. nota di trascrizione, in quanto le indicazioni riportate nella nota medesima dovranno consentire di individuare, senza equivoci o incertezze, gli estremi essenziali del negozio ed i beni ai quali esso si riferisce). In conclusione, consegue che la mancata o incompleta trascrizione della domanda giudiziale dell’articolo in esame preclude la produzione degli effetti della sentenza nei confronti del terzo compratore in buona fede antecedente, salvo il caso in cui, come per gli accordi in materia urbanistica, non sia stata precedentemente trascritta la convenzione urbanistica o, quanto meno, l’atto d’obbligo unilaterale, purché individuabile come onere reale e non come negozio giuridico unilaterale obbligatorio (38) (a tal riguardo, è importante sottolineare che in virtù del c.d. principio di ambulatorietà, inerente solo agli obblighi reali, l’eventuale giudizio inerente la validità o efficacia della trascrizione della domanda giudiziale ex art. 2932 c.c. apparirebbe più congeniale con la giurisdizione del giudice ordinario). Parte della dottrina (39), ha fatto presente che, la carenza in sede di giurisdizione civile di tutela specifica delle situazioni che nei rapporti a valenza potestativa si contrappongono al titolare del potere riguarda, ancor prima che l’esecuzione forzata, l’organizzazione della cognizione; ciò in contrapposizione con quello che accade nel processo amministrativo, dove la cognizione nasce storicamente come tutela specifica, essendo dato al giudice utilizzare lo strumento dell’annullamento costituente una cerniera tra cognizione ed esecuzione. A tal proposito, l’Adunanza Plenaria in esame precisa che gli obblighi di cessione di aree contenuti nelle convenzioni dei piani attuativi sono tutelabili ai sensi dell’art. 2932 c.c. A ben guardare, inoltre, vi sono delle perplessità di carattere strettamente processualistico inerenti alla pronuncia del Supremo Consesso amministrativo e avallate di recente da un’autorevole pronuncia del Giudice di legittimità (40). Affrontando la controversa tematica della giurisdizione sulla sorte del contratto di società a partecipazione pubblica a seguito dell’annullamento degli atti del presupposto procedimento di evidenza pubblica di scelta del socio privato, si attribuisce la giurisdizione al giudice ordinario, in conformità del prevalente orientamento giurisprudenziale pregresso, escludendo quindi che su tale que- (36) A. ZACCARIA, S. TROIANO, Gli effetti della trascrizione, II edizione, Giappichelli, Torino, 2008, p. 45 e ss. (37) G. CIAN, A TRABUCCHI, Op. ult. cit., p. 3374. (38) L. MARTINEZ, Op. ult. cit., p. 150. (39) B. SASSANI, Op. ult. cit., p. 81. (40) Corte di Cassazione Sezioni Unite del 30 dicembre 2011, n. 30167. 116 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 stione possa assumere rilievo la disciplina della “privazione di effetti” di matrice comunitaria, trasposta nel d.lgs. n. 53 del 2010, e infine approdata nel codice del processo. In particolare, l’elemento che la sentenza sembra sottolineare e che, mutatis mutandis, appare compatibile anche col discorso in parola, è la lettura in chiave restrittiva dell’art. 103 Cost. Secondo quanto affermato dal giudice di legittimità, infatti, non può essere il giudice, con interpretazione estensiva o analogica di disposizioni preesistenti, a modificare l’ordine costituzionale delle competenze dei diversi ordini giurisdizionali, che appunto l’art. 103 Cost. radica nella separazione tra il piano del diritto pubblico ed il piano negoziale; l’ambito della giurisdizione esclusiva poi è assoggettato al limite invalicabile che le materie in essa ricomprese devono necessariamente partecipare della medesima natura, caratterizzata dall’agire dell’Amministrazione come autorità, di quelle devolute alla giurisdizione generale di legittimità (41). Appare opportuno notare a tal punto che, né tra le azioni previste dal C.p.a. (ex art. 29 e ss.) e neppure nel testo introdotto successivamente, il c.d. “Correttivo al C.p.a” (42), vi è quella inerente alla pronuncia di luglio dell’Adunanza Plenaria. La giurisprudenza, anche di recente (43), ha ribadito che il rimedio previsto dall’art. 2932 c.c., al fine di ottenere l’obbligo specifico di concludere un contratto, deve ritenersi applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello definitivo, ma anche in qualunque altra ipotesi da cui sorga l’obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto, sia in relazione ad un negozio unilaterale, sia in relazione ad un atto o fatto da cui tale obbligo possa sorgere ex lege (44). È vero infatti che, nonostante che nell’emettere la sentenza ex art. 2932 c.c. il giudice sia vincolato al contenuto del preliminare, si ammette che lo stesso possa, laddove ciò dovesse essere necessario, modificare o integrare il contratto stesso. La particolare struttura del rimedio ha consentito il formarsi di prassi giurisprudenziali evolutive tendenti a superare il dogma dell’identità tra contenuto del preliminare e sentenza costitutiva (45). A tale impostazione evolutiva si contrappongono tendenze conservatrici. (41) S. FANTINI, La giurisdizione sulla sorte del contratto di società, in Urbanistica e Appalti, fasc. 3, 2012, p. 310. (42) Si tratta del D. lgs. del 14 settembre 2012 n. 160. (43) Corte di Cassazione Seconda Sezione Civile del 30 marzo 2012 n. 5160. (44) V. In tal senso Cassazione n. 6792 dell’8 agosto 1987; Cass. n. 7157 del 15 aprile 2004; Cass. n. 8568 del 5 aprile 2004; in particolare Cass. n. 13403 del 23 maggio 2008 in tema di rifiuto di prestare il consenso di una cooperativa edilizia all’atto traslativo dell’immobile al socio assegnatario ha stabilito che l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto mediante sentenza che ne produca gli effetti potrà riguardare non soltanto le ipotesi di preliminare, bensì anche ogni altra fattispecie da cui derivi la stessa obbligazione di prestare il consenso. (45) G. PERLINGERI, Commento all’art. 2932 c.c., Libro Sesto, Della tutela dei diritti, in Codice Civile annotato con la dottrina e la giurisprudenza, 2010, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, p. 333. CONTENZIOSO NAZIONALE 117 Si esclude l’ammissibilità dell’esecuzione specifica non solo nel caso in cui manchi nel preliminare l’individuazione dell’oggetto, ma anche in presenza di una modificazione dello stesso. Per quel che concerne l’eseguibilità dell’obbligo a contrarre della pubblica amministrazione, la giurisprudenza, a lungo prevalente, affermava che il rimedio di cui all’art. 2932 c.c. non fosse esperibile nelle ipotesi di inadempimento della pubblica amministrazione. Un’inversione di tendenza, invece, si è registrata poco più tardi ed in particolare laddove i giudici di Piazza Cavour, facendo proprie le riserve già manifestate in dottrina, hanno affermato che qualora la pubblica amministrazione ricorra allo strumento del preliminare di compravendita e successivamente opponga un ingiustificato rifiuto per il definitivo, andrà riconosciuta alla controparte la facoltà di adire il giudice ordinario per ottenere una sentenza che tenga luogo del contratto non concluso, proprio a norma dell’art. 2932 c.c. (46). Il notevole rilievo pratico e sistematico della norma, risiede nella possibilità che essa concede e che non era riconosciuta nel previgente sistema di ottenere dal giudice un provvedimento col quale supplire all’inerzia della parte che non abbia adempiuto l’obbligazione di rendere una determinata manifestazione di volontà e, specialmente, di concludere il contratto definitivo, attuando quindi il mutamento giuridico che sarebbe dovuto discendere dal contratto non concluso. Il legislatore del 1942 si è preoccupato di codificare l’accertamento costitutivo per cui al catalogo dei rimedi che il sistema più risalente offriva al creditore della prestazione del consenso definitivo, si è aggiunto quello che nei fatti ha riscosso il più largo successo applicativo, ovverosia l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere il contratto definitivo. A ben guardare, sotto l’imperio del codice del 1865 e in assenza di una previsione analoga a quella in commento, si discuteva dell’ammissibilità in generale di rendere una determinata manifestazione di volontà; nello specifico se fosse ammissibile l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto. A prevalere era l’orientamento negativo che muoveva dal presupposto dell’infungibilità della prestazione del consenso e dell’impossibilità per il giudice di emettere un provvedimento proprio che tenesse luogo della mancante volontà della parte. In verità, l’istituto non ha nulla a che vedere con l’esecuzione forzata: nel primo, infatti, la tutela si applica in via di cognizione; nel secondo di esecuzione. L’uno tende alla formazione del titolo, l’altra invece lo presuppone (47). La tesi maggioritaria ritiene pertanto estraneo l’istituto dell’esecuzione forzata in forma specifica alle procedure di esecuzione forzata. Autorevole dottrina ha assunto un atteggiamento critico sul se il giudice (46) G. PERLINGERI, Op. ult. cit., p. 335. (47) P. CENDON, Commento all’articolo 2932 c.c. in Commentario al Codice Civile, Giuffrè, Milano, 2010, p. 353 e ss. 118 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 ordinario potesse costringere l’amministrazione ad un facere senza esorbitare dalla propria sfera di giurisdizione (48). Anche i giudici di merito si sono dimostrati favorevoli all’accesso alla tutela specifica quando l’Amministrazione avesse agito iure privatorum ammettendo il ricorso all’esecuzione in forma specifica quando permangono le condizioni che avevano indotto quest’ultima ad autorizzare l’operazione, ferma restando l’incoercibilità degli impegni a rilevanza pubblicistica. Per di più, si riteneva che anche dopo la conclusione del preliminare la pubblica amministrazione dovesse scegliere in base ai criteri dell’interesse pubblico che essa persegue anche nel momento in cui si avvale di strumenti di diritto privato tra l’adempimento del preliminare e la responsabilità che il mancato adempimento determinerebbe a suo carico. In conseguenza, quindi, doveva escludersi che il vincolo creato dal contratto preliminare, stipulato tra pubblica amministrazione e privato contraente potesse, ad istanza di quest’ultimo, conseguire gli effetti ulteriori, cioè quelli derivanti dalla conclusione del definitivo attraverso la decisione del giudice. La manifestazione della volontà negoziale, cioè, doveva avvenire nella rigorosa osservanza delle formalità di natura pubblicistica, con la conseguente impossibilità di fare ricorso al rimedio della esecuzione in forma specifica (49). Tale orientamento, però, pur essendo criticato dalla maggioranza della dottrina, ha trovato linfa in un importante dictum (50) della Cassazione la quale in materia di preliminare di vendita di alloggi popolari, ha affermato che per il disposto dell’art. 2932 c.c., il giudice non impone alla p.a. un comportamento determinato né realizza coattivamente la prestazione, ma attua la legge attraverso una pronuncia costitutiva, e neppure emette un atto amministrativo, bensì costituisce un contratto facendo rimanere estranei i rimedi di cui all’art. 4 della legge 2248 del 1865, all. E. È chiaro a tal punto che, il momento in cui si esplica il potere discrezionale della pubblica amministrazione attraverso l’autorizzazione a contrarre si sposta a monte ed ha per oggetto lo stesso contratto preliminare. Nella fase successiva subentra la regola del controllo della sopravvivenza, secondo le norme di diritto privato, per cui l’amministrazione porrà in essere atti non discrezionali ma vincolati ed il suo eventuale dissenso alla formazione dell’atto definitivo per il trasferimento del diritto di proprietà trova in tale regola privatistica la propria misura, nonché sanzione. Solo contestando in radice la legittimità della scelta e, quindi, la validità dell’atto che ne deriva, si potrebbero discutere efficacemente gli effetti. È vero, altresì, che nelle assegnazioni in locazione con patto di futura (48) M. NIGRO, Giustizia Amministrativa, Il Mulino, 2002, p. 312 e ss. (49) F. ROSELLI, Commento all’art. 2932 c.c., in La giurisprudenza sul Codice civile coordinata con la dottrina, LibroVI, Della tutela dei diritti, Giuffrè, 2011, p. 331 e ss. (50) Corte di Cassazione Sezioni Unite del 7 ottobre 1983 n. 5838. CONTENZIOSO NAZIONALE 119 vendita l’assegnatario vanta, quando siano maturati i presupposti e le condizioni di cui al patto stesso, un diritto soggettivo perfetto al trasferimento a suo favore del diritto di proprietà sull’alloggio assegnatogli. Ne consegue che la tutela di tale posizione soggettiva è devoluta al giudice ordinario, al quale l’assegnatario potrà rivolgersi per ottenere una sentenza che tenga luogo del contratto non concluso, a norma dell’art. 2932 c.c., atteso che siffatta pronuncia, non configurando un provvedimento esecutivo per la realizzazione coattiva di un facere della p.a., né interferendo sul potere dispositivo delle parti, ma realizzando un atto costitutivo rivolto ad attuare direttamente la volontà della legge, in relazione all’accertamento dell’imputabile inadempienza dell’obbligo di vendere, non implica violazione del divieto di annullare, revocare o sostituire l’atto amministrativo. Allo stesso tempo, l’orientamento prevalente della giurisprudenza in ordine all’obbligo di concludere un contratto, a carico del concessionario della pubblica amministrazione, sembra orientato nel senso che il diritto del promissario alla conclusione del contratto è di natura privatistica e può essere realizzato coattivamente attraverso la giurisdizione ordinaria (51). 4.c) Breve disamina sulla efficacia soggettiva del giudicato amministrativo e rapporto col giudizio di ottemperanza. Anche per il processo amministrativo vale il dettato dell’art. 2909 c.c., secondo il quale l’accertamento del giudice fa stato fra le parti, i suoi eredi e aventi causa. L’idea degli scrittori più antichi che il giudicato amministrativo avesse efficacia erga omnes valorizzava il fatto indubbio che l’atto amministrativo annullato cessa di esistere per tutti, ma aveva radici nella concezione della giurisdizione amministrativa come giurisdizione di diritto oggettivo. Oggi questa concezione è stata del tutto superata (52). Ciò non esclude chiaramente che il processo amministrativo presenti alcune peculiarità che meritano di essere considerate. Innanzitutto, le difficoltà nella determinazione dei soggetti titolari di interessi legittimi e come tali legittimati ad agire o a resistere rende incerti i confini soggettivi della lite per cui non si riesce a stabilire se alcuni soggetti siano direttamente vincolati dal giudicato o no. La giurisprudenza (53) ritiene, infatti, che al principio della efficacia inter partes del giudicato facciano eccezione le sentenze che pronunciano o su atti normativi (regolamenti) e di tipo normativo (atti generali, strumenti edilizi e così via) o su atti che provvedano unitariamente nei confronti di un complesso di soggetti (atti collettivi come una graduatoria concorsuale). La natura mista dell’azione sin qui delineata, cioè ex art. 2932 c.c., stando (51) F. ROSELLI, Op. ult. cit., p. 332. (52) M. NIGRO, Op. ult. cit., p. 314. (53) P. CENDON, Op. ult. cit., p. 353. 120 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 alla pronuncia dell’Adunanza Plenaria, non è incompatibile con la struttura del processo amministrativo, in quanto ivi si prevede una specifica azione di ottemperanza, anch’essa caratterizzata dalla presenza in capo al giudice di poteri cognitori ed esecutori. Merito indubbio del Codice del Processo amministrativo è quello di aver individuato, raggruppato e sottoposto ad un unitario giudizio di ottemperanza, retto da regole uniformi una serie di pronunce dapprima ritenute sottoponibili al giudizio stesso, ma solo a seguito di enunciati pretori della giurisprudenza stimolati da contributi dottrinali. Come prima rilevazione desumibile dalla lettura dell’art. 112 C.p.a, appare giustificata l’abiura della originaria definizione del giudizio come ricorso per l’esecuzione del giudicato e l’adozione della denominazione di “giudizio di ottemperanza”, includendo nell’elencazione della disposizione anche pronunce che non sono vere e proprie manifestazioni della potestà giurisdizionale o che in alcun modo possono accostarsi a quelle suscettibili di acquistare la valenza propria del giudicato. In fondo, lo stesso codice prevede che il giudice amministrativo, in caso di accoglimento del ricorso, debba disporre le misure più idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, all’indefettibile scopo di rendere effettiva e completa la tutela giurisdizionale (54). Come si è precedentemente affermato, la dottrina maggioritaria ha ritenuto che l’ottemperanza alle decisioni del giudice ordinario è un giudizio misto, necessariamente di cognizione ed eventualmente di esecuzione (55). Tale definizione non vale per l’ottemperanza alle decisioni del giudice amministrativo. In tal caso l’accertamento svolto dal giudice della cognizione contiene obblighi precisi e diretti in ordine alla sorte dell’atto che, se illegittimo, viene annullato con sentenza costitutiva. Non a caso la dottrina, rovesciando la precedente definizione, qualifica il giudizio di ottemperanza come giudizio misto, necessariamente di esecuzione ed eventualmente di cognizione. Autorevole dottrina (56), inoltre, sottolinea che l’obbligo di conformarsi dell’amministrazione alla sentenza del giudice ordinario ha il suo centro ed oggetto principale nella eliminazione dell’atto amministrativo che, invece, all’esito del giudizio amministrativo risulta già distrutto. Rispetto alla sentenza del giudice ordinario, l’obbligo di conformarsi è totalmente estraneo al contenuto ed agli effetti di questa sentenza, è cioè un effetto ulteriore di cui la legge la carica, mentre alla sentenza amministrativa l’obbligo di conformarsi giammai potrebbe conformarsi come situazione a sé stante, esterna ad essa e aggiunta ex post dal legislatore, ma può considerarsi solo come una formula con la quale si esprimono e sintetizzano gli effetti propri della sentenza medesima. (54) N. SAITTA, Sistema di Giustizia Amministrativa, III edizione, Giuffrè, Milano, 2011. (55) M. NIGRO, Op. ult. cit., p. 319. (56) M. NIGRO, Op. ult. cit., p. 193. CONTENZIOSO NAZIONALE 121 La componente cognitiva, invero, è solo eventuale e si ha per determinare la portata e l’obbligo di conformazione ricavabile dalla sentenza ed eventualmente per stabilire se la determinazione assunta dall’amministrazione, ove questa non sia rimasta del tutto inerte a seguito della pronuncia giudiziale, costituisca esecuzione ovvero violazione del giudicato. Se il giudizio di ottemperanza è esecutivo di un precedente giudicato nella sostanza, ne segue altresì l’impossibilità di ammettere al suo interno domande nuove. Inoltre, non si può negare che il giudizio di ottemperanza sia un giudizio caratterizzato dal punto di vista tecnico da un presupposto indefettibile: una sentenza passata in giudicato rispetto al quale il giudizio di ottemperanza si atteggia come giudizio di esecuzione. Di conseguenza, non si potrà ipotizzare un’azione di ottemperanza che non trovi nella sentenza di cognizione il proprio presupposto: ne discende cioè che, se una determinata domanda non è stata proposta in sede di cognizione, non se ne potrà chiedere l’esecuzione in sede di ottemperanza (57). Nella fattispecie in esame, i Giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto possibile l’azione ex art. 2932 c.c. per il mancato adempimento dell’obbligo di cessione delle aree (assunto con gli atti d’obbligo del 14 settembre 1972 e del 18 dicembre 1981 di cessione delle aree ivi indicate). Non hanno ritenuto che tale adempimento fosse minimamente condizionato ad eventuali contrapposti adempimenti da parte del Comune di Roma. Secondo la dottrina maggioritaria, il processo di ottemperanza delle sentenze amministrative è rivolto dunque non a consentire l’adempimento di un obbligo dell’amministrazione di conformarsi al giudicato amministrativo, ma a consentire l’adempimento degli obblighi (specifici e diretti) che scaturiscono dal giudicato stesso. È qui cioè che si aprono i veri problemi del giudizio di ottemperanza. La più lata nozione di esecuzione ha un limite che è costituito dall’esistenza risultante dal giudizio di cognizione, della volontà concreta della legge che deve essere attuata o della normativa per il caso concreto alla quale si deve adeguare la realtà di fatto. Quando si tratta di identificare o completare la volontà concreta della legge o di stabilire la normativa del caso concreto non si è più nel campo della esecuzione, ma della cognizione. Questo è quanto accade nel giudizio dell’ottemperanza. La regola posta dalla sentenza amministrativa è pertanto una regola implicita, elastica, incompleta e condizionata. Spetterà al giudice dell’ottemperanza rendere esplicita la regola traducendo dal negativo al positivo gli accertamenti del primo giudice sul corretto modo di esercizio del potere; dare un contenuto concreto all’obbligo della ripristinazione risolvendo i molti problemi possibili al riguardo; identificare il vincolo gravante sui tratti di azione amministrativa non incisi direttamente dal giudi- (57) R. GIOVAGNOLI, Il risarcimento del danno da provvedimento illegittimo, Giuffrè, 2010. 122 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 cato; decidere circa la rilevanza delle sopravvenienze. Ora se per quel che riguarda la prima operazione, si può ritenere si tratti di mera interpretazione del giudicato, funzione che seppur complessa è sempre di competenza del giudice dell’esecuzione, negli altri casi il giudice dell’ottemperanza sicuramente concorre ad identificare la volontà concreta della legge o a formare la normativa del caso concreto: è quindi attività di cognizione, anche se la cognizione è compiuta con funzione immediata della sua traduzione in realtà pratica e contestualmente con questa (58). Circa l’inadempimento dell’amministrazione, la giurisprudenza è rimasta a lungo ferma nell’idea, fortemente radicata nel principio di separazione che l’attività amministrativa potesse essere sostituita e integrata solo se l’amministrazione fosse rimasta totalmente inerte, se avesse cioè violato l’obbligo generico di provvedere. Successivamente ammise il sindacato anche nel caso di adempimento parziale o mero inizio di adempimento o di comportamento elusivo del giudicato. La giurisprudenza, dal canto suo, rivela l’insofferenza verso i limiti che accompagnano ognuno dei due tipi di giudizi, ammettendo, ricorrendone i presupposti processuali, la reciproca conversione tra ricorso per l’ottemperanza e ricorso ordinario di legittimità (59). Autorevole dottrina ha inoltre notato che il giudice dell’ottemperanza decide anche in materie di potestà discrezionale tanto più che spesso, dopo la sentenza di cognizione, quello che resta all’amministrazione è solo una sorta di “pseudodiscrezionalità”. La giurisdizione del giudice dell’ottemperanza è giurisdizione anche nel merito e questa è, tipicamente, sindacato giudiziale dell’uso fatto dalla amministrazione del potere discrezionale concessole, e cioè esercizio sostitutorio del potere discrezionale. Il solo limite all’intervento sostitutorio del giudice è probabilmente costituito dalla previsione normativa di uno svolgimento procedimentale dell’attività amministrativa (60). A prescindere tuttavia da questo discorso di carattere generale, sta il fatto che nella sentenza emessa da parte del Supremo Consesso di giustizia amministrativa, si verte in una ipotesi di giurisdizione esclusiva e si giunge alla conclusione che non si può garantire agli interessati la stessa tutela e la stessa tipologia di azioni riconosciute davanti al giudice ordinario il che, alla luce di quanto finora detto, non appare del tutto comprensibile. La sentenza suddetta non risolve tuttavia i molteplici problemi di natura applicativa che sorgono dall’azione di cui all’art. 2932 c.c.: l’ambito di applicazione della giurisdizione del giudice amministrativo nei casi di esecuzione coattiva di (58) M. NIGRO, Op. ult. cit., p. 195. (59) M.P. VIPIANA, Spunti a proposito della reciproca conversione tra ricorso per ottemperanza e ricorso ordinario di mera legittimità, in Dir. Proc. Amm., Giuffrè, Milano, 1990, fasc. 2, p. 254 e ss. (60) M. NIGRO, Op. ult. cit., p. 324. CONTENZIOSO NAZIONALE 123 obbligo imposto ex lege, ovvero di negozio giuridico unilaterale, è molto più delicato quando il potere viene esercitato attraverso accordi o convenzioni. Con l’affermazione contenuta nell’Adunanza Plenaria n. 28 del 2012 sulla natura mista dell’azione ex art. 2932 c.c., il Supremo Giudice amministrativo sembra smentire se stesso in quanto nella struttura del C.p.a. l’azione di ottemperanza, ovvero di esecuzione, è posta nel Libro IV, Titolo I, artt. 112 e ss., ed è per sua natura scissa dall’azione medesima di cognizione (61). Peraltro, l’atipicità propria dell’azione ex art. 2932 c.c. è quella di assicurare contemporaneamente cognizione ed esecuzione specifica e coattiva. Inoltre il giudice amministrativo dovrà assolutamente accertare in via preventiva la natura reale o obbligatoria di tale obbligo anche ai fini degli effetti della sentenza soprattutto nell’ipotesi in cui il bene immobile non sia stato ex ante consegnato all’amministrazione dall’interessato e si trovi quindi nel possesso di quest’ultimo. Con riferimento alle materie di giurisdizione esclusiva del g.a., sembra preclusa la possibilità di esperire un’azione con efficacia costitutiva con effetto non solo conformativo ma anche traslativo di diritti reali ovvero di diritti obbligatori. Ad ogni modo, il g.a. può ottenere l’effetto traslativo solo nel giudizio di ottemperanza, in genere attraverso un commissario ad acta. Punctum dolens allora è il seguente: l’amministrazione può promuovere un vero e proprio giudizio di ottemperanza contro il privato, attribuendo pertanto al giudice amministrativo, quale “Commissario ad acta specialis”, gli stessi poteri riconosciuti al giudice civile, snaturando la tradizionale struttura del processo di ottemperanza stesso, anche nella versione “aggiornata” del C.p.a.? In alternativa, il giudice amministrativo potrà utilizzare giudizio di cognizione ed esecuzione in forma specifica insieme? Non vi è il qualificato rischio di urtare la suscettibilità del principio della riserva di legge processuale, laddove il g.a. cerchi di mettere in atto azioni non previste espressamente dalla legge? L’art. 112 C.p.a. (62), come si anticipava prima, sembra costituire un valido appiglio per il giudizio di ottemperanza da esperire nei confronti del pri- (61) L. MARTINEZ, Op. ult. cit., p. 98. (62) Art. 112 c.p.a., “I provvedimenti del giudice amministrativo devono essere eseguiti dalla pubblica amministrazione e dalle altre parti. L’azione di ottemperanza può essere proposta per conseguire l’attuazione: a) delle sentenze del giudice amministrativo passate in giudicato; b) delle sentenze esecutive e degli altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo; c) delle sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati del giudice ordinario, al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso al giudicato; d) delle sentenze passate in giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati per i quali non sia previsto il rimedio dell’ottemperanza, al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi alla decisione; e) dei lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligo della pubblica amministrazione di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso al giudicato (…)”. 124 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 vato. In particolare, è il caso di considerare il primo comma della disposizione in esame laddove si prescrive che i provvedimenti del giudice amministrativo vanno eseguiti dalla pubblica amministrazione e dalle altre parti. Cercando tuttavia di fare una interpretazione di carattere estensivo, la questione qui non è l’ambito di ottemperanza, bensì l’esecuzione. Considerando altresì il combinato disposto dell’art. 112 C.p.a., con l’art. 114 C.p.a (63), nonché con l’art. 21-septies della legge n. 241/90 in materia di elusione o violazione del giudicato, deriva che la legge processuale ha contemplato come unica parte resistente e perciò soggetta all’ottemperanza la pubblica amministrazione, come emerge dal dettato normativo ex art. 114 C.p.a. A ben guardare, mentre se la parte inadempiente è la p.a., sembra pacifico il ricorso all’ottemperanza; laddove sia il privato, invece, si potrà avanzare il ricorso per decreto ingiuntivo, il cui presupposto dovrà essere costituito dalla sentenza del giudice ordinario. La soluzione prospettata dal Supremo Consesso sembra mortificare l’unicità del giudizio ex art. 2932 c.c.: avendo infatti l’azione contenuto misto rappresenta una deroga al principio generale di separazione delle azioni. Una plausibile soluzione potrebbe riguardare le controversie inerenti contratti preliminari relativi ad accordi sia di carattere generale (art. 11 della legge fondamentale sul procedimento amministrativo), sia in materia di urbanistica ed edilizia o di espropri per pubblica utilità; in ordine agli accordi, infatti, si applicano i principi del Codice civile in quanto compatibili. Inoltre, sulla questione della proponibilità dinanzi al giudice amministrativo di una domanda ex art. 2932 c.c., in relazione agli obblighi scaturenti da una convenzione di lottizzazione è da notare la formazione di un orientamento giurisprudenziale che, in perfetta sintonia con la pronuncia in esame, si dimostra favorevole a riconoscere in tema la sussistenza della giurisdizione esclusiva (64). Infine, in applicazione della regola dell’alternatività che riguarda il regime della tutela dei beni pubblici, se la pubblica amministrazione emette un provvedimento di autotutela esecutiva, pur vertendosi in materia di giurisdizione esclusiva la qualità di bene pubblico è assistita dalla presunzione di legittimità e spetterà pertanto al privato dimostrare l’illegittimità del provvedimento medesimo di autotutela: se il bene non fosse pubblico il provvedimento amministrativo sarebbe nullo ai sensi dell’art. 21-septies della legge n. 241/90 e si tratterebbe di nullità devoluta alla giurisdizione generale del giudice civile. Resta il fatto che l’art. 21-ter della legge n. 241/90 ha codificato il principio della c.d. autotutela esecutiva, disponendo che nei casi previsti dalla legge, le (63) Art. 114 c.p.a.: “l’azione si propone anche senza previa diffida con ricorso notificato alla p.a. e a tutte le parti del giudizio definito dalla sentenza (…)”. (64) B. DELFINO, Inadempimento degli obblighi relativi ad una convenzione di lottizzazione e domanda di esecuzione specifica ex art. 2932 c.c., in www.giustamm.it, 2010. CONTENZIOSO NAZIONALE 125 pubbliche amministrazioni possono imporre coattivamente l’adempimento degli obblighi nei loro confronti. Si tratta comunque di un potere eccezionale esercitabile soltanto nei casi previsti dalla legge. Con riferimento alla fattispecie considerata dall’Adunanza Plenaria, non pare ragionevole avanzare l’ipotesi dell’autotutela esecutiva: tale rimedio viene infatti contemplato per i beni appartenenti al patrimonio indisponibile. Qui si è estranei al suddetto ambito. 5. Le principali ipotesi di giurisdizione esclusiva e relativa applicazione con riferimento ad edilizia economica e popolare. La disamina di questo paragrafo richiede una necessaria considerazione dei rapporti tra diritto amministrativo e diritto comunitario. Infatti, la decisione de qua si confà anche ai principi del diritto comunitario ed alla sua normativa, che prevale sui principi del diritto interno, ampliando il novero delle azioni esperibili nel processo amministrativo, e nel caso di specie, la possibilità di esperire in sede di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo l’azione mista di cognizione ed esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c. Con questa sentenza il giudice amministrativo richiama e fonda allo stesso tempo la propria decisione sull’esigenza di garantire piena ed effettiva tutela del privato. Tuttavia l’opinione di chi scrive si rifà a chi sostiene (65) che lo stesso grado ed efficacia di tutela possa essere raggiunto conservando la giurisdizione anche in capo al giudice ordinario. Per la giurisdizione del giudice ordinario ha optato anche un’importante ma risalente pronuncia, resa dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite (66), ovviamente prima dell’orientamento contrario espresso dal Consiglio di Stato con la pronuncia in rassegna. Come ha avuto modo di osservare la dottrina più attenta (67), il problema più importante è quello dell’individuazione della giurisdizione competente con particolare riguardo alla giurisdizione esclusiva che, per l’importanza assunta, sta divenendo la competenza giurisdizionale più importante del giudice amministrativo. Pertanto, l’Adunanza Plenaria, al fine di giustificare l’ammissibilità di tale rimedio in assenza di un’apposita norma codicistica, ricorre al principio di atipicità delle azioni proponibili nel processo amministrativo stesso e trova giustificazione della sua decisione precisamente nel garantire il principio di (65) L. MARTINEZ, Giurisidizione amministrativa ed esecuzione forzata in forma specifica (art. 2932 c.c.), CEDAM, Padova, 2012, p.108. (66) Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 5838 del 1983. (67) E. PICOZZA, Situazioni giuridiche soggettive, in Tratt. di Dir. Amm. Europeo, diretto da M. Chiti e G. Greco, Giuffrè, Milano, 1997. 126 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 effettività della tutela giurisdizionale. Ciò si desume anche dal testo della sentenza, laddove recita: “non può neppure sostenersi la tesi di un’eventuale “tipicità” delle azioni proponibili nel processo amministrativo, tipicità che sarebbe in stridente ed inammissibile contrasto, oltre che con i fondamentali principi di pienezza ed effettività della tutela ex art. 1 c.p.a., con la stessa previsione dell’art. 24 della Costituzione”. L’opinione di chi scrive si rifà a quella parte della dottrina (68) che critica la decisione n. 28 del 2012, resa in Adunanza plenaria dal supremo Consesso amministrativo, ritenendo auspicabile che anche l’azione ex art. 2932 c.c. formasse oggetto di apposita norma del processo amministrativo. A conferma di questo assunto si ricorda di recente il d. lgs. 160 del 2012 (secondo correttivo al codice del processo amministrativo) ed entrato in vigore il 3 ottobre del 2012, che non ha introdotto alcun principio di atipicità delle azioni proponibili nel processo amministrativo e quindi tale azione sarebbe da considerarsi ad avviso di chi scrive incostituzionale. In conclusione, chi scrive sostiene che, almeno dopo la pronuncia in esame, il problema non è tanto il riconoscimento della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per l’azionabilità dell’art. 2932 c.c. che trova fondamento nella materia degli accordi di cui all’art. 11 della legge n. 241/1990, ma soprattutto nelle diverse ipotesi di giurisdizione esclusiva in cui manca un accordo in senso stretto ed è invece presente un negozio giuridico unilaterale o addirittura un obbligo ex lege come nel caso di specie. Tali difficoltà sono state superate, soprattutto dalla giurisprudenza che, con le sue numerose pronunce (69), ha interpretato in chiave estensiva la norma di cui all’art. 11 legge n. 241/1990, estendendola anche alle ipotesi di giurisdizione esclusiva, superando il dogma dell’autoritarietà ed imperatività del provvedimento amministrativo, e riconoscendo (la giurisdizione esclusiva) anche nella serie di controversie in materia di concessioni contratto, di beni pubblici, di servizi pubblici, di affidamento di appalti pubblici, di urbanistica, di edilizia negoziata, di convenzioni e di accordi in materia di espropriazione. Questi pochi esempi sono sufficienti a rendere noto in modo chiaro “la linea evolutiva dell’art. 11 della legge n. 241/1990” ed il superamento delle difficoltà applicative ed interpretative legate sempre all’esperibilità dell’art. 2932 c.c. nel processo amministrativo. Insieme a questo fattore, ha concorso a determinare il riconoscimento dell’esperibilità dell’azione mista di cognizione ed esecuzione nel processo am- (68) L. MARTINEZ, Op. ult. cit., p. 109. (69) T.A.R. Firenze Toscana, Sez. II, 30 dicembre 2011 n. 2077, in Foro Amm. T.A.R., 2011, 12, 3907; Cons. St., Sez. VI, 22 giugno 2005, n. 3345, in Foro Amm. CDS., 2005, 6, 1845 (s.m.); T.A.R. Ancona Marche, Sez. I, 25 luglio 2012, n. 501, in Red. Amm. T.A.R., 2012, 7-8; T.A.R. Bari Puglia, Sez. I, 7 novembre 2007, n. 2691, in Foro Amm. T.A.R., 2007, 11, 3576 (s.m.). CONTENZIOSO NAZIONALE 127 ministrativo anche l’evoluzione della giurisprudenza della Cassazione, già ricordata nella sentenza che si sta analizzando che, appunto, ha esteso la possibilità di ottenere l’esecuzione forzata dell’obbligo di contrarre non solo alle ipotesi civilistica del contratto preliminare non seguito da quello definitivo, ma “anche in qualsiasi altra ipotesi dalla quale sorga l’obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto sia in relazione ad un negozio giuridico unilaterale, sia in relazione ad un atto o ad un fatto dai quali detto obbligo possa scaturire ex lege” (70). Tra le diverse controversie sopra menzionate, quella di maggiore interesse, perché rientrante nella fattispecie oggetto della sentenza in analisi, è quella avente ad oggetto gli atti ed i provvedimenti della pubblica amministrazione in materia urbanistica ed edilizia. Sotto il profilo storico va precisato che almeno fino agli anni novanta dottrina e giurisprudenza non ammettevano la possibilità di esercizio consensuale del potere in materia edilizia e urbanistica tanto è vero che una parte della dottrina (71) sosteneva addirittura che la lottizzazione edilizia era esercizio di una funzione autoritativa di programmazione urbanistica nella quale la convenzione di lottizzazione aveva un ruolo meramente accessivo ed integrativo dell’efficacia del procedimento di pianificazione (procedimento inquadrato secondo alcuni nell’autorizzazione alla lottizzazione ai sensi dell’art. 28 della legge urbanistica, secondo il Giannini invece, nei contratti ad oggetto pubblico). Anche volendo scegliere entrambe le soluzioni, per principio non poteva trovare applicazione l’art. 2932 c.c., perché il potere discrezionale amministrativo e tecnico rimaneva nella esclusiva sfera di disponibilità dell’amministrazione. Si trattava di un atto d’obbligo unilaterale o di obblighi imposti direttamente dalla legge o tutt’al più di obblighi non contrattuali, ma imperativi imposti dalla medesima convenzione di lottizzazione quale fase di efficacia del piano attuativo. Soltanto con l’insorgere delle numerose figure di urbanistica negoziata e precisamente con la legge n. 179/1992 (legge sui piani di intervento organico seguita da numerose altre figure di urbanistica concertata e dalla relativa implementazione nelle leggi regionali), comincia ad avvertirsi il problema. Nel caso di specie però l’Adunanza Plenaria n. 28/2012, non ritiene che sia corretto applicare analogicamente la fattispecie di giurisdizione esclusiva in materia di accordi ex art. 11 e 15 della legge n. 241/1990 ma, piuttosto, lo spirito della legge e ciò si evince dal testo della pronuncia “anche a non voler considerare che essa rientri tra quelle aventi ad oggetto gli accordi, la stessa concerne in ogni caso l’adempimento di un atto della pubblica amministra- (70) Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 28/2012. (71) V. MAZZARELLI, Le controversie urbanistiche, Il Mulino, Bologna, 1979. 128 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 zione in materia urbanistica ed edilizia” (72). Ad avviso di chi scrive, invece, il fondamento normativo dell’esperibilità dell’azione prevista dall’articolo 2932 c.c. nel processo amministrativo è da rinvenirsi nel combinato disposto degli articoli 133 comma 1 lett. f) c.p.a., e dalla regola generale di cui all’articolo 7 c.p.a. (sulla giurisdizione amministrativa) che include tutte le manifestazioni di esercizio anche in via mediata del potere amministrativo quali provvedimenti, atti, accordi, comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio del potere posto in essere dalle pubbliche amministrazioni. Il Consiglio di Stato ripete lo stesso ragionamento addivenendo alla medesima conclusione anche per quanto concerne la materia degli accordi previsti e disciplinati dal codice del processo amministrativo all’art. 133 comma 1 lett. A, tenendo conto che gli accordi sono ascrivibili, al pari delle convenzioni, alla categoria dei contratti di diritto pubblico. In riferimento a questi ultimi è ammessa l’esperibilità dell’azione ex art. 2932 c.c., nonostante il contrario avviso di una parte della dottrina (73) e della giurisprudenza che escludono l’ammissibilità di tale azione in riferimento all’articolo 11 della legge n. 241/1990 ritenendo invece esperibile l’azione di inadempimento ex art. 117 c.p.a., ovvero l’azione costitutiva di annullamento e di condanna con eventuale nomina del commissario ad acta (74). Analogo ragionamento viene seguito dal Supremo Consesso Amministrativo per quanto concerne le concessioni di beni pubblici, previste e disciplinate dall’art. 133, comma 1 lett. B, ed ascrivibili ai contratti di diritto pubblici; strumenti, caratterizzati dalla compresenza di un provvedimento di concessione in cui la pubblica amministrazione esprime il proprio potere autoritativo e di una convenzione collegata al provvedimento, che può essere precedente, concomitante o successiva all’emanazione della concessione. Secondo il Consiglio di Stato non si può escludere del tutto la possibilità che un accordo preliminare o comunque una obbligazione o un obbligo ex lege si verifichino durante la fase di esecuzione del rapporto concessorio ed in questo caso, l’esecuzione dovrebbe ritenersi pacificamente esperibile in quanto a tali accordi dovrebbe applicarsi la disciplina di cui all’art. 11 della legge n. 241/1990 (75). Anche con riferimento alla materia dei pubblici servizi, sempre previsti e disciplinati dall’art. 133, comma 1 lett. C), il Consiglio di Stato giunge alle medesime conclusioni, ribadendo l’esperibilità dell’azione ex art. 2932 c.c. a tutte le fattispecie di accordo preliminare a valle del contratto di concessione. (72) Si veda il testo dell’adunanza plenaria n. 28/2012. (73) F. CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, II ed., Giuffrè, Milano, 2011, p. 2542. (74) In riferimento agli accordi endoprocedimentali pare esprimersi in questo senso G. GRECO, Accordi amministrativi tra provvedimento e contratto, Giappichelli, Torino, 2003, p. 286 ss. CONTENZIOSO NAZIONALE 129 Anche nelle controversie in materia di procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture disciplinate dall’art. 133 comma 1, lett. E) punto 1, istituti previsti e disciplinati dal d. lgs 163/2006 in attuazione delle direttive comunitarie 2004/17/Ce e 2004/18/Ce, dove la disciplina sembrava essere talmente rigida da non dare spazio all’applicazione dell’art. 2932 c.c., salva l’eccezione di contratto preliminare su affidamento diretto. Detta disciplina è stata superata dalle decisioni successive della giurisprudenza amministrativa; in particolare l’ipotesi concessiva trova spazio soprattutto nella fase esecutiva di particolari rapporti contrattuali soprattutto quelli che vanno sotto il nome di operazioni di partenariato pubblico e privato, (76) (i quali per la loro durata e per la loro complessità sono soggetti ad una sostanziale ricontrattazione di alcuni fondamentali aspetti, quali la durata, l’equilibrio economico finanziario e le modalità di gestione dell’opera e del servizio). Un’altra fattispecie da esaminare è quella del preliminare del rinnovo di medesimo contratto o di preliminare su provvedimento applicativo dell’adeguamento dei prezzi previsto e disciplinato dall’art. 133 comma 1, lett. E, punto 2, istituto previsto e disciplinato dall’art. 115 del d. lgs. 163/2006 (77), dove il Consiglio di Stato ha comunque riconosciuto l’esperibilità del rimedio di cui all’art. 2932 c.c., poiché questa ipotesi da luogo alla stipula di accordi preliminari. Anche per quanto concerne le controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti, accordi e comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di un pubblico potere della P.A. in materia di espropriazione per pubblica utilità, si è posto il problema dell’ammissibilità dell’azione ex art. 2932 c.c. (75) Uno dei primi autori a ricondurre le concessioni di beni pubblici ai contratti di diritto pubblico è stato M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, II ed., Giuffrè, Milano, 1993, p. 431. In materia di concessioni amministrative, si veda G. LANDI, La concessione amministrativa con clausola di esclusiva, Giuffrè, Milano, 1956; F. GULLI, Provvedimento e contratto nelle concessioni amministrative, CEDAM, Padova, 1966; L.V. MOSCARINI, Profili civilistici del contratto di diritto pubblico, Giuffrè, Milano, 1988; M. D’ALBERTI, Le concessioni amministrative, ESI, Napoli, 1981; D. SORACE, C. MAZZUOLI, Voce Concessioni amministrative, in Dig. Disc. Pubbl., Torino, 1989, p. 282 ss. (76) Nel corso dell’ultimo decennio si è sviluppato in molti settori il fenomeno del partenariato pubblico-privato (PPP) da cui si sono originate forme di cooperazione fra le autorità pubbliche ed il mondo delle imprese con il preciso scopo di garantire il finanziamento, la costruzione, il rinnovamento, la gestione o la manutenzione di un’infrastruttura o la fornitura di un servizio. Il fenomeno ha preso piede in quanto permette al settore pubblico di reperire risorse finanziarie private e, allo stesso tempo, di beneficiare maggiormente del know-how e dei metodi di funzionamento del settore privato nel quadro della vita pubblica. Sensibile a tale esigenza il legislatore, nella fitta intelaiataura del decreto liberalizzazioni ha codificato una nuova operazione di partenariato pubblico-privato denominata contratto di disponibilità, ora contemplata all’art. 160 ter del d.lgs. 163/2006 (codice dei contratti pubblici). Il riferimento è al decreto legge del 24 gennaio 2012 n. 1, convertito in legge 24 marzo 2012 n. 27. (77) La richiamata norma recita ”tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo. La revisione viene operata sulla base di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizi sulla base dei dati di cui all’articolo 7, comma 4, lettera c) e comma 5”. 130 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 Caso emblematico è l’articolo 45 del d.p.r. n. 327/2001 e la sua riconducibilità alla figura dell’accordo e della convenzione già prevista dalla legge 865/1971 e all’art. 11 della legge n. 241/1990 in materia di cessione bonaria quale contratto sostitutivo del provvedimento di espropriazione per pubblica utilità. L’ultima fattispecie da esaminare è quella relativa alle controversie relative ai rapporti di lavoro del personale in regime di diritto pubblico, dove l’applicabilità dell’art. 2932 c.c. risulta limitata alle ipotesi concernenti i rapporti convenzionali, quali ad esempio quelli di consulenza continuativa e continuata, cioè delle convenzioni professionali, sempre se ed in quanto non vietate dalla legge e se in quanto l’obbligo di cui si richiede l’adempimento risulti inserito in un atto ove risultino compiutamente determinati tutti gli elementi del contratto. In conclusione, secondo l’opinione di chi scrive, la sentenza del Consiglio di Stato n. 28 del 20 luglio del 2012 resa in Adunanza Plenaria, derogando al principio di tipicità delle azioni davanti al giudice amministrativo, nonostante da ultimo sia intervenuto il decreto legislativo 160 del 2012, che ha nuovamente proceduto a tipizzare le azioni di cui agli articoli da 29 a 32 del c.p.a. e propendendo invece per la tesi dell’atipicità, sembra adombrare una esegesi dell’articolo 133 lett. f) c.p.a., di dubbia conformità con gli articoli 24 e 111 della Costituzione. 6. Conclusioni. Alla luce di quanto finora esposto, se è vero che in una concezione moderna e comunitaria del processo amministrativo, il soggetto privato e la pubblica amministrazione si trovano in posizione paritetica, tuttavia, molto più complesso è l’ambito di applicazione della giurisdizione del giudice amministrativo, ex art. 2932 c.c. nei casi di esecuzione coattiva di obbligo imposto dalla legge ovvero di negozio giuridico unilaterale. Si è a lungo dibattuto sulla natura giuridica dell’azione ex 2932 c.c. e, di conseguenza, sulla relativa problematica del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo. Si sono evidenziate le perplessità di carattere strettamente processualistico inerenti alla pronuncia del Supremo Consesso amministrativo e avallate di recente da un’autorevole pronuncia del Giudice di legittimità (78) in cui si attribuiva la giurisdizione al giudice ordinario, in conformità con il prevalente orientamento giurisprudenziale pregresso, escludendo quindi la rilevanza della disciplina della “privazione di effetti” di matrice comunitaria, trasposta nel d.lgs. n. 53 del 2010, e infine approdata nel codice del processo. In particolare, l’elemento che la sentenza sembra sottolineare e che, mutatis mutandis, appare compatibile anche col discorso in parola, è la lettura in chiave restrittiva del- (78) Corte di Cassazione Sezioni Unite del 30 dicembre 2011, n. 30167. CONTENZIOSO NAZIONALE 131 l’art. 103 Cost. Secondo quanto affermato dal giudice di legittimità, infatti, non può essere il giudice, con interpretazione estensiva o analogica di disposizioni preesistenti, a modificare l’ordine costituzionale delle competenze dei diversi ordini giurisdizionali, che appunto l’art. 103 Cost. radica nella separazione tra il piano del diritto pubblico ed il piano negoziale; l’ambito della giurisdizione esclusiva poi è assoggettato al limite invalicabile che le materie in essa ricomprese devono necessariamente partecipare della medesima natura, caratterizzata dall’agire dell’Amministrazione come autorità, di quelle devolute alla giurisdizione generale di legittimità (79). Appare opportuno ribadire a tal punto che, tra le azioni previste dal C.p.a. (ex art. 29 e s.s.), neppure a seguito delle modifiche introdotte dal legislatore mediante il c.d. “Correttivo al C.p.a” (80), vi è quella relativa all’azione ex art. 2932 c.c. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 20 luglio 2012 n. 28 - Pres. Giovannini, Est. Saltelli - CONSORZIO LA FONTE MERAVIGLIOSA FRA COOPERATIVE EDILIZIE - ABITAZIONE - SOCIETA’ COOPERATIVA A RESPONSABILITA’ LIMITATATA E SOCIETA’ IL RIDOTTO S.R.L. (avv. Eugenio Picozza) c/ ROMA CAPITALE (avv. Americo Ceccarelli, Andrea Magnanelli e Domenico Rossi), nei confronti dei sig. (...) (avv. Gabriella Napoli). In punto riforma sentenza T.A.R. Lazio - Roma, Sez. II bis, n. 9227 del 24 novembre 2011, concernente TRASFERIMENTO AL PATRIMONIO COMUNALE DI IMMOBILI. FATTO 1. Con ricorso giurisdizionale notificato il 10 maggio 2010 il Comune di Roma, dopo aver premesso che: a) il Consorzio La Fonte Meravigliosa fra Cooperative Edilizie - Abitazione – Società cooperativa a responsabilità limitata (d’ora in avanti, il Consorzio) aveva avuto in assegnazione terreni per l’edificazione e l’urbanizzazione di aree, in parte di sua proprietà ed in parte da espropriare, ricadenti nel piano di zona n. 40, Vigna Murata, di cui alla legge 18 aprile 1962, n. 167, approvato con d.m. ll.pp. 11 agosto 1964, n. 3266; b) l’attuazione delle relative previsioni edificatorie ed urbanizzazioni era stata subordinata alla sottoscrizione di un atto d’obbligo (rep. n. 8044 del 14 dicembre 1972, rogato dal notaio Felicetti), con il quale il Consorzio aveva assunto a proprio carico gli oneri di urbanizzazione e l’obbligo di cedere gratuitamente al Comune di Roma le aree destinate a: - sede stradale, foglio 882, p.lle nn. 16p, 119p, 17p, 120p, 121p, 133p, 137p, 135p, 54p, 175p, 136p, 41p, 39p, 83p, 45, 32p, 71p, 72p, 75p, 43p, 39p, 35p, 21p, 100, 98p, 21p, 145, 144p, 112, 66p, 73p, 33p, 34p, 166p, 165p, 164p, 163p, 121p, 16p, 30p, 102p, 87p, 18p, 105p, 53p, 16p, 30p, 102p, 143p, 106p, 102p; - servizi scolastici, foglio 882, p.lle nn. 16p, 87p, 18p, 102p, 103p, (79) S. FANTINI, La giurisdizione sulla sorte del contratto di società, in Urbanistica e Appalti, fasc. 3, 2012, p. 310. (80) Si tratta del D. lgs. del 14 settembre 2012 n. 160. 132 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 27p, 61p, 32p, 71p, 39p, 135p, 82p, 83p, 75; - altro scopo, foglio 882, p.lle nn. 168p, 106p, 103p, 104p, 107p, 72p, 71p, 32p; - verde pubblico, foglio 882, p.lle nn. 54p, 175p, 40p, 41p, 173p; foglio 886, p.lle nn. 451p, 1p, 2p, 18p; c) a seguito di varianti urbanistiche apportate al piano di zona, ed in particolare della c.d. variante ter, il Consorzio con altro atto d’obbligo, rep. n. 11343 del 18 dicembre 1981 (rogato dal notaio Terzi) si era obbligato ad osservare, nell’esecuzione degli impegni già assunti, le variazioni urbanistiche al piano di zona 40 bis – Vigna Murata; d) approvata formalmente la predetta variante urbanistica c.d. ter con delibera consiliare dell’11 febbraio 1982, con decreto n. 407 dell’11 marzo 1987 il Presidente della Giunta regionale del Lazio aveva disposto, per la realizzazione del piano di zona 40 bis, l’espropriazione delle predette aree, le quali erano state trasferite al Consorzio, giusta atto rep. n. 6981 del 4 dicembre 1987 del notaio Terzi; e) con atti, rep. n. 60360 dell’8 febbraio 1989, rep. n. 64166 del 17 luglio 1989, rep. n. 71588 del 2 maggio 1990, rep. n. 62198 del 5 maggio 1990, del notaio Misurale, il Consorzio aveva effettivamente ceduto alcune delle aree in questione, trattenendone ancora altre, tra cui quelle oggetto del ricorso; f) in data 13 giugno 1990 (prot. rip. XVI n. 4961) era stato sottoscritto il verbale di cessione gratuita di aree, con il quale il Comune di Roma si era immesso effettivamente nel possesso delle aree del piano di zona di pertinenza del Consorzio, il quale aveva rinnovato espressamente l’impegno di “…completare la cessione delle aree situate all’interno del piano di zona non incluse negli atti precedentemente citati”; tutto ciò premesso, ritenuta sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo, ai sensi dell’articolo 11, comma 5 della legge 7 agosto 1990, n. 241, e dell’articolo 34 del D. Lgs. 31 marzo 1980, n. 98, come interpretato dal giudice delle leggi con le sentenze n. 204 e n. 281 del 2004, ha chiesto al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio: 1) in via cautelare, ai sensi dell’art. 3 della legge 21 luglio 2000, n. 205, l’autorizzazione all’immissione provvisoria nel possesso dei beni in questione o quanto meno del solo bene identificato al foglio 882, p.lle n. 59, 327, 331 (Casale denominato Santa Rita); 2) nel merito: 2a) l’accertamento dell’inadempimento da parte del Consorzio degli obblighi derivanti dagli atti d’obbligo a rogito rispettivamente del notaio Felicetti (rep. n. 8044 del 14 novembre 1972) e del notaio Terzi (rep. n. 11343 del 18 dicembre 1981); 2b): l’emanazione di una sentenza ex art. 2932 c.c. per il trasferimento a titolo gratuito in sua proprietà delle aree precedentemente indicate; 3) in via istruttoria, disporsi apposita consulenza tecnica d’ufficio per acclarare eventuali modifiche dei riferimenti catastali delle particelle immobiliari identificate, al fine di addivenire ad un corretto trasferimento delle aree. Il Consorzio, costituitosi in giudizio, ha dedotto l’inammissibilità e l’infondatezza del ricorso, eccependo il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, l’inesistenza del titolo idoneo (accordo preliminare) ai fini dell’azione costitutiva ex art. 2932 C.C. e la prescrizione dell’obbligazione di cessione delle aree a causa del decorso del termine decennale dal momento in cui aveva acquisito le aree in questione. Si sono costituiti ad adiuvandum i signori (...), che hanno ribadito la sussistenza della legittimazione passiva del Consorzio e della giurisdizione del giudice amministrativo. Su richiesta della ricorrente amministrazione comunale è stato integrato il contraddittorio nei confronti della società Ridotto s.r.l., acquirente dei beni in questione, che, costituitasi in giudizio, ha anch’essa dedotto il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, instando per il rigetto del ricorso per inammissibilità e infondatezza. CONTENZIOSO NAZIONALE 133 2. L’adito tribunale, sez. II bis, con la sentenza non definitiva n. 9227 del 24 novembre 2011, rilevato che la questione concerneva la realizzazione di un programma edificatorio (in particolare il Piano di zona n. 40 “Vigna Murata”, approvato con D.P.R. 15 dicembre 1962), oggetto di successive varianti cc.dd. “bis” e “ter”, approvate con d.m. 2 aprile 1968 e delibera consiliare 11 febbraio 1982) e ricordato, per un verso, che, ai sensi degli artt. 10 e 11 della legge n. 167 del 1962, il Comune poteva riservarsi l’acquisizione delle aree ricomprese nel Piano (in misura non superiore al 50%), mentre le rimanenti aree potevano essere richieste da vari soggetti (tra cui le cooperative a favore dei propri soci per la costruzione di edifici di carattere economico popolare), i quali dovevano indicare al sindaco le aree da scegliere e l’entità delle costruzioni, e, per altro, verso che all’epoca della vigenza della citata legge n. 167 del 1962 non era prevista la sottoscrizione di una convenzione (a differenza di quanto successivamente disposto dalla legge 22 ottobre 1971, n. 865), così che l’atto d’obbligo rep. n. 8044 del 14 settembre 1972, registrato e trascritto il successivo 16 settembre 1972 (che ha subordinato la legittimità del rilascio del titolo concessorio alla cessione unilaterale di aree private inserite nel Piano di Zona in questione) doveva considerarsi inserito nel procedimento generale di attuazione e realizzazione del Piano stesso, ha ritenuto sussistente nel caso di specie la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, a questi appartenendo la domanda con cui il Comune agisce per ottenere l’esecuzione dell’obbligo assunto dal privato di cedere a titolo gratuito le aree per opere di urbanizzazione o servizi di interesse generale e di verde pubblico e in particolare la domanda volta ad accertare e dichiarare il diritto del Comune stesso di ottenere con sentenza ex art. 2932 C.C. il loro trasferimento, previo accertamento del diritto del Comune ad acquisire in proprietà le predette aree dall’attuale proprietario; ha poi respinto l’eccezione di prescrizione del diritto azionato ed infine, pur ritenendo fondate e meritevoli di accoglimento le richieste avanzate dal Comune di Roma di cessione delle aree da parte del Consorzio, ai fini della completa cognizione del giudizio, ha disposto puntuali incombenti istruttori, demandandone l’espletamento al Direttore dell’Agenzia del Territorio. 3. Il Consorzio e la società Il Ridotto s.r.l. hanno chiesto la riforma della predetta sentenza, lamentandone l’erroneità alla stregua di tre articolati motivi di gravame, rubricati rispettivamente, il primo “I.I) Violazione e falsa applicazione in generale dell’art. 7 comma 1 e 5 del codice del processo amministrativo ed art. 133 lett. f) del medesimo codice, ob relationem agli articoli 24, 103 e 113 Costituzione. Eccesso di potere giurisdizionale. I.II) Violazione e falsa interpretazione dell’art. 1 c.p.a. e falsa applicazione dell’art. 2932 c.c. ob relationem, all’art. 360 c.p.c.”; il secondo, “II) Violazione di legge. Violazione dell’art. 2946 C.C. – Violazione dell’articolo 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241. Carenza di motivazione” ed il terzo “III) Violazione di legge. Violazione dell’articolo 9 e 18 della legge 18 aprile 1962, n. 167 in combinato disposto con l’articolo 17, comma 1 legge 17 agosto 1942, n. 1150. Decadenza della validità ed efficacia del piano di zona”. Le appellanti, inoltre, dopo aver lamentato la consequenziale illegittimità dell’ordinanza istruttoria, hanno in via subordinata formulato istanza di rinvio all’Adunanza Plenaria ai sensi dell’art. 99 c.p.a. sulla questione del difetto di giurisdizione del giudice amministrativo e sulla esperibilità dell’azione ex art. 2932 C.C. innanzi al giudice amministrativo.. Hanno resistito al gravame chiedendone il rigetto il Comune di Roma ed i signori (...). 4. Il ricorso in questione, stante l’apposita istanza formulata dalle parti appellanti ed in virtù del rilievo delle questioni di massima su cui è imperniato, è stato deferito alla decisione dell’Adunanza Plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 2, c.p.a. Le parti hanno illustrato con apposite puntuali memorie difensive le proprie rispettive tesi. 134 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 All’udienza pubblica del 16 aprile 2012, dopo la rituale discussione, la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 5. Con il primo motivo di gravame, lamentando “I.I) Violazione e falsa applicazione in generale dell’art. 7 comma 1 e 5 del codice del processo amministrativo ed art. 133, lett. f) del medesimo codice, ob relationem agli articoli 24, 103 e 113 Costituzione. Eccesso di potere giurisdizionale. I.II) Violazione e falsa interpretazione dell’art. 1 c.p.a. e falsa applicazione dell’art. 2932 c.c. ob relationem all’art. 360 c.p.c.”, gli appellanti hanno sostenuto che, diversamente da quanto erroneamente e comunque contraddittoriamente ritenuto dai primi giudici, l’atto d’obbligo a suo tempo sottoscritto con il Comune di Roma (rep. n. 8044 del 14 settembre 1972, registrato e trascritto il successivo 16 settembre 1972) costituiva soltanto una manifestazione di volontà del privato, fonte di una obbligazione tipicamente privatistica, priva di qualsiasi connotazione pubblicistica, non inquadrabile pertanto in un procedimento amministrativo, negando la sussistenza di un qualsiasi accordo ed insistendo per il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo; d’altra parte, sempre secondo la tesi degli appellanti, la circostanza che la legge n. 167 del 1962 (artt. 10 e 11) non contenesse alcuna disposizione né in tema di convenzionamento, né in tema di atto d’obbligo, ma prevedesse un mero elenco delle aree che si intendevano acquistare o espropriare da parte degli enti indicati nell’articolo 1 e delle aree di cui all’articolo 16, sulle quali i proprietari avessero richiesto di costruire in proprio case popolari, escludeva in radice la sussistenza di un atto convenzionale, in quanto la fonte dell’obbligo era costituito solo dall’elenco stesso ovvero dal verbale di assegnazione, ed impediva l’ammissibilità della proposta azione ex art. 2932 c.c. (utilizzabile solo per gli obblighi di fonte legale), tanto più che alcun sinallagma poteva configurarsi tra il procedimento di assegnazione, di natura reale, e l’obbligo (di cessione delle aree per la realizzazione delle opere di urbanizzazione secondaria) che non era stato neppure concepito come condizione di efficacia dello stesso. La pur articolata e suggestiva tesi non merita favorevole considerazione. 5.1. Come si ricava dagli atti versati in giudizio, in data 22 aprile 1971 la Commissione di cui all’art. 11 della legge n. 167 del 1962 (18^ riunione), esaminato il progetto di variante al piano di zona di Vigna Murata, adottato dall’amministrazione comunale, e dato atto che “le domande di vari consorzi, alcuni dei quali già proprietari delle aree coprono l’intera superficie del piano tranne una parte che viene riservata a cooperative finanziate dallo Stato”, procedeva, per quanto qui interessa, all’assegnazione delle aree richieste al Consorzio Fonte Meravigliosa (foglio 882, p.lle 43p, 80p, 81p, 176p, 177, 178, 179 e 45p), alla Cooperativa Capoiale Star (foglio 886, p.lle 2p, 18p, 451; foglio 882, p.lle 119p, 16, 87, 18p, 27p, 102, 30, 17p, 53, 226, 36, 88, 89, 120, 105, 107, 103, 104, 106, 61p, 73p, 33p, 72p, 71p, 32p, 121p, 133p, 137, 135, 174p, 54, 60, 173, 17, 136, 134, 40, 41, 39p, 83p, 98p, 127p, 132p, 191, 163p, 192, 22p, 100p, 90p, 186p, 109p, 82p e 99p), alla Cooperativa Eliotropio (foglio 882, p.lle 42p, 45p, 77, 59, 76p, 78p, 185, 35p, 39p, 32p, 71p, 72p, 75, 163, 164, 33p, 165, 166, 167, 168, 34, 73p, 113, 21, 145, 99p e 100p). Nel verbale era espressamente stabilito che le predette assegnazioni “… si intendono effettuate ai sensi dell’art. 10, ma per l’attuazione le cooperative e i consorzi, con esclusione di quelle di cui all’art. f) [Coop. Marquita, Roseto in fiore, Casa sociale, Barbara 67, Fara Estense, Venti Ottobre, Tiberius, Stella del mattino, Riboty, finanziate dallo Stato], dovranno procedere alla stipulazione di atto d’obbligo per l’assunzione degli oneri di urbanizzazione e della cessione gratuita delle aree stradali e dei servizi”. Con atto d’obbligo, rep. n. 8044, prot. n. 3015 del 14 settembre 1972, rogato dal notaio Feli- CONTENZIOSO NAZIONALE 135 cetti, premessa la ricordata assegnazione di aree del 22 aprile 1971; rilevato che una parte del terreno assegnato era già stato acquistato (mq. 83.200 da parte del Consorzio Fonte Meravigliosa e dalle sue cooperative Puntoni Sigma, Supereur e Uria Redenta; mq. 24.800 da parte della Cooperativa Eliotropio e mq. 107.414 da parte della Cooperativa Capoiale Star) e dato atto espressamente che le suddette assegnazioni erano state fatte “… a condizione che gli enti interessati all’attuazione dovranno sottoscrivere l’assunzione a proprio carico degli oneri di urbanizzazione e della cessione gratuita delle aree stradali e dei servizi”, il Consorzio, in proprio e per le cooperative ad esso associate (Uria Redenta, Eliotroprio e Capoiale Star”), oltre alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria (art. 1), assumeva l’obbligo (art. 2) di cedere senza corrispettivo al Comune di Roma: a) aree destinate a sede stradale (indicate in blu nella planimetria sub C) per una superficie di mq. 73.530 (assegnate al Consorzio e alle Cooperative associate Uria Redenta, Eliotropio e Capoiale Star): foglio 882, p.lle 16p, 119p, 17p, 120p, 121p, 133p, 137p, 13, 54p, 175p, 136p, 41p, 39p, 83p, 45, 32p, 71p, 72p, 75p, 43p, 39p, 35p, 21p, 100, 98p, 21p, 145, 144p, 112, 66p, 73p, 33p, 166p, 165p, 164p, 163p, 121p, 16p, 30p, 10, 87p, 18p, 105p, 53p, 16p, 30p, 102p, 143p, 106p, 102p; b) aree destinate a servizi scolastici (indicate in rosso nella planimetria sub D) per una superficie di mq. 46.770: foglio 882, p.lle 16p, 87p, 18p, 10, 103p, 27p, 61p, 32p, 71p, 39p, 135p, 82p, 83p, 75p; c) aree destinate ad altro scopo, ugualmente pubblico, quali mercato, chiesa, servizi amministrativi, culturali e sanitari (indicate in giallo nella planimetria sub C), pure assegnate al Consorzio e alle Cooperative associate Uria Redenta, Eliotropio e Capoiale Star, per una estensione di mq. 13.800, foglio 882, p.lle 168p, 106p, 103p, 104p, 107p, 72p, 71p e 32 p; d) aree destinate a verde pubblico, per un estensione di mq. 26.630, foglio 882, p.lle 54p, 175p, 40p, 41p e 173p; foglio 886, p.lle 451p, 1p, 2p e 18p. L’ultimo comma dell’art. 2 del predetto atto d’obbligo precisava: “Il Comune potrà, comunque, a mezzo di varianti al piano adottare diversa utilizzazione pubblica delle aree come sopra cedute, senza che questo possa in ogni caso dar luogo ad azione di danno o di retrocessione da parte del Consorzio o dei suoi aventi causa”. Con altro atto d’obbligo, rep. n. 11343, raccolta n. 4239, rogato dal notaio Terzi in data 18 dicembre 1981, il Consorzio e le cooperative ad esso associate (Capoiale Star, Eliotropio e Uria Redenta), “fermi restando gli impegni assunti con l’atto d’obbligo a rogito Felicetti del 14/9/1972 Rep. 8044”, si obbligavano nei confronti del Comune di Roma ad osservare, nell’esecuzione ed attuazione dei predetti impegni, le variazioni urbanistiche al piano di zona 40 bis – Vigna Murata – legge 167/1962 apportato con la delibera citata in premessa (delibera della Commissione urbanistica del Comune di Roma del 29 marzo 1979). 5.2. Ciò chiarito in punto di fatto, la tesi degli appellanti, secondo cui l’atto d’obbligo rep. n. 8044, prot. n. 3015 del 14 settembre 1972, rogato dal notaio Felicetti (così come quello successivo, rep. n. 11343, raccolta n. 4239, rogato dal notaio Terzi in data 18 dicembre 1981) costituirebbe una mera obbligazione privatistica, del tutto svincolata e priva di qualsiasi collegamento con l’atto di assegnazione delle aree di cui al verbale del 22 aprile 1971 della Commissione di cui all’art. 11 della legge 18 aprile 1962, n. 167, è priva di fondamento giuridico. 5.2.1. Anche a prescindere dal fatto che una siffatta natura dell’atto d’obbligo ne implicherebbe l’invalidità per carenza di “causa”, requisito di ogni atto negoziale (ex art. 1325 c.c.), non potendo essere consentito uno spostamento patrimoniale privo di giustificazione giuridica (e non essendo altrimenti comprensibili le ragioni per le quali il Consorzio si sarebbe obbligato unilateralmente ad un determinato facere, a titolo gratuito, nei confronti del Comune di Roma), occorre rilevare che l’atto di assegnazione delle aree era in realtà “condizionato” alla sotto- 136 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 scrizione di atto d’obbligo per l’assunzione degli oneri di urbanizzazione e della cessione gratuita delle aree stradali e dei servizi. Ciò emerge inconfutabilmente, in modo chiaro ed inequivocabile, dalla lettura del ricordato verbale di assegnazione delle aree in data 22 aprile 1971 che delinea uno stretto vincolo logico – giuridico tra la realizzazione degli interventi edificatori e l’assunzione degli oneri di urbanizzazione e della cessione gratuita delle aree stradali e dei servizi, prevedendo espressamente, come già ricordato, che “Le assegnazioni si intendono effettuate ai sensi dell’art. 10, ma per l’attuazione le cooperative ed i consorzi… dovranno procedere alla sottoscrizione di atto d’obbligo per l’assunzione degli oneri di urbanizzazione e della cessione gratuita delle aree e dei servizi”. Lo stesso Consorzio è stato sempre pienamente consapevole di ciò, avendo dato spontaneamente attuazione a quella previsione, correttamente interpretandola come condizione (indipendentemente dal nomen juris concretamente utilizzato), come si ricava dalla lettura delle premesse del già citato atto rep. n. 8044, prot. n. 3015 del 14 settembre 1972, rogato dal notaio Felicetti, laddove è affermato che “… le assegnazioni suddette sono fatte a condizione che gli enti interessati all’attuazione dovranno sottoscrivere atto d’obbligo per l’assunzione a proprio carico degli oneri di urbanizzazione e della cessione gratuita delle aree stradali e dei servizi”. 5.2.2. L’atto d’obbligo in questione, lungi dal costituire una mera obbligazione privatistica, sfornita di qualsivoglia giustificazione giuridica, deve essere configurato quale atto privato accessivo all’assegnazione, necessario per la stessa efficacia di quest’ultima, collocandosi pertanto, come correttamente rilevato dai primi giudici, nell’ambito del complesso e articolato procedimento amministrativo di attuazione degli interventi di edilizia economica e popolare. Né all’effettiva esistenza di un simile procedimento amministrativo, come delineato nella ricostruzione dei fatti operata nel paragrafo 5.1., può ritenersi essere d’ostacolo la mancanza all’epoca di una apposita previsione normativa: l’esigenza di coordinare tra di loro la volontà pubblica dell’amministrazione (manifestatasi nell’assegnazione delle aree) e quella privata (di cessione gratuita delle aree necessarie per strade e servizi a fronte della possibilità di dare attuazione ai progettati interventi edificatori) era ben presente all’amministrazione che ha dato vita in concreto ad un - sia pur embrionale - modello convenzionale, indispensabile per la corretta e adeguata disciplina dei rapporti tra amministrazione assegnante e soggetti assegnatari - attuatori e per l’effettivo perseguimento dei fini pubblici (e sociali) insiti nella realizzazione dei piani di zona. È appena il caso di ricordare che, successivamente, tale possibilità è stata espressamente confermata dalla modifica apportata agli originari articoli 10 e 11 della legge n. 167 del 1962 per effetto degli articoli 35 e 38 della legge n. 865 del 1971, con cui è stato previsto lo strumento appunto della convenzione per regolare i rapporti tra concessionari (assegnatari) e pubblica amministrazione e, in particolare (art. 10, comma 8, lett. b) “il corrispettivo delle opere di urbanizzazione da realizzare a cura del comune o del consorzio, ovvero, qualora dette opere vengano eseguite a cura e spese del concessionario, le relative garanzie finanziarie, gli elementi progettuali delle opere da eseguire e le modalità del controllo sulla loro esecuzione nonché i criteri e le modalità per il loro trasferimento ai comuni od ai consorzi”. Sotto altro profilo deve anche evidenziarsi che con delibera della Giunta comunale n. 1293 del 20 aprile 1999 il Comune di Roma ha preso atto dei due ricordati atti d’obbligo del 14 settembre 1972 e del 18 dicembre 1981 nonchè degli atti unilaterali di cessione gratuita sottoscritti dal Consorzio per l’attuazione ed il trasferimento delle aree pubbliche ricadenti nel Piano di Zona n. 40 Vigna Murata, accettando espressamente tali cessioni gratuite di cui agli atti rogati dal notaio Misurale rep. n. 60630 in data 8 febbraio 1989, n. 62198 in data 5 maggio 1989 e n. 64166 in data 17 luglio 1989, così concludendosi - in parte - proprio il complesso CONTENZIOSO NAZIONALE 137 e articolato procedimento per la realizzazione dei relativi alloggi di edilizia economica e popolare, salva la cessione delle ulteriori aree ancora rimaste nella disponibilità del Consorzio. 5.3. Non merita in definitiva censura la statuizione di primo grado nella parte in cui ha riconosciuto che la presente controversia appartiene alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, atteso che, come giustamente rilevato, anche a non voler considerare che essa rientri tra quelle aventi ad oggetto gli accordi, la stessa concerne in ogni caso l’adempimento di un atto della pubblica amministrazione in materia di urbanistica ed edilizia ed in particolare la pretesa del Comune di Roma all’esatto adempimento degli obblighi nascenti dall’atto di assegnazione delle aree del 22 aprile 1971 e dai connessi atti d’obblighi cui era condizionata l’assegnazione stessa, obblighi pacificamente non ancora completamente adempiuti. 5.4. Quanto alla contestata ammissibilità nel caso di specie dell’azione costitutiva di cui all’art. 2932 c.c., deve osservarsi quanto segue. La giurisprudenza ha anche recentemente di ribadito (Cass. civ., sez. II, 30 marzo 2012, n. 5160) che “il rimedio previsto dall’art. 2932 c.c. a fine di ottenere l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto, deve ritenersi applicabile non solo nelle ipotesi di contratto preliminare non seguito da quello definitivo, ma anche in qualsiasi altra ipotesi dalla quale sorga l’obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto, sia in relazione ad un negozio unilaterale, sia in relazione ad un atto o ad un fatto dai quali detto obbligo possa sorgere ex lege (Cass. n. 6792 dell’8 agosto 1987; v. Cass. n. 7157 del 15 aprile 2004; v. Cass. n. 13403 del 23 maggio 2008 in tema di rifiuto di prestare il consenso di una cooperativa edilizia all’atto traslativo dell’immobile al socio assegnatario; Cass. n. 8568 del 5 maggio 2004 in tema di stipulazione di contratto di lavoro)”. Non vi è pertanto motivo per ritenere che non possa essere oggetto dell’azione ex art. 2932 c.c. il mancato adempimento da parte del Consorzio dell’obbligo, assunto con i ricordati atti d’obbligo del 14 settembre 1972 e del 18 dicembre 1981 di cessione delle aree ivi indicate, tale adempimento non essendo peraltro minimamente condizionato ad eventuali contrapposti adempimenti da parte del Comune ricorrente. Né può addursi, a fondamento della pretesa inammissibilità dell’azione in questione, la sua asserita natura speciale ed eccezionale, in quanto mista, cognitiva ed esecutiva insieme, derogatoria pertanto della normale separazione tra azione cognitoria e azione esecutiva, Invero tale natura non la rende incompatibile (né è stata fornita alcuna significativa argomentazione al riguardo) con la struttura del processo amministrativo come delineato dal relativo codice, tanto più che, da un lato, non solo è espressamente prevista un’azione (di ottemperanza), anch’essa caratterizzata dalla coesistenza in capo al giudice di poteri di cognizione ed esecuzione insieme e, d’altro lato, non può neppure sostenersi la tesi di una eventuale “tipicità” delle azioni proponibili nel processo amministrativo, tipicità che sarebbe in stridente ed inammissibile contrasto, oltre che con i fondamentali principi di pienezza ed effettività della tutela, ex art. 1 c.p.a., con la stessa previsione dell’art. 24 della Costituzione. Ma a prescindere da tali considerazioni di carattere generale, sta comunque il fatto che nella specie, per quanto innanzi esposto, si verte in una ipotesi di giurisdizione esclusiva la quale, là dove vengano in discussione questioni su diritti, come è per l’appunto nel caso in esame, non può che garantire agli interessati la medesima tutela e, dunque, le medesime specie di azioni riconosciute dinanzi al giudice ordinario. Né può condividersi la tesi secondo cui l’effetto dell’acquisizione delle aree in questione avrebbe potuto essere conseguito dall’amministrazione pubblica utilizzando i propri poteri autoritativi, quale l’acquisizione d’ufficio: a tacer d’altro, è sufficiente al riguardo rilevare 138 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 che l’eventuale possibilità di esperire poteri amministrativi non rende di per sé inammissibile la proposizione di una domanda giudiziale. Il motivo in esame è pertanto da respingere. 6. Con il secondo motivo di gravame è stato dedotto “II) Violazione di legge. Violazione dell’art. 2946 c.c. – Violazione dell’articolo 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241. Carenza di motivazione”, sostenendosi l’erroneità della sentenza impugnata per aver ritenuto interrotto il termine decennale di prescrizione delle obbligazioni derivanti dall’atto d’obbligo, per effetto del verbale del 13 giugno 1990 e delle successive intimazioni dell’amministrazione comunale, senza avvedersi tuttavia che detto verbale (e l’impegno ivi contenuto a cedere ulteriori aree di completamento delle opere di urbanizzazione secondaria, quali servizi scolastici, mercato e chiesa, impegno peraltro dettato dalla situazione di difficoltà economica in cui versava il Comune e finalizzato ad ottenere il rilascio delle licenze abitative) non si riferiva affatto all’immobile Santa Rita, come del resto confermato dall’inserimento di detto immobile nelle Norme Tecniche di Attuazione del nuovo piano regolatore generale del Comune di Roma come immobile di proprietà privata della “Città Consolidata” - Tessuti di espansione novecentesca a tipologia edilizia libera - T3 e dalla simbologia utilizzata nelle relative tavole di zonizzazione (in cui solo le altre aree già indicate nell’atto d’obbligo a rogito notaio Felicetti, escluso l’immobile in questione, sono evidenziate come destinate a “Sistema dei servizi e delle infrastrutture”). Il motivo non può essere accolto. 6.1. Come si è avuto modo di rilevare, gli obblighi di cessione gratuita delle aree stradali e dei servizi, di cui all’atto d’obbligo del 14 settembre 1972, sono stati prima confermati con l’atto d’obbligo del 18 dicembre 1981 e poi adempiuti, ma solo parzialmente, con gli atti di cessione unilaterali, rep. n. 60630 in data 8 febbraio 1989, n. 62198 in data 5 maggio 1989 e n. 64166 in data 17 luglio 1989, atti tutti di cui il Comune ha preso atto, accettandoli con la delibera di Giunta comunale n. 1293 del 20 aprile 1999, facendo espressamente salva l’ulteriore cessione di aree rientranti nella previsione degli atti di obblighi. In data 13 giugno 1990 le parti (il Consorzio ed il Comune di Roma) hanno proceduto alla redazione di un “verbale di cessione gratuita di aree al Comune di Roma”, nel quale tra l’altro il predetto Consorzio si è espressamente “impegnato a completare la cessione delle aree situate all’interno del p.z. non incluse negli atti precedentemente citati”, cioè la cessione di tutte le aree indicate negli atti d’obbligo rogati rispettivamente il 14 settembre 1972 dal notaio Felicetti ed il 18 dicembre 1981 dal notaio Terzi. Come rappresentato dall’amministrazione comunale appellata nella memoria difensiva depositata il 15 marzo 2012, il Consorzio è stato più volte sollecitato alla cessione delle ulteriori aree, giusta note Rip. XVI n. 7396 del 27 giugno 1985; Rip. XVI n. 1052/1996 del 31 gennaio 1996; Rip. XVI n. 3554/1997 del 16 giugno 1997; Dip. IX n. 78841 del 14 dicembre 1999; Dip. IX del 15 maggio 2001 e Dip. IX n. 26649 del 23 aprile 2007. 6.2. Posto che non è stata contestata né l’esistenza delle ricordate note di intimazione alla cessione delle aree, né la loro idoneità ad interrompere la prescrizione del diritto del Comune di Roma alla cessione gratuita delle aree in questione, non vi è alcun motivo per dubitare della natura di riconoscimento del debito (o dell’altrui diritto) della dichiarazione fatta dal rappresentante del Consorzio nel predetto verbale del 13 giugno 1990 in ordine alla persistenza dell’obbligo di cessione delle aree di cui ai precedenti atti d’obbligo, adempimento non ancora del tutto esattamente completato, e dell’impegno a procedere in tal senso. Tale dichiarazione è stata infatti formulata dal legale rappresentante del Consorzio, da soggetto CONTENZIOSO NAZIONALE 139 cioè legittimato e fornito dei poteri dispositivi (trattandosi della stessa persona fisica costituita nei citati atti d’obbligo) e per il suo conciso, ma puntuale contenuto, anche in ragione degli espressi richiami operati ai precedenti atti di obbligo ed unilaterali di cessione delle aree già intervenuti, deve ritenersi connotata da una specifica consapevole intenzione ricognitiva, coerentemente del resto allo stesso significato delle attività oggetto della verbalizzazione, dovendosi pertanto, in mancanza di qualsiasi elemento indiziante in tal senso, escludersi che essa avesse finalità diverse o che fosse condizionata da elementi estranei (Cass. civ., III, 24 novembre 2010, n. 23822); ciò senza contare che, come ribadito dalla giurisprudenza, non occorrono formule sacrali per aversi riconoscimento di debito. Né, a togliere valore alla predetta dichiarazione di riconoscimento del debito ovvero del diritto del Comune di Roma ad ottenere la cessione delle aree di cui si tratta, può valere l’omessa indicazione o specificazione dell’edificio Santa Rita, in quanto la dichiarazione in questione si riferiva in modo chiaro ed inequivoco, ancorché omnicomprensivo, agli obblighi assunti con gli atti d’obbligo del 14 settembre 1972 e del 18 dicembre 1981. L’eccezione di prescrizione è pertanto destituita di fondamento (in tal senso anche T.A.R. Lazio, sez. II, 14 ottobre 2009, n. 9900, pronunciata in una controversia proprio tra l’odierno Consorzio appellante ed il Comune di Roma in relazione ad un atto dirigenziale di immissione nel possesso di area, foglio 882, p.lla 33, di cui ai più volte citati atti d’obbligo). Per mera completezza deve osservarsi che la questione se l’edificio Santa Rita rientri nelle aree da cedere (come sostenuto dall’amministrazione comunale, in quanto rientrante negli obblighi assunti con l’atto d’obbligo rogato dal notaio Terzi il 18 dicembre 1981 per effetto dell’impegno assunto dal Consorzio “… ad osservare, nell’esecuzione ed attuazione di detti impegni le variazioni urbanistiche al piano di zona 40 bis – Vigna Murata – legge 167/1962 apportate con la delibera citata in premessa”) o meno, come sostenuto dalle appellanti, attiene alla fondatezza della domanda proposta dall’amministrazione comunale e non alla eventuale prescrizione del diritto di cessione (prospettazione quest’ultima che peraltro induce a ritenere che le stesse parti appellanti siano consapevoli che anche tale immobile sia oggetto degli obblighi di cessione). 7. Con il terzo motivo di gravame, rubricato “III) Violazione di legge. Violazione dell’articolo 9 e 18 della legge 18 aprile 1962, n. 167 in combinato disposto con l’articolo 17 comma 1 legge 17 agosto 1942, n. 1150. Decadenza della validità ed efficacia del piano di zona”, le appellanti hanno infine sostenuto che, essendo scaduto in data 17 agosto 1984, il termine di validità del primo PEEP del Comune di Roma, in cui è compreso il Piano di zona n. 40 di Vigna Murata, era venuta meno anche la possibilità per il Comune di Roma di acquisire le aree oggetto dell’atto d’obbligo, con conseguente inutilità della stessa ricostruzione di quest’ultimo come atto endoprocedimentale. La censura è priva di pregio. Come ha affermato la giurisprudenza, la perdita di efficacia di un piano di zona per l’edilizia economica e popolare, quale piano urbanistico attuativo, comporta che lo stesso non può più essere portato ad esecuzione per la parte in cui è rimasto inattuato, non potendosi pertanto più eseguirsi gli espropri, preordinati alla realizzazione delle opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione primaria, né potendosi procedere all’edificazione residenziale, fermo restando invece che devono continuare ad osservarsi le prescrizioni previste dallo stesso, destinate ad essere applicate a tempo indeterminato anche in presenza di un piano urbanistico generale (C.d.S., sez. IV, 27 ottobre 2009, n. 6572; 12 dicembre 2008, n. 6182; sez. V, 20 marzo 2008, n. 1216). Le conseguenze della scadenza dell’efficacia del piano di zona si esauriscono pertanto nell’ambito della sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed effi- 140 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 cacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi di edilizia economica e popolare, che solo mediatamente trovano fonte nel piano urbanistico attuativo (nel caso di specie, piano di zona), radicandosi piuttosto nelle convenzioni urbanistiche, disciplinate dall’art. 11 della legge n. 167 del 1962, come modificato dalla legge n. 865 del 1971, ovvero negli atti d’obbligo accessivi al provvedimento di assegnazione, come nel caso di specie, del tutto svincolati dalla efficacia del piano stesso. 8. L’appello deve pertanto essere respinto; le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo. 9. In conclusione, in base alle esposte considerazioni, l’Adunanza plenaria afferma il seguente principio di diritto: “Rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la controversia concernente l’osservanza degli obblighi assunti dal privato nei confronti dell’ente locale, in connessione con l’assegnazione di aree comprese in un piano di zona, volti alla realizzazione di opere di urbanizzazione ed alla cessione gratuita all’ente delle aree stradali e dei servizi, In tale ambito è esperibile dinanzi a detto giudice l’azione di cui all’art. 2932 c.c.”. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria) definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna le parti, in solido tra di loro, al pagamento di €. 5.000,00 (cinquemila) in favore di Roma Capitale e di €. 5.000,00 (cinquemila), in favore dei signori (...). Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 aprile 2012. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ Illegittimità del decreto ministeriale “redditometro” e atti analoghi per nomofilachia dell’Adunanza Plenaria Federico Maria Giuliani* Sabrina Scalini** Ancorché nelle fonti secondarie in generale - e in particolare nel settore tributario - si assista da tempo al proliferare di forme ibride o atipiche, rispetto a quelle regolamentari prescritte dalla legge n. 400 del 1988, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 9 del 2012, ha statuito la necessità di rigore sistematico al riguardo. Sicché un recente decreto del MEF, quale quello sul “redditometro”, seppure già sottoposto a critiche per altri aspetti più o meno opinabili, manifesta una intrinseca illegittimità a causa del suo iter di adozione. Il medesimo assunto, per le stesse ragioni, è estendibile a decreti ministeriali analoghi, altrettanto rilevanti (e.g. “Tobin tax”), emanati con eguale procedura impropria, cioè sulla base di una norma primaria che non facoltizza, in modo esplicito, l’atipicità procedurale in deroga. SOMMARIO: 1. Breve premessa su regolamenti e atti generali. - 2. La “fuga dal regolamento” in diritto amministrativo, e i decreti privi di forma regolamentare nella materia tributaria. - 3. La intrinseca illegittimità, per vizio procedimentale di adozione, del d.m. sul redditometro (e decreti analoghi). 1. Breve premessa su regolamenti e atti generali. Si è scritto molto sulle fonti secondarie, e in particolare sui regolamenti: quanto alla loro dicotomia intrinseca tra forma amministrativa e sostanza normativa (1); quanto alla loro linea di confine rispetto agli atti (amministrativi) (*) Avvocato in Milano e scrittore. (**) Avvocato in Bologna. (1) A.M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, XIV ed., Napoli, 1984, t. I, p. 52 ss.; G. LANDI - G. POTENZA, Manuale di diritto amministrativo, VII ed., Milano, 1983, p. 36 ss.; A. CERRI, voce Regolamenti, in Enc. Giur., vol. XXVII, Roma, 1988; A. ROMANO TASSONE, La normazione secondaria, in AV.VV, 142 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 generali (2); quanto, ancora, all’interrogativo se i regolamenti stessi siano “disapplicabili” in ipotesi di antipatia (rispetto a essi) degli atti amministrativi applicativi (in simpatia con la legge), o piuttosto, invece, “invalidabili”, laddove l’antipatia tra regolamento e legge trasmetta direttamente la patologia all’atto amministrativo attuativo, quest’ultimo essendo in rapporto di simpatia rispetto al regolamento (3). Si è persino pervenuti al superamento totale dell’idea di disapplicazione in ambedue le ipotesi appena prospettate, in applicazione del principio iura novit curia e di quello di gerarchia delle fonti ex art. 1, disp. prel., c.c. (4). Si è aggiunto - sempre in ermeneutica - che la distinzione meramente formale tra fonti primarie e secondarie prova troppo poco, specie sul piano processuale- rimediale, atteso che nel processo amministrativo bisogna misurarsi all’origine con la pre-condizione (per la pronuncia sul merito) dell’interesse a ricorrere (5) (6). A tal fine, come noto, s’impone una lesione personale, concreta e attuale, di una posizione giuridica meritevole di tutela: sicché norme astratte - a destinatari potenzialmente infiniti, e non ancora incisive sulla sfera del singolo - non sono di per sé suscettibili d’impugnazione (7). Diritto amministrativo, I, Bologna, 1993, p. 189 ss.; L. COSSU, voce Regolamenti governativi e ministeriali, in AA.VV., Dizionario di diritto pubblico, dir. da S. Cassese, vol. V, Milano, 2006, p. 5035 ss. Adde, con rif. alla materia tributaria, V. UCKMAR, La potestà normativa regolamentare in materia tributaria, in AA.VV., Studi in onore di Giannini, Milano, 1951, p. 929 ss.; A. DI PIETRO, I regolamenti, le circolari e le altre norme amministrative per l’applicazione della legge tributaria, in Tratt. Dir. trib., dir. da A. Amatucci, vol. I, t. II, Padova, 1994, p. 659 ss. (2) M. S. GIANNINI, Provvedimenti amministrativi generali e regolamenti ministeriali, in Foro it., 1953, III, 9 ss.; F. CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2009, p. 438 ss.; ID., Compendio di diritto amministrativo, II ed., Roma, 2010, p. 65 ss.; E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, XIII ed., Milano, 2011, p. 386 ss.; R. GAROFOLI, Compendio di diritto amministrativo, Roma, 2012, p. 21 ss. (3) Cons. Stato, Sez. V, 26 febbraio 1992, n. 154, in Cons. Stato, 1992, I, 250 [in www.giustiziaamministrativa. it. ove si consultino anche tutte le sentenze del G.A. citate infra, per mera speditezza, senza fonte di reperibilà] (in risposta positiva al primo quesito di cui sopra nel testo); Cons. Stato, Sez. IV, 22 marzo 2001, n. 1683 (in risposta positiva al secondo quesito di cui sopra nel testo). Sul tema disapplicativo-regolamentare si consultino, a titolo esemplificativo: F. CARINGELLA, Manuale, cit., p. 462; G. FRANSONI, La disapplicazione dei regolamenti e degli atti generali, in Giur. Sist. Dir. trib., dir. da F. Tesauro, Torino, 1998, p. 120 ss.; S. SPUNTARELLI, Regolamenti e bandi di gara e di concorso: qualificazione e strumenti di tutela nel sistema giuridico italiano, in Dir. giur. comm., n. 2/2013, p. 96 ss., e ivi spec. a p. 102. (4) Cons. Stato, Sez. IV, 16 febbraio 2012, n. 812. (5) S. SPUNTARELLI, Regolamenti, cit. p. 98. (6) Per il superamento (adottato sopra nel testo) della distinzione classica tra condizioni dell’azione (possibilità giuridica, legittimazione ad agire o legitimatio ad causam, interesse ad agire) - come elementi intrinseci della domanda - e presupposti processuali (capacità di essere parte, capacità processuale, legittimazione processuale o legitimatio ad processum) - superamento verso un'unica categoria di condizioni di decidibilità della causa sul merito, vedansi AA.VV., Commento all’art. 35 c.p.a., in F. CARINGELLA - M. PROTTO (a cura di), Codice del nuovo processo amministrativo, Roma 2010, p. 412; G. DEMARZO - P. PASETTO, Manuale del nuovo processo civile, Roma 2009, p. 102 (ove si richiama il Consolo). (7) Sul punto a titolo esemplificativo, N. SAITTA, Sistema di giustizia amministrativa, III ed., Milano 2011, p. 54; F. CARINGELLA - M. PROTTO, Manuale di diritto processuale amministrativo, Roma 2011, p. 170 ss. In giurisprudenza Cons. Stato, Sez. VI, 12 novembre 2008, n. 5661; Cons. Stato, Ad. Pl., n. 1/2003. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 143 Ecco allora emergere, sulle orme di dottrina classica (8), la nota distinzione tra regolamenti di volizione preliminare e regolamenti di volizioneazione, rispettivamente riconducibili ai paradigmi “norma-fatto-potere” e “norma-fatto-effetto” (9). I regolamenti di volizione preliminare - si osserva - non sono immediatamente impugnabili/impugnandi nei sessanta giorni dalla pubblicazione; bensì piuttosto, con la doppia impugnazione, nel termine di decadenza afferente al loro atto amministrativo attuativo, concretamente lesivo (10). E qui se mai, in carenza di doppia impugnativa, soccorre la disapplicazione/invalidazione; o ancora l’applicazione dei principi iura novit curia e gerarchia delle fonti (11). Quanto ai regolamenti di volizione-azione, invece, si precisa che essi sono impugnabili/impugnandi nel termine decadenziale decorrente dalla loro pubblicazione, proprio perché immediatamente lesivi. Dopodiché, se non impugnati, diventano definitivi (12). Si conoscono altresì i regolamenti misti, in cui convivono precetti propri di volizione preliminare, nonché precetti di volizione-azione. Ivi - si osserva - a seconda delle singole prescrizioni, si seguono i criteri di cui sopra (13). Infine si evidenzia, che finanche gli atti amministrativi generali (bandi di concorso e gare d’appalto), sebbene presentino caratteri intrinseci diversi dagli (8) A. ROMANO, Osservazioni sull’impugnativa dei regolamenti della pubblica amministrazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 1955, p. 882. (9) Il lessico è ormai acquisito: F. CARINGELLA - M. PROTTO, Manuale, cit., p. 173; R. GAROFOLi, op. cit., p. 28; F. CARINGELLA, Manuale, cit., p. 462 s.; ID., Compendio, cit., p. 74 s.; e, in giurisprudenza, vedi da ultimo Cons. Stato, Sez. IV, 16 febbraio 2012 n. 812. Sulla riferibilità della dicotomia tra norma-atto-effetto e norma-potere-effetto, sia negli atti normativi, sia negli atti amministrativi generali, E. CASETTA, Manuale, cit., p. 388 (prestando però attenzione, ivi, a non lasciarsi confondere dal fatto che l’A. identifica gli atti normativi per essere essi l’espressione di un potere diverso da quello amministrativo, tale da porre “norme di azione”; laddove ci si sarebbe attesi un riferimento alle norme di volizione). Nella logica, invece, effettuale del criterio substance over form (per cui, se vi è lesione immediata, vi è altresì impugnabilità immediata, al di là e oltre i pericolosi nominalismi), si consulti S. SPUNTARELLI, op. cit., p. 101. (10) Che poi li si denomini “atti (sostanzialmente) normativi”, oppure “regolamenti sostanzialmente normativi”, piuttosto che “regolamenti di volizione-preliminare”, diventa mero nominalismo. Ciò che conta è il concetto quanto agli effetti. V. S. SPUNTARELLI, op. loc., ultt. citt. adde, nel senso di cui sopra nel testo; Cons. Sato, Sez. IV, 12 febbraio 2001, n. 633; Id., Sez. IV, 14 febbraio 2005, n. 450; TAR Calabria - Catanzaro, Sez. II, 6 maggio 2009, n. 421. (11) V., supra, riff. alle nt. 3 e 4. Adde Cons. Stato, Sez. V, 24 luglio 1993, n. 799, in banca dati la tribuna (che ha introdotto la disapplicazione anche nel caso di simpatia tra provvedimento illegittimo e omologo regolamento). (12) Per tutti, sul punto, F. CARINGELLA, Manuale, cit., p. 463 (ove si aggiunge che ne risulta preclusa, anche l’impugnazione degli eventuali atti applicativi); R. GAROFOLI, op. cit., p. 29 (dove si distingue tra provvedimenti attuativi impugnati contestualmente al regolamento, in doppio e tempestivo ricorso, e provvedimenti attuativi non impugnati tempestivamente, rispetto ai quali ultimi si prospettano due diverse tesi: quella dell’invalidità derivata a effetto caducante, che discende dall’annullamento del regolamento; e quella che, dall’annullamento giurisdizionale del regolamento, fa discendere l’invalidità derivata a effetto solo viziante, dell’atto applicativo - senza caducazione automatica di questo, bensì annullabilità in autotutela). (13) S. SPUNTARELLI, op. cit., p. 102. 144 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 atti (regolamentari) normativi (indefinitezza dei destinatari a priori, ma definitezza a posteriori), non sono impugnabili a priori da chiunque, ma soltanto da chi si è iscritto al concorso, per contestare peraltro un vizio specifico quale quello delle limitazioni di accesso al medesimo (14). Diversamente opinando - si osserva - non vi sarebbe lesione attuale, immediata e personale: ergo interesse a ricorrere. Non vi sarebbe, cioè, interesse concreto e attuale (15). (14) Op. ult. cit., p. 103. Vedasi: P. VIRGA, La tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione, III ed., Milano, 1982, p. 248 ss. Sulla distinzione tra regolamenti (sostanzialmente normativi: supra nt. 9) e atti generali, di cui sopra nel testo, da ultimo perspicuamente vedasi Cons. Stato, Ad. Pl., 4 maggio 2012 n. 9. Adde R. GAROFOLI, op. cit., p. 22; F. CARINGELLA, Manuale, p. 442. Questo è l’ormai preferito approccio sostanziale, perché il criterio formale non può che fare riferimento all’adozione, solo nel caso dei regolamenti, dell’apposito iter di adesione di cui all’art. 17, legge n. 400/1988 (F. CARINGELLA, Compendio cit., p. 64; G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte generale, VII ed., Milano, 2010, p. 75 s.). Il problema era già colto da M.S. GIANNINI, Istituzioni di diritto amministrativo, II ed., Milano, 2000, p. 321, il quale metteva in luce come la distinzione, sovente ardua sul piano sostanziale, si riduca sul piano processuale, poiché analoghi sono i modi di impugnativa e annullamento giurisdizionale. E infatti vedi ancor oggi, per l’applicazione del criterio degli effetti, Cons. Stato, Ad. Pl., 31 luglio 2012 n. 31: sì che anche gli atti amministrativi generali possono essere immediatamente impugnabili o meno, a seconda che possiedano o meno, rispettivamente, i caratteri della volizione-azione e della lesività immediata (al pari dei regolamenti sostanzialmente normativi, e diversamente dai provvedimenti amministrativi c.d. individuali, di per sé stessi immediatamente lesivi). Sul punto ancora S. SPUNTARELLI, op. cit., p. 103. (15) Sull’interesse concreto e attuale, come condizione di decidibilità del ricorso sul merito ex artt. 100 c.p.c. e 35 e 39 c.p.a., N. SAITTA, op. cit., p. 59 s. Ivi ( a pag. 59) - riprendendo il TRAVI - si osserva che, a differenza di quanto accade nel processo civile, in quello amministrativo l’interesse a ricorrere non rimane sullo sfondo, ma gioca una rilevanza concreta. In effetti, alla luce del solo art. 100 c.p.c., l’idea è quella dell’affermazione di una subita lesione: cioè una contestazione in relazione alla quale l’eventuale accoglimento della domanda costituirebbe panacea (C. MANDRIOLI, Diritto processuale civile, XXI ed., t. I, Torino, 2011, p. 52 s., con ampi riff. a margine). Diversamente, nel processo amministrativo non solo non basta la mera affermazione, ma altresì i requisiti di attualità e concretezza devono essere rispettivamente selezionati, obiettivi, e non futuribili [anche se v. Cons. Stato, Sez. VI, 13 maggio 2005, n. 2399; Id., Sez. IV, 2 giugno 1994, n. 467]; essi, d’altro canto, debbono costituire prospettiva di vantaggi effettivi e non astratti. Si noti che, in quest’accezione processuale (e pregiudiziale) dell’interesse, dottrina amministrativistica (N. SAITTA, op. cit., p. 621) sussume altresì la c.d. prova di resistenza nei giudizi elettorali. Diversa, però, è la posizione di Cons. Stato, Sez. V, 5 marzo 2003, n. 1215, che ragiona in termini di contemperamento degli interessi (sostanziali) in gioco. E ciò, per vero, si avvicina alla lettura che, della prova di resistenza ex art. 2373 c.c., si dà in termini di soluzione (normativa) del conflitto tra interessi extrasociali e quelli “propri dell’Interessen gemeinschaft societario” (P. JAEGER, L’interesse sociale, Milano, 1964, p. 219 s.), ovvero in termini di una delle condizioni legali per l’annullabilità della delibera assunta in conflitto (Cass., 11 dicembre 2000, n. 15599, in banca dati tribuna; contra, però, nel senso che la prova di resistenza ex art. 2373 sia sussumibile nell’art. 100 c.p.c., Cass. 12 luglio 2007, n. 15613, in banca dati la tribuna). Infine si osservi che, per quel che concerne l’altra condizione dell’azione, costituita dalla legitimatio ad causam, nell’art. 75 c.p.c. riferito al rito civile, si ravvisa di nuovo la mera affermazione attorea della coincidenza soggettiva (attiva e passiva) dei titolari del rapporto sostanziale (C. MANDRIOLI, op. cit., p. 53 ss.), in applicazione della nozione germanica concreta (e non astratta) dell’azione (Cass.,, 6 marzo 2008, n. 6132, in banca dati la tribuna; Cass., 5 novembre 2001, n. 13631, in Foro it., 2001, I, c. 3501; Cass., 29 aprile 1988, n. 4364, in banca dati la tribuna). Diversamente, con rif. al processo amministrativo, accanto a chi ripropone lo schema della mera affermazione (F. CARINGELLA – M. PROTTO, op. cit., p. 170), prevale la tesi della legittimazione a ricorrere come effettiva identità fra il ricorrente e il titolare di una posizione LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 145 Per vero, la giurisprudenza ha posto in luce altri casi di ricorribilità immediata avverso questi atti concorsuali, come in primis nei vizi che intaccano la libera concorrenza (16). Infine si pone la vexata quaestio dell’interesse strumentale, vòlto alla ripetizione della gara e dunque da azionarsi subito, strettamente correlato in rito ai casi di ricorso incidentale, con ambedue le sole parti che vicendevolmente si contestano la legittima ammissione al concorso, donde la rispettiva legittimazione ad agire. È da esaminare - viene da domandarsi - prima il ricorso principale o l’omonimo incidentale? Il corollario non è di poco momento, sul piano del processo e degli esiti (17). 2. La “fuga dal regolamento” in diritto amministrativo, e i decreti privi di forma regolamentare nella materia tributaria. La c.d. fuga dal regolamento, in diritto amministrativo, è tema noto, specie dopo la riforma del titolo V della Costituzione. Atteso che la legge n. 400 del 1988 (art. 17) prevede una procedura ad giuridica tutelata (int. leg. o dir. sogg.), cioè legittimamente, appunto, differenziata rispetto a quella di un quisque de populo (P. VIRGA, op. cit., p. 211; N. SAITTA, op. cit., p. 65; ma spec. R. VILLATA, Legittimazione processuale, Diritto processuale amministrativo, in Enc. Giur., Roma, XVII vol., Roma, 1990, p. 2). Sul rito tributario, poi, si consultino le perspicue pagine di A. FANTOZZI, Diritto tributario, cit., p. 1004 ss., da cui emerge che, anche in tale processo - al pari di quello amministrativo - non è sufficiente la mera affermazione attorea della propria titolarità del tributo, né la semplice affermazione della coincidenza tra ufficio resistente ed ente notificatore dell’atto impugnato. (16) Cons. Stato, Sez. IV, 7 novembre 2012, n. 5671. (17) Sul tema: Cons. Stato, Ad. Pl., 10 novembre 2008, n. 11, in AA.VV., Decisioni dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato del 2008 e dei primi sei mesi del 2009, Roma, 2009, a cura di S. Toschei, p. 183 ss., con nota di D. SIMEOLI, La regola processuale da osservare in caso di proposizione di ricorso principale e di ricorso incidentale dalle due uniche imprese ammesse ad una gara [ivi, in buona sostanza, l’interesse strumentale del ricorrente principale alla riedizione della gara era reputato non negligibile - donde l’esaminabilità del ricorso principale a parità di parti, in base all’argomento clou per cui il ricorso incidentale aveva natura impugnatoria dell’atto di ammissione alla gara del ricorrente principale, la cui efficacia avrebbe precluso l’indizione di una gara ulteriore]. Adde Cons. Stato, Sez. IV, 26 novembre 2009, n. 7443. Sull’interesse strumentale come, in sostanza, interesse alla legalità paludato da riferimenti soggettivi; donde la necessità di tenere ben distinta la posizione legittimante, da verificare a monte per l’ammissibilità del ricorso, rispetto all’utilità che dal processo la parte può trarre. Come dire che legitimatio ad causam ed interesse a ricorrere non vanno compenetrati; laddove invece ciò sembra p.e. accadere in D. SIMEOLI, op. cit., p. 208 alla fine e p. 209 all’inizio. A seguire, ancora, vedi Cons. Stato, Ad. Pl., 7 aprile 2011, n. 4, in AA.VV., L’attività nomofilattica del Consiglio di Stato. Commentario alle sentenze dell’Adunanza Plenaria pubblicate nel 2011, a cura di S. Toschei, Roma, 2012, p. 125 ss., con nota di M. SIMONETTI, Il rapporto tra il ricorso incidentale e il ricorso principale nei giudizi in materia di affidamento di contratti pubblici. Quivi emerge che interesse a ricorrere e omonima legittimazione sono concetti tra loro assai distinti e altresì distinti dagli omonimi concetti di procedura civile. Tant’è che, all’interesse strumentale alla riedizione della gara, è ormai negata la dignità di posizione differenziata legittimante. E qui si apre l’obiezione di scuola “sattiana”, giusta la quale, se la legittimazione ad agire è mera affermazione, essa diventa una questione di rito (o condizione dell’azione) del tutto scontata; e se d’altronde è pensata come effettiva titolarità della posizione, allora si sposta sul piano del merito, e non è più questione di rito; donde, in quest’angolo visuale, l’inanità della nozione stessa] nell’ermeneutica del c.p.c.. 146 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 hoc per i regolamenti governativi, da un lato, e quelli ministeriali e interministeriali dall’altro - con previo parere, ancorché non vincolante, del Consiglio di Stato e visto della Corte dei Conti, nonché, nel primo caso, firma del Capo dello Stato (18); atteso altresì che, come pure noto, il nuovo stile dell’art. 117, sesto comma, Cost. comprime la potestà regolamentare dello Stato alle sole materie di legislazione esclusiva, spettando essa, per ogni altra materia, alle Regioni (nonché agli Enti Locali per l’organizzazione e svolgimento delle proprie funzioni). Ne è conseguita una prassi dicasteriale, tale per cui, anziché seguire i crismi formali della legge 400, i ministeri hanno sovente emanato atti a contenuto normativo in forma di semplici decreti, adottati e pubblicati, senza parere del Supremo Consesso della giustizia amministrativa e senza visto della Corte dei Conti (senza, tanto meno, firma del Presidente della Repubblica, quanto ai regolamenti governativi) (19). Di qui una crisi del “sistema-fonti”. Tant’è che si è parlato di fonti atipiche non regolamentari, per distinguerle da quelle regolamentari proprie (20). A fronte di ciò, si è tentato di asserire la legittimità di siffatti decreti in fuga dai regolamenti, per un verso accettando la prassi, e per altro verso ravvisando, anche a fini processuali, la natura sostanzialmente regolamentare dei medesimi, a condizione che possiedano il contenuto precettivo proprio della volizione preliminare (21). (18) Sull’art. 17, commi 1-4, legge 400/88, si consultino AA.VV., Commento all’art. 17, legge n. 400/88, in F. CARINGELLA - L. TARANTINO (a cura di), Codice amministrativo commentato, Roma, 2009, p. 240 ss.; L. COSSU, op. cit.; A. ROMANO TASSONE, La normazione secondaria, in AA.VV., Diritto amministrativo, I, Bologna, 1993, p. 189 ss.; G. MARCHIANÒ, La funzione regolamentare, Parte I, I regolamenti governativi, Padova, 1988; G.U. RESCIGNO, Il nome proprio degli atti normativi e la legge n. 400 del 1988, in Giust. Cost., 1988, p. 1994 ss.). (19) Sul fenomeno della c.d. fuga dai regolamenti: A. FANTOZZI, Diritto tributario, IV ed. Roma, 2012, p. 183; F. CARINGELLA, Compendio, cit., p. 71 ss., ID., Compendio, cit., p. 457; L. CARLASSARE - P. VERONESI, voce Regolamento (dir. cost.), in Enc. dir., Agg., V, Milano, 2001, p. 958 ss.; L. COSSU, Regolamenti, cit., p. 5038 s. (20) Ciò in alternativa all’altro possibile esito ermeneutico, adottabile con riferimento agli stessi atti: quello, cioè, della loro qualificazione di atti bensì normativi, ma viziati nella procedura di adozione; e per ciò da annullare, o eventualmente da disapplicare (L. COSSU, op. loc. ultt. citt.), oppure da dichiarare nulli o persino inesistenti (F. CARINGELLA, Compendio, cit., p. 72; G.U. RESCIGNO, Il nome proprio, cit., p. 1494; V. MOSCARINI, Sui decreti del Governo “di natura non regolamentare” che producono effetti normativi, in Giur. cost., 2008, p. 5075 ss.). In giurisprudenza, nel senso dell’annullabilità, vedi Cons. Stato, Sez. IV, 15 febbraio 2001, n. 732. Sull’ambiguità insita nella (di per sé troppo vaga) locuzione “atto [o decreto] non regolamentare” - ambiguità tale per cui può intendersi sia come atto non avente contenuto normativo, il quale non “fugge” regole regolamentari in alcun modo, sia un atto non formalmente regolamentare, ma nella sostanza tale, che pertanto è proprio in “fuga” dai regolamenti, vedi L. COSSU, op. cit., p. 5039. (21) È substance over form, quella esposta nel testo, che però rischia di confondersi con una praxis over form, laddove la positività dell’anti-formalismo del primo criterio cede a un lassismo non rigorista insito nel secondo. Cfr. infatti, su questo punto d’intersecazione, A. FANTOZZI, op. cit., p. 184; S. SPUNTARELLI, op. cit., p. 96 ss. Inoltre va aggiunto che il formalismo, in sé e per sé, non è neppure da sottovalutarsi ai fini della quali- LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 147 La Corte Costituzionale, d’altronde, è aliena al giudizio di legittimità su di essi, nonostante il possibile “aggiramento” dell’art. 117, sesto comma, Cost. Infatti, come noto, essa giudica soltanto su leggi ed atti aventi forza di legge, giusta l’art. 134 Cost. e preso atto del diritto vivente (22). Piuttosto - si è osservato (23) - è il giudice amministrativo che rileva, a seconda delle opinioni, l’annullabilità o la nullità di siffatti decreti, violativi dell’art. 117 Cost. E se poi, più specificamente, si mette a fuoco l’ordinamento settoriale tributario, ci si imbatte in un ricorso, nient’affatto raro, a semplici decreti ministeriali anziché regolamentari (24). Sono decreti emanati dal dicastero della Economia e delle Finanze, senza osservanza alcuna dell’iter regolamentare di cui all’art. 17, legge n. 400 del 1988. A fronte di ciò, la dottrina specialistica si è dimostrata divisa, all’interno di una posizione piuttosto rinunciataria. Accanto a chi è rimasto ancorato alla forma di adozione ex lege 400/88, senza però dedurne la illegittimità delle fonti secondarie ibride/atipiche (25), si pone chi da un lato ha invocato, a sostegno della legittimità dei decreti non regolamentari, la formula della norma primaria a monte (laddove essa fa[rebbe] esplicita menzione di una siffatta fonte ibrida a valle) (26); e dall’alficazione dell’atto quale regolamento o meno [v. infatti G. FALSITTA, op. cit., p. 75 s.]. Purché però dall’assenza (cioè dalla non-presenza) delle forme di adozione/emanazione della “400/88” non si faccia discendere, sic et simpliciter, il corollario per cui l’atto stesso non è normativo. Viceversa, non è altrettanto scorretta la reciproca: un atto è regolamento, siccome dotato di quelle stesse forme: dopodiché, quanto alle lesioni degli interessi e ai profili processuali (donde anche la natura sostanziale del medesimo), s’impone una verifica ulteriore (v, supra, par. 1, e ivi nt. 5-10). (22) Sulla estraneità del Giudice delle Leggi alla statuizione d’illegittimità regolamentare, anche nella ipotesi di diretto contrasto con la Costituzione, vedi L. COSSU, op. cit., p. 5038; R. LUPI, Diritto tributario. Parte generale, VIII ed., Milano, 2005, p. 31 e ivi nt. 79 (il quale precisa che le Comm. Trib. disapplicano come il G.O. i regolamenti, mentre il G.A. li annulla erga omnes - anche nel caso, appunto, di loro violazione della Carta fondamentale). In giur., sulla stessa linea, Corte Cost., 23-28 marzo 2004, n. 66, in www.cortecostituzionale.it; Id., 18 ottobre 2000, n. 427; Cons. Stato, Sez. VI, 27 agosto 2010, n. 5980. Adde ancora i riff. giurisprudenziali citati supra, alla nt. 3, in punto di disapplicazione regolamentare. Cfr. infine, sul tema in senso lato e in epoca più risalente, A. BERLIRI, Corso istituzionale di diritto tributario, vol. I, Milano, 1985, p. 15, in fondo. (23) V., supra, nt. 20 (24) A. FANTOZZI. op. cit. p. 183 s. (25) G. FALSITTA, op. loc. cit. Adde R. LUPI, op. cit., p. 31. (26) F. TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, X ed., Torino, 2010, p. 23; F. BATTISSTONI FERRARA, Le deleghe per l’emanazione di disposizioni di attuazione con decreto ministeriale di natura non regolamentare, in AA.VV., Diritto tributario e Corte Costituzionale, a cura di L. Perrone e C. Berliri, Napoli, 2006, p. 553 s. Qui, in buona sostanza, emerge una tesi analoga a quella amministrativistica L. COSSU (op. cit., p. 5039), che fa salvo il caso di una esplicita norma primaria, in deroga alla legge 400/88 (a parità di rango gerarchico), citando a titolo di esempio la legge n. 80 del 2005, di conversione con modificazioni del d.l. n. 35/2005 (facente rif. ai d.lgs. attuativi della riforma organica della legge fallimentare del 1942, da adottarsi senza parere del Consiglio di Stato, né visto della Corte dei Conti). Ma se per F. TESAURO (op. loc. ultt. citt.) sono legittimi - siccome decreti tributari non regolamentari 148 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 tro lato si pone chi ha enfatizzato il superamento di fatto degli schematismi della “400/88”, auspicando un intervento di sistemazione da parte delle magistrature superiori (27). Sicché una certa perdita di fil rouge sembra avere attanagliato, in quest’ultimo torno di tempo, prassi e teoresi sull’argomento. Nel mentre il Ministero dell’Economia e delle Finanze emanava, fra gli altri, il d.m. 20 dicembre 2012: “contenuto induttivo degli elementi indicativi di capacità contributiva sulla base dei quali può essere fondata la determinazione sintetica del reddito” (c.d. redditometro), pubblicato in G.U. 4 gennaio 2013, n. 3. Sì che su questo decreto, del tutto alieno dalla procedura di adozione ed emanazione contemplata dalla “400/88” - come risulta dalla denominazione (“decreto ministeriale”, non già “regolamento”), nonché dalle premesse antecedenti l’articolato (non facenti menzione alcuna di parere preventivo del Consiglio di Stato né di visto della Corte dei Conti) -, s’impone una riflessione ad hoc. Come suole dirsi, infatti, sembra che nel sistema delle fonti si sia oltrepassato il segno della ”normale tollerabilità” di anomalia. 3. La intrinseca illegittimità, per vizio procedimentale di adozione, del d.m. sul redditometro (e decreti analoghi). Iniziamo con il rilevare ciò che, “a monte”, la specifica fonte delegante/legittimante, di rango primario, stabilisce in materia di redditometro. L’art. 38, comma 5, d.p.r. n. 600 del 1973 (sì come risultante ex art. 22, d.l. 31 maggio 2010, n. 78, conv. con modificazioni in legge 30 luglio 2010, n. 122) menziona un “decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale con periodicità biennale” (28). Ora, sol che si scorrano le prescrizioni del decreto ministeriale in parola, ci autorizzati dalla legge - quello sul modello di dichiarazione dei redditi (d.m. 15 dicembre 1993), quello sui coefficienti di ammortamento su beni strumentali d’impresa (d.m. 31 dicembre 1988), quello sulla rivalutazione degli immobili delle imprese (d.m. 13 febbraio 1992) e quello su indici e coefficienti presuntivi di reddito (d.m. 10 settembre 1992), invece per G. FALSITTA (op. cit., p. 76, nt. 41) è pure così, ma per una ragione diversa. Cioè perché la loro “forma”, aliena alla legge 400/88, li “degrada” ad atti amministrativi generali. (27) A. FANTOZZI, Diritto, cit., p. 184. (28) Per l’epoca recente, può parimenti, menzionarsi l’art. 1, comma 500, legge di stabilità per il 2013 (n. 228/2012), facente rif. testuale - per la c.d neo “Tobin tax” - a un “decreto del Ministero dell’economia e delle finanze, da emanare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, [con cui] sono stabilite le modalità di applicazione dell’imposta di cui ai commi da 491 a 498”. Vedi, infatti, d.m. MEF 21 febbraio 2013, in G.U. 28 febbraio 2013, n. 50. Orbene: a) dalle premesse al decreto stesso (esattamente come nel d.m. redditometro) emerge, senza margine di dubbio, che non è stata seguita alcuna procedura di adozione regolamentare di cui all’art. 17 della “400/88”; b) il tenore del d.m. “Tobin”, al pari di quello sul redditometro, (quanto meno in parte) manifesta caratteri propri di un atto sostanzialmente normativo, e di volizione preliminare. Non ci dilunghiamo sul punto, ovviamente, per economia complessiva del presente scritto - fermo restando che argomenti e conclusioni qui espresse sono estendibili, a parità di condizioni concrete, agli altri decreti di omologa forma e contenuto. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 149 si avvede - quanto al suo contenuto e ai suoi effetti - che si tratta di fonte normativa, in quanto generale e destinata a un numero indefinito di contribuenti, nonché innovativa e certamente non qualificabile come mero atto amministrativo generale. Sotto quest’ultimo aspetto, è sufficiente ribadire che gli atti generali sono contraddistinti - come nel caso esemplare dei bandi di gara o concorso - dall’avere un numero di destinatari indefiniti a priori, eppure definiti a posteriori (29). Sì che sarebbe confusionario l’assumere che, anche nel caso del redditometro, i destinatari delle disposizioni decretali, innumerevoli ex ante, diventino determinati al termine di ogni anno solare e corrispondano ai destinatari di tutti gli accertamenti redditometrici notificati dall’Agenzia delle Entrate nell’arco dell’anno stesso. Un tale argomento sarebbe fallace, poiché giocato sull’anfibolia tra definizione del numero di destinatari attraverso un solo procedimento (la singola gara, il singolo concorso susseguenti al relativo bando) e una pluralità (potenzialmente innumerevole) di procedimenti accertativi. Con il che deve dirsi che delle due l’una. O si neglige la nomofilachia dell’Adunanza Plenaria del Supremo Consesso della giustizia amministrativa (n. 9/2012). Oppure, visto fra l’altro il dettato della norma primaria posta alla base del decreto sul redditometro - che non fa menzione di un decreto non regolamentare da emanarsi a valle, né autorizza soluzioni ibride di normazione secondaria (30) -, il decreto in parola, al pari di quelli tributari a esso analoghi, non ha spazio alcuno di legittimità nel sistema delle fonti normative. Ne consegue l’annullabilità del decreto ministeriale stesso. E la sua possibile disapplicazione (31). (29) S. SPUNTARELLI, op. cit., p. 102. (30) A meno di non opinare che, nello specifico settore tributario, forme e procedure regolamentari ex art. 17 della legge 400/88 risultino pleonastiche per tecnicismo peculiare della materia, e perciò diventino inutili nonostante le statuizioni della Plenaria (R. LUPI, op. cit., p. 31, nt. 80). Il rilievo è perspicuo. Nondimeno, proprio in epoca assai recente, un parere del Consiglio di Stato - giusto richiesto dal Ministro dell’Economia prima della emanazione di un regolamento fiscale ex lege 400/88 - si è palesato tutto meno che pleonastico. Tant’è che la Sezione Consultiva per gli Atti Normativi, ravvisato un eccesso di delega dello schema decretale, ha indotto il dicastero a rivedere lo schema di decreto stesso. Vedi F.M. GIULIANI – S. SCALINI, IMU ed immobili a utilizzazione mista indistinta (l’esenzione proporzionale tra schema decretale e parere consiliare), in Rass. Avv. Stato, n. 3/2012, p. 241 ss.; a margine di Cons. Stato, Sez. Cons., parere 27 settembre 2012, n. 7658. Cfr. anche, su questi temi, M.A. GRIPPA SALVETTI, Regolamenti delegati e riserva di legge, in Rass. Trib., 1994, p. 1905. (31) V., supra, i riff. a nt. 20 e, in parte, a nt. 22. Per l’annullabilità opta Cons. Stato, Ad. Plen., n. 9/2012, cit., ove fa riferimento a una “violazione della procedura di approvazione”, con il corollario della “illegittimità” dell’atto. Sulla disapplicazione invece, da parte però del giudice tributario, si rileva che - visti gli artt. 2, comma 3, e 7, comma 5, e 39, d.lgs. n. 546/1992 -, una volta impugnato l’atto impositivo (e lesivo), la Commissione disapplica lo pseudo-regolamento, senza sospendere il processo davanti a sé in attesa della soluzione dell’altro processo (al contempo instauratosi davanti al G.A. per l’annullamento dello pseudo-regolamento): Cass., Sez. Trib., 26 maggio 2005, n. 11140, in banca dati la tribuna; R. LUPI, op. cit., p. 31 s.; Cass., Sez. Un., 13 luglio 2005, n. 14692, in banca dati la tribuna; M. MILANESE, La 150 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 Questo è il rigore che, sulla scorta della Plenaria, si sovrappone all’approssimazione. È il sistema delle regole che prevale sul pressapochismo operazionale. È il nòmos che s’impone su di una prassi abnorme. Che, poi, il decreto sul redditometro sia stato oggetto, nel momento in cui si scrive, di un provvedimento cautelare del giudice ordinario, per potenziale violazione della privacy, è tutt’altra questione, che nel presente contesto non rileva. Così come non rilevano altri possibili critiche, movibili al decreto medesimo sotto diversi profili (32). natura tributaria dell’atto non preclude il ricorso agli organi di giustizia amministrativa, in AA.VV., Statuto dei diritti del contribuente, a cura di G. Caputo Nassetti, Milano, 2011 (quest’ultimo nel senso dell’azionabilità immediata avanti il T.A.R. per l’annullamento del decreto; a meno che però esso non integri - già di per sé - “gli estremi della fattispecie tributaria”, se pure in senso sostanziale/impositivo e non procedurale/accertativo); Cons. Stato, Sez. IV, 30 settembre 2004, n. 6353; T.A.R. Sicilia - Catania, 28 giugno 2005, n. 1075; Id., 23 giugno 2005, n. 1066; T.A.R. Puglia - Lecce, 5 aprile 2005, n. 1842 (tutte nel senso che il G.T. non sospenda). Contra, sebbene in modo apodittico, Cass., Sez. V., 31 luglio 2007, n. 16937, in banca dati la tribuna. Ed invero, a detta di questa pronuncia, l’autonomia delle singole giurisdizioni non esclude che il G.T., dinnanzi al quale è prospettata la illegittimità di un regolamento (o atto generale) tributario - costituente presupposto di quello impositivo impugnato - possa sospendere il processo tributario. E ciò nel caso in cui la questione (di legittimità o meno del regolamento/atto generale) formi effetto di un giudizio ad hoc, già pendente davanti al G.A. Non solo: aggiunge il S.C. che, indipendentemente dalla sospensione, qualora intervenga sentenza del G.A. sulla predetta questione dinnanzi a esso pendente - specie si si forma il giudicato amministrativo -, al G.T. incombe, a quel punto, un effetto vincolante nel processo tributario. Tale per cui esso deve, per l’effetto, annullare l’atto impositivo. E però ancora, nel senso della non-sospendibilità del processo tributario in pendenza di questione pregiudiziale avanti al G.A. (vista la specialità dell’art. 39, decr. cont. trib. rispetto all’art. 295 c.p.c.), F. TESAURO, Istituzioni, cit., p. 364 s.; A. FANTOZZI, Diritto, cit., p. 1054; Cass., ord. 26 maggio 2005, n. 11140, in Foro it., 2006, I, 819. Del resto, nel senso della legittimità della limitazione/compressione normativa dei casi di sospensione del proc. trib., leggasi Corte Cost., 26 febbraio 1998, n. 31, in Dir. prat. trib., 1998, II, p. 779. Critico, sugli inevitabili esiti operazionali dell’assetto normativo in parola, è P. RUSSO, Manuale del processo tributario. - Il processo tributario, Milano, 2005, p. 34 (nel senso che la tutela regolamentare finisce per concentrarsi, di fatto, avanti al G.T.). Né, per vero, il giudice amministrativo risulta potere/dovere sospendere il processo dinnanzi a sé - in pendenza dell’impugnazione dell’atto impositivo dinnanzi alle Commissioni Tributarie -, visto il combinato disposto di cui agli artt. 79, comma 1, c.p.a. e 295 s. c.p.c. Del resto non dovrebbe esservi rischio di contrasto di giudicati, atteso che, sulla questione incidentale pseudo-regolamentare, di cui al processo tributario, non si forma giudicato di annullamento del decreto erga omnes. Di contro, sulla estensione a tutti i soggetti interessati - se pur non parti - del giudicato di annullamento di atti generali o indivisibili, di cui G.A., Cons. Stato, n. 224/1998. Piuttosto, sulla proponibilità del ricorso al T.A.R., da parte di associazioni portatrici d’interessi diffusi o collettivi, per l’annullamento delle fonti secondarie a contenuto fiscale - cosa invece impensabile avanti il G.T. -, vedasi Cass., Sez. Trib., 6 settembre 2004, n. 17934, in banca dati la tribuna. (32) Trib. Napoli, Sez. Pozzuoli, G.U. Lepre, ord. 21 febbraio 2013, in www.jusforyou.it. Si potrebbero, poi, discutere altri aspetti critici dello pseudo-regolamento in parola, quale ad esempio la retroattività. Sul tema, di ascendenza per lo più europea, si consulti qui (per tutti) M. CHITI, Diritto Amministrativo europeo, IV ed., Milano, 2011, p. 439 ss.; cui adde, con lungimirante anticipo sui tempi, M.S. GIANNINI, Istituzioni, cit. p. 319 s.. Vedi anche Cons. Stato, Sez. VI, 9 settembre 2008, n. 4301, secondo cui l’art. 21-bis, legge n. 241/1990 avrebbe codificato il principio d’irretroattività del provvedimento amministrativo. Ma proseguire su di un tale argomento deborderebbe dal fulcro di economicità del presente scritto. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 151 Piuttosto, dopo una pronuncia di autorevole valenza euristica quale la n. 9/2012 dell’Adunanza Plenaria, mette conto di ripensare un’intera prassi invalsa. Occorre che d’ora innanzi si tenga ferma la illegittimità intrinseca di questi pseudo-regolamenti sostanzialmente normativi, ma formalmente non tali. Si dovrà avere presente, per l’effetto, che di una siffatta patologia può investirsi (anche) il giudice amministrativo funzionalmente competente (T.A.R. Lazio - Roma) - con possibile esperibilità, dinnanzi al medesimo, della domanda cautelare -, allorché sopravviene l’atto impositivo che lede gli interessi individuali concreti e attuali. Con il che, a ben ragionare, si pone tutta la problematica processuale del “doppio binario” (processo amministrativo/processo tributario), così come scaturisce dagli artt. 2, ultimo comma, 7, ultimo comma, e 39, d. lgs. n. 546/1992, nonché 79, comma 1, d. lgs. 104/2010, cui si aggiunge l’art. 7, comma 4, legge n. 212/2000. Ed infine una riflessione aggiuntiva s’impone, prima di concludere. Un ipotetico contraddittore potrebbe opinare quanto segue. Visto ciò che si è detto sopra al par. 2 sulla fuga dal regolamento; visto altresì che, nella materia tributaria - per esempio in punto di redditometro - la fuga dal regolamento, almeno in relazione all’art. 117 Cost., sovente non c’è, poiché non è in questione una potestà regolamentare regionale: allora l’asserita (da chi scrive) illegittimità decretale sarebbe un assunto privo di un fondamento. Se non che questa ipotizzata critica sarebbe fallace. Infatti, dalla motivazione dell’Adunanza Plenaria n. 9/2012, si rileva che l’assunto di patologia delle fonti ibride/atipiche considerate - quelle, cioè, fuori dalla “400/88” - non è fatto discendere, dal Supremo Consesso, dal contrasto con l’art. 117 della Carta fondamentale. Ivi, nel caso concreto all’esame dei giudici di Palazzo Spada, non si verteva in una materia di potestà regolamentare regionale (trattavasi, infatti, di energia alternativa fotovoltaica). Detto altrimenti, la questione del riparto regolamentare Regioni/Stato, in quella ipotesi, non si è posta in alcun modo. Piuttosto, la patologia della fonte secondaria è stata in quel caso ravvisata, solo e soltanto, per contrasto sistemico con la legge n. 400/88 (33). Non si dà, cioè, alternativa - a detta del Supremo Consesso - nel sistema delle fonti secondarie, rispetto ai regolamenti di cui all’art. 17 di quella stessa legge. Vi è la sola eccezione, in cui la singola norma primaria espressamente - e in modo inequivoco - deroghi alla legge medesima a parità di gerarchia di (33) Non è un caso che si parli di “fuga dal regolamento”, non soltanto con rif. all’art. 117 Cost., ma anche con rif. alternativo alle formalità procedurali della legge n. 400/1988 (cui presiede, peraltro, l’art. 87, comma 5, sulla forma presidenziale di emanazione dei regolamenti governativi, approvati dal Consiglio dei Ministri): E. CASETTA, Manuale, cit., p. 387 s.; L. COSSU, op. cit., p. 5038; G. D’ELIA, Il bando come lex specialis e la natura degli atti amministrativi a contenuto generale, in Foro amm., 2010, 2, 347 ss. 152 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 fonti, contemplando la futura emanazione di decreti attuativi, privi della forma regolamentare e della relativa procedura di adozione. Con il che il cerchio si chiude - per così dire - alla luce della vivente nomofilachia (34). (34) Per concludere si noti che, nel processo tributario, non si dà una norma quale il comma 4- bis dell’art. 13 c.p.a. - post secondo correttivo -, in materia di eccezioni alla regola generale di competenza territoriale connessa, in presenza d’impugnativa simultanea di atto presupposto. Peraltro v’è da osservare che lo stesso art. 31, comma 4-bis, sul piano letterale, fa menzione della “impugnazione” contestuale di regolamenti (e non già della loro “disapplicazione”) - per la cui competenza funzionale resta la regola generale e tutto ivi attrae (T.A.R. Lazio - Roma, per lo più). Inoltre il Supremo Consesso della giust. amm., ante emanazione del 2° correttivo al C.P.A., aveva messo perspicuamente in luce che la disapplicazione, rispetto all’annullamento, suggeriva un’ermeneutica a sé stante sul piano della competenza territoriale; ciò laddove venisse in questione la legittimità dell’atto presupposto ai fini, appunto, della individuazione del giudice territorialmente competente in presenza di doppia impugnativa (leggasi, con massimo scrupolo, la parte motiva di Cons. Stato, Ad. Plen., ord. 14 novembre 2011, n. 19, in AA.VV., L’attività nomofilattica, cit., p. 29 ss. e ivi a p. 31). Del resto, se per l’annullamento simultaneo di un atto presupposto, sostanzialmente normativo, ha senso una ratio di esigenza di uniformità di giudizio, sulla fonte secondaria, da parte di un solo T.A.R., nonché l’anti forum shopping; lo stesso più arduamente può argomentarsi - onde capire il comma 4-bis -, laddove si tenti di amplificare tale ultimo alinea al punto tale, da sussumervi finanche le mere disapplicazioni senza esito di giudicato, e.g. quelle che investono atti regolamentari non censurati nei termini con la c.d. doppia impugnativa. Sì che questo è un punto il quale, per il vero insieme ad altri rilevanti aspetti [G. VELTRI, Il giudizio amministrativo dopo il secondo correttivo: lo spostamento della competenza territoriale per ragioni di connessione, in www.giustizia-amministrativa.it] induce a dubitare con ponderazione la tesi di chi presenta il nuovo art. 13, comma 4-bis, c.p.a. - corrivamente - come mero recepimento della pregressa giurisprudenza sul punto. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 153 L’attuazione del golden power in Italia: dal potere regolamentare alla potestà regolatoria Pierluigi Di Palma* Francesco Gaspari** SOMMARIO: 1. Inquadramento generale e oggetto dell’indagine. - 2. I poteri speciali in Italia: la golden share. Profili evolutivi. - 3. Le censure comunitarie e le sentenze della Corte di Giustizia. - 4. Dalla golden share al golden power: il decreto legge n. 21 del 2012 e la sua attuazione. - 5. L’esercizio dei poteri speciali del Governo. - 5.1. Individuazione delle attività di rilevanza strategica e delle attività strategiche chiave. - 5.2. La fase transitoria. - 5.2.1. L’art. 1, comma 8, decreto legge n. 21/2012 e l’art. 3, DPCM n. 253 del 2012 in materia di individuazione delle attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale. - 5.2.2. Le figure dell’accountable manager e del post holder nella vigente normativa nazionale. Cenni di diritto comunitario e internazionale. - 5.2.3. Riflessioni de iure condendo. - 6. Un recente caso. La proposta di acquisto del settore dei sistemi di propulsione aerospaziali e navali del Gruppo AVIO. - 7. Conclusioni. 1. Inquadramento generale e oggetto dell’indagine. Il decreto legge 15 marzo 2012, n. 21, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 56 dell’11 maggio 2012, si inserisce nell’ambito di alcuni interventi legislativi adottati nel nostro ordinamento negli ultimi anni al fine di salvaguardare gli assetti proprietari delle società operanti in settori reputati strategici e d’interesse nazionale, attraverso l’introduzione di poteri speciali di governance societaria e di strumenti di difesa dalle scalate ostili (1). In particolare, il citato decreto legge modifica la disciplina della c.d. golden share (2), riformulando le condizioni e l’ambito di esercizio dei poteri (*) Avvocato dello Stato. (**) Avvocato in Roma. Il presente scritto è frutto dell’impegno congiunto degli Autori. Tuttavia, i paragrafi 1, 2 e 3 sono da attribuire all’Avv. Pierluigi Di Palma, mentre i restanti paragrafi all’Avv. Francesco Gaspari. (1) È stato rilevato (C. SANMAURO, La disciplina della nuova golden share, in www.federalismi.it, n. 21/2012, p. 1, in particolare nota n. 1) come la tutela degli asset strategici trovi spazio (soprattutto) nell’ambito delle privatizzazioni, sulle quali la dottrina si è ampiamente soffermata. Cfr., senza alcuna pretesa di completezza, M. CLARICH, Privatizzazioni e trasformazioni in atto nell’amministrazione italiana, in Dir. amm., 1995, pp. 519 ss.; M. SANINO, Le privatizzazioni, Roma, 1997; R. GAROFOLI, Le privatizzazioni degli enti dell’economia, Milano, 1998; B. LIBONATI, La faticosa accelerazione delle privatizzazioni, in Giur. comm., 1995, I, pp. 20 ss. (2) Con tale espressione s’intende riferirsi a “qualsiasi struttura giuridica applicabile alle singole imprese, che conserva o contribuisce a mantenere l’influenza dell’autorità pubblica su tali società”: Conclusioni dell’Avvocato Generale Dàmaso Ruiz-Jarabo Colomer presentate il 6 novembre 2008 nella Causa C-326/07 (sulla quale infra). La disciplina in materia di golden share (e oggi in materia di golden power) costituisce uno dei modi mediante i quali il potere pubblico può intervenire direttamente nel mercato. La dottrina osserva, infatti, 154 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 speciali dello Stato sulle società operanti nei settori della difesa e della sicurezza nazionale, nonché in taluni ambiti di attività definiti di rilevanza strategica nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni. La necessità e l’urgenza del provvedimento hanno tratto origine dalla decisione, adottata dalla Commissione europea il 24 novembre 2011, di deferire l’Italia alla Corte di Giustizia dell’Unione europea a conclusione della procedura d’infrazione n. 2009/2255 per la asserita incompatibilità della disciplina generale italiana dei poteri speciali attribuiti allo Stato nell’ambito delle società privatizzate nel corso degli anni ’90 (3), con la libertà di stabilimento e la libertà di circolazione dei capitali garantite, rispettivamente, dagli artt. 49 e 63 dal Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) (già articoli 43 e 56 del TCE). Il decreto legge n. 21/2012 mira, dunque, a rendere compatibile con il diritto europeo la disciplina nazionale dei poteri speciali del Governo, che in passato era già stata oggetto di censure sollevate dalla Commissione europea e di una pronuncia di condanna da parte della Corte di Giustizia UE (4). La disciplina sulla golden share, introdotta in diversi ordinamenti europei, ha presentato profili di incompatibilità con i principi dell’ordinamento comunitario, in particolare laddove essa è apparsa limitare i principi della concorrenza e della contendibilità delle imprese in ragione del conferimento al Governo nazionale di un potere discrezionale pressoché generale di impedire operazioni di acquisto di partecipazioni azionarie e altre operazioni di carattere straordinario (5). La definizione dei criteri di compatibilità comunitaria della disciplina dei poteri speciali è stata operata dalla Commissione europea con una specifica Comunicazione del 1997 (6), con la quale ha affermato, richiamando la giurisprudenza della Corte di Giustizia, che l’esercizio dei poteri de quibus debba comunque essere attuato senza discriminazioni ed è ammesso se si fonda su “criteri obiettivi, stabili e resi pubblici” e se è giustificato da “motivi imperiosi di come l’intervento pubblico diretto dello Stato nell’economia possa avvenire (principalmente) attraverso tre modalità: a) gestendo direttamente imprese; b) mediante lo strumento della golden share nelle vicende di privatizzazione; c) assumendo partecipazioni azionarie. Cfr., in merito, F. FRACCHIA – M. OCCHIENA, Società pubbliche tra golden share e 2449: non è tutto oro ciò che luccica, in www.giustamm.it, 2007, § 5; E. BOSCOLO, Le «golden shares» di fronte al giudice comunitario, in Foro it., 2002, IV, p. 480. (3) Si tratta di Eni, Enel, Finmeccanica e Telecom Italia. (4) Corte di Giustizia UE, sentenza del 26 marzo 2009. Con tale sentenza, l’Italia è stata condannata per le disposizioni dell’art. 1, comma 2, del DPCM 10 giugno 2004, di attuazione della normativa generale e recante la definizione dei criteri di esercizio dei poteri speciali. Su tali aspetti ci soffermeremo più ampiamente infra. (5) In merito, cfr. L. MARINI, Golden share e diritto comunitario nelle recenti sentenze della Corte di Giustizia, in Dir. comm. internaz., 2002, pp. 489 ss. Per un esame comparatistico delle iniziative in materia di golden share si v. il recente contributo di G. SCARCHILLO, Privatizations, control devices and golden share. The harmonizing intervention of the European Court of Justice, in Comparative Law Review, 2012, Vol. 3, pp. 1 ss. (6) Si tratta della Comunicazione della Commissione relativa ad alcuni aspetti giuridici attinenti agli investimenti intracomunitari (97/C 220/06), pubblicata in GUCE, n. C 220 del 19 luglio 1997. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 155 interesse generale”(7). L’obiettivo apertamente dichiarato dalla Commissione è, infatti, quello di limitare al minimo il potere discrezionale delle autorità nazionali. Più in particolare, la Commissione afferma che il diritto di stabilimento e la libera circolazione dei capitali sono libertà fondamentali del Trattato, ancorché vi siano delle eccezioni alle regole generali che autorizzano gli Stati membri ad imporre delle restrizioni. Da un lato, potrebbero essere ammesse restrizioni discriminatorie nei confronti di investitori cittadini di un altro Stato membro dell’Unione europea, qualora esse si applichino a delle attività che in tale Stato partecipino, sia pure occasionalmente, all’esercizio dei pubblici poteri (art. 51, TFUE, già art. 45 TCE). Un regime particolare per gli investitori cittadini di un altro Stato membro potrebbe essere ammesso, inoltre, qualora fosse giustificato da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica (art. 52, TFUE, già art. 46 TCE) (8). La Commissione precisa, inoltre, che le restrizioni adottate nel quadro di queste deroghe devono rispettare il principio di proporzionalità, in virtù del quale siffatte restrizioni devono rappresentare un provvedimento necessario per garantire la protezione dei menzionati obiettivi (ordine pubblico, pubblica sicurezza, ecc.) e che non debbono esistere altri provvedimenti che consentirebbero di raggiungere gli stessi obiettivi e siano meno restrittivi della libertà di cui trattasi (9). Dall’altro lato, la Commissione richiama, per quanto riguarda i provvedimenti non discriminatori, la giurisprudenza della Corte di Giustizia che ha ripetutamente affermato che “i provvedimenti nazionali che possono ostacolare o scoraggiare l’esercizio delle libertà fondamentali garantite dal trattato devono soddisfare quattro condizioni: essi devono applicarsi in modo non discriminatorio, essere giustificati da motivi imperiosi di interesse pubblico, essere idonei a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e non andare oltre quanto necessario per il raggiungimento di questo”. (7) Cfr., sul punto, G. URBANO, Le regole comunitarie sulle società pubbliche: tutela della concorrenza, golden share e aiuti di Stato, in www.giustamm.it, 2012, p. 20. (8) Nei lavori parlamentari si è, tuttavia, sottolineata l’opportunità, conformemente alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, di interpretare queste deroghe in modo restrittivo ed escludere qualsiasi interpretazione che poggi su considerazioni di ordine economico. Cfr., in merito, Corte di Giustizia, sentenza del 14 maggio 1993, Federación de distribuidores cinematográficos, causa 17/92, in Racc., 1993, p. I-2239, Punto 16. (9) Cfr. Corte di Giustizia, sentenza del 14 dicembre 1995, Sanz de Lera, cause riunite C-163/94, C-165/94 e C-250/94, in Racc., 1995, p. I-4821, Punto 23. In merito, v. G. URBANO, Le regole comunitarie, cit., pp. 20-21. Sul principio di proporzionalità nel diritto dell’Unione europea v. M.C. CICIERIELLO, Il principio di proporzionalità nel diritto comunitario, Napoli, 1999; G. TESAURO, Diritto dell’Unione europea, Padova, 2012. Cfr., altresì, S. COGNETTI, Principio di proporzionalità. Profili di teoria generale e di analisi sistematica, Torino, 2011; D.U. GALETTA, Il principio di proporzionalità e sindacato giurisdizionale nel diritto amministrativo, Milano, 1998; A. SANDULLI, Il principio di proporzionalità, Padova, 1998; G.C. SPATTINI, La «golden share» “all’italiana” finalmente “presa sul serio” dalla Corte di Giustizia? La nuova (e forse perplessa) condanna della “Grundnorm” delle privatizzazioni ‘sostanziali’ ..., in www.giustamm.it, 2010, pp. 27 ss. 156 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 Sulla base di tali premesse, come si vedrà anche infra, la Commissione ha avviato le procedure di infrazione in materia di golden share nei confronti dell’Italia (con riferimento al decreto legge n. 332/94) e di altri ordinamenti, quali il Portogallo, il Regno Unito, la Francia, il Belgio, la Spagna e la Germania. 2. I poteri speciali in Italia: la golden share. Profili evolutivi. In Italia, la disciplina in materia di poteri speciali dello Stato era contenuta nel decreto legge 31 maggio 1994, n. 332 (10), che regolava i poteri speciali che potevano essere attribuiti al Ministero dell’Economia e Finanze dagli statuti delle società privatizzate. In particolare, l’art. 2, comma 1, del citato decreto n. 332/1994 prevedeva l’individuazione, attraverso un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, di quelle società nei cui statuti dovesse essere introdotta una clausola che attribuiva al Ministro dell’Economia e Finanze uno o più poteri speciali. Tali società dovevano essere scelte tra quelle controllate direttamente o indirettamente dallo Stato operanti nei settori dei servizi pubblici (nell’ambito dei quali erano indicati la difesa, i trasporti, le telecomunicazioni, le fonti di energia) (11). L’art. 2, comma 3, decreto legge n. 332/94 prevedeva, inoltre, che le regole dettate relativamente ai poteri speciali valevano anche per le società controllate direttamente o indirettamente da enti pubblici, anche territoriali ed economici, operanti nei settori dei trasporti e degli altri servizi pubblici, individuate con provvedimento dell’ente pubblico partecipante. In ordine ai contenuti e alle modalità di esercizio dei suddetti poteri speciali è intervenuta la legge finanziaria per il 2004 (legge n. 350/2003, art. 4, commi 227-231), che ha operato una generale revisione delle disposizioni dell’art. 2 del decreto legge n. 332/94, introducendo, allo stesso tempo, nuove disposizioni volte a limitare i poteri in questione, in considerazione delle censure più volte intervenute a livello comunitario. In primo luogo, il legislatore ha modificato la disciplina del contenuto e degli effetti dei poteri speciali affidati al Ministero dell’economia e finanze, di cui all’art. 2, comma 1, lettere a)-d) del decreto legge n. 332/94. Tale disposto è stato integralmente sostituito dall’articolo 4, comma 227, della legge n. 350/2003, ed è stato abrogato dall’art. 3 del decreto legge n. 21/2012. In particolare, l’art. 2, comma 1, lett. a) del decreto legge n. 332/94, come modificato, attribuisce al Ministro dell’economia il potere di opporsi all’as- (10) Tale Decreto reca Norme per l’accelerazione delle procedure di dismissione di partecipazioni dello Stato e degli enti pubblici in società per azioni, pubblicato in GU il 1 giugno 1994, n. 126. Il Decreto in questione è stato convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 1994, n. 474. (11) In attuazione di tale previsione normativa, sono stati emanati diversi decreti mediante i quali sono state individuate le società nei cui statuti sono stati attribuiti poteri speciali a favore del Governo. Si trattava, in particolare di ENI S.p.A., di STET S.p.A., di Telecom Italia S.p.a., di Finmeccanica S.p.A., di ENEL S.p.A. e di SNAM RETE GAS S.p.A. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 157 sunzione di partecipazioni rilevanti, cioè pari almeno al 5 per cento del capitale sociale rappresentato da azioni con diritto di voto nell’assemblea ordinaria (12). Un altro potere speciale è quello previsto all’art. 2, comma 1, lett. b), in base al quale il Ministro può opporsi alla conclusione di patti parasociali nel caso in cui gli aderenti al patto rappresentino almeno il 5 per cento del capitale sociale costituito da azioni con diritto di voto nell’assemblea ordinaria (13). Inoltre, l’art. 2, comma 1, lett. c) disciplina il potere di veto all’adozione di delibere relative ad operazioni straordinarie o, comunque, di particolare rilevanza (14). Infine, l’art. 2, comma 1, lett. d) disciplina il potere di nomina di un amministratore senza diritto di voto. La disciplina dei poteri speciali, è stata completata dall’art. 4, comma 228 della legge finanziaria per il 2004, il quale ha precisato che il potere di opposizione sia all’acquisizione di partecipazioni rilevanti sia alla conclusione di patti parasociali debba essere esercitato con riferimento a ogni singola operazione. Nel caso di acquisizione di partecipazioni, la norma stabilisce che il po- (12) Ai fini della definizione di partecipazioni rilevanti il Ministro può, peraltro, anche stabilire, con proprio decreto, una percentuale più bassa. L’esercizio dell’opposizione - da esprimersi entro dieci giorni dalla comunicazione dell’acquisto della partecipazione - deve essere debitamente motivato dal Ministro in ragione del ravviso di un pregiudizio concreto agli interessi vitali dello Stato. In caso di esercizio del potere di opposizione, il cessionario che comunque eserciti i diritti di voto e quelli aventi contenuto diverso da quello patrimoniale connessi alle azioni che rappresentano la partecipazione rilevante deve cedere le stesse azioni entro un anno. In caso di mancata ottemperanza, il tribunale, su richiesta del Ministro dell’economia e delle finanze, ordina la vendita delle azioni che rappresentano la partecipazione rilevante, secondo le procedure di cui all’articolo 2359-ter del codice civile. È prevista espressamente l’impugnabilità del provvedimento con il quale è esercitato il potere di opposizione dinnanzi al giudice amministrativo. (13) Il Ministro, con proprio decreto, può peraltro fissare una percentuale minore. Come per il potere di cui alla lettera a), l’opposizione è manifestata in un provvedimento debitamente motivato in relazione al concreto pregiudizio che il patto arrechi ad interessi vitali dello Stato. La CONSOB informa il Ministro dei patti e degli accordi rilevanti ai fini dell’esercizio del potere medesimo, di cui essa abbia comunicazione in conformità alle previsioni del Testo unico sull’intermediazione finanziaria. L’esercizio del potere di opposizione ha luogo entro dieci giorni dalla comunicazione della CONSOB. In caso di opposizione del Ministro, gli accordi sono inefficaci. Nel caso in cui dal comportamento in assemblea dei soci aderenti al patto si desuma il mantenimento degli impegni assunti, sono impugnabili le delibere per le quali il voto di tali soci sia risultato determinante. Anche il provvedimento ministeriale di opposizione alla conclusione di patti parasociali è impugnabile dinanzi al giudice amministrativo. (14) Si tratta delle delibere di scioglimento della società, di trasferimento dell’azienda, di fusione, di scissione, di trasferimento della sede sociale all’estero, di cambiamento dell’oggetto sociale e delle delibere volte a modificare lo statuto, sopprimendo o modificando i poteri speciali. L’esercizio del potere di veto deve essere motivato in relazione al concreto pregiudizio arrecato agli interessi vitali dello Stato. Ai soci dissenzienti dalle deliberazioni che introducono questo potere speciale è riconosciuto il diritto di recesso (art. 2, comma 2). Il provvedimento con cui viene esercitato il potere è impugnabile dai soci dissenzienti dinanzi al tribunale amministrativo. 158 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 tere di opposizione è altresì esercitabile quando il limite fissato per l’individuazione di una partecipazione rilevante sia raggiunto o oltrepassato attraverso ripetuti e distinti atti di acquisto. In entrambe le ipotesi, il potere di opposizione potrà essere esercitato qualora insorgano esigenze tese a tutelare “sopravvenuti motivi imperiosi di interesse pubblico”. In secondo luogo, la legge n. 350/2003 ha introdotto le disposizioni di cui all’art. 4, commi 229-231 (15) che non risultano esplicitamente abrogate dal decreto legge n. 21/2012. In attuazione di tali disposizioni è stato adottato il DPCM 10 giugno 2004 (16), il quale, all’art. 1, comma 2, ha definito i criteri per l’esercizio dei poteri speciali di opposizione all’assunzione di partecipazioni rilevanti, di opposizione alla conclusione di accordi parasindacali e di veto su determinate delibere. Sebbene il legislatore italiano abbia, con la legge finanziaria per il 2004, introdotto importanti correttivi volti a rendere compatibile con i principi comunitari la disciplina nazionale in materia di poteri speciali, la Commissione europea ha ritenuto tali sforzi non sufficienti. A seguito delle censure mosse dalla Commissione, nel 2009 la Corte di Giustizia (17) ha giudicato l’Italia responsabile per aver violato la normativa comunitaria in materia di libera circolazione dei capitali (art. 63 TFUE, già art. 56 TCE) e quella sul diritto di stabilimento (art. 49 TFUE, già art. 43 TCE) (18). Sulla base di tale sentenza della Corte di Giustizia, è stato emanato il DPCM 20 maggio 2010, con il quale sono stati abrogati i criteri per l’esercizio dei poteri speciali dettati dall’art. 1, comma 2, del DPCM 10 giugno 2004. Nonostante le modifiche apportate, la golden share italiana è rimasta oggetto di vaglio da parte della Commissione europea che, in data 16 febbraio 2011 ha inviato all’Italia un nuovo parere motivato (19). È opportuno rammentare che oltre alla “golden share”, molteplici interventi legislativi hanno introdotto nel nostro ordinamento disposizioni finalizzate alla tutela di società operanti in settori considerati strategici per l’economia nazionale. (15) Più nel dettaglio, l’art. 4, comma 229 prevede il rinvio ad un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri per l’individuazione delle società dai cui statuti deve essere eliminata la clausola di attribuzione al Ministro dell’economia e delle finanze di uno o più dei suddetti poteri speciali. Si prevede che detta eliminazione avvenga con deliberazione dell’assemblea straordinaria. L’art. 4, comma 230, demanda, ad un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri l’individuazione dei criteri di esercizio dei poteri speciali, limitando il loro utilizzo ai soli casi di pregiudizio degli interessi vitali dello Stato. Infine, l’art. 4, comma 231, stabilisce che gli statuti delle società nelle quali è prevista la clausola che attribuisce allo Stato i poteri speciali siano adeguati alle disposizioni di cui ai commi 227-230. (16) Tale Decreto ha sostituito il precedente DPCM 11 febbraio 2000. (17) Causa C-326/07. (18) Su tali aspetti ci soffermeremo più ampiamente infra. (19) Su tali aspetti v. il paragrafo successivo del presente lavoro. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 159 Più nel dettaglio, la disciplina codicistica e la legge 23 dicembre 2005, n. 266 (legge finanziaria 2006) hanno previsto diritti speciali in capo all’azionista pubblico. In particolare, la citata legge finanziaria 2006 ha introdotto nel nostro ordinamento uno strumento - esistente anche in ordinamenti esteri e noto nella pratica dei mercati finanziari con l’appellativo di “poison pill” (“pillola avvelenata”) - che consente, in caso di offerta pubblica di acquisto ostile riguardante società partecipate dalla mano pubblica, di deliberare un aumento di capitale, grazie al quale l’azionista pubblico potrebbe accrescere la propria quota di partecipazione vanificando il tentativo di scalata non concordata (20). Alla stessa ratio di salvaguardia e tutela delle società d’interesse nazionale risponde l’art. 7 del decreto legge n. 34/2011, che autorizza la Cassa Depositi e Prestiti ad assumere partecipazioni in società di rilevante interesse nazionale, in termini di strategicità del settore di operatività, di livelli occupazionali, di entità di fatturato ovvero di ricadute per il sistema economicoproduttivo del Paese. In particolare, sono state definite “di rilevante interesse nazionale” le società di capitali operanti nei settori della difesa, della sicurezza, delle infrastrutture, dei trasporti, delle comunicazioni, dell’energia, delle assicurazioni e dell’intermediazione finanziaria, della ricerca e dell’innovazione ad alto contenuto tecnologico e dei pubblici servizi (21). L’individuazione dei requisiti per la qualifica di “società di interesse nazionale” è stata effettuata dal decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze del 3 maggio 2011. Al di fuori dei settori sopra indicati, sono considerate di rilevante interesse nazionale le società che possiedono un fatturato annuo netto non inferiore a 300 milioni di euro e un numero medio di dipendenti nel corso dell’ultimo esercizio non inferiore a 250 (qualora rientri nel 20% di tali valori, l’attività della società deve risultare rilevante in termini di indotto e di benefici del sistema economico-produttivo del Paese, anche in termini di presenza sul territorio di stabilimenti produttivi). Nel giugno del 2011, il cda di Cassa Depositi e Prestiti ha approvato la costituzione della società per azioni per l’assunzione di partecipazioni strategiche (“Fondo Strategico Italiano”), mentre il relativo statuto è stato approvato il successivo 27 luglio (22). Infine, ulteriori diritti speciali in capo all’azionista pubblico sono previsti nella disciplina codicistica delle società. L’articolo 2449 del codice civile dispone che se lo Stato o gli enti pubblici hanno partecipazioni in una società per azioni, lo statuto può ad essi conferire la facoltà di nominare uno o più amministratori o sindaci ovvero componenti (20) C. SAN MAURO, La disciplina, cit., p. 5. (21) C. SAN MAURO, La disciplina, cit., p. 5. (22) Il 30 novembre 2011 Cassa Depositi e Prestiti ha deliberato la sottoscrizione di 4 miliardi di euro di aumenti di capitale del Fondo Strategico Italiano (FSI). Grazie all’ingresso di altri soci - enti pubblici, fondazioni di origine bancaria, banche, assicurazioni, casse previdenziali e altri investitori istituzionali, anche esteri - la dimensione di FSI si attesterà a circa 7 miliardi di euro. 160 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 del consiglio di sorveglianza, in numero proporzionale alla partecipazione al capitale sociale (23). 3. Le censure comunitarie e le sentenze della Corte di Giustizia. Giova porre in rilievo che la normativa italiana in materia di golden share è stata progressivamente modificata per adeguarsi alle censure più volte sollevate in sede comunitaria. Già nel febbraio del 1998, con lettera di costituzione in mora la Commissione europea ha richiamato l’attenzione del Governo italiano sull’incompatibilità delle disposizioni nazionali sopra riportate con la normativa comunitaria sulle libertà di stabilimento, di prestazione dei servizi e di circolazione dei capitali, come disciplinate nel Trattato (24). (23) Tali soggetti, così nominati, hanno i diritti e gli obblighi dei membri nominati dall’assemblea e possono essere revocati soltanto dagli enti che li hanno nominati. Gli amministratori non possono essere nominati per un periodo superiore a tre esercizi e scadono alla data dell’assemblea convocata per l’approvazione del bilancio relativo all’ultimo esercizio della loro carica. Alle società che fanno ricorso al mercato azionario è prevista la possibilità di riservare allo Stato o agli enti partecipanti azioni fornite di diritti patrimoniali o anche di diritti amministrativi, ma non del voto nell’assemblea generale degli azionisti (cioè si applica quanto previsto dall’ultimo comma dell’art. 2346 c.c., in materia di emissione di azioni). La norma dunque attribuisce ai membri nominati, con le modalità sopra dette, dallo Stato o dagli enti pubblici una particolare “resistenza”, potendo essi essere revocati esclusivamente dagli enti che li hanno nominati. Inoltre, tale potere di nomina da parte dello Stato o degli enti pubblici è concesso a prescindere dalla quota azionaria posseduta, che può quindi anche essere di minoranza. Per un esame sulla compatibilità dell’art. 2449 c.c. con l’ordinamento comunitario v. G. URBANO, Le regole comunitarie, cit., pp. 18 ss. (24) Discorso diverso è invece quello della compatibilità della normativa in materia di poteri speciali con la normativa (interna e comunitaria) in materia di concorrenza. Sul punto, si è rilevato che, sebbene “le golden shares [possano] costituire [...] un fattore di distorsione della concorrenza”, la compatibilità della disciplina dei poteri speciali con la normativa antitrust “deve essere valutata con estrema prudenza”. Si osserva, inoltre, che “A livello nazionale, la legge n. 287/90 non consenta all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato di intervenire direttamente sulle distorsioni della concorrenza aventi origine normativa”. L’Autorità può, tuttavia, attirare l’attenzione del Parlamento e del Governo tramite il potere di segnalazione previsto dall’art. 21 della stessa legge (così M. MONTI, Mercato unico europeo, regolamentazione e concorrenza, p. 30, disponibile su internet, alla pagina web http://www.agcm.it/trasp-statistiche/doc_download/2648-tpes01s3.html). Diverso è, invece, il controllo in materia di concorrenza operato a livello comunitario. Oltre alla operatività della Rete Europea della Concorrenza (che implica una collaborazione tra autorità antitrust nazionali e Commissione europea ai fini di un’applicazione efficace delle regole di concorrenza all’interno dell’UE), è stato rilevato come la Commissione europea possa intervenire sulle normative nazionali anticoncorrenziali qualora esse costituiscano violazione di norme di diritto comunitario. Sotto questo profilo, l’ordinamento comunitario impone agli Stati membri di non pregiudicare l’effetto utile delle norme di concorrenza (cfr. Corte di Giustizia, sentenze Meng, Reiff GmbH e Ohra, del 17 novembre 1993). Tale principio assume una rilevanza decisiva, “giacché l’obbligo di non emanare o mantenere normative anticoncorrenziali non deve essere valutato esclusivamente nell’ottica delle norme antitrust in senso stretto, ma anche rispetto alle disposizioni comunitarie che sovrintendono all’esercizio delle quattro libertà” (cfr., in merito, M. MONTI, Mercato unico europeo, cit., pp. 30-31). Altra dottrina osserva, inoltre, che mentre “le norme proconcorrenziali incidono sulla costituzione e l’attività delle società pubbliche, le norme sulla golden share incidono sugli aspetti ordinamentali delle stesse, ridimensionando i profili di specialità e determinando un ritorno al diritto comune”: così G. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 161 Il Governo italiano ha risposto con lettera del 13 maggio 1998. La Commissione, tuttavia, non è rimasta convinta dagli argomenti dedotti e ha formulato, in data 10 agosto 1998, un parere motivato richiedendo al nostro Paese di conformarvisi entro due mesi dalla notifica. Il 22 ottobre 1998, il Governo italiano ha risposto al parere motivato, impegnandosi ad adeguarsi con l’adozione di uno specifico disegno di legge di modifica delle disposizioni controverse. Nonostante il formale atto di impegno del Governo italiano, la Commissione ha manifestato la sua preoccupazione per il ritardo con cui l’Italia provvedeva a darne concreta attuazione. Sulla base di tali argomentazioni, il 19 febbraio 1999 la Commissione ha presentato alla Corte di Giustizia un ricorso inteso a far constatare la violazione della normativa comunitaria da parte della Repubblica italiana. La Corte di Giustizia, con sentenza del 23 maggio 2000 (causa C-58/99) (25), ha dichiarato la normativa italiana relativa ai poteri speciali, originariamente contenuta nel decreto legge n. 332/94, in contrasto con le disposizioni del Trattato CE relative al diritto di stabilimento (art. 43 Trattato CE, ora art. 49 TFUE), alla libera prestazione dei servizi (art. 49) e alla libera circolazione dei capitali (art. 56, ora art. 63 TFUE). Giova evidenziare che nel corso del giudizio, il Governo italiano ha rilevato che il DPCM del 4 maggio 1999 (oggetto di censura) era stato trasposto nell’art. 66 della legge finanziaria del 2000 (legge 23 dicembre 1999, n. 488), soddisfacendo così i requisiti di diritto e di certezza del diritto fatti valere dalla Commissione. Tale trasposizione, è stata considerata tardiva in quanto ad avviso dei Giudici di Lussemburgo, l’esistenza di un inadempimento deve essere valutata in relazione alla situazione dello Stato membro quale si presentava alla scadenza del termine stabilito nel parere motivato, non potendosi, in sede di giudizio, tenere conto dei mutamenti successivi (26). URBANO, Le regole comunitarie, cit., p. 18. Altra scuola di pensiero (N. IRTI, Economia di mercato e interesse pubblico, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2000, pp. 435 ss., in particolare pp. 442-443) rileva come la figura dei poteri speciali previsti in favore del governo si ponga in contrasto con l’interesse pubblico “comunitario”, vale a dire l’interesse pubblico “definibile in base ai trattati europei”, che consiste nell’interesse al regime di libera concorrenza. In sostanza, ad avviso di tale dottrina, i poteri speciali sono attribuiti al Governo a garanzia di obiettivi nazionali di politica economica e industriale, “obiettivi che certo trascendono il profilo della libera concorrenza”, in quanto “sono affidati alla determinazione dell’autorità politica”. Ne consegue il pregiudizio della “eguaglianza giuridica dei soggetti economici [...], che costituisce necessaria condizione della libera concorrenza”. Inoltre, secondo tale orientamento dottrinario, sarebbe preferibile “collocare all’esterno della società i luoghi dell’interesse pubblico, e così tener separati le vicende dell’impresa e i controlli amministrativi”. In definitiva, “l’interesse alla libera competizione delle imprese [...] ha una funzione costitutiva del nostro regime economico”, con la conseguenza che “Ogni ostacolo alla competizione è lesivo dell’interesse pubblico” (ivi, p. 443). (25) Su tale pronuncia v. C. SAN MAURO, La disciplina, cit., p. 6, in particolare nota n. 14. (26) Cfr., ex multis, Corte di Giustizia, sentenza 17 settembre 1996, causa C-289/94, Commissione/ Italia, in Racc., p. I-4405, Punto 20; Corte di Giustizia, sentenza 12 dicembre 1996, causa C- 302/95, Commissione/Italia, in Racc., p. I-6765, Punto 13. 162 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 Altre censure sono state mosse all’Italia, anche con riferimento alla normativa modificata successivamente alla procedura di infrazione di cui si è detto (in particolare, l’art. 66, comma 3 della legge n. 488/1999 e il relativo DPCM 11 febbraio 2000). Nel febbraio 2003, la Commissione ha di nuovo inviato una comunicazione di messa in mora al Governo italiano, nella quale è stata nuovamente prospettata la violazione degli articoli 43 e 56 del Trattato CE relativi, specificamente, al diritto di stabilimento e alla libera circolazione dei capitali. Il Governo italiano, nelle osservazioni inviate alla Commissione il 4 giugno 2003, si era, tra l’altro, impegnato a procedere in tempi rapidi a una modifica della regolamentazione nazionale in materia di esercizio dei poteri speciali, così da restringere la portata di tali poteri e renderli pienamente conformi ai principi del diritto comunitario e alla giurisprudenza della Corte di Giustizia. In tale contesto giuridico-fattuale, in data 22 dicembre 2004 la Commissione indirizzava alle autorità italiane una lettera di costituzione in mora complementare, poiché, a proprio avviso, le disposizioni emendate e i nuovi criteri per l’esercizio dei poteri speciali contenute nella legge finanziaria per il 2004 e nel relativo decreto 10 giugno 2004 non eliminavano la violazione delle norme del Trattato CE sulla libera circolazione dei capitali e sulla libertà di stabilimento. Non ritenendo il decreto legge n. 332/94 e il decreto 10 giugno 2004 conformi ai principi del diritto comunitario - come invece affermato dal Governo italiano nella risposta inviata alla Commissione il 24 maggio 2005 - in data 18 ottobre 2005 la Commissione ha inviato al Governo italiano un ulteriore parere motivato (27). Sicché, dopo che il 20 dicembre 2005 le Autorità italiane hanno espresso dissenso nei confronti di detto parere, in data 28 giugno 2006 la Commissione ha deciso di sottoporre la controversia all’esame della Corte di Giustizia. La Corte di Giustizia, con sentenza 26 marzo 2009 (causa C-326/07)(28). ha giudicato l’Italia responsabile per essere venuta meno agli obblighi su di essa incombenti in forza degli articoli 56 TCE (libera circolazione dei capitali, ora art. 63 TFUE) e 43 TCE (diritto di stabilimento, ora art. 49 TFUE), per le disposizioni dell’art. 1, comma 2, del citato DPCM 10 giugno 2004 che definiscono le condizioni di esercizio dei i poteri previsti dall’art. 2, comma 1, lett. a) e b) e c) del decreto legge n. 332/94 (rispettivamente opposizione all’assunzione di partecipazioni rilevanti e opposizione all’assunzione di patti o accordi parasociali, nonché potere di veto in relazione al concreto pregiudi- (27) In particolare, in tale parere la Commissione, pur riconoscendo che la normativa di riforma “sostituisce la precedente procedura (...) con un diritto di opposizione meno restrittivo”, ha ritenuto “ingiustificati i restanti controlli sull’assetto proprietario delle società privatizzate e sulle decisioni di gestione, valutandoli sproporzionati rispetto al loro scopo e costituenti ingiustificate limitazioni alla libera circolazione dei capitali e al diritto di stabilimento” (artt. 56 e 43 TCE). (28) Su tale sentenza v. G. URBANO, Le regole comunitarie, cit., pp. 23 ss.; G.C. SPATTINI, La «golden share», cit. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 163 zio arrecato agli interessi vitali dello Stato, all’adozione delle delibere di scioglimento della società, di trasferimento dell’azienda, di fusione, di scissione, di trasferimento della sede sociale all’estero). In estrema sintesi, il punto controverso risultava essere la poca chiarezza dei criteri nello stabilire idonee condizioni di esercizio a giustificare l’esercizio dei suddetti poteri speciali. A tal riguardo, i Giudici europei hanno infatti ricordato che la libera circolazione dei capitali e la libertà di stabilimento può essere limitata da provvedimenti nazionali che trovino giustificazione, tra l’altro, in ragioni imperative di interesse generale, comunque, soltanto nei limiti tracciati dal Trattato e, in particolare, nel rispetto del principio di proporzionalità che esige, in primo luogo, che i provvedimenti adottati siano atti a conseguire gli obiettivi perseguiti (29) e non vadano oltre quanto necessario per il raggiungimento degli stessi. Quanto sopra purché non esistano misure comunitarie di armonizzazione che indichino i provvedimenti necessari a garantire la tutela di tali interessi (30). In mancanza di siffatta armonizzazione, spetta agli Stati membri decidere il livello al quale intendono garantire la tutela di tali legittimi interessi, nonché il modo in cui questo livello deve essere raggiunto. In relazione all’esercizio dei poteri di opposizione, la Corte ha ritenuto che i criteri contenuti nell’art. 1, comma 2 del DPCM del 10 giugno 2004, fossero generici ed imprecisi (31), inoltre ha rilevato che l’assenza di un nesso tra i criteri di esercizio dei poteri speciali e i poteri stessi tende ad accentuare l’incertezza in ordine alle circostanze in cui tali facoltà possono essere attivate, conferendo loro carattere discrezionale. Pertanto, i Giudici hanno reputato un siffatto potere discrezionale sproporzionato rispetto agli obiettivi perseguiti (32). In ordine ai criteri sanciti per l’esercizio del potere di veto, la Corte ha dichiarato inadempiente lo Stato italiano ai sensi del citato art. 43 CE, in quanto le circostanze per l’esercizio del potere stabilite dalle norme interne risultano numerose, indeterminate e imprecise e la normativa sproporzionata rispetto all’obiettivo indicato. A parere della Corte, infatti, il decreto del 2004 non contiene precisazioni sulle circostanze concrete in cui può essere esercitato il potere di veto e i criteri da esso fissati non sono dunque fondati su condizioni oggettive e controllabili dall’investitore (33). (29) Punti 42 e 46 della sentenza. (30) Punto 41 della sentenza. (31) Punti 47 ss. della sentenza. (32) Si v., in particolare, il Punto 56 della sentenza. (33) Punto 41 della sentenza. Inoltre, la Corte osserva che, sebbene sia indubbio che l’esercizio dei poteri speciali possa essere soggetto al controllo del giudice nazionale, in base a quanto prevede l’art. 2, comma 1, lett. a) c), decreto legge n. 332/94, protezione necessaria per la protezione delle persone in relazione all’applicazione delle norme sulla libera circolazione dei capitali, tuttavia essa non è sufficiente, di per sé, per sanare l’incompatibilità con tali norme dei criteri di applicazione dei poteri speciali (Punto 54). 164 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 Alla luce di tali argomentazioni, la Corte di Giustizia ha ritenuto l’Italia responsabile per essere venuta meno agli obblighi del Trattato su di essa incombenti in materia di libera circolazione dei capitali e in materia di diritto di stabilimento, avendo adottato le disposizioni del citato art. 1, comma 2 del DPCM del 2004. Recentemente, la Commissione europea ha avviato contro l’Italia un’altra procedura di infrazione (n. 2009/2255), in quanto ritiene che alcune disposizioni della normativa italiana che conferisce poteri speciali allo Stato nelle società privatizzate operanti in settori strategici come le telecomunicazioni e l’energia, siano incompatibili con gli articoli 63 e 49 del Trattato sul Funzionamento dell’UE (TFUE) riguardanti rispettivamente la libera circolazione dei capitali e il diritto di stabilimento. Il 24 novembre 2011, la Commissione ha deciso di presentare un ricorso alla Corte di Giustizia dell’UE contro l’Italia. Tale decisione fa seguito ad un precedente parere motivato, inviato dalla Commissione all’Italia il 16 febbraio 2011, nel quale si formulano rilievi specifici in merito all’art. 4, commi 227-231, della legge finanziaria per il 2004 (legge 24 dicembre 2003, n. 350). In particolare, richiamandosi alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, la Commissione ritiene che la normativa italiana sopra richiamata configuri restrizioni alla libera circolazione dei capitali e alla libertà di stabilimento inadeguate e/o sproporzionate ai fini del conseguimento dei (pur) legittimi obiettivi che detta normativa interna intende perseguire (34). La Commissione conclude, dunque, invitando l’Italia a modificare le disposizioni contestate in quanto i poteri speciali previsti dalla normativa italiana risultano sproporzionati rispetto agli obiettivi perseguiti e sono quindi incompatibili con la libertà di stabilimento e la libera circolazione. 4. Dalla golden share al golden power: il decreto legge n. 21 del 2012 e la sua attuazione. Una volta chiarito che il decreto legge 15 marzo 2012, n. 21 (convertito, con modificazioni, dalla legge 11 maggio 2012, n. 56) è stato emanato con l’obiettivo di rendere compatibile con il diritto dell’Unione la disciplina nazionale dei poteri speciali del Governo, dobbiamo brevemente esaminare il contenuto di tale ultimo intervento legislativo, per poi passare ad analizzarne lo stato di attuazione. Il decreto legge n. 21/2012 ridefinisce, anche mediante il rinvio ad atti di normazione secondaria, l’ambito oggettivo e soggettivo, la tipologia, le condizioni e le procedure di esercizio dei poteri speciali, quali la facoltà di dettare specifiche condizioni all’acquisito di partecipazioni, di porre il veto all’ado- (34) Tali obiettivi sono: l’approvvigionamento minimo di prodotti petroliferi, energetici, materie prime e beni essenziali alla collettività; un livello minimo di servizi di telecomunicazione e di trasporto; la continuità della prestazione dei servizi pubblici; la difesa nazionale; la sicurezza militare; l’ordine pubblico e la pubblica sicurezza; le emergenze sanitarie. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 165 zione di determinate delibere societarie e di opporsi all’acquisto di partecipazioni. La normativa sub-primaria è chiamata, inoltre, ad individuare le attività di rilevanza strategica (35). Come rilevato nell’ambito dei lavori parlamentari, la disciplina previgente, introdotta nell’ordinamento italiano nell’ambito del processo di privatizzazione delle imprese in mano pubblica (decreto legge n. 332/94), non cessa immediatamente di produrre effetti, in quanto viene abrogata e in parte novellata solo a decorrere dalla data di entrata in vigore dei provvedimenti di attuazione del decreto legge. Dalla stessa data cessano, conseguentemente, di avere efficacia le clausole presenti negli statuti societari delle società privatizzate incompatibili con il nuovo regime dei poteri speciali. Anzitutto è importante sottolineare che il decreto legge n. 21/2012 non configura più i poteri speciali come legati in maniera esclusiva alla partecipazione azionaria pubblica, bensì come riferiti alle società, pubbliche e private, operanti in determinati settori e svolgenti attività di rilevanza strategica. L’ambito applicativo più vasto costituisce una novità di indubbio rilievo rispetto al quadro regolatorio precedente, che, come noto, si riferiva specificamente all’esercizio dei poteri speciali da parte dell’azionista pubblico sulle imprese nazionali oggetto di privatizzazione operanti nei settori dei servizi pubblici (tra i quali il decreto legge n. 332/94 indicava espressamente la difesa, i trasporti, le telecomunicazione e le fonti di energia). Inoltre, rispetto alla disciplina precedente, la nuova normativa prevede che i criteri per l’esercizio dei poteri siano di esclusiva competenza della fonte primaria (cioè del decreto legge n. 21/2012, come convertito dalla successiva legge n. 56/2012 (36)), differenziandosi dalla vecchia normativa che affidava la determinazione dei criteri di esercizio dei poteri speciali ad una norma sub-primaria, prevedendo che l’esercizio di tali poteri fosse limitato ai soli casi di pregiudizio degli interessi vitali dello Stato (37). La nuova normativa subordina l’esercizio dei poteri speciali nei comparti della sicurezza e della difesa alla sussistenza di una minaccia effettiva di grave pregiudizio per gli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale (38). Al Governo vengono attribuiti diversi poteri, in particolare quello di imporre specifiche condizioni all’acquisto di partecipazioni in imprese strategiche nel settore della difesa e della sicurezza; quello di porre il veto all’adozione di delibere relative ad operazioni straordinarie o di particolare rilevanza; quello di opporsi all’acquisto di partecipazioni, ove l’acquirente arrivi a detenere un livello della partecipazione al capitale in grado di compromettere gli interessi della difesa e della sicurezza nazionale. (35) Sull’attuazione dell’art. 1 del decreto legge n. 21 in questione v. più ampiamente infra. (36) Cfr., sul punto, C. SAN MAURO, La disciplina, cit., p. 13. (37) Cfr. C. SAN MAURO, La disciplina, cit., p. 13. (38) In merito, v. G. URBANO, Le regole comunitarie, cit., p. 26. 166 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 Dall’esame della vigente normativa primaria e secondaria in materia di poteri speciali sembra che, a differenza del passato, sia richiesta una specifica forma provvedimentale per l’effettivo esercizio di tali poteri (39) ovvero uno specifico DPCM. Al contrario, l’art. 2, comma 1 del decreto legge n. 332/94, nel disciplinare il potere di impugnativa degli atti mediante i quali tali facoltà sono esercitate, si riferiva, in genere, a “provvedimenti” (40). L’art. 1, comma 1, decreto legge n. 21, elenca i seguenti poteri speciali che il Governo può esercitare nei settori della difesa e della sicurezza nazionale: a) imposizione di specifiche condizioni relative alla sicurezza degli approvvigionamenti, alla sicurezza delle informazioni, ai trasferimenti tecnologici, al controllo delle esportazioni nel caso di acquisto, a qualsiasi titolo, di partecipazioni in imprese che svolgono attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale; b) veto all’adozione di delibere dell’assemblea o degli organi di amministrazione di un’impresa di cui alla lettera a), aventi ad oggetto la fusione o la scissione della società, il trasferimento dell’azienda o di rami di essa o di società controllate, il trasferimento all’estero della sede sociale, il mutamento dell’oggetto sociale, lo scioglimento della società, le cessioni di diritti reali o di utilizzo relative a beni materiali o immateriali o l’assunzione di vincoli che ne condizionino l’impiego; c) opposizione all’acquisto, a qualsiasi titolo, di partecipazioni in un’impresa di cui alla lettera a) da parte di un soggetto diverso dallo Stato italiano, enti pubblici italiani o soggetti da questi controllati, qualora l’acquirente venga a detenere, direttamente o indirettamente, anche attraverso acquisizioni successive, per interposta persona o tramite soggetti altrimenti collegati, un livello della partecipazione al capitale con diritto di voto in grado di compromettere nel caso specifico gli interessi della difesa e della sicurezza nazionale. A tale fine si considera altresì ricompresa la partecipazione detenuta da terzi con i quali l’acquirente ha stipulato uno dei patti di cui all’art. 122 del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni, ovvero di quelli di cui all’art. 2341-bis del codice civile. Come è stato rilevato nel corso dei lavori parlamentari, la fattispecie di cui all’art. 1, lett. a), non trovava riscontro nella precedente disciplina dei poteri speciali. Il potere di veto all’adozione di delibere concernenti operazioni rilevanti/straordinarie della società privatizzata era, invece, contenuto nell’art. (39) In merito, v. anche C. SAN MAURO, La disciplina, cit., p. 13. (40) L’art. 2, comma 1 del DPCM 10 giugno 2004 specifica che il potere di nomina di un amministratore senza diritto di voto viene esercitato mediante l’adozione di un decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di intesa con il Ministro delle attività produttive (ora sviluppo economico). LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 167 2, comma 1, lett. c), decreto legge n. 332/94. La precedente normativa prevedeva che tale potere fosse debitamente motivato in relazione al concreto pregiudizio arrecato agli interessi vitali dello Stato. Esso riguardava anche le eventuali modifiche dello statuto societario che sopprimano o modifichino i poteri speciali. Con riferimento all’opposizione di cui alla lett. c), il potere è attivabile qualora l’acquirente venga a detenere, direttamente o indirettamente, anche attraverso acquisizioni successive, per interposta persona o tramite soggetti altrimenti collegati, un livello della partecipazione al capitale con diritto di voto in grado di compromettere nel caso specifico gli interessi della difesa e della sicurezza nazionale. Nel corso dei lavori parlamentari, si è rilevato, inoltre, come la norma in esame non fornisca elementi utili a valutare quando il livello di partecipazione al capitale raggiunto mediante acquisto sia “in grado di compromettere nel caso specifico gli interessi della difesa e della sicurezza nazionale”. Dal tenore testuale della disposizione, non appare chiaro se tale requisito debba essere determinato o meno dalla disciplina secondaria di attuazione, anche alla luce dei rilievi sollevati in sede europea. In ogni caso, il legislatore ha inteso, a tal fine, ricomprendere la partecipazione detenuta da terzi con i quali l’acquirente ha stipulato uno dei patti parasociali di cui all’art. 122 del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al d.lgs. n. 58/98, ovvero uno di quelli di cui all’art. 2341-bis del codice civile (41). Si noti come un potere di opposizione all’acquisto da parte del pubblico azionista fosse previsto anche nell’art. 2, comma 1, lett. a) del decreto legge n. 332/94, che prevedeva che il Ministro dell’economia potesse opporsi all’assunzione di partecipazioni “rilevanti”, ove la soglia di rilevanza fosse fissata in un ammontare di strumenti partecipativi pari, almeno, al cinque per cento del capitale sociale rappresentato da azioni con diritto di voto nell’assemblea ordinaria. Per effetto delle disposizioni in esame viene, dunque, eliminato il limite del cinque per cento e si introduce invece il criterio della (41) Stante il generico riferimento all’art. 122 del TUIF, sembra presumersi che si tratti dei patti di cui al comma 1, che hanno per oggetto l’esercizio del diritto di voto nelle società quotate e nelle relative controllanti, così come di quelli previsti al comma 5 del medesimo art. 122, e cioè quelli che istituiscono obblighi di preventiva consultazione per l’esercizio del diritto di voto; pongono limiti al trasferimento delle azioni o di strumenti finanziari attributivi di diritti di acquisto o di sottoscrizione delle stesse; prevedono l’acquisto di tali azioni o strumenti finanziari; hanno per oggetto o per effetto l’esercizio anche congiunto di un’influenza dominante su tali società; volti a favorire o a contrastare il conseguimento degli obiettivi di un’offerta pubblica di acquisto o di scambio, ivi inclusi gli impegni a non aderire ad un’offerta. L’art. 2341-bis c.c., per le società non quotate, si riferisce ai patti aventi qualunque forma che, al fine di stabilizzare gli assetti proprietari o il governo della società, hanno per oggetto l’esercizio del diritto di voto nelle società per azioni o nelle società che le controllano; pongono limiti al trasferimento delle relative azioni o delle partecipazioni in società che le controllano; hanno per oggetto o per effetto l’esercizio anche congiunto di un’influenza dominante su tali società. 168 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 detenzione, da parte del cessionario, del predetto livello di partecipazione al capitale “in grado di compromettere nel caso specifico gli interessi della difesa e della sicurezza nazionale”. Inoltre, le disposizioni in commento non ripropongono il potere di opposizione ai patti parasociali contenuto all’art. 2, comma 1, lett. b), decreto legge n. 332/94, né il potere di nominare un amministratore senza diritto di voto, di cui alla successiva lettera d). I commi 2 e 3 dell’art. 1 indicano i criteri per valutare l’esistenza dei requisiti per l’esercizio dei poteri speciali che sono attivabili in presenza di una minaccia effettiva di grave pregiudizio per gli interessi della sicurezza nazionale. Da tali norme emerge come, a differenza di quanto previsto in precedenza, le condizioni, i requisiti e le modalità di esercizio dei poteri speciali siano da ricondursi a un provvedimento avente forza di legge, dunque sottratti alla discrezionalità dell’esecutivo (42). In particolare, il comma 2 reca gli elementi per effettuare tale valutazione in rapporto al potere di veto all’adozione di delibere relative ad operazioni straordinarie o, comunque, di particolare rilevanza (enumerate alla già commentata lettera b) del comma 1) della società. Il comma 3 individua, invece, gli elementi necessari a valutare se dall’acquisto di partecipazioni in imprese operanti nel comparto della difesa e della sicurezza nazionale derivi una minaccia effettiva di grave pregiudizio agli interessi essenziali della difesa e della sicurezza, in rapporto all’eventuale esercizio dei poteri di opposizione all’acquisto o imposizione di specifiche condizioni. I commi 4 e 5 disciplinano gli aspetti procedurali dell’esercizio dei poteri speciali e le conseguenze che derivano dagli stessi o dalla loro violazione (43), mentre il comma 7 prescrive l’aggiornamento, almeno ogni tre anni, dei decreti (42) Cfr., sul punto, C. SAN MAURO, La disciplina, cit., p. 14. (43) In particolare, il comma 5 prevede che ai fini dell’eventuale esercizio dei poteri di cui al comma 1, lettere a) e c), chiunque acquisisce una partecipazione in imprese che svolgono attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale notifica l’acquisizione entro dieci giorni alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, trasmettendo nel contempo le informazioni necessarie, comprensive di descrizione generale del progetto di acquisizione, dell’acquirente e del suo ambito di operatività, per le valutazioni di cui al comma 3. Il medesimo comma 5 disciplina inoltre i casi in cui deve essere effettuata la notifica con riguardo all’ipotesi in cui l’acquisizione abbia ad oggetto azioni di una società ammessa alla negoziazione nei mercati regolamentati. Il potere di imporre specifiche condizioni di cui al comma 1, lettera a), o di opporsi all’acquisto ai sensi del comma 1, lettera c), è esercitato - in base al disposto di cui al comma 5 in esame - entro quindici giorni dalla data della notifica. Qualora si renda necessario richiedere informazioni all’acquirente, tale termine è sospeso, per una sola volta, fino al ricevimento delle informazioni richieste, che sono rese entro il termine di dieci giorni. Da questa ristrettezza temporale entro cui l’Amministrazione deve esercitare i golden powers in questione (imposizione di specifiche condizioni e opposizione) nasce l’esigenza di avere già un paradigma prescrittivo con l’inserimento nell’organizzazione aziendale di una figura soggettiva fiduciaria, come vedremo più ampiamente infra. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 169 che individuano le attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e di sicurezza nazionale in relazione alle quali - secondo il comma 1 - possono essere eventualmente attivati i poteri speciali. L’art. 2 del decreto in esame reca la disciplina dei poteri speciali nei comparti dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni. Con disposizioni simili a quelle previste all’art. 1 del provvedimento per il comparto sicurezza e difesa, a decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri sono affidate le funzioni di individuazione degli asset strategici nel settore dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni (comma 1); di esercizio dei poteri speciali (commi 3 e 6); di individuazione di ulteriori disposizioni attuative della nuova disciplina (comma 9). I poteri speciali esercitabili nel settore dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni consistono nella possibilità di far valere il veto dell’esecutivo alle delibere, agli atti e alle operazioni concernenti asset strategici, in presenza dei requisiti richiesti dalla legge, ovvero imporvi specifiche condizioni; di porre condizioni all’efficacia dell’acquisto di partecipazioni da parte di soggetti esterni all’UE in società che detengono attivi “strategici” e, in casi eccezionali, opporsi all’acquisto stesso. Le norme in esame, in rapporto alle tipologie di poteri esercitabili e alle loro modalità di esercizio, ripropongono - con alcune differenze - la disciplina prevista dall’art. 1 in relazione alle società operanti nel comparto difesa e sicurezza. In questa sede è, dunque, possibile richiamare quanto osservato con riferimento all’esercizio dei poteri speciali nel comparto difesa e sicurezza nazionale ex art. 1, del decreto legge n. 21/2012, ma mettendo in evidenza le peculiarità del comparto trasporto, energia e comunicazioni di cui all’art. 2, in esame. In primo luogo, l’esercizio dei poteri nel comparto della difesa e della sicurezza nazionale è subordinato ad una sola condizione, vale a dire la minaccia effettiva di grave pregiudizio per gli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale, mentre essa è parzialmente diversa, secondo il tipo di potere attivabile (situazione eccezionale di minaccia effettiva di grave pregiudizio per gli interessi pubblici, per il potere di veto; minaccia effettiva di grave pregiudizio per gli stessi interessi, per il potere di apporre condizioni all’acquisto di partecipazioni ovvero di opporvisi) nel comparto dei trasporti, dell’energia e delle comunicazioni. In secondo luogo, il potere di veto nel settore dei trasporti, dell’energia e delle comunicazioni copre non solo le delibere delle società che detengono beni strategici (come nel settore della difesa e della sicurezza), ma anche tutte le operazioni e gli atti - concernenti la società o gli asset - tali da minacciare pregiudizio per gli interessi pubblici. L’art. 2, comma 7 stabilisce i criteri di esercizio dei poteri speciali. Come avviene per i settori della difesa e della sicurezza nazionale, tali criteri sono, dunque, enucleati direttamente dalla norma di rango primario. I poteri speciali in questione sono esercitati esclusivamente sulla base di 170 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 criteri oggettivi e non discriminatori. A tale fine il Governo considera, avuto riguardo alla natura dell’operazione, da un lato, l’esistenza di motivi oggettivi che facciano ritenere possibile la sussistenza di legami fra l’acquirente e Paesi terzi che non riconoscono i principi di democrazia o dello Stato di diritto, che non rispettano le norme del diritto internazionale o che hanno assunto comportamenti a rischio nei confronti della Comunità internazionale desunti dalla natura delle loro alleanze o hanno rapporti con organizzazioni criminali o terroristiche o con soggetti ad essi comunque collegati; dall’altro, l’idoneità dell'assetto risultante dall’atto giuridico o dall’operazione, tenuto conto anche delle modalità di finanziamento dell’acquisizione e della capacità economica, finanziaria, tecnica e organizzativa dell’acquirente, a garantire la sicurezza e la continuità degli approvvigionamenti e il mantenimento, la sicurezza e l’operatività delle reti e degli impianti. Per entrambi i comparti, l’art. 1, comma 8 e l’art. 2, comma 9 demandano l’ulteriore disciplina attuativa alla normazione sub-primaria (sulla quale v. infra). 5. L’esercizio dei poteri speciali del Governo. 5.1. Individuazione delle attività di rilevanza strategica e delle attività strategiche chiave. L’art. 1, comma 1, decreto legge n. 21/2012, prevede che “Con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, adottati su proposta, per i rispettivi ambiti di competenza, del Ministro della difesa o del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, il Ministro degli affari esteri, il Ministro dello sviluppo economico e, rispettivamente, con il Ministro dell’interno o con il Ministro della difesa, previa comunicazione alle Commissioni parlamentari competenti, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto sono individuate le attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale, ivi incluse le attività strategiche chiave”, in relazione alle quali possono essere esercitati i poteri speciali indicati nel medesimo disposto (comma 1) “in caso di minaccia di grave pregiudizio per gli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale”. In attesa dei predetti provvedimenti, con particolare riguardo al comparto della difesa, sulla base dell’art. 1, comma 1, il Ministero della difesa - di concerto con i Ministeri competenti - ha emanato il 30 novembre 2012 (44) un DPCM, sul quale il Consiglio di Stato ha espresso parere favorevole (45) . In particolare, come si legge nella Relazione che accompagna lo schema (44) Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, 30 novembre 2012, n. 253, recante “Regolamento recante individuazione delle attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale, a norma del decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 11 maggio 2012, n. 56”, pubblicato in GU n. 29 del 4 febbraio 2013. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 171 di DPCM, l’art. 1 del decreto legge n. 21, in rassegna, non contiene alcuna indicazione in ordine all’individuazione dei settori protetti, giacché le relative nozioni sono agevolmente desumibili da altre disposizioni del nostro ordinamento giuridico, nonché dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. In particolare, nella Relazione in esame, correttamente si richiama l’art. 117, comma 2, Cost., il quale individua le materie in cui lo Stato esercita la potestà legislativa esclusiva, tra le quali sono ricomprese “difesa e forze armate” e “sicurezza dello Stato” (lett. d)), nonché “ordine pubblico e sicurezza” (lett. h)) (46). Il concetto di difesa è richiamato anche all’art. 52 Cost., (45) Cons. Stato, Sezione consultiva per gli atti normativi, Parere n. 7762/2012, Adunanza dell’11 ottobre 2012. In tale parere, il Consiglio di Stato ha sottolineato e condiviso la scelta dell’Amministrazione di seguire la procedura prescritta per l’approvazione dei regolamenti ministeriali e interministeriali di cui all’art. 17, commi 3 e 4, della legge 23 agosto 1988, n. 400. L’Amministrazione proponente non sembra, peraltro, potesse agire diversamente, atteso che, alla luce della recente giurisprudenza amministrativa, la procedura di cui all’art. 17, cit., non imposta espressamente dal decreto legge n. 21/2012, è stata prevista dalla legge n. 56/2012, di conversione del primo. Il legislatore ha, dunque, tenuto conto della giurisprudenza del Giudice Amministrativo, che ha recentemente (ri)affermato che gli atti normativi sono tipizzati dalla legge n. 400/1988 e che essi sono inquadrati tra le fonti tipiche del diritto. In base a tale orientamento giurisprudenziale, l’Amministrazione avrebbe comunque dovuto seguire le procedure di cui all’art. 17, in quanto la fonte primaria (d.l. n. 21/2012), attributiva del potere normativo, nulla disponeva in ordine alla possibilità di utilizzare moduli alternativi e diversi (cioè atipici) a quello regolamentare tipizzato dall’art. 17 in questione. In altri termini, in mancanza di fonte primaria che disponga diversamente, i provvedimenti a contenuto innovativo, generale ed astratto - come quello qui in rassegna, configurato tale dal legislatore (legge n. 56) - devono essere emanati ai sensi dell’art. 17, legge n. 400/1988, pena la loro illegittimità, censurabile in sede giurisdizionale: Cons. Stato, Ad. Plen., 4 maggio 2012, n. 9, in Giur. It., 2012, 2410, con nota di MAMELI, La successione delle fonti atipiche del Governo e il principio del contrarius actus. Cfr., altresì, Cons. Stato, Ad. Gen., 21 novembre 1991, n. 141, in Giur. Cost., 1991, 4261, con nota di PIZZORUSSO, Il difficile cammino di riordino del sistema delle fonti. Appare discutibile la posizione assunta dall’Adunanza Plenaria, laddove ha statuito che in mancanza di fonte primaria che disponga diversamente debba essere seguito l’iter di cui all’art. 17, legge n. 400/1988, finendo così per aggravare il procedimento di formazione degli atti. Al pari dei principi che giustificano e/o impongono il ricorso alla fonte del diritto de qua, il principio di non aggravamento ha fondamento costituzionale (art. 97 Cost.) e deve essere suscettibile di bilanciamento, senza che se ne censuri aprioristicamente la sua “cedevolezza” (in dottrina, sul principio di non aggravamento v. E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2012, p. 428). D’altronde, come è stato rilevato (R. ROLLI, voce Regolamenti. Postilla di aggiornamento, in Enc. giur. Treccani, vol. XXX, Roma, 2008, p. 2), la “fuga dal regolamento” deriva da una sempre più “labile linea di discrimine tra regolamenti e atti generali”, linea che si è repentinamente spostata “a vantaggio dei secondi ed a scapito dei primi”. Da ciò deriva l’opportunità che un’indagine circa la forma dell’atto da adottare in concreto sia rimessa all’Amministrazione procedente (salvo talune specifiche ipotesi nelle quali, in ragione dei delicati interessi in gioco, tale scelta sia effettuata a monte dal legislatore). Sui Regolamenti v. R. BIN, G. PITRUZZELLA, Le fonti del diritto, Torino, 2012, pp. 195 ss.; F. SORRENTINO, Le fonti del diritto amministrativo, in Trattato di diritto amministrativo (diretto da G. Santaniello), vol. XXV, Padova, 2004, pp. 243 ss.; L. CARLASSARE, voce Regolamento (dir. cost.), in Enc. dir., vol. XXXIX, Milano, 1988, pp. 605 ss.; A. CERRI, voce Regolamenti, in Enc. giur. Treccani¸ vol. XXX, Roma, 1991; A.M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, pp. 55 ss., in particolare pp. 63 ss.; F. CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2012, pp. 526 ss. (46) Sulla potestà legislativa dello Stato in materia di sicurezza v. Corte cost., sentenza 30 gennaio 2009, n. 18. 172 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 laddove il legislatore costituzionale disciplina le Forze armate. Nella Relazione si osserva, inoltre, come dalla normativa costituzionale possono essere individuati due profili della nozione di sicurezza, entrambi recepiti nella legislazione primaria, nella quale si distinguono le competenze del Ministero della difesa, da un lato, e quelle del Ministero dell’interno, dall’altro (47). L’attività della difesa e della sicurezza nazionale sono regolamentate nel Codice dell’ordinamento militare (d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66), mentre quelle relative al Ministero dell’interno sono enucleate nel d.lgs. 30 luglio 1999, n. 300, per quanto riguarda le funzioni dell’ordine e della sicurezza pubblica (art. 14), e nella legge 1 aprile 1981, n. 121, che reca “Nuovo Ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza”. Nel settore della sicurezza operano, altresì, due Agenzie amministrative (Agenzia informazioni e sicurezza pubblica - AISE e Agenzia informazioni e sicurezza interna - AISI), i cui compiti sono ripartiti dalla legge 3 agosto 2007, n. 124 (recante “Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto”) (48), la quale richiede ad entrambe le Agenzie de quibus di informare con continuità e tempestività il Ministero della difesa (con riferimento all’attività dell’AISE) e il Ministero dell’interno (con riguardo all’attività dell’AISI). Sul doppio aspetto - interno ed esterno - della sicurezza nazionale si è (anche) recentemente pronunciata la Corte costituzionale (sentenza n. 40 del 2012), la quale ha evidenziato la preminenza della sicurezza dello Stato rispetto ad altri valori - pure di rango costituzionale primario -, i quali ultimi sono “fisiologicamente destinati a rimanere recessivi”. Ad avviso della Consulta, “La sicurezza dello Stato costituisce [...] un «interesse essenziale, insopprimibile della collettività, con palese carattere di assoluta preminenza su ogni altro, in quanto tocca […] la esistenza stessa dello Stato»”(49) . Sulla base del quadro giuridico delineato, il DPCM individua le attività considerate di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale. Nella Relazione che accompagna tale schema di Decreto, si mette in evidenza come l’individuazione delle attività in questione non sia finalizzata a preservare interessi economici nazionali che potrebbero turbare le dinamiche di mercato, ma mira a tutelare la sicurezza della Nazione rispetto ad acquisizioni estere potenzialmente ostili in grado di incidere quel nucleo di interessi pri- (47) Sulle distinte funzioni dello Stato in materia di difesa e sicurezza (esercitate dal Ministero della difesa), da un lato, e in materia di ordine e sicurezza pubblica (esercitate dal Ministero dell’interno), dall’altro, si è soffermato anche Cons. Stato, Parere n. 7762/2012, cit. (48) Tale legge ha riformato il sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica. Su tale riforma v. AA.VV., I servizi di informazione e il segreto di Stato (legge 3 agosto 2007, n. 124), Milano, 2008. Sulla sicurezza dello Stato in generale v. A. MASSERA, C. MOSCA, I servizi di informazione, in AA. VV., Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo speciale (a cura di S. Cassese), Vol. I, Milano, 2000, pp. 370 ss. (49) Cfr., altresì, in merito, Corte cost., sentenze n. 106 del 2009, n. 110 del 1998 e n. 86 del 1977. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 173 migeni indicati dalla Corte costituzionale. Più in particolare, si sottolinea come le attività di rilevanza strategica, in ragione della loro stretta strumentalità e connessione allo svolgimento della funzione istituzionale della difesa, debbano restare soggette a una vigilanza istituzionale, che consenta non solo di inibire l’adozione di delibere atte a influire sull’esecuzione delle attività in questione o sull’esistenza stessa delle società che le pongono in essere, ma anche di intervenire per evitare la presenza di partecipazioni di controllo che possano compromettere la disponibilità di asset essenziali per la tutela del bene supremo della difesa della Nazione. Il Regolamento si compone di tre articoli (50). Nell’art. 1, vengono individuate come attività di rilevanza strategica le attività di studio, ricerca, progettazione, sviluppo, produzione, integrazione e sostegno al ciclo di vita di sistemi e materiali la cui proprietà deve essere controllata e gestita in stretto contatto con il committente (Ministero della difesa) per poter garantire efficacia del risultato, tempi di risposta immediati e sicurezza delle informazioni. Tali elementi sono considerati assolutamente imprescindibili allo scopo di sventare qualsiasi minaccia alla difesa dello Stato, al cui servizio quelle attività sono collegate (51). Come sottolineato anche dal Consiglio di Stato (52), le attività elencate nel comma 1 attengono essenzialmente ai sistemi di comando e controllo; ai sistemi di comunicazione e di contrasto alle misure di guerra elettronica; ai sistemi d’arma avanzati e ai relativi supporti informatici; ai sistemi aeronautici avanzati e ai sistemi di propulsione aerospaziale e navale. L’art. 1, secondo comma, del DPCM, individua le “attività strategiche chiave”, che, come chiarito nella citata Relazione, rispondono alla logica di identificare, fra quelle di diretto interesse, un nucleo di attività particolarmente sensibili ai fini della difesa e della sicurezza nazionale, allo scopo di alzare la soglia dell’attenzione nella fase istruttoria relativa all’applicazione dei poteri speciali e di considerare con adeguato rigore le minacce recate ai beni protetti. Giova evidenziare che l’espressione “attività strategiche chiave” è mutuata dall’art. 7, comma 3, dell’Accordo di Farnbourough del 27 luglio 2000, relativo alle misure per facilitare la ristrutturazione e le attività delle industrie europee per la difesa, che l’Italia ha stipulato con Francia, Germania, Spagna, Svezia e Regno Unito e ratificato con legge 17 giugno 2003, n. 148. Essa indica le attività la cui tutela sul piano del mantenimento delle capacità militari e di difesa è da ritenere assolutamente essenziale, tanto che il citato Accordo riconosce che gli Stati aderenti, in deroga alla logica di redistribuzione territoriale delle capacità industriali nel settore della difesa che ha ispirato l’Ac- (50) Per ragioni espositive, nel presente paragrafo di tale lavoro saranno analizzati i primi due articoli, mentre nel paragrafo successivo sarà esaminato il terzo. (51) Così Relazione illustrativa dello schema di DPCM, cit. (52) Cons. Stato, Parere n. 7762/2012, cit. 174 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 cordo stesso, possono decidere di mantenerle comunque sul proprio territorio nazionale, proprio per motivi di sicurezza nazionale. In attuazione dell’art. 1, comma 1 bis, decreto legge n. 21, l’art. 2 del DPCM individua le tipologie di atti e operazioni infragruppo, in relazione alle quali la disciplina dei poteri speciali non trova applicazione. Alla luce dei lavori parlamentari, sono stati esclusi dalla disciplina in questione le operazioni societarie - come fusioni, scissioni, incorporazioni, ovvero cessioni, anche di quote di partecipazione - quando le relative delibere non comportano il trasferimento dell’azienda o di rami di essa o di società controllata, ovvero il trasferimento della sede sociale, il mutamento dell’oggetto sociale, lo scioglimento della società o la modifica di clausole statutarie adottate ai sensi dell’art. 2351, terzo comma, del codice civile, ovvero introdotte ai sensi dell’art. 3, comma 1, del decreto legge n. 332/94, nonché - infine - gli atti di costituzione o cessione di diritti reali o di utilizzo relativi a beni sia materiali che immateriali utilizzati nello svolgimento delle attività di rilevanza strategica. La ragione per la quale tutti questi atti ed operazioni sono stati esclusi dalla disciplina dei poteri speciali consiste nel fatto che essi non comportano, in linea di principio e alle suddette condizioni, rischi di pregiudizio agli interessi nazionali in materia di difesa e sicurezza (53). Come anticipato, sullo schema di DPCM ha espresso parere favorevole il Consiglio di Stato (54), il quale osserva come le attività di rilevanza strategica e le attività strategiche chiave nei settori della difesa e della sicurezza nazionale individuate - mediante valutazioni tecniche e discrezionali - nello schema di Decreto in questione “appaiano appropriatamente orientate a salvaguardare l’integrità e la proprietà nazionale dei sistemi tecnologici essenziali alla difesa e alla sicurezza nazionale sotto il profilo militare”(in relazione alle competenze del Ministero della difesa proponente). I Giudici di Palazzo Spada, in sede consultiva, apprezzano soprattutto la tecnica redazionale seguita dal Ministero, che ha suddiviso le attività di rilevanza per classi, così da rendere ben chiara la delimitazione dei settori cui esse afferiscono, tendendo e rendere omnicomprensiva la classificazione dei sistemi e dei materiali tecnologici essenziali per la difesa. 5.2. La fase transitoria. 5.2.1. L’art. 1, comma 8, decreto legge n. 21/2012 e l’art. 3, DPCM n. 253 del 2012 in materia di individuazione delle attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale. Gli artt. 1, comma 8 e 2, comma 9, decreto legge n. 21/2012, prevedono (53) Così Relazione illustrativa dello schema di DPCM, cit. Cfr., sul punto, anche Cons. Stato, Parere n. 7762/2012, cit. (54) Cons. Stato, Parere n. 7762/2012, cit. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 175 che sino all’adozione del regolamento ivi indicato, le competenze inerenti le proposte per l’esercizio dei poteri speciali e le attività procedurali conseguenti siano attribuite al Ministero dell’economia e delle finanze per le società da esso partecipate, ovvero, per le altre società, al Ministero della difesa o al Ministero dell’interno (secondo i rispettivi ambiti di competenza), per quanto riguarda il comparto della difesa e della sicurezza, ovvero al Ministero dello sviluppo economico o al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti (sempre secondo i rispettivi ambiti di competenza) (55). Più in particolare, le disposizioni attuative delle norme introdotte all’art. 1 nonché quelle di cui all’art. 2 sono affidate ad un regolamento, che dovrà adottarsi ai sensi dell’art. 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, previo parere delle Commissioni parlamentari competenti, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro degli affari esteri, il Ministro dell’interno, il Ministro della difesa e il Ministro dello sviluppo economico (per l’ipotesi di cui all’art. 1), mentre su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro degli affari esteri, il Ministro dell’interno, il Ministro dello sviluppo economico e il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, sentite le Autorità indipendenti di settore, ove esistenti (per l’ipotesi di cui all’art. 2). Le disposizioni di attuazione per l’esercizio dei poteri speciali, tanto nel comparto della difesa e sicurezza nazionale (art. 1), quanto nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni (art. 2) sono dunque affidate alla fonte regolamentare (art. 17, l. 400/88). Tuttavia, in entrambe le disposizioni sono contenute disposizioni transitorie, volte a regolare l’esercizio dei poteri speciali nelle more dell’emanazione del previsto regolamento. In particolare, l’art. 1, comma 8, ultimo periodo, stabilisce che “Fino all’adozione del medesimo regolamento, le competenze inerenti alle proposte per l’esercizio dei poteri speciali, di cui al comma 1, e le attività conseguenti, di cui ai commi 4 e 5, sono attribuite al Ministero dell’economia e delle finanze per le società da esso partecipate, ovvero, per le altre società, al Ministero della difesa o al Ministero dell’interno, secondo i rispettivi ambiti di competenza”. Nelle more dell’emanazione del regolamento de quo, dunque, il legislatore attribuisce le competenze inerenti alle proposte per l’esercizio dei poteri speciali nelle ipotesi di cui all’art. 1 a diversi Ministeri, utilizzando diverse tecniche (o criteri) di distribuzione della “competenza”. Infatti, mentre per il Ministero dell’economia le suddette competenze vengono individuate in positivo (società partecipate dal medesimo Ministero), le competenze del Ministero della difesa e del Ministero dell’interno vengono individuate in negativo e in via residuale (“per le altre società”). Nell’ambito di questo gruppo residuale di società, poi, (55) Sui diversi aspetti relativi alla fase transitoria si rinvia alle più ampie considerazioni svolte infra. 176 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 il legislatore specifica che il Ministero della difesa e il Ministero dell’interno agiscono “secondo i rispettivi ambiti di competenza”. Inoltre, l’ambito di competenza del Ministero dell’economia può qualificarsi come verticale, in quanto riguarda le società da esso partecipate, a prescindere dal fatto che tali società operino nel settore della difesa (con conseguente competenza del Ministero della difesa) o la cui attività rientri nell’ambito di competenza del Ministero dell’interno. Il legislatore qui è chiaro: per tutte le società partecipate dal Ministero dell’economia, le competenze inerenti alle proposte per l’esercizio dei poteri speciali, di cui al comma 1, sono attribuite a tale Ministero e solo ad esso. L’ambito di competenza residuale degli altri Ministeri (difesa e interno) può essere qualificato, invece, come orizzontale, in quanto si estende, per così dire, in latitudine, e non riguarda un limitato, ancorché globale, ambito di applicazione soggettivo ovvero per materia o settore (come ad esempio le società partecipate, per la fattispecie che qui ci occupa) (56). Con particolare riguardo al comparto della difesa, il Ministero della difesa ha, nell’ambito della sua competenza, emanato un DPCM (n. 253/2012), il cui art. 3 detta una previsione volta a dare attuazione alla norma transitoria di cui all’art. 1, comma 8 del decreto n. 21/2012 stabilendo che, nelle more dell’emanazione del regolamento di attuazione delle disposizioni di cui al medesimo comma 8, le notifiche e le informazioni di cui ai commi 4 e 5 del citato articolo 1 debbono essere rese al Ministero della Difesa - Segretario Generale e Direttore nazionale degli armamenti. È chiaro che la previsione contenuta nell’art. 3 del DPCM non sostituisce l’emanando regolamento previsto all’art. 1, comma 8. La disciplina del DPCM è finalizzata a dare attuazione all’art. 1, comma 1, del decreto legge n. 21/2012, e riteniamo che il Ministero abbia colto l’occasione dell’individuazione delle attività di rilevanza strategica per ribadire/ratificare la portata di quanto già prevede l’art. 1, comma 8, del decreto legge n. 21, tant’è che, come si vedrà anche infra, il Consiglio di Stato in sede consultiva aveva proposto l’espunzione di tale norma dal corpus del DPCM in questione, proprio per il suo carattere ripetitivo della normativa primaria. Da ciò consegue che, una volta che verrà emanato il regolamento previsto all’art. 1, comma 8, le competenze inerenti alle proposte per l’esercizio dei poteri speciali e le attività conseguenti (nei ter- (56) Previsioni simili sono contenute nell’art. 2, comma 9, il quale prevede che nelle more dell’emanazione del regolamento, le attività di cui all’art. 2 “sono attribuite al Ministero dell’economia e delle finanze per le società da esso partecipate, ovvero, per le altre società, al Ministero dello sviluppo economico o al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, secondo i rispettivi ambiti di competenza”. È evidente che, mentre resta ferma la competenza verticale del Ministero dell’economia per le società da esso partecipate, in analogia con quanto accade nel disposto di cui all’art. 1, comma 8, la competenza orizzontale relativa alle altre società è attribuita ai Ministeri competenti nei settori in cui la normativa dei poteri speciali di cui all’art. 2 è destinata a trovare applicazione, vale a dire trasporti, energia e comunicazioni. È chiaro, dunque, che in questi settori la regolazione transitoria di cui all’art. 2, comma 9, è attribuita ai Ministeri dello sviluppo economico e a quello delle infrastrutture e dei trasporti, Ministeri competenti nei settori de quibus. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 177 mini di cui al comma 8 in esame) saranno regolate esclusivamente dal regolamento, essendo chiara la natura transitoria della norma di cui all’art. 8 (57). Il secondo comma del DPCM n. 253, in questione, detta un’ulteriore norma transitoria, parallela a quella di cui al comma 1, per l’ipotesi in cui le attività individuate dal presente decreto siano riferibili a società partecipate dal Ministero dell’economia e delle finanze, prescrivendo che in tal caso le stesse notifiche e informazioni debbono essere comunicate al citato Ministero, in quanto competente - in virtù dell’art. 1, comma 8, decreto legge n. 21 - a proporre l’esercizio dei poteri speciali, pur nelle more dell’emanando regolamento. Il Consiglio di Stato, nel Parere reso sullo schema di DPCM in questione (58), aveva proposto, come anticipato, di espungere l’art. 3 dello stesso schema di Decreto, in quanto “ripetitivo di disposizioni già compiutamente espresse nella norma primaria di riferimento”. Tuttavia, nella versione definitiva approvata e pubblicata in Gazzetta Ufficiale detto art. 3 non risulta essere stato eliminato, cosicché esso costituisce norma vigente. Come anticipato, dunque, nelle more dell’adozione del regolamento di attuazione ex art. 1, comma 8, decreto legge n. 21, le competenze inerenti le proposte per l’esercizio dei poteri speciali sono attribuite ai Ministeri competenti. Con particolare riferimento alle competenze del Ministero della difesa, i poteri speciali si esplicano nei confronti delle società operanti nei settori strategici del sistema di difesa e sicurezza nazionale. Dal combinato disposto degli artt. 1, comma 8 del decreto legge n. 21 e 3 del DPCM si evince che le società operanti nei settori strategici del sistema di difesa e sicurezza nazionale, non partecipate dal MEF, devono notificare, come anticipato, al Ministero della Difesa (Segretariato Generale) l’acquisizione trasmettendo tutti gli atti necessari per una completa valutazione del progetto di acquisto. Per le società partecipate dal MEF, invece, la valutazione degli atti, di competenza di quest’ultimo, deve essere condotta in coordinazione con il Ministero della Difesa (Segretariato Generale). Oltre all’esercizio dei poteri di veto e opposizione, di difficile applicazione, il Ministero può come sopra esposto, imporre condizioni alle società operanti nei settori strategici del sistema di difesa e sicurezza nazionale. Una delle problematiche di maggiore interesse posta dalla nuova normativa attiene alle possibili condizioni prescrittive che il Governo potrebbe imporre alle società operanti nei settori in questione, e all’individuazione di un modello organizzativo/figura soggettiva che permetta di verificare il rispetto (57) Sembra opportuno precisare che la parte prevalente (artt. 1 e 2) del DPCM, nella parte in cui, da un lato, individua le attività di rilevanza strategica e delle attività strategiche chiave nel settore della difesa e della sicurezza nazionale e, dall’altro, regola le operazioni infragruppo escluse dalla disciplina dei poteri speciali, non hanno carattere transitorio, giacché sono disposizioni emanate per dare attuazione - non in via transitoria, ma definitiva - all’art. 1, comma 1, decreto legge n. 21. (58) Cons. Stato, Parere n. 7762/2012, cit. 178 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 degli obblighi assunti dalle suddette società (59). A tal riguardo si ritiene che un primo tipo di condizioni che potrebbero essere imposte alle società dovrebbe essere finalizzato al mantenimento delle risorse strategiche. In particolare, sarebbe opportuno prevedere un obbligo di fornire qualsivoglia informazione che possa incidere sull’assetto proprietario della società, ivi compresi accordi con altre società italiane o estere. Sarebbe necessario, altresì, che la società fosse tenuta al mantenimento della localizzazione e del controllo in Italia delle attività di rilevanza strategica. Tale obbligo dovrebbe includere informazioni, beni materiali e immateriali, relative ad attività di ricerca e sviluppo nelle attività di rilevanza strategica. L’obbligo di localizzazione in Italia dovrebbe essere esteso anche alle competenze e conoscenze necessarie per realizzare e sviluppare dette attività. Non sembra, invece, corretto estendere l’obbligo de quo anche alle attività realizzate con fondi interni (ad esempio, del Ministero della difesa o altri ministeri o centri di ricerca nazionali), in quanto il decreto legge n. 21/2012 prevede che i poteri speciali siano esercitati in ordine alle attività di rilevanza strategica, a prescindere dal soggetto che le finanzia. Inoltre, per evitare che soggetti terzi o comunque chiunque detenga il potere di influenzare le decisioni della società che svolge attività di rilevanza strategica, il Ministero della difesa e/o dell’interno dovrebbe essere posto in condizione di effettuare, in caso di trasferimento di diritti reali di utilizzo dei relativi beni materiali e immateriali e altre operazioni simili, un controllo pubblico che ne valuti la compatibilità con l’esercizio delle attività connesse alla sicurezza nazionale (recte: attività di rilevanza strategica). Un controllo simile è operato nel trasporto aereo, nel vigente ordinamento giuridico, in materia di trasferimento di bande orarie, allorché il legislatore (comunitario) impone ai vettori aerei di notificare ad un soggetto di rilevanza pubblicistica (il c.d. coordinatore) i trasferimenti o gli scambi di slot (art. 8 bis, comma 2, Regolamento CE 95/93). Il coordinatore ha il potere di verificare che siffatte operazioni non siano incompatibili con l’interesse pubblico (e con i parametri dettati dal legislatore nella normativa settoriale). Nel caso in cui sussista tale compatibilità, il coordinatore “conferma” i trasferimenti o gli scambi. In caso contrario rifiuta di confermare e tali operazioni non produrranno alcun effetto sul piano giuridico. All’atto della conferma del coordinatore si può attribuire la natura giuridica di autorizzazione, vale a dire un provvedimento amministrativo implicante un controllo di legittimità e opportunità dell’operazione economica oggetto del controllo pubblico operato dal coordinatore. Si tratta di un controllo pubblico che interviene in un momento successivo a quello in cui i vettori aerei pongono (59) Al fine di risolvere possibili conflitti in ordine al corretto adempimento degli obblighi assunti dalle suddette società, si potrebbe prevedere un Tavolo di consultazione a scopo deflattivo, finalizzato ad individuare una soluzione bonaria in sede stragiudiziale, onde evitare i rischi e i costi di un contenzioso. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 179 in essere l’atto di scambio o trasferimento delle bande orarie, controllo che assurge a condizione sospensiva dell’efficacia dell’atto stesso. A differenza del controllo che il coordinatore esercita in materia di bande orarie, il controllo pubblico esercitato nell’ambito della attività di rilevanza strategica dovrebbe essere configurato come preventivo, configurandosi così come condizione di validità dell’atto oggetto di controllo e non come condizione di efficacia (condicio juris) dell’atto stesso. Tale rilevanza del vizio sarebbe giustificata dalla delicatezza e strategicità del settore in cui è chiamato ad essere esercitato il controllo pubblico in questione. Un secondo gruppo di condizioni da imporre alle società operanti nei settori strategici del sistema di difesa e sicurezza nazionale dovrebbe essere preordinato alla protezione delle informazioni. In questa prospettiva sarebbe opportuno imporre uno specifico obbligo di gestione operativa delle attività di rilevanza strategica da parte di personale in possesso di specifica qualificazione, da individuarsi a cura del Ministero della difesa e/o dell’interno. Inoltre, sarebbe necessario limitare l’accesso alle informazioni e in ogni caso subordinare la divulgazione a terzi di dette informazioni ad un’autorizzazione scritta del Ministero della difesa e/o dell’interno. Qualora le informazioni siano in possesso di pubbliche amministrazioni, la tutela delle informazioni dovrebbe essere resa compatibile anche con la normativa in materia di riuso di dati pubblici, di cui al d.lgs. n. 36 del 2006 recante attuazione della direttiva 2003/98/CE relativa al riutilizzo di documenti nel settore pubblico (60). Un terzo gruppo di condizioni dovrebbe essere finalizzato alla verifica del rispetto degli obblighi assunti. Più in particolare, sarebbe opportuno imporre alle società la nomina di una figura soggettiva, responsabile non solo del controllo preventivo nell’ambito delle attività di controllo pubblico del Ministero della difesa e/o dell’interno, con riguardo alle operazioni che incidono (nella misura sopra rilevata) sull’assetto proprietario della società, ma anche nell’ambito di un controllo contestuale e successivo dell’attività delle suddette società. Tale responsabile potrebbe essere inquadrato sulla falsariga delle figure soggettive dell’accountable manager o del post holder, rinvenibili nella legislazione nazionale, comunitaria e internazionale in materia di trasporto aereo. 5.2.2. Le figure dell’accountable manager e del post holder nella vigente normativa nazionale. Cenni di diritto comunitario e internazionale. Le figure soggettive del post holder e accountable manager sono attualmente utilizzate nel settore del trasporto aereo, nell’ambito, ad esempio, della (60) In dottrina, sul riutilizzo dei dati pubblici v. AA.VV. (a cura di B. Ponti), Il regime dei dati pubblici: esperienze europee e ordinamento nazionale, Rimini, 2008. In materia di riuso di dati pubblici v., altresì, il Codice dell’amministrazione digitale (d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, modificato dal d.lgs. 30 dicembre 2010, n. 235). 180 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 certificazione aeroportuale, nonché con riferimento alla certificazione degli esercenti di trasporto aereo. Siffatte figure sono diffuse anche a livello comunitario (EASA) e a livello internazionale (ICAO). Sul piano nazionale, il post holder e l’accountable manager sono espressamente previste e regolate nella normativa ENAC (61). Con riferimento alla certificazione aeroportuale, la Circolare ENAC APT- 16 prevede che il gestore aeroportuale debba dotarsi di una struttura organizzativa, di personale, di mezzi e procedure che, tenuto conto della entità delle operazioni e delle attività connesse alla gestione dell’aeroporto, siano adeguati ad assicurare la conformità dell’aeroporto ai requisiti del Regolamento e la sicurezza e la regolarità delle operazioni. Tale Circolare prevede che nell’ambito della struttura organizzativa devono essere individuate alcune figure responsabili, ritenute critiche ai fini della certificazione che assicurano la conformità dell’aeroporto e della sua gestione ai requisiti regolamentari. In tali figure, identificate nel Regolamento con il nome di post holders, sono allocate le responsabilità del gestore ai fini della certificazione; del corretto esercizio di queste responsabilità danno dimostrazione all’ENAC durante l’attività di sorveglianza svolta dall’ENAC. Le funzioni dei post holders devono essere sempre e comunque attribuite dal gestore che, in relazione alle proprie specifiche esigenze aziendali, può proporre eventuali adeguamenti, ove ritenuti necessari. L’ENAC esprime sulla proposta un giudizio di accettabilità sulla base di una valutazione di congruenza sotto il profilo della rispondenza alle funzioni ed ai compiti previsti dal Regolamento. Un’altra figura soggettiva prevista dalla medesima Circolare APT-16 è l’accountable manager, da individuare nell’ambito dei vertici aziendali, con l’autorità e l’autonomia per provvedere alle risorse umane e finanziarie necessarie ad assicurare che tutte le attività siano condotte in sicurezza, secondo le previsioni del regolamento e secondo qualsiasi altra condizione definita dal gestore stesso. L’accountable manager è responsabile della certificazione ed è il garante, attraverso l’organizzazione stabilita, che il gestore operi in conformità con le norme e le leggi applicabili (62). Per quanto riguarda le modalità di scelta dei post holder e degli accountable manager, la Circolare prevede che tali figure soggettive vengano scelte (61) ENAC, Regolamento per la Costruzione e l’Esercizio degli Aeroporti, Edizione 2 del 21 ottobre 2003, come successivamente emendato, apitolo 1-3; ENAC, Circolare APT-16, del 15 marzo 2004, recante La certificazione dell’aeroporto; ENAC, Circolare OPV-09A, del 10 gennaio 2007, recante Certificazione degli esercenti di trasporto aereo: definizione delle figure responsabili e criteri di accettazione. (62) L’accountable manager garantisce che il Manuale dell’Aeroporto rifletta l’organizzazione del gestore e sottopone all’ENAC le domande di rilascio, rinnovo, modifica o cancellazione del certificato dell’aeroporto. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 181 dall’ENAC sulla base di un curriculum vitae e di un colloquio (63). Le figure dell’accountable manager e del post holder trovano ampio riscontro anche nell’ambito delle certificazioni degli esercenti di trasporto aereo. La Circolare ENAC OPV-09A configura l’accountable manager come “il responsabile della certificazione emessa dall’ENAC e costituisce il riferimento dell’Autorità per tutti gli aspetti che esulano da problematiche tecniche ma che coinvolgono più settori dell’impresa o che richiedono l’impegno di risorse finanziarie” (art. 3, comma 1). In tale contesto, la figura dell’accountable manager svolge specifiche funzioni: in particolare, esso firma le domande di rilascio, rinnovo e modifica del COA e del certificato CAMO (64). Con riguardo alla nomina, la Circolare stabilisce che l’accountable manager deve essere accettabile da parte dell’ENAC (65). Inoltre, argomentando a contrario dall’art. 3, comma 1, della Circolare in esame, si desume che di regola l’accountable manager si identifichi con il rappresentante legale dell’impresa. Si prevede, infatti, espressamente che solo qualora l’accountable manager non coincida con il rappresentante legale dell’impresa, “è necessario che egli sia legittimamente nominato dalla proprietà”. Per quanto riguarda le forme della nomina, la Circolare richiede che essa avvenga mediante procura scritta della proprietà o delibera del consiglio di amministrazione, nella quale devono essere specificate le aree di responsabilità, i poteri di spesa e i poteri organizzativi. Affinché possa essere nominato, l’operatore deve dimostrare all’ENAC che l’accountable manager da essa designato possegga: 1) il ruolo, i poteri e le responsabilità ad esso assegnate nell’ambito dell’organizzazione; 2) l’autorità organizzativa e l’autonomia finanziaria (completa sull’impresa o su quella parte di essa interessata dalla certificazione) per provvedere alle risorse umane, strumentali e finanziarie necessarie ad assicurare che tutte le attività dell’impresa possano essere condotte in sicurezza secondo le previsioni della applicabile normativa; nonché 3) l’appropriato livello di conoscenza basica della regolamentazione di riferimento e di comprensione delle responsabilità correlate alla sicurezza delle operazioni associate al ruolo rivestito. La Circolare OPV-09A stabilisce che i primi due aspetti possono essere documentati per la successiva valutazione ENAC attraverso la presentazione del provvedimento di nomina del consiglio di amministrazione o della struttura/fi- (63) La Circolare APT-16 chiarisce che la valutazione è finalizzata ad accertare che le responsabilità assegnate possono essere effettivamente assolte, sia in termini di competenze acquisite e di esperienza, sia in termini di potestà, intesa come autonomia di scelta e poteri assegnati a quella funzione organizzativa da parte dei vertici aziendali. (64) Tale funzione implica una responsabilità complessiva dell’impresa, inclusa quella finanziaria. (65) L’accettabilità dell’accountable manager è formalizzata all’operatore attraverso il rilascio del COA. 182 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 gura avente analoghi poteri, mentre l’ultimo può essere documentato per la successiva valutazione ENAC con la presentazione delle evidenze sulla esperienza, sulle conoscenze e sulle qualificazioni acquisite dal designato. Tale aspetto può essere valutato anche attraverso un colloquio con il designato qualora le evidenze fornite dall’organizzazione siano giudicate dall’ENAC non esaustive. A differenza di altre figure responsabili, quali post-holder e senior person, all’accountable manager non sono affidati compiti e responsabilità operative di gestione e supervisione diretta di specifiche aree di attività dell’impresa. Infine, giova evidenziare che a livello internazionale, tali figure soggettive e modelli organizzativi sono incoraggiati dall’ICAO (66) e trovano applicazione in altri ordinamenti dell’Unione europea, nonché in sede comunitaria (67). 5.2.3. Riflessioni de iure condendo. Le figure soggettive di post holder e accountable manager potrebbero costituire un modello organizzativo da applicare nell’ambito delle società operanti nei settori strategici del sistema di difesa e sicurezza nazionale al fine di verificare il rispetto degli obblighi assunti dalle predette società. Più in particolare, sarebbe opportuno imporre alle società la nomina di una figura soggettiva, responsabile non solo delle attività di controllo pubblico preventivo del Ministero della difesa e/o dell’interno, con riguardo alle operazioni che incidono (nella misura sopra rilevata) sull’assetto proprietario della società, ma anche del controllo successivo dell’attività delle suddette società. Analogamente a quanto accade nell’ambito della certificazione aeroportuale, anche nel settore della difesa e sicurezza nazionale, le società dovrebbero dotarsi di una struttura organizzativa adeguata ad assicurare il rispetto degli obblighi assunti. Tale figura potrebbe essere un accountable manager e ad esso dovrebbe essere attribuito, in primo luogo, l’incarico di monitorare l’effettivo rispetto degli obblighi assunti. Al fine di adempiere a tale compito, la figura soggettiva in questione dovrebbe interfacciarsi con l’autorità regolatoria, vale a dire il Ministero della difesa e/o dell’interno, anche fornendo informazioni necessarie per verificare il rispetto degli obblighi assunti. Inoltre, si potrebbe prevedere che l’accountable manager fornisca una relazione periodica al Ministero del- (66) ICAO, Safety Management Manual (SMM), Montreal, 2009, in particolare Chapters 3, 6 e 8. V., inoltre, ENAC, Circolare APT-16, cit. (67) Si allude, in particolare, alla normativa EASA, Part 145. La figura dell’accountable manager è disciplinata, altresì, nell’ambito della normativa JAR-OPS 1,3, di cui all’Allegato III, Regolamento (CEE) n. 3922/91. Tale normativa si basa su un insieme di regole armonizzate adottate dalle autorità aeronautiche comuni (JAA), denominate “codici comuni di navigabilità - trasporto aereo commerciale (velivoli)”. Il Regolamento (CE) n. 8/2008 della Commissione ha aggiornato l’Allegato III per tenere conto delle modifiche apportate alle JAR-OPS dal 1 gennaio 2005 (modifiche da 9 a 12), prima della data di applicazione di detto Allegato (16 luglio 2008). L’Allegato III in questione è stato successivamente sostituito dall’Allegato al Regolamento (CE) n. 859/2008 della Commissione del 20 agosto 2008. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 183 l’interno e/o della difesa in merito all’effettivo rispetto degli obblighi assunti. L’accountable manager dovrebbe, poi, continuamente vigilare sulle attività della società, attraverso una collaborazione costante con l’Amministrazione regolatoria di riferimento, fornendo con congruo anticipo informazioni - sulla base di controlli preventivi sugli atti delle predette società per quanto riguarda le attività di rilevanza strategica - relativamente ad operazioni che potrebbero risultare pregiudizievoli per la sicurezza e la difesa nazionale. Oltre a tale forma di controllo preventivo, l’accountable manager dovrebbe effettuare un controllo successivo su atti ed attività delle società in questione, informando tempestivamente il Ministero della difesa e/o dell’interno in ordine a qualsiasi violazione degli obblighi assunti nel campo delle attività di rilevanza strategica. Analogamente a quanto accade ad esempio, nell’ambito delle certificazioni aeroportuali, la nomina della figura soggettiva in esame - di durata triennale e non rinnovabile - deve essere effettuata dalla società, attraverso una preventiva valutazione da parte dell’Autorità regolatoria, nel nostro caso il Ministero della difesa e/o dell’interno in ragione della funzione di garanzia dell’operato delle società e della capacità da parte di queste ultime di rispettare gli impegni assunti. Il Ministero sarebbe, dunque, chiamato ad esprimere un giudizio di accettabilità sulla proposta avanzata dalla società. Si è visto sopra come l’ENAC possa scegliere la figura soggettiva sulla base di un curriculum vitae e di un colloquio. Detta modalità di scelta potrebbe essere adottata anche per quanto riguarda il settore della difesa e sicurezza nazionale. In alternativa, si potrebbe pensare alla istituzione di un apposito albo, formato dal Ministro della difesa e/o dell’interno, e nel quale verrebbero incluse personalità con comprovata esperienza nel settore, ad esempio, della difesa. È evidente come in tali casi la valutazione o giudizio di accettabilità della nomina verrebbe ad essere effettuato in via preliminare dall’Amministrazione pubblica, sicché le società, obbligate a nominare un accountable manager, attingerebbero direttamente a tale elenco o albo. Non è, peraltro, da escludere un altro modus procedendi, che ricalchi le modalità di nomina dell’accountable manager nell’ambito delle certificazioni degli esercenti di trasporto aereo, laddove vige la regola che detta figura soggettiva si identifica con il rappresentante legale dell’impresa e solo in via residuale, cioè in mancanza di tale coincidenza, è previsto che egli sia nominato dalla proprietà. In ogni caso, l’accountable manager destinato ad operare nel settore della difesa e sicurezza nazionale rappresenterebbe il riferimento dell’Autorità regolatoria per tutti gli aspetti che riguardano la verifica degli obblighi assunti dalle società. Si aggiunga che la figura soggettiva da nominare nell’ambito delle società operanti nel settore della difesa e sicurezza nazionale può trovare un ulteriore fondamento giuridico nel decreto legge 30 dicembre 2009, n. 195 (convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2010, n. 26), il cui art. 16 - che reca 184 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 “Gestione della flotta aerea del Dipartimento della protezione civile” - stabilisce che “Per assicurare la permanenza di adeguati livelli di ordinata gestione e piena funzionalità della flotta aerea del Dipartimento della protezione civile nel quadro delle attività di contrasto degli incendi boschivi, e fino alla scadenza del vigente contratto di gestione degli aeromobili antincendio, il Dipartimento della protezione civile è autorizzato ad incaricare un dirigente pubblico responsabile con compiti di diretta e puntuale verifica dei processi di gestione del servizio prestato con particolare riguardo alla congruità, alla efficienza e alla efficacia delle prestazioni rese, anche in relazione alla manutenzione degli aeromobili ed alla formazione del personale”. Entrambe le figure devono svolgere funzioni analoghe, consistenti nella verifica delle attività poste in essere dal soggetto controllato. L’art. 16, decreto legge n. 195 specifica, altresì, che “Ove l'incarico di cui al presente comma sia conferito a dipendente pubblico non dipendente dal Dipartimento della protezione civile, il medesimo è collocato in posizione di fuori ruolo per tutto il periodo di durata dell'incarico” (68). 6. Un recente caso. La proposta di acquisto del settore dei sistemi di propulsione aerospaziali e navali del Gruppo AVIO. La nuova normativa in materia di golden power di cui al d.l. n. 21/2012 ha trovato recentemente applicazione in una importante operazione di investimento nel settore dei sistemi di propulsione aerospaziali e navali. Si tratta dell’operazione di acquisto del settore del Gruppo AVIO da parte della società General Electric Aviation. In considerazione del fatto che le attività sviluppate dal Gruppo AVIO sono di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale, General Electric ha dovuto assumere impegni formali, alla luce dell’art. 1, d.l. n. 21/2012. In particolare, il Governo italiano ha dettato specifiche indicazioni e condizioni affinché la proposta di acquisto da parte di GE potesse soddisfare adeguatamente i principi e le condizioni contenute nel d.l. n. 21/2012. Detti impegni - che il Governo non ha reso noti nel dettaglio - sono stati proposti da General Electric al Ministro della difesa, che ha successivamente accettato gli stessi ed ha, dunque, assentito a procedere al completamento dell’operazione di investimento in questione. In una nota diffusa dalla Presidenza del Consiglio si legge come con tali impegni formali assunti da GE, il Governo si sia assicurato che il nuovo acquirente, GE, assumesse in via preventiva all’acquisto una serie di impegni che consentano la tutela delle attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale sviluppate da AVIO nel settore dei motori aeronautici. Tali forme di cautela - si osserva inoltre - dimostrano come il Governo (68) Nel medesimo comma 1 si fissano anche gli oneri derivanti dall’applicazione del presente comma, che sono pari a 250.000 euro annui a decorrere dall’anno 2010. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 185 italiano abbia seguito con attenzione questa operazione al fine di salvaguardare le capacità tecnologiche e industriali italiane verso la direzione indicata dal legislatore nel d.l. n. 21/2012 (69). 7. Conclusioni. Con il decreto legge 15 marzo 2012, n. 21 il legislatore italiano mira, da un lato, a perseguire gli obiettivi della salvaguardia degli assetti proprietari delle società operanti in settori reputati strategici e d’interesse nazionale, attraverso l’introduzione di poteri speciali di governance societaria e di strumenti di difesa dalle scalate ostili, e, dall’altro lato, a rendere compatibile con il diritto europeo la disciplina nazionale dei poteri speciali del Governo, in passato oggetto di censure sollevate dalla Commissione europea e di una pronuncia di condanna da parte della Corte di Giustizia. Come negli altri provvedimenti legislativi in materia di poteri speciali adottati in passato (in particolare, il d.l. n. 332/1994), anche nel più recente il legislatore interno si è trovato di fronte alla necessità di operare un bilanciamento tra contrapposti interessi: da un lato, il diritto di stabilimento e di libera circolazione dei capitali - che rappresentano libertà fondamentali del Trattato - e, dall’altro, gli interessi della difesa e della sicurezza nazionale. Al Governo vengono attribuiti poteri speciali nei comparti della sicurezza e della difesa, il cui esercizio è subordinato alla sussistenza di una minaccia effettiva di grave pregiudizio per gli interessi de quibus. Al fine di salvaguardare detti interessi, il Governo è autorizzato, ex lege, ad imporre delle restrizioni al diritto di stabilimento e alla libera circolazione dei capitali, condizionando gli assetti proprietari delle società operanti in settori reputati strategici e d’interesse nazionale. Tali restrizioni possono avere diversa natura, potendo consistere (in estrema sintesi): nel diritto di imporre specifiche condizioni, nell’esercizio del veto all’adozione di delibere dell’assemblea o degli organi di amministrazione di un’impresa, nell’opposizione all’acquisto, a qualsiasi titolo, di partecipazioni in un’impresa che svolge attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale da parte di un soggetto diverso dallo Stato italiano, enti pubblici italiani o soggetti da questi controllati. Si consideri, inoltre, che una volta imposte agli investitori determinate condizioni, è auspicabile che venga individuata e/o istituita una figura soggettiva ad hoc che effettui un controllo costante sul rispetto degli obblighi assunti. Riteniamo che le figure del post holder e dell’accountable manager possano costituire un modello organizzativo da applicare nell’ambito delle società operanti nei settori strategici del sistema di difesa e sicurezza nazionale al fine di verificare il rispetto degli obblighi assunti dalle predette società. (69) http://www.governo.it/Presidenza/Comunicati/dettaglio.asp?d=70147. 186 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 Più nello specifico, si potrebbe immaginare l’imposizione, alle società in questione, della nomina di un accountable manager, responsabile non solo delle attività di controllo pubblico preventivo del Ministero della difesa e/o dell’interno, ma anche del controllo successivo dell’attività delle suddette società, analogamente a quanto accade nell’ambito della certificazione aeroportuale, anche nel settore della difesa e sicurezza nazionale. In ogni caso, in base alle pronunce della Corte di Giustizia e agli interventi della Commissione europea, le restrizioni che il Governo può adottare devono rispettare il principio di proporzionalità e non devono poggiare su considerazioni di ordine economico. Solo così è (recte: può essere) assicurato il corretto bilanciamento tra i diversi interessi in gioco. Tale bilanciamento sembra essere rispettato nella recente normativa in materia di golden power e negli atti che la implementano (70), e ha trovato una primissima applicazione anche nella prassi, nell’ambito dell’operazione relativa all’acquisto del settore dei sistemi di propulsione aerospaziali e navali del Gruppo AVIO, recentemente assentita dal Governo italiano (in particolare, dal Ministero della difesa). (70) Come rileva la dottrina (E. FRENI, Golden share: raggiunta la compatibilità con l’ordinamento comunitario?, in Giorn. dir. amm., n. 1 del 2013, pp. 25 ss., in particolare p. 32), per esprimere un giudizio sulla piena compatibilità della nuova normativa in materia di poteri speciali con l’ordinamento comunitario bisognerà aspettare l’emanazione dei regolamenti attuativi. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 187 Durata ragionevole del processo e novità introdotte dal “decreto crescita” n. 83/12 Wally Ferrante* Premessa Per l’utente della giustizia, oltre al problema dei costi per l’accesso alla giustizia, il cui vertiginoso aumento è in larga parte oggetto del presente convegno, si pone altresì il problema dei tempi della giustizia. È nota l’affermazione del Chiovenda secondo la quale “la necessità di servirsi del processo per ottenere ragione non deve tornare a danno di chi ha ragione”. I tempi eccessivi del processo costituiscono quindi già di per sé una denegata giustizia e purtroppo l’Italia ha il triste primato che la rende fanalino di coda per le lungaggini della giustizia e per le condanne ottenute dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione dell’art. 6 par. 1 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Come è noto, tale norma, recante “diritto ad un processo equo” prevede che “ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata imparzialmente, pubblicamente e in un tempo ragionevole …”. Dal canto suo, l’art. 111 Cost., come novellato dalla legge costituzionale n. 2 del 1999, stabilisce che “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”. La legge 24 marzo 2001, n. 89 (c.d. Legge Pinto) ha introdotto nel nostro ordinamento il diritto all’equa riparazione per chi abbia subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto della violazione dell’art. 6, par. 1 della CEDU. Tale normativa ha però condotto al risultato di ingolfare ulteriormente gli uffici giudiziari comportando, quale effetto domino, ulteriori ritardi nei tempi della giustizia. Basti pensare che, nell’anno 2012, a fronte di 150.000 affari nuovi impiantati a livello nazionale presso l’Avvocatura dello Stato, ben 25.000 affari hanno riguardato la legge Pinto con un’incidenza del 17%, mentre per la sola sede di Roma, sempre nell’anno 2012, a fronte di 47.000 affari nuovi, ne sono arrivati ben 5.500 in materia di legge Pinto, con un’incidenza del 12% . Ciò ha comportato una dilatazione dei tempi per la fissazione di quelle stesse cause volte a rimediare all’eccessiva durata dei processi. Infatti, nel 2013, stanno (*) Avvocato dello Stato. Intervento dell’Autrice al convegno “L’accesso alla giustizia. Un diritto del cittadino tutelato dalla Costituzione”, Roma, Aula Avvocati del Palazzo di Giustizia, 18 febbraio 2013. 188 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 arrivando in Avvocatura notifiche di ricorsi depositati nel 2009 o nel 2010 in cui l’udienza è stata fissata a distanza di 3 o 4 anni. È sorto quindi un nuovo contenzioso, noto come “Pinto su Pinto”, in cui si chiede il ristoro della lunghezza del medesimo processo instaurato per ottenere il diritto all’equa riparazione per violazione dell’art. 6, par. 1 della CEDU, come un cane che si morde la coda. Dopo un primo orientamento della Corte d’appello di Perugia, competente per le cause sorte a Roma, che ha dichiarato tali domande inammissibili, la Corte di cassazione (Cass. n. 6087, 6180 e 6183 del 2012 e da ultimo con la sentenza della sez. VI del 22 gennaio 2013 n. 1520), ha invece ritenuto ammissibili tali domande, ritenendo che il “patema d’animo” che dà diritto al ristoro del danno non patrimoniale è configurabile anche in caso di eccessiva durata del processo avente ad oggetto una richiesta di equa riparazione per irragionevole durata di altro processo. Alla luce di tale orientamento ormai consolidato, l’Avvocatura dello Stato non si costituisce nemmeno più con controricorso nei ricorsi per cassazione avversari avverso i decreti della Corte d’appello di Perugia che continua a dichiarare inammissibili tali domande, per evitare ulteriori condanne alle spese. Il disegno di legge n. 3125 del 2012 Per risolvere il paradossale problema della durata di quegli stessi processi che dovrebbero sanzionare i ritardi della giustizia e per arginare il fenomeno crescente della c.d. Pinto su Pinto, che ha dato luogo al sorgere di un nutrito contenzioso determinando un pesante rallentamento della giustizia in tutte le altre materie e generando un’inflazione di procedimenti e di ritardi a catena in una spirale potenzialmente senza fine, nel mese di maggio dello scorso anno, era stato presentato alle Camere il disegno di legge n. 3125 del 2012. Tale disegno di legge prevedeva, nella sostanza, una fase precontenziosa innanzi alla competente Prefettura-Ufficio Territoriale del Governo destinata ad esaurirsi in quella sede ove non vi fosse contestazione da parte dell’amministrazione o nell’ipotesi in cui, a seguito di contestazione sul quantum, il ricorrente accettasse la determinazione dell’indennizzo proposto dall’amministrazione medesima. Tale meccanismo, che comunque garantiva l’eventuale fase giurisdizionale in caso di mancato accordo sull’an e sul quantum, era volto a sgravare le Corti d’appello, oberate dal contenzioso in parola, nel quale, il più delle volte, non si riscontra una reale contrapposizione di tesi giuridiche, risolvendosi la linea difensiva dell’amministrazione nella presa d’atto del superamento del termine ragionevole del processo. Ad oltre un decennio dall’entrata in vigore della legge n. 89 del 2001, infatti, la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di sciogliere tutti i dubbi interpretativi che erano sorti nell’applicazione della legge, con la conseguenza che le tesi difensive vertenti su questioni giuridiche inizialmente controverse sono state abbandonate ovvero acquisite in via definitiva. In sede di Audizione al Senato, peraltro, l’Avvocato Generale dello Stato, LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 189 pur condividendo gli obiettivi perseguiti dal disegno di legge, aveva messo in luce i possibili dubbi di costituzionalità dello stesso con riferimento agli articoli 24 e 102 della Costituzione. Al riguardo, la giurisprudenza costituzionale ha ritenuto conforme al diritto di difesa e al divieto di istituzione di giudici speciali la previsione di una condizione di procedibilità per l’esperimento di un’azione giurisdizionale che si sostanzi in un tentativo obbligatorio di conciliazione ovvero in una fase amministrativa obbligatoria prodromica rispetto all’eventuale fase giurisdizionale (Cfr. Corte cost. n. 40 del 1993 e n. 93 del 1979 per le cause previdenziali di cui all’art. 443 c.p.c.; Corte cost. n. 73 del 1988 per le controversie in tema di contratti agrari; Corte cost. n. 82 del 1992 per le controversie di lavoro in materia di licenziamenti individuali). Tuttavia, il procedimento amministrativo delineato nel disegno di legge appariva eccessivamente “processualizzato” e tale da poter far ipotizzare l’attribuzione alla Prefettura di un compito giurisdizionale: il contraddittorio con la necessaria partecipazione dell’avvocato, la struttura degli atti parametrata sulle norme del codice di rito, i termini per il deposito della domanda, dei documenti, delle repliche e delle controrepliche, il decreto decisorio, il giudizio di opposizione costruito come una sorta di giudizio d’appello sulla decisione di primo grado. Tali caratteristiche del procedimento potevano indurre a ritenere compromesso non solo il divieto di istituzione di giudici speciali ma anche l’accesso alla giustizia e l’inviolabilità del diritto di difesa, come affermato dalla Corte costituzionale con riferimento all’arbitrato obbligatorio e, recentemente, alla mediazione obbligatoria ex D.lgs. n. 28 del 2010, atteso che la deroga alla giurisdizione statale può fondarsi solo sulla concorde volontà delle parti. Il decreto crescita Molto opportunamente quindi il decreto legge 22 giugno 2012, n. 83 (c.d. decreto crescita) convertito con la legge 7 agosto 2012, n. 134, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’11 agosto 2012, n. 187, all’art. 55, ha introdotto rilevanti disposizioni di modifica alla legge 24 marzo 2001, n. 89 (c.d. Legge Pinto), applicabili ai ricorsi depositati a decorrere dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione, ovvero dall’11 settembre 2012, con l’intento di accelerare il procedimento, eliminando contestualmente quelle criticità che si erano evidenziate con riferimento al citato disegno di legge. A tale proposito, va salutata con favore l’innovazione normativa che ha consentito di evitare costituzioni necessarie ma di mera forma del Ministero della giustizia o del Ministero dell’economia e delle finanze in dette cause, limitandone l’intervento ai rari casi in cui vi sia una effettiva contestazione da sollevare. Per ora il panorama del contenzioso è ancora limitato. Risultano infatti notificati presso l’Avvocatura Generale solo sei decreti presidenziali dall’entrata in vigore della legge, probabilmente per il grosso ritardo nello smaltire le pre- 190 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 cedenti cause pendenti secondo il vecchio rito. Di questi sei decreti, due sono di rigetto della domanda e quattro sono di accoglimento della domanda con la concessione di provvisoria esecuzione e nessuno di questi risulta opposto dall’Avvocatura dello Stato, a dimostrazione del potenziale effetto deflattivo del carico delle Corti d’appello. Per ogni causa infatti viene impegnato un solo giudice anziché tre e comunque la motivazione del decreto ingiuntivo è necessariamente più stringata di quella di un decreto emesso in base al vecchio rito. Principali innovazioni Il decreto crescita apporta radicali modifiche alla c.d. legge Pinto sia in relazione al procedimento, sia in relazione ai presupposti e alla misura dell’indennizzo, recependo in gran parte i principi affermati dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e della Corte di cassazione. Le principali innovazioni riguardano in particolare: a) la fissazione di una durata massima del giudizio e dei vari gradi di giudizio (e di alcuni particolari giudizi: esecutivo e fallimentare) oltre la quale il termine ragionevole del processo deve reputarsi superato nonché, per il processo penale, la determinazione del momento iniziale del computo del termine ragionevole; b) l’individuazione di alcuni casi di esclusione dell’indennizzo; c) la determinazione di un importo minimo e di un importo massimo dell’indennizzo per ciascun anno che eccede il termine ragionevole di durata del processo, tenendo conto di alcuni parametri espressamente indicati; d) la definizione del procedimento sulla falsariga del procedimento per ingiunzione: la domanda si propone con ricorso al presidente della corte d’appello che decide con decreto provvisoriamente esecutivo, avverso il quale può essere proposta opposizione nel termine di trenta giorni. Nell’ambito delle modifiche procedimentali, vanno evidenziate due importanti innovazioni: l’eliminazione della possibilità di chiedere l’indennizzo durante la pendenza del procedimento di cui si assume l’irragionevole durata e l’introduzione dell’onere di produzione degli atti del procedimento presupposto a carico della parte ricorrente. Conclusioni Nel panorama dei provvedimenti normativi in materia di giustizia, caratterizzati per lo più dall’esigenza di “fare cassa”, con l’incremento a dismisura del contributo unificato e la previsione di pesanti sanzioni pecuniarie nei casi di inammissibilità, manifesta infondatezza o, da ultimo, mera infondatezza dell’impugnazione (cfr. art. 13, comma 1 quater D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, aggiunto dall’art. 1, comma 17 , l. 24 dicembre 2012, n. 228 - legge di stabilità 2013) quello in materia di ragionevole durata del processo appare un intervento razionale e idoneo, da un lato, ad assicurare una tempestiva risposta alla domanda di giustizia e, dall’altro, a non distogliere gli uffici giudiziari, ed in particolare le Corti d’appello, dallo smaltimento del pesante carico di arretrato. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 191 Il mobbing: tra tutela delle condizioni di lavoro ed efficienza organizzativa Stefano Bini* Premessa Nella sezione dedicata al “lavoro” del “Rapporto Italia 2013” (1) sul sentiment degli italiani, recentemente presentato dall’Istituto di ricerca EURISPES, emerge un quadro non certo rasserenante; l’indagine, invero, prende in analisi alcuni dei principali elementi di criticità del contesto sociale italiano, tra i quali un ruolo di primaria importanza può essere riconosciuto al “mobbing”, che: «da semplice forma di repressione nei confronti di un lavoratore, si è ormai delineato come problematica complessa». I dati riportati nel richiamato studio si presentano come intrinsecamente allarmanti: il 23,5 % degli occupati – senza particolare distinzione tra soggetti di sesso femminile e soggetti di sesso maschile – affermano di riconoscere i “sintomi” del mobbing e di essere stati, almeno una volta, interessati dal medesimo, dichiarando di aver subìto forme di sopruso o, addirittura, di persecuzione. Fra le classi di età interessate dall’indagine, i giovani risultano i maggiormente colpiti, in una percentuale del 35,5 % di soggetti interessati, con ogni probabilità, in ragione della diffusa precarietà. Di sicuro interesse, inoltre, è il dato relativo alla diffusione delle due forme di mobbing: il c.d. mobbing “verticale”, meglio noto come “bossing”, risulta prevalentemente diffuso (nell’87,6 % dei casi), mentre il c.d. mobbing “orizzontale” si riscontra, “solamente”, nel 39,2 % dei casi. Una interpretazione “consapevole” dei dati enucleati dal rapporto EURISPES presuppone, necessariamente, una preliminare sintetica ricostruzione sistematica del quadro disciplinare di riferimento, tesa a fornire gli strumenti di lettura degli attuali scenari sociali. Introduzione all’inquadramento del fenomeno Il termine “mobbing”, da tempo ormai entrato pienamente nel linguaggio contemporaneo, come dimostrato dalla sua introduzione nei principali vocabolari della lingua italiana, costituisce un neologismo di origine anglofona, la cui traduzione letterale può essere individuata con riferimento all’idea dell’ “accalcarsi intorno, assalire in gruppo”. (*) Dottorando di ricerca in “Diritto ed Impresa” Università LUISS “Guido Carli” di Roma, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. (1) EURISPES, Rapporto Italia 2013, presentato a Roma il 4 febbraio 2013. 192 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 L’espressione, inizialmente ideata ed elaborata in ambito psicologico dal celebre etologo tedesco Konrad Lorenz (2), rievoca concetti quali “prevaricazione”, “persecuzione”, “vessazione” che determinino, conseguentemente, “isolamento”, “esclusione”, “allontanamento” ed “emarginazione”. Come appena anticipato, il primo utilizzo del termine fu in ambito etologico, essendo stato elaborato per definire quel fenomeno, tipico in effetti del comportamento animale, «dell’attacco concentrico e simultaneo di più esseri contro un altro, al fine di isolare quest’ultimo ed allontanarlo dal gruppo, o dal territorio cui appartiene» (3). Nella piena consapevolezza della difficoltà, se non addirittura dell’impossibilità, di identificare una definizione chiara ed univoca di mobbing nell’ordinamento giuridico italiano, è ragionevole inquadrare il fenomeno come una forma di violenza psicologica sul luogo di lavoro. La sempre maggiore attenzione, focalizzata dalla giurisprudenza, tanto di merito quanto di legittimità, attorno al fenomeno in questione, ha determinato la fioritura di una pluralità ed eterogeneità definitoria di tale fattispecie, tanto attuale quanto indeterminata e “sfuggente” nei suoi contorni essenziali. «Per “mobbing” si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente del lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità» (Cass., 10 gennaio 2012, n. 87) (4). La stessa giurisprudenza di merito si è in verità confrontata, nel corso degli anni, con la necessità di sopperire alla lacuna definitoria propria della normativa nazionale, non essendo invero individuabile un’espressa qualificazione del fenomeno, accompagnata da un relativo apparato sanzionatorio (5); un’interessante definizione si rinviene, in particolare, in Trib. Forlì, 15 marzo (2) K. LORENZ, Mobbing and Psychological Terror at workplaces, in Violence and Victims, 1990, vol. 5, n. 2. (3) L. TAMBURRO, Mobbing e cenni di tutela ordinaria e cautelare, in Temi Romana, 2003, n. 2- 3, p. 208. (4) Si veda anche: Cass., 21 maggio 2011, n. 12048, (Pres. Miani Canevari, Est. Filabozzi), in Il Lavoro nella giurisprudenza, 2011, p. 844, e in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2012, con nota di NICOLAGHIRARDI, La fattispecie di mobbing ancora al vaglio della Cassazione, p. 59. Ancora sul punto, si prenda in esame anche l’interessante definizione contenuta in Cass., 26 marzo 2010, n. 7382, (Pres. Roselli, Est. D'Agostino), in Orientamenti della giurisprudenza del lavoro, 2010, p. 388: «Per mobbing deve intendersi una condotta del datore di lavoro nei confronti del dipendente in violazione degli obblighi di cui all'art. 2087 c.c. e consistente in reiterati e prolungati comportamenti ostili, di intenzionale discriminazione e persecuzione psicologica, con mortificazione ed emarginazione del lavoratore, correttamente individuati dal giudice di merito in continui insulti e rimproveri con umiliazione e ridicolizzazione davanti ai colleghi di lavoro, e nella frequente adibizione a lavori più gravosi rispetto a quelli svolti in precedenza». LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 193 2001: il mobbing consiste nel «comportamento reiterato nel tempo da parte di una o più persone, colleghi o superiori della vittima, teso a respingere dal contesto lavorativo il soggetto mobbizzato, che, a causa di tale comportamento subisce conseguenze negative anche di ordine fisico» (6). Il mobbing, inteso nella sua accezione di “fenomeno”, rilevante tanto sotto l’aspetto psicologico, quanto sotto quello sociale e relazionale (sempre limitatamente al contesto lavorativo), non trova un’analoga tipizzazione in termini di “fattispecie”, giuridicamente qualificata: mancando, come detto, una specifica disciplina legislativa, la tutela del lavoratore asseritamente mobbizzato è, pertanto, interamente rimessa all’esito di un’azione giudiziaria, nella quale l’ambito valutativo del giudice assume ampiezza e portata rilevantemente ampie. Dalla eterogeneità di approcci definitori, forniti dalla ricca produzione giurisprudenziale in materia, deriva conseguentemente la difficoltà di elaborare prima ed aggiornare poi un’unitaria definizione del fenomeno, che rappresenti il frutto di una costante opera di sintesi tra i molteplici, e talvolta dissimili, orientamenti giurisprudenziali. Prima ancora che nella sua accezione giuridica, ad ogni buon conto, il mobbing ha precedentemente interessato lo studio di ampi ed eterogenei settori scientifici e disciplinari, tra i quali, in primis, quelli psicologico-comportamentale e sociologico-relazionale. Circa la straordinaria ed intrinseca capacità metaforico-evocativa (7) della parola in questione, non pare possa nutrirsi dubbio alcuno, essendo la potenzialità espressiva del termine in questione spesso identificativa di una insopprimibile e quanto mai primaria istanza di tutela di diritti fondamentali della persona umana, coinvolta in un rapporto di lavoro. Il mobbing può essere pienamente considerato come un fenomeno intrinsecamente caratterizzato da una peculiare dinamicità, essendo i suoi stessi contorni in continua e costante evoluzione. Proprio tale varietà è pertanto da considerare come il principale fattore delle molteplici ed eterogenee tipologie e forme di mobbing che, in concreto, possono riscontrarsi. (5) Con riferimento alla fondamentale funzione di “supplenza” esercitata dalla giurisprudenza, si vedano P. TOSI, Il mobbing: una fattispecie in cerca d’autore, in P. TOSI (a cura di), Il mobbing, Torino, 2004, p. 165; P. TULLINI, Mobbing e rapporto di lavoro. Una fattispecie emergente di danno alla persona, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2000, I, pp. 251 e ss. (6) Trib. Forlì, 15 marzo 2001, in Rivista Critica di Diritto del Lavoro, 2001, p. 411. (7) Circa la natura metaforico-evocativa del fenomeno mobbing, si veda l’interessante riflessione condotta in P. TOSI, Il mobbing: una fattispecie in cerca d’autore, in P. TOSI (a cura di), Il mobbing, Torino, 2004, p. 165-166: «Allo stato [il mobbing] integra dunque una fattispecie aperta, composta da dati sistematicamente esposti alle incertezze della verifica medica o psicologica, pertanto suscettibile di lasciarsi imprigionare in metafore evocative». Prosegue, ancora, l’autore: «Resta, nonostante ogni tentativo di razionalizzazione, il problema delle metafore: notoriamente si affidano a fattori di percezione di tipo essenzialmente emozionale (così come il fenomeno di cui vorrebbero costituire il significante) e quindi hanno una capacità di identificazione della fattispecie soltanto apparente (o illusoria)». 194 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 Sebbene le condotte integranti la fattispecie di mobbing si caratterizzino principalmente per la loro estrema eterogeneità, varietà e pluralità di forme, l’elaborazione giurisprudenziale ha tuttavia provveduto ad enucleare alcuni tratti, costantemente riscontrabili in concreti casi di specie, che concorrono a delineare le caratteristiche necessarie, solo in presenza delle quali può effettivamente parlarsi di mobbing. Si rende, pertanto, opportuno evidenziare che, alla luce dei più recenti orientamenti giurisprudenziali, per potersi configurare una fattispecie di mobbing, la condotta deve: essere attuata e protatta in modo continuativo nel tempo; mantenuta nei confronti di un lavoratore, nell’ambito del contesto e dell’ambiente di lavoro; concretizzarsi in comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, nonché esorbitanti ovvero incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto di lavoro, essere idonea ex se a determinare un effetto lesivo sulla salute psicofisica del lavoratore interessato. Ulteriore e centrale elemento che deve, necessariamente, costituire oggetto di prova è rappresentato dal nesso eziologico intercorrente tra la condotta posta in essere dal superiore gerarchico (mobbing verticale), ovvero dal collega (mobbing orizzontale) ed il pregiudizio all’integrità psico-fisica, sofferto dal lavoratore (8). Al di là dell’interesse originariamente suscitato nel legislatore italiano dall’innovativa nozione, non si è riscontrata l’elaborazione di alcun tessuto normativo a corredo del fenomeno in questione; di seguito, si tenterà allora di proporre una ragionata ricostruzione delle implicazioni, tanto organizzative quanto giuridiche, del mobbing. Mobbing ed efficienza organizzativa delle imprese In dottrina (Del Punta, 2003) si definisce il mobbing come «un fattore di inefficienza per organizzazioni che si pretendono intelligenti» (9). Prendendo le mosse da tale significativo riconoscimento, un aspetto di straordinario interesse da investigare è quello attinente alle implicazioni intrinsecamente connesse, tra il fenomeno mobbing e l’efficienza organizzativa delle imprese. A fronte, invero, della significativa diffusione di questo «rischio, di nuova generazione, per la sicurezza sul lavoro» (10), viene avvertita come forte la necessità di assicurare e garantire effettive condizioni di salute mentale nei luoghi di lavoro, attraverso una proficua prevenzione delle molestie nelle relazioni interpersonali, in contesti lavorativi. Come anticipato, il fenomeno de quo può constare di un corpus tanto va- (8) F. DE STEFANI, Danno da mobbing, Milano, 2012, p. 65. (9) R. DEL PUNTA, Il mobbing: l’illecito e il danno, in Lavoro e diritto, 2003, n. 3, p. 539. (10) Si veda l’interessante introduzione sistematica al fenomeno del mobbing di F. FEDELE, Sicurezza sul lavoro e mobbing, in F. FEDELE e A. MORRONE (a cura di), La sicurezza sul lavoro per argomenti, Roma, 2010, pp. 173 e ss. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 195 riegato e complesso di comportamenti, tra loro eterogenei, che in vario modo incidono sulla qualità dei rapporti lavorativi (11). Più specificamente, le condotte integranti la fattispecie – se di fattispecie, effettivamente, può parlarsi – di mobbing risultano generalmente connotate dalla intrinseca ed implicita loro idoneità ad incidere, negativamente, sull’integrità fisica e sulla personalità morale del lavoratore, inteso in primis nella sua dimensione di persona. Tra i principali effetti, tanto transitori quanto permanenti, del fenomeno in questione, tipizzati dalla ricca produzione giurisprudenziale, stratificatasi nel corso degli anni, possono essere annoverati labilità emotiva, ansia, PTS (Post Traumatic Stress), squilibri psichici, perdita di autostima e di fiducia in se stessi. Si intuisce allora, già ad una prima riflessione sul tema, come un effettivo e sostanziale benessere organizzativo, costituisca un fattore decisivo e fondamentale per il conseguimento di un reale e proficuo miglioramento della performance, non solo individuale, ma anche complessiva dell’intero sistema organizzativo. Il superamento di condotte inquadrabili nell’ambito del mobbing si pone, invero, quale imprescindibile fattore per un virtuoso processo di miglioramento delle globali condizioni lavorative. Un collaborativo e, per quanto possibile, armonico clima organizzativo e relazionale all’interno dell’impresa, in piena coerenza con una condivisa cultura della qualità, determina direttamente benefici effetti sulla motivazione e sul coinvolgimento dei lavoratori, e quindi sui complessivi risultati organizzativo-gestionali. L’orientamento al miglioramento continuo, in una costante ricerca dell'eccellenza competitiva, deve necessariamente fondarsi anche, ed anzi primariamente, sull’impegno generale, condiviso e consapevole, teso all’edificazione ed alla implementazione di relazioni lavorative ed interpersonali, improntate ad uno spirito di partecipazione e proattiva collaborazione. Quella che potrebbe essere definita come una visione sistemica ed integrata del rapporto persona/impresa, invero, poggia sul fattivo coinvolgimento e sulla reale motivazione delle risorse umane, nel quadro di un complessivo clima di positiva collaborazione e generale condivisione di obiettivi. L’origine del fattore di inefficienza per l’organizzazione imprenditoriale, rappresentato dal mobbing, è diffusamente da rinvenire nell’assenza di una reale e “partecipata” cultura d’impresa, nell’ambito della quale siano declinati i principi ispiratori delle organizzazioni snelle, sintetizzabili nel perseguimento dell'eccellenza organizzativa, attraverso un sistematico e continuo miglioramento (12). (11) P. ALBI, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, Milano, 2008, p. 295; A. QUAGLIARELLA, Elementi caratterizzanti del mobbing, in Il Lavoro nella giurisprudenza, 2008, p. 931. (12) S. BINI, Lean production e risorse umane: considerazioni sugli aspetti innovativi, in Qualità, 2012, n. 3, pp. 14 e ss. 196 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 Il principale substrato da cui si sviluppa il mobbing è, pertanto, da individuare nell’insieme di antagonismi, contrasti e contrapposizioni che frammentano l’organizzazione imprenditoriale, determinando sempre più bassi livelli di cooperazione e coordinamento nello svolgimento delle attività. Un elevato tasso di conflittualità interna (tanto orizzontale quanto verticale), unitamente all’assenza di un reale “benessere” nel clima lavorativo e ad una scarsa motivazione dei lavoratori, minano significativamente e pericolosamente la proficua efficienza dell’organizzazione. «Ciò che rende veramente attrattiva un’azienda agli occhi dei lavoratori è la stabilità occupazionale accompagnata dalla motivazione al lavoro. Ossia la capacità di gestire le risorse umane dando loro una forte motivazione. Ciò che attrae i lavoratori non è solo un salario o dei bonus, ma più in generale un ottimo clima aziendale e l'esistenza di un progetto complessivo a cui aderire» (13). Orbene, giova a tal punto riflettere attorno all’individuazione di quello che potrebbe definirsi come il labile confine tra fisiologia e patologia, ovvero tra mobbing e conflitto industriale. Deve infatti riconoscersi la necessaria ed insopprimibile essenza conflittuale del rapporto di lavoro, data dalla contrapposizione di interessi tra loro distanti: capitale e lavoro, impresa e persona, efficienza economica e tutela dei diritti (14). Come infatti riconosciuto da autorevolissima dottrina (Persiani, 2002), il diritto del lavoro ha le sue radici che affondano nel terreno del conflitto industriale, originato dalla inevitabile contrapposizione tra chi detiene i mezzi della produzione e chi, invece, vive della produzione medesima (15). Essendo tale dualismo proprio del modello di produzione capitalistico, un rapporto conflittuale “sano” tra datore di lavoro e lavoratore è inquadrabile nell’ottica di un fisiologico incontro tra interessi differenti e distanti. Occorre dunque prestare particolare attenzione a scongiurare il rischio di una possibile e non remota espansione “non controllata” della categoria del mobbing, che induca a considerare rientrante nel fenomeno in questione qualsiasi ipotesi di conflittualità nel contesto lavorativo. (13) R. PESSI, Imprese: stabilità occupazionale e forte motivazione ricetta per essere attrattive, in LabItalia, 18 marzo 2013 (http://www.wallstreetitalia.com/article/1525880/imprese-pessi-stabilitaoccupazionale- e-forte-motivazione-ricetta-per-essere-attrattive.aspx). L’autorevolissimo Autore aggiunge, inoltre, che l’elemento della stabilità occupazionale, unitamente a quello della motivazione al lavoro, determinano il successo delle imprese, essendo questi elementi espressione della necessaria cooperazione tra capitale e lavoro. (14) Si veda, sul punto, la ricca produzione dottrinale del Prof. Roberto Pessi, ed in particolare: R. PESSI, Economia e diritto del lavoro, in Argomenti di Diritto del Lavoro, 2006, pp. 433-453; R. PESSI, Persona e impresa nel diritto del lavoro, in AA.VV., Diritto e libertà: studi in memoria di Matteo Dell’Olio, Torino, 2008, pp. 1238-1257. (15) M. PERSIANI, Radici storiche e nuovi scenari del diritto del lavoro, in AA.VV., Interessi e tecniche nella disciplina del lavoro flessibile (Atti delle giornate di studio AIDLASS, Pesaro-Urbino, 24- 25 maggio 2002), Milano, 2003, p. 629. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 197 Considerazioni conclusive: il mobbing come paradosso Alla luce delle considerazioni sin qui sviluppate, si ritiene doveroso fornire, in conclusione, alcuni ulteriori spunti di riflessione su un fenomeno che, nella sua magmaticità, appare oggi di apprezzabile espansione. A corollario della disamina dei principali aspetti inerenti il mobbing, occorre acquisire una piena consapevolezza circa la natura culturale, prima ancora che giuridica ed organizzativa, del fenomeno in questione: certamente nuova risulta essere l’elaborazione della nozione e della categoria di mobbing, “importata” nell’ambito giuridico da altri settori scientifici e in Italia (sia pur solo nella produzione giurisprudenziale) da altri ordinamenti; sussumibile peraltro nelle norme codicistiche, quanto meno in nuce, appare invece essere lo spirito proprio del fenomeno (16). Risulta di fondamentale importanza comprendere, infine, che, come evidenziato in dottrina (Monateri, 2004), «il primo danneggiato dell’attività di mobbing è l’impresa stessa» (17), ripercuotendosi, in realtà, gli effetti negativi prodotti dalle condotte integranti la fattispecie di mobbing, sia sull’attività lavorativa dei dipendenti che su quella produttiva dell’impresa in generale. La manifestazione di comportamenti mobbizzanti rappresenta, pertanto, un significativo ed allarmante segnale di inefficienza, che può certamente determinarsi in fattore penalizzante, per un’impresa che si ponga l’obiettivo di essere competitiva sul mercato. Bibliografia e letture consigliate ALBI P., Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, Milano, 2008, pp. 295 e ss.; DEL PUNTA R., Il mobbing: l’illecito e il danno, in Lavoro e diritto, 2003, n. 3, pp. 539 e ss.; DE STEFANI F., Danno da mobbing, Milano, 2012, pp. 65 e ss.; EURISPES, Rapporto Italia 2013, presentato a Roma il 4 febbraio 2013; FABOZZI R., La tutela dell’integrità psicofisica del lavoratore, in CENDON P. (a cura di), Persona e danno, Milano, 2004, pp. 4091 e ss.; FEDELE F., Sicurezza sul lavoro e mobbing, in FEDELE F. e MORRONE A. (a cura di), La sicurezza sul lavoro per argomenti, Roma, 2010, pp. 173 e ss.; (16) G. MONATERI, I paradossi del mobbing, in P. TOSI (a cura di), Il mobbing, Torino, 2004, pp. 83 e ss: «Nondimeno il mobbing, come tale, è perfettamente contenuto già nel nostro codice civile. Infatti possiamo dubitare che sorga una qualche responsabilità risarcitoria se più soggetti con dolo violano la salute, o la dignità di un lavoratore? Certamente no». (17) G. MONATERI, I paradossi del mobbing, in P. TOSI (a cura di), Il mobbing, Torino, 2004, pp. 83 e ss: «Un’ora dedicata al mobbing è, per l’appunto, un’ora sottratta al lavoro». 198 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 LOFFREDO A., Il mobbing, in RUSCIANO M. e NATULLO G. (a cura di), Ambiente e sicurezza del lavoro, in CARINCI F. (diretto da), Commentario Diritto del lavoro, Torino, 2007, pp. 533 e ss.; LORENZ K., Mobbing and Psychological Terror at workplaces, in Violence and Victims, 1990, vol. 5, n. 2.; PERSIANI M., Radici storiche e nuovi scenari del diritto del lavoro, in AA.VV., Interessi e tecniche nella disciplina del lavoro flessibile (Atti delle giornate di studio AIDLASS, Pesaro-Urbino, 24-25 maggio 2002), Milano, 2003, pp. 629 e ss.; PESCE D., Mobbing e risarcimento del danno, in Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza, 2009, vol. III, n. 1, pp. 42 e ss.; PESSI R., Imprese: stabilità occupazionale e forte motivazione ricetta per essere attrattive, in LabItalia, 18 marzo 2013 (http://www.wallstreetitalia.com/article/1525880/imprese- pessi-stabilita-occupazionale-e-forte-motivazione-ricetta-per-essere-attrattive.aspx); PESSI R., Persona e impresa nel diritto del lavoro, in AA.VV., Diritto e libertà: studi in memoria di Matteo Dell’Olio, Torino, 2008, pp. 1238-1257; PESSI R., Economia e diritto del lavoro, in Argomenti di diritto del lavoro, 2006, pp. 433-453; PROIA G., Alcune considerazioni sul cosiddetto mobbing, in Argomenti di diritto del lavoro, 2005, I, pp. 827 e ss.; QUAGLIARELLA A., Elementi caratterizzanti del mobbing, in Il Lavoro nella giurisprudenza, 2008, pp. 931 e ss.; SCOGNAMIGLIO R., A proposito del mobbing, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2004, I, pp. 489 e ss.; TAMBURRO L., Mobbing oggi: dalla ricerca di una definizione alla legge, in Itinerari d’impresa, 2005, n. 7, pp. 81 e ss.; TAMBURRO L., Mobbing e cenni di tutela ordinaria e cautelare, in Temi Romana, 2003, n. 2-3, pp. 208 e ss.; TOSI P., Il mobbing: una fattispecie in cerca d’autore, in TOSI P. (a cura di), Il mobbing, Torino, 2004, pp. 165-166; TULLINI P., Mobbing e rapporto di lavoro. Una fattispecie emergente di danno alla persona, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2000, I, pp. 251 e ss.; VALLEBONA A., Mobbing: qualificazione, oneri probatori e rimedi, in Giurisprudenza del lavoro, 2006, pp. 8 e ss.; VALLEBONAA., Mobbing senza veli, in Diritto delle relazioni industriali, 2005, n. 4, pp. 1051 e ss. CONTRIBUTI DI DOTTRINA L’attualità di G.D. Romagnosi nell’eclissi dello statalismo Considerazioni sul passato e sul futuro del diritto amministrativo Giampaolo Rossi* SOMMARIO: 1. Premessa: la motivazione della ricerca. - 1.1. I suoi risultati. - 1.2. La ricerca. - 2. Il pensiero filosofico di Romagnosi nel clima culturale e politico dell'illuminismo e del post illuminismo. - 2.1. L'approccio equilibrato e realista. - 2.1.a. Contro gli assolutismi dell'idealismo e dello storicismo. - 2.1.b. Contro il razionalismo e il relativismo. - 2.2. L'impostazione individuale-sociale. - 2.3. L'impostazione giusnaturalpositiva. - 3. I principi giuridici, in particolare nel diritto amministrativo. - 3.a. La necessarietà del potere. -. 3.b. Il carattere limitato del potere. - 3.c. L'impostazione funzionale e oggettiva. - 3.d. Il principio di sussidiarietà. - 3.e. Diritto ed economia: lo studio congiunto; la concorrenza regolata. - 3.f. L'importanza della contestualizzazione. - 4. L'involuzione successiva della scienza amministrativistica, di ispirazione hegeliana. - 5. Considerazioni finali e riflessioni sul diritto amministrativo di domani: una lezione di metodo. 1. Premessa: la motivazione della ricerca. Questo studio è il risultato di una ricerca che si è sviluppata nel tempo a seguito di varie sollecitazioni indotte da altre ricerche. Scrivendo prima l’Introduzione e poi i Principi di diritto amministrativo non potevo evitare il riferimento alla prima monografia che ha avuto (non solo in Italia) il nome di diritto amministrativo, quella, appunto, che Gian Domenico Romagnosi scrisse nel 1814 (1). (*) Avvocato, Professore ordinario di Diritto Amministrativo, Università degli Studi di Roma Tre. (1) La prima edizione era intitolata Istituzioni di diritto amministrativo, Milano, Stamperia Malatesta, 1814, seguita poi da una seconda edizione, dal titolo Principi fondamentali del diritto amministrativo onde tesserne le istituzioni, Firenze, Stamperia Piatti, 1832. Sulla confusione che la dottrina successiva ha fatto fra i due testi v. F. MERUSI, Gian Domenico Romagnosi tra diritto e processo amministrativo in Dir. Proc. Amm., 2011, pp. 1272 ss. 200 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 Il testo è stato citato in tutti i manuali italiani che antepongono alla trattazione della materia una storia della nascita e dell'evoluzione della disciplina. Nella maggior parte dei casi si è trattato di un riferimento fugace, perché si è ritenuto che, più che il vero iniziatore degli studi di diritto amministrativo, Romagnosi ne sia stato un precursore, primo fra quelli che vengono definiti pre-orlandiani, perché si attribuisce a Vittorio Emanuele Orlando il ruolo di fondatore della scienza del diritto amministrativo in Italia (2). Va detto subito che non entrerò nella ricorrente polemica sugli inizi della disciplina e sul suo fondatore perchè ogni tesi è inficiata da un errore di impostazione che deriva dalla non univocità della nozione di diritto amministrativo. A seconda delle accezioni che che se ne diano, mutano, come è ovvio, l'oggetto che fu fondato e il suo periodo di inizio. Avevo letto, in realtà, solo quell'opera di Romagnosi, come del resto dichiaravano di aver fatto gli altri autori dei manuali, a conferma di quanto ha osservato recentemente F. Lanchester, «di Romagnosi si è parlato più di quanto lo si sia studiato» (3). (2) Così S. CASSESE, Cultura e politica del diritto amministrativo, Bologna, il Mulino, 1971, p. 9, il quale ha ribadito più volte, anche di recente, la tesi che V.E. Orlando è il fondatore del diritto amministrativo in Italia (cfr. Atti, in corso di pubblicazione del convegno su V.E. Orlando in occasione del centocinquantesimo anniversario dalla nascita, Palermo, 28-29 ottobre 2011, e Le molte vite del Consiglio di Stato, intervento al convegno celebrativo del centoottantesimo anniversario del Consiglio di Stato, 16 marzo 2011, Palazzo del Quirinale) e A. SANDULLI, Costruire lo Stato, Milano, Giuffrè 2009, p. 50, che sostiene che “il contributo di Romagnosi al diritto amministrativo è stato forse sopravvalutato dagli studiosi italiani”. Anche fra i c.d. “pre-orlandiani” il ruolo di Romagnosi è stato controverso: mentre alcuni ne hanno esalto il contributo (come A. LIONE, Elementi di diritto amministrativo, Torino, Marzorati, 1849, e G. TOMMASINI, La nozione di diritto amministrativo nell’opera di G.D. Romagnosi, Parma, Ferrari e Pellegrini, 1892) o almeno gli hanno riconosciuto il ruolo di iniziatore della disciplina (G. MANNA, affine per impostazione a Romagnosi, “Il diritto amministrativo nel Regno delle Due Sicilie. Saggio teoretico, storico e positivo”, Napoli, Tip. All’insegna di Dante, Parte I, II, III, 1840-1847, e G. TELESIO, nel Commento alla terza edizione di Manna, con il titolo Principi di diritto amministrativo, Napoli, Jovene, 1876), altri, invece, lo hanno radicalmente svalutato relegandolo a quello filosofico. Certamente le tesi di Romagnosi non potevano destare l’interesse di quegli studiosi che si occuparono del diritto amministrativo ma, sulla base della loro formazione pandettista, utilizzavano essenzialmente le categorie logiche del diritto privato (L. MEUCCI, Istituzioni di diritto amministrativo, III ediz., Torino, Bocca, 1892: “L’interesse pubblico non è altro che la somma degli intessi privati e la loro tutela”; G. MANTELLINI, Lo Stato e il Codice Civile, voll. III, Firenze, Barbera, 1880-1882, per il quale il diritto amministrativo era il diritto privato “speciale” dello Stato) e di quelli che avevano assunto come principio fondamentale del diritto amministrativo la centralità dello Stato (G. DE GIOANNIS GIANQUINTO, Corso di diritto pubblico amministrativo, 4 voll., Firenze, Tip. Gazzetta d’Italia, 1876-1881; F. PERSICO, Principi di Diritto Amministrativo, Napoli, Marghieri, 1875). Non è mancata fra gli autori più recenti qualche voce dissonante: ad es., R. ALESSI, Principi di diritto amministrativo, vol. I, Milano, Giuffrè, 1966, p. 27 ha sostenuto che Romagnosi “a buon diritto è considerato il fondatore della scuola amministrativistica italiana”; ha poi aggiunto, però, che V.E. Orlando è stato il “vero fondatore della moderna scuola pubblicistica italiana” (ivi, p. 28). Sul tema più di recente, R. LOMBARDI, Gian Domenico Romagnosi: alle origini della scienza e del diritto amministrativo in Italia, in R. FERRARA – S. SICARDI, Itinerari e vicende del diritto pubblico italiano. Amministrativisti e costituzionalisti a confronto, Padova, Cedam, 1998, pp. 473 ss. (3) F. LANCHESTER, Romagnosi costituzionalista, in Riv. A.I.C., 2011, in www.associazionecostituzionalisti. it, p. 4. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 201 Anche la citazione manca in opere importanti, come quella di Santi Romano, nei Principi di diritto amministrativo del 1901, per una sorta di damnatio memoriae che è giunta fino ai nostri giorni (4). Scarso rilievo è stato attribuito all'opera di Romagnosi negli studi degli storici del diritto, compresi gli storici del diritto amministrativo (5). Manifestazioni di particolare interesse si trovano invece, e non a caso, nei lavori dei due maggiori amministrativisti italiani della seconda metà del novecento. Massimo Severo Giannini ha rilevato che nei Principi fondamentali di Romagnosi «vi si arrivano ad isolare certi concetti che poi parvero conquiste della scienza germanica, come quelli di cosa pubblica, di competenza funzionale, di decisione amministrativa; argomenti che per tanto tempo in seguito dovevano essere contesi tra varie discipline giuridiche si trovano qui chiaramente ricompresi nel diritto amministrativo, e in altri punti, come, per esempio, quelli che riguardano la competenza in generale, l'amministrazione tutoria ed economica, la forma nel diritto amministrativo, l'opera può fornire ancora oggi spunto di nuove ricerche: lo sforzo di dare forma scientifica al materiale che offriva la legislazione grezza fu così poderoso, che bisognava attendere la fine del secolo per trovare qualcosa di simile». «Lo sforzo di sintesi del Romagnosi », ha osservato Giannini, «cui mancava ogni precedente [...] dové tendere più ad elaborare speculativamente criteri generali, che a sintetizzare principi e concetti generali già individuati. Invero per valutarlo pienamente e (4) Così F. MERUSI, Gian Domenico Romagnosi tra diritto e processo, cit., p. 1241. (5) V, ad es., da ultimo, M. CARAVALE, Storia del diritto nell’Europa moderna e contemporanea, Bari, Laterza, 2012, pp. 240 e 289. In un lavoro monografico L. Mannori ha raccolto e fatto proprie tutte le critiche che sono state mosse a Romagnosi a partire da quella di V.E. Orlando di aver fatto solo “prologhi in cielo” assolutamente inutili e dequalificanti per la scienza giuspubblicistica “nell’inquinare la purezza giuspositiva con una serie di temi a sfondo politologico caratterizzati da un’uggiosa ed accademica inconcludenza” e ve ne ha aggiunto delle sue: L. MANNORI, Uno Stato per Romagnosi, 2 voll., Milano, Giuffrè, 1984 e 1987. La frase indicata è a pag. 31 del primo volume. A pag. 57 dello stesso volume così commenta la proposta costituzionale di Romagnosi: “l’impressione che se ne ricava è, per certi versi, paradossale, di una saggezza posata e cauta, ma proprio per questo assolutamente improbabile, di un prudente ragionevolismo che nel rifiutare la pericolosa assolutezza della nuova razionalità politica dell’ultimo scorcio del Settecento, rischia di controvertere le norme del più banale senso comune” (niente di meno!). Altre critiche sono poi sparse nei due volumi che contengono per altro informazioni e osservazioni interessanti. L. MANNORI si era occupato di Romagnosi anche in un saggio Per uno studio su Romagnosi giuspubblicista, in Quadr. fior., n. 13, 1984, pp. 683 ss., nel quale ha commentato alcune opere sul pensiero politico e filosofico di Romagnosi (di E.A. ALBERTONI, F. INVERNICI e di alcuni filosofi). Di E.A. ALBERTONI, v. anche Introduzione a I tempi e le opere di Gian Domenico Romagnosi, in Studi Romagnosi, vol. III, Milano Giuffrè, 1990, pp. IX ss. Non vi sono critiche ma pochissimi cenni in L. MANNORI – B. SORDI, Storia del diritto amministrativo, Bari, Laterza, 2001. Lo si capisce perché gli autori partono dal presupposto che “storia del diritto amministrativo significa essenzialmente storia dei metodi di esercizio dell'autorità” (pref. IX). Romagnosi, in effetti, si è occupato di altro. Anche negli studi storici si può trovare solo ciò che si cerca. Lo colloca nella “preistoria” del diritto amministrativo G. AZZARITI, Dalla discrezionalità al potere, Padova, Cedam, 1989, p. 52 ss., il quale, per altro, rileva che il metodo dei pre-orlandiani aveva carattere giuridico (La prolusione orlandiana e la scienza del diritto amministrativo anteriore al 1889, in Riv. trim dir. pubbl., 1989, p. 977). 202 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 trarne gli elementi vitali, sarebbe necessario un lungo lavoro, se non altro per coordinare i Principi con le altre opere giuricliche e filosofiche. Questo lavoro, che sarebbe fondamentale, ancora manca» (6). Altrettanto marcato è stato l'apprezzamento dell'opera `anticipatrice` di Romagnosi in Feliciano Benvenuti che lo ha definito una «grande figura» che «fondò il diritto pubblico moderno». Benvenuti gli ha attribuito un «nuovo metodo, che non saprebbe essere rifiutato da nessun giurista contemporaneo», con il quale «ha dettato i suoi principi fondamentali di diritto amministrativo ed ha redatta la clandestina costituzione di una monarchia nazionale rappresentativa ». Il rilievo che Romagnosi diede al diritto positivo contribuì, secondo Benvenuti, alla successiva tecnicizzazione della scienza giuridica, non perché Romagnosi non avesse tenuto conto dei profili politici del diritto ma perché «questa parte dell'insegnamento romagnosiano fu dimenticata [...] dalla nuova scienza del diritto» (7). In realtà anche il contributo più strettamente giuridico, al di là di questi apprezzamenti, non ebbe seguito soprattutto dopo che V.E. Orlando rielaborò su basi diverse il diritto amministrativo. Ben diversa fortuna avevano avuto, al di fuori del diritto amministrativo, altre opere del Romagnosi, che ha spaziato su quasi tutto lo scibile umano dell'epoca in cui viveva. Nei 16 volumi (8, ciascuno in due parti) nei quali il suo allievo Alessandro De Giorgi 'dottore in filosofia e in legge' ha pubblicato le sue Opere (8), sono raccolti i suoi studi sui diversi argomenti dei quali si occupò. Vi sono monografie, contributi in pubblicazioni periodiche, lettere (a Giovanni Valeri, a G.P. Vieusseux) commenti a lavori scientifici di autori italiani, francesi, inglesi e tedeschi. Sono studi filosofici (Vedute fondamentali sull'arte logica, 1832), matematici (Dell'insegnamento primitivo delle matematiche, 1821-22), storici (Dell'indole e dei fattori dell’incivilimento, 1829-32 e vari altri sulla Repubblica e sull’impero romano, gli estruschi, gli antichi popoli italiani, l’India, il Tibet), di economia politica e di statistica (in vari volumi degli Annali Universali di Statistica, 1827-1834), fra i quali, ad esempio, Questioni sull'ordinamento delle statistiche, 1827, 1828 e 1830, Della libera universale concorrenza nel- (6) In Profili storici della scienza del diritto amministrativo, in Studi sassaresi, vol. XVIII, Sassari, Gallizzi, 1940, fasc. II e III. (7) F. BENVENUTI, Mito e realtà nell’ordinamento amministrativo italiano, in L’unificazione amministrativa e i suoi protagonisti, Vicenza, Pozza, 1969, p. 67, poi in Scritti giuridici, vol. III, Milano, Vita e Pensiero, 2006, pp. 2767 ss. L’apprezzamento di Benvenuti induce F. Merusi ad attribuirgli una “riscoperta di Romagnosi” (op. cit. p. 1241). (8) Opere di Gian Domenicio Romagnosi, a cura di A. De Giorgi, Milano, Volpato, 1841-1848. Ora si possono trovare quasi tutte le opere di Romagnosi nel sito internet books.google.it. Nelle citazioni successive farò riferimento alla edizione di De Giorgi (Op.). CONTRIBUTI DI DOTTRINA 203 l'ordine sociale delle ricchezze (1829); Della libertà commerciale recentemente adottata dall'Inghilterra (1829); Della necessità di unire lo studio della politica economica con quello della civile giurisprudenza (1832); vari altri nei quali si commentano scritti di autori francesi, inglesi e tedeschi. Il suo interesse scientifico si concretizza anche in ricerche sperimentali: gli si attribuisce (ma vi sono incertezze al riguardo) la scoperta degli effetti magnetici dell'elettricità. Gli scritti giuridici sono stati raggruppati da De Giorgi in due parti. La prima contiene gli scritti di `diritto filosofico' fra i quali Introduzione allo studio del Diritto pubblico generale (1805 e 1825), Della necessità dello studio del Diritto pubblico (1804), Assunto primo della scienza del Diritto naturale (1820), Sull'ordinamento della scienza della cosa pubblica (1826), Genesi del Diritto penale (1791 e varie edizioni successive), Progetto del Codice di procedura penale per il Regno d’Italia (1806). La seconda parte comprende gli Scritti sul diritto filosofico positivo (vari sul diritto civile, dal 1807), sull'Istruzione pubblica (1807), sull'Alta legislazione civile e criminale (1809), i Principi fondamentali del Diritto amministrativo (1814); Scienza delle costruzioni (pubblicato in parte nel 1815, e il resto postumo nel 1848). Un apposito volume, in due parti, è dedicato alla condotta e ragione civile delle acque (1823- 25 e 1829-1835). Una produzione scientifica cosi ampia di uno studioso il cui interesse principale era il diritto si spiega con il fatto che la cultura del tempo era ancora enciclopedica, e il diritto non solo viveva in stretto collegamento con le altre scienze, ma «aveva nella cultura in genere, una posizione centrale, che poi e venuto perdendo, chiudendosi nei limiti dei problemi e dei metodi della sua specializzazione» (9). L'impostazione di Romagnosi che, come si vedrà, rifuggiva dall’assumere come assolute posizioni soggettive e parziali e ricercava piuttosto i profili di verificabilità oggettiva presenti in ciascuna delle teorie filosofiche e giuridiche, consentì il confluire in quest'autore delle varie correnti intellettuali e delle forze vive del Risorgimento, anche di diverso orientamento (laico e clericale, liberale di varie tendenze politiche) (10). Soprattutto le componenti di ispirazione autonomista e federalista si riconobbero, esattamente, nel pensiero di (9) E. Sestan che ha citato un centinaio di scritti su Romagnosi e sulla sua produzione scientifica, soprattutto sul pensiero filosofico-giuridico, sul pensiero politico, sul diritto penale e sul pensiero educativo: v. E. SESTAN, nella Introduzione al libro da egli curato Opere di Gian Domenico Romagnosi, Carlo Cattaneo, Giuseppe Ferrari, Milano-Napoli, Ricciardi, 1957. (10) Per una ricognizione G.A. BELLONI, Romagnosi, Profilo storico, Milano, Dante Alighieri, 1931; A. LEVI, Romagnosi, Roma, Formiggini, 1935; C. CAGLI, Gian Domenico Romagnosi, La vita, i tempi, le opere, Roma, Formiggini, 1935; S. FERMI, Gian Domenico Romagnosi e la Massoneria, in Bollettino storico piacentino, XII (1917, p. 217) e XXII (1927, p. 30) ove si dà conto dell’appartenenza di Romagnosi, cattolico, alla Massoneria. 204 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 Romagnosi; ne furono esponenti di rilievo i suoi allievi Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari (11). La rilevanza del suo pensiero politico venne sottolineata da importanti studiosi, come G. De Ruggiero e L. Salvatorelli (12). Anche le teorie sull'economia e la statistica ebbero dei commentatori (13). Alcuni suoi lavori sono stati letti e commentati in Germania e, forse, in Francia, ma non erano conosciuti, ad esempio, da Alexis De Tocqueville e da Otto von Gierke che, pure, ebbero una particolare affinità di impostazione con Romagnosi. Il suo approccio non specialistico determinò, uno scarso interesse da parte della dottrina filosofica, che se ne occupò soprattutto in relazione alle critiche che egli fece alle teorie kantiane (14) e ai profili positivisti e evoluzionisti presenti nel suo pensiero (15). Tornando agli anmiinistrativisti, la loro opinione si è fondata quasi esclusivamente sui Principi, opera, in realtà, meno elaborata delle altre, scritta in fretta in un contesto politico e costituzionale traballante (16), mentre sono trascurati gli scritti filosofico-giuridici e di diritto pubblico generale, ed è mancato, come ha osservato Giannini con la sua acutezza e lungimiranza, uno studio di collegamento di questa opera con le altre giuridiche e filosofiche. Una nuova occasione per occuparmi di Romagnosi mi è derivata dalla partecipazione a un convegno nell'ambito delle Celebrazioni Romagnosiane (11) V. G. FERRARI, La mente di G.D. Romagnosi, Milano, R. Fanfani, 1835; C. CATTANEO, in varie opere: Delle dottrine di Romagnosi (1839), in Opere edite ed inedite, raccolte da A. Bertani, vol. VI, Firenze, Le Monnier, 1892, p. 158, V.S. FERMI, G.D. Romagnosi in tre scritti inediti di Carlo Cattaneo, in Boll. st. piacentini, 1950, pp. 45 ss. (12) G. DE RUGGIERO, Storia del liberalismo europeo, Bari, Laterza, 1925, pp. 312 ss.; L. SALVATORELLI, Storia del pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, III ediz., Torino, Einaudi, 1943, pp. 48 ss. (13) Ad esempio: G. VALENTI, Le idee economiche di G.D. Romagnosi, Roma, Loescher, 1891; A. DAINELLI, Politica ed economica nel pensiero di G.D. Romagnosi, Bologna, Zanichelli, 1943. (14) Ad esempio: L. CREDARO, Il Kantismo in Gian Domenico Romagnosi, in Riv. it. fil., 1887, II, pp. 34 ss. Di particolare interesse le osservazioni di G. DEL VECCHIO, Gian Domenico Romagnosi nel primo centenario della sua morte, Estr. da Riv. int. filosofia diritto, 1936 (XVI) (1), che ha contestato, come era ovvio dal suo punto di vista, le tesi antikantiane, e quanto al positivismo e all’evoluzionismo, lo ha considerato piuttosto (anche qui) come un precursore. Più generosa è stata la sua valutazione degli studi di diritto penale. La Genesi del Diritto penale, pubblicata nel 1791 da Romagnosi appena trentenne “è forse il più perfetto e organico dei suoi scritti. Non è esagerato il dire che con quest’opera il Romagnsi ha dato alla scienza del diritto penale basi più certe, che mai fino allora essa avesse avuto”. “L’edificio della giustizia penale costruito dal Romagnosi è il più solido e più logicamente concatenato, che mai fosse sorto per opera di pensatore italiano e straniero; né sappiamo qual altro anche oggi potrebbe ad esso anteporsi”. (15) N. TAMASSIA, Gian Domenico Romagnosi e la moderna filosofia, Padova, 1987, estr. dagli Atti della R. Accademia di scienze, lettere ed arti, Tip. Rondi, Vol. XIII. (16) M.S. GIANNINI, Profili storici, cit., ha vanzato l’ipotesi che nei Principi, Romagnosi “volutamente abbia usato un linguaggio astruso, quasi esoterico, per non farsi capire dalla censura”; F. BENVENUTI, Mito e realtà, cit., ha ritenuto che sia stata scritta come appunti per le lezioni; F. MERUSI, Gian Domenico Romagnosi, cit., rileva che lo stesso Romagnosi, nell’introduzione alle “Istituzioni” del 1814, dava conto che si trattava di un testo destinato agli studenti. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 205 per il 250o anniversario dalla nascita (17). Nel leggere le opere di Romagnosi quanto bastava per svolgere la relazione, mi sono imbattuto in vere e proprie sorprese (anche Merusi ha colto che vi era anticipato il principio di proporzionalità) che ho chiamato le 'perle' di Romagnosi: una serie di proposizioni di particolare attualità, principi che sono stati elaborati negli ultimi tempi, a partire da un approccio funzionalista e oggettivista che è considerato un'acquisizione recente della scienza giuridica. Ne ho tratto l'impressione che qui di seguito espongo, ma che è stata poi confermata e circostanziata dalla successiva, più attenta, lettura dell'opera omnia. 1.1. I suoi risultati. Conviene anticipare i risultati della ricerca. Come è ovvio, ciò che qui si anticipa è l'esposizione dei risultati ai quali sono pervenuto a seguito dell’analisi e della riflessione che l'ha accompagnata (18). Il risultato della ricerca è il seguente: gran parte delle più recenti acquisizioni della dottrina del diritto amministrativo, ivi comprese quelle che si imputano all'avvento dello Stato pluriclasse, alla sua `costituzionalizzazione' e ai principi di diritto europeo, erano state, in realtà, precedute, nelle linee essenziali, dagli studi di Gian Domenico Romagnosi. Dopo la fine dell'assolutismo, in un clima culturale e politico di particolare freschezza e vivacità, si raggiunsero punte elevate di civiltà giuridica che si sono poi consolidate solo dopo oltre due secoli. L'affermazione della libertà, della dignità umana, di una economia dinamica, di una società che rompeva i vincoli dei sottogruppi privilegiati che la componevano, di uno Stato che, nella sua unità poteva garantire l’uguaglianza dei cttadini, non più sudditi, tutto ciò stimolava negli studiosi la freschezza di nuove intuizioni. Queste conquiste si erano poi perse con l’affermarsi, nel diritto, delle concezioni statalistiche, delle categorie concettuali hegeliane, omogenee alle caratteristiche che doveva avere, o comunque ebbe, lo stato nazionale. (17) Con una relazione dal titolo Il ruolo di G.D. Romagnosi nella nascita e nella evoluzione del diritto amministrativo (Parma, 9 novembre 2011) (sono in corso di pubblicazione gli atti). Parteciparono al convegno vari studiosi di diverse discipline fra i quali Fabio Merusi e Fulco Lanchester, i cui contributi sono qui citati. Purtroppo Giorgio Cugurra, che fu tra gli organizzatori, non poté assistere al convegno perché morì prima che si tenesse. Lo ringrazio e lo ricordo. (18) L’anticipata esposizione è opportuna per vari motivi: perché consente al lettore di valutare meglio, avendone già la chiave di lettura, se gli elementi di analisi che si forniscono sono significativi e corretti con le conslusioni; inoltre rende possibile una esposizione limitata a quanto serve per individuare i risultati, senza perdersi nelle migliaia di rivoli che si ritrovano in due secoli di storia del pensiero giuridico. Infine, avendo più volte constatato quanto i lettori di oggi siano stanchi, anche perché schiacciati da una eccessiva moltitudine di scritti, l’anticipata esposizione dei risulati della ricerca potrà indurli, se hanno curiosità, a proseguire la lettura. Se poi qui si vorranno fermare, sapranno almeno quali ne sono le conclusioni. 206 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 La scuola tedesca di diritto pubblico, e con essa, in Italia, Vittorio Emanuele Orlando, interpretò e consolidò le categorie giuridiche dello stato autoritario, racchiudendo le problematiche della giuridicizzazione del potere nella dialettica autorità-libertà, che non poteva che vedere la seconda in posizione cedevole rispetto alla prima. Come aveva già anticipato A. de Toqueville, «se il nostro diritto amministrativo è stato concepito dalla libertà, è stato completato dal dispotismo» (19). Ancor oggi è diffusa in Francia, e non manca chi la condivide anche in Italia, l'opinione che il diritto ammìnìstrativo abbia avuto inizio con l’arrêt Blanco (1873), che negò l'applicabilità delle regole del diritto civile a una controversia sul risarcimento del danno a una bambina investita da un veicolo dell'Azienda statale dei tabacchi. Una sentenza di questo tipo sarebbe stata impensabile per Romagnosi, né Romagnosi si sarebbe stupito, se non del ritardo con cui fu pronunciata, dell'altra sentenza 'rivoluzionaria', che scandalizzò la dottrina francese (l'arrêt Mompeurt, 1942), con la quale il Conseil d'Etat, sia pure amplìando la propria competenza giurisdizionale agli atti unilaterali adottati da privati concessionari di servizi pubblici, infranse la concezione meramente soggettiva dominante nel diritto amministrativo, introducendovi una concezione oggettiva e funzionale (20). La dottrina successiva ha dovuto effettuare un lungo percorso per eliminare, o almeno circoscrivere, le implicazioni autoritative connesse alla concezione di un diritto amministrativo di privilegio dello Stato e della pubblica amministrazione e, anche per effetto delle nuove Costituzioni e del diritto europeo, è ora giunta a risultati che in larga misura riprendono le intuizioni e le acquisizioni di Romagnosi. Ciò è significativo perché induce a rivedere convinzioni radicate e stimola a una nuova riflessione sul diritto amministrativo. (19) A.DE TOCQUEVILLE, Relazione sull’opera di Macarel intitolata: “Corso di diritto amministrativo (1846), in Scritti politici, a cura di N. Matteucci, vol. I (La rivoluzione democratica in Francia), Torino, Utet, 1969, p. 234. Tocqueville non si riferiva, ovviamente, alla involuzione hegeliana, che fu successiva, ma alla precedente involuzione in senso statalistico, e quidi dello stesso tipo, con la quale Napoleone modificò profondamete lo spirito del diritto amministrativo nato con la rivoluzione sociale operata dalla Rivoluzione francese e fondato dall’Assemblea costituente: “Napoleone è giunto al adattare ai bisogni del potere questa vasta macchina che era stata concepita e conformata dalla libertà”. Tocqueville si rammaricava del fatto che il diritto amministrativo aveva dato luogo a commentari sapienti e utili (come quello di Macarel), ma “non è stato ancora studiato e giudicato nel suo insieme da un grande pubblicista [...]. Non vi è forse nel nostro tempo un argomento più adatto ad attirare e trattenere l’attenzione dei filosofi e dgli uomini di Stato”. “Nessuno ha ancora afferrato e messo in luce [...] quali sono i principi materiali e le regole necessarie che, nate dal fondo stesso dei bisogni e delle idee del tempo, devono formare la parte immutabile di questo nuovo diritto amministrativo”. “È particolarmente spiacevole che un simile lavoro che mettesse d’accordo i principi del nostro diritto politico non sia stato ancora compiuto da un francese e per la Francia”. “Ecco un argomento che attende ancora un libro, questo libro sarebbe una delle più grandi opere alle quali la nostra generazione potrebbe dedicersi”. Non aveva letto Romagnosi. (20) C. EISEMANN, L’arrêt Monpeurt: legende et realité, in AA.VV., L’evolution du droit public, Ètudes offerts a Achille Mestre, Paris, Sirey, 1956, p. 221 ss. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 207 1.2. La ricerca. Una affermazione di questo tipo è quanto meno provocatoria e richiede quindi che si spieghino bene le modalità della ricerca. La mole del lavoro è consistente dovendosi dar conto delle parti significative contenute in oltre 10.000 pagine. La difficoltà, però, è più qualitativa che quantitativa, perché attiene proprio al termine 'significative'. Per individuarle si corre il rischio di incorrere in un condizionamento soggettivo. Questo rischio, però, è tecnicamente inevitabile e mi resta solo di avvertirne il lettore. Per diminuire in parte gli inconvenienti del filtro della mia percezione soggettiva sono ricorso il più possibile alla citazione testuale. Altro problema: elencate qualche centinaia di frasi, poi ridotte, non senza incertezze e possibili errori (21), ad alcune decine, restava da decidere come esporle, non avendo senso limitarsi a farne un lungo elenco. Ho deciso quindi di raggrupparle secondo alcuni profili essenziali e alcune tematiche. Anche qui, come si vede, il rischio di una interposizione soggettiva è evidente. Ancora: se, come ho meglio capito alla fine, rileggendo Giannini, il lavoro da fare era proprio quello che il mio maestro considerava fondamentale, di coordinare i Principi con le altre opere giuridiche e filosofiche, come distinguere le tesi giuridiche da quelle filosofiche? Ho optato per esporle separatamente riferendo le tesi filosofiche senza entrare nel dibattito proprio di questa disciplina ma limitando l’analisi ai profili più strettamente connessi con quelli giuridici. Sono ben consapevole che si tratta di una semplificazione perché, come si vedrà, molto spesso i due profili non sono distinguibili. Da ultimo, nel riferire le frasi di Romagnosi, non sono stato sempre in grado di verificare se l’affermazione era frutto esclusivo dei suoi ragionamenti o era ripresa da qualche precedente autore. Questo è, però, un inconveniente minore perché, come si vedrà, 1'originalità del pensiero di Romagnosi emerge con piena chiarezza. Questo insierne di limiti potrebbe far ritenere che la ricerca è priva di un sufficiente valore scientifico. Così non è, perchè il metodo adottato mi sembra corretto. Scopo dichiarato della ricerca è stato quello di sollecitare una rilettura di Romagnosi per (21) In un primo momento avevo scartato, ad esempio, una frase che mi era stata segnalata da Alessandra Pioggia (“il diritto, e più in generale la scienza della cosa sociale, non è una scienza meramente contemplativa, ma è propriamente operativa [...] egli è per fare”), perché la trovavo interessante ma sacrificabile nell’economia generale del lavoro, e poi ho trovato che è l’unica che è stata letteralmente riportata da Feliciano Benvenuti (op. cit., p. 2770). Colgo l’occasione per ingaziare oltre ad Alessndra, Auretta Benedetti, Danilo Pappano, Enrica Blasi, Giovanni Caruso, Federico Dinelli, Andrea Farì, Anna Maria Gigli per l’opera di schedatura che mi ha offerto indicazioni utili, da me per altro ampiamente verificate e ampliate. Alessandra Pioggia, Danilo Pappano e Federico Dinelli mi hanno fornito anche suggerimenti dei quali ho tenuto conto. Ringrazio in paricolare Carlo Marzuoli, che mi ha stimolato con incitamenti e suggerimenti. Ringrazio infine, per la lettura e i commenti, Francesco De Leonardis, Giorgio Pastori, Mauro Renna e Luisa Torchia. 208 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 individuare se il suo pensiero è anticipatore di quello attuale e offre stimoli per il prosieguo della ricerca nel diritto amministrativo, superando una parentesi statalistica che l'aveva condizionata. È solo in rapporto all’oggetto della ricerca che va valutata la sua correttezza scientifica. A chi va in Arabia a cercare cammelli non si può fare l’obiezione di non aver trovato il petrolio; al più si possono sollevare riserve sul suo senso pratico. 2. Il pensiero filosofico di Romagnosi nel clima culturale e politico dell'illuminismo e del post illuminismo. Giandomenico Romagnosi (1761-1835) visse in un periodo di grande fervore politico culturale (22) e di grandi mutamenti istituzionali. I sistemi politici durante la sua esistenza furono: quelli dei prìncipi illuminati, della rivoluzione francese (nel 1789 Romagnosi aveva quasi trent'anni), di Napoleone e della restaurazione, con passaggi tumultuosi e andirivieni fra l'uno e l'altro sistema. È impossibile quindi inquadrare la figura di Romagnosi in un solo periodo storico, culturale ben definito. Certamente le convinzioni e le conquiste fondamentali che vengono ricondotte al pensiero illuminista sono state alla base della sua formazione. La forza innovativa di queste concezioni si può capire solo se si ha consapevolezza dei privilegi nobiliari e confessionali che andavano rimossi per consentire il libero sviluppo delle persone e dei commerci, reso possibile dalle innovazioni tecnologiche (23). Prima ancora che dei moti popolari, il rovesciamento di prospettiva e la nuova centralità del singolo individuo furono opera dei filosofi: «abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza! È questo il motto dell'llluminismo» (24). Pur nella diversità di orientamenti che ispirarono i singoli pensatori (25) tratti caratterizzanti furono il primato della ragione, ove ci si riferiva a Cartesio, Hobbes e Locke, e la rivendicazione dei diritti innati, di natura, dei singoli individui che riprese, modificandole in senso individualista, le teorie sul diritto naturale di Grozio, Pufendorf e Leibniz (26). La stessa nozione di libertà venne (22) Vivevano in Italia Cesare Becccaria (1737-1794), Gaetano Filangieri (1752-1788), Pietro Verri (1728-1799), Mario Pagano (1748-1799) e Vincenzo Cuoco (1770-1823). Negli altri Paesi, vivevano i loro ultimi anni J.J. Rousseau (1712-1798), era in corso l’esperienza dell’Enciclopedie (1751-1772), A. Smith (1723-1790), E. Kant (1724-1804), G. Bentham (1748-1832). Fece in tempo a studiare i Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel (1821) e i primi volumi del Corso di filosofia positiva di Conte (1830). (23) Il periodo è stato ampiamente analizzato da pregevoli studi. Si rinvia per tutti a G. TARELLO, Storia della cultura giuridica moderna, vol. I (Assolutismo e codificazione del diritto), Bologna, il Mulino, 1976. Per una visione d’insieme dell’Illuminismo in Europa v. P. CHAUNU, La civiltà dell’Europa dei lumi, Bologna, Il Mulino, 1982. (24) I. KANT, Risposta alla domana che cosa è l’Illuminismo (1794), ora in I. KANT, Cos’è l’illuminismo, a cura di N. Merker, III ediz., Roma, 1997, p. 48. (25) Sul carattere non omogeno dell’illuminismo v. ad esempio G. D’AMELIO, Illuminismo e scienza del diritto in Italia, Milano, Giuffré, 1956, p. 7; M.A. CATTANEO, Illuminismo e legislazione, Milano, Comunità, 1966, p. 9. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 209 rielaborata in senso individualistico. «La libertàh degli antichi si basava sulla partecipazione attiva e costante al potere collettivo. La nostra libertà deve basarsi sul libero godimento dell'indipendenza privata [...] la libertà individuale, ecco la vera libertà modema» (27). Sul versante giuridico ciò si tradusse in un atteggiamento ostile alla tradizione, all'uso arbitrario che ne facevano i giudici in un contesto privo di ordinate fonti scritte (28), in un deciso orientamento antiromanistico e nella c.d. 'lotta per la codificazione' (29). Non mancarono le esagerazioni, che sono inevitabili o almeno comprensibili nei periodi di radicale trasformazione (30). Gian Domenico Romagnosi fu, come lo sono tutti, un uomo del suo tempo e condivise pienamente l'impostazione liberale del pensiero illuminista. Tanto la condivise negli scritti e nell'insegnamento che scontò le sue convinzioni con due periodi di incarcerazione e con la perdita della cattedra universitaria. Nello stesso tempo, però, il suo pensiero aveva una spiccata caratterizzazione che lo portò a polemizzare con quasi tutti gli studiosi che interpretavano o avevano preparato quel modo di pensare. Il punto di partenza, l'a priori assunto da Romagnosi, è in realtà molto semplice: la centralità della persona nella sua dimensione sociale e la consapevolezza della condizione umana, debole e, proprio per questo, perfettibile, che si realizza «sotto un dato cielo e in una data terra». Per semplicità di analisi ritengo che, senza alcuna forzatura, la sua impronta caratteristica possa essere esposta raccogliendola in tre profili essenziali che rifluirono sul metodo (o ne furono ispirati). In primo luogo, un approccio che si potrebbe oggi definire di realismo, (26) V. fra i tanti N. BOBBIO, Il Giusnaturalismo e Positivismo giuridico, Milano, Comunità, 1965; P. SCHIERA, La concezione amministrativa dello Stato in Germania (1550-1750), in L. FIRPO, Storia delle idee politiche, economiche e sociali, vol. IV, t. 1, Torino, Utet, 1980. (27) B. CONSTANT, Discorso all’Athenée Royal di Parigi, in Antologia di scritti politici, a cura di A. Zamparino, Bologna, Il Mulino, 1982. (28) V. ad esempio, I.A. MURATORI, Dei difetti della Giurisprudenza, Venezia, Pasquali, 1742, che criticava la funzione creativa della giurisprudenza “quella è una bottega di rigattiere, dove ognun trova quello ch’ei cerca”. P. Verri sostenva che la “la libertà politica sarebbe annientata in una nazione in cui il giudice fosse legislatore” (Sulla interpetazione delle leggi, in ID., Scritti vari, a cura di G. Carcano, vol. II, Firenze, Le Monnier, 1854, p. 165), e C. BECCARIA, (Dei delitti e delle pene, Milano, 1822) escludeva l’interpretazione delle leggi da parte del giudice penale. Sul tema v. P. ALVAZZI DEL FRATE, L’Interpretazione autentica nel XVIII secolo, Torino, Giappichelli, 2000; I. BIROCCHI, Alla ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’età moderna, Torino, Giappichelli, 2002. (29) U. PETRONIO, La lotta per la codificazione, Torino, Giappicheli, 2002, pp. 39 ss.; U. CARAVALE, Storia del diritto nell’età moderna e contemporanea, cit. pp. 143 ss; G. AZZARITI, Diritto e conflitti. Lezioni di diritto costituzionale, Bari, Laterza, 2010; P. COSTA, Lo Stato immaginario, Milano, Giuffré, 1986. La monopolizzazione statale del diritto, compreso il diritto privato, ottenuta con la concentrazione nella legge di tutte le fonti di produzione del diritto è stata messa in evidenza da vari autori: v. P. GROSSI, Assolutismo giuridico e diritto privato, Milano, Giuffré, 1998. (30) Fino ad arrivare, come fece Pietro Verri, ad apostrofare come “imbecille” Giustiniano, v. in G. D’AMELIO, Illuminismo e scienze del diritto in Italia, cit., p. 14. 210 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 di ricerca di un riscontro di fatto idoneo a depurare l'analisi dalle tendenze che assolutizzano le opinioni del momento, con effetti di verifica di effettività che determinano una posizione equilibrata, in grado di cogliere, nelle diverse teorie, gli elementi durevoli e condivisibili, distinguendoli da quelli frutto di occasionali estremizzazioni, i 'frutti di stagione', come lui li definiva (chiamerò questo approccio equilibrato e realista). In secondo luogo, rispetto al diffuso individualismo che caratterizzò l'ispirazione filosofica del tempo, Romagnosi sottolineò la dimensione sociale dell'uomo, senza la quale questi non riesce a soddisfare i propri bisogni essenziali (chiamerò questa impostazione individuale-sociale). Infine, rispetto al giusnaturalismo razionale che pure condivideva, Romagnosi, giurista e 'realista', mise in evidenza gli inevitabili condizionamenti che nella vita concreta degli ordinamenti derivano dal diritto positivo. La sua analisi si svolse quindi congiuntamente su un doppio piano: quello del diritto naturale da un lato e quello del diritto positivo dall'altro, mettendone così in luce le convergenze e le contraddizioni (chiamerò questo profilo 'giusnaturalpositivo': non mi piace ma non ho trovato un termine più appropriato). Riporto quindi le frasi che si riferiscono a questi tre profili. 2.1. L'approccio 'equilibrato e realista'. Questo approccio si è tradotto in una serie di proposizioni teoriche diverse da quelle che massimizzavano punti di vista parziali e soggettivi. Di qui una critica serrata: a) alle dottrine assolutiste dell'idealismo e dello storicismo; b) a quelle del razionalismo e del relativismo. 2.1.a. Contro gli assolutismi dell'idealismo e dello storicismo. «Le teorie assolute non potranno mai corrispondere allo stato reale delle cose del mondo, e deluderanno sempre l'universale istinto nostro intellettuale di uniformare e unificare [...] Nelle cose umane, poi, oltre le varietà [...] degli uomini e dei luoghi conviene aggiungere anche la varietà dei tempi; talché senza tutto il complesso positivo non si può dire giammai esistere né scienza, né dottrina profittevole» (31). - «Lo spirito umano non suole ratenersi nel giusto mezzo se non dopo di essersi stancato su estremi contrari». «Questi estremi rassomigliano ai deserti (31) Dell’indole e dei fatttori dell’incivilimento, parte I, in Annuali universali di Statistica, 1932, vol. XXXI, pp. 129, 241 e XXXII pp. 17, 145, in Op. I, 2, p. 77. Il lavoro ha preso spunto dal discorso pronunciato da B. Victor Franklin all’Ateneo delle Arti di Parigi (1830). Per “incivilimento” Romagnosi intende “quel modo di essere della vita di uno Stato, per il quale egli va effettuando le condizioni di una civile e soddisfacente convivenza. Si parla di un Stato e però di un popolo che ha nido ed abitazione stabile sopra un determinato territorio, e che vive con civile governo” (ivi, p. 17). In seguito specifica: “fu detto ch’egli è un modo di essere della vita di uno Stato. Ma la vita, propriamente parlando, non è che una serie di funzioni. Dunque l’incivilimento non sarà fuorchè una data maniera di queste funzioni” (ivi p. 30). CONTRIBUTI DI DOTTRINA 211 soleggiati dell'Africa, o ai tenebrosi delle terre polari [...] La storia dell'umanità incominciata con i Puranas cabalistici, e finita con l'ultrametafisica, presentò questi due estremi: l'uno nella più remota antichità, l'altro a’ giorni nostri. Ma questi estremi si rassomigliano [...]. Ambidue sono figliazioni di sfumate analogie; ambidue non colpiscono la realtà positiva; ambidue non offrono che lo sterile spettacolo di voli dell'umano pensiero nel caos dell'idealismo; ambidue finalmente non diedero che favole, ed altro che favole» (32). - Critica al «signor Hegel, professore di Berlino»: è «l’esempio più segnalato [...] di formule metafisiche» che ricostruiscono la storia di quattro mondi: l’orientale, il greco, il romano e, infine il germanico nel quale, secondo Hegel, «si compie la risurrezione della vita morale. L'unità divina e la natura dell'uomo si riconciliano, e da questa fusione escono la liberta, la verità e la moralità». A parte, osserva Romagnosi, che «in questa divisione che teorizza il nuovo mondo non vi trovo il mondo americano», «le epoche dell'Hegel sono in sostanza le dominazioni di un popolo sopra di un altro». La teoria di Hegel «non giustifica il proprio fondamento». «Io domando (ad esempio) che cosa significhi la frase: un popolo non esiste nella storia del mondo fuorché per rappresentare un'idea necessaria». Se l'idea necessaria è la vita e la morte dei loro individui, ce l’ hanno anche i Boschumas; se invece è il tempo nel quale predominare sugli altri popoli, allora sarebbe come dire che l'epoca di un fiume è quando straripa ed inonda; e quella dell'atmosfera quando infuria con li uragani e le epidemie». «Il sig. Hegel non è pago dell’esaltazione del popolo posto nella sua epoca, ma decreta anche lo spoglio di ogni diritto degli altri popoli del mondo» (33). - Critica congiuntamente la scuola storica e quella che definisce 'filosofica', fra le quali era in corso una accesa polemica: «Non ignoriamo l'ardente antipatia ed il flagrante e clamoroso scisma fra la Scuola cosi detta storica e la filosofica, che oggi arde in Germania. La prima ha per fervente antesignano il Savigny; la seconda il Ganz. Ambedue spinte con infinita esaggerazione, con una polarità contraria trascorrono agli ultimi estrerai escogitabili; talchè la storia non trova riposo che nel più gretto e materiale empirismo, e la filosofica nel più sbrigliato e sfumato trascendalismo [...] Un tempo verrà che le le esaltate effervescenze suddette cesseranno; e quel tempo non è assai lontano. L'esaggerazione delle due Scuole non può andare oltre» (34). (32) Alcuni pensieri sopra un’ultra metafisica filosofia della storia, Lettere a P. Vieusseux, in Antologia, Firenze, 1832, vol. XLVI, p. 23, e in Op. II, 1, p. 284. (33) Ivi, pp. 286, 291, 292. (34) Corpus civilis ad fidem codicum manuscriptorum aliorumque subsidiorum criticorum recensuit, in Indicatore 1835, I, pp. 407 ss., e in Op. VII, 2, suppl. 2, pp. 13 ss. Romagnosi, per altro, apprezza la pubblicazione delle Instituzioni di Giustiniano (Tubinga 1832): “non sapremo raccomdare mai abbastanza lo studio di queste istituzioni, e quindi la stima in cui tenere si debbano le ultime fatiche dei benemeriti editori di Tubinga” (ivi p. 20), Rimprovera però, alla scuola storica, di confondere il fatto con il diritto (Ragguaglio storico e statitico degli studi di diritto germanico e naturali in Allemagna, in Op. III, I, p. 549, n. 4). 212 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 2.1.b. Contro il razionalismo e il criticismo. Dalla impostazione illuminista Romagnosi deriva il particolare rilievo che attribuisce alla ragione (e se ne vedranno poi le implicazioni sul concetto di diritto naturale e le applicazioni nelle categorie giuridiche). Definisce la dottrina della ragione come «l'esposizione dei poteri e delle leggi fondamentali della moralità intellettuale umana, dedotta tanto dalle osservazioni irrefrenabili della coscienza, quanto da deduzioni logiche indubitabili ». La ragione è «il trono dello scibile e dell'operabile libero umano», «madre, direttrice ed assicuratrice dei lumi necessari alla vita civile» (35). In vari studi, che qui non è opportuno riportare perché l'argomentazione è ampliata dalla polemica con i contemporanei, Romagnosi approfondisce il procedimento logico e sperimentale che consente di individuare la verità, di distinguere il «certo» («l’indubitato») dal «vero» («l'indubitabile»), secondo i modi che la mente umana ha di percepire e verificare i fatti, di analizzarli e di metterli in connessione tra loro (36). Ne deriva una inevitabile, e accesa polemica con la diversa idea del primanato della ragione espressa da Kant, che con la sua 'rivoluzione copernicana' aveva invertito il rapporto fra la rappresentazione e l'oggetto e posto al centro non l'oggetto stesso ma il soggetto che ne dà una rappresentazione sulla base dei propri (indimostrabili) 'a priori'. Lo scetticismo kantiano portava alle estreme conseguenze l'impostazione individualista e preparava la strada sia all'ultra-metafisica dell'idealismo, sia al totale relativismo (37). (35) Dell’uso della dottrina della ragione nell’amministrare l’economia dell’incivilimento, Inded., Firenze, 1835, in Op. I, 1, pp. 688 ss. (36) Vedute fondamentali nell’arte logica (1832) suddivisa in 4 parti: 1) Del conoscere con verità, 2) Dell’operare con effetto; 3) Del provare con certezza; 4) Del convivere con progresso (incivilimento), in Op. I, 1, pp. 208 ss. “È legge constante della mente umana d’abbracciare prima di tutto le totalità, indi distinguere le particolarità”. “La soverchia vicinanza ci condanna allo sgranato, la soverchia lontananza ci condanna allo sfumato. Certamente le idee dinvengono più semplici, e i rapporti si fanno più evidenti; ma il valore reale e scientifico va in proporzione scemando, e sparisce. Illusorio è dunque al cospetto della vivente natura il valore cotanto vantato delle generalità mentrechè esso consiste solamente nel soccorrere la nostra limitazione, avvicinandoci all’indigrosso alla universalità reale delle cose coll’uso delle vedute medie assicurate. Mediante questo avvicinamento noi abbiano una cognizione preventiva delle cose le quali offrono il più di caratteri simili fra loro” (Dell’uso della dottrina della ragione, cit. p. 701). (37) Esposizione storico-critica del Kantismo e delle consecutive dottrine, in Bibl. it., 1828, p. 163; in Op. I, 1, pp. 575 ss. Romagnosi riconosce a Kant il merito dell’aver posto in dubbio le nozioni e i principi dogmatici e critici prima dominanti in Germania, ma sostine che “la dottrina [...] di Kant, a parlare con tutta franchezza, ti presenta una speculazione che sta fra le nuvole, e vi sta nuvolescamente. Sta fra le nuvole, perchè nel campo immenso di uno sbrigliato possibile non ti adduce né ragione, né fondamento comprovato di veruna legge e di veruna tendenza dello spirito umano; ed anzi prescinde da qualsiasi genesi positiva dei poteri e delle funzioni, assumendo nozioni assolute”. Si rende impossibile, così “connettere il sistema contemplativo col sistema operativo dell’uomo”; “col dire ch’è impossile di accertare la verità dei fatti esterni si annienta tutta la certezza sperimentale” (p. 579), “Non vi ha alcuna conoscenza, se non vi sono oggetti conosciuti, la conoscenza non è che un nome vano, se non è conoscenza di qualche cosa reale” (p. 593). CONTRIBUTI DI DOTTRINA 213 Difendendosi dall'accusa che gli fecero i kantiani di sensismo e empirismo, Romagnosi osserva che sottratto l'uomo interiore dall'impero della materia, o conviene lasciarlo entro tenebre impenetrabili, o inventare una logica senza radici e senza nesso (38). 2.2. L'impostazione individuale-sociale. Romagnosi assume come dato indiscutibile, che pone a base della rilessione filosofica-giuridica, la natura sociale dell'uomo. Non è, questa, una idea originale perchè, come è noto, essa si pone con tutta evidenza ed è patrimonio comune della consapevolezza umana quanto meno, nel pensiero occidentale, a partire da Aristotele. Ciò che cambia, anche radicalmente, nelle diverse impostazioni filosofiche, e il mix che viene fatto fra due diversi profili, quello dell'individuo e quello della società. Le diverse opinioni si sono avute, e si hanno nel peso che si dà a ciascuno di essi. La tendenza alle assolutizzazioni si è manifestata nel rendere l'uno totalmente ancillare dell'altro, arrivando ad intendere la società come mera somma di individui o, all'opposto, l'individuo come mera parte della società. L'una o l'altra concezione finiscono poi per confluire, perche l’atomismo individualista non può che assolutizzare il momento della sintesi rispetto al quale le singole componenti perdono un proprio significato (39). Nella stagione dell'Illuminismo, della riscoperta del valore dell'individuo e della sua libertà, l'oscillazione del pendolo delle idee fu tutta nel senso dell’individuo. Romagnosi si differenzia da questo orientamento e muove quindi critiche serrate alla filosofia di Rousseau. Il fondamento contrattuale del potere teorizzato da Rousseau nella sua tesi sul 'contratto sociale' esprime al massimo l'ispirazione individualista: il potere deriva da un contratto stipulato dagli individui. Nel contratto sociale, per Rousseau, l'individuo si spoglia del proprio potere ma, donandolo ad altri, come gli altri fanno, in realtà non lo dona a nessuno e acquista ciò che ha perso nell'alienazione. Solo che, osserva Romagnosi, questo 'contratto' stipulato forzosamente, non è un atto libero e comporta, per Rousseau, «l'alienazione totale di ciascun associato, con tutti i suoi diritti a tutta la comunità». La necessità di questa alienazione totale è contestata da Romagnosi; «Io concedo di buon grado che l'unico mezzo a conservarsi in società sia quello di (38) Note a un articolo su Progressi e sviluppi della filosofia e delle scienze metafisiche, tradotto dalla Philosophical transactions, in Indicatore, 1835, IV, pp. 5 ss., in Op. I, 1, pp. 650 ss. Anche il neokantiano G. DEL VECCHIO, Giandomenico Romagnosi nel primo centenario della sua morte, cit., gli mosse l’obiezione di sensimo, eclettismo e naturalismo. Del Vecchio ha smunito e a ragione dal punto di vista degli specialisti di filosofia, l’opera filosofica di Romagnosi (non ne aveva “la vocazione”) e lo ha considerato comunque un precursore del positivismo e dell’evoluzionismo. (39) V. fra i tanti G. BURDEAU, Traité de science politique, vol. II (L’Ètat), XII ediz., Paris, L.G.D.J, 1967, pp. 290 ss. 214 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 formare per mezzo dell'aggregazione una somma di forze, la quale possa trionfare delle private resistenze, e procacciare altri mezzi esterni di difesa e di utilità, e che convenga dirigere queste forze mediante un mobile solo, e farle agire di concerto; ma non posso concedere che per la cospirazione delle forze sia necessaria l'alienazione assoluta della persona e dei diritti degli individui. La cospirazione delle forze altro non importa fra gli uomini che uno scopo identico voluto in comune, e procurato con le forze comuni. Ma questo scopo identico in che consiste? Forse in qualche cosa di estrinseco all'individuo, e di talmente estrinseco, ch'egli debba rinunziare al proprio interesse, alla propria autorità, ai propri diritti? No certamente. Ciò sarebbe un impossibile morale. All'opposto lo scopo di questa cospirazione di forze è tutto intrinseco, tutto proprio, tutto personale all'individuo. Qual cosa di più intrinseco, di più proprio, di più personale dell'amore del proprio benessere? Dunque, ben lungi di alienare alcun diritto, egli anzi, mercé l'associazione, intende di assicurarne, di agevolarne e di estenderne vantaggiosamente l'esercizio» (40). Come si potrebbe altrimenti sostenere, osserva Romagnosi, che vi sono «diritti inviolabili dell'uomo»? Lo stesso ragionamento si applica al rapporto fra la società e lo Stato; è errato «dire che quando una società di eguali crea un Governo si spogli o dell'entità o dell'esercizio de’ suoi naturali diritti, o di alcuni di tali diritti, per depositarli in mano ad un terzo che ne rimanga investito» (41). «La necessità del governo civile è connessa e subordinata alla necessità dello stato sociale»; non si devono «fare li uomini per li Governi, ma i Governi per li uomini». La legge dello Stato deve essere «proporzionale a tutti questi mezzi relativamente al loro fine» (il benessere degli individui). «Col voler governare troppo si governa male». Fu già avvertito da un grande uomo, che «dove una cosa senza legge opera bene, non è necessaria una legge». Ma io dico di più, che dove una cosa senza la legge opera bene, la legge sarebbe perniciosa e contro il diritto [...], arrogandosi un imperio non necessario vesserebbe senza titolo la libertà dei cittadini, il che viene proibito dai principj di rigoroso Diritto». Questo principio determina quindi un «limite dell'obedienza civile». Il limite al pubblico potere è quindi intrinseco alla sua natura, alla sua funzione di garantire la libertà e il benessere degli individui e il buon funzionamento della società. Trattandosi di un potere che si legittima per la funzione cui deve assolvere, il suo esercizio è «doveroso» (42). La concezione del potere è, come si vede, del tutto positiva nel senso che il potere, così inteso, è un (40) Istituzioni di civile filosofia, ossia di Giurisprudenza teorica, scritta per l’insegnamento nell’Università di Corfù, che poi non gli fu consentito (1824, prima stampa, postuma, 1839, in Op. III, 2, p. 1364). (41) Diritto naturale politico, Ined., in Op. III, 2, p. 920. Come si vedrà è questa la premessa filosofica della sovranità del popolo anzichè dello Stato, “La sovranità è un diritto di cui tutto il corpo della nazione è investito dalla natura medesima [...] il porlo in attività [...] mercé la creazione del Governo, è un atto volontario, se bene doveroro della nazione” (ivi, p. 919). CONTRIBUTI DI DOTTRINA 215 bene e i suoi limiti derivano dal suo modo di essere e non dalla necessità di delimitare un fenomeno negativo. Il «contemperamento armonioso e necessario della socialità coll'individualità » non dà luogo, in Romagnosi, a una visione organicista; i due elementi non si assorbono tra di loro e, anzi, sussiste «da per tutto e in ogni tempo un contrasto più o meno gagliardo fra l'individualità e la socialità», un «vitale antagonismo » che non è, come altri ritengono, un vizio originario della natura ma è alla base delle vane, positive, forme di emulazione, e che determina la progressività e i progressi delle genti incivilite» (43). L'organismo sociale si articola in varie unità: anzitutto quella individuale, poi quella domestica, quella municipale e quella nazionale, che formano «altrettante parti di una macchina d'aiuto, per conseguire, mediante la pace, l’equità e la sicurezza, lo scopo personale (dell'individuo), cioé la soddisfazione dei suoi bisogni» (44). «L’individualità è sempremai prevalente nella socialità. Ma siccome la socialità esige di transigere con altri, così il punto della transazione sta fuori dell'individuo» (45). La funzione della socialità, con le necessarie implicazioni di una unità centrale (unificante ma non assorbente delle sue componenti) si ottiene «nella civile potenza dello Stato, che racchiude il massimo dei lumi, di bontà e di potenza» (46). 2.3. L'impostazione giusnaturalpositiva. Cercando di capire se Romagnosi sia stato, come ha sostenuto V.E. Orlando, un filosofo o al più un giusnaturalista, o, invece, come ha sostenuto Del Vecchio, un positivista o almeno un utilitarista, mi trovo a dover superare diverse difficoltà che derivano anzitutto, anche qui, dalla non univocità dei termini di riferimento, e poi, forse, da qualche insicurezza o almeno non totale (42) Ivi, pp. 849, 880, 881, 891, 922, 923. La frase su riferita è di N. MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, I, p. 3. Queste tesi sono ribadite in varie opere v. ad es. Introduzione al diritto pubblico universale (Parma 1805) in Op. III, 1, pp. 55 ss. “l’uomo non serva mai all’uomo [...]. Il governo abbia il meno possibile di affari, nell’atto che le società hanno il massimo di faccende”. “La libertà può essere vincolata in quella sola quantità che è veramente necessaria per compiere l’opera comune” (ivi, p. 238). “Niun sacrificio personale può essere doveroso, se non a fronte di un maggior presente o futuro vantaggioso, sia positivo, sia negativo, che derivi dalla comunanza”. Altrimenti il privato “sarebbe per giustizia dispensato dal prestarsi all’interesse della comunaza, che da lui viene in tal caso staccata, e riesce come parte divisa ossia cessa veramente di essere comunanza di bene, la sola valutabile in fatto e in diritto” (ivi, p. 250). (43) Lettera a G.P. Vieusseux, Ined., in Op. III, 1, p. 504. (44) “L’uomo è un essere misto [...] composto di un corpo e di un’anima razionale e libera”. L’unità della quale è investito l’uomo lo rende una persona (La logica per giovanetti dell’abate Antonio Genovesi. Ragione dell’opera, in Op. I, 1, p. 240). (45) Istituzioni di civile filosofia, cit., in Op. III, 2 pp. 1536 ss. (46) Ragione civile delle acque nella rurale economia, in Op. V, 2, p. 1254. 216 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 chiarezza del suo pensiero in questo punto. Giusnaturalismo e positivismo sono nozioni ciascuna delle quali è stata declinata in tanti modi molto diversi fra loro. Per semplicità di esposizione assumo, fra le tante variabili di ciascuna delle diverse concezioni, la definizione di Norberto Bobbio, che ne coglie i profili essenziali: per giusnaturalismo si intende «quella corrente che ammette la distinzione tra diritto naturale e diritto positivo e sostiene la supremazia del primo sul secondo», per positivismo giuridico, invece, si intende «quella corrente che non ammette la distinzione tra diritto naturale e diritto positivo e afferma che non esiste altro diritto che il diritto positivo» (47). Se si assumono come valide queste due definizioni si può affermare con certezza che Romagnosi non fu, pienamente, né giusnaturalista né positivista, o meglio fu l'uno e l'altro in una misura che non ne comprende i profili estremizzanti. Il pensiero illuminista ha ereditato dai pensatoti dei secoli precedenti l'ispirazione giusnaturaista che era servita per arginare il potere assoluto del sovrano: l'idea che il diritto derivi da una fonte esterna implica un limite all'arbitrio del potere (48). La fonte esterna era stata individuata in Dio (Grozio, Pufendorf) e poi nei sentimenti popolari (Wolf). L'impostazione illuminista ha mantenuto e approfondito l'idea della fonte esterna ma, come è noto, l'ha fatta coincidere con la ragione (49). In particolare nel pensiero di Kant e della sua scuola la ragione detta le regole di condotta universali, che si impongono all'individuo prescindendo dal suo interesse. Romagnosi osserva che «il diritto naturale divenne così una scienza puramente razionale» (50). La distinzione fra diritto naturale (razionale) e diritto positivo è ribadita e (47) Giusnaturalismo e positivismo giuridico, cit., p. 17. Lo stesso Bobbio avverte per altro che nelle diverse epoche storiche si sono avute concezioni diverse sia dell’uno che dell’altro: “tra le braccia protettrici del diritto naturale hanno trovato rifugio di volta in volta, secondo i tempi e le occasioni, le modalità più diverse, tanto una morale dell’autorità quanto una morale delle libertà; sono state proclamate tanto l’uguaglianza di tutti gli uomini quanto la necessità del regime di schiavitù; tanto l’eccellenza della proprietà individuale quanto l’eccellenza della comunione dei beni”. E anche il positivismo ha assunto contenuti differenti nel tempo, dalle giustificazioni della dittatura alla difesa di valori etici, come la legalità e la certezza del diritto (pp. 116 ss.). Sul tema v. le interessanti considerazioni di U. PETRONIO, La lotta per la codificazione, cit. pp. 39 ss. (48) N. BOBBIO, Il Giusnaturalismo, in Storia delle idee politiche economiche e sociali a cura di G.H. SABINE, Storia delle dottrine politiche (1937), trad. it., Milano, Comunità, 1956, pp. 317 ss.; G. TARELLO, Storia della cultura giuridica moderna, cit., pp. 97 ss.; O. VON GIERKE, Giovanni Althusius e lo sviluppo storico delle teorie politiche giusnaturalistiche (1880), trad. it., a cura di A. Giolitti, Torino, Einuadi, 1943, pp. 94 ss., 158 ss., GURVITCH, Sociologia del diritto (1942), trad. it., II ediz., Milano, Etas Kompass, 1967, pp. 70 ss. (49) V. fra tanti, G. TARELLO, Storia della cultura giuridica, cit., p. 14; F.G. STHAL, Storia della filosofia del diritto, trad. it., Torino, Tip. Favale, 1853, p. 595. (50) Ragguaglio storico e statistico degli studi di diritto germanico e naturale in Allemagna, cit. pp. 73, in Op. III, p. 543. Nelle università germaniche la denominazione dell’insegnamento di Diritto naturale fu sostituita con quella del Diritto filosofico, o di Filosofia del diritto, o di Diritto della ragione. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 217 fatta propria da Romagnosi: «Il diritto volgarmente detto positivo racchiude quegli stabilimenti politici i quali derivano dalla volontà degli uomini che reggono le civili società» (51) e, «ad onta d'ogni regola di ragione lo spirito delle leggi positive sarà sempre su questa terra un risultato degli interessi dei predominanti» (52). Il primato spetta, per Romagnosi, alla ragione, ma è una ragione che non è fuori del tempo e dello spazio e che è volta a garantire il massimo di benessere possibile nelle condizioni date. La stessa idea della dottrina della ragione è diversa perché essa è, per Romagnosi, «la logica naturale secondo l'interesse nostro atteggiata». La ragione deve cogliere l'esistenza reale; «sotto il nome di esistenza si abbraccia l'essere e il fare; e sotto questi due capi si comprendono lo stato assoluto e il relativo, permanente o transitorio delle cose dell'uomo e della materia notificabili a1l'inte1letto» (53). «Si raddrizzi la storta, divulgata e ricevuta sentenza, che il Diritto pubblico altro non è che un'applicazione del Diritto naturale, quasi che il Diritto naturale si restringesse ai rapporti dell'uomo considerato in una astratta generalità, o che i principi tratti dalle considerazioni universali dell'uomo individuo potessero per sé determinare le regole del corpo sociale». «A questa mal pensata maniera di concepire la scienza si sostituisca il principio, che tutti i doveri e i diritti di qualunque ordine, essendo un risultato dei rapporti reali delle cose, si debbano originariamente derivare, fissare e dirigere giusta le risultanze ammesse allo stato speciale di fatto in cui sono le cose e gli uomini, indotte dalla necessità della natura in mira alla maggiore felicità». «Il diritto pubblico, considerato come scienza, altro non è che: la cognizione sistematica delle regale di ragione direttive le cose pubbliche, derivanti dai rapporti reali e materiali pubblici sia interni che esterni delle società civili» (54). Questa impostazione consente a Romagnosi di tener conto, da un lato, del diritto positivo (quanta meno, osserverei, considerato come un fatto dal quale il giurista non può prescindere) e, dall'altro, di ancorare la speculazione giuridica a valori esterni al diritto positivo, che trovano il loro fondamento nella natura individuale e sociale dell'uomo. Ciò lo induce a considerare con diffidenza i voli pindarici proposti da suoi (come ora da nostri) contemporanei che «confondono il fatto con il diritto », e non si rendono conto che «altro è il giusto speculativo altro il giusto possibile»; «altro è figurare un diritto, ed altro è pretendere ad una cosa». L'idea che il diritto debba garantire la felicità non tiene conto della condizione (51) Introduzione la diritto pubblico universale, in Op. III, I, p. 110. (52) Materie di diritto civile, esposte per gli esami di laurea nell’Università di Pavia, in Op. VII, I, p. 11. (53) Dell’uso della dottrina della ragione nell’amministrare l’economia dell’incivilimento, Firenze, 1835, in Op. I, 1, pp. 688 ss. (54) Introduzione allo studio del diritto pubblico universale, in Op. III, 1, p. 61. 218 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 umana e della società, che devono, piuttosto, tendere ad assicurare la possibile felicità nel contesto dato, a stare meglio piuttosto che peggio (55). Critica percio quei Pubblicisti i quali non tengono conto delle condizioni necessarie per trattare a dovere il Diritto delle genti [...] i quali non pensarono che ogni classe possibile di diritti e doveri altro essere non può, se non un risultato necessario dei rapporti reali delle cose, e che per conseguenza ogni diritto e dovere conviene trarlo dalla natura delle relazioni proprie di ogni sfera, e non mai di fare delle pretese applicazioni [...] e, [...] per una male intesa filantropia, di trasportare senza distinzione alle relazioni esterne i doveri e i diritti che non si possono verificare che nell'interno della socieà». Sulla base della stessa impostazione rileva che «mancano i fondamenti congrui del Diritto pubblico positivo universale» (56). 3. I principi giuridici, in particolare nel diritto amministrativo. I principi giuridici enunciati da Romagnosi sono, come avevo anticipato, strettamente connessi con quelli filosofici. Un approccio non positivista ma, nel contempo, consapevole del rilievo che ha il diritto positivo nella ricerca giuridica, si trovava, nel periodo della sua produzione scientifica, in una fase di turbolenza per i continui cambiamenti istituzionali prima ricordati. La scienza del diritto pubblico, preceduta in Germania dalla c.d. 'cameralistica' (scienza di polizia ed economia), non si era ancora consolidata, Romagnosi osservava che «ogni filosofo politico, versato nella lettura dei jus-pubblicisti concede di leggieri che per mala nostra sorte gran tratto di paese ancora incognito racchiude la scienza della cosa pubblica, e per conseguenza a lei manca tuttavia quella unità e passanza sistematica che sola le può a ragione attribuire il titolo di scienza» (57). Il fenomeno che determina la nascita del diritto amministrativo in tutti i paesi dell'Europa continentale è connesso a una trasformazione qualitativa e quantitativa del pubblico potere. Quella qualitativa è consistita nella sua 'giuridicizzazione': il potere perde la sua monoliticità, si articola in più poteri esercitati da organismi diversi, diventa non solo fonte del diritto ma anche soggetto al diritto; il rapporto con il cittadino è stabilito e regolato dalle norme. Quella quantitativa è derivata da un progressivo ampliamento delle funzioni dello Stato che comprendono sempre più la cura del benessere dei cittadini. Gli stati non si occupano più soltanto di guerra, ordine, giustizia e finanza, (55) Ivi, p. 547. (56) Ivi, pp. 99 e 112. Va segnalato, però che in alcuni studi Romagnosi sembra negare il carattere di “diritto” al c.d. diritto positivo che si opponga alla morale razionale. (57) Prefazione alla Introduzione allo studio, cit., in Op. III, 1, p. 58. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 219 ma sempre più di infrastrutture, assetto del territorio, scuole, sanità ('polizia medica'); inizia il processo, che durerà vari decenni, di trasformazione delle funzioni caritative in funzioni pubbliche. Alle precedenti funzioni «ispettive», e «tutelari» si aggiungono quelle «tutorie e di soccorso in tutti quelli oggetti ed in tutti quei casi i quali, sebbene siano di privato interesse, ciò nonostante non possono da un privato o per diritto di eguaglianza o per fatto di potenza essere stabiliti e protetti» (58). La scienza giuridica che aveva fino ad allora operato sulla base della tradizione romanistica, sufficiente a descrivere e regolare le vicende di diritto civile, si è trovata a dover qualificare profili non riconducibili alle dinamiche dei rapporti interprivati. Servivano nuove nozioni giuridiche che potessero spiegare e definire un fenomeno nuovo: quello di un pubblico potere volto a curare gli interessi degli `amministrati', di una amministrazione che è sottoposta al diritto, pone in essere atti giuridici che hanno una struttura, una destinazione e quindi una natura giuridica diversa; una amministrazione che inizia ad articolarsi in varie figure soggettive. Rispetto alle opere di pochi, precedenti autori francesi, Romagnosi critica ii loro prevalente approccio di esposizione ed esegesi della normativa: ad esempio del Corso di L. Portiez de l’Oise (59), perché «trattandosi di conoscere una cosa per principi, per causas, è cosa assurda e antilogica incominciare da applicazioni secondarie, le quali altro non sono se non conseguenze», e, ancora, di C. Bonin (60), che contiene una esposizione organica della legislazione. Romagnosi sostiene che la partizione di questa opera «non è adatta ad una trattazione dottrinale perché in primo luogo tratta della gerarchia amministrativa che è posteriore rispetto agli oggetti della cosa pubblica, agli interessi che vanno tutelati seconda la Costituzione e la legislazione»; «è necessario [...] far precedere la cognizione e la ragione delle funzioni all'esercizio delle funzioni stesse» (61). Accetta invece la definizione di atto amministrativo data da P.A. Merlin (62): «un decisone, un atto, un fatto dell'Autorità amministrativa, che si riferisce alle sue funzioni», ma la approfondisce e chiarisce sostenendo che, pur essendo tutta l’attività dell'Amministrazione di ragion pubblica, la nozione d'atto amministrativo è ristretta solo agli «atti d'impero». e non anche «agli atti di gestione » che seguono le regole del diritto privato (63). (58) Principi fondamentali del diritto amministrativo, cit., in Op. VII, § LXXXVI. (59) L. PORTIEZ DE L’OISE, Cours de Legislation admnistrative, Parigi (ne riferisce G.D. ROMAGNOSI, Della scienza dell’Alta Legislazione. Premessa ai Principi fondamentali del diritto amministrativo, in Op. VII, pp. 1424 ss.). (60) C. BONIN, Della importanza e della necessità di un codice amministrativo, Parigi, 1808. (61) L’osservazione di Romagnosi è in Della Scienza dell’alta legislazione, cit,. p. 1428. (62) P.A. MERLIN, Repertorie univesal et raisonnnè de jurisprudence, Parigi, 1810, I, p. 65, voce Acte administratif. (63) Principi di diritto amministrativo, cit., in Op. VII, p. 1529. 220 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 Da giurista consapevole dell'importanza del diritto positivo non poteva non tener conto dei caratteri fondamentali dell'ordinamento vigente e dei condizionamenti che ne derivavano, primo fra i quali il dogma per cui il potere giudiziario non poteva invadere l'ambito del potere amministrativo. La giustizia nei confronti degli atti della pubblica amministrazione si poteva quindi ottenere solo ricorrendo agli organi superiori della stessa e poi al Consiglio di Stato ancora ai primordi di quella che sarà la sua funzione giurisdizionale, e con decisioni che avevano natura amministrativa. L'opera di Romagnosi comprende, anche se a volte in modo disorganico, tutte le tematiche del diritto arnministrativo: le funzioni, il tipo di atti, l’organizzazione e le tutele. Vi è un'attenzione ai profili della tutela contenziosa ma la costruzione dei principi si basa anzitutto sui profili essenziali della tutela, quella che Romagnosi chiama «pacifica»(64). Le cautele introdotte dalle leggi e dai regolamenti costruiscono il sistema della garanzia preventrice dell'abuso di potere ». Anche il controllo gerarchico è per garantire l’imparzialità. L'ordinamento è costruito secondo il canone della «necessità assoluta di prevenire che l'interesse dell'amministrato non sia sacrificato a quello dell'amministrazione» (65). L'assetto del diritto positivo vigente non consentiva un'opera di sistematizzazione completa. Romagnosi ne era consapevole e dichiarava che non era stato suo obiettivo fare un trattato organico della materia ma fissarne i concetti fondamentali: «Niun lavoro comprensivo un corpo d'intera disciplina io lascio ma solamente vedute fondamentali» (66), i 'criteri generali', di cui parlava Giannini. Con le avvertenze prima indicate riporto i punti più significativi. 3.a. La necessarietà del potere. «L'amministrazione ha la legge sopra di sé; ma la sua azione, che spesso deve essere rapida, uniforme e concentrata non deve subire ritardo né opposizione dalla pluralità di opinioni poiché gravissimi sarebbero gli inconvenienti e i danni che ne riporterebbe la cosa pubblica, la quale ad ogni modo dev'essere provveduta. La natura per altro delle funzioni esecutive, per questa loro urgenza, dovevasi ciò non ostante combinare con la giustizia; e però siccome l'urgenza e la rapidità non avrebbero permesso di ponderare tutti gli interessi, perciò in massima generale fu stabilito che le nozioni amministrative non possono soffrire ritardo, specialmente in certi casi dal reclamo delle parti; ma d'altronde fu stabilito che tali ordinanze siano sempre ritrattabili, a differenza di giudizi in contraddittorio, che vengono pronunciati con la cognizione e ponderazione degli interessi e delle ragioni delle parti contendenti» (67). È mate- (64) Della condotta delle acque, cit. in Op. V, 1, p. 14. (65) Principi fondamentali del diritto amministrativo, cit. cap. III. (66) Ivi, p. 1464. (67) Prolegomeni dell’alta legislazione, ined., in Op. VII, 2, p. 1409. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 221 riale grezzo, come si vede, ma denso di stimoli. Da notare, tra l'altro, che lo stesso potere di autotutela, come poi è stato chiamato, è qui configurato in funzione di garanzia e non in termini autoreferenziali. «Un potere imperativo forma una condizione sine qua non di ogni civile consorzio»; è «indispensabile l'esistenza di un potere centrale comune tutto pubblico, dotato di forza imperante »; ciò deriva «dal grande principio della socialità, fondamento e norma della 'vita civile'». Occorre un contemperamento armonioso e necessario della socialità con l'individualismo; il contrasto è «vitale antagonismo», senza di esso «la tutela dei diritti sarebbe abolita» (68). «Il potere politico deve essere interamente unito in un solo centro. Con ciò si esclude l'anarchia feudale e la cortigianesca, e si sottopone il potere all'unità politica. [...] Questo centro deve essere pubblico, unicamente pubblico, ed esclusivamente pubblico», perché «non v'ha petulanza più brutale di quella di proclamare un impero non pubblico» (69). 3.b. Il carattere limitato del potere. Da questo principio filosofico derivano i seguenti corollari: b.1) il principio di proporzionalità; b.2) il criterio restrittivo del carattere autoritativo degli atti. b.1) Il principio di proporzionalità è evidente in molte proposizioni: - «occorre far prevalere la cosa publica alla privata dentro i limiti della vera necessità» (70); - «la legge, arrogandosi un impero non necessario, vesserebbe senza titolo la libertà dei cittadini» (71); - «la libertà, in vista del fine proposto, può essere vincolata [...] in quella sola quantità che è veramente necessaria per compiere l'opera» (72); - la scienza del diritto penale deve «determinare le proporzioni esatte e vere» del potere punitivo. Lo stesso principio vale per la legittima difesa: «L'offesa recata all'ingiuriante [... ] deve essere necessaria ond'esser giusta e deve essere impossibile prescinderne nella difesa»; «La diminuzione del benessere altrui deve essere la minima possibile» (73). «La regola fondamentale [...] è che l'autorità e la forza obligatoria di qualunque funzione o atto amministrativo non può eccedere l'intento obbligato, per il quale l’atto o la funzione furono stabiliti dalla legge» (74). b. 2) Il criterio restrittivo del carattere autoritativo degli atti deve ispirare (68) Lettere a G.P. Vieusseux, 1, in Op. III, p. 504. (69) Istituzioni di civile filosofia ossia di giurisprudenza teorica (postuma), in Op. III, 2, p. 1388. (70) Ivi, p, 1445. (71) Diritto naturale politico, ined., in Op. III, 2, p. 891. (72) Introduzione allo studio del diritto pubblico universale, in Op. III, 1, p. 238. (73) Genesi del diritto penale, in Op. IV, 1, pp. 14, 24 e 83. (74) Instituzioni di civile filosofia, cit., in Op. III, 2, p. 1448. 222 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 l'interpretazione degli atti amministrativi e delle competenze giudiziarie: «Non conviene estendere la potenza amministrativa al di là della sfera dell'atto stesso, benché vi possa essere una plausibile ragione; ma conviene restringerla all'atto medesimo, mentre non vi sarebbe più confine a cui arrestarsi». Cosi, ad esempio, se un contratto di un Comune viene approvato dall'autorità amministrativa e il privato lo rescinda a titolo di lesione, « i Tribunali civili, malgrado l'approvazione o l'autorizzazione dell'Autorità tutoria amministrativa, hanno il pieno diritto di decidere del merito dell'affare senz'aver riguardo all'opinione della stessa Autorità amministrativa. Parlando dunque degli atti dell'Autorità amministrativa anche competenti, non si deve eccedere la sfera degli effetti propri dell'atto medesimo sotto il pretesto di una ragionevole induzione ad un altro atto che sta fuori dalla sfera dell'atto amministrativo» (75). Va fatta una «differenza fra gli atti di gestione e gli atti di Autorità amministrativa: non ogni atto, benché competente ad un amministratore e che appartiene all'amministrazione, si può dire atto di Autorità arnministrativa ad effetto di fondare o di escludere una competenza. Molti atti di semplice economia patrimoniale si debbono eseguire da uno o più amministratori; ma non per questo tali atti sono di Autorità amministrativa ad effetto di escludere i Tribunali dal conoscere della questione del mio e del tuo, che possono insorgere tra l'amministratore e il privato» (76). Le relazioni e le destinazioni possono essere di vario tipo ed è riduttivo ritenere che possano essere solo «assolutamente pubbliche» o «assolutamente private». Fra 'pubblico' e 'privato' esiste una gradazione, come esiste fra i diritti. La natura pubblica di uno «stabilimento», ad esempio uno «spedale» o una Università, non comporta la natura pubblica di tutti i suoi beni né è 'pubblico' il salario degli inservienti a un pubblico stabilimento. «È noto che il nome privato non si riferisce solamente a un individuo o a una famiglia, ma [...] a quelle persone morali e collettive, le quali compongono una data corporazione » (77). Nell'ordinamento positivo di allora, «per rendere la questione di competenza del Consiglio di Stato basta che si tratti di conoscere della regolarità o irregolarità di un atto anche incompetente di una attuale Autorità amministrativa, senza che la materia sia intrinsecamente, o per il suo titolo, di ragione amministrativa». Ebbene, osserva Romagnosi, che l'atto incompetente non è veramente amministrativo. Le nullità per motivo di competenza (che intendeva però in modo diverso dall'attuale) sono assolute, e quindi insanabili dall'autorità la quale «non può padroneggiare l'ordine delle competenze, che appartiene alla Costituzione dello Stato». La competenza del Consiglio di Stato sta a in- (75) Principi fondamentali del diritto amministrativo, cit., p. 1554. (76) Ivi, p. 1525 ss. (77) Della condotta delle acque, cit., in Op. V, 1, p. 40. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 223 dicare solo una questione di giurisdizione e «non indica veramente la natura propria dell'affare» (78). 3.c. L’impostazione funzionale e oggettiva. La scienza del diritto deve esprimere «il sistema risultante dalla considerazione degli uomini in società, avuto riguardo al fine, ch'essi devono conseguire [...] II carattere proprio e speciale delle di lui teorie è quello di addurre un sistema di fini, di azioni e di effetti, più o meno subordinati al fine generale; e quindi dedurre le regole per l’arte fisico-morale di far gli uomini felici, o meno infelici che si può» (79). Non è la natura del soggetto agente a determinare la natura degli atti che adotta; né la natura dei beni. Se l'acqua sia o no un «bene pubblico» non deriva dalla natura del soggetto proprietario o possessore, ma dall'uso che se ne fa. «Ogni cosa materiale, considerata in se stessa, non è pel suo concetto pubblica né privata: essa diviene tale soltanto per la relazione colla quale è rivestita». È la destinazione del bene che ne determina la natura giuridica (80). Anche la definizione di pubblica amministrazione viene data in termini funzionali: la pubblica amministrazione va definita come «quella serie di azioni ordinate ad utilità di tutta una sociea politica, eseguite per autorità sovrana o propria o delegata sopra le materie appartenenti a tutta la società medesima ». La ragion pubblica è «il sistema necessario delle cose e delle azioni, in quanto e determinato dall'interesse di tutto il corpo politico. L'interesse ne forma il fine o l’intento, l’unione e la subordinazione dei mezzi ne forma l’ordine o il sistema» (81). L'ordine legale presuppone una molteplicità. di leggi volte a produrre in comune uno stesso effetto: «L'idea d'ordine include essenzialmente nel suo concetto la esistenza di più cose che concorrono a costruirlo»; «La molteplicità e la varietà delle parti, presa in se stessa, può, bensì costruire una somma, un aggregato; ma non mai un ordine [...] Si esige una terza idea che chiami le parti tutte ad unità [...] per produrre un dato effetto. Questo effetto chiamasi fine o scopo [...] Tolta l'idea di fine, cessa l'idea di mezzo» (82). 3.d. Il principio di sussidiarietà. Questo principio, che ha ora trovato positivizzazione anche nelle norme costituzionali, discende direttamente da una concezione dei rapporti fra indi- (78) Annotazioni alle Prime materie e questioni sopra le forme testamentarie, in Giornale della Giurisprudenza universale, III, p. 149, IV. (79) Opuscoli filosofici inediti, in Op. I, 2, 1542: “Il diritto non è una scienza meramente contemplativa, ma è propriamente operativa [...] egli è per fare”. (80) Della condotta delle acque, cit., Op. V, 2, p. 1287. (81) Principi fondamentali di diritto amministrativo, cit., p. 1438. (82) Vedute fondamentali sull’arte logica, libr. II, in Op. I, p. 335. 224 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 viduo, società e sfera pubblica condivisa da Romagnosi. d.1) La c.d. sussidiarietà 'verticale' (fra i soggetti pubblici). «In uno Stato regolarmente costituito le case e le Municipalità non vengono abolite, ma solamente consociate per costituire un solo corpo di nazione: allora la sovranità del Municipio viene trasportata nella nazione, come prima la sovranità della famiglia venne trasportata nel Municipio. In questa operazione non si eseguisce uno spoglio dei diritti preesistenti, ma solamente una trasformazione di regime, nel quale si cede quel tanto che è necessario, con la formazione del civile consorzio, e sotto la condizione di ottenere il corrispettivo di potenza, di soccorso e di difesa, e soprattutto di equo beneficio che deve derivare da un ordinamento nazionale». «Ecco un nuovo aspetto di quel sociale contratto il quale fino al dì d'oggi non fu considerato fuorché rapporto all'individuo [...]. Nella scienza del politico organismo questo punto di vista è capitale e decisivo» (83). «In una grande nazione sarebbe follia far camminare l'amministrazione locale per mezzo di agenti di Governo; e quando si volesse assumere questo carico, allora non si farebbe che incadaverire l'amministrazione: all'opposto quanto più si lascia di rami, compatibili con l'unità dell'impero, ai Municipi, tanto più si scarica la superiore direzione di un peso a lei non necessario, e si rende più facile e spedita la sua amministrazione» (84). d.2) La sussidiarietà c.d. 'orizzontale' (fra pubblico e privato). Condizione del potere è «che esso unicamente supplisca in quei casi in cui l'andamento naturale delle cose umane non opera rettamente da sé». «Il governo sottentra con la propria autorità tutoria e di soccorso in tutti quegli oggetti ed in tutti quei casi i quali, sebbene siano di privato interesse, ciò non ostante non possono da un privato o per diritto di eguaglianza o per fatto di potenza essere stabiliti e protetti» (85). 3.e. Diritto ed economia: lo studio congiunto; la concorrenza regolata. Non solo la scienza giuridica ha bisogno dì quella economica per comprendere la sostanza dei fenomeni ma anche la scienza economica ha bisogno di quella giuridica. «Tempo verrà che tutta la ragione pubblica economica civile economica sarà ridotta a regola fissa come il Diritto civile [ ... ] il Diritto civile e l'economico verranno considerati come due nomi della stessa scienza». Cita Adam Smith: «scopo è l'utile giusto difuso equamente e facilmente sul massimo numero degli individui sociali» e osserva che è «lo stesso fine della giurisprudenza» (86). (83) Instituzioni di civile filosofia ossia giurisprudenza teorica (postuma) in Op. III, 2, p. 1541. “La nazionalità deve essere radicata nei Municipi” (ivi) pp. 1544 e 1548. Prospetta perfino elezioni di secondo grado, una sorta di federalismo municipale (ivi, p. 1544). (84) Ivi, p. 1549. (85) Principi di diritto amministrativo, cit., p. 1482. (86) Della necessità di unire lo studio della politica economica con quello della civile giurisprudenza, in Annali Universali di Statitstica, 1832, vol. XXXIII, in Op. VI, 1, pp. 63 e 67 ss. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 225 Riporta la tesi di un certo sig. Sismond che aveva scritto: «Il dogma fondamentale della libera ed universale concorrenza ha fatto tanti progressi in tutte le incivilite società. Uno sviluppamento meraviglioso dei poteri industriali anche ne derivò; ma una spaventosa sofferenza in parecchie classi delle popolazioni soventi volte ne provocò»; poi commenta: «L'autore annuncia un fenomeno di fatto; e questo consiste nei gravi e spaventosi patimenti di parecchie classi in seno di popoli nei quali l'industria e la concorrenza fu spinta ad un sommo grado [...] Ma questo effetto non deriva dalla libera ed universale concorrenza ma da un difetto (trascurato da Adam Smith): la nozione di libera concorrenza non è urn nozione di mero fatto, ma bensi d’ordine economico, e però applicable non a poteri sregolati ma bensì a poteri regolati solamente. Per la qual cosa l’economisti debbono pensare di trattare un argomento di diritto politico, e non di calcolo mercantile» (87). Solo con la regolazione si realizza la «concorrenza pienatnente libera» come «la sbrigliata libertà di tutti si risolve nella niuna libertà di ognuno, cosi la sfrenata concorrenza economica si risolve nella niuna concorrenza di ognuno». «La libera concorrenza involge il supposto di poteri», altrimenti non esiste; «la libera concorrenza è solo attributo della natura convenuta entro i limiti della civica temperanza» (88). Rileva «tre peccati capitalissimi» degli economisti più rinomati: «professano il dogma della libera concorrenza senza porsi il problema dell’economico politico regime»; «servono alle cieche emulazioni dei ceti e domandano providenze pe' il ramo a loro prediletto, con ingiuria degli altri e del Publico»; vi è un «divorzio delle dottrine economiche da quelle di jus publico e privato; per cui si ha un'econoinia senza freno e un diritto senza sanzione reale» (89). 3.f. L'importanza della contestualtzzazione. Le dottrine giuridiche non possono essere formulate in astratto ma devono necessariamente tenere conto del contesto economico e sociale nel quale vive l’ordinamento giuridico. L’«incivilimento» è frutto di una pluralità di ingredienti, ivi compreso, tra tanti, quello dei Governi ma anzitutto «delle energie e della società, sotto un dato cielo e in una data terra» (90). «La questione scolastica ed assoluta, quale sia il migliore dei governi, assumendo qualcheduna delle forme tassate e conosciute, è questione assurda, perché non può ammettere una soluzione generale e perpetua» (aristocrazia, democrazia, monarchia). «L'unica risposta generale che si può dare si è essendo quello il migliore che nelle date circostanze si può effettivamente pra- (87) Ivi, pp. 38 ss. (88) Ivi, p. 7. (89) Ivi, p. 8. (90) Vedute fondamentali sull’arte logica, in Op. II, 1, pp. 17 e 37. 226 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 ticare come il più adatto allo scopo, in quella data età, in quel dato territorio e con quel dato cielo». «Montesquieu non pose mente al principio dell'opportunità, ch'è il solo operante in natura nel tempo e pel tempo; e però parlò delle forme dei governi come vesti che si possono indossare quando piaccia, accennandone solamente le condizioni strumentali» (91). 4. L'involuzione successiva della scienza amministrativistica, di ispirazione hegeliana. Anche per capire l'evoluzione (o l'involuzione) che ebbero gli studi di diritto amministrativo nel periodo orlandiano li si deve contestualizzare nella loro fase storica. Gli storici hanno ben spiegato i caratteri essenziali del periodo fine-ottocento e inizi-novecento e hanno evidenziato come in tutti i paesi europei prevalse una impostazione nazionalista (92), con un indebolimento dei valori liberali (93); «il carattere nazionale venne considerato anteriore e superiore a ogni volontà singolare e collettiva» (94). Tutta la cultura ne fu influenzata: gli studi filosofici (Hegel), storici (L. von Ranke, T. Mommsen), la musica (R. Wagner) e quindi, inevitabilmente, il diritto (95). Se il ruolo dei giuristi sia stato quello di protagonisti (96) o di servitori (91) Dell’indole e dei fattori dell’incivilimento, cit., pp. 88 ss. (92) S.J. WOOLF, in AA.VV., Storia d’Italia, vol. III, Torino, Einaudi, 1973; G. MANN, Storia della Germania moderna, 1789-1958, trad. it., Milano, Garzanti, 1978; L. SALVATORELLI, Profilo della storia d’Europa, II ediz., Torino, Einaudi, 1958, pp. 1103 ss. (93) B. CROCE, Storia dell’Europa nel secolo XIX, Bari, Laterza, 1932; A.J. TAYLOR, Storia della Germania, trad. it., a cura di A. Acquarone, Bari, Laterza, 1963. (94) F. CHABOD, L’idea della nazione, Bari, Laterza, 1967. (95) Sottolineano il carattere illiberale della svolta di V.E. Orlando: L. FERRAJOLI, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, Bari, Laterza 1999, p. 25; G. REBUFFA, La formazione del diritto amministrativo in Italia, Bologna, Il Mulino, 1981, pp. 209 ss. Sul tema, v. B. SORDI, Giustizia e amministrazione nell’Italia liberale, Milano, Giuffré, 1985 pp. 281 ss.; M. FIORAVANTI, Popolo e Stato negli scritti giovanili di Vittorio Emanuele Orlando, in La scienza del diritto pubblico. Dottrina dello Stato e della Costituzione tra Otto e Novecento, vol. I, Milano, Giuffrè, 2001, pp. 67 ss. Rileva il “rovesciamento del modello: lo stato come principio”: V. ALLEGRETTI, Profilo di storia costituzionale italiana. Individualismo nello Stato liberale, Bologna, Il Mulino, 1989, p. 131. Ha osservato esattamente A. MASSERA, L’influenza della cultura tedesca sulla produzione orlandiana, in Riv. trim. dir. pubbl., 1989, p. 959, che anche quella del medoto è una scelta che appare sempre strettamente ed indissolubilmente legata, e quindi in qualche maniera funzionalizzata, all’opinione istituzionale e culturale di fondo: il concorso alla costruzione giuridica dello Stato nazionale. Sulla “svolta orlandiana” v. anche G. CIANFEROTTI, Storia della letteratura amministrativistica italiana, I, Milano, Giuffré, 1988 pp. 679 ss. Una ricostruzione in senso liberale, non autoritario del pensiero di Orlando è stata di recente posta da G. CORSO, Il lascito di V.E. Orlando al diritto amministrativo, (in corso di pubblicazione). È senz’altro vero che la recezione delle tesi hegeliane passò in Orlando per il filtro di una mentalità meno portata alle estremizzazioni (v., ad esempio, la critica che egli fece alla “nordica brumosa statolatria panteistica sia di Marx che di Hegel” (Metodo e tecnica giuridica nella dottrina sovietica) in AA.VV., Scritti della Facoltà giuridica in onore di Antonio Salandra, Milano, Vallardi, 1928, pp. 59 ss. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 227 del nuovo corso (97), poco importa. Ciò che rileva è che, dalla scuola tedesca di diritto pubblico e poi da quella italiana, con Vittorio Emanuele Orlando (98) viene semplicemente cambiato l'a priori della costruzione giuridica: non più l'individuo che vive in società, ma lo Stato; anzi lo Stato non è solo l'origine e la fonte, unica, del diritto ma ne costituisce l'essenza stessa. «Nel campo del diritto pubblico si dà una parte eccessiva a teorie puramente filosofiche»; «allo esame giuridico dell'istituto si premette quello del contenuto etico di esso; e così il criterio politico, il sociale, lo storico, ma soprattutto il filosofico [...] soffocano il criterio giuridico sin quasi ad ucciderlo» (99). «Ogni scienza ha una sua tecnica particolare, e indichiamo con questa espressione tutti quei procedimenti logici, metodici, sistematici che ad essa sono specifici, e di cui essa si serve per raggiungere i propri fini» (100). Il diritto privato, con una elaborazione secolare, ha raffinato il proprio metodo portandolo a un elevato livello di perfezione. Il diritto amministrativo, nato dapprima «con i più modesti fini pratici che si possano immaginare [...], pura esegesi che sacrifica inesorabilmente ogni concetto teorico e sistematico», deve darsi «un sistema di principi giuridici sistematicamente coordinati», «non può rinunziare ad una sistematizzazione di indole filosofica», ma questo è compito di «una scienza speciale che si chiama filosofia del diritto» (101). L'idea fondamentale del diritto pubblico, «il suo presupposto, cioè quella nozione che preesiste logicamente al fine proprio e specifico di una data scienza, è la nozione di Stato». «Diritto pubblico equivale a diritto di Stato». «Diritto e Stato sono termini che a vicenda si integrano». «Noi escludiamo che lo Stato sia un organo della società [...] Secondo noi, la società è organismo dello Stato e per lo Stato», costituisce solo «l'elemento materiale dello Stato», perché solo nell'essere Stato acquisisce la «caratteristica essenziale dell'idea (96) M. NIGRO, Il ruolo dei giuristi nello Stato liberale, in Scritti in onore di Massimo Severo Giannini, vol. II, Milano, Giuffré, 1988, pp. 326 ss; P. GROSSI, Scienza giuridica italiana, cit., p. 33. (97) P. LEGENDRE, Stato e società in Francia, trad. it., Milano, Comunità, 1978, p. 85, sostiene, con riferiemnto ai giuristi francesi del XIX secolo che “furnono, in linea di massima, servitori dello Stato gendarme”. (98) F. VON GERBER, Sui diritti pubblici (1952), trad. it., Milano, Giuffré, 1971; P. LABAND, Il diritto pubblico dell’impero germanico (1876), trad. it., Torino, 1925; O. MAYER, Deutsche Verwantungsrecht, Leipniz, 1893. Sul tema A MASSERA, L’influenza della cultura tedesca sulla prolusione orlandiana, in Riv. trim. dir. pubbl., 1989, pp. 937 ss; A. SANDULLI, Costruire lo Stato, cit. pp. 52 ss. rileva che la riduzione orlandiana al solo profilo giuridico “costituì, alla lunga, anche l’elemento di debolezza della costruzione orlandiana, dal momento che finì per isterilire gli studi del diritto amminstrativo nel corso della prima metà del Novecento”. Di particolare interesse sono i contributi di F. Carnelutti, P. Calamandrei, E. Crosa, G. Miele, C. Esposito e M. Bracci nella Riv. trim. dir. pubbl. 1953, pp. 3 ss., anche se in parte influenzati dall’intento celebrativo. (99) V.E. ORLANDO, I criteri tecnici per la ricostruzione del diritto pubblico. Prolusione ai corsi di Diritto amministrativo e costituzionale, Palermo, 1889, estr. p. 7. (100) Ivi, p. 2. (101) Ivi, pp. 5, 9, 16. 228 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 del diritto, una forza esteriore capace di costringere all'osservanza delle regole i disobbedienti». Ciò deriva da una «legge naturale della natura umana», è una «tendenza spontanea quanto irresistibile dell'umana natura; lo Stato è un fenomeno naturale necessario», al quale spetta la sovranità, che è un «attributo inseparabile dall'idea di Stato». La sovranità «è nello Stato e per lo Stato, la sua «essenza giuridica non può comprendersi se non in stretta connessione col concetto di personalità dello Stato» (102). La tentazione qui sarebbe quella di mettersi a discutere nel merito e di muovere obiezioni sul piano della logica rilevando ad esempio come si possa negare il 'diritto naturale' assumendo nel contempo che tutto il ragionatnento giuridico poggia su una «legge naturale della natura umana», ma sarebbe sbagliato cedervi perché un confronto fra le diverse posizioni basato su quale sia esatta in termini logici e del tutto fuori luogo, e metodologicamente sbagliato. Torna l’osservazione di Romagnosi: «tutti hanno ragione e tutti hanno torto». L'idea presupposta assunta a base del ragionamento giuridico di Orlando è semplicemente quella hegeliana, che ben si inquadra in quel momento storico. Le conseguenze sul piano della costruzione giuridica furono quelle note: da un lato la costruzione scientifica del diritto pubblico si affranca dalle categorie del diritto privato (103) e, in presenza di un consistente corpo normativo e di una significativa elaborazione giurisprudenziale del neonato giudice amministrativo, acquisisce una organicità sistematica che prima non poteva avere. Dall’altro, però, le categorie concettuali furono quelle dello statalismo e si possono cosi riassumere: - non esiste un problema giuridico dei fini dello Stato, perché è lo Stato stesso che determina i propri finì; - non esiste quindi una problematica giuridica dei diritti naturali e i diritti dei privati attribuiti dalla legge 'degradano' a interessi legittimi di fronte al provvedimento dell'amministrazione; - lo Stato si auto-limita, ma il limite all'azione dello Stato è posto dalla (102) V.E. ORLANDO, Le teorie fondamentali, in Introduzione al diritto amministrativo, vol. I del Primo Tratto completo di diritto amministrativo italiano, a cura di V.E. Orlando, Milano, Soc. Editr. Libraia, 1897, pp. 1 ss. È noto che la tesi della personalità giuridica dello Stato era ripresa da F. VON GERBER, Sui diritti pubblici, cit. p. 19, sul quale v. M. NIGRO, Il segreto di Gerber, in Quad. fior.. 1973, pp. 293 ss.; J.I. CARRO FERNANDEZ VALMAYOR, La doctrina clasica alemana sobre la personalidad juridica del Estrado, Notas de una relectura, estr. da Homenaje a Manuel Francisco Clavero Arévalo, Madrid, Civitas, 1994. In realtà si è già visto che anche Romagnosi teorizzava la personalità giuridica dello Stato, senza trarne tutte le conseguenze che poi vi furono connesse. La letteratura sull’opera di Orlando è sovrabbbondante e non se ne può qui dar conto. (103) Sulla derivazione dalla scienza del diritto privato dalla prima dottrina giuspubblicista v., fra i tanti, A. HAURIOU, L’utilisation en droit adminitratif des règles et principes du droit privé, Rec. Geny III, 1934, p. 99; S.M. RETORTILLO BAQUER, El derecho civil en la genesis del derecho administrativo y de sus institusiones, Madrid, 1996. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 229 legge, cioè da un atto dello Stato; - lo Stato in quanto tale è una figura giuridica diversa dalle altre, non per ciò che fa, ma per ciò che è; la concezione è quindi del tutto 'soggettiva': la pubblica amministrazione ha una sua posizione di privilegio che si applica anche alla sua attività materiale, contrattuale e prestazionale e ai suoi beni; - all'idea di una unità come frutto di una sintesi si sostituisce l'idea di una unità totalizzante; - il diritto amministrativo è costruito sulla base della dialettica autoritàlibertà, ma la seconda è posta in una condizione ancillare rispetto alla prima; - sul piano del metodo, quello da applicarsi è il metodo deduttivo che muove da principi giuridici che sono propri ed esclusivi del diritto pubblico. Che a un diritto filosofeggiante si sia poi sostituito un metodo più rigoroso, definibile 'metodo giuridico', è, appunto, ciò che ha sostenuto Vittorio Emanuele Orlando. Si potrebbe qui discutere a lungo, come molti hanno fatto, se, posto che il diritto sia una scienza, debba o possa avere un metodo proprio ed esclusivo, anziché condividere con le altre scienze il metodo che consiste nell'individuare le problematiche, scomporre le fattispecie, effettuare l'analisi e poi la sintesi, ove ve ne siano i presupposti, acquisendo così una nuova conoscenza. Sarebbe però una fatica improba perché, come ha osservato Riccardo Orestano, la storia del diritto è stata contrassegnata da autoreferenziali rivendicazioni di esclusiva nella scelta del metodo giusto, che fosse quello 'puro' o meno (104). Ma sarebbe, soprattutto, una fatica inutile perché in realtà, per Orlando, come per Kelsen e gli altri, non si è affatto espunta la filosofia dal ragionamento giuridico ma la si è incorporata in maniera implicita, non consapevole o almeno non dichiarata. La contrapposizione fra Romagnosi e Orlando non è fra un filosofo e un giurista, ma fra due modi di filosofare e di concepire il diritto. Se poi si dovesse fare una opzione tra i due: o ci si dovrebbe rimettere alla preferenza soggettiva o, meglio, si dovrebbe valutare quale impostazione corrisponda al periodo storico che si sta vivendo. La differenza che c'è, è però significativa perché mentre Romagnosi aveva avvertito la necessità dello sdoppiamento fra diritto naturale-razionale e diritto positivo, il problema non si era posto per Orlando perché il diritto positivo dello stato nazionale coincideva in larga misura con l'impostazione hegeliana che lo aveva ispirato. 5. Considerazioni finali e riflessioni sul diritto amministrativo di domani: una lezione di metodo. Se, come si è visto, le categorie giuridiche si formano in un determinato contesto sociale, economico e culturale c'è da chiedersi se si possa considerare (104) R. ORESTANO, Verso l’unità della “conoscenza giuridica”, in Riv. trim. dir. pubb., 1984, pp. 635 ss. 230 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 attuale il pensiero di Romagnosi, del quale si celebra in questi anni il 250o anniversario dalla nascita. Procedendo per gradi, si può intanto convenire sulla inattualità della costruzione orlandiana, tutta centrata su un presupposto diverso da quello che vivono gli ordinamenti contemporanei. L'idea della coincidenza fra Stato e diritto e di un diritto amministrativo inteso come diritto di privilegio delle pubbliche amministrazioni non è più sostenuta nemmeno da qualche nostalgico. Sono stati rimossi i profili di specificità impropria che costituivano i corollari della concezione tedesca e orlandiana del diritto amministrativo. Dotttina e giurisprudenza hanno dato il loro apporto all'evoluzione, anticipando istituti che si sono ormai affermati nel diritto positivo, sia nella legislazione ordinaria che, e anzitutto, nelle norme costituzionali e nell’ordinamento europeo. II progressivo 'incivilimento' ha introdotto nel dititto positivo i principi che Romagnosi teorizzava come di diritto naturale razionale. Come ha osservato Bobbio «il diritto positivo ha invaso a poco a poco tutti i campi che venivano assegnati al diritto naturale» (105). Nel contempo, gli ordinamenti sono oggi coinvolti da una nuova fase di trasformazione nella quale si comprende ciò che è in crisi e molto meno quali ne possano essere gli esiti nel lungo periodo. È in crisi non solamente lo stato nazionale ma anche un sistema di certezze e sicurezze che erano legate al carattere più statico delle società. L'effetto, sul piano culturale, è la caduta della razionalità, il diffuso soggettivismo, la frammentazione che si manifesta in tutte le scienze. La fase attuale registra la convivenza fra la crisi delle istituzioni che però sono ancora ben lontane dall'essere esaurite, e comunque sono le sole che abbiamo, e l'emergere di novità che però non si sono consolidate. Sono in crisi molte categorie, a iniziare dalla stessa 'politica' (che presuppone la p...s nella sua dimensione statica), e dai 'mega-concetti', che si stanno evaporando, e non è chiaro, ancora, con cosa si possono sostituire (106). In questo contesto, mentre un metodo giuridico chiuso in se stesso e basato sulla centralità dello Stato è chiaramente inutilizzabile, la riflessione di Romagnosi, elaborata in un periodo di grandi trasformazioni, con una lucida propensione a risalire alle questioni fondamentali della vita umana e sociale e (105) N. BOBBIO, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, cit., p. 178. Osserva A. BALDASSARRE, Una risposta a Guastini, in Giur. cost., 2007, p. 3253, che “la diffusione delle costituzioni democratiche nella seconda metà del secolo XX ha sbandierato in gran parte del mondo testi normativi nei quali primeggiavano valori (sostanzilamnte etici) come la libertà e la dignità umana, l’eguaglianza sostanziale, l’utilità sociale, i buoni costumi (Sittlichkeù) e così via”. Anche le problematiche della ragione e della regionevolezza, come canone dell’agire del pubblico potere, sono ritornate di attualità: v. F. MODUGNO, Ragione e ragionevolezza, Napoli, Esi, 2009. (106) Per queste considerazioni rinvio al mio libro Principi di diritto amministrativo, Torino, Giappichelli, 2012, pp. 39 ss. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 231 quindi del diritto, appare di particolare interesse. L'attualità di Romagnosi non consiste quindi nelle singole proposizioni alle quali è pervenuto, alcune delle quali, per altro, erano chiaramente anticipatrici, ma nel metodo che ha adottato per dipanare la matassa aggrovigliata di un ordinamento in divenire. Si tratta, del resto, del metodo comune a tutte le scienze (107) e che consiste nello scomporre i sistemi complessi (108) cogliendo ciò che collega le varie parti secondo il criterio del fine che le unisce (109) e nel risalire poi dal più semplice al più articolato, procedendo per gradi, passando così 'da idee chiaro-confuse a idee chiaro-distinte' (110). Si possono così individuare i nuclei essenziali delle nozioni (111), le «idee radicali» che sono sempre più semplici (112), pervenendo ai «concetti generali» solo attraverso un'indagine analitica «delle cose particolari», in modo che l'unità risulti come «una pluralità compresa sotto di un solo concetto» (113). Con questo metodo si comprenderanno facilmente i principi che reggono le fattispecie complesse e le gradazioni che vi sono fra i diversi elementi che le compongono e che sono tenuti insieme dal fine, e quindi dal significato delle fattispecie. Anche la ricerca giuridica non può che muovere da un a priori che assume come un dato, e cio è vero per ogni tipo di scienza; persino l'assunto più elementare, osservava Einstein, contiene in sé inevitabilmente una opzione soggettiva (114). Mentre Orlando assumeva come a priori lo Stato, Romagnosi derivava le nozioni giuridiche da un'idea equilibrata dei rapporti fra individuo e società, nella (107) “Ogni scienza ed ogni parte della stessa può richiedere uno stile diverso”, ma “tutte le scienze si danno mano scambievolmente; nuina forse ve n’ha, in cui maggiore debba sentirne l’alleanza, quando in quella del diritto e dell’utilità sociale” (Prospetto generale delle materie del diritto pubblico, in Op., III, I, pp. 107 e 108). (108) Sul talento logico, in Op. I, 2, p. 1582. (109) Vedute fondamentali dell’arte logica, cit., in Op. I, 1, p. 335. (110) Ivi, p. 188. (111) Sul talento logico, cit., in Op. I, 1 p. 335. (112) Ricerche, sulla validità di giudici del pubblico a disciplinare il vero falso (postuma) in Op. 1, 2, p. 1021. (113) In questo modo l’eccezione non può considerarsi come una limitazione della regola generale, ma bensì un’altra regola, adatta ad un soggetto o a un fatto logicamente diverso da quello che nella regola generale fu contemplato (Saggio filosofico-politico sopra l’istruzione publica legale, 1807, in Op. VII, 2, p. 1174). È ricorrente nell’opera di Romagnosi la critica alle generalizzazioni che non sono fatte a seguito di una analisi adeguata: “anche il numero non è che una pluralità compresa sotto di un solo concetto” (Dello insegnamento primitivo delle matematiche (1827) in Op. I, 2, p. 1125). “L’analisi deve presiedere alla retta formazione delle idee generali” e “v’entra dopo la facoltà di comporre”. “L’analisi non pare potersi conciliare col generalizzamento delle idee e delle loro arbitrarie composizioni” “Le viste generali non sono di valore se non sono il risultato piano, succoso, e direi un perfetto compendio di cose particolari analiticamente indagate” (Piano ragionato di un’opera che deve portare il titolo delle leggi dell’umana perfettibilità, ined., in Op. I, 2, p. 1240). (114) A. EINSTEIN, Come io vedo il mondo (1933), trad. it., Vicenza, 1975. 232 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 quale nessuna delle due polarità assorbe l'altra e che vede comunque come centrale la posizione della persona. È, evidente che anche questo presupposto comprende al suo interno varianti diverse che sono rimesse a una opzione soggettiva. Ciò che conta, per la ricerca giuridica, è che l'opzione ci sia e che venga dichiarata, anzichè assunta in modo criptico o addirittura inconsapevole. Questo approccio appare oggi più corretto di quello che continua ad utilizzare il metodo deduttivo applicandolo a concetti giuridici indeterminati, che si prestano ad ogni opzione che è soggettiva e si vuole invece considerare come assoluta. Il nucleo del metodo che qui si (ri)propone, sollecitato e confortato dalla lettura di Romagnosi, sta nella esigenza e nella possibilità di tenere insieme la ricerca dell'essenziale (oggettività, diversa da empirismo), e la consapevolezza dell'articolazione e del divenire (relatività, diversa da relativismo) (115). Questa sintesi la può fare una scienza come quella giuridica che va al cuore della politicità dell'esistenza umana (con le sue diverse polarità, debolezza e forza, individualità e socialità, in continua trasformazione e, quindi, in divenire) e, nel contempo, trova, più delle altre scienze umane, un ancoraggio oggettivo sia nei valori essenziali, liminali, sia nell'esigenza di effettività connessa al diritto positivo, dal quale non può prescindere senza diventare un altro tipo di scienza. Così la scienza giuridica può recuperare una centralità che aveva avuto per secoli e che poi aveva perso per mancanza di collegamenti con le altre scienze e di visione di insieme. Solo così si può invertire l'attuale fase di decadenza e si possono avviare, con mente fresca, nuove prospettive non fantasiose, raccogliendo l'incitazione di Kant, «abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza». (115) È questa una ricerca di sintesi fra le prime intuizioni del pensiero umano che nel mondo occidentale si è espresso con le due idee fondamentali del motore immobile di Parmenide e nel pa.ta .e. di Eraclito e, nel pensiero orientale, dello ying e dello yang variamente intrepretati dalla filosofia cinese e che, comunque, sono riconducibili al principio della stasi (sia pure con una prevalente accezione neggativa) e del dinamismo. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 233 Il “nuovo” giudizio di ottemperanza Antonio Tallarida* SOMMARIO: 1. La conformazione dell’Autorità amministrativa al giudicato - 2. Nascita dell’istituto dell’ottemperanza - 3. Limite e suo superamento - 4. Successiva evoluzione - 5. Il giudizio nel codice del processo amministrativo - 6. Provvedimenti suscettibili di giudizio di ottemperanza - 7. Il decreto decisorio del ricorso straordinario - 8. Risarcimento del danno e astreinte - 9. La riedizione dell’atto amministrativo - 10. La soluzione dell’Adunanza Plenaria n. 2/2013 - 11. Altre problematiche - 12. La natura mista del giudizio di ottemperanza - 13. Conclusioni. 1. La conformazione dell’Autorità amministrativa al giudicato. Il giudizio di ottemperanza nasce dall’insufficienza del sistema giustiziale scaturito dalla legge sull’abolizione del contenzioso amministrativo (L. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E). Il Legislatore unitario, infatti, partendo dal concetto che solo il diritto civile o politico costituisse una posizione soggettiva sostanziale, demandò alle competenti autorità amministrative tutti gli altri affari, in cui era coinvolta una P.A., e nel contempo in applicazione coerente del principio della divisione dei poteri, vietò al G.O. di modificare o revocare, e a maggior ragione annullare o sospendere, l’atto amministrativo, prescrivendo l’obbligo per l’Autorità Amministrativa di conformarsi al giudicato dei Tribunali per quanto concerne il caso deciso. La soluzione adottata appare a noi, formati nello Stato di diritto, del tutto insufficiente perché abbandonava al volere delle Autorità amministrative competenti sia la tutela degli interessi privati confliggenti con la P.A., sia la realizzazione dello stesso giudicato civile, non essendosi approntato né un sistema alternativo o complementare di giustizia né strumenti di coercizione o di esecuzione del decisum. Ciò dipese probabilmente dal fatto che secondo la concezione dello Stato liberale dell’epoca, l’Autorità pubblica era investita di grande autorevolezza e dignità, le cui attribuzioni da sempre - sino alla loro frammentazione introdotta con la teoria della separazione dei poteri - si collocavano in un’area indistinta di amministrazione e giurisdizione (1). (*) Vice Avvocato Generale. Relazione svolta dall’Autore al Convegno Italo-Sloveno su “L’azione e il giudicato”, tenutosi a Trieste il 10 maggio 2013, sotto l’egida della Regione Friuli-V.G.. (1) Eredità di questa concezione sopravvive curiosamente ancor oggi, in cui ritroviamo autorità amministrative o istituzioni private che si appellano come magistrati (Magistrato del Po, Magistrato delle acque, Tribunale del malato, ecc.). 234 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 Evidentemente, il Legislatore unitario non poneva in dubbio il rispetto da parte dell’A.A. del dovere morale di conformarsi al giudicato, per non parlare di quello di tutelare gli interessi non costituenti diritti civili e politici. 2. Nascita dell’istituto dell’ottemperanza. L’inadeguatezza degli uomini o del sistema così concepito convinsero presto della necessità di apportare un correttivo allo stesso, che nell’asse principale (costituito dalla devoluzione al G.O. dei diritti civili e politici anche quando vi fosse coinvolta una P.A. e dal divieto di modificare il provvedimento amministrativo) regge ancora oggi dopo 148 anni, costituendo il cardine della giurisdizione (forse l’ultimo ancora inviolato). L’istituzione nel 1889 della IV Sezione del Consiglio di Stato, supremo organo consultivo del Regno sin dal 1831, consentì di andare incontro alla esigenza di completamento del sistema, senza rinnegarlo nella sua ispirazione originaria. Questo, perché non fu subito percepita la natura giurisdizionale di questa Sezione, innestata in un Corpo amministrativo e volta alla tutela di interessi non a livello di diritti soggettivi. Essa quindi fu intesa, ad es. dal Crispi, come un corpo deliberante sul contenzioso amministrativo (quasi questo risorgesse più autorevole dalle ceneri del 1865), o nella migliore interpretazione dello Spaventa e del Salandra, come giurisdizione di diritto oggettivo, per la tutela diretta dell’interesse pubblico ed indiretta di quello privato. La situazione fu poi definitivamente sancita dalla legge del 1907, n. 638 (art. 23) (2). Con la L. 31 marzo 1889, n. 5992, si attribuì alla neonata IV Sezione, oltre alla tutela degli interessi legittimi, anche la decisione “dei ricorsi diretti ad ottenere l’adempimento dell’obbligo dell’autorità amministrativa di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato dei Tribunali che abbiano riconosciuto la lesione di un diritto civile o politico” (art. 4, 4° comma). Da qui l’attribuzione è passata prima nel T.U. n. 6166 del 1889 (art. 25, n. 6) e poi in quello n. 1054 del 1924 (art. 27, n. 4). Era nato il giudizio di ottemperanza. 3. Limite e suo superamento. Oggi, anche alla luce delle leggi susseguitesi nel tempo, non c’è più nessuno che contesti il carattere giurisdizionale al giudizio di ottemperanza, né la sua natura di giurisdizione di merito (per la necessità di sostituire l’Amministrazione inadempiente) e di giurisdizione esclusiva (vertendosi in materia di actio judicati). Esso però nasce – come visto – per ottenere la conformità dell’Ammini- (2) A. SALANDRA, La giustizia amministrativa nei governi liberi, UTET, Torino, 1904; S. SPAVENTA, in Giustizia amministrativa, a cura di F. G. Scoca, Giappicchelli, Torino, 2013. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 235 strazione al giudicato dei Tribunali e quindi è chiaramente limitato all’attuazione delle sentenze (e non di tutte) del Giudice Ordinario, limite questo coerente con la convinzione che le pronunce di legittimità del Consiglio di Stato non avessero bisogno di una autonoma ottemperanza, realizzando esse stesse la conformazione dell’attività amministrativa alla regola dettata, per l’effetto demolitorio ex tunc della decisione e non dubitandosi comunque dell’ossequio dell’A.A. al pronunciato del Supremo Consesso Amministrativo. Bisognerà attendere quasi 40 anni perché lo stesso Consiglio di Stato, in materia di diritti appartenenti alla sua giurisdizione esclusiva, sancisse l’obbligo dell’Amministrazione di conformarsi al giudicato amministrativo (decisione n. 181 del 9 marzo 1928), ritenendosi che una pronuncia di annullamento contenesse anche una pronuncia dichiarativa della lesione da parte dell’Autorità di un interesse giuridicamente protetto, con conseguente obbligo della sua restaurazione. Un ulteriore passo avanti, si avrà agli inizi degli anni ’50, quando il rimedio della ottemperanza fu riconosciuto esperibile anche per le pronunce riguardanti la lesione di interessi legittimi (Cass. S.U., 8 luglio 1953, n. 2157) sulla spinta della più avanzata dottrina (3). 4. Successiva evoluzione. Ma perché tanta resistenza, tanti ostacoli sulla via dell’ottemperanza? Il motivo è immediatamente intuitivo e comprensibile: con l’ottemperanza si realizza la massima ingerenza di un Giudice nell’ambito del potere amministrativo. Se questa ingerenza, con la sua forza dirompente sui principi, poteva comunque tollerarsi per le pronunce che intervenissero sull’attività vincolata della P.A., dove quindi la riedizione dell’attività amministrativa trovava un binario sicuro nel dettato legislativo correttamente interpretato e indicato, ben più indigesta era per quanto riguardava l’attività discrezionale dell’Amministrazione, che ne rimaneva gravemente condizionata quando non addirittura annullata. Proprio la collocazione - fin dall’origine - del giudizio di ottemperanza nell’alveo della giurisdizione di merito è servita a superare tutte le resistenze consentendo al G.A. di valutare e scegliere gli strumenti ritenuti più idonei per obbligare l’Amministrazione a conformarsi al decisum, ordinandole di adottare determinati atti o addirittura sostituendola, adottandoli direttamente o demandandone l’attuazione ad un Commissario ad acta. Il Consiglio di Stato così ne definisce l’oggetto: “puntuale verifica da parte del giudice dell’esatto adempimento da parte dell’Amministrazione dell’obbligo di conformarsi al giudicato per far conseguire concretamente all’interessato l’utilità o il bene della vita già riconosciutogli in sede di cognizione” (sez. IV, 18 aprile 2013, n. 2172). (3) E. GUICCIARDI, La giustizia amministrativa, Cedam, Padova, 1942. 236 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 Unica magra consolazione per l’Autorità, è che l’atto così adottato dal Giudice non è un atto amministrativo, poiché questi non è un’autorità amministrativa né esso è diretto alla cura del pubblico interesse (sibbene d e l p r i - vato ricorrente), ma resta un atto giurisdizionale (Cass. S.U. 9 marzo 1986, n. 4568), con tutte le conseguenze in ordine alla sua impugnazione, ma l’effetto è comunque la totale spoliazione dell’Amministrazione. È la sconfitta della concezione liberale, di uno Stato unitario efficiente e centralizzato, dotato di una Amministrazione competente, autorevole e di prestigio, dove l’interesse pubblico è prevalente e che risolve al suo interno i problemi e le controversie con il cittadino (Spaventa) (4). Una volta aperta la falla nei principi, l’espansione del giudizio di ottemperanza non ha avuto più confini sicuri, allontanandosi sempre più dalle sue origini e soprattutto dai concetti in cui era nato. Non solo quindi si è venuto estendendo ai provvedimenti del G.O. che sentenze non sono, anche se hanno effetti definitivi simili (decreto ingiuntivo, decreto di assegnazione di crediti), ma è stato applicato anche ai lodi arbitrali non impugnati, e alle pronunce dei giudici speciali (Cass. S.U. n. 700/1955), fermandosi momentaneamente solo avanti alle decisioni del Capo dello Stato sui ricorsi straordinari, per la loro ritenuta natura amministrativa. Al contempo, l’evoluzione è stata aiutata e anzi determinata dalla lenta trasformazione del giudizio amministrativo da giudizio sull’atto a giudizio sul rapporto. Esso non appare più (solo) diretto al controllo della legittimità dell’azione amministrativa (da cui discenderebbe la tutela indiretta dell’interesse legittimo del cittadino) ma tende ad assicurare a questi il diritto alla riparazione della lesione subita per effetto del comportamento illegittimo dell’Amministrazione, della lesione al proprio status di libertà opposto al potere dell’Autorità: la risoluzione del conflitto tra libertà ed autorità costituisce il merito del giudizio e comporta l’esigenza di una tutela giudiziaria piena ed effettiva. 5. Il giudizio nel codice del processo amministrativo. Tralasciando gli sviluppi intermedi della L. n. 1034/71 sui T.A.R. e della L. n. 205 del 2000, i cui esiti ritroviamo nel codice, si arriva al d.lgs. n. 104 del 2 luglio 2010, recante approvazione del codice del processo amministrativo, e ai successivi decreti correttivi. Il fondamento del sistema è posto nell’art. 1, comma 1, laddove si afferma che la giurisdizione amministrativa assicura una tutela “piena ed effettiva”, senza peraltro precisare a chi o a cosa. È questa, già di per sé, una scelta inusuale, di proclamare i principi generali cui intende ispirarsi il nuovo codice. Normalmente questi sono declinati nei testi fondamentali dell’ordinamento, come la Costituzione, a cui devono (4) SPAVENTA, op. cit. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 237 poi uniformarsi le leggi e i codici e infatti in nessuno dei codici tradizionali si trova l’enunciazione dei principi generali ispiratori. Ma tant’è, effettività e giusto processo aprono il testo e segnano tutto il processo amministrativo, anche nella parte dedicata all’ottemperanza, che ne resterà definitivamente modificata. Cadono, vittime di una semplificazione spinta, i due presupposti canonici dell’ottemperanza: la necessità del giudicato e la diffida ad adempiere; la prima insita già della legge del 1865 (art. 4) e la seconda prescritta fin dal regolamento di procedura dinanzi alla IV Sezione (R.D. 17 ottobre 1889, n. 6516, art. 58). Viene anche modificata la procedura di introduzione del giudizio che passa dal ricorso depositato in Segreteria e da questa comunicato all’Amministrazione, a quella del ricorso ordinario notificato alla P.A. e ai controinteressati, il che, peraltro, è più in linea con i mutamenti intervenuti nella natura stessa del giudizio, che non è più, come vedremo, di mera esecuzione. Inoltre vengono dimezzati tutti i termini (art. 87, comma 3) compresi quelli per l’impugnazione e viene introdotta la decisione in forma semplificata (art. 114, comma 3). Resta invece - contraddittoriamente - il rito camerale, che a lungo nessuna legge o regolamento aveva previsto, ma che era stato introdotto negli anni ‘50 dal Consiglio di Stato (5), anche per esigenze di riservatezza; né è stata più riprodotta la facoltà di chiedere la trattazione in pubblica udienza (art. 27, L. n. 1034/71), forse perché questa non è considerata causa di nullità del giudizio (art. 87, comma 4, c.p.a.). Il risultato di queste modiche è una accelerazione procedurale che spesso rende difficile un’efficace difesa dell’Amministrazione. 6. Provvedimenti suscettibili di giudizio di ottemperanza. Innovativa è anche l’elencazione dei provvedimenti che possono essere oggetto di ottemperanza. L’art. 112 del codice, invertendo l’ordine originario, pone al primo posto le sentenze del giudice amministrativo passate in giudicato e, al secondo, le sentenze esecutive e gli altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo, così codificando le innovazioni introdotte dalla legge sui T.A.R. (artt. 2, 3, 10, n. 1034/71). Ma mentre tale legge si limitava a parlare di esercizio dei “poteri inerenti” al giudizio di ottemperanza ai sensi dell’art. 27, n. 4 del T.U. Consiglio di Stato, ora il salto è fatto: si tratta sic et simpliciter di giudizio di ottemperanza. Tra gli altri provvedimenti esecutivi si collocano certamente le ordinanze cautelari, ma la formula è pericolosamente aperta (certo anche i decreti monocratici di urgenza). Solo al terzo posto c’è il caso originario, per il quale era nato il giudizio, le sentenze passate in giudicato del giudice ordinario, ripetendosi la formula (5) Ad. Plen., 3 luglio 1952, n. 13. 238 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 antica della legge sull’abolizione del contenzioso amministrativo, ma aggiungendovi, anche qui, “gli altri provvedimenti ad esse equiparati”, formula aperta ad ogni interpretazione (certo i decreti ingiuntivi non opposti). Al quarto posto si collocano le sentenze passate in giudicato (e gli altri provvedimenti equiparati) dei giudici speciali, per i quali non sia previsto nelle rispettive leggi il rimedio dell’ottemperanza (e quindi escluse quelle della Corte dei Conti e dei Giudici Tributari). Al quinto e ultimo posto, sono inclusi i lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili. Una elencazione ecumenica, quindi, che vede al centro il ruolo del G.A. quale giudice naturale della conformazione dell’azione amministrativa al dictum giurisdizionale (6). Sfugge, però, il perché del privilegio riservato al G.A. i cui provvedimenti esecutivi, anche senza natura di sentenza e gravati di appello, possono essere oggetto di giudizio di ottemperanza a differenza di quelli del G.O. Forse per questo aspetto si è inteso fare un doveroso ossequio alla legge postunitaria del 1865, vista e sentita come una sorta di costituzione materiale o fondante della giurisdizione amministrativa. Certo la discrepanza esiste, tanto più che ormai da tempo è ammessa l’ottemperanza anche per le sentenze di condanna della P.A. al pagamento di somme di danaro (Ad. Pl., 9 marzo 1973, n. 1), che è il caso più frequente che si verifica nel giudizio ordinario. Attestarsi su questa linea, anche per il giudizio amministrativo sarebbe stato un segno di rispetto e di fiducia nella P.A., cui comunque incombe l’obbligo istituzionale, morale e giuridico di rispettare la pronuncia giurisdizionale, quale che sia, specie se esecutiva. 7. Il decreto decisorio del ricorso straordinario. Le aperture contenute nella suddetta elencazione hanno avuto un primo banco di prova per il caso del decreto decisorio del ricorso straordinario al Capo dello Stato. Questo mezzo di tutela che sembrava in ribasso, si è rivitalizzato negli ultimi anni, specie dopo che la L. n. 609 del 2009 ha reso vincolante il parere del Consiglio di Stato e ha ammesso che in tale sede possa sollevarsi la questione di legittimità costituzionale. In precedenza la Corte di Giustizia della CE aveva riconosciuto la possibilità di sollevare in tale sede la questione pregiudiziale (C.G.C.E, 16 ottobre 1997, n. 69) e il CGA per la Regione siciliana si era espresso in senso favorevole all’ottemperanza dell’analogo decreto del Presidente della Regione Siciliana (sent. n. 695 del 2005). A favore di una soluzione positiva all’applicabilità del giudizio di ottem- (6) Così Ad. Plen., n. 2 del 2013 (v. oltre, n. 10). CONTRIBUTI DI DOTTRINA 239 peranza militavano ragioni fondate sulle garanzie processuali, il principio del contraddittorio, l’intervento in posizione di imparzialità del Consiglio di Stato. L’entrata in vigore del codice ha consentito una rivisitazione della materia, portando al riconoscimento della possibilità di esperire il giudizio di ottemperanza per l’attuazione del decreto decisorio, disputandosi peraltro se sia equiparabile ai provvedimenti esecutivi del G.A. (art. 112, comma 2, lett. b), come ritenuto dal Consiglio di Stato, da sempre schierato per la natura amministrativa del decreto del Presidente della Repubblica, o ai provvedimenti equiparati alle sentenze passate in giudicato (art. 112, comma 2, lett. d), indirizzo inaugurato dalla Cass. S.U. n. 2065/2011, ed ora accolto dall’Ad. Pl. n. 18 del 5 giugno 2012. Formalmente, si continua ad affermare la natura non giurisdizionale del decreto decisorio, ma sostanzialmente si va verso la sua giurisdizionalizzazione, senza porsi il problema del divieto costituzionale di istituire (e riconoscere) nuovi giudici speciali (7). Che si intenda tornare, inconsapevolmente, al Ministro - giudice, che decideva inappellabilmente alcuni ricorsi tributari (ad es., in materia di IGE o di dazi doganali)? 8. Risarcimento del danno e astreinte. Ma altri passi in avanti sono stati fatti, con l’introduzione di due novità assolute: - la possibilità di chiedere il risarcimento dei danni maturati dopo la formazione del giudicato - la previsione di una penalità di mora. La prima consiste nella possibilità di chiedere, con il ricorso di ottemperanza, la condanna della P.A. al pagamento degli interessi e rivalutazione maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza (quindi del solo G.O.) e al risarcimento dei danni derivanti dall’impossibilità o mancata esecuzione in forma specifica del giudicato, o alla sua violazione o elusione. A questo proposito, il primo correttivo del codice (d.lgs n. 195/2011), abrogando il comma 4 dell’ art. 112, ha comportato che ogni altra richiesta di danni vada azionata con il ricorso ordinario, nei termini di legge (art. 30, comma 5). La seconda recepisce l’istituto dell’astreinte del sistema francese, dove, come in quello tedesco, non vi è possibilità di sostituzione dell’A.A., da parte del giudice e quindi esso funge da mezzo di coazione indiretta, prevedendosi la condanna della P.A. al pagamento di una somma di denaro, per ogni violazione o inosservanza successiva o ritardo nell’esecuzione del giudicato. Da noi, dove c’è piena surrogabilità e in più è previsto anche il risarci- (7) A.AULETTA, Giurisdizionalizzazione del ricorso straordinario: una partita chiusa?, in Giustamm. it, 2011; P. QUINTO, Il codice e la giurisdizionalizzazione del ricorso straordinario, in Foro amm. T.A.R. 2010. 240 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 mento del danno, (interessi, rivalutazione, eventuale anatocismo), non se ne sentiva proprio il bisogno e rappresenta un aggravamento ingiustificato contro la P.A., anche se la norma prevede la necessità della richiesta di parte e l’esonero ove sussistano non meglio precisate “ragioni ostative” e la richiesta non sia manifestamente iniqua. Per di più si prevede che la relativa statuizione costituisca titolo esecutivo e contro di essa, se emessa dal giudice di secondo grado, non c’è rimedio (art. 114, comma 4, lett. e). L’introduzione dell’istituto ha posto – come era da aspettarsi – rilevanti problemi applicativi, quali la non riferibilità alle sole sentenze di condanna ad obblighi di fare e non fare (come invece l’art. 614-bis c.p.c.), la sua cumulabilità con la richiesta di nomina di un Commissario ad acta, la sua applicabilità alle sentenze di condanna al pagamento di somme di danaro nonostante la espressa previsione degli interessi, la non scomputatibilità dell’importo del risarcimento del danno (8) . 9. La riedizione dell’atto amministrativo. Restano in ogni caso i problemi che possono derivare dalla riedizione del provvedimento amministrativo, dopo la pronuncia di annullamento del G.A. È incontestabile che l’Amministrazione mantenga sempre il proprio potere di determinarsi nella fattispecie, né potrebbe essere altrimenti, senza invadere il campo a questa riservato. È però altrettanto vero che l’attività dell’Amministrazione incontra, per gli effetti conformativi del giudicato, vincoli e limitazioni che possano discendere da quanto stabilito dal G.A., più o meno penetranti a seconda dei motivi addotti e se il potere inciso è vincolato (e in questo caso non vi sono margini per un diverso apprezzamento) o discrezionale (nel qual caso è possibile pervenire al medesimo sfavorevole risultato attraverso una diversa valutazione degli elementi compresenti, senza violare formalmente il giudicato ed incorrere così nel vizio della nullità). Il problema che si pone concretamente in questi casi è come reagire contro il provvedimento che in qualche modo finisce con il ribadire il risultato negativo contestato dal ricorrente e annullato dal G.A.. ll nuovo codice formalizza il fenomeno della elusione (concetto noto al diritto tributario), che si ha appunto tutte le volte in cui l’Amministrazione surrettiziamente cerca di addivenire al medesimo risultato negativo con comportamenti formalmente corretti ma sviati dalla finalità suddetta, consentendo in questa ipotesi il ricorso al giudizio di ottemperanza. In tale ipotesi è arduo discernere quando si sia in presenza di elusione e (8) Su tutti questi problemi, risolti in senso positivo dalla giurisprudenza prevalente, v. G. GUCCIONE, “L’Astreinte amministrativa. Problematiche applicative dell’art. 114, co. 4, lett. e), c.p.a. e prime applicazioni giurisprudenziali”, in questa Rass., 2012, n. 4, pag. 328. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 241 quando invece la riedizione dell’atto costituisca espressione del potere amministrativo residuato dopo la sentenza e da questa non intaccato. Di qui la necessità, nella pratica, di rincorrere i provvedimenti dell’ A.A. con ricorsi ordinari di impugnazione e ricorsi in ottemperanza, con evidenti disfunzioni sul piano processuale e anche organizzativo. 10. La soluzione dell’Adunanza Plenaria n. 2/2013. L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con decisione n. 2/2013, ha affrontato il problema affermando che “non può escludersi in via generale la rivalutazione dei fatti sottoposti all’esame del giudice”, rigettando così la tesi più radicale che riteneva preclusa una riedizione in senso sfavorevole dopo l’accoglimento del ricorso di parte, del potere amministrativo. Tuttavia l’Adunanza Plenaria, mediando tra le opposte tesi di chi vorrebbe riservare al giudizio di ottemperanza ogni questione concernente i provvedimenti comunque adottati dopo un giudicato e di chi invece riterrebbe necessario un nuovo giudizio di impugnazione quando l’atto così adottato non sia di per sé in contrasto o elusivo del giudicato, almeno per la prima volta (postulando un obbligo di riesame da parte della P.A. della fattispecie nella sua interezza), ha ritenuto ammissibile la proposizione di un solo ricorso di ottemperanza con una doppia domanda, con la conseguenza che il G.A. adito dichiarerà la nullità del nuovo atto se emesso in violazione o elusivo del giudicato o disporrà la conversione dell’azione per la riassunzione avanti al giudice compete, purché nel limite temporale di legge. La corretta risoluzione del problema è importante, perché l’errore attiene ai limiti esterni del potere giurisdizionale esercitato, considerato che quella di ottemperanza è una giurisdizione esclusiva e di merito. Al riguardo, la Corte Suprema di Cassazione ha stabilito che “risulta decisivo stabilire se quel che viene in questione è il modo in cui il potere giurisdizionale di ottemperanza è stato esercitato dal G.A., attenendo ciò ai limiti interni della giurisdizione, oppure il fatto stesso che, in una situazione del genere di quella considerata, un tale potere con la particolare estensione che lo caratterizza, a detto giudice non spettava”, dilemma questo particolarmente delicato quando quello che viene contestato è un comportamento elusivo da parte della P.A. (Cass. S.U., n. 736/2012). 11. Altre problematiche. Ma i problemi che il giudizio di ottemperanza pone non si fermano qui. Possiamo ancora ricordare quelli riguardanti: - le sopravvenienze di fatto o di diritto, che rendano inattuabile il giudicato, salvo il risarcimento del danno; - gli atti compiuti dal Commissario ad acta, oggi considerato ausiliare del giudice (art. 21), reclamabili avanti il giudice dell’ottemperanza, con atto 242 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 depositato, previa notifica ai controinteressati, nel termine di 60 giorni (art. 114, c. 6); - la impugnazione delle sentenze di ottemperanza emesse in primo grado, demandata al rito ordinario (9). 12. La natura mista del giudizio di ottemperanza. Al termine della disamina compiuta, deve considerarsi acquisita la natura giuridica mista del giudizio di ottemperanza. Come autorevolmente statuito dalla citata Ad. Pl. n. 2 del 2013, il giudizio di ottemperanza “presenta un contenuto composito, entro il quale convergono azioni diverse, talune riconducibili alla ottemperanza come tradizionalmente configurata; altre di mera esecuzione di una sentenza di condanna pronunciata nei confronti della Pubblica Amministrazione; altre ancora aventi natura di cognizione, e che, in omaggio ad un principio di effettività della tutela giurisdizionale, trovano nel giudice dell’ottemperanza il giudice competente, e ciò anche a prescindere dal rispetto del doppio grado di giudizio di merito (principio che peraltro, come è noto, non ha copertura costituzionale). Più precisamente, la disciplina dell’ottemperanza, lungi dal ricondurre la medesima solo ad una mera azione di esecuzione delle sentenze o di altro provvedimento ad esse equiparabile, presenta profili affatto diversi, non solo quanto al “presupposto” (cioè in ordine al provvedimento per il quale si chieda che il giudice disponga ottemperanza), ma anche in ordine al contenuto stesso della domanda, la quale può essere rivolta ad ottenere: a) “l’attuazione” delle sentenze o altri provvedimenti ad esse equiparati, del giudice amministrativo o di altro giudice diverso da questi, con esclusione delle sentenze della Corte dei Conti (Cons. Stato, sez. IV, 26 maggio 2003 n. 2823; Sez. VI, ord. 24 giugno 2003 n. 2634) e del giudice tributario, o, più in generale, di quei provvedimenti di giudici diversi dal giudice amministrativo “per i quali sia previsto il rimedio dell’ottemperanza” (art. 112, comma 2). E già in questa ipotesi tradizionale, l’ampiezza della previsione normativa impedisce - come è noto - di ricondurre la natura dell’azione a quella di una mera azione di esecuzione; b) la condanna “al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza” (art. 112, comma 3). In questa ipotesi, l’azione è evidentemente attratta dal giudizio di ottemperanza, poiché le somme ulteriori, al pagamento delle quali l’amministrazione è tenuta, hanno natura di obbligazioni accessorie di obbligazioni principali, in (9) Su questi temi, si vedano gli importanti e recenti studi di A. CERRETO, “Il giudizio di ottemperanza e la sua evoluzione”, in Lexitalia.it, 2013; G. SORICELLI, “Il giudizio di ottemperanza dopo il codice del processo amministrativo e i decreti correttivi”, in Federalismi.it - Riv. dir. pubbl. italiano, comunitario e comparato - n. 2/2013. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 243 ordine alle quali si è già pronunciata una precedente sentenza o provvedimento equiparato; c) il “risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato” (art. 112, comma 3). In questo caso l’azione, che viene definita risarcitoria dallo stesso Codice, non è rivolta all’“attuazione” di una precedente sentenza o provvedimento equiparato, ma trova in questi ultimi solo il presupposto. Si tratta, a tutta evidenza, di una azione nuova, esperibile proprio perché è l’ottemperanza stessa che non è realizzata, e in ordine alla quale la competenza a giudicare è, per evidenti ragioni di economia processuale e quindi di effettività della tutela giurisdizionale (a prescindere dal rispetto del doppio grado di giudizio), attribuita al giudice dell’ottemperanza; d) la declaratoria della nullità di eventuali atti emanati in violazione o elusione del giudicato (art. 114, comma 4), e ciò sia al fine di ottenere – eliminato il diaframma opposto dal provvedimento dichiarato nullo – l’attuazione della sentenza passata in giudicato, sia per ottenere il risarcimento dei danni connessi alla predetta violazione o elusione del giudicato (art. 112, comma 3, ult. parte); danni questi ultimi che possono derivare sia dalla ritardata attuazione del giudicato (per avere invece l’amministrazione emanato un provvedimento nullo), sia direttamente (e distintamente) da tale provvedimento, una volta verificatone l’effetto causativo di danno. A tale quadro, va aggiunto il ricorso, ex art. 112, comma 5, proposto al fine di “ottenere chiarimenti in ordine alle modalità dell’ottemperanza”. In conclusione, l’esame della disciplina processuale dell’ottemperanza, di cui agli artt. 112 ss. cpa (ai quali occorre doverosamente aggiungere l’art. 31, co. 4), porta ad affermare la attuale polisemicità del “giudizio” e dell’ “azione di ottemperanza”, dato che, sotto tale unica definizione, si raccolgono azioni diverse, talune meramente esecutive, tal’altre di chiara natura cognitoria, il cui comune denominatore è rappresentato dall’esistenza, quale presupposto, di una sentenza passata in giudicato, e la cui comune giustificazione è rappresentata dal dare concretezza al diritto alla tutela giurisdizionale, tutelato dall’art. 24 Cost. Di conseguenza il giudice dell’ottemperanza, come identificato per il tramite dell’art. 113 cpa, deve essere attualmente considerato come il giudice naturale della conformazione dell’attività amministrativa successiva al giudicato e delle obbligazioni che da quel giudicato discendono o che in esso trovano il proprio presupposto. Data quindi per assodata tale natura mista, un aspetto peculiare è rappresentato dalla equiparabilità o meno del giudizio di ottemperanza a quello esecutivo, in presenza di norme che vietino la promozione o il proseguimento di azioni esecutive. Non sembra che tali norme siano ostative all’esperimento del giudizio di ottemperanza, data la sua maggiore estensione e complessità in grado di comprendere altri possibili provvedimenti (ad es, l’ordine di am- 244 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 missione al passivo). La questione pende comunque ora avanti alla Corte Costituzionale (10). 13. Conclusioni. Infine è da segnalare che, in coerenza con il processo di soggettivizzazione dell’interesse legittimo, che ha portato anche al riconoscimento del risarcimento del danno per la sua lesione e che sta trasformando il processo amministrativo in un processo sul rapporto (oggi sempre più si parla di conseguimento di un bene della vita o di comportamento secondo correttezza e buona fede), si manifesta sempre più la tendenza ad anticipare il giudizio di ottemperanza, attribuendo al giudice della cognizione più ampi poteri in modo da soddisfare il ricorrente già con la decisione stessa, consentendo addirittura la nomina di un commissario ad acta, con la sentenza di merito (art. 34, c. 1, lett. e) o prevedendo, in caso di condanna pecuniaria, i criteri per il pagamento della somma dovuta (art. 34, c. 4) (11). Non resta a questo punto che domandarsi dove sta andando il processo amministrativo e se non sia vero che nel momento del suo massimo successo, costituito dall’entrata in vigore del codice, non vi siano i germi di una sua progressiva omologazione e assimilazione a quello civile, alla cui norme dichiara formalmente di rifarsi. Ma questa è già un’altra storia. (10) La questione è stata rimessa alla C. Cost., con ordinanza del Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 5492/2011 e del T.A.R. Lazio, Sez. II, n. 6976/2012 ed è stata discussa all’udienza del 4 giugno 2013. (11) Facoltà questa che non sembra possibile estendere all’astreinte, in funzione deflattiva, ostandovi il chiaro disposto letterale della norma di legge. CONTENZIOSO NAZIONALE 245 Natura giuridica della società per azioni di riscossione tributaria e sua legittimazione passiva nel processo tributario Francesco Meloncelli* SOMMARIO: 1. L’attualità del problema della qualità di adiectus solutionis causa ex art. 1188 cc della società agente della riscossione - 2. I frammenti normativi generalmente utilizzati nell’attività ermeneutica. - 3. Il formante giurisprudenziale. - 3.1. La giurisprudenza anteriore al 2007. - 3.2. La sentenza delle Sezioni unite civili 25 luglio 2007, n. 16412. - 3.2.1. Il contenuto della sentenza. - 3.2.2. La valutazione della sentenza. - 3.3. La giurisprudenza successiva al 2007. - 3.4. Conclusioni sullo stato attuale della giurisprudenza di legittimità. - 4. Premesse generali per l’inquadramento normativo della riscossione tributaria. - 5. La scissione tra attività d’imposizione tributaria per provvedimento e attività di esecuzione (riscossione del tributo). - 6. Le possibili soluzioni del problema della legittimazione passiva nel giudizio contro la cartella di pagamento. - 7. La legittimazione passiva del solo agente della riscossione. - 8. La legittimazione passiva del solo ufficio finanziario creditore del tributo. - 9. La legittimazione passiva sia dell’ufficio finanziario creditore del tributo sia dell’agente della riscossione. - 10. Conclusioni. 1. L’attualità del problema della qualità di adiectus solutionis causa ex art. 1188 cc della società agente della riscossione. Nella giurisprudenza della Corte di cassazione è consolidato l’orientamento secondo il quale la società per azioni operante come agente di riscossione tributaria, prevista dall’art. 3.2 DL 30 settembre 2005, n. 203, conv. in L. 2 dicembre 2005, n. 248, sia un adiectus solutionis causa ex art. 1188 cc. Le conseguenze principali di questa concezione sono, sul piano sostanziale, la preclusione, per la società, dell’esercizio di qualsiasi potere nella gestione del rapporto creditorio e, sul piano processuale, la mancanza di una sua esclusiva legittimazione passiva nei giudizi contro i suoi atti. Sul piano operativo il problema che dà luogo a un gran numero di controversie è, in prevalenza, il secondo. Risulta, infatti, che non poche siano le pronunce da parte dei giudici tributari di merito che, chiamati a pronunciarsi sulla questione della legittimazione passiva dei giudizi contro una cartella di pagamento, decidono in maniera tale da alimentare il contenzioso in sede di legittimità. Così, solo per dare qualche segno della rilevanza, anche pratica, della questione, si rileva che sono attualmente sottoposte al giudizio della Corte di cassazione una serie di sentenze di varie Commissioni tributarie regionali nelle quali si decide sulla legittimazione passiva dell’ufficio dell’amministrazione finanziaria, titolare del credito tributario, nel giudizio promosso dal contribuente contro una cartella di pagamento solo per un vizio suo proprio (*) Avvocato dello Stato. 246 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 - come, per esempio, tipicamente ma non esclusivamente, la tardività della notificazione della cartella - con ricorso introduttivo intimato e notificato, non all’agente della riscossione, autore della cartella e della sua notificazione, ma all’ufficio tributario. Tra di queste merita che se ne segnali particolarmente una, che è stata recentemente sottoposta all’esame della Sezione civile VI, Sottosezione V (tributaria), perché si valutasse se fosse valida la sentenza d’appello che aveva affermato la carenza di legittimazione passiva dell'Agenzia Entrate nel giudizio promosso per contestare la tardività della notifica dell'iscrizione a ruolo di somme liquidate ex art.36-bis DPR 29 settembre 1973, n. 600, ed, altresì, per non avere disposto l'integrazione del contraddittorio nei confronti del concessionario. La Corte ha, dapprima, formulato, in sede di relazione ex art. 380- bis cpc, la proposta di riconoscere la legittimazione passiva dell’ufficio titolare del credito tributario in applicazione di due principi di diritto, i quali sarebbero desumibili da altrettanti consolidati precedenti giurisprudenziali: a) l’azione sottesa all’annullamento della cartella di pagamento può essere svolta dal contribuente indifferentemente nei confronti dell’ente creditore o del concessionario e senza che tra costoro si realizzi un’ipotesi di litisconsorzio necessario, essendo rimessa alla sola volontà del concessionario, che sia evocato in giudizio, la facoltà di chiamare in causa l’ente creditore; b) la tardività della notificazione della cartella non costituisce vizio proprio di questa, tale da legittimare in via esclusiva il concessionario a contraddire nel relativo giudizio, sicché la legittimazione passiva spetta all’ente titolare del credito tributario e non già al concessionario. La Corte ha, poi, deciso la controversia con l’ordinanza 7 maggio 2013, n. 10646, ispirandosi ai principi preannunciati, senza tener, e dar, conto tanto della difesa svolta dall’Avvocatura dello Stato in udienza camerale quanto delle ragioni per le quali il pubblico ministero aveva chiesto il rinvio della causa all’udienza pubblica: le argomentazioni, con cui la difesa erariale ha cercato di contrastare la relazione ex art. 380-bis cpc, hanno fatto leva essenzialmente sul fatto che l’orientamento delle Sezioni semplici della Corte di cassazione sul tema è, come vedremo più avanti, tutt’altro che univoco, sicché non si giustifica una decisione per manifesta (in)fondatezza; anzi la posizione della Corte di cassazione meriterebbe, perciò, che fosse verificata e messa a punto dalle Sezioni unite, che, sul punto, si sono peraltro già pronunciate nel 2007, ma in maniera tale - evidentemente - da non sopire i contrasti all’interno delle Sezioni semplici. Anticipando la tesi, alla cui dimostrazione è dedicato questo articolo, possiamo dire subito che: a) nei riguardi del primo principio - che nell’ordinanza è stato desunto dalla sentenza delle Sezioni unite 25 luglio 2007, n. 16412 -, esso non è valido in ogni ipotesi, sussistendone alcune nelle quali la legittimazione passiva spetta CONTENZIOSO NAZIONALE 247 esclusivamente all’agente della riscossione/concessionario; b) il secondo principio proposto non è condivisibile perché, tenuto conto che la stessa sentenza delle Sezioni unite 25 luglio 2007, n. 16412, dalla quale si è ricavato il principio precedente, afferma anche testualmente che <> e che pertanto la tardività della notificazione è da imputarsi a comportamento omissivo dell’agente della riscossione, è preferibile il diverso orientamento espresso in più d’una sentenza della Sezione civile V in cui si afferma che, quando l’impugnazione è rivolta contro la cartella di pagamento per un vizio suo proprio, il ricorso introduttivo dev’essere rivolto, a pena d’inammissibilità, esclusivamente contro l’agente della riscossione (1). Come si vede, l’operatività pratica quotidiana offre un sufficiente materiale pulsante perché si sia sollecitati a riflettere sistematicamente sul tema della legittimazione passiva nei giudizi promossi contro una cartella di pagamento adottata per la riscossione di un tributo e sul suo presupposto sistematico consistente nella riconduzione della specie della società per azioni di riscossione tributaria al genere del mero destinatario del pagamento ex art. 1188 cc. La riflessione non può che prendere le mosse, anzitutto, dalle disposizioni normative che generalmente sono utilizzate per comporre la norma sotto la quale sussumere la fattispecie dibattuta per tener conto, poi, dell’evoluzione della giurisprudenza di legittimità sull’argomento. 2. I frammenti normativi generalmente utilizzati nell’attività ermeneutica. Il contribuente, cui sia notificata una cartella di pagamento e che intenda ricorrere contro di essa al giudice tributario, deve preventivamente premurarsi d’individuare il soggetto dotato di legittimazione passiva, al fine di rivolgere a lui la sua intimazione e la notificazione del suo ricorso. Generalmente, a tal fine, si è ricorsi alle disposizioni normative che si rinvengono nelle seguenti sedi: - nell’art. 10 DLgs 31 dicembre 1992, n. 546, che, per la parte che qui interessa, è così formulato: <>; - nell’art. 14.1 DLgs 31 dicembre 1992, n. 546, il quale prevede che, <>; - nell’art. 19.1.d), e), e-bis) ed e-ter) DLgs 31 dicembre 1992, n. 546, nel quale si annoverano, tra gli atti impugnabili con il ricorso introduttivo al giudice tributario, quattro specie di atti che sono adottati dall’ente della riscossione e cioè: la cartella di pagamento (2), l’avviso di mora (3), l’iscrizione di ipoteca sugli immobili di cui all’art. 77 DPR 29 settembre 1973, n. 602 (4); il fermo di beni mobili registrati di cui all’art. 86 DPR 29 settembre 1973, n. 602 (5); - nell’art. 7.2.c) L. 27 luglio 2000, n. 212, che impone al concessionario di apporre alla cartella di pagamento la cosiddetta clausola d’impugnazione: <> (6); - nell’art. 1188 cc sul destinatario del pagamento: <>; - nell’art. 39 DLgs 3 aprile 1999, n. 112: <>. Come si vedrà meglio nella pars construens di questo contributo (§§ 4 ss.), si ha motivo di ritenere che nella composizione della norma sulla legittimazione passiva debba tenersi conto, in verità, anche di altri frammenti normativi, che rendono speciale la società per azioni di riscossione tributaria, (2) Art. 19.1.d) DLgs 31 dicembre 1992, n. 546. (3) Art. 19.1.e) DLgs 31 dicembre 1992, n. 546. L’avviso di mora, in quanto atto della fase di esecuzione amministrativa del provvedimento amministrativo d’imposizione tributaria, è stato eliminato dal nostro ordinamento a partire dal 1° luglio 1999; da quel giorno, infatti, vige un nuovo testo dell’art. 50 DPR 29 settembre 1973, n. 602, introdotto dall’art. 16 DLgs 26 febbraio 1999, n. 46, poi modificato dall’art. 1.1.f) DLgs 27 aprile 2001, n. 193, secondo il quale l’esattore <> (comma 1), e solo <<[s]e l'espropriazione non è iniziata entro un anno dalla notifica della cartella di pagamento, l'espropriazione stessa deve essere preceduta dalla notifica ... di un avviso [l’avviso di mora, per l’appunto] che contiene l'intimazione ad adempiere l'obbligo risultante dal ruolo entro cinque giorni>>. In questo modo l’avviso di mora è stato portato fuori della fase di esecuzione del provvedimento amministrativo d’imposizione tributaria ed è stato inserito nella fase dell’esecuzione forzata, che è sottoposta ad un regime, anche giurisdizionale, diverso. (4) Art. 19.1.e-bis) DLgs 31 dicembre 1992, n. 546, introdotto dall’art. 35.26-quinquies DL 4 luglio 2006, n. 223, conv. in L. 4 agosto 2006, n. 248. (5) Art. 19.1.e-ter) DLgs 31 dicembre 1992, n. 546, introdotto dall’art. 35.26-quinquies DL 4 luglio 2006, n. 223, conv. in L. 4 agosto 2006, n. 248. (6) Della clausola d’impugnazione si terrà conto occasionalmente solo per segnalarne gli effetti sul regime della legittimazione. CONTENZIOSO NAZIONALE 249 rispetto alle comuni società di diritto commerciale; specialità che, pur consentendole di mantenere la qualifica civilistica di adiectus solutionis causa, è in grado di spiegare il peculiare regime della legittimazione passiva di quella società per azioni all’interno del sistema normativo processuale tributario. Per comprendere tutto ciò, tuttavia, si ritiene utile illustrare preliminarmente i molteplici orientamenti giurisprudenziali, da cui si evince che, in ogni caso, la norma sulla legittimazione processuale è estrapolata soltanto dalle disposizioni normative precedentemente citate. 3. Il formante giurisprudenziale. L’evoluzione della giurisprudenza può essere scandita in due periodi, a discrimine dei quali si pone la decisione delle Sezioni unite civili della Corte di cassazione 25 luglio 2007, n. 16412. Le Sezioni unite, hanno ritenuto - almeno secondo la maggioranza degli interpreti - di dover individuare, nella normazione dell’ordinamento giuridico italiano, la presenza di una norma che, nella sua formulazione più semplice, avrebbe il seguente testo: “il contribuente può intimare e notificare il suo ricorso introduttivo contro una cartella di pagamento indifferentemente all’ufficio tributario creditore del tributo o all’agente della riscossione”. L’effetto principale di quella sentenza è stato quello di abbandonare la giurisprudenza anteriore al luglio 2007 e di segnare un crinale tra di essa e la giurisprudenza successiva: ad una giurisprudenza anteriore che si era evoluta lentamente ma che, nei due sottoperiodi in cui può essere divisa, si era mantenuta uniforme e costante, è così succeduta una giurisprudenza delle sezioni semplici piena di contrasti. Vediamo in dettaglio le ragioni della situazione in tal modo creatasi. 3.1. La giurisprudenza anteriore al 2007. La giurisprudenza, in tema di natura giuridica dell’agente della riscossione e di legittimazione passiva, antecedente al luglio 2007 dev’essere divisa in due parti: fino al 2003 e dal 2004 al luglio 2007 (7). Nella giurisprudenza di legittimità a partire dal 1992 (8) si riteneva pacificamente che il cittadino potesse far valere, con l’impugnazione della cartella di pagamento, anche i vizi dell’atto presupposto (mancata adozione dell’atto presupposto (9) o sua invalidità (10) o sua mancata o irrituale notificazione (7) Il crinale cronologico del 25 luglio 2007, coincidente con la data di pubblicazione dalla sentenza delle Sezioni unite civili della Corte di cassazione n. 16412 del 2007, è riferito, ovviamente, non alla data di pubblicazione delle sentenze delle Sezioni semplici della Corte, ma alla data della loro decisione in camera di consiglio. (8) Si è ritenuto sufficiente raccogliere i dati giurisprudenziali a partire da tale data. (9) Corte di cassazione: 14 dicembre 1998, n. 12544; 16 novembre 1999, n. 780; 6 marzo 1999, n. 1941; 29 aprile 1999, n. 4324; 3 agosto 2000, n. 10200. (10) Corte di cassazione: 20 gennaio 1999, n. 482; 14 febbraio 2007, n. 3338. 250 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 (11)), sia in materia tributaria (12) sia negli altri settori del diritto amministrativo (13), per i quali spesso si metteva in rilievo l’analogia con il regime di diritto tributario (14), il quale prevedeva - e prevede ancora - espressamente l’impugnabilità dell’atto presupposto, rimasto ignoto al contribuente, attraverso l’impugnazione dell’atto consequenziale (15). Quanto alla legittimazione passiva si riteneva, nell’ipotesi d’impugnazione della cartella di pagamento per invalidità derivata dal suo atto presupposto, che essa fosse concorrente tra il destinatario del provento e l’agente della riscossione (16), litisconsorti necessari nel giudizio (17). Ne derivava che se l’atto introduttivo del giudizio fosse stato notificato solo all’agente della riscossione, si disponeva la cassazione con rinvio perché fosse integrato il contraddittorio nei confronti anche dell’altro litisconsorte necessario (18); così come, se l’atto d’impugnazione fosse stato notificato solo al titolare del credito, si adottava analoga decisione per consentire l’integrazione del contraddittorio nei confronti del concessionario della riscossione (19). Si aggiungeva anche che, <<[t]rattandosi di ipotesi di litisconsorzio necessario, la mancata integrazione del contraddittorio può essere rilevata anche d'ufficio in ogni stato e grado del processo, con la conseguenza che deve essere dichiarata la nullità del giudizio di primo grado al quale non ha partecipato il concessionario del servizio riscossione tributi che aveva predisposto e notificato la cartella esattoriale>> (20). Questo orientamento fu, peraltro, in un momento successivo - a partire (11) Corte di cassazione: 12 giugno 1997, n. 5278; 16 novembre 1999, n. 780; 11 febbraio 1999, n. 1149; 6 marzo 1999, n. 1941; 3 agosto 2000, n. 10220; 9 aprile 2001, n. 5277; 18 giugno 2002, n. 8759; 25 novembre 2003, n. 17936; 23 settembre 2004, n. 19150; 10 novembre 2004, n. 21398; 8 febbraio 2006, n. 2798; 31 marzo 2006, n. 7649; 11 agosto 2006, n. 18160; 20 ottobre 2006, n. 22617; 14 febbraio 2007, n. 3242. (12) Corte di cassazione: 9 maggio 1992, n. 190. (13) Corte di cassazione: 23 novembre 1995, n. 12107; 12 giugno 1997, n. 5278 (sanzione amministrativa per violazione del codice della strada); 2 settembre 1997, n. 8380 (sanzione amministrativa per violazione delle norme che regolano l'assunzione di personale); 14 dicembre 1998, n. 12544 (sanzione amministrativa per violazione del codice della strada); 20 gennaio 1999, n. 482 (sanzione amministrativa per violazione del codice della strada); 29 aprile 1999, n. 4324 (sanzione amministrativa per violazione del codice della strada); 3 agosto 2000, n. 10220 (sanzione amministrativa per violazione del codice della strada); 25 novembre 2003, n. 17936; 10 novembre 2004, n. 21398; 11 agosto 2006, n. 18160; 17 aprile 2007, n. 9113 (crediti previdenziali); 16 maggio 2007, n. 11274 (crediti previdenziali). (14) Corte di cassazione: 23 novembre 1995, n. 12107; 2 settembre 1997, n. 8380; 14 dicembre 1998, n. 12544; 16 novembre 1999, n. 780; 11 febbraio 1999, n. 1149; 6 marzo 1999, n. 1941; 3 agosto 2000, n. 10220; 9 aprile 2001, n. 5277; 21 dicembre 2004, n. 23701. (15) V., dapprima, l’art. 16.3 DPR 26 ottobre 1972, n. 636, e, poi ed ora, l’art. 19.3, ultimo periodo, DLgs 31 dicembre 1992, n. 546. (16) Corte di cassazione 12 giugno 1997, n. 5278. (17) Corte di cassazione: 12 giugno 1997, n. 5278; 29 aprile 1999, n. 4324; 9 aprile 2001, n. 5277. (18) Corte di cassazione: 12 giugno 1997, n. 5278; 29 aprile 1999, n. 4324. (19) Corte di cassazione 25 novembre 2003, n. 17936. (20) Corte di cassazione 25 novembre 2003, n. 17936. CONTENZIOSO NAZIONALE 251 soprattutto dal 2004 - consapevolmente contraddetto e superato da una serie di pronunce nelle quali si affermò che la legittimazione passiva fosse da riconoscere in via esclusiva all’organo amministrativo autore dell’atto presupposto sospettato d’invalidità, fonte per derivazione dell’invalidità della cartella di pagamento impugnata, perché il concessionario della riscossione, che non è titolare della situazione giuridica sostanziale dedotta in giudizio (21), sarebbe solo un destinatario del pagamento ex art. 1188.1 cc (22), con l’ulteriore conseguenza che i due soggetti non sono litisconsorti necessari, ma eventualmente - ove il concessionario fosse chiamato in causa - litisconsorti processuali (23). E il cambio dell’orientamento fu così frequentemente seguito che già nel 2005 la nuova posizione assunta dalla Corte fu considerata prevalente (24), e, in piena consapevolezza, essa fu abbracciata e confermata a scapito della posizione precedente (25). A questo stesso secondo e successivo filone si deve ricondurre quella giurisprudenza, che, chiamata a decidere della legittimazione passiva nel giudizio contro una cartella esattoriale che ordinava il pagamento di crediti di due diversi soggetti pubblici, nei confronti dei quali l’amministrato aveva indirizzato sia l’intimazione sia la notificazione del suo atto d’impugnazione - diretto, peraltro, unicamente contro i crediti di uno solo di essi -, s’è pronunciata nel senso che la legittimazione passiva spetta solo all’ente creditore di cui si contesta la pretesa, mentre l’altro soggetto è destinatario di una mera denuntiatio litis e non acquisisce, perciò, la qualità di parte, cosicché è inammissibile il suo controricorso (26). La stessa conclusione vale a maggior ragione per l’agente della riscossione, che non è titolare del credito; infatti, la carenza di legittimazione passiva del concessionario <> (27) e, quindi, l’inapplicabilità dell’art. 331 cpc, ossia la non integrabilità del contraddittorio (28). Se, invece, l’impugnazione del contribuente fosse stata limitata alla contestazione della cartella di pagamento, per vizi suoi propri o per quelli della sua notificazione, si riteneva che correttamente sarebbe stato evocato in giudizio, quale legittimo ed esclusivo contraddittore, l’agente della riscossione, (21) Corte di cassazione: 3 agosto 2000, n. 10200; 18 giugno 2002, n. 8759; 24 giugno 2004, n. 11746; 21 dicembre 2004, n. 23701, 7 dicembre 2005, n. 27065; 11 agosto 2006, n. 18160; 14 febbraio 2007, n. 3338; 17 aprile 2007, n. 9113; 9 maggio 2007, n. 10580. (22) Corte di cassazione: 24 giungo 2004, n. 11746: 21 dicembre 2204, n. 23701; 7 dicembre 2005, n. 27065; 29 settembre 2006, n. 21222; 20 ottobre 2006, n. 22617; 14 febbraio 2007, n. 3338; 17 aprile 2007, n. 9113. (23) Corte di cassazione 24 giungo 2004, n. 11746. (24) Da Corte di cassazione 7 dicembre 2005, n. 27065. (25) Corte di cassazione 20 ottobre 2006, n. 22617. (26) Corte di cassazione 16 maggio 2007, n. 11274. (27) Corte di cassazione 9 maggio 2007, n. 10580. Nello stesso senso, nella giurisprudenza posteriore al 2007, Corte di cassazione 21 gennaio 2009, n. 1262. (28) Corte di cassazione 9 maggio 2007, n. 10580. 252 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 ai sensi dell'art. 10 DLgs 31 dicembre 1992, n. 546, senza che insorgesse la necessità d'integrare il contraddittorio (29), in base all'art. 14.1-2 dello stesso atto normativo, il quale regola il caso in cui la domanda riguardi inscindibilmente più soggetti, né si verificasse l’esigenza di chiamata in causa, circoscritta dall’art. 14.3 all'ipotesi in cui vi fossero più destinatari dell'atto impugnato o comunque più parti del rapporto conteso (30). In conclusione, il diritto vivente al luglio del 2007 era condensabile nelle seguenti norme giuridiche: 1) nel processo tributario contro una cartella di pagamento impugnata solo per invalidità ad essa derivata dall’invalidità dell’atto presupposto, il solo legittimato passivo è il titolare del credito tributario fatto valere con la cartella e se il ricorso sia stato notificato solo all’agente della riscossione, questi è gravato, pena l’imputazione alla sua sfera giuridica del carico del ruolo risultante all’esito del giudizio, dell’onere di chiamare in causa il titolare del credito tributario; 2) nel processo tributario contro una cartella di pagamento impugnata solo per invalidità propria, il solo legittimato passivo è l’agente della riscossione; 3) nel processo tributario contro una cartella di pagamento impugnata sia per invalidità ad essa derivata dall’invalidità dell’atto presupposto sia per invalidità sua propria, il titolare del credito e l’agente della riscossione sono parti (29) Corte di cassazione 14 febbraio 2007, n. 3242, secondo la quale <>. (30) Corte di cassazione: 14 giugno 2001, n. 8019; 17 settembre 2001, n. 11667. Sulla stessa linea della chiara formulazione dell’art. 10 DLgs 31 dicembre 1992, n. 546, si pone la sentenza della Corte di cassazione 6 maggio 2002, n. 6450, secondo la quale non sorge alcun dubbio interpretativo sul fatto che l’impugnazione contro la cartella si propone contro l’ufficio <>, mentre si propone contro il concessionario quando si propone per vizi della cartella. Identica la posizione assunta dalla Corte di cassazione 10 settembre 2007, n. 18972 (decisa nella camera di consiglio del 4 maggio 2007), con riguardo all’avviso di mora, ma valida anche per la cartella di pagamento, secondo la quale: <<è principio consolidato della giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui "in tema di contenzioso tributario, ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 10 il ricorso avverso l'avviso di mora, qualora tale atto venga impugnato esclusivamente per vizi propri, deve essere proposto nei confronti del Concessionario per la riscossione dei tributi, senza che sia necessario integrare il contraddittorio, ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 14, nei confronti dell'ente impositore (cfr., Cass. civ. sent. n. 11667 del 2001), sussiste, infatti, la legittimazione del concessionario del servizio di riscossione dei tributi se l'impugnazione concerne vizi propri di tale atto del procedimento esecutivo, mentre va esclusa qualora i motivi di ricorso attengano alla debenza del tributo" (cass. civ. sent. n. 6450 del 2002), punto quest'ultimo non oggetto della presente controversia>>. Una posizione a sé occupano quelle sentenze che danno applicazioni a normative specifiche, nelle quali si prevede che, dal lato dell’autorità, si collochino non due soggetti, come accade in materia tributaria, ma ben tre soggetti: l’agente della riscossione, il soggetto a favore del quale è effettuato il pagamento e il soggetto che adotta l’ingiunzione portata ad esecuzione dall’agente della riscossione. Può bastare il loro richiamo, perché quel che conta, ai nostri fini, è rilevare che anche in esse la Corte distingue le diverse posizioni sostanziali dei soggetti per individuarne la legittimazione passiva. V., per esempio, Corte di cassazione: 18 giugno 2002, n. 8759; 7 agosto 2003, n. 11926; 1 febbraio 2007, n. 3242. CONTENZIOSO NAZIONALE 253 separate e distinte del giudizio, non legate da litisconsorzio necessario sostanziale, ma solo da litisconsorzio processuale. 3.2. La sentenza delle Sezioni unite civili 25 luglio 2007, n. 16412. 3.2.1. Il contenuto della sentenza. Questo era il diritto vivente elaborato dalle Sezioni semplici della Corte di cassazione al 25 luglio 2007, quando fu pubblicata la sentenza delle Sezioni unite n. 16412, dopo la quale si è prodotto un diffuso stato di disorientamento che ancora affligge la giurisprudenza e che, probabilmente, solo un assorbimento dei contrasti interni delle Sezioni semplici, o, in mancanza, un ulteriore intervento chiarificatore delle Sezioni unite potrà rimuovere. Infatti, come presto vedremo, molte sentenze successive fanno riferimento specifico alla sentenza n. 16412, dandone spesso interpretazioni non corrette od equivocando sui suoi presupposti o sulla sua precisa sfera di applicazione e, comunque, assumendo posizioni inconciliabili. La pronuncia delle Sezioni unite del 2007 deve, dunque, essere esaminata attentamente. La sentenza 25 luglio 2007, n. 16412, al termine di un lungo ragionamento, afferma: <>. In questa ricca formulazione di un unico principio di diritto sono enunciate, in realtà, più norme giuridiche, che, come interpreti, siamo tenuti a sfor- 254 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 zarci di estrapolare, cercando di non modificare in alcun modo il pensiero del giudice. A tal fine ci ispiriamo al criterio metodico più rigoroso che consiste - dopo aver sfrondato l’affabulazione della Corte da ogni riferimento motivazionale o argomentativo e dall’eccesso di proposizioni subordinate - nell’indicare nella formula della norma solo i tre suoi elementi essenziali e non standardizzati, che sono costituiti dall’oggetto, dal contenuto e dai destinatari. In base a questo metodo riteniamo che tre siano le norme più importanti contenute nell’enunciato delle Sezioni unite: 1) l'omissione della notificazione di un atto presupposto costituisce vizio procedurale che comporta la nullità dell'atto consequenziale notificato; 2) la nullità dell’atto consequenziale per la mancata notificazione dell’atto presupposto può essere fatta valere dal contribuente mediante la scelta o di impugnare, per tale semplice vizio, l'atto consequenziale notificatogli, o di impugnare cumulativamente anche quest'ultimo (non notificato) per contestare radicalmente la pretesa tributaria; 3) l'azione di nullità, [sia nei confronti del solo atto consequenziale derivativamente invalido per la mancata notificazione dell’atto presupposto sia nei confronti del solo atto presupposto non notificato], può essere svolta dal contribuente indifferentemente nei confronti dell'ente creditore o del concessionario e senza che tra costoro si realizzi una ipotesi di litisconsorzio necessario, essendo rimessa alla sola volontà del concessionario, evocato in giudizio, la facoltà di chiamare in causa l'ente creditore. Il testo della terza norma giuridica, che è la sola che interessi direttamente il nostro tema, è fedelmente estratto dalla sentenza, ma vi ho inserito tra parentesi quadre la specificazione dei due possibili oggetti dell’impugnazione quali risultano dalle proposizioni immediatamente precedenti della pronuncia, le quali delimitano l’oggetto della norma. La formula riprodotta, da me in cotal modo integrata, è, tuttavia, ancora complessa, perché essa continua a contenere più norme giuridiche. Infatti, a rigore, le norme giuridiche semplici contenute nella terza formula sopra enunciata sono le seguenti: 1) il contribuente (primo destinatario) può sempre ricorrere (contenuto) contro una cartella di pagamento (oggetto) o nei confronti dell’agente della riscossione o nei confronti dell’ente creditore (secondi destinatari) (31); 2) l’agente della riscossione (primo destinatario), nei confronti del quale il contribuente (secondo destinatario) abbia proposto il suo ricorso contro una (31) Una formulazione diversa ma equivalente è la seguente: nel giudizio tributario promosso dal contribuente (primo destinatario) contro una cartella di pagamento (oggetto) la legittimazione passiva (contenuto) è, secondo la scelta del contribuente, alternativamente dell’agente della riscossione o dell’ente creditore (secondi destinatari); o, ancora: la legittimazione passiva spetta indifferentemente (contenuto), nel giudizio tributario attivato dal contribuente (primo destinatario) contro una cartella di pagamento (oggetto), all’agente della riscossione o all’ente creditore (secondi destinatari). CONTENZIOSO NAZIONALE 255 cartella di pagamento da lui emessa (oggetto), ha l’onere (contenuto), pena l’assunzione del carico del credito da pagare, di chiamare in causa l’ente creditore (terzo destinatario); 3) l’ente titolare del credito tributario (primo destinatario) oggetto della cartella di pagamento e l’agente della riscossione che ha emesso la cartella (secondo destinatario) non sono litisconsorti necessari (contenuto) nel processo aperto con l’impugnazione del contribuente (terzo destinatario) contro la cartella di pagamento (oggetto). Queste tre norme sono connesse, ma quella che, in fondo, è centrale per il problema della legittimazione passiva è la prima; su di essa, pertanto, deve concentrarsi la nostra attenzione. 3.2.2. La valutazione della sentenza. Per valutare la portata della sentenza 27 luglio 2007, n. 16412, si deve osservare che in essa le Sezioni unite si sono pronunciate sulla ripartizione della legittimazione passiva tra l’ufficio creditore del tributo e l’agente della riscossione in un giudizio contro atti emessi dall’agente della riscossione; si trattava, infatti, di una causa nella quale il ricorso introduttivo del contribuente era stato notificato sia all’ufficio tributario sia al concessionario della riscossione, autore dell’avviso di mora impugnato e titolare del potere di adottare la cartella di pagamento di cui si lamentava la mancanza. Che la questione sottoposta all’esame delle Sezioni unite fosse quella appena indicata è desumibile, con tutta chiarezza, da quel passo della sentenza, nel quale la Corte di cassazione, dopo aver esaminato una questione pregiudiziale, ha affermato che <<[t]anto stabilito, è possibile passare all’esame della questione per la quale la causa è stata sottoposta alla valutazione delle Sezioni unite ... e, cioè, se ... l’avviso di mora notificato al contribuente sia nullo a causa della mancata prevista notifica al medesimo contribuente, della cartella di pagamento>>. Secondo la Sezioni unite, gli orientamenti seguiti dalle Sezioni semplici sarebbero classificabili per genere/specie nel senso che, da un lato, si sosteneva l’irrilevanza del vizio dell’atto presupposto e, dall’altro lato e all’opposto, se ne predicava la rilevanza; all’interno della prima di queste due categorie, cioè dell’irrilevanza, si erano seguite due specie di orientamenti differenziati per assolutezza/relatività, nel senso che, mentre per alcune sezioni semplici l’irrilevanza dei vizi dell’atto presupposto era assoluta, per altre la loro irrilevanza era relativa. Nel dettaglio: A) quanto all’irrilevanza: 1) si dava, secondo un filone giurisprudenziale, l’irrilevanza assoluta, di cui sarebbero precedenti le sentenze della Corte di cassazione nn. 7533 e 16464 del 2002, nel caso in cui la mancata notificazione della cartella di pagamento non produceva l’invalidità dell’avviso di mora, perché attraverso l’impugnazione di questo il contribuente poteva comunque impugnare l’atto presupposto; 256 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 2) si dava, secondo un altro filone giurisprudenziale, l’irrilevanza relativa, di cui sarebbero precedenti le sentenze della Corte n. 1430 del 2003 e n. 15858 del 2005, nel caso in cui la mancata notificazione della cartella di pagamento era irrilevante solo se l’avviso di mora contenesse tutti gli elementi della cartella idonei ad individuare la specifica pretesa tributaria e le relative ragioni; B)per la rilevanza tout court, invece, si schieravano quelle sentenze per le quali la mancata notificazione della cartella di pagamento determinava in ogni caso la nullità dell’avviso di mora. Le Sezioni unite hanno abbracciato la tesi B), cioè la tesi della rilevanza, attraverso un ragionamento complesso, che può essere così sintetizzato: la mancata notificazione della cartella di pagamento (atto presupposto) determina l’invalidità derivata dell’avviso di mora (atto consequenziale), perché: a) dal punto di vista sostanziale, <>; b) dal punto di vista processuale, la legge riconosce al contribuente la facoltà di scegliere se <>. A questo punto le Sezioni unite hanno manifestato l’opinione che fosse necessario affrontare un problema connesso, esprimendosi così: <>. Si tratta, invero, di un problema che non risulta, stando almeno alla lettura della sentenza, che sia stato sottoposto da alcuno all’esame della Corte di cassazione (32). Per la risoluzione di questo problema, che pare dunque sia stato affrontato d’ufficio, la Corte ha ritenuto di dover formulare quel principio di diritto, o norma giuridica, che, ripetendo una delle formule poc’anzi proposte, suona così: la legittimazione passiva spetta indifferentemente (contenuto), nel giudizio tributario CONTENZIOSO NAZIONALE 257 attivato dal contribuente (destinatario) contro una cartella di pagamento (oggetto), all’agente della riscossione o all’ente creditore (destinatari). Il ragionamento delle Sezioni unite della Corte di cassazione desta più d’una perplessità, sicché la soluzione fornita non appare così certa come si potrebbe essere indotti a credere per l’autorevolezza della sua fonte. In primo luogo, si deve mettere in rilievo che, da un lato, sulla questione che era stata sottoposta all’esame delle Sezioni unite - l’(in)validità dell’atto consequenziale derivata dall’invalidità dell’atto presupposto - le Sezioni unite si sono date scrupolosamente cura di segnalare i diversi e contrastanti orientamenti che avevano caratterizzato la giurisprudenza delle Sezioni semplici e che necessitavano, perciò, di essere composti; dall’altro lato, però, nell’assumere l’iniziativa d’ufficio di esaminare la questione ulteriore della legittimazione passiva nel giudizio contro una cartella di pagamento, le Sezioni unite non hanno tenuto in alcun conto la precedente giurisprudenza delle Sezioni semplici, che si era, sì, lentamente modificata, ma che si era ormai stabilizzata nel senso che abbiamo messo già in rilievo. In secondo luogo, alcuni degli argomenti impiegati dalle Sezioni unite per giungere all’enunciazione della terza norma giuridica relativa alla legittimazione passiva, quella per la quale la posizione del titolare del credito tributario e quella dell’agente della riscossione sarebbero equivalenti, sono espressi in maniera tale da far trasparire una qualche perplessità della Corte stessa. Seguiamo passo passo il discorso sviluppato al riguardo dalle Sezioni unite. Premesso che all’agente della riscossione è imputabile la cartella di pagamento e che a lui è <>, le Sezioni unite si sono chieste <>. L’atteggiamento prudente della Corte, che potrebbe dirsi anche dubitativo, si manifesta da subito, perché essa usa, per la ricerca della soluzione, la tecnica espositiva del “sì, però”. Infatti, da un lato, - è l’argomento del “sì” - in base all’art. 19.3 DLgs 31 dicembre 1992, n. 546, <>. Poiché, se i resistenti avessero eccepito la loro mancanza di legittimazione passiva, la Corte avrebbe sicuramente menzionato il fondamento della sua investitura, si può non infondatamente ritenere che le Sezioni unite abbiano sollevato d’ufficio la relativa questione dinanzi a se stesse. 258 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 scelta in concreto effettuata dal contribuente nell'impugnare l'avviso di mora: ossia dal fatto se egli abbia dedotto l'omessa notifica dell'atto presupposto, o abbia contestato, in via mediata, la stessa pretesa tributaria azionata nei suoi confronti. In questo secondo caso, infatti, non potrebbe esservi dubbio che spetti all'amministrazione, e non al concessionario, la legittimazione passiva, essendo la stessa titolare del diritto di credito oggetto di contestazione nel giudizio, mentre il secondo è, come è stato rilevato da questa Corte, un (mero) destinatario del pagamento>>. Fermiamoci un momento per rilevare che il discorso è impostato tutto al condizionale e che quindi esso vale solo in prima approssimazione; tuttavia si formula in termini di certezza la qualificazione civilistica dell’agente della riscossione, da cui conseguirebbe la regola della distinzione e della separatezza della legittimazione passiva del creditore del tributo rispetto all’agente della riscossione. A conferma si richiama quell’interpretazione, ricorrentemente adottata dalla Corte, secondo cui l’agente della riscossione sarebbe <> ai sensi dell’art. 1188 cc. Dopo il discorso del “sì”, viene quello del “però”. Infatti, dicono le Sezioni unite: <>. Dunque, secondo le Sezioni unite, la norma ricavabile sistematicamente dall’art. 1188 cc e dall’art. 19 DLgs 31 dicembre 1992, n. 546, avrebbe questa struttura: l’oggetto sarebbe la lite (qualsiasi lite, indipendentemente dal fatto che riguardi la validità di un atto del creditore della pretesa o un atto del concessionario), che sia promossa per contestare il credito direttamente contro il creditore della pretesa; il destinatario sarebbe il concessionario della riscossione; il contenuto sarebbe la soggezione del concessionario, nella sua qualità di adiectus solutionis causa, alla decisione del giudice. Siffatta norma andrebbe sistematicamente integrata con le citate due disposizioni normative, che si sono succedute nel tempo, ma che si avvalgono della stessa formula letteraria (l’art. 40 DPR 28 gennaio 1988, n. 43, e l’art. 39 DLgs 3 aprile 1999, n. 112) (33), in cui sarebbe espressa un’altra norma avente questa struttura: il suo oggetto sarebbe la lite (qualsiasi lite, indipen- CONTENZIOSO NAZIONALE 259 dentemente dal fatto che riguardi la validità di un atto del creditore della pretesa o un atto del concessionario), che sia promossa contro il concessionario per la contestazione della pretesa tributaria; il suo destinatario sarebbe il concessionario e nessun altro; il suo contenuto sarebbe l’onere del concessionario di chiamare in causa il soggetto creditore. Si noti che le due norme hanno il medesimo destinatario (agente della riscossione/concessionario) e il medesimo contenuto (onere del concessionario/ agente della riscossione di chiamare in causa l’ente creditore). Inoltre, esse hanno oggetto soltanto parzialmente differente: la prima assume ad oggetto la lite promossa contro l’ente creditore; la seconda, la lite promossa contro l’agente della riscossione/concessionario. La parte d’oggetto comune consiste, invece, nel fatto che la lite riguardi indifferentemente la validità di un atto del creditore della pretesa o di un atto del concessionario, fermo restando che è comunque diretta a contestare la pretesa tributaria. Il testo della sentenza n. 16412 del 2007 prosegue, poi, con la seguente affermazione, che si presta ad una terza e ultima osservazione: <>. L’incipit del capoverso, purtroppo, crea un problema d’interpretazione; sembra inesatto, infatti, che “in ogni caso”, l’errore del contribuente, a parte il caso in cui esso sia causato dall’errata clausola d’impugnazione apposta all’atto impugnato, non determini l’inammissibilità della domanda, perché sul concessionario graverebbe l’onere della chiamata in causa del creditore della pretesa. L’inesattezza discende dalle stesse premesse formulate dalle Sezioni Unite che si sono appena esaminate: soltanto qualora la causa sia diretta a contestare la pretesa tributaria è indifferente il soggetto al quale il ricorso sia notificato, l’ente creditore o l’agente della riscossione. Infatti, per effetto della prima delle due norme individuate dalle Sezioni unite, se parte processuale sia soltanto l’ente creditore, l’esito del giudizio ha effetto anche nei confronti (33) La formula delle due disposizioni normative è la seguente: a) art. 40 DPR 28 gennaio 1988, n. 43: <>; b) art. 39 DLgs 3 aprile 1999, n. 112: <>. Si sono scritte in corsivo le parole modificate dal secondo atto normativo. Le formule sono, dunque, sostanzialmente identiche. 260 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 dell’agente della riscossione, data la sua qualità di adiectus solutionis causa. Se, invece, parte processuale sia soltanto l’agente della riscossione, è suo onere, se non vuole rispondere delle conseguenze della lite, chiamare in causa l’ente creditore, che è il soggetto legittimato passivamente in quanto è il titolare del credito contestato. L’irrilevanza per l’(in)ammissibilità del ricorso del contribuente non potrebbe, per altro verso, predicarsi correttamente per la diversa ipotesi dell’azione giudiziaria intentata per contestare l’invalidità di un atto dell’agente della riscossione per vizi suoi propri. Se veramente le Sezioni unite, con l’espressione “in ogni caso” usata nella sentenza, avessero voluto stabilire che è indifferente intentare la causa, in questa ipotesi, nei confronti dell’ente creditore o dell’agente della riscossione, la Corte non avrebbe affatto giustificato la sua decisione, perché dalle disposizioni normative precedentemente esaminate essa stessa ha ricavato soltanto norme che riguardano un’altra fattispecie, quella cioè in cui è contestata la pretesa tributaria. Se allora le non brevi affabulazioni contenute nella sentenza n. 16412 del 2007 (34), lasciano qualche margine di dubbio per la loro complessità, dal brano conclusivo, che precede l’enunciazione del principio di diritto, può trarsi la convinzione che le Sezioni unite non siano cadute nell’errore qui paventato, consistente nell’abbracciare la tesi che potrebbe definirsi come volta alla massima espansione della legittimazione passiva dell’ente creditore a scapito di quella dell’agente della riscossione. Si legge, infatti, nella sentenza: <> (DE MITA, ENRICO Litisconsorzio per impugnare gli avvisi Irap, in SVO 10 marzo 2013,15), il quale anche in altra occasione raccomanda che la sentenza non sia <> (ID. L’ultima parola su prescrizione e chiusura liti, in SVO 24 marzo 2013, 16). CONTENZIOSO NAZIONALE 261 della pretesa tributaria, potendone determinare la eventuale decadenza: tanto più quando sia impugnato un avviso di mora facendo valere l'omessa notificazione di una cartella emessa ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 36 bis o 36 ter, la quale ha valore di vero e proprio atto di esercizio del potere impositivo, essendo il primo atto notificato al contribuente in relazione alla pretesa erariale. / Sicché la legittimazione passiva resta in capo all'ente titolare del diritto di credito e non al concessionario il quale, se fatto destinatario dell'impugnazione, dovrà chiamare in giudizio il predetto ente, se non vuole rispondere dell'esito della lite, non trattandosi nella specie di vizi che riguardano esclusivamente la regolarità o la validità degli atti esecutivi: l'enunciato principio di responsabilità esclude, come già detto, che il Giudice debba ordinare ex officio l'integrazione del contraddittorio, in quanto non sussiste tra ente creditore e concessionario una fattispecie di litisconsorzio necessario, anche in ragione dell'estraneità del contribuente al rapporto (di responsabilità) tra l'esattore e l'ente impositore>>. In questo passo della sentenza si esprime l’opinione - fondata o infondata che sia è irrilevante in questo momento - che la sequenza procedimentale prevista dalla legge tributaria sia volta alla tutela del contribuente, sicché la sua violazione, consistente nell’omessa notifica di uno degli atti presupposti, anche quando questi siano stati emessi dall’agente della riscossione come, per esempio, la cartella di pagamento, determinerebbe l’illegittimità dell’intero processo di formazione della pretesa tributaria, con la conseguenza che l’azione giudiziaria volta a rilevare quella violazione consisterebbe sempre in una contestazione della pretesa tributaria. Ne deriva che la fattispecie, secondo la Suprema Corte, non rientra in quella dell’impugnazione, per vizi propri, degli atti del concessionario/agente della riscossione. Se allora, in conclusione, qualche critica è permesso di formulare alla sentenza delle Sezioni unite, essa consiste, non tanto nell’aver errato a risolvere il caso sottoposto al suo giudizio, una volta che si assuma come corretta - ma lo verificheremo - la premessa del ragionamento della Corte circa l’individuazione delle fattispecie di vizi propri degli atti del concessionario, quanto nel non aver esplicitamente valutato la giurisprudenza anteriore in tema di legittimazione passiva, nell’aver adottato formulazioni linguistiche lunghe e complesse nonché uno stile dubitativo, ma, soprattutto, nel non aver ancor più chiaramente espresso nel principio di diritto enunciato che ogni omessa notifica dell’atto presupposto - anche se esso sia emanato dall’agente della riscossione - comporterebbe che l’azione del contribuente volta a invalidare per via derivata l’atto consequenziale sia sempre in realtà diretta a contestare la pretesa tributaria. Si ha motivo di ritenere, come si sta per constatare nel prossimo paragrafo, che questo difetto di chiarezza del principio di diritto enunciato sia alla base del successivo sbandamento della giurisprudenza delle Sezioni semplici. 262 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 3.3. La giurisprudenza successiva al 2007. Le Sezioni unite hanno mancato l’obiettivo di creare certezza intorno alla questione della legittimazione passiva nelle cause contro la cartella di pagamento, come si dimostra con la seguente rassegna della più significativa giurisprudenza di legittimità sulla questione posteriore al luglio 2007. Un primo gruppo di sentenze successivo adotta chiaramente l’interpretazione della sentenza delle Sezioni unite che si è illustrata nel paragrafo precedente. Vi rientrano le pronunce nelle quali si affrontano due questioni: quella dell’invalidità di un atto del concessionario, impugnato con ricorso notificato solo all’ufficio creditore del tributo e non al concessionario, che sia derivata dalla perdita del diritto al pagamento per prescrizione, e quella della necessità di integrare il contraddittorio con la presenza del concessionario. Risolta la prima questione a favore del contribuente per l’accertata prescrizione, la seconda questione è risolta negativamente con il richiamo al principio enunciato dalla sentenza delle Sezioni unite 25 luglio 2007, n. 16412, che viene riprodotto testualmente, ma parzialmente: <> (35). Siffatta soluzione è stata fornita in un caso di specie ultima, oggetto della controversia sottoposta all’esame della Corte, in cui il ricorso introduttivo era stato notificato solo all’Ufficio, dal momento che il contribuente faceva questione solo della debenza del tributo e non aveva motivo di lamentarsi di vizi dell’atto del concessionario. Semplice e lineare è poi la sentenza della Corte di cassazione 15 aprile 2011, n. 8613, che, in relazione all’impugnazione di una cartella di pagamento con contestazione della pretesa tributaria, ha affermato che <>. Parimenti si è risolto il problema della legittimazione passiva in una controversia insorta a seguito dell’impugnazione, notificata solo all’agente della riscossione, di una cartella di pagamento con contestazione della debenza del tributo; infatti, si è fatta buona applicazione della sentenza delle Sezioni unite n. 16412 del 2007, riconoscendosi che l’azione del contribuente <> (36). Ancora, nella sentenza della Corte di cassazione 9 febbraio 2010, n. 2803, s’è discusso di una fattispecie nella quale un contribuente aveva impugnato un avviso di mora lamentando la mancata notificazione della cartella di pagamento e aveva notificato il ricorso esclusivamente al concessionario; poi, nel corso del giudizio di primo grado, ha notificato il ricorso anche all’ufficio tributario; in via pregiudiziale s’è discusso della tardività del ricorso in relazione al momento della sua notificazione all’ufficio; la risposta della Corte è stata che l’uno (il concessionario) vale l’altro (l’ufficio) secondo il principio di indifferenza o di equivalenza delle legittimazioni passive dell’ufficio tributario e del concessionario coniato dalle Sezioni unite nella sentenza 25 luglio 2007, n. 16412. Merita poi di essere citata quella pronuncia che, richiamandosi espressamente alla sentenza delle Sezioni unite 25 luglio 2007, n. 16412, premesso come nel caso concreto <>, afferma che <<[i]n tema di contenzioso tributario, ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 10, in caso di impugnazione di cartella esattoriale, la legittimazione passiva del concessionario del servizio di riscossione dei tributi sussiste se l'impugnazione concerne vizi propri della cartella o del procedimento esecutivo, mentre va esclusa qualora i motivi di ricorso attengano alla debenza del tributo>>, concludendone che la legittimazione passiva spettasse all’ente creditore soltanto, dopo aver osservato <> (37). Da rimarcare anche la sentenza in cui si sostiene che <> (38). Anche nell’ambito delle controversie di diritto fallimentare, in cui si discuta dell’ammissione al passivo di crediti tributari, la Corte di cassazione, con la sentenza del 2 aprile 2012, n. 5254, ha richiamato quella delle Sezioni unite. Essendosi posto il problema del rigetto della domanda di chiamata in causa dell’ente creditore effettuata, ex art. 39 DLgs n. 112 del 1999, dall’agente della riscossione che agiva in opposizione allo stato passivo, la Corte ha ritenuto che soltanto l’agente della riscossione fosse legittimato, perché a quest’ultimo è affidato dalla legge il compito di far valere il credito nella procedura concorsuale, ai sensi dell’art. 33 DLgs n. 112 del 1999, per il quale <>, sicché nel processo in cui si dibatta della tardività dell’insinuazione al passivo fallimentare non si pone né si potrebbe porre per l’eventuale difetto di giurisdizione del giudice ordinario in favore di quello tributario, alcuna questione relativa all’accertamento del credito tributario, rispetto alla quale soltanto è legittimato l’ente creditore (39). (38) Corte di cassazione 16 gennaio 2009, n. 933. V. anche Corte di cassazione 4 novembre 2009, n. 23382. (39) Si legge nella sentenza citata nel testo: <> (40). In un caso del genere, l’intimazione e la notificazione sono state orientate nei confronti del solo concessionario e richiamare, com’è stato fatto, la sentenza delle Sezioni unite 25 luglio 2007, n. 16412, può voler tacitamente dire che nessun problema di legittimazione si sarebbe posto neanche se il ricorso fosse stato rivolto solo all’ufficio titolare del credito tributario; in tal modo, tuttavia, non ci si avvede che l’argomento per cui sul concessionario grava l’onere della chiamata in causa non è pertinente, dato che l’unico soggetto intimato sarebbe l’ente creditore. Si rischia così di cadere nell’equivoco, così grave da sfociare in errore, di pensare che non si ponga alcuna questione d’inammissibilità del ricorso proposto avverso l’ente creditore, quando l’unico vizio fatto valere sia quello proprio della cartella di pagamento emessa dall’agente della riscossione. Non può, infatti, desumersi dalla sentenza delle Sezioni unite un’affermazione siffatta. Piuttosto equivoca, poi, è la sentenza 16 marzo 2011, n. 6104, la quale si al passivo e della sussistenza dei privilegi richiesti e, qualora, il credito sia contestato dinanzi al giudice tributario, deve procedere all'ammissione con riserva, da sciogliersi quando è inutilmente decorso il termine prescritto per la proposizione della controversia davanti al giudice competente, ovvero quando il giudizio è stato definito con decisione irrevocabile o risulta altrimenti estinto. Il fatto che non spetti al soggetto titolare del credito di farlo accertare nel procedimento di verifica non comporta, dunque, ricadute sul piano sostanziale e, a maggior ragione, non può comportarne sul piano processuale. La ricorrenza o meno di una causa di inimputabilità del ritardo nella presentazione dell'istanza di insinuazione è, d'altro canto, questione estranea all'accertamento del credito. Le eventuali ragioni giustificatrici del ritardo, pertanto, quand'anche dipendenti dal fatto dell'amministrazione, ben possono essere fatte valere dall'Agente della riscossione, non essendovi alcun ostacolo a che esso assuma - o la creditrice gli trasmetta - unitamente all'estratto del ruolo, informazioni in ordine ai tempi che sono occorsi per la relativa iscrizione, qualora non risultino sufficienti gli elementi emergenti dal titolo (data della sua formazione e della sua trasmissione in via telematica all'addetto alla riscossione, da porre in correlazione con l'annualità alla quale si riferisce il tributo)>>. (40) Corte di cassazione 28 novembre 2012, n. 21220. 266 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 è occupata di una controversia nata per l’impugnazione di avvisi di mora assunti come invalidi per la mancata notificazione delle prodromiche cartelle di pagamento. L’impostazione è la medesima che s’era presentata nella sentenza delle Sezioni unite 25 luglio 2007, n. 16412, e identica è la conduzione della motivazione; infatti, una volta riconosciuta l’invalidità dell’atto consequenziale (l’avviso di mora) derivata dall’invalidità dell’atto presupposto (cartella di pagamento), la Corte argomenta richiamando espressamente il testo della sentenza delle Sezioni unite, secondo cui <>. Tuttavia, poco prima, la Corte aveva affermato quanto segue: <<"la mancata previa notifica della cartella esattoriale di pagamento - o, a maggior ragione, dell'avviso di accertamento - comporta la nullità dell'avviso di mora: nullità che, in quanto vizio proprio di tale atto, è deducibile nei confronti del concessionario che lo ha emesso. L'amministrazione finanziaria, infatti, deve rispettare le cadenze imposte dalla legge, in base alle quali la notificazione della cartella esattoriale costituisce un adempimento indefettibile, la cui mancanza comporta la nullità dell'avviso di mora indipendentemente dalla completezza o meno delle indicazioni in esso contenute" (Cass. n. 2798 del 2006; Cass. n. 11227 del 2002)>>. Come si vede, per un verso, si abbraccia la tesi delle Sezioni unite, per le quali il vizio della mancata notificazione della cartella di pagamento, pur essendo un’omissione dell’agente della riscossione, costituisce sempre una contestazione della pretesa tributaria, quando è fatto valere nel processo, con conseguente legittimazione dell’ente creditore, ma impiega anche un’argomentazione tratta da sentenze anteriori all’anno 2007, per le quali l’omessa notifica della cartella di pagamento comporta un vizio proprio dell’avviso di mora, con conseguente legittimazione passiva dell’agente della riscossione. Insomma, la sentenza che si commenta adotta la soluzione preferita dalle Sezioni unite, ma impiega argomentazioni che potrebbero mostrare una certa dose d’incoerenza. Una considerazione autonoma merita, poi, la sentenza della Corte di cassazione 30 ottobre 2007, n. 22939, sia per la sua intrinseca struttura sia per l’erroneo e pericoloso seguito che le è stato dato. La fattispecie controversa era molto semplice: una cartella di pagamento di un tributo era stata impugnata CONTENZIOSO NAZIONALE 267 solo per la sua ipotizzata tardività e, anche se non lo si dice espressamente nella sentenza, con ricorso intimato e notificato solo all’ufficio creditore. Nel giudizio di legittimità l’ufficio tributario ha riproposto la questione della sua carenza di legittimazione passiva, che sarebbe spettata, invece, esclusivamente al concessionario. La Corte, oltre a far valere cause d’inammissibilità del ricorso per cassazione dell’Ufficio che qui non interessano, ad abundantiam ha dichiarato infondata la censura relativa alla sua legittimazione passiva, adducendo: a) come ragione principale, la natura giuridica di mero adiectus solutionis causa del concessionario; b) la constatazione che in sette precedenti sentenze la Corte ha esaminato la questione della tempestività della cartella di pagamento senza formulare alcun rilievo rispetto alla corretta instaurazione del contraddittorio; c) il precedente della sentenza delle Sezioni unite 25 luglio 2007, n. 16412, nella quale sarebbe enunciato il principio, secondo cui <>. Quanto alla prima delle tre ragioni addotte dalla Corte a sostegno della sua tesi, essa sarebbe fondata, soltanto se il contribuente avesse in concreto contestato la pretesa tributaria, questione su cui si tornerà. Quanto alle altre due tesi, nessuna merita di essere condivisa. In primo luogo, il fatto che alcune sentenze (41) abbiano esaminato la questione della tempestività della cartella di pagamento nel giudizio tra l'ente impositore e il contribuente, senza formulare alcun rilievo riguardo alla corretta instaurazione del contraddittorio, non ha di per sé una forza particolare di convinzione; infatti, anche se la Corte non si sia, in quelle sette occasioni, posta il problema della legittimazione passiva, ciò vorrebbe dire soltanto che la Corte non si è accorta di una questione che, attenendo ad un presupposto processuale, ove non passato in giudicato (interno), avrebbe dovuto porsi d’ufficio: la circostanza potrebbe, al più, essere considerata un difetto di quelle pronunce, che, comunque, costituiscono un’estrema minoranza rispetto a tutte quelle altre sentenze, di cui abbiamo qui dato conto, che hanno esaminato e risolto il problema della legittimazione passiva. Quanto, in secondo luogo, all’applicazione che si sarebbe inteso dare alla (41) Esse sono indicate nelle sentenze della Corte di cassazione: 30 novembre 2005, n. 26104; 9 settembre 2005, n. 21779; 8 luglio 2005, n. 14414; 23 maggio 2005, n. 10864; 10 maggio 2005, n. 9712; 19 luglio 2006, n. 16512; 21 luglio 2006, n. 16826. Le si sono verificate: nessuna di esse affronta il problema della legittimazione passiva, ma non si vede neanche perché avrebbero dovuto occuparsene, dal momento che le questioni sottoposte alla Corte erano altre e che per la loro soluzione non era pregiudiziale la soluzione di problemi di contraddittorio. 268 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 sentenza delle Sezioni unite 25 luglio 2007, n. 16412, non risulta che nella decisione delle Sezioni unite sia contenuta la formulazione che le attribuisce la sentenza 30 ottobre 2007, n. 22939. Per dimostrare l’assunto siamo costretti ad un defaticante lavoro filologico. Secondo la sentenza 30 ottobre 2007, n. 22939, le Sezioni unite avrebbero affermato, nella sentenza 25 luglio 2007, n. 16412, che <>. Non è così: questa proposizione non figura affatto nella sentenza delle Sezioni unite. Le Sezioni unite hanno detto molte cose - non sempre limpidissime, s’è veduto, e rinviamo per questo alle pagine precedenti - ma per limitarci ad una sola, tra le più significative, basti ricordare questa affermazione conclusiva: <>. Questo principio è tuttavia limitato dalle Sezioni unite stesse, quanto al suo ambito d’applicazione, dalla condizione che l’azione sia promossa dal contribuente per contestare la pretesa tributaria: <>. Ne discende, quindi, che è scorretta l’attribuzione alle Sezioni Unite del diverso, perché più generale, principio fatto valere dalla sentenza n. 22929 del 2007, secondo il quale “nelle liti”, cioè in ogni lite, “riguardanti l'impugnazione della cartella esattoriale la legittimazione passiva spetta all'ente titolare del credito tributario e non già al concessionario ...”. La generalizzazione del principio ad ogni impugnazione di cartella esattoriale, operata dalla Sezione semplice, appare, dunque come un’estensione non consentita di ciò che è stato deciso dalle Sezioni unite. Infine, la sentenza 30 ottobre 2007, n. 22939, ritiene di poter trarre anche la seguente conclusione: <>. Il fondamento di tale tesi risiederebbe nella <>. Il collegamento tra la tesi e l’argomentazione dimostrativa, già utilizzato dalla sentenza n.16412 del 2007 e poi impiegato anche da altre pronunce (42), risiede nell’assunto che la notificazione della cartella esattoriale entro un dato termine di decadenza sia condizione di legittimità (formale) della pretesa tributaria, cosicché la contestazione del vizio di notificazione (omissione o tardività) costituisce contestazione della pretesa tributaria stessa, con conseguente legittimazione passiva dell’ente creditore. La sentenza della Corte 30 ottobre 2007, n. 22939, pur errando nell’enunciazione del principio di diritto, in quanto lo ha eccessivamente generalizzato, ha inteso fare applicazione del principio enunciato dalle Sezioni unite nella sentenza 25 luglio 2007, n. 16412, in tema di legittimazione passiva (43), cosicché è lecito pensare che di quella sentenza abbia accolto anche la posizione secondo la quale, in base all’art. 25 DPR 29 settembre 1973, n. 602, espressamente richiamato, <>. Ne dovrebbe derivare che la sentenza 30 ottobre 2007, n. 22939, andrebbe interpretata nel senso che essa non ha voluto affermare che la cartella non sia un atto del concessionario e che la tardività della notificazione non sia un vizio della cartella, ma solo che tale vizio - della notificazione e quindi della cartella e quindi di un atto del concessionario - non era comunque tale, per tutte le pur discutibili ragioni che erano state addotte, da riconoscere al concessionario la legittimazione passiva esclusiva nel giudizio d’impugnazione contro la cartella di pagamento. Un orientamento giurisprudenziale opposto è stato seguito dalle Sezioni semplici, in contrasto con la sentenza delle Sezioni unite 25 luglio 2007, n. 16412. Si tratta della posizione secondo la quale, <> (44). Questa pronuncia è particolarmente interessante, perché il principio appena esposto è stato applicato a fattispecie identica a quella decisa dalle Sezioni unite. Infatti, in narrativa si legge che il contribuente <>. Si può constatare, dunque, che la Sezione semplice non concorda con le Sezioni unite sul fatto che l’omessa notifica della cartella di pagamento comporti la contestazione della pretesa tributaria, tanto è vero che quel vizio procedimentale viene qualificato come proprio di un atto del concessionario. In questo filone è particolarmente significativa quella sentenza che ha affrontato un caso in cui il contribuente ha contestato giudizialmente <> al <> (45). La sua significatività deriva dal fatto che il caso è stato deciso nel senso che sull’erroneità della notifica di un atto del concessionario, qual è l’avviso di mora, non è legittimato passivo l’ente creditore, così discostandosi dalle Sezioni unite del 2007, con la seguente motivazione: <>. Ancora diversamente in quell’altra sentenza, la quale afferma che <>, riguardante l’impugnazione di cartella esattoriale in quanto non preceduta dall'invito al pagamento di cui al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 25, <<[L]a funzione dell'invito al pagamento previsto da tale norma consiste proprio nel dare al contribuente la possibilità di attenuare le conseguenze sanzionatorie della realizzata omissione di versamento del tributo, fermo ed incondizionato restando l'obbligo di corresponsione integrale di tale tributo e degli interessi sul medesimo medio tempore maturati. Pertanto, la mancata emissione e notificazione dell'invito non possono incidere sul potere erariale d'iscrizione a ruolo del tributo e degli interessi; ma, nel contempo, non deve essere pregiudicato - in caso d'iscrizione a ruolo delle sanzioni in misura maggiore di quella prevista per il caso di notificazione dell'invito, o di ottemperanza a questo - il diritto del contribuente di contestare la legittimità del così esplicato esercizio della potestà sanzionatoria ... Pertanto, così specificata la pretesa del contribuente, non vi è dubbio che essa debba essere accertata (come avvenuto in primo grado), sia nei confronti del concessionario, in quanto viene impugnato un atto che si assume viziato da omissione a questo direttamente imputabile, sia dell'ente impositore, dato che l'impugnazione tende alla rideterminazione della parte sanzionatoria della pretesa erariale>> (46). 3.4. Conclusioni sullo stato attuale della giurisprudenza di legittimità. Il lungo cammino percorso attraverso la giurisprudenza dal 1992 ad oggi consente di avere, da un lato, una panoramica dei temi legati alla legittimazione passiva nei giudizi contro una cartella di pagamento e delle soluzioni che si sono succedute. Quanto alla soluzione dei problemi, si deve constatare che, se il diritto vivente elaborato lentamente dalle Sezioni semplici della Corte di cassazione aveva condotto ad uno stato della normazione pienamente soddisfacente, che abbiamo qui sintetizzato nella formulazione delle tre norme giuridiche collocate al termine del § 3.1., l’intervento delle Sezioni unite, ope- (46) Corte di cassazione 21 gennaio 2009, n. 1462. 272 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 rato con la sentenza 25 luglio 2007, n. 14612, pur muovendosi sostanzialmente nella stessa linea già tracciata dal consolidato orientamento giurisprudenziale, ha, di fatto, disorientato la giurisprudenza successiva. Allo stato attuale, fermo restando che l’agente della riscossione è considerato un adiectus solutionis causa ex art. 1188 cc, a fianco di pronunce che ne traggono implicitamente la conferma dell’interpretazione della tesi dell’indifferenza, come legittimati passivi, tra creditore del tributo e agente della riscossione, se ne rinvengono altre che tengono ben distinte e separate le posizioni dei due soggetti; accanto a sentenze che ritengono che il vizio di notificazione della cartella di pagamento non sia un vizio proprio della cartella, figurano altre che, invece, vi riconoscono un’autonoma causa d’invalidità dell’atto dell’agente della riscossione. Le esigenze di celere smaltimento dei ricorsi per cassazione sembra, poi, aver indotto la Sezione civile VI ad adottare, per ragioni evidenti di semplificazione, la soluzione di maggior omologazione delle situazioni, come si è ricordato nel paragrafo introduttivo. Poiché si ha il timore che la situazione così creatasi sia, non solo difforme dalla legge, ma anche, e soprattutto, non rispettosa degli interessi dei soggetti del rapporto di riscossione tributaria così com’essi sono regolati dal legislatore, riteniamo necessario operare una rilettura sistematica della normazione sulla riscossione tributaria. 4. Premesse generali per l’inquadramento normativo della riscossione tributaria. Per l’inquadramento normativo della riscossione tributaria sono necessarie due premesse di carattere generale: una sostanziale e una processuale. Sotto il primo profilo proponiamo preliminarmente la stipulazione di una convenzione linguistica quale risulta dalla struttura dei fenomeni da denominare. La norma d’imposta richiede, per la sua attuazione, non solo che si verifichi un fatto tributariamente rilevante - quello che dà origine all’obbligazione tributaria -, ma anche che siano poi adottati in tempi diversi molteplici comportamenti - dichiarazioni e/o operazioni - sia da parte dell’ufficio tributario sia da parte del contribuente sia da parte di terzi, che modifichino la realtà materiale con il conseguimento dell’obiettivo finale del pagamento del tributo. La categoria giuridica di teoria generale nella quale rientra questa unitas multiplex è il procedimento. La nostra specie di procedimento, quella che comprende tutti i fatti e tutti gli atti - dichiarazioni ed operazioni - che vanno dal fatto generatore dell’obbligazione tributaria al pagamento del tributo, può essere chiamata “procedimento amministrativo tributario totale”, perché al suo interno sono inseriti tanti procedimenti parziali quanti sono gli atti che lo compongono; alcuni di questi, poi, sono molto rilevanti, tanto da dar luogo a dei subprocedimenti, cioè a procedimenti che si concludono con un atto autonomamente impugna- CONTENZIOSO NAZIONALE 273 bile. Le due specie di procedimenti interni al procedimento amministrativo tributario totale possono, dunque, per contrapposizione, esser chiamati “procedimenti amministrativi tributari parziali”. Con una qualche approssimazione si può ben dire che il procedimento amministrativo tributario totale è, in un numero molto consistente e molto rilevante dei casi, divisa in due parti: la prima consiste in un procedimento parziale, che si conclude con l’adozione di un provvedimento amministrativo d’imposizione tributaria, il quale modifica la realtà giuridica fissando la struttura di un rapporto giuridico tributario con uno specifico contribuente: l’avviso di accertamento o l’avviso di liquidazione o l’irrogazione di sanzione, il ruolo d’imposta e così via; la seconda parte è quella che, attraverso un altro procedimento amministrativo tributario parziale porta all’adozione di dichiarazioni e di operazioni che modificano la realtà materiale in maniera conforme all’effetto giuridico del provvedimento amministrativo tributario conclusivo della prima parte del procedimento totale. Lo schema procedimentale complessivo di attuazione della norma tributaria assomiglia, perciò, alla divisione del processo civile in una preliminare fase di cognizione e in una seconda fase di esecuzione. Ogni atto conclusivo di ciascun subprocedimento ha un suo procedimento di formazione articolato nelle fasi d’iniziativa (dichiarazione tributaria del contribuente o atto d’ufficio), istruttoria (ispezione tributaria, accesso, acquisizione di documenti, acquisizioni di conoscenze dal contribuente o da terzi, processi verbali di constatazione ed altro ancora), decisionale (avviso di accertamento, avviso di liquidazione, provvedimento sanzionatorio, cartella di pagamento, avviso di mora, iscrizione di ipoteca, fermo di bene mobile registrato) e d’integrazione (comunicazioni e notificazioni), così come articolata procedimentalmente è la formazione di ogni atto dichiarativo od operazionale che è collocato all’interno di uno dei procedimenti parziali, che, in quanto danno luogo ad atti endoprocedimentali privi di autonomia funzionale, non assurgono alla categoria di subprocedimento. Quel che interessa specificamente il nostro tema è la rilevazione che la normazione tributaria, di cui daremo subito conto, non solo distingue e separa, all’interno del procedimento amministrativo tributario totale, il subprocedimento provvedimentale dal subprocedimento della sua esecuzione - o, per maggiore precisione, dai subprocedimenti della sua esecuzione segnati dai singoli provvedimenti dell’agente di riscossione autonomamente impugnabili (cartella di pagamento, atti di garanzia) - ma affida normalmente la loro gestione a soggetti diversi. Il provvedimento amministrativo d’imposizione tributaria (avviso di accertamento, avviso di liquidazione, provvedimento sanzionatorio, ruolo d’imposta) costituisce l’atto amministrativo presupposto dell’atto principale dell’esecuzione, la cartella di pagamento, la quale si pone, poi, eventualmente come atto presupposto degli altri atti che si rendano necessari per l’esecuzione come - fino a quando non è stato soppresso - l’avviso 274 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 di mora, e, più di recente, gli atti di cauzione o di garanzia (iscrizione di ipoteca e fermo amministrativo dei beni mobili registrati). Sotto il profilo processuale, poi, è sufficiente, ai nostri fini, ricordare che la parte del processo tributario s’individua, secondo il principio generale processualcivilistico, mediante la titolarità dell’interesse relativo al rapporto giuridico controverso (artt. 75.1 e 81 cpc): nessuno può essere parte di un giudizio se non è titolare di una situazione giuridica soggettiva tutelata dall’ordinamento e, quindi, dell’interesse relativo. L’art. 100 cpc pone, poi, come condizione perché un soggetto possa agire o contraddire in giudizio, che esso abbia l’interesse o ad agire o a contraddire, il quale, in tanto esiste in quanto si fondi su un interesse a far valere un diritto (art. 99 cpc), ossia una situazione giuridica soggettiva relativa ad un rapporto giuridico sostanziale. Sulla determinazione del soggetto passivo di un processo influiscono, quindi, sia i dati di diritto sostanziale sia quelli di diritto processuale. L’individuazione della controparte processuale è semplice in un numero certamente grande di casi, perché le parti contrapposte del rapporto giuridico sostanziale sono due e ben individuabili. Tuttavia, quando il rapporto giuridico sostanziale venga modellato dalla legge attraverso una più complessa articolazione, nel senso che esso viene parcellizzato - solo soggettivamente, modellandosi il rapporto giuridico per situazioni giuridiche soggettive, o prima oggettivamente, per interessi connessi ma distinti, e quindi soggettivamente -, si può formare un effetto di moltiplicazione delle parti processuali, dandosi così luogo a varie situazioni di legittimazione passiva multipla, necessaria o facoltativa, o di legittimazione singola alternativa e alle connesse ipotesi di litisconsorzio necessario o facoltativo o alternativo o di mancanza di litisconsorzio o di litisconsorzio sostanziale o processuale. 5. La scissione tra attività d’imposizione tributaria per provvedimento e attività di esecuzione (riscossione del tributo). Premesso tutto questo in via generale e salvi gli ulteriori approfondimenti e le precisazioni che si rendano necessarie, ci si è domandati - e si continua a domandarsi tanto in sede di legittimità quanto in sede di merito - quale sia il regime della legittimazione passiva nel giudizio tributario avente ad oggetto la cartella di pagamento o uno degli altri atti che l’art. 19.1.d) - e-ter) DLgs 31 dicembre 1992, n. 546, annovera tra quelli impugnabili dinanzi al giudice tributario e che sono adottati dal titolare del potere di riscossione, ossia da quello che era fino a qualche anno fa il concessionario della riscossione ed è oggi l’agente della riscossione. Orbene, la normazione sulla cartella di pagamento è alimentata da numerose disposizioni normative, sia sostanziali sia processuali. Dal punto di vista sostanziale, la cartella di pagamento è un atto, il primo atto, subprocedimentalizzato della fase dell’esecuzione del provvedimento CONTENZIOSO NAZIONALE 275 amministrativo tributario d’imposizione: con la cartella di pagamento l’agente della riscossione dichiara di volere che il contribuente paghi una data somma (quantità del contenuto del tributo) ad un determinato titolo di imposta (qualità del contenuto del tributo), quale risulta dal ruolo formato e trasmessogli dall’ufficio titolare del credito tributario. L’esecuzione del provvedimento amministrativo tributario è quella che si chiama comunemente, per scelta del legislatore, riscossione del tributo, la quale non è solo concettualmente distinta dal punto di vista oggettivo, come s’è appena veduto, dal provvedimento amministrativo sul tributo, ma è anche scissa soggettivamente rispetto ad esso, nel senso che la riscossione è affidata dalla legge ad un soggetto diverso dall’ufficio che ha adottato il provvedimento amministrativo tributario posto a base della riscossione (47). Fino a qualche tempo fa la riscossione, o esazione, era sottoposta al regime della concessione, mentre oggi è affidata a quella società per azioni di proprietà pubblica che è l’Equitalia spa, frutto di una serie di operazioni di mutamento dell’originaria Riscossione spa, la cui costituzione fu affidata dall’art. 3.2 DL 30 settembre 2005, n. 203, conv. in L. 2 dicembre 2005, n. 248, all’Agenzia delle entrate, con partecipazione del 51%, e all’INPS, con partecipazione del 49%. Non esiste più, dunque, oggi il concessionario della riscossione, ma solo l’ente della riscossione. Tuttavia, per il problema che si sta esaminando e per il punto di vista dal quale s’intende esaminarlo - la natura giuridica della società di riscossione e la sua legittimazione processuale passiva -, le cose non cambiano: l’attività esecutiva del provvedimento amministrativo d’imposizione tributaria è oggettivamente e soggettivamente divisa dal provvedimento da eseguire; essa non è più affidata ad un concessionario, ma ad una società per azioni a intera partecipazione pubblica, operante in regime di attività amministrativa sostanziale e strumentale rispetto all’attività dell’ufficio pubblico titolare del rapporto tributario sostanziale. Di conseguenza, nelle disposizioni normative nelle quali si parla ancora di “concessionario della riscossione”, si deve intendere che ci si riferisca al soggetto incaricato per legge dell’esazione tributaria. Rimane, quindi, vivo sia il problema della natura giuridica della società di riscossione sia il problema della legittimazione passiva nel processo tributario intentato contro un atto dell’agente della riscossione. (47) Non mancano, peraltro, i casi in cui attività provvedimentale (accertamento) ed attività di esecuzione (riscossione) sono affidati allo stesso soggetto. Su di essi non ci si sofferma, ma ci si limita a rinviare, per i possibili effetti sulla legittimazione passiva a Corte di cassazione: 27 luglio 2007, n. 16637; 4 novembre 2009, n. 23382; 4 novembre 2009, n. 23382. 276 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 6. Le possibili soluzioni del problema della legittimazione passiva nel giudizio contro la cartella di pagamento. In astratto, le possibili soluzioni del problema della legittimazione passiva nel giudizio contro la cartella di pagamento sono quattro: 1) la legittimazione passiva spetta solo al soggetto attivo del tributo, ossia all’ufficio tributario autore del provvedimento amministrativo d’imposizione tributaria e creditore della prestazione patrimoniale imposta, cui la cartella di pagamento si limita a dare esecuzione amministrativa; 2) la legittimazione passiva spetta solo all’agente della riscossione; 3) la legittimazione passiva spetta alternativamente e facoltativamente, per il contribuente, al soggetto attivo del tributo o all’agente della riscossione; 4) la legittimazione passiva spetta congiuntamente e necessariamente al soggetto attivo del tributo e all’agente della riscossione. Per scegliere correttamente la soluzione, o le soluzioni, da adottare, occorre tener conto della natura giuridica del tributo, della natura del suo procedimento di formazione e del suo procedimento di esecuzione amministrativa, della natura della difesa processuale degli interessi dei tre soggetti coinvolti: contribuente, ufficio titolare del credito tributario e agente della riscossione. Poiché, come s’è già messo in rilievo, dal punto di vista sostanziale la cartella di pagamento è l’ordine, che è impartito dall’agente della riscossione al contribuente, di pagare una data somma per un determinato tributo, e che è da lui formulato per incarico diretto del legislatore e del creditore tributario, espresso nel ruolo d’imposta, il contribuente, notificatario di una cartella e intenzionato ad impugnarla, si trova di fronte a due autorità a competenza amministrativa ripartita, tra le quali deve scegliere la sua controparte processuale. Per adottare questa decisione, egli deve tener conto che, astrattamente, può far valere una delle seguenti specie di invalidità della cartella di pagamento: a) l’invalidità propria ed esclusiva della cartella; b) l’invalidità della cartella derivata da un suo atto presupposto adottato dal titolare della pretesa tributaria; c) l’invalidità della cartella sia propria sia derivata (in sostanza, si tratta della verificazione congiunta delle due ipotesi precedenti). Conseguentemente il contribuente dovrebbe impugnare: 1) solo la cartella di pagamento nell’ipotesi a); 2) la cartella di pagamento e l’atto presupposto nelle ipotesi b) e c), con adduzione, ovviamente di motivi diversi per ciascuna delle due evenienze: nell’ipotesi b) egli proporrà solo motivi relativi all’atto presupposto e causanti l’invalidità derivata della cartella, mentre nell’ipotesi c) proporrà sia motivi relativi all’atto presupposto sia motivi relativi all’atto consequenziale. Se, poi, come accade con una certa frequenza, con una medesima cartella di pagamento l’esattore chieda il pagamento di più imposte, di cui siano creditori uffici tributari diversi (per esempio, da un lato, un’imposta statale - l’Irpef, CONTENZIOSO NAZIONALE 277 l’Iva, l’Irap o l’imposta di registro od altre, spettanti all’Agenzia delle entrate - e, dall’altro, l’imposta di un ente locale - la Tarsu, l’imposta sulla pubblicità, l’ICI o l’IMU, od altre, spettanti ad un Comune, o la tassa automobilistica per la Regione, o la tassa di iscrizione per la Camera di commercio -, il contribuente, ferma l’opzione per l’agente della riscossione, che è sempre il medesimo, dovrebbe scegliere eventualmente anche l’ufficio tributario a seconda dell’imposta che intenda contestare e, quindi, limitare la sua scelta ad alcuni soltanto dei soggetti attivi del tributo o estenderla a tutti gli uffici coinvolti nelle pretese fatte valere con una sola cartella di pagamento (48). La necessità di tener distinte le possibili opzioni discende dalle norme processuali: da un lato, è lo stesso codice processuale tributario (art. 10 DLgs 31 dicembre 1992, n. 546) a prevedere la potenziale posizione di parte autonoma dell’agente della riscossione, il quale ha titolo per assumere tale posizione solo se sia intimato da un ricorso contro un suo atto, e poiché la cartella di pagamento ha sempre come unico possibile autore l’agente della riscossione, questo dovrebbe sempre essere legittimato passivamente; dall’altro lato, però, l’art. 39 DLgs 3 aprile 1999, n. 112, prevede che <>. Ne deriva che: • nell’ipotesi a): invalidità propria ed esclusiva della cartella, l’agente della riscossione è legittimato passivamente in quanto autore dell’atto impugnato e, essendo privo del potere di chiamata in causa dell’ufficio creditore del tributo, rimane l’unica controparte del contribuente, mentre è l’ufficio che, ove intimato dal contribuente, potrebbe invocare la sua mancanza di legittimazione passiva; • nell’ipotesi b): invalidità della cartella derivata da un suo atto presupposto adottato dal titolare della pretesa tributaria, l’adempimento, da parte dell’agente della riscossione, dell’onere di chiamare in causa il creditore del tributo, lo priva della legittimazione passiva e il giudice lo deve estromettere dal processo; • nell’ipotesi c): invalidità della cartella sia propria sia derivata, la legittimazione passiva dei sue soggetti autoritativi si ripartisce secondo i criteri applicati nelle due ipotesi precedenti. Da questa stessa impostazione normativa, sostanziale e processuale, si può già fondatamente dedurre che, nel processo tributario incoato contro una cartella di pagamento, l’ufficio tributario e l’agente della riscossione non sono litisconsorti necessari, perché, come s’è appena veduto, l’oggetto del processo (48) Corte di cassazione 16 maggio 2007, n. 11274, sia pure con riferimento ad una medesima cartella di pagamento con la quale si facevano valere sia crediti previdenziali dell’INPS sia crediti previdenziali dell’INAIL. 278 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 tributario attivato contro una cartella di pagamento non riguarda inscindibilmente l’ufficio tributario e l’esattore, le cui posizioni possono, infatti, essere tenute sempre e facilmente separate (49). Per avere conferma di questa ipotesi occorre esaminare la natura giuridica del rapporto di riscossione. Esaminiamo, dunque, nell’ordine le tre ipotesi poc’anzi elencate sub a), b) e c). 7. La legittimazione passiva del solo agente della riscossione. Se il contribuente, notificatario di una cartella di pagamento, non intenda contestare il titolo del credito, ma solo l’atto della sua esecuzione amministrativa - la cartella di pagamento -, che è opera esclusiva dell’agente della riscossione, solo a questo egli deve intimare e notificare il suo ricorso. Lo si deduce, intanto, dalle disposizioni normative contenute nell’art. 19.1.d) DLgs 31 dicembre 1992, n. 546, il quale stabilisce che la cartella di pagamento è un atto impugnabile dinanzi al giudice tributario. Lo si deduce, poi, come s’è veduto, dall’art. 10 dello stesso atto normativo, il quale prevede che, tra gli altri soggetti, è parte nel processo tributario <>. Ma lo si deduce soprattutto dalle molteplici disposizioni che disciplinano il rapporto giuridico sostanziale e processuale di riscossione dei tributi e alle quali, pertanto, dobbiamo dedicare una particolare attenzione. Le disposizioni normative che assumono ad oggetto il rapporto giuridico sostanziale di riscossione dei tributi non si limitano a scindere, soggettivamente e procedimentalmente, il potere amministrativo d’imposizione tributaria dal potere della sua esecuzione amministrativa. Esse ripartiscono anche, tra il soggetto creditore del tributo e l’agente della riscossione, l’interesse a entrare in possesso e a far proprio il danaro pagato dai contribuenti, in maniera tale da tener ben distinte e separate le posizioni dei due soggetti - formalmente pubblico l’uno e società per azioni formalmente privata la seconda - autori rispettivamente del provvedimento amministrativo d’imposizione tributaria e dell’atto necessario per la sua esecuzione amministrativa; la ripartizione e la separazione sono concepite in maniera tale che mai si verifichi l’ipotesi di liti- (49) A dire il vero, qualche problema può sorgere, al riguardo, quando la cartella sia adottata per la riscossione di somme liquidate a seguito di accertamento automatizzato formale ex art. 36-bis e 36- ter DPR 29 settembre 1973, n. 600, e art. 54 DPR 26 ottobre 1972, n. 633. In questi casi, infatti, la cartella di pagamento è il primo atto attraverso il quale il contribuente viene a conoscenza dell’esistenza di una pretesa tributaria nei suoi confronti e che costituisce, quindi, il primo provvedimento amministrativo d’imposizione tributaria. Nella cartella sembrano concentrarsi sia l’atto conclusivo del procedimento amministrativo parziale d’imposizione sia l’inizio della sua fase di esecuzione. Tuttavia, per le ragioni che si illustreranno qui di seguito, si ritiene che tali ipotesi siano da ricondurre ad uno dei tre casi indicati poc’anzi - nelle lettere da a) a c) - a seconda della struttura della cartella e, in particolare, del suo rapporto con l’atto amministrativo d’imposizione tributario in essa implicito. CONTENZIOSO NAZIONALE 279 sconsorzio necessario prevista dall’art. 14.1 DLgs 31 dicembre 1992, n. 546, secondo cui, <>. Ecco, la riscossione tributaria è organizzata in modo che l’oggetto del ricorso riguardi l’ufficio creditore del tributo e l’agente della riscossione sempre in maniera scindibile. Per avere piena contezza dell’asserto occorre esaminare la normazione che disciplina il rapporto di riscossione tributaria, la quale, pur nelle trasformazioni subite nel corso del tempo, ha mantenuto ferma l’impostazione per l’aspetto poc’anzi descritto. Per restare alle vicende normative meno remote, si ricorda che nel sistema disegnato dal DPR 28 gennaio 1988, n. 43 (50), il concessionario della riscossione aveva una posizione ben distinta e separata dal creditore tributario: il loro rapporto era imperniato sul principio del non riscosso per riscosso adottato dall’art. 32.3, il quale affermava che <>. Tra ufficio titolare del credito tributario e concessionario s’istituiva per legge un rapporto di obbligazione: il concessionario era “debitore” delle somme iscritte a ruolo e, aggiungiamo subito un’integrazione che ci sarà utile più avanti, debitore principale, non garante. Si badi “debitore principale delle somme iscritte a ruolo” non delle somme effettivamente percepite in quanto incaricato della riscossione, in quanto adiectus solutionis causa ex art. 1188 cc. La distinzione è fondamentale per escludere le conseguenze in tema di legittimazione passiva che la Corte di cassazione ha ritenuto di poter trarre dal richiamo alla disciplina civilistica delle obbligazioni. Il principio del non riscosso per riscosso era attenuato dalla previsione dell’art. 62.1 dello stesso atto normativo, secondo cui <>, e dalla previsione dell’art. 86.5, secondo il quale <>. In sostanza, il creditore tributario si occupava del ruolo d’imposta, della sua formazione e della sua trasmissione (50) Istituzione del servizio di riscossione dei tributi e di altre entrate dello Stato e di altri enti pubblici, ai sensi dell'art.1, comma 1, della L. 4 ottobre 1986, n. 657. Questo DPR è stato abrogato dall'art. 68.1 DLgs 13 aprile 1999, n. 112, salvo per quanto previsto dagli articoli 58 e 59 dello stesso DLgs. Inoltre, tale abrogazione non opera limitatamente al rinvio contenuto nell'art. 4.1, ultimo periodo, del DLgs 9 luglio 1997, n. 237. 280 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 al concessionario, che era posto nello status di soggetto passivo dell’obbligazione pecuniaria corrispondente all’ammontare del ruolo ed era, perciò, obbligato a versare le imposte ivi indicate, anche se non le avesse riscosse, salvo quelle che venissero dilazionate, sospese o cancellate dallo stesso creditore: la formazione del ruolo e la sua gestione successiva alla sua trasmissione al concessionario segnavano l’ammontare della somma che il concessionario si impegnava a versare al creditore del tributo a prescindere dalle vicende della riscossione, che era di esclusiva competenza, imputabilità e responsabilità del concessionario, il quale, perciò, si accollava anche le conseguenze monetarie dell’eventuale inidoneità dei suoi comportamenti a realizzare la riscossione. In questo sistema s’incastonavano in modo perfettamente coerente le disposizioni normative processuali che ripartivano la legittimazione passiva nei giudizi attivati contro la pretesa tributaria fatta valere con la cartella di pagamento: ognuno dei due soggetti interessati alla riscossione era portatore di un interesse diverso e, a seconda della domanda del contribuente, era destinato ad occupare la posizione di controparte. Se il contribuente contestava la pretesa tributaria in sé e aspirava alla modificazione del ruolo, la sua controparte non poteva essere che l’ufficio autore del ruolo, perché soltanto esso aveva interesse al mantenimento della sua formulazione originaria, che gli consentiva di conservare intatta la sua aspettativa di incassare dal concessionario la somma programmata; se, invece, il contribuente contestava la validità della cartella di pagamento per un vizio proprio di essa, la sua controparte non poteva essere che il concessionario e soltanto lui, perché solo il concessionario, che era vincolato dal principio del non riscosso per riscosso, aveva l’interesse a far coincidere l’ammontare del riscosso con quello del riscotibile, cioè con il dato del ruolo, in forza del fatto che il carico del ruolo era indipendente dalle vicende della riscossione. Il ruolo, invero, costituiva il presupposto della riscossione e ogni sua variazione in negativo, per autotutela o per disposizione del giudice, portava ad una riduzione della pretesa del creditore tributario nei confronti del concessionario; per contro, una volta fissato nel ruolo l’ammontare delle pretese tributarie, esso restava sottratto alle vicende negative degli atti della riscossione, le cui conseguenze ricadevano tutte nella sfera giuridica del concessionario. Il sistema forniva anche una norma di chiusura, contenuta nell’art. 40 DPR 28 gennaio 1988, n. 43: <>. Si tratta con tutta evidenza di una norma di deroga, giustificata dalla natura di tributo della somma da pagare, tesa a favorire il creditore del tributo rispetto al concessionario; essa assicurava che, in un ricorso teso a contestare un atto presupposto della cartella di pagamento e, quindi, la pretesa tributaria in sé, l’intimazione, che il contribuente avesse rivolto al solo concessionario (51), fosse da questo portata a conoscenza del- CONTENZIOSO NAZIONALE 281 l’unico soggetto - l’ufficio tributario - interessato a mantenere intatto il ruolo; per questo si caricava il concessionario dell’onere di chiamare in causa il creditore tributario, pena lo spostamento su di lui delle conseguenze negative della lite, che sarebbero consistite nell’irrilevanza dell’eventuale riconosciuta non debenza dell’imposta sull’ammontare del ruolo. La direzione della difesa scelta dal contribuente poteva essere influenzata ed orientata dalla clausola d’impugnazione che il concessionario era obbligato ad apporre alla cartella di pagamento e la norma di deroga garantiva, comunque, l’atto d’impugnazione del contribuente dalla sanzione dell’inammissibilità. Anche il regime adottato con la norma di chiusura porta ad escludere che il concessionario fosse un adiectus solutionis causa ex art. 1188 cc: nessun incaricato del pagamento può adottare un atto autoritativo che contenga l’ordine di pagare e che sia autonomamente impugnabile dinanzi ad un giudice speciale; nessun incaricato del pagamento di un’obbligazione è dotato di legittimazione passiva propria ed autonoma rispetto a quella del creditore; nessun incaricato del pagamento ha l’onere, a pena di rispondere in proprio del mancato pagamento, di chiamare in causa il creditore. La norma di chiusura introduce semmai una figura speciale di incaricato del pagamento di un’obbligazione, perché su di lui viene fatta gravare anche quella parte del carico del ruolo, che sia riconosciuta come indebita dal giudice al termine di un giudizio svoltosi senza che il concessionario abbia osservato l’onere della chiamata in causa dell’ufficio creditore del tributo. Pertanto, la deroga al principio del non riscosso per riscosso non trasforma affatto il concessionario in un garante dell’ufficio creditore del tributo, cosicché, come vedremo, è precluso all’ufficio il ricorso all’art. 106 cpc per la chiamata in causa del concessionario come suo garante. Il regime della riscossione dei tributi appena descritto è stato modificato con il DLgs 13 aprile 1999, n. 112, ma i mutamenti allora introdotti, e ancor oggi vigenti, non hanno toccato i cardini del sistema precedente, almeno per quel che riguarda il tema che interessa in questa sede. Infatti, pur essendo cambiati i criteri di remunerazione del servizio di riscossione (52), la base della commisurazione del rapporto patrimoniale tra creditore tributario e agente della riscossione resta sempre il carico dei tributi determinato dai ruoli trasmessi all’agente della riscossione e, se pure è stato abbandonato il principio del non riscosso per riscosso, resta fermo il principio della perdita del diritto dell’agente della riscossione al discarico del ruolo per la mancata esazione di tributi, la quale sia imputabile all’inidoneo comportamento del gestore del servizio. In (51) Vuoi per il convincimento di aver adempiuto pienamente il suo onere processuale perché l’atto impugnato era una cartella di pagamento e, dunque, dell’agente della riscossione, vuoi per l’induzione operata dalla clausola d’impugnazione inserita nella cartella di pagamento che indicasse solo l’agente della riscossione come controparte. (52) Secondo l’art. 17 DLgs 13 aprile 1999, n. 112. 282 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 particolare, per quel che qui interessa, l’art. 19.2.a) DLgs 13 aprile 1999, n. 112, stabilisce che costituiscono causa di perdita del diritto al discarico <>, e - ancor più rilevante, secondo la successiva lettera e) dello stesso comma - <>, laddove si precisa che <>. Questo non è più il principio del non riscosso come riscosso, ma è quello che potremmo chiamare il principio del carico del ruolo d’imposta; ai nostri fini essi si equivalgono. Viene, poi, confermata la norma processuale di chiusura del sistema, contenuta nell’art. 39 DLgs 3 aprile 1999, n. 112, secondo la cui formula, sostanzialmente identica a quella precedentemente vigente, <>. Dallo stato della normativa che s’è appena descritto emerge, dunque, che l’ufficio dell’amministrazione finanziaria titolare del tributo si libera del suo munus formando il ruolo e trasmettendolo all’agente della riscossione; questi, poi, gravato del carico del ruolo come soggetto passivo della relativa obbligazione, si deve impegnare nel darvi esecuzione; a tal fine, estratta dal ruolo la posizione del singolo contribuente, confeziona la cartella di pagamento dell’imposta che lo riguarda e gliela notifica. Ciascuno dei due operatori amministrativi del procedimento amministrativo tributario totale svolge, perciò, quella parte di attività che gli è affidata dalla legge e di quella, e solo di quella, risponde e, se necessario, è legittimato a difenderla in giudizio, perché sono diversi i loro interessi, così come essi sono regolati e collegati dal regime del rapporto di riscossione. Nella ripartizione dei compiti amministrativi la legge si preoccupa di applicare rigorosamente il principio di responsabilità, cosicché ognuno dei due soggetti risponde solo dei propri comportamenti, non solo sul piano sostanziale dell’obbligazione tributaria, ma anche su quello processuale, riservando a ciascuno di essi la posizione di parte nel processo tributario corrispondente alla posizione da ciascuno di essi occupata nel rapporto sostanziale di riscossione, così che ciascuno possa rispondere, anche in sede contenziosa, del proprio comportamento e possa agire per difenderlo. Dalla ricostruzione normativa appena effettuata del rapporto tra il creditore del tributo e l’agente della riscossione deriva anche un’altra conseguenza: l’inapplicabilità al rapporto di riscossione tributaria dell’art. 1188 cc, che ripetutamente è stato, invece, invocato dalla Corte di cassazione, proprio per fondare la separatezza della legittimazione passiva dei due soggetti (53). Il CONTENZIOSO NAZIONALE 283 giudice di legittimità ha espresso, infatti, più volte la convinzione che il concessionario della riscossione <> (54). Questa interpretazione della legge non può essere condivisa. È vero che l’agente della riscossione non è contitolare del diritto di credito, ma, considerato il principio del carico del ruolo gravante su di lui, esso non è affatto un mero destinatario del pagamento dell’obbligazione tributaria. Infatti, la riconduzione della specie dell’agente della riscossione al genere del destinatario del pagamento è il frutto di una prospettiva squisitamente privatistica, che è riduttiva e non soddisfa affatto, perché non tiene conto, anzitutto, del carattere pubblicistico del rapporto di riscossione, regolato in modo specifico dalla legge speciale tributaria, tra una persona giuridica pubblica - l’Agenzia delle entrate - ed un soggetto privato di amministrazione pubblica, concepito come strumentale rispetto all’Agenzia, qual è o il concessionario della riscossione o l’esattore modellato dall’art. 3.2 DL 30 settembre 2005, n. 203, conv. in L. 2 dicembre 2005, n. 248 (Riscossione spa e, dopo le varie modificazioni, Equitalia spa); e non tiene conto nemmeno, ma soprattutto, della qualità di parte processuale dell’esattore prevista espressamente, e imposta, dall’art. 10 DLgs 31 dicembre 1992, n. 546. Al più si può dire, dunque, che, se a determinati fini (determinazione del suo potere di modellare il debito, azione di ripetizione) l’esattore può anche essere visto, civilisticamente, come un mero destinatario del pagamento, ad altri fini (il potere di adottare atti autoritativi, l’assegnazione delle somme dovute, anche se non pagate, dai contribuenti e la determinazione del criterio di ripartizione della legittimazione processuale tra il creditore tributario e l’esattore del tributo) valgono esclusivamente le norme, sostanziali e processuali, di diritto tributario, che sono norme speciali di diritto pubblico e che, in ragione proprio della loro specialità, sono destinate a prevalere sulle norme generali di diritto civile. Dalla ricostruzione normativa del rapporto di riscossione discende anche che non sono in alcun modo condivisibili le affermazioni contenute in alcune sentenze della Corte di cassazione, secondo le quali <> (55). Infatti, è errato ritenere che, in astratto, il creditore del tributo sia interessato anche alla fase di riscossione, perché l’entrata dell’ufficio tributario era, in un primo tempo, assicurata dal principio del non riscosso per riscosso ed è assicurata, ora, dal principio del carico del ruolo. Se lo stato della normativa questo è, è doveroso affermare che, se il contribuente impugna una cartella di pagamento per un vizio proprio ed esclusivo di essa, l’intimazione contenuta nel suo ricorso e la sua notificazione devono essere indirizzate solo all’agente della riscossione, che è previsto dalla legge come l’unica sua controparte nel processo tributario, senza che, in mancanza dei presupposti di un litisconsorzio, sia necessario integrare il contraddittorio con l’ufficio tributario creditore del tributo. Non esiste, dunque, alcuna ragione né per gravare della legittimazione passiva anche l’ufficio tributario creditore del tributo, né per sottoporre il contribuente all’onere processuale aggiuntivo - ed inutile - di duplicare l’intimazione e la notificazione, tra l’altro con esposizione, nel caso di soccombenza, alla duplicazione delle spese processuali. Confondere le due posizioni, non solo è causa di inefficienza, ma è, anzitutto e soprattutto, lesivo delle, reciprocamente delimitate, sfere giuridiche del creditore del tributo e dell’agente della riscossione. I vizi propri ed esclusivi della cartella di pagamento, che giustificano che la legittimazione passiva sia ristretta al solo agente della riscossione, appartengono a due categorie: A) i vizi della cartella in sé, e, B) i vizi della notificazione della cartella. Si rinvengono vizi della cartella in sé, secondo quel che emerge dalla casistica giurisprudenziale: 1) nella carenza di potere di adottare una cartella di pagamento, dovuta alla pendenza del giudizio sull’avviso di accertamento presupposto (56); 2) nella mancanza di sottoscrizione (57); 3) nella mancata indicazione del responsabile del procedimento di adozione della cartella di pagamento; 4) nella carenza di motivazione (58); 5) nell’omissione dell’invito al pagamento ex art. 25 DLgs 18 dicembre 1997, n. 472 (59); 6) nella mancanza del contenuto, come, per esempio la mancata indica- (55) Corte di cassazione 23 settembre 2004, n. 19150. (56) Corte di cassazione 17 settembre 2001, n. 11667. (57) Corte di cassazione 15 aprile 2011, n. 8613. (58) Corte di cassazione: 15 aprile 2011, n. 8613; 12 agosto 2004, n. 15638; 8 febbraio 2006, n. 2798; 28 novembre 2012, n. 21220. (59) Corte di cassazione 21 gennaio 2009, n. 1462. CONTENZIOSO NAZIONALE 285 zione dell’aliquota dell’imposta (60) o l’omessa indicazione analitica delle somme dovute a titolo di sanzione, interessi e spese (61), o la mancanza degli elementi necessari per ricostruire la pretesa impositiva (62). Sono vizi della notificazione della cartella: 1) la mancanza della notificazione, che resta un vizio di un atto della sequenza procedimentale imputabile all’esattore rispetto all’avviso di mora, all’iscrizione di ipoteca e al fermo amministrativo (63); 2) il mancato perfezionamento della notificazione (64); 3) la tardività della notificazione (65); 4) la carenza di antecedenti per la legittimità della sua adozione (66); 5) i difetti strutturali della notificazione o della sua relazione (per esempio, destinatario diverso dal contribuente, luogo errato, errori nella relazione di notificazione). Occorre a questo punto sciogliere la riserva su uno dei punti critici della sentenza delle Sezioni unite 25 luglio 2007, n. 16412. Vi si esprime - par di capire - l’opinione che la sequenza procedimentale prevista dalla legge tributaria sia volta alla tutela del contribuente, sicché la sua violazione, consistente nell’omessa notifica di uno degli atti presupposti, anche quando questi siano stati emessi dall’agente della riscossione, come, per esempio, la cartella di pagamento, determinerebbe l’illegittimità dell’intero processo di formazione della pretesa tributaria, con la conseguenza che l’azione giudiziaria volta alla declaratoria di quella violazione consisterebbe sempre in una contestazione della pretesa tributaria. Ne deriverebbe che la fattispecie, secondo la Suprema Corte, non rientrerebbe in quella dell’impugnazione, per vizi propri, degli atti del concessionario/agente della riscossione. Tuttavia, la mancata o tardiva notifica di un atto (presupposto) di competenza dell’agente della riscossione non possono che essere qualificati come vizi propri dell’atto dell’agente della riscossione, con conseguente sua legittimazione passiva e interesse a resistere, in via esclusiva. Infatti, si deve attribuire rilevanza ai subprocedimenti in cui l’unitario procedimento amministrativo tributario viene scisso oggettivamente nei due subprocedimenti dell’accertamento e della sua esecuzione, i quali vengono affidati per la gestione a due soggetti diversi, dotati di responsabilità autonoma e distinta, regolata dal principio del carico del ruolo. Se si tiene conto di siffatta scissione, (60) Corte di cassazione 26 ottobre 2005, n. 20847. (61) Corte di cassazione: 16 novembre 1999, n. 780; 29 aprile 1999, n. 4324. (62) Corte di cassazione 8 febbraio 2006, n. 2798. (63) Corte di cassazione: 31 marzo 2006, n. 7649; 8 febbraio 2006, n. 2798. (64) Corte di cassazione 16 gennaio 2009, n. 933. (65) Corte di cassazione 30 ottobre 2007, n. 22939. (66) Per un esempio particolare, sia pure riferito all’avviso di mora, Corte di cassazione 14 giugno 2001, n. 8019. 286 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 a seconda che il subprocedimento concluda la fase di accertamento o quella di riscossione, si deve ritenere che i vizi che riguardino atti del primo subprocedimento inficino la pretesa tributaria, facendo venir meno l’atto di liquidazione dell’imposta; quelli relativi agli atti del secondo subprocedimento, invece, rendono illegittima soltanto la riscossione del tributo, impedendo che il credito tributario sia esigibile. Ciò è tanto vero che, se, dopo l’annullamento della cartella di pagamento per vizi suoi propri da parte del giudice tributario, il termine di decadenza per l’emissione della cartella di pagamento non fosse ancora scaduto, l’agente della riscossione potrebbe, e dovrebbe, riemettere la cartella di pagamento, mentre l’atto impositivo continua a conservare la sua validità. Ne risulta che l’affermazione delle Sezioni unite (sentenza 25 luglio 2007, n. 16412), secondo la quale qualsivoglia violazione della sequenza procedimentale tributaria, in quanto posta a tutela del contribuente, comporterebbe un’illegittimità della pretesa tributaria, non è condivisibile, neanche se considerata relativamente allo stretto ambito d’applicazione del caso particolare per cui il principio è stato enunciato; un caso in cui <>. Si tratta, quindi, di un caso in cui, ai sensi di legge, la pretesa tributaria è portata per la prima volta a conoscenza del contribuente con un atto del concessionario, ma non si tratta di circostanza decisiva per fondare le conclusioni che ne traggono le Sezioni unite, e ciò a prescindere dal fatto che, ex art. 36-bis.4 DPR 29.9.1973, n. 600, <>. Infatti, la pretesa tributaria, anche in caso di controllo automatico della dichiarazione del contribuente, è sempre recata dal ruolo, quale atto dell’ente creditore, sicché la fattispecie è riconducibile, sotto il profilo strutturale, allo stesso sistema di ripartizione del procedimento tra provvedimento amministrativo impositivo e sua esecuzione che già s’è esaminato. In estrema sintesi, allora, si può convenire con le Sezioni Unite civili della Suprema Corte sul fatto che, in generale, la sequenza procedimentale è senz’altro posta a tutela del contribuente, sia nel subprocedimento di competenza dell’ente creditore sia in quello di competenza dell’agente della riscossione, ma, dovendosi tener conto della suddivisione del procedimento amministrativo tributario in subprocedimenti operata dalla legge, che ne affida la cura a soggetti diversi, l’effetto della violazione di quella tutela si riverbera soltanto nell’ambito del rispettivo subprocedimento. In conclusione, il vizio della sequenza del subprocedimento di riscossione non inficia la pretesa tributaria, ma soltanto la sua esigibilità, sicché l’ente creditore del tributo, la cui pretesa è esposta nel ruolo dell’imposta, è privo di legittimazione passiva e d’interesse a resistere nella controversia volta a far valere quel vizio. Chiarito quali siano (alcuni de)i vizi propri degli atti dell’agente della riscossione, può affermarsi che in ogni caso nel quale il vizio, contro il quale ci si lamenta, sia stato creato da un comportamento esclusivo dell’agente della riscossione e sia, quindi, imputabile soltanto a lui - e, quindi anche nel caso in cui si impugni un atto consequenziale della cartella di pagamento (avviso di mora o atto di garanzia, cioè iscrizione di ipoteca o fermo amministrativo di beni mobili registrati) per vizio della cartella o della sua notificazione (67) - l’unico soggetto dotato di legittimazione passiva è l’agente della riscossione. Non è pertanto, condivisibile la posizione assunta dalla Corte di cassazione nella sentenza 9 febbraio 2010, n. 2803, pronunciata su una controversia nella quale un contribuente ha impugnato un avviso di mora lamentando la mancata notificazione della cartella di pagamento e ha dapprima notificato il ricorso esclusivamente al concessionario, e poi, nel corso del giudizio di primo grado, ha notificato il ricorso anche all’ufficio tributario; in via pregiudiziale, discutendosi della tardività del ricorso per la tardiva sua notificazione all’ufficio, si rispose che l’uno (il concessionario) valeva l’altro (l’ufficio) secondo il principio di indifferenza o di equivalenza delle legittimazioni passive dell’ufficio tributario e del concessionario, che è stato coniato dalle Sezioni unite nella sentenza 25 luglio 2007, n. 16412. Questa risposta deve ritenersi fallace; infatti, se la lagnanza riguarda la mancata notificazione della cartella di paga- (67) Corte di cassazione: 31 marzo 2006, n. 7649; 14 febbraio 2007, n. 3242; 10 settembre 2007, n. 18972; 21 novembre 2008, n. 27653. 288 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 mento, poiché, in base alla scissione del procedimento amministrativo tributario totale nei due subprocedimenti (procedimenti amministrativi tributari parziali) di accertamento e di riscossione, sia la cartella sia l’avviso di mora sono adottati dall’agente della riscossione, questi è l’unico legittimato passivo, cosicché la tardiva notificazione anche all’ufficio ha il valore di una mera denuntiatio litis, che non attribuisce all’ufficio la qualità di parte, che non gli spetta perché esso non ha alcun interesse da difendere, in quanto non è in contestazione la debenza dell’imposta e in quanto l’introito gli è comunque assicurato dal principio del carico del ruolo e nessun discarico del ruolo potrà essere disposto in conseguenza dell’eventuale riconoscimento delle ragioni del contribuente contro vizi della cartella di pagamento, di cui risponderà solo l’agente della riscossione. V’è da chiedersi, semmai, quale decisione si sarebbe dovuta adottare se il ricorso fosse stato proposto, invece, solo contro l’ufficio titolare del credito. Lo si sarebbe dovuto dichiarare inammissibile (68) o lo si sarebbe dovuto ritenere ammissibile? A favore dell’inammissibilità del ricorso, in cui si lamentino soltanto vizi di atti dell’agente della riscossione e che sia stato proposto esclusivamente contro l’ufficio titolare del credito tributario, milita la seguente chiara statuizione, che si condivide pienamente, della sentenza della Corte di cassazione 11 marzo 2011, n. 5832: <>. La menzionata sentenza del 2011 richiama come precedenti conformi alcune sentenze della Corte di cassazione. Il richiamo alla sentenza 14 febbraio 2007, n. 3242, è pertinente, perché essa afferma l’<>. Pertinente è anche il richiamo della sentenza 21 novembre 2008, n. 27653, perché in essa si afferma chiaramente che <>. Non è di alcun ausilio, invece, il richiamo - operato fallacemente anche dalla sentenza 21 novembre 2008, n. 27653 - alla sentenza 30 ottobre 2007, n. 22939, perché questa afferma esattamente il contrario di quel che sostiene la sentenza del 2011; la sentenza richiamata, infatti, ritiene che la sentenza delle Sezioni unite 25 luglio 2007, n. 16412, avrebbe enunciato <>. Comunque, un dato sembra accomunare le varie posizioni giurisprudenziali: se, quando il contribuente contesta con il suo ricorso introduttivo esclusivamente un vizio di un atto dell’agente della riscossione, egli intima e notifica il suo ricorso all’ufficio titolare del credito tributario, il suo ricorso sarebbe inammissibile perché si dovrebbe <>. Così le sentenze poc’anzi citate, ma anche la sentenza n. 16412 delle Sezioni unite del 2007, affermando che è <>, sembra lasciar intendere che nessun potere di chiamare in causa l’agente della riscossione è riconosciuto al titolare del credito tributario, che sia l’unico intimato e notificatario del ricorso del contribuente. Se le cose stanno così, il punto nodale della questione diverrebbe la verificazione di quel che la Corte di cassazione dà per scontato, ossia che, mentre l’agente della riscossione, che sia intimato per rispondere di vizi di un atto del creditore tributario, ha l’onere, espressamente previsto dalla legge, di chiamare in causa il creditore, questi, intimato in via esclusiva per rispondere di vizi di un atto dell’agente della riscossione, non avrebbe il potere di chiamare in causa l’agente. Sul fondamento normativo di tale mancanza di potere nulla si dice. In effetti, se si tenesse conto soltanto delle norme pubblicistiche che rego- 290 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 lano il rapporto di riscossione, non si avrebbe motivo di dubitare dell’opinione del giudice di legittimità. Tuttavia, dal momento che il rapporto di riscossione è, come s’è constatato, ispirato al principio del carico del ruolo, e dal momento che si realizza così una connessione oggettiva, tramite un determinato ed unico credito tributario, e soggettiva, tra creditore tributario autore del ruolo e agente della riscossione dei tributi iscritti a ruolo - ci si potrebbe domandare se il rapporto di riscossione faccia dell’agente della riscossione - soggetto passivo dell’obbligazione di pagare le somme iscritte a ruolo - un soggetto accomunato nella pretesa del creditore tributario o un suo garante. Se così fosse, si porrebbe il problema del coordinamento sia delle norme sostanziali sul rapporto di riscossione sia delle norme speciali processuali tributarie con le norme processuali generali ex art. 106 cpc, secondo le quali <>. Al riguardo si ricorda che due sono le ipotesi che, secondo la giurisprudenza di legittimità, ferma e costante sul punto, sono oggetto della disposizione normativa contenuta nell’art. 106 cpc: la comunanza di causa e la chiamata in garanzia. Mentre la chiamata in causa di un terzo per la comunanza con esso della controversia presuppone che sia comune un elemento oggettivo del rapporto di cui si discute e che il terzo abbia interesse a partecipare al contraddittorio, e comporta che la domanda dell’attore <> (69). Inoltre, la chiamata in causa per comunanza di cause è un fenomeno di genere che annovera tra le sue specie quella della chiamata in causa del terzo responsabile, nella quale il convenuto tende, con la chiamata in causa del terzo, ad ottenere la declaratoria della di lui responsabilità esclusiva e della propria liberazione verso l’attore. Essa è così ben sintetizzata nella sentenza della Corte di cassazione 27 giugno 2006, n. 14776: <>. La chiamata in causa del terzo responsabile è, dunque, un’ipotesi di comunanza di cause nella quale il convenuto, ritenendo che il terzo sia obbligato in sua vece, contesta e nega la propria legittimazione passiva e chiede di esser liberato nei confronti dell’attore con la sua sostituzione con il terzo responsabile. Questa conformazione della fattispecie della chiamata in causa del terzo responsabile è, da un lato, del tutto diversa dalla chiamata del terzo in garanzia, la quale presuppone, invece, il riconoscimento, da parte del chiamante, della propria responsabilità. Dall’altro lato, la chiamata in causa del terzo responsabile, proprio perché pone il giudice di fronte al problema di scegliere quale tra i due soggetti, il chiamante e il chiamato in causa, sia l’unico responsabile, impone che essi stiano necessariamente in giudizio insieme e sono, quindi, legati da litisconsorzio necessario nei confronti dell’attore in ragione della sua domanda originaria. Queste considerazioni sono sufficienti per escludere, anzitutto, che il creditore tributario possa avvalersi del potere di chiamare in causa l’agente della riscossione in qualità di garante. Nella garanzia una sola è l’obbligazione, in ordine alla quale si dà un obbligato principale e un obbligato secondario, mentre nel rapporto di riscossione tributaria l’obbligazione grava sul contribuente, il cui adempimento non gode della garanzia di alcuno; e nel caso in cui il contribuente non paghi, l’ufficio creditore del tributo non trova nell’agente della riscossione un garante del carico del ruolo, ma soltanto un soggetto obbligato in via principale, come s’è già messo in rilievo, a versargli la somma caricata nel ruolo indipendentemente dai mancati pagamenti del contribuente dovuti all’inidoneità dei suoi atti di riscossione, la cui difesa in giudizio è specificamente ed espressamente affidata in via riservata dalla legge all’agente della riscossione, proprio perché l’ufficio creditore del tributo è indifferente all’esito del giudizio sulla loro invalidità. In sostanza, l’agente della riscossione non è affatto garante del pagamento del tributo, da parte del contribuente, all’ufficio creditore del tributo. In secondo luogo, dalle considerazioni svolte in generale sulla chiamata in causa ex art. 106 cpc discende anche che il creditore tributario non può chiamare in causa l’agente della riscossione come terzo responsabile per comu- 292 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 nanza di causa. Infatti, il rapporto di riscossione è regolato, come s’è veduto, in maniera binaria, ossia con competenza e con responsabilità distinte e separate, tra creditore tributario e agente per la riscossione, per l’accertamento e per il pagamento; e la distinzione e la separazione si prolunga anche in sede processuale, perché all’autonoma impugnabilità degli atti autoritativi di ciascuno dei due soggetti è legata la legittimazione passiva propria di ciascuno di essi; questa legittimazione passiva è tenuta separata al punto che, nonostante la causa contro un atto dell’agente abbia in comune la pretesa tributaria nei confronti del creditore del tributo, realizzando così un’ipotesi di comunanza di cause, creditore del tributo ed agente della riscossione non sono mai legati da litisconsorzio necessario, perché l’accertamento della responsabilità dell’un soggetto non presuppone l’esclusione di quella dell’altro. L’agente della riscossione risponde di un suo proprio comportamento, assumendosene la conseguente responsabilità sia nei confronti del contribuente, dal quale non potrà più pretendere il pagamento della somma richiesta, sia nei confronti del creditore del tributo, al quale dovrà comunque pagare la somma iscritta a ruolo, anche se egli non l’abbia potuta riscuotere per l’inidoneità dei suoi atti di esecuzione del ruolo. Dal canto suo il creditore del tributo risponde solo dei suoi comportamenti, cosicché, se il giudice riconosce le ragioni del contribuente nei riguardi dell’atto presupposto dell’atto di esecuzione, deve rinunciare per un verso alla sua pretesa tributaria nei confronti del contribuente e, per altro verso, deve rinunciare, operando il discarico del ruolo, alla pretesa di essere comunque pagato dall’agente della riscossione. In conclusione, l’art. 106 cpc non ha alcuna possibilità di essere applicato nel giudizio nel quale, facendosi questione solo di vizi degli atti dell’agente della riscossione, sia intimato solo l’ufficio creditore del tributo, la cui eccezione di mancanza di legittimazione passiva non può essere respinta per il fatto che esso non ha esercitato il potere di chiamata in causa del terzo responsabile o del garante ai sensi dell’art. 106 cpc. Non a caso, l’agente della riscossione è la parte necessaria nelle cause nelle quali si faccia questione dell’invalidità di un suo atto e solo l’agente della riscossione è gravato dalle norme speciali processuali di diritto tributario del vincolo di chiamare in causa il creditore tributario per le controversie nelle quali si faccia questione dell’invalidità di un atto del subprocedimento di accertamento imputabile al creditore tributario, mentre lo stesso vincolo non è espressamente previsto - e va quindi escluso - a carico dell’ufficio creditore del tributo. 8. La legittimazione passiva del solo ufficio finanziario creditore del tributo. Analizziamo ora l’ipotesi b) esposta nel § 6, nella quale il ricorrente renda oggetto di contestazione, non la cartella di pagamento in sé, ma, attraverso l’impugnazione della cartella, solo l’atto amministrativo d’imposizione tributaria che ne è il presupposto. Quando si metta in discussione la debenza del CONTENZIOSO NAZIONALE 293 tributo, l’unico soggetto che, in base al principio del carico del ruolo, ha interesse all’intangibilità del ruolo, cioè, in sostanza, l’interesse a essere pagato, è il titolare del credito tributario, ossia l’ufficio tributario che ha adottato il provvedimento amministrativo d’imposizione tributaria e che ha così determinato il tributo poi iscritto a ruolo. All’ufficio spetta, dunque, l’interesse a difendere la relativa pretesa dinanzi al giudice, perseguendo il riconoscimento processuale della legittimità del suo provvedimento amministrativo d’imposizione tributaria. Le ragioni risiedono nella stessa normativa sul rapporto di riscossione che abbiamo descritto a proposito dell’ipotesi esaminata per prima. Per contro, l’esclusione dalla legittimazione passiva dell’agente della riscossione è resa evidente dal fatto che esso ha ricevuto solo l’incarico di esigere una determinata somma ad un determinato titolo, della cui formazione non sa assolutamente nulla; non solo, ma rispetto alla gestione del rapporto giuridico tributario confluita nel provvedimento amministrativo d’imposizione tributaria, che opera come presupposto della cartella di pagamento, l’agente della riscossione non ha alcun potere, né di ritiro né di riforma, nemmeno parziale, per il semplice fatto che non può disporre alcunché intorno al rapporto giuridico sostanziale (70), essendo chiamato a rispondere solo dei suoi atti di esecuzione. Di conseguenza, quando il contribuente contesti, attraverso l’impugnazione della cartella di pagamento, l’esistenza stessa o l’ammontare della pretesa tributaria, l’agente della riscossione non ha alcun potere di difendersi in giudizio, se è vero che i rapporti tra l’agente della riscossione ed il titolare del credito tributario sono tali da escludere tanto che il primo abbia una qualsivoglia conoscenza del rapporto giuridico tributario sostanziale controverso quanto che egli abbia un qualche potere di disposizione intorno ad esso. Oltre tutto, l’agente della riscossione, riceve, sì, dall’ufficio titolare del credito tributario il ruolo di una determinata imposta, ma non possiede alcun documento relativo al procedimento amministrativo che ha condotto all’adozione del provvedimento presupposto della cartella di pagamento. Invero, quanto alla conoscenza del rapporto giuridico tributario sostanziale, è sistematicamente corretto che l’agente della riscossione non ne abbia alcuna, non solo per ragioni di efficienza e di economia dell’azione amministrativa, le quali non sarebbero certo favorite dalla duplicazione di fascicoli, a volte ponderosissimi, presso sedi diverse di soggetti diversi, ma anche per un’evidente ragione di tutela del segreto privato del contribuente, il cui interesse a mantenere in sfere soggettive ristrette, anche di operatori economici amministrativi, la conoscenza dei suoi affari patrimoniali e personali è tanto evidente da non richiedere alcuna specifica dimostrazione. È vero che il concessionario della riscossione è tenuto, ai sensi dell’art. 35.1 DLgs 13 aprile (70) Corte di cassazione 29 settembre 2006, n. 21222. 294 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 1999, n. 112, a conservare il segreto d’ufficio su tutte le conoscenze <>, ma è altrettanto vero che si può conservare il segreto soltanto in ordine a conoscenze acquisite e che, se si allarga a sproposito la sfera dei possessori di una data conoscenza, da un lato si rende inutilmente conoscibile una data realtà anche a soggetti - il concessionario e i suoi dipendenti (71) - che non sono interessati alla conoscenza di quella realtà, e, dall’altro, si gravano questi secondi di un vincolo di cui, probabilmente, farebbero volentieri a meno, a cominciare dal sostenimento dei costi di custodia dei documenti rappresentativi delle situazioni segrete. In ogni caso è determinante tener presente che l’agente della riscossione non ha alcun interesse all’esito del giudizio contro la debenza della pretesa tributaria, solo a condizione che egli soddisfi l’onere di chiamare in causa l’ufficio creditore del tributo; infatti, in base al principio del carico del ruolo, se il giudice, che abbia accolto la chiamata in causa dell’ente creditore, dovesse accogliere il ricorso del contribuente e annullare il provvedimento amministrativo d’imposizione tributaria da lui impugnato, l’importo dell’imposta pretesa verrebbe detratto dal ruolo, ossia, per usare l’icastica espressione legislativa, verrebbe “scaricato”. Ne deriva, dunque, che: a) se il contribuente intima e notifica solo all’ufficio tributario titolare del credito il suo ricorso introduttivo contro una cartella di pagamento, che sia rivolto a farne valere l’invalidità per derivazione da quella di atti presupposti non imputabili all’agente della riscossione (avviso di accertamento, avviso di liquidazione, provvedimento sanzionatorio, ruolo d‘imposta e gli altri previsti dalla legge), il suo ricorso è ammissibile e, data la mancanza di litisconsorzio necessario, non è necessario integrare il contraddittorio nei confronti dell’agente della riscossione; b) se, invece, il contribuente intima e notifica il suo ricorso solo all’agente della riscossione, il suo ricorso non deve essere dichiarato inammissibile, né, data la mancanza di litisconsorzio necessario, è necessario che il giudice disponga d’ufficio l’integrazione del contraddittorio a favore dell’ufficio creditore del tributo, perché, in deroga al principio dell’interesse ad essere parte nel giudizio, è onere dell’agente, pena l’esclusione del discarico del ruolo, chiamare in causa l’ufficio tributario autore dell’atto presupposto impugnato attraverso l’impugnazione dell’atto consequenziale - la cartella di pagamento - di cui l’agente della riscossione è autore. Alcuni dei casi nei quali si è data, in giurisprudenza, la legittimazione passiva del solo ufficio finanziario creditore del tributo sono i seguenti: (71) Secondo l’art. 35.2 DLgs 13 aprile 1999, n. 112, infatti, <>. CONTENZIOSO NAZIONALE 295 1) impugnazione della cartella di pagamento per invalidità derivata dalla tardiva formazione del ruolo d’imposta (72); 2) impugnazione di cartella di pagamento di INVIM oggetto di un avviso di liquidazione adottato in base a sentenza passata in giudicato (Corte di cassazione 15 aprile 2011, n. 8613) (73); 3) impugnazione della cartella per la mancata preventiva notificazione del provvedimento amministrativo d’imposizione tributaria presupposto (74) (avviso di accertamento (75), avviso di liquidazione (76), irrogazione di sanzioni (77)), la cui adozione è compito dell’ufficio titolare del credito tributario (78); 4) impugnazione della cartella con la quale si chiede il pagamento di sanzioni per il tardivo versamento di tributi e che non è stata preceduta dall’emissione dell’invito ex art. 25 DLgs 18 dicembre 1997, n. 472 (79); 5) impugnazione della cartella di pagamento per invalidità della notificazione del provvedimento amministrativo d’imposizione tributaria presupposto (80); 6) impugnazione della cartella di pagamento di un tributo locale (TARSU) al solo fine, propostosi dal contribuente, di contestare il suo presupposto costituito dal provvedimento amministrativo d’imposizione tributaria (81); 7) impugnazione della cartella di pagamento, non per un vizio suo proprio, ma per l’asserita non debenza del tributo, dovuta all’intervenuta prescrizione della pretesa tributaria (82), o per la sua riferibilità ad altro soggetto passivo del tributo (83). (72) Corte di cassazione 9 gennaio 2009, n. 220. (73) Corte di cassazione 15 aprile 2011, n. 8613. (74) Alla mancata notificazione del provvedimento amministrativo tributario presupposto è equiparata nella giurisprudenza quella di altri provvedimenti amministrativi che pongono a carico dell’amministrato un’obbligazione di pagamento. Così, per esempio, Corte di cassazione: 9 maggio 1992, n. 190; 23 novembre 1995, n. 12107; 12 giugno 1997, n. 5278. (75) Corte di cassazione: 23 novembre 1995, n. 12107; 4 marzo 2008, n. 5791. (76) Corte di cassazione 23 novembre 1995, n. 12107. (77) Corte di cassazione: 9 maggio 1992, n. 190; 23 novembre 1995, n. 12107; 26 agosto 1996, n. 7830; 12 giugno 1997, n. 5278. (78) Corte di cassazione: 29 aprile 1999, n. 4324; 18 giugno 2002, n. 8759; 8 febbraio 2006, n. 2798; 2 febbraio 2012, n. 1532. (79) Corte di cassazione 21 gennaio 2009, n. 1462. (80) Corte di cassazione 2 settembre 1997, n. 8380. Per l’analoga ipotesi di invalida notificazione di altro provvedimento amministrativo, che determini il pagamento, a carico dell’amministrato, di una somma di danaro, Corte di cassazione: 26 agosto 1996, n. 7830; 11 febbraio 1999, n. 1149. (81) Corte di cassazione 16 gennaio 2009, n. 933. (82) Corte di cassazione: 7 dicembre 2001, n. 15499; 24 giugno 2004, n. 11746; 26 ottobre 2007, n. 22529, nella quale l’atto della riscossione impugnato, in mancanza della cartella di pagamento, è stato l’avviso di mora; ma l’esempio è valido anche per l’ipotesi in cui se si fosse trattato di una cartella di pagamento, perché quel che rileva è che il primo atto con il quale si è preteso il pagamento è stato adottato dopo che era trascorso il periodo decennale di prescrizione dal momento in cui il provvedimento amministrativo d’imposizione tributaria era divenuto inoppugnabile. In precedenza, per analoga fattispecie. V. anche Corte di cassazione: 6 marzo 1999, n. 1941; 12 maggio 2008, n. 11687. (83) Corte di cassazione 14 febbraio 2007, n.3338. 296 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 9. La legittimazione passiva sia dell’ufficio finanziario creditore del tributo sia dell’agente della riscossione. Può darsi, infine, una terza ipotesi: se il contribuente, notificatario di una cartella di pagamento, intenda contestare sia il titolo del credito sia l’atto della sua esecuzione amministrativa - la cartella di pagamento -, egli deve assumere come legittimati passivi sia l’ufficio tributario titolare del credito tributario sia l’agente della riscossione. Essi, però, sono, come s’è veduto, soggetti ad interessi separati e a responsabilità distinta, onde l’oggetto del ricorso non <> e non li lega, perciò, in litisconsorzio necessario sostanziale, ma solo processuale (84). Il vincolo duplice si spiega con le ragioni che risultano dalla combinazione di quelle considerazioni distintamente prospettate a proposito delle prime due ipotesi precedentemente esaminate. Tra gli esempi di questa fattispecie rinvenibili nella giurisprudenza, si segnalano i seguenti: 1) impugnazione di una cartella di pagamento con contestazione sia di vizi suoi propri (mancanza di analitica indicazione delle voci chiamate a comporre, a titolo di sanzione, interessi e spese, la somma totale) sia di vizi dell’atto presupposto (mancata sua notificazione, intervenuta prescrizione) (85); 2) impugnazione della cartella di pagamento per vizi della sua notificazione e per difetto di motivazione del ruolo (86). 10. Conclusioni. È il momento delle conclusioni. S’è mostrato che al luglio 2007 si era creato, per la lenta e meditata elaborazione di svariati interventi giurisprudenziali, uno stato della normazione di diritto vivente pienamente soddisfacente: le quattro norme giuridiche che lo sintetizzano sono quelle elencate al termine del § 3.1 e che qui riproduciamo per comodità del lettore: 1) nel processo tributario contro una cartella di pagamento impugnata solo per invalidità ad essa derivata dall’invalidità dell’atto presupposto adottato dall’ufficio tributario, il solo legittimato passivo è il titolare del credito tributario fatto valere con la cartella e se il ricorso sia stato notificato solo all’agente della riscossione, questi è gravato, pena l’imputazione alla sua sfera giuridica del carico del ruolo risultante all’esito del giudizio, dell’onere di chiamare in causa il titolare del credito tributario; 2) nel processo tributario contro una cartella di pagamento impugnata solo per invalidità propria, il solo legittimato passivo è l’agente della riscossione; (84) Corte di cassazione 24 giungo 2004, n. 11746. V. anche Corte di cassazione 21 gennaio 2009, n. 1262. (85) Corte di cassazione: 29 aprile 1999, n. 4324; 16 marzo 2011, n. 6104. (86) Corte di cassazione 16 gennaio 2009, n. 933. CONTENZIOSO NAZIONALE 297 3) nel processo tributario contro una cartella di pagamento impugnata sia per invalidità ad essa derivata dall’invalidità dell’atto presupposto sia per invalidità sua propria, il titolare del credito e l’agente della riscossione sono parti separate e distinte del giudizio, non legate da litisconsorzio necessario sostanziale. Con la sentenza delle Sezioni unite 25 luglio 2007, n. 16412, si è intervenuti sulla legittimazione passiva nei giudizi contro una cartella di pagamento, formulando un principio di diritto, che - così ci è sembrato a seguito dell’analisi cui lo si è poc’anzi sottoposto -, anziché confermare la chiarezza normativa già presente nell’ordinamento, ha disorientato le Sezioni semplici e, in particolare, la Sezione civile V, all’interno della cui giurisprudenza si è realizzato negli ultimi anni uno stato di contrasto; infatti, da una parte, la sentenza delle Sezioni unite è stata interpretata come confermativa della giurisprudenza precedente, mentre da un’altra parte è stata interpretata come innovativa nel senso dell’indifferenza, nella posizione di legittimato passivo, del creditore tributario e dell’agente della riscossione. Questa seconda posizione, come s’è segnalato in sede introduttiva, è ormai sostenuta anche nelle cause affidate all’esame preliminare della Sezione civile VI-Sottosezione V, come se fosse divenuto l’orientamento consolidato. S’è qui voluto dimostrare che non si è invece consolidato alcun orientamento, perché la Sezione civile V ha adottato, anche di recente, sentenze contrastanti e che, soprattutto, la corretta interpretazione da dare alla sentenza delle Sezioni unite è quella della sua continuità con l’orientamento che la Corte aveva già elaborato e seguito nel periodo che va dal 2004 al 2007, ancorché essa vada criticata precisando che in realtà il difetto di notifica della cartella di pagamento è sempre un vizio proprio di un atto dell’agente della riscossione. Se, però, la posizione assunta dalla Sezione VI della Suprema Corte, da ultimo anche con l’ordinanza citata nel § 1, potesse intendersi come espressione della volontà di consolidare uno degli orientamenti che erano stati abbracciati precedentemente e che qui s’è cercato di dimostrare infondato, non può dubitarsi che, per quanto finora esposto, prima d’insistere ulteriormente in quel senso, la Corte di cassazione dovrebbe per lo meno interrogarsi se la sua interpretazione del regime della ripartizione della legittimazione passiva tra l’agente della riscossione e l’ente creditore del tributo sia rispettosa del principio inviolabile del diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost. Infatti, se si continuasse a ritenere che, rispetto ad una causa in cui si contestino vizi propri dell’atto esecutivo dell’agente della riscossione, possa essere legittimato passivamente soltanto l’ente creditore, sarebbe pregiudicato il diritto di difesa di quest’ultimo, il quale, non avendo per legge alcuna competenza amministrativa sull’emanazione dell’atto impugnato dal contribuente, non disporrebbe degli elementi per difendersi. La stessa situazione, del resto, pregiudica anche il diritto di difesa dell’agente della riscossione, ove potesse ritenersi, come a volte accaduto nella giurisprudenza, anche di legittimità, che in una siffatta controversia possa essere evocato in 298 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 giudizio soltanto l’ente creditore. Invero, l’ente creditore non nutre interesse a vincere una causa in cui si contesti la regolarità o la validità degli atti esecutivi, dato che l’accertamento di vizi propri dell’atto esecutivo determinerebbe l’impossibilità di discarico del ruolo. Ne conseguirebbe, allora, anche la violazione del contraddittorio, ex art. 101 cpc e 111 Cost. CONTENZIOSO NAZIONALE 299 Il concetto di degradazione nella giurispurdenza della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato (1910 – 1949) Francesco Testi* SOMMARIO: 1. Introduzione - 2. Il quadro di riferimento: le norme e la giurisprudenza - 3. I presupposti della teoria della degradazione - 4. Affievolimento, degradazione, riespansione del diritto soggettivo secondo Oreste Ranelletti - 5. Affievolimento e degradazione secondo la dottrina successiva - 6. Una lettura critica della degradazione - 7. La degradazione secondo la giurisprudenza: 1910 – 1930 - 8. La degradazione secondo la giurisprudenza: 1930 – 1949 - 9. Conclusioni. 1. Introduzione. Il presente lavoro ha ad oggetto quel particolare costrutto dottrinale e giurisprudenziale che è la degradazione del diritto soggettivo: si fa riferimento all’affermazione secondo la quale, davanti all’esercizio del potere amministrativo, il diritto soggettivo non possa mantenere la propria consistenza e si affievolisca a livello di interesse legittimo, in virtù dell’imperatività del provvedimento, con conseguente radicamento della competenza del giudice amministrativo. Questa teoria nacque per motivi pratici: il fine era quello di offrire la tutela più efficace (id est l’annullamento) al cittadino leso dall’atto amministrativo. Tuttavia in seguito essa si trasformò in una norma non scritta di diritto sostanziale: si ritenne cioè incompatibile la sussistenza del diritto in capo al singolo individuo con l’esercizio del potere dello Stato, perché laddove vi fosse il secondo, il diritto soggettivo doveva soccombere. Nel corso della trattazione, si illustreranno le basi teoriche di questo costrutto e - da un punto di vista più propriamente giuridico - i presupposti positivi nella legislazione italiana (l. 20 marzo 1865 n. 2248 all. E, abolitrice del contenzioso amministrativo, e l. 31 marzo 1889 n. 5992, istitutiva della Quarta Sezione del Consiglio di Stato). All’interno di questo quadro culturale e giuridico, il punto centrale del presente lavoro è però rappresentato dall’analisi comparata della giurisprudenza della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato tra il 1910 e l’immediato secondo dopoguerra: come sottolineò la dottrina, l’una e l’altro svolsero un vero e proprio «ruolo pretorio» nell’elaborazione del concetto di degradazione, trasformando una norma di tipo processuale in norma sostanziale. Nel corso dell’esposizione, si cercherà di mettere in luce i non pochi punti critici che la teoria della degradazione presenta, a partire dal fatto che essa fosse in realtà contra legem. (*) Dottorando in Diritto Amministrativo, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. 300 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 La ricerca è stata svolta sulla Giurisprudenza Italiana e sul Foro Italiano di quegli anni. 2. Il quadro di riferimento: le norme e la giurisprudenza. Punto di partenza obbligato di questa trattazione è la ben nota legge 2248/1865 all. E, abolitrice del contenzioso amministrativo, con cui furono soppressi i Tribunali del contenzioso (art. 1) e fu devoluta al giudice ordinario la cognizione delle controversie con la Pubblica Amministrazione in materia di diritti civili e politici (corrispondenti agli odierni diritti soggettivi: art. 2). Per l’inciso dell’art. 2 («comunque vi possa essere interessata la pubblica amministrazione, e ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell’Autorità amministrativa»), il legislatore riteneva ininfluente sia il regime con cui l’Amministrazione agiva (diritto pubblico o diritto privato), sia la presenza o meno del provvedimento amministrativo: ove vi era questione di diritti soggettivi, là rimaneva salda la competenza del giudice ordinario. Quanto agli «affari non compresi» di cui all’art. 3 - in cui si ravvisano le origini degli interessi legittimi - essi erano di competenza esclusiva dell’amministrazione, che avrebbe dovuto tutelarli con i ricorsi in via gerarchica. Qualora poi l’atto amministrativo avesse leso un diritto (art. 4), il giudice doveva limitarsi alla sua disapplicazione con riferimento alla fattispecie concreta, senza poterlo modificare né annullare. Ne derivavano quindi tre conseguenze: erano ammissibili solo le azioni risarcitorie e di mero accertamento, in quanto non implicavano una modifica della situazione posta in essere dall’amministrazione; erano escluse le azioni costitutive, proprio in virtù del secondo comma dell’art. 4; era vietato al giudice modificare o annullare l’atto illegittimo. Nella pratica, tuttavia, il discrimine fra la competenza dell’amministrazione e la giurisdizione fu fissato dalla giurisprudenza sulla base del binomio atti d’impero – atti di gestione (1). Da un lato, l’atto di gestione (iure gestionis aut privatorum) radicava la competenza del giudice ordinario, trattandosi di questioni di mero diritto privato (2). Dall’altro, l’atto d’impero (iure imperii) implicava la presenza dello Stato quale autorità agente con imperatività, che era (ed è a tutt’oggi) data dall’attitudine a produrre effetti che incidono sulla sfera giuridica dei soggetti, senza che il loro consenso sia rilevante (3). (1) Cfr. G. MANTELLINI, Lo Stato e il codice civile, III, Firenze, 1882, p. 186 ss.; G. GIORGI, La dottrina delle persone giuridiche o corpi morali, III, Firenze, 1899, p. 491 ss. (2) Ex multis, Consiglio di Stato, decisione 7 dicembre 1872; decisione 21 ottobre 1871; decisione 31 dicembre 1872; 16 novembre 1872. (3) M.S. GIANNINI, Discorso generale sulla giustizia amministrativa, in Riv. Dir. Proc., 1963, p. 531. E.CANNADA - BARTOLI, in La tutela giudiziaria del cittadino verso la pubblica amministrazione – appunti dalle lezioni, Milano, 1964, p. 46 ss., aggiunge la definizione di atto d’impero riportata da Cass., S.U., 12 marzo 1887: «atto che importa l’esplicazione di un legittimo potere per un obbietto di pubblico interesse e che riveste la forma stabilita dalla legge». CONTENZIOSO NAZIONALE 301 La distinzione fra i due tipi di atti non aveva però alcun fondamento normativo: si manifestava qui, per la prima volta, quel «ruolo pretorio» (4) della giurisprudenza che avrebbe avuto un peso preponderante nella formazione del nostro sistema. D’altra parte non poteva andare diversamente, perché la legge sul contenzioso conteneva norme di carattere esclusivamente processuale, non sostanziale, e la giurisprudenza per conferire organicità alla struttura fu costretta ad aggiungervi norme sostanziali. Oltretutto, dall’impianto normativo del 1865 derivava un inconveniente di rilievo: i «meri interessi», non inerenti a diritti, erano totalmente sguarniti di tutela giurisdizionale e perciò sottoposti all’arbitrio della pubblica amministrazione. A rimedio, con la riforma del 1889 il legislatore istituì una Quarta Sezione del Consiglio di Stato per gli affari contenziosi, con il potere di annullare e di sospendere l’atto impugnato; peraltro, la nuova sezione non sembrava appartenere all’autorità giudiziaria, essendo inquadrata in un organo dell’amministrazione. L’art. 3 della legge 5992/1889 (poi trasferito integralmente nell’art. 26 r. d. 26 giugno 1924 n. 1054, T.U. Consiglio di Stato) assegnava alla sezione le decisioni «sui ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge, contro atti e provvedimenti di un’autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante»: oggetto del ricorso era l’interesse, figura giuridica soggettiva che qui ebbe per la prima volta riconoscimento; inoltre la norma faceva salva la competenza del giudice ordinario a conoscere dei diritti soggettivi, ex art. 2 della legge abolitrice del contenzioso. Si badi, la legge citava gli interessi, senza spiegare cosa essi fossero: e il collegamento che noi oggi facciamo con gli interessi legittimi porta con sé una ricostruzione dottrinaria e giurisprudenziale, scaturita tuttavia nel silenzio della legge stessa. La situazione - già non facile - si complicò ulteriormente a causa di due sentenze della Corte di Cassazione romana, quale giudice della giurisdizione in base all’art. 3 della legge 3761/1877. Si tratta dei casi Laurens (5) e Trezza (6), ove la Cassazione si pronunciò su questioni inerenti a diritti soggettivi lesi da un provvedimento amministrativo. Ora, il punto era stabilire il titolo in base al quale i ricorrenti azionavano la propria pretesa: interesse (derivante da una posizione subordinata nei confronti della pubblica amministrazione), o piut- (4) M.S. GIANNINI - A.PIRAS, voce Giurisdizione amministrativa e giurisdizione ordinaria nei confronti della pubblica amministrazione, in Enciclopedia del Diritto, Milano, 1970, vol. XIX, p. 239. (5) Cass. Roma, S.U., 24 giugno 1891, Eula pres., Troise est., Laurens ric., in Foro It., 1891, I, 961, con nota di F.G. VITALE, e ancora ibidem I, 1118, con nota di V. SCIALOJA; in Giur. It., 1891, I, 3, 181. Sul punto, v. anche l’analisi di V. CERULLI IRELLI, Le questioni di giurisdizione nella giurisprudenza della Cassazione di Roma, in Le riforme crispine, II, Milano, 1990, 502. (6) Cass. Roma, S.U., 24 giugno 1897, Ghiglieri pres., Petrella est., Quarta P.M., Trezza ed altri ric.; in Giur. It., 1897, I, 1, 744, con nota di L. MORTARA; in La legge, 1897, II, 73, con nota di G. SAREDO; in Corte Supr., 1897, 129, con nota di O. QUARTA. Anche qui, si veda il commento di V. CERULLI IRELLI in Le questioni di giurisdizione, op. cit. 302 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 tosto diritto soggettivo (leso dal provvedimento)? In entrambi i casi la risposta della Suprema Corte fu uguale: le questioni inerivano in sostanza a diritti soggettivi – e perciò era competente il giudice ordinario – in quanto ai fini del riparto contava la causa petendi, intesa come situazione giuridica soggettiva alla base, non già il petitum, cioè la misura richiesta dal ricorrente o dall’attore (e che, nei casi citati, era l’annullamento del provvedimento lesivo del diritto soggettivo). Di conseguenza, se oggettivamente la posizione giuridica delle parti in causa ineriva ad un diritto di matrice civilistica (proprietà, impresa, contratti, etc.), la controversia era sui diritti e spettava al giudice ordinario, con i limiti segnati dalla legge abolitrice del contenzioso. La Cassazione, peraltro, intervenendo sui presupposti dell’azione di annullamento davanti alla Quarta Sezione, segnalò come non si potesse far valere il diritto soggettivo come interesse (7), atteso che le due figure - strutturalmente diverse in base alla legge - erano idonee a determinare il riparto secondo un rigoroso rapporto di proporzionalità: il diritto stava alla cognizione del giudice ordinario come l’interesse stava alla cognizione della Quarta Sezione. Non rilevavano quindi le prospettazioni delle parti, relativamente alle proprie situazioni soggettive, perché era compito del giudice accertare se, «sotto l’ombra della tutela di un interesse » (8), si ponesse un diritto. Con questo ragionamento s’era venuta a creare una situazione davvero complessa, in quanto le due giurisdizioni civile ed amministrativa erano completamente diverse ed alternative: per fondamento, per azioni, per procedure. Ed infatti, il soggetto leso dal rifiuto di un’autorizzazione poteva ottenere l’annullamento dell’atto presso il Consiglio di Stato, ma non il risarcimento dei (7) Sul punto si registrò un acceso scontro fra Scialoja, sostenitore del criterio del petitum, e Orlando, che supportava la teoria della causa petendi. Il primo proponeva infatti di «far valere come interesse il diritto», al fine di consentire al titolare di un diritto leso dal provvedimento amministrativo di ricorrere al Consiglio di Stato, azionando il proprio interesse all’annullamento dell’atto lesivo. Orlando rispondeva che la competenza del giudice ordinario in simili fattispecie era assolutamente inderogabile, dal momento che si trattava di competenza per materia, i cui limiti erano segnati dalla legge abolitrice del contenzioso amministrativo. Per un’esposizione completa, si vedano: V. SCIALOJA, in Foro It., I, 1118, 1911, poi ripreso nell’articolo Sui limiti della competenza della IV Sezione del Consiglio di Stato di fronte all’autorità giudiziaria, in Giust. Amm., 1891, IV, 59; ID., Sulle funzioni della IV Sezione del Consiglio di Stato, in Giust. Amm., IV, 61. Per approfondimenti, si veda anche B. LOMONACO, Legge e regolamenti sul Consiglio di Stato, Roma, 1894, p. 385 ss., 408 ss.; nello stesso senso, ma con attenuazioni, R. PORRINI, La giurisdizione amministrativa di annullamento nella sua natura e nelle sue relazioni con la giurisdizione ordinaria e con quelle amministrative speciali, in Arch. Giur., 1892, p. 526 ss; L. MEUCCI, Il principio organico del contenzioso amministrativo, in Giust. amm., 1891, IV, p. 19 ss; V. E. ORLANDO, Rapporti tra la competenza della IV Sezione del Consiglio di Stato e quella giudiziaria, in Arch. Dir. Pubbl., 1892, 58; O. RANELLETTI, A proposito di una questione di competenza della IV Sezione del Consiglio di Stato, Avezzano, 1892, p. 71; ID., Ancora sui concetti discretivi e sui limiti della competenza dell’autorità giudiziaria e amministrativa, in Foro it., 1892, I, 470; L. ARMANNI, La riforma del Consiglio di Stato e la giurisdizione amministrativa, Assisi, 1891. (8) Così la Cassazione nel caso Trezza. CONTENZIOSO NAZIONALE 303 danni davanti al giudice ordinario, trattandosi di meri interessi la cui cognizione era interdetta all’autorità giudiziaria ordinaria dalla legge abolitrice del contenzioso. Viceversa, il titolare di diritti civili offesi da un provvedimento (ad esempio, il proprietario leso da un’espropriazione illegittima) poteva chiedere il risarcimento del danno al giudice, ma non l’annullamento dell’atto alla Quarta Sezione - avendo la propria causa petendi in un diritto - e neppure l’annullamento davanti al giudice ordinario, stante il divieto dell’art. 4, co. 2 della legge del 1865. Il paradosso, in definitiva, era che il portatore di diritti dominicali aveva una tutela largamente inferiore rispetto ai titolari di semplici interessi. Specularmente all’evoluzione esaminata, però, si fece strada una tendenza opposta: gli atti prodromici alla stipulazione dei contratti da parte dell’Amministrazione - atti che, all’evidenza, inerivano a diritti soggettivi, e quindi sarebbero stati di competenza del giudice ordinario - vennero configurati dalla dottrina e dalla giurisprudenza come espressione del potere amministrativo ed incardinati in un procedimento. Si trattava dei cosiddetti actes détachables (9), già noti nell’esperienza francese, che divennero impugnabili autonomamente (“staccabili” appunto) rispetto al contratto pubblico, dai soggetti terzi pretermessi: quegli stessi soggetti, in un contesto puramente civilistico, sarebbero stati sguarniti di qualunque tutela giurisdizionale, in quanto estranei al rapporto. Peraltro, la cognizione di tali controversie venne affidata al giudice amministrativo, quale giudice del potere pubblico, come confermò la giurisprudenza (non senza alcune titubanze iniziali (10)), che riconobbe il soggetto soccombente nella gara come colui che «ha interesse diretto a ricorrere alla Quarta Sezione del Consiglio di Stato, non come vindice del pubblico interesse e della legalità in genere, ma come individualmente e direttamente interessato contro il provvedimento amministrativo» (11). (9) Cfr. V. CERULLI IRELLI, Il potere amministrativo e l’assetto costituzionale delle funzioni di governo, in Studi in onore di Alberto Romano, a cura di V. CERULLI IRELLI, R. CAVALLO PERIN, M.R. PEREZ, Napoli, 2011. (10) Si veda ad es. Cons. St., IV, 8 novembre 1895, in Giust. amm., 1895, 460, secondo cui «le formalità contrattuali stabilite dalla legge di contabilità generale dello Stato e dai regolamenti generali e speciali che ad essa si riferiscono massimamente per quanto riguarda la necessità degli incanti pubblici e le eccezioni che a questa formula possono farsi sono richieste nell’interesse esclusivo dello Stato. Perciò la preterzione di quella solennità e la violazione di legge o di regolamento che ne consegue non dà adito di regola ad azione giudiziaria né a ricorso amministrativo nei termini dell’art. 24 della legge sul Consiglio di Stato per difetto di interesse nei privati». (11) Cons. St., 13 novembre 1896, in Foro It., 1896, III, 427. Cfr. anche Cons. St., IV, 6 dicembre 1901, in Riv. amm., 1902, 49, ove si legge che «ha diritto a reclamare contro gli atti di incanto banditi dalla giunta municipale in termini più ristretto di quello fissato […] colui che nel detto termini aveva accettate le basi stabilite dal Consiglio, ed aveva perciò tutta la ragione per ritenersi dover essere a sé aggiudicato». Da ultimo, si veda U. FORTI, L’oggetto della domanda e la discriminazione della competenza giurisdizionale, nota a commento di Cons. St., V, 9 ottobre 1946, in Foro It., III, 86, 1947. 304 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 3. I presupposti della teoria della degradazione. Dopo aver affrontato la situazione del riparto fra interesse e diritto, occorre comprendere i capisaldi su cui si costruì il concetto di degradazione del diritto soggettivo. Anzitutto, va detto che i primi studiosi del diritto amministrativo mutuarono categorie, schemi di pensiero ed azioni dal diritto civile. Ebbene, presupposto fondamentale del diritto civile era ed è che il contratto si presume valido, salva contraria eccezione da dimostrarsi in giudizio, con relativo onere della prova: sicché nel diritto amministrativo s’importò la presunzione di validità del provvedimento (12), fondata anche sull’esecutorietà dello stesso, in base al potere d’imperio della Pubblica Amministrazione. Sfuggì tuttavia il dettaglio non secondario che il principio dell’onere della prova è perfettamente funzionale ad un sistema sinallagmatico, con le due parti in situazione di parità, ma altrettanto non può dirsi con riferimento ad un sistema dove domina l’imperatività della pubblica amministrazione. A ciò si aggiunse una concezione del rapporto tra diritto soggettivo del privato ed esercizio del potere discrezionale, ritenuto semplicemente incompatibile con il diritto soggettivo: ove vi era il primo non poteva esserci il secondo, sicché era esclusa a priori la giurisdizione ordinaria anche se l’atto amministrativo era invalido. In ultima analisi, il provvedimento (anche quello invalido) risultava comunque sempre efficace, finché non venisse annullato; e dalla presunzione d’efficacia discendeva la produzione di effetti, con la conseguente possibile lesione dei diritti: in una tale fattispecie, il giudice ordinario non era più competente, perché davanti al potere amministrativo il diritto del singolo risultava compresso, e perciò si affievoliva e degradava a mero interesse legittimo, con la conseguente competenza del giudice amministrativo. Nell’interpretazione dell’art. 2 l. 1865, quindi, si pose l’accento sull’inciso «si faccia questione di un diritto civile o politico»: non potendosi far questione di diritti civili davanti all’esercizio del potere, cadeva la giurisdizione ordinaria. Secondo la lezione di Giannini (13), questo è il cosiddetto modo (12) L’affermazione era pressoché incontestata in dottrina, benché le cause richiamate fossero le più varie: alcuni la correlavano alla necessità di curare nella misura migliore possibile il pubblico interesse (S. TRENTIN, L’atto amministrativo: contributi allo studio della manifestazione di volontà della Pubblica Amministrazione, Roma, 1915, p. 307), altri richiamavano l’autorità sovrana dello stato (G. JELLINEK, La dottrina generale dello Stato, trad. it. con prefazione di V.E. ORLANDO, Milano, 1949, p. 70). Solo M. BRACCI mise in evidenza che la presunzione fosse un semplice principio posto dal legislatore a favore dell’amministrazione: «è soltanto uno dei motivi per cui il legislatore ha senz’altro attribuito alla volontà dell’amministrazione la forza di produrre certi effetti», e ne derivava che «la esecutorietà permane anche se un atto sia evidentemente illegittimo» (L’atto amministrativo inoppugnabile ed il limite dell’esame del giudice civile, in Studi in onore di Federico Cammeo nel XXX anno d’insegnamento, Padova, 1933, vol. I, p. 155 ss.). (13) M.S. GIANNINI, Discorso generale, loc. cit., p. 537 ss.; cfr. anche M.S. GIANNINI– A. PIRAS, Giurisdizione amministrativa, cit., p. 270 ss. CONTENZIOSO NAZIONALE 305 dell’equiparazione, che prese il sopravvento alla fine del XIX secolo e da cui derivò un principio che ebbe vita particolarmente lunga, dapprima nella dottrina e successivamente anche nella giurisprudenza italiana: il diritto soggettivo, posto davanti all’atto amministrativo, risulta affievolito e degradato, trasformandosi in interesse legittimo. La questione centrale di tutta questa trattazione, allora, è la seguente: come e perché il diritto dovrebbe degradarsi? 4. Affievolimento, degradazione, riespansione del diritto soggettivo secondo Oreste Ranelletti. Il primo a parlare di diritti affievoliti fu il Ranelletti (14), che nel 1892 indicò alcune situazioni soggettive particolari «che sono dei veri diritti, ma che subiscono una compressione, quando si trovano di fronte ed in contrasto con l’elemento col quale sono compenetrati e dal quale dipendono, cioè l’interesse generale […]; compressione che toglie loro il mezzo ordinario di farli valere, cioè l’azione comune; ogni qual volta quella compressione manca, riprendono la loro naturale espansione e sono dei veri diritti subiettivi». Successivamente (15), lo stesso autore li indicò come «diritti assoluti»: la definizione non tragga in inganno, poiché secondo il Ranelletti si tratta di diritti derivanti da un provvedimento amministrativo e «compenetrati con l’interesse pubblico ed alle esigenze di questo senza precisa definizione» (16); qualora successivamente alla loro nascita fossero risultati contrastanti con l’interesse pubblico cui erano condizionati, si sarebbe potuto (e dovuto) sacrificarli. Tale compenetrazione tra diritto ed interesse pubblico implicava sensibili effetti anche in sede giurisdizionale: il soggetto titolare del diritto affievolito poteva azionare le proprie pretese davanti al giudice amministrativo, mentre gli altri soggetti che si fossero scontrati con quel titolare avrebbero dovuto invece ricorrere al giudice ordinario, trovandosi nell’ambito privatistico (17). Un concreto esempio di diritto affievolito (o «assoluto») era la concessione derivante da un provvedimento amministrativo: il concessionario era titolare di una situazione giuridica in cui il diritto era «compenetrato con l’interesse pubblico», suscettibile di affievolimento – qualora la pubblica amministrazione avesse valutato diversamente il proprio interesse – e tutelabile davanti al giudice amministrativo. Tuttavia, finché il diritto sussisteva, esso si poneva come situazione dotata di piena tutela nei confronti di tutti gli altri individui, presso il giudice ordinario. (14) O. RANELLETTI, A proposito di una questione, op. cit., p. 76 ss. (15) ID., Principii di diritto amministrativo, Napoli, 1912, vol. I, p. 434 ss. Cfr. anche ID., Diritti subbiettivi e interessi legittimi nella competenza, in Foro It., 1898, I, 470; ID., Le guarentigie della giustizia nella pubblica amministrazione, Milano, 1937, p. 170 ss. (16) ID., Principii, op. cit. (17) ID., Il problema della giustizia amministrativa, in Riv. Amm., 1948, p. 204. 306 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 Ne conseguiva quindi, per il primo teorico di questa situazione, una tripartizione delle posizioni giuridiche soggettive: i diritti perfetti, i diritti affievoliti e gli interessi occasionalmente protetti. I primi erano incondizionati, perché non nascevano correlati ad un provvedimento: tale natura ne portava la cognizione presso il giudice ordinario. Poteva accadere che essi fossero intaccati da un atto amministrativo, ma solo nei casi tassativamente indicati dalla legge; inoltre il loro sacrificio esigeva un risarcimento; e soprattutto, non erano suscettibili di degradazione: «non possono per forza propria risorgere e tornare ad espandersi allo stato primitivo » (18), insomma la compressione era definitiva. L’esempio principe era il diritto di proprietà: se un fondo veniva espropriato ma non riceveva la destinazione prevista, il soggetto espropriato aveva diritto ad ottenerne la retrocessione, ma solo con un contratto di vendita concluso con l’Amministrazione espropriante. I diritti affievoliti invece erano strettamente connessi ad un provvedimento, dal momento della nascita fino alla fine, e potevano sussistere nella misura in cui fossero compatibili con l’interesse pubblico. Se una nuova situazione – di fatto o di diritto – li avesse posti in contrasto con l’interesse pubblico, «tale evento sarà il sacrificio di un diritto ad una esigenza, a cui è giuridicamente condizionato; epperciò potrà esser compiuto dall’autorità amministrativa […] nei suoi poteri propri discrezionali, senza bisogno di trovarne il fondamento in una norma giuridica; e potrà dippiù esser compiuto senza obbligo di indennità» (19). Tuttavia su di essi operava l’affievolimento, nel senso che la compressione non era definitiva: una volta venuto meno l’interesse pubblico contrastante, il diritto affievolito sarebbe tornato a vivere riespandendosi. In terza posizione si trovavano infine gli interessi occasionalmente protetti, tutelati dall’ordinamento non ex se ma solo in quanto nascenti da uno specifico rapporto con la pubblica amministrazione e limitatamente al rapporto stesso. Dall’analisi del pensiero del Ranelletti derivano due considerazioni. La prima è che la distinzione tra diritti perfetti e affievoliti esisteva solo nei confronti dell’amministrazione, non dei terzi: tant’è che se un soggetto avesse voluto azionare una pretesa, avrebbe portato i titolari di entrambi davanti al giudice ordinario; se però il titolare del diritto affievolito avesse lamentato una lesione da parte dell’amministrazione, la controversia si sarebbe svolta davanti al giudice amministrativo. In secondo luogo, per Ranelletti e per molti altri dopo di lui, nel complesso l’ordinamento non proteggeva mai in modo pieno ed assoluto le posizioni giuridiche soggettive, ma solo nella misura in cui esse fossero conciliabili con l’interesse generale, indipendentemente dall’origine e dalla consistenza. (18) ID., Principii, op. cit., p. 438. (19) Ibidem, p. 439. CONTENZIOSO NAZIONALE 307 5. Affievolimento e degradazone secondo la dottrina successiva. In seguito il concetto in esame subì una torsione, perché parte della dottrina (20) cominciò ad indicare col termine affievolimento la trasformazione del diritto soggettivo in interesse legittimo per effetto di un provvedimento amministrativo: l’esempio tipico era quello del diritto di proprietà di un terreno, che degradava ad interesse legittimo in seguito all’espropriazione per pubblica utilità. La nozione si discostava da quella del Ranelletti, precedentemente analizzata, che negava che la proprietà potesse appartenere al novero dei diritti affievoliti e che l’espropriazione potesse essere causa di affievolimento. Si profilò, infine, un curioso fenomeno di compressione ed espansione: il diritto soggettivo toccato da un provvedimento si degradava ad interesse legit- (20) Si ricordano, tra i principali autori che accolsero il principio in parola: F. ROVELLI, Sul carattere delle sezioni giurisdizionali del Cons. di Stato, in Riv. dir. pubbl., 1914, I, 225-226; D. DONATI, Principii di diritto amministrativo e scienza dell’amministrazione, Padova, 1929, p. 142 ss.; L. RAGGI, Diritto amministrativo, Padova, 1931, vol. III, p. 198; G. SALEMI, Giustizia amministrativa, Padova, 1931, vol. II; S. ROMANO, Corso di diritto amministrativo, Padova, 1937, pp. 149-150; A. DE VALLES, Elementi di diritto amministrativo, Firenze, 1937, p. 277 ss.; U. FORTI, In tema di diritti “affievoliti”, in Foro It., 1938, III, 4 ss; U. FRAGOLA, Osservazioni sull’affievolimento dei diritti subbiettivi, in Foro Amm., 1938, IV, 13 ss.; M. LATORRE, Nozioni di diritto amministrativo, Roma, 1938, p. 335; R. ALESSI, La responsabilità della pubblica amministrazione, Milano, 1939, vol. I, p. 189 ss.; ID., Sui limiti della competenza del giudice ordinario alla dichiarazione di illegittimità di un atto amministrativo, in Foro Padano, 1949, I, 745; ID., Diritto amministrativo, Milano, 1949, vol. I, p. 437 ss.; G. MIELE, Questioni vecchie e nuove in materia di distinzione del diritto dall’interesse nella giustizia amministrativa, in Foro Amm., 1940, IV, 54 ss.; ID., Princìpi di diritto amministrativo, Pisa, 1945, pp. 80-81; U. BORSI, La giustizia amministrativa, Padova, 1941, p. 51; G. ZANOBINI, Interessi occasionalmente protetti nel diritto privato, in Studi in memoria di Francesco Ferrara, Milano, 1943, vol. II, p. 710; G. DE GENNARO, Diritti affievoliti e interessi legittimi, in Foro Amm., 1943, IV, 13; P. GASPARRI, Lezioni di diritto amministrativo, Milano, 1948, vol. I, p. 186 ss; F. D’ALESSIO, Istituzioni di diritto amministrativo, Torino, 1949, vol. I, p. 213; A. M. SANDULLI, Spunti in tema di indennizzo per atti illegittimi della pubblica amministrazione, in Foro It., 1947, I, 939; ID., Sulla competenza a giudicare delle espropriazioni viziate nella causa, in Diritto e giurisprudenza, 1948, pp. 78-79; ID., Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1952, pp. 45- 46 e 53; G. AZZARITI, La esecuzione dell’atto amministrativo lesivo di diritti in pendenza di giudizio, in Foro It., 1947, IV, 93, nota; C. VITTA, Diritto amministrativo, Torino, 1948 – 1950, vol. I, p. 117, vol. II, p. 91, 712; ID., Competenza giudiziaria su diniego di potere discrezionale, in Atti amministrativi, in Giur. It., 1951, I, 1, 519; E. CASETTA, Illegittimità di atti amministrativi e risarcimento di danni, in Foro Padano, 1949, I, 914; ID., Diritto soggettivo ed interesse legittimo: problemi della loro tutela giurisdizionale, in Riv. trim. dir. pubbl., 1952, p. 646 ss.; M.S. GIANNINI, Lezioni di diritto amministrativo, Milano, 1950, pp. 273, 420-1, 427-9; M.G. PERINI, Giurisdizione ordinaria ed amministrativa in tema di affievolimento di diritti soggettivi, in Foro Padano, 1950, I, 1141; S. LESSONA, In tema di giurisdizione circa i provvedimenti amministrativi che toccano un diritto soggettivo perfetto trasformandolo in diritto affievolito, in Foro It., 1951, I, 109; P. BODDA, Lezioni di diritto amministrativo, Torino, 1947, vol. I, pp. 12-13, 60; ID., La giustizia amministrativa, Torino, 1950, p. 7; G. MATTERA, Recenti orientamenti in tema di atti dispositivi della proprietà privata, in Rass. dir. pubbl., 1951, II, 1, 163; C. RIBOLZI, Diritti ed interessi in tema di concessioni minerarie perpetue, in Foro Padano, 1952, I, 786-7; F. FAVARA, Controllo giurisdizionale sull’affievolimento del diritto, in Nuova Rassegna, 1952, p. 247; U. POTOTSCHNIG, Atti amministrativi e “affievolimento” di diritti soggettivi, in Jus, 1953, pp. 220-247, ora in Scritti scelti, Padova, 1999, p. 39 ss. 308 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 timo, in quanto incompatibile col potere pubblico (21); se però il provvedimento veniva successivamente annullato dal giudice amministrativo perché illegittimo, l’interesse si riespandeva al grado di diritto. Peraltro, il fenomeno comportava – come già indicato dal Ranelletti – lo spostamento di giurisdizione a favore del giudice amministrativo, dato che il criterio discretivo era la causa petendi. La motivazione del costrutto era eminentemente pratica, benché pochi fossero disposti ad ammetterlo (22): l’affievolimento consentiva di spostare la giurisdizione dal giudice ordinario al giudice amministrativo, che a differenza del primo conosceva dell’atto e poteva annullarlo. Raffrontando la teoria dell’affievolimento proposta da Ranelletti con quella successiva, si noti come il primo proponesse il diritto in un’ottica statica: esso era compenetrato all’esercizio del potere pubblico e poteva sussistere solo con riferimento ad alcuni casi specifici. La dottrina posteriore, invece, analizzò il diritto in un’ottica dinamica, come momento di passaggio tra le due situazioni di potere e interesse, e tale passaggio era suscettibile di coinvolgere tutti i diritti soggettivi. Giova chiarire che la degradazione, come recepita dalla giurisprudenza, costituiva una conferma della validità della causa petendi ed aveva l’indubbio vantaggio di offrire una difesa più rapida e concreta, perché aggirava quei limiti tracciati dalla Cassazione nei casi Laurens e Trezza (cfr. supra, § 1). Tuttavia, questo costrutto non consentiva la contemporanea instaurazione di due processi sul medesimo episodio davanti a due giurisdizioni diverse, come conferma la moderna dottrina (23): poiché il diritto si era affievolito, infatti, spettava solo al giudice amministrativo conoscere della controversia; il giudice ordinario poteva intervenire eventualmente dopo, per conoscere del risarcimento dei danni, mai contemporaneamente. Al centro del sistema, creatosi a partire agli anni ‘20 per aggiustamenti successivi, stava l’imperatività dell’atto amministrativo, quale corollario dell’esercizio del potere: il provvedimento in quanto esistente risultava sempre efficace, ancorché invalido, come indicato da Giannini nella modalità dell’equiparazione. Emerge con chiarezza, oggi, come la dottrina raramente fosse univoca nel definire cosa fosse questo diritto affievolito: alcuni ritenevano che «di fronte al provvedimento amministrativo efficace tutti i diritti soggettivi si degradano ad interessi protetti» (24) e che i diritti affievoliti non sussistessero quale categoria giuridica autonoma (25); altri rispondevano negando risolutamente la possibilità di estendere la degradazione a tutti i diritti, e affermando invece che i diritti affievoliti costituissero un genus a sé stante (26). (21) Cfr. G. ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, Milano, 1947, vol. I, V ed., pp. 145-146; A.M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, cit., pp. 46 e 53. (22) Tra questi, L. MORTARA, La giurisdizione ordinaria e la giurisdizione amministrativa per il sindacato di legittimità degli atti amministrativi, in Riv. Dir. Pubbl., 1930, I, p. 402. (23) E. CANNADA BARTOLI, voce Giustizia amministrativa, in Digesto delle Discipline Pubblicistiche, vol. VII, Torino, 1991, p. 539. CONTENZIOSO NAZIONALE 309 Addirittura, a metà del secolo scorso – quindi in un periodo più recente – Potoschnig giunse a teorizzare, a fianco delle tradizionali categorie di diritto soggettivo e interesse legittimo, quella di diritto affievolito come species dei diritti soggettivi speciali (27) assieme ad altri diritti: quali essi fossero non è dato capirlo, dal momento che egli non li illustrava. Fermandosi alla semplice definizione, parte della dottrina (28) distingueva tra affievolimento del diritto e diritto affievolito, intendendo il primo (oggetto del presente paragrafo) come diritto toccato dal provvedimento e degradato ad interesse legittimo, ed il secondo (v. supra, § 3) quale diritto compenetrato all’interesse pubblico e suscettibile di nuovo assetto. Tuttavia, le due figure si accumunavano nel risultato: radicare la competenza del giudice amministrativo. Anche il contenuto della situazione giuridica affievolita era discusso: per Tosato (29), infatti, usualmente l’interesse protetto ineriva al regolare esercizio del potere amministrativo nel caso concreto; Miele ed altri ritenevano invece che l’affievolimento fosse un processo senza soluzione di continuità, in cui oggetto dell’interesse dopo la degradazione era quella stessa situazione giuridica sostanziale, già sussistente nel diritto soggettivo (30). Ancora, altra dottrina (31) notava come il sostrato dell’interesse e quello del diritto fossero diversi: il primo era finalizzato a mantenere la titolarità del diritto in capo al soggetto, mentre il diritto invece riguardava il bene oggetto del provvedimento stesso. E ancora, l’affievolimento dei diritti soggettivi fu valorizzato dalla giurisprudenza perché offriva una risposta pratica e (relativamente) semplice al titolare di diritti dominicali lesi dal provvedimento amministrativo, ma parte della dottrina (32) affermò che proprio in ciò stava l’errore, in quanto si badava più all’effetto processuale – con spostamento della giurisdizione – che alla situa- (24) M.S. GIANNINI, Lezioni, op. cit., p. 420, corsivo presente nel testo. Dello stesso avviso, ex multis, A. M. SANDULLI: «Qualsiasi diritto soggettivo, anche se di natura patrimoniale, tutte le volte che comunque su di esso possa intervenire una pubblica potestà, a meno che l’esercizio di questa non appaia disciplinato in stretta ed esclusiva funzione dell’interesse individuale, degrada […] a interesse legittimo», Sulla competenza a giudicare del mancato riconoscimento da parte dei comuni delle obbligazioni contratte sotto regime repubblicano fascista, in Foro It., 1949, I, 34. (25) Si fa riferimento a E. GARBAGNATI, La giurisdizione amministrativa: concetto ed oggetto, Milano, 1950, pp. 48-49. (26) Ex multis, v. A. AMORTH, Figura giuridica e contenuto del diritto soggettivo affievolito, in Studi giuridici in onore di Santi Romano, vol. II, p. 214 ss. (27) U. POTOTSCHNIG, Atti amministrativi e “affievolimento” di diritti soggettivi, in Jus, 1953, pp. 220-247, ora in Scritti scelti, Padova, 1999, p. 51. (28) Cfr. C. VITTA, Diritto amministrativo, cit., vol. I, p. 117; E. CASETTA, Illegittimità di atti amministrativi e risarcimento di danni, loc. cit., p. 914; G. DE GENNARO, Diritti affievoliti e interessi legittimi, loc. cit., p. 19; P. BODDA, Lezioni di diritto amministrativo, cit., vol. I, pp. 12-13. (29) E. TOSATO, L’impugnativa dei decreti reali di annullamento, in Arch. dir. pubbl., 1937, p. 45 ss. (30) Cfr. in tal senso G. MIELE, Questioni vecchie e nuove, loc. cit., p. 57; R. ALESSI, La responsabilità della pubblica amministrazione, op. cit., vol. I, p. 191. (31) E. CASETTA, Diritto soggettivo ed interesse legittimo, loc. cit., p. 647 (32) U. POTOTSCHNIG, op. cit., pp. 43 e 45. 310 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 zione giuridica sostanziale che si determinava nel titolare del diritto vulnerato dall’amministrazione. Il già citato Pototschnig, al riguardo, argomentava che «lo spostamento di giurisprudenza è dovuto al fatto che ogni diritto affievolito viene fatto valere nei confronti della pubblica amministrazione e si risolve pertanto in una pretesa ad un dato comportamento dell’amministrazione. Ove questo comportamento consista […] in un facere […] la tutela del diritto soggettivo rimane sottratta al giudice ordinario e riservata invece al giudice amministrativo, poiché soltanto quest’ultimo è competente a valutare quell’interesse pubblico in ordine al quale l’attività amministrativa viene esercitata» (33). Quanto alla fonte dell’affievolimento, si registrò uno scontro – pur tardo rispetto al periodo in esame – fra la stragrande maggioranza degli studiosi, che vedeva la fonte del fenomeno nel provvedimento dotato di imperatività, e chi (34) scorgeva la causa nell’attribuzione di legge all’amministrazione del potere di modificare la situazione soggettiva del privato. Qui si potrebbe rispondere che entrambe le teorie erano nel giusto, pur da punti di vista diversi: in astratto è la legge ad essere fondamento di qualsiasi potere pubblico, ma in concreto è il provvedimento amministrativo a causare l’affievolimento da diritto soggettivo a interesse. Ponendo mente all’analisi compiuta da Aristotele (35), la legge sarebbe stata dunque causa formale dell’affievolimento, in quanto ne costituiva essenza e presupposto; l’atto amministrativo invece avrebbe costituito la causa efficiente, determinandone operativamente la degradazione. Oltretutto, attribuire la degradazione sic et simpliciter alla legge avrebbe causato un notevolissimo vuoto di tutela per il cittadino ingiustamente leso in un proprio diritto: che cosa avrebbe potuto fare contro l’atto? Da ultimo, non era chiaro come avvenisse il procedimento di degradazione: alcuni (36) affermavano che il diritto soggettivo restasse quiescente sotto le spoglie dell’interesse legittimo, secondo altri (37) invece semplicemente l’atto amministrativo estingueva tout court il diritto. In pratica, tre soli erano i punti fermi in dottrina. Il primo era che «il diritto soggettivo, da qualunque fonte sorga, qualunque figura abbia, non può mai considerarsi come assolutamente inalterabile di fronte all’interesse pubblico» (38); il secondo era che per degradare il diritto, l’atto doveva esser semplicemente efficace e non necessariamente valido, in virtù dell’imperatività; il terzo (33) Ibidem. (34) A. ROMANO, Giurisdizione amministrativa e limiti della giurisdizione ordinaria, Milano, 1975, p. 223 ss. (35) ARISTOTELE, Fisica, I, 1, 184 a, 10. (36) P. GARBAGNATI, La giurisdizione amministrativa, cit., p. 48; G. ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, cit., vol. I, V ed., pp. 145-6 e 204; vol. IV, III ed., pp. 179 e 181. (37) Cfr. P. GASPARRI, Lezioni di diritto amministrativo, cit., vol. I, p. 187; G. GUARINO, Potere giuridico e diritto soggettivo, in Rass. dir. pubbl., 1949, p. 72; G. DE GENNARO, Diritti affievoliti e interessi legittimi, loc. cit., p. 22. (38) Così U. POTOTSHCNIG, op. cit., p. 49. CONTENZIOSO NAZIONALE 311 invece riguardava i limiti al riparto di giurisdizione. Se infatti la controversia si incentrava sull’esercizio di un potere discrezionale, essa spettava al giudice amministrativo; se invece si discuteva di poteri dell’amministrazione a carattere vincolato in base alla legge, la cognizione spettava al giudice ordinario in quanto l’atto di impero pubblico non era idoneo ad affievolire il diritto del singolo: e anzi, il diritto soggettivo risultava protetto direttamente dalla norma. Per incidens, alla luce della prima delle suddette affermazioni, si noti come la posizione del singolo fosse tenuta in minimo conto, allora, rispetto a quella della pubblica amministrazione. 6. Una lettura crticia della degradazione. Esporre una teoria o meglio, una serie di teorie sullo stesso argomento, non significa accettarle acriticamente: la teoria della degradazione presenta infatti numerosi punti deboli, sia a livello teorico che pratico. Innanzitutto, occorre dire che il comportamento della pubblica amministrazione è sempre lo stesso, sia in caso di espropriazione (procedimento ablatorio) sia in caso di autorizzazione (provvedimento concessorio): si tratta comunque di un’azione basata su un modulo procedimentale, con una sequela più o meno lunga di atti e/o fatti finalizzati al raggiungimento di uno scopo, che è il provvedimento amministrativo. Ora, la pubblica amministrazione nella sua attività si relaziona con soggetti terzi, con un’ovvia precisazione: costoro godono liberamente della capacità giuridica e d’agire (cfr. artt. 1 e 2 c.c.), mentre l’amministrazione agisce in virtù del potere conferito dalla legge e comunque nei limiti della legge stessa. Il nocciolo della vicenda è tutto qui, concentrato nella nozione di potere, che – com’è noto – corrisponde a quella capacità speciale di porre in essere una pluralità indefinita di rapporti, mediante l’adozione degli atti previsti dalla norma attributiva del potere, ogni volta che se ne presentano i presupposti (39). Come notava Romano (40), il potere non si traduce in un rapporto, ma sovrasta a singoli rapporti, ed è la fonte da cui i singoli rapporti scaturiscono. Proprio la norma attributiva è il parametro in base al quale analizzare la legittimità del potere e i suoi effetti nei confronti dei terzi. Ebbene, a fronte dell’esercizio del potere, la situazione soggettiva del privato è trattata sempre allo stesso modo dall’amministrazione, senza differenze tra diritto e interesse, perché è la norma stessa a non fare differenze: in altre parole, l’agire dell’amministrazione è regolato e limitato dalla legge, e deve tener conto degli inte- (39) Così V. CERULLI IRELLI, Il potere amministrativo e l’assetto costituzionale delle funzioni di governo, op. cit. Per un’analisi critica complessiva della nozione di potere, non può non citarsi B.G. MATTARELLA, Potere amministrativo, in Dizionario di Diritto Pubblico, Milano, 2006, vol. V, 4396, diretto da S. CASSESE. (40) S. ROMANO, Poteri, potestà, in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1947, 172. 312 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 ressi in gioco indipendentemente dalle species di situazioni soggettive che le si pongono innanzi. Non si vede per quale motivo, pertanto, il potere pubblico possa essere idoneo a provocare una trasformazione delle posizioni dei terzi, anche ammettendo che l’atto amministrativo sia imperativo. Se infatti l’imperatività è l’attitudine a produrre effetti che incidono sulla sfera giuridica dei soggetti senza che il loro consenso sia rilevante, da ciò non deriva in alcun modo che l’amministrazione possa trasformare le situazioni giuridiche soggettive altrui. Anche se analizziamo la teoria da un’altra prospettiva, la conclusione comunque non cambia: di fronte all’esercizio del potere – finalizzato alla cura concreta degli interessi collettivi – è necessario che tutte le altre posizioni giuridiche siano trattate allo stesso modo, in quanto l’amministrazione è e deve essere sempre imparziale. E si badi che il principio d’imparzialità dell’agire amministrativo è sancito positivamente dall’art. 97 della Costituzione, ma era pacificamente accettato da tutti ben prima. Concentrandosi poi sul passaggio da diritto soggettivo a interesse legittimo, è teoreticamente sbagliato pensare ad un’unica vicenda senza soluzione di continuità. Per averne una dimostrazione, si prenda l’esempio dell’espropriazione per pubblica utilità, dove ci sono due vicende distinte, quella del diritto e quella dell’interesse. Il primo è estinto dal provvedimento amministrativo di esproprio, non in virtù della superiorità dello Stato o di altri (evanescenti) presupposti teorici, bensì per espressa attribuzione di legge all’organo procedente: è appena il caso di rammentare il principio di legalità, in base al quale il potere pubblico può fare solo ciò che gli è espressamente conferito. Pertanto, ad un potere previsto ex lege (quello di espropriare al verificarsi di specifici presupposti) corrisponde una soggezione anch’essa prevista ex lege (l’estinzione del diritto di proprietà). Dall’altra parte, fin dal provvedimento di dichiarazione di pubblica utilità – e quindi in un momento anteriore rispetto all’estinzione del diritto – è sorto l’interesse legittimo del proprietario: un interesse oppositivo, che non ha ad oggetto il diritto soggettivo ma direttamente l’interesse alla conservazione del bene della vita che il procedimento ablatorio vorrebbe togliergli (41). Come si vede, si tratta di due situazioni soggettive separate, peraltro temporalmente non coincidenti, ché dal momento della dichiarazione e fino all’espropriazione il soggetto è titolare contemporaneamente di un diritto soggettivo e di un interesse legittimo. E infatti, a riprova della correttezza del costrutto qui esposto, già al momento della dichiarazione di pubblica utilità il proprietario del terreno può far valere il proprio interesse legittimo in due modi: davanti all’amministrazione, partecipando al procedimento; davanti al (41) Cfr. M.S. GIANNINI, Discorso generale, op. cit., p. 39. CONTENZIOSO NAZIONALE 313 giudice amministrativo, con regolare ricorso. È vero che sono escluse le azioni previste dal codice civile a difesa della proprietà, ma queste esclusioni sono previste in nuce dal codice civile stesso (art. 834, co. 2 c.c.). Qualora poi il giudice amministrativo riconosca come illegittimo il provvedimento di esproprio, l’atto è annullato con efficacia ex tunc, come se non fosse mai stato posto in essere. In altri termini, grazie all’efficacia retroattiva dell’annullamento l’atto non ha mai inciso sul diritto di proprietà, che quindi continua a sussistere: non si verifica nessun affievolimento o nessuna degradazione prima, nessuna resurrezione o riespansione dopo (42). Forse un semplice paragone di diritto civile può rendere meglio le idee. Se il datore di lavoro licenzia il lavoratore, il diritto di quest’ultimo è estinto; ma se il lavoratore ricorre al giudice, e questi accerta l’illegittimità dell’atto, la sentenza di annullamento ha efficacia ex tunc e quindi il diritto del lavoratore è come se non fosse mai stato inciso. Anche qui, il potere di licenziamento del lavoratore è attribuito al datore di lavoro non già da costrutti teoretici, ma da espresse previsioni di legge: di nuovo, ad una facoltà legislativamente prevista corrisponde una soggezione anch’essa legislativamente prevista (43). Se questo secondo esempio appare lineare, perché bisogna complicare la situazione nel primo esempio, oltretutto attribuendo privilegi che in un moderno Stato costituzionale appaiono inaccettabili? Il rapporto tra diritto e interesse, lo si ribadisce, non è quello di un flusso unico: sono situazioni giuridiche disgiunte, che possono coesistere (ed infatti per un certo periodo coesistono) con fonti e contenuto diversi; per restare all’esempio fatto, l’interesse legittimo inerisce solamente alla vicenda espropriativa, il diritto soggettivo rileva ad ogni altro effetto. Per altro verso, il passaggio diritto – interesse senza interruzione urta contro una delle principali obiezioni sollevate dalla Cassazione nei casi Laurens e Trezza, e cioè che diritto e interesse sono due situazioni sostanzialmente differenti: se questo è vero, come si fa ad affermare la degradazione dall’uno all’altra come un semplice “scivolamento”? Non si vuole criticare qui la validità del costrutto processuale dell’affievolimento perché, lo si è ripetuto, esso offriva una tutela poziore ai portatori di diritti dominicali lesi dal provvedimento amministrativo. Ci si limita a no- (42) Dello stesso avviso anche M.S. GIANNINI – A. PIRAS, Giurisdizione amministrativa, op. cit., pp. 280-281: «il diritto […] non si affievolisce né degrada, ma solo scompare. Al giudice amministrativo non si chiede di tutelare il diritto, ma l’interesse legittimo, che è sorto con l’inizio del procedimento amministrativo. Se il giudice amministrativo annullerà il provvedimento, il diritto si considererà come non estinto, ma ciò non perché nel frattempo abbia seguitato ad esistere per procura legale affidata al quel sottosviluppato d’interesse legittimo, o allo stato di fiume carsico, o affievolito ad onda sonora a frequenza impercettibile: solo perché è questo il normale effetto ripristinatorio dell’annullamento». (43) Si tratta delle cosiddette «autorità private», come illustrato da C.M. BIANCA in Le autorità private, Napoli, 1977, part. p. 92 ss. 314 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 tare che l’interpretazione offerta dai teorici della degradazione era contra legem, sia a livello letterale che a livello ermeneutico: l’art. 2 della legge abolitrice del contenzioso attribuì esplicitamente alla giurisdizione ordinaria tutte le controversie su diritti civili o politici, «comunque vi possa essere interessata la pubblica amministrazione, e ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell’Autorità amministrativa». La ratio della norma era chiara: apprestare una tutela giudiziale per i diritti toccati da un provvedimento, con gli strumenti offerti dal codice civile e da quello di procedura civile, a prescindere dalla presenza o meno della pubblica amministrazione, e indipendentemente dal titolo in base al quale essa fosse coinvolta; l’evoluzione fu in senso totalmente opposto (44). L’errore, a parere di chi scrive, è stato quello di traslare una vicenda puramente processuale su un piano di diritto sostanziale, che ha finito con l’avere portata generale. La dimostrazione sta nelle parole di chi, a metà del XX secolo, parlava dell’affievolimento come di un «istituto fondamentale del nostro ordinamento positivo» o di «una verità feconda di insegnamenti» (45) e di chi qualche anno più tardi ne scrisse come di una situazione di «grande importanza sul piano delle classificazioni concettuali» (46). Oltretutto, il vocabolario utilizzato per descrivere il fenomeno è impreciso (47); per presentare una spiegazione comprensibile, i sostenitori della degradazione come fenomeno di diritto sostanziale sono stati costretti a parlare di affievolimento, di compressione o di riespansione: termini più adatti all’acustica o alla meccanica che al diritto amministrativo, si direbbe. In tempi recenti la degradazione è stata definita una vicenda «spuria ed inutile» (48): spuria perché il provvedimento può modificare o estinguere il diritto soggettivo ma certo non trasformarlo in una situazione sostanzialmente diversa; inutile perché il riparto di giurisdizione non presuppone l’affievolimento. «In definitiva il diritto affievolito non esiste: esso è la confusione in una unica (mostruosa) situazione soggettiva di due diverse situazioni contemporaneamente spettanti ad un solo titolare» (49). Ma v’è di più. L’esigenza (inutile) di un costrutto sostanziale ha portato (44) Cfr. in tal senso V. CERULLI IRELLI, Il problema del riparto delle giurisdizioni: premesse allo studio del sistema vigente, Pescara, 1979, p. 78 e V. ANDRIOLI, Bilancio della l. 20 marzo 1865 n. 2248, all. E, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1965, p. 1625: secondo quest’ultimo autore nel sistema della legge abolitrice del contenzioso amministrativo, così come esso era stato originariamente delineato, l’atto amministrativo, anche il più esecutorio, non avrebbe degradato il diritto soggettivo del privato. (45) C. RIBOLZI, Diritti e interessi, loc. cit., pp. 786-788. (46) A. ROMANO, Giurisdizione amministrativa, op. cit., p. 217. (47) Secondo M.S. GIANNINI, in Discorso generale, p. 532, il termine è addirittura «ridicolo»: l’opinione dello scrivente (per quel che vale) non si discosta da quella del Maestro. (48) F.G. SCOCA, voce Interessi protetti (dir. amm.), in Enciclopedia Giuridica Treccani, Roma, 1990, vol. XVII, p. 8. (49) Ibid. CONTENZIOSO NAZIONALE 315 infine alla moltiplicazione delle figure soggettive: diritti soggettivi, interessi legittimi, interessi occasionalmente protetti, diritti affievoliti, affievolimento di diritti, addirittura i già citati diritti soggettivi speciali; in questo marasma, risulta non poco ostico al lettore distinguere quali siano i genera e quali le species. La tesi della degradazione appare discutibile anche alla luce dell’attribuzione al giudice amministrativo della giurisdizione esclusiva: per quale motivo quei diritti tassativamente indicati dalla legge non sarebbero suscettibili di degradazione? La risposta è sempre la stessa, che la teoria era nata per affidare alcune questioni ad un giudice, quello amministrativo, con poteri più efficaci a tutela delle posizioni del singolo, e alla base c’era una fictio iuris. Un altro importante argomento contrario alla tesi si rinviene nella Costituzione: l’art. 113 prevede esplicitamente che «contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti», oltreché degli interessi legittimi. Riconoscere l’esistenza dei primi accanto ai secondi significa escludere in radice qualsiasi configurabilità della dottrina in questione, la quale «aggiunge all’imperatività alcuni caratteri che non ne derivano logicamente» (50). Le perplessità sulla teoria della degradazione sono dovute non solo a quanto è stato detto o scritto, ma anche ai presupposti teoretici: è contestabile l’idea che non esista il diritto dell’individuo in sé e per sé, ma solo nella misura consentita dallo Stato. Quest’idea presuppone che in tanto il diritto esista in quanto vi dia riconoscimento lo Stato, che negli scritti del periodo in esame appare come l’entità impersonale, astratta ed autoritaria par excellence: e se lo Stato non vi dà riconoscimento, tanto peggio per le persone. Si dirà che quest’osservazione è poco pertinente, ai fini del presente saggio: e tuttavia la teoria della degradazione è espressiva di un certo Zeitgeist europeo di matrice hegeliana, secondo il quale i diritti necessitavano della difesa – o quantomeno della “non offesa” – dello Stato per esistere. Non a caso, il nostro Paese in età crispina fu fortemente influenzato dal modello di derivazione tedesca, dove lo Stato era configurato come il perno dell’assetto costituzionale, e la libertà era degradata a riflesso o a risultante dei limiti opposti ai poteri pubblici dall’ordinamento (51). 7. La degradazione secondo la giurisprudenza: 1910 - 1930. Ora che si tratta di studiare quali concrete risposte diede la giurisprudenza tra il 1910 e il 1949, conviene fare una premessa: solo verso la fine degli anni (50) E. CANNADA BARTOLI, La tutela, op. cit., p. 76. (51) Cfr. G. AMATO, Libertà (diritto costituzionale), in Enciclopedia del diritto, vol. XXIV, Milano, 1974, p. 274 ss.; ID., Individuo e autorità nella disciplina della libertà personale, Milano, 1967. Per un’analisi comparatistica di ampio respiro sull’evoluzione della nozione di diritto soggettivo in ambito europeo e non, si suggerisce la lettura di P. RIDOLA, Diritti fondamentali – un’introduzione, Torino, 2006, specialmente p. 76 ss. 316 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 ‘30 si cominciò a parlare di «diritto affievolito», mentre il termine «degradazione » sarebbe arrivato quasi vent’anni dopo (52). Entrambe le espressioni, insomma, risultarono a lungo di rarissimo uso: e tuttavia i concetti sottostanti apparivano in maniera ricorrente, come si avrà modo di segnalare. In una prima fase, a partire dal 1910, la Cassazione si attenne alla propria giurisprudenza in materia di riparto, consolidatasi a partire dai casi Laurens e Trezza. L’affermazione che il discrimine fra le due giurisdizioni consistesse nella causa petendi costituì un leit-motiv costante fino al 1916: «il magistrato non deve limitarsi a considerare la qualità dei contendenti e l’obbietto ultimo della domanda, ma deve questa confrontare colla causa del domandare per vedere se i fatti posti alla base costituiscano l’ipotesi di un diritto, e meglio, se il vantaggio preteso, più che la manifestazione di un interesse sia la materiale espressione di un diritto» (53). Nella sentenza appena citata in particolare, si notano alcuni punti di contatto col caso Trezza: si trattava di una controversia tra Stato e provincia di Reggio Calabria per il rifacimento di una strada, e la Corte affermò che «obietto della domanda della Provincia è in apparenza una domanda di rifusione di danni per poter essere in grado di adempiere ai suoi obblighi di manutenzione […] ma in realtà essa vorrebbe che l’autorità giudiziaria esaminasse il modo col quale lo Stato ha adempiuto il suo dovere di amministrare». Un criterio ausiliario parve profilarsi in una sentenza della Cassazione, che si pronunciò sul ricorso promosso contro le Ferrovie dello Stato da alcuni dipendenti (54). In seguito al terremoto di Messina del 1908, il r.d. 7 febbraio 1909 accordava un’indennità ai dipendenti pubblici residenti nei comuni indicati dal decreto stesso; successivamente, il consiglio di amministrazione delle Ferrovie deliberava un’indennità aggiuntiva ai propri dipendenti che risiedessero nei comuni compresi in un elenco, diverso da quello contenuto nel regio decreto citato. Alcuni impiegati dell’ente, inclusi nella prima ma non nella seconda lista, convennero Ferrovie e ministero dei Lavori Pubblici davanti al tribunale ordinario, ma il prefetto di Catanzaro sollevò conflitto di attribuzione, e davanti alla Cassazione l’Avvocatura Erariale sostenne che – in base alla causa petendi – l’azione degli impiegati tendesse a far annullare la deliberazione del consiglio d’amministrazione delle Ferrovie. La risposta delle Sezioni Unite fu favorevole agli «agenti ferroviari» e confermò la giurisdizione ordinaria: si riconobbe un diritto al pagamento «che (52) Dello stesso avviso, A. AMORTH, Figura giuridica, op. cit., p. 210, secondo il quale «la giurisprudenza che ha seguito assai poco le orme della dottrina, usa raramente la stessa locuzione di diritto subiettivo affievolito». (53) Cass. Roma, S.U., 28 maggio 1910, Pagano pres., Setti est., Quarta P.M., ministero dei Lavori Pubblici ric., in Giur. It., 1910, I, 1, 693. Cfr. anche Cass. Roma, S.U., 12 giugno 1911, in Giur. It., 1911, I, 1, 760; Cass. Roma, S.U., 28 giugno 1911, in Giur. It., 1911, I, 1, 1225. (54) Cass. Roma, S.U., 17 gennaio 1911, Pagano pres., Mosca est., Tofano P.M., Palmieri ed altri ric., in Giur. It., 1911, I, 1, 180. CONTENZIOSO NAZIONALE 317 la pubblica amministrazione, per legge […], avrebbe dovuto imprescindibilmente eseguire, senza alcuna facoltà discrezionale sul tempo o sul modo dell’esecuzione; […] prima di questi decreti poteva parlarsi della facoltà discrezionale di concedere o no l’indennità, ma dopo di essi la pubblica amministrazione ha assunto il vinculum iuris di corrisponderla agli impiegati che si trovino in quelle condizioni». Nacque così un’importante regola a sostegno della causa petendi, costantemente ribadita dal giudice della giurisdizione: laddove si discutesse di potere discrezionale, ci si trovava davanti ad un interesse con relativa competenza della giurisdizione amministrativa; dove invece vi fosse un potere vincolato in base alla legge, si discuteva di diritti e quindi la competenza era della giurisdizione ordinaria. A maggior ragione la giurisdizione ordinaria valeva nel caso in cui la pubblica amministrazione operasse nell’esercizio del suo diritto di proprietà o di altro diritto civile (55). In questi casi non poteva esserci affievolimento del diritto soggettivo, perché la pubblica amministrazione agiva secondo rigidi criteri di legge, senza discrezionalità, e senza quindi facoltà di degradare il diritto ad interesse. Come annotò successivamente Mortara (56), «se l’esistenza di un diritto privato è il presupposto necessario e logico della norma giuridica che autorizza l’amministrazione all’esercizio di poteri discrezionali sul patrimonio del cittadino, la disputa sulla legittimità dell’atto o provvedimento con cui siasi attuato quel potere non esorbita dalla sfera delle attribuzioni giurisdizionali del consiglio di Stato. Invece, se per stabilire la legittimità dell’atto o provvedimento amministrativo è necessario un giudizio che metta a capo a negare l’esistenza di quel diritto privato, da cui sarebbe stato impedito o arrestato l’esercizio del potere discrezionale, l’oggetto sostanziale della controversia è il diritto privato, che da una parte si afferma e dall’altra si nega. Perciò a rendere competente il consiglio di Stato non basta che il ricorrente abbia chiesto l’annullamento o la revoca del provvedimento amministrativo». Un parziale superamento della distinzione tra atti d’impero ed atti di gestione si ebbe nel 1914, col caso Queto (57). Il Queto venne espulso dal territorio del Regno ex art. 90 della legge di pubblica sicurezza, perché ritenuto straniero; tornato in Italia, dimostrò in giudizio penale la propria cittadinanza (55) Cfr. Cass. Roma, S.U., 12 novembre 1912, in Giur. It., 1913, I, 1, 130: in questo caso la Corte giunse ad ammettere l’azione possessoria contro la p.a. proprio dato che essa operava iure privatorum, mentre «la norma che si può dir generale in materia di azione possessoria […] è che non siano ammissibili contro l’esecuzione di veri atti amministrativi». V. anche Cass. Roma, S.U., 7 marzo 1914, in Giur. It., 1914, I, 1, 391; Cass. Roma, S.U., 15 dicembre 1921, in Giur. It., 1922, I, 1, 101. (56) L. MORTARA, La giurisdizione ordinaria, op. cit., p. 403. (57) Cass. Roma, S.U., Quarta pres., Lomonaco est., De Notaristefani P.M., ministero dell’Interno ric., 24 febbraio 1914, in Giur. It., 1914, I, 1, 697. Cfr. anche Cass. Roma, 9 febbraio 1915, in Giur. It., 1915, I, 1, 245 con cui cominciò a superarsi la distinzione tra atti iure gestionis e atti iure imperii. 318 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 italiana, e in un successivo giudizio civile chiese e ottenne dal ministero dell’Interno il risarcimento dei danni. La sentenza fu confermata in appello, ma il ministero ricorse in Cassazione perché «trattandosi di atto eminentemente d’impero e di carattere politico, da esso non potevano derivare conseguenze di danni patrimoniali risarcibili». La Cassazione rigettò il ricorso confermando la sentenza di appello, in quanto ritenne che il sindacato giudiziario dovesse sempre esser ammesso quando l’operato amministrativo inerisse ad un diritto soggettivo, soprattutto quando si trattasse di un vero e proprio diritto come quello di cittadinanza. Nel ragionamento le Sezioni Unite ripresero la distinzione tra agire discrezionale e vincolato, per poi concludere «che il potere discrezionale può esercitarsi contro un interesse, non già contro un vero e proprio diritto». In una seconda fase ci fu un mutamento del criterio di discrimine tra le due giurisdizioni: la rivoluzione arrivò nel marzo 1916, con una sentenza con cui la Cassazione accolse il criterio del petitum ed ammise che «può esser fatto valere un diritto subbiettivo nella qualità di interesse legittimo» (58). La fattispecie era la seguente: il tenente colonnello cav. De Dominicis non era stato promosso nel 1913 per mancanza di posti disponibili; l’anno seguente non venne iscritto nel quadro in base alla decisione della commissione di primo grado, e alla fine dello stesso anno fu escluso definitivamente. Si noti come nel caso concreto non fosse facilmente identificabile la natura giuridica fatta valere dal ricorrente: interesse legittimo, quale stato di soggezione davanti all’autorità (per di più militare)? O piuttosto diritto nascente da un rapporto d’impiego? Il tenente colonnello comunque impugnò i provvedimenti davanti alla Quarta Sezione per eccesso di potere e violazione di legge, ma il Consiglio di Stato respinse il ricorso ritenendo legittimi gli atti. L’ufficiale tentò quindi il ricorso in Cassazione per eccesso di potere e soprattutto per incompetenza del giudice amministrativo, denunciando la violazione dell’art. 2 della legge sul contenzioso. Nella sentenza, le Sezioni Unite espunsero il primo motivo concentrandosi solo sull’incompetenza, salvo poi prescindere totalmente dalla situazione giuridica affermata. La premessa, molto rispettosa della giurisprudenza precedente, era infatti che «pel combinato disposto degli articoli 2 e 4 della legge sul contenzioso amministrativo l’autorità giudiziaria è bensì competente a conoscere degli effetti dell’atto amministrativo ma non può revocare o modificare l’atto stesso»: dopo però il ragionamento proseguì in maniera difforme dalle premesse, «dovendo la competenza determinarsi in base all’oggetto della domanda, al petitum». Di conseguenza, stabilire se il De Dominicis fosse titolare di un interesse o di un diritto era davvero ininfluente, perché «l’autorità (58) Cass. Roma, S.U., Mortara pres., Bonelli est., Martino P.M., De Dominicis ric., 24 marzo 1916, in Giur. It., 1916, I, 1, 580; in Foro It., 1917, I, 11 con nota di F. D’ALESSIO che appunto parlava di «rivoluzione». CONTENZIOSO NAZIONALE 319 del magistrato amministrativo adito per giudicare della legittimità del provvedimento ai fini della revoca di esso si esplica in un campo diverso da quello riservato all’autorità giudiziaria ordinaria». È vero che il criterio del petitum era incompatibile con quella della degradazione, essendo quest’ultima basata sulla causa petendi: ciò non toglie, tuttavia, che le teorie del Ranelletti relative all’affievolimento fossero penetrate più o meno consapevolmente nella giurisprudenza della Cassazione. Comunque, giova evidenziare come il petitum consentisse al giudice amministrativo di conoscer dei diritti, realizzando per altro verso quella stessa piena tutela per il soggetto leso, a cui mirava la teoria della degradazione: sicché nel fine ultimo il criterio del petitum e la degradazione combaciavano. A riprova, si veda la sentenza del 14 novembre 1917, a proposito di diritto di derivazione delle acque pubbliche per lungo possesso: la Cassazione (59) affermava che esso non fosse simile al dominio privato, ma ad una concessione di godimento di bene demaniale, «che ottiene tutela giuridica subordinata a quella che esige l’interesse generale. E la pubblica amministrazione, per assicurare la destinazione delle acque al prevalente interesse pubblico, può disciplinare il godimento del privato e restringerne l’estensione». Si cominciò a parlare di diritti talmente compenetrati con l’interesse pubblico da essere suscettibili di una compressione, di un affievolimento: proprio come affermato dal Ranelletti. Un altro esempio fu la sentenza del 9 febbraio 1918 (60): si trattava di una concessione amministrativa e del relativo contratto tra un Comune e il concessionario. Tra la prima e il secondo, secondo le Sezioni Unite, era assolutamente prevalente la concessione, che dava vita al contratto e ne costituiva il presupposto, mentre il sinallagma contrattuale aveva solamente una «funzione accessoria e complementare, sebbene necessaria»; ne conseguiva che il Comune conservasse una situazione di predominio, caratterizzata da poteri di regolamentazione, di sorveglianza e disposizione del servizio pubblico: «il potere dell’amministrazione […] è potere giuridico di comando e di sanzione, che ha una sfera di legittimo esercizio autonomo […] con la facoltà […] di revocare la concessione amministrativa per atto di autorità». In particolare, la revoca poteva avvenire per gravi inadempimenti, e qui ci si muoveva nel diritto privato; ma anche per motivi di ordine ed interesse pubblico. Peraltro, la Cassazione stabilì anche il principio per cui l’eccezione inadimplenti non est adimplendum non potesse esser sollevata dal privato contro il Comune, in quanto non poteva inerire ad un rapporto in cui era preponderante l’elemento pubblicistico. (59) Cass. Roma, S.U., 14 novembre 1917, Mortara pres., Faggella est., Nonis P.M., Demanio ric., in Giur. It., 1918, I, 1, 183. (60) Cass. Roma, S.U., 9 febbraio 1918, Mortara pres., De Luca Ermindo est., De Feo P.M., Giaccaglia ric., in Giur. It., 1918, I, 1, 162. Cfr. anche Cons. St., IV, 22 febbraio 1918, in Giur. It., 1918, III, 90; Cons. St., IV, 19 dicembre 1919, in Giur. It., 1920, III, 64; Cons. St., IV, 30 aprile 1920, in Giur. It., 1920, III, 178. 320 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 Ecco allora riaffiorare il principio che, dove vi fosse il potere pubblico, il diritto non ci potesse essere o comunque non potesse mantenere la propria pienezza; che le eccezioni di diritto civile non erano valide sempre e comunque davanti allo Stato; che il diritto del singolo potesse esser condizionato nella sua esistenza dal pubblico potere: proprio come esposto dal Ranelletti. Come si vede, anche sotto il regno del petitum i principi sottostanti alla teoria della degradazione e dell’affievolimento non erano sconosciuti alla Suprema Corte, che così colmava i vuoti di tutela giurisdizionale lasciati dal legislatore. Ancora, a conferma del petitum ci fu la sentenza delle Sezioni Unite del 10 luglio 1926 (61) tra la Società nazionale ferrovie e tramvie e il ministero dei Lavori Pubblici: questa pronuncia riveste particolare importanza, perché affronta tutti i temi connessi alla degradazione del diritto soggettivo, pur senza usare il termine “affievolimento”. La Provincia di Brescia era concessionaria dell’esercizio della ferrovia Iseo – Edolo e ne fece sub-concessione alla Società nazionale ferrovie e tramvie, in cambio della stipulazione di un contratto di partecipazione al prodotto lordo dell’esercizio. In seguito, alcuni decreti luogotenenziali (nn. 560/1918, 1587/1918, 467/1919) autorizzarono «il governo ad ordinare la rinuncia o la riduzione delle partecipazioni dello Stato, o degli Enti locali, nei prodotti lordi delle imprese suddette», ed in esecuzione fu emanato un decreto dei ministri dei lavori pubblici e delle finanze, che stabilì a favore della società citata l’esclusione dello Stato e della Provincia dalla partecipazione al maggiore prodotto lordo. La Provincia ricorse dapprima al Consiglio di Stato, per ottenere l’annullamento del decreto dei due ministri (denunciando violazione di legge ed eccesso di potere); e successivamente in Cassazione per difetto assoluto di giurisdizione, perché il decreto sarebbe stato a suo dire «lesivo, non di un semplice interesse, bensì di un diritto patrimoniale». La Cassazione rispose articolando il ragionamento in due punti. Innanzitutto riaffermò il criterio del petitum: «se la questione cade unicamente sugli effetti dell’atto, chiedendosi dall’attore la riparazione della sofferta lesione di un diritto, si è nell’ambito della competenza giudiziaria. Se invece si impugna la legittimità dell’atto, e di questo si domanda l’annullamento, possono essere chiamati a pronunciare solo gli organi giurisdizionali amministrativi». E dato che il sostrato era di diritto, ma la Provincia faceva valere un proprio interesse all’annullamento dell’atto, il Consiglio di Stato era competente a conoscere della controversia. Il riparto di giurisdizione seguiva insomma i differenti poteri attribuiti ai due giudici: fin qui niente di nuovo. Il punto centrale è però il secondo, perché si riaffaccia il nostro tema, ed è affrontato dalla sentenza alla fine. È vero che, in origine, la Provincia aveva acquistato un diritto soggettivo nei confronti della Società: ma dopo era inter- (61) Cass., S.U., 10 luglio 1926, in Giur. It., 1926, I, 1, 985; cfr. anche L. MORTARA, op. cit., in Riv. dir. pubbl., 1930, p. 403 ss. CONTENZIOSO NAZIONALE 321 venuta la legge (d. lgt. citati del 1918 e 1919), che aveva conferito al governo la facoltà di sopprimere i diritti patrimoniali per gravi motivi di ordine pubblico e di interesse nazionale. «In virtù di tale legge l’esercizio, se non addirittura l’esistenza del diritto soggettivo della Provincia verso la Società, era venuto a dipendere dal non esercizio da parte del governo, della facoltà conferitagli. Ma al non esercizio di tale facoltà la Provincia aveva manifestamente non già un diritto (essendo esso escluso dalla legge) sibbene un interesse» (62). Insomma, le Sezioni Unite non parlavano esplicitamente di affievolimento o degradazione, ma è come se lo avessero fatto: dietro il paravento del petitum, era esplicitamente affermata l’idea che l’esistenza del diritto fosse incompatibile con l’esercizio del potere da parte del soggetto pubblico, perché dove c’era il secondo, il primo scompariva degradandosi ad interesse legittimo. A riprova di quanto affermato, basti leggere la Relazione sulla R. Avvocatura Erariale per gli anni 1926-1929 (63): «un diritto, pur riconosciuto nel nostro ordinamento giuridico, può in alcune circostanze, e, particolarmente, per la interferenza con un potere spettante alla pubblica Amministrazione, perdere la intensità di protezione che ordinariamente gli spetta ed affievolirsi in un interesse», e si forniva come fattispecie proprio questa la sentenza della Cassazione. D’altra parte, già precedentemente la Relazione sulla R. Avvocatura Erariale per gli anni 1912-1925 (64) aveva risolutamente illustrato che non potesse sussistere il diritto davanti all’atto discrezionale – perfino qualora la fattispecie si fosse concretata nei suoi elementi non discrezionali – citando alcuni dei casi già visti (65). Davanti all’evoluzione dottrinaria e giurisprudenziale in atto, neppure il Consiglio di Stato si tirò indietro: e infatti intervenne con una decisione del 12 aprile 1929 (66), che apparentemente appoggiava il petitum ma che nella sostanza recepiva i fondamenti della degradazione. Si trattava di alcuni provvedimenti adottati dal Comune di Milano, che limitavano il godimento della proprietà di alcuni privati. Questi ultimi pertanto ricorsero alla Quinta Sezione e, a fronte dell’eccezione di incompetenza sollevata dal Comune, il Consiglio di Stato affermò la propria giurisdizione, con una puntualizzazione che si rifaceva al concetto di affievolimento: «è noto che la proprietà privata è soggetta ad una serie di limiti di diritto pubblico, tra i quali sono notevoli quelli che si attengono alla polizia sanitaria. Mediante tali limiti, il diritto di proprietà viene, nel suo modo di esercizio, ad essere subordinato e condizionato agli interessi (62) Corsivi non presenti nel testo ma a cura dello scrivente. (63) Relazione sulla R. Avvocatura Erariale per gli anni 1926-1929, Roma, 1930, p. 83. (64) Relazione sulla R. Avvocatura Erariale per gli anni 1912-1925, Roma, 1926, cap. I, passim. (65) Cass. Roma, S.U., 12 novembre 1912, in Giur. It., 1913, I, 1, 130; Cass. Roma, S.U., 7 marzo 1914, in Giur.It., 1914, I, 1, 391; Cass. Roma, S.U., 15 dicembre 1921, in Giur. It., 1922, I, 1, 101. (66) Cons. St., V, 12 aprile 1929, Pironti pres., Ragnisco rel., Carcassola ed altri ric., in Giur. It., 1929, III, 108. 322 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 pubblici della sanità, dell’igiene; di qui la conseguenza che, trattandosi di apprezzare l’interesse generale e il relativo potere discrezionale dell’Amministrazione, esula la competenza giudiziaria» (67). Quanto al criterio discretivo della giurisdizione, alla fine degli anni ’20 ci fu una vera e propria querelle: la Cassazione e la Quarta Sezione del Consiglio di Stato sostenevano la causa petendi, mentre la Quinta Sezione riaffarmava la validità del petitum, con esiti paradossali (68). La soluzione fu offerta nel 1929 da un «concordato giurisprudenziale» (che riecheggiava quello coevo tra Stato e Chiesa), firmato dal Primo Presidente della Corte di Cassazione, Mariano D’Amelio, e dal Presidente del Consiglio di Stato, Santi Romano. La leggenda vuole che l’accordo tra i rappresentanti delle due magistrature sia stato elaborato ai tavolini del Caffè Greco di Via Condotti, a Roma: qui non ci si occupa di aneddoti, e ci si limita a registrare che a firma dei due illustri giuristi apparve sulla Rivista di diritto pubblico un articolo dal titolo I contatti giurisdizionali della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato (69). «L’esame dell’autorità giudiziaria – si legge nel testo – deve limitarsi all’indagine se l’atto sia emesso da una autorità competente, se siano rispettate le norme di legge e se l’atto cagioni una lesione al diritto soggettivo. Sfuggono così ad ogni sindacato della giurisdizione ordinaria, in modo speciale, gli atti discrezionali dell’amministrazione, rispetto ai quali assume, invece, particolare importanza il controllo del Consiglio di Stato, sotto il profilo dell’indagine sull’eccesso di potere in quella speciale forma che suole essere designata col nome di sviamento di potere». In sostanza, si proponeva un contemperamento dei due elementi fino ad allora contrapposti – causa petendi e petitum – dove in effetti però a prevalere era il primo elemento. Un’ulteriore tappa del percorso fu l’Adunanza Plenaria (70) del Consiglio di Stato, che dovette occuparsi dell’impugnazione di un annullamento governativo del visto di esecutorietà di un contratto, emanato con decreto reale: il governo aveva accertato che il Comune di Castellammare di Stabia aveva stipulato un contratto a trattativa privata per l’esercizio e la trasformazione delle (67) Corsivi non presenti nel testo ma a cura dello scrivente. (68) Ci si riferisce al contrasto interno allo stesso Consiglio di Stato, con due decisioni prese rispettivamente dalla Quinta Sezione (Cons. St., V, 10 maggio 1929, Pironti pres., Di Martino rel., Società anonima nazionale ferrovie e tramvie ric., in Giur. It., 1929, III, 136 con nota di F. CAMMEO) e dalla Quarta Sezione (Cons. St., IV, 21 dicembre 1928, Ghersi pres., Isacco rel., Società anonima nazionale ferrovie e tramvie ric., in Giur. It., 1929, III, 135 con nota di F. CAMMEO) su ricorsi pressoché identici, proposti sullo stesso fatto contro due amministrazioni dello Stato differenti, e con conclusioni opposte: la Quinta Sezione riaffermò il petitum, la Quarta la causa petendi. (69) M. D’AMELIO – S. ROMANO, I contatti giurisdizionali della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato, in Rass. dir. pubbl., 1929, I, p. 181. (70) Cons. St., A.P., 14 giugno 1930, Romano pres., Giuffrida rel., Società anonima Terme Stabiane ric., in Giur. It., 1930, III, 149, con nota di E.C.S.; e in Riv. dir. pubbl., 1930, 386. Cfr. anche, in materia di criterio di riparto, Cons. St., V, 21 febbraio 1930, in Giur. It., 1930, III, 90, con nota di F. CAMMEO, Ancora poche parole sul petitum e sulla causa petendi. CONTENZIOSO NAZIONALE 323 terme comunali, senza la necessaria l’autorizzazione prefettizia, e anzi aveva modificato il capitolato delle opere in assenza dell’approvazione della Giunta Provinciale Amministrativa e del previo parere del Consiglio di Prefettura. Il Consiglio di Stato stabilì la propria competenza, in base a due criteri «che si integrano a vicenda: quello della domanda (petitum) e quello della natura della controversia (causa petendi)»: quanto al primo, la Società chiedeva l’annullamento dell’atto amministrativo, cosa certamente impedita al giudice ordinario; quanto alla seconda, «nel caso presente non si fa alcuna questione relativa a diritti e, quindi, è a ritenersi competente il Consiglio di Stato». Per l’Adunanza Plenaria, non rilevava che l’annullamento degli atti della procedura comportasse la scomparsa dei diritti contrattuali della Società ricorrente: «ciò non è che la conseguenza doppiamente indiretta […] dell’annullamento medesimo, in quanto, venendo a mancare gli atti con cui la pubblica amministrazione ha partecipato al contratto o ha emanato la concessione, questo contratto o concessione, di riflesso e automaticamente, più non sussiste, e, per ulteriore conseguenza, più non sussistono i diritti cui esso avrebbe dato luogo». Cadendo il presupposto del contratto, cadeva anche il contratto, sicché «nessun diritto si aveva di fronte al comune e di fronte alle autorità governative locali di vigilanza e di tutela quando esse emanavano gli atti annullati, e, parimenti, nessun diritto si può far valere e si fa valere contro l’annullamento di tali atti». Ai fini che ci occupano, va sottolineato come il Consiglio di Stato ribadiva, una volta di più, che dove vi fosse esercizio di poteri autoritativi e discrezionali della pubblica amministrazione, là il diritto era affievolito e soppresso; al suo posto si trovava l’interesse legittimo, che permetteva al titolare di ricorrere al giudice amministrativo. 8. La degradazione secondo la giurisprudenza: 1930 - 1949. Finalmente, nel 1938 il Consiglio di Stato affrontò in modo compiuto la questione della degradazione (71), con una decisione (72) che aprì la strada alla regola definitiva del riparto di giurisdizione. La fattispecie era questa: il Comune di Angri aveva donato ai Frati Minori (71) In effetti, già in Foro It., 1937, III, 193, era apparsa per la prima volta una menzione esplicita dell’affievolimento in un procedimento davanti al Consiglio di Stato (IV, 27 luglio 1937, Berio pres., Rocco est., Torlonia ric.). A seguito del licenziamento di un impiegato da parte del principe Torlonia, il Comitato sindacale interprovinciale ne aveva rilevato l’irregolarità in quanto, trattandosi di dirigente sindacale, mancava l’autorizzazione di detto organo, necessaria per legge. Il ministero delle Corporazioni, successivamente pronunciatosi sul ricorso, aveva confermato l’illegittimità del licenziamento, ordinando al datore la riassunzione. Il Torlonia aveva fatto ricorso al Consiglio di Stato, e affermava la competenza della giurisdizione amministrativa, in quanto «ove dovesse riconoscersi efficacia giuridicamente obbligatoria alle norme limitatrici di quel diritto soggettivo […] il diritto stesso potrebbe risultarne “affievolito” e ridotto nella sua consistenza». Il Collegio tuttavia rigettò il ricorso. (72) Cons. St., V, 17 novembre 1937, Fagiolari pres., Miranda rel., Comune di Scafati ric., in Foro It., 1938, III, 1 con nota di U. FORTI. 324 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 del paese il diritto di patronato sulla Chiesa di Santa Maria dei Bagni, sita in una porzione del territorio comunale. Nel frattempo però, un provvedimento del prefetto aveva cambiato la circoscrizione elettorale, attribuendo quella stessa porzione (con annessa chiesa) al Comune di Scafati: quest’ultimo allora aveva impugnato l’atto di cessione, ritenendolo contrario al provvedimento prefettizio e lesivo della propria posizione giuridica. La questione, in definitiva, consisteva nel capire se e quali effetti potesse avere la donazione (di diritto civile) in pendenza di un atto autoritativo (di diritto pubblico). Il Consiglio di Stato analizzò il caso partendo non già dall’atto di cessione, ma dal provvedimento amministrativo: l’art. 36 t. u. legge comunale e provinciale riconosceva al prefetto una potestà regolatrice discrezionale, che a detta del Collegio giudicante «implica uno speciale status subjectionis degli enti al potere speciale di riparto del prefetto e produce un affievolimento» del diritto soggettivo. E ancora, l’affievolimento non era limitato a quella specifica fattispecie, perché esso «avviene ogni volta che si verifichi l’esercizio di una potestà discrezionale »: ecco emergere compiutamente, per la prima volta, la teoria oggetto di questa trattazione. A seguito del provvedimento, quindi, erano «in giuoco interessi legittimi e diritti affievoliti», posti sullo stesso piano: il diritto soggettivo di patronato era scomparso, sicché la controversia spettava al giudice amministrativo. Da ultimo, quindi, il Consiglio di Stato annullava l’atto di cessione dello ius patronatus, in quanto comprometteva «la libertà di azione del prefetto ripartitore, obbligandolo a prendere passivamente atto […] di negozi dispositivi» e ne impediva la «valutazione discrezionale, che forma il contenuto di una competenza funzionale non derogabile». Si noti come la Quinta Sezione analizzasse partitamente i passaggi logici e giuridici che portavano alla compressione del diritto soggettivo, ad opera dell’atto amministrativo: la decisione in esame, non a caso, avrebbe fornito spunti a tutta la giurisprudenza successiva. Nella nota di commento, il Forti approvava l’iter logico che portava al risultato finale, segnalando anch’egli come il tema fosse stato affrontato per la prima volta in modo così puntuale, e ne richiamava i fondamenti in dottrina, da Ranelletti in poi (cfr. supra, §§ 3 – 4). Lo studioso riaffermava come, a fronte dei poteri discrezionali dello Stato, le «situazioni giuridiche perdono la loro originaria consistenza; a quello stesso modo che il diritto di proprietà del privato deve cedere di fronte alla volontà dell’Amministrazione che abbia discrezionalmente deciso di espropriarlo: e bene si parla, nell’uno come nell’altro caso, di “diritti affievoliti” e cioè di “interessi legittimi” in cui l’originario “diritto subbiettivo” si converte attenuandosi». La lezione era stata ben appresa, si può dire. A questo punto, la teoria dell’affievolimento aveva fatto breccia nella giurisprudenza, che sempre più si sarebbe richiamata a questo costrutto: eppure, CONTENZIOSO NAZIONALE 325 all’inizio, essa fu applicata solo dal Consiglio di Stato. Si pensi al caso affrontato l’anno successivo dalla Quarta Sezione (73), allorché la contessa Carandini impugnò il provvedimento con cui il governatore di Roma derogava ai limiti per la costruzione di nuove costruzioni nel centro storico della Capitale: l’edificio oggetto del provvedimento era il monumentale palazzo dell’Inail – ancor oggi visibile in Via IV Novembre – limitrofo alla proprietà Carandini. A fronte dell’eccezione sollevata dall’Istituto, inerente all’«improponibilità relativa dell’azione giudiziaria», il Consiglio di Stato riconobbe la propria giurisdizione, in quanto «se le norme dei regolamenti conferiscono alle autorità comunali una potestà di deroga, nell’interesse pubblico, delle norme stesse, deve, necessariamente, configurarsi un potere discrezionale della pubblica Amministrazione nell’emanazione dell’atto, con la conseguente competenza della giurisdizione amministrativa». Il potere discrezionale però, come il Consiglio si affrettava a precisare, «non può equivalere affatto a insindacabilità», dal momento che «troppo spesso si abusa del concetto di discrezionalità per escludere […] ogni tutela giurisdizionale, laddove dovrebbe escludersi» la sola giurisdizione del giudice ordinario. Infatti, «se è vero che di fronte alla discrezionalità non può mai sussistere diritto subiettivo del privato, non è altrettanto vero che non possa sussistere […] un interesse legittimo del privato stesso» con correlata tutela dinanzi alla giurisdizione amministrativa. Ebbene, la deroga nel caso in esame era basata appunto su un potere discrezionale, che «distrugge il diritto soggettivo del privato e non può lasciare in vita che un interesse legittimo». È vero che la giurisprudenza della Cassazione si attestava su profili ben differenti: nondimeno, il Collegio riteneva di dover apportare il proprio contributo, «per quei definitivi orientamenti che la Corte suprema […] ritenesse di adottare nella difficile materia, col sussidio anche della elaborazione della dottrina», e qui i riferimenti erano chiaramente al Ranelletti. Peraltro, il Collegio in più occasioni non mancava di rilevare come la giurisdizione amministrativa fosse approntata in primis per tutelare l’interesse pubblico, leso dal provvedimento illegittimo, e solo mediatamente a difesa del ricorrente. In altre parole la giurisdizione amministrativa aveva un carattere precipuamente oggettivo, e solo occasionalmente soggettivo, come riconosceva anche tutta la dottrina: si legge appunto nella decisione in esame che «tutte le norme che regolano l’attività amministrativa sono poste prevalentemente nell’interesse pubblico», e più avanti che «quando la norma tutela, ad un tempo, l’interesse pubblico e quello individuale, il primo deve, in ogni caso, prevalere, e il titolare dell’interesse può ottenerne la soddisfazione solo se ed (73) Cons. St., IV, 11 maggio 1938, Bozzi pres., Rocco est., Carandini ric., in Foro It., 1938, III, 163 con nota di U. FORTI. 326 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 in quanto vi sia coincidenza tra i due interessi, assumendo il suo interesse il carattere di mero interesse legittimo»; lo stesso interesse legittimo, nel testo, è indicato anche come «occasionalmente protetto». Non a caso il Forti, nella nota di commento, indicava che «la tutela di un interesse legittimo può anche venire invocata da chi sia titolare di un diritto, senza che ciò significhi tutela giurisdizionale di quel diritto» (74). In ultima analisi, davanti al potere discrezionale di deroga del governatore, era ammissibile il «sacrificio di eventuali diritti soggettivi dei privati, i quali […] cessano di essere tali e restano soltanto quali interessi legittimi». Ne derivava perciò la competenza della giurisdizione amministrativa a conoscere della controversia, dal momento che il diritto non c’era più, e in definitiva il rigetto del ricorso della contessa Carandini. En passant, la decisione affrontava anche un tema fondamentale, già alla base del caso Laurens (v. supra, § 1.2). Innanzitutto, il discrimine fra interesse e diritto era basato non su qualità intrinseche della posizione soggettiva, ma sull’«estensione del potere accordato alla Amministrazione nella emanazione dell’atto», con ciò riprendendo la summa divisio già elaborata dal Mortara (75) (v. supra, § 6). Qualora poi in una sola fattispecie si fossero trovati intrecciati interessi e diritti, occorreva ricercare «se il diritto non sia che un semplice presupposto logico della contestazione»: in tal caso, allora, il vero oggetto della controversia era comunque l’interesse legittimo – perché la situazione soggettiva del privato si raffrontava col potere – e tanto bastava ad affermare la competenza del giudice amministrativo. È appena il caso di rammentare come la Cassazione, nel caso Laurens, avesse affermato decisamente il contrario: bastava infatti che la contestazione inerisse ad un diritto, per radicare la competenza del giudice ordinario. Insomma, la vecchia giurisprudenza della Cassazione stava sempre più segnando il passo, a fronte dell’inarrestabile elaborazione prodotta dal Consiglio di Stato. Nel 1942, ad esempio, la Quinta Sezione (76) riaffermò esplicitamente il principio dell’affievolimento, affrontando una controversia inerente alla proroga di una locazione su fondi rustici nel Comune di Cremona: una questione di purissimo diritto civile, prima facie. E tuttavia, sul rapporto era intervenuto un provvedimento di urgenza del prefetto, ex art. 19, quarto comma, t.u. l. comunale e provinciale, in materia di blocco e proroga degli affitti. Nel riassumere il fatto, il Collegio notava come ben potesse accadere che (74) Corsivi presenti nel testo. (75) L. MORTARA, La giurisdizione ordinaria, op. cit., p. 403. (76) Cons. St., V, 28 aprile 1942, De Simone pres., Gallo est., Guarnieri ric., in Foro It., 1943, III, 94 con nota di U. FORTI. Cfr. anche, sullo stesso tema, Cons. St., IV, 15 marzo 1939, in Foro It., 1939, III, 73; Cons. St., IV, 5 marzo 1941, in Foro It., 1941, III, 97, con Osservazione di U. FORTI. CONTENZIOSO NAZIONALE 327 la norma riconoscesse all’Amministrazione la facoltà di incidere «nel puro campo di diritti subbiettivi […] del singolo» per pubblico interesse. Il nodo però era costituito sempre dal potere discrezionale in capo all’amministrazione: se il sacrificio dei diritti privati avveniva «senza investire, per altro, i diritti medesimi con alcuna discrezionalità […] è manifesto che l’attività amministrativa illegittima eventualmente estrinsecantesi nell’esercizio di simili ipotesi si presenta lesiva di un diritto», con la conseguente facoltà, per il privato, di azionare le proprie pretese davanti al giudice ordinario. Se invece il potere discrezionale sussisteva in capo all’amministrazione, «il diritto si riduce, come è noto, alla minore consistenza del diritto condizionato alla sua compatibilità con l’interesse pubblico (o diritto affievolito che dir si voglia), trasformandosi, quindi, in definitiva, in un interesse legittimo». Peraltro, come segnalavano sia la decisione che la nota di Forti, il diritto affievolito e l’interesse legittimo erano la stessa cosa, smentendo quella ricostruzione dottrinaria già vista, che tendeva a moltiplicare le situazioni soggettive (cfr. supra, § 5). Com’è comprensibile, con i tragici sviluppi della Seconda Guerra Mondiale, le pubblicazioni della Giurisprudenza Italiana e del Foro Italiano (77) furono sospese, dal momento che nemmeno la Cassazione e il Consiglio di Stato potevano lavorare. Di affievolimento il Consiglio di Stato tornò a parlare solo nel 1947 (78), affrontando anche una questione logicamente connessa: che fare quando si discuteva dell’esistenza del potere discrezionale? La questione non era di poco conto. Posto che, per giurisprudenza amministrativa ormai consolidata, il potere discrezionale dell’Amministrazione era tale da comprimere sempre e comunque il diritto del soggetto (trasformandolo in interesse), il problema da risolvere ineriva alle possibili conseguenze se una delle parti contestasse la sussistenza del potere in capo all’amministrazione procedente. Se esso effettivamente mancava, ne conseguiva che non aveva luogo l’affievolimento del diritto: ma a quale giudice toccava la cognizione della fattispecie? Nella suddetta decisione, il Collegio notò come non bastasse «affermare che, negata la potestà discrezionale, esista un diritto soggettivo perfetto […] la cui tutela è affidata alla giurisdizione ordinaria», in quanto anzitutto occorreva accertare «se questa [scilicet: potestà] esisteva, e se, esistendo, essa fu bene o male esercitata». Tuttavia, «è riservata alla competenza della giurisdizione amministrativa» la cognizione di casi del genere, come pure quella sul corretto esercizio del potere: sicché qualunque contestazione inerente al potere (77) Come avrà avuto modo di notare il lettore più attento, a partire dagli ‘30 il Foro Italiano si era mostrato molto più completo, fecondo e ricco di spunti critici per gli studiosi, rispetto alla Giurisprudenza Italiana. Per averne conferma, basti segnalare che quasi tutte le sentenze qui citate, dopo il 1930, provengono dal primo e non dalla seconda. (78) Cons. St., IV, 9 agosto 1947, Rocco pres., Bozzi est., Soc. Italcable ric., in Foro It., 1947, III, 202. 328 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 amministrativo, al suo fondamento e ai suoi effetti, competeva comunque alla giurisdizione amministrativa. A breve, vedremo come la Cassazione avrebbe offerto una risposta significativamente differente. Ancora sul punto, occorre segnalare un’altra decisione (79) di poco successiva, inerente ad una vertenza mezzadrile. Il prefetto di Piacenza interveniva con un provvedimento di urgenza – ai sensi del già visto art. 19, legge comunale e provinciale – alterando le condizioni pattuite tra concedenti da una parte, e mezzadri e coloni dall’altra; addirittura, imponeva ai concedenti di rinunciare agli utili riconosciuti loro dalla legge e dal contratto, di intestarli al mezzadro e di vincolarli presso l’Ufficio provinciale statistico economico dell’agricoltura, fino alla definizione della vertenza. Il provvedimento, diremmo oggi, era nullo per radicale difetto di attribuzione, assomigliando fin troppo ad un «sequestro a tempo indeterminato» (80). Davanti alla Quinta Sezione, allora, l’Avvocatura Erariale eccepiva – non a torto – l’inesistenza del potere per l’amministrazione, e di conseguenza il difetto di giurisdizione del Consiglio di Stato. Tuttavia il Collegio, anche qui, prescindeva dall’accertamento dell’esistenza del potere, ai fini del riparto di giurisdizione: sia che il provvedimento fosse viziato per eccesso di potere, sia che fosse viziato per difetto assoluto di attribuzione (come saremmo portati a ritenere oggi), «ciò non implica che vi sia lesione di diritto, ma soltanto che vi sia illegittimo uso dei poteri stessi, che, ripetesi, implicano di per se stessi affievolimento dei diritti che vi sono soggetti». L’eccezione di incompetenza sollevata dall’Avvocatura risultava pertanto infondata, perché comunque, laddove vi fosse provvedimento amministrativo (legittimo, illegittimo o anche nullo, secondo le categorie odierne), le conseguenze erano sempre due: anzitutto, il diritto soggettivo del singolo veniva degradato a interesse legittimo; di conseguenza, si radicava la giurisdizione amministrativa (81).. Ora, all’esito dell’analisi della giurisprudenza del Consiglio di Stato, occorre capire se e come la Cassazione ne avesse recepito gli spunti critici e dogmatici. La risposta giunse solo nel 1949, perché fino ad allora la Cassazione si era mostrata sostanzialmente contraria alle conseguenze della degradazione in materia di riparto, così come formulate dal Consiglio di Stato. È vero che, come abbiamo visto supra (cfr. § 6), il tema della degradazione del diritto soggettivo fosse conosciuto; ma è altrettanto vero che ciò non comportava lo spostamento della competenza a favore del giudice amministrativo. Basti ricordare che, ancora nel 1946, la Suprema Corte ripeteva stanca- (79) Cons. St., V, 31 gennaio 1948, Severi pres., De Marco est., Bertoli ric., in Foro It., 1948, III, 202. (80) Così la decisione, appunto. (81) Cfr. anche Cons. St., V, 7 febbraio 1948, Severi pres., De Marco est., Lo Surdo e Dragone ric., in Foro It., 1948, III, 150. CONTENZIOSO NAZIONALE 329 mente vecchie formule già usate, nel caso che vedeva contrapposti il Comune di Foligno ed un suo conduttore (82). Il podestà di Foligno aveva emesso un’ordinanza, con cui intimava a tal Innocenzi, conduttore di un locale comunale, di sloggiare dall’immobile entro breve termine: l’Innocenzi aveva quindi promosso ricorso al Consiglio di Stato, chiedendo ed ottenendo annullamento del provvedimento perché lesivo del suo diritto di conduzione. A fronte di questa fattispecie, la Suprema Corte riaffermava la competenza della giurisdizione civile, ripetendo i suoi punti-cardine: la centralità di petitum e causa petendi contemperati assieme; l’impossibilità di «far valere innanzi al giudice amministrativo un diritto sotto la veste di interesse»; l’affermazione della giurisdizione ordinaria «se la domanda di annullamento dell’atto amministrativo trova la sua giustificazione nella violazione di un diritto », smentendo esplicitamente le posizioni del Consiglio di Stato sin qui illustrate. La Corte, da ultimo, non negava il fenomeno dell’affievolimento, ma lo limitava soltanto ai casi di espropriazione per pubblica utilità, ex art. 7 l. 1865. Cose già lette e sentite, dopotutto. Ebbene, nel 1949 arrivò una sentenza fondamentale, che avrebbe segnato a lungo la regola del riparto di giurisdizione: la Sentenza Ferrara (83), dal nome del Primo Presidente della Corte di Cassazione ed estensore. La fattispecie posta all’attenzione delle Sezioni Unite era la seguente: un provvedimento prefettizio aveva dichiarato risolto – nell’interesse della produzione nazionale – un contratto di affitto di fondo rustico, intercorrente tra la Ditta Carrera & Trabucco e l’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. La ditta aveva impugnato il provvedimento davanti al giudice amministrativo, e la decisione fu oggetto di ulteriore ricorso in Cassazione da parte del ministero dell’Agricoltura, per asserito difetto di giurisdizione. Orbene: a chi spettava giudicare? Sotto il profilo della giurisdizione, si trattava dell’ennesimo caso di diritti soggettivi intaccati – legittimamente o meno, era questione di merito e perciò secondaria – dai poteri d’imperio dell’Amministrazione. Stavolta però, la Cassazione recepì finalmente le indicazioni del Consiglio di Stato e della dottrina preponderante, offrendo anche spunti critici nuovi. Anzitutto, la Suprema Corte rilevava come fosse chiaro che dal contratto di affitto nascessero diritti per le parti: «che dal contratto di affitto scaturiscano diritto subiettivi dei soggetti del rapporto, e tra essi quello del conduttore di godere dell’immobile per la durata convenuta, non vi è dubbio»; e tuttavia (82) Cass., S.U., 19 gennaio 1946, n. 81, Pagano pres., Zappulli est., P.M. Galtano, Comune di Foligno ric., in Foro It., 1946, I, 118. (83) Cass., S.U., 4 luglio 1949, n. 1657, Pres. ed est. Ferrara, P.M. Macaluso; ministero Agricoltura e Gran Magistero dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro ric., in Foro It., 1949, I, 1926; cfr. anche in Giur. It., 1950, I, 1, 170 e in Giur. It., 1951, I, 1, 518, con nota di C. VITTA. 330 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 questi diritti erano suscettibili di essere toccati dal provvedimento prefettizio, con l’avvertenza che occorreva accertare «se la legge conferisce all’autorità amministrativa il potere di incidere sugli stessi [scilicet: diritti] in nome e per la tutela di un interesse pubblico». In altre parole, bisognava capire se il potere, in capo all’amministrazione, c’era o meno. Dalla soluzione offerta alla questione derivava un’alternativa. Se il potere sussisteva, allora l’amministrazione poteva intervenire sui diritti dei cittadini, e pertanto «il diritto subiettivo del singolo si attenua nella sua consistenza e si trasforma, soltanto relativamente (ossia soltanto di fronte alla pubblica Amministrazione) in un interesse legittimo (c.d. diritto affievolito) e come tale non può ricevere protezione se non dalla giurisdizione amministrativa»; insomma, il diritto si degradava in interesse legittimo e la cognizione passava al giudice amministrativo. Se invece «il cittadino nega che il potere siffatto sia conferito all’autorità amministrativa, la competenza a conoscere di tale controversia spetta all’autorità giudiziaria [scilicet: ordinaria], perché si tratta di accertare se il diritto subiettivo sia tale anche di fronte alla pubblica Amministrazione ». Una variante di questa seconda fattispecie afferiva alla possibilità che il cittadino affermasse l’esistenza del potere dell’Amministrazione procedente, ma ne contestasse la modalità di esercizio, asseritamente scorretto: in tal caso, però, si eccepiva il vizio di eccesso di potere, e «la competenza a conoscerne è del giudice amministrativo» (84). Ancora sul punto, la Corte notava che «in tanto il diritto subiettivo si attenua nella sua consistenza e muta di tutela giurisdizionale, in quanto un potere discrezionale di disporre anche di quel diritto sia conferito alla pubblica Amministrazione ». Ne conseguiva perciò che l’affievolimento non poteva aver luogo, e il diritto resisteva immutato, laddove non vi fosse potere discrezionale ma vincolato, oppure anche laddove non vi fosse potere alcuno in capo all’Amministrazione. Nella fattispecie portata all’attenzione delle Sezioni Unite, comunque, i ricorrenti non eccepivano il difetto di potere in capo al prefetto, con la conseguenza che la cognizione spettava al giudice amministrativo. Peraltro, sia le Sezioni Unite sia l’estensore si rifacevano in pieno alla summa divisio operata dal Ranelletti, laddove riconoscevano in pieno che il diritto affievolito fosse tale solo nel rapporto fra singolo ed Amministrazione, mentre esso manteneva la propria struttura di diritto soggettivo pieno nei rapporti erga omnes, come confermava l’inciso tra parentesi «[…] soltanto di fronte alla pubblica Amministrazione». Come evidenziava Vitta in una nota alla sentenza apparsa solo nel 1951 (85) – segno che la dottrina non comprese da subito il révirement giurispru- (84) Corsivi non presenti nel testo ma a cura dello scrivente. (85) C. VITTA, Competenza giudiziaria su diniego di potere discrezionale in atti amministrativi, in Giur. It., 1951, I, 1, 518. CONTENZIOSO NAZIONALE 331 denziale in atto – dalle affermazioni della Suprema Corte derivava che l’atto adottato in carenza di potere era nullo, e pertanto rientrava nella giurisdizione ordinaria, senza i limiti previsti dalla legge abolitrice del contenzioso; per contro, l’atto espressione di un cattivo uso del potere (di un potere comunque spettante a quell’amministrazione) era viziato da eccesso di potere, e quindi annullabile ad opera del giudice amministrativo. Lo stesso poteva dirsi per l’atto adottato da organo incompetente. Le Sezioni Unite, quindi, gettavano le basi per la distinzione fra difetto assoluto di attribuzione e mera incompetenza, che avrebbe trovato un riconoscimento normativo solo molto tempo dopo il periodo in esame, con gli articoli 21-septies e 21-octies della legge 241/1990 sul procedimento amministrativo, introdotti con la legge 15/2005. È utile, peraltro, richiamare un precedente giurisprudenziale alla base di questa specifica svolta, con riferimento al binomio nullità – annullabilità: esso già appariva in una isolata decisione del Consiglio di Stato del 1941 (86), in materia di ricorsi gerarchici. Il Collegio si pronunciava allora sulla pretesa di un libero docente, diretta ad ottenere la retribuzione dall’Università in cui aveva svolto le lezioni, ed affermava incidentalmente che, in caso di ricorso gerarchico, era da considerarsi nulla la decisione emanata da «autorità alla competenza della quale l’oggetto del ricorso fosse completamente estraneo», e quindi in difetto di attribuzione; mentre era semplicemente annullabile la pronuncia dell’organo incompetente, a condizione ovviamente che l’ente fosse titolare del potere de quo («se, pur avendo l’autorità adita una competenza in materia, non abbia quella di provvedere su ricorso»). Tornando alla Sentenza Ferrara, si noti come la stessa Suprema Corte fosse conscia della novità: «la presente decisione […] non ha precedenti precisi di giurisprudenza»; e tuttavia essa teneva a ribadire come la pronuncia si ricollegasse «alla prassi costante ed alle decisioni che hanno delineato la discriminazione tra competenza giudiziaria e competenza del giudice amministrativo». Eccezionalmente, l’estensore della sentenza era stato lo stesso Primo Presidente: questo fatto riprendeva una tradizione risalente alla presidenza di Ludovico Mortara (1915 – 1923) e riservata a materie particolarmente delicate. La ratio di fondo, in ultima analisi, era una: «le questioni sull’uso del potere rientrano nella competenza del giudice amministrativo», mentre «spetta all’autorità giudiziaria di pronunciare sulla questione circa la esistenza del potere » (87). (86) Cons. St., IV, 29 aprile 1941, Rocco pres., Piccardi est., Bonelli ric., in Foro It., 1942, III, 170, con nota di C.M.I. (87) Così la sentenza Ferrara. 332 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 9. Conclusioni. Dopo quaranta anni di evoluzione giurisprudenziale e quasi sessanta di elaborazione dottrinaria, nel 1949 la Cassazione riconosceva il fenomeno della degradazione, elevandolo a criterio fondamentale di riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo: a seguito dell’esercizio del potere amministrativo, il diritto soggettivo non poteva mantenere la propria consistenza e si affievoliva a livello di interesse legittimo, in virtù dell’imperatività del provvedimento. Ne derivava il radicamento della competenza del giudice amministrativo, davanti al quale era possibile esperire l’azione di annullamento dell’atto; se tuttavia il cittadino avesse negato la sussistenza del potere in capo all’Amministrazione, la cognizione della vicenda sarebbe spettata al giudice ordinario, «perché si tratta di accertare se il diritto subiettivo sia tale anche di fronte alla p.A.» (88). Nel corso della presente trattazione si è cercato anche di porre in risalto le criticità del costrutto: la teoria era una soluzione di tipo processuale ad una questione lasciata irrisolta dal legislatore, ma venne poi traslata su un piano di diritto sostanziale e assunta come norma valida generalmente. Si è illustrato anche come l’interesse legittimo in capo al soggetto leso dall’atto non potesse essere il risultato di un affievolimento del diritto, in quanto le due situazioni giuridiche si sviluppano in capo allo stesso soggetto in modo indipendente e in tempi differenti. Il potere di estinguere il diritto dell’individuo, peraltro, è conferito allo Stato non da norme astratte di superiorità, ma da espressa previsione legislativa, con modalità e tempi ben precisi, come nel citato caso dell’espropriazione per pubblica utilità. All’esito di questo lavoro, si può affermare che la tesi della degradazione si è dimostrata di notevole interesse per l’osservazione dell’evoluzione storica dei rapporti fra cittadini e potere pubblico; ma non si può non concordare con quell’autorevole dottrina che l’ha definita «la confusione in una unica (mostruosa) situazione soggettiva di due diverse situazioni contemporaneamente spettanti ad un solo titolare» (89). Faciant meliora sequentes. (88) Ibidem. (89) F.G. SCOCA, op. cit. RECENSIONI SIMONE LUCATTINI (*), Modelli di giustizia per i mercati, con Prefazione di Fabio Merusi (Quaderni CESIFIN, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013, pp. 272) PREFAZIONE Come reagiscono i mercati concorrenziali nei confronti della giustizia? O, per meglio dire, come reagisce il legislatore alla pretesa di giustizia dei mercati concorrenziali anche per impedire il proliferare di una giustizia privata in fuga dallo Stato e pericolosa per il buon funzionamento dello stesso mercato concorrenziale? Si sa, il mercato ha bisogno di decisioni in tempi rapidi, mentre i tempi normali della giustizia statale ordinaria, in particolare quella civile, ma, sia pur in minor misura, anche quella amministrativa, confinano talvolta con l'eternità. Ai nostri fini è inutile andarne a cercare le cause, per quel che ci interessa è un dato di fatto. È noto come il legislatore ha inteso assecondare i mercati concorrenziali per rimediare ai tempi non concorrenziali della giustizia. Nella giustizia civile ha previsto l'abolizione del doppio grado di giurisdizione attribuendo competenze giurisdizionali direttamente alla Corte di appello, mentre per il processo amministrativo ha previsto un rito speciale accelerato e la concentrazione dei giudizi di fronte ad un unico giudice, il TAR del Lazio, e, in un caso, il TAR della Lombardia. Ma questi ritocchi alla normalità non potevano esaurire le esigenze di giustizia dei mercati. Senza contare che le soluzioni "riformiste" del legislatore hanno spesso trovato un ostacolo alla insensibilità della Corte costituzionale per una disciplina dell'economia funzionale alle esigenze di un mercato concorrenziale (basti pensare alla recente bocciatura, con riferimento alle sanzioni irrogabili dalla CONSOB, della concentrazione in un unico giudice, quello amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva, della giurisdizione sugli atti delle autorità indipendenti preposte alla regolazione e alla vigilanza sul buon funzionamento concorrenziale dei mercati) e in quella della dottrina che si è spesso perduta nelle sciarade delle distinzioni fra situazioni giuridiche (*) Dottore di ricerca in Diritto Pubblico (Università degli Studi di Siena). È responsabile dell’unità Documentazione Legislativa dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas e autore di pubblicazioni in materia di diritto amministrativo e di diritto pubblico dell’economia. 334 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 soggettive che caratterizza il nostro riparto di giurisdizione fra il giudice ordinario e quello amministrativo (ancor di recente sono state scritte intere monografie sulla situazione giuridica soggettiva dei privati di fronte ai poteri di autorità amministrative indipendenti) o ha addirittura preteso di sottoporre alla riserva di legge il principio generale che informa ogni tipo di processo, il principio del giusto processo, cioé di mettere in non cale il principio generale che, come emerge anche dalla ricerca di Lucattini, è il collante razionalizzante di tutti gli interventi, spesso estemporanei e parziali, del legislatore sulla giurisdizione, compresi naturalmente gli interventi volti a favorire la funzionalità di una economia di mercato. Ma questo è l'intervento esterno, un intervento, per cosi dire, sulla cornice del mercato. II legislatore, sollecitato dall'economia di mercato, non solo dalla concorrenzialità del mercato che andava tutelata, ma, soprattutto, dal mercato e dalla concorrenzialità che andavano creati attraverso una regolazione amministrativa, è andato più in là. Ha inventato meccanismi giustiziali all'intemo del mercato, urilizzando, per lo più, le autorità arnministrative indipendenti preposte ai singoli mercati, oltre che, ovviamente, l'autorità preposta alla concorrenzialità dell'intero mercato, spesso su sollecitazione, o in connessione con, l'invasiva disciplina comunitaria. Ne sono nati degli "ibridi" fra amministrazione e giustizia che, se al giurista possono ricordare antichi istituti nei quali il diritto amministrativo e il diritto processuale non erano ancora distinti, nondimeno prospettano, ad un esame più ravvicinato, problemi completamente nuovi. Problemi di classificazione, di funzionamento, ma soprattutto di ricostruzione degli effetti giuridici e di compatibilità con altri istituti presenti nel nostro ordinamento. La giustizia per i mercati, di quella particolare giustizia che vede l'amministrazione ricongiungersi con il processo, anche se spesso "mascherato" da procedimento amministrativo, aveva bisogno di una ricostruzione risultante da un analitico esame induttivo della normativa esistente che è quanto ha fatto, per la prima volta nel nostro panorama dottrinale, il volume che si presenta. Le singole soluzioni ai tanti problemi che le "giustizie" nei mercati suscitano potranno anche risultare discutibili, ma degli schemi ricostruttivi del lavoro di Lucattini non si potrà più fare in futuro certamente a meno. FABIO MERUSI RECENSIONI 335 VINCENZO SCIARABBA (*), Il giudicato e la CEDU. Profili di diritto costituzionale, internazionale e comparato (Pubblicazioni della Università di Pavia, Facoltà di Giurisprudenza. Studi nelle Scienzse giuridiche e sociali) (CEDAM, 2012, pp. XXVII, 272) INTRODUZIONE Con la sentenza n. 113 depositata il 7 aprile 2011, la Corte costituzionale ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo» (1). Nelle righe iniziali di un suo commento (2) a tale fondamentale sentenza – definita da altri, non a caso, “epocale” (3) e “dirompente”, e sulla quale si tornerà ampiamente in seguito – uno tra i più autorevoli costituzionalisti italiani, la cui estesissima (oltre che sempre attenta e acuta) attività di studio e di riflessione rende ancor più significativa l’affermazione in discorso, ha dichiarato che mai in precedenza aveva sperimentato, con intensità pari a quella avutasi al momento della lettura di tale decisione, quella sensazione consistente nell’avere, in occasione dello studio di «temi ad oggetto (apparentemente) circoscritto», «la stessa impressione che si prova a guardare dal buco della serratura scoprendo un mondo dapprima intera- (*) Ricercatore a tempo determinato. (1) Il tutto per indiretta violazione dell’art. 117, c. 1 Cost. («La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali»), alla stregua (di una utilizzazione in qualche misura peculiare – peculiare essendo, per la sua “strumentalità” e “trasversalità” rispetto alle norme “sostanziali” della Convenzione, la natura della norma pattizia specificamente rilevante, cioè appunto l’art. 46 della CEDU – ma lineare) del consolidato schema del parametro interposto, sostanzialmente delineato, per simili ipotesi, nelle non meno epocali e dirompenti sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 (sulle quali, nel presente lavoro, non si ritene necessario soffermarsi “a tutto tondo”; ci si astiene anche dal fornire su di esse, almeno in questa sede introduttiva, indicazioni bibliografiche che da sole rischierebbero di occupare diverse pagine; alcune osservazioni più puntuali e qualche riferimento dottrinale “mirato” saranno comunque rinvenibili nel corso della trattazione). Circa le accennate peculiarità della questione risolta dalla sentenza n. 113 del 2011, cfr. G. REPETTO, Corte costituzionale e CEDU al tempo dei conflitti sistemici, in Giurisprudenza costituzionale, 2011, II, spec. pp. 1550-1552 e 1555, nonché, anche per alcune notazioni critiche, E. MALFATTI, Quando perseverare non è diabolico. Dalla vicenda Dorigo un fondamentale stimolo alla possibile “revisione” del giudicato interno, in www.rivistaaic.it (4/2011), p. 11. (2) A. RUGGERI, La cedevolezza della cosa giudicata all’impatto con la Convenzione europea dei diritti umani… ovverosia quando la certezza del diritto è obbligata a cedere il passo alla certezza dei diritti, in www.rivistaaic.it, 2/2011, nonché in Legisl. Pen., 2/2011, p. 481 ss., e, con titolo leggermente ritoccato, in ID., “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti. XV. Studi dell’anno 2011, Torino, Giappichelli, 2012, p. 313 ss. (3) Così ad esempio M. DE STEFANO, Dopo la corte di Strasburgo, la revisione del processo penale in Italia: una sentenza epocale della Corte costituzionale, in www.dirittiuomo.it. 336 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 mente nascosto» (4) . Fuor di metafora, l’A. osservava – accingendosi poi a mostrare, nel seguito del medesimo contributo e in altri scritti, come e perché ciò avvenisse e avvenga – che, «venendo a trovarsi sotto stress il giudicato in conseguenza di pronunzie di segno opposto della Corte europea dei diritti dell’uomo, sono alla fin fine evocate in campo e rimesse in gioco una serie di questioni di cruciale rilievo, fino a restarne coinvolta la stessa teoria della Costituzione» (e anche, potrebbe specificarsi o aggiungersi, le teorie dello Stato, della democrazia e dell’ordine internazionale o sovranazionale). D’altronde, era stato già energicamente evidenziato negli anni cinquanta – sia pure in una prospettiva diversa e per certi versi più circoscritta, trattandosi al più, allora, di mettere in discussione e ripensare i confini ed il regime del giudicato (5) in una logica prettamente interna (6), seppur attraversata e anzi ispirata da importanti argomenti teorici di portata generale ove non universale (7) – il delinearsi di un «sottile, ma forte legame tra il problema dei limiti del giudicato ed organizzazione democratica dello Stato», in ragione della “semplice” considerazione che «se democrazia è il regime della più ampia tutela della personalità umana [8], è evidente che non può tollerare che in situazioni strettamente inerenti alla personalità possa una esigenza politica, una esigenza cioè afferente all’organizzazione della società [9], schiacciare una esigenza di giustizia che tocca interessi fondamentali della persona e per ciò stesso un interesse generale della società» (10). E se, come pure si era notato, «le erosioni al mito del giudicato sono avvertibili nei vari (4) Esperienza quasi fiabesca che in verità non molti (…e forse neanche lo stesso Ruggeri!) avranno avuto la fortuna di vivere concretamente, tale prosaico rilievo non intaccando però in alcun modo la piena intelligibilità ed efficacia della colorita metafora. (5) Con principale riguardo, peraltro, proprio all’ambito penale e, in specie, all’istituto della revisione, successivamente ridisegnato dal legislatore (procedendo nella direzione all’epoca indicata: cfr. art. 629 ss. del codice di procedura penale oggi vigente) e, da ultimo, oggetto del già citato intervento additivo della Corte costituzionale, da contestualizzarsi però nel nuovo scenario (para)costituzionale (se non “intercostituzionale”) multilivello (e ci si conceda qui, per pure esigenze di sintesi, di ricorrere con leggerezza a una simile formula e in specie all’amato/odiato aggettivo “multilivello” senza il consueto corredo di indicazioni bibliografiche e/o precisazioni critiche). (6) Allo Stato nazionale (pienamente) sovrano. (7) Argomenti, invero, singolarmente vicini alle vicende attuali e al panorama ideale e giuridico entro cui si colloca e opera (per un verso la nostra stessa Costituzione; e per l’altro) la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che, del resto, proprio l’anno precedente a quello in cui venivano pronunciate le parole qui riportate era stata resa esecutiva nel nostro ordinamento, con la legge 4 agosto 1955, n. 848. (8) E anche su questo ci si conceda di sorvolare sugli approfondimenti che tale affermazione imporrebbe, anche e precipuamente in riferimento al discorso relativo alla teoria della Costituzione, prima evocato. (9) Quale in buona parte sembra l’esigenza alla base dell’intangibilità del giudicato: si segnalano in questo senso le riflessioni di F. CARNELUTTI, Lezioni di diritto processuale civile, Padova, “La Litotipo” Editrice Universitaria, 1933, II, p. 86. Proprio a tale (pur generica e indicativa) ricostruzione del fondamento dell’intangibilità del giudicato paiono potersi utilmente ricollegare anche le osservazioni – riportate in un’altra parte dello stesso saggio di Giovanni Leone qui citato, e indicato nella nota successiva – secondo cui il principio che sta a base del giudicato «se ragionevolmente inteso agisce solo in minima parte», dato che «la stabilità della decisione processuale ha ragione d’essere solo fino a quando non si scontri in una superiore ragione di opportunità o necessità sociale» (così B. PETROCELLI, I vizi della volontà nel processo penale, in ID., Saggi di diritto penale, Padova, CEDAM, 1952, p. 568). (10) G. LEONE, Il mito del giudicato (prolusione al corso di Procedura penale nell’Università di Roma, tenuta il 19 aprile 1956), in Riv. Dir. Proc. Pen., 1956, p. 167 ss. (p. 175, corsivi aggiunti). RECENSIONI 337 tempi ed in vari istituti» (11), è pur vero che le erosioni cui assistiamo in questi anni in relazione agli sviluppi dell’integrazione europea (in particolare, per quanto qui interessa, nell’ambito del “sistema della CEDU”(12), ove il problema ha assunto maggior rilievo per vari motivi: v. subito oltre) presentano tratti in larga misura nuovi. In estrema sintesi, può anzitutto richiamarsi l’attenzione sulla circostanza che, nell’ambito di tale peculiare “sistema”, l’esistenza di una decisione interna definitiva la quale ha determinato o comunque ha, in un certo senso, “incorporato” la violazione della CEDU rappresenta non già un “accidente”, bensì addirittura, almeno in via di principio, un presupposto stesso dell’“l’attivazione” del sistema: ovvero, concretamente, una condizione essenziale di ammissibilità del ricorso alla Corte di Strasburgo (13). È soprattutto in riferimento a tale caratteristica del “sistema CEDU” che si può spiegare (e si è dovuto o si deve affrontare) questa sorta di esplosione, praticamente in tutti i Paesi europei, del “problema” del(l’intangibilità del) giudicato nazionale (in relazione appunto al sistema convenzionale). Del resto, significativamente, una analoga “esplosione” del problema non si è avuta (almeno non negli stessi termini e allo stato attuale) nell’ambito dell’altro “fronte” dell’integra- (11) Ibidem, p. 193. (12) L’opportunità di ricorrere a tale espressione, comunque piuttosto diffusa, trova uno specifico fondamento nella (probabilmente discutibile sotto certi profili, specie dopo la sent. 113/2011, ma tuttora salda) presa di posizione della Corte costituzionale, che in più occasioni, e anzitutto nelle sentt. 348 e 349 del 2007, ha espressamente riservato al sistema comunitario (oggi dell’Unione) – negandola invece, per l’appunto, al sistema istituito con la Convenzione (e invero radicalmente rimodellato, deve ricordarsi, dai successivi protocolli: soprattutto n. 9, 11 e 14) – la qualifica di “ordinamento”, con tutte i corollari teorici e pratici che a tale qualifica (e soprattutto alla riconducibilità all’articolo 11 della Costituzione) si sono (forse troppo) rigidamente e schematicamente ricollegati (e si allude, concretamente, al potere/dovere di immediato accantonamento del diritto interno contrastante: sul modello, forse frettolosamente e impropriamente generalizzato, del sistema/ordinamento comunitario). In altri termini – soffermandoci almeno incidentalmente e in poche righe su tale (a nostro avviso) importantissima questione – sembra che la negazione della possibilità di qualificare come ordinamento il sistema della CEDU, e, soprattutto, di ricondurre tale sistema all’art. 11 Cost., sia stata la conseguenza (come tale pressoché inevitabile, pragmaticamente prima ancora che teoricamente giustificabile) di una ricostruzione di fondo essa invece forse errata, e comunque tutt’altro che inevitabile, secondo cui dalla riconducibilità di un sistema normativo alle previsioni contenute nell’articolo 11 della Costituzione deriverebbe, quasi meccanicisticamente, in capo ai giudici comuni, il potere/dovere di non applicazione del diritto interno contrastante con tale sistema normativo, come appunto è avvenuto e avviene nel caso del sistema comunitario/eurounitario: in ragione però – ecco il punto che si intende porre all’attenzione – di caratteristiche ed esigenze in fondo proprie e peculiari di quel sistema, non necessariamente rinvenibili in sistemi diversi, quale in ipotesi proprio quello della CEDU, che ben potrebbe, in questa diversa logica, essere comunque ricondotto all’articolo 11 – per altri (buoni) motivi e traendone altre (opportune) conseguenze, ad esempio con riguardo alle soluzioni da adottarsi nelle ipotesi di contrasto con diversi, e “costituzionalmente meno nobili”, trattati internazionali – senza però che, da tale ulteriore aggancio costituzionale (ulteriore rispetto all’art. 117 c. 1, nonché eventualmente rispetto all’art. 2, o anche all’art. 10, c. 1, rifacendoci sotto quest’ultimo profilo ad alcune decisioni della Corte che hanno aperto una simile, pur problematica, strada), discenda automaticamente il riconoscimento del temuto potere/dovere di disapplicazione del diritto interno, in luogo del più rassicurante (almeno sotto molti e importanti aspetti) meccanismo dell’incidente di costituzionalità (meccanismo quest’ultimo che verrebbe dunque, nell’ordine di idee qui proposto, comunque preservato; ma, per così dire, con “minori costi” dogmatici e pratici rispetto alla situazione attuale). (13) Tale rilievo è ricorrente in dottrina ed anche nella giurisprudenza. 338 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 zione europea, quello comunitario (oggi “eurounitario”, per riprendere l’ormai affermato neologismo coniato da Antonio Ruggeri), sotto altri profili assai più evoluto, laddove anzi sembrano da imputare proprio ad alcune tra le più avanzate caratteristiche operative di tale “ordinamento” (anzitutto: l’effetto diretto di molte delle sue norme, con obbligo di immediata disapplicazione del diritto interno contrastante, e la possibilità/obbligo di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ex art. 267 TFUE) la maggior (seppur non piena) capacità di impedire ex ante (cioè prima che si cristallizzi il giudicato) le violazioni, piuttosto che doverle sanzionare e risolvere ex post (salvi restando alcuni fondamentali istituti e meccanismi operanti anche e precipuamente in tale “residuale”, ma tutt’altro che eccezionale, prospettiva, ad iniziare dalla procedura di infrazione e, ancor più, dal cruciale meccanismo della responsabilità patrimoniale dello Stato verso i singoli danneggiati da violazioni del diritto comunitario/eurounitario imputabili ad esso, in presenza ovviamente dei diversi requisiti enucleabili dalla articolata elaborazione giurisprudenziale progressivamente sviluppata, in termini sempre più incisivi, dalla Corte di Lussemburgo) (14). Le (qui solo in parte) accennate peculiarità delle attuali dinamiche amplificano e rendono ancor più intricata la rete di collegamenti concettuali e di implicazioni pratiche che si dipana (o, appunto, si avviluppa) intorno al tema di partenza, potendosi come tale considerare, per comodità e in prima battuta, proprio quello posto al centro della (e riportato potentemente all’attenzione dalla) sent. n. 113 del 2011, di cui si è già richiamato nelle prime righe il pregnante dispositivo. Ad esempio, e in particolar modo, sembra opportuno proporre anche solo in sede introduttiva un accostamento (e per così dire una comparazione) quantomeno con un’altra e più recente vicenda di grande rilievo, che prospetta (e anzi sembra già determinare, pur in assenza di interventi del giudice delle leggi) una differente e “parallela” erosione del giudicato interno, e che appare meritevole della massima attenzione (nonché, per certi profili ai quali si farà cenno, di una certa preoccupata “vigilanza”): anzittutto per il notevole significato che essa presenta in sé e per sé, dal punto di vista del diritto costituzionale e del diritto internazionale (oltre che per le sue ripercussioni concrete); ma anche per le sue implicazioni nello specifico contesto del presente lavoro, giacché tale diversa vicenda permette di inquadrare in una più ampia prospettiva di riflessione il nostro tema, illuminando in modo per così dire indiretto (o se si vuole speculare), attraverso le differenze, certi suoi profili che rimarrebbero altrimenti in ombra. La diversa erosione del giudicato cui si fa riferimento (e che si andrà subito ad illustrare), sembra infatti caratterizzarsi essenzialmente per la duplice circostanza che essa – rispetto alla erosione del giudicato discendente dalla adesione alla Convenzione e dall’operato della Corte di Strasburgo – poggia su differenti e ancor più “forti” basi costituzionali (l’art. 10 c. 1, e non (14) Tutto ciò non toglie, naturalmente, che sarebbe utile occuparsi con attenzione del problema del superamento del giudicato interno anche con riguardo all’ordinamento dell’Unione (magari proprio a fini di comparazione tra i problemi e le soluzioni riscontrabili sui due fronti dell’integrazione europea, tra somiglianze e differenze), ma contribuisce a spiegare perché si è ritenuto (non diciamo opportuno, ma almeno) possibile non farlo nel quadro del presente lavoro. Sul punto, si può comunque rinviare – per un’indagine approfondita e per ulteriori indicazioni bibliografiche (oltre che importanti riferimenti giurisprudenziali) – quantomeno all’ampio saggio di R. CAPONI, Corti europee e giudicati nazionali, Relazione al XXVII Congresso nazionale dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile, «Corti europee e giudici nazionali», Verona, 25-26 Settembre 2009, in www.astrid-online.it, nonché (tra gli altri contributi) a diversi scritti contenuti nel volume F. SPITALERI (cur.), L’incidenza del Diritto comunitario e della CEDU sugli atti nazionali definitivi, Milano, Giuffrè, 2009. RECENSIONI 339 solo l’art. 117), presentando però al contempo differenti, e ben più forti, “controindicazioni” costituzionali (risultando questa volta la stabilità del giudicato, e in genere l’indipendenza delle giurisdizioni nazionali, al servizio del – e non d’ostacolo al – rispetto dei diritti inviolabili della persona: v. oltre) Nell’impossibilità di affrontare compiutamente il tema in questa sede, e salve le implicazioni delle osservazioni appena svolte, ci si può affidare – per una sintetica ma molto efficace ricognizione, seguita da alcune a nostro avviso “centratissime” osservazioni e indicazioni – alle parole di Remo Caponi (con la sola aggiunta di qualche “interpolazione interlocutoria” e di alcuni corsivi per enfatizzare alcuni passaggi di particolare pregnanza ai nostri fini) (15). La vicenda è «quella relativa all’immunità giurisdizionale della Repubblica Federale Tedesca per crimini nazisti commessi in Grecia e in Italia. In questa storia si segnala all’inizio una coraggiosa pronuncia della Corte di cassazione italiana del 2004 (16). Fondandosi sul rispetto dei diritti inviolabili della persona umana come principio fondamentale dell’ordinamento internazionale, la Corte italiana aveva negato l’immunità giurisdizionale alla Germania in presenza di comportamenti dello stato straniero di tale gravità (quelli tenuti durante il nazismo) da configurare, in forza di norme consuetudinarie di diritto internazionale, crimini internazionali. Quest’orientamento della Corte di cassazione, siccome manifestatosi in successive pronunce, ha suscitato la reazione della Repubblica Federale Tedesca, che nel 2008 ha convenuto in giudizio la Repubblica italiana dinanzi alla Corte internazionale di giustizia. La Germania ha fatto valere che attraverso questo orientamento giurisprudenziale l’Italia ha violato l’obbligo di diritto internazionale di riconoscere l’immunità giurisdizionale della Repubblica Federale Tedesca come Stato sovrano. La pretesa della Germania è stata accolta con la sentenza della Corte internazionale di giustizia del 3 febbraio 2012» (17). Da tale decisione, in effetti, si evince che «la Corte internazionale di giustizia riconosce sul piano sostanziale il torto subito dalle vittime delle atrocità naziste, ma nega che esso – in quanto frutto di un’attività iure imperii – possa essere fatto valere in un giudizio civile promosso dalle vittime nei confronti dello Stato sovrano» (18). Il principale (ai nostri fini) profilo problematico della vicenda «concerne l’impatto della sentenza della Corte internazionale di giustizia sulle sentenze già passate in giudicato. Esse cessano di avere effetto, probabilmente senza necessità di adottare una legge ad hoc di ese- (15) Tutte le citazioni seguenti sono tratte da R. CAPONI, Dialogo tra corti nazionali e corti internazionali, in corso di pubblicazione in Treccani. Il libro dell’anno del diritto 2013, Ist. Enciclopedia Italiana, Roma, consultato in bozze per gentile concessione dell’Autore. Si rivolge inoltre un ringraziamento a Franco Mosconi per la preziosa segnalazione della vicenda e per alcuni utili scambi di idee su di essa. (16) Cass., S.U., 11 marzo 2004, n. 5044, Ferrini c. Governo della Repubblica Federale Tedesca, in Foro it., 2007, I, 936. (17) Nel frattempo – e il dato merita di essere ricordato anche se in prima battuta di minor interesse ai nostri specifici fini – «si registrano le prime pronunce di Corti italiane che, pur con motivazioni e in fattispecie diverse, attribuiscono prevalenza a tale decisione nei giudizi in corso» (corsivi aggiunti). Le decisioni cui si fa riferimento sono Cass., 9 agosto 2012, n. 32139; Trib. Firenze, 14 marzo 2012; App. Torino, 14 maggio 2012; Trib. Roma, 13 giugno 2012. (18) Ed «[è] evidente che questo risultato può essere razionalizzato unicamente sostituendo il potere di azione giudiziaria dei singoli con il potere di negoziazione politica tra gli Stati coinvolti in questa vicenda (la Germania e gli Stati nazionali delle vittime) al fine di sanzionare in qualche modo i torti commessi (ciò che infatti la stessa Corte dell’Aja fa capire)». 340 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 cuzione, potendosi far valere la decisione della Corte dell’Aja direttamente come motivo di opposizione all’esecuzione (art. 615 c.p.c.), secondo i principi generali (art. 10 Cost.): le norme di diritto internazionale consuetudinario (come concretizzate in questa fattispecie dalla Corte internazionale di giustizia) prevalgono sulle norme di diritto interno, ivi compresi i precetti scaturenti da sentenze passate in giudicato». Ma, come acutamente osserva Caponi, «[r]esidua teoricamente solo [ma pur sempre residua!] la possibilità di sollevare questione di legittimità costituzionale a protezione dei principi fondamentali dell’ordinamento»: «non già [si badi] il giudicato» – o quantomeno, potrebbe ulteriormente precisarsi, non già il giudicato in quanto tale, – «bensì l’esigenza [primaria, potrebbe dirsi] di punire crimini internazionali, quanto meno quelli commessi sul suolo nazionale » (da tale esigenza primaria discendendo poi l’esigenza, secondaria e “strumentale”, di mantenere ferme le relative condanne passate in giudicato (19), laddove peraltro le due “fasi logiche” sembrano, in una serie di casi, sostanzialmente coincidere sotto il profilo fattuale). Principi fondamentali, si diceva, «intesi come resistenti rispetto ad un così pesante adattamento al diritto internazionale». Con la conseguenza che «[p]robabilmente non sarebbe male che una tale questione venisse sollevata, per immettere anche la Corte costituzionale italiana in questo dialogo (come poi quest’ultima dovrebbe decidere è il proverbiale: “altro paio di maniche”)» (20). Nella consapevolezza, dunque, della molteplicità e complessità dei collegamenti e delle implicazioni che il tema di fondo presenta (21), ma anche, allo stesso tempo, del convergere di tali collegamenti e tali implicazioni verso ben delimitati (o delimitabili) problemi giuridici e verso connesse (e altrettanto ben individuate o individuabili) esigenze concrete – anzitutto in ordine al seguito giurisprudenziale e legislativo della sent. n. 113 –, il presente lavoro intende sviluppare un percorso di indagine e di riflessione (22) relativamente articolato, ma comples- (19) Emerge, a questo proposito, un elemento di (apparente paradosso e) di ulteriore differenza di tale vicenda rispetto alle vicende riconducibili al tema centrale del presente lavoro (ossia quelle vicende in cui la necessità di superamento del giudicato discende da violazioni della CEDU e da sentenze dell Corte di Strasburgo). In queste ultime, in effetti, le istanze di tutela dei diritti fondamentali spingono nel senso della riapertura del giudicato prevalentemente (anche se non necessariamente sempre) allo scopo – in particolare nell’ambito penale, ambito che rivestirà un ruolo di primo piano nell’analisi – di ottenere, mediante tale riapertura, delle conseguenze favorevoli (o almeno non sfavorevoli) per il condannato. Nella vicenda alla quale si è qui fatto riferimento, al contrario, le istanze di tutela dei diritti fondamentali spingono in direzione contraria al superamento del giudicato (superamento finalizzato, per parte sua, alla riaffermazione delle tradizionali immunità giurisdizionali), fornendo invece elementi a favore del mantenimento e dell’esecuzione delle condanne (e di qui l’apparente paradosso: che, evidentemente, è solo apparente; è infatti più che naturale – anche se curiosamente, e significativamente, la cosa suona a volte quasi strana – che per tutelare i diritti occorre anzitutto far rispettare i doveri, e che per far rispettare i doveri occorre anzitutto sanzionarne le violazioni). (20) R. CAPONI, Dialogo tra corti nazionali e corti internazionali, cit. (21) Secondo quanto la “digressione” appena terminata dovrebbe aver già mostrato con sufficiente nettezza. (22) Si tratta di un “percorso” iniziato tra il 2008 e il 2009 (e che in qualche misura nasce da, e si interseca con, altri “filoni” di ricerca coltivati precedentemente e parallelamente); i suoi primi e provvisori esiti erano stati pubblicati – pur nella manifesta consapevolezza della loro parzialità (e sotto lo stimolo, d’altro canto, della loro forte attualità) – in quel periodo: cfr. Il problema dell’intangibilità del giudicato tra Corte di Strasburgo, giudici comuni, Corte costituzionale e… legislatore? (a commento della sentenza della Corte costituzionale n. 129 del 2008), in www.forumcostituzionale.it dal 10 maggio RECENSIONI 341 sivamente lineare, strutturato sulla base di tre prospettive metodologiche – costituzionale, internazionale (o forse meglio sovranazionale) e comparata – che, qui più che mai, appare opportuno alternare e intersecare. Anzitutto, dunque, si cercherà di inquadrare e chiarire la questione (nei limiti del possibile, trattandosi di un tema sotto questo primo profilo piuttosto controverso) ponendosi dal “punto di vista” del diritto internazionale/sovranazionale (23), alla luce degli atti, delle prese di posizione e in genere delle prassi degli organi di Strasburgo (Corte, Comitato dei ministri, Assemblea parlamentare). Già a questo proposito, peraltro, sarà necessario affiancare a una siffatta visione “centralistica” una visione in qualche misura “comparatistica”, in considerazione soprattutto della rilevanza (in termini di ricadute prescrittive) che possono fisiologicamente avere, nell’ambito delle stesse dinamiche proprie del diritto internazionale, ed in particolare del peculiare sistema della CEDU (24), condotte in ipotesi (ma, come si vedrà, non solo in ipotesi) convergenti degli Stati, a fronte di indicazioni o “raccomandazioni” europee di iniziale dubbia e/o ridotta valenza ed a fronte di disposizioni della stessa Convenzione, come precipuamente l’art. 41 e l’art. 46, di portata incerta e di interpretazione di fatto variabile nel tempo (già prima ed a prescindere, quanto all’art. 46, dalle importanti modifiche testuali apportate con il protocollo n. 14 (25)). Di seguito, anche sulla base dell’esito dell’indagine svolta (che, sotto questo altro profilo, assumerà, per specifiche ragioni tecniche oltre che per motivi più generali, un ruolo “prope- 2008, La “riapertura” del giudicato in seguito a sentenze della Corte di Strasburgo: questioni generali e profili interni, in Giurisprudenza costituzionale, 2009, I, pp. 513-543 e, in “parallelo” a questo, La “riapertura” del giudicato in seguito a sentenze della Corte di Strasburgo: profili di comparazione, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2009, II, pp. 917-947. Anche con riguardo agli aspetti già toccati in tali scritti si è in ogni caso proceduto – alla luce sia di importanti eventi successivi, sia di ulteriori studi – ad approfondimenti e sviluppi tali da modificare in modo significativo il quadro rappresentato. (23) Per gli opportuni chiarimenti e approfondimenti sulla giustapposizione “internazionale/sovranazionale” (da una parte, e sulla giustapposizione “sovranazionale/costituzionale”, dall’altra), cfr., volendo, anche per ulteriori indicazioni bibliografiche, O. POLLICINO, V. SCIARABBA, La Corte europea dei diritti dell’uomo e la Corte di giustizia nella prospettiva della giustizia costituzionale, in L. MEZZETTI (cur.), Sistemi e modelli di giustizia costituzionale, tomo II, Padova, CEDAM, 2011, pp. 1-100 (nonché in www.forumcostituzionale.it). (24) Si allude soprattutto, come può intuirsi, alla nota “dottrina”, elaborata dalla Corte di Strasburgo, del “margine di apprezzamento”. Nell’ambito di tale dottrina, proprio per determinare l’ampiezza del residuo margine di discrezionalità degli Stati a fronte delle uniformi previsioni della Convenzione (e della stessa giurisprudenza della Corte), gioca un ruolo decisivo il c.d. consensus standard. Secondo gli schemi argomentativi ai quali si fa riferimento, la Corte di Strasburgo tende in sostanza a delineare un rapporto di proporzionalità inversa tra la misura del margine di apprezzamento riconosciuto – in relazione a vari aspetti connessi all’interpretazione o all’applicazione della Convenzione – agli Stati ed il grado di loro convergenza ideale e operativa con riguardo a tali aspetti, sicché il margine operativo statale si estende in assenza di approcci convergenti e si riduce, per tutti gli Stati contraenti, laddove la Corte giunga a riscontrare il prevalere, in un elevato numero di Paesi, di un determinato orientatamento su un punto precedentemente “aperto”. Per qualche riflessione in proposito, e per ulteriori indicazioni bibliografiche, ci si permette di rinviare a V. SCIARABBA, Il ruolo delle Corti costituzionali nella giurisprudenza della Corte EDU: considerazioni sulla dottrina del margine di apprezzamento, in R. BIN, G. BRUNELLI, A. PUGIOTTO, P. VERONESI (cur.), All’incrocio tra Costituzione e CEDU. Il rango delle norme della Convenzione e l’efficacia interna delle sentenze di Strasburgo, Atti del Seminario, Ferrara, 9 marzo 2007, Torino, Giappichelli, 2007, e-book, p. 235 ss. (25) Sul punto si tornerà ampiamente più avanti, soprattutto nel capitolo I. 342 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 deutico”), la questione sarà affrontata – sia nella sua dimensione più immediata, sia nelle sue implicazioni di più ampio e profondo impatto – dallo specifico “punto di vista” del diritto costituzionale interno, quantomeno allo scopo di fornirne, anche in questa evidentemente centrale prospettiva, un primo inquadramento generale, destinato peraltro a essere maggiormente approfondito e sviluppato nel corso della trattazione immediatamente successiva, dedicata alle importanti vicende giurisdizionali che a livello nazionale hanno ampiamente coinvolto – evidenziandone un notevole (e in buona parte necessitato (26)) “attivismo” – sia le giurisdizioni comuni, di merito e di legittimità, sia, ripetutamente, il giudice costituzionale. A tali vicende, per ragioni intuibili, sarà dedicata – nel secondo capitolo – un’attentissima analisi: non solo in una (sempre opportuna) prospettiva critica, onde comprenderne e valutarne, in breve, luci e ombre (considerando le relative decisioni, per così dire, “in sé e per sé”, sotto il profilo teorico e pratico); ma anche allo scopo di trarne, ove possibile, elementi utili in vista della più consapevole ricostruzione dello, e riflessione sullo, stesso quadro costituzionale (e ciò si farà, come ovvio, soffermandosi soprattutto sulle sentenze del giudice delle leggi). Così analizzati gli sviluppi della giurisprudenza interna (nonché, per l’appunto, il quadro costituzionale e quello “europeo”, nelle relative interconnessioni), si passerà poi nel terzo capitolo, virando in modo più deciso verso l’approccio comparatistico, a una indagine sulle diversificate “risposte” (27) che sono state date nei quarantasette Paesi aderenti alla CEDU al comune “problema” – di rilievo almeno sostanzialmente (e per così dire “profondamente”) costituzionale – rappresentato, in via di primissimo e provvisorio inquadramento, dall’esigenza di mettere in discussione il “dogma ordinamentale” dell’intangibilità del giudicato a fronte di alcune, accertate violazioni della CEDU. Tale indagine comparatistica sarà impostata secondo uno schema “analitico”, forse un po’ inusuale (ma neanche tanto) e però, si spera, meglio rispondente allo scopo, che, lungi da ogni pretesa di esaustività, è quello di “mettere insieme”, (26) Hanno insistito sul ruolo di “supplenza” nei confronti del legislatore ripetutamente svolto in questo ambito dai (vari) giudici – tra gli altri – G. FRIGO (prima di trovarsi nella condizione di dover personalmente svolgere tale ruolo, come membro della Corte costituzionale e redattore della sentenza n. 113 del 2011) – di cui può ricordarsi il commento alla sentenza Cass., sez. I, 12 luglio 2006, Somogyi, significativamente intitolato Dalla supplenza dei magistrati una «toppa» per il legislatore, in Guida al diritto, Diritto comunitario e internazionale, 2006, n. 6, p. 29 – e S. LONATI, tra l’altro in Il «caso Drassich»: continua l’opera di supplenza della giurisprudenza di fronte alla perdurante (e sconcertante) inerzia del legislatore italiano in tema di esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Cassazione penale, 2011, fasc. 1, p. 263-275 e, a commento proprio della sentenza n. 113, in La Corte costituzionale individua lo strumento per adempiere all’obbligo di conformarsi alle condanne europee: l’inserimento delle sentenze della Corte europea tra i casi di revisione, in Giurisprudenza costituzionale, 2011, fasc. 2 p. 1557-1565 (nonché, con alcune differenze nel titolo e nel contenuto – più esteso quanto alla ricostruzione delle precedenti tappe della vicenda e leggermente meno quanto alle riflessioni sulle implicazioni della nuova sentenza – in www.penalecontemporaneo.it). Cfr. inoltre, per alcuni cenni in proposito (oltre che per una riflessione più generale), F. MODUGNO, La “supplenza” della Corte costituzionale, Relazione al convegno “Il ruolo del giudice: le magistrature supreme”, Roma, 18 e 19 maggio 2007, in ID., Scritti sull’interpretazione costituzionale, Napoli, Editoriale Scientifica, 2008, p. 107 ss. (27) Diversificate nel merito come nel metodo, avendo riguardo soprattutto al ruolo svolto in proposito dai diversi formanti. (Per alcune imprescindibili riflessioni di base sull’ormai classica nozione di “formante” – che con ottima sintesi G. BOGNETTI, Introduzione al diritto costituzionale comparato, Torino, Giappichelli, 1994, p. 84, riconduce all’individuazione di «talune tipiche componenti dell’ordinamento giuridico in quanto dinamico intreccio di attività normogenetiche e normoplasmanti d’ogni specie» – si rinvia senz’altro a R. SACCO, Introduzione al diritto comparato, Milano, Giuffrè, 1992, e a A. GAMBARO, R. SACCO, Sistemi giuridici comparati, Torino, UTET, 2002). RECENSIONI 343 secondo criteri di razionalità e di opportunità, un bagaglio di nozioni e di riflessioni che possano essere utili anzitutto nel contesto italiano attuale, anche e precipuamente nella (duplice) prospettiva de lege ferenda e de sententia ferenda (28). Si effettuerà, dunque, un’operazione apparentemente di “micro-comparazione”, incentrata su un problema specifico (29) – ma con implicazioni di notevole rilievo sistematico e, appunto, “ordinamentale”– che, per la sua natura, appare ideale ai fini di un confronto non solo e non tanto tra ordinamenti, quanto piuttosto tra i diversi modi con cui ordinamenti tra loro simili o almeno in “posizione” simile (cioè gli ordinamenti nazionali europei) si sono rapportati e si rapportano all’ordinamento sovranazionale europeo: nel caso in questione, con l’ordinamento – o meglio, come si diceva, con il sistema – istituito dalla Convenzione europea. Si affronterà cioè un caso, quasi esemplare, di comparazione (non solo, come si diceva, tra ordinamenti diversi, ma anche e soprattutto) tra diversi rapporti tra ordinamenti (sotto il profilo (28) Come si vedrà meglio nel terzo capitolo, si è sostanzialmente costruita una griglia di lavoro nella quale, su uno dei due assi ideali, si sono posti una serie di aspetti specifici da affrontare; e, sull’altro asse, le “risposte” punto per punto offerte – per via di innovazione legislativa o per via di interpretazione giurisprudenziale più o meno “creativa” – dagli ordinamenti dei Paesi aderenti alla CEDU (riconducendoli ovviamente, dove possibile, a degli “insiemi” se non anche a dei sottoinsiemi, allo scopo di razionalizzare il quadro risultante dall’indagine e poter meglio riflettere su di esso). Nell’ambito di tale griglia, più precisamente, un primo fondamentale problema (e una prima serie di risposte) riguarderà la previa delimitazione dell’ambito della possibile riapertura – o, per riprendere l’efficace dizione, opportunamente generica, utilizzata dalla nostra Corte di cassazione (Cass., sez. IV pen., sent. 12 novembre 2008, n. 45807, caso Drassich), della possibile “rimozione” – del giudicato interno: (solo) i procedimenti penali, come in alcuni disegni di legge italiani sui quali ci soffermerà in seguito, o (anche) quelli civili e/o amministrativi (come in diversi ordinamenti)? Un secondo, altrettanto importante problema (e una seconda serie di risposte) riguarderà l’esatta individuazione dei presupposti di tale riapertura/rimozione: sarà questa una di quelle “caselle” della griglia di lavoro che dovrà a sua volta essere scomposta e articolata in modo più dettagliato, il problema coinvolgendo infatti, se non altro: a) la natura della norma convenzionale la cui violazione è stata accertata: (solo) di garanzia procedurale o (anche) di vincolo sostanziale? b) il tipo di nesso tra la violazione e l’esito del giudizio interno; c) la (gravità e la) natura delle conseguenze della violazione subite dal ricorrente, in riferimento alla possibilità o meno di rimuoverle in altri modi; d) l’eventualità di forme di riapertura del giudicato a fini di mera rideterminazione della pena; e) l’individuazione dei soggetti legittimati a chiedere la riapertura: aspetto questo fondamentale in quanto ricondurrà alla più ampia e cruciale questione dell’eventuale efficacia “espansiva” delle decisioni della Corte di Strasburgo in relazione a ricorrenti e/o a Paesi diversi dai diretti destinatari di esse. Un terzo problema (o, ancora una volta, un terzo ordine di problemi e di risposte), forse meno “appariscente” in un’ottica “costituzionale”, ma non certo meno rilevante ai fini pratici né meno impegnativo e significativo nelle sue implicazioni teoriche, riguarderà l’individuazione dell’organo interno competente e delle soluzioni procedurali previste in caso di ammissione delle richieste di riapertura, fino alla previsione dei possibili “sbocchi” finali, dei “risultati” ultimi cui potrà giungersi al termine e come esito della (più o meno articolata) procedura complessiva. (29) A sua volta anzi scomposto, come anticipato, in “sotto-questioni” (con riguardo ai singoli nodi tecnici del problema ed al modo in cui ciascuno di essi è stato affrontato nei vari ordinamenti), ritenendosi a tal fine se non inutile comunque insufficiente una “carrellata” descrittiva delle complessive discipline dei Paesi aderenti alla CEDU, considerati – per così dire – uno alla volta e una volta per tutte. In ogni caso, alla opportunità di fornire (anche) una visione d’insieme, che sia al contempo abbastanza precisa e completa, cercherà di rispondere il paragrafo 2 del capitolo III, nel quale saranno puntualmente richiamati, con riguardo a ciascun Paese, i riferimenti normativi e/o giurisprudenziali sui quali si basa la possibilità (certa oppure più o meno verosimile) – o, al contrario, l’impossibilità – di “riapertura post- Strasburgo”, in ambito rispettivamente penale, civile ed amministrativo. 344 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2013 delle fonti e sotto il profilo del ruolo dei diversi attori giurisdizionali), collocabile oltre quella che, con altri termini, si è avuto occasione di definire (30) – rimarcando la necessità che, a fronte degli impetuosi sviluppi in atto sul fronte della CEDU come sul fronte dell’Unione, vi si dedichi la massima attenzione – una (seconda) nuova frontiera della comparazione (31) (probabilmente meno battuta della precedente, almeno in Italia e sia pure con diverse eccezioni), che volendo potrebbe essere evocata più icasticamente attraverso le “etichette” di “diritto convenzionale comparato” (o “diritto comunitario comparato”, o, ancora, “diritto internazionale comparato”). Non rileva dunque tanto, in una simile prospettiva, lo studio dei menzionati sistemi sovranazionali, in sé o nei loro rapporti con quelli nazionali secondo il proprio unitario “punto di vista” (32), bensì, al contrario, lo studio dei sistemi nazionali sotto il profilo dei rispettivi rapporti – quali delineati dalle fonti normative, dalle prassi e dalle decisioni giurisdizionali interne – con il sistema della CEDU (e con il sistema dell’Unione; e, sullo sfondo, con l’ordinamento internazionale in senso stretto) (33). D’altronde, non può farsi a meno di notare, un “rapporto”, in quanto tale, non può che essere “bipolare”, e se il sistema della CEDU (o il sistema dell’Unione) è per definizione solo uno, i sistemi nazionali sono tanti, ognuno con le sue ineliminabili o almeno perduranti peculiarità: ognuno dunque, come si diceva, con il suo “punto di vista”, più o meno “recessivo”, ma in ogni caso meritevole di rispettosa e curiosa attenzione (se non altro per gli spunti che, nel quadro di fondo comune, esso potrà offrire agli altri sistemi nazionali). Completata (ai fini prefissati) l’indagine comparatistica, si tornerà sul fronte interno per esaminare, nel quarto capitolo, le varie proposte legislative che, sul tema in questione, sono state fino a questo momento presentate, in parte discusse, ma mai giunte ad approvazione. E (30) In I sistemi sovranazionali “paracostituzionali” dell’UE e della CEDU ed i loro rapporti con i sistemi nazionali: “svolte” recenti e nuove frontiere della comparazione, Relazione al “I° Colloquio biennale dei giovani comparatisti” organizzato dalla Associazione Italiana di Diritto comparato sul tema Le nuove frontiere del diritto comparato (Macerata, 23-24 maggio 2008), in www.europeanrights.eu. (31) Laddove una prima (più esplorata) nuova frontiera della comparazione, soprattutto pubblicistica, sarebbe quella che si affaccia, anziché sugli Stati nazionali (oggetto della comparazione tradizionale), sui sistemi “paracostituzionali” sovranazionali, della CEDU e dell’Unione, considerandoli, per così dire, in sé e per sé e nei loro rapporti con gli ordinamenti nazionali quali si configurano secondo il proprio “punto di vista” (quello cioè “europeo”), ricostruibile attraverso l’analisi della giurisprudenza (delle Corti di Strasburgo e di Lussemburgo) e della prassi (soprattutto del Comitato dei ministri nel sistema della CEDU; delle varie istituzioni “politiche” in quello dell’Unione) non meno che delle fonti normative in senso stretto (la Convenzione; i Trattati, la “Carta di Nizza”), ovvio punto di partenza di ogni riflessione in proposito. (32) Punto di vista che, invece, assume pieno rilievo e centrale importanza all’interno dell’indagine svolta – nella prospettiva definita (per comodità) “internazionalistica” – nell’ambito del primo capitolo. È appena il caso di precisare che le diverse prospettive, pur essendo, per l’appunto, diverse (ovvero concettualmente separate, o comunque separabili, a prescindere dalla loro divergenza o convergenza su singoli punti), non sono, come ovvio, tra loro del tutto indipendenti (e, per così dire, chiuse in sé stesse e pienamente autoreferenziali), ciascuna prospettiva dovendo in qualche modo e in qualche misura fare i conti con le altre (e, in effetti, è proprio a precisare tali “dettagli” – modi, entità e limiti delle necessarie o opportune interrelazioni tra i diversi ordinamenti e le diverse, connesse, prospettive visuali – che puntano le parti più interessanti della ricerca comparatistica, o, se si vuole, neocomparatistica). (33) È chiaro, in effetti, che le soluzioni e le prese di posizione nazionali – al di là delle istanze di uniformazione provenienti dall’alto – variano anche sensibilmente, nello spazio e nel tempo (esattamente da ciò derivando l’esigenza di uno studio comparato). RECENSIONI 345 – riadottando una prospettiva essenzialmente costituzionale, ma sensibilmente arricchita e integrata proprio dagli apporti della prospettiva “internazionale” (e/o, più precisamente, sovranazionale europea) e di quella (nazional-)”comparata” – ci si spingerà nel quinto e ultimo capitolo a tentare una serie di considerazioni, anzitutto, de lege ferenda, proprio sulla congruità (o, piuttosto, sulle criticità) delle esaminate proposte legislative rispetto ai vincoli, e in genere alle più significative indicazioni, ricavabili appunto dal triplice quadro costituzionale, internazionale (europeo) e comparato; e, in secondo luogo, de sententia ferenda, sul delicato compito che dovrà essere svolto dai giudici comuni in attesa, o comunque in assenza, dell’auspicato (e auspicabile, almeno… a certe condizioni) intervento legislativo. Finito di stampare nel mese di giugno 2013 Servizi Tipografici Carlo Colombo s.r.l. Via Roberto Malatesta n. 296 - Roma