ANNO LXIV - N. 4 OTTOBRE - DICEMBRE 2012 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO COMITATO SCIENTIFICO: Presidente: Michele Dipace. Componenti: Franco Coppi - Giuseppe Guarino - Natalino Irti - Eugenio Picozza - Franco Gaetano Scoca. DIRETTORE RESPONSABILE: Giuseppe Fiengo - CONDIRETTORI: Giacomo Arena e Maurizio Borgo. COMITATO DI REDAZIONE: Lorenzo D’Ascia - Gianni De Bellis - Sergio Fiorentino - Paolo Gentili - Maria Vittoria Lumetti - Francesco Meloncelli - Antonio Palatiello - Marina Russo - Massimo Santoro - Carlo Sica - Stefano Varone. CORRISPONDENTI DELLE AVVOCATURE DISTRETTUALI: Andrea Michele Caridi - Stefano Maria Cerillo - Luigi Gabriele Correnti - Giuseppe Di Gesu - Paolo Grasso - Pierfrancesco La Spina - Marco Meloni - Maria Assunta Mercati - Alfonso Mezzotero - Riccardo Montagnoli - Domenico Mutino - Nicola Parri - Adele Quattrone - Pietro Vitullo. HANNO COLLABORATO INOLTRE AL PRESENTE FASCICOLO: Giuseppe Albenzio, Fiorenza Barazzoni, Federico Basilica, Stefano Bini, Alessandra Bruni, Alessandro De Stefano, Sergio Di Amato, Wally Ferrante, Paolo Francalacci, Cristina Gerardis, Livia Giuliani, Stefano Grassi, Palmira Graziano, Antonio Grumetto, Giulia Guccione, Ilia Massarelli, Lionello Orcali, Sibilla Ottoni, Vincenzo Rago, Diana Ranucci, Francesco Spada, Marco Stigliano Messuti, Barbara Tidore, Roberta Tortora. E-mail: giuseppe.fiengo@avvocaturastato.it - tel. 066829313 maurizio.borgo@avvocaturastato.it - tel. 066829597 ABBONAMENTO ANNUO ..............................................................................€ 40,00 UN NUMERO .............................................................................................. € 12,00 Per abbonamenti ed acquisti inviare copia della quietanza di versamento di bonifico bancario o postale a favore della Tesoreria dello Stato specificando codice IBAN: IT 42Q 01000 03245 348 0 10 2368 05, causale di versamento, indirizzo ove effettuare la spedizione, codice fiscale del versante. I destinatari della rivista sono pregati di comunicare eventuali variazioni di indirizzo AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO RASSEGNA - Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma E-mail: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it Stampato in Italia - Printed in Italy Autorizzazione Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 INDICE - SOMMARIO TEMI ISTITUZIONALI Discorso di insediamento dell’Avvocato Generale dello Stato, avv. Michele Giuseppe Dipace - Sala Vanvitelli, 8 febbraio 2013 . . . . . . . . . . . . Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato, avv. Michele Giuseppe Dipace, in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2013 - Roma, Palazzo di Giustizia, Aula Magna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. Legge 31 dicembre 2012, n. 247 recante “Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense”, Circolare AGS prot. 89336 del 26 febbraio 2013, n. 6 . . . . . . . . CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 1.- Le decisioni della Corte di giustizia dell’Unione europea Giuseppe Fiengo, Le regole europee in materia di appalti pubblici: nulla di nuovo dalla Corte (...?) (C. giustizia, Grande Sezione, sent. 19 dicembre 2012, causa C-159/11) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Alessandro De Stefano, Il lavoro a tempo determinato e quello a tempo indeterminato sono la stessa cosa? (C. giustizia, Sesta Sez, sent. 18 ottobre 2012, cause riunite da C-302/11 a C-305/11) . . . . . . . . . . . . . . 2.- I giudizi in corso della Corte di giustizia Ue Stefano Varone, Libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi; Diritto di stabilimento; Libera circolazione dei servizi, Causa C-234/12 Giuseppe Albenzio, Libera circolazione delle merci; Unione doganale; Fiscalità; Imposta sul valore aggiunto, Causa C-273/12 . . . . . . . . . . Stefano Varone, Ravvicinamento delle legislazioni; Tutela dei consumatori, Causa C-281/12 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Marina Russo, Ravvicinamento delle legislazioni, Causa C-342/12. . . Barbara Tidore, Ravvicinamento delle legislazioni, Causa C-352/12 Cristina Gerardis, Disposizioni sociali, Ravvicinamento delle legislazioni, Causa C-361/12 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Massimo Santoro, Ravvicinamento delle legislazioni; Libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi; Libera circolazione dei servizi, Causa C-371/12. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Stefano Varone, Ravvicinamento delle legislazioni, Causa C-409/12 . Wally Ferrante, Libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi, Diritto di stabilimento, Libera circolazione dei servizi, Causa C-442/12 pag. 1 ›› 13 ›› 20 ›› 23 ›› 33 ›› 48 ›› 59 ›› 65 ›› 73 ›› 76 ›› 87 ›› 102 ›› 120 ›› 132 CONTENZIOSO NAZIONALE Lionello Orcali, Osservazioni sull’indennità di occupazione, a seguito della sentenza 181/2011 della Corte Costituzionale . . . . . . . . . . . . . . . . Palmira Graziano, La normativa speciale sul reclutamento e sul trattamento economico del personale scolastico all’analisi della Cassazione. Dalla chiara enunciazione del divieto di conversione dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato al pericoloso obiter dictum sugli scatti biennali da riconoscersi nel periodo “lavorato” (Cass. civ., Sez. Lavoro, sent. 20 giugno 2012 n. 10127). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Marina Russo, La regolarità causale nel contenzioso emotrasfusionale (Cass. civ., Sez. Terza, sent. 31 gennaio 2013 n. 2520) . . . . . . . . . . . . . . Marina Russo, Sul termine breve di impugnazione nel caso di «notifica», da parte del cancelliere, di ordinanza di correzione (C. Conti, Sez. Terza Giurisd. Centr. d’App., sent. 18 gennaio 2013 n. 43). . . . . . . . . . . . . . . . Sibilla Ottoni, Silenzio assenso ed ipotesi non regolate di nulla osta paesaggistico: l’interpretazione teleologica del Consiglio di Stato (Cons. St. Sez. VI, sent. 21 giugno 2011 n. 3723) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Roberta Tortora, Parametri europei (e nazionali) per l’identificazione di “una unità istituzionale pubblica” (Cons. St., Sez. Sesta, sent. 28 novembre 2012 n. 6014) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Vincenzo Rago, Rimborso spese legali a pubblico dipendente ex art. 18 D.L. 67/1997. Nel caso di specie: imputazione di concussione per fatti che esulano da fini istituzionali e assoluzione con formula parzialmente liberatoria (Cons. St., Sez. Quarta, sent. 26 febbraio 2013 n. 1190) . . . I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO Ilia Massarelli, Recupero dei crediti alimentari ai sensi della Convenzione di New York del 20 giugno 1956. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Alessandra Bruni, Competenze dell’Agenzia del Demanio in materia di gestione dei beni confiscati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Antonio Grumetto, Materia doganale: natura della violazione prevista dall’art. 302 co. 1 del d.p.r. 23 gennaio 1973 n. 43 . . . . . . . . . . . . . . . . . Gianni De Bellis, Pagamento del tributo in pendenza del processo: compatibilità dell’art. 68 co. 2, D.Lgs. n. 546/92 al Codice Doganale Comunitario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Marco Stigliano Messuti, In materia di contributi pubblici alle imprese editoriali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Stefano Varone, Collegi arbitrali. Legge 6 novembre 2012 n. 190, art. 1 co. 18: regime intertemporale sul divieto di partecipazione di magistrati e di avvocati/procuratori dello Stato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Diana Ranucci, Esecuzione all’estero delle sentenze emesse dalla Corte dei Conti. Convenzioni di Bruxelles del 27 settembre 1968. . . . . . . . . . . pag. 137 ›› 151 ›› 202 ›› 205 ›› 209 ›› 222 ›› 230 ›› 237 ›› 242 ›› 250 ›› 256 ›› 262 ›› 264 ›› 266 LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ Paolo Francalacci, «Ecosistemi», «biodiversità» e «servizi naturali»: definizioni e caratteristiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Francesco Spada, Le disposizioni in materia di “parità di genere” negli organi di amministrazione e controllo delle società . . . . . . . . . . . . . . . . CONTRIBUTI DI DOTTRINA Stefano Grassi, Tutela e fruizione del patrimonio culturale . . . . . . . . . . Stefano Bini, Per un bilanciamento di valori tra persona e impresa. . . . Giulia Guccione, L’Astreinte amministrativa. Problematiche applicative dell’art. 114, comma 4, lettera e) c.p.a. e prime applicazioni giurisprudenziali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Maria Vittoria Lumetti, Il procedimento cautelare davanti al Giudice amministrativo. I) La graduazione dell’urgenza, la prognosi sommaria e i casi di fumus qualificato nel codice processuale amministrativo. II) Il procedimento minicautelare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . RECENSIONI Federico Basilica, Fiorenza Barazzoni, Verso la Smart Regulation in Europa - Towards Smart Regulation in Europe, Ed. Maggioli, 2013. . . . . . Sergio Di Amato, La responsabilità disciplinare dei magistrati. Gli illeciti - Le sanzioni - Il procedimento, Giuffrè Editore, 2013. Presentazione di Ernesto Lupo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Livia Giuliani, Autodifesa e difesa tecnica nei procedimenti de libertate, Pubblicazioni della Università di Pavia, Facoltà di Giurisprudenza, Studi nelle scienze giuridiche e sociali, CEDAM 2012. . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 269 ›› 300 ›› 307 ›› 318 ›› 328 ›› 336 ›› 367 ›› 368 ›› 373 TEMI ISTITUZIONALI Cerimonia di insediamento dell’Avvocato Generale dello Stato Discorso dell’Avvocato Generale dello Stato Avv. Michele Giuseppe Dipace SOMMARIO: 1. Saluti e ringraziamenti 2. Cenni storici e funzioni dell’Avvocatura dello Stato 3. Margini di miglioramento 4. Uno sguardo al futuro. Prospettive di riforma 5. Conclusioni 1. Saluti e ringraziamenti. Signor Presidente della Repubblica, a nome di tutta l'Avvocatura dello Stato, desidero esprimerLe i sensi della più viva gratitudine per aver voluto, con la Sua partecipazione, conferire particolare solennità a questa cerimonia di insediamento. Ella si è sempre dimostrato attento e sensibile ai problemi del diritto e della difesa dello Stato e delle sue Istituzioni democratiche, nel corso della Sua prestigiosa esperienza di parlamentare, di uomo di Stato e di Presidente della Repubblica. Mi sia anche consentito rivolgere un sentito ringraziamento al Vice Presidente del Senato della Repubblica, al Vice Presidente della Camera dei Deputati, al Presidente della Corte Costituzionale, al Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, ai Presidenti emeriti della Corte Costituzionale, ai Ministri, ai Giudici costituzionali, al Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, al Primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione, ai Sottosegretari di Stato e ai Presidenti delle commissioni parlamentari presenti in questa sala. Un ringraziamento ed un saluto particolarmente affettuoso ai Presidenti del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti e al Procuratore Generale della Corte di Cassazione, ai quali mi legano tanti ricordi della mia vita professionale oltre che una sincera amicizia. 2 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Un sentito grazie anche agli illustri rappresentanti delle Autorità indipendenti ed al Capo di Stato Maggiore della Difesa. Un grato saluto a tutti i magistrati presenti, a tutte le altre Autorità civili e militari, al Presidente del Consiglio Nazionale Forense ed a tutti i colleghi del libero foro, cui ci lega la comune esperienza forense, a tutti i colleghi dell'Avvocatura dello Stato con sentimenti di stima ed amicizia. Saluto, inoltre, le organizzazioni sindacali del personale togato e non togato e, con affetto, tutto il personale amministrativo dell’Avvocatura dello Stato. Un grato saluto, infine, a tutti coloro che hanno voluto, con la loro presenza, onorare questo Istituto. Un sentimento di sincera e particolare gratitudine, desidero esprimere al Governo per la fiducia accordatami con la nomina a questa carica e a Lei, signor Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, per le lusinghiere parole che ha voluto rivolgere all’Istituto, ed a me personalmente, che costituiscono un riconoscimento del nostro impegno professionale ed uno stimolo per la nostra attività futura. Un omaggio di stima e di amicizia vorrei indirizzare agli Avvocati Generali che mi hanno preceduto nella carica, e che con saggezza e prestigio hanno in questi anni guidato l'Istituto: Luigi Mazzella, Oscar Fiumara e Ignazio Francesco Caramazza che da ultimo ha retto il nostro Istituto. L’insediamento dell’Avvocato Generale costituisce l’occasione per una relazione sull’attività dell’Avvocatura, sulla evoluzione dell’organizzazione e sopratutto su ciò che si ritiene necessario nel futuro per rendere il servizio legale sempre più efficiente e tempestivo a tutela dell’interesse pubblico. 2. Cenni storici e funzioni dell’Avvocatura dello Stato. L’Avvocatura dello Stato è una delle più antiche istituzioni dello Stato unitario. La conformazione dell’Istituto ha la sua matrice storica nel sistema del granducato di Toscana, dove Leopoldo di Lorena aveva istituito l’avvocato regio per la rappresentanza e difesa dello Stato in giudizio, che portò nel 1876 alla costituzione della Regia avvocatura erariale sul modello dell’avvocato regio di Toscana. Essa trova i suoi antecedenti logici ed ideologici nella concezione illuministica dell'amministrazione pubblica, attenta ad un'ordinata e corretta gestione del settore finanziario nell’interesse degli stessi amministrati. La riforma consistette, in apparente semplicità, nell’affidamento della rappresentanza e difesa tecnica e delle consultazioni legali ad un corpo di avvocati costituito ad hoc. Questa vocazione spiccatamente legalitaria e giustiziale fu mantenuta dall’Avvocatura dello Stato anche quando si trovò ad esercitare i propri compiti negli anni difficili in cui lo spirito autoritario dei tempi tendeva a privilegiare gli interessi contingenti dello Stato-apparato. L’Istituto trova, tuttora, la sua disciplina essenziale nel R.D. n. 1611 del TEMI ISTITUZIONALI 3 1933, cui la legge n. 103 del 1979 ha apportato modifiche, introducendo importanti garanzie nella gestione dell'Istituto, nonché la disciplina della possibile estensione delle funzioni alle regioni a statuto ordinario. Sotto il profilo organizzativo, la riforma del 1979 ha opportunamente accentuato l'affrancamento da riflessi burocratici della composita figura dell'avvocato dello Stato, che non è più ordinata in un complesso gerarchico di qualifiche, ma unitariamente concepita in ragione dell'identità della funzione. Le due fondamentali funzioni dell’Avvocatura dello Stato sono la rappresentanza e difesa in giudizio e l’attività consultiva. L'attività dell'Avvocatura dello Stato si svolge senza possibilità di fratture tra funzione contenziosa e funzione consultiva. L'una e l'altra devono concorrere a garantire la tutela degli interessi di cui sono portatori gli organi della pubblica amministrazione nel rispetto della ragione, immanente e primaria, della giustizia. Gli avvocati dello Stato esercitano la funzione difensiva di fronte “a tutte le giurisdizioni”: quelle nazionali, sia esse ordinarie (dalla Corte Costituzionale ai Giudici di pace) che amministrative, quelle comunitarie (quali la Corte di Giustizia e il Tribunale dell’Unione Europea) e quelle internazionali (quali la Corte di Giustizia internazionale dell’Aja e spesso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo). Il patrocinio dell’Avvocatura si articola nelle forme del patrocinio obbligatorio e autorizzato. Il primo è assicurato a tutte le amministrazioni statali che se ne devono obbligatoriamente avvalere ed è connotato da un particolare regime processuale. Quanto al patrocinio autorizzato, per gli organismi pubblici tra cui anche le autorità indipendenti, la giurisprudenza ha ormai chiarito che la natura autorizzata dello stesso non ne muta il carattere organico ed esclusivo. Quanto, invece, alla funzione consultiva, va evidenziato che essa caratterizza il ruolo professionale dell’Avvocato dello Stato che è, appunto, quello di essere vicino alle amministrazioni patrocinate, consigliandole sotto l’aspetto legale nella loro attività amministrativa con una valutazione delle questioni neutra e imparziale, tenendo sempre presente la tutela dell’interesse pubblico generale cui deve armonizzarsi l’interesse pubblico di competenza delle singole amministrazioni da esercitarsi nel rispetto del principio di legalità e di economicità dell’azione amministrativa. Proprio in tale ottica sono state costituite presso l’Avvocatura Generale le sezioni (per materia e per amministrazioni), che rendono efficace e continuo il rapporto tra la dirigenza dei ministeri ed enti patrocinati e l’Avvocatura dello Stato. La funzione consultiva rimane, comunque, estranea al concreto esercizio del potere pubblico. E non è per caso che questa si sia andata estendendo dall’originario ambito dell’apparato amministrativo statale e di numerosi enti pubblici fino agli organi costituzionali e ad organismi internazionali e sovranazionali. La funzione consultiva - che ha carattere di “generalità” - rende evidente 4 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 che l’Avvocatura dello Stato non svolge solo un’attività di assistenza legale per le controversie in atto, ma assolve un insostituibile ruolo di prevenzione delle liti potenziali, che ha particolare importanza di fronte alle pressanti esigenze di contenimento della spesa pubblica e dei costi delle Amministrazioni statali. L’attività consultiva è, dunque, espressione di una funzione pubblica che può riguardare ogni tipo di rapporto: dall’ammissibilità di un referendum popolare alla conflittualità tra Stato e Regioni, tra Regioni e tra poteri dello Stato; dalla conformità delle leggi alla Costituzione ai limiti di attribuzione dei soggetti istituzionali pubblici statali e non statali; dalla legittimità dell’azione amministrativa nei settori più disparati all’opportunità delle scelte discrezionali spesso in delicate materie che coinvolgono ingenti risorse finanziarie (come nel caso degli appalti pubblici) e talvolta la stessa immagine dello Stato, come accade nel contenzioso internazionale e comunitario. Il connotato peculiare dell'Istituto, che non tutela soltanto l'interesse di una singola amministrazione, bensì - direttamente o indirettamente - l'interesse generale dello Stato nella sua unitarietà, spiega la sua posizione di autonomia e indipendenza funzionale di fronte ad ogni singola amministrazione, cui si correla l’elevata qualificazione professionale degli avvocati e procuratori dello Stato, assicurata da rigorosi criteri di selezione e di accesso. Sono queste le funzioni e l’organizzazione interna come delineate dalla legislazione del 1933, con i ritocchi operati dalla riforma del 1979, che hanno consentito all’Istituto di adeguarsi, con tempestività ed efficacia, alla profonda evoluzione che ha interessato l’ordinamento. L’Istituto, infatti, ha saputo attraversare mutamenti ed evoluzioni, che hanno via via consegnato all’Avvocato dello Stato un ruolo sempre più complesso e composito. A livello sopranazionale, vanno ricordati il processo di integrazione europea ed il consolidamento di nuovi settori di contenzioso avanti la Corte di Giustizia ed il Tribunale dell’Unione Europea, nonché la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. A livello nazionale, va ricordata la riforma costituzionale che ha portato alla modifica del titolo V della parte II della Costituzione, definendo un nuovo riparto di poteri tra Stato e Regioni, e che, capovolgendo il precedente sistema, lascia allo Stato i poteri per esso specificamente previsti e devolve alle Regioni ogni competenza nelle materie non espressamente considerate. Non poche sono state poi le innovazioni successive che hanno inciso sull’attività dell'Avvocatura dello Stato. Innanzitutto, va segnalato il profondo cambiamento dell’organizzazione dell’esecutivo e in particolare: a) la creazione di autorità indipendenti e/o di garanzia in una prospettiva di effettività di affermazione e di tutela di determinati valori costituzionali e di nuovi diritti sociali o di cittadinanza; TEMI ISTITUZIONALI 5 b) il mutamento del modello organizzativo delle funzioni statali che ha portato alla creazione del sistema delle agenzie ed alla trasformazione di enti o aziende pubbliche in società per azioni, con progressiva destatalizzazione di funzioni o, a seconda dei casi, all’esercizio da parte dei nuovi soggetti di funzioni di cui rimane titolare lo Stato. Del pari significativa è l’evoluzione del diritto amministrativo, sia sostanziale che processuale, che ha avuto il suo recente epilogo con l’adozione del Codice del processo amministrativo. Il riferimento obbligato è alle riforme, che hanno modificato il volto della Pubblica Amministrazione per renderla più veloce e più vicina ai bisogni dei cittadini, con l’introduzione di forme più celeri, aperte e partecipate di esercizio dell’azione amministrativa e una più estesa tutela giustiziale, precipitato logico di un controllo sempre più stringente sui pubblici poteri. Si pensi a: a) il notevole ampliamento della sfera di giurisdizione esclusiva che ha trasformato il giudice amministrativo in giudice dell'amministrazione in materia economica; b) l’estensione e, potremmo dire, il vero e proprio mutamento dei poteri del giudice amministrativo, con l'introduzione di una vasta gamma di azioni esperibili contro la Pubblica Amministrazione (da quella di accertamento fino a quella di adempimento); l’introduzione del procedimento cautelare atipico; l'attribuzione di più ampi poteri istruttori, oltre che dello strumento della tutela risarcitoria, nonché - in definitiva - la tendenziale evoluzione del processo amministrativo verso un giudizio sempre più penetrante sul rapporto e non più solo sull’atto amministrativo. In quest’ottica è del tutto evidente che l’Avvocatura dello Stato è chiamata a svolgere un ruolo di sempre maggiore “presenza”, nella tutela dell’interesse pubblico e del corretto esercizio dell’azione amministrativa. Ciò, sia nella fase precontenziosa, dove assiste l’Amministrazione nella ricerca della migliore soluzione di contemperamento e soddisfazione degli interessi; sia nella fase contenziosa, ove è chiamata a rappresentare e difendere a tutto campo la posizione dell’Amministrazione, anche con poteri “integrativi” della motivazione del provvedimento anche nell’ambito del giudizio. Ugualmente hanno inciso sull’attività dell’Avvocatura le profonde revisioni della giustizia civile. In particolare, la radicale modifica del sistema processuale civile con: a) la riforma del giudizio per Cassazione (che ne costituisce il culmine), suscettibile di determinare, nella pratica, una selezione di avvocati cassazionisti per il rigore della tecnica richiesta; b) il rigoroso regime generalizzato delle decadenze nel giudizio di merito e l’esecutività delle sentenze di primo grado, che aumentano le difficoltà e la complessità della difesa delle Amministrazioni in relazione ai tempi tecnici 6 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 delle relazioni tra Avvocatura ed Amministrazioni assistite; c) la stabilità dei provvedimenti cautelari e d'urgenza che impone assoluta tempestività e snellezza operativa nella trattazione dei rispettivi procedimenti; d) l’estensione delle posizioni giuridiche sostanziali tutelabili della quale è espressione la previsione delle garanzie riparatorie correlate al novellato art. 111 Cost.. e) la recente introduzione di riti speciali a definizione immediata, che impone - a pena di preclusione - l’elaborazione, in tempi rapidi, di una difesa completa, anche dal punto di vista della produzione documentale. La delineata evoluzione dell’ordinamento - in sintonia con la sempre maggiore complessità dei problemi e delle soluzioni che coinvolgono lo Stato nell’ambito delle sue competenze - comporta, di riflesso, che all’Avvocatura dello Stato vengano attribuite funzioni sempre più composite, cui l’Istituto fa quotidianamente fronte. 3. Margini di miglioramento. Queste trasformazioni hanno prodotto una notevole crescita del contenzioso ed un maggiore aggravio della funzione consultiva e questa considerazione apre il campo alla riflessione sui margini di miglioramento dell’Istituto. Una prima constatazione è quella dell’inadeguatezza numerica del ruolo degli avvocati e procuratori dello Stato per la perdurante sproporzione fra quantità degli affari e risorse disponibili. Se nel 1976, quando l’Avvocatura dello Stato ha compiuto cento anni della sua prestigiosa storia, gli affari nuovi erano circa 41.000, nel 2012 sono stati ben 155.000, con una media negli ultimi dieci anni di circa 175.000 affari. Ebbene, a fronte di tale smisurata crescita, il ruolo degli avvocati e procuratori dello Stato, che nel 1976 constava di complessive 276 unità, oggi comprende solo 370 unità di cui soltanto 334 in servizio. A ciò deve aggiungersi che il ricambio nel ruolo degli avvocati e procuratori è da qualche anno assoggettato a vincoli normativi che impongono l’autorizzazione preventiva a bandire i concorsi e l’autorizzazione ad assumere vincitori ed idonei dei concorsi stessi entro determinati limiti di legge. Per effetto dei vigenti limiti si sarà ben lontani dalla completa copertura dell’organico. All’inadeguatezza dei ruoli del personale togato si accompagna anche quella del personale amministrativo. Gli impiegati amministrativi, che erano 951 nel 1986, sono, infatti, oggi soltanto 878, pur a fronte della mole di lavoro enormemente cresciuta. Alla carenza di personale amministrativo va aggiunto che non si sono più potuti assumere impiegati amministrativi per concorso pubblico sin dallo stesso anno 1986, per le limitazioni al turn over che si sono susseguite nel tempo e l’imposizione del preventivo esperimento della mobilità per coprire TEMI ISTITUZIONALI 7 i posti disponibili. Il che ha comportato che il personale assunto per concorso rappresenta oggi meno della metà della forza lavoro non togata, perché i ricambi dei pensionamenti sono di necessità avvenuti mediante comandi, distacchi o mobilità, e cioè attraverso strumenti che, pur rivelatisi in concreto preziosissimi, non possono in astratto essere considerati quelli meglio rispondenti alla peculiarità delle complesse funzioni di assistenza agli avvocati e procuratori, che richiede una selezione ed una formazione professionale appositamente mirate. Dall’assenza di nuovi concorsi è, inoltre, derivato un progressivo invecchiamento del personale amministrativo, oggi di media intorno ai 53 anni, per l’assenza del naturale ricambio generazionale, che pur sarebbe indispensabile per garantire al meglio efficiente supporto ad un’attività professionale, qual è quella difensiva, connotata per sua natura da dinamismo e versatilità. Tra le amministrazioni dello Stato, l’Avvocatura è, poi, l’unica a non disporre di un ruolo dirigenziale amministrativo, tant’è che le funzioni dirigenziali sono assolte, in aggiunta a quella professionale, dagli avvocati dello Stato che ricoprono gli incarichi di Segretario generale ed Avvocato distrettuale. L’assenza del ruolo dirigenziale è del tutto anacronistica alla luce dell’affermarsi nell’ordinamento dei principi gestionali a cui le amministrazioni devono ispirare il proprio operato, nonché delle nuove responsabilità che le norme attribuiscono ai dirigenti sotto diversi profili e, in particolare, con riguardo al conseguimento dei risultati e alla valutazione della performance del personale, alle quali, peraltro, anche l’Avvocatura dello Stato - nei limiti individuati in sede consultiva dal Consiglio di Stato - scrupolosamente intende attenersi. È, allora, evidente che questa esigenza di adeguamento dei ruoli all’attuale carico di lavoro si è fatta oggi ancora più pressante, se non inevitabile, al cospetto di un carico complessivo di affari pendenti, tra vecchi e nuovi, che si attesta in circa 1.200.000, a causa anche della notoria eccessiva durata dei processi. Il numero dei nuovi affari trattati dall’Avvocatura dello Stato pari a livello nazionale - come si è detto - ad oltre 150.000 nell’anno 2012, che si aggiungono alle diverse centinaia di migliaia di affari degli anni scorsi ancora pendenti, implica una mole di lavoro imponente per ogni avvocato con una media di ben 488 nuovi affari annui pro capite. Ebbene, pur a fronte di questa significativa carenza di organico posso, tuttavia, affermare - con una punta di orgoglio - che i risultati dell’attività svolta dall’Avvocatura dello Stato sono altamente positivi. Lo spettro delle materie trattate è molto vario e non può in questa sede essere esaustivamente rappresentato. Sul piano sovranazionale, mi limito a ricordare, fra i 346 affari trattati nel 2012 dinanzi ai giudici comunitari, solo alcune delle cause più rilevanti. Nel delicato settore della tutela del multilinguismo dell'Unione Europea, la Corte di Giustizia, nel mese di novembre del 2012, ha accolto il ricorso proposto 8 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 dall'Avvocatura dello Stato per evitare, come discriminazione, l’imposizione di un regime linguistico (inglese, francese, tedesco) nei concorsi di ammissione alle carriere dell'Unione europea e dinanzi alla CEDU (Corte europea dei diritti dell’Uomo) la controversa questione dell’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche. In merito all’impegnativa, ma nello stesso tempo particolarmente stimolante, attività defensionale svolta dall’Avvocatura davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, devo ricordare, che la recentissima legge 24 dicembre 2012, n. 234 ha previsto, all’art. 42, comma 3, che “Il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro per gli affari europei e il Ministro degli affari esteri nominano, quale agente del Governo italiano previsto dall'articolo 19 dello Statuto della Corte di giustizia dell'Unione europea, un avvocato dello Stato, sentito l'Avvocato generale dello Stato”. Si tratta del coronamento di una lunga esperienza professionale che ha visto impegnate generazioni di avvocati dello Stato nella tutela degli interessi nazionali in sede comunitaria. A livello nazionale, sono stati trattati 624 giudizi in Corte Costituzionale nel 2012. Tra questi ricordo solo le impugnazioni delle Regioni di numerose norme della legge di stabilità del 2010, d.l. n. 78/2010 conv. in L. 112/2010; la questione incidentale di costituzionalità avente ad oggetto la fecondazione assistita eterologa, e di recente il conflitto di attribuzione proposto nell’interesse del Presidente della Repubblica nei confronti della procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo ed accolto dalla Corte con la sentenza n. 1/2013. Quanto all’attività consultiva svolta al di fuori della tradizionale consulenza di tipo giudiziario, limitandomi alle fattispecie più recenti, ricordo come l’Avvocatura dello Stato abbia fornito il proprio avviso su alcune questioni che hanno avuto anche notevole risonanza mediatica: la predisposizione del decreto-legge c.d. “salva ILVA”, ora contestato dinanzi alla Corte Costituzionale, l’assetto dei rapporti contrattuali aventi ad oggetto la realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina, la tempistica dell’indizione delle elezioni per il rinnovo degli organi nella Regione Lazio. Quanto ai processi penali nei quali l’Avvocatura dello Stato risulta, a vario titolo, coinvolta, vanno segnalati i procedimenti penali aventi ad oggetto l’incidente ferroviario di Viareggio, il disastro della nave da crociera Concordia, ed il recente processo per l’attentato all’Istituto Falcone-Morvillo di Brindisi nonché il processo sulla c.d. “trattativa Stato-mafia”, nei quali lo Stato si è costituito parte civile. Dinanzi alla Corte Suprema, il contenzioso dello Stato ha rappresentato oltre un terzo di tutto quello all’esame della Suprema Corte e, di questo terzo, circa il 90% (9.606 affari) è costituito dal contenzioso tributario. Dalle statistiche del 2012, si conferma l’elevata entità del contenzioso di pertinenza dell’Agenzia delle Entrate, con circa 6.000 richieste di ricorso per cassazione formulate all’Avvocatura dello Stato di cui sono stati proposti circa 3.500 ricorsi. TEMI ISTITUZIONALI 9 L’esito dei giudizi suddetti si conferma sicuramente favorevole all’Erario. Gli ultimi dati disponibili indicano una percentuale di vittoria di oltre il 70%, che si avvicina all’80% se si considera il valore economico delle controversie. Ciò significa che, su un valore annuo di 1,7 miliardi di euro contestato, il valore delle cause con esito favorevole all’amministrazione tributaria è pari a 1,3 miliardi di euro. In generale e con riferimento all’intero contenzioso, depurato solo dei dati relativi alle controversie in materia di c.d. “legge Pinto”, le cause vinte sono pressoché i due terzi del totale. A fronte di questo impegno e - mi sia consentito - di apprezzabili risultati, il costo che lo Stato sopporta per l’esistenza e la gestione dell’Avvocatura è di circa 160 milioni di euro annui, comprensivi di ogni voce, ivi compresi i redditi figurativi degli immobili utilizzati e gli onorari riscossi nelle cause vinte. Ogni causa - quale che sia la sua durata ed il numero di gradi di giudizio - costa allo Stato, secondo quanto accertato in un approfondito studio della Scuola superiore della pubblica Amministrazione, in media negli ultimi anni meno di 900 euro. Un ultimo cenno merita il contributo dato dall’Avvocatura dello Stato alla realizzazione del c.d. processo telematico che è pienamente operativo per il processo comunitario. Lo sviluppo delle nuove tecnologie costituisce un elemento di modernizzazione della Pubblica Amministrazione e una leva fondamentale per la riduzione dei tempi della giustizia. L’Avvocatura dello Stato non farà mancare il suo contributo nella realizzazione di tali obiettivi, pur nella descritta carenza di risorse umane e materiali, dalla straordinaria dedizione e professionalità di tutto il personale dell’Avvocatura, togato e amministrativo, al quale va il mio più vivo ringraziamento. 4. Uno sguardo al futuro. Prospettive di riforma. È opinione unanime che la riforma della giustizia nel senso di renderla più efficiente e tempestiva rappresenta uno dei fattori di crescita della nostra economia. La riforma della giustizia ha bisogno di investimenti nel campo delle risorse umane e materiali. Investire sull’Avvocatura dello Stato, che del sistema giustizia è parte integrante, comporterebbe che i risultati prima indicati potrebbero certamente migliorare e tale miglioramento, in termini di risparmio di spesa pubblica, ripagherebbe in misura esponenziale il costo dell’investimento che, considerate le dimensioni globali dell’Istituto e le sue caratteristiche, sarebbe comunque contenuto. Sarebbe necessario: a) un adeguato, anche se contenuto, aumento dell’organico togato; b) un deciso aumento del personale amministrativo anche attraverso procedure di mobilità selettive di personale proveniente da altre amministrazioni e senza oneri a carico del bilancio statale. 10 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 La richiesta di tali misure è giustificata anche nell’attuale contesto in cui la situazione economica del Paese rende doverose politiche di contenimento della spesa pubblica. È evidente, infatti, che l’Avvocatura dello Stato per le funzioni dalla stessa svolte, non può essere considerata e trattata, quanto al blocco del turn over e ai tagli di spesa, alla stregua delle amministrazioni di gestione, ma deve essere posta in condizioni di poter svolgere i propri compiti con efficienza, e sopratutto con serenità dato il carico di lavoro prima indicato. Va detto che la misura di un adeguato aumento dell’organico, assolutamente necessaria per le ragioni sin qui rappresentate, consentirebbe di raggiungere indirettamente un altro importante risultato interno: quello di risolvere il problema dei procuratori idonei alla promozione ad avvocato che non possono assumere quest’ultima qualifica per la carenza del posto in ruolo. Va tenuto presente che un investimento sull’Avvocatura dello Stato è reso necessario anche dal nuovo contesto ordinamentale, prima richiamato, nel quale lo Stato è chiamato sempre più spesso a rispondere delle proprie azioni in sede sovranazionale. La richiamata disposizione, che prevede la nomina quale agente del Governo italiano di un avvocato dello Stato, costituisce un’ulteriore conferma di quella linea di tendenza, ricordata dai miei predecessori nelle loro relazioni, che vede l’Avvocatura dello Stato svolgere il proprio mandato, in via ordinaria, a livello europeo. In questa prospettiva è auspicabile che il disegno possa arricchirsi con l’attribuzione di analoghe funzioni all’avvocato dello Stato di Agente di Governo davanti alla Corte europea dei diritti dell’Uomo, attesa la rilevanza delle questioni trattate e i riflessi immediati sull’ordinamento interno. A livello sovranazionale, recenti esperienze hanno impegnato l’Istituto avanti a Corti ed Organismi internazionali (si pensi al caso Marò e a quello del recupero dei beni culturali trafugati illecitamente all’estero). Per altro verso, abbiamo ben presente il naturale incremento e la sempre più incisiva operatività di ordinamenti di settore a livello globale (es. OMC, OIL, Tribunale internazionale del diritto del mare) spesso dotati anche di poteri giurisdizionali, volti non solo a regolare specifiche attività economiche ma anche a condizionare l’esercizio di pubbliche funzioni. Sono contesti in cui il Paese è sempre più spesso chiamato a rappresentare le proprie esigenze e che richiedono che competenze settoriali, squisitamente tecniche, siano integrate da adeguato sostegno giuridico. Il rilievo che ha assunto la dimensione sovranazionale impone di darvi tempestiva risposta innanzitutto sul piano dell’organizzazione interna dell’Istituto mediante la creazione di una sezione dell’Avvocatura Generale e, in ogni caso, la costituzione di un nucleo di avvocati dello Stato, per il contenzioso sovranazionale ed internazionale. TEMI ISTITUZIONALI 11 Un investimento sull’Avvocatura dello Stato è reso necessario dal nuovo contesto ordinamentale anche sul piano interno nel quale lo Stato deve esercitare, nel caso di inerzia degli organi regionali e locali, funzioni sostitutive e deve comunque mantenere una funzione di controllo sull’effettivo rispetto da parte di tutti gli enti pubblici dei margini di autonomia fissati dalla legge. In tale situazione l’Avvocatura dello Stato deve certamente mantenere la propria funzione di assistenza, supporto e difesa in giudizio degli organi statali presenti sul territorio chiamati ad esercitare funzioni sostitutive di organi regionali e locali inadempienti. Il mutato contesto ordinamentale impone, ormai, un’approfondita riflessione in ordine all’attribuzione all’Avvocatura dello Stato del patrocinio degli organi straordinari, come strumento messo a disposizione dallo Stato a titolo di misura complementare e strumentale al ripristino della legalità (es. patrocinio dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata e degli amministratori di tali beni). Un maggior contributo potrebbe dare l’Avvocatura dello Stato anche sul piano della lotta all’evasione fiscale attraverso l’ampliamento mirato della difesa nelle controversie in materia tributaria, nonché degli interessi erariali in sede penale. Per alcuni tributi, particolarmente “sensibili” o al di sopra di certe soglie di valore, un intervento normativo potrebbe reintrodurre il patrocinio obbligatorio dell’Avvocatura dello Stato anche nelle fasi di merito del giudizio tributario, fasi le cui concrete modalità di svolgimento sono spesso determinanti sull’esito finale della lite. Inoltre, in materie sensibili nelle quali occorre una visione unitaria - es. ambiente, servizio idrico integrato, grandi opere - l'Avvocatura dello Stato potrebbe svolgere un ruolo di coordinamento e di consulenza giuridica. Allo scopo di potenziare l'efficacia della fase consultiva, si potrebbe istituzionalizzare un rapporto Avvocatura-Amministrazione nella fase antecedente all'adozione degli atti amministrativi, al fine di ridurre al minimo i vizi di attività e il conseguente contenzioso. Prassi di tal genere sono già operative nella sede Generale (per esempio, nei rapporti con il Ministero dell'Interno) e in molte Sedi distrettuali (con le Prefetture nonché con strutture commissariali statali operanti sul territorio). In questa prospettiva, ho recentemente istituito l’Osservatorio giuridico-legislativo con il compito di monitorare le iniziative legislative ovvero regolamentari relative ai settori del diritto di interesse dell’Istituto e di segnalare all’Avvocato Generale le eventuali criticità; si intende, in sostanza, fornire al Governo gli elementi necessari per formulare, anche nel corso dell’iter parlamentare di approvazione dei nuovi disegni di legge, elementi di valutazione sugli effetti che le nuove norme potrebbero avere sull’andamento del contenzioso. È, infatti, generalmente riconosciuta, sia in ambito internazionale che na- 12 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 zionale, l’importanza delle politiche di semplificazione al fine di migliorare l’efficienza e l’economicità della pubblica amministrazione, sostenere la competitività del Paese ed alleggerire gli oneri per cittadini ed imprese. Attraverso l’Osservatorio Legislativo, l’Avvocatura dello Stato potrà svolgere un ruolo attivo nel processo di riforma della regolazione, fornendo un fattivo supporto al Governo nella fase di utilizzo degli strumenti della consultazione degli interessati e dell’analisi di impatto della regolamentazione. Nel contempo, il predetto Ufficio dovrebbe acquisire presso tutte le sedi il materiale necessario per la predisposizione di una relazione annuale di chiaro valore scientifico sull’andamento del contenzioso, al fine di riattivare l’istituto già normativamente previsto della relazione annuale al Presidente del Consiglio dei Ministri che deve diventare lo strumento per lo stabile esercizio della funzione di proporre norme con funzione deflattiva del contenzioso. 5. Conclusioni. Prima di concludere, mi preme evidenziare che il principale obiettivo che mi sono proposto, nello svolgimento della funzione di Avvocato Generale, è quello di rendere più efficiente, efficace e di qualità il servizio contenzioso e consultivo che l’Avvocatura dello Stato svolge per gli Organi costituzionali, le amministrazioni statali e per gli altri organismi pubblici patrocinati, senza perdere di vista la natura legalitaria insita nella figura dell’avvocato dello Stato, confermando il prestigio che l’Istituto ha sempre avuto. Desidero, infine, rivolgere un pensiero affettuoso ed un saluto cordiale a tutti i colleghi che operano nel nostro Istituto ed in particolare ai giovani che hanno intrapreso la nostra professione e che rappresentano il futuro dell’Avvocatura. Un caldo saluto desidero anche rivolgere al personale amministrativo dell'Avvocatura, del quale, nell'esercizio della mia attività professionale, ho avuto modo di apprezzare le qualità professionali e lo spirito di dedizione. Grazie Signor Presidente della Repubblica, grazie Signor Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri della disponibilità e della fiducia accordatami e grazie a tutte le Autorità e a tutti i presenti per la cortese attenzione. Roma, li 8 febbraio 2013 Ex Convento di Sant’Agostino, Sala Vanvitelli TEMI ISTITUZIONALI 13 Cerimonia di inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2013 Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato Avv. Michele Giuseppe Dipace Signor Presidente della Repubblica, Autorità, Signor Presidente della Corte di Cassazione, Signore e Signori Prendo, con grande piacere, la parola in questa solenne Cerimonia di inaugurazione per dare conto delle attività svolte nel 2012 dall’Istituto che ho l’onore di dirigere dal mese di ottobre dell’anno appena trascorso. La ristrettezza del tempo a disposizione mi impone di procedere, come si suole dire, per flash facendo, peraltro, grande utilizzo dei dati statistici, sempre particolarmente significativi quando si parla del carico di lavoro dell’Avvocatura dello Stato. I nuovi affari trattati nell’anno 2012 dall’Avvocatura dello Stato ammontano, a livello nazionale, ad oltre 150.000 che si aggiungono alle diverse centinaia di migliaia di affari degli anni scorsi ancora pendenti. Si tratta di una mole di lavoro imponente che grava su un organico complessivo di 370 unità togate solo in parte coperto (sono oggi in servizio soltanto 332 unità tra Avvocati e Procuratori dello Stato), con una media di ben 488 nuovi affari annui pro capite (nel complesso, ogni Avvocato e Procuratore dello Stato ha mediamente in carico ben 4.000 affari). Un terzo del lavoro grava, peraltro, sull’Avvocatura Generale che ha contato nel 2012 ben 48.000 affari. 1 - Lo spettro delle materie trattate è molto vario. L’Avvocatura rappresenta e difende, infatti, lo Stato nelle sue principali articolazioni dinanzi a tutti gli organi giudiziari sopranazionali e nazionali (*). 1.1 - Sul piano sovranazionale ricordo, fra i 346 affari trattati dinanzi ai giudici comunitari, le cause concernenti il blocco dei beni dei soggetti sospettati di collegamenti con reti terroristiche internazionali, il ricorso promosso contro la decisione di taluni Stati dell'Unione Europea di costituire una cooperazione rafforzata in materia di brevetti industriali e di imporre, tra l'altro, (*) Legenda: Il punto 1.1 - relaziona sulle cause comunitarie Il punto 1.1.1 - sulle cause in Corte costituzionale Il punto 1.1.2 - sulle rilevanti cause civili e penali Il punto 1.1.3 - sui contenziosi dinanzi al Giudice ammnistrativo Il punto 1.1.4 - sugli affari consultivi Il punto 2. - sui giudizi dinanzi alla Suprema Corte di cassazione. 14 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 il regime linguistico (inglese, francese, tedesco) di tali brevetti. Sempre nel delicato settore della tutela del multilinguismo dell'Unione Europea, la Corte di Giustizia, nel mese di novembre del 2012, ha accolto il ricorso proposto dall'Avvocatura dello Stato per far affermare che imporre il regime linguistico (inglese, francese, tedesco) nei concorsi di ammissione alle carriere dell'Unione europea costituisce una discriminazione vietata dai trattati e dalla Carta europea dei diritti fondamentali. Di rilievo è stata, poi, la causa concernente il divieto generale di immissione in commercio di organismi geneticamente modificati, nell'ambito della quale la Corte di giustizia ha precisato i presupposti e le modalità procedurali attraverso le quali è possibile attuare in un dato Stato membro il principio di precauzione. L’attività defensionale svolta dall’Avvocatura davanti alla Corte di Giustizia delle Comunità europee ha ricevuto, di recente, un tangibile riconoscimento con la disposizione contenuta all’art. 42, comma 3, della legge 24 dicembre 2012, n. 234 con la quale è stato previsto che agente del Governo italiano ai sensi dell'articolo 19 dello Statuto della Corte di giustizia dell'Unione europea debba essere un avvocato dello Stato. Non minore è stato il rilievo delle questioni trattate dall’Avvocatura davanti alla Corte europea dei diritti dell'uomo. Nel 2012, l'Avvocatura dello Stato ha rappresentato il governo italiano, tra l'altro, nel ricorso, poi accolto, concernente la controversa questione dell'esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche; degna di nota è anche la trattazione del ricorso concernente il regime di assegnazione delle frequenze radiotelevisive e la compatibilità di esso con il diritto alla libera manifestazione del pensiero. Altra questione di grande peso, trattata in sede di CEDU nel 2012, è stata quella vertente sulla compatibilità con il diritto di asilo degli accordi con gli Stati costieri del Mediterraneo in materia di respingimento alla frontiera dei migranti imbarcati illegalmente in tali Stati e diretti verso l'Italia. 1.1.1 - A livello nazionale, degni di particolare menzione, fra i 624 giudizi trattati in Corte Costituzionale, sono i ricorsi delle Regioni di impugnazione della legge di stabilità del 2010 (d.l. n. 78/2010 conv. in L. 112/10), la questione incidentale di costituzionalità avente ad oggetto la fecondazione assistita eterologa; a questo ultimo proposito, la Corte Costituzionale, con l’ordinanza n. 150/12, ha, come noto, restituito gli atti ai giudici a quibus “alla luce della sopravvenuta sentenza della Grande Camera del 3 novembre 2011, S.H. e altri c. Austria, … affinché i rimettenti procedano ad un rinnovato esame dei termini delle questioni”, confermando la validità delle tesi sostenute nell’atto di intervento e nella memoria dell’Avvocatura a proposito della valenza nel nostro ordinamento delle norme della CEDU. I conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato, tra cui quello conclusosi con la sentenza molto importante n. 1 del 2013 e le numerose impugnazioni di leggi regionali che hanno prodotto rile- TEMI ISTITUZIONALI 15 vanti sentenze riguardo all’assetto di competenze tra Stato e Regioni. 1.1.2 - Dinanzi ai giudici ordinari, va, anche quest’anno, citato il vasto contenzioso relativo alla irragionevole durata del processo, pari a complessivi 21.683 affari. Al proposito, si spera che le nuove disposizioni introdotte in materia, che dettano una più chiara e stringente regolamentazione di tali procedimenti, comportino una contrazione di tale contenzioso. Merita, altresì, un doveroso cenno il contenzioso in materia di incandidabilità degli amministratori degli enti locali i cui organi elettivi siano stati sciolti per infiltrazione della criminalità organizzata; trattasi di contenzioso che, anche in ragione della non perspicua formulazione della disposizione di cui all’art. 143, comma 11, del TUEL, ha posto delicate problematiche, anche di ordine processuale, delle quali è stata investita, da ultimo, codesta Corte di Cassazione. Innanzi al giudice del lavoro, è doveroso fare menzione delle numerosissime cause (solo formalmente di carattere seriale) promosse dal personale precario della scuola per conseguire, oltre al risarcimento del danno, la stabilizzazione del rapporto di lavoro e l’integrazione delle retribuzioni percepite durante l’operatività dei contratti a tempo determinato susseguitisi negli anni. Quanto ai processi penali nei quali l’Avvocatura dello Stato risulta, a vario titolo, coinvolta, vanno segnalati i procedimenti penali aventi ad oggetto l’incidente ferroviario di Viareggio, il disastro della nave da crociera Concordia, ed il recente processo per l’attentato all’Istituto Falcone-Morvillo di Brindisi nonché il processo sulla c.d. “trattativa Stato-mafia”, nei quali lo Stato si è costituito parte civile. Permettetemi, infine, di sottolineare l’importanza dell’assistenza difensiva assicurata dall’Avvocatura all’Amministrazione della Difesa con riferimento alla nota vicenda dei due Marò sottoposti a procedimento penale in India; come è noto, la Suprema Corte indiana, con decisione del 17 gennaio 2013, ha escluso la giurisdizione dello Stato del Kerala, accogliendo in parte la nostra tesi e dichiarando inutilizzabili tutti gli atti di indagine effettuati. La Corte speciale che sarà costituita a Nuova Delhi dovrà decidere se la giurisdizione appartiene ai giudici italiani, come da noi sostenuto. Nel settore del recupero dei beni culturali illecitamente sottratti al patrimonio nazionale, si segnala l'intervento dell'Avvocatura dello Stato in un procedimento penale relativo alla illecita esportazione di una statua attribuita allo scultore greco Lisippo, attualmente nelle collezioni del J. Paul Getty Museum di Malibù. 1.1.3 - Altrettanto corposo il contenzioso dinanzi ai giudici amministrativi; una particolare menzione merita, per la delicatezza del tema, la trattazione dei ricorsi proposti avverso i sempre più numerosi provvedimenti di scioglimento di consigli comunali per infiltrazione della criminalità organizzata; 16 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 provvedimenti che, come noto, hanno riguardato anche diversi enti locali del settentrione del nostro Paese nonché, per la prima volta, un comune capoluogo di provincia ovvero Reggio Calabria. Ritengo anche opportuno fare cenno al contenzioso in materia elettorale in ordine al quale si sono registrati, molto di recente, alcuni pronunciamenti della magistratura amministrativa, sia di primo grado che di appello, sui quali mi permetto di esprimere perplessità circa i limiti della competenza giurisdizionale nei confronti della P.A.. Sempre folto è il contenzioso attinente agli esami di idoneità alla professione forense ed ai concorsi per la copertura dei posti di notaio e di magistrato. Particolarmente delicati sono, poi, i ricorsi proposti da magistrati ordinari contro i provvedimenti del C.S.M. in tema di incarichi direttivi e semidirettivi; molto impegnativo, per la complessità delle questioni giuridiche sottese e la rilevanza economica che lo caratterizza, è inoltre il contenzioso riguardante i provvedimenti delle Autorità indipendenti. Un particolare cenno merita, infine, il contenzioso in materia di “Quote latte” (in ordine al quale la Commissione europea ha avviato una indagine conoscitiva) che, nel solo 2012, ha visto la trattazione e la decisione favorevole all’amministrazione di qualche centinaio di ricorsi. 1.1.4 - In sede consultiva, l’Avvocatura dello Stato, oltre alla consueta attività di consulenza nelle transazioni e nelle composizioni bonarie, ha fornito il proprio avviso sulle più svariate questioni; ricordo solo quelle più importanti: la predisposizione del decreto-legge c.d. “salva ILVA”, ora contestato dai giudici di Taranto dinanzi alla Corte Costituzionale, l’assetto dei rapporti contrattuali aventi ad oggetto il Ponte sullo Stretto di Messina, la tempistica dell’indizione delle elezioni per il rinnovo degli organi nella Regione Lazio. 2. - Da ultimo, ma solo per evidenziarne la particolare importanza, il nostro impegno dinanzi alla Corte di Cassazione, che oggi ci ospita e con la quale siamo onorati di poter lavorare in piena armonia. Dinanzi alla Corte Suprema il contenzioso è particolarmente nutrito: nel 2012 sono stati impiantati dall’Avvocatura Generale circa 10.000 affari, che rappresentano il 22% di tutti gli affari contenziosi e consultivi impiantati nell’anno dall’Avvocatura Generale. Limitando l’esame agli affari contenziosi iniziati nell’anno in Cassazione e trattati dall’Avvocatura, si constata che il contenzioso dello Stato rappresenta oltre un terzo di tutto quello all’esame della Suprema Corte e che, di questo terzo, circa il 90% (9.606 affari) è costituito dal contenzioso tributario. Anche nel 2012 è proseguita la stretta collaborazione tra la Corte di Cassazione e l’Avvocatura dello Stato, finalizzata alla fissazione in tempi brevi dell’udienza di discussione in cause “pilota”, su questioni che hanno dato luogo a numerose controversie nei gradi di merito nonché alla fissazione di TEMI ISTITUZIONALI 17 udienze tematiche, che consentono un maggiore approfondimento di questioni giuridiche complesse. La collaborazione ha ovviamente interessato la materia tributaria, che com’è noto occupa gran parte dell’attività sia della Cassazione Civile che dell’Avvocatura dello Stato. Basti pensare al nutrito contenzioso dell’Agenzia del Territorio in tema di classamento degli immobili, alla definizione ormai in tempi brevi di tutte le controversie doganali, di diretta rilevanza comunitaria, essendo, la materia, ormai disciplinata in modo uniforme a livello europeo dal Codice Doganale Comunitario. Dalle statistiche del 2012, si conferma l’elevata entità del contenzioso di pertinenza dell’Agenzia delle Entrate, con circa 6.000 richieste di ricorso per cassazione formulate all’Avvocatura dello Stato. Su tali richieste, già filtrate dall’Agenzia a livello regionale rispetto alle ben più numerose decisioni delle commissioni tributarie regionali, l’Avvocatura opera una ulteriore selezione coltivandone solo il 75%, così avvicinandosi al numero dei ricorsi in cassazione proposti dai contribuenti, pari a circa 3.500. L’esito dei giudizi suddetti si conferma ancora nel complesso favorevole all’Erario. Gli ultimi dati disponibili indicano una percentuale di vittoria di oltre il 70%, che si avvicina all’80% se si considera il valore economico delle controversie. Nell’intervento dello scorso anno, vennero salutate con favore due importanti decisioni delle Sezioni Unite in materia processuale, che costituivano l’accoglimento di tesi difensive sostenute da tempo dall’Avvocatura dello Stato. Si trattava delle sentenze n. 22726/2011 in tema dei requisiti di ammissibilità del ricorso in Cassazione (con cui si è chiarita la non necessità di depositare in giudizio copia degli atti già presenti nei fascicoli di causa), e n. 15144/2011 in tema di overruling. Quelle importanti decisioni, emesse in applicazione dei principi costituzionali e comunitari in tema di diritto di difesa ed effettività della tutela, si spera possano portare a soluzione alcuni problemi ancora aperti. Intendo riferirmi, in primo luogo, alla questione dei c.d. ricorsi “farciti”, cioè di quei ricorsi in cui i ricorrenti hanno inserito, nel corpo del ricorso, atti e documenti dei gradi precedenti, e che vengono spesso dichiarati inammissibili per violazione dell’art. 366 c.p.c.. A tale riguardo, si ritiene che, in applicazione dei principi di tutela dell’affidamento, la Corte debba attribuire rilievo alla circostanza che l’inserimento dei suddetti atti nel ricorso era diretto ad evitare proprio di incorrere nella inammissibilità per l’opposto motivo di mancanza di autosufficienza (come prevede da alcuni anni la rigorosa giurisprudenza della Corte al riguardo). Se certamente non può ritenersi ammissibile un ricorso-collage, occorre però evitare il rischio di considerare inammissibili i ricorsi per c.d. “ipersufficienza”, cioè quei casi in cui alcuni atti e documenti riprodotti siano superflui 18 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 ma i motivi di ricorso siano comunque correttamente redatti. Un doveroso cenno merita, poi, il problema degli effetti processuali della cancellazione delle società dal registro delle imprese. Com’è noto, la questione, emersa in modo rilevante dopo le decisioni delle Sezioni Unite n. 4060, 4061 e 4062/2010, è stata, nel 2012, nuovamente rimessa all’esame delle Sezioni Unite, dopo che, con alcune decisioni (ad esempio con la sentenza n. 7679/2012), si è affermata un’interpretazione dell’art. 2495 c.c. nel senso che in caso di cancellazione di una società di capitali senza riparto alcuno di somme tra i soci, non esisterebbe alcun soggetto in grado di succedere nei rapporti pendenti, per cui l’impugnazione di una sentenza non potrebbe più essere proposta nei confronti di alcuno per mancanza di un successore. 3. - Passando ai risultati del nostro lavoro, fornisco alcuni dati statistici relativi alla sede romana. Dinanzi al Tribunale civile le cause vinte sono il 60%, dinanzi al giudice amministrativo, il 70% dinanzi alla Corte d’appello il 53% e dinanzi alla Cassazione il 58%. La percentuale più bassa di esiti favorevoli innanzi alla Corte d’Appello è attribuibile al fatto che nel numero sono comprese le cause della c.d. “legge Pinto”, che rappresentano la maggioranza degli affari trattati in Corte d’Appello (come unico grado di merito) e che sono, nella stragrande maggioranza dei casi, cause perse per lo Stato. Depurati i dati falsati dai fattori alteranti, può concludersi su una percentuale media di vittoria vicina ai 2/3 delle cause. Il che porta a concludere che è del tutto evidente il buon rapporto costi-benefici dell’attività svolta dall’Avvocatura. Purtroppo, la funzionalità dell’Istituto è minacciata da una grave limitazione nel turn-over del personale togato e da una grave insufficienza di risorse economiche. Sotto il primo profilo, evidenzio come il carattere emergenziale della situazione potrà essere solo lievemente attenuato dalla previsione, contenuta nella recente legge di stabilità, che autorizza l’Avvocatura dello Stato ad assumere alcuni Avvocati dello Stato, nei limiti dello stanziamento ivi previsto; ringrazio, comunque, personalmente ed a nome dei colleghi, il Governo per l’attenzione mostrata nei confronti dell’Istituto; sotto il secondo profilo devo segnalare che l’Istituto avrà gravissime difficoltà ad assolvere ai suoi doveri con l’attuale importo stanziato in bilancio per le spese correnti, che sono incomprimibili ed indispensabili per garantire l’assolvimento dei compiti istituzionali, quali ad esempio le spese di funzionamento degli uffici tra cui quelle per l’acquisto di carta per le fotocopie necessarie a depositare gli atti defensionali nel numero di esemplari richiesto. Con riguardo al processo telematico, preciso che l’informatizzazione si è mossa, nel corso del 2012, in tre direzioni: 1) un aggiornamento del sistema informatico che ha consentito, nella sede di TEMI ISTITUZIONALI 19 Roma, di associare ai dati presenti nel sistema il fascicolo elettronico e la relativa gestione documentale (vengono attualmente scansionati ben 15 mila fogli al giorno, pari ad un quarto del totale della documentazione in ingresso); 2) la possibilità di colloqui telematici con gli uffici giudiziari, sia civili che amministrativi (per la ricezione tramite posta elettronica certificata di biglietti di cancelleria e sentenze) nonché con le pubbliche amministrazioni patrocinate che hanno la facoltà di consultare i nostri fascicoli attraverso il sito; 3) il capillare raggiungimento e coinvolgimento delle sedi distrettuali e l’estensione ad esse, attraverso il portale, dei servizi informatici già esistenti per l’Avvocatura Generale. Per ridurre i tempi e i costi dei processi di lavoro, l’iter di dematerializzazione della carta e l’ausilio dell’informatica appaiono ormai un percorso inevitabile per gestire l’enorme mole di contenzioso ed essere al passo con i tempi. La sua piena realizzazione richiede però ancora tempi non brevi. Ed è proprio anche alla luce dei dati sopra ricordati che esprimo l’auspicio che possa essere riconsiderata, nel prossimo futuro, l’applicazione nei confronti dell’Avvocatura dello Stato delle disposizioni in tema di limitazione del turn-over del personale, sia togato che amministrativo, nonché in tema di riduzione della spesa; ciò in considerazione del fatto che l’Avvocatura dello Stato, proprio per le funzioni dalla stessa svolte, non può essere paragonata e trattata alla stregua di una amministrazione di gestione. Il personale togato e amministrativo dell’Avvocatura deve essere posto in grado di svolgere con serenità ed efficienza il notevole lavoro che ho prima indicato. 4. - Concludo osservando che il difficilissimo momento che il Paese sta attraversando richiede a tutte le Istituzioni ed a tutti noi il massimo impegno nell’esercizio dei compiti affidati. Sono certo di poterLe assicurare, Signor Presidente della Repubblica, che l’Avvocatura dello Stato e i suoi componenti faranno ogni possibile sforzo per essere all’altezza delle rilevanti funzioni assegnate, confermando il prestigio che ha sempre avuto. Grazie, Signor Presidente della Repubblica, grazie a tutti per avermi ascoltato. Roma, li 25 gennaio 2013 Palazzo di Giustizia, Aula Magna 20 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Avvocatura Generale dello Stato CIRCOLARE N. 6/2013 Oggetto: Pratica forense presso l'Avvocatura dello Stato - legge 31 dicembre 2012, n. 247 recante "Nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense". Si fa seguito alla Circolare n. 62/12 (*) - le cui conclusioni sono state avallate dal parere reso dalla Commissione consultiva del Consiglio Nazionale Forense, pervenuto in data 18 febbraio 2013 - e, a scioglimento della riserva nella stessa contenuta, si rappresenta quanto segue. In data 18 gennaio 2013, è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana la legge 31 dicembre 2012, n. 247 recante "Nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense"; l'atto, dopo l'ordinaria vacatio legis, è entrato in vigore il giorno 2 febbraio 2013. Al proposito, si segnala che il Consiglio Nazionale Forense ha recentemente pubblicato il Dossier 1/13 dell'Ufficio Studi nel quale viene evidenziato che "l'approvazione della legge 31 dicembre 2012, n. 247 ha determinato la sopravvenuta inapplicabilità alla professione forense delle norme contenute nell'art. 3, comma 5, del decreto-legge 138/2011, convertito in legge n. 148/2011 e s.m.i. e, conseguentemente, delle norme contenute nel D.P.R. n. 137/2012. Questo, tanto in considerazione del criterio cronologico (lex posterior derogat legi priori) quanto del criterio di specialità (lex specialis derogat legi generali) e gerarchico (con riferimento specifico alla sorte delle disposizioni di cui al D.P.R. n. 137/2012)". (*) CIRCOLARE N. 62/2012 Oggetto: Pratica forense presso l'Avvocatura dello Stato - Inapplicabilità del termine di dodici mesi, di cui all'art. 10, comma 1, del D.P.R. n. 137/12, ai tirocini già in corso alla data del 16 agosto 2012. Modifica della Circolare n. 51/2012. Con la circolare n. 51 del 12 settembre 2012, sono stati affrontati i problemi posti dalla norma contenuta nell'art. 10, comma 1, del D.P.R. 7 agosto 2012 n. 137, la quale dispone che "il tirocinio può essere svolto presso l'Avvocatura dello Stato o presso l'ufficio legale di un ente pubblico o di ente privato autorizzato dal ministro della giustizia o presso un ufficio giudiziario per non più di dodici mesi". Con la predetta circolare - oltre a manifestare le riserve dell'Istituto sulla legittimità della norma, comunicate alla Presidenza del Consiglio ed alle Amministrazioni interessate - è stato ritenuto, in via cautelativa, che, in assenza di una disciplina transitoria, la nuova disposizione dovesse essere applicata immediatamente anche ai tirocini iniziati prima della sua entrata in vigore; ciò anche per evitare il rischio che il periodo di pratica, eccedente i dodici mesi, svolto presso l'Avvocatura non fosse riconosciuto utile ai fini dell'ammissione all'esame di abilitazione, con evidente pregiudizio per i praticanti. TEMI ISTITUZIONALI 21 Con riferimento, in particolare, alla disciplina dell'accesso e del tirocinio, il Consiglio Nazionale Forense ha rilevato come gli artt. 48 e 49 dettino una disciplina transitoria in relazione alle modalità del suo svolgimento e dell'esame. In particolare, 1'art. 48 dispone che il tirocinio per l’accesso rimane disciplinato dalle disposizioni vigenti fino al secondo anno successivo all'entrata in vigore della legge, salva la riduzione a diciotto mesi del periodo di tirocinio. Alla luce degli ulteriori approfondimenti svolti sul tema e dei contributi trasmessi, anche in via informale, dalle Sedi distrettuali, si ritiene di dovere modificare le superiori conclusioni, nel senso che la disposizione - che limita a soli dodici mesi, il periodo di pratica forense che può essere svolto presso l'Avvocatura dello Stato - trova applicazione con riferimento ai soli tirocini che hanno avuto inizio successivamente all'entrata in vigore del D.P.R. n. 137/12 (16 agosto 2012). Ed invero, l'applicazione immediata della riduzione a dodici mesi del tirocinio presso l'Avvocatura dello Stato (che, peraltro, suscita perplessità sotto il profilo del rispetto del principio di cui all'art. 11 delle c.d. preleggi) potrebbe, da un lato, creare situazioni paradossali per i singoli praticanti (si pensi all'ipotesi di giovani che abbiano svolto presso l'Istituto diciassette mesi, e che troverebbero estremamente difficile essere accolti in uno studio professionale per un solo mese, con la grave conseguenza di non poter completare il periodo di pratica prescritto); dall'altro stravolgerebbe l'impostazione "didattica" del tirocinio e la pianificazione delle esperienze che lo costituiscono. La predetta conclusione ha trovato, peraltro, conferma in un recente parere, reso dal Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Roma nella seduta del 4 ottobre u.s., a fronte di uno specifico quesito dell'Avvocatura di Roma Capitale. Da ultimo, si segnala che il Consiglio Nazionale Forense, nel Dossier n. 11/2012 predisposto dall'Ufficio Studi, ha espressamente evidenziato che "Il comma 14 prevede che le disposizioni dell'art. 6 del D.P.R. n. 137/2012 si applichino ai tirocini iniziati dal giorno successivo alla data di entrata in vigore del decreto in parola (fermo quanto gia previsto dall'articolo 9, comma 6, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27). Ne consegue che la riduzione del periodo di tirocinio a 18 mesi è immediatamente operativa anche per i tirocini in corso, trovando la propria fonte in una disposizione del decreto legge “Cresci Italia” qui espressamente richiamata, ed oggetto dell’interpretazione fornita dal Ministero della giustizia con circolare in data 4 luglio 2012. Le altre prescrizioni ... che trovano la propria fonte nel DPR 137/2012 si applicano invece ai tirocini iniziati a partire dal 16 agosto 2012”. Si coglie, infine, l'occasione per evidenziare che - attesa la particolare qualificazione professionale dei Procuratori dello Stato ed in considerazione della varietà delle pratiche agli stessi affidate - non appare opportuno escludere l'assegnazione di praticanti ai medesimi Procuratori; assegnazione, quest’ultima, che costituisce, peraltro, prassi consolidata presso quasi tutte le Sedi dell'Istituto. Le Sedi distrettuali sono invitate a prendere atto di quanto sopra. Si fa riserva di fornire ulteriori indicazioni in ordine allo svolgimento della pratica forense presso l'Avvocatura dello Stato, all’esito delle interlocuzioni in corso con le Amministrazioni competenti ed in particolare con il Ministero della Giustizia. 22 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Come noto, l'art. 10 del D.P.R. n. 137/12 poneva una disciplina speciale per il tirocinio forense che, a partire dalla sua entrata in vigore, ha prodotto l'èffetto abrogativo disposto dall'art. 3, comma 5 bis, del decreto-legge n. 138/11 convertito in legge n. 148/11 e s.m.i. e l'immediata modifica del regime del tirocinio forense. Sulla base di quanto più sopra rappresentato circa la sottrazione dell'ordinamento forense all'ambito di materie oggetto della delegificazione, deve ritenersi che le norme del D.P.R. n. 137/12 in materia di tirocinio forense non siano più applicabili, a far data dall'entrata in vigore della legge n. 247/12 (2 febbraio 2013). Restano, dunque, applicabili al tirocinio per l'accesso alla professione forense le disposizioni vigenti, ad eccezione degli artt. 6 e 10 del D.P.R. n. 137/12, ed in particolare: l'art. 9 del decreto-legge n. 1/12, convertito in legge n. 27/12 (durata di diciotto mesi del tirocinio), il D.P.R. n. 101/1990 (Regolamento relativo alla pratica forense) e l'art. 16 del D.Lgs. n. 398/1997 (in tema di Scuole di specializzazione per le professioni legali). Per completezza, si evidenzia che la disciplina, a regime, dettata in tema di svolgimento del tirocinio dall'art. 41 della legge n. 247/12, sembra potersi interpretare nel senso che la pratica forense possa essere svolta, per l'intero periodo dello stesso (ovvero per diciotto mesi), presso l'Avvocatura dello Stato. In tale senso, milita il combinato disposto delle previsioni contenute ai commi 6, lett. b) e 7 dell'art. 41 cit.; il comma 6, lett. b) prevede che il tirocinio può essere svolto "presso l'Avvocatura dello Stato o presso l'ufficio legale di un ente pubblico o presso un ufficio giudiziario per non più di dodici mesi"; il comma 7 precisa che "In ogni caso il tirocinio deve essere svolto per almeno sei mesi presso un avvocato iscritto all'ordine o presso l'Avvocatura dello Stato". Orbene il combinato disposto delle predette norme, in uno all'equiparazione dell'Avvocatura dello Stato all'avvocato del libero foro (presso il quale il tirocinio può essere svolto per diciotto mesi), contenuta al comma 7, sembra, appunto, deporre nel senso che la pratica forense possa essere svolta, a regime, presso l'Avvocatura dello Stato per l'intero periodo del tirocinio. Lo Scrivente si riserva, comunque, di valutare l’opportunità di chiedere, nella prossima legislatura, l’introduzione, nel corpo dell'art. 41 della legge n. 274/12, di una disposizione finalizzata a fugare qualsivoglia dubbio interpretativo in merito; cosa che si era tentato di fare durante l’iter parlamentare di approvazione della legge n. 247/12 ma senza successo atteso l’accelerazione del predetto iter dovuta all'anticipata chiusura della legislatura. Le Sedi distrettuali sono invitate a prendere atto di quanto sopra e a dare ampia diffusione alla presente Circolare. L’AVVOCATO GENERALE DELLO STATO Michele Dipace LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZA UE Le regole europee in materia di appalti pubblici: nulla di nuovo dalla Corte con la sentenza 19 dicembre 2012, C-159/11 ( ... ?) Si segnala una nuova decisione della Grande Sezione della Corte di Giustizia (sentenza 19 dicembre 2012 in causa C-159/11) sulla conformità o meno al diritto comunitario di quei rapporti diretti tra amministrazioni pubbliche nelle quali le stesse, rinunciando ad avvalersi del mercato, “si scambiano prestazioni di beni e servizi”. La questione aveva trovato un convincente assetto nella decisione (anch’essa della Grande Sezione) del 9 giugno 2009 Commissione /Germania in causa C-480/06 nella quale il conferimento diretto dello smaltimento dei rifiuti tra le varie autorità locali, previo rimborso dei relativi costi, non era stato considerato un appalto ai sensi della direttiva 92/50. Il principio di diritto affermato era che “un’autorità pubblica può adempiere ai compiti d’interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti o in collaborazione con altre autorità pubbliche, senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi”. In altri termini - proseguiva la massima - se non si coinvolgono direttamente o indirettamente imprese private la collaborazione tra soggetti pubblici può legittimamente restringere l’area del ricorso delle pubbliche amministrazioni al mercato. Nella causa C-159/11 la prospettiva sembra cambiare; il giudice europeo, sulla base di una questione pregiudiziale posta dal Consiglio di Stato Italiano, statuisce che “il diritto dell’Unione Europea in materia di appalti pubblici osta a che una normativa nazionale autorizzi la stipulazione, senza previa gara, di un contratto mediante il quale taluni enti pubblici istituiscono tra loro una cooperazione, nel caso in cui - e ciò spetta al giudice del rinvio di verificare - tale contratto non abbia il fine di garantire l’adempimento di una funzione di un pubblico servizio comune agli enti medesimi, non sia retto unicamente da considerazioni ed esigenze connesse al perseguimento di obiettivi 24 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 d’interesse pubblico, oppure sia tale da porre un prestatore privato in una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti”. La normativa italiana in questione, specificatamente indicata dalla Corte di Giustizia, è la norma generale dell’art. 15 della legge 241 del 1990 (“le amministrazioni pubbliche possono sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività d’interesse comune” ) e l’art. 66 del DPR 382 dell’11 luglio 1980 che, nel disciplinare la docenza universitaria, dichiara che “Le Università, purché non vi osti lo svolgimento della loro funzione scientifica didattica, possono eseguire attività di ricerca e di consulenza stabilite mediante contratti e convenzioni con enti pubblici e privati”. Il caso di specie, che sembra aver giustificato l’intervento “repressivo” della Corte di Giustizia riguardava una controversia sorta tra, da un lato l’Azienda Sanitaria Locale di Lecce e l’Università del Salento, e dall’altro diversi ordini professionali ed alcune imprese, vertente su un contratto di consulenza stipulato tra l’ASL di Lecce e l’Università del Salento, avente ad oggetto lo studio e la valutazione della vulnerabilità sismica delle strutture ospedaliere della Provincia di Lecce. Caratteristiche di tale contratto sono: a) che i costi da rimborsare a carico della ASL venivano analiticamente e preventivamente fissati; b) che l’università in caso di risoluzione anticipata del rapporto avrebbe avuto diritto ad importi corrispondenti al lavoro svolto, alle spese sostenute e a quelle derivanti da obbligazioni assunte (con terzi) nell’ambito dell’esecuzione dell’attività di studio; c) che la ASL si appropriava integralmente dell’attività prodotta dall’Università. Alcune notazioni a margine: • la prima è che è improbabile che la Corte di Giustizia abbia inteso censurare in rapporto all’ordinamento comunitario la norma generale dell’art 15 della legge n. 241 del 1990 che legittima la collaborazione istituzionale attraverso accordi tra pubbliche amministrazioni; • la seconda è che è improbabile - ed infatti la norma non è stata neppure citata nella sentenza - che sia ritenuta in contrasto con le direttive appalti l’articolo 19 comma 1, lettera f) del codice degli appalti vigente in Italia proprio in attuazione di dette direttive secondo cui “Il presente codice non si applica ai contratti pubblici … f) concernenti servizi di ricerca e sviluppo diversi da quelli i cui risultati appartengono esclusivamente alla stazione appaltante, perché li usi nell’esercizio della sua attività, a condizione che la prestazione del servizio sia interamente retribuita da tale amministrazione”; • la terza notazione è che la Corte di Giustizia sente il bisogno di ribadire in termini sostanzialmente analoghi i principi stabiliti nella citata sentenza 9 giugno 2009 (in causa C-480/06), rimettendo in ogni caso la questione concreta al prudente accertamento del giudice nazionale. L’ultima e decisiva notazione è che forse questa decisione della Grande Chambre è meno importante del clamore che sta suscitando tra i siti italiani: CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 25 si tratta solo di un caso di specie nel quale le amministrazioni leccesi hanno fatto un uso non corretto della possibilità di ricorrere, per quanto occorreva per realizzare in via diretta i loro obiettivi, all’aiuto istituzionale di altri soggetti pubblici, in un’ottica evidentemente del tutto diversa ed alternativa dalle regole che disciplinano il mercato degli appalti … G.F. Corte di Giustizia, Grande Sezione, sentenza del 19 dicembre 2012 nella causa C-159/11 - Pres. V. Skouris, Rel. D. Šváby, Avv. Gen. V. Trstenjak - Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Consiglio di Stato - Azienda Sanitaria Locale di Lecce, Università del Salento / Ordine degli Ingegneri della Provincia di Lecce ed altri. «Appalti pubblici – Direttiva 2004/18/CE – Articolo 1, paragrafo 2, lettere a) e d) – Servizi – Studio e valutazione della vulnerabilità sismica di strutture ospedaliere – Contratto concluso tra due enti pubblici, uno dei quali è un’università – Ente pubblico qualificabile come operatore economico – Contratto a titolo oneroso – Corrispettivo non superiore ai costi sostenuti» 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli articoli 1, paragrafo 2, lettere a) e d), 2 e 28, nonché dell’allegato II A, categorie 8 e 12, della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi (GU L 134, pag. 114), come modificata dal regolamento (CE) n. 1422/2007 della Commissione, del 4 dicembre 2007 (GU L 317, pag. 34; in prosieguo: la «direttiva 2004/18»). 2 Tale domanda è stata proposta nell’ambito di una controversia tra, da un lato, l’Azienda Sanitaria Locale di Lecce (in prosieguo: l’«ASL») e l’Università del Salento (in prosieguo: l’«Università») e, dall’altro, l’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Lecce e altri, vertente su un contratto di consulenza stipulato tra l’ASL e l’Università (in prosieguo: il «contratto di consulenza»), avente ad oggetto lo studio e la valutazione della vulnerabilità sismica delle strutture ospedaliere della Provincia di Lecce. Contesto normativo Il diritto dell’Unione 3 Ai sensi del secondo considerando della direttiva 2004/18: «L’aggiudicazione degli appalti negli Stati membri per conto dello Stato, degli enti pubblici territoriali e di altri organismi di diritto pubblico è subordinata al rispetto dei principi del trattato [CE] ed in particolare ai principi della libera circolazione delle merci, della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi, nonché ai principi che ne derivano, quali i principi di parità di trattamento, di non discriminazione, di riconoscimento reciproco, di proporzionalità e di trasparenza. Tuttavia, per gli appalti pubblici con valore superiore ad una certa soglia è opportuno elaborare disposizioni di coordinamento comunitario delle procedure nazionali di aggiudicazione di tali appalti fondate su tali principi, in modo da garantirne gli effetti ed assicurare l’apertura degli appalti pubblici alla concorrenza. (...)». 4 L’articolo 1 di tale direttiva dispone quanto segue: 26 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 « (...) 2. a) Gli “appalti pubblici” sono contratti a titolo oneroso stipulati per iscritto tra uno o più operatori economici e una o più amministrazioni aggiudicatrici aventi per oggetto l’esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi ai sensi della presente direttiva. (...) d) Gli “appalti pubblici di servizi” sono appalti pubblici diversi dagli appalti pubblici di lavori o di forniture aventi per oggetto la prestazione dei servizi di cui all’allegato II. (...) 8. I termini “imprenditore”, “fornitore” e “prestatore di servizi” designano una persona fisica o giuridica o un ente pubblico o un raggruppamento di tali persone e/o enti che offra sul mercato, rispettivamente, la realizzazione di lavori e/o opere, prodotti o servizi. Il termine “operatore economico” comprende l’imprenditore, il fornitore e il prestatore di servizi. È utilizzato unicamente per semplificare il testo. (...) 9. Si considerano “amministrazioni aggiudicatrici”: lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli organismi di diritto pubblico e le associazioni costituite da uno o più di tali enti pubblici territoriali o da uno o più di tali organismi di diritto pubblico. (...)». 5 Ai sensi dell’articolo 2 di detta direttiva, «[l]e amministrazioni aggiudicatrici trattano gli operatori economici su un piano di parità, in modo non discriminatorio e agiscono con trasparenza». 6 Ai sensi dell’articolo 7, lettera b), della direttiva 2004/18, quest’ultima si applica in particolare agli appalti pubblici di servizi aggiudicati da amministrazioni aggiudicatrici diverse dalle autorità governative centrali menzionate nell’allegato IV di tale direttiva, purché si tratti di appalti non esclusi in forza delle eccezioni indicate nell’articolo suddetto e il loro valore stimato al netto dell’imposta sul valore aggiunto (in prosieguo: l’«IVA») sia pari o superiore a EUR 206 000. 7 In conformità all’articolo 9, paragrafi 1 e 2, di detta direttiva, il calcolo del valore stimato di un appalto pubblico è basato sull’importo totale pagabile al netto dell’IVA, valutato dall’amministrazione aggiudicatrice al momento dell’invio del bando di gara o, se del caso, al momento in cui la procedura di aggiudicazione dell’appalto è avviata. 8 L’articolo 20 della direttiva 2004/18 prevede che gli appalti aventi per oggetto servizi elencati nell’allegato II A di tale direttiva siano aggiudicati secondo gli articoli 23-55 di quest’ultima, nell’ambito dei quali l’articolo 28 stabilisce che, «[p]er aggiudicare gli appalti pubblici, le amministrazioni aggiudicatrici applicano le procedure nazionali adattate ai fini d[i] [detta] direttiva». 9 L’allegato II A della direttiva 2004/18 indica in particolare le seguenti categorie di servizi: – categoria 8, relativa ai servizi di ricerca e sviluppo, ad esclusione dei servizi di ricerca e sviluppo diversi da quelli di cui beneficiano esclusivamente le amministrazioni aggiudicatrici e/o gli enti aggiudicatori per loro uso nell’esercizio della propria attività, nella misura in cui la prestazione di servizi sia interamente retribuita da dette amministrazioni e/o detti enti, e – categoria 12, relativa ai servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria, anche integrata, ai servizi attinenti all’urbanistica e alla paesaggistica, ai servizi affini di consulenza scientifica e tecnica, nonché ai servizi di sperimentazione tecnica e analisi. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 27 Il diritto italiano 10 Ai sensi dell’articolo 15, primo comma, della legge n. 241 del 7 agosto 1990, recante nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi (GURI n. 192, del 18 agosto 1990, pag. 7), «le amministrazioni pubbliche possono sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune». 11 L’articolo 66 del decreto del Presidente della Repubblica n. 382 dell’11 luglio 1980, recante riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di formazione nonché sperimentazione organizzativa e didattica (Supplemento ordinario alla GURI n. 209, del 31 luglio 1980), dispone quanto segue: «Le Università, purché non vi osti lo svolgimento della loro funzione scientifica didattica, possono eseguire attività di ricerca e consulenza stabilite mediante contratti e convenzioni con enti pubblici e privati. L’esecuzione di tali contratti e convenzioni sarà affidata, di norma, ai dipartimenti [universitari] o, qualora questi non siano costituiti, agli istituti o alle cliniche universitarie o a singoli docenti a tempo pieno. I proventi delle prestazioni dei contratti e convenzioni di cui al comma precedente sono ripartiti secondo un regolamento approvato dal consiglio di amministrazione dell’Università, sulla base di uno schema predisposto (...) dal Ministro della pubblica istruzione. Il personale docente e non docente che collabora a tali prestazioni può essere ricompensato fino a una somma annua totale non superiore al 30 per cento della retribuzione complessiva. In ogni caso la somma così erogata al personale non può superare il 50 per cento dei proventi globali [di dette] prestazioni. Il regolamento di cui al secondo comma determina la somma da destinare per spese di carattere generale sostenute dall’Università e i criteri per l’assegnazione al personale della somma di cui al terzo comma. Gli introiti rimanenti sono destinati ad acquisto di materiale didattico e scientifico e a spese di funzionamento dei dipartimenti, istituti o cliniche che hanno eseguito i contratti e le convenzioni. Dai proventi globali derivanti dalle singole prestazioni e da ripartire con le modalità di cui al precedente secondo comma vanno in ogni caso previamente detratte le spese sostenute dall’Università per l’espletamento delle prestazioni medesime. I proventi derivati dall’attività di cui al comma precedente costituiscono entrate del bilancio dell’Università». Procedimento principale e questione pregiudiziale 12 Con deliberazione del 7 ottobre 2009 il Direttore generale dell’ASL ha approvato il disciplinare relativo all’esecuzione, da parte dell’Università, di un’attività di studio e di valutazione della vulnerabilità sismica delle strutture ospedaliere della Provincia di Lecce alla luce delle recenti normative nazionali emanate in materia di sicurezza delle strutture e, in particolare, degli edifici cosiddetti «strategici» (in prosieguo, rispettivamente: il «disciplinare» e l’«attività di studio»). 13 Conformemente al disciplinare, tale attività di studio si articola, per ogni singolo edificio interessato, nelle tre seguenti fasi: – individuazione della tipologia strutturale, dei materiali impiegati per la costruzione e dei metodi di calcolo adottati; verifica sommaria dello stato di fatto rispetto alla documentazione progettuale resa disponibile; – verifiche della regolarità strutturale, analisi sommaria della risposta sismica globale dell’edificio, eventuali analisi locali su elementi o sottosistemi strutturali significativi 28 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 per l’individuazione della risposta sismica globale; – elaborazione dei risultati delle attività di cui alla fase precedente e stesura di schede tecniche di diagnosi strutturale; in particolare è previsto che vengano fornite: relazioni sulla tipologia strutturale osservata, sui materiali e sullo stato di conservazione della struttura, con particolare riferimento agli aspetti che incidono maggiormente sulla risposta strutturale in relazione alla pericolosità sismica del sito di ubicazione dell’opera; schede tecniche di classificazione della vulnerabilità sismica degli ospedali; relazioni tecniche sugli elementi o sottosistemi strutturali rilevati come critici in relazione alla verifica di vulnerabilità sismica; suggerimenti preliminari e sommaria descrizione delle opere di adeguamento o miglioramento sismico adottabili, con particolare riferimento ai vantaggi e limiti delle diverse tecnologie possibili, in termini tecnico-economici. 14 Il contratto di consulenza concluso il 22 ottobre 2009 relativo all’attività di studio prevede in particolare quanto segue: – la durata massima di tale contratto è stabilita in sedici mesi; – l’attività di studio è affidata al Gruppo di Tecnica delle costruzioni, con facoltà di ricorrere alla collaborazione di personale esterno altamente qualificato; – tale attività è svolta in stretta collaborazione tra il gruppo di lavoro individuato dall’ASL ed il gruppo di lavoro dell’Università al fine di raggiungere gli obiettivi comuni di cui alla terza fase di detta attività; – la responsabilità scientifica è assunta da due persone rispettivamente designate dalle due parti; – all’ASL spetta la proprietà di qualunque risultato derivante dall’attività sperimentale, ma nel caso di pubblicazione dei risultati in ambito tecnico-scientifico l’ASL si impegna a citare espressamente l’Università; quest’ultima può utilizzare detti risultati per pubblicazioni o comunicazioni scientifiche previa autorizzazione dell’ASL, e – per l’intera prestazione l’ASL corrisponde all’Università la somma di EUR 200 000 al netto dell’IVA, pagabile in quattro rate. Tuttavia, nel caso di risoluzione anticipata del contratto, l’Università ha diritto ad un importo dipendente dalla quantità di lavoro svolto e corrispondente alle spese sostenute e a quelle relative a obbligazioni giuridiche assunte nell’ambito dell’esecuzione dell’attività di studio. 15 Dal fascicolo sottoposto alla Corte risulta che detto importo di EUR 200 000 si compone delle seguenti somme: – acquisto e uso di attrezzature: EUR 20 000; – costi di missione del personale: EUR 10 000; – costo del personale: EUR 144 000, e – spese generali: EUR 26 000. 16 Risulta inoltre che il costo del personale pari a EUR 143 999,58, arrotondati a EUR 144 000, corrisponde alle seguenti voci: – attivazione di tre assegni di ricerca della durata di un anno: EUR 57 037,98; – costo per un professore associato, per 180 ore nel 2009 (costo orario pari a EUR 45,81) e per 641 ore nel 2010 (costo orario pari a EUR 48,93): EUR 39 609,93; – costo per un ricercatore confermato, per 170 ore nel 2009 (costo orario pari a EUR 25,91) e per 573 ore nel 2010 (costo orario pari a EUR 32,23): EUR 22 936,95; – costo per un ricercatore non confermato, per 170 ore nel 2009 (costo orario pari a EUR 20,50) e per 584 ore nel 2010 (costo orario pari a EUR 26,48): EUR 18 949,32, e CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 29 – costo per un tecnico di laboratorio, per 70 ore nel 2009 (costo orario pari a EUR 20,48) e per 190 ore nel 2010 (costo orario pari a EUR 21,22): EUR 5 465,40. 17 Diversi ordini e associazioni professionali ed alcune imprese hanno proposto vari ricorsi avverso la deliberazione di approvazione del disciplinare e ogni atto presupposto, consequenziale e connesso a quest’ultima dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, lamentando in particolare la violazione della normativa nazionale e dell’Unione in materia di appalti pubblici. Nelle sentenze con cui accoglieva detti ricorsi, tale giudice considerava che l’affidamento dell’incarico relativo all’attività di studio costituiva un appalto di servizi d’ingegneria, ai sensi della normativa italiana. 18 Nell’ambito dei ricorsi in appello proposti avverso tali sentenze, l’ASL e l’Università rilevano essenzialmente che, in conformità al diritto italiano, il contratto di consulenza costituisce un accordo di cooperazione tra amministrazioni pubbliche per lo svolgimento di attività di interesse generale. La partecipazione a titolo oneroso – ma per una remunerazione limitata ai costi sostenuti – dell’Università a un siffatto contratto rientrerebbe nell’ambito delle attività istituzionali di quest’ultima. Viene inoltre invocato il fatto che l’attività di studio è affidata a enti di ricerca e che essa riguarda ricerche da condurre mediante sperimentazioni e analisi da realizzare al di fuori di ogni metodologia standardizzata e di procedure codificate o individuate nella letteratura scientifica. La legittimità di tali accordi di cooperazione tra pubbliche amministrazioni sotto il profilo del diritto dell’Unione risulterebbe dalla giurisprudenza della Corte. 19 Il giudice del rinvio espone che gli accordi tra pubbliche amministrazioni previsti all’articolo 15 della legge n. 241 del 7 agosto 1990 sono preordinati al coordinamento dell’azione di diversi apparati amministrativi, ciascuno portatore di uno specifico interesse pubblico, e costituiscono una forma di cooperazione volta a consentire la più efficiente ed economica gestione di servizi pubblici. Un siffatto accordo può essere concluso quando una pubblica amministrazione intenda affidare a titolo oneroso ad altra pubblica amministrazione la prestazione di un servizio e tale servizio ricada tra i compiti dell’amministrazione, conformemente agli obiettivi istituzionali degli enti parti dell’accordo. 20 Il Consiglio di Stato si chiede tuttavia se la conclusione di un accordo tra pubbliche amministrazioni non sia contraria al principio della libera concorrenza qualora una delle amministrazioni interessate possa essere considerata un operatore economico, qualità riconosciuta ad ogni ente pubblico che offra servizi sul mercato, indipendentemente dal perseguimento di uno scopo di lucro, dalla dotazione di una organizzazione di impresa o dalla presenza continua sul mercato. Il giudice del rinvio si riferisce, al riguardo, alla sentenza della Corte del 23 dicembre 2009, CoNISMa (C-305/08, Racc. pag. I-12129). In tale ottica, dal momento che l’Università può partecipare a una gara d’appalto, i contratti con essa stipulati da amministrazioni aggiudicatrici rientrerebbero nell’ambito di applicazione della normativa dell’Unione in materia di appalti pubblici quando abbiano ad oggetto, come nel procedimento principale, prestazioni di ricerca che non appaiono incompatibili con i servizi menzionati nelle categorie 8 e 12 dell’allegato II A della direttiva 2004/18. 2I In tali circostanze, il Consiglio di Stato ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale: «Se la [direttiva 2004/18], ed in particolare l’articolo 1, paragrafo 2, lettere a) e d), l’articolo 2, l’articolo 28 e l’allegato II [A], categorie 8 e 12, ostino ad una disciplina nazionale che consente la stipulazione di accordi in forma scritta tra due amministrazioni 30 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 aggiudicatrici per lo studio e la valutazione della vulnerabilità sismica di strutture ospedaliere da eseguirsi alla luce delle normative nazionali in materia di sicurezza delle strutture ed in particolare degli edifici strategici, verso un corrispettivo non superiore ai costi sostenuti per l’esecuzione della prestazione, ove l’amministrazione esecutrice possa rivestire la qualità di operatore economico». Sulla questione pregiudiziale 22 Con la sua questione il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se la direttiva 2004/18 debba essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale che autorizzi la stipulazione, senza previa gara, di un contratto mediante il quale due amministrazioni pubbliche istituiscono tra loro una cooperazione come quella di cui al procedimento principale. 23 Preliminarmente, occorre osservare che l’applicazione della direttiva 2004/18 a un appalto pubblico è subordinata alla condizione che il valore stimato di quest’ultimo raggiunga la soglia stabilita all’articolo 7, lettera b), della direttiva medesima, tenendo conto del valore normale sul mercato dei lavori, delle forniture o dei servizi oggetto di tale appalto pubblico. In caso contrario, si applicano le norme fondamentali e i principi generali del Trattato FUE, segnatamente i principi della parità di trattamento e di non discriminazione a motivo della nazionalità, nonché l’obbligo di trasparenza che ne deriva, purché l’appalto in questione presenti un interesse transfrontaliero certo, tenuto conto, in particolare, della sua importanza e del luogo della sua esecuzione (v. in tal senso, in particolare, sentenza del 15 maggio 2008, SECAP e Santorso, C-147/06 e C-148/06, Racc. pag. I-3565, punti 20, 21 e 31 nonché la giurisprudenza citata). 24 Tuttavia, la circostanza che il contratto controverso nel procedimento principale possa rientrare, eventualmente, o nell’ambito di applicazione della direttiva 2004/18, o in quello delle norme fondamentali e dei principi generali del Trattato FUE non influisce sulla risposta da fornire alla questione sollevata. Infatti, i criteri enunciati nella giurisprudenza della Corte per valutare se il previo svolgimento di una gara sia o no obbligatorio rilevano sia per l’interpretazione di tale direttiva, sia per l’interpretazione di dette norme e principi del Trattato FUE (v., in tal senso, sentenza del 10 settembre 2009, Sea, C-573/07, Racc. pag. I-8127, punti 35-37). 25 Ciò precisato, si deve rilevare che, in conformità all’articolo 1, paragrafo 2, della direttiva 2004/18, un contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto tra un operatore economico e un’amministrazione aggiudicatrice, ed avente per oggetto la prestazione di servizi di cui all’allegato II A di tale direttiva, costituisce un appalto pubblico. 26 Al riguardo, in primo luogo, è ininfluente la circostanza che tale operatore sia esso stesso un’amministrazione aggiudicatrice (v., in tal senso, sentenza del 18 novembre 1999, Teckal, C-107/98, Racc. pag. I-8121, punto 51). È inoltre indifferente che l’ente in questione non persegua un preminente scopo di lucro, che non abbia una struttura imprenditoriale, od anche che non assicuri una presenza continua sul mercato (v., in tal senso, sentenza CoNISMa, cit., punti 30 e 45). 27 In tal senso, riguardo a soggetti quali le università pubbliche, la Corte ha dichiarato che a siffatti enti è in linea di principio consentito partecipare ad un procedimento di aggiudicazione di un appalto pubblico di servizi. Tuttavia, gli Stati membri possono disciplinare le attività di tali soggetti e, in particolare, autorizzarli o non autorizzarli ad operare sul mercato, tenuto conto dei loro fini istituzionali e statutari. Comunque, se e nei limiti in cui i suddetti soggetti siano autorizzati a offrire taluni servizi sul mercato, non può CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 31 essere loro vietato di partecipare a una gara d’appalto avente ad oggetto i servizi in questione (v., in tal senso, sentenza CoNISMa, cit., punti 45, 48, 49 e 51). Orbene, nel caso di specie, il giudice del rinvio ha indicato che l’articolo 66, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica n. 382 dell’11 luglio 1980 autorizza espressamente le università pubbliche a fornire prestazioni di ricerca e consulenza a enti pubblici o privati, purché tale attività non comprometta la loro funzione didattica. 28 In secondo luogo, attività quali quelle costituenti l’oggetto del contratto in esame nel giudizio principale, pur potendo rientrare – come menzionato dal giudice del rinvio – nel campo della ricerca scientifica, ricadono, secondo la loro natura effettiva, nell’ambito dei servizi di ricerca e sviluppo di cui all’allegato II A, categoria 8, della direttiva 2004/18, oppure nell’ambito dei servizi d’ingegneria e dei servizi affini di consulenza scientifica e tecnica indicati nella categoria 12 di tale allegato. 29 In terzo luogo, come chiarito dall’avvocato generale ai paragrafi 32-34 delle sue conclusioni, e come risulta dal senso normalmente e abitualmente attribuito all’espressione «a titolo oneroso», un contratto non può esulare dalla nozione di appalto pubblico per il solo fatto che la remunerazione in esso prevista sia limitata al rimborso delle spese sostenute per fornire il servizio convenuto. 30 Salve le verifiche di competenza del giudice del rinvio, risulta che il contratto controverso nel procedimento principale presenta tutte le caratteristiche enunciate ai punti 26-29 della presente sentenza. 31 Emerge tuttavia dalla giurisprudenza della Corte che due tipi di appalti conclusi da enti pubblici non rientrano nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici. 32 Si tratta, in primo luogo, dei contratti di appalto stipulati da un ente pubblico con un soggetto giuridicamente distinto da esso, quando detto ente eserciti su tale soggetto un controllo analogo a quello che esso esercita sui propri servizi e, al contempo, il soggetto in questione realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti che lo controllano (v., in tal senso, sentenza Teckal, cit., punto 50). 33 È comunque assodato che tale eccezione non è applicabile in un contesto come quello di cui al procedimento principale, dal momento che dalla decisione di rinvio risulta che l’ASL non esercita alcun controllo sull’Università. 34 In secondo luogo, si tratta dei contratti che istituiscono una cooperazione tra enti pubblici finalizzata a garantire l’adempimento di una funzione di servizio pubblico comune a questi ultimi (v., in tal senso, sentenza del 9 giugno 2009, Commissione/Germania, C-480/06, Racc. pag. I-4747, punto 37). 35 In tale ipotesi, le norme del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici non sono applicabili, a condizione che – inoltre – tali contratti siano stipulati esclusivamente tra enti pubblici, senza la partecipazione di una parte privata, che nessun prestatore privato sia posto in una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti, e che la cooperazione da essi istituita sia retta unicamente da considerazioni ed esigenze connesse al perseguimento di obiettivi d’interesse pubblico (v., in tal senso, sentenza Commissione/Germania, cit., punti 44 e 47). 36 Se è pur vero che, come rilevato dal giudice del rinvio, un contratto come quello controverso nel procedimento principale sembra soddisfare taluni dei criteri menzionati nei due precedenti punti della presente sentenza, un contratto siffatto può tuttavia esulare dall’ambito di applicazione del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici soltanto 32 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 qualora soddisfi tutti i suddetti criteri. 37 Al riguardo, dalle indicazioni contenute nella decisione di rinvio sembra risultare, in primo luogo, che tale contratto presenti un insieme di aspetti materiali corrispondenti in misura estesa, se non preponderante, ad attività che vengono generalmente svolte da ingegneri o architetti e che, se pur basate su un fondamento scientifico, non assomigliano ad attività di ricerca scientifica. Di conseguenza, contrariamente a quanto la Corte ha potuto constatare al punto 37 della citata sentenza Commissione/Germania, la funzione di servizio pubblico costituente l’oggetto della cooperazione tra enti pubblici istituita da detto contratto non sembra garantire l’adempimento di una funzione di servizio pubblico comune all’ASL e all’Università. 38 In secondo luogo, il contratto controverso nel procedimento principale potrebbe condurre a favorire imprese private qualora tra i collaboratori esterni altamente qualificati cui, in base a detto contratto, l’Università è autorizzata a ricorrere per la realizzazione di talune prestazioni, fossero inclusi dei prestatori privati. 39 Spetta tuttavia al giudice del rinvio provvedere a tutti gli accertamenti necessari a questo proposito. 40 Alla questione sollevata occorre quindi rispondere dichiarando che il diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici osta ad una normativa nazionale che autorizzi la stipulazione, senza previa gara, di un contratto mediante il quale taluni enti pubblici istituiscono tra loro una cooperazione, nel caso in cui – ciò che spetta al giudice del rinvio verificare – tale contratto non abbia il fine di garantire l’adempimento di una funzione di servizio pubblico comune agli enti medesimi, non sia retto unicamente da considerazioni ed esigenze connesse al perseguimento di obiettivi d’interesse pubblico, oppure sia tale da porre un prestatore privato in una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti. Sulle spese 41 Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara: Il diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici osta ad una normativa nazionale che autorizzi la stipulazione, senza previa gara, di un contratto mediante il quale taluni enti pubblici istituiscono tra loro una cooperazione, nel caso in cui – ciò che spetta al giudice del rinvio verificare – tale contratto non abbia il fine di garantire l’adempimento di una funzione di servizio pubblico comune agli enti medesimi, non sia retto unicamente da considerazioni ed esigenze connesse al perseguimento di obiettivi d’interesse pubblico, oppure sia tale da porre un prestatore privato in una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 33 Una email per una breve riflessione: Il lavoro a tempo determinato e quello a tempo indeterminato sono la stessa cosa? (Corte di Giustizia, Sesta Sezione, sentenza 18 ottobre 2012, nelle cause riunite da C-302/11 a C-305/11) Da: Alessandro De Stefano [mailto:alessandro.destefano@avvocaturastato.it] Inviato: lun 29/10/2012 9.15 A: Avvocati_tutti Oggetto: Il lavoro a tempo determinato e quello a tempo indeterminato sono la stessa cosa? Cari Colleghi, la lettura di alcuni recenti messaggi mediatici, riguardanti l’asserita debolezza delle nostre difese alla luce della sentenza della Corte di Giustizia U.E. del 18 ottobre u.s. in causa C-302/11, mi induce ad una breve riflessione, per l’ipotesi che la fragilità sia insita piuttosto in certe soluzioni della giurisprudenza comunitaria. La questione controversa riguarda il riconoscimento dell’anzianità maturata nel corso del rapporto a tempo determinato a favore del personale che - per un insperato beneficio di legge - è stato “stabilizzato” nei ruoli della p.A.. Con lunghe argomentazioni apparentemente logiche (ma forse paradossali), la Corte di Giustizia U.E. (in contrasto con precedenti sentenze del Consiglio di Stato e dei giudici ordinari), ha ritenuto che tale personale abbia diritto al riconoscimento dell’anzianità pregressa perché, altrimenti, si registrerebbe una discriminazione tra personale a tempo determinato e personale a tempo indeterminato, in contrasto con le direttive comunitarie emanate in materia. Secondo la Corte di Giustizia U.E., non avrebbe nessun rilievo il fatto che il personale a tempo indeterminato (a differenza di quello a tempo determinato) fosse stato assunto con regolare concorso, perché la legge di stabilizzazione ha comunque equiparato il personale appartenente alle due categorie; inoltre, la diversità di trattamento non potrebbe essere giustificata in base al diverso status delle due categorie di personale, ma solo dall’analisi oggettiva delle mansioni di fatto esercitate dai dipendenti che ad esse afferiscono; infine, la Corte non ritiene necessaria nessuna indagine sui profili inerenti alla legittimità del termine apposto ai singoli contratti a tempo determinato. Mi sembra che l’iter argomentativo contenga queste premesse implicite e conduca alle seguenti conseguenze: a) il rapporto di lavoro a tempo determinato e quello a tempo indeterminato sono sostanzialmente la stessa cosa; b) le regole del concorso pubblico possono essere ordinariamente alterate 34 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 da una scelta legislativa che trasformi i rapporti precari in rapporti di ruolo; c) nel caso di trasformazione di un rapporto a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato, la ricongiunzione dei servizi prestati ed il riconoscimento dell’anzianità pregressa spettano in ogni caso, a prescindere dalla legittimità o dall’illegittimità dell’apposizione del termine; d) i dipendenti a tempo determinato “stabilizzati” non ricevono un gratuito beneficio, ma sono piuttosto discriminati, nel caso in cui non conseguano anche il riconoscimento dell’anzianità pregressa. Si tratta di verità alle quali bisogna adeguarsi; ma personalmente continuo a nutrire qualche dubbio sulla loro fondatezza. Cari saluti. Alessandro De Stefano Corte di Giustizia, Sesta Sezione, sentenza 18 ottobre 2012 nelle cause riunite da C- 302/11 a C-305/11 - Pres. ff. U. Lõhmus, Rel. C.G. Fernlund, Avv. Gen. E. Sharpston - Domande di pronuncia pregiudiziale proposte alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal Consiglio di Stato, con decisioni del 29 aprile 2011. «Politica sociale – Direttiva 1999/70/CE - Accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato – Clausola 4 - Contratti di lavoro a tempo determinato nel settore pubblico – Autorità nazionale della concorrenza – Procedura di stabilizzazione – Assunzione in ruolo, senza concorso pubblico, di lavoratori già in servizio a tempo determinato – Determinazione dell’anzianità – Difetto assoluto di considerazione dei periodi di servizio compiuti nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato – Principio di non discriminazione» Sentenza 1 Le domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull’interpretazione delle clausole 4 e 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 (in prosieguo: l’«accordo quadro») e figurante quale allegato della direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato (GU L 175, pag. 43). 2 Tali domande sono state presentate nell’ambito di controversie rispettivamente instaurate dalle sig.re Valenza, Altavista, Marsella, Schettini e Tomassini contro l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (in prosieguo: l’«AGCM»), e aventi ad oggetto il rifiuto di quest’ultima di prendere in considerazione, ai fini della determinazione dell’anzianità delle predette al momento della loro assunzione a tempo indeterminato, nell’ambito di una specifica procedura di stabilizzazione del loro rapporto di lavoro come dipendenti di ruolo, i periodi di servizio da esse precedentemente compiuti presso l’autorità medesima nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato. Contesto normativo La normativa dell’Unione 3 Risulta dal considerando 14 della direttiva 1999/70 – la quale si fonda sull’articolo 139, paragrafo 2, CE – che le parti contraenti dell’accordo quadro hanno inteso, mediante la CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 35 conclusione dello stesso, migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo l’applicazione del principio di non discriminazione, e creare un quadro per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato. 4 Ai sensi dell’articolo 1 della direttiva 1999/70, quest’ultima mira ad «attuare l’accordo quadro (...), che figura nell’allegato, concluso (...) fra le organizzazioni intercategoriali a carattere generale (CES, CEEP e UNICE)». 5 L’articolo 2, primo e terzo comma, di detta direttiva così dispone: «Gli Stati membri mettono in atto le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla presente direttiva al più tardi entro il 10 luglio 2001 o si assicurano che, entro tale data, le parti sociali introducano le disposizioni necessarie mediante accordi. Gli Stati membri devono prendere tutte le disposizioni necessarie per essere sempre in grado di garantire i risultati prescritti dalla presente direttiva. Essi ne informano immediatamente la Commissione. (...) Quando gli Stati membri adottano le disposizioni di cui al primo [comma], queste contengono un riferimento alla presente direttiva o sono corredate da tale riferimento all’atto della loro pubblicazione ufficiale. Le modalità di tale riferimento sono stabilite dagli Stati membri». 6 Ai sensi del suo articolo 3, la direttiva 1999/70 è entrata in vigore il 10 luglio 1999, data della sua pubblicazione nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee. 7 Ai sensi della clausola 1 dell’accordo quadro, l’obiettivo di quest’ultimo è: «a) migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione; b) creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato». 8 La clausola 2, punto 1, dell’accordo quadro è formulata come segue: «Il presente accordo si applica ai lavoratori a tempo determinato con un contratto di assunzione o un rapporto di lavoro disciplinato dalla legge, dai contratti collettivi o dalla prassi in vigore di ciascuno Stato membro». 9 La clausola 3 dell’accordo quadro così recita: «1. Ai fini del presente accordo, il termine “lavoratore a tempo determinato” indica una persona con un contratto o un rapporto di lavoro definiti direttamente fra il datore di lavoro e il lavoratore e il cui termine è determinato da condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico. 2. Ai fini del presente accordo, il termine “lavoratore a tempo indeterminato comparabile” indica un lavoratore con un contratto o un rapporto di lavoro di durata indeterminata appartenente allo stesso stabilimento e addetto a lavoro/occupazione identico o simile, tenuto conto delle qualifiche/competenze. In assenza di un lavoratore a tempo indeterminato comparabile nello stesso stabilimento, il raffronto si dovrà fare in riferimento al contratto collettivo applicabile o, in mancanza di quest’ultimo, in conformità con la legge, i contratti collettivi o le prassi nazionali». 10 La clausola 4 dell’accordo quadro, intitolata «Principio di non discriminazione», prescrive quanto segue: «1. Per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non 36 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive. (...) 4. I criteri del periodo di anzianità di servizio relativi a particolari condizioni di lavoro dovranno essere gli stessi sia per i lavoratori a tempo determinato sia per quelli a tempo indeterminato, eccetto quando criteri diversi in materia di periodo di anzianità siano giustificati da motivazioni oggettive». 11 La clausola 5 dell’accordo quadro, intitolata «Misure di prevenzione degli abusi», recita: «1. Per prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma delle leggi, dei contratti collettivi e della prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative a: a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti. 2. Gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali, e/o le parti sociali stesse dovranno, se del caso, stabilire a quali condizioni i contratti e i rapporti di lavoro a tempo determinato: a) devono essere considerati “successivi”; b) devono essere ritenuti contratti o rapporti a tempo indeterminato». La normativa italiana 12 L’articolo 3 della Costituzione della Repubblica italiana sancisce il principio della parità di trattamento. 13 Ai sensi dell’articolo 97 della suddetta Costituzione: «Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge». 14 L’articolo 1, comma 519, della legge del 27 dicembre 2006, n. 296, recante disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007) (Supplemento ordinario alla GURI n. 299, del 27 dicembre 2006; in prosieguo: la «legge n. 296/2006»), così dispone: «Per l’anno 2007 una quota pari al 20 per cento del fondo di cui al comma 513 è destinata alla stabilizzazione a domanda del personale non dirigenziale in servizio a tempo determinato da almeno tre anni, anche non continuativi, o che consegua tale requisito in virtù di contratti stipulati anteriormente alla data del 29 settembre 2006 o che sia stato in servizio per almeno tre anni, anche non continuativi, nel quinquennio anteriore alla data di entrata in vigore della presente legge, che ne faccia istanza, purché sia stato assunto mediante procedure selettive di natura concorsuale o previste da norme di legge. Alle iniziative di stabilizzazione del personale assunto a tempo determinato mediante procedure diverse si provvede previo espletamento di prove selettive (…)». 15 Dalle informazioni fornite alla Corte dal governo italiano risulta che tale stabilizzazione, essendo realizzata tramite un provvedimento amministrativo adottato al termine di un procedimento previsto dalla legge, conferisce al suo beneficiario lo status di impiegato pubblico, che lo distingue così dal «lavoratore dipendente da una pubblica amministra- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 37 zione» sulla base di un contratto di diritto privato. 16 L’articolo 75, comma 2, del decreto-legge del 25 giugno 2008, n. 112, recante disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria (Supplemento ordinario alla GURI n. 147, del 25 giugno 2008), è così formulato: «Presso le (...) Autorità [indipendenti] il trattamento economico del personale già interessato dalle procedure di cui all’articolo 1, comma 519 della legge [n. 296/2006] è determinato al livello iniziale e senza riconoscimento dell’anzianità di servizio maturata nei contratti a termine o di specializzazione, senza maggiori spese e con l’attribuzione di un assegno “ad personam”, riassorbibile e non rivalutabile pari all’eventuale differenza tra il trattamento economico conseguito e quello spettante all’atto del passaggio in ruolo». 17 L’articolo 36 del decreto legislativo del 30 marzo 2001, n. 165, recante norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche (Supplemento ordinario alla GURI n. 106, del 9 maggio 2001), dispone quanto segue: «1. Per le esigenze connesse con il proprio fabbisogno ordinario le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato seguendo le procedure di reclutamento previste dall’articolo 35. 2. Per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali le amministrazioni pubbliche possono avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, nel rispetto delle procedure di reclutamento vigenti. Ferma restando la competenza delle amministrazioni in ordine alla individuazione delle necessità organizzative in coerenza con quanto stabilito dalle vigenti disposizioni di legge, i contratti collettivi nazionali provvedono a disciplinare la materia dei contratti di lavoro a tempo determinato (...). (...) (...) 5. In ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative. Le amministrazioni hanno l’obbligo di recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave. (...) (...) ». Procedimenti principali e questioni pregiudiziali 18 A seguito di loro istanza di stabilizzazione presentata il 27 gennaio 2007 a norma della legge n. 296/2006, le ricorrenti nei procedimenti principali, che erano tutte alle dipendenze dell’AGCM nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione, sono state assunte dalla suddetta autorità con contratto di lavoro a tempo indeterminato con collocamento in ruolo a partire dal 17 maggio 2007. 19 Con deliberazione in data 17 luglio 2008, l’AGCM ha inquadrato le ricorrenti nei procedimenti principali, con effetto retroattivo dal 17 maggio 2007, nel livello iniziale della categoria retributiva che esse avevano conseguito al momento dell’instaurazione del pregresso rapporto a tempo determinato, senza riconoscere l’anzianità acquisita in forza dei suddetti contratti a termine, e ha attribuito loro un assegno «ad personam» pari alla differenza tra il trattamento economico di cui godevano alla data del 17 maggio 2007 e 38 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 quello derivante dalla loro stabilizzazione. 20 Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio – Sede di Roma ha respinto i ricorsi proposti dalle ricorrenti nei procedimenti principali avverso la suddetta deliberazione, segnatamente a motivo del fatto che la procedura di stabilizzazione consente una deroga alla regola del concorso pubblico, ma non anche il riconoscimento dell’anzianità maturata durante l’attività a tempo determinato. 21 Le ricorrenti nei procedimenti principali hanno interposto appello contro tale pronuncia dinanzi al Consiglio di Stato. A questo proposito, esse deducono una violazione della clausola 4 dell’accordo quadro, in ragione del fatto che il regime di stabilizzazione istituito dalla legge n. 296/2006 azzera l’anzianità pregressa maturata durante l’attività a tempo determinato, malgrado che le mansioni svolte continuino ad essere le stesse e che vi sia stata un’abusiva reiterazione di contratti di lavoro a tempo determinato. 22 Il Consiglio di Stato osserva che la normativa nazionale in questione nei procedimenti principali ha consentito l’assunzione diretta di lavoratori precari in deroga alla regola del pubblico concorso per l’accesso al pubblico impiego, ma con inquadramento in ruolo nel livello iniziale della categoria retributiva, senza conservazione dell’anzianità maturata durante il rapporto a termine. 23 Secondo il giudice remittente, il legislatore nazionale non ha inteso, con tale normativa, procedere alla regolarizzazione di assunzioni a tempo determinato a carattere illegittimo e abusivo mediante la conversione di contratti di lavoro a tempo determinato in rapporti di lavoro a tempo indeterminato, in ragione di un ricorso abusivo a tale tipo di contratti in violazione della clausola 5 dell’accordo quadro. Al contrario, il legislatore avrebbe ritenuto che l’anzianità maturata nel periodo di lavoro a tempo determinato costituisse un titolo legittimante la creazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato in deroga alla regola del concorso pubblico per l’accesso ai ruoli della pubblica amministrazione. In tale contesto, l’azzeramento dell’anzianità sarebbe giustificato dalla necessità di evitare una discriminazione alla rovescia in danno dei lavoratori già di ruolo, assunti a tempo indeterminato a seguito di un concorso pubblico. Infatti, se i beneficiari della stabilizzazione potessero mantenere la loro anzianità, scavalcherebbero i lavoratori già di ruolo con minore anzianità. 24 Il Consiglio di Stato ricorda, inoltre, che nel pubblico impiego vige la regola del divieto di conversione di un contratto di lavoro a tempo determinato in un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Orbene, nell’ordinanza del 1º ottobre 2010, Affatato (C-3/10), la Corte avrebbe riconosciuto la legittimità di tale divieto. 25 Infine, il Consiglio di Stato sottolinea che, nella propria sentenza del 23 febbraio 2011, n. 1138, esso ha altresì escluso l’incompatibilità della normativa controversa nei procedimenti principali con l’accordo quadro, a motivo del fatto che quest’ultimo vieta un trattamento deteriore del lavoratore a termine rispetto al lavoratore a tempo indeterminato soltanto in costanza del rapporto di lavoro a termine. Per contro, detto accordo quadro non impedirebbe di troncare il rapporto a termine alla scadenza stabilita e di costituire, in prosieguo, un nuovo rapporto di lavoro a tempo indeterminato, senza tener conto della pregressa anzianità, in quanto si tratterebbe appunto di un nuovo rapporto. Pertanto, l’accordo quadro non sarebbe applicabile. Per giunta, il divieto di discriminazione del lavoratore a termine non potrebbe spingersi fino a imporre una discriminazione alla rovescia in danno del lavoratore a tempo indeterminato. Pertanto, si dovrebbe riconoscere che l’applicazione di criteri differenti ai lavoratori a tempo determinato e a quelli CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 39 a tempo indeterminato è giustificata da motivazioni oggettive ai sensi della clausola 4, punto 4, dell’accordo quadro. 26 Tuttavia, il Consiglio di Stato rileva che il Tribunale del lavoro di Torino, nella sua sentenza del 9 novembre 2009, n. 4148, ha ritenuto che il rispetto della clausola 4, punto 4, dell’accordo quadro esiga il mantenimento dell’anzianità pregressa in caso di conversione di un rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Malgrado che tale pronuncia riguardasse circostanze differenti da quelle del caso di specie, ne risulterebbe, ad avviso del Consiglio di Stato, un contrasto interpretativo in ordine alla disposizione suddetta. Si delineerebbe dunque un dubbio quanto alla compatibilità delle norme nazionali in questione nei procedimenti principali con il diritto dell’Unione. 27 Sulla scorta di tali premesse, il Consiglio di Stato ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se la previsione [della] clausola 4, [punto] 4, [dell’accordo quadro], secondo cui “[i] criteri del periodo di anzianità di servizio relativi a particolari condizioni di lavoro dovranno essere gli stessi sia per i lavoratori a tempo determinato sia per quelli a tempo indeterminato, eccetto quando criteri diversi in materia di periodo di anzianità siano giustificati da motivazioni oggettive”, in combinato disposto con la clausola 5 [del suddetto accordo], come già interpretata dalla Corte di giustizia, secondo cui è legittima la disciplina italiana che, nel pubblico impiego, vieta la conversione del contratto di lavoro a termine in contratto di lavoro a tempo indeterminato, osti alla disciplina nazionale della stabilizzazione dei precari (articolo 1, comma 519, della legge n. 296/2006) che ha consentito l’assunzione diretta a tempo indeterminato dei lavoratori già assunti a tempo determinato, in deroga alla regola del concorso pubblico, ma con azzeramento dell’anzianità maturata durante il periodo di lavoro a tempo determinato, o se invece la perdita dall’anzianità, prevista dal legislatore nazionale, rientri nella deroga per “motivazioni oggettive” da ravvisarsi nell’esigenza di evitare che l’immissione in ruolo dei precari avvenga a detrimento dei lavoratori già di ruolo, il che si determinerebbe se ai precari fosse conservata l’anzianità pregressa. 2) Se la citata previsione [della] clausola 4, [punto] 4, [dell’accordo quadro], secondo cui “[i] criteri del periodo di anzianità di servizio relativi a particolari condizioni di lavoro dovranno essere gli stessi sia per i lavoratori a tempo determinato sia per quelli a tempo indeterminato, eccetto quando criteri diversi in materia di periodo di anzianità siano giustificati da motivazioni oggettive”, in combinato disposto con la clausola 5 [del suddetto accordo], come già interpretata dalla Corte di giustizia, secondo cui è legittima la disciplina italiana che, nel pubblico impiego, vieta la conversione del contratto di lavoro a termine in contratto di lavoro a tempo indeterminato, osti alla disciplina nazionale che, ferma restando la maturazione dell’anzianità in costanza di rapporto di lavoro a termine, stabilisca di chiudere il contratto a termine e instaurare un nuovo contratto a tempo indeterminato, diverso dal precedente e senza conservazione della pregressa anzianità (articolo 1, comma 519, della legge n. 296/2006)». 28 Con ordinanza del presidente della Corte del 20 luglio 2011, le cause da C-302/11 a C-305/11 sono state riunite ai fini delle fasi scritta e orale del procedimento, nonché della sentenza. Sulle questioni pregiudiziali 29 Con le sue questioni, che occorre trattare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se la clausola 4 dell’accordo quadro, letta in combinato disposto con la clau- 40 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 sola 5 del medesimo, debba essere interpretata nel senso che osta ad una normativa nazionale, quale quella controversa nei procedimenti principali, la quale escluda totalmente che i periodi di servizio compiuti da un lavoratore a tempo determinato alle dipendenze di un’autorità pubblica siano presi in considerazione per determinare l’anzianità del lavoratore stesso al momento della sua assunzione a tempo indeterminato, da parte di questa medesima autorità, come dipendente di ruolo nell’ambito di una specifica procedura di stabilizzazione del suo rapporto di lavoro. Sull’applicabilità della clausola 4 dell’accordo quadro 30 Il governo italiano sostiene che la clausola 4 dell’accordo quadro non è applicabile ai procedimenti principali. Infatti, tale disposizione si limiterebbe a vietare qualsiasi differenza di trattamento tra i lavoratori a tempo indeterminato e i lavoratori precari in costanza del rapporto di lavoro a termine. Orbene, i procedimenti principali non solleverebbero problemi attinenti alla comparazione tra queste due categorie di lavoratori, in quanto il precedente contratto di lavoro a tempo determinato sarebbe concepito dalla normativa nazionale controversa nei giudizi a quibus come un titolo legittimante per l’ottenimento di un contratto di lavoro a tempo indeterminato in deroga alla regola del concorso pubblico per l’accesso ai ruoli della pubblica amministrazione. Tale contratto di lavoro a tempo determinato costituirebbe dunque solo un presupposto per accedere alla speciale procedura finalizzata ad un’autonoma assunzione nell’ambito di un rapporto a tempo indeterminato del tutto sganciato dal precedente. La procedura di stabilizzazione avrebbe dunque come effetto non già la trasformazione o la conversione di contratti di lavoro a tempo determinato conclusi abusivamente in violazione della clausola 5 dell’accordo quadro in rapporti di lavoro a tempo indeterminato, bensì la creazione di un nuovo rapporto di lavoro comportante l’obbligo di sostenere un periodo di prova. Parallelamente, tale stabilizzazione porrebbe fine al rapporto di lavoro a tempo determinato, con conseguente obbligo di definire tutte le situazioni pendenti e di procedere, in particolare, alla liquidazione del trattamento di fine rapporto nonché alla monetizzazione dei giorni di ferie non goduti. 31 Mediante tale argomentazione, che ricalca per l’essenziale la valutazione compiuta dal Consiglio di Stato nelle odierne ordinanze di rinvio nonché nella sua sentenza del 23 febbraio 2011, n. 1138, il governo italiano fa dunque valere, in sostanza, che la clausola 4 dell’accordo quadro è inapplicabile in situazioni quali quelle oggetto dei procedimenti principali, in quanto la differenza di trattamento lamentata dalle ricorrenti nei giudizi a quibus, che dal 17 maggio 2007 sono legate all’AGCM da un contratto di lavoro a tempo indeterminato, sussiste rispetto ad altri lavoratori a tempo indeterminato. 32 A tale proposito occorre rammentare che, ai sensi della clausola 2, punto 1, dell’accordo quadro, quest’ultimo si applica ai lavoratori a tempo determinato aventi un contratto o un rapporto di lavoro disciplinato dalla legge, dai contratti collettivi o dalla prassi in vigore di ciascuno Stato membro (sentenza dell’8 settembre 2011, Rosado Santana, C-177/10, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 39). 33 La Corte ha già statuito che la direttiva 1999/70 e l’accordo quadro trovano applicazione nei confronti di tutti i lavoratori che forniscono prestazioni retribuite nell’ambito di un rapporto di lavoro a tempo determinato che li lega al loro datore di lavoro (sentenze del 13 settembre 2007, Del Cerro Alonso, C-307/05, Racc. pag. I-7109, punto 28, e Rosado Santana, cit., punto 40). 34 Il semplice fatto che le ricorrenti nei procedimenti principali abbiano acquisito la qualità CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 41 di lavoratrici a tempo indeterminato non esclude la possibilità per loro di avvalersi, in determinate circostanze, del principio di non discriminazione enunciato nella clausola 4 dell’accordo quadro (v. sentenza Rosado Santana, cit., punto 41, nonché, in tal senso, sentenza dell’8 marzo 2012, Huet, C-251/11, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 37). 35 Infatti, nei procedimenti principali, le ricorrenti mirano essenzialmente, nella loro qualità di lavoratrici a tempo indeterminato, a mettere in discussione una differenza di trattamento applicata nel valutare l’anzianità e l’esperienza professionale pregresse ai fini di una procedura di assunzione al termine della quale esse sono divenute dipendenti di ruolo. Mentre i periodi di servizio compiuti in qualità di lavoratori a tempo indeterminato verrebbero presi in considerazione ai fini della determinazione dell’anzianità e dunque per la fissazione del livello della retribuzione, quelli effettuati in qualità di lavoratori a tempo determinato non lo sarebbero, senza che, a loro avviso, vengano esaminate la natura delle mansioni svolte e le caratteristiche inerenti a queste ultime. Poiché la discriminazione contraria alla clausola 4 dell’accordo quadro, di cui le ricorrenti nei procedimenti principali si asseriscono vittime, riguarda i periodi di servizio compiuti in qualità di lavoratrici a tempo determinato, nessun rilievo presenta la circostanza che esse nel frattempo siano divenute lavoratrici a tempo indeterminato (v., in tal senso, sentenza Rosado Santana, cit., punto 42). 36 Inoltre, occorre rilevare che la clausola 4 dell’accordo quadro prevede, al punto 4, che i criteri del periodo di anzianità di servizio relativi a particolari condizioni di lavoro debbano essere gli stessi sia per i lavoratori a tempo determinato che per i lavoratori a tempo indeterminato, salvo quando criteri differenti siano giustificati da ragioni oggettive. Non risulta né dal testo di detta disposizione, né dal contesto in cui questa si colloca, che essa cessi di essere applicabile una volta che il lavoratore interessato abbia acquisito lo status di lavoratore a tempo indeterminato. Infatti, gli obiettivi perseguiti dalla direttiva 1999/70 e dall’accordo quadro, diretti sia a vietare le discriminazioni, sia a prevenire gli abusi risultanti dal ricorso a contratti o a rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione, depongono in senso contrario (sentenza Rosado Santana, cit., punto 43). 37 Escludere a priori l’applicazione dell’accordo quadro in situazioni come quelle di cui ai procedimenti principali significherebbe limitare – in spregio all’obiettivo assegnato a detta clausola 4 – l’ambito della protezione concessa ai lavoratori interessati contro le discriminazioni e porterebbe ad un’interpretazione indebitamente restrittiva di tale clausola, contraria alla giurisprudenza della Corte (sentenza Rosado Santana, cit., punto 44 e la giurisprudenza ivi citata). 38 Alla luce delle considerazioni che precedono, occorre rilevare che, contrariamente all’interpretazione sostenuta dal governo italiano, nulla osta all’applicabilità della clausola 4 dell’accordo quadro alle controversie oggetto dei procedimenti principali. Sull’interpretazione della clausola 4 dell’accordo quadro 39 Occorre ricordare che la clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro vieta che, per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato siano trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o un rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che un diverso trattamento non sia giustificato da ragioni oggettive. Il punto 4 di tale clausola enuncia il medesimo divieto per quanto riguarda i criteri del periodo di anzianità di servizio relativi a particolari condizioni di lavoro (sentenza Rosado Santana, cit., punto 64). 40 Secondo una costante giurisprudenza, il principio di non discriminazione impone che 42 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 situazioni comparabili non siano trattate in modo differente e che situazioni differenti non siano trattate in modo identico, a meno che un tale trattamento non sia oggettivamente giustificato (sentenza Rosado Santana, cit., punto 65 e la giurisprudenza ivi citata). 41 Occorre dunque, anzitutto, esaminare la comparabilità delle situazioni in esame e poi, in un secondo momento, verificare l’esistenza di un eventuale giustificazione oggettiva. Sulla comparabilità delle situazioni in esame 42 Per stabilire se le persone interessate esercitino un lavoro identico o simile ai sensi dell’accordo quadro, occorre, in conformità alle clausole 3, punto 2, e 4, punto 1, di quest’ultimo, verificare se, tenuto conto di un insieme di fattori, quali la natura del lavoro, le condizioni di formazione e le condizioni di impiego, sia possibile ritenere che tali persone si trovino in situazioni comparabili (ordinanza del 18 marzo 2011, Montoya Medina, C-273/10, punto 37; sentenza Rosado Santana, cit., punto 66, e ordinanza del 9 febbraio 2012, Lorenzo Martínez, C-556/11, punto 43). 43 Spetta, in linea di principio, al giudice del rinvio verificare se le ricorrenti nei procedimenti principali, allorché esercitavano le loro funzioni presso l’AGCM nell’ambito di un contratto di lavoro a tempo determinato, si trovassero in una situazione comparabile a quella dei dipendenti di ruolo assunti a tempo indeterminato da questa stessa autorità (v. sentenza Rosado Santana, cit., punto 67, e ordinanza Lorenzo Martínez, cit., punto 44). 44 Infatti, la natura delle funzioni espletate dalle ricorrenti nei procedimenti principali durante gli anni nei quali hanno lavorato presso gli uffici dell’AGCM nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato, nonché la qualità dell’esperienza da esse acquisita a tale titolo, non costituiscono soltanto uno dei fattori atti a giustificare oggettivamente una differenza di trattamento rispetto ai dipendenti di ruolo. Esse rientrano altresì nel novero dei criteri che permettono di verificare se le interessate si trovino in una situazione comparabile a quella di detti dipendenti di ruolo (v., in tal senso, sentenza Rosado Santana, cit., punto 69). 45 Nella specie, consta che le ricorrenti nei procedimenti principali, beneficiarie della procedura di stabilizzazione, non hanno superato – a differenza dei dipendenti di ruolo – il concorso pubblico per l’accesso ai ruoli della pubblica amministrazione. Tuttavia, come giustamente sostenuto dalla Commissione, tale circostanza non può implicare che dette ricorrenti si trovino in una situazione differente, dal momento che le condizioni per la stabilizzazione fissate dal legislatore nazionale nella normativa controversa nei procedimenti principali, le quali concernono rispettivamente la durata del rapporto di lavoro a tempo determinato e il requisito dell’essere stati assunti a tale scopo mediante una procedura di selezione concorsuale o comunque prevista dalla legge, mirano appunto a consentire la stabilizzazione dei soli lavoratori a tempo determinato la cui situazione può essere assimilata a quella dei dipendenti di ruolo. 46 Quanto alla natura delle funzioni esercitate nelle fattispecie all’esame del giudice nazionale, non risulta chiaramente dai fascicoli a disposizione della Corte quali fossero le funzioni svolte dalle ricorrenti nei procedimenti principali durante gli anni nei quali hanno lavorato presso l’AGCM nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato, né quale fosse la relazione intercorrente tra tali funzioni e quelle affidate alle medesime ricorrenti in veste di dipendenti di ruolo. 47 Tuttavia, nelle loro osservazioni scritte presentate alla Corte, le ricorrenti nei procedimenti principali fanno valere – come rilevato anche dalla Commissione – che le funzioni da esse esercitate in veste di dipendenti di ruolo all’esito della procedura di stabilizza- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 43 zione sono identiche a quelle precedentemente esercitate nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato. Inoltre, risulta dai chiarimenti dello stesso governo italiano in merito alla ragion d’essere della normativa nazionale controversa nei procedimenti principali che quest’ultima, assicurando l’assunzione a tempo indeterminato dei lavoratori impiegati in precedenza a tempo determinato, mira a valorizzare l’esperienza acquisita da questi ultimi in seno all’AGCM. Tuttavia, spetta al giudice del rinvio effettuare le necessarie verifiche al riguardo. 48 Nell’ipotesi in cui le funzioni esercitate dalle ricorrenti nei procedimenti principali presso l’AGCM nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato non corrispondessero a quelle svolte da un dipendente di ruolo inquadrato nella pertinente categoria retributiva di tale autorità, la lamentata differenza di trattamento riguardante la presa in considerazione dei periodi di servizio al momento dell’assunzione delle ricorrenti nei procedimenti principali quali dipendenti di ruolo non sarebbe contraria alla clausola 4 dell’accordo quadro, dal momento che tale differenza di trattamento sarebbe correlata a situazioni differenti (v., per analogia, sentenza Rosado Santana, punto 68). 49 Per contro, nell’ipotesi in cui le funzioni esercitate dalle ricorrenti nei procedimenti principali presso l’AGCM nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato corrispondessero a quelle svolte da un dipendente di ruolo rientrante nella pertinente categoria retributiva di detta autorità, sarebbe necessario verificare se esista una ragione oggettiva che giustifichi la totale mancanza di presa in considerazione dei periodi di servizio maturati nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato al momento dell’assunzione di dette ricorrenti quali dipendenti di ruolo e, dunque, del loro collocamento in ruolo (v., in tal senso, sentenza Rosado Santana, cit., punto 71). Sull’esistenza di una giustificazione oggettiva 50 Secondo una costante giurisprudenza della Corte, la nozione di «ragioni oggettive» ai sensi della clausola 4, punti 1 e/o 4, dell’accordo quadro dev’essere intesa nel senso che essa non consente di giustificare una differenza di trattamento tra i lavoratori a tempo determinato e i lavoratori a tempo indeterminato con il fatto che tale differenza è prevista da una norma nazionale generale ed astratta, quale una legge o un contratto collettivo (sentenze Del Cerro Alonso, cit., punto 57, e del 22 dicembre 2010, Gavieiro Gavieiro e Iglesias Torres, C-444/09 e C-456/09, Racc. pag. I-14031, punto 54; ordinanza Montoya Medina, cit., punto 40; sentenza Rosado Santana, cit., punto 72, nonché ordinanza Lorenzo Martínez, cit., punto 47). 51 La nozione suddetta esige che la disparità di trattamento constatata sia giustificata dall’esistenza di elementi precisi e concreti, che contraddistinguono la condizione di lavoro in questione, nel particolare contesto in cui essa si colloca e in base a criteri oggettivi e trasparenti, al fine di verificare se detta disparità risponda ad un reale bisogno, sia idonea a conseguire l’obiettivo perseguito e sia necessaria a tal fine. I suddetti elementi possono risultare, segnatamente, dalla particolare natura delle mansioni per l’espletamento delle quali sono stati conclusi contratti a tempo determinato e dalle caratteristiche inerenti alle mansioni stesse o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro (v., in particolare, citate sentenze Del Cerro Alonso, punti 53 e 58, e Gavieiro Gavieiro e Iglesias Torres, punto 55; ordinanza Montoya Medina, cit., punto 41; sentenza Rosado Santana, cit., punto 73, nonché ordinanza Lorenzo Martínez, cit., punto 48). 52 Il richiamo alla mera natura temporanea del lavoro del personale della pubblica ammi- 44 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 nistrazione non è conforme ai suddetti requisiti e non può dunque configurare una «ragione oggettiva» ai sensi della clausola 4, punti 1 e/o 4, dell’accordo quadro. Infatti, ammettere che la mera natura temporanea di un rapporto di lavoro basti a giustificare una differenza di trattamento tra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato svuoterebbe di ogni sostanza gli obiettivi della direttiva 1999/70 e dell’accordo quadro ed equivarrebbe a perpetuare il mantenimento di una situazione svantaggiosa per i lavoratori a tempo determinato (sentenza Gavieiro Gavieiro e Iglesias Torres, cit., punti 56 e 57; ordinanza Montoya Medina, cit., punti 42 e 43; sentenza Rosado Santana, cit., punto 74, nonché ordinanza Lorenzo Martínez, cit., punti 49 e 50). 53 Nel caso di specie, per giustificare la differenza di trattamento lamentata nei procedimenti principali, il governo italiano fa valere l’esistenza di svariate differenze oggettive tra i dipendenti di ruolo e i lavoratori a tempo determinato successivamente assunti come dipendenti di ruolo. 54 Detto governo sottolinea, anzitutto, che tale assunzione nell’ambito della disciplina cosiddetta «di stabilizzazione» si realizza attraverso un procedimento che non presenta gli elementi caratteristici della procedura di concorso e che pertanto, in quanto deroga alle normali procedure di assunzione, non può costituire una valida ragione per la concessione di un trattamento superiore a quello previsto per il livello iniziale della categoria retributiva applicabile ai dipendenti di ruolo. 55 Poi, il governo italiano fa valere che la disciplina suddetta, concependo l’anzianità acquisita nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato come un presupposto per beneficiare della stabilizzazione e non come un elemento valutabile nell’ambito del nuovo rapporto di lavoro a tempo indeterminato, trova la propria giustificazione nella necessità di evitare una discriminazione alla rovescia in danno dei dipendenti di ruolo già collocati nel ruolo stesso. Infatti, se i lavoratori stabilizzati potessero conservare detta anzianità, la loro immissione in ruolo avverrebbe a discapito dei lavoratori già in ruolo, assunti a tempo indeterminato a seguito di pubblico concorso, ma con minore anzianità di servizio. Questi ultimi si troverebbero infatti inquadrati in ruolo ad un livello inferiore a quello dei beneficiari della stabilizzazione. 56 Infine, il governo italiano sottolinea che la presa in considerazione dell’anzianità acquisita in virtù di contratti di lavoro a tempo determinato si porrebbe in contrasto, da un lato, con l’articolo 3 della Costituzione della Repubblica italiana, letto nel senso di vietare che a situazioni maggiormente meritevoli sia applicato un trattamento deteriore, e, dall’altro, con l’articolo 97 della medesima Costituzione, il quale prevede che il concorso pubblico – quale meccanismo imparziale di selezione tecnica e neutrale dei più capaci sulla base del criterio del merito – costituisca la forma generale e ordinaria di reclutamento per le pubbliche amministrazioni allo scopo di soddisfare le esigenze di imparzialità e di efficienza dell’azione amministrativa. 57 A questo proposito, occorre ricordare che gli Stati membri, in considerazione del margine di discrezionalità di cui dispongono per quanto riguarda l’organizzazione delle loro amministrazioni pubbliche, possono, in linea di principio, senza violare la direttiva 1999/70 o l’accordo quadro, stabilire le condizioni per l’accesso alla qualifica di dipendente di ruolo nonché le condizioni di impiego di tali dipendenti di ruolo, in particolare qualora costoro fossero in precedenza impiegati da dette amministrazioni nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato (v., in tal senso, sentenza Rosado Santana, cit., punto 76). 58 Pertanto, come sottolineato dalla Commissione in udienza, l’esperienza professionale CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 45 dei lavoratori a tempo determinato, rispecchiata dai periodi di servizio da essi compiuti presso l’amministrazione pubblica nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato, può costituire – così come previsto dalla normativa oggetto dei procedimenti principali, che subordina la stabilizzazione, segnatamente, al compimento di un periodo di servizio di tre anni nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato – un criterio di selezione ai fini di una procedura di assunzione come dipendente di ruolo. 59 Tuttavia, nonostante tale margine di discrezionalità, l’applicazione dei criteri che gli Stati membri stabiliscono deve essere effettuata in modo trasparente e deve poter essere controllata al fine di impedire qualsiasi trattamento deteriore dei lavoratori a tempo determinato sulla sola base della durata dei contratti o dei rapporti di lavoro che giustificano la loro anzianità e la loro esperienza professionale (v. sentenza Rosado Santana, cit., punto 77). 60 A questo proposito, occorre riconoscere che talune differenze invocate dal governo italiano riguardanti l’assunzione dei lavoratori impiegati a tempo determinato nell’ambito di procedure di stabilizzazione quali quelle oggetto dei procedimenti principali rispetto ai dipendenti di ruolo assunti al termine di un concorso pubblico, nonché concernenti le qualifiche richieste e la natura delle mansioni di cui i predetti devono assumere la responsabilità, potrebbero, in linea di principio, giustificare una diversità di trattamento quanto alle loro condizioni di impiego (v., in tal senso, sentenza Rosado Santana, cit., punto 78). 61 Qualora tale trattamento differenziato derivi dalla necessità di tener conto di esigenze oggettive attinenti all’impiego che deve essere ricoperto mediante la procedura di assunzione e che sono estranee alla durata determinata del rapporto di lavoro che intercorre tra il lavoratore e il suo datore di lavoro, detto trattamento può essere giustificato ai sensi della clausola 4, punto 1 e/o 4, dell’accordo quadro (v., in tal senso, sentenza Rosado Santana, cit., punto 79). 62 Nella specie, per quanto riguarda l’asserito obiettivo consistente nell’evitare il prodursi di discriminazioni alla rovescia in danno dei dipendenti di ruolo assunti a seguito del superamento di un concorso pubblico, occorre osservare che tale obiettivo, pur potendo costituire una «ragione oggettiva» ai sensi della clausola 4, punti 1 e/o 4, dell’accordo quadro, non può comunque giustificare una normativa nazionale sproporzionata quale quella in questione nei procedimenti principali, la quale esclude totalmente e in ogni circostanza la presa in considerazione di tutti i periodi di servizio compiuti da lavoratori nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato ai fini della determinazione della loro anzianità in sede di assunzione a tempo indeterminato e, dunque, del loro livello di retribuzione. Infatti, una siffatta esclusione totale e assoluta è intrinsecamente fondata sulla premessa generale secondo cui la durata indeterminata del rapporto di lavoro di alcuni dipendenti pubblici giustifica di per sé stessa una diversità di trattamento rispetto ai dipendenti pubblici assunti a tempo determinato, svuotando così di sostanza gli obiettivi della direttiva 1999/70 e dell’accordo quadro. 63 Quanto alla circostanza ribadita in udienza dal governo italiano, secondo cui, nell’ordinamento nazionale, la procedura di stabilizzazione instaura un nuovo rapporto di lavoro, occorre ricordare che, indubbiamente, l’accordo quadro non fissa le condizioni alle quali è consentito fare ricorso ai contratti di lavoro a tempo indeterminato e non è finalizzato ad armonizzare l’insieme delle norme nazionali relative ai contratti di lavoro a tempo determinato. Infatti, detto accordo quadro mira unicamente, mediante la fissazione di principi generali e di prescrizioni minime, a istituire un quadro generale per garantire la 46 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 parità di trattamento ai lavoratori a tempo determinato, proteggendoli dalle discriminazioni, e a prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di rapporti di lavoro o di contratti di lavoro a tempo determinato (v. sentenza Huet, cit., punti 40 e 41 nonché la giurisprudenza ivi citata). 64 Tuttavia, il potere riconosciuto agli Stati membri per definire il contenuto delle loro norme nazionali riguardanti i contratti di lavoro non può spingersi fino a consentire loro di rimettere in discussione l’obiettivo o l’effetto utile dell’accordo quadro (v., in tal senso, sentenza Huet, cit., punto 43 e la giurisprudenza ivi citata). 65 Orbene, il principio di non discriminazione enunciato nella clausola 4 dell’accordo quadro sarebbe privato di qualsiasi contenuto se il semplice fatto che un rapporto di lavoro sia nuovo in base al diritto nazionale fosse idoneo a configurare una «ragione oggettiva» ai sensi della clausola suddetta, atta a giustificare una diversità di trattamento, quale quella lamentata nei procedimenti principali, riguardante la presa in considerazione – al momento dell’assunzione a tempo indeterminato, da parte di un’autorità pubblica, di lavoratori a tempo determinato – dell’anzianità acquisita da questi ultimi presso tale autorità nell’ambito dei loro contratti di lavoro a termine. 66 Per contro, occorre prendere in considerazione la natura particolare delle mansioni svolte dalle ricorrenti nei procedimenti principali. 67 A questo proposito bisogna riconoscere che, se nell’ambito della presente causa fosse dimostrato – conformemente alle deduzioni in tal senso svolte dalle ricorrenti nei procedimenti principali, rammentate al punto 47 della presente sentenza – che le funzioni svolte da queste ultime in veste di dipendenti di ruolo sono identiche a quelle che esse esercitavano in precedenza nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato, e se fosse vero che, come sostenuto dal governo italiano nelle sue osservazioni scritte, la normativa nazionale in questione mira a valorizzare l’esperienza acquisita dai dipendenti con contratto a termine in seno all’AGCM, simili elementi potrebbero suggerire che la mancata presa in considerazione dei periodi di servizio compiuti dai lavoratori a tempo determinato è in realtà giustificata soltanto dalla durata dei loro contratti di lavoro e, di conseguenza, che la diversità di trattamento in esame nei procedimenti principali non è basata su giustificazioni correlate alle esigenze oggettive degli impieghi interessati dalla procedura di stabilizzazione che possano essere qualificate come «ragioni oggettive» ai sensi della clausola 4, punti 1 e/o 4, dell’accordo quadro. 68 Spetta però al giudice del rinvio, nei procedimenti a quibus, da un lato, verificare se la situazione delle ricorrenti di tali procedimenti fosse, con riguardo ai periodi di servizio da esse compiuti nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato, comparabile a quella di un altro dipendente dell’AGCM che avesse svolto i propri periodi di servizio in qualità di dipendente di ruolo nelle pertinenti categorie di funzioni, e, dall’altro, valutare, alla luce della giurisprudenza richiamata ai punti 50-52 della presente sentenza, se taluni degli argomenti presentati dall’AGCM dinanzi a esso giudice di rinvio costituiscano «ragioni oggettive» ai sensi della clausola 4, punti 1 e/o 4, dell’accordo quadro (sentenza Rosado Santana, cit., punto 83). 69 Dato che la clausola 5 dell’accordo quadro è priva di rilevanza al riguardo, e che inoltre le ordinanze di rinvio non forniscono alcuna informazione concreta e precisa in merito ad un eventuale utilizzo abusivo di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, non vi è luogo – così come sostenuto dalle ricorrenti nei procedimenti principali – per pronunciarsi in merito all’interpretazione della clausola suddetta. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 47 70 Occorre infine ricordare che la clausola 4 dell’accordo quadro è incondizionata e sufficientemente precisa per poter essere invocata dai singoli nei confronti dello Stato dinanzi ad un giudice nazionale a partire dalla data di scadenza del termine concesso agli Stati membri per realizzare la trasposizione della direttiva 1999/70 (v., in tal senso, sentenza Gavieiro Gavieiro e Iglesias Torres, cit., punti 78-83, 97 e 98; ordinanza Montoya Medina, cit., punto 46, nonché sentenza Rosado Santana, cit., punto 56). 71 Alla luce delle considerazioni che precedono, occorre rispondere alle questioni sollevate dichiarando che la clausola 4 dell’accordo quadro, figurante quale allegato della direttiva 1999/70, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale, quale quella controversa nei procedimenti principali, la quale escluda totalmente che i periodi di servizio compiuti da un lavoratore a tempo determinato alle dipendenze di un’autorità pubblica siano presi in considerazione per determinare l’anzianità del lavoratore stesso al momento della sua assunzione a tempo indeterminato, da parte di questa medesima autorità, come dipendente di ruolo nell’ambito di una specifica procedura di stabilizzazione del suo rapporto di lavoro, a meno che la citata esclusione sia giustificata da «ragioni oggettive» ai sensi dei punti 1 e/o 4 della clausola di cui sopra. Il semplice fatto che il lavoratore a tempo determinato abbia compiuto i suddetti periodi di servizio sulla base di un contratto o di un rapporto di lavoro a tempo determinato non configura una ragione oggettiva di tal genere. Sulle spese 72 Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Sesta Sezione) dichiara: La clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999 e figurante quale allegato della direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale, quale quella controversa nei procedimenti principali, la quale escluda totalmente che i periodi di servizio compiuti da un lavoratore a tempo determinato alle dipendenze di un’autorità pubblica siano presi in considerazione per determinare l’anzianità del lavoratore stesso al momento della sua assunzione a tempo indeterminato, da parte di questa medesima autorità, come dipendente di ruolo nell’ambito di una specifica procedura di stabilizzazione del suo rapporto di lavoro, a meno che la citata esclusione sia giustificata da «ragioni oggettive» ai sensi dei punti 1 e/o 4 della clausola di cui sopra. Il semplice fatto che il lavoratore a tempo determinato abbia compiuto i suddetti periodi di servizio sulla base di un contratto o di un rapporto di lavoro a tempo determinato non configura una ragione oggettiva di tal genere. 48 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/ 2012 Osservazioni del Governo della Repubblica italiana (avv. Stato Stefano Varone, AL 25896/12) in relazione alla causa C-234/12 avente ad oggetto domanda di pronuncia pregiudiziale proposta, ai sensi dell’art. 267 TFUE, dal Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sez. II, con l’ordinanza n. 3639/12. Materia: Libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi Diritto di stabilimento Libera circolazione dei servizi INDICE 1. Le questioni pregiudiziali proposte 2. Contesto fattuale 3. Normativa comunitaria 4. Normativa nazionale 5. Sulla questione n. 1. Infondatezza 6. Sulla questione n. 2. Infondatezza 7. Conclusioni LE QUESTIONI PREGIUDIZIALI PROPOSTE 1) “Se l'art. 4 della direttiva 2010/13/UE, il principio generale di eguaglianza e le regole del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea in materia di libera circolazione dei servizi, di diritto di stabilimento, e di libera circolazione dei capitali, debbano essere interpretati nel senso che ostano alla disciplina contenuta nell'art. 38, comma 5, d.lgs. n. 177/2005, la quale prescrive limiti orari di affollamento pubblicitario più bassi per le emittenti a pagamento rispetto a quelli stabiliti per le emittenti in chiaro”; 2) “Se l'art. 11 della Carta dei Diritti fondamentali dell'Unione Europea, interpretato alla luce dell'art. 10 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, e della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, ed in particolare il principio del pluralismo dell'informazione, ostino alla disciplina contenuta nell'art. 38, comma 5, d.lgs. n. 177/2005 la quale prescrive limiti orari di affollamento pubblicitario più bassi per le emittenti a pagamento rispetto a quelli stabiliti per le emittenti in chiaro introducendo una distorsione concorrenziale e favorendo la creazione, ovvero il potenzia- I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 49 mento, di posizioni dominanti nel mercato della pubblicità televisiva”. CONTESTO FATTUALE Nel giudizio a quo, SKY Italia s.r.l. ha adito il Tar per il Lazio al fine di ottenere l’annullamento della delibera n. 233/11/CSP dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, recante “Ordinanza - ingiunzione alla Società SKY Italia s.r.l. (emittente satellitare a pagamento Sky Sport 1) per la violazione dell'art. 38, comma 5, del decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177”, pubblicata sul sito web dell'Autorità in data 26 settembre 2011 e notificata alla medesima Sky Italia s.r.l. in pari data. Con il suddetto provvedimento, l’Autorità per le Garanzie nelle comunicazioni ha accertato la violazione da parte di Sky dell’art. 38, comma 5, del d.lgs. n. 177/2005, in relazione al superamento dei limiti di affollamento pubblicitario avvenuto in data 5 marzo 2011, nella fascia oraria 21 - 22. In particolare, Sky Sport 1, nelle suddette date e fascia oraria, ha trasmesso 24 spot pubblicitari, per una durata di 10 minuti e 4 secondi, pari ad una percentuale oraria del 16,78% (ridotta al 16,44% mediante la detrazione dei c.d. frames neri). La norma summenzionata, come modificata dal d.lgs. 10 marzo 2010, n. 44 prevede, infatti, che la trasmissione di spot pubblicitari televisivi da parte di emittenti a pagamento (come la ricorrente), non può eccedere “per l’anno 2010 il 16%, per l’anno 2011 il 14%, e, a decorrere dall’anno 2012, il 12% di una determinata e distinta ora d’orologio; una eventuale eccedenza, comunque non superiore al 2% nel corso dell’ora, deve essere recuperata nell’ora antecedente o successiva”. A riguardo, Sky ha contestato la legittimità del suddetto provvedimento sia sul piano della conformità al diritto dell’Unione Europea che per violazione dei limiti della delega conferita dalla l. n. 88 del 2009 (legge comunitaria), con conseguente contrasto del nuovo testo dell’art. 38, comma 5, rispetto all’art. 76 della Costituzione. Il giudice adito, a pag. 18 dell’ordinanza de qua, ha rilevato come l’art. 38, comma 5, del d.lgs. 10 marzo 2010, n. 44, “sia norma introdotta in attuazione della delega conferita al Governo dall’art. 1 della legge comunitaria 2008 (l. 7 luglio 2009, n. 88), ai fini, per quanto qui interessa, dell’attuazione della direttiva 2007/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 dicembre 2007, recante modifiche alla direttiva 89/552/CEE del Consiglio relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti l’esercizio delle attività televisive”. Dunque, prosegue il TAR, “la delega contenuta nella legge comunitaria 2009, come d’uso ai fini del recepimento di direttive comunitarie, si limita a richiamare i principi contenuti nelle direttive stesse, ulteriormente sog- 50 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 giungendo che “all’attuazione di direttive che modificano precedenti direttive già attuate con legge o con decreto legislativo si procede, se la modificazione non comporta ampliamento della materia regolata, apportando le corrispondenti modificazioni alla legge o al decreto legislativo di attuazione della direttiva modificata” e che “nella predisposizione dei decreti legislativi si tiene conto delle eventuali modificazioni delle direttive comunitarie comunque intervenute fino al momento dell’esercizio della delega” (art. 2, comma 1, e lett. e) ed f) dello stesso comma, l. n. 88/2009, cit.”)”. Pertanto, il Collegio ha ritenuto che: “al fine di stabilire se la disciplina di cui si verte rientri nel “fuoco” della delega legislativa, sia necessario rimettere alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, le questioni interpretative oggetto del presente giudizio. NORMATIVA COMUNITARIA In relazione al quesito n.1: - L’art. 4 della direttiva 2010/13/UE del Parlamento e del Consiglio Europeo sui servizi media audiovisivi, dispone che: “Gli Stati membri conservano la facoltà di richiedere ai fornitori di servizi di media soggetti alla loro giurisdizione di rispettare norme più particolareggiate o più rigorose nei settori coordinati dalla presente direttiva, purché tali norme siano conformi al diritto dell’Unione”. - L’art. 20 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea dispone che: “Tutte le persone sono uguali davanti alla legge”. - L’articolo 49 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (da ora: TFUE) disciplina il diritto di stabilimento prevedendo che: “1. Nel quadro delle disposizioni che seguono, le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro vengono vietate. Tale divieto si estende altresì alle restrizioni relative all'apertura di agenzie, succursali o filiali, da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti sul territorio di un altro Stato membro. 2. La libertà di stabilimento importa l'accesso alle attività autonome e al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese e in particolare di società ai sensi dell'articolo 54, secondo comma, alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini, fatte salve le disposizioni del capo relativo ai capitali”. - L’articolo 56 del TFUE disciplina il principio della libera circolazione dei servizi prevedendo che: “1. Nel quadro delle disposizioni seguenti, le restrizioni alla libera prestazione dei servizi all'interno dell'Unione sono vietate nei confronti dei cittadini degli Stati membri stabiliti in uno Stato membro che non sia quello del destinatario della prestazione. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 51 2. Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, possono estendere il beneficio delle disposizioni del presente capo ai prestatori di servizi, cittadini di un paese terzo e stabiliti all'interno dell'Unione”. - L’articolo 63 del TFUE disciplina il principio di libera circolazione dei capitali prevedendo che: “1. Nell'ambito delle disposizioni previste dal presente capo sono vietate tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi. 2. Nell'ambito delle disposizioni previste dal presente capo sono vietate tutte le restrizioni sui pagamenti tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi”. In relazione al quesito n. 2: - L’ articolo 11 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE, rubricato “Libertà di espressione e d'informazione” prevede che: “1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. 2. La libertà dei media e il loro pluralismo sono rispettati”. NORMATIVA NAZIONALE Nell’ordinamento giuridico italiano, la disciplina di riferimento relativa ai limiti di affollamento pubblicitario nelle trasmissioni radiotelevisive è contenuta nell’art. 38 del d.lgs. 177/2005 (cd. Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici) come sostituito dall’art. 12 del d. lgs. del 15 marzo 2010, n. 44, il quale ha stabilito che: “1. La trasmissione di messaggi pubblicitari da parte della concessionaria del servizio pubblico generale radiotelevisivo non può eccedere il 4 per cento dell'orario settimanale di programmazione ed il 12 per cento di ogni ora; un'eventuale eccedenza, comunque non superiore al 2 per cento nel corso di un'ora, deve essere recuperata nell'ora antecedente o successiva. 2. La trasmissione di spot pubblicitari televisivi da parte delle emittenti in chiaro, anche analogiche, in ambito nazionale, diverse dalla concessionaria del servizio pubblico generale radiotelevisivo, non può eccedere il 15 per cento dell'orario giornaliero di programmazione ed il 18 per cento di una determinata e distinta ora d'orologio; un'eventuale eccedenza, comunque non superiore al 2 per cento nel corso dell'ora, deve essere recuperata nell'ora antecedente o successiva [...]; 5. La trasmissione di spot pubblicitari televisivi da parte di emittenti a pagamento, anche analogiche, non può eccedere per l'anno 2010 il 16 per cento, per l'anno 2011 il 14 per cento, e, a decorrere dall'anno 2012, 52 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 il 12 per cento di una determinata e distinta ora d'orologio; un'eventuale eccedenza, comunque non superiore al 2 per cento nel corso dell'ora, deve essere recuperata nell'ora antecedente o successiva [...]”. SULLA QUESTIONE N. 1. INFONDATEZZA Con il primo quesito oggetto del presente giudizio, il giudice a quo chiede a codesta ecc.ma Corte “Se l’art. 4 della direttiva 2010/13/UE, il principio generale di eguaglianza e le regole del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea in materia di libera circolazione dei servizi, di diritto di stabilimento, e di libera circolazione dei capitali, debbano essere interpretati nel senso che ostano alla disciplina contenuta nell’art. 38, comma 5, d.lgs. n. 177/2005, la quale prescrive limiti orari di affollamento pubblicitario più bassi per le emittenti a pagamento rispetto a quelli stabiliti per le emittenti in chiaro”. Dunque, il giudice a quo solleva questione di compatibilità dell’art. 38, co. 5, del d.lgs. n. 177/2005 con l’ordinamento comunitario sotto tre distinti profili: a) rispetto alla disciplina dettata dall’art. 4 della direttiva n. 2010/13 UE; b) rispetto al principio di eguaglianza; c) rispetto alle regole del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea in materia di libera circolazione dei servizi, di diritto di stabilimento, e di libera circolazione dei capitali. A riguardo, si rileva l’infondatezza delle suesposte questioni. a) Con riferimento alla presunta incompatibilità tra quanto disposto dall’art. 38, co. 5, del d.lgs. n.177/2005 e la disciplina dettata dall’art. 4 della direttiva n. 2010/13 UE. È in primis opportuno ricostruire la disciplina comunitaria circa i limiti di affollamento pubblicitario dettata dalla direttiva n.2010/13 UE sulla fornitura di servizi audiovisivi. L’art. 23 della direttiva 2010/13 prevede, in particolare, che: “La percentuale di spot televisivi pubblicitari e di spot di televendita in una determinata ora d’orologio non deve superare il 20 %”. La suddetta direttiva si limita, dunque, a prevedere un unico limite di affollamento pubblicitario orario, applicabile a tutti i fornitori di servizi cd. “lineari”. A riguardo, come si evince dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, la direttiva in questione non ha come obiettivo un’armonizzazione completa, ma stabilisce solo una serie di prescrizioni minime (cfr. sentenza del 22 settembre 2011 Mesopotamia Broadcast, C-244/10 e sentenza del 5 marzo 2009, UTECA, causa C-222/07) che debbono essere rispettate, lasciando liberi gli Stati membri di adottare misure più particolareggiate e restrittive, purché compatibili col diritto dell’Unione Europea. Pertanto, l’art. 4 della direttiva 2010/13/UE dispone che: “Gli Stati mem- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 53 bri conservano la facoltà di richiedere ai fornitori di servizi di media soggetti alla loro giurisdizione di rispettare norme più particolareggiate o più rigorose nei settori coordinati dalla presente direttiva, purché tali norme siano conformi al diritto dell’Unione”. Ebbene, con particolare riferimento alla disciplina in materia di pubblicità televisiva, il considerando n. 83 della direttiva n. 2010/13 UE precisa, che: “Per garantire un’integrale ed adeguata protezione degli interessi della categoria di consumatori costituita dai telespettatori, è essenziale che la pubblicità televisiva sia sottoposta ad un certo numero di norme minime e di criteri e che gli Stati membri abbiano la facoltà di stabilire norme più rigorose o più particolareggiate e, in alcuni casi, condizioni differenti per le emittenti televisive soggette alla loro giurisdizione”. Sul punto, come sostenuto da codesta ecc.ma Corte, la ratio sottesa alla disciplina in materia di limiti di affollamento pubblicitario mira ad instaurare una tutela equilibrata degli interessi finanziari delle emittenti televisive e degli inserzionisti, da un lato, e degli interessi degli aventi diritto, ossia gli autori e i realizzatori, e della categoria di consumatori rappresentata dai telespettatori, dall’altro (v., causa C-281/09, causa C-245/01, RTL Television, Racc. pag. I 12489, punto 62). A tale ultimo proposito, codesta Corte ha avuto modo di sottolineare che la tutela della categoria di consumatori rappresentata dai telespettatori contro la pubblicità eccessiva costituisce un aspetto essenziale dell’obiettivo di detta direttiva (sentenza in tal senso, causa C-195/06, Österreichischer Rundfunk, punto 27). È proprio in considerazione di tale obiettivo che il legislatore dell’Unione ha voluto garantire adeguata protezione degli interessi della categoria di consumatori costituita dai telespettatori, assoggettando le diverse forme di promozione, quali la pubblicità televisiva, la televendita e la sponsorizzazione, ad un certo numero di norme minime e di criteri generali, lasciando poi agli Stati membri la facoltà di prevedere forme di tutela più incisive (v., in tal senso, causa C-195/06, Österreichischer Rundfunk, punto 26). Ebbene, l’art. 38, co. 5, del d.lgs. n 177/2005 risulta ispirato alla suesposta ratio. L’articolo 38 del d.lgs. n. 177/2005 prevede, infatti, che: “La trasmissione di spot pubblicitari televisivi da parte di emittenti a pagamento, anche analogiche, non può eccedere per l'anno 2010 il 16 per cento, per l'anno 2011 il 14 per cento, e, a decorrere dall'anno 2012, il 12 per cento di una determinata e distinta ora d'orologio; un'eventuale eccedenza, comunque non superiore al 2 per cento nel corso dell'ora, deve essere recuperata nell'ora antecedente o successiva [...]”. Come sostenuto dal Ministero delle Comunicazioni (ora, Ministero dello Sviluppo Economico), con la nota prot. n. 0012195 del 7 giugno 2011, tale disposizione persegue “la finalità di tutelare l’utenza delle emittenti 54 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 a pagamento la quale ha già versato un corrispettivo per la fruizione del servizio e ne versa uno ulteriore, e non esplicitato, consistente nell’esposizione al messaggio pubblicitario”. Dunque, appare evidente come l’art. 38, comma 5, risulti pienamente rispettoso e in linea con le finalità perseguite dalla disciplina comunitaria in materia di limiti di affollamento pubblicitario, così come stigmatizzate da codesta ecc.ma Corte. Va ribadito che le disposizioni europee si limitano infatti a fissare limiti minimi che, a loro volta, possono formare oggetto di disposizioni nazionali più particolareggiate e rigorose. Si tratta di principi che sono sanciti dal legislatore europeo (cfr. considerando 83 e art. 4, par 1, della direttiva 2010/13/UE) e sono stati a più riprese ribaditi da codesta Corte di giustizia. Sul punto ci si limita a richiamare quanto ancora di recente sancito dai giudici del Lussemburgo nella sentenza 9 giugno 2011, causa C-52/10, Alter Channel, laddove è stato sottolineato che “ai sensi del ventisettesimo ‘considerando’ della direttiva 89/552 [ora confluito nell’ottantatreesimo considerando della direttiva 2010/13/UE], per garantire la protezione integrale ed adeguata degli interessi di quella categoria di consumatori costituita dai telespettatori, è essenziale che gli Stati membri abbiano la facoltà di fissare norme più rigorose o più particolareggiate e, in taluni casi, condizioni diverse per le emittenti televisive soggette alla loro giurisdizione. Pertanto, voglia codesta ecc.ma Corte di Giustizia UE rilevare l’infondatezza del suesposto quesito e conseguentemente dichiarare che l’art. 4 della direttiva 2010/13/UE non osta alla disciplina contenuta nell’art. 38, comma 5, d.lgs. n. 177/2005, la quale prescrive limiti orari di affollamento pubblicitario più bassi per le emittenti a pagamento rispetto a quelli stabiliti per le emittenti in chiaro. b) Con riferimento alla presunta incompatibilità tra quanto disposto dall’art. 38, co. 5, d.lgs. n.177/2005 e il principio di uguaglianza. L’articolo 38 del d.lgs. n. 177/2005 prevede che: “La trasmissione di spot pubblicitari televisivi da parte di emittenti a pagamento, anche analogiche, non può eccedere per l'anno 2010 il 16 per cento, per l'anno 2011 il 14 per cento, e, a decorrere dall'anno 2012, il 12 per cento di una determinata e distinta ora d'orologio; un'eventuale eccedenza, comunque non superiore al 2 per cento nel corso dell'ora, deve essere recuperata nell'ora antecedente o successiva [...]”. Il suesposto art. 38, co. 5, del d.lgs. n.177/2005 prevedendo una disciplina dei limiti di affollamento pubblicitario ad hoc per le emittenti di pay TV e differenziata da quella per le emittente in chiaro, risulta compatibile con il principio di eguaglianza. Il principio di eguaglianza di matrice comunitaria è espresso dall’art. 20 della Carta fondamentale dei diritti UE, secondo cui: “Tutte le persone CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 55 sono uguali davanti alla legge”. Codesta Corte, ha da sempre sostenuto che il «[…] principio generale di uguaglianza che fa parte dei principi fondamentali del diritto comunitario […] impone di non trattare in modo diverso situazioni analoghe, salvo che una differenza di trattamento sia obiettivamente giustificata» (vd. sentenza 17 aprile 1997, C-15/1995, EARL de Kerlast c. Union régionale de coopératives agricoles (Unicopa) e Coopérative du Trieux; sentenza 20 settembre 1988, C- 203/86, Spagna c. Consiglio). Tale principio richiede, in altre parole, da un lato, l’eguaglianza di trattamento a parità di condizioni e, dall’altro, una regolamentazione differenziata ma non arbitraria per diversità di situazioni. Ebbene, le TV in chiaro e le Pay TV risultano soggetti diversi, operanti in mercati diversi e in situazioni diverse. Diversa è la relazione tra operatori e consumatori (diretta nella pay-tv, indiretta nella televisione in chiaro); diverse le modalità di finanziamento, e quindi funzione obiettivo degli operatori (ricavi pubblicitari vs. ricavi dagli abbonamenti); diversa è altresì l’offerta qualitativa e quantitativa di contenuti televisivi ai telespettatori. Va poi precisato che la disposizione normativa italiana si applica a tutti i soggetti che offrono un servizio di televisione a pagamento indipendentemente dalla loro proprietà o nazionalità: ai nuovi vincoli è infatti assoggetta l’offerta di televisione a pagamento di Sky al pari di quella di ogni altra emittente a pagamento, quale ad esempio R.T.I. Il legislatore italiano - anche sulla scia di esperienze di altri Paesi - ha quindi introdotto un regime sì “differenziato” ma unicamente funzione della “diversa” tipologia di attività (pay vs. free) che, come detto, si applica in modo indistinto ad ogni emittente a pagamento con la conseguenza che è pienamente rispettosa del principio di eguaglianza. Pertanto, voglia codesta ecc.ma Corte di Giustizia UE rilevare l’infondatezza del suesposto quesito e conseguentemente dichiarare che il principio di uguaglianza non osta alla disciplina contenuta nell’art. 38, comma 5, d.lgs. n. 177/2005, la quale prescrive limiti orari di affollamento pubblicitario più bassi per le emittenti a pagamento rispetto a quelli stabiliti per le emittenti in chiaro, stante la diversità di contesti e situazioni in cui le medesime operano sul mercato pubblicitario. c) Con riferimento alla presunta incompatibilità tra l’art. 38, co. 5, d.lgs. n. 177/2005 e le regole del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea in materia di libera circolazione dei servizi, di diritto di stabilimento e di libera circolazione dei capitali. 1) L’articolo 38 del d.lgs. n. 177/2005 prevede che: “La trasmissione di spot pubblicitari televisivi da parte di emittenti a pagamento, anche analogiche, non può eccedere per l'anno 2010 il 16 per cento, per l'anno 2011 il 14 per cento, e, a decorrere dall'anno 2012, il 12 per cento di una 56 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 determinata e distinta ora d'orologio; un'eventuale eccedenza, comunque non superiore al 2 per cento nel corso dell'ora, deve essere recuperata nell'ora antecedente o successiva [...]”. Il suesposto art. 38, co. 5, del d.lgs. n. 177/2005 prevedendo dei limiti di affollamento pubblicitario maggiori per le emittenti di pay TV rispetto alle emittente in chiaro, risulta compatibile con le regole del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea in materia di libera circolazione dei servizi, di diritto di stabilimento e di libera circolazione dei capitali. I capi II, III e IV del Titolo IV della parte I del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea dettano i principi fondamentali in materia di diritto di stabilimento e di libera circolazione di servizi e capitali. La giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte ha interpretato, in varie pronunce, la disciplina comunitaria in tema di restrizioni alla libertà di stabilimento e alla libertà di circolazione di servizi e capitali nel senso che questa “osta a qualsiasi provvedimento nazionale che, anche se si applica senza discriminazioni in base alla cittadinanza, possa ostacolare o scoraggiare l’esercizio, da parte dei cittadini comunitari, delle libertà di stabilimento e circolazione garantite dal Trattato” (v., in particolare, sentenze 31 marzo 1993, causa C-19/92, Kraus, Racc. pag. I-1663, punto 32, e 14 ottobre 2004, causa C-299/02, Commissione/Paesi Bassi, Racc. pag. I-9761, punto 15). In realtà l’art. 38, co. 5, del d.lgs. n. 177/2005 prevedendo una disciplina dei limiti di affollamento pubblicitario più restrittiva per le emittenti di pay TV rispetto a quella dettata per le emittente in chiaro non contrasta né scoraggia in alcun modo le emittenti pay tv all’esercizio del diritto di stabilirsi sul mercato delle emittenti a pagamento e, conseguentemente, sul relativo mercato pubblicitario. Peraltro, la suesposta normativa di cui all’art. 38, co. 5, del d.lgs. n. 177/2005 non risulta contrastante con i principi in tema di libera circolazione dei capitali. Del tutto apodittico ed indimostrato è quanto sostenuto dal giudice a quo secondo cui con la normativa italiana in questione “viene disincentivato l’investimento di capitali da parte di operatori esteri nelle attività di Sky, e, più in generale, nel settore delle trasmissioni televisive a pagamento”. Pertanto, voglia codesta ecc.ma Corte di Giustizia UE rilevare l’infondatezza del suesposto quesito e conseguentemente dichiarare che le regole del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea in materia di libera circolazione dei servizi, di diritto di stabilimento, e di libera circolazione dei capitali non ostano alla disciplina contenuta nell’art. 38, comma 5, d.lgs. n. 177/2005, la quale prescrive limiti orari di affollamento pubblicitario più bassi per le emittenti a pagamento rispetto a quelli stabiliti per le emittenti in chiaro. 2) Nella denegata ipotesi in cui codesta ecc.ma Corte ritenesse la disciplina di cui all’art. 38, co. 5, del d.lgs. n. 177/2005 lesiva delle libertà di CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 57 stabilimento e della libera circolazione dei servizi e dei capitali, tali limitazioni sarebbero giustificate da motivi di interesse pubblico. A riguardo, codesta ecc.ma Corte ha sostenuto in varie pronunce che “Le restrizioni alla libertà di stabilimento e alla libera circolazione dei servizi e capitali, che siano applicabili senza discriminazioni basate sulla nazionalità, possono essere giustificate da motivi imperativi di interesse pubblico, a condizione che siano atte a garantire la realizzazione dello scopo perseguito e non vadano oltre quanto necessario al raggiungimento di tale scopo” (v. sentenze 25 gennaio 2007, causa C-370/05, Festersen, Racc. pag. I-1129, punto 26, e Hartlauer, cit., punto 44). Ebbene, l’art. 38, co. 5, del d.lgs. n. 177/2005 mira ad assicurare l’interesse pubblico alla tutela del consumatore. Secondo un orientamento consolidato della Corte di Giustizia UE la tutela dei consumatori è assurta a ragione imperativa di interesse pubblico idonea a giustificare limitazioni delle libertà di stabilimento e circolazione di capitali e servizi). Pertanto, voglia codesta ecc.ma Corte di Giustizia UE rilevare l’infondatezza del suesposto quesito e conseguentemente dichiarare che le regole del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea in materia di libera circolazione dei servizi, di diritto di stabilimento, e di libera circolazione dei capitali non ostano alla disciplina contenuta nell’art. 38, comma 5, d.lgs. n. 177/2005, la quale prescrive limiti orari di affollamento pubblicitario più bassi per le emittenti a pagamento rispetto a quelli stabiliti per le emittenti in chiaro. SULLA QUESTIONE N. 2. INFONDATEZZA Con l’ordinanza de qua il giudice remittente ha sottoposto a codesta Corte di Giustizia UE il quesito su: “Se l’art. 11 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, interpretata alla luce dell’art. 10 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ed in particolare il principio del pluralismo dell’informazione, ostano alla disciplina contenuta nell’art. 38, comma 5, d.lgs. n. 177/2005 la quale prescrive limiti orari di affollamento pubblicitario più bassi per le emittenti a pagamento rispetto a quelli stabiliti per le emittenti in chiaro introducendo una distorsione concorrenziale e favorendo la creazione, ovvero il potenziamento, di posizioni dominanti nel mercato della pubblicità televisiva”. Ex adverso, si rileva che l’art. 38, co. 5, del d.lgs. n. 177/2005 risulta pienamente compatibile con il principio del pluralismo dell’informazione di cui all’art. 11 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE. L’articolo 38 del d.lgs. n. 177/2005 prevede che: “La trasmissione di spot pubblicitari televisivi da parte di emittenti a pagamento, anche analogi- 58 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 che, non può eccedere per l'anno 2010 il 16 per cento, per l'anno 2011 il 14 per cento, e, a decorrere dall'anno 2012, il 12 per cento di una determinata e distinta ora d'orologio; un'eventuale eccedenza, comunque non superiore al 2 per cento nel corso dell'ora, deve essere recuperata nell'ora antecedente o successiva [...]”. Il suesposto art. 38, co. 5, del d.lgs. n. 177/2005 prevedendo dei limiti di affollamento pubblicitario maggiori per le emittenti di pay TV rispetto alle emittente in chiaro, risulta compatibile con il principio del pluralismo dell’informazione, non introducendo alcuna distorsione concorrenziale e non favorendo la creazione o il potenziamento di posizioni dominanti delle emittenti in chiaro nel mercato della pubblicità televisiva. A riguardo, si rileva come codesta Corte di Giustizia, nella sentenza United Brands Company, C-27/65, definisce la posizione dominante "la posizione di potenza economica detenuta da un’impresa, che conferisce alla stessa il potere di ostacolare il mantenimento di una concorrenza effettiva sul mercato di cui trattasi, fornendole la possibilità di comportamenti indipendenti in misura apprezzabile rispetto ai propri concorrenti, ai clienti ed ai consumatori, senza per questo subire conseguenze". Nel sentenza Hoffaman-Laroche, C-85/76, al punto n. 48, codesta ecc.ma Corte rileva, in particolare, che: “costituiscono indizi validi per l’individuazione di posizioni dominanti: il rapporto tra le quote di mercato detenute dall’impresa interessata e quelle detenute dai suoi concorrenti, specie quelli più importanti, il vantaggio tecnologico che un’impresa possiede rispetto ai suoi concorrenti, l’esistenza di una rete commerciale estremamente perfezionata, l’assenza di concorrenza potenziale; il primo fattore, in quanto consente di valutare la competitività dei concorrenti dell’impresa, il secondo e il terzo in quanto rappresentano, di per sé, vantaggi tecnici e commerciali, il quarto poiché è il risultato dell’esistenza di ostacoli per l’entrata sul mercato di nuovi concorrenti”. È evidente che quanto disposto dall’art. 38, co. 5, del d.lgs. n. 177/2005 non introduca in alcun modo meccanismi distorsivi della concorrenza nel suesposto mercato tali da creare posizioni dominanti in capo alle emittenti in chiaro nei termini suesposti. Conseguentemente, l’articolo 38, co. 5, del d.lgs. n. 177/2005 risulta pienamente compatibile con il principio del pluralismo dell’informazione di cui all’art. 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE. Pertanto, voglia codesta ecc.ma Corte ritenere infondata la suesposta questione e dichiarare che l’art. 11 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, interpretata alla luce dell’art. 10 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ed in particolare il principio del pluralismo dell’informazione, non ostino CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 59 alla disciplina contenuta nell’art. 38, comma 5, d.lgs. n. 177/2005. IN CONCLUSIONE il Governo Italiano suggerisce alla Corte di rispondere alle domande pregiudiziali proposte nel senso che: 1) l'art. 4 della direttiva 2010/13/UE, il principio generale di eguaglianza e le regole del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea in materia di libera circolazione dei servizi, di diritto di stabilimento, e di libera circolazione dei capitali non ostano alla disciplina contenuta nell'art. 38, comma 5, d.lgs. n. 177/2005, la quale prescrive limiti orari di affollamento pubblicitario più bassi per le emittenti a pagamento rispetto a quelli stabiliti per le emittenti in chiaro; 2) l'art. 11 della Carta dei Diritti fondamentali dell'Unione Europea, interpretato alla luce dell'art. 10 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, e della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, ed in particolare il principio del pluralismo dell'informazione, non ostano alla disciplina contenuta nell'art. 38, comma 5, d.lgs. n. 177/2005 la quale prescrive limiti orari di affollamento pubblicitario più bassi per le emittenti a pagamento rispetto a quelli stabiliti per le emittenti in chiaro, non introducendo una distorsione concorrenziale e favorendo la creazione, ovvero il potenziamento, di posizioni dominanti nel mercato della pubblicità televisiva. Roma, 29 agosto 2012 Avv. Stefano Varone Avvocato dello Stato Osservazioni del Governo della Repubblica italiana (avv. Stato Giuseppe Albenzio, AL 30370/12) nella causa C-273/12, Administration des douanes et droit indirects c. Harry Winston SARL, promossa ai sensi dell'art. 267 TFUE da Cour de Cassation (Francia), con ordinanza 30 maggio - 4 giugno 2012. Materia: Libera circolazione delle merci Unione doganale Fiscalità Imposta sul valore aggiunto 1. Con l’ordinanza 30 maggio - 4 giugno 2012, l’Autorità Giudiziaria in epigrafe indicata ha sollevato davanti alla Corte una questione pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE nell’ambito di un procedimento per il paga- 60 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 mento di dazi doganali relativi a merce che era stata sottratta con una rapina dal deposito fiscale. 2. Dal contenuto dell’ordinanza risulta che il contenzioso in esame ha origine dal diniego dell’Amministrazione doganale francese di riconoscere alla Sociétà HarrY Winston la non debenza dei dazi e dell’iva sulla merce oggetto del furto, non potendosi considerare questa circostanza come di “forza maggiore”, ai sensi - rispettivamente - dell’art. 206 Reg. CE del Consiglio n. 2913/92 - Codice Doganale Comunitario e dell’art. 71 della sesta direttiva n. 77/388/CEE del Consiglio in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra d’affari. 3. Il giudice rimettente, al fine di poter decidere sulla questione, ha ritenuto di dover sottoporre all’esame della Corte i seguenti quesiti: «1) Se l’articolo 206 del regolamento n. 2913/92 del Consiglio, del 12 ottobre 1992, che istituisce un codice doganale comunitario, debba essere interpretato nel senso che il furto di una merce sottoposta al regime di deposito doganale, verificatosi nel caso di specie, costituisce una perdita irrimediabile della merce ed una causa di forza maggiore, con la conseguenza che, in siffatta ipotesi, si reputa che non sia sorto alcun debito doganale all’importazione;. 2) Se il furto di merci detenute in regime di deposito doganale possa far sorgere il fatto generatore e l’esigibilità dell’imposta sul valore aggiunto ai sensi dell’articolo 71 della Direttiva». 4. Il Governo italiano, quanto al quesito posto ed ai principi generali richiamati dal Giudice remittente, ritiene di dover intervenire nel presente giudizio perché l’emananda decisione può avere riflessi sulle disposizioni interne in materia e sui contenziosi fra le Autorità Doganali Nazionali e gli operatori commerciali aventi ad oggetto la esatta determinazione della causa di forza maggiore come esimente dall’obbligo di pagamento dei dazi e delle accise, oltre che dell’iva. 5. Nel merito, si osserva che la società francese invoca l’applicazione dell’articolo 206 del codice doganale comunitario il quale prevede, al paragrafo 1, che: “In deroga agli articoli 202 e 204, paragrafo 1, lettera a), si ritiene che non sorga alcuna obbligazione doganale nei confronti di una data merce quando l’interessato fornisca la prova che l’inadempienza degli obblighi risultanti: (...) dall’utilizzazione del regime doganale cui la merce è stata vincolata, è dovuta alla distruzione totale o alla perdita irrimediabile della merce per una causa inerente alla sua stessa natura o per un caso fortuito o di forza maggiore ovvero con l’autorizzazione dell’autorità doganale”; lo stesso articolo prevede, al secondo capoverso del par. 1, che: “Ai sensi del presente paragrafo, una merce è irrimediabilmente persa quando sia inutilizzabile per chiunque”; anche dall’art. 862 del Regolamento di attuazione n. 2454/93 emerge una no- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 61 zione di caso fortuito e forza maggiore direttamente discendente dalla natura della merce e dall’assenza di ogni responsabilità o negligenza ascrivibile al titolare del deposito e responsabile dei sistemi di trasporto della merce stessa, cioè limitata alla sola perdita per cause naturali. 6. La norma in esame, chiaramente, ammette l’abbuono esclusivamente ove si verifichi una distruzione totale o la perdita irrimediabile della merce soggetta al pagamento dell’imposta per dispersione, distruzione, sopravvenuta inutilizzabilità totale ed altresì ove ciò sia avvenuto in una situazione di assenza assoluta di colpa dell’obbligato, per l’incisione determinante del caso fortuito o della forza maggiore [si veda anche l’articolo 14, n. 1 (primo periodo), della direttiva 92/12/CEE del Consiglio]. 7. È, quindi, condivisibile la motivazione addotta dall’Amministrazione doganale francese a sostegno delle proprie ragioni nel punto in cui viene affermato che, ai sensi dell’art. 206 del Codice doganale comunitario, una merce è irrimediabilmente perduta solo quando vi è la certezza che essa non sia stata utilizzata immettendola nel mercato dell’Unione; al contrario, specificamente nel caso di furto, è lecito presumere che la merce venga comunque reinserita nel circuito economico dell’Unione. 8. Con riferimento alle norme nazionali, si rileva che l’art. 37, comma 1, primo periodo, del DPR n. 43/73, recante il T.U. delle Leggi Doganali, prevede che: “Si considera non avverato il presupposto dell'obbligazione tributaria quando il soggetto passivo dimostri che l'inosservanza dei vincoli doganali ovvero la mancanza in tutto o in parte delle merci all'atto della presentazione, della verifica o dei controlli doganali, anche successivi all'accettazione della dichiarazione di destinazione al consumo, dipenda dalla perdita o distruzione della merce per caso fortuito o forza maggiore o per fatti imputabili a titolo di colpa non grave a terzi o allo stesso soggetto passivo”. 9. Ai sensi dell’interpretazione autentica di tale norma, fornita dal legislatore nazionale con l’art. 22-ter del D.L. n. 693/80, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 1980, n. 891, “la parola «perdita» va intesa nel significato di dispersione e non di sottrazione della disponibilità del prodotto”. 10. Pertanto, in punto di diritto, il contenuto delle norme nazionali risulta in linea con le disposizioni comunitarie. 11. La Corte di Giustizia ha giudicato conformi all’ordinamento comunitario i menzionati artt. 37 TULD e 22-ter L. n. 891/1980; con la sentenza 5 ottobre 1982 in cause riunite 186 e 187/82, la Corte ha infatti espressamente affermato il principio che “secondo le norme comunitarie vigenti in materia doganale, la sottrazione, ad opera di terzi, anche senza colpa del debitore, di merce soggetta a dazio doganale non estingue la relativa obbligazione”; secondo la Corte, l’obbligazione doganale permane in capo al debitore anche qualora la sottrazione della merce avvenga ad opera di 62 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 terzi e persino qualora il debitore medesimo non abbia colpa. 12. Con sentenza 12 febbraio 2004 in causa T-282/01, Aslantrans AG, il Tribunale di prima istanza, decidendo su domanda di sgravio proposta da uno speditore vittima del furto del mezzo di trasporto e del relativo carico, ha escluso che, pur non essendovi alcun coinvolgimento soggettivo del debitore in tali fatti illeciti, possa ricorrere un’ipotesi nella quale sia invocabile il rimborso o lo sgravio dell’imposta doganale, sottolineando (v. punto 55) come lo sgravio costituisca sempre una eccezione al regime delle esportazioni e delle importazioni, per cui le disposizioni che li prevedono vanno interpretate strictu sensu, e che il furto di merci è uno dei rischi più frequenti cui vanno incontro gli operatori economici i quali ne devono sopportare l’onere (punto 65). 13. Risulta dunque evidente, dalla lettura della normativa comunitaria e dall’interpretazione giurisprudenziale intervenuta, la previsione della duplice condizione dell’accadimento del caso fortuito, quale evento del tutto imprevedibile ed inevitabile, associato alla necessaria attività di accertamento della soggettiva esclusione di responsabilità del depositario autorizzato nel medesimo fatto dato che, in tale evenienza, non sarebbe più fortuito perché non estraneo alla sfera di controllo del custode. 14. In sintonia si è espressa anche la nostra giurisprudenza di legittimità: la Corte di Cassazione Civile, con sentenza n. 2943 del 15 maggio 1984 ha affermato che “il furto non determina il venir meno dell’obbligazione doganale”; la statuizione è stata di recente ribadita dalla Corte di Cassazione Civile con sentenze 28 maggio 2007 n. 12428, 23 luglio 2009 n. 17195 e 19 giugno 2009 n. 14307, ove viene ribadito che: “la sottrazione della disponibilità della merce importata che non si sia risolta nella dispersione del prodotto e/o nella sua inutilizzabilità per chiunque non fa venir meno l'obbligo di pagamento dei dazi doganali e della corrispondente iva all'importazione”. 15. Ancora, con sentenza 31 marzo 1988 n. 373, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 37 TULD siccome autenticamente interpretato dal citato art. 22-ter L. n. 891/1980; in particolare il giudice costituzionale ha ritenuto, con riferimento all’articolo 3 Cost., che “l’obbligazione tributaria doganale per le merci è indissolubilmente collegata all’ingresso delle medesime nel mercato nazionale, e proprio in ciò trova il suo fondamento e la sua ragion d’essere. La distruzione od il completo deterioramento dei beni rendono impossibile tale ingresso e perciò impediscono il sorgere dell’obbligazione tributaria. Per converso, la perdita della soggettiva disponibilità non rende il bene inutilizzabile, trasferendosi soltanto ad altra persona la concreta possibilità di disporne e di effettuarne così l’immissione nel circuito commerciale: dal che consegue l’esclusione di una im- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 63 mutazione oggettiva della situazione da cui nasce l’obbligazione tributaria, conformemente a quanto disposto dalla normativa in esame”. 16. Tale orientamento interpretativo identifica correttamente la ratio legis, atteso che il Legislatore europeo, seguito da quello nazionale, ha inteso sgravare dal dazio il prodotto che, in seguito a dispersione, non avrebbe potuto più essere immesso sul mercato, non certo quello che, pur sottratto da terzi, è sempre suscettibile di commercializzazione; in coerenza, del resto, con i principi generali della imposizione in materia di diritti doganali, secondo i quali l’imposizione daziaria si fonda sul presupposto della mera “immissione in consumo” della merce, come si evince dall’art. 4 n. 10 del Regolamento Cee n. 2913/92 (per dazi all’importazione si intendono i dazi doganali e le tasse di effetto equivalente dovute all’importazione delle merci, compresa l’Iva all’importazione) e dall’art. 202 (l’obbligazione doganale all’importazione sorge in seguito all’irregolare introduzione nel territorio doganale della Comunità di una merce soggetta a dazi all’importazione). 17. Sulle nozioni di caso fortuito e forza maggiore, comuni agli ordinamenti interni degli Stati membri, ricordiamo la approfondita elaborazione giurisprudenziale, nazionale e comunitaria, che ne ha specificato l’originaria genericità ricollegandola sempre alla non prevedibilità e non prevenibilità di un evento con l’uso della normale diligenza; la Corte di Giustizia, nella sentenza 8 marzo 1988, in causa C-296/86, si è espressa nei termini sopra enunziati facendo riferimento a “circostanze indipendenti da chi le fa valere, straordinarie e imprevedibili, le cui conseguenze non avrebbero potuto essere evitate malgrado tutta la diligenza impiegata”. 18. Occorre osservare ulteriormente che, in relazione alla compatibilità dell’art. 4 comma 1 del Testo unico delle accise - d.legs. 4504/95 con l’art. 14 paragrafo 1 della Direttiva n. 92/12/CEE, la Corte di Giustizia con la sentenza del 18 dicembre 2007, causa C-314/06, ha escluso che la facoltà concessa agli stati membri dall’art. 14 par. 1 della Direttiva di fissare le condizioni per la concessione degli abbuoni consenta di applicare nei diritti nazionali autonome definizioni della nozione di forza maggiore (cfr. punti 21 e 22) ed ha precisato che la norma comunitaria dispone che l’abbuono può essere concesso “solo se dimostra l’esistenza di circostanze che sono a lui estranee, anormali e imprevedibili, e le cui conseguenze non avrebbero potuto essere evitate malgrado l’adozione di tutte le precauzioni del caso” (punto 31). 19. Quindi, secondo la Corte di Giustizia (cfr. punti 24, 31 e 37), la nozione di forza maggiore prevista dalla norma comunitaria richiede che sussistano cumulativamente l’elemento oggettivo (circostanze “estranee, anormali e imprevedibili”) e l’elemento soggettivo (inteso come obbligo di adottare tutte le precauzioni possibili per evitare il danno). 64 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 20. Anche l’Avvocato Generale Kokott nelle Conclusioni per la predetta Causa C 314/06 evidenziava che “la semplice assenza di colpa non è, tuttavia, sufficiente. L‘evento causale deve inoltre essere straordinario, imprevedibile ed indipendente dal soggetto che afferma l’esistenza della forza maggiore. Occorre, pertanto, che sia altresì soddisfatto il criterio oggettivo indicato dalla Corte: le circostanze devono essere straordinarie ed estranee all’operatore” (punto 35). 21. La prima questione posta dalla Cassazione francese va, quindi, risolta nel senso che non può essere invocata dalla società H.W. l’esimente della forza maggiore perché risulta dagli atti di causa che la merce in deposito è stata sottratta per furto e, quindi, non vi è stata una perdita irrimediabile in quanto la merce può essere immessa nel mercato dell’UE. 22. Per quanto riguarda la seconda questione posta dalla Cour de Cassation francese si osserva che, se pure è vero che il furto di merci non costituisce una “cessione di beni a titolo oneroso”, ai sensi dell’art. 2 della VI Direttiva del Consiglio n. 77/388/CEE, e quindi non può ritenersi dovuta l’iva (come statuito da Corte Giustizia 14 luglio 2005, C-435/03), tuttavia nella specie non si tratta di iva interna (cui si riferisce la sesta direttiva e la sentenza della Corte di Giustizia) ma di iva all’importazione che, come è pacifico, è assimilata ai diritti di confine. 23. Pertanto, nella specie, l’iva sulla merce sottratta dal deposito della società viene legittimamente pretesa dalla Dogana francese, stante l’assoggettamento del relativo regime a quello dei diritti di confine, secondo le deduzioni e conclusioni sopra riportate nei punti da 5 a 21. 24. Per l’iva all’importazione trovano applicazione, quindi, le disposizioni generali del Codice doganale comunitario (art. 202-204), come statuito, fra l’altro dalla citata sentenza della Corte di Cassazione n. 14307 del 2009: “La sottrazione della disponibilità della merce importata, che non si sia risolta nella dispersione del prodotto e/o nella sua inutilizzabilità per chiunque, non fa venir meno l’obbligo di pagamento dell’iva all’importazione, stante la sua configurazione quale diritto doganale, ai sensi dell’art. 70 d.p.r. n. 633 del 1987, come sostituito dall’art. 25 d.p.r. n. 897 del 1980, e considerato che la relativa obbligazione tributaria sorge al momento dell’ingresso della merce nel territorio nazionale e non si estingue con la sottrazione della merce ad opera di terzi, neppure se il debitore è incolpevole”. 25. Sulla corretta interpretazione della sesta direttiva invocata dalla Cassazione francese, può essere utile quanto deciso dalla Corte di Giustizia nella sentenza 9 febbraio 2006, C-305/03. 26. Al secondo quesito posto dalla Cassazione francese va, quindi, data risposta positiva, nel senso che il furto non fa venir meno l’obbligazione di pagamento dell’iva all’importazione, ai sensi del codice doganale comunitario. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 65 In conclusione il Governo italiano suggerisce alla Corte di rispondere ai quesiti sottoposti al suo esame affermando che, con riferimento al caso in esame: a) non spetta l’esimente da caso fortuito o forza maggiore, ai sensi dell’art. 206 del Codice doganale comunitario, per il furto di merce dal deposito doganale, in quanto non si configura nella specie la “perdita irrimediabile” cui la norma connette l’eventuale esenzione dall’obbligo di pagamento dei dazi; b) l’iva all’importazione dovuta sulle merci oggetto di furto in un deposito doganale è assimilata ai diritti di confine e, quindi, è dovuta ai sensi della normativa generale del Codice doganale comunitario (in particolare, art. 202-204), non trovando applicazione nella specie la diversa disciplina dell’iva interna, come invocata dal Giudice remittente con riferimento alla VI Direttiva n. 77/388/CEE del Consiglio in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra d’affari. Roma, 18 settembre 2012 Giuseppe Albenzio Avvocato dello Stato Osservazioni del Governo della Repubblica italiana (avv. Stato Stefano Varone, AL 27577/12) in relazione alla causa C-281/12. Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Consiglio di Stato (Italia) il 6 giugno 2012 - Trento Sviluppo Srl e Centrale Adriatica Soc. coop. / AGCOM. Direttiva 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno. Materia: Ravvicinamento delle legislazioni Tutela dei consumatori 1. I FATTI DI CAUSA E LA QUESTIONE PREGIUDIZIALE PROPOSTA La domanda pregiudiziale concerne la nozione di pratica commerciale ingannevole contenuta nell’articolo 6 della direttiva 2005/29 CE. Più precisamente, il giudice del rinvio pone alla Corte di Giustizia la seguente questione pregiudiziale: “Se il paragrafo 1 dell'articolo 6 della direttiva 2005/29/CE, in riferimento alla parte in cui nel testo in italiano usa le parole "e in ogni caso" debba essere inteso nel senso che, per affermare l'esistenza di una pratica commerciale ingannevole, sia sufficiente che sussista anche uno solo degli elementi di cui alla prima parte del mede- 66 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 simo paragrafo, ovvero se, per affermare l'esistenza di una siffatta pratica commerciale sia necessario anche che sussista l'ulteriore elemento rappresentato dall'idoneità della pratica commerciale a sviare la decisione di natura commerciale adottata dal consumatore”. La questione trae origine da una decisione dell’AGCOM (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato) del 22 gennaio 2009 (caso PS1434) con la quale si contestava alle società Centrale Adriatica Società Cooperativa e Trento Sviluppo S.r.l. di avere posto in essere un pratica commerciale scorretta ai sensi degli artt. 20 e 21, co. 1, lett. b) e d), e 23, lett. e), del Codice del Consumo. Segnatamente, la pratica riguardava lo svolgimento di una promozione commerciale presso alcuni punti vendita a marchio COOP per l’offerta di alcuni prodotti a prezzi scontati, tra cui un computer portatile, il quale risultava poi - da segnalazioni ricevute dall’Autorità - nella realtà non disponibile. La suddetta decisione è stata impugnata dinanzi al Tar Lazio dalle menzionate società autrici della pratica commerciale scorretta, i cui ricorsi sono stati respinti con sentenze n. 8670/2009 e n. 2303/2010. Le due società hanno poi proposto appello avverso dette sentenze innanzi al Consiglio di Stato, il quale, con ordinanza n. 2779 del 15 maggio 2012, ha ritenuto di disporre rinvio alla Corte di Giustizia per la risoluzione del quesito pregiudiziale. Il giudice d’appello, nel presupposto che la pratica all’origine dei fatti di causa non rientri nel novero di quelle che sono considerate “in ogni caso” ingannevoli ai sensi dell’art. 23 del Codice del Consumo (c.d. lista nera), si chiede se in relazione ad essa sia applicabile la previsione generale di cui all’art. 21 del Codice (“Azioni ingannevoli”), testualmente riproduttivo dell’art. 6 della direttiva 2005/29 CE. A detta del Consiglio di Stato si rende necessario anzitutto verificare il contenuto di tale ultima disposizione comunitaria, in ragione delle discordanze del testo italiano della direttiva rispetto alle sue versioni nelle altre lingue ufficiali dell’Unione Europea (Nel testo inglese si legge “and in either case”; in quello francese “dans un cas cornme dans l’autre”; in quello spagnolo “y que en cualquiera de estos dos casos”). Pertanto, il giudice d’appello, “chiamato a pronunciarsi su una questione che comport(a) dubbi applicativi in ordine al diritto comunitario primario e derivato”, ritiene - d’ufficio - di doverne rimettere la soluzione alla Corte di Giustizia. Nel cercare di cogliere il senso della norma di cui all’art. 6, paragrafo 1 (“Azioni ingannevoli”) della direttiva, il Consiglio di Stato rileva anzitutto come essa, nella sua prima parte, contempli due ipotesi che appaiono fra loro in alternativa, in base alle quali la pratica commerciale è ingannevole: i) se “contenga informazioni false e sia pertanto non veritiera”, ovvero ii) se “in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione comples- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 67 siva, inganni o possa ingannare il consumatore medio, anche se l’informazione è di fatto corretta, riguardo a [taluni] elementi”. Se tale prima parte della norma non appare al giudice problematica, oggetto del quesito pregiudiziale è invece l’interpretazione della sua seconda parte, ai sensi della quale è previsto: “e in ogni caso lo induca (ndr: il consumatore) o sia idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”. Non sarebbe chiaro, infatti, se con la locuzione “e in ogni caso” si intenda che: A) la capacità della pratica commerciale di indurre una decisione commerciale che altrimenti non si sarebbe presa costituisca un ulteriore elemento rispetto a quelli sub i) e ii) sopra menzionati, all’interno di una fattispecie unitaria: nel qual caso la pratica sarà ingannevole ove tale capacità induttiva si sia verificata cumulativamente agli elementi sub i) e ii); ovvero: B) la capacità induttiva della pratica ad assumere una decisione commerciale che altrimenti non sarebbe stata presa dia luogo ad una fattispecie di azione ingannevole autonoma e ulteriore rispetto alle ipotesi sub i) e/o ii). Secondo il Consiglio di Stato il testo italiano della direttiva (unitamente a quello tedesco) e il corrispondente testo dell’art. 21 del Codice del Consumo indurrebbero a sostenere tale seconda interpretazione (sub B), secondo cui un’azione ingannevole sussiste se essa ha capacità induttiva anche indipendentemente dalla ricorrenza dei requisiti sub i) e/o ii). I diversi testi inglese, francese e spagnolo, invece, nel fare espresso riferimento, nella seconda parte della norma, alle due ipotesi di cui alla prima parte, appaiono deporre nel senso che per la sussistenza di un’azione ingannevole sia necessaria la cumulativa ricorrenza dell’ingannevolezza, da un lato (sub i) o ii)), e dell’idoneità a indurre una decisione commerciale alternativa, dall’altro, e dunque, per converso, che la mera idoneità della pratica a sviare il comportamento commerciale del consumatore, non accompagnata dalle caratterizzazioni sub i) o ii), sia di per sé insufficiente a configurare l’illecito (interpretazione sub A). A detta del giudice d’appello la questione sollevata assumerebbe diretto rilievo nell’ambito della causa relativa al caso PS 1434, e ciò in quanto se da un lato appare dimostrato il carattere non veritiero dell’informazione pubblicizzata, d’altro lato, avendo questa ad oggetto la disponibilità del prodotto, non risulterebbe dimostrato che essa abbia indotto il consumatore ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso (secondo il Consiglio di Stato infatti “può essere ben probabile che, in assenza del prodotto ricercato, il consumatore si sia limitato a non effettuare alcun acquisto, senza ulteriori influenze sulle sue decisioni commerciali”). Pertanto, il Consiglio di Stato conclude l’ordinanza rilevando che: 68 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 - se si aderisce alla tesi del carattere cumulativo degli elementi (sub A), i professionisti nel caso di specie possono andare esenti da sanzione; - se si aderisce alla tesi del carattere alternativo degli elementi (sub B), il carattere non veritiero dell’informazione relativa alla disponibilità del prodotto determinerà già di per sé l’esistenza dell’illecito sanzionabile. 2. LA NORMATIVA COMUNITARIA E LA NORMATIVA ITALIANA DI RECEPIMENTO - L’Art. 6 della direttiva 2005/29 CE Secondo l’articolo 6 della richiamata direttiva comunitaria “È considerata ingannevole una pratica commerciale che contenga informazioni false e sia pertanto non veritiera o in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, inganni o possa ingannare il consumatore medio, anche se l’informazione è di fatto corretta, riguardo a uno o più dei seguenti elementi e in ogni caso lo induca o sia idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso: a) l’esistenza o la natura del prodotto; b) le caratteristiche principali del prodotto, quali la sua disponibilità, i vantaggi, i rischi, l’esecuzione, la composizione, gli accessori, l’assistenza post-vendita al consumatore e il trattamento dei reclami, il metodo e la data di fabbricazione o della prestazione, la consegna, l’idoneità allo scopo, gli usi, la quantità, la descrizione, l’origine geografica o commerciale o i risultati che si possono attendere dal suo uso, o i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove e controlli effettuati sul prodotto; c) la portata degli impegni del professionista, i motivi della pratica commerciale e la natura del processo di vendita, qualsiasi dichiarazione o simbolo relativi alla sponsorizzazione o all’approvazione dirette o indirette del professionista o del prodotto; d) il prezzo o il modo in cui questo è calcolato o l’esistenza di uno specifico vantaggio quanto al prezzo; e) la necessità di una manutenzione, ricambio, sostituzione o riparazione; f) la natura, le qualifiche e i diritti del professionista o del suo agente, quali l’identità, il patrimonio, le capacità, lo status, il riconoscimento, l’affiliazione o i collegamenti e i diritti di proprietà industriale, commerciale o intellettuale o i premi e i riconoscimenti; g) i diritti del consumatore, incluso il diritto di sostituzione o di rimborso ai sensi della direttiva 1999/44/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 maggio 1999 su taluni aspetti della vendita e delle garanzie dei beni di consumo, o i rischi ai quali può essere esposto. 2. È altresì considerata ingannevole una pratica commerciale che, nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, induca o sia idonea ad indurre il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso e comporti: a) una qualsivoglia attività di marketing del prodotto, compresa la pubblicità comparativa, che ingeneri confusione CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 69 con i prodotti, i marchi, la denominazione sociale e altri segni distintivi di un concorrente; b) il mancato rispetto da parte del professionista degli impegni contenuti nei codici di condotta che il medesimo si è impegnato a rispettare, ove: i) non si tratti di una semplice aspirazione ma di un impegno fermo e verificabile; e ii) il professionista indichi in una pratica commerciale che è vincolato dal codice. - L’Art. 21 codice consumo: Riproduttiva della disposizione comunitaria è la normativa interna di recepimento, val a dire l’art. 21 codice consumo: 1. È considerata ingannevole una pratica commerciale che contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o é idonea ad indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o più dei seguenti elementi e, in ogni caso, lo induce o é idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso: a) l'esistenza o la natura del prodotto; b) le caratteristiche principali del prodotto, quali la sua disponibilità, i vantaggi, i rischi, l'esecuzione, la composizione, gli accessori, l'assistenza post-vendita al consumatore e il trattamento dei reclami, il metodo e la data di fabbricazione o della prestazione, la consegna, l'idoneità allo scopo, gli usi, la quantità, la descrizione, l'origine geografica o commerciale o i risultati che si possono attendere dal suo uso, o i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove e controlli effettuati sul prodotto; c) la portata degli impegni del professionista, i motivi della pratica commerciale e la natura del processo di vendita, qualsiasi dichiarazione o simbolo relativi alla sponsorizzazione o all'approvazione dirette o indirette del professionista o del prodotto; d) il prezzo o il modo in cui questo è calcolato o l'esistenza di uno specifico vantaggio quanto al prezzo; e) la necessità di una manutenzione, ricambio, sostituzione o riparazione; f) la natura, le qualifiche e i diritti del professionista o del suo agente, quali l'identità, il patrimonio, le capacità, lo status, il riconoscimento, l'affiliazione o i collegamenti e i diritti di proprietà industriale, commerciale o intellettuale o i premi e i riconoscimenti; g) i diritti del consumatore, incluso il diritto di sostituzione o di rimborso ai sensi dell'articolo 130 del presente Codice. 2. È altresì considerata ingannevole una pratica commerciale che, nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, induce o è idonea ad indurre il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso e comporti: a) una qualsivoglia attività di commercializzazione del prodotto che in- 70 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 genera confusione con i prodotti, i marchi, la denominazione sociale e altri segni distintivi di un concorrente, ivi compresa la pubblicità comparativa illecita; b) il mancato rispetto da parte del professionista degli impegni contenuti nei codici di condotta che il medesimo si è impegnato a rispettare, ove si tratti di un impegno fermo e verificabile, e il professionista indichi in una pratica commerciale che è vincolato dal codice. 3. È considerata scorretta la pratica commerciale che, riguardando prodotti suscettibili di porre in pericolo la salute e la sicurezza dei consumatori, omette di darne notizia in modo da indurre i consumatori a trascurare le normali regole di prudenza e vigilanza. 4. È considerata, altresì, scorretta la pratica commerciale che, in quanto suscettibile di raggiungere bambini ed adolescenti, può, anche indirettamente, minacciare la loro sicurezza”. 3. L’INTERPRETAZIONE DELLA NORMATIVA COMUNITARIA E DI QUELLA INTERNA DI RECEPIMENTO Il ragionamento da cui muove il Consiglio di Stato muove dalla ricostruzione della nozione di induzione ad una decisione commerciale che non si sarebbe altrimenti assunto, che il giudice di appello sembra ricondurre ad una restrittiva idea di “azione” del consumatore, indotta dalla pratica ingannevole, ed economicamente pregiudizievole, il cui verificarsi sarebbe per definizione escluso laddove l’effettiva indisponibilità di un prodotto ne impedisca in concreto l’acquisto. Tuttavia una diversa interpretazione del suddetto requisito (adottata costantemente dall’AGCOM) è quella che prescinde dall’idoneità della pratica a provocare un acquisto a condizioni meno vantaggiose di prodotti di qualità inferiore alle attese suscitate, con conseguente danno patrimoniale del consumatore. La nozione fatta propria nella prassi dell’Autorità, e che si ritiene corrisponda alla ratio della normativa comunitaria di riferimento, è quindi una nozione neutra, secondo cui affinché l’inganno rilevi è sufficiente l’idoneità dello stesso ad alterare più genericamente la formazione di volontà del consumatore, facendogli assumere decisioni diverse da quelle che, presumibilmente, sarebbero state assunte senza l’influenza del messaggio. Tale nozione di “induzione a una decisione commerciale che altrimenti non sarebbe stata presa”, assunta nella prassi applicativa, è peraltro in linea con la definizione di “decisione commerciale” contenuta nell’articolo 2, lettera k), della direttiva (nonché parallelamente nell’art. 18, lett. m, del Codice del Consumo), secondo cui “... tale decisione può portare il consumatore a compiere una azione o all‘astenersi dal compierla”. Ebbene, se così viene intesa la nozione di “decisione commerciale”, è CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 71 chiaro che anche una falsa informazione circa la disponibilità di un prodotto è in grado di provocarne un’alterazione, al pari di una falsa informazione sul prezzo o sulla qualità del prodotto che ne induca l’acquisto. La diffusione della falsa informazione circa la disponibilità di un prodotto induce comunque il consumatore ad attivarsi per l’acquisto di esso, a prendere contatto con gli autori della promozione ed a rinunciare d’altro canto a ricercare altrove prodotti alternativi: ciò è comunemente considerato già un effetto pregiudizievole per il consumatore, dinanzi al quale devono essere attivati i meccanismi di tutela previsti dal Codice del Consumo. In tal senso rileva, a livello nazionale, la consolidata giurisprudenza amministrativa secondo cui la disciplina in materia di pratiche commerciali scorrette è preordinata ad intervenire “anche in una fase precedente a quella negoziale e a prescindere da un concreto pregiudizio economico non essendo necessario, ai fini dell’applicazione della specifica normativa, che vi sia stato un rapporto o un contatto diretto tra l’operatore ed il consumatore” (Tar Lazio, I, 3 marzo 2010, n. 3287; idem, 11 febbraio 2010, n. 1947; idem, 23 febbraio 2010, n. 2828). Parallelamente, a livello comunitario, l’ampia nozione di (alterazione di) “decisione commerciale” sopra illustrata ha trovato conferma in quanto indicato dalla Commissione nello Staff Working Document annesso alle Linee Guida sulla implementazione/applicazione della direttiva 2005/29 CE sulle pratiche commerciali scorrette, punto 2.1, secondo cui “la formulazione dell’art. 2, lett. k, della direttiva lascia supporre che la definizione debba essere interpretata in senso generale e che il concetto di decisione di natura commerciale comprenda una grande varietà di decisioni prese dal consumatore in relazione a un prodotto o servizio”. Segnatamente, al punto 2.1.2. delle medesime Linee Guida, la Commissione formula un esempio di pratica ingannevole del tutto assimilabile al caso PS 1434 da cui origina il rinvio, rilevando come nel novero delle “decisioni commerciali” ai sensi della direttiva rientrino anche le decisioni che non conducono alla o non sono seguite dalla conclusione di un contratto valido. Alla luce della prassi e della giurisprudenza in materia, si ritiene dunque che, poiché il requisito della (anche potenziale) induzione a una decisione commerciale che il consumatore non avrebbe altrimenti assunto deve essere interpretato nell’ampio senso sopra indicato, la necessità della sua ricorrenza cumulativamente ai requisiti di ingannevolezza (sub i) o ii)), lungi dal rendere più difficoltoso l’intervento e ridurre l’efficacia della tutela, risponde alla ratio stessa della disciplina sulle pratiche scorrette. Ne deriva pertanto la necessità che la pratica commerciale, per essere ingannevole, presenti contemporaneamente sia l’idoneità a incidere sulla sfera conoscitiva del consumatore, inducendolo in errore (nelle due tipiz- 72 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 zazioni sub i) o ii) di cui sopra), sia l’idoneità a incidere sulla sua sfera decisionale, inducendolo ad assumere una decisione commerciale che altrimenti non avrebbe preso. A tutto ciò si aggiunga che il requisito della induzione a una decisione commerciale che il consumatore non avrebbe altrimenti assunto, previsto nella norma sulle azioni ingannevoli (art. 6 della direttiva e art. 21 del Codice del Consumo), non è altro che la declinazione, per tale tipologia di pratiche commerciali - simmetricamente a quanto avviene per le pratiche aggressive nell’art. 8 della direttiva e nell’art. 24 del Codice del Consumo, in termini di “limitazione della libertà di scelta o di comportamento” - del più generale requisito della “idoneità a falsare il comportamento economico”, indicato nel divieto generale di pratiche scorrette (di cui all’art. 5 della direttiva e art. 20 del Codice del Consumo) La stessa clausola generale da ultimo citata, cioè, rende centrale nella valutazione di scorrettezza l’elemento dell’effetto (anche solo potenziale) cagionato dalla pratica commerciale, salvo poi declinare diversamente quell’effetto a seconda che si tratti di pratiche ingannevoli o aggressive: ciò conferma ulteriormente che dalla sua verifica non si possa prescindere. 4. CONCLUSIONI Per le motivazioni sopra esposte si ritiene che alla questione sollevata debba rispondersi nel senso che “che la pratica commerciale, per essere ingannevole, presenti contemporaneamente sia l’idoneità a incidere sulla sfera conoscitiva del consumatore, inducendolo in errore (nelle due tipizzazioni sub i) o ii) di cui sopra), sia l’idoneità a incidere sulla sua sfera decisionale, inducendolo ad assumere una decisione commerciale che altrimenti non avrebbe preso”. Inoltre il significato dell’allocuzione “induzione a una decisione commerciale che il consumatore non avrebbe altrimenti assunto” si ritiene che debba essere interpretato nel senso che anche una falsa informazione circa la disponibilità di un prodotto è in grado di provocarne un’alterazione, al pari di una falsa informazione sul prezzo o sulla qualità del prodotto che ne induca l’acquisto. Roma 15 settembre 2012 Stefano Varone Avvocato dello Stat CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 73 Osservazioni del Governo della Repubblica italiana (avv. Stato Marina Russo, AL 31364/12) nella causa C-342/12, promossa ai sensi dell’art. 267 TFUE dal Tribunal do Trabalho de Viseu (Portogallo) con ordinanza in data 18 luglio 2012. Materia: Ravvicinamento delle legislazioni I) IL GIUDIZIO A QUO I.a) Il giudizio a quo pende innanzi al Tribunal do Trabalho de Viseu. Quest’ultimo è stato investito di un ricorso avente ad oggetto l'annullamento della decisione con cui l'autorità amministrativa competente in materia ha ritenuto un datore di lavoro responsabile per non aver immediatamente messo a disposizione di un suo ispettore la registrazione dei dati relativi ai tempi di lavoro dei dipendenti. I.b) Con ordinanza in data 18 luglio 2012, il giudice a quo ha sottoposto alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea i seguenti quesiti, utili ai fini del decidere: 1. Se l'articolo 2 della direttiva 95/46/CE debba essere interpretato nel senso che la registrazione dei tempi di lavoro, ossia l'indicazione dell'ora in cui ciascun lavoratore inizia e termina la propria giornata nonché le pause o i periodi non compresi in essa, rientra nella nozione di dati personali. 2. Nel caso di risposta affermativa alla questione precedente, se lo Stato portoghese sia tenuto, ai sensi dell'articolo 17, paragrafo 1, della direttiva 95/46/CE, a prevedere misure tecniche ed organizzative appropriate al fine di garantire la protezione dei dati personali dalla distruzione accidentale o illecita, dalla perdita accidentale o dall'alterazione, dalla diffusione o dall'accesso non autorizzati, segnatamente quando il trattamento comporta trasmissioni di dati all'interno di una rete. 3. Del pari, in caso di risposta affermativa alla questione precedente, qualora lo Stato membro non adotti alcuna misura per dare attuazione all'articolo 17, paragrafo 1, della direttiva 95/46/CE e qualora il datore di lavoro, responsabile del trattamento di questi dati, appronti un sistema di accesso ristretto a tali dati che non consenta l'accesso automatico dell'autorità nazionale competente per la vigilanza sulle condizioni di lavoro, se il principio del primato del diritto dell'Unione europea debba essere interpretato nel senso che lo Stato membro non può sanzionare il datore di lavoro per il suddetto comportamento. II) LE OSSERVAZIONI DEL GOVERNO ITALIANO II.a) Relativamente al quesito n. 1; Ai sensi dell’art. 2 lett. a) della Direttiva n. 95/46/CE (d’ora in poi, “la 74 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Direttiva”) si intende per “dati personali” “qualsiasi informazione concernente una persona fisica identificata o identificabile (persona interessata); Ai sensi della successiva lett. b), si intende per “trattamento di dati personali” “ qualsiasi operazione o insieme di operazioni compiute con o senza l'ausilio di processi automatizzati, e applicate a dati personali, come la raccolta, la registrazione, l'organizzazione, la conservazione, l'elaborazione o la modifica, l'estrazione, la consultazione, l'impiego, la comunicazione mediante trasmissione, diffusione o qualsiasi altra forma di messa a disposizione, il raffronto o l’interconnessione, nonché il congelamento, la cancellazione o la distruzione”. Alla luce delle citate definizioni, anche la presenza e l'orario di lavoro all'interno di un'azienda attengono alla nozione di dato personale in quanto, indiscutibilmente, hanno ad oggetto un’“informazione” riferita ad una persona fisica ben individuata. Del pari, la relativa registrazione ne costituisce trattamento, in quanto l’attività di registrazione è annoverata espressamente alla lett. b dell’art. 2 cit. §§§ Il Governo italiano pertanto propone di rispondere al quesito n. 1 come segue: “L'articolo 2 della direttiva 95/46/CE deve essere interpretato nel senso che la registrazione dei tempi di lavoro, ossia l'indicazione dell'ora in cui ciascun lavoratore inizia e termina la propria giornata nonché le pause o i periodi non compresi in essa, rientra nella nozione di dati personali”. II.b) Relativamente al quesito n. 2; Il presente quesito ha ad oggetto l’obbligo degli Stati membri di prevedere misure tecniche ed organizzative per la protezione dei dati personali. Al riguardo, si osserva che l'articolo 17 della direttiva stabilisce “Gli Stati membri dispongono che il responsabile del trattamento deve attuare misure tecniche ed organizzative appropriate al fine di garantire la protezione dei dati personali dalla distruzione accidentale o illecita, dalla perdita accidenta1e o dall'alterazione, dalla diffusione o dall'accesso non autorizzati, segnatamente quando il trattamento comporta trasmissioni di dati all'interno di una rete, o da qualsiasi altra forma illecita di trattamento di dati personali”. Il chiaro tenore letterale della norma indica che lo Stato membro è tenuto a prevedere misure a tutela della sicurezza dei dati, e che ciò deve fare attraverso l’adozione di disposizioni di massima indirizzate al responsabile del procedimento. §§§ Il Governo italiano propone pertanto di rispondere al secondo quesito come segue: “Ai sensi dell'articolo 17, paragrafo 1, della direttiva 95/46/CE, ciascuno Stato membro è tenuto a prevedere misure tecniche CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 75 ed organizzative appropriate al fine di garantire la protezione dei dati personali dalla distruzione accidentale o illecita, dalla perdita accidentale o dall'alterazione, dalla diffusione o dall'accesso non autorizzati, segnatamente quando il trattamento comporta trasmissioni di dati all'interno di una rete. Tale obbligo è assolto attraverso l’adozione di disposizioni di massima indirizzate al responsabile del trattamento dei dati personali”. II.c) Relativamente al quesito n. 3; Il giudice remittente chiede infine se - in base al diritto comunitario - sia sanzionabile, o meno, il comportamento del responsabile dei dati personali che, sia pure in mancanza di una disposizione nazionale in tal senso, ometta di rendere tali dati immediatamente disponibili all'autorità nazionale competente per la vigilanza sulle condizioni di lavoro. A tale riguardo si osserva che la Direttiva si limita a stabilire: “… per essere lecito, il trattamento di dati personali deve essere inoltre basato sul consenso della persona interessata oppure … deve essere previsto dalla legge, per l'esecuzione di un compito nell'interesse pubblico o per l'esercizio dell'autorità pubblica …” (30^ “Considerando”); “Il trattamento dei dati personali può essere effettuato soltanto quando … c) è necessario per adempiere un obbligo legale… e) è necessario per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito … il terzo a cui vengono comunicati i dati” (art. 7). Dalle norme richiamate si evince che il trattamento dei dati personali, nella forma della comunicazione a terzi, è previsto (tra l’altro, anche) per la specifica finalità dell’adempimento di obblighi di legge e l’esercizio di poteri pubblici ovvero la tutela di interessi pubblici, quali sono quelli di cui è titolare - nel caso di specie - l’autorità portoghese per la vigilanza sulle condizioni di lavoro. La Direttiva, tuttavia, nulla dispone con riferimento alle modalità di tale messa a disposizione che pertanto - in mancanza di una specifica previsione normativa nazionale che sanzioni la mancata messa a disposizione immediata dei dati - deve intendersi correttamente attuata dal responsabile anche tramite la semplice trasmissione successiva dei dati stessi ai terzi che vi abbiano titolo o in base alla legge, oppure in quanto investiti di pubblici poteri ovvero della tutela di interessi pubblici. Quando, perciò, il responsabile dei dati abbia a ciò provveduto, egli non può essere sanzionato per il solo fatto che la disponibilità dei dati a favore dell’autorità non sia stata garantita in maniera immediata. §§§ Il Governo italiano propone pertanto di rispondere al terzo quesito come segue: “Qualora il datore di lavoro, responsabile del trattamento dei dati 76 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 personali, appronti un sistema di accesso ristretto a tali dati che non consenta l'accesso automatico dell'autorità nazionale competente per la vigilanza sulle condizioni di lavoro, ma permetta comunque l’accesso mediante comunicazione successiva, lo Stato membro non può sanzionare il datore di lavoro per il suddetto comportamento”. Marina Russo Avvocato dello Stato Osservazioni del Governo della Repubblica italiana (avv. Stato Barbara Tidore, AL 32223/12) nella causa C-352/12, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte ai sensi dell’art. 267 TFUE dal Tribunale Amministrativo Regionale (TAR) per l’Abruzzo (Italia), nelle cause: A) Consiglio Nazionale degli Ingegneri c. Comune di Castelvecchio Subequo, Università degli Studi Chieti Pescara; B) Consiglio Nazionale degli Ingegneri c. Comune di Barisciano, Scuola di Architettura e Design (SAD) dell’Univeristà degli Studi di Camerino. Materia: Ravvicinamento delle legislazioni LE QUESTIONI PREGIUDIZIALI 1. Con ordinanza n. 476/2012 del 9 maggio 2012, depositata presso la Cancelleria della Corte il 26 luglio 2012, il TAR Abruzzo, nell’ambito di due procedimenti che vedono contrapposte le parti indicate in epigrafe, ha sottoposto alla Corte le seguenti questioni: a) “se la direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 31 marzo 2004 n. 2004/18/CE relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi ed in particolare l’articolo 1, n. 2 lettere a) e d), l’art. 2, l’articolo 28 e l’allegato II categorie n. 8 e n. 12 ostino ad una disciplina nazionale che consente la stipulazione di accordi in forma scritta tra due amministrazioni aggiudicatrici per l’attività di supporto ai Comuni relative allo studio, all’analisi e al progetto per la ricostruzione dei centri storici del comune di Barisciano e Castelvecchio Subequo, come meglio specificate nel capitolato tecnico allegato alla convenzione e come individuati dalla normativa nazionale e regionale di settore, verso un corrispettivo la cui non rimuneratività non è manifesta, ove l’amministrazione esecutrice possa rivestire la qualità di operatore economico”; b) “se in particolare la direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 31 marzo 2004 n. 2004/18/CE relativa al coordinamento delle procedure CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 77 di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi ed in particolare l’articolo 1, n. 2 lettere a) e d), l’art. 2, l’articolo 28 e l’allegato II categorie n. 8 e n. 12 ostino ad una disciplina nazionale che consente la stipulazione di accordi in forma scritta tra due amministrazioni aggiudicatrici per l’attività di supporto ai Comuni relative allo studio, all’analisi e al progetto per la ricostruzione dei centri storici del comune di Barisciano e Castelvecchio Subequo, come meglio specificate nel capitolato tecnico allegato alla convenzione e come individuati dalla normativa nazionale e regionale di settore, verso un corrispettivo la cui non rimuneratività non è manifesta, ove il ricorso all’affidamento diretto sia espressamente motivato alla stregua di normative primarie e secondarie post-emergenziali e tenuto conto degli esplicitati specifici interessi pubblici”. I FATTI E LA CONTROVERSIA NELLE CAUSE PRINCIPALI 2. Il Comune di Castelvecchio, con delibera n. 13 del 14 aprile 2011, approvava la bozza di convenzione con il Dipartimento di scienze, storia dell’architettura, restauro e rappresentazione della facoltà di Architettura dell’Università di Pescara, inerente la redazione del piano di ricostruzione dei centri urbanistici distrutti o danneggiati dal sisma del 6 aprile 2009, dando mandato al sindaco per la stipula della convenzione. 3. Il Comune di Barisciano, con delibera n. 12 del 25 febbraio 2011, approvava lo schema di convenzione per la realizzazione delle attività relative alla ricostruzione post-sisma del 6 aprile 2009, da affidarsi alla Scuola di Architettura e Design “Eduardo Vittoria” dell’Università degli Studi di Camerino, dando mandato al sindaco per la sottoscrizione del contratto di convenzione. 4. Con due distinti ricorsi il Consiglio Nazionale degli Ingegneri impugnava le delibere di approvazione delle bozze di convenzione, sostenendone l’illegittimità per violazione delle norme nazionali e comunitarie in materia di affidamento di incarichi di servizi, nonché dei principi di trasparenza, concorrenza e parità di trattamento e pubblicità. 5. I Comuni di Castelvecchio Subequo e di Barisciano (di seguito, “i resistenti nel giudizio principale”) deducevano che nella fattispecie trovava applicazione l’art. 15 della legge 241/1990, ai sensi del quale “le pubbliche amministrazioni possono sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune”. 6. Il TAR Abruzzo, con ordinanza n. 476/12, ha disposto il rinvio pregiudiziale di cui alla presente causa. LA NORMATIVA COMUNITARIA ED INTERNA RILEVANTE E LE MOTIVAZIONI DELLA GIURISDIZIONE DI RINVIO 7. Il quesito posto nell’ordinanza di rinvio verte sull’interpretazione di alcune disposizioni della direttiva 2004/18/CEE del Parlamento Europeo e 78 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 del Consiglio del 31 marzo 2004 (in prosieguo: la «direttiva»), relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi. 8. L’art. 1, n. 2, lett. a) e d), n. 8 e n. 9, della direttiva stabilisce che “2. a) Gli «appalti pubblici» sono contratti a titolo oneroso stipulati per iscritto tra uno o più operatori economici e una o più amministrazioni aggiudicatrici aventi per oggetto l'esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi ai sensi della presente direttiva. (...) d) Gli «appalti pubblici di servizi» sono appalti pubblici diversi dagli appalti pubblici di lavori o di forniture aventi per oggetto la prestazione dei servizi di cui all'allegato II. (...) 8. I termini «imprenditore», «fornitore» e «prestatore di servizi» designano una persona fisica o giuridica o un ente pubblico o un raggruppamento di tali persone e/o enti che offra sul mercato, rispettivamente, la realizzazione di lavori e/o opere, prodotti o servizi. ... 9. Si considerano «amministrazioni aggiudicatrici»: lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli organismi di diritto pubblico e le associazioni costituite da uno o più di tali enti pubblici territoriali o da uno o più di tali organismi di diritto pubblico”. 9. L'art. 2 della direttiva stabilisce che “Le amministrazioni aggiudicatrici trattano gli operatori economici su un piano di parità, in modo non discriminatorio e agiscono con trasparenza”. 10. Secondo l'art. 4, n. 1, della direttiva, “ I candidati o gli offerenti che, in base alla normativa dello Stato membro nel quale sono stabiliti, sono autorizzati a fornire la prestazione di cui trattasi non possono essere respinti soltanto per il fatto che, secondo la normativa dello Stato membro nel quale è aggiudicato l'appalto, essi avrebbero dovuto essere persone fisiche o persone giuridiche ...”. 11. L’art. 28 n. 1 della direttiva dispone che “Per aggiudicare gli appalti pubblici, le amministrazioni aggiudicatrici applicano le procedure nazionali adattate ai fini della presente direttiva”. 12. L'allegato II, che elenca i servizi di cui all’art. 1, n. 2, lett. d), alle categorie 8 e 12 individua i seguenti servizi: “8. Servizi di ricerca e sviluppo. 12. Servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria, anche integrata; servizi attinenti all’urbanistica e alla paesaggistica; servizi affini di consulenza scientifica e tecnica; servizi di sperimentazione tecnica e analisi”. 13. Quanto alla normativa interna, rilevano, in primo luogo, le disposizioni di cui al D.lgs. 163/2006, con il quale è stata recepita nell’ordinamento italiano la direttiva 2004/18/CE. In particolare: CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 79 14. L’art. 2, comma 1, stabilisce che: “1. L’affidamento e l’esecuzione di opere e lavori pubblici, servizi e forniture, ai sensi del presente codice, deve garantire la qualità delle prestazioni e svolgersi nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza; l’affidamento deve altresì rispettare i principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, nonché quello di pubblicità con le modalità indicate nel presente codice”. 15. L’art. 3, commi 6 e 10, stabilisce che: “6. Gli «appalti pubblici» sono i contratti a titolo oneroso, stipulati per iscritto tra una stazione appaltante o un ente aggiudicatore e uno o più operatori economici, aventi per oggetto l’esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti, la prestazione di servizi come definiti dal presente codice” (...) 10. Gli «appalti pubblici di servizi» sono appalti pubblici diversi dagli appalti pubblici di lavori o di forniture, aventi per oggetto la prestazione dei servizi di cui all'allegato II”. 16. L’art. 3, comma 22, recita: “Il termine comprende l’imprenditore, il fornitore e il prestatore di servizi ...”. 17. L’art. 20, comma 2, stabilisce che: “Gli appalti di servizi elencati nell’allegato II A sono soggetti alle disposizioni del presente codice”. 18. L’allegato II A, che elenca i servizi di cui all’art. 20, alle categorie 8 e 12 individua i seguenti servizi: “8. Servizi di ricerca e sviluppo. 12. Servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria, anche integrata; servizi attinenti all’urbanistica e alla paesaggistica; servizi affini di consulenza scientifica e tecnica; servizi di sperimentazione tecnica e analisi”. 19. Rilevano poi alcune norme che disciplinano le Università; in particolare: l’art. 6, comma 4, della legge n. 168/1989 stabilisce che “Le Università sono sedi primarie della ricerca scientifica ...”. 20. L’art. 66 del D.P.R. 382/1980 stabilisce che: “Le Università, purché non vi osti lo svolgimento della loro funzione scientifica didattica, possono eseguire attività di ricerca e consulenza stabilite mediante contratti e convenzioni con enti pubblici e privati. L'esecuzione di tali contratti e convenzioni sarà affidata, di norma, ai dipartimenti o, qualora questi non siano costituiti, agli istituti o alle cliniche universitarie o a singoli docenti a tempo pieno”. 21. Ai sensi dell’art. 2 comma 12 bis del Decreto Legge n. 39 del 28 aprile 2009, convertito in Legge, “I comuni di cui all’ articolo 1, comma 2 [trattasi dei Comuni interessati dagli eventi sismici del 6 aprile 2009], predi- 80 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 spongono, d’intesa con il presidente della regione Abruzzo - Commissario delegato ai sensi dell’ articolo 4, comma 2, sentito il presidente della provincia, e d’intesa con quest’ultimo nelle materie di sua competenza, la ripianificazione del territorio comunale definendo le linee di indirizzo strategico per assicurarne la ripresa socio-economica, la riqualificazione dell’abitato e garantendo un’armonica ricostituzione del tessuto urbano abitativo e produttivo, tenendo anche conto degli insediamenti abitativi realizzati ai sensi del comma 1”. 22. Rileva, infine, l’art. 15 della legge 241/1990, ai sensi del quale: “1. ... le amministrazioni pubbliche possono sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune”. 23. Il TAR Abruzzo, dopo aver ripercorso la normativa nazionale rilevante, ha rammentato che il tema della cooperazione pubblico - pubblico ha costituito oggetto della Risoluzione del Parlamento Europeo 18 maggio 2010 sui nuovi sviluppi in materia di appalti pubblici, nella quale è stato posto l’accento sulla possibilità accordata alle autorità pubbliche dalla più recente giurisprudenza comunitaria di ricorrere ai propri strumenti per adempiere alle proprie missioni di diritto pubblico, anche in collaborazione con altre autorità pubbliche, e nella quale è stato sottolineato, sulla scorta in particolare della sentenza della Corte del 9 giugno 2009 nella causa C-480/06, Commissione c. Germania, come i partenariati pubblico - pubblico (così come gli accordi di collaborazione tra autorità locali) non rientrino nel campo di applicazione delle direttive sugli appalti pubblici purché siano soddisfatti i seguenti criteri: - lo scopo dell’accordo deve essere l’esecuzione di un compito di servizio pubblico spettante a tutte le autorità coinvolte; - il compito deve essere svolto esclusivamente dalle autorità pubbliche, senza la partecipazione di soggetti privati; - l’attività deve essere espletata essenzialmente per le autorità pubbliche coinvolte. 24. Ritiene, quindi, il TAR Abruzzo che l’accordo tra i Comuni e le Università, di cui al giudizio principale, soddisfi i suddetti criteri in quanto: 1) l’accordo soddisfa un interesse comune alle parti, secondo la normativa nazionale ed i compiti istituzionalmente attribuiti alle Università, considerata anche la possibilità di diffusione dei risultati conseguiti nel mondo scientifico; 2) non è prevista alcuna partecipazione di soggetti privati; 3) l’Università non ha carattere commerciale e l’attività di studio e ricerca, anche applicata, rientrante nell’oggetto della convenzione, è tra quelle che possono essere svolte in base alla disciplina nazionale. 25. Il giudice di rinvio, tuttavia, considerate le disposizioni di cui agli artt. 1, n. 2, lett. a), 2, 28 e allegato II, categorie 8 e 12 della direttiva 2004/18/CE, dubita che il ricorso al partenariato pubblico - pubblico possa violare i principi della concorrenza quando l’Amministrazione con cui sia concluso CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 81 l’accordo possa rivestire al tempo stesso la qualità di operatore economico, come nel caso delle Università, alla luce della sentenza di codesta Corte di Giustizia 23 dicembre 2009, causa C-305/08, CoNISMa. 26. Non vale a fugare il suddetto dubbio, secondo il giudice di rinvio, la fissazione di un corrispettivo che non consenta di realizzare un sostanziale profitto in capo all’aggiudicatario, posto che ciò non comporta la gratuità dell’accordo, che rimane a titolo oneroso. 27. Le prestazioni di rilevazione e ricerca tecniche e scientifiche, sebbene possono rientrare tra quelle eseguibili istituzionalmente dalle Università, a prescindere dalla proprietà dei risultati, quando ne sia regolata la diffusione in sede scientifica da parte dell’amministrazione committente, non sarebbero da considerarsi con certezza estranee all’ambito dei servizi indicati nelle categorie nn. 8 e 12 dell’allegato II alla Direttiva 2004/18/CE. 28. Infine, il giudice remittente ha ricordato che analoga questione è stata rimessa alla Corte di Giustizia dal Consiglio di Stato italiano, il quale ha ritenuto che “il ricorso al partenariato pubblico-privato possa profilare il pericolo di contrasto con i principi di concorrenza quando l’amministrazione con cui sia deciso un accordo di collaborazione rivesta la qualità di operatore economico” (causa C-159/11, Azienda Sanitaria Locale di Lecce (*)). OSSERVAZIONI DEL GOVERNO ITALIANO 29. Ad avviso del Governo italiano la risposta al quesito posto dal giudice di rinvio può agevolmente essere fornita alla luce della giurisprudenza di codesta Corte. 30. Ripercorrendone brevemente i passaggi fondamentali si rammenta che, nella sentenza Coditel Brabant, è stato riconosciuto che un’autorità pubblica può adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa affidati mediante i propri strumenti, senza essere costretta a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi; detta possibilità può essere utilizzata anche in collaborazione con altre autorità pubbliche (punti 48 e 49). 31. Le condizioni in presenza delle quali tali accordi tra autorità pubbliche non contrastano con i principi comunitari a tutela della concorrenza, come individuate nella sentenza 9 giugno 2009, Commissione c. Germania e richiamate nella Risoluzione del Parlamento Europeo 18 maggio 2010, sono le seguenti: a) lo scopo dell’accordo è esclusivamente il perseguimento di obiettivi di interesse pubblico comuni alle autorità interessate; b) il compito è svolto esclusivamente dalle autorità pubbliche, senza la (*) Sul punto, in questa Rass., GIUSEPPE FIENGO, Le regole europee in materia di appalti pubblici: nulla di nuovo dalla Corte con la sentenza 19 dicembre 2012, C-159/11 ( ... ?), p. 23 ss. 82 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 partecipazione di soggetti privati; c) l’attività è espletata essenzialmente per le autorità pubbliche coinvolte; d) la collaborazione tra le amministrazioni non è una costruzione di puro artificio diretta ad eludere le norme in materia di appalti pubblici; e) tutte le strutture pubbliche partecipano attivamente allo svolgimento dei compiti, con conseguente suddivisione anche delle responsabilità; f) gli unici movimenti finanziari ammessi sono quelli corrispondenti al rimborso delle spese effettivamente sostenute. 31. Il giudice di rinvio esamina, poi la peculiarità dell’oggetto delle due convenzioni, affermando che le prestazioni in esame sono oggettivamente connesse all’esigenza, corrispondente a uno specifico interesse pubblico, di ridefinire il contesto urbanistico ed edilizio compromesso dal sisma del 2009, con modalità, in buona parte, innovative, tenuto conto dell’ampiezza e complessità degli interventi da realizzare (pag. 20 dell’ordinanza). 32. Il primo dubbio che solleva la giurisdizione di rinvio attiene alla possibile contrarietà ai principi comunitari in materia di concorrenza di un accordo concluso tra due amministrazioni pubbliche, qualora una delle amministrazioni coinvolte possa rivestire in astratto la qualifica di “operatore economico”; e ciò nonostante l’accordo in parola abbia le caratteristiche di legittimità comunitaria individuate da codesta Corte. 33. Il dubbio sollevato dal TAR Abruzzo si fonda sulla decisione assunta da codesta Corte nella sentenza CoNISMa, nella quale è stato riconosciuto espressamente che le Università possano rivestire la qualifica di operatore economico e, come tali, rientrare nel campo di applicazione della direttiva 2004/18/CE. 34. Ritiene il giudice remittente che equiparando le Università tout court ad operatori economici si dovrebbe ammettere che le stesse, quando offrano servizi sul mercato, debbano concorrere con tutti gli altri operatori economici interessati in un procedimento concorsuale, pena l’elusione della normativa comunitaria in tema di evidenza pubblica, nonostante il perseguimento di interessi pubblici comuni (cfr. pag. 19, punto V.3) dell’ordinanza). 35. Ad avviso del Governo Italiano è proprio alla luce dei principi affermati nella sentenza da ultimo citata che occorre dare al quesito proposto dal giudice di rinvio risposta negativa. 36. Richiamandone i passaggi fondamentali, va rammentato che codesta Corte ha, in quella sede, rammentato che l’art. 1, n. 8, primo e secondo comma della Direttiva, riconoscono la qualità di “operatore economico” non solo ad ogni persona fisica o giuridica, ma anche, in modo esplicito, ad ogni “ente pubblico” che offra servizi sul mercato; la nozione di “ente pubblico” può includere anche organismi che non perseguono un preminente scopo di lucro, che non hanno una struttura d’impresa e che non assicurano una presenza continua sul mercato (punto 30). CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 83 37. È stato, poi, richiamato l’art. 4 della medesima direttiva, che vieta agli Stati membri di fare alcuna distinzione tra i candidati alle gare pubbliche d’appalto a seconda che siano persone fisiche o giuridiche e che abbiano uno status di diritto pubblico o privato (punto 31). 38. Codesta Corte ha poi richiamato la propria giurisprudenza ed in particolare le pronunce nelle quali, nell’ottica della apertura degli appalti pubblici alla concorrenza nella misura più ampia possibile, è stato affermato che la normativa comunitaria in materia di appalti si applica anche qualora il soggetto con cui un’amministrazione aggiudicatrice intenda concludere un contratto a titolo oneroso sia, a sua volta, un’altra amministrazione aggiudicatrice, che, ai sensi dell’art. 1, n. 9, della Direttiva è un ente che soddisfa una funzione di interesse generale, avente carattere non industriale e non commerciale e che, quindi, non esercita a titolo principale un’attività lucrativa sul mercato (punto 38). 39. Da tali principi codesta Corte ha desunto la conclusione secondo cui può partecipare alle gare d’appalto, rivestendo quindi la qualifica di “operatore economico”, qualsiasi soggetto che, secondo i requisiti indicati nel bando di gara, si reputi idoneo a garantirne l’esecuzione, in modo diretto o ricorrendo al subappalto e ciò indipendentemente dal fatto di essere un soggetto pubblico o privato e di essere attivo sul mercato in modo sistematico o occasionale e di essere o meno sovvenzionato con fondi pubblici (punto 42). 40. La conclusione cui è pervenuta codesta Corte nella citata pronuncia costituisce espressione ed applicazione del principio dell’indifferenza delle forme giuridiche, in virtù del quale, al fine di stabilire se un soggetto rientri o meno nel campo di applicazione di una certa disciplina, non rileva la forma giuridica dallo stesso rivestita, ma solo la verifica delle modalità con le quali la sua attività si atteggia in quel contesto. 41. Di qui l’ulteriore conseguenza che esistono dei soggetti giuridici, in particolare gli “enti pubblici”, che possono, di volta in volta, rivestire diverse qualifiche. 42. Gli stessi, infatti, ai sensi dell’art. 1, n. 9, della direttiva, in quanto deputati al perseguimento di un interesse generale, avente carattere non industriale o commerciale, rientrano nella definizione di “amministrazioni aggiudicatrici”. 43. Tuttavia, quando occasionalmente offrono servizi sul mercato, indipendentemente dal fatto che non possiedono un’organizzazione imprenditoriale, non perseguono uno scopo di lucro e sono sovvenzionati con fondi pubblici, possono rivestire anche la qualifica di “operatore economico” ai sensi dell’art. 1, n. 8, della Direttiva. 44. E ciò evidentemente vale per tutti gli “enti pubblici”- essendo i riportati principi stati affermati con carattere di generalità - e non solo per le Università; quindi ogni “ente pubblico” che sia in grado di fornire servizi sul mercato può rivestire la qualifica di “operatore economico”. 84 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 45. Ma gli “enti pubblici” sono, evidentemente, anche soggetti che, in quanto istituzionalmente deputati al perseguimento di un interesse di carattere generale, possono, secondo i principi affermato nelle sentenze Coditel Brabant e Commissione c. Germania citate, stipulare accordi di partenariato pubblico - pubblico per l’adempimento in collaborazione delle loro funzioni, appunto, di interesse pubblico. 46. È allora chiaro che, se l’astratta possibilità di rivestire la qualifica di “operatore economico” precludesse la possibilità di partecipare ad un accordo quale quelli di cui si discute (e di cui alla causa principale), il campo operativo del partenariato pubblico - pubblico sostanzialmente si azzererebbe. 47. Ed infatti, se così fosse, il dubbio sollevato dal giudice di rinvio riguardo alle Università potrebbe sorgere il relazione a qualunque “ente pubblico” tra le cui funzioni istituzionali rientri lo svolgimento di servizi che, occasionalmente, possano essere offerti sul mercato. 48. È evidente, al contrario, che un “ente pubblico” non cessa di essere tale per il solo fatto di potere rivestire anche la qualifica di “operatore economico” e non può, di conseguenza, perdere la possibilità di stipulare accordi con un'altra pubblica amministrazione per lo svolgimento coordinato di un’attività di interesse comune. 49. Il medesimo soggetto può, infatti, avere distinti campi di attività, agendo in ognuno di essi nel rispetto delle regole proprie di quel settore. 50. È da ritenere, pertanto, che la legittimità di un accordo quale quello di cui alla causa principale dipenda esclusivamente dalla ricorrenza dei requisiti individuati dalla giurisprudenza di codesta Corte, tra i quali non rientra quello, soggettivo, di non poter rivestire, in astratto, la qualifica di “operatore economico”. 51. Una diversa soluzione sarebbe, evidentemente, contraria al principio di indifferenza delle forme giuridiche, che non può ovviamente valere in senso unidirezionale: se la natura di “ente pubblico” non esclude che, occasionalmente, il medesimo soggetto possa rivestire la qualifica di “operatore economico”, tale ultima possibilità non può privare un “ente pubblico” delle prerogative che gli sono proprie. 52. Tale conclusione non è inficiata dagli ulteriori profili sollevati dal giudice di rinvio. 53. Rileva lo stesso che, nel caso di specie, era stato previsto, a favore dell’Università, un corrispettivo idoneo a costituire per l’Università un sostanziale profitto, osservando, tuttavia, che l’assenza di profitto non vale a conferire all’accordo carattere di gratuità. 54. Ma, come ricordato al punto 31 del presente intervento, codesta Corte non richiede, quale requisito di legittimità degli accordi in esame, che gli stessi rivestano carattere di gratuità, bensì che non vi siano tra le parti movimenti finanziari diversi da quelli corrispondenti al rimborso degli CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 85 oneri (sentenza Commissione c. Germania, punto 43). 55. Dunque, anche il requisito di cui alla lettera f) del punto 31 risulta rispettato. 56. L’ultimo profilo problematico sollevato dal giudice di rinvio riguarda il fatto che le prestazioni di rilevazioni e di ricerca tecniche e scientifiche oggetto dell’accordo rispondono a finalità dettate da una normativa speciale post-emergenziale, espressamente richiamate nelle convenzioni e poste a fondamento della scelta del soggetto pubblico affidatario dell’incarico, a fronte di un interesse scientifico di quest’ultimo, avente ad oggetto l’approfondimento delle problematiche sottese alla pianificazione e ricostruzione post-sisma. 57. In altre parole, il giudice di rinvio pare porsi il problema della legittimità di un accordo, quale quello di cui alla causa principale, che realizzi un sostanziale affidamento diretto, in deroga alla normativa sugli appalti pubblici, in quanto giustificato dalle peculiarità dell’oggetto dell’accordo stesso. 58. La seconda circostanza che il giudice di rinvio considera rilevante è la previsione normativa di cui all’art. 2 co.12 bis del D.L. 39/2009 (cfr. sopra, al punto) che obbliga i Comuni delle zone danneggiate dal sisma a provvedere alla ri-pianificazione urbanistica, prevedendo che le relative attività sono svolte in collaborazione con i diversi soggetti pubblici e privati che sono coinvolti nei processi propri della ricostruzione (ordinanza, pag. 22). 59. Osserva il giudice remittente che la convenzione “istituisce una cooperazione scientifica tra enti pubblici finalizzata a garantire l’adempimento di una funzione di servizio pubblico di interesse comune” e che la scelta dell’Università quale soggetto affidatario è giustificata nell’atto deliberativo precisando che “la pianificazione di interventi sul territorio, soprattutto di scala sovracomunale, sia finalizzata ad uno sviluppo sostenibile, coeso ed intelligente di tutto il comprensorio e che la visione globale di una Università qualificata può offrire opportunità tecniche e specialistiche esclusivamente nell’interesse collettivo”(pag. 24 dell’ordinanza). 60. Le finalità perseguite dall’Università comprendono inoltre l’interesse per la “ straordinaria unicità delle attività da svolgere, impregnate tra l’altro di ricerca scientifica applicata”, ovvero, ad avviso del giudice del rinvio, uno “ specifico interesse scientifico che [con] la messa a gara delle attività in questione potrebbe risultare insoddisfatto”. 61. Tuttavia, una volta ritenuto che la qualità soggettiva dell’affidatario è compatibile con la nozione di partenariato pubblico-pubblico secondo i requisiti individuati dalla giurisprudenza di codesta Corte (v. al punto 50 del presente atto), le peculiarità dell’oggetto della prestazione acquistano un rilievo secondario e assorbito nella prima questione. 62. Ai punti 59 e 60 si è comunque dato conto di come, nella fattispecie concreta, il perseguimento di un interesse pubblico comune alle parti debba dirsi sussistente. 86 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 63. Rispetto ai requisiti di legittimità comunitaria di un accordo pubblicopubblico, infine, il requisito della peculiarità dell’oggetto non può considerarsi rilevante in via autonoma, ma esclusivamente qualora si tratti di verificare se lo stesso caratterizzi o meno un obiettivo di interesse pubblico comune alle parti (cfr. al punto 31 lett. a) del presente atto). CONCLUSIONI 64. In conclusione, il Governo italiano suggerisce alla Corte di rispondere ai quesiti sottoposti al suo esame nel seguente modo: a) Le disposizioni della Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 31 marzo 2004 n. 2004/18/Ce relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi ed in particolare l’articolo 1, n. 2 lettere a) e d), l’art. 2, l’articolo 28 e l’allegato II categorie n. 8 e n. 12 non ostano ad una disciplina nazionale che consente la stipulazione di accordi in forma scritta tra due amministrazioni aggiudicatrici per l’attività di supporto ai Comuni relative allo studio, all’analisi e al progetto per la ricostruzione dei centri storici del comune di Barisciano e Castelvecchio Subequo,come meglio specificate nel capitolato tecnico allegato alla convenzione e come individuati dalla normativa nazionale e regionale di settore, verso un corrispettivo la cui non rimuneratività non è manifesta, ove l’amministrazione esecutrice possa rivestire la qualità di operatore economico”; b) “Le disposizioni della Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 31 marzo 2004 n. 2004/18/Ce relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi ed in particolare l’articolo 1, n. 2 lettere a) e d), l’art. 2, l’articolo 28 e l’allegato II categorie n. 8 e n. 12 non ostano ad una disciplina nazionale che consente la stipulazione di accordi in forma scritta tra due amministrazioni aggiudicatrici per l’attività di supporto ai Comuni relative allo studio,all’analisi e al progetto per la ricostruzione dei centri storici del comune di Barisciano e Castelvecchio Subequo, come meglio specificate nel capitolato tecnico allegato alla convenzione e come individuati dalla normativa nazionale e regionale di settore, verso un corrispettivo la cui non rimuneratività non è manifesta, ove l’affidamento sia espressamente motivato alla stregua di normative primarie e secondarie post-emergenziali e tenuto conto degli esplicitati specifici interessi pubblici” . Roma, 5 novembre 2012 Barbara Tidore Avvocato dello Stato CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 87 Osservazioni del Governo della Repubblica italiana (avv. Stato Cristina Gerardis, AL 35843/12) nella causa C-361/12 promossa, ai sensi dell'art. 267 TFUE dal Tribunale di Napoli - Sezione Lavoro con ordinanza depositata il 18 giugno 2012. Materia: Disposizioni sociali Ravvicinamento delle legislazioni LA QUESTIONE PREGIUDIZIALE 1. Con ordinanza del 18 giugno 2012, il Tribunale di Napoli, Sezione Lavoro ha sollevato una questione pregiudiziale ai sensi dell'art. 267, TFUE. 2. La questione sottoposta all'esame della Corte si conclude con i seguenti quesiti: 1) Se sia contraria al principio di equivalenza una disposizione di diritto interno che, nella applicazione della direttiva 1999/70/Ce preveda conseguenze economiche, in ipotesi di illegittima sospensione nella esecuzione del contratto di lavoro, con clausola appositiva del termine nulla, diverse e sensibilmente inferiori rispetto [alle] ipotesi di illegittima sospensione nella esecuzione del contratto di diritto civile, comune, con clausola appositiva del termine nulla; 2) Se sia conforme all'Ordinamento europeo che, nell'ambito di sua applicazione, la effettività di una sanzione avvantaggi il datore di lavoro abusante, a danno del lavoratore abusato, di modo che la durata temporale, anche fisiologica, del processo danneggi direttamente il lavoratore a vantaggio del datore di lavoro e che l'efficacia ripristinatoria sia proporzionalmente ridotta all'aumentare della durata del processo, sin quasi ad annullarsi; 3) Se, nell'ambito di applicazione dell'Ordinamento europeo ai sensi dell'art. 51 della Carta di Nizza, sia conforme all'art. 47 della Carta ed all'art. 6 CEDU che la durata temporale, anche fisiologica, del processo danneggi direttamente il lavoratore a vantaggio del datore di lavoro e che l'efficacia ripristinatoria sia proporzionalmente ridotta all'ammontare della durata del processo, sin quasi ad annullarsi; 4) Se, tenuto conto delle esplicazioni di cui all'art. 3, comma 1, lett. c, della direttiva 2000/78/Ce ed all’art. 14, comma 1, lett. c, della Direttiva 2006/54/Ce nella nozione di condizioni di impiego di cui alla Clausola 4 della direttiva 1999/70/Ce siano comprese anche le conseguenze della illegittima interruzione del rapporto di lavoro; 5) In ipotesi di risposta positiva al quesito che precede, se la diversità tra le conseguenze ordinariamente previste nell'Ordinamento interno per la illegittima interruzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato ed a tempo determinato siano giustificabili ai sensi della clausola 4; 88 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 6) Se i principi generali del vigente diritto comunitario della certezza del diritto, della tutela del legittimo affidamento, della uguaglianza delle armi del processo, dell'effettiva tutela giurisdizionale, [del diritto] a un tribunale indipendente e, più in generale, a un equo processo, garantiti dall'art. 6, n. 2, del Trattato sull'Unione europea (così come modificato dall'art. 1.8 del Trattato di Lisbona e al quale fa rinvio l'art. 46 del Trattato sull'Unione) - in combinato disposto con l'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e con gli artt. 46, 47 e 52, n. 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, come recepiti dal Trattato di Lisbona - debbano essere interpretati nel senso di ostare all'emanazione da parte dello Stato italiano, dopo un arco temporale apprezzabile (9 anni) di una disposizione normativa, quale il comma dell'art. 32 della legge n. 183/10 alteri le conseguenze dei processi in corso danneggiando direttamente il lavoratore a vantaggio del datore di lavoro e che l'efficacia ripristinatoria sia proporzionalmente ridotta all'aumentare della durata del processo, sin quasi ad annullarsi; 7) E, ove la Corte di Giustizia non dovesse riconoscere ai principi esposti la valenza di principi fondamentali dell'Ordinamento dell'Unione europea ai fini di una loro applicazione orizzontale e generalizzata e quindi la sola una contrarietà di una disposizione, quale l’art. 32, commi da 5 a 7, della legge n. 183/10 agli obblighi di cui alla direttiva 1999/70/Ce e della Carta di Nizza se una società, quale la convenuta, avente le caratteristiche di cui ai punti da 55 a 61 debba ritenersi organismo statale, al fini della diretta applicazione verticale ascendente del diritto europeo ed in particolare della clausola 4 della direttiva 1999/70/Ce e della Carta di Nizza. I FATTI E LA CONTROVERSIA NELLA CAUSA PRINCIPALE 3. Tale domanda di pronuncia pregiudiziale è stata presentata nell'ambito di una causa promossa dalla ricorrente C.C. nei confronti della società Poste Italiane S.p.a.. In particolare la stessa ha esposto: - di essere stata assunta dalla convenuta con contratto a tempo determinato per il periodo dal 4 giugno 2004 al 15 settembre 2004 presso il Polo Corrispondenza Campania CMP di Napoli, con mansioni di "addetta CMP Junior"; - che il contratto, firmato dalla sola istante, le era stato restituito con la sottoscrizione della convenuta solo il 15 giugno 2004; - che la apposizione del termine era stata giustificata ai sensi dell'art. 1 del D.Lgs. n. 368/2001 per ragioni di carattere sostitutivo correlate alla specifica esigenza di provvedere alla sostituzione del personale CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 89 addetto al C.M.P. Napoli, del Polo Corrispondenza Campania assente nel periodo dal 1° giugno 2004 al 15 settembre 2004. Resta inteso che il rapporto di lavoro si estinguerà, anche anticipatamente rispetto al termine del 15 settembre 2004, ove le esigenze di sostituzione dovessero venir meno per il rientro in servizio del personale assente; - che le esigenze di personale erano permanenti e durevoli perché dirette a sopperire a croniche carenze di organico, per come comprovato dalle ulteriori costanti assunzioni a termine; - che solo nel mese di agosto, quando iniziava il periodo feriale, l'attività produttiva registrava una sensibile diminuzione; - che aveva goduto di ferie proprio mentre gli altri dipendenti erano assenti per ferie; - che il 21 settembre 2004, con raccomandata, aveva offerto le proprie energie lavorative; - che l'approvazione del termine era priva di effetto perché il contratto era stato consegnato solo il 15 giugno 2004 e firmato dalla convenuta solo in tale data; - che la clausola relativa al termine era stata illegittimamente apposta, perché al di fuori dalle ipotesi di cui al D.Lgs. n. 368/01 ed, in particolare, non era indicato il tipo specifico di ragioni sostitutive, i lavoratori da sostiuire, la durata della assenza; - che le ragioni erano insussistenti, perché aveva lavorato in aggiunta ai lavoratori a tempo indeterminato; - che quindi l'allontanamento del ricorrente dal posto di lavoro era ingiustificato, con diritto del ricorrente al pagamento delle retribuzioni infratemporalmente maturate, con regolarizzazione della sua posizione contributiva e previdenziale. 4. Tanto premesso ha chiesto la dichiarazione di illegittimità della apposizione del termine al contratto a tempo determinato e della natura a tempo indeterminato del rapporto, con condanna della convenuta alla sua reintegrazione nel posto di lavoro ed al pagamento delle retribuzioni medio tempore maturate. LA NORMATIVA NAZIONALE OGGETTO DELLA QUESTIONE 5. Il Giudice remittente osserva che - essendo il diritto del lavoro un «settore » del diritto civile, alla fattispecie di illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro ed alle sue conseguenze in relazione agli obblighi del datore "abusante" a favore del lavoratore "abusato" era applicabile la normativa civilistica di cui agli artt. 1206 e 1207 c.c.: era cioè obbligato a versare al lavoratore a titolo di risarcimento del danno per avere illegittimamente apposto il termine al contratto l'equivalente delle retribuzioni che sarebbero state corrisposte al lavoratore dal momento in 90 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 cui questi ha messo a disposizione del datore la propria forza lavoro, senza che questi ne abbia usufruito (mora credendi). 6. Era obbligato in quanto l'attuale disciplina della fattispecie de qua non è più quella del diritto comune, bensì quella reperibile nell'art. 32 commi 5, 6 e 7 del cd. Collegato Lavoro (Legge 183/2010) che stabiliscono: 5 - Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilita dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell' articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604. 6 - In presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l'assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell'ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell'indennità fissata dal comma 5 è ridotto alla metà. 7 - Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti il termine per l'eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell'articolo 42 del codice di procedura civile. 7. Inoltre, ii medesimo art. 32 prevede per l'impugnazione del contratto a termine lo stesso termine decadenziale di 60 giorni previsto per il licenziamento (combinato disposto dei commi 1 e 4a). OSSERVAZIONI DEL GOVERNO ITALIANO Sul primo quesito 8. La direttiva n. 1999/70/CE, invocata dal giudice rimettente e di cui il D.Lgs. n. 368/01 costituisce attuazione, recepisce l'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato. 9. L'obiettivo di tale accordo (clausola 1) è «a) migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione; b) creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato». 10. II Giudice remittente si pone il problema di compatibilità con il diritto dell'Unione di una disposizione come quella citata (art. 32 commi 5 e 6 del Collegato Lavoro) che prevede una sorta di penale "ex lege" a carico del datore di lavoro che ha apposto il termine nullo; pertanto, l'importo dell'indennita è liquidato dal giudice, nei limiti e con i criteri fissati dalla CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 91 novella, a prescindere dall'intervenuta costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova di un danno effettivamente subito dal lavoratore (senza riguardo, quindi, per l'eventuale “aliunde perceptum”), trattandosi di indennità “forfetizzata" e "onnicomprensiva" per i danni causati dalla nullità del termine nel periodo cosiddetto "intermedio" (dalla scadenza del termine alla sentenza di conversione) (così Cass. Sez. lavoro, sent. n. 3056 del 29 febbraio 2012). 11. In altri termini, secondo il Tribunale di Napoli, potrebbe prefigurarsi una violazione del principio di non discriminazione del lavoratore a tempo determinato (in caso di illegittima apposizione del termine) poiché la nuova disciplina succitata, anziché prevedere l'applicabilità del diritto comune (cui sopra s'è fatto cenno) stabilisce in via automatica e forfetizzata l'indennizzo a cui ha diritto il lavoratore, da aggiungersi - ovviamente - alla conversione del contratto (per nullità dell'apposizione del termine). 12. L'ordinanza del giudice remittente - per sostenere la propria tesi di incompatibilità - si dilunga in una critica alla interpretazione adeguatrice offerta dalla Corte costituzionale con sentenza n. 303 del 2011. Deve infatti rammentarsi che la Consulta era stata investita della questione (sostanzialmente identica a quella oggetto del presente giudizio, con la sola differenza che il parametro era norme costituzionali interne) della illegittimità dei citati commi del ripetuto art. 32, essendo il nuovo sistema ritenuto irragionevolmente riduttivo del risarcimento del danno integrale già conseguibile dal lavoratore sotto il regime previgente. 13. Questa Difesa non può esimersi dal citare testualmente l'autorevole arresto della Corte Costituzionale, alla cui opzione ermeneutica certamente deve farsi riferimento per contestare decisamente il dubbio di compatibilità con l'ordinamento comunitario sollevato dal Tribunale di Napoli. 14. La Corte Costituzionale, nel ritenere infondate le questioni sollevate, ha - tra l'altro - cosi argomentato: il dubbio posto dai giudici rimettenti s'incentra sulla violazione dell'art. 3, secondo comma, Cost., sotto il profilo dell'irragionevolezza del trattamento indennitario forfetizzato, introdotto della riforma in oggetto, rispetto al più sostanzioso risarcimento che sarebbe stato assicurato dal "diritto vivente" ricavato dalla normative generate di diritto comune. La disciplina dettata dall'art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge n.183 del 2010 prende spunto dalle obiettive incertezze verificatesi nell'esperienza applicativa dei criteri di commisurazione del danno secondo la legislazione previgente, con l'esito di risarcimenti ingiustificatamente differenziati in misura eccessiva. Tre le variabili più evideni registratesi nella prassi, tutte pienamente consentite dal regime pregresso, basta citare l'identificazione del dies a quo del diritto al risarcimento del danno, a volte desunto da elementi formali od espliciti, ma più spesso ricavato da comportamenti concludenti, e la determinazione 92 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 dell'aliunde perceptum da porre in detrazione dal pregiudizio concretamente risarcibile, talora esteso al percipiendum, ossia al guadagno che sarebbe lecito attendersi dal lavoratore diligentemente attivatosi nella ricerca di un nuovo posto di lavoro, con diversificate forme di utilizzazione, al riguardo, del ragionamento presuntivo. È in tale contesto, quindi, che deve inserirsi la novella in esame, diretta ad introdurre un criterio di liquidazione del danno di più agevole, certa ed omogenea applicazione. Così ricostruita la ratio legis, la normativa di riforma sfugge alle proposte censure di non ragionevolezza. In termini generali, la norma scrutinata non si limita a forfetizzare il risarcimento del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine, ma, innanzitutto, assicura a quest'ultimo l'instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Difatti, l'indennità prevista dall'art. 22, commi a e 6, della legge n. 183 del 2010 va chiaramente ad integrare la garanzia della conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato. E la stabilizzazione del rapporto è la protezione più intensa che possa essere riconosciuta ad un lavoratore precario. Non a caso, dall'esame dei lavori preparatori si desume che la disposizione di cui all’art. 32, comma 5, dell'anzidetta legge dev'essere correttamente letta come riferita alla conversione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato e che, conseguentemente, la previsione della condanna al risarcimento del danno in favore del lavoratore dev'essere intesa «come aggiuntiva e non sostitutiva della suddetta conversione » (ordine del giorno G/1167-B/7/1-11 accolto al Senato della Repubblica innanzi alle commissioni I e XI riunite nella seduta del 2 marzo 2010). D'altro canto, ancorché nell'ipotesi di licenziamento ingiustificatamente intimato in regime di tutela obbligatoria, il rimedio indennitario apprestato dall'art. 8 della Legge n. 604 del 1966, anche in mancanza della riassunzione, ha più volte passato indenne il vaglio di questa Corte (sentenze n. 46 del 2000, n. 44 del 1996 e n. 194 del 1970). Quanto poi alla denunziata insufficienza del trattamento forfettario previsto dalle disposizioni censurate, la Corte di cassazione rimettente ritiene che l'indennità onnicomprensiva prevista dall'art. 32, commi 5 e 6, della legge citata, non ipotizzabile come aggiuntiva al risarcimento dovuto secondo le regole di diritto comune, assorba l’intero pregiudizio subìto dal lavoratore a causa dell'illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro, dal giorno dell'interruzione del rapporto fino al momento dell'effettiva riammissione in servizio. Donde l'effetto a suo avviso perverso di indurre il datore a persistere nell'inadempimento, anche sottraendosi all'esecuzione della condanna, non suscettibile di esecuzione in forma specifica, con indefinita dilatazione del danno ed abnorme sproporzione dell'indennità rispetto ad esso. Un'interpretazione costituzio- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 93 nalmente orientata della novella, però, induce a ritenere che il danno forfettizzato dall'indennità in esame copre soltanto il periodo cosiddetto "intermedio", quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto. A partire dalla sentenza con cui il giudice, rilevato il vizio della pattuizione del termine, converte il contratto di lavoro che prevedeva una scadenza in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, è da ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva. Diversamente opinando, la tutela fondamentale della conversione del rapporto in lavoro a tempo indeterminato sarebbe completamente svuotata. Se, infatti, il datore di lavoro, anche dopo l'accertamento giudiziale del rapporto a tempo indeterminato, potesse limitarsi al versamento di una somma compresa tra 2,5 e 12 mensilita di retribuzione, non subirebbe alcun deterrente idoneo ad indurlo a riprendere il prestatore a lavorare con sé. E lo stesso riconoscimento della durata indeterminata del rapporto da parte del giudice sarebbe posto nel nulla. Così intesa la norma censurata, cade l'ipotesi di paventata sproporzione dell'indennita di cui all'art. 32, commi 5 e 6, della legge citata, rispetto alla denunziata esigenza di ristoro di in danno destinato a crescere con il decorso del tempo, sino ad attingere valori non esattamente prevedibili. E ciò, in primo luogo, perché il legislatore ha pure introdotto sub art. 32, commi 1 e 3, della legge n. 183 del 2010 un termine di complessivi trecentotrenta giorni per l'esercizio, a pena di decadenza, dell'azione di accertamento della nullità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro, fissandone la decorrenza dalla data di scadenza del medesimo. Con l'effetto di approssimare l'indennita in discorso al danno potenzialmente sofferto a decorrere dalla messa in mora del datore di lavoro sino alla sentenza, avuto, altresì, riguardo ai principi informatori del processo del lavoro intesi ad accelerarne la definizione. In secondo luogo, perché il nuovo regime risarcitorio non ammette la detrazione dell'aliunde perceptum. Sicché, l'indennità onnicomprensiva assume una chiara valenza sanzionatoria. Essa è dovuta in ogni caso, al limite anche in mancanza di danno, per avere il lavoratore prontamente reperito un'altra occupazione. Con la conseguenza che la disciplina in esame, confrontata con quella previgente, risulta, sotto tale profilo, certamente più favorevole al lavoratore. Peraltro, questa Corte ha affermato a più riprese che «la regola generale di integralità della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale» (sentenza n. 148 del 1999), purché sia garantita l'adeguatezza del risarcimento (sentenze n. 199 del 2005 e n. 420 del 1991). Tale condizione nella specie ricorre, 94 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 tanto più ove si consideri che, nella specie, non v'è stata medio tempore alcuna prestazione lavorativa. In definitiva, la normativa impugnata risulta, nell'insieme, adeguata a realizzare un equilibrato componimento dei contrapposti interessi. Al lavoratore garantisce la conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, unitamente ad un'indennità che gli è dovuta sempre e comunque, senza necessità né dell'offerta della prestazione, né di oneri probatori di sorta. Al datore di lavoro, per altro verso, assicura la predeterminazione del risarcimento del danno dovuto per il periodo che intercorre dalla data d'interruzione del rapporto fino a guella dell'accertamento giudiziale del diritto del lavoratore al riconoscimento della durata indeterminata di esso. Ma non oltre, pena la vanificazione della statuizione giudiziale impositiva di un rapporto di lavoro sine die. Con specifico riferimento alla riduzione della metà del limite superiore dell'indennita ai sensi dell'art. 32, comma 6, la ragionevolezza della previsione trae alimento dal favor del legislatore per i percorsi di assorbimento del personale precario disciplinati dall'autonomia collettiva. 15. Le autorevoli affermazioni della Corte Costituzionale evidenziano come nemmeno possa sorgere un dubbio sulla contrarietà al principio di equivalenza paventato con il primo quesito dal Giudice remittente: in primis, poiché non v'è alcun elemento - desumibile dalla direttiva e dagli obiettivi che la stessa si propone - che possa portare ad affermare la necessaria omogeneita della disciplina del diritto comune (in tema di nullita del termine e delle sue conseguenze) con quella del diritto del lavoro. In second'ordine, poiché, come sottolineato nella succitata sentenza, l'art. 32 cit. stabilisce un complesso meccanismo di tutela del lavoratore che non solo gli garantisce la tutela più importante e cioè la trasformazione del rapporto in rapporto stabile ed indeterminato, ma fissa un risarcimento forfettariamente stabilito che addirittura prescinde dalla prova o dall'allegazione del danno, nonché dall'ipotesi (normalmente impeditiva o riduttiva) dell'aliunde receptum. 16. In conclusione, può affermarsi che la disciplina introdotta dal legislatore del 2010, anziché essere punitiva per il lavoratore, ha un intento di razionalizzazione e velocizzazione la definizione delle posizioni controverse e allevia di molto la posizione processuale del lavoratore medesimo che - solchè si accerti l'illegittimità dell'apposizione del termine - si trova nella certezza di ottenere un congruo ristoro economico del danno subito (seppure non dimostrato) nonché la trasformazione del rapporto di lavoro (in tal senso si è da ultimo pronunciata anche la Corte di Cassazione, con sentenza 29 febbraio 2012, n. 3056: così intesa, infatti, in sostanza, come una sorta di penale stabilita dalla legge - in stretta connessione funzionale con la declaratoria di conversione del rapporto di lavoro - a carico CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 95 del datore di lavoro per la nullità del termine apposto al contratto di lavoro e determinata dal giudice nei limiti e con i criteri dettati dalla legge, a prescindere sia dall'esistenza del danno effettivamente subito dal lavoratore (e da ogni onere probatorio al riguardo) sia dalla messa in mora del datore di lavoro, con carattere "forfetizzato", "onnicomprensivo" di ogni danno subito per effetto della nullità del termine, nel periodo che va dalla scadenza dello stesso fino alla sentenza che ne accerta la nullità e dichiara la conversione del rapporto, la indennità in esame appare non solo conforme alla Costituzione (ai sensi di C. Cost. 303/2011), bensì anche pienamente rispondente alla lettera e alto spirito della legge. Altre interpretazioni, del resto, come quella ipotizzata dalla difesa della lavoratrice in sede di discussione, che in quache modo riducano o eliminino il carattere "onnicomprensivo" dell'indennità, ovvero ne delimitino ulteriormente il periodo di "copertura", in ragione di elementi (come la messa in mora o l'epoca della domanda) estranei alla fattispecie legale (al pari di quelle, opposte, estensive del periodo medesimo), risulterebbero travalicare i detti fondamentali criteri ermeneutici). Sul secondo quesito 17. II Giudice remittente dubita poi della conformità all'Ordinamento europeo della disposizione de qua ove essa venga interpretata - come ha fatto la Corte di Cassazione successivamente alla presa di posizione della Corte Costituzionale ed adeguandosi alla soluzione interpretativa da questa autorevolmente fornita - nel senso che il dies ad quem della "copertura indennitaria" prevista dal ripetuto art. 32 sia la prima pronuncia giurisdizionale che dichiari la nullità del termine. 18. Propone come soluzione alternativa ed a suo dire compatibile con l'Ordinàmento comunitario quella di ritenere che l'indennità in discorso copra il periodo fino al deposito del ricorso di primo grado, altrimenti addossandosi al lavoratore le conseguenze dell'inadempimento ed i tempi processuali, in contrasto con la Direttiva 1999/70/CE. In altri termini, secondo il Tribunale di Napoli una diversa opzione interpretativa farebbe ricadere la durata del processo sul lavoratore «essendo limitato il danno a carico del datore di lavoro nel massimo a 12 mensilità» (pag. 11 punto 15 dell'ordinanza). 19. Coerentemente a quanto fatto con il primo quesito, si ritiene di dovere richiamare testualmente, anche per il secondo, la citata sentenza della Corte Costituzionale, che pure su questo punto si è pronunciata (per disattendere il dubbio di illegittimità costituzionale) così argomentando: non è condivisibile neppure il rilievo della indebita omologazione, da parte del modello indennitario delineato dalla normativa in esame, di situazioni diverse. Come, ad esempio, la situazione del lavoratore il quale ottenga 96 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 una sentenza favorevole in tempi brevi, possibilmente in primo grado, rispetto a quella di chi risulti vittorioso solo a notevole distanza di tempo (magari nei gradi successivi di giudizio). [in tale situazione sta il dubbio del Giudice remittente: nel rischio che la durata del processo vada a danno del lavoratore: n.d.r.] Ovvero del datore di lavoro il quale spontaneamente riammetta in servizio il prestatore nelle more del processo, pagandogli, intanto, il corrispettivo, rispetto ad altro datore che abbia invece "resistito" ad oltranza, evitando di riprendere con se il lavoratore. È evidente che si tratta di inconvenienti solo eventuali e di mero fatto, che non dipendono da una sperequazione voluta dalla legge, ma da situazioni occasionali e talora patologiche (come l'eccessiva durata dei processi in alcuni uffici giudiziari). Siffatti inconvenienti - secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte - non rilevano ai fini del giudizio di legittimità costituzionale (sentenze n. 298 del 2009, n. 86 del 2008, n. 282 del 2007 e n. 354 del 2006; ordinanze n. 102 del 2011, n. 109 del 2010 e n. 125 del 2008). Sicché, non è certo dalle disposizioni legislative censurate che possono farsi discendere, in via diretta ed immediata, le discriminazioni ipotizzate. Peraltro, presunte disparità di trattamento ricollegabili al momento del riconoscimento in giudizio del diritto del lavoratore illegittimamente assunto a termine devono essere escluse anche per la ragione che il processo è neutro rispetto alla tutela offerta, mentre l'ordinamento predispone particolari rimedi, come quello cautelare, intesi ad evitare che il protrarsi del giudizio vada a scapito delle ragioni del lavoratore (sentenza n. 144 del 1998), nonché gli specifici meccanismi riparatori contro la durata irragionevole delle controversie di cui alla legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell'art. 375 del codice di procedura civile). 20. Osta alla soluzione interpretativa voluta dal Giudice remittente la lettera della legge nella parte in cui prevede che "[..] il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva [...]", che deve essere correttamente letta in combinazione col rimedio forte della conversione (non a caso rammentato nei lavori preparatori in cui viene previsto come aggiuntivo a quello meramente indennitario: ordine del giorno G/1167-B/7/1-11 accolto al Senato della Repubblica innanzi le commissioni I e XI nella seduta del 2 marzo 2010); tale sottolineatura, invero, sarebbe stata assolutamente inutile se l'indennizzo avesse coperto il limitato periodo dalla cessazione del termine alla proposizione del ricorso, giacché l'effetto, voluto dai Tribunale di Napoli, per il periodo successivo e sino alla riammissione in servizio, non si sarebbe discostato sostanzialmente da quello gia previsto nel regime previgente. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 97 D'altronde, la norma, che "non si limita a forfetizzare risarcimento del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine, ma, innanzitutto, assicura a quest'ultimo l'instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato", in base ad una "interpretazione costituzionalmente orientata" va intesa nel senso che "il danno forfetizzato dall'indennità in esame copre soltanto il periodo cosiddetto "intermedio", quello, cioé, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto", con la conseguenza che a partire da tale sentenza "è da ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva" (altrimenti risultando "completamente svuotata" la "tutela fondamentale della conversione del rapporto in lavoro a tempo indeterminato") (Cass. sent. 3056/2012 cit.). 21. Giova rammentare, con una notazione valida anche per il primo quesito, the il sistema predisposto dal legislatore nazionale dell'indennità forfetizzata ed onnicomprensiva è gia proprio del diritto del lavoro nazionale in un caso in cui - a differenza di quanto accade a fronte dell'accertamento della nullità del termine e della conversione del rapporto in rapporto a tempo indeterminato - al lavoratore non è riconosciuto il diritto di riprendere servizio presso il datore di lavoro che lo ha illegittimamente licenziato, e cioè nel caso previsto dall'art. 8 della legge 604/66 sul licenziamento (quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni b, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un'indennità di importo compreso fra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti. La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro). 22. In sostanza, mentre nella legge 604/1966 l'indennità si sostituisce al posto di lavoro, nella legge 183/2010 si accompagna alla riammissione in servizio (dunque con un quid pluris di tutela, a soddisfazione dell'essenziale interesse del lavoratore a mantenere il posto di lavoro). Peraltro, all'art. 32 cit. è previsto che l'indennità possa essere quantificata tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità, cosi consentendo di 98 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 adeguare il risarcimento al differente grado di danno medio tempore patito dal lavoratore illegittimamente estromesso. 23. In conclusione, deve escludersi che i lavoratori possano accedere a una differente tutela in conseguenza della durata del processo: da un lato, la durata del processo non è circostanza rimessa alla disponibilità del datore di lavoro; dall'altro, la disciplina di cui all’art. 32, co. 5, trova il suo corrispondente processuale nella previsione di cui all'art. 32, co. 1 e 3, lett. d, nella parte in cui introduce uno specifico termine di decadenziale per l'azione di nullità del termine. Una previsione, questa, che va a integrarsi con il sistema processuale lavoristico, delineato dall'ordinamento in modo da garantire una celere definizione delle controversie. 24. Si osserva che anche la commisurazione dell'indennità di cui all'art. 8 legge 604/1966 prescinde dalla durata del processo, e ciò non in quanto il Legislatore ritenga meno meritevole di tutela il lavoratore illegittimamente licenziato che non possa aspirare alla reintegrazione nel posto di lavoro, ma in quanto i tempi del giudizio sono estranei al rapporto e alla patologia che ne abbia provocato l'interruzione, e sono sottratti al controllo e alle determinazioni delle parti, dipendendo dai poteri di direzione e di gestione del Giudice. 25. Al contrario, prima dell'intervento legislativo de quo, ben poteva essere interesse del lavoratore, una volta messo in mora il datore di lavoro, ritardare l'avvio del giudizio al fine di incrementare progressivamente l'ammontare del risarcimento: sotto questo profilo, la scelta del Legislatore mostra tutta la propria ragionevolezza nell'aver determinato un riequilibrio delle posizioni delle parti. Sul terzo quesito 26.Valgono le osservazioni svolte per il secondo quesito, essendo il dubbio avanzato dal Giudice remittente sempre incentrato sul timore che la durata del processo possa pregiudicare il lavoratore, ove si individui - come deve ritenersi coretto - il dies ad quem della copertura del risarcimento forfetizzato nella prima sentenza del giudizio instaurato. Sul quarto e sul quinto quesito 27. Il Giudice remittente dubita poi della conformità dell'ordinamento nazionale alla clausola 4 dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato poiché il lavoratore a tempo determinato in caso di illegittima interruzione del rapporto avrebbe un trattamento deteriore rispetto al lavoratore a tempo indeterminato. 28. Partendo dal presupposto che deve darsi risposta positiva al quarto quesito, avendo la clausola 4 una valenza omnicomprensiva della disciplina del rapporto di lavoro, il dubbio di compatibilita sollevato dal Tribunale CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 99 di Napoli è destituito di fondamento: mentre nella legge 604/1966 (sul Iicenziamento nell'ambito del rapporto di lavoro ab origine a tempo indeterminato) l'indennità si sostituisce al posto di lavoro ove il lavoratore non abbia diritto alla riassunzione, nella legge 183/2010 - e cioè in caso di illegittima apposizione del termine - si accompagna alla riammissione in servizio. 29. Peraltro, all'art. 32 è previsto che l'indennità possa essere quantificata tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità, così consentendo di adeguare il risarcimento al differente grado di danno medio tempore patito dal lavoratore illegittimamente estromesso. 30. Nessun contrasto può ravvisarsi con riferimento alla citata dausola 4: da un lato, la posizione del lavoratore a termine illegittimamente estromesso non è in alcun modo equiparabile a quella del lavoratore a tempo indeterminato che sia illegittimamente licenziato dal datore di lavoro. Basti al riguardo evidenziare che, nella prima ipotesi, il lavoratore, avendo sottoscritto un contratto di lavoro a tempo determinato, non ha in origine alcuna aspettativa in ordine alla prosecuzione del rapporto, a differenza del lavoratore a tempo indeterminato che ha la legittima aspettativa della fisiologica prosecuzione del proprio rapporto di lavoro. 31. Ad ogni modo, non si rinviene nell'ordinanza alcun elemento concreto per potere affermare che la condizione del lavoratore a tempo determinato sia deteriore rispetto a quella del lavoratore a tempo indeterminato, prevedendo entrambe le discipline la "tutela reale" data dalla riassunzione nell'un caso e dalla trasformazione del rapporto in rapporto a tempo indeterminato nell'altro, nonché un ristoro forfetizzato "elastico" che tenga conto dei criteri indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (il rinvio è operato dal comma 5 del ripetuto art. 32 così rendendo uniforme la disciplina per i due tipi di rapporto di lavoro in coerenza con il principio di non discriminazione di cui alla clausola 4). Sul sesto e settimo quesito 32. In primis va disattesa l'impostazione di partenza del giudice remittente - che condiziona ab imis il dubbio di compatibilità del comma 7 dell'art. 32 con l'ordinamento comunitario - secondo cui la disciplina contenuta nel Collegato Lavoro sarebbe in astratto pregiudizievole per le ragioni del lavoratore: nell'esaminare il primo quesito si è chiarito come non sia rispondente ad una piena analisi della disposizione in discorso, la quale prevede un sistema di tutele complesso del lavoratore. Oltre alla stabilizzazione del rapporto - che rappresenta la tutela più intensa che il legislatore può assicurare ad un lavoratore precario - un'indennità che gli è sempre dovuta, a prescindere dall'offerta della prestazione, svincolandola da oneri probatori e senza alcuna detrazione dell'aliunde 100 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 perceptum. Di conseguenza la discinlina in esame presenta aspetti favorevoli per il lavoratore rispetto a quella precedente. 33.Va precisato come il risarcimento del danno così come disciplinato dal legislatore della riforma, ossia "forfetizzato" entro un limite minimo e massimo e secondo parametri predeterminati, copre soltanto il periodo "intermedio", quello cioè compreso tra la scadenza del termine e la sentenza del giudice che ne accerta la nullità. Per il periodo successivo alla sentenza il datore di lavoro è tenuto comunque a corrispondere al lavoratore la retribuzione, anche in ipotesi di mancata riammissione. 34. Tali considerazioni - attinenti alla sostanza delle disposizioni in discorso che affatto possono essere considerate pregiudizialmente pregiudizievoli per il lavoratore (si pensi al caso in cui sia difficile provare in giudizio d'avere subito un danno economicamente valutabile, nel quale il lavoratore sarebbe esposto al rischio di non vedersi riconosciuto nulla giudizialmente) - eliminano qualsiasi dubbio sulla sua compatibilità con i principi generali del diritto comunitario. Legittimamente il Collegato Lavoro si deve applicare ai giudizi in corso poiché, come ha correttamente osservato la Corte Costituzionale nella succitata sentenza, non vi è ragione di differenziare il regime risarcitorio di situazioni lavorative sostanziali tutte egualmente sub indice. 35. Deve poi osservarsi - in relazione all'ultimo quesito - che l'applicazione retroattiva delle disposizioni in discorso, avendo portata generalizzata a tutte le controversie aventi ad oggetto i contratti a termine, non favorisce selettivamente lo Stato o altro ente pubblico, poiché le controversie sulle quali va ad incidere non hanno specificamente ad oggetto i rapporti di lavoro a termine alle dipendenze di soggetti pubblici, ma tutti indistintamente i rapporti a termine (a tal proposito è del tutto superfluo dare risposta al settimo quesito, inerente la natura di organismo statale della società datrice di lavoro nel caso di specie). 36.A giustificazione della retroattività delle disposizioni di cui si tratta, deve osservarsi, si pongono rilevanti ragioni di utilità generale, riconducibili all'esigenza di offrire una tutela economica dei rapporti a termine più adeguata al bisogno di certezza dei rapporti giuridici di tutte le parti coinvolte nei processi produttivi, di talché ricorrono tutte le condizioni previste dalla norma di cui all'art. 6 CEDU per l'applicazione retroattiva di norme in suddetta materia. 37. Per completezza deve rammentarsi che la Corte di Cassazione, con una specificazione condivisibile dal punto di vista processuale (riguardante la natura dell'impugnazione in sede di legittimità) ha affermato il principio di diritto in base al quale, in tema di risarcimento del danno derivante dall'illegittimità della clausola del termine apposta al contratto di lavoro, l'art. 32, commi 5, 6 e 7 della L. n. 183/2010 non può trovare applicazione CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 101 nei giudizi di legittimità in corso, a meno che nei motivi di impugnazione non sia stato formulato uno specifico ed espresso quesito di diritto sulle conseguenze patrimoniali dell'accertata nullità del termine. Con l'ulteriore precisazione che lo jus superveniens, in ragione della natura del controllo di legittimità - il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso - è applicabile nei giudizi in Cassazione soltanto se pertinente rispetto alle ragioni oggetto di ricorso (Cass. 8 maggio 2006, n. 10547; Cass. 3 gennaio 2011, n. 65 e Cass. 4 gennaio 2011, n. 8o; n. 23 marzo 2011, n. 6663, la Corte di Cassazione). Tanto a pena di inesistenza ed inammissibilith dello stesso motivo di ricorso (Cass. SS.UU. 5 gennaio 2007, n. 36). In estrema sintesi, al fine di proporre, positivamente, un ricorso in Cassazione per la questione delle conseguenze patrimoniali dell'accertata nullità del termine apposto al contratto di lavoro, occorre che i motivi addotti investano direttamente la questione del risarcimento e che gli stessi non siano tardivi o generici. La legge 28 luglio 2012, n. 92. 38. Da ultimo, si evidenzia che l’art. 1 comma 13 della legge 92/2012, successiva all'ordinanza di remissione, stabilisce che la disposizione di cui al comma 5 dell'articolo 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183, si interpreta nel senso che l'indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro. CONCLUSIONI 39. Alla stregua delle considerazioni che precedono, il Governo Italiano suggerisce alla Corte di rispondere ai quesiti sottoposti al suo esame nel seguente modo: - sul primo quesito Non contrarietà dell'art. 32 comma 5 della legge 183/2010 alla Direttiva 1999/70/CE, poiché non prevedente disposizioni abusive o pregiudizievoli per il lavoratore a tempo determinato né in assoluto né in relazione al diritto civile comune, fermo restando che non sussiste alcuna norma di rango superiore che impedisca una disciplina speciale degli istituti nell'ambito del diritto del lavoro rispetto al diritto civile comune; - sul secondo e sul terzo quesito Conformità all'Ordinamento comunitario dell'interpretazione dell'art. 32 nel senso che il periodo di "copertura" dell'indennizzo previsto dalla legge 183/2010 abbia come dies ad quem la prima decisione giurisdizionale sul ricorso del lavoratore; 102 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 - sul quarto quesito La risposta deve essere positiva; - sul quinto quesito Non può ravvisarsi alcuna violazione della clausola 4 della direttiva 1999/70/CE in relazione all'ipotesi di illegittima interruzione del rapporto di lavoro a tempo determinato rispetto all'ipotesi di lavoro a tempo indeterminato; - sul sesto quesito Va radicalmente disattesa l'impostazione del Giudice remittente in ordine alla assunta natura in sé pregiudizievole del lavoratore della normativa contenuta nel Collegato Lavoro del 2010 e dunque, seppure la risposta corretta al quesito sarebbe positiva nel caso di specie - stante l'erroneità del presupposto - la risposta deve essere articolata come supra. - sul settimo quesito La risposta é del tutto irrilevante, data la portata generalizzata della normativa del 2010 che coinvolge sia il lavoro pubblico che quello privato. Roma, 6 novembre 2012 Cristina Gerardis Avvocato dello Stato Osservazioni del Governo della Repubblica italiana (avv. Stato Massimo Santoro, AL 35842/12) nella causa C-371/12 in relazione alla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta ai sensi dell’art. 267 del TFUE sollevata dal Tribunale di Tivoli (Italia) con decisione di rinvio del 20 giugno 2012 depositata il 21 giugno 2012. Materia: Ravvicinamento delle legislazioni Libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi Libera circolazione dei servizi LA QUESTIONE PREGIUDIZIALE 1. Il giudice del rinvio ha sottoposto alla Corte la seguente questione pregiudiziale: “Se, alla luce delle direttive 72/166/CEE, 84/5/CEE, 90/232/CEE e 2009/103/CE che regolano l'assicurazione obbligatoria in materia di responsabilità civile derivante dalla circolazione di autoveicoli, sia consentito alla legislazione interna di uno Stato membro di prevedere - attraverso la CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 103 quantificazione obbligatoria ex lege dei soli danni derivanti da sinistri stradali - una limitazione di fatto (sotto il profilo della quantificazione) della responsabilità per danni non patrimoniali posti a carico dei soggetti (le compagnie assicuratrici) obbligati, ai sensi delle medesime direttive, a garantire l'assicurazione obbligatoria per i danni da circolazione dei veicoli”. LA CONTROVERISA NELLA CAUSA PRINCIPALE 2. La questione pregiudiziale trae origine dalla domanda di condanna al risarcimento dei danni proposta da un soggetto, assicurato per la responsabilità civile, danneggiato in un incidente stradale, nei confronti della compagnia assicuratrice. Il giudizio verte sulla quantificazione dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti dal danneggiato. 3. Il Giudice remittente afferma di non rinvenire alcun profilo problematico di natura comunitaria sulla quantificazione del danno patrimoniale; nutre, invece, dei dubbi sulla compatibilità del sistema nazionale in ordine alla quantificazione del danno non patrimoniale. 4. A tal proposito, espone che il danneggiato ha subito un danno alla salute (biologico) pari al 4% ed un’invalidità temporanea assoluta di 10 giorni, un’invalidità temporanea parziale del 50 % per 20 giorni e del 25 % per 10 giorni e che pertanto, nella fattispecie, ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, è applicabile il disposto di cui all’art. 139 del Decreto Legislativo n. 209 del 2005 (di seguito “Codice delle Assicurazioni”) integrandosi un’ipotesi di “danno biologico di lieve entità”. 5. Osserva il remittente che l’applicazione delle tabelle previste dal Codice delle Assicurazioni ai sensi del succitato art. 139 determina una liquidazione del danno non patrimoniale diversa rispetto a quella cui condurrebbe, a parità di lesioni, l’applicazione dei criteri generali dell’ordinamento italiano utili ai fini della liquidazione di ogni altro tipo di sinistro. 6. Dopo avere compiuto una breve disamina del sistema del risarcimento dei danni non patrimoniali nell’ordinamento italiano, il remittente afferma che in caso di sinistro stradale che abbia determinato un danno biologico di lieve entità, in applicazione dell’art. 139 cit., il Giudice, nella liquidazione del danno non patrimoniale risarcibile, incontra due limitazioni: a. la prima consisterebbe nell’obbligo di osservare dei parametri legislativi di liquidazione del danno che postulano un mero calcolo matematico, con esclusione di ogni possibilità di personalizzare il danno risarcibile; b. la seconda consisterebbe nella impossibilità di risarcire - nonostante l’esistenza di un appena accennato orientamento giurisprudenziale di segno opposto - il cosiddetto “danno morale”, in quanto non previsto dall’art. 139 cit. 7. Afferma il Giudice remittente che tali limiti al potere del giudice in materia di risarcimento dei danni derivanti da sinistri stradali potrebbero in- 104 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 tegrare una discriminazione rispetto alla risarcibilità di danni determinati da altre cause, suscettibile di violare le direttive comunitarie in materia di assicurazione per la responsabilità civile da circolazione stradale (richiama, a tale proposito, le direttive72/166/CEE, 84/5/CEE, 90/232/CEE e 2009/103/CE). 8. A supporto di tale dubbio, con particolare riferimento al cd. danno morale, richiama un precedente reso dalla Corte EFTA nella causa E-8/07, nel quale si dichiara incompatibile con le direttive comunitarie succitate una legislazione nazionale che esclude dalla copertura assicurativa obbligatoria il risarcimento del danno non patrimoniale. 9. In conclusione, i dubbi che portano il remittente a richiedere l’interpretazione pregiudiziale della Corte risiedono “nel mancato rispetto del principio di integrale risarcimento del danno alla salute” (v. p. 19 riga 12), atteso che nel caso in cui si controverte di lesioni di lieve entità alla salute determinate da circolazione stradale, l’art. 139 del Codice delle Assicurazioni impone al giudice nazionale dei parametri fissi che limitano il suo potere equitativo e che escludono, inoltre, la risarcibilità del cd. danno morale, mentre in ogni altro caso di danno alla salute, anche di lieve entità, non causato dalla circolazione stradale, il Giudice può fare pieno ricorso ad un potere equitativo, che consentirebbe una liquidazione integrale del danno sofferto. IL CONTESTO NORMATIVO INTERNO E COMUNITARIO A) SUL RISARCIMENTO DEI DANNI NON PATRIMONIALI NEL DIRITTO INTERNO. 10. La risarcibilità del danno non patrimoniale ha subito, in Italia, una lunga e complessa evoluzione normativa e giurisprudenziale. 11. Il risarcimento del danno non patrimoniale è previsto dall'art. 2059 del codice civile (rubricato "Danni non patrimoniali"), secondo cui: "il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge". All'epoca dell'emanazione del codice civile (1942) l'unica previsione espressa del risarcimento del danno non patrimoniale era racchiusa nell'art. 185 del codice penale del 1930. 12. La tradizionale restrittiva lettura dell'art. 2059, in relazione all'art. 185 c.p., assicurava tutela risarcitoria soltanto al cd. danno morale soggettivo, alla sofferenza contingente, al turbamento dell'animo transeunte determinati da fatto illecito costituente reato (interpretazione fondata sui lavori preparatori del codice del 1942 e largamente seguita dalla giurisprudenza). 13. La tutela risarcitoria del “danno biologico”, formula con la quale si identifica l'ipotesi della lesione dell'interesse costituzionalmente garantito (art. 32 Cost.) alla integrità psichica e fisica della persona, veniva invece somministrata in virtù del collegamento tra l'art. 2043 codice civile (“Risar- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 105 cimento per fatto illecito”: ‘Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno’) e l'art. 32 Cost. (“La repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo ...”). Tale costruzione trovava le sue radici (v. Corte cost., sent. n. 184/1986) nella esigenza di sottrarre il risarcimento del danno biologico (che è danno non patrimoniale) dal limite tradizionalmente posto dall'art. 2059 c.c., norma nel cui ambito avrebbe dovuto trovare collocazione, che lo confinava alle sole ipotesi di fatti costituenti reato. 14. Con le sentenze della Sezione III civile n. 8827 e n. 8828 del 31 maggio 2003 (cui ha fatto seguito, in senso conforme, la decisione della Corte Costituzionale n. 233/2003), la Corte di Cassazione ha profondamente rivisitato la materia, muovendo dall’assunto secondo il quale nell’ordinamento assume posizione preminente la Costituzione che, all'art. 2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo; di talché il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona. 15. Tale conclusione trova sostegno nella progressiva evoluzione verificatasi nella disciplina di settore sia da un punto di vista legislativo che giurisprudenziale. 16. In particolare, nella legislazione successiva al codice civile, si rinviene un cospicuo ampliamento dei casi di espresso riconoscimento del risarcimento del danno non patrimoniale anche al di fuori dell'ipotesi di reato, in relazione alla compromissione di valori personali (art. 2 della legge 13 aprile 1988 n. 117: risarcimento anche dei danni non patrimoniali derivanti dalla privazione della libertà personale cagionati dall'esercizio di funzioni giudiziarie; art. 29, comma 9, della legge 31 dicembre 1996 n. 675: impiego di modalità illecite nella raccolta di dati personali; art. 44, comma 7, del d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286: adozione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi; art. 2 della legge 24 marzo 2001 n. 89: mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo). 17. Il sistema risarcitorio italiano è stato, quindi, definitivamente riordinato in termini bipolari, ripartito cioè tra danno patrimoniale (risarcibile ex art. 2043 del codice civile e normative di settore) e danno non patrimoniale (risarcibile ex art. 2059 del codice civile e normative di settore). In particolare, le succitate decisioni hanno posto le basi per una liquidazione unitaria del danno non patrimoniale, senza distinzione tra specifiche figure di danno all'interno di tale generale categoria. 18. I suesposti orientamenti hanno poi trovato un assetto definitivo a seguito della sentenza della Cassazione a Sezioni Unite dell’11 novembre 2008 n. 26972, confermati anche nelle più recenti decisioni (v. Corte di Cassazione Civile n. 6930/2012, sez. III del 8 maggio 2012), con la quale la 106 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Suprema Corte ha definitivamente superato la prassi dei giudici di merito di scomporre il danno non patrimoniale in danno biologico, danno morale e danno esistenziale (inteso quale pregiudizio alle attività non remunerative della persona), ed ha chiarito che: a. non è ammissibile nell’ordinamento italiano l'autonoma categoria di "danno esistenziale", atteso che ove in essa si ricomprendano i pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti di reato, essi sono già risarcibili ai sensi dell’art. 2059 c.c., interpretato in modo conforme a Costituzione, con la conseguenza che la liquidazione di una ulteriore voce di danno comporterebbe una duplicazione risarcitoria; b. il riferimento alle varie voci di danno, comunque denominate, (danno morale, danno biologico, danno esistenziale, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno; c. è compito del giudice accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, provvedendo alla integrale riparazione dei pregiudizi risarcibili; d. non sono meritevoli di tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale, i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale: al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale; e. il pregiudizio della vita di relazione, allorché dipenda da una lesione dell'integrità psicofisica della persona, costituisce uno dei possibili riflessi negativi della lesione dell'integrità fisica del quale il giudice deve tenere conto nella liquidazione del danno biologico, e non può essere fatta valere come distinta voce di danno. Al danno biologico va, infatti, riconosciuta portata tendenzialmente omnicomprensiva, confermata dalla definizione normativa adottata dal D. Lgs. 209/2005 (artt. 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni), suscettibile di essere adottata in via generale, anche in campi diversi da quelli propri delle sedes materiae in cui è stata dettata. In esso sono quindi ricompresi i pregiudizi attinenti agli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato; f. il danno non patrimoniale da lesione della salute costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva, nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, ma senza duplicare il risarcimento attraverso l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici. Ne consegue che è inammissibile, perché costituisce una duplicazione risarcitoria, la congiunta attribuzione alla vittima di lesioni CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 107 personali del risarcimento sia per il danno biologico, sia per il danno morale, inteso quale sofferenza soggettiva, il quale costituisce necessariamente una componente del primo (posto che qualsiasi lesione della salute implica necessariamente una sofferenza fisica o psichica), come pure la liquidazione del danno biologico separatamente da quello c.d. estetico, da quello alla vita di relazione e da quello cosiddetto esistenziale. B) L’ART. 139 DEL CODICE DELLE ASSICURAZIONI. 19. Posta questa sintetica ricostruzione del sistema generale del danno non patrimoniale risarcibile nell’ordinamento italiano, assume particolare rilevanza, nella fattispecie, la norma di cui all’art. 139 del Codice delle Assicurazioni, rubricata, come si è detto, “Danno biologico per lesioni di lieve entità”, la quale dispone testualmente: “1. Il risarcimento del danno biologico per lesioni di lieve entità, derivanti da sinistri conseguenti alla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti, è effettuato secondo i criteri e le misure seguenti: a) a titolo di danno biologico permanente, è liquidato per i postumi da lesioni pari o inferiori al nove per cento un importo crescente in misura più che proporzionale in relazione ad ogni punto percentuale di invalidità; tale importo è calcolato in base all'applicazione a ciascun punto percentuale di invalidità del relativo coefficiente secondo la correlazione esposta nel comma 6. L'importo così determinato si riduce con il crescere dell'età del soggetto in ragione dello zero virgola cinque per cento per ogni anno di età a partire dall'undicesimo anno di età. Il valore del primo punto è pari ad euro settecentocinquantanove virgola quattro (1); b) a titolo di danno biologico temporaneo, è liquidato un importo di euro quarantaquattro virgola ventotto (2) per ogni giorno di inabilità assoluta; in caso di inabilità temporanea inferiore al cento per cento, la liquidazione avviene in misura corrispondente alla percentuale di inabilità riconosciuta per ciascun giorno. 2. Agli effetti di cui al comma 1 per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente all'integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito. In ogni caso, le lesioni di lieve entità, che non siano suscettibili di accertamento clinico strumentale obiettivo, non potranno dar luogo a risarcimento per danno biologico permanente. 3. L'ammontare del danno biologico liquidato ai sensi del comma 1 può es- (1) Importo così determinato, all’attualità, dl DM 15 giugno 2012. (2) Importo così determinato, all’attualità, dl DM 15 giugno 2012. 108 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 sere aumentato dal giudice in misura non superiore ad un quinto, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato. 4. Con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro della salute, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, con il Ministro della giustizia e con il Ministro delle attività produttive, si provvede alla predisposizione di una specifica tabella delle menomazioni alla integrità psicofisica comprese tra uno e nove punti di invalidità. 5. Gli importi indicati nel comma 1 sono aggiornati annualmente con decreto del Ministro delle attività produttive, in misura corrispondente alla variazione dell'indice nazionale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati accertata dall'ISTAT. 6. Ai fini del calcolo dell'importo di cui al comma 1, lettera a), per un punto percentuale di invalidità pari a 1 si applica un coefficiente moltiplicatore pari a 1,0, per un punto percentuale di invalidità pari a 2 si applica un coefficiente moltiplicatore pari a 1,1, per un punto percentuale di invalidità pari a 3 si applica un coefficiente moltiplicatore pari a 1,2, per un punto percentuale di invalidità pari a 4 si applica un coefficiente moltiplicatore pari a 1,3, per un punto percentuale di invalidità pari a 5 si applica un coefficiente moltiplicatore pari a 1,5, per un punto percentuale di invalidità pari a 6 si applica un coefficiente moltiplicatore pari a 1,7, per un punto percentuale di invalidità pari a 7 si applica un coefficiente moltiplicatore pari a 1,9, per un punto percentuale di invalidità pari a 8 si applica un coefficiente moltiplicatore pari a 2,1, per un punto percentuale di invalidità pari a 9 si applica un coefficiente moltiplicatore pari a 2,3.” 20. Tale norma, tenendo conto delle indicazioni pervenute dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale successivamente confermata dalla Corte di Cassazione, ha sostanzialmente inglobato il danno esistenziale nel danno biologico quale sua componente soggettiva e variabile, stabilendo che “per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente all'integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”. 21. Come affermato dalla Suprema Corte in più occasioni, il ricorso alla tabelle risponde anche ad esigenze di equità, rivolte ad evitare differenze sostanziali tra liquidazioni di danni simili nello stesso Tribunale o in Tribunali di diverse parti del Paese. 22. Inoltre, il terzo comma della disposizione in esame stabilisce che l’ammontare del danno può essere aumentato dal giudice in misura non superiore a un quinto, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 109 C) LE DIRETTIVE EUROPEE IN MATERIA DI RISARCIMENTO DEL DANNO DERIVANTE DA CIRCOLAZIONE STRADALE DA PARTE DELLE IMPRESE DI ASSICURAZIONE. 23. L’Unione europea si è occupata, in vari interventi, della materia del risarcimento del danno derivante da circolazione stradale da parte delle imprese di assicurazione. Il Giudice remittente richiama, in particolare, le direttive 72/166/CEE, 84/5/CEE, 90/232/CEE e 2009/103/CE. Appare utile, ai fini dell’esame della questione pregiudiziale, illustrare brevemente quale sia stata la ratio degli interventi comunitari ed il loro contenuto. 24. Con la prima direttiva (72/166/CEE), il Consiglio delle Comunità Europee, al fine di garantire la libera circolazione delle merci e delle persone in vista della costruzione di un mercato comune, impone agli Stati membri di prevedere l’obbligo di assicurazione della responsabilità civile derivante dalla circolazione di autoveicoli con una copertura valida per il complesso del territorio comunitario. 25. Con la seconda direttiva (84/5/CEE), il Consiglio amplia l’obbligo di copertura, imponendo l’estensione dell’assicurazione obbligatoria anche per i danni alle cose, oltre che alle persone, e prescrivendo che gli importi pagati dalle assicurazioni siano idonei a garantire alle vittime un indennizzo sufficiente (considerando 5 - Art. 1). Stabilisce, inoltre, l’inefficacia di clausole che escludano dall’assicurazione veicoli guidati da soggetti non autorizzati, non in possesso di una patente di guida o che non si fossero conformati a norme tecniche concernenti le condizioni o l’utilizzo del veicolo (considerando 6 - Art. 2). Impone, altresì, l’istituzione di un organismo che garantisca alle vittime un indennizzo anche se il veicolo che ha provocato il sinistro non sia assicurato o identificato (considerando 6 - Art. 1). 26. La terza direttiva (90/232/CEE), nell’ottica di garantire una maggiore tutela delle vittime da infortunio stradale, impone l’obbligo di prevedere che le vittime di sinistri da circolazione stradale ricevano un trattamento comparabile indipendentemente dal luogo della comunità ove il sinistro è avvenuto, e preclude la possibilità che gli organismi che garantiscono alle vittime un indennizzo anche se il veicolo ha provocato il sinistro non è assicurato o identificato, intervengano solo in via sussidiaria. 27. Al panorama rappresentato dalle prime tre direttive, va aggiunto un cenno anche alla direttiva 2000/26/CE, non richiamata dal Giudice remittente, la quale, al fine di accordare una effettiva tutela agli assicurati, impone allo Stato membro nel quale l’impresa di assicurazione è autorizzata di esigere che la medesima impresa designi, per la liquidazione dei sinistri, dei mandatari residenti o stabiliti negli altri Stati membri, in modo da garantire la presenza di un interlocutore che rappresenti l’impresa di assicurazione nel paese di residenza della persona lesa. Nella stessa prospettiva, questa direttiva prevede l’istituzione di centri d’informazione in grado di garantire una pronta disponibilità d’informazioni concernenti l’identità dell’impresa 110 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 di assicurazione che copre la responsabilità civile derivante dalla circolazione degli autoveicoli coinvolti in un incidente e i suoi mandatari, nonché l’identità del proprietario dell’autoveicolo, del suo conducente abituale o dei soggetti che normalmente lo detengono. Inoltre, questa direttiva impone di istituire un organismo d’indennizzo al quale la persona lesa possa rivolgersi nel caso in cui l’impresa di assicurazione non abbia designato un mandatario o frapponga ostacoli dilatori alla liquidazione del sinistro. 28.Viene, infine, in rilievo la direttiva 2009/103/CE, che è una direttiva di codificazione delle precedenti. Essa prevede, oltre ad una razionalizzazione delle disposizioni già adottate, ulteriori norme tese a garantire l’effettività della tutela su tutto il territorio dell’Unione. Questa direttiva impone agli Stati membri di garantire la copertura assicurativa almeno per determinati importi minimi (art. 9), che dovrebbero essere calcolati in modo “da indennizzare totalmente ed equamente tutte le vittime che hanno riportato danni molto gravi” (considerando 12), specificando che i danni alle persone sono qualificati come gravi conformemente alla legislazione dello Stato membro in cui è avvenuto l’incidente (considerando 17) (enfasi aggiunta). 29. Ancora, questa direttiva chiarisce, al considerando 22, che “I danni alle persone e alle cose subiti da pedoni, ciclisti e altri utenti non motorizzati della strada che costituiscono di solito la parte più debole in un sinistro dovrebbero essere coperti dall'assicurazione obbligatoria del veicolo coinvolto nel sinistro, se hanno diritto al risarcimento conformemente alla legislazione civile nazionale. Tale disposizione fa salva la responsabilità civile o il livello del risarcimento per danni in uno specifico incidente secondo la legislazione nazionale”. Questo considerando viene attuato con l’art. 12, rubricato “Categorie specifiche di vittime” a norma del quale “... l'assicurazione di cui all'articolo 3 copre la responsabilità per i danni alla persona di qualsiasi passeggero, diverso dal conducente, derivanti dall'uso del veicolo. I membri della famiglia dell'assicurato, del conducente o di qualsiasi altra persona la cui responsabilità civile sia sorta a causa di un sinistro e sia coperta dall'assicurazione di cui all'articolo 3 non possono essere esclusi, a motivo del legame di parentela, dal beneficio dell'assicurazione per quanto riguarda i danni alle persone. L'assicurazione di cui all'articolo 3 copre i danni alle persone e i danni alle cose subiti da pedoni, ciclisti e altri utenti non motorizzati della strada che, in conseguenza di un incidente nel quale sia stato coinvolto un veicolo, hanno diritto al risarcimento del danno conformemente alla legislazione civile nazionale. Il presente articolo lascia impregiudicata sia la responsabilità civile sia l'importo dei danni” (enfasi aggiunta). CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 111 OSSERVAZIONI DEL GOVERNO ITALIANO PREMESSA 30. Con le presenti osservazioni il Governo italiano intende porre in rilievo che: a. la questione pregiudiziale sottoposta all’attenzione della Corte è irricevibile perché generica; b. il legislatore comunitario si è occupato della materia del risarcimento dei danni derivanti dalla circolazione stradale da parte delle imprese di assicurazione nell’ottica di garantire la libera circolazione delle merci e delle persone in un mercato comune, con particolare attenzione ai danni molto gravi, con la conseguenza che la materia della responsabilità civile tout court e quella per i danni derivanti da lesioni di lieve entità causati dalla circolazione stradale non è armonizzata ed è, quindi, rimessa alla discrezionalità del legislatore nazionale; c. la disciplina interna garantisce il raggiungimento dell’effetto utile delle direttive comunitarie in materia di assicurazione della responsabilità civile derivante da circolazione stradale. A) IRRICEVIBILITÀ DELLA QUESTIONE PREGIUDIZIALE. 31. La questione pregiudiziale sollevata dal Giudice remittente è irricevibile, prima che infondata. Il Giudice remittente, infatti, non chiarisce perché la richiesta interpretazione delle norme dell’Unione, che peraltro individua in maniera del tutto generica, sarebbe utile per valutare la conformità dell’art. 139 del Codice delle Assicurazioni al diritto comunitario. 32. Il remittente richiama taluni considerando e taluni articoli delle direttive sopra analizzate; si tratta in particolare, delle seguenti disposizioni: a. In relazione alla direttiva 84/5/CEE: i. considerando 5 e 9, i quali danno rilievo, rispettivamente, al fatto che “gli importi a concorrenza dei quali l’assicurazione è obbligatoria devono consentire comunque di garantire alle vittime un indennizzo sufficiente, a prescindere dallo Stato membro nel quale il sinistro è avvenuto” e stabiliscono il principio secondo cui “è necessario accordare ai membri della famiglia dell’assicurato, del conducente o di qualsiasi altro responsabile una protezione analoga a quella degli altri terzi vittime, comunque per quanto riguarda i danni alle persone”. ii. art. 1, a mente del quale “L’assicurazione di cui all’art. 3, paragrafo 1, della direttiva 72/166/CEE copre obbligatoriamente i danni alle cose e alle persone”. b. In relazione alla direttiva 90/232/CEE: i. considerando 5, secondo la quale “in alcuni Stati membri esistono lacune nella copertura fornita dall’assicurazione obbligatoria dei passeggeri di autoveicoli; che, per proteggere tale categoria parti- 112 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 colarmente vulnerabile di vittime potenziali, è necessario colmare tali lacune”. c. In relazione alla direttiva 2009/103/CEE: i. considerando 2, secondo il quale “Allo scopo di assicurare la dovuta protezione alle vittime di incidenti automobilistici, gli Stati membri non dovrebbero permettere alle imprese assicurative di opporre franchigie alla parte lesa”. ii. art. 2, secondo il quale “L’assicurazione di cui al primo comma copre obbligatoriamente i danni alle cose e i danni alle persone”. iii. art. 5, che dispone che “Ogni Stato membro può derogare alle disposizioni dell'articolo 3 per quanto concerne talune persone fisiche o giuridiche, pubbliche o private, il cui elenco è determinato da tale Stato e notificato agli altri Stati membri e alla Commissione”. iv. art. 12 che testualmente recita: “1. Fatto salvo l'articolo 13, paragrafo 1, secondo comma, l'assicurazione di cui all'articolo 3 copre la responsabilità per i danni alla persona di qualsiasi passeggero, diverso dal conducente, derivanti dall'uso del veicolo. 2. I membri della famiglia dell'assicurato, del conducente o di qualsiasi altra persona la cui responsabilità civile sia sorta a causa di un sinistro e sia coperta dall'assicurazione di cui all'articolo 3 non possono essere esclusi, a motivo del legame di parentela, dal beneficio dell'assicurazione per quanto riguarda i danni alle persone. 3. L'assicurazione di cui all'articolo 3 copre i danni alle persone e i danni alle cose subiti da pedoni, ciclisti e altri utenti non motorizzati della strada che, in conseguenza di un incidente nel quale sia stato coinvolto un veicolo, hanno diritto al risarcimento del danno conformemente alla legislazione civile nazionale. Il presente articolo lascia impregiudicata sia la responsabilità civile sia l'importo dei danni”. 33. Afferma il Giudice remittente, che “da tali disposizioni emerge il dubbio relativo alla possibilità per le legislazioni nazionali di prevedere o meno un risarcimento del danno (ove derivi da sinistro stradale) inferiore a quello previsto nel medesimo ordinamento per ipotesi in cui la lesione derivi da causa diversa dal sinistro stradale”. 34. Tuttavia, il Giudice remittente non illustra le ragioni per le quali le disposizioni sopra richiamate possono comportare il dubbio che il legislatore nazionale possa o meno disciplinare in modo specifico il risarcimento dei danni di lieve entità derivanti da sinistro stradale. 35. Afferma ancora, in particolare: “In sostanza la frase di chiusura dell’art. 12 della direttiva 2009/103/CE (“Il presente articolo lascia impregiudicata sia la responsabilità civile sia l’importo dei danni”) si presta a dubbi ermeneutici. Da un lato potrebbe essere interpretato nel senso che lo Stato CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 113 ha assoluta libertà di prevedere le regole della responsabilità civile e della quantificazione dei danni. Dall’altro potrebbe essere interpretato, specie se letto alla luce delle disposizioni comunitarie citate in precedenza, come una clausola di carattere generale ma vincolata, comunque, al principio di eguaglianza e non discriminazione, posto che le norme comunitarie mirano ad assicurare l’effettivo ristoro del danno cagionato a cose e persone, addirittura garantendo dei minimi in caso di sinistri gravi (problema diverso e che esula dalla presente controversia, trattandosi di limiti di assicurabilità, e quindi dell’oggetto del contratto, e non di limiti di risarcibilità, come nel caso di specie) e prevedendo delle deroghe solo in casi esplicitamente previsti. Invero, pur non intervenendo direttamente sull’oggetto del contratto (ad esempio attraverso franchigie o limitazioni dell’oggetto assicurato), di fatto la legislazione interna italiana (art. 139 d.lgs. 209 del 2005) pone un limite di liquidazione in favore delle compagnie assicuratrici (che sono i soggetti obbligati ex lege a stipulare contratti per RC auto), prevedendo dei criteri quantificatori del danno non patrimoniale diversi e più favorevoli rispetto a quelli generali vigenti nell’ordinamento nazionale, con esclusione di una parte di essi (danno morale) e con parametri di quantificazione vincolanti e personalizzabili entro strettissimi limiti (il 20% di quanto previsto dai predetti vincoli). 36. Anche questa argomentazione appare del tutto generica. Non appare affatto chiaro, difatti, secondo quale canone logico la disposizione richiamata dal giudice remittente, secondo cui “Il presente articolo lascia impregiudicata sia la responsabilità civile sia l’importo dei danni”, possa prestarsi a dubbi ermeneutici di sorta. 37. In particolare, appare sfornita di ogni corredo argomentativo la supposizione che tale disposizione possa violare canoni di non discriminazione o di uguaglianza (di rilievo comunitario, evidentemente) alla luce delle altre disposizioni comunitarie richiamate dal Giudice remittente, che assolvono a funzione di regolamentazione di uno specifico settore dell’ordinamento, ovvero l’assicurazione per la responsabilità civile derivante da sinistro stradale. 38. Non ignora questa difesa che, nell’ambito della cooperazione tra la Corte ed i giudici nazionali stabilita dall’art. 234 CE, spetta esclusivamente al giudice nazionale, cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumersi la responsabilità dell’emananda decisione giurisdizionale, valutare, alla luce delle particolari circostanze di ciascuna causa, sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere in grado di pronunciare la propria sentenza sia la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte. 39. È pacifico, inoltre, che la Corte sia competente a fornire al giudice nazionale tutti gli elementi d’interpretazione che possano consentirgli di valutare la compatibilità di una normativa nazionale con il diritto 114 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 comunitario ai fini della soluzione della causa della quale è investito. 40. Nella giurisprudenza di codesta Corte si trova, tuttavia, costantemente affermato che è indispensabile che il giudice nazionale fornisca un minimo di spiegazioni sulle ragioni della scelta delle norme comunitarie di cui chiede l’interpretazione e sul rapporto che egli ritiene esista fra tali disposizioni e il diritto nazionale applicabile alla controversia (v., tra le innumerevoli, le sentenze 19 aprile 2007, causa C-295/05, Asociación Nacional de Empresas Forestales, punto 33; 9 novembre 2006, causa C-205/05, Nemec, punto 26 e le ordinanze 19 ottobre 2004, causa C-425/03, Regio, punto 9; 8 ottobre 2002, causa C-190/02, Viacom Outdoor, punto 16). 41. È necessario, inoltre, che questi elementi risultino già dal provvedimento di rinvio perché, diversamente, non si consentirebbe ai governi degli Stati membri e alle altre parti interessate di presentare, con cognizione di causa, osservazioni ai sensi dell’art. 20 dello Statuto della Corte (v. ordinanze 14 giugno 2005, causa C-358/04, Caseificio Valdagnese, punto 9; 22 febbraio 2005, causa C-480/04, D’Antonio, punto 6; 21 aprile 1999, cause riunite C-28/98 e C-29/98, Charreire, punto 9). 42. Ora, l’ordinanza di rinvio che ha incardinato la presente fase del procedimento non contiene, manifestamente, indicazioni che soddisfino i requisiti sopra ricordati. 43. All’interno di una cornice così confusa, s’inserisce la formulazione di un quesito privo della necessaria specificità e che impone a codesta Corte, oltre che alle parti, una ricognizione a tutto campo non solo d’interi settori del diritto comunitario, ma anche della normativa interna. 44. Ciò appare in contrasto con il principio costantemente affermato nella giurisprudenza di codesta Corte, secondo cui lo spirito di collaborazione che deve caratterizzare il funzionamento del rinvio pregiudiziale implica che il giudice nazionale tenga presente la funzione assegnata alla Corte, che è quella di contribuire all’amministrazione della giustizia negli Stati membri, e non di esprimere pareri consultivi su questioni generali o ipotetiche. In tali ipotesi, spetta alla Corte, sia pure in via di eccezione alla regola richiamata al precedente punto 38, esaminare le condizioni in presenza delle quali è adita dal giudice nazionale, al fine di verificare la propria competenza (v. inter alia sentenze 23 novembre 2006, causa C-238/05, Asnef- Equifax, punti 16 e 17; 14 settembre 2006, causa C-228/05, Stradasfalti, punti 46 e 47; 22 novembre 2005, causa C-144/04, Mangold, punto 36). B) SUL MERITO DELLA QUESTIONE PREGIUDIZIALE. 45. Le seguenti considerazioni sono formulate per la denegata ipotesi in cui codesta Corte, disattendendo le osservazione del Governo italiano formulate nei precedenti punti, ritenga non improcedibile la questione pregiudiziale sottoposta alla sua attenzione. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 115 B.1) SULL’ASSENZA DI ARMONIZZAZIONE DEI REGIMI DI RESPONSABILITÀ CIVILE DEGLI STATI MEMBRI. 46. Si è visto che la questione pregiudiziale posta dal giudice remittente è così formulata: “Se, alla luce delle direttive 72/166/CEE, 84/5/CEE, 90/232/CEE e 2009/103/CE che regolano l'assicurazione obbligatoria in materia di responsabilità civile derivante dalla circolazione di autoveicoli, sia consentito alla legislazione interna di uno Stato membro di prevedere - attraverso la quantificazione obbligatoria ex lege dei soli danni derivanti da sinistri stradali - una limitazione di fatto (sotto il profilo della quantificazione) della responsabilità per danni non patrimoniali posti a carico dei soggetti (le compagnie assicuratrici) obbligati, ai sensi delle medesime direttive, a garantire l'assicurazione obbligatoria per i danni da circolazione dei veicoli”. 47. Tale “limitazione di fatto” rileverebbe, secondo il Giudice remittente, sotto due diversi profili che emergono dall’art. 139 del Codice delle Assicurazioni: il primo consisterebbe nell’obbligo di osservare dei parametri legislativi di liquidazione del danno che postulano un mero calcolo matematico, con esclusione di ogni possibilità di personalizzare il danno risarcibile; il secondo nella impossibilità di risarcire il cosiddetto “danno morale”. 48. Infra si dimostrerà l’infondatezza di tali assunti sulla base del diritto interno. 49. Prima ancora, occorre rilevare che il Giudice remittente, nel porre la questione pregiudiziale relativa all’asserita disparità nella quantificazione del danno derivante da lesioni di lieve entità causate dalla circolazione stradale rispetto a quello derivante da altre cause, sembra confondere l’aspetto relativo alla conformità della disciplina dettata dall’art. 139 del Codice delle Assicurazioni al diritto comunitario, con una più generale questione di equità e parità di trattamento che attiene solo al diritto interno ed esula dal diritto europeo armonizzato. 50. Ciò emerge con assoluta evidenza analizzando le disposizioni contenute nelle direttive che si occupano della materia, sopra brevemente descritte. 51. Nei vari interventi realizzati, l’Unione europea si è occupata della materia del risarcimento del danno derivante da circolazione stradale da parte delle imprese di assicurazione nell’ottica di garantire la libera circolazione delle merci e delle persone in un mercato comune: per questa ragione l’obiettivo principale è stato quello di far sì che ogni legislazione nazionale degli Stati membri prevedesse l’obbligo di assicurazione della responsabilità civile derivante dalla circolazione di autoveicoli con una copertura valida ed efficace per il complesso del territorio comunitario. 52. Il legislatore comunitario ha, in quest’ottica, progressivamente introdotto una serie di norme rivolte a raggiungere tale obiettivo. Tra queste, le principali consistono nell’estensione dell’assicurazione obbligatoria anche per i danni alle cose, nella previsione che gli importi pagati dalle assicurazioni siano idonei a garantire alle vittime un indennizzo sufficiente e 116 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 corrispondano a degli importi minimi di copertura da calcolarsi in modo “da indennizzare totalmente ed equamente tutte le vittime che hanno riportato danni molto gravi”, specificando, peraltro, che i danni alle persone sono qualificati come gravi conformemente alla legislazione dello Stato membro in cui è avvenuto l’incidente. 53. La legislazione nazionale, in ogni caso, è lasciata libera di determinare il livello del risarcimento per i danni risarcibili. 54. Obiettivo principale del legislatore comunitario è stato, in sostanza, quello di garantire che le vittime di sinistri da circolazione stradale su tutto il territorio dell’Unione potessero ricevere un trattamento comparabile ed effettivo, indipendentemente dal luogo della comunità ove il sinistro fosse avvenuto. 55. Una conferma del fatto che le direttive in esame non mirano ad armonizzare i regimi di responsabilità civile degli Stati membri si rinviene in specifiche disposizioni delle direttive stesse, tra le quali l’art. 1 bis della terza direttiva, riprese nell’art. 12, n. 3, della direttiva 2009/103, che con riferimento ai danni subiti dagli utenti non motorizzati della strada, lascia gli Stati membri liberi di stabilire il regime di responsabilità civile applicabile ai sinistri derivanti dalla circolazione dei veicoli. 56. La tesi qui sostenuta trova un’esplicita conferma anche nel consolidato orientamento in materia di codesta Corte di Giustizia, cristallizzato anche con la sentenza resa nella causa C-409/09, nella quale si legge: “occorre anzitutto rammentare che dal preambolo della prima e della seconda direttiva emerge che queste ultime sono dirette, da un lato, a garantire la libera circolazione tanto dei veicoli stazionanti abitualmente nel territorio dell’Unione europea quanto delle persone che vi si trovano a bordo e, dall’altro, a garantire che le vittime degli incidenti causati da tali veicoli beneficeranno di un trattamento paragonabile, indipendentemente dal luogo dell’Unione in cui il sinistro è avvenuto (sentenze 28 marzo 1996, causa C-129/94, Ruiz Bernáldez, Racc. pag. I-1829, punto 13; 14 settembre 2000, causa C-348/98, Mendes Ferreira e Delgado Correia Ferreira, Racc. pag. I-6711, punto 24, nonché 17 marzo 2011, causa C-484/09, Carvalho Ferreira Santos, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 24). La prima direttiva, come precisata e integrata dalla seconda e dalla terza direttiva, impone quindi agli Stati membri di garantire che la responsabilità civile relativa alla circolazione dei veicoli che stazionano abitualmente nel loro territorio sia coperta da un’assicurazione, e precisa in particolare i tipi di danni e i terzi danneggiati che tale assicurazione deve coprire (v. citate sentenze Mendes Ferreira e Delgado Correia Ferreira, punto 27, nonché Carvalho Ferreira Santos, punto 27). Occorre tuttavia ricordare che l’obbligo di copertura, da parte dell’assicurazione della responsabilità civile, dei danni causati da autoveicoli a soggetti terzi costituisce un aspetto distinto rispetto a quello dell’ampiezza del risarcimento a favore di tali terzi a titolo CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 117 della responsabilità civile dell’assicurato. Infatti, mentre il primo è definito e garantito dalla normativa dell’Unione, la seconda è sostanzialmente disciplinata dal diritto nazionale (sentenza Carvalho Ferreira Santos, cit., punto 31 e la giurisprudenza ivi citata). Infatti, la Corte ha già statuito che dall’oggetto della prima, della seconda e della terza direttiva, nonché dal loro tenore letterale, risulta che esse non mirano ad armonizzare i regimi di responsabilità civile degli Stati membri e che, allo stato attuale del diritto dell’Unione, questi ultimi restano liberi di stabilire il regime di responsabilità civile applicabile ai sinistri derivanti dalla circolazione dei veicoli (sentenza Carvalho Ferreira Santos, cit., punto 32 e la giurisprudenza ivi citata). Tale analisi è corroborata, per quanto riguarda i danni subiti dagli utenti non motorizzati della strada, dalle prescrizioni dell’art. 1 bis della terza direttiva, riprese nell’art. 12, n. 3, della direttiva 2009/103. Tuttavia, gli Stati membri sono obbligati a garantire che la responsabilità civile applicabile secondo il loro diritto nazionale sia coperta da un’assicurazione conforme alle disposizioni delle tre direttive summenzionate (sentenze Mendes Ferreira e Delgado Correia Ferreira, cit., punto 29; 19 aprile 2007, causa C-356/05, Farrell, Racc. pag. I-3067, punto 33, nonché Carvalho Ferreira Santos, cit., punto 34)” (enfasi aggiunta). 57. Dalla succitata giurisprudenza di codesta Corte di Giustizia, emerge chiaramente che le disposizioni italiane recate dall’art. 139 del Codice delle Assicurazioni, nel disciplinare in modo specifico il tema della responsabilità civile per danni derivanti da lesioni di lieve entità causati dalla circolazione stradale, non violano alcuna disposizione della legislazione comunitaria, atteso che quest’ultima, nell’imporre una copertura assicurativa obbligatoria alle persone e alle cose, importi minimi di copertura, estensione della copertura alle cose e ai terzi trasportati, non armonizza le modalità di quantificazione del danno che essa deve coprire. 58. Non solo: la direttiva 2009/103/CE, pure richiamata dal Giudice remittente, espressamente impone agli Stati membri di garantire la copertura assicurativa almeno per determinati importi minimi (art. 9), che dovrebbero essere calcolati in modo “da indennizzare totalmente ed equamente tutte le vittime che hanno riportato danni molto gravi” (considerando 12), specificando che i danni alle persone sono qualificati come gravi conformemente alla legislazione dello Stato membro in cui è avvenuto l’incidente (considerando 17). 59. Nella fattispecie, le lesioni che vengono in rilievo, lungi dall’essere “gravi”, sono proprio quelle di lieve entità. 60. In questo contesto, il legislatore nazionale avrebbe addirittura potuto, senza per questo violare il diritto comunitario, non prevedere alcun obbligo assicurativo per danni “non molto gravi”, quali sicuramente sono quelli che derivano da lesioni personali di lieve entità. 118 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 B.2) SULLA DISCIPLINA INTERNA DEL DANNO RISARCIBILE. 61. Questa difesa è ovviamente consapevole che le modalità scelte dal legislatore nazionale sul risarcimento dei sinistri risultanti dalla circolazione stradale dei veicoli non possono privare le direttive in esame del loro effetto utile. 62. Per quanto riguarda la norma in esame, si può affermare con certezza che l’art. 139 del Codice delle Assicurazioni non priva le direttive esaminate del loro effetto utile. Dall’esegesi della norma, appare, al contrario, evidente, che essa assicura un ristoro effettivo anche ai danni causati dalla circolazione stradale derivati da lesioni di lieve entità. 63. Il Giudice remittente afferma che nel diritto vivente italiano il danno non patrimoniale si comporrebbe di tre distinte categorie: (i) “danno alla salute”, che intende come lesione all’integrità psico-fisica, (ii) “danno morale”, che intende come sofferenza morale patita a causa della lesione e (iii) danni residuali, che intende come, nell’esempio che lo stesso porta, la lesione alle attività realizzatrici esulanti dallo standard dell’uomo medio. 64. In realtà, come si è visto sopra (punti 10 e ss.), la materia del risarcimento del danno non patrimoniale ha trovato un definitivo inquadramento sistematico - in linea con le sentenze della Suprema Corte di Cassazione, Sezione III civile, n. 8827 e n. 8828 del 31 maggio 2003, a cui ha fatto seguito, in senso conforme, la decisione della Corte Costituzionale n. 233/2003 - con la sentenza della Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite dell’11 novembre 2008 n. 26972. 65. Con questa importante decisione, che in virtù della funzione nomofilattica della Suprema Corte assurge, nel diritto vivente italiano, a paradigma di future interpretazioni dei giudici di diritto interno, la Corte di Cassazione ha definitivamente superato la prassi dei giudici di merito di scomporre il danno non patrimoniale in danno biologico, danno morale e danno esistenziale, chiarendo che il riferimento a varie voci di danno, comunque denominate, (danno morale, danno biologico, danno esistenziale, danno da perdita del rapporto parentale), può rispondere solo ad esigenze descrittive, che non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno. 66. Conseguenza di questo importante principio, è che il pregiudizio della vita di relazione comunemente denominato “danno esistenziale” così come i turbamenti d’animo o sofferenze soggettive, comunemente denominati “danno morale”, allorché dipendano da una lesione dell'integrità psicofisica della persona, costituiscono solo alcuni dei possibili riflessi negativi della lesione dell'integrità fisica dei quale il giudice deve tenere conto nella liquidazione del danno biologico, e non possono essere fatti valere come distinte voci di danno. 67. Il danno non patrimoniale da lesione della salute costituisce, quindi, una categoria ampia, nella cui liquidazione il giudice deve tenere conto di tutti i pregiudizi concretamente patiti dalla vittima, ma senza duplicare il ri- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 119 sarcimento attraverso l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici. 68. Al danno biologico va, pertanto, riconosciuta una portata tendenzialmente omnicomprensiva, confermata dalla definizione normativa adottata dal D. Lgs. 209/2005 (artt. 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni). 69. Ne consegue che è inammissibile, perché costituisce una duplicazione risarcitoria, la congiunta attribuzione alla vittima di lesioni personali del risarcimento sia per il danno biologico, sia per danno esistenziale, sia per il danno morale, i quali costituiscono necessariamente - come si è detto - meri componenti del primo. 70. Da questi importanti e consolidati principi discende che il Giudice remittente erra nel ritenere che la liquidazione dei danni effettuata in applicazione dei criteri previsti dall’art. 139 del Codice delle Assicurazioni non garantisca un integrale ristoro di tutte le sfaccettature (segnatamente, del danno morale) di cui si compone il danno non patrimoniale subito dalla vittima di un incidente stradale. 71. Né appare esatta l’affermazione dello stesso remittente, secondo cui il risarcimento dei danni liquidato ex art. 139 cit. non consente un’efficace personalizzazione dei danni non patrimoniali conseguenza di una lesione di lieve entità subita in occasione di un incidente stradale, diversamente da quanto accadrebbe per i danni scaturiti da altra causa, atteso che la stessa norma, al comma 3, consente al giudice di aumentare l'ammontare del danno biologico liquidato, in una misura non superiore ad un quinto, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato. 72. Un’ultima considerazione va spesa, per completezza di trattazione, sull’assunto del Giudice remittente secondo il quale le “tabelle” previste dall’art. 139, ai fini del calcolo del risarcimento dei danni da circolazione stradale procurati da lesioni di lieve entità, garantirebbero un risarcimento inferiore rispetto a quello calcolabile secondo le tabelle ordinariamente in uso per lesioni derivanti da cause diverse dalla circolazione stradale. 73. L’assunto in questione, oltre che generico, non sembra tenere conto del fatto che le tabelle in uso presso i vari tribunali - che non hanno valore normativo ma di mera prassi non avente valore vincolante - recano valori tra loro difformi, tanto che la Suprema Corte di Cassazione ha sottolineato come tali differenze possano comportare una violazione del principio di equità, principio che, invece, sarebbe garantito dall’adozione di una tabella unica, che potrebbe essere proprio quella di cui all’art. 139 del Codice delle Assicurazioni (Corte di Cassazione a Sezioni Unite dell’11 novembre 2008 n. 26972). Da questo punto di vista, non vi è dubbio che i parametri normativi di cui all’art. 139 cit., essendo uniformemente applicabili in virtù del loro valore normativo, garantiscono un trattamento risarcitorio equo alle vittime di incidenti stradali. 120 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 CONCLUSIONI 74. Alla stregua delle considerazioni che precedono, il Governo italiano suggerisce alla Corte di dichiarare irricevibile il quesito pregiudiziale. 75. In subordine, il Governo italiano suggerisce di rispondere come segue al quesito sottoposto al suo esame “alla luce delle direttive 72/166/CEE, 84/5/CEE, 90/232/CEE e 2009/103/CE che regolano l'assicurazione obbligatoria in materia di responsabilità civile derivante dalla circolazione di autoveicoli, è consentito alla legislazione interna di uno Stato membro di prevedere - attraverso la quantificazione obbligatoria ex lege dei danni derivanti da lesioni di lieve entità causati da sinistri stradali - una disciplina puntuale (sotto il profilo della quantificazione) della responsabilità per danni non patrimoniali posti a carico dei soggetti (le compagnie assicuratrici) obbligati, ai sensi delle medesime direttive, a garantire l'assicurazione obbligatoria per i danni da circolazione dei veicoli”. Roma, 22 novembre 2012 Massimo Santoro Avvocato dello Stato Osservazioni del Governo della Repubblica italiana (avv. Stato Stefano Varone, AL 38165/12) in relazione alla causa C-409/12 avente ad oggetto domanda di pronuncia pregiudiziale proposta, ai sensi dell’art. 267 TFUE, dal “Oberster Patent – und Markensenat” (Austria) e notificata all’avvocatura in data 5 ottobre 2012. Materia: Ravvicinamento delle legislazioni SOMMARIO: 1.Le questioni pregiudiziali proposte 2.La normativa europea 3.La normativa austriaca oggetto dei quesiti pregiudiziali 4. Sulla prima questione pregiudiziale 5. Sulla seconda questione pregiudiziale 6. Sulla terza questione pregiudiziale 7. Conclusioni 1. LE QUESTIONI PREGIUDIZIALI PROPOSTE L’Oberster Patent – und Markensenat in data 6 settembre 2012 depositava CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 121 ordinanza contenente domanda di pronuncia pregiudiziale, chiedendo a codesta Corte di rispondere ai seguenti quesiti: 1) “Se un marchio sia divenuto una ‘generica denominazione commerciale di un prodotto o servizio’ ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2008/95/CE (direttiva sui marchi) quando: a. i commercianti sono consapevoli che si tratta di un’indicazione di origine, ma di norma non lo rivelano ai consumatori finali e b. i consumatori finali (anche) per tale motivo non percepiscono più il marchio come indicazione di origine, bensì come generica denominazione commerciale di prodotti o servizi per i quali il marchio è registrato. 2) Se una inattività ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2009/95/CE possa essere riscontrata già per il fatto che il titolare del marchio non interviene benché i commercianti non indichino alla clientela che si tratta di un marchio registrato. 3) Se un marchio che, per il fatto dell’attività o inattività del suo titolare, è divenuto per i consumatori finali, ma non nel settore commerciale, una generica denominazione commerciale, debba essere dichiarato decaduto quando, e anche soltanto quando, i consumatori finali, in mancanza di alternative equivalenti, devono servirsi di tale denominazione”. Il Giudice del rinvio ha chiesto dunque a codesta Corte di pronunciarsi in merito alla corretta interpretazione e all’individuazione dell’ambito applicativo dell’art. 12, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2008/95/CE, contenente la disciplina uniforme in materia di marchi. Nello specifico, l’Oberster Patent solleva il problema dei requisiti per la configurabilità in concreto del fenomeno della “volgarizzazione del marchio” nella condizione in cui un determinato prodotto arrivi al consumatore finale passando attraverso un processo di lavorazione ad opera di soggetti che si pongono come intermediari tra il produttore del bene identificabile con il marchio e, appunto, gli utilizzatori finali. In particolare, il primo quesito, riguarda l’applicabilità dell’art. 12, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2008/95/CE (e dunque il verificarsi della “trasformazione” di un marchio in “generica denominazione commerciale di un prodotto o servizio”) all’ipotesi in cui nel processo di commercializzazione di un prodotto i) solo i commercianti-intermediari, i quali acquistano dal titolare del marchio il prodotto del quale si servono e sottopongono a lavorazione prima di distribuirlo tra i consumatori finali, siano consapevoli che il “nome” dello stesso costituisca un’indicazione di origine e dunque un marchio del quale è titolare il produttore dal quale si sono forniti; e ii) al contempo, gli utilizzatori finali, anche a causa del comportamento reticente dei commercianti (i quali nella normalità dei casi preferiscono tacere di aver acquistato presso terzi il prodotto da essi lavorato e dunque non rivelano che il “nome” del prodotto si identifica con un marchio identificativo 122 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 dell’origine dello stesso), sono in larghissima parte all’oscuro della circostanza che la denominazione del prodotto acquistato tragga ragione dall’esistenza di un marchio, ritenendo piuttosto che il medesimo nomen costituisca una denominazione volgare del bene consumato. Il secondo quesito riguarda la corretta interpretazione del termine “inattività” ai sensi dell’art. 12, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2008/95/CE, e dunque, in particolare, la possibilità di ritenere che il comportamento del titolare di un marchio consistente nel non intervenire in alcun modo nonostante i commercianti (intermediari nel processo di commercializzazione) non indichino alla clientela che si tratta di un marchio registrato, configuri quel tipo di inattività che la direttiva considera idonea a determinare il fenomeno della volgarizzazione del marchio, e dunque la decadenza dello stesso. Il terzo quesito ha ad oggetto la comprensione del ruolo che debba essere attribuito alla circostanza in cui manchino denominazioni alternative equivalenti a quella del marchio registrato, e, dunque, la riconducibilità di tale mancanza all’articolo 12, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2008/95/CE. 2. LA NORMATIVA EUROPEA La materia oggetto delle presenti questioni pregiudiziali è disciplinata dalla direttiva 2009/95/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 ottobre 2008. Tale normativa è diretta ad armonizzare le legislazioni nazionali sui marchi d’impresa e sostituisce, senza apportarvi sostanziali modifiche, la direttiva del Consiglio 89/104/CEE del 21 dicembre 1988, come modificata da una decisione del Consiglio del 1992. In particolare, codesta Corte è stata chiamata a risolvere tre questioni relative ad uno dei “Motivi di decadenza” previsti dall’art. 12 della predetta direttiva. Tale disposizione, al paragrafo 1, stabilisce che “il marchio di impresa è suscettibile di decadenza se entro un periodo ininterrotto di cinque anni esso non ha formato oggetto di uso effettivo nello Stato membro interessato per i prodotti o servizi per i quali è stato registrato e se non sussistono motivi legittimi per il suo mancato uso (…)”. Al paragrafo 2, che “fatto salvo il paragrafo 1, il marchio d’impresa è suscettibile inoltre di decadenza qualora, dopo la data di registrazione: a) sia divenuto, per il fatto dell’attività o inattività del suo titolare, la generica denominazione commerciale di un prodotto o servizio per il quale è registrato; b) sia idoneo a indurre in errore il pubblico, in particolare circa la natura, la qualità o la provenienza geografica dei suddetti prodotti o servizi, a causa dell’uso che ne viene fatto dal titolare del marchio di impresa o con il suo consenso per i prodotti o servizi per i quali è registrato”. Dunque, l’articolo 12 prevede tre motivi di decadenza del marchio. In primo luogo, al paragrafo 1, per mancato uso dello stesso nei cinque anni successivi alla registrazione, in secondo luogo, al paragrafo 2, lettera a), CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 123 per “volgarizzazione”, in terzo luogo, al paragrafo 2, lettera b), qualora a causa del cattivo uso che ne viene fatto dal titolare, o comunque con il consenso di quest’ultimo, sia idoneo a ingenerare nel pubblico seri dubbi circa la natura, la qualità o la provenienza dei prodotti. La presente domanda pregiudiziale riguarda il secondo motivo di decadenza, ovvero la “volgarizzazione” del marchio, che si verifica proprio quando il marchio non sia più percepito dall’ambiente di destinazione del prodotto come un elemento indicativo della provenienza del prodotto stesso da una determinata impresa, bensì come “generica denominazione commerciale di un prodotto o servizio per il quale è registrato”. Dunque, in sostanza, quando il marchio perde la propria capacità tipica, ovvero quella di indicare la “provenienza” del prodotto, divenendo il nomen volgare che identifica sotto il profilo commerciale un tipo di prodotto o servizio, il legislatore considera il marchio stesso decaduto. Inoltre, la lettera della norma attribuisce esplicitamente rilevanza alla condotta (tanto attiva quanto omissiva) del titolare alla quale è ricondotto causalmente l’evento “volgarizzazione” del marchio (“per il fatto dell’attività o inattività del suo titolare”). 3. LA NORMATIVA AUSTRIACA Il già analizzato art. 12, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2008/95/CE, è stato attuato in Austria con l’articolo 33b della legge in materia di marchi (MSchG). Ai sensi di tale norma, come specificato dal Giudice remittente, “(1) Chiunque può chiedere la cancellazione di un marchio, qualora, dopo la data di registrazione, sia divenuto, per il fatto dell’attività o inattività del suo titolare, la generica denominazione commerciale, di un prodotto o servizio per il quale è registrato. ”(2) La dichiarazione di decadenza opera retroattivamente sino al momento in cui è stato dimostrato il compimento della trasformazione del marchio in denominazione generica (segno comune)”. Dal confronto tra l’articolo 12, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2008/95/CE e l’articolo 33b, paragrafo 1, della legge austriaca in materia di marchi (MSchG), emerge che la disposizione di attuazione ricalca sostanzialmente il contenuto di quella comunitaria (1). (1) Alla medesima conclusione si può giungere all’esito della comparazione tra la disposizione comunitaria in esame e la corrispondente (di attuazione) nell’ordinamento italiano. Infatti, ai sensi dell’art. 13, ultimo comma, del Codice della proprietà industriale (d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30): “Il marchio decade se, per il fatto dell’attività o dell’inattività del suo titolare, sia divenuto nel commercio denominazione generica del prodotto o servizio o abbia comunque perduto la sua capacità distintiva”. 124 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 4. SULLA PRIMA QUESTIONE PREGIUDIZIALE “Se un marchio sia divenuto una ‘generica denominazione commerciale di un prodotto o servizio’ ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2008/95/CE (direttiva sui marchi) quando a. i commercianti sono consapevoli che si tratta di un’indicazione di origine, ma di norma non lo rilevano ai consumatori finali e b. i consumatori finali (anche) per tale motivo non percepiscono più il marchio come indicazione di origine, bensì come generica denominazione commerciale di prodotti o servizi per i quali il marchio è registrato”. Come evidenziato, il primo quesito, ha ad oggetto l’applicabilità dell’art. 12, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2008/95/CE (e dunque il verificarsi della “trasformazione” di un marchio in “generica denominazione commerciale di un prodotto o servizio” ) all’ipotesi in cui nel processo di commercializzazione di un prodotto i) solo i commercianti-intermediari, i quali acquistano dal titolare del marchio il prodotto del quale si servono e sottopongono a lavorazione prima di diffonderlo tra i consumatori finali, siano consapevoli che il “nome” dello stesso costituisca un’indicazione di origine e dunque un marchio del quale è titolare il produttore dal quale si sono forniti; e ii) al contempo, gli utilizzatori finali, anche a causa del comportamento reticente dei commercianti (i quali nella normalità dei casi preferiscono tacere di aver acquistato presso terzi il prodotto da essi lavorato e dunque non rivelano che il “nome” del prodotto si identifica con un marchio identificativo dell’origine dello stesso), sono in larghissima parte all’oscuro della circostanza che la denominazione del prodotto acquistato tragga ragione dall’esistenza di un marchio, ritenendo piuttosto che il medesimo nomen costituisca una denominazione volgare del bene consumato. Ritiene il Governo Italiano che la risposta al quesito debba essere affermativa. Preliminarmente è utile considerare le circostanze di fatto alla base della controversia sottoposta alla cognizione del giudice remittente, in quanto tali elementi fattuali sono essenziali ai fini di una corretta interpretazione e delimitazione dell’ambito applicativo della norma oggetto della presente domanda pregiudiziale. Il Tribunale rimettente, prima di entrare nel merito dei quesiti, effettua una precisazione essenziale, rilevando che nel caso di specie il marchio è stato registrato per prodotti che vengono commercializzati o comunque possono essere commercializzati in mercati diversi. Da un lato, si tratta di prodotti grezzi e intermedi, i cui utilizzatori sono prevalentemente fornai e commercianti di generi alimentari, i quali (tanto i fornai quanto i commercianti) sono ancora ben consapevoli del fatto che la denominazione in questione rappresenta un’indicazione della provenienza da una determinata impresa. Dall’altro, si tratta di prodotti finiti, i cui utilizzatori sono i consumatori finali, CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 125 i quali (dall’istruttoria compiuta durante il procedimento) sono in larga parte ignari del fatto che la denominazione in questione rappresenta un marchio, ritenendo invece che sia la denominazione generica del prodotto acquistato. Tali fatti sono rilevanti nel presente giudizio in quanto fanno emergere che in concreto vi è la possibilità che uno stesso marchio sia registrato per prodotti diversi e (come nel caso in esame) destinati a mercati tra loro ben distinti, in quanto le categorie di soggetti che determinano la domanda dei rispettivi prodotti sono diverse. In un primo caso, per i prodotti “grezzi” o “intermedi”, il titolare del marchio intraprende rapporti commerciali con fornai e commercianti; nell’altro, per i prodotti “finiti”, gli utilizzatori vanno identificati con i consumatori finali. Nel primo caso, il titolare del marchio vende “direttamente” i propri prodotti grezzi o intermedi a fornai e commercianti, i quali, in ragione di tale rapporto diretto con il produttore, sono a perfetta conoscenza del fatto che la denominazione del prodotto acquistato rappresenta l’indicazione della provenienza degli stessi da una specifica impresa. Al contrario, nel secondo caso, i consumatori finali non hanno alcun rapporto diretto con il titolare del marchio, in quanto acquistano il prodotto finito da fornai o commercianti, ovvero coloro i quali costituiscono la domanda nell’ambito del diverso mercato dei prodotti grezzi o intermedi. Dunque, si può affermare che in relazione al mercato nel quale si collocano i prodotti finiti, il rapporto tra il produttore e i consumatori finali è solo “indiretto”, ovvero mediato dall’intervento di quei soggetti che nel “mercato a monte” sono, al contrario, direttamente coinvolti in rapporti commerciali con il produttore. Orbene, correttamente, il giudice remittente tiene separate le due questioni. I) Quella inerente ai prodotti grezzi o intermedi in relazione alla quale non vi è motivo di ritenere che si sia configurato il fenomeno della volgarizzazione, in quanto nel mercato si verifica un rapporto diretto e costante tra il titolare del marchio e i soggetti acquirenti dei prodotti grezzi e intermedi i quali non possono che essere consapevoli che il nome del prodotto sia un marchio e dunque rappresenti la provenienza degli stessi; II) quella, oggetto della presente domanda pregiudiziale, relativa alla presunta avvenuta volgarizzazione del marchio con riferimento ai prodotti finiti, i quali si inseriscono in un mercato diverso rispetto a quello dei prodotti intermedi. Una volta rilevata la possibilità che un marchio si riferisca a prodotti tra loro differenti e destinati a mercati altrettanto separati, è opportuno considerare il tenore letterale della normativa comunitaria, alla luce dell’orientamento espresso in passato da codesta Corte relativamente a fattispecie essenzialmente analoghe, in modo tale da accertare quale sia la ratio della stessa e di conseguenza individuare la disciplina applicabile all’ipotesi in questione. 126 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Codesta Corte, nella sentenza C-371/02, ha d’altronde già analizzato la tematica. La domanda pregiudiziale allora proposta dal giudice remittente era la seguente: “Nel caso in cui un prodotto passi attraverso varie fasi di commercializzazione prima di raggiungere il consumatore, quali siano, ai fini dell’applicazione dell’art. 12, n. 2, let. a), della direttiva sui marchi, gli ambienti rilevanti per valutare se un marchio sia diventato la generica denominazione commerciale di un prodotto per il quale è registrato”. I passaggi rilevanti ai fini della presente questione sono quelli dal punto 20 al punto 24 che di seguito si riportano: “20. La funzione essenziale del marchio consiste nel garantire al consumatore o all’utilizzatore finale l’identità di origine del prodotto o del servizio contrassegnato, consentendogli di distinguere senza confusione possibile tale prodotto o servizio da quelli di provenienza diversa. Per poter svolgere la sua funzione di elemento essenziale del sistema di concorrenza leale che il Trattato CE intende istituire, esso deve costituire la garanzia che tutti i prodotti o servizi che ne siano contrassegnati sono stati fabbricati sotto il controllo di un’unica impresa alla quale possa attribuirsi la responsabilità della loro qualità. 21. Il legislatore comunitario ha consacrato tale funzione essenziale del marchio disponendo, all’art. 2 della direttiva, che i segni riproducibili graficamente possono costituire un marchio a condizione ch’essi siano adatti a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese. 22. Da tale condizione vengono poi tratte talune conclusioni, in particolare agli artt. 3 e 12 della direttiva. Mentre l’art. 3 elenca i casi in cui il marchio non è idoneo, ab initio, a svolgere la funzione di indicazione di origine, l’art. 12, n. 2, let. a), indica il caso in cui il marchio non è più atto ad adempiere tale funzione. 23. Orbene, se la funzione di indicazione di origine propria del marchio è essenziale, innanzi tutto, per il consumatore o l’utilizzatore finale, essa è parimenti importante per gli intermediari che intervengono nella commercializzazione del prodotto. Infatti, così come per i consumatori, o gli utilizzatori finali, essa contribuirà a determinare il loro comportamento sul mercato. 24. In generale, la percezione dell’ambiente dei consumatori o degli utilizzatori finali ha un ruolo determinante. Infatti, l’intero processo di commercializzazione ha come obiettivo l’acquisto del prodotto da parte di tale ambiente ed il ruolo degli intermediari consiste tanto nell’individuare e nell’anticipare la domanda di tale prodotto quanto nell’amplificarla o nell’orientarla. 25. Così, negli ambienti di riferimento rientrano innanzi tutto i consumatori e gli utilizzatori finali. Tuttavia, a seconda delle caratteristiche del mercato del prodotto interessato, occorre anche tenere conto dell’influenza degli intermediari sulle decisioni di acquisto e, quindi, della loro percezione del marchio. 26. Occorre pertanto rispondere alla questione pregiudiziale sottoposta alla Corte dichiarando che l’art. 12, n. 2, lett. a), della direttiva CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 127 deve essere interpretato nel senso che, nel caso in cui intervengano intermediari nella distribuzione al consumatore o all’utilizzatore finale di un prodotto coperto da una marchio registrato, gli ambienti rilevanti per valutare se il detto marchio sia diventato la comune denominazione commerciale del prodotto in questione sono costituiti dall’insieme dei consumatori o degli utilizzatori finali e, a seconda delle caratteristiche del mercato del prodotto interessato, dall’insieme degli operatori professionali che intervengono nella commercializzazione di quest’ultimo”. Orbene, il principio dettato da codesta Corte nella decisione C-371/02 può essere riassunto nel modo seguente: poiché l’intero processo di commercializzazione ha come obiettivo l’acquisto del prodotto da parte dei consumatori-utilizzatori finali, la percezione di tale ambiente assume un ruolo preminente. Tuttavia, a seconda delle caratteristiche del mercato del prodotto interessato, occorre in talune circostanze tenere altresì conto dell’influenza degli intermediari sulle decisioni di acquisto effettuate dai consumatori finali, nella misura in cui il ruolo dei primi sia tale da individuare e anticipare la domanda di tale prodotto, ovvero da amplificarla o orientarla e dunque, in sostanza, tale da incidere sulla percezione e decisione di acquisto dei consumatori finali. Tale conclusione risulta assolutamente coerente con la volontà del legislatore comunitario, il quale, nel dettare la disciplina del fenomeno della volgarizzazione del marchio come una delle cause che determinano la decadenza dello stesso, stabilisce “un nesso di causalità” tra il risultato che configura la volgarizzazione (“il marchio di impresa è suscettibile inoltre di decadenza qualora (…) sia divenuto (…) la generica denominazione commerciale di un prodotto o servizio per il quale è registrato” ) e il comportamento attivo o l’inerzia del titolare del marchio stesso (“per il fatto dell’attività o inattività del suo titolare”). Non vi è ragione di negare che la norma sia applicabile anche alle ipotesi in cui tra il titolare del marchio e il consumatore finale non vi sia un rapporto diretto, bensì, come nel caso di specie, mediato dall’intervento di soggetti intermediari, a loro volta utilizzatori del prodotto grezzo o intermedio nel “mercato di livello superiore”. Infatti, il legislatore comunitario, attribuendo rilevanza giuridica all’inerzia del titolare ai fini della decadenza del marchio, riconosce al medesimo la possibilità di attivarsi e dunque evitare che si verifichi la volgarizzazione del marchio, anche qualora vi sia l’interposizione di un mercato intermedio tra di esso e il consumatore finale, agendo direttamente o indirettamente sulla percezione dell’ambiente che assume rilevanza determinante ai fini della norma in esame. Il produttore, infatti, avrebbe potuto imporre ai commercianti o ai fornai di comunicare ai consumatori che il nome del prodotto costituiva un marchio e non una generica denominazione del prodotto, e così facendo avrebbe posto in essere 128 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 un’attività giuridicamente rilevante e tale da impedire la decadenza del marchio del quale è titolare. Dunque, nell’ipotesi in esame, il titolare del marchio non risulta privo di tutela, in quanto egli è messo nelle condizioni di porre rimedio in modo diretto al processo di volgarizzazione in atto. Anche per tale motivo è ragionevole attribuire rilevanza (quasi) esclusiva alla percezione dei consumatori- utilizzatori finali. Pertanto, nell’applicare il principio (così interpretato) espresso da codesta Corte alla fattispecie in esame (precisando nuovamente che il marchio è stato registrato per prodotti diversi, destinati a mercati distinti), e dunque in relazione al marchio registrato per il prodotto finale (oggetto della presente questione) bisogna dunque indirizzare l’analisi verso due quesiti: i) preliminarmente e in via principale, se nell’ambiente dei consumatoriutilizzatori finali vi sia la percezione che il marchio sia divenuto la generica denominazione commerciale del prodotto; ii) in via subordinata, se il mercato del prodotto interessato abbia delle caratteristiche tali da rendere altresì rilevante la percezione dell’insieme degli operatori professionali che intervengono nella commercializzazione del prodotto. Nel caso di specie, i) è stato accertato che i consumatori finali non percepiscono più il marchio come indicazione di origine, bensì come generica denominazione commerciale dei prodotti per i quali è registrato; ii) la diversa percezione dei fornai e dei commercianti non assume rilevanza rispetto al marchio registrato per i prodotti finali in quanto la consapevolezza degli stessi che il termine “Kornspritz” non identifichi il nome del prodotto finito, ma indichi il marchio, non incide sulla percezione e decisione di acquisto dei consumatori finali, la quale è, secondo codesta Corte, fattore dirimente. Pertanto, il marchio “Kornspritz” dovrebbe essere dichiarato decaduto dal giudice remittente in relazione ai prodotti finiti. 5. SULLA SECONDA QUESTIONE PREGIUDIZIALE “Se una inattività ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2008/95/CE possa essere riscontrata già per il fatto che il titolare del marchio non interviene benché i commercianti non indichino alla clientela che si tratta di un marchio registrato”. Come sopra rilevato, il secondo quesito riguarda la corretta interpretazione del termine “inattività” ai sensi dell’art. 12, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2008/95/CE, e dunque, in particolare, la possibilità di ritenere che il comportamento del titolare di un marchio consistente nel non intervenire in alcun modo nonostante i commercianti (intermediari nel processo di commercializzazione) non indichino alla clientela che si tratta di un marchio registrato, configuri quel tipo di inattività che la direttiva CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 129 considera idonea a determinare il fenomeno della volgarizzazione del marchio, e dunque la decadenza dello stesso. Ritiene il Governo italiano che la risposta a tale secondo quesito pregiudiziale debba essere affermativa. Nel caso di specie, la questione ha ad oggetto un comportamento inerte del produttore. Tuttavia, tale inerzia non rientra in quelle inattività consistenti nella non opposizione da parte del titolare del marchio alle ingerenze da parte di terzi sul suo diritto al marchio, alle quali codesta Corte ha già attribuito rilevanza, (v. C-145/05, Levi Strauss & Co / Casucci S.p.A., punto 34 (2)). Le argomentazioni a fondamento della risposta affermativa a tale seconda domanda sono le seguenti. In prima battuta, il tenore letterale della norma. Infatti, come già rilevato, il legislatore comunitario attribuisce rilevanza, in modo esplicito, alla condotta del titolare del marchio, evidenziando la sussistenza di un rapporto di causalità (necessario) tra l’attività o l’inattività del produttore e la percezione che l’ambiente di destinazione del prodotto ha di quest’ultimo (se un marchio “per il fatto dell’attività o inattività del suo titolare, la generica denominazione commerciale di un prodotto o servizio per il quale è registrato” ). Da tale impostazione di causalità “necessaria”, si può evincere a contrario che l’art. 12 della direttiva 2008/95/CE attribuisce un potere di intervento al titolare del marchio, il quale è messo nelle condizioni di causare in modo attivo o “tollerare” in modo passivo la trasformazione del marchio in designazione generica. In ogni caso, dunque, al produttore è riconosciuto un ruolo determinante nel processo causale che porta all’evento volgarizzazione. Egli può causarlo da solo, ovvero può contribuire attivamente, ovvero determinarsi a non agire, nella consapevolezza che si è avviato un processo che potrebbe comportare la decadenza del marchio, e nell’ambito del quale egli ha (quantomeno in linea teorica) sempre il potere di incidere in modo determinante. Sulla base dello stesso tenore della norma, la quale non tipizza i comportamenti attivi o passivi rilevanti, è lecito concludere che il legislatore non abbia ritenuto che solo alcuni comportamenti siano da considerarsi rilevanti. Al contrario, il carattere generico della disposizione suggerisce che qualunque comportamento inattivo del titolare del marchio sia da considerarsi rilevante nella misura in cui abbia causato o contribuito a causare in maniera più o meno rilevante la trasformazione del marchio in designazione generica. (2) Di seguito il punto 34 della sentenza relativa alla causa C-145/05: “Un’inattività siffatta può anche corrispondere all’omesso ricorso in tempo utile, da parte del titolare di un marchio (…) al fine di chiedere all’autorità competente di vietare ai terzi interessati di usare il segno per cui sussiste un rischio di confusione con codesto marchio, poiché una siffatta domanda ha precisamente l’oggetto di preservare la capacità distintiva del suddetto marchio”. 130 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 In secondo luogo, tali conclusioni sono coerenti con l’orientamento espresso da codesta Corte nella sentenza sopra citata (C-145/05), e, in particolare, con quanto da quest’ultima affermato al punto 34 della pronuncia. Il punto 34 stabilisce che “Un’inattività siffatta può anche corrispondere all’omesso ricorso in tempo utile, da parte del titolare di un marchio (...) al fine di chiedere all’autorità competente di vietare ai terzi interessati di usare il segno per cui sussiste un rischio di confusione con codesto marchio, poiché una siffatta domanda ha precisamente l’oggetto di preservare la capacità distintiva del suddetto marchio”. Dunque, al di là della circostanza meramente fattuale per cui codesta Corte nel caso di specie ha riconosciuto rilevanza alla mancata opposizione del titolare alla fruizione da parte di terzi del proprio marchio, ciò che è stato in realtà sancito da codesta pronuncia e che è suscettibile di espansione oltre l’ipotesi di fatto in quella occasione analizzata, è che l’inattività del produttore è rilevante nella misura in cui esso avrebbe potuto, attivandosi, preservare la capacità distintiva del marchio (nel caso della sentenza C-145/05 ricorrendo agli idonei strumenti di tutela giurisdizionale). Pertanto, poiché nel caso in questione il titolare del marchio avrebbe ben potuto intraprendere una serie di attività ragionevolmente idonee ad evitare la trasformazione in denominazione generica (ad esempio pretendendo dai fornai e dai commercianti che in occasione della vendita dei prodotti finiti realizzati con il proprio preparato per la panificazione facessero in modo che i consumatori finali continuassero a percepire la denominazione come marchio, ovvero presentando nella pubblicità in modo chiaro il marchio come indicazione di origine), l’inattività dello stesso deve essere ritenuta rilevante ai fini dell’articolo 12, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2008/95/CE, e tale dunque da causare o contribuire in maniera determinante alla trasformazione del marchio in denominazione generica. 6. SULLA TERZA QUESTIONE PREGIUDIZIALE “Se un marchio che, per il fatto dell’attività o inattività del suo titolare, è divenuto per i consumatori finali, ma non nel settore commerciale, una generica denominazione commerciale, debba essere dichiarato decaduto quando, e anche soltanto quando, i consumatori finali, in mancanza di alternative equivalenti, devono servirsi di tale denominazione”. Il terzo quesito ha ad oggetto la comprensione del ruolo che debba essere attribuito alla circostanza in cui manchino denominazioni alternative equivalenti a quella del marchio registrato, e, dunque, la riconducibilità di tale mancanza all’articolo 12, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2008/95/CE. A parere del Governo italiano la risposta a tale terzo quesito pregiudiziale deve essere negativa. È infatti difficile concepire la mancanza di denominazioni alternative CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 131 come un fatto a sé stante, il quale, anche da solo, possa essere legittimamente ritenuto in grado di provocare la decadenza del marchio, senza che risulti aggirata la portata della disposizione comunitaria. Sul piano teorico la mancanza di denominazioni alternative può essere considerato i) uno dei fattori che potrebbero causare la perdita della capacità distintiva del marchio, ovvero ii) il “risultato” stesso del processo di trasformazione del marchio in denominazione generica. Ai fini della presente domanda, ci si deve riferire alla prima accezione delle due sopra enucleate, in quanto, altrimenti, la domanda si risolverebbe in una affermazione tautologica e priva di alcun significato pratico (in sostanza: può da sola la trasformazione del marchio in denominazione generica determinare decadenza dello stesso?). Dall’analisi fin qui svolta, risulta che il legislatore comunitario ha riconosciuto al titolare del segno distintivo il potere di contrastare la volgarizzazione di quest’ultimo. Pertanto, anche in mancanza di denominazioni alternative, il produttore è sempre messo nelle condizioni di fare opposizione al processo di volgarizzazione, e, dunque, nel caso di specie, di compiere quelle attività in grado di mantenere viva la capacità distintiva del marchio. Dunque, la mancanza di denominazioni alternative non può che essere considerata come uno degli eventuali “fattori di rischio” in grado di contribuire al processo causale che porta alla volgarizzazione del segno distintivo, la quale, ai fini e nei limiti della ratio della normativa comunitaria, non è in grado di determinare, da sola, la decadenza del marchio. 7. CONCLUSIONI Per le motivazioni sopra esposte il Governo Italiano suggerisce di dare risposta positiva ai primi due quesiti e negativa al terzo. Roma 26 novembre 2012 Stefano Varone Avvocato dello Stato 132 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Osservazioni del Governo della Repubblica italiana (avv. Stato Wally Ferrante, AL 42465/12) nella causa C-442/12, promossa ai sensi dell’art. 267 TFUE con l’ordinanza del 28 settembre 2012, depositata in data 3 ottobre 2012 dal Hoge Raad der Nederlanden (Paesi Bassi). Materia: Libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi Diritto di stabilimento Libera circolazione dei servizi QUESTIONI PREGIUDIZIALI 1. Con l’ordinanza in epigrafe, è stato chiesto alla Corte di Giustizia dell’Unione europea di pronunciarsi, ai sensi dell’art. 267 TFUE, sulle seguenti questioni pregiudiziali: “1. Se l‘art. 4, paragrafo 1 della Direttiva 87/344/CEE, consente che un assicuratore di tutela giudiziaria, che nelle sue polizze prevede che la tutela giudiziaria in procedimenti giurisdizionali o amministrativi in linea di principio verrà fornita da dipendenti dell’assicuratore, stipuli anche che le spese di tutela giudiziaria di un avvocato o consulente giuridico liberamente scelto dall’assicurato rientrano nella copertura assicurativa solo se l’assicuratore ritiene che il procedimento debba essere gestito da un consulente giuridico esterno. 2. Se, ai fini della risposta alla prima questione, rilevi la circostanza che per il procedimento giurisdizionale o amministrativo di cui trattasi sia obbligatoria o meno la rappresentanza tecnica in giudizio”. ESPOSIZIONE DEI FATTI DI CAUSA 2. La questione pregiudiziale trae origine da una controversia tra un assicurato (di seguito ricorrente) e la società assicuratrice DAS Nederlandse Rechtsbijstand Verzekeringsmaatschappij N. V. (di seguito resistente) concernente il contenuto di un’assicurazione di tutela giudiziaria. 3. In particolare, il ricorrente pretende un risarcimento dal suo ex datore di lavoro, lamentando di essere stato licenziato senza motivo e intende intentare un’azione giudiziaria nei confronti dello stesso, con l’assistenza di un avvocato di sua scelta e spese a carico del suo assicuratore. 4. La resistente sostiene invece che il contratto di assicurazione stipulato dal ricorrente non offrirebbe copertura per i costi di assistenza legale da parte di un avvocato scelto dall’assicurato ed è pertanto disposta a fornire essa stessa tutela giudiziaria allo stesso per mezzo di un proprio dipendente, da essa indicato, che non è avvocato. 5. Ciò, anche tenuto conto del fatto che, nel procedimento che il ricorrente intende instaurare nei confronti del suo ex datore di lavoro, non è obbligatoria la rappresentanza tecnica in giudizio. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 133 6. La domanda del ricorrente è stata rigettata in primo ed in secondo grado e la Corte di cassazione Olandese ha sollevato le suddette questioni pregiudiziali, sostenendo che molti argomenti depongono a sostegno della tesi secondo la quale all’assicurato deve essere sempre garantito il diritto di libera scelta del proprio rappresentante legale. NORMATIVA COMUNITARIA 7. La direttiva n. 87/344/CEE del 22 giugno 1987, recante coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative relative all’assicurazione tutela giudiziaria, stabilisce che quest’ultima consiste nell’impegnarsi, dietro pagamento di un premio, a farsi carico delle spese legali e ad offrire altri servizi derivanti dalla copertura assicurativa, promuovendo o resistendo ad un’azione civile, penale o amministrativa. 8. La suddetta direttiva individua espressamente, all’art. 1 e nei considerando quarto e undicesimo, fra i propri scopi, quello di facilitare l’esercizio effettivo della libertà di stabilimento e di evitare il più possibile il conflitto di interessi fra un assicurato coperto con la tutela giudiziaria e il suo assicuratore ove questi copra altro assicurato o l’assicurato medesimo anche per un altro ramo, accordando all’assicurato la libertà di scegliere il proprio rappresentante legale. 9. In particolare, il considerando 11 afferma che “l’interesse dell’assicurato coperto dalla tutela giudiziaria implica che quest’ultimo deve avere la possibilità di scegliere egli stesso l’avvocato o qualsiasi altra persona in possesso delle qualifiche ammesse dalla legislazione nazionale nell’ambito di qualunque procedimento giudiziario o amministrativo e ogni qualvolta sorga un conflitto di interessi”. 10. Gli artt. 3 e 4 della predetta direttiva sono preordinati al raggiungimento di tale obiettivo: tali disposizioni, sono fra loro complementari nel dettare sia misure organizzative dell’impresa, sia regole conformative del contratto, attraverso la previsione di garanzie specifiche a favore degli assicurati (cfr. Corte di Giustizia, 10 settembre 2009, causa C-199/08, Eschig, punti 40 e 41). 11. Per quanto concerne le misure organizzative, l’art. 3 comma 2, lettere a) e b) della direttiva impone agli assicuratori di gestire i sinistri mediante personale diverso rispetto a quello dedicato alla gestione dei sinistri di altri rami in seno alla medesima impresa o di affidarne la gestione ad un’impresa giuridicamente distinta. 12. Inoltre, l’art. 3, comma 2, lett. c), per evitare i conflitti di interesse, riconosce all’assicurato la libertà di scegliere il proprio rappresentante sin dal momento della denuncia di sinistro, stabilendo che: “l’impresa deve prevedere nel contratto il diritto per l’assicurato di affidare la tutela dei suoi interessi, non appena abbia il diritto di esigere l’intervento dell’assicuratore in virtù 134 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 della polizza, ad un avvocato di sua scelta o, se è consentito dalla legislazione nazionale, ad altra persona in possesso delle qualifiche necessarie”. 13. Per quanto concerne le garanzie specifiche, l’art. 4 della direttiva 87/344/CEE attribuisce agli assicurati il diritto di scegliere liberamente un rappresentante nei procedimenti giudiziari o amministrativi oppure quando sorge un conflitto di interessi. 14. Tale norma dispone espressamente che ogni contratto di tutela giudiziaria debba riconoscere in modo esplicito che: a) “ove un avvocato o qualsiasi altra persona in possesso delle qualifiche ammesse dalla legislazione nazionale sia chiamato a difendere, rappresentare o tutelare gli interessi dell’assicurato in qualunque procedimento giudiziario o amministrativo, l’assicurato è libero di scegliere”, b) l’assicurato è libero di scegliere un avvocato o, se preferisce e se è consentito dalla legislazione nazionale, altra persona in possesso delle qualifiche necessarie, per tutelare i suoi interessi qualora insorga un conflitto di interessi”. RISPOSTA AL PRIMO QUESITO 15. Con il primo quesito, il giudice del rinvio chiede in sostanza alla Corte di giustizia se l’art. 4, paragrafo 1 della direttiva 87/344/CEE legittimi un’interpretazione restrittiva secondo la quale il rimborso delle spese sostenute per la tutela giudiziaria mediante un avvocato liberamente scelto dall’assicurato sarebbe limitato al solo caso in cui l’assicuratore ritenga di far gestire il procedimento da un legale esterno e non da un proprio dipendente a ciò abilitato. 16. Il Governo italiano ritiene che al quesito debba darsi risposta negativa. 17. Innanzitutto, va ricordato che la direttiva 87/344/CEE mira, da un lato, ad agevolare la libertà di stabilimento delle imprese di assicurazioni mediante la soppressione delle barriere che derivano dalle normative nazionali che vietano il cumulo dell’assicurazione tutela giudiziaria con altri rami assicurativi e, dall’altro, a tutelare gli interessi degli assicurati, in particolare eliminando nel modo più ampio possibile gli eventuali conflitti di interesse e consentendo la soluzione delle controversie tra assicuratori e assicurati (Corte di giustizia, sentenza Eschig cit., punto 39). 18. In sintesi, la normativa comunitaria prevede tre modalità alternative di gestione dei sinistri: a) gestione diretta dell’assicuratore; b) gestione indiretta su decisione dell’assicuratore; c) libera scelta del legale esterno da parte dell’assicurato. 19. La terza possibile modalità di esercizio del ramo tutela giudiziaria consiste, dunque, nell’attribuire all’assicurato il diritto di affidare la tutela dei suoi interessi, in caso di sinistro, “ad un avvocato o ad altro professionista abilitato” non appena abbia, a termini di contratto, il diritto di esigere l’intervento dell’impresa di assicurazione. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 135 20. Al riguardo, sussiste una differenza tra l’art. 3 e l’art. 4 della direttiva, nella parte in cui si fa riferimento alla libera electio del professionista. 21. Infatti, l’art. 3 della direttiva configura un’ipotesi di contratto che riconosce all’assicurato diritti più ampi di quelli di cui all’art. 4, attribuendogli la facoltà di scegliere il proprio avvocato sin dal momento in cui ha la facoltà di attivare la garanzia prestata dal contratto, ossia sin da quando denuncia il sinistro richiedendo l’intervento del proprio assicuratore, (cfr. Corte di Giustizia, sentenza Eschig cit., punto 50). 22. In tale ipotesi, il diritto di scegliere l’avvocato opera sia nella fase stragiudiziale che in quella giudiziale; l’assicuratore è privo fin dall’inizio della facoltà di ingerenza nella gestione della vertenza, dovendosi limitare a verificare esclusivamente la regolarità tecnica e amministrativa della denuncia di sinistro (ovvero che l’evento rientra in garanzia e che vi sia stato il pagamento del premio), prendendo atto dell’avvenuta designazione del professionista abilitato. 23. L’art. 4, invece, attribuisce all’assicurato la facoltà di scegliere il legale unicamente in occasione di un procedimento giudiziario o amministrativo mentre tale facoltà di scelta, per la fase stragiudiziale, sembra limitata alla sola ipotesi di insorgenza di un conflitto di interesse. 24. Tuttavia, la chiave interpretativa non può non essere ricercata nell’11° considerando della direttiva che sancisce il principio secondo cui l’interesse dell’assicurato “implica che quest’ultimo deve avere la possibilità di scegliere egli stesso l’avvocato”. 25. Se ciò è vero, non sembra accettabile un’interpretazione della normativa comunitaria che lasci all’assicuratore o a terzi la possibilità di impedire la libera elezione del legale, in relazione alla natura della controversia o al fatto che per la stessa non è richiesto il patrocinio di un avvocato. 26. Ne consegue che le norme sopra esaminate vanno lette nel senso che l’assicurato abbia il diritto all’intervento del legale di sua scelta ogni volta che insorga il diritto alla prestazione assicurativa. 27. Pertanto sembra fondato il dubbio espresso dalla Cassazione olandese circa l’interpretazione contraria avallata dai giudici di merito, non potendo rilevare a sostegno della tesi da questi ultimi propugnata la preoccupazione espressa dalla resistente circa l’inevitabile aumento dei premi assicurativi che conseguirebbe al ricorso a legali esterni scelti dagli assicurati. 28. Del resto, l’art. 5 della direttiva individua tassativamente le eccezioni al principio della libera scelta del legale da parte dell’assicurato, sancito dall’art. 4, paragrafo 1 della medesima direttiva, tra le quali non rientra la fattispecie oggetto del procedimento principale. RISPOSTA AL SECONDO QUESITO 29. Né può assumere alcun rilievo il fatto che, per lo specifico giudizio, non 136 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 sia necessario il patrocinio di un avvocato, dovendosi garantire la libertà di scelta di un legale esterno anche in tale eventualità. 30. Secondo la giurisprudenza, infatti, l’art. 4, paragrafo 1, che tale diritto prevede, ha portata generale e valore obbligatorio (Corte di giustizia, sentenza 26 maggio 2011, causa C-293/10, punto 29). CONCLUSIONI 31. Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere il primo quesito nel senso che l’art. 4, paragrafo 1 della Direttiva 87/344/CEE, non consente che un assicuratore di tutela giudiziaria, che nelle sue polizze preveda che la tutela giudiziaria in procedimenti giurisdizionali o amministrativi in linea di principio venga fornita da dipendenti dell’assicuratore, stipuli anche che le spese di tutela giudiziaria di un avvocato o consulente giuridico liberamente scelto dall’assicuratore rientrino nella copertura assicurativa solo se l’assicuratore ritenga che il procedimento debba essere gestito da un consulente giuridico esterno. 32. Il Governo italiano propone inoltre alla Corte di risolvere il secondo quesito nel senso che, ai fini della risposta alla prima questione, non rilevi la circostanza che per il procedimento giurisdizionale o amministrativo di cui trattasi sia obbligatoria o meno la rappresentanza tecnica in giudizio. Roma, 14 gennaio 2013 Wally Ferrante Avvocato dello Stato CONTENZIOSO NAZIONALE Osservazioni sull’indennità di occupazione, a seguito della sentenza 181/2011 della Corte Costituzionale Lionello Orcali* 1. Come noto, la Corte Costituzionale, con sentenza 5/80, dichiarò l’incostituzionalità delle norme contenute nell’articolo 16, commi 5, 6 e 7, della legge 865/1971, nella parte in cui prevedevano, ai fini della determinazione dell’indennità di esproprio per le aree edificabili, il riferimento al valore agricolo medio. La dichiarazione di incostituzionalità fu estesa all’articolo 20 3° comma della medesima legge (che prevedeva, per la determinazione dell’indennità di occupazione, l’applicazione di una quota - 1/12 annuo -, riferita all’indennità di espropriazione, determinata secondo i criteri dell’articolo 16) in quanto, dichiarato incostituzionale il riferimento, la Corte aveva evidentemente ritenuto che la quota ne dovesse seguire il destino. 2. La dichiarazione di incostituzionalità di cui sopra non prevedeva distinzioni o limiti; peraltro, essa fu interpretata limitativamente, dapprima dalla Corte di Cassazione, e quindi dalla Corte Costituzionale stessa (si veda Cass. S.U. 12008/1991, anche per richiami della giurisprudenza costituzionale), essendosi ritenuto che essa fosse riferibile soltanto alle aree edificabili, con esclusione delle determinazioni relative alle aree agricole; pertanto, le suddette norme hanno continuato ad avere applicazione anche dopo la sentenza 5/80, con riferimento ai terreni agricoli e non edificabili, in relazione ai quali l’indennità di occupazione è stata determinata sulla base di 1/12 annuo dell’indennità di espropriazione, quantificata in base al valore agricolo medio; per gli altri terreni, quelli edificabili, si fece invece applicazione dei criteri seguiti relativa- (*) Avvocato dello Stato. 138 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 mente alla legge 2359 del 1865 (in concreto: il tasso di interesse applicato all’indennità di esproprio, determinata secondo il criterio del valore venale; si veda la recente Cass. 2100/2011, con richiami, ove viene anche evidenziata la natura elastica del criterio). 3. Successivamente il legislatore, con l’articolo 5 bis del DL 333/1992 (oltre a modificare i criteri di determinazione dell’indennità di espropriazione per i terreni edificabili), ha previsto, al comma 4, l’applicabilità, per la determinazione dell’indennità relativa alle aree agricole e non edificabili, della normativa di cui alla legge 865/1971; così confermando, in via definitiva, la parziale sopravvivenza di tali norme alla dichiarazione di incostituzionalità di cui alla sentenza 5/1980. 4. È quindi intervenuta la recente sentenza 181/2011 della Corte Costituzionale, che ha del tutto espunto dall’ordinamento il criterio del valore agricolo medio, provvedendo a nuovamente dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’articolo 16, commi 5 e 6, nonché dell’articolo 15, 1° comma, secondo periodo, della legge 865/71. Tale sentenza non ha peraltro esteso la dichiarazione di incostituzionalità all’articolo 20 3° comma di tale legge; anch’esso, già dichiarato incostituzionale, ma sopravvissuto, alla stregua di quanto si è sopra accennato. 5. Si pone quindi il problema di individuare quale sia, all’attualità, il criterio da utilizzare per determinare l’indennità di occupazione per le aree non edificabili; e si tratta di tema di non scarsa rilevanza, posto che altro è remunerare l’occupazione, (spesso solo dichiarata, ma non effettiva, in attesa dell’inizio o del completamento delle opere), con una somma pari al tasso dell’8,33% annuo (=1/12), ai sensi dell’art. 20 della L. 865 (nonchè ai sensi del successivo articolo 50 del d.p.r. 327/2001), altro remunerarla con il tasso d’interesse legale, attualmente pari al 2,5 %, o comunque secondo tassi di redditività pari a quelli di mercato (3% - 4%, per ciò che consta), ai sensi degli articoli 64 e seguenti della legge 2359/1865. 6. Al riguardo, sembra doversi anzitutto evidenziare che l’operato del legislatore in materia, con la legge del 1971 e il d.p.r. del 2001, è stato volto ad uniformare il trattamento dei terreni assoggettati ad espropriazione, essendosi previsti, per l’indennità di espropriazione, criteri in linea di massima astratti, e, per l’indennità di occupazione, un tasso unico, da applicarsi all’indennità di esproprio, determinata secondo tali criteri. Si è trattato di linea presumibilmente seguita, oltre che per finalità di contenimento della spesa relativa all’indennità di espropriazione (non, in relativo, quella di occupazione), anche al fine di semplificare le operazioni di stima, e di concedere il minimo di discrezionalità ai soggetti chiamati alle relative va- CONTENZIOSO NAZIONALE 139 lutazioni. Non sembra peraltro potersi ritenere che tale impostazione abbia consentito di operare con le necessarie differenziazioni, in relazione ai singoli casi, sia con riferimento all’indennità di espropriazione che a quella di occupazione. Ora, con riferimento all’indennità di espropriazione, la Corte Costituzionale ha riportato i termini della vicenda al valore venale cui faceva riferimento il legislatore del 1865; la questione sembra invece - attualmente - più complessa per ciò che riguarda l’indennità di occupazione. 7. In relazione ai criteri di determinazione dell’indennità di occupazione, sembra anzitutto opportuno evidenziare che le indicazioni in materia contenute negli articoli 64 e ss. della legge 2359/1865, fanno generico riferimento alla necessità di tenere conto del pregiudizio derivato al proprietario dalla perdita del godimento e dei frutti del terreno, della diminuzione del valore del fondo e della durata dell’occupazione, oltre che delle altre eventuali variabili. Da tali indicazioni la prassi giurisprudenziale ha ricavato una pressoché costante applicazione del concreto criterio consistente nell’applicazione del tasso d’interesse legale all’indennità di espropriazione. Si tratta, peraltro, di criterio di non rigida applicazione, essendo ipotizzabili scostamenti, come ricorda Cass. S.U. 12088/91 (sia al ribasso, che al rialzo, ritengo), nonché, più di recente, Cass. 2100/2011, dovendosi tenere conto dell’effettiva natura del terreno sottoposto a procedimento espropriativo, che potrebbe essere concretamente tale da non produrre alcun reddito, o da produrne in maniera più o meno significativa. A fronte dell’elasticità del criterio fissato dal legislatore del 1865, tale da corrispondere alla varietà delle situazioni che possono in concreto presentarsi, si pone, come detto, la rigidità del criterio adottato dal legislatore del 1971 e del 2001, tale da porre sullo stesso piano situazioni inevitabilmente diverse, e da portare quindi ad indennità ingiustificatamente elevate, oppure (certo non all’attualità, ma in ben diverse condizioni economico finanziarie: si pensi a possibili situazioni di elevatissimi livelli di inflazione) ingiustificatamente basse. Per contestualizzare la disposizione del 1971, va osservato che, all’entrata in vigore della legge 865, il tasso di interesse legale era pari al 5%. Le successive evoluzioni del tasso, sono state tali da allargare la forbice sussistente tra la percentuale fissata dall’articolo 20 della legge, ed il tasso di interesse, fatto salvo il periodo (1990/1996) durante il quale il tasso è stato pari al 10%; risulta quindi una situazione in cui il tasso fissato dalla norma in questione, che poteva originariamente essere moderatamente premiante rispetto al tasso di interesse, è risultato effettivamente tale per un certo periodo, salvo poi risultare svantaggioso durante il limitato periodo 90/96, per poi ritornare premiante, in misura palesemente eccessiva, dal 1997 fino all’attualità. Sfugge invece la logica seguita dal legislatore del d.p.r. 327/2001, che, nel prevedere all’articolo 50 il tasso di 1/12, in un periodo storico in cui i rendimenti ed i tassi erano notevolmente inferiori, sembrerebbe essersi limitato a 140 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 recepire l’indicazione già contenuta nell’articolo 20 della 865, senza porsi problemi di congruità di tale rendimento. Le osservazioni appena svolte inducono a ritenere che la fissazione di uno specifico tasso, di carattere rigido, da applicare per la determinazione dell’indennità di occupazione, per quanto abbia un evidente effetto di semplificazione, risulti strumento decisamente inadeguato rispetto alla realtà in essere, inevitabilmente differenziata di periodo in periodo, parendo ben più congruo il riferimento al tasso di interesse legale (eventualmente maggiorato di una percentuale del medesimo), per la maggiore aderenza alla situazione economico finanziaria del momento; salvo pensare a strumenti specifici per la procedura di espropriazione, quale ad esempio l’individuazione di tassi di redditività degli immobili, da determinarsi periodicamente, e da utilizzare per la finalità in questione. In linea con tali ultime osservazioni, va considerato che la Corte Costituzionale, con la recente sentenza 181 del 2011, pur non essendosi occupata degli aspetti relativi all’indennità di occupazione, ha preso atto, nell’esaminare la situazione sottopostale, della sussistenza di una norma, il primo comma dell’articolo 40 del decreto legislativo 327/2001, tale da consentire una valutazione sufficientemente specifica del bene, ed ha quindi ritenuto di non dichiararne l’incostituzionalità; analogamente, con la sentenza 5/80, essa aveva evidenziato l’adeguatezza del criterio fissato dall’articolo 15 1° comma della legge 865 del 71, in quanto tale da consentire valutazioni caratterizzate da sufficienti criteri di specificità e di effettività, valorizzando la differenza tra tale criterio e quello del valore agricolo medio. Non sembra particolarmente rilevante, in questa sede, soffermarsi sul fatto che le concrete valutazioni della Corte relativamente all’articolo 15 primo comma sono state, tra una sentenza e l’altra, notevolmente diverse; il punto essenziale sembra consistere nel fatto che i criteri di cui essa ha fatto applicazione sono, in entrambe le pronunce, i medesimi, volti alla concretezza ed alla specificità delle valutazioni. Tali criteri, applicati all’indennità di occupazione, risultano in contrasto con le indicazioni di carattere rigido fissati nelle normative del 71 e del 2001, ed in linea invece con gli elastici criteri fissati dal legislatore del 1865. 8. Va poi ribadito come, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale 5/80, la giurisprudenza si fosse orientata nel senso di ritenere che, per l’indennità di occupazione relativa alle aree edificabili, una volta venute meno le norme che consentivano di determinare la base cui fare riferimento, ed il criterio da utilizzare per la sua determinazione, si dovesse fare riferimento, tanto per l’una quanto per l’altro, alla normativa contenuta nella legge 2359/1865 (si veda tra le tante Cass. 19938/2011, con richiami). Era quindi avvenuto che, se la base, e cioè l’indennità di espropriazione, aveva CONTENZIOSO NAZIONALE 141 subito un notevole incremento, il criterio di determinazione, dato dall’uso del tasso d’interesse anziché della percentuale di 1/12, per ciascun anno di occupazione, aveva poi provveduto, in qualche misura, a compensare la crescita della base. In altre parole, il criterio, eccessivamente oneroso, dato dall’applicazione di 1/12 annuo sull’indennità di espropriazione, risultò di fatto applicato, per le aree edificabili, soltanto nel periodo in cui la base veniva determinata in modo ugualmente, ma in senso contrario, irrealistico, rispetto ai valori di mercato. Una volta che il criterio limitativo di determinazione della base venne meno, non vi era ragione, né logico-giuridica né sostanziale, di applicare per la determinazione dell’indennità di occupazione il tasso dell’8,33% (= 1/12), palesemente eccessivo, se applicato ad una base realistica; ed in effetti, come detto sopra, la giurisprudenza cessò l’applicazione di tale criterio per le aree edificabili, per tornare a quello previsto dalla legge del 1865; mentre esso rimase in vigore relativamente alle aree agricole, essendo l’articolo 20 3° comma sopravvissuto, come sopra detto, alla sentenza 5/1980 della Corte Costituzionale. 9. Va quindi osservato come la recente pronuncia 181/2011 della Corte Costituzionale, ometta qualsiasi indicazione relativamente all’articolo 20 3° comma della legge 865/1971; (in linea, peraltro, con la precedente sentenza 348/2007 della stessa Corte, che, nell’affrontare il tema dell’indennità di espropriazione relativa alle aree edificabili, si astiene ugualmente dall’occuparsi delle norme relative all’indennità di occupazione); ma differenziandosi, in ciò, dalla precedente sentenza 5/80. Si tratta, quindi, di verificare se, a tale omissione, sia possibile attribuire un significato. Al riguardo, va considerato: A) Nel 1980, la Corte Costituzionale, nel fare applicazione dell’articolo 27 della legge costituzionale 87/1953 in relazione all’articolo 20 (il giudizio a quo non verteva direttamente su tale norma), sembrerebbe essersi basata sullo stretto collegamento ritenuto sussistere tra la quota di 1/12 prevista dal legislatore ai fini della determinazione dell’indennità di occupazione, e le modalità di determinazione dell’indennità di esproprio; dichiarando l’incostituzionalità dell’art. 20 3° comma, sarebbe risultato evidentemente più chiaro che, per determinare l’indennità di occupazione, non vi sarebbe stata la possibilità di applicare la quota di 1/12 all’indennità di espropriazione determinata in base alla legge 2359. Nella mancanza di più specifiche indicazioni nell’ambito della sentenza in questione, si tratta di ipotesi che non sembra contrastare con il riferimento testuale contenuto in tale sentenza “all’articolo 20…… che prevede l’applicazione delle stesse norme per la determinazione dell’indennità di occupazione di urgenza ”. B) Quanto alla successiva sentenza del 2011, può ipotizzarsi che la Corte abbia ritenuto che la previsione della quota di 1/12, una volta venuta meno la base su cui essa poteva essere determinata, non poteva essere ritenuta ex se illegit- 142 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 tima, in quanto essa diveniva, più propriamente, inapplicabile; restava infatti ferma la possibilità che il legislatore intervenisse in relazione alla norma dichiarata incostituzionale, relativa alle modalità di determinazione dell’indennità di espropriazione, nel qual caso la norma relativa all’indennità di occupazione sarebbe tornata ad essere applicabile; dovendosi sottolineare che tale sentenza interviene in un periodo in cui la giurisprudenza aveva chiarito (si veda Cass. Sezioni Unite 4241/2004) la natura generale della previsione degli artt. 64 e ss. della legge 2359/1865, quale criterio cui fare riferimento in tutti i casi in cui non vi fossero disposizioni che indicassero differenti criteri; in assenza, quindi, della situazione di incertezza cui la sentenza 5/1980 potrebbe avere inteso ovviare. Alla luce di quanto sopra, non sembrano comunque sussistere significative differenze, dal punto di vista operativo, tra le conseguenze determinate, rispetto all’articolo 20 3° comma, da tali sentenze, posto che la 5/80 espunge dall’ordinamento tale comma con riferimento alla determinazione delle indennità di occupazione per le aree edificabili, mentre la sentenza 181/2011, se sono esatte le osservazioni di cui al punto B), ne determina l’inapplicabilità, con riferimento alle aree agricole (si veda, al riguardo la già citata Cass. 19938/2011, secondo la quale l’applicabilità della quota di 1/12 sussiste soltanto laddove si tratti di indennità di espropriazione determinata secondo il criterio del valore agricolo medio); sicché, pur nella differenza delle rispettive valutazioni, gli effetti che esse determinano appaiono, allo stato, sostanzialmente analoghi. 10. Sviluppando quanto esposto al punto precedente, anche al fine di valutare quali siano gli effetti della sentenza 181 sull’indennità di occupazione ai sensi del successivo d.p.r. 327, va poi considerato: A) tornando all’art. 20 3° comma: - a ben vedere, la parziale permanenza in vigore dell’articolo 20 terzo comma della legge 865/1971, sembra spiegabile, come già detto, in considerazione della pur sempre sussistente possibilità che il legislatore ritenga di intervenire sulla suddetta normativa, introducendo, in ipotesi, nuovi criteri di determinazione dei valori dei terreni agricoli (valevoli nei limiti temporali di applicabilità di tale normativa) in relazione ai quali potrebbe essere applicabile il parametro di determinazione dell’indennità di occupazione fissato dall’articolo 20 terzo comma; - peraltro, in assenza di nuovi interventi legislativi, l’articolo 20 terzo comma resterebbe, pur se non caducato, in concreto inapplicabile, per essere venuta meno la base di necessario riferimento; - l’ipotesi di un’applicazione coerente della normativa sulle indennità di esproprio e di occupazione (tale che, ove si faccia riferimento all’indennità di esproprio prevista in un certo testo legislativo, è a quel medesimo testo che deve farsi riferimento per la determinazione dell’indennità di occupazione), ove non sussistano specifiche norme tali da condurre a diverse conclusioni, sembra in linea CONTENZIOSO NAZIONALE 143 generale più convincente di un’eventuale applicazione combinata delle due indennità, con l’applicazione di spezzoni di disciplina dell’una e dell’altra legge, trattandosi di operazione da cui conseguirebbero risultati di inevitabile disorganicità, tali da dare luogo a concrete determinazioni prive del necessario equilibrio; si tratta poi, soprattutto, della sola soluzione che appare pienamente compatibile con il disposto dell’articolo 20, che rinvia, per la determinazione dell’indennità di occupazione, non ad una generica indennità di espropriazione, ma a quella specificamente individuata dall’articolo 15 della legge 865. Quindi, ritengo che, per le situazioni già disciplinate dall’articolo 20 terzo comma, della legge 865/1971, debba farsi riferimento agli articoli 64 e seguenti della legge 2359/1865; con conseguente applicazione del criterio del tasso di interesse, quale strumento per la determinazione dell’indennità di occupazione. B) Quanto all’art. 50 del dpr. 327, va osservato anzitutto che esso non rinvia espressamente al parametro dato dal disposto del medesimo testo legislativo (l’articolo 40), relativo alla determinazione di indennità di espropriazione; viene ivi svolto infatti un più generico rinvio “a quanto sarebbe dovuto nel caso di esproprio dell’area”. Pertanto, con il venir meno dell’articolo 40, si pongono questioni diverse da quelle sopra indicate. Va quindi considerato: - la mancanza di un espresso rinvio dell’articolo 50 al precedente articolo 40, non sembra consentire di giungere, dal punto di vista dell’interpretazione letterale, alle conclusioni cui si è giunti in precedenza, con riferimento alla situazione postasi quanto alla legge 865/71; sembrerebbe infatti, dalla lettera dell’articolo 50, che il legislatore (in materia già oggetto di interventi da parte della Corte Costituzionale), abbia inteso limitare al minimo l’applicabilità delle normative precedenti, e tenere fermo il quadro normativo da ultimo delineato, anche per il caso di possibile mutazione di alcuno degli elementi che lo caratterizzano; - sembra quindi dover essere considerata la possibilità che, con riferimento alle situazioni disciplinate dal d.p.r. 327, si debba fare applicazione combinata della normativa relativa alla determinazione dell’indennità di esproprio in base al valore venale, ai sensi della 2359, e di quella relativa alla determinazione dell’indennità di occupazione in base al parametro di 1/12 annuo; ciò, in virtù della specifica formulazione contenuta nell’articolo 50; salvo che prevalgano interpretazioni volte a svalutare il significato letterale del generico rinvio contenuto nell’articolo 50, a favore di altre opzioni interpretative, volte a valorizzare gli aspetti finalistici e sistematici, supportati dalle considerazioni di carattere sostanziale sopra evidenziati. 11. All’attualità, sembra quindi sussistere una situazione di apprezzabile unitarietà per ciò che riguarda la determinazione dell’indennità di espropriazione; unitarietà che potrebbe non sussistere, se sono esatte le osservazioni di cui 144 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 sopra, relativamente all’indennità di occupazione, che dovrebbe essere determinata, per tutte le situazioni (relative sia ad aree edificabili che agricole) precedenti l’applicabilità del d.p.r. 327/2001, in base al criterio del tasso di interesse; mentre invece potrebbe essere determinata, con riferimento alle situazioni disciplinate da tale ultimo d.p.r., mediante l’attribuzione della quota di 1/12 (=8,33%) annuo, che appare di manifesta eccessività. Nell’assenza, per quanto consta, di iniziative volte a modificare la norma di cui all’articolo 50 del d.p.r. 327, si potrebbe pensare che la questione sia sfuggita, durante le recenti operazioni relative alla revisione della spesa pubblica; sembra quindi, sia per ragioni relative all’armonia del sistema, che per ragioni relative all’evidente spreco di pubblico denaro che comporterebbe l’applicazione letterale di tale norma, che si tratti di questione che potrebbe essere utilmente oggetto di interventi normativi, idonei a prevenire eventuali incertezze interpretative, o comunque ad evitare un incongruo impiego delle pubbliche risorse. Corte costituzionale, sentenza del 10 giugno 2011 n. 181 - Pres. Maddalena, Red. Criscuolo. - Avv.ti Giorgio Stella Richter per F. L., Edilberto Ricciardi per il Comune di Salerno e l’avv. Stato Giacomo Aiello per il Presidente del Consiglio dei ministri. (...) Considerato in diritto 1. — La Corte di appello di Napoli (sezione prima civile, in diversa composizione), con le due ordinanze indicate in epigrafe, ha sollevato – in riferimento agli articoli 3, 42, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 4, decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, nonché dell’art. 16, commi quarto e quinto (recte: commi quinto e sesto), legge 22 ottobre 1971, n. 865 (Programmi e coordinamento dell’edilizia residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica utilità; modifiche e integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n.847; ed autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell’edilizia residenziale, agevolata e convenzionata), come sostituiti dall’art. 14 legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la edificabilità dei suoli). A sua volta la Corte di appello di Lecce, con l’ordinanza del pari indicata in epigrafe, ha sollevato questione di legittimità costituzionale del citato art. 5-bis, commi 3 e 4, del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, nonché dell’art. 40, commi 1 e 2, d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo A), in riferimento agli artt. 3 e 117 Cost. Ad avviso delle rimettenti, la normativa censurata, prevedendo un criterio di determinazione dell’indennità di esproprio, per i suoli agricoli e per quelli non edificabili, astratto e predeterminato (qual è quello del valore agricolo medio della coltura in atto o di quella più redditizia nella regione agraria di appartenenza dell’area da espropriare), del tutto svincolato dalla considerazione dell’effettivo valore di mercato dei suoli medesimi e tale da non assicurare CONTENZIOSO NAZIONALE 145 all’avente diritto il versamento di un indennizzo integrale o, quanto meno, “ragionevole”, si porrebbe in contrasto con l’art. 1, primo protocollo, allegato alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), cui è stata data esecuzione con legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), nella interpretazione datane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, così violando l’art. 117, primo comma, Cost., rispetto al quale la disposizione convenzionale opererebbe come norma interposta. Inoltre, sarebbe violato l’art. 42, terzo comma, Cost., in quanto, benché il legislatore non sia tenuto ad individuare un unico criterio di determinazione dell’indennità di esproprio, valido in ogni fattispecie espropriativa, o ad assicurare l’integrale riparazione della perdita subita dal proprietario, l’indennità non può mai essere simbolica o irrisoria, ma deve rappresentare un “serio ristoro”. Per realizzare tale risultato si dovrebbe fare riferimento «al valore del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione economica di esso», secondo il principio affermato da questa Corte con la sentenza n. 5 del 1980 e ribadito con la sentenza n. 348 del 2007, in relazione ai terreni edificabili, ma applicabile, ad avviso delle rimettenti, anche con riguardo ai terreni agricoli e a quelli non edificabili. Infine, sarebbe configurabile anche violazione dell’art. 3 Cost., perché il criterio dettato per i suoli agricoli e per quelli non edificabili creerebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra i proprietari di questi ultimi e i proprietari di suoli edificabili, per i quali l’indennizzo va commisurato al valore di mercato (o venale) dell’area oggetto dell’ablazione. 2. — I tre giudizi di legittimità costituzionale, per l’identità dell’oggetto e dei parametri evocati, vanno riuniti e decisi con la medesima sentenza. 3. — L’ordinanza della Corte di appello di Lecce censura (tra l’altro) l’art. 5-bis, comma 3, del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992. Detta norma dispone che «Per la valutazione della edificabilità delle aree, si devono considerare le possibilità legali ed effettive di edificazione esistenti al momento dell’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio». Come il dettato normativo rivela, si tratta di disposizione diretta ad individuare i criteri per la valutazione di edificabilità delle aree. Nel caso di specie, è pacifico, ed emerge dall’ordinanza di rimessione, che il suolo de quo, oggetto di cessione volontaria con acconto e riserva di conguaglio, è stato dichiarato non edificatorio dalla Corte di appello di Lecce con sentenza non definitiva n. 611 del 2010. Pertanto la Corte rimettente non deve fare applicazione della norma suddetta, in ordine alla quale, del resto, non si rinviene nell’ordinanza una specifica motivazione diretta a spiegare le ragioni della sua evocazione. Ne deriva che la questione, sollevata con riferimento al citato art. 5-bis, comma 3, deve essere dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza. 4. — Ai fini dell’identificazione del thema decidendum, con riguardo alle norme censurate e ai parametri invocati, si deve osservare che le due ordinanze della Corte di appello di Napoli, nei rispettivi dispositivi, censurano (tra l’altro) l’art. 16, commi quarto e quinto, della legge n. 865 del 1971, come sostituiti dall’art. 14 della legge n. 10 del 1977. Peraltro, come emerge in modo chiaro dalle motivazioni delle ordinanze, le disposizioni impugnate sono quelle dettate dall’art. 16, commi quinto e sesto, il cui tenore è anche trascritto nelle ordinanze medesime, sicché nessun dubbio può nutrirsi circa l’oggetto delle questioni, in forza del noto criterio secondo cui il dispositivo va interpretato in riferimento alla motivazione (sentenza n. 236 del 2009). 146 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 A sua volta, l’ordinanza della Corte di appello di Lecce nel dispositivo solleva la questione di legittimità costituzionale con riferimento al citato art. 5-bis, comma 4, e all’art. 40, commi 1 e 2, del d.P.R. n. 327 del 2001, senza menzionare la legge n. 865 del 1971, al cui titolo II il medesimo art. 5-bis rinvia. Nella motivazione, però, sono richiamati gli artt. 15 e 16 della legge n. 865 del 1971 e successive modificazioni, «che devolvono alla Commissione provinciale l’individuazione del valore agricolo medio», mentre le argomentazioni svolte rendono palese che oggetto delle censure è, per l’appunto, il criterio del valore agricolo medio, o “valore agrario”, «previsto di fatto in via automatica e, come tale, non influenzabile da quello venale». Anche in tal caso, dunque, in base allo stesso principio dianzi indicato, l’oggetto della questione è agevolmente identificabile. 5. — Le ordinanze di rimessione (a parte l’accenno contenuto in quella della Corte di appello di Lecce) non coinvolgono nello scrutinio di legittimità costituzionale l’art. 15 legge n. 865 del 1971, nel testo sostituito dall’art. 14 della legge n. 10 del 1977, concernente la determinazione dell’indennità di espropriazione non accettata nel termine di cui all’art. 12, primo comma, della medesima legge n. 865 del 1971. Ai sensi di tale disposizione, su richiesta del presidente della giunta regionale, la commissione competente per territorio di cui al successivo art. 16 determina l’indennità, sulla base del valore agricolo con riferimento alle colture effettivamente praticate sul fondo espropriato, anche in relazione all’esercizio dell’azienda agricola. Il dettato letterale della norma, dunque, non richiama il valore agricolo medio. Tuttavia la giurisprudenza della Corte di cassazione, con indirizzo ormai configurabile come diritto vivente, ha ripetutamente affermato che gli artt. 15 e 16 della legge n. 865 del 1971 (nel testo sostituito dall’art. 14 della legge n. 10 del 1977) vanno letti in collegamento l’uno con l’altro, sicché il valore agricolo menzionato nell’art. 15, primo comma, secondo periodo, è per l’appunto il valore agricolo medio contemplato dal combinato disposto delle due norme (ex multis: Cass., sentenza n. 17679 del 2010; Cass., Sezioni Unite Civili, sent. n. 22753 del 2009; Cass., sent. n. 17394 del 2009; Cass., sent. n. 8243 del 2006). Del resto, anche le ordinanze di rimessione trattano unitariamente i suoli agricoli e quelli non edificabili, sicché lo scrutinio di legittimità costituzionale deve essere esteso anche al citato art. 15, primo comma, secondo periodo, unico essendo per i detti suoli il criterio di determinazione dell’indennità di espropriazione. 6. — Nel merito, le questioni sono fondate. 6.1. — In premessa, si deve ricordare che, ai sensi dell’art. 57 del d.P.R. n. 327 del 2001 «Le disposizioni del presente testo unico non si applicano ai progetti per i quali, alla data di entrata in vigore dello stesso decreto, sia intervenuta la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza. In tal caso continuano ad applicarsi tutte le normative vigenti a tale data» (fissata al 30 giugno 2003: art. 59 del citato d.P.R.). Nelle controversie a quibus, come si evince dalle date dei decreti di esproprio e (quanto all’ordinanza della Corte di appello di Lecce) dalla data di stipula dell’atto di cessione volontaria con riserva di conguaglio, le suddette dichiarazioni erano intervenute in epoca molto risalente, sicché trova applicazione la normativa censurata, non già l’art. 40, commi 1 e 2, del d.P.R. n. 327 del 2001, evocato dalla Corte di appello di Lecce, norma della quale detta Corte non deve fare applicazione. 6.2. — La normativa censurata è dettata dall’art. 5-bis, comma 4, del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992 che, per la determinazione dell’indennità di espropriazione relativa alle aree agricole ed a quelle non suscettibili di classificazione edificatoria, rinvia alle norme di cui al titolo secondo della legge n. 865 del 1971, successive modificazioni e integrazioni. In particolare, il rinvio è all’art. 16, commi quinto e CONTENZIOSO NAZIONALE 147 sesto, di detta legge, come sostituiti dall’art. 14 della legge n. 10 del 1977. La norma, per la parte oggetto di censura, stabilisce che l’indennità di espropriazione, per le aree esterne ai centri edificati di cui all’art. 18, è commisurata al valore agricolo medio annualmente calcolato da apposite commissioni provinciali, valore corrispondente al tipo di coltura in atto nell’area da espropriare (comma quinto); ed aggiunge che, nelle aree comprese nei centri edificati, l’indennità è commisurata al valore agricolo medio della coltura più redditizia tra quelle che, nella regione agraria in cui ricade l’area da espropriare, coprono una superficie superiore al 5 per cento di quella coltivata della regione agraria stessa (comma sesto). Tale disciplina, ad avviso delle rimettenti, si porrebbe in contrasto con l’art. 1 del primo protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti, CEDU), nell’interpretazione datane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, e quindi violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., nel testo introdotto dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione). 6.3. — In via preliminare, si deve ricordare che questa Corte, con le sentenze n. 348 e 349 del 2007, ha chiarito i rapporti tra il citato art. 117, primo comma, Cost. e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte europea. I principi metodologici illustrati nelle menzionate sentenze devono ritenersi in questa sede richiamati. Alla luce di essi, si deve, dunque, verificare: a) se vi sia contrasto, non suscettibile di essere risolto in via interpretativa, tra la disciplina censurata e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo ed assunte quali fonti integratrici dell’indicato parametro costituzionale; b) se le norme della CEDU, invocate come integrazione del parametro (cosiddette norme interposte), nell’interpretazione ad esse data dalla medesima Corte, siano compatibili con l’ordinamento costituzionale italiano (sentenza n. 348 del 2007 citate). Orbene, la Corte europea, con decisione della Grande Camera in data 29 marzo 2006, ha preso le mosse dal dettato dell’art. 1 del protocollo n. 1, secondo cui: «Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali di diritto internazionale. Le precedenti disposizioni non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi oppure di ammende» Ha poi stabilito (tra gli altri) i seguenti principi: a) le tre norme di cui si compone l’art. 1 del protocollo n. 1 sono tra loro collegate, sicché la seconda e la terza, relative a particolari casi di ingerenza nel diritto al rispetto dei beni, devono essere interpretate alla luce del principio contenuto nella prima norma (punto 75); b) l’ingerenza nel diritto al rispetto dei beni deve contemperare un “giusto equilibrio” tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e il requisito della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo (punto 93); c) nello stabilire se sia soddisfatto tale requisito, la Corte riconosce che lo Stato gode di un ampio margine di discrezionalità, sia nello scegliere i mezzi di attuazione sia nell’accertare se le conseguenze derivanti dall’attuazione siano giustificate, nell’interesse generale, per il conseguimento delle finalità della legge che sta alla base dell’espropriazione (punto 94); d) la Corte, comunque, non può rinunciare al suo potere di riesame e deve determinare se sia stato mantenuto il necessario equilibrio in modo conforme al diritto dei ricorrenti al rispetto dei loro beni (punto 94); e) come la Corte ha già dichiarato, il prendere dei beni senza il pagamento di una somma in ragionevole rapporto con il loro valore, di norma costituisce un’ingerenza sproporzionata e la totale mancanza d’indennizzo può essere considerata giustificabile, ai 148 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 sensi dell’art. 1 del protocollo n. 1, soltanto in circostanze eccezionali, ancorché non sempre sia garantita dalla CEDU una riparazione integrale (punto 95); f) in caso di “espropriazione isolata”, pur se a fini di pubblica utilità, soltanto una riparazione integrale può essere considerata in rapporto ragionevole con il bene (punto 96); g) obiettivi legittimi di pubblica utilità, come quelli perseguiti da misure di riforma economica o da misure tendenti a conseguire una maggiore giustizia sociale, potrebbero giustificare un indennizzo inferiore al valore di mercato (punto 97). I principi, stabiliti dalla Corte di Strasburgo con la menzionata decisione, hanno poi trovato conferma nella giurisprudenza successiva di detta Corte, che ad essa si è richiamata (tra le più recenti: sentenza del 19 gennaio 2010, in causa Zuccalà contro Italia; sentenza dell’8 dicembre 2009, in causa Vacca contro Italia; sentenza della Grande Camera del 1°aprile 2008, in causa Gigli Costruzioni s.r.l. contro Italia). 6.4. — Nella giurisprudenza di questa Corte è costante l’affermazione che l’indennizzo assicurato all’espropriato dall’art. 42, terzo comma, Cost., se non deve costituire una integrale riparazione per la perdita subita – in quanto occorre coordinare il diritto del privato con l’interesse generale che l’espropriazione mira a realizzare – non può essere, tuttavia, fissato in una misura irrisoria o meramente simbolica, ma deve rappresentare un serio ristoro (ex multis: sentenze n. 173 del 1991; sentenza n. 1022 del 1988; sentenza n. 355 del 1985; sentenza n. 223 del 1983; sentenza n. 5 del 1980). Quest’ultima pronuncia ha chiarito che, per raggiungere tale finalità, «occorre fare riferimento, per la determinazione dell’indennizzo, al valore del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione economica di esso, secondo legge. Solo in tal modo può assicurarsi la congruità del ristoro spettante all’espropriato ed evitare che esso sia meramente apparente o irrisorio rispetto al valore del bene». Ad analoghe conclusioni è giunta la già citata sentenza n. 348 del 2007, la quale ha ribadito che «deve essere esclusa una valutazione del tutto astratta, in quanto sganciata dalle caratteristiche essenziali del bene ablato» (principio già affermato dalla sentenza n. 355 del 1985). Si deve rilevare, a questo punto, che le suddette statuizioni riguardano suoli edificabili. Ciò non significa, tuttavia, che esse non siano applicabili anche ai suoli agricoli ed a quelli non suscettibili di classificazione edificatoria. Invero, l’art. 1 del primo protocollo della CEDU, nelle sue proposizioni, si riferisce con previsione chiaramente generale ai beni, senza operare distinzioni in ragione della qualitas rei. E non a caso la Corte europea ha posto in risalto proprio tale previsione generale, stabilendo che alla luce di essa (prima proposizione) vanno interpretati i disposti della seconda e della terza (sentenza Scordino contro Italia, punto 78). Del resto, non è ravvisabile alcun motivo idoneo a giustificare, sotto il profilo qui in esame, un trattamento differenziato, in presenza di un evento espropriativo, tra i suoli di cui si tratta (edificabili, da un lato, agricoli o non suscettibili di classificazione edificatoria, dall’altro). Come la sentenza n. 348 del 2007 ha posto in luce, «sia la giurisprudenza della Corte costituzionale italiana sia quella della Corte europea concordano nel ritenere che il punto di riferimento per determinare l’indennità di espropriazione deve essere il valore di mercato (o venale) del bene ablato». E tale punto di riferimento non può variare secondo la natura del bene, perché in tal modo verrebbe meno l’ancoraggio al dato della realtà postulato come necessario per pervenire alla determinazione di una giusta indennità. Con ciò non si vuol negare che le aree edificabili e quelle agricole o non edificabili abbiano carattere non omogeneo. Si vuole dire che, pure in presenza di tale carattere, anche per i suoli agricoli o non edificabili sussiste l’esigenza che l’indennità si ponga «in rapporto ragionevole con il valore del bene». CONTENZIOSO NAZIONALE 149 In senso contrario non varrebbe richiamare la sentenza di questa Corte n. 261 del 1997, con la quale fu dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale della normativa censurata, in riferimento agli artt. 3 e 24 e 42, terzo comma, Cost. Infatti, quella pronuncia è anteriore alla riforma attuata dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), sicché nella fattispecie in essa trattata non poteva essere evocato come parametro costituzionale il nuovo testo dell’art. 117, primo comma Cost., attualmente vigente. 7. — Alla luce di detto parametro, in relazione all’art. 1 del primo protocollo addizionale della CEDU nell’interpretazione datane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, nonché dell’art. 42, terzo comma, Cost., si deve ora verificare il criterio di calcolo dell’indennità di espropriazione contemplato dalla normativa censurata, la quale prevede che, per i suoli agricoli e per quelli non edificabili, la detta indennità sia commisurata al valore agricolo medio del terreno, secondo la disciplina dettata dall’art. 16 della legge n. 865 del 1971 e successive modificazioni. Tale valore è determinato ogni anno, entro il 31 gennaio, nell’ambito delle singole regioni agrarie, dalle apposite commissioni provinciali, con le modalità di cui alla norma da ultimo citata (dianzi richiamate). Orbene, il valore tabellare così calcolato prescinde dall’area oggetto del procedimento espropriativo, ignorando ogni dato valutativo inerente ai requisiti specifici del bene. Restano così trascurate le caratteristiche di posizione del suolo, il valore intrinseco del terreno (che non si limita alle colture in esso praticate, ma consegue anche alla presenza di elementi come l’acqua, l’energia elettrica, l’esposizione), la maggiore o minore perizia nella conduzione del fondo e quant’altro può incidere sul valore venale di esso. Il criterio, dunque, ha un carattere inevitabilmente astratto che elude il «ragionevole legame» con il valore di mercato, «prescritto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e coerente, del resto, con il “serio ristoro” richiesto dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte» (sentenza n. 348 del 2007, citata, punto 5.7 del Considerato in diritto). È vero che il legislatore non ha il dovere di commisurare integralmente l’indennità di espropriazione al valore di mercato del bene ablato e che non sempre è garantita dalla CEDU una riparazione integrale, come la stessa Corte di Strasburgo ha affermato, sia pure aggiungendo che in caso di “espropriazione isolata”, pur se a fini di pubblica utilità, soltanto una riparazione integrale può essere considerata in rapporto ragionevole con il valore del bene. Tuttavia, proprio l’esigenza di effettuare una valutazione di congruità dell’indennizzo espropriativo, determinato applicando eventuali meccanismi di correzione sul valore di mercato, impone che quest’ultimo sia assunto quale termine di riferimento dal legislatore (sentenza n. 1165 del 1988), in guisa da garantire il “giusto equilibrio”tra l’interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui. Sulla base delle esposte considerazioni deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale della normativa censurata, perché in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del primo protocollo addizionale della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nell’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, e con l’art. 42, terzo comma, Cost. Gli ulteriori profili dedotti in riferimento all’art. 3 Cost. restano assorbiti. 8. — Ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale, dell’art. 40, commi 2 e 3, del d.P.R. n. 327 del 2001, recante la nuova normativa in materia di espropriazione. Detta norma, che apre la sezione dedicata 150 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 alla determinazione dell’indennità nel caso di esproprio di un’area non edificabile, adotta per tale determinazione, con riguardo ai commi indicati, il criterio del valore agricolo medio corrispondente al tipo di coltura prevalente nella zona o in atto nell’area da espropriare e, quindi, contiene una disciplina che riproduce quella dichiarata in contrasto con la Costituzione dalla presente sentenza. La Corte non ritiene di estendere tale declaratoria anche al comma 1 del citato art. 40. Detto comma concerne l’esproprio di un’area non edificabile ma coltivata (il caso di area non coltivata è previsto dal comma 2), e stabilisce che l’indennità definitiva è determinata in base al criterio del valore agricolo, tenendo conto delle colture effettivamente praticate sul fondo e del valore dei manufatti edilizi legittimamente realizzati, anche in relazione all’esercizio dell’azienda agricola. La mancata previsione del valore agricolo medio e il riferimento alle colture effettivamente praticate sul fondo consentono una interpretazione della norma costituzionalmente orientata, peraltro demandata ai giudici ordinari. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 4, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, in combinato disposto con gli articoli 15, primo comma, secondo periodo, e 16, commi quinto e sesto,della legge 22 ottobre 1971, n. 865 (Programmi e coordinamento dell’edilizia residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica utilità; modifiche e integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell’edilizia residenziale, agevolata e convenzionata), come sostituiti dall’art. 14 della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la edificabilità dei suoli); dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale, in via consequenziale, dell’articolo 40, commi 2 e 3, decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità); dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 3, del d.l. n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 117 della Costituzione, dalla Corte di appello di Lecce con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 giugno 2011. CONTENZIOSO NAZIONALE 151 La normativa speciale sul reclutamento e sul trattamento economico del personale scolastico all’analisi della Cassazione Dalla chiara enunciazione del divieto di conversione dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato al pericoloso obiter dictum sugli scatti biennali da riconoscersi nel periodo “lavorato” (Nota a Cass. civ., Sez. Lav., sentenza 20 giugno 2012, n. 10127) Palmira Graziano* Non è ontologicamente configurabile alcun abusivo ricorso alla contrattazione a termine nella normativa italiana sul reclutamento del personale docente ed A.T.A. del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, in quanto tale normativa, prevalente rispetto alle norme di cui al d.lgs. n. 165/2001 ed al d.lgs. n.368/2001, è conforme non solo alla Costituzione italiana, ma anche alla Direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999 ed all’allegato accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato. La specifica disciplina del reclutamento del personale scolastico, ai fini della prevenzione degli abusi derivanti dal ricorso ai contratti a termine, costituisce una “norma equivalente” ai sensi della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro, in quanto è legittimata dalla sussistenza di “ragioni obiettive”, in particolare, della necessità di assicurare la continuità del servizio scolastico - obiettivo di rilevanza costituzionale - a fronte di eventi contingenti, variabili ed in definitiva imprevedibili, non solo nelle loro concrete ricadute a livello territoriale per la popolazione scolastica interessata, ma anche nella collocazione temporale. In ossequio al principio di cui all’art. 97 Cost., secondo cui si accede all’impiego presso una P.A. mediante procedura concorsuale, e dovendosi ritenere la normativa speciale sul reclutamento a termine del personale scolastico conforme alle norme comunitarie, non sussiste il diritto del personale precario alla stabilizzazione del proprio rapporto di lavoro a termine mediante conversione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato. Né, consequenzialmente, sussiste il diritto al risarcimento dei danni lamentati in ragione della conclusione di piú contratti a termine seguenti l’uno all’altro. (*) L’articolo è stato redatto dalla dott.ssa Graziano, già praticante forense presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli. Alla base della stesura c’è stato uno studio di tutta la giurisprudenza di merito sulla materia in argomento, tutte le sentenze pro e contro precari sono state massimate e schematizzate per domande e per punti essenziali dall’avv. Giuseppe Arpaia, che ne ha previamente curato la raccolta anche grazie all’ormai consolidato scambio/informativo di emal tra Avvocature. Per contingenti motivi di spazio questo studio sarà pubblicato unitamente all’articolo sul sito internet della Rassegna nella parte dedicata all’“anteprima di stampa” - in corso di predisposizione. 152 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 SOMMARIO: Premessa - 1. Il carattere speciale della disciplina sul reclutamento del personale scolastico e sua prevalenza rispetto al D.Lgs. 165/2001 e 138/2001 - 2. La conformità della normativa speciale relativa al reclutamento del personale scolastico alla Costituzione italiana nella ricostruzione operata dalla S.C. - 2.1. Sulla conformità agli artt. 3 e 97 Cost. - 2.2. Sulla conformità all’art. 4 Cost. - 2.3. Sulla conformità all’art. 81 Cost. - 2.4. Sulla conformità all’art. 34 Cost. - 3. La conformità della normativa speciale relativa al reclutameto del personale scolastico alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999 ed all’allegato accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavaro a tempo determinato - 3.1. Insussistenza di un abuso dello Stato-Legislatore - 3.2. Il problema probatorio sotteso al giudizio di accertamento “in concreto” dell’abuso dello Stato-Amministrazione - 4. Riconoscimento nel sistema di reclutamento a termine del personale scolastico di un fenomeno di “successione”: la S.C. rinuncia ad uno degli argomenti più signficativi adoperato dalle Corti di merito a sostegno dell’inapplicabilità dell’art. 5, comma 1°, del D.Lgs. n. 368/2001 ai precari della scuola - 5. Il problema probatorio sotteso al giudizio di accertamento “in concreto” dell’abuso dello Stato-Amministrazione: le soluzioni offerte dalla giurisprudenza di merito favorevole alla parte pubblica - 5.1. Il riparto dell’onere probatorio quanto alla lamentata illegittima condotta datoriale del Miur: gli oneri gravanti sulla parte ricorrente ed il carattere presuntivo delle prove eventualmente poste a carico della P.A. - 5.2. Anche nel caso del personale scolastico la prova dell’abusivo ricorso alla contrattazione a termine deve tradursi nella rigorosa prova della sussistenza degli elementi strutturali oggettivi e soggettivi del fatto illecito fonte della deunciata responsabilità - 6. Il superabile equivo ingenerato dall’infelice obiter dictm sugli scatti biennali spettanti ai supplenti per il periodo lavorato - 7. L’inconfigurabilità di una disparità di trattamento stipendiale tra personale precario e personale di ruolo quale corollario della legittimità del termine apposto al contratto: corollario enucleabile in ragione della inconfigurabilità di una tutela risarcitoria che riproduca per equivalente gli effetti di una mancata, perchè vietata, conversione del contratto in contratto a tempo indeterminato - Conclusioni. Premessa In data 5 giugno 2012 la Sez. Lavoro della Corte di Cassazione con la sentenza n. 10127, depositata il 20 giugno 2012, ha dichiarato l’inapplicabilità del principio di conversione in contratto a tempo indeterminato dei contratti a termine stipulati dal personale docente ed A.T.A. del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, negando il riconoscimento al predetto personale del diritto alla stabilizzazione del rapporto ed al risarcimento del danno in caso di reiterazione delle supplenze. La S.C. ha qualificato la normativa speciale sul reclutamento del personale docente ed A.T.A. come prevalente rispetto alle norme di cui al d.lgs. n. 165/2001 ed al d.lgs. n. 368/2001, nonché conforme tanto alla Costituzione italiana quanto alla Direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999 ed all’allegato accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato: ad avviso della S.C. sussistono, infatti, le ragioni obiettive idonee a legittimare una diversità di trattamento tra personale di ruolo e personale precario. Ciò ritenuto, la S.C. ha affermato l’ontologica inconfigurabilità del carattere CONTENZIOSO NAZIONALE 153 abusivo della condotta del MIUR consistente nella conclusione di contratti a termine secondo la normativa nazionale sul reclutamento del personale scolastico. Tuttavia - richiamando la sentenza della Corte di Cass. n. 8060/2011 relativa al diverso caso dei docenti precari (non di ruolo) a tempo indeterminato - la parte conclusiva della sentenza (1) in commento ha dichiarato che “non spettano, con riferimento al periodo non lavorato, gli scatti biennali”: questa sibillina affermazione è foriera di un’interpretazione, per cosí dire, pericolosa per lo Stato italiano, in quanto potrebbe essere intesa nel senso che tutti i precari della scuola avrebbero diritto agli scatti biennali sia pur limitatamente ai periodi c.d. “lavorati” e non anche per i periodi intercorrenti tra la fine di un contratto e l’inizio del contratto successivo. Quindi, basterebbe valorizzare nel senso predetto quest’obiter dictum per salutare questa sentenza come una vittoria di Pirro per lo Stato italiano, che, a fronte del sia pur positivo riconoscimento del principio del divieto di conversione, dovrebbe fare, poi, i conti, è proprio il caso di dirlo, con il vero cuore delle istanze precarie, vale a dire l’equiparazione quanto al trattamento economico tra personale scolastico precario e non. Eppure, esaminando ogni aspetto saliente della sentenza, è possibile fornirne una lettura equidistante tra quella entusiastica pro-parte pubblica espressa dai primi commentatori e quella pro-precari in cui l’obiter dictum servirebbe da trampolino per rilanciare la fondatezza delle istanze retributive dei lavoratori a termine della scuola pubblica. Per giungere ad una conclusione piú equilibrata nella valutazione del futuro peso di questa sentenza occorre compierne l’analisi alla luce dei piú significati arresti della precedente giurisprudenza di merito pro-precari, in modo da poter poi, a ragion veduta, meglio constatare, in positivo ed in negativo, l’apporto fornito da questa sentenza della S.C. nel dare una risposta netta e chiara sulla fondatezza o meno delle domande di giustizia del personale scolastico precario. 1. Il carattere speciale della disciplina sul reclutamento del personale scolastico e sua prevalenza rispetto al D.Lgs. nn. 165 e 138 del 2001. In primis, la S.C. ha accolto la tesi della specialità della normativa sul reclutamento del personale scolastico (2), con la conseguenza che detta norma- (1) Cfr. par. 7.1. (2) La disciplina speciale sul reclutamento del personale scolastico è articolata come segue: • T.U. della Scuola (d.lgs. n. 297/1994, “testo unico delle disposizioni legislative in materia di istruzione”) e successive modificazioni ed integrazioni, fra le quali quelle introdotte, in particolare, dall’art. 4 della l. n. 124/1999 (“Disposizioni urgenti in materia di personale scolastico”), • leggi finanziarie vigenti ratione temporis che hanno sempre previsto per il comparto scuola una disciplina separata rispetto alla generalità delle altre amministrazioni quanto al programma delle assunzioni ed ai relativi eventuali “blocchi”, • dai regolamenti ministeriali per le supplenze, • e dai contratti collettivi nazionali di lavoro. 154 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 tiva, proprio in quanto speciale, non può ritenersi abrogata dai sopravvenuti dd.lgs. nn. 165 e 368 del 2001, in virtú dell’immanenza della regola lex posterior generalis non derogat legi priori speciali (3) (4). La specialità della normativa è confermata, ad avviso della S.C., dall’esplicito dato normativo offerto dall’art. 70, comma 8°, d.lgs. n.165/2001, ove è disposto che “sono fatte salve le procedure di reclutamento del personale della scuola di cui al decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297 e successive modificazioni ed integrazioni”: tale disposizione, ad avviso della S.C., “vale a conferire, altresì, alla normativa relativa al reclutamento in parola il connotato di specialità rispetto alla legge in generale, sì da escluderne ogni incidenza da parte di successivi interventi legislativi di tal genere” (5) e, quindi, anche dal d.lgs. n. 368 del 2001, che “costituisce una “successiva” modificazione o integrazione della disciplina sul contratto a termine in generale rispetto alla quale vi è la specifica e generale previsione di esclusione, ex comma ottavo dell’art. 70 del D.Lgs n. 165 del 2001” (6). Inoltre, la S.C. ha confermato la tesi della specialità della normativa di settore sul reclutamento nella scuola pubblica e della sua prevalenza sui citati decreti legislativi nn. 165 e 368 del 2001 anche in virtú dell’art. 9 del D.L. n. 70 del 2011, convertito in L. n. 106 del 2011, che, con il comma 18, ha aggiunto, all’art. 10 del D.Lgs. n. 368 del 2001, il comma 4 bis, secondo il quale: (3) In senso conforme Cass. n. 392 del 31 gennaio 2012. (4) Cfr. par. 21, primo periodo. In senso conforme si era espressa la sentenza della Corte di Appello di Perugia oggetto di ricorso, nonché le precedenti sentenze della stessa Corte di Appello di Perugia, la n. 524/2010 e la n. 448 del 3/2011: “Questo complesso di norme (in particolare, il D.Lgs. n. 297/94 e la legge n. 124/99), avente indubbiamente carattere speciale rispetto alla disciplina contenuta nei decreti legislativi n. 165/01 (norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni) e 368/01 (disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato), non è stato né abrogato né modificato dall’art. 36, comma 11 del testo unico del pubblico impiego, che ha esteso ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni l’applicazione della normativa generale in materia di contratti di lavoro a termine, all’epoca costituita da una serie di fonti, nel quadro generale dettato dalla legge 18 aprile 1962, n. 230” (Corte di Appello di Perugia, sent. n. 524/2010, pag. 6, ult. cpv. fino a pag. 7). (5) Cfr. par. 28. In senso conforme, Cass. civ., sez. Lav., sent. n. 392 del 13 gennaio 2012, par. 3, Corte di Appello di Genova, sent. n. 464 del 22 maggio 2012, pag. 8, 2° e 3° cpv., Tribunale di Civitavecchia, Sez. Lav. e Prev. (dott. Francesco Colella), sent. dell’8 aprile 2010, fine pag. 8 - inizio pag. 9, Trib. di Fermo, Sez. lav., dott. Camillo Cozzolino, sent. n. 154 del 16 agosto 2011, pag. 7, 1° cpv., Trib. di Genova, Sez. Lav. (dott.sa Maria Ida Scotto), sent. del 19 marzo 2012 (r.g. 2010/10), pag. 8, 5° cpv.. Analogamente, il Trib. di Foggia, Sez. lav. (dr.ssa Angela Quitadamo), nella sent. n. 593/2012 del 30 gennaio 2012, giunge alle medesime conclusioni, indicando un parametro che consente di valutare la sussistenza o meno del carattere di specialità di una certa disciplina: «la relazione di specialità tra norme - idonea ad escluderne ab origine il conflitto e ad impedire l'invocazione del canone lex posterior derogat !egi anteriori - va verificata in base a criteri oggettivi, e può evincersi implicitamente dalla diversa tipologia e natura delle situazioni rispettivamente contemplate, che richiedono una diversa disciplina alla stregua dei criteri di ragionevolezza e di logica giuridica, in ossequio al principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost.. Tale norma, infatti, postula l’omogeneità delle posizioni assoggettate ad un regime giuridico uniforme, ed impone, viceversa, l’adeguata diversificazione delle posizioni eterogenee» (cfr. sent., pag. 9, 2° cpv.). (6) Cfr. par. 28. CONTENZIOSO NAZIONALE 155 «Stante quanto stabilito dalle disposizioni di cui all’articolo 40, comma 1, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, e successive modificazioni, all’articolo 4, comma 14-bis, della legge 3 maggio 1999, n. 124, e all’articolo 6, comma 5, del decreto legislative 30 marzo 2001, n. 165, sono altresì esclusi dall’applicazione del presente decreto i contratti a tempo determinato stipulati per il conferimento delle supplenze del personale docente ed ATA, considerata la necessità di garantire la costante erogazione del servizio scolastico ed educativo anche in caso di assenza temporanea del personale docente ed ATA con rapporto di lavoro a tempo indeterminato ed anche determinato. In ogni caso non si applica l’articolo 5, comma 4-bis, del presente decreto» (7). La Corte di Cass. destituisce di ogni fondamento l’orientamento interpretativo secondo il quale la norma di cui al comma 4 bis citata avrebbe portata innovativa: «Trattasi, invero, di esplicitazione di un principio che, in quanto già enucleabile, alla stregua di quanto in precedenza rimarcato, dal precedente sistema, non ha comportato alcuna innovazione e risponde, piuttosto, all’esigenza, avvertita dal legislatore, di ribadire, a fronte del proliferare di controversie sulla illegittimità delle assunzioni a termine nel settore in parola, di una regula iuris già insita nella legislazione concernente la c.d. privatizzazione del pubblico impiego» (8). La critica della Corte di Cassazione alla portata innovativa della norma in commento è supportata dalla considerazione che il riconoscimento di tale efficacia innovativa condurrebbe a tre risultati ermeneutici abnormi sul piano logico-giuridico. In primis, ad avviso della S.C., la certezza del carattere di norma di interpretazione autentica dell’art. 9 discende dal fatto che, ove si riconoscesse a tale disposizione un’efficacia innovativa «si finirebbe per legittimare una totale disapplicazione del D.Lgs n. 165 del 2001 con riferimento al personale della scuola» (9) . In secondo luogo, «si determinerebbe una violazione dei criteri di efficienza per incidere sugli organici del personale della scuola e sulla complessa amministrazione del settore e, conseguentemente, penalizzando il merito e gli altri principi posti a fondamento del rapporto di pubblico impiego, nel cui ambito va collocato (con riferimento alle finalità perseguite dalle disposizioni di cui agli artt. 4, 5 e 10 del citato D.Lgs n. 165 del 2001) il detto personale» (10). Infine, «si finirebbe per attribuire illogicamente alla suddetta norma una portata priva di razionalità ed al di fuori di una logica di sistema. Nel momento in cui attraverso il collegato lavoro (di cui alla legge 4 novembre 2010 (7) Cfr. par. 31. (8) Cfr. par. 32. (9) Cfr. par. 33. (10) Cfr. par. 34. 156 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 n. 183), si andava ad incidere in senso riduttivo sul risarcimento del danno nello stesso tempo si sarebbe, infatti, esposta la pubblica amministrazione ad uno sforamento di bilancio, assicurando al personale della scuola un trattamento diverso e, sotto più versanti, maggiormente favorevole rispetto agli altri dipendenti pubblici, sia sul piano delle condizioni della trasformazione in contratto a tempo indeterminato, sia su quello risarcitorio (cfr. Cass. 29 febbraio 2012 n. 3056, sulla interpretazione dello ius superveniens ex art. 32, commi, 5, 6, 7 della legge n. 183 del 2010, sebbene la stessa riconosca che il risarcimento configuri una sorta di penale ex lege da assicurarsi in ogni caso e senza necessità di prova del lavoratore)» (11). 2. La conformità della normativa speciale relativa al reclutamento del perso. nale scolastico alla Costituzione italiana nella ricostruzione operata dalla S.C. Nel recente arresto in commento, la S.C. ha anche ampiamente argomentato la conformità della disciplina speciale sul reclutamento del personale scolastico a piú di una norma costituzionale. 2.1. Sulla conformità agli artt. 3 e 97 Cost. In primis, la S.C., richiamando l’orientamento consolidato espresso dalla sent. n. 89/2003 della Corte Cost., ha sostenuto la predetta rispondenza sia all’art. 3 che all’art. 97 Cost., in quanto non sussiste alcun principio di equivalenza tra settore privato e settore del pubblico impiego quanto alle modalità dell’assunzione dei rispettivi lavoratori. Risponde ai canoni di ragionevolezza, nonché di imparzialità e buon andamento della P.A. la scelta del legislatore (art. 36, comma 2, d.lgs. n. 165/2001) di ricollegare alla violazione di norme imperative sull’assunzione o l’impiego dei lavoratori da parte della P.A. esclusivamente sanzioni di tipo risarcitorio, anziché quella della conversione del rapporto di lavoro in rapporto a tempo indeterminato: lo strumento del concorso, al fine di garantire l’imparzialità e l’efficienza della P.A., “tutela i vincitori” in modo diverso dal personale assunto attingendo dalle graduatorie permanenti ad esaurimento, poiché tale personale, pur non essendo privo dei requisiti attitudinali e professionali necessari, non ha dimostrato, come i vincitori di concorso, di possedere un’uguale preparazione (12). Il sistema delle supplenze in esame, dunque, è considerato dalla S.C. come un “sistema alternativo a quello del concorso per titoli ed esami” e che “vale a connotare di una sua intrinseca “specialità e completezza” il corpus normativo relativo al reclutamento del personale scolastico” (13). (11) Cfr. par. 34. (12) Cfr. par. 23. (13) Cfr. par. 45. CONTENZIOSO NAZIONALE 157 Alla luce di questo esplicito recente assunto della S.C., sarà piú agevole contestare la legittimità dell’equiparazione sul piano “sostanziale” tra titoli di accesso del personale precario e quelli del personale stabile: il requisito selettivo del concorso non può considerarsi soddisfatto mediante il superamento delle sole prove di accesso alle SSIS, in quanto trattasi di procedura di accesso ad un corso abilitante che non può considerarsi superamento di una prova concorsuale. Inoltre, il c.d. sistema del doppio canale, in virtù del quale l’accesso ai ruoli della pubblica amministrazione scolastica avviene per il 50 per cento dei posti mediante concorso per titoli ed esami e, per il restante 50 per cento, attingendo dalle graduatorie permanenti risponde al principio di cui all’art. 97 Cost. anche in quanto, «come rilevato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 41 del 2011, individua ... i docenti cui attribuire le cattedre e le supplenze secondo il criterio di merito al fine di assicurare la migliore formazione scolastica» (14). 2.2. Sulla conformità all’art. 4 Cost. La Corte, inoltre, implicitamente afferma anche la conformità all’art. 4 Cost. della disciplina speciale sul reclutamento del personale scolastico, ravvisando nel caso in esame una “tipologia di flessibilità atipica destinata a trasformarsi in una attività lavorativa stabile” (15). Nel sistema di reclutamento del personale scolastico a termine, infatti, la S.C. ritiene che la situazione di precarietà sia bilanciata “ampiamente” da una sostanziale e garantita (sia pur futura) immissione in ruolo che, per altri dipendenti del pubblico impiego è ottenibile solo attraverso il concorso e per quelli privati “può risultare di fatto un approdo irraggiungibile” (16). In altre parole, a giudizio della S.C., le norme speciali sul reclutamento del personale scolastico tutelano il lavoratore precario, da un lato, consentendo, anche senza superamento di un concorso, l’immissione in ruolo, a differenza di quanto è consentito ad altre categorie di pubblici dipendenti, e, dall’altro, favorendone l’immissione in ruolo, mediante avanzamento nella graduatoria ad esaurimento in funzione del servizio svolto in virtù dei contratti a termine conclusi anno dopo anno. 2.3. Sulla conformità all’art. 81 Cost. Anche la conformità all’art. 81 Cost. è stata valutata, con esito positivo, dalla S.C., ritenendo che la normativa sul reclutamento del personale scolastico risponderebbe ad “indifferibili” esigenze di carattere economico (17) di “con- (14) Cfr. par. 34. (15) Cfr. par. 46. (16) Cfr. par. 46. (17) Cfr. par. 47. 158 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 tenimento della spesa pubblica” (18). Peraltro, la S.C. non manca di sottolineare “che, come è noto, la giurisprudenza comunitariaha più volte evidenziato che nella determinazione della portata applicativa delle direttive un accentuato rilievo va dato alle esigenze di bilancio degli stati membri” (19). In realtà, già prima di questo autorevole arresto della S.C., la conformità all’art. 81 Cost. era stata ampiamente e fondatamente sostenuta e, addirittura, si è perfino ritenuto che il divieto di cui all’art. 36 TUPI radicasse la propria ratio, piú ancora che nell’art. 97 Cost., nel precedente art. 81: «A sostegno del divieto di conversione, oltre al principio della necessità del pubblico concorso, militano ragioni ulteriori, rappresentate dei principi di predeterminazione delle esigenze di lavoro stabili espresse attraverso la pianta organica, di tutela della programmazione finanziaria e di razionalizzazione e controllo della spesa pubblica (Cass. nn. 6099 e 8229 del 2003: Cass. 10605/04: Cass., n. 11161/2008)» (20). 2.4. Sulla conformità all’art. 34 Cost. Infine, la S.C. ha sostenuto la conformità della normativa sul reclutamento del personale scolastico anche all’art. 34 Cost., ritenendola “funzionalizzata a ragioni […] di natura obiettiva, come quelle di assicurare la continuità nel servizio scolastico - obiettivo di rilevanza costituzionale - a fronte di eventi contingenti, variabili ed in definitiva imprevedibili, non solo nelle loro concrete ricaduta a livello territoriale per la popolazione scolastica interessata, ma anche nella collocazione temporale preordinata ad assicurare la continuità del servizio scolastico” (21). (18) Cfr. par. 48, in cui la S.C. richiama il conforme precedente della Corte Cost., sent. del 17 dicembre 2004 n. 300. (19) Cfr. par. 48. (20) Cosí si esprime il Trib. di Torre Annunziata, Sez. lav. (dr.ssa Matilde Dell’Erario) nella sent. n. 358 del 24 gennaio 2012 (cfr. pag. 12, rispett. 6° cpv.). In senso conforme si è espressa pure altra pronuncia, pur favorevole alle istanze dei precari: la sent. del 27 settembre 2010 (rgl 699/2009) del Trib. di Siena, Sez. lav. (dr. Delio Cammarosano). In essa il Tribunale di Siena, considerato che «l’art. 97 della Costituzione prevede espressamente la possibilità per il legislatore ordinario di derogare al principio della concorsualità», sostiene che «il principio di non convertibilità, certamente di favore datoriale, tuttora diffusamente persistente nel lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, non si alimenta soltanto, come appena detto, insufficientemente, della imprescindibilità della regola della assunzione mediante pubblico concorso, sottolineandosi in dottrina come “scopo del divieto è di scongiurare il rischio che attraverso la conversione di rapporti precari si possano incardinare rapporti a tempo indeterminato senza una programmazione del fabbisogno del personale e con il rischio di assumere un numero di persone maggiore di quanto possano consentire gli stanziamenti in bilancio” (cfr. anche C. Cost. 1997/n. 59)» (cfr. sent, pag. 9, 5° cpv.). (21) Cfr. par. 68. CONTENZIOSO NAZIONALE 159 3. La conformità della normativa speciale relativa al recutamento del personale scolastico alla Direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999 ed all’allegato accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato. 3.1. Insussistenza di un abuso dello Stato-Legislatore. La S.C., dopo aver ampiamente argomentato in merito alla rispondenza, sotto vari profili della disciplina speciale operante in materia di reclutamento del personale scolastico alle norme costituzionali e dopo aver ribadito che a tale reclutamento non è applicabile il d.lgs. n. 368/2001 (attuativo della direttiva 1999/70/CE), ha verificato, con esito positivo, se la detta normativa speciale di reclutamento sia conforme direttamente alla direttiva 1999/70/CE. Più precisamente, ad avviso della S.C. nella normativa sul reclutamento del personale nel settore della scuola «non è ontologicamente configurabile quell’abuso di diritto ritenuto sanzionabile dalla direttiva e dalla giurisprudenza comunitaria» (22). Per escludere la configurabilità di un abuso della contrattazione a termine nella legislazione sul reclutamento del personale scolastico, la S.C. parte dalle seguenti importanti premesse: • che tale normativa consente la stipula di contratti a tempo determinato «in relazione alla oggettiva necessità di far fronte, con riferimento al singolo istituto scolastico - e, quindi, al caso specifico -, alla copertura dei posti di insegnamento che risultino effettivamente vacanti e disponibili entro la data del 31 dicembre, ovvero alla copertura dei posti di insegnamento non vacanti che si rendano di fatto disponibili entro la data del 31 dicembre, ovvero ancora ad altre necessità quale quella di sostituire personale assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro» (23); • che tutti questi casi in cui è consentito il ricorso alla contrattazione a termine si riferiscono a «circostanze precise e concrete caratterizzanti la particolare attività scolastica» (24) (ad es., con riferimento alle fattispecie regolate dall’art. 41,2 della l. n. 124/1999, rileva lo stretto collegamento tra la necessità di ricorrere alla supplenza e la ciclica variazione in aumento ed in diminuzione della popolazione scolastica e la sua collocazione geografica); • che gli Stati membri sono tenuti, in generale, nell’ambito della libertà che viene loro riservata dall’art. 249, terzo comma, Trattato CEE, a scegliere le forme e i mezzi idonei al fine di garantire l’efficacia pratica delle direttive (25); (22) Cfr. par. 67. (23) Cfr. par. 59. (24) Cfr. par. 59. (25) Cfr. par. 55, in cui la S.C. richiama le seguenti sentenze della Corte di Giustizia del 4 luglio 2006 C-212/04, Adeneler cit. (punto 65) e del 26 gennaio 2012 C-586/10 Kücük (punto 26), nonché la propria sentenza del 21 maggio 2008 n. 12985. 160 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 • che tale principio generale resta fermo nel presente contenzioso, in quanto l’accordo quadro non stabilisce le condizioni precise in base alle quali si può far ricorso al contratto a tempo determinato, ma sancisce unicamente l’adozione, qualora il diritto nazionale non preveda norme equivalenti, di almeno una delle misure in essa enunciate, che attengono, rispettivamente, a ragioni obiettive giustificative del rinnovo di tali contratti o rapporti di lavoro, alla durata massima totale degli stessi contratti o rapporti di lavoro successivi ed al numero dei rinnovi di questi ultimi (26) ; • che secondo conforme giurisprudenza comunitaria «la nozione di «ragioni obiettive», ai sensi della clausola 5, punto 1, lett. a), dell’accordo quadro, deve essere intesa nel senso che si riferisce a circostanze precise e concrete caratterizzanti una determinata attività e, pertanto, tali da giustificare in questo particolare contesto l’utilizzazione di contratti di lavoro a tempo determinato successivi» (27); • che «Tali circostanze possono risultare segnatamente dalla particolare natura delle mansioni per l’espletamento delle quali siffatti contratti sono stati conclusi e dalle caratteristiche inerenti a queste ultime o, eventualmente, dal perseguimento di una 1egittima finalità di politica sociale di uno Stato membro » (28). Ebbene, cosí ricostruita sia la normativa italiana che quella comunitaria, la S.C. conclude sostenendo che la prima costituisca “norma equivalente” alle misure di cui alla clausola 5 , n. 1, lett. da a) a c) dell’accordo quadro secondo quanto indicato dalla sentenza 28 aprile 2009 C-370/07 Angelidaki cit.» (29). 3.2. Il problema probatorio sotteso al giudizio di accertamento “in concreto” dell’abuso dello Stato-Amministrazione. Peraltro, sempre a sostegno della riconosciuta conformità alla normativa comunitaria del sistema di reclutamento del personale scolastico, la S.C. richiama in più passaggi della motivazione (30) quanto affermato dalla rilevante sentenza della C.G.U.E, pronunciata nel procedimento Bianca Kücük c/Land Nordrhein-Westfalen (causa C-586/10). La S.C. ha affermato che: «spetta al giudice nazionale di valutare se in concreto l’impiego di un dipendente per un lungo periodo di tempo in forza di ripetuti e numerosi contratti sia rispettosa della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro (sentenza 26 gennaio 2012 C-586/10 Kücük cit. punto 55), che deve ritenersi, nel caso di specie, rispettata perché il reiterarsi degli incarichi, (26) Cfr. par. 55. (27) Cfr. par. 56. (28) Cfr. par. 57. (29) Cfr. par. 59. (30) Cfr. La sentenza della S.C. richiama i punti 28 (cfr. par. 62, pag. 24, ult. cpv.), 52 (cfr. par. 62, inizio pag. 25) e 55 (cfr., par. 63). CONTENZIOSO NAZIONALE 161 come rilevato - ma é opportuno ribadirlo - risponde ad oggettive, specifiche esigenze, a fronte delle quali non fa riscontro alcun potere discrezionale della pubblica amministrazione, per essere la stessa tenuta al puntuale rispetto della articolata normativa che ne regola l’assegnazione» (31). La ratio del principio di cui al punto 55 della sentenza Kücük, applicato al par. 63 della sentenza della S.C., è espressa con chiarezza dalla CGUE ed è la seguente: «la sola circostanza che si concludano contratti di lavoro a tempo determinato al fine di soddisfare un’esigenza permanente o ricorrente, del datore di lavoro, di personale sostitutivo non può essere sufficiente, in quanto tale, ad escludere che ognuno di questi contratti, considerati singolarmente, sia stato concluso per garantire una sostituzione avente carattere temporaneo, sebbene la sostituzione soddisfi un’esigenza permanente, dato che il lavoratore assunto in forza di un contratto a tempo determinato svolge compiti ben definiti facenti parte delle attività abituali del datore di lavoro o dell’impresa, resta il fatto che l’esigenza di personale sostitutivo rimane temporanea poiché si presume che il lavoratore sostituito riprenda la sua attività al termine del congedo, che costituisce la ragione per la quale il lavoratore sostituito non può temporaneamente svolgere egli stesso tali compiti» (32) . La sig.ra Kücük aveva lavorato come assistente di cancelleria presso il segretariato della Sezione delle cause civili del Tribunale distrettuale di Colonia, in forza di tredici contratti di lavoro a tempo determinato conclusi a fronte di congedi temporanei, compresi i congedi parentali di educazione, ed i congedi speciali fruiti da assistenti assunti a tempo indeterminato e diretti a garantire la sostituzione di questi ultimi. Essendo questa la particolare fattispecie decisa dalla CGUE, può comprendersi perché, secondo taluno dei primi commentatori della sentenza della Cass., il richiamo alla sentenza Kücük «può essere considerato un autogol clamoroso» (33) . Tuttavia, nonostante la diversità tra le fattispecie giudicate nelle due sentenze non si può ritenere errato il richiamo alla sentenza comunitaria, purché si apporti la seguente precisazione: pur potendosi reputare corretta l’estensione del principio della sentenza Kücük all’intero contenzioso italiano del precariato scolastico, si deve del pari reputare non corretto il modo in cui tale estensione è stata compiuta, vale a dire non tenendo conto delle peculiarità del contenzioso dei precari della scuola. (31) Cfr. par. 63. (32) Cfr. punto 38 della sentenza Kücük. (33) S. GALLEANO, W. MICELI, “La Cass. condanna i docenti italiani al precariato a vita ma la Commissione europea apre due procedimenti d’infrazione nei confronti dello Stato Italiano. Come uscire dal corto circuito?”, Diritto Scolastico, 3 luglio 2012, http://www.dirittoscolastico.it/la-cassazionecondanna- i-docenti-italiani-al-precariato-a-vita-ma-la-commissione-europea-apre-due-procedimentidinfrazione- nei-confronti-dello-stato-italiano-come-uscire-dal-corto-circuito/ (20/03/2013). 162 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Nel caso Kücük l’assenza di un abuso datoriale, pur dopo anni di contratti a termine, era evidente, perché, sul piano probatorio, non era stato necessario dimostrare dal datore di lavoro che la lavoratrice avesse sopperito con ogni singolo contratto ad un’esigenza temporanea di ricorso al precariato, essendo incontestato e, quindi, pacifico, che ciascuno dei contratti era stato concluso per sostituire durante il periodo di legittimo congedo lavoratori a tempo indeterminato con diritto alla conservazione del posto. Nel caso del contenzioso italiano, invece, il problema probatorio rimane cruciale, in quanto, pur condividendosi l’astratta conformità comunitaria della disciplina sul reclutamento del personale scolastico, da tale conformità della norma nazionale a quelle comunitaria non può farsi discendere che, sempre e comunque, non si possa essere verificata in concreto una violazione della norma nazionale e per tale via di quella comunitaria. Uno stato membro, infatti, è parimenti inadempiente agli obblighi comunitari sia quando li viola in qualità di legislatore, che quando li viola in qualità di amministratore e l’aver dimostrato l’assenza di un abuso dello Stato-Legislatore non consente di escludere anche l’abuso dello Stato-Amministrazione in relazione alla medesima normativa comunitaria. A fronte dell’estensione del principio Kücük ai precari della scuola pubblica italiana (che, seppure corretta, deve ritenersi sia stata motivata in modo debole e fumoso), non sono mancate le prime critiche delle corti di merito, che hanno colto il punto di debolezza della motivazione della S.C. (pur non richiamandola espressamente). In particolare, ci si può richiamare ad una delle più recenti sentenze del Tribunale di Trapani, che riconoscendo risarcimenti consistenti ai precari, sono balzate (al contrario della sentenza della S.C.) agli onori della cronaca. Tale sentenza, la n. 89/2013 del 15 febbraio 2013, sembra, come detto, cogliere nel segno quando rimarca che, per poter applicare il principio Kücük, non si può prescindere dalla necessità di risolvere un giudizio in concreto sull’abuso lamentato e, dunque, non può non porsi una questione probatoria: «Tale pronuncia [nds.: ci si riferisce a quella del caso Kücük] non legittima affatto la generalizzata reiterazione del rapporto a termine nel pubblico impiego (in particolare nel settore scolastico) … Piuttosto, con la sentenza Kücük la Corte di Giustizia afferma la necessità di procedere ad una valutazione caso per caso per appurare se vi siano circostanze precise e concrete che esprimano, di fatto, la necessità di procedere a plurime assunzioni a termine in successione» (34). Si potrebbe obiettare che pure la S.C. pretende questo accertamento concreto, poiché afferma, come si è già ricordato, che «spetta al giudice nazionale di valutare se in concreto l’impiego di un dipendente per un lungo periodo di (34) Cfr. sent., fine pag. 8 - pag. 9. CONTENZIOSO NAZIONALE 163 tempo in forza di ripetuti e numerosi contratti sia rispettosa della clausola 5, punto1, dell’accordo quadro» (35). Eppure, nel momento in cui la S.C. afferma che “spetta” al giudice accertare “in concreto” l’abuso, nella stessa frase svuota il principio appena affermato, riducendolo ad un guscio vuoto: «[…] la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro [...] deve ritenersi, nel caso di specie, rispettata perché il reiterarsi degli incarichi, come rilevato ma é opportuno ribadirlo - risponde ad oggettive, specifiche esigenze, a fronte delle quali non fa riscontro alcun potere discrezionale della pubblica amministrazione, per essere la stessa tenuta al puntuale rispetto della articolata normativa che ne regola l’assegnazione». In altre parole, la S.C. afferma, da un lato, che l’accertamento se sia stato o meno violato in un dato caso la clausola 5, punto 1, dell’AQ. va compiuto dal giudice “in concreto”, dall’altro, subito dopo, precisa che quell’accertamento non può che avere esito positivo, in quanto, l’Amministrazione ricorre alla contrattazione a termine essendo “tenuta al puntuale rispetto della articolata normativa che ne regola l’assegnazione”: può ancora parlarsi, dunque, di un accertamento “in concreto” ? La S.C., in sintesi, non ha errato quando ha ritenuto applicabile ai precari della scuola il principio enucleato dalla CGUE per il caso Kücük, ma avrebbe dovuto: • in primis, sottolineare la diversità del contenzioso in esame rispetto al particolarissimo caso Kücük, ove, per le ragioni ampiamente esposte, il problema probatorio non si poneva, poiché l’esistenza di una carenza provvisoria di organico era incontroversa, • in secondo luogo, indicare il modo nel quale il principio Kücük può applicarsi ai precari della scuola, ponendo l’accento, in particolare, sull’esigenza che anche per questi ultimi si pone la necessità imprescindibile di accertare di volta in volta, caso per caso, “in concreto”, l’abusività del ricorso per un lungo periodo di tempo a contratti a termine e che tale accertamento, per essere, davvero, “in concreto”, non potrà risolversi in un mero scrutinio della compatibilità della normativa italiana a quella comunitaria, bensì dovrà comprendere anche quello della conformità dell’azione del MIUR alla normativa italiana/accertata come comunitariamente legittima. Purtroppo, il problema probatorio sotteso a tali accertamenti in concreto non è stato affrontato dalla S.C., che, consequenzialmente, non ha indicato ai giudici di merito gli indici probatori dell’abuso e non ha prospettato, ai fini dell’esito positivo o negativo di quel giudizio, quale debba essere il più corretto riparto dell’onere probatorio tra le parti, pubblica e privata. (35) Cfr. par. 63. 164 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 4. Riconoscimento nel sistema di reclutamento a termine del personale scolastico di un fenomeno di “successione”: la S.C. rinuncia ad uno degli argomenti più signficativi adoperato dalle corti di merito a sostengo dell’inapplicabilità dell’art. 5, comma 1, del D.Lgs. n. 368/2001 ai precari della scuola. Purtroppo, la S.C. non è solo nell’invocare fumosamente il principio Kücük che ha mostrato di sottovalutare i problemi probatori che si pongono nel presente contenzioso. Più volte nel corso della sentenza in commento la S.C., ogniqualvolta si è riferita al sistema di reclutamento del personale scolastico precario, ha parlato di un fenomeno di “successione” di contratti (36). Si potrebbe, da subito, privare di sostanziale rilievo il richiamo che la S.C. ha compiuto alla “successione” dei contratti, sostenendo che tale espressione nella sentenza in commento abbia semplicemente indicato il dato naturalistico/temporale del susseguirsi dei contratti gli uni agli altri. Al riguardo, va considerato che, come la clausola n. 5 dell’Accordo quadro si riferisce a contratti “successivi”, così la norma attuativa di cui all’art. 5, comma 1°, del d.lgs. n. 368/2001 disciplina l’ipotesi in cui un rapporto di lavoro o “continua dopo la scadenza del termine inizialmente fissato” o sia “successivamente prorogato ai sensi dell’articolo 4”. Ebbene, ad avviso di larga parte della giurisprudenza di merito pro-parte pubblica, nel caso dei precari della scuola non si può parlare di una “successione di contratti” dei quali l’uno sarebbe continuazione del precedente. La successione si verifica, infatti, ad avviso di questa giurisprudenza, nel lavoro privato o pubblico, solo quando, stipulato un contratto, si procede, sic et simpliciter, al suo rinnovo o alla sua proroga con lo stesso lavoratore: tale comportamento palesa la volontà elusiva della disciplina del rapporto a tempo determinato, elusione che la direttiva comunitaria intende sanzionare. In queste ipotesi il nuovo contratto è legato al precedente logicamente e teleologicamente. Questa posizione è stata espressa compiutamente in più pronunce dalla Corte di Appello di Perugia: «nel conferimento delle supplenze da parte del- (36) Il riferimento al fenomeno della “successione” contrattuale si ritrova nei seguenti punti della motivazione: par. 20 (inizio pag. 7), par. 47 (inizio pag. 19), par. 68 (pag. 27 ed inizio pag. 28), par. 70 (pag. 28). q.s. 3). Del pari non nega l’esistenza di un fenomeno successorio il Trib. di Fermo, Sez. lav. (dott. Camillo Cozzolino), nella sent. n. 154/2011 del 16 agosto 2011: «È vero che nell'ambito della scuola vi è una successione di contratti a termine, anche nel lungo periodo … ciò non di meno deve tenersi conto che in tutto questo non vi è niente che provenga dal datore di lavoro, ossia dall'Amministrazione Scolastica. Una volta divisato dagli organi politici l’assunzione di detto personale, vagliate le esigenze sottese alla procedura di cui agli artt. 4 e 4 bis del d.lgs. 165/2001, tra cui valore primario assume la necessità del valore costituzionale della continuazione didattica con l’esigenza di pari valore costituzionale della razionale utilizzazione delle risorse finanziarie disponibili per l'erogazione dei servizi pubblici cui è preposto lo Stato, si procede ad attivare la procedura di reclutamento» (cfr. sent. pag. 8, ult. cpv. fino a pag. 9, 1°cpv.). CONTENZIOSO NAZIONALE 165 l’amministrazione scolastica non sembra potersi ravvisare alcun abuso. Occorre tener presente, anzitutto, che ciascun incarico è svincolato dai precedenti, di cui non costituisce né prosecuzione né proroga, e spesso attiene alla copertura di posti situati in sedi diverse. In secondo luogo, l’amministrazione scolastica - a differenza del datore privato, che può scegliete liberamente il lavoratore con cui stipulare il contratto - ha l’obbligo di attenersi alle graduatorie permanenti provinciali, per gli incarichi su organico di diritto, o, per le supplenze su organico di fatto o temporanee, alle graduatorie interne d’istituto o di circolo. Il supplente chiamato a ricoprire l’incarico, poi, non è “nominato”, bensì è “individuato” secondo criteri predeterminati che l’Amministrazione è tenuta a rispettate. In sostanza, una volta individuato nella graduatoria il lavoratore da assumere, l’attribuzione dell’incarico costituisce un vero e proprio obbligo per l’Ammistrazione» (37). Dunque, questa pronuncia, come altre di segno conforme, se hanno escluso una condotta datoriale abusiva, lo hanno fatto anche perché non hanno configurato nel caso di specie un fenomeno di successione dei contratti, reputando che la successione debba escludersi laddove, come nel caso in esame, l’individuazione del lavoratore avvenga secondo criteri predeterminati dalla legge, cui datore e lavoratore sono sottoposti, e che non hanno alcun collegamento con il precedente rapporto. Si pensi al fatto che il lavoratore precario (docente o ATA) non può pretendere di essere confermato nella precedente sede di servizio (collegando funzionalmente i contratti), ma deve scegliere secondo l’ordine di graduatoria; per cui il ritorno alla precedente sede di servizio dipende dalla mancata scelta di altri aspiranti con migliore posizione in graduatoria e non dall’esistenza di un precedente rapporto di lavoro. Ebbene, nel momento in cui la Cassazione conferma che nel settore scolastico non è configurabile alcun abuso del datore di lavoro/P.A. anche in ragione del fatto che «la formazione della graduatoria permanente […] è ancorata a rigidi criteri oggettivi [...] che costituiscono attuazione [...] del principio generale secondo il quale l’assunzione dei dipendenti pubblici, anche non di ruolo, deve avvenire secondo procedure sottratte alla discrezionalità dell’amministrazione (art. 97 Cost.)» (38), sarebbe stato piú opportuno che la stessa S.C. non avesse parlato con riguardo ai precari della scuola pubblica di “successione” di contratti: infatti, alla luce della legislazione nazionale di recepimento del 2001, l’espressione è usata per indicare, quali fenomeni elusivi del divieto di abuso della contrattazione a termine, tutte le ipotesi di successione contrattuale in cui ciascun contratto non è solo successivo al precedente, ma ne rappresenta la continuazione. (37) Cfr. Corte di Appello di Perugia, sent. n. 524/2010. (38) Cfr. par. 44. 166 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 È, dunque, criticabile che la S.C., parlando di “successione” di contratti nel caso del reclutamento del personale scolastico precario, abbia mostrato di sottovalutare il rilievo probatorio attribuibile alla successione contrattuale, quale fatto di per se stesso indicativo della sussistenza del lamentato illecito datoriale. Due sono gli abusi che spetta al giudice valutare, come si è detto: quello dello Stato-Legislatore e quello dello Stato-Amministrazione. Il primo è stato escluso in maniera netta e chiara dalla S.C., che, per negare l’abuso dello Stato legislatore, ha affermato che può «ricavarsi al di là di ogni dubbio, [...] sia dalla normativa statale che da quella comunitaria, la piena legittimità del reclutamento del personale scolastico articolato sulla successione di pur numerosi contratti a termine» (39). Dunque, l’espressione “successione” adoperata dalla S.C. si può ritenere che costituisca, sì, un’espressione impropria, ma che, tutto sommato, non comporti, ai fini della responsabilità del legislatore, conseguenze pratiche di grande rilievo: anche ove si ritenesse che la Corte, parlando di “successione”, abbia voluto riferirsi proprio ad un fenomeno di consecuzione contrattuale in cui ogni contratto è continuazione del precedente, ciò non avrebbe alcun riflesso sulla responsabilità dello Stato-Legislatore (la disciplina esaminata, infatti, è considerata “norma equivalente” alle misure di contrasto all’abuso pretese dall’UE). In altre parole, il problema probatorio dell’accertamento del fatto illecito/abuso lamentato scolorisce quando si tratti di accertare l’abuso dello Stato-legislatore, poiché esso va indagato tramite una valutazione una tantum ed in astratto della conformità o meno della normativa interna con quella comunitaria. Tuttavia, una volta negato l’illecito dello Stato-Legislatore, non può escludersi con analogo giudizio una tantum ed in astratto anche quello dello Stato- Amministrazione (MIUR), potendosi ben dare il caso che quest’ultima, nelle proprie condotte concrete, violi la norma interna e contestualmente la direttiva comunitaria. Di ciò la S.C. è ben consapevole e, infatti, chiarisce che di abuso potrà parlarsi solo ove «si sia in presenza di supplenze annuali o temporanee al di fuori delle condizioni legislativamente previste» (40): tra queste condizioni non vi è solo quella ricordata dalla corte, vale a dire il «rispetto delle graduatorie nella assegnazione delle supplenze» (41), ma anche la sussistenza di una provvisorietà, reale, non solo sulla carta, della carenza di organico. Si avrà, ad es., abuso quando l’Amministrazione/MIUR assegni con contratto di supplenza annuale, con scadenza al 31 agosto, una cattedra che corrisponda ad un vuoto stabile nell’organico ossia quando la norma interna (reclutamento (39) Cfr. par. 70. (40) Cfr. par. 70. (41) Cfr. par. 70. CONTENZIOSO NAZIONALE 167 compiuto per scorrimento della graduatoria provinciale) sia formalmente applicata per tradirne lo spirito. Ebbene, per questo tipo di abuso, il problema probatorio ritorna cruciale per il giudice, perché non potrà, per escludere l’abuso, limitarsi a dichiarare la conformità del diritto nazionale a quello comunitario: dovrà valutare anche se, in concreto, la condotta dell’Amministrazione integri un abuso della contrattazione a termine, se abbia concluso contratti a termine nei soli casi in cui è legittimata a farlo in virtù della normativa nazionale/comunitariamente conforme. Il giudice, dunque, considerando il caso di ogni singolo ricorrente, dovrà compiere un giudizio in concreto, appurare se il contratto a termine è stato concluso nei casi ammessi dalla legge, verificando, cioè, se i vuoti di organico coperti da quelle supplenze fossero realmente provvisori oppure no. Ma per far ciò, dovrà a monte avere ben chiaro come vada compiuto tra le parti il riparto dell’onere probatorio: chi, tra lavoratore e datore, deve provare cosa ai fini della dimostrazione dell’abuso? E ancora, quali sono i fenomeni indicativi di una elusione della normativa nazionale, vale a dire del carattere non stabile, bensì provvisorio, di una carenza di organico? Queste domande non hanno trovato risposta nella sentenza della S.C., né, piú in generale, la stessa ha indicato, per cosí dire, delle linee guida alle corti di merito da seguire per condurre in modo uniforme e con esiti prevedibili gli innumerevoli giudizi sui lamentati abusi in concreto che saranno in futuro ancora proposti dal personale precario nei confronti dello Stato-Amministrazione. Vi è di piú: ma questo sarà un problema, non già del giudice di merito, bensì, purtroppo, della sola pubblica difesa. L’espressione “successione” contrattuale usata dalla S.C. si potrà rivelare, se fraintesa, pericolosa ove, come sarà doveroso fare, la pubblica difesa continuerà a sostenere la non sussistenza di abusi da parte del MIUR: questo obiettivo sarà piú difficile da raggiungere se, da parte avversa (i precari) si farà leva sull’affermata (dalla S.C.) esistenza di successione di contratti, intesa come “continuazione” dei precedenti, invocata, ovviamente, dai precari come indice probatorio dell’esistenza di un abuso datoriale. 5. Il problema probatorio sotteso al giudizio di accertamento “in concreto” dell’abuso dello Stato-Amministrazione. Le soluzioni offerte dalla giurispurdenza di merito favorevole alla parte pubblica. Va preliminarmente evidenziato che già prima della sentenza della S.C. non sono mancate sentenze delle corti di merito le quali, in coerenza con essa, hanno, di fatto, ancorato il giudizio sulla sussistenza dell’abuso datoriale ad una valutazione da compiersi in astratto e non in concreto, vale a dire in virtù della mera dimostrazione della conformità della legislazione nazionale sul reclutamento del personale scolastico alla direttiva comunitaria: «Datore di lavoro, infatti, non è la singola struttura didattica di turno, nell’ambito della 168 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 quale potrebbe in astratto discutersi della obiettiva temporaneità della esigenza lavorativa soddisfatta con l’instaurazione del singolo rapporto di lavoro a termine, ma il Ministero, l’Amministrazione scolastica, nel cui ambito quel rapporto soddisfa una esigenza lavorativa istituzionale ordinaria, corrente, nel tempo immutata, tutt’altro che eccezionale o temporanea, ma destinata a soddisfare esigenze permanenti e durevoli del datore di lavoro» (42). 5.1. Il riparto dell’onere probatorio quanto alla lamentata illegittima condotta datoriale del MIUR: gli oneri gravanti sulla parte ricorrente ed il carattere presuntivo delle prove eventualmente poste a carico della P.A. Tuttavia, i precari della scuola continueranno a sostenere la fondatezza delle proprie istanze, anche contestando quelli che si sono prima indicati come i punti (se non deboli, certamente) discutibili dell’arresto della S.C.. Peraltro, si sono già registrate pronunce di merito in senso contrario all’orientamento della S.C. ed è prevedibile che altre ne seguiranno, ove i giudici di merito riterranno che il giudizio sull’inesistenza dell’abuso non si debba risolvere nella sola valutazione in astratto della conformità tra legislazione interna e norme comunitarie, bensì richieda anche un giudizio in concreto sulla coerenza tra l’azione della P.A./MIUR ed i presupposti fissati dalla legge nazionale per la legittimità del ricorso, nei singoli casi controversi, alla contrattazione a termine. Come, si è ampiamente rilevato, sono varie le problematiche probatorie connesse ad un accertamento in fatto del lamentato abuso e che non sono state affrontate dalla S.C.: tuttavia, a fronte del silenzio della S.C., l’avvocatura dello Stato potrà rintracciare nella pregressa giurisprudenza di merito piú di una decisione nella quale, avvertita la necessità di un accertamento in concreto del lamentato carattere abusivo della condotta del MIUR, il relativo onere probatorio è stato posto a carico dei dipendenti ricorrenti. In primo luogo, è interessante richiamare quanto affermato dal Trib. di Napoli, Sez. Lav. (Dr.ssa Milena d’Oriano), in una sentenza del 16 marzo 2010. Ad avviso del Tribunale di Napoli, infatti, sul piano probatorio, «per sostenere l’uso illegittimo dell’istituto» della contrattazione a termine, da un lato, spetta al ricorrente “indicare quali e quante supplenze annuali [nds: gli] sono state attribuite”, dall’altro, «non è sufficiente affermare che gli incarichi si sono ripetuti, ma è necessario dedurre e provare per quale motivo la nomina a tempo determinato è stata utilizzata abusivamente in luogo di quella a tempo indeterminato » (43). Infatti, «in assenza di qualsiasi dato concreto di valutazione, e quindi nell’impossibilità di verificare l’illegittimo utilizzo della supplenza an- (42) Cfr. Trib. di Siena, Sez. lav. (dr. Delio Cammarosano), sent. del 27 settembre 2010 (rgl 699/2009), pag. 4, punto 2, 2° cpv.. (43) Cfr. sent., pag. 7, penultimo cpv.. CONTENZIOSO NAZIONALE 169 nuale, anche le domande subordinate non possono essere accolte» (44). In particolare, il ricorrente dovrà fornire al giudice precisi dati fattuali indicativi del lamentato abuso: «Sul piano generale [nds: facendo] riferimento alle scelte programmatiche del Ministero convenuto in ordine al numero insufficiente di immissioni in ruolo rispetto alla quantità di posti prevedibilmente da coprire, mentre su quello particolare [nds: alla] ripetitività dell’incarico nello stesso Istituto per il medesimo numero di ore o per la stessa materia di insegnamento» (45). In senso conforme si pone anche il Trib. di Torre Annunziata, Sez. lav., (dr. Umberto Lauro), che, nella sent. n. 1846 del 23 marzo 2010, delimita esattamente l’onere probatorio gravante sui dipendenti ricorrenti: affinché possa valutarsi la sussistenza di un abuso della contrattazione a termine, i dipendenti/ ricorrenti hanno, sì, l’onere di «indicare quali e quante supplenze annuali sono state attribuite a ciascuno, ma … per sostenere l'uso illegittimo dell’istituto, non è sufficiente affermare che gli incarichi si sono ripetuti, occorrendo dedurre e provare per quale motivo la nomina a tempo determinato è stata utilizzata abusivamente in luogo di quella a tempo indeterminato» (46). Al fine dell’assolvimento dell’onere probatorio posto a carico di parte ricorrente, si precisa che «Sul piano generale», è «utile fare riferimento alle scelte programmatiche del Ministero convenuto in ordine al numero insufficiente di immissioni in ruolo rispetto alla quantità di posti prevedibilmente da coprire, mentre su quello particolare descrivere la ripetitività dell’incarico nello stesso istituto, per il medesimo numero di ore o per la stessa materia di insegnamento»; per cui, «In assenza di qualsiasi dato concreto di valutazione, e, quindi, nell’impossibilità di verificare l’illegittimo utilizzo da parte dell’amministrazione convenuta dell’istituto della supplenza annuale, al pari di quella principale, anche le domande subordinate devono essere rigettate» (47) . Non solo. Il Tribunale di Torre Annunziata ritiene anche che «L’accertamento del lamentato abuso risulta precluso dalla mancata allegazione, in ricorso, delle circostanze di fatto e di diritto che hanno caratterizzato la stipula dei singoli contratti di lavoro» (48) . Nel caso esaminato, infatti, precisa il Tribunale, «per ciascuno dei ricorrenti andavano, invero, riportati quanto meno il numero di contratti stipulati, la durata, la materia di insegnamento, l’istituto scolastico in cui avevano lavorato » (49) e «…ai fini di una tale verifica, non può in alcun modo farsi riferimento alla documentazione versata in atti con il deposito del ricorso, per (44) Cfr., sent., ult. pag. 1° cpv.. (45) Cfr. sent., da pag. 7, ultimo cpv., ad inizio pag. succ.. (46) Cfr. sent., pag. 7, 3° cpv.. (47) Cfr. sent., pag. 7, 4-5° cpv.. (48) Cfr. sent., pag. 6, 3° e 4° cpv.. (49) Cfr. sent., pag. 6, 3° e 4° cpv.. 170 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 l’evidente ragione che uno è il piano delle allegazioni, altro è il piano delle produzioni documentali, destinato a venire in rilievo in una fase processuale logicamente e cronologicamente distinta ed in funzione esclusivamente probatoria di quanto già oggetto di precedente allegazione» (50). Ciò premesso, il tribunale di Torre Annunziata, dunque, rigetta la domanda risarcitoria, dal momento che, «nell’atto introduttivo, si fa derivare il diritto al risarcimento dal fatto che i ricorrenti hanno lavorato per più anni, con assoluta continuità, in virtù di contratti a tempo determinato sistematicamente rinnovati; senza, tuttavia, allegare l’elenco di tali contratti, così precludendo ogni accertamento sulla legittimità o meno degli stessi» (51). Ove quindi, la pubblica difesa preveda che, in ragione delle prospettazioni di parte ricorrente, il giudice potrebbe essere indotto a compiere un giudizio in concreto sull’effettiva esistenza del carattere realmente precario della carenza di organico (che non si risolva, dunque, nella mera valutazione in astratto della conformità della legislazione nazionale sul reclutamento del personale scolastico a quella comunitaria), potrà fondatamente argomentare come il relativo onere probatorio gravi sulla parte ricorrente, per le ragioni sostenute nelle richiamate pronunce. Ciò premesso, anche ove si volesse sostenere, in senso contrario, che sulla parte pubblica gravi l’onere di provare la precarietà della carenza di organico (in virtú, ad es., del principio c.d. di vicinanza della prova), cionondimeno ancora una volta la giurisprudenza di merito precedente alla sentenza della S.C., nel silenzio di quest’ultima, varrebbe a corroborare le tesi difensive dell’Amministrazione resistente. È noto che dall’assoggettamento al diritto privato degli atti di gestione del rapporto di lavoro pubblico derivi, come suo naturale corollario, che agli atti della P.A. consistenti nella gestione del rapporto di lavoro sia inapplicabile la legge 7 agosto 1990/n.241, vale a dire i principi che regolano l’azione amministrativa, compreso quello di motivazione dell’atto. Ciò non toglie, tuttavia, che ove si contesti la legittimità dell’atto di gestione, il giudice, lungi dal poter stigmatizzare la mancanza di motivazione, sarà chiamato ad accertare, in ossequio al canone di buona fede cui deve essere sempre improntata anche l’azione amministrativa, se essa sia stata in concreto rispondente a ragionevolezza e conforme alle norme di legge. In tal caso, la P.A. può essere chiamata ad esporre in sede contenziosa i motivi che, pur supportanti validamente l’atto, non vi erano stati esplicitati, non essendovene l’obbligo. Ebbene, anche laddove, seguendo tale argomentazione, si ritenesse gravante sulla P.A. l’onere di provare che la conclusione di uno o più contratti con un dato ricorrente abbia risposto all’esigenza di sopperire ad una carenza (50) Cfr. sent., pag. 6, 5° cpv.. (51) Cfr. sent., pag. 6, 6° cpv.. CONTENZIOSO NAZIONALE 171 provvisoria di organico, l’assolvimento di tale onere potrà avvenire anche in via presuntiva. In tal senso si pone la sentenza n. 207 del 3 maggio 2012 del Trib. di Teramo, Sez. lav. e previdenza (dr. Luigi Santini): «…in un’organizzazione tanto complessa, come quella scolastica, è verosimile il fatto che, ad ogni anno scolastico, si verifichino innumerevoli eventi che rendano temporaneamente scoperti molti posti dell’organico» e, di conseguenza, «è ragionevole ritenere che essi siano eventi forse prevedibili nel numero complessivo, sulla base di un’indagine compiuta su campioni statisticamente attendibili relativi alle annualità precedenti, ma non sotto altri profili (la sede, la data, la ragione specifica)», per cui «parlare, in astratto, di abusivo ricorso al contratto a tempo determinato per il sol fatto della reiterazione delle supplenze, senza ulteriori allegazioni concrete, non è sufficiente» (52). In altre parole, le stesse ragioni che, ad avviso della S.C., giustificano la conformità della legge nazionale alle norme comunitarie possono valere, secondo la citata sentenza di merito, a provare, in via presuntiva, l’inesistenza in concreto di un abuso della condotta datoriale. Si tratterebbe di una presunzione superabile dalla prova contraria di parte resistente. Come si è detto, si sta ipotizzando un iter argomentativo certamente sfavorevole alla pubblica difesa e che, come pure si è ricordato, si è già manifestato in pronunce di merito sfavorevoli alla P.A. e successive alla sentenza della S.C. in commento: secondo queste pronunce il giudizio sull’abuso dello Stato-Legislatore non preclude quello sull’abuso dello Stato-Amministratore. Ebbene, l’esito del primo giudizio può oggi piú che mai ritenersi favorevole allo Stato, avendo la S.C. offerto molte e valide argomentazioni a sostegno della conformità del regime italiano di reclutamento del personale scolastico alle norme comunitarie. Anche dopo il favorevole orientamento espresso dalla S.C., difficoltà per la pubblica difesa potrebbero esservi, invece, ancora, ogni qual volta un giudice di merito intendesse porre ad oggetto di un autonoma e distinta indagine l’altra conformità, vale a dire quella della condotta datoriale del MIUR (ricorso alla contrattazione a termine) ai precisi presupposti indicati dalla legislazione nazionale. Difficoltà, poi, destinate ad acuirsi ove si ponesse a carico della P.A. la prova della provvisorietà, nel singolo caso controverso, della carenza di organico coperta con contratti a termine. In realtà, come si è detto, si tratta di difficoltà tutt’altro che insuperabili, potendosi ben ammettere la P.A. (come nelle pronunce richiamate) a ricorrere alla prova per presunzioni. Inoltre, non potrebbe sostenersi, al fine di delegit- (52) Cfr. sent., pag. 24, 1° e 2° cpv. 172 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 timarne il ricorso, che la prova presuntiva risolverebbe il giudizio sulla conformità della condotta del MIUR alle norme nazionali/comunitariamente conformi in una mera duplicazione mascherata del giudizio astratto sulla conformità della legge nazionale alle norme comunitarie. Un tale pericolo sarebbe escluso in radice dal carattere non assoluto della presunzione, essendo la stessa superabile mediante prova contraria a carico del personale ricorrente. In sintesi, nella stragrande maggioranza dei casi si giungerebbe ugualmente ad un rigetto delle istanze del personale precario, perfino ove si pretendesse un rigoroso giudizio in concreto sulla sussistenza del lamentato abuso datoriale ed anche ove si ponesse a carico della PA l’onere della prova della provvisorietà della carenza di organico coperta mediante ricorso alla contrattazione a termine. 5.2. Anche nel caso del personale scolatico la prova dell’abusivo ricorso alla contrattazione a termine deve tradursi nella rigorosa prova della sussistenza degli elementi stutturali oggettivi e soggettivi del fatto illecito fonte della denunciata responsabilità. Ove, poi, non si consentisse alla P.A. di assolvere l’onere probatorio in via presuntiva, diverrebbe indispensabile, piú di quanto non sia già, l’attività informativa che i singoli competenti Uffici Scolastici Provinciali del MIUR svolgono in relazione ai contratti oggetto delle varie controversie. Solo un’esatta ricostruzione del caso concreto nel quale si inseriscono i singoli contratti controversi stipulati da un dato dipendente/ricorrente può, infatti, consentire alla pubblica difesa di fornire in giudizio la prova della insussistenza di tutti gli elementi oggettivi e soggettivi costitutivi della supposta attività illecita ed abusiva in questione. È stato già prima richiamato il condivisibile orientamento della giurisprudenza di merito secondo cui non può imputarsi al MIUR alcuna condotta di abuso della contrattazione a tempo determinato senza che ne sia fornita una prova sul piano oggettivo. Infatti, il ricorso della P.A. alla contrattazione a tempo determinato per scopo diverso dall’esigenza di sopperire a carenze transitorie di personale costituirebbe un fatto illecito, che, sia esso contrattuale o aquiliano, spetterebbe provare a chi lamenta di averne subito un pregiudizio. Ebbene, spesso il personale scolastico ricorrente dà per provata l’illiceità della condotta datoriale del MIUR sulla base della conclusione di piú contratti a termine, anno dopo anno, da parte di uno stesso ricorrente, o, peggio, in virtú del semplice dato statistico del numero complessivo di tal genere di contratti conclusi in tutto il territorio nazionale per il reclutamento del personale docente ed ATA. Di conseguenza, al fine della prova degli elementi strutturali oggettivi della fattispecie abusiva, i ricorrenti allegano fatti che, lungi dal provarne la sussistenza, semmai, ne escludono la configurabilità in modo evidente: dagli attestati di servizio e dai contratti individuali di lavoro a tempo CONTENZIOSO NAZIONALE 173 determinato allegati agli atti introduttivi del giudizio risulta spesso che detti contratti sono stati conclusi dai ricorrenti con vari, diversi, Istituti scolastici. Il che rafforza la tesi della pubblica difesa: se il MIUR ha concluso i suddetti contratti nei singoli casi di specie lo ho fatto per soddisfare esigenze manifestatesi, transitoriamente, nei diversi Istituti Scolastici presso i quali è stata espletata l’attività di supplenza da parte del singolo ricorrente. Per escludere o ritenere sussistente una responsabilità datoriale del MIUR sono necessari elementi fattuali peculiari del caso di specie, indicativi del fatto che gli specifici Istituti scolastici presso i quali il ricorrente abbia prestato la propria attività lavorativa presentassero carenze stabili di organico e che a dette carenze si sia dolosamente o colposamente sopperito ricorrendo alle docenze di supplenti, abusando, dunque, della contrattazione a tempo determinato. La mancata allegazione da parte del dipendente/ricorrente dei fatti che avrebbero provato la sussistenza degli elementi oggettivi della lamentata condotta illecita del MIUR, consequenzialmente, rende superflua ogni necessità di valutazione dell’eventuale dolosità o colposità della stessa (53). È la stessa sent. n. 10127/2012 della Corte di Cass. a rigettare la domanda risarcitoria, considerando che «la sua infondatezza è corollario della mancanza di un abuso del diritto nel succedersi di detti contratti» (54). Si è, tuttavia, prima anticipato che si sono già registrate pronunce che hanno contraddetto l’orientamento espresso dalla S.C. e che hanno condannato le Amministrazioni resistenti al risarcimento danni richiesto dai ricorrenti. Tuttavia, tali pronunce sono fortemente criticabili, in quanto esse dichiarano la responsabilità delle Amministrazioni resistenti senza che le condotte ed i danni lamentati siano stati provati in concreto: in relazione a tali sentenze può, infatti, ritenersi che sia stata enucleata accanto alla già nota figura (peraltro superata) del danno in re ipsa, quella della condotta illecita … pure in re ipsa. È questo il caso della recentissima sentenza di Trapani n. 89/2013 del 15 febbraio 2013 che • distinguendo «nell’ambito del settore scolastico … fra la posizione del docente assunto come supplente per coprire posti non vacanti, ma di fatto disponibili, da quella del docente assunto per coprire posti vacanti e disponibili» • ha ritenuto che mentre «nel primo caso, effettivamente, si può ritenere (53) Infatti, nella sentenza del 16 ottobre 2007, n. 21619, la Corte di Cassazione, ricostruendo nelle sue linee generali il plesso delle norme regolanti il nesso di causalità nella responsabilità civile, ha espresso un orientamento, successivamente cristallizzatosi nel diritto vivente, secondo cui “nell’individuazione di tale relazione primaria tra condotta ed evento si prescinde in prima istanza da ogni valutazione di prevedibilità, tanto soggettiva quanto “oggettivata”, da parte dell’autore del fatto, essendo il concetto di prevedibilità/previsione insito nella fattispecie della colpa (elemento qualificativo del momento soggettivo dell’illecito, momento di analisi collocato in un ideale posterius rispetto alla ricostruzione della fattispecie)”. (54) Cfr. par. 70. 174 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 che la situazione di fatto sia di per sé espressiva della temporaneità dell’esigenza datoriale e, quindi, si può affermare che la reiterazione di rapporti a termine (senza indicazione di alcuna giustificazione) sia legittima, come implicitamente affermato dalla sent. Kucuk», tale reiterazione sarebbe, invece, illegittima «nel caso di supplenze volte a coprire posti vacanti e disponibili» (55). Cosí argomenta il Tribunale la diversità tra le due ipotesi della copertura di posto disponibile “vacante” e della copertura di posto disponibile “non vacante” «[…] le peculiarità del settore scolastico sono state ben evidenziate dalla Corte d’appello di Perugia, nella sent. n. 143/2011», secondo cui si devono distinguere le supplenze annuali su “organico di diritto” da quelle su “organico di fatto” (56). Ad avviso di tale sentenza della Corte di Appello di Perugia • per supplenze annuali su “organico di diritto” si intendono quelle riguardanti posti “disponibili e vacanti, con scadenza al termine dell’anno scolastico (31 agosto)”: «I posti in questione sono quelli che risultano effettivamente vacanti entro la data del 31 dicembre e che rimarranno prevedibilmente scoperti per l’intero anno. Per essi, in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali, si procede al conferimento di supplenze annuali, con la stipulazione di contratti a termine in scadenza al 31 agosto [...] Si tratta, di regola, di posti in sedi disagiate o comunque di scarso gradimento, per i quali non vi sono domande di assegnazione da parte del personale di ruolo. La scopertura di questi posti non è prevedibile, e si manifesta solo dopo l’esaurimento delle procedure di trasferimento, assegnazione provvisoria, utilizzazione di personale soprannumerario e immissione in ruolo; solo allora verificato che sono rimasti privi di titolare, quei posti possono essere coperti - in attesa dell'espletamento delle procedure concorsuali per l'assunzione di personale di ruolo - mediante l'assegnazione delle supplenze su organico di diritto, dette anche annuali»; • al contrario, si intendono per «supplenze annuali, cosiddette su "organico di fatto"», quelle «con scadenza al 30 giugno, cioè, al termine dell’attività didattica. I posti con esse coperti non sono tecnicamente vacanti, ma si rendono di fatto disponibili. Ciò può avvenire, ad esempio, per un aumento imprevisto della popolazione scolastica nel singolo istituto, la cui pianta organica resti tuttavia immutata, oppure per l’aumento del numero di classi, dovuto a motivi contingenti, ad esempio di carattere logistico». Ciò premesso, il Tribunale di Trapani, richiamato questo distinguo della Corte di Appello di Perugia tra supplenze su posti vacanti “non disponibili” e su posti vacanti “disponibili”, conclude che: «Se il posto è vacante significa che l’Amministrazione è tenuta a coprirlo, ossia, ad assumere personale “ido- (55) Cfr. sent., pag. 9, 4,5,6 cpv.. (56) Cfr. sent., pag., ult. cpv.. CONTENZIOSO NAZIONALE 175 neo” attinto dalle graduatorie (i c.d. idonei non vincitori). In questo caso, pertanto, non si può affermare che la situazione concreta esprima una temporaneità del fabbisogno, al contrario, è chiaro che l’assunzione dovrebbe essere effettuata a tempo indeterminato e, se l’Amministrazione intende procedere ad assumere un docente a termine (specie se lo fa reiterando un rapporto già instaurato anch’esso a termine), ha l’onere di indicare quali siano le ragioni obiettive» (57). Ebbene, non si vede per quale ragione l’ipotesi delle supplenze annuali su organico di diritto debba considerarsi, per cosí dire, in re ipsa, indicativa di un abuso nel ricorso alla contrattazione a termine. Innanzi tutto, può contestarsi in assoluto la Corte d’Appello di Perugia, quando sostiene che, alla stregua del dato normativo (art. 4 legge 124/1999), si debba considerare - sempre - come supplenza “su organico di fatto” quella volta a coprire una carenza di organico dovuta ad “un aumento imprevisto della popolazione scolastica nel singolo istituto”. Basti a contestarla un semplice esempio. Ipotizziamo che in un liceo scientifico, nell’anno 0 vi sono tre sezioni (articolate ciascuna in cinque classi, di circa trenta studenti l’una) e che l’anno seguente, l’anno 1, vi siano anziché le consuete nuove 90 immatricolazioni, ben 120 immatricolazioni. In tal caso, a fronte di 3 sezioni (A, B, C), articolate ciascuna in 5 classi, vi sarà una nuova sezione (la D) composta solo da una classe di primo liceo. Ebbene, nell’anno 1, in cui si verificano le immatricolazioni in piú rispetto a quelle consuete fino all’anno 0, è evidente che i trenta alunni in piú determinino un incremento di organico solo in via di fatto. Solo a partire dall’anno 2, i trenta alunni immatricolatisi nell’anno 1, avranno provocato un aumento dell’“organico di diritto”, definito dalla sent. n. 10127/2012 della S.C. quale quello “costituito dall’insieme del corpo docente e/o del personale ATA che il Ministero assegna ad un determinato Istituto scolastico in base alla popolazione scolastica che istituzionalmente dovrebbe essere iscritta presso quell’istituto” (58): se, infatti, nell’anno 1, si è formata una nuova sezione, la D, essa fisiologicamente, permarrà nei successivi anni 2, 3, 4 e 5, vale a dire fino al completamento dell’ultimo anno di liceo degli studenti che ne fanno parte, ove questi ultimi non vengano bocciati o non si trasferiscano presso altro Istituto. Dunque, ci troviamo proprio nell’ipotesi contemplata dall’art. 4 cit. quale supplenza su posti disponibili e vacanti: non vi è infatti dubbio che le classi 2aD dell’anno 2, 3aD dell’anno 3, 4aD dell’anno 4 e 5aD dell’anno 5 sono classi per le quali non esiste un insegnante di ruolo (posto vacante), né potrà esistere (re- (57) Cfr. sent., pag. 9, ult. cpv.. (58) Cfr. sent., par. 50. 176 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 stando dunque disponibili le cattedre), fintantoché non si possa dire prevedibile che quell’incremento di immatricolazioni avvenuto al primo liceo nell’anno 1 e che ha consentito in tale anno la creazione di una quarta nuova sezione, si ripeta anche negli anni seguenti, ripopolando la quarta sezione negli anni 2, 3 etc.. Si ipotizzi, infatti, che nell’anno 2, le immatricolazioni ritornino ad essere fisiologicamente 90 o comunque non crescano in modo tale da imporre la formazione di una quarta sezione. In tal caso la quarta sezione tenderà fisiologicamente ad esaurirsi mano a mano che gli studenti immatricolativisi nell’anno 1 giungeranno al 5° anno. Ove il MIUR, e per esso, il locale Ufficio Scolastico Provinciale, procedesse ad assumere a tempo indeterminato i docenti occorrenti all’espletamento delle funzioni didattiche relative ai 5 anni di liceo degli studenti inseriti nell’anno 1 nella Sezione D, e nell’anno 2 le immatricolazioni tornassero nuovamente a contrarsi consentendo la formazione di sole tre sezioni, tutti quei docenti rimarrebbero nell’anno 6 senza cattedra, e si sarebbe determinato un esubero di personale docente, con correlativo aggravio economico per la P.A.. L’ipotesi, come si vede, non è diversa da quella in cui una cattedra si renda disponibile per effetto di una indisponibilità temporanea di chi la occupa a tempo indeterminato a svolgere regolarmente la propria attività di docenza (posto disponibile non vacante): si pensi ad un docente, che, avendo vinto un dottorato triennale, chieda di essere sospeso per la durata del corso di dottorato dall’attività di docenza, con diritto alla conservazione del posto. In entrambi i casi, la carenza di organico è provvisoria, in entrambi i casi non può che essere colmata con supplenze, in pieno ossequio al principio espresso dalla sentenza Kücük. Eppure, apoditticamente, la sentenza del Tribunale di Trapani, solo perché una cattedra non è coperta da un dipendente a tempo indeterminato, da tale “vacanza” fa discendere presuntivamente, sic et simpliciter, che il MIUR abbia fatto ricorso abusivamente alle supplenze ed impone allo stesso di fornire la prova contraria, vale a dire quella della temporaneità della carenza di organico: in sostanza, il Tribunale afferma, quanto alla condotta del MIUR, un’illegittimità che altro non è, se non in re ipsa. La presunzione, infatti, si fonda su una premessa illogica (posto vacante = carenza stabile di organico) e, dunque, mal cela un pregiudizio apodittico di illegittimità della condotta dell’Amministrazione resistente. A ben vedere, questa sentenza s’inserisce in un panorama abbastanza ampio di pronunce che, prima dell’arresto della S.C. del 2012, condannavano, nel contenzioso in commento, le Amministrazioni resistenti affermando l’esistenza di una condotta datoriale illegittima o di danni senza verificare se ve ne fossero prove concrete: condotta e danno lamentati erano dati per sussistenti in re ipsa. Talora, la pregiudiziale convinzione dell’esistenza dell’una o dell’altro è stata palesata expressis verbis. CONTENZIOSO NAZIONALE 177 Si è cosí giunti perfino a «interpretare la statuizione di cui al comma 5 dell’art. 36 [nds: del d.lgs.165/2001] come una forma di risarcimento in re ipsa ed equitativa, non comune e di carattere eccezionale nel nostro ordinamento per il quale normalmente vige la regola generale per cui sono in capo a chi voglia chiedere un risarcimento gli obblighi di deduzione e di prova dei danni concretamente riportati», e si è sostenuto che, nel caso dei precari della scuola, «il lavoratore sia esentato dall’onere di allegare e provare quale sia il “danno concreto” che abbia subito, potendosi questo identificare comunque nella perdita del posto di lavoro» (59). Tuttavia, tali arresti possono dirsi adeguatamente confutabili alla stregua non solo della recente favorevole sentenza della S.C. (che ha disconosciuto molti dei presupposti sui quali essi erano fondati), ma anche da altri orientamenti espliciti di segno opposto e stratificatisi nella giurisprudenza di merito nel corso degli anni. Ad avviso, ad esempio, del Trib. di Teramo, Sez. lav. e previdenza (dr. Luigi Santini), sent. n. 207 del 3 maggio 2012, nessun diritto al risarcimento può essere riconosciuto al ricorrente se «nessun danno è stato concretamente dedotto ed allegato (prima ancora che provato) dalla parte ricorrente, quale conseguenza della successione contrattuale oggetto di censura»: ciò poiché «il danno risarcibile non compensa in re ipsa la precarizzazione di un rapporto, ma è necessario che il/la ricorrente alleghi e fornisca la prova dei danni derivati dalla prestazione resa in virtù di un contratto con termine illegittimamente apposto. I danni risarcibili non sono infatti automatici, ma eventuali, e vanno in concreto allegati e provati mediante i vari mezzi di prova messi a disposizione dell’ordinamento. Il meccanismo riparatorio previsto dall’art. 36 non può dunque essere disconnesso dalla sua funzione tipica di rimediare a specifici, concreti pregiudizi, allegati e provati» (60). In senso conforme, si pone anche la sent. del 19 marzo 2012 (rg:2010/10) del Trib. di Genova, Sez. Lav. (dott.sa Maria Ida Scotto), secondo cui, ritenutosi che nel caso del personale scolastico precario non sussistono né i presupposti per l’insorgere del diritto al risarcimento dal danno da mancata o inesatta trasposizione di una direttiva, né alcun danno risarcibile, si è negata la configurabilità di un danno c.d. “da perdita di chance”: non esiste, si afferma dal (59) Cosí il Trib. di Ariano Irpino, Sez. lav., dr. Mariella Ianniciello, sent. n. 379 del 17 aprile 2012, pag. 13, rispett. 2° e 1° cpv.. La sentenza, inoltre, pone a carico del MIUR l’onere di provare le ragioni oggettive legittimanti il ricorso alla contrattazione a termine: «Si osservi, poi, ad abundantiam, come anche a voler prescindere da detto rilievo formale non sia controverso che sia onere della resistente dimostrare la corrispondenza alla legge di ciascuno di detti negozi ed è, così, possibile evidenziare come la convenuta nella propria memoria non abbia allegato alcun dato concreto per confermare come i singoli accordi pattizi corrispondessero alle esigenze di carattere temporaneo richiamate dalla normativa del settore scuola» (cfr., sent., da pag. 9, ult. cpv., fino ad inizio pag. 10). (60) Cfr. sent., pag. 20, 4, 5, 6° cpv.. In tal senso, si pone anche la sentenza gemella dello stesso Trib. di Teramo, Sez. lav. e previdenza, dr. Luigi Santini, la n. 213 del 3 maggio 2012, depositata il 9 maggio 2012 (cfr. sent., pag. 20, 2, 3, 4° cpv.). 178 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Tribunale, alcuna apprezzabile chance che una diversa attuazione della direttiva avrebbe arrecato un concreto vantaggio a chi lavora da anni per il MIUR con contratti di lavoro a tempo determinato (61). Quanto ai presupposti per l’insorgere del diritto al risarcimento del danno da mancata o inesatta trasposizione di una direttiva, il Trib. di Genova, Sez. Lav., ritiene che non sussista: • né il primo presupposto, vale a dire l’idoneità della norma giuridica violata a conferire a favore di singoli diritti il cui contenuto sia già determinato in modo incondizionato e sufficientemente preciso dalla direttiva stessa, in quanto la direttiva non ha individuato una protezione minima inderogabile che gli Stati membri siano tenuti ad assicurare, ai sensi della clausola 5, n. 1, dell’accordo quadro, né ha stabilito l’obbligo per gli Stati, in caso di accertati abusi, di adottare specifiche sanzioni (quale la conversione del rapporto in stabile o altre), • né il secondo presupposto, dato dalla violazione sufficientemente grave e manifesta della norma comunitaria (62). Quanto, poi, al danno, inoltre, il Trib. di Genova, Sez. Lav., precisa che non sussiste alcun danno “da perdita di chance”, in quanto • alcun concreto vantaggio sarebbe venuto ai lavoratori precari «ove il legislatore italiano avesse previsto una durata massima totale dei contratti di lavori a tempo determinato successivi oppure un numero massimo di rinnovi dei suddetti contratti, perché i ricorrenti avrebbero ottenuto in tal caso un numero inferiore di supplenze» (63) , • «Non sussistono neppure elementi che consentano di ritenere che, ove il legislatore italiano avesse deciso di coprire il maggior numero possibile di posti in organico tramite concorso, anziché fare ricorso, all’occorrenza, alle supplenze, parte attrice sarebbe risultata vincitrice degli eventuali concorsi e che comunque le chance dei ricorrenti di vincere gli eventuali concorsi sarebbero state maggiori delle loro attuali chance di essere immessi in ruolo a seguito del progressivo avanzamento nelle graduatorie (graduatorie che, lo si ricorda, ai sensi dell’art. 1 co. 605 legge n. 296/2006 sono state trasformate da graduatorie permanenti in graduatorie ad esaurimento, con evidente posizione di privilegio [...] degli [...] iscritti, rispetto alla generalità degli aspiranti all’assunzione nel settore scolastico)» (64). L’inconfigurabilità del danno lamentato dal lavoratore precario in termini di “danno da perdita di chance” è stata sostenuta in modo piú che convincente anche dal Trib. di Lecce, Sez. lav. (dott. Lorenzo H. Bellanova), nella sent. n. 10696/2012 del 5 novembre 2012: (61) Cfr. sent. da pag. 22 a pag. 25, penultimo cpv.. (62) Cfr. sent. da pag. 22 a pag. 25, penultimo cpv.. (63) Cfr. sent. pag. 25, 3° cpv.. (64) Cfr. sent. pag. 25, 4° cpv.. CONTENZIOSO NAZIONALE 179 Il tribunale di Lecce, infatti, ha ritenuto quanto segue. • «Occorre distinguere tra danno per mancata assunzione configurabile allorché una corretta procedura di avviamento avrebbe necessariamente determinato l’assunzione del soggetto leso e danno da perdita di chance di assunzione, ipotesi questa che sottintende la mera possibilità di un’assunzione all’esito di una regolare procedura selettiva» (65). • Il danno lamentato dal lavoratore precario in termini di “danno da perdita di chance” si configura come danno emergente e non come lucro cessante: «il concetto di chance va ad individuare una entità patrimoniale suscettibile di autonoma valutazione non solo giuridica ma anche economica, sicché la sua perdita si può tradurre in un danno attuale e risarcibile in misura non del lucro cessante, ma del danno emergente conseguente alla perdita di una possibilità attuale» (66). • «“L’accoglimento della domanda di risarcimento del danno […] da perdita di chance esige la prova, anche presuntiva, dell’esistenza di elementi oggettivi e certi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità non di mera potenzialità, l’esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile” (Cass. Civile, Sez. III, 11 maggio 2010, n.11353)» (67). • «La reiterazione dei contratti a tempo determinato per un verso evita una condizione di disoccupazione e per l’altro arricchisce il curriculum lavorativo del soggetto, assegnando punteggio utile da spendere in un eventuale concorso» (68). 6. Il superabile equivoco ingenerato dall’infelice obiter dictum sugli scatti biennali spettanti ai suppllenti per il peridodo lavorato. La sentenza n. 10127/2012, nella sua parte conclusiva, contiene un obiter dictum, suscettibile di ingenerare dei dubbi in merito alla riconoscibilità ai docenti precari non di ruolo dei c.d. scatti biennali: «disconoscendo ogni rilevanza giuridica ai periodi d’inattività lavorativa nel caso di succedersi delle supplenze, questa Corte di Cassazione - seppure in una fattispecie diversa ma con qualche analogia con quella in esame - ha affermato che la categoria del personale supplente si caratterizza per un rapporto di servizio che, fondato su incarichi attribuiti di volta in volta, si interrompe nell’intervallo da un in- (65) Cfr. sent., penultima pag., 2° cpv.. In senso letteralmente conforme si è posta anche la sentenza, sul punto, per così dire, “gemella”, del Trib. di Siena, Sez. lav. (dr. Delio Cammarosano), del 27 settembre 2010 (rgl 699/2009): cfr. penultima pag., 2° cpv.. (66) Cfr. sent., penultima pag., 1° cpv.. In senso conforme v. Trib. di Siena, Sez. lav. Sent. ult. cit., penultima pag., 1° cpv.. (67) Cfr. sent., penultima pag., 3° cpv.. In senso conforme v. Trib. di Siena, Sez. lav. Sent. ult. cit., penultima pag., 3° cpv.. (68) Cfr. sent., penultima pag., in senso conforme v. Trib. di Siena, Sez. lav. Sent. ult. cit., penultima pag., 6° cpv.. 180 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 carico ad un altro per cui non spettano, con riferimento al periodo non lavorato, gli scatti biennali (cfr. in tal senso Cass. aprile 2011 n. 8060, che invece ha riconosciuto detti scatti ai docenti di educazione musicale per avere visto costoro con apposita e specifica normativa novato il loro rapporto non di ruolo a tempo indeterminato sino alla successiva immissione in ruolo)» (69). L’affermazione così enucleata è suscettibile di due possibili interpretazioni. Seguendo una prima interpretazione ai docenti precari dovrebbero essere riconosciuti gli scatti biennali tranne che per il periodo c.d. non lavorato, vale a dire tranne che quanto all’intervallo temporale intercorrente tra un contratto e quello successivo. Ciò significherebbe che la sentenza in commento, lungi dall’essere una trionfale vittoria della pubblica difesa, si tradurrebbe in una vittoria di Pirro, dal momento che l’affermazione del divieto di conversione del rapporto in stabile, dell’insussistenza di un abuso nel ricorso alla contrattazione a termine sarebbe ampiamente compensata, ai danni dello Stato, dalla fondatezza implicitamente asserita delle istanze retributive dei precari. Tuttavia questa interpretazione deve ritenersi non corretta, ove solo si consideri che le fattispecie contemplate dalle due sentenze, la richiamante (n. 10127/2012) e la richiamata (n. 8060/2011), riguardano fattispecie «diverse» (sent. 2011: docenti di educazione musicale, vale a dire non di ruolo ed a tempo indeterminato; sent. 2012: docenti non di ruolo ed a tempo determinato), seppur «con qualche analogia», in quanto relative entrambe a docenti non di ruolo. Occorre quindi richiamare per intero il passaggio motivazionale della sent. del 2011 per comprendere, poi, meglio il senso delle affermazioni dalla stessa estrapolate e fatte proprie dalla sentenza del 2012: «La qualità che individua tale categoria [ndr: il docente di educazione musicale: docente non di ruolo, ma a tempo indeterminato] è evidentemente del tutto diversa da quella del docente supplente [ndr: pure “non di ruolo”, ma], il cui rapporto di servizio trova fondamento in incarichi attributi di volta in volta, e conseguentemente si interrompe nell’intervallo fra un incarico e l’altro [ndr: a tempo determinato]. Esattamente dunque la Corte di merito, richiamandosi a talune decisioni del giudice amministrativo, ha messo in rilievo che il mantenimento in servizio sulla base delle norme richiamate trasforma radicalmente il rapporto, novandolo. Il rapporto diventa peraltro, sulla base delle norme di riferimento, rapporto non di ruolo a tempo indeterminato e dà quindi diritto all’attribuzione degli aumenti biennali» (cfr. Cass., Sez. Lav., sent. 8060 dell’8 aprile 2011). In altre parole, la Corte di Cassazione, Sez. Lav., nella sent. n. 8060/2011, aveva chiarito che: 1) ai sensi dell’ art. 53, comma 3°, Legge n. 312/1980 (70), tra tutti i do- (69) Cfr. par. 71. CONTENZIOSO NAZIONALE 181 centi “non di ruolo”, gli unici ad avere diritto agli scatti biennali sono solo quelli c.d. «mantenuti in servizio», perché connotati da un rapporto lavorativo «a tempo indeterminato» (seppur «non di ruolo»), vale a dire da un rapporto che non si interrompe mai; 2) al contrario, i docenti non di ruolo quando sono anche a tempo determinato non hanno diritto agli scatti biennali, perché il loro rapporto lavorativo, essendo fondato sui singoli contratti, si interrompe tra un contratto e l’altro. Dopo aver attentamente esaminato il dictum della sent. n.8060/2011 ed averlo rettamente riferito al caso dalla stessa esaminato, possiamo meglio comprendere come la sent. del 2012, nel riferirsi alla sentenza n. 8060, non intendesse estendere la portata dei principi ivi espressi, limitandosi a richiamarli nella loro formulazione originaria. S’impone un’interpretazione del principio nel senso voluto dalla sentenza del 2011 che l’ha formulato: quando la sent. n. 10127/2012 ricorda che la sent. n. 8060/2011 «ha affermato … che non spettano, con riferimento al periodo non lavorato, gli scatti biennali» voleva aver riguardo tra i docenti non di ruolo • unicamente a quelli ammessi agli scatti biennali (vale a dire quelli a tempo indeterminato) • e non certo ai docenti esclusi dagli scatti biennali (vale a dire quelli a tempo determinato). Per questi ultimi, infatti, la sent. 8060/2011, come si è ampiamente dimostrato, mai «ha affermato» che avrebbero potuto fruire degli scatti, sostenendo piuttosto l’esatto contrario. Cosí ridimensionato l’obiter dictum della sentenza del 2012, mediante l’appena esposta lettura sistematica, rimane in ogni caso il fatto che non sia stata affrontata la questione della riconoscibilità ai precari del trattamento economico previsto per il personale di ruolo. In particolare, quanto agli scatti biennali la S.C. avrebbe potuto incisivamente escluderli usando, in particolare, le argomentazioni analiticamente sviluppate dalla sentenza n. 138/2012 della Corte d’Appello di Perugia, Sez. Lavoro, a sostegno dell’infondatezza delle domande di riconoscimento della progressione stipendiale derivante dai cd. scatti biennali di cui all’art. 53, comma 3°, legge n. 312/1980. Secondo quanto chiarito dalla Corte di Appello di Perugia, non può esistere alcuna discriminazione tra personale a tempo indeterminato e personale precario quanto alla corresponsione degli scatti biennali, dal momento che i CCNL succedutisi dal 1995 in poi, nel fissare il sistema di progressione per (70) Art. 53, comma 3°: «Al personale di cui al presente articolo, con nomina da parte del Provveditore agli studi od altro organo in base a disposizioni speciali, ESCLUSE IN OGNI CASO LE SUPPLENZE, sono attribuiti aumenti periodici per ogni biennio di servizio prestato a partire dal 1 giugno 1977 in ragione del 2,50 per cento calcolati sulla base dello stipendio iniziale». 182 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 scaglioni, non hanno più previsto il precedente sistema degli scatti, e dunque non esiste, oggi, alcuna categoria di personale a tempo indeterminato cui essi siano corrisposti: «Se, dunque, non esiste alcuna categoria di personale a tempo indeterminato, cui siano corrisposti gli scatti di anzianità, non può esistere, evidentemente, alcuna discriminazione a danno del personale assunto a tempo determinato» (71). «Non corrisponde al vero, quindi, che al personale della scuola con contratto a tempo determinato, come le odierne appellate, sia riconosciuto un trattamento economico deteriore e discriminatorio rispetto a quello riservato al personale di ruolo, per la mancata attribuzione degli scatti biennali di cui all’art. 53 della legge n. 312/1980. In realtà ... la progressione economica del 2.5 % per biennio non si applica al personale a tempo indeterminato, ma solo a una particolare e specifica categoria di personale, anch’esso a tempo determinato: gli insegnanti di religione non di ruolo» (72). Per giungere alla negazione di ogni discriminazione quanto agli scatti biennali tra il personale di ruolo a tempo indeterminato ed il personale non di ruolo a tempo determinato, la Corte di Appello di Perugia ha ricostruito l’evoluzione • della disciplina giuridica delle classi stipendiali del personale scolastico • delle ripartizioni normative delle categorie del personale scolastico docente (dall’originaria tripartizione alla sua odierna bipartizione). All’epoca della legge n. 312/1980 (il cui art. 53 regola il trattamento economico del «personale non di ruolo») il personale scolastico, infatti, era ripartito in tre categorie di lavoratori: • a tempo indeterminato di ruolo • a tempo indeterminato non di ruolo • a tempo determinato non di ruolo. La legge n. 312/1980 aveva innovato il rapporto di lavoro alle dipendenze delle P.A. (all’epoca non ancora contrattualizzato, bensì disciplinato dalla normativa di diritto pubblico), passando dal sistema delle “carriere formali” al sistema delle “qualifiche funzionali”. Più precisamente, il legislatore intendeva svincolare i miglioramenti retributivi dalle progressioni di carriera, consentendo il conseguimento di miglioramenti economici anche ove restasse fermo l’inquadramento nella qualifica professionale. Al fine di completare la riforma del passaggio dal sistema delle c.d. “carriere formali”, il legislatore italiano, con la legge n. 270/1982 (“revisione della disciplina del reclutamento del personale docente della scuola materna, ele- (71) Cfr. Corte d’Appello di Perugia, Sez. Lavoro, sent. n. 138 del 4 aprile 2012, depositata il 12 luglio 2012, pag. 10, 3° cpv.. (72) Cfr. ult. sent. cit, pag. 14, 3° cpv.. CONTENZIOSO NAZIONALE 183 mentare, secondaria e artistica”), ha classificato il personale scolastico in due sole categorie (sistema bipartito): 1. “di ruolo” a tempo indeterminato (art. 14), 2. “non di ruolo” a tempo determinato (art. 15) abrogando (art. 77) la terza categoria intermedia (docenti non di ruolo a tempo indeterminato). Quindi, a partire da tale legge i rapporti non di ruolo a tempo determinato (identificati con il termine «supplenze») costituiranno l’unica tipologia possibile di rapporto di impiego non di ruolo con l’amministrazione scolastica. Come evidenziato dalla sent. 138/2012 della Corte di Appello di Perugia: «L’identificazione tra “supplenza” e “rapporto di impiego non di ruolo e a tempo determinato” (prevista ex lege n. 270/1982) è stata confermata dalla legge n. 124/1999 (attualmente vigente)» (73) . «Oltre a questi tre tipi di docenti [la corte si riferisce ai docenti di religione, di ed. fisica, di ed. musicale], nessun’altra eccezione è stata piú individuata dal legislatore alla rigida bipartizione del personale (a tempo indeterminato/di ruolo e a tempo determinato/non di ruolo). Tale bipartizione, infatti, è stata sempre rispettata e confermata, tanto dalla contrattazione collettiva, quanto dalla legge n. 124/1999» (74). Facendo un passo indietro alla legge n. 312/1980 (tenuto conto della ripartizione dei docenti in tre categorie esistente all’epoca) si distinguevano i seguenti casi: • i docenti a tempo indeterminato di ruolo, ai sensi dell’art. 50, comma 3°, si vedevano riconosciuta, per il periodo di permanenza in ciascuna classe di stipendio, compresa l’ultima, la corresponsione, per ogni biennio di servizio, di aumenti di stipendio (scatti biennali), pari al 2.50 per cento dello stipendio previsto per quella classe, • i docenti a tempo determinato non di ruolo, ai sensi dell’art. 53, comma 1°, si vedevano attribuire un trattamento economico determinato con riguardo allo stipendio iniziale del personale di ruolo di corrispondente qualifica e, ai sensi dell’art. 53, comma 3°, venivano esclusi dagli scatti biennali, • i docenti a tempo indeterminato non di ruolo, ai sensi dell’art. 53, comma 3°, godevano del diritto ad “aumenti periodici per ogni biennio di servizio... in ragione del 2,50 per cento calcolati sulla base dello stipendio iniziale” (c.d. scatti biennali). Come ricordato dalla sent. n. 138/2012 della Corte di Appello di Perugia, il sistema di progressione economica basato sugli scatti biennali previsto dalla legge n. 312/1980 • «venne ancora riaffermato, per il personale della scuola, dai contratti (73) Cfr. ult. sent. cit, pag. 11, 2°- 3° cpv.. (74) Cfr. ult. sent. cit, pag. 12, 1° cpv.. 184 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 di lavoro di diritto pubblico susseguitisi nel tempo (D.P.R. n. 345/1983, art. 2 n. 209/1987, art. 2, n. 399/1988, tabella A, etc), • ciò fino alla privatizzazione del rapporto di lavoro scolastico ed al primo CCNL del 1995 per il quadriennio 1994/1997, il cui art. 66,per il personale di ruolo, ha abbandonato il sistema degli scatti biennali e introdotto gli incrementi per “scaglioni”, in numero di sette, sulla base delle anzianità ivi indicate (0, 3, 9, 15, 21, 28 e 35 anni, cfr. Tabella B del CCNL), cui corrispondevano (e corrispondono) retribuzione annue diverse» (75). Al termine di tale ricostruzione storica della disciplina degli scatti biennali, la Corte di Appello di Perugia osserva che «I CCNL succedutisi dal 1995 in poi, nel fissare il sistema di progressione per scaglioni, non hanno più previsto il precedente sistema degli scatti, e dunque non esiste alcuna categoria di personale a tempo indeterminato cui essi siano corrisposti» (76). In virtú di quanto fin qui esposto, la Corte conclude delineando, come segue, l’odierno residuo margine di vigenza dell’art. 53 cit.: «l’art. 53 è norma attualmente in vigore […], tuttavia, è applicato • non già al personale della scuola con contratto a tempo indeterminato (il quale invece fruisce della progressione stipendiale per scaglioni prevista dal CCNL, e dal 1995 non ha più diritto agli scatti biennali), • bensì a una particolare categoria di personale a tempo indeterminato: gli insegnanti di religione cattolica non di ruolo, la cui assunzione a tempo indeterminato non può mai conseguire a una progressiva acquisizione di diritti, come per il personale scolastico, bensì è sempre subordinata all’indizione e al superamento di appositi concorsi, come previsto dall’art. 3 della legge 186/2003» (77). (75) Cfr. ult. sent. cit, pag. 9, penult. e ult. cpv.. (76) Cfr. ult. sent. cit, pag. 10, 2° cpv.. (77) Cfr. ult. sent. cit, pag. 14, 2° cpv. La Corte di Appello di Perugia, Sez. Lavoro, nella sent. n. 138/2012, descrive puntualmente il percorso normativo di progressivo restringimento della categoria dei docenti non di ruolo, ma a tempo indeterminato, contemplata dall’art. 53, comma 3°, l. 312/1980 come unica beneficiaria degli scatti biennali [come si è detto i supplenti (= Docenti non di ruolo/a tempo determinato) ne erano esclusi]. In particolare, il cit. comma 3° così dispone: «Al personale di cui al presente articolo, con nomina da parte del Provveditore agli studi od altro organo in base a disposizioni speciali, ESCLUSE IN OGNI CASO LE SUPPLENZE, sono attribuiti aumenti periodici per ogni biennio di servizio prestato a partire dal 1 giugno 1977 in ragione del 2,50 per cento calcolati sulla base dello stipendio iniziale”. Il comma 3° dell’art. 53, legge n. 312/1980, quindi, ha inteso riconoscere gli SCATTI BIENNALI • non a tutti i docenti non di ruolo, • ma solo ai docenti non di ruolo a tempo indeterminato. Rientravano in questa categoria (docenti non di ruolo stabili) tre sottocategorie di docenti: due introdotte dalla legge n. 270/1982 (docenti di educazione fisica e di educazione musicale) e una terza, prevista dal D.P.R. n. 751/1985. docenti di religione. «Le indicate tre categorie di soggetti erano le uniche titolari di un rapporto “stabile”, ancorché annualmente conferito, ma erano tali da non poter essere considerate di ruolo, perché ancora carenti dei CONTENZIOSO NAZIONALE 185 7. L’inconfigurabilità di una disparità di trattamento stipendiale tra personale precario e personale di ruolo quale corollario della legittimità del termine apposto al contratto: corollario enucleabile in ragione della inconfigurabilità di una tutela risarcitoria che riproduca per equivalente gli effetti di una mancata, perchè vietata, conversione del contratto in contratto a tempo indeterminato. La sentenza n. 10127/2012 nulla dice in merito alla sussistenza o meno di una disparità di trattamento tra personale precario e di ruolo quanto al diverso trattamento economico loro spettante in virtú della normativa nazionale. In verità, la pronuncia offre validi argomenti in senso contrario, poiché una volta che si ritenga legittimo il ricorso del MIUR alla contrattazione a termine per sopperire ad esigenze peculiari di quel particolare settore di impiego, ne discende come corollario la fondatezza del diverso trattamento economico riconosciuto al personale a termine rispetto a quello a tempo indeterminato. Infatti, parte piú avveduta della giurisprudenza di merito favorevole ai precari, ove, fermo il divieto di conversione, ne ha accolto le istanze risarcitorie, ha, sì, quantificato il danno da ristorare in rapporto alla mancata corresponsione delle differenze retributive che sarebbero spettate in caso di assunzione a tempo indeterminato, ma non ha liquidato dette differenze in toto: ciò in quanto corrispondere ai precari esattamente quanto avrebbero avuto diritto ad ottenere in caso di conversione del rapporto in stabile avrebbe significato operare una sostanziale conversione, con surrettizia violazione degli art. 97 ed 81 Cost.. requisiti per l’accesso (insegnanti di educazione fisica e di educazione musicale) o per la mancanza dei ruoli organici nella qualifica (insegnanti di religione)» (cfr. pag. 12, 2 ° cpv.). Con il tempo, delle tre categorie di docenti non di ruolo a tempo indeterminato è sopravvissuta solo quella dei docenti di religione non di ruolo: «per le prime due categorie di personale (insegnanti di musica e di educazione fisica) l’aspettativa alla nomina in ruolo era destinata a essere fisiologicamente soddisfatta con il primo concorso utile successivo» (cfr. pag. 13, 1 ° cpv.). Quanto agli insegnanti di religione (che rimanevano non di ruolo per mancanza dei ruoli organici nella qualifica), la particolarità del loro inquadramento consisteva nel fatto: di essere nominati dalle competenti autorità scolastiche se “in possesso di idoneità riconosciuta dall’ordinario diocesano e da esso non revocata” (punto 2.5 del D.P.R. n. 751/1985 - Intesa Stato/Santa Sede), e che tale idoneità all’insegnamento della religione cattolica ha effetto permanente salvo revoca da parte dell’Ordinamento diocesano (punto 2.6 bis). «Una volta assorbiti nei ruoli organici i docenti delle prime due categorie, rimaneva, quale tertium genus, solo la categoria degli insegnanti di religione, assunti sempre e solo con contratti a termine di durata corrispondente a ciascun anno scolastico, ma con diritto al rinnovo fino a quando non fosse stato revocato il gradimento dell’ordinario diocesano» (cfr. pag. 13, 2° cpv.). «Con la legge 18 luglio 2003, n. 186 sono stati creati i ruoli degli insegnanti di religione (art. 1, primo comma). Sono state stabilite le modalità di accesso a quei ruoli, speciali e diverse rispetto a quelle del restante personale della scuola, previo superamento di concorso per titoli ed esami. In seguito all’emanazione di questa normativa, anche all’interno della categoria degli insegnanti di religione sono state create le due categorie degli insegnanti di ruolo, con contratto a tempo indeterminato, e dei supplenti, con contratto a tempo determinato. I primi sono retribuiti allo stesso modo di tutto il resto del personale docente della scuola (art. 1, secondo comma), con applicazione del CCNL. I supplenti, invece, sono assoggettati a una disciplina particolare, poiché non rientrano nel sistema delle graduatorie permanenti (ad oggi “a esaurimento”), e sono ancora sottoposti alla revocabilità del gradimento dell’ordinario diocesano» (cfr. pag. 13, ult. cpv., fino a pag. 14). 186 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Si è già, al riguardo, evidenziato che il principio di non convertibilità «non si alimenta soltanto [...] della imprescindibilità della regola della assunzione mediante pubblico concorso» (art. 97 Cost), avendo come suo “scopo” quello di «scongiurare il rischio che attraverso la conversione di rapporti precari si possano incardinare rapporti a tempo indeterminato senza una programmazione del fabbisogno del personale e con il rischio di assumere un numero di persone maggiore di quanto possano consentire gli stanziamenti in bilancio» (78). A cosa varrebbe, vietare la conversione, per poi riconoscerne in fatto tutti gli effetti consequenziali? Di recente, la già criticata sentenza del Tribunale di Trapani n. 89/2013 ha deciso in tal senso, con esiti, come si vedrà a breve, paradossali, condannando le Amministrazioni resistenti ad un risarcimento danni che dissimula una (vietata) conversione del rapporto in stabile. Il Tribunale, infatti, ha ritenuto che, nel contenzioso in esame: • «Vanno risarcite le diminuzioni patrimoniali scaturite “immediatamente e direttamente” dalla condotta (art. 1223 cc.), purché siano “prevedibili” [art. 1225 c.c.] e non riconducibili a fatto colposo del danneggiato (art. 1227 cc.)» (79), • «tutto il decremento patrimoniale subito dal danneggiato va risarcito, sia che la deminutio assuma la forma di un danno emergente sia che si tratti di lucro cessante» (80), • il ricorrente avrebbe dovuto essere stato assunto a tempo indeterminato, «dal momento che il posto occupato era vacante e disponibile» (81). Da tali premesse ha fatto discendere che «Il danno risarcibile collegato alla condotta illecita delle Amministrazioni resistenti, prevedibile e non riconducibile ad alcuna colpa del soggetto danneggiato, in definitiva, consiste in un lucro cessante di importo pari alle retribuzioni future [!], per il periodo compreso fra la cessazione del rapporto per effetto del termine illegittimo e la cessazione che lo stesso avrebbe avuto col raggiungimento dell’età pensionabile da parte della ricorrente» (82). Il Tribunale, in sostanza, ha tramutato la condotta datoriale del MIUR, considerata illecita, in una fonte di ingiustificato arricchimento per il dipendente precario. Questi, da un lato, non ha diritto alla assunzione in ruolo (non avendo superato alcun pubblico concorso) e, tuttavia, viene ammesso a godere di tutti gli effetti di quello status; dall’altro, al contempo, è titolare, ove rimanga utilmente (78) Cfr. Trib. di Siena, Sez. lav. (dr. Delio Cammarosano), sent. del 27 settembre 2010 (rgl 699/2009), pag. 9, 5° cpv.. (79) Cfr. sent., pag. 14, 1° cpv.. (80) Cfr. sent., pag. 14, 3° cpv.. (81) Cfr. sent., pag. 14, 4° cpv.. (82) Cfr. sent., pag. 15, punto B5, ult. cpv.. CONTENZIOSO NAZIONALE 187 collocato in graduatoria, del diritto ad essere assunto a tempo determinato anno dopo anno, diritto che non spetta a tutti i laureati che, per ragioni di età, non abbiano potuto frequentare, data la loro chiusura, le c.d. SSIS, e, piú in generale non spetta a tutti coloro i quali non sono riusciti ad inserirsi nelle graduatorie provinciali prima che venissero chiuse e divenissero “ad esaurimento”. È dovere del giudice, nel momento in cui quantifica il danno, ipotizzare quale sarebbe stata la situazione in cui sarebbe versato il danneggiato ove non si fosse verificata la condotta illecita. Nel caso di specie, invece, il giudice ha, sì, ipotizzato quale sarebbe stata la migliore situazione del danneggiato, ma non qualora la condotta illegittima non si fosse verificata, bensì laddove si fosse applicata al posto dell’unica sanzione ammessa dalla legge (risarcimento) un’altra sanzione (la conversione), peraltro contraria a Costituzione e non pretesa dalle norme comunitarie! (83) Se la conversione non è sanzione comunitariamente imposta, richiedendosi piuttosto dalla CGUE solo che la sanzione, quale che sia, si presenti come efficace e dissuasiva, prevedere un risarcimento danno che conduca ad un’equiparazione totale, sul piano economico, tra il dipendente precario ed il dipendente di ruolo significa applicare una sanzione abnorme, in quanto contraria, nel senso predetto, alla Costituzione come al diritto comunitario in materia. La stessa sentenza del Trib. di Siena, Sez. lav., dr. Delio Cammarosano, poc’anzi citata, pur sfavorevole alla parte pubblica, sostiene che «Se l’ordinamento non contempla la trasformazione del rapporto a termine abusivamente utilizzato, invalido, la tutela risarcitoria stessa ragionevolmente non potrà ricalcare sia pure per equivalente la trasformazione vietata (comprendendo, in altre parole, le retribuzioni maturate dalla cessazione del rapporto fino alla domanda, o alla decisione, o alla ricostituzione del rapporto ad opera dell’Amministrazione)» (84). (83) Piú ragionevole appare, allora, il criterio quantificativo del danno risarcibile indicato, ove si ravvisi in un caso concreto un abuso dei contratti a termine, dal Trib. di Teramo, Sez. lav. e previdenza, dr. Luigi Santini, nella cit. sent. n. 207 del 3 maggio 2012, depositata il 4 maggio 2012: «in ordine alla quantificazione di tale danno … il meccanismo più appropriato parrebbe quello riprodotto nei commi quarto e quinto dell'art. 18 Legge 20 Maggio 1970 n. 300, che prevede comunque delle obbligazioni collegate ad eventi specifici (il recesso illegittimo e l'esercizio dell'opzione per un'indennità in vece della reintegrazione nel posto di lavoro), ma forfettizzare in modo da esplicare un'efficacia anche deterrente. Si tratta del resto dell’unico istituto attraverso il quale il legislatore ha inteso monetizzare il “valore del posto di lavoro” assistito dalla cosiddetta stabilità reale, qual è quello alle dipendenze della pubblica amministrazione. Per le ragioni esposte, dovrebbe ritenersi che - commisurando il risarcimento al valore minimo (cinque mensilità - art. 18 comma quarto) del danno provocato dall'intimazione del licenziamento invalido più la misura sostitutiva della reintegra (quindici mensilità - art. 18 comma quinto) - si ottenga l'unica misura, contemplata dal nostro ordinamento, “che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela del lavoratore” e che possa “essere applicata al fine di sanzionare debitamente tale abuso e cancellare le conseguenze della violazione del diritto comunitario” (Corte giust. 4 luglio 2006, C-212/04, Adeneler, par. 102)» (cfr. sent., pag. 22, 3° cpv.). (84) Cfr. Trib. di Siena, Sez. lav. (dr. Delio Cammarosano), sent. del 27 settembre 2010 (rgl 699/2009), pag. 11, ult. cpv., a pag. 12, inizio. 188 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Peraltro, la liquidazione quale risarcimento danni dell’importo equivalente a tutte le somme che si sarebbero ricevute ove assunti a tempo indeterminato non è ammissibile non solo con riguardo agli artt. 81 e 97 Cost., ma, anche ed in primis, in relazione all’art. 3 Cost.. Infatti, come rilevato dalla giurisprudenza di merito: «il piú favorevole trattamento stipendiale del personale scolastico a tempo indeterminato trova giustificazione proprio in talune indefettibili specificità di sistema … e dei conseguenti doveri professionali, nonostante l’apparente uniformità del contenuto delle prestazioni» (85). «Il peculiare sistema retributivo del personale assunto con contratto a tempo indeterminato […] presuppone che il lavoratore risulti immesso nel ruolo organico dell’Amministrazione scolastica, all’esito non solo di un’apposita procedura concorsuale ma anche del positivo superamento di un congruo periodo di prova, cui s’accompagnano ulteriori, specifici, doveri, quali - ad esempio - quelli del trasferimento ne casi di eccedenza del personale e della disponibilità in taluni periodi estivi per attività formative e altro; inoltre, l’Amministrazione scolastica ha il dovere di attenersi comunque all’ordine della graduatoria sulla base della quale il lavoratore a termine viene individuato, in applicazione di criteri predeterminati e automatici e in assenza di alcun margine di discrezionalità, mentre questi non è sottoposto ad alcuna prova né è tenuto a trasferirsi per eccedenza di personale o a rendersi disponibile nel periodo estivo, a differenza del docente o del collaboratore scolastico assunto a tempo indeterminato» (86). Conclusioni La sentenza ha, quindi, prestato ampia adesione all’orientamento giurisprudenziale favorevole al riconoscimento della conformità sia alla Costituzione che alle norme comunitarie della disciplina sul reclutamento del personale scolastico. Tuttavia, ove si tengano presenti tutte le pregresse numerosissime pronunce favorevoli al personale scolastico, nel leggere questa sentenza della Corte di Cass. si avrà più di un motivo per ritenere che essa non abbia risolto in modo chiaro e definitivo tutte le questioni poste dal contenzioso in esame. Se è vero, infatti, che sono numerosi i principi e le affermazioni favorevoli alla pubblica difesa, tuttavia, essi non sono stati tutti supportati da una motivazione idonea a contestare con l’efficacia desiderabile alcuni tra i più suggestivi argomenti pro precari posti a sostegno delle precedenti pronunce sfavorevoli delle corti di merito. (85) Cfr. Trib. di Campobasso, Sez. lav., dott.sa Laura Scarlatelli, sent. n. 698/2012 del 6 novembre 2012, pag. 21, 2° periodo. (86) Cfr. Trib. di Campobasso, Sez. lav., dott.sa Laura Scarlatelli, sent. n. 698/2012 del 6 novembre 2012, pag. 20, ult. periodo, fino a pag. 21. CONTENZIOSO NAZIONALE 189 Non solo. In cauda venenum. La sentenza, nella sua parte conclusiva lascia intendere che sussisterebbe un diritto dei precari a percepire gli scatti retributivi per i “periodi lavorati”, così gettando nuova benzina sul fuoco di un contenzioso che non accenna ad esaurirsi e favorendone un’evoluzione in senso sostanzialmente peggiorativo per la pubblica difesa. La sentenza, infatti, si è pronunciata davvero in modo chiaro e netto solo su un profilo del contenzioso in esame che, tuttavia, già prima di essa, non risultava particolarmente problematico o preoccupante per la pubblica difesa, vale a dire quello della convertibilità di un rapporto di lavoro presso la P.A. da precario in stabile. Infatti, già prima della sentenza solo un numero limitato delle pronunce di merito favorevoli alle istanze del personale precario ammetteva la stabilizzazione del rapporto quale sanzione per la lamentata reiterazione dei contratti a termine, mentre la gran parte delle altre pronunce favorevoli ai precari si dividevano in due macro gruppi: un primo, premesso l’abuso della contrattazione a termine, accoglieva le domande risarcitorie, un secondo, pur negando l’abuso, riteneva, tuttavia, che il precario sotto il profilo economico non dovesse subire una disparità di trattamento rispetto al personale stabile incaricato di mansioni oggettivamente identiche. Ebbene, l’incauto e fraintendibile obiter dictum, la quasi totale sottovalutazione del profilo più insidioso della lamentata condotta statuale (il supposto abuso dello Stato/P.A.), nonché la sottovalutazione altrettanto significativa del correlativo insopprimibile problema probatorio fanno sì che questa sentenza della S.C. non mancherà di deludere chi abbia creduto in essa sciolti tutti i nodi di questo complicato ed annoso contenzioso. In ogni caso, come si è in precedenza dimostrato, alle domande lasciate aperte dalla S.C. ha risposto la giurisprudenza di merito, con maggior senso di realismo: i criteri dalla stessa tracciati quanto alla soluzione del problema di riparto probatorio e le ragioni poste a fondamento della legittimità di una diversità di trattamento economico tra personale precario e stabile potranno essere adoperate dalla pubblica difesa per contrastare i possibili attacchi che, è prevedibile, saranno avanzati alla commentata sentenza della S.C., facendo leva sui relativi esposti punti deboli. Tuttavia, in questo contenzioso, valgono più che mai, con riferimento anche al ruolo dell’Avvocato e non solo a quello del giudice, le seguenti osservazioni del Trib. di Fermo, Sez. lav. (dott. Camillo Cozzolino) formulate nella sent. n. 154/2011 del 16 agosto 2011: «… ove si volesse accedere alla tesi dell’abuso… conseguenza inevitabile sarebbe la sopportazione di un sovradimensionamento delle risorse finanziarie da destinare al fine di adeguare le risorse di personale docente, amministrativo, tecnico ed ausiliario, alle mutevoli, ed anche contingenti, esigenze della funzione scolastica ed educativa mediante 190 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 continue immissioni in ruolo e continue assunzioni con concorso pubblico, con evidenti pesanti conseguenze, tra cui rileva in particolare, una sicura condizione di “eccedentarietà”, foriere di disfunzioni di non poco conto, sicché spetta, non al giudice, il quale, come si sa, non fa leggi, ma applica la legge (art. 101 Cost.), bensì al legislatore trovare, superati gli intuibili ostacoli contro cui si infrange ogni iniziativa che rispetti l’esigenza di una sana e responsabile attività di governo del paese, la soluzione più idonea che assimili il rapporto di lavoro alle dipendenze della scuola con la generalità dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle altre pubbliche amministrazioni» (87). Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza 20 giugno 2012 n. 10127 - Pres. Guido Vidiri, Rel. Giuseppe Napoletano, P.M. Costantino Fucci (difforme) - A.L. (avv. Massimo Pistilli) c. Min. Istruzione, Università e Ricerca (avv. gen. Stato). SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1. La Corte di Appello di Perugia, riformando la sentenza di primo grado, rigettava la domanda di A.L., proposta nei confronti del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, avente ad oggetto la conversione in contratto a tempo indeterminato della successione dei contratti a tempo determinato in precedenza stipulati con il detto Ministero per lo svolgimento di mansioni inerenti il settore scolastico ovvero, in via subordinata, la condanna del prefato Ministero al risarcimento del danno subito da quantificarsi in Euro 5000,00 per ogni anno di lavoro svolto. 2. La Corte del merito, per quello che interessa in questa sede, premesso che il complesso della normativa regolante i contratti a termine del comparto scolastico - costituita in particolare dal D.Lgs. n. 297 del 1994 e dalla L. n. 124 del 1999 e da tutte le successive fonti regolamentari e collettive - non era stato abrogato o modificato, stante la sua specialità, dal D.Lgs. n. 165 del 2001 (norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni) e dal D.Lgs. n. 368 del 2001 (disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato), riteneva che il divieto di conversione del contratto a tempo determinato stabilito - D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 36, comma 2, - in via generale per il pubblico impiego operava anche per lo specifico settore della scuola. Tale divieto, secondo la Corte territoriale, trovava giustificazione nella riserva sancita, dall'art. 97 Cost., comma 2, dell'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazione mediante concorso che non contrastava con la disciplina comunitaria contenuta nella direttiva del Consiglio dell'Unione Europea del 28 giugno 1999 n. 70 - emanata in attuazione dell'accordo quadro sui contratti a tempo determinato concluso il 18 marzo 1999 - non prevedendo tale accordo, quale unica sanzione dell'illegittima successione di contratti a termine, la conversione del rapporto a tempo indeterminato. 3. Tanto premesso la Corte di Appello rilevava che, stante la ritenuta inapplicabilità della disciplina di cui al citato D.Lgs. n. 368 del 2001, oggetto dell'indagine era quello di accertare se la Pubblica Amministrazione, nella stipulazione di una serie di contratti di lavoro, aveva (87) Cfr. sent. cit., pag. 11, ultimo periodo, fino a pag. 12. CONTENZIOSO NAZIONALE 191 dato luogo ad un abuso dello strumento delle assunzioni a termine con conseguente diritto del lavoratore, alla stregua della richiamata direttiva, al risarcimento del danno. 4. L'indagine, secondo la Corte territoriale, portava ad escludere un tale abuso. Infatti, osservava la predetta Corte, da un punto di vista generale era indubitabile che le assunzioni a tempo determinato nel settore scolastico, tenuto conto delle ragioni del contenimento della spesa pubblica, erano finalizzate ad assicurare, a fronte di una certa variabilità del numero degli utenti, la costante erogazione del servizio scolastico. Ma anche avuto riguardo alla disciplina del settore, per la Corte del merito, doveva escludersi un abuso del ricorso ai contratti a termine. Invero, precisava la Corte distrettuale, il ricorrente aveva avuto supplenze annuali su organico di fatto - ossia posti non vacanti ma di fatto disponibili -, seguite, con intervallo di due mesi, da supplenze temporanee in sostituzione di personale assente, cui erano succedute, infine, supplenze su organico di diritto - cioè posti disponibili e vacanti - espletate presso molteplici scuole. 5. Per inciso, annotava la Corte di appello, si trattava, comunque, di contratti stipulati ai sensi di specifica disciplina che conteneva in sè l'enunciazione, sia pure con una valutazione compiuta ex ante, delle ragioni organizzative poste a fondamento dell'assunzione. Pertanto, anche in ipotesi di applicabilità del D.Lgs. n. 368 del 2001 non poteva ritenersi l'illegittimità delle assunzioni per l'omessa indicazione delle ragioni organizzative, tecniche e produttive che erano destinate a soddisfare. 6. Nessun abuso, in particolare, secondo la Corte del merito, era configurabile rispetto alle assunzioni per la sostituzione di personale assente per malattia o altra causa, con diritto alla conservazione del posto di lavoro, e con riguardo alle supplenze su organico di fatto, giacchè le esigenze da soddisfare erano effettivamente contingenti ed imprevedibili e tali di per sè da far escludere una condotta abusiva. 7. Analogamente la Corte territoriale escludeva la configurabilità di qualsivoglia abuso con riferimento alle assunzioni per supplenze su organico di diritto e tanto in considerazione, e delle ragioni obiettive sottese a tali assunzioni, e della circostanza che ciascun incarico era svincolato dai precedenti, di cui non costituiva nè proroga nè prosecuzione, non senza tener conto che l'amministrazione non poteva scegliere liberamente il lavoratore con cui stipulare il contratto dovendosi attenere alle graduatorie permanenti provinciali per gli incarichi su organico di diritto, o, per le supplenze su organico di fatto o temporaneo, alle graduatorie interne o d'istituto. 8. Avverso questa sentenza A.L. ricorre in cassazione sulla base di due censure, specificate da memoria. 9. Resiste con controricorso il Ministero intimato che deposita, altresì, memoria illustrativa. MOTIVI DELLA DECISIONE 10. Con la prima censura il ricorrente deduce violazione e/o falsa applicazione del considerando n. 16, dell'art. 2, della Direttiva del Consiglio Ce 1999/70/CE del 28 giugno 1999; nonchè del preambolo (commi 2, 3 e 4, dei punti 6,7,10 delle considerazioni generali, della clausola 1, letta B), della clausola 2, punto 1), della clausola 5, punto 1), dell'Accordo Quadro CES-UNICE- CEEP sul lavoro a tempo determinato del 18 marzo 1999, recepito ed allegato alla Direttiva Comunitaria 1999/70/CE; ed, infine, del D.Lgs. n. 368 del 2001, artt. 1, 4,5 (commi 4 e 4 bis), 10, 11, anche in combinato disposto con la L. 4 giugno 1999 n. 124, art. 4. 11. Sostiene il ricorrente che la L. n. 124 del 1999 sui contratti a termine del comparto scuola è stata, contrariamente a quanto affermato dalla Corte di Appello, abrogata dal D.Lgs. n. 368 del 2001 sui contratti a termine essendo la prima disciplina incompatibile con la seconda e 192 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 non rientrando la L. n. 124 tra quelle menzionate nel D.Lgs. n. 368, art. 10. 12. Argomenta, poi, il ricorrente che, comunque, la menzionata L. n. 124 del 1999 non è conforme al diritto comunitario e tanto, tra l'altro, in considerazione del rilievo che l'Amministrazione è perfettamente a conoscenza delle proprie esigenze di organico, sicchè non vi sono ragioni obiettive per la giustificazione dei rinnovi dei contratti a termine, nè limitazioni alle ripetizioni atteso che i posti sono dichiaratamente vacanti. 13. Richiama, inoltre, il ricorrente le sentenze M. e V. relative ai contratti a termine del comparto sanità nonchè A.. 14. Sottolinea che nel comparto scuola sono possibili reiterazioni ventennali e addirittura trentennali. 15. Contesta, infine, il ricorrente la ritenuta imprevedibilità delle esigenze e chiede porsi questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia in punto di compatibilità tra la disciplina nazionale di cui alla L. n. 124 del 1999 e la Direttiva Comunitaria denunciata. 16. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 36, anche in relazione al considerando n. 16, dell'art. 2, della Direttiva del Consiglio Ce 1999/70/CE del 28 giugno 1999; nonchè del preambolo (commi 2, 3 e 4, dei punti 6,7,10 delle considerazioni generali, della clausola 1, letta B), della clausola 2, punto 1), della clausola 5, punto 1), dell'Accordo Quadro CES-UNICE- CEEP sul lavoro a tempo determinato del 18 marzo 1999, recepito ed allegato alla Direttiva Comunitaria 1999/70/CE; nonchè ancora del D.Lgs. n. 368 del 2001, artt. 1, 4, art. 5, commi 4 e 4 bis), artt. 10, 11. 17. Deduce, in sintesi, il ricorrente a supporto del motivo in esame - ed a confutazione della tesi espressa dalla Corte del merito circa l'inapplicabilità nel settore pubblico della conversione del contratto a tempo indeterminato in caso di abuso del ricorso ad assunzioni a termine - che questa Corte di cassazione con sentenza n. 9555 del 2010 ha applicato - nel caso di dipendenti INAIL addetti alla custodia di stabili - la sanzione della conversione. 18. I due motivi, in quanto strettamente connessi dal punto di vista logico-giuridico, vanno trattai unitariamente. 19. Rileva, preliminarmente, la Corte che deve ritenersi oramai, principio di diritto vivente, nella giurisprudenza di legittimità, l'affermazione secondo la quale il D.Lgs. n. 165 del 2001 riconosce la praticabilità del contratto a termine e di altre forme negoziali flessibili nel rapporto di lavoro pubblico valorizzando il ruolo della contrattazione collettiva con l'attribuire alla stessa di una più accentuata rilevanza rispetto al passato e prevede, in caso di violazione di norme imperative in materia, un proprio e specifico regime sanzionatorio costituito dal diritto del lavoratore al risarcimento del danno (Cass. 20 marzo 2012 n. 4417, Cass. 31 gennaio 2012 n. 392, Cass. 15 giugno 2010 n. 14350 e Cass. 7 maggio 2008 n. 11161). 20. Principio quest'ultimo non contrastante con la direttiva 1999/70/CE, in quanto idoneo a prevenire e sanzionare l'utilizzo abusivo dei contratti a termine da parte della pubblica amministrazione e che è consequenziale alla configurazione come regolamentazione speciale ed alternativa a quella prevista dal D.Lgs. n. 368 del 2001 relativa alla disciplina generale del contratto a termine (per tutte V. ordinanza 1 ottobre 2010, causa C-3/10, Affatato, punto 40, e giurisprudenza comunitaria conforme ivi richiamata, secondo cui la clausola 5 dell'accordo quadro non osta, in quanto tale, a che uno Stato membro riservi un destino differente al ricorso abusivo a contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione a seconda che tali contratti siano stati conclusi con un datore di lavoro appartenente al settore privato o con un datore di lavoro del settore pubblico). 21. Nella materia di cui trattasi, invero, tale speciale regolamentazione propria del settore CONTENZIOSO NAZIONALE 193 pubblico non può ritenersi abrogata da quella stabilita in via generale dal richiamato D.Lgs. n. 368 del 2001 stante l'immanenza della regola lex posterior generalis non derogat legi priori speciali (Cass. 31 gennaio 2012 n. 392 cit.). 22. Nè contrasta con siffatto principio il precedente di questa Corte, di cui alla sentenza del 22 aprile 2010 n. 9555, secondo il quale la deroga alla sanzione della conversione del contratto a termine in rapporto a tempo indeterminato, prevista dal D.Lgs. n. 165 del 2001, trova applicazione per i rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni diversi da quelli di vigilanza e custodia. 23. Tale asserzione, infatti, si basa fondamentalmente sulla considerazione che, come già sancito da questa Corte (sent. 3 agosto 1990 n. 7774), il rapporto fra l'INAIL ed i portieri addetti alla vigilanza e custodia di edifici di proprietà del primo, pur essendo di pubblico impiego, è disciplinato, nel suo contenuto, da un contratto collettivo di natura privatistica che lo sottrae all'operatività della legge sul parastato (n. 70 del 1975), per effetto del successivo D.P.R. n. 411 del 1976, che disciplina il rapporto di lavoro del personale degli enti pubblici e non sul presupposto secondo cui la relativa instaurazione non avviene mediante pubblico concorso e neppure tramite particolari procedure selettive. Quest' ultimo rilevo, invero è utilizzato, nella struttura argomentativa della Corte, al solo fine di rafforzare la rilevata regolamentazione sostanzialmente "privatistica", del rapporto in parola. 23. D'altro canto il giudice delle leggi, nella sentenza 27 marzo 2003 n. 89, nel giudicare la norma di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001 cit., art. 36, comma 2, conforme ai parametri costituzionali, sanciti dagli artt. 3 e 97 Cost., ha sottolineato che il principio dell'assunzione dei pubblici dipendenti mediante concorso, posto a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell'amministrazione, rende di per sè palese la non omogeneità delle situazioni poste a confronto e giustifica la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di norme imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego dei lavoratori da parte della P.A. conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio, in luogo della conversione in rapporto a tempo indeterminato prevista per i lavoratori privati. Nè la scelta operata dal legislatore, ha sottolineato il predetto giudice, contrasta con il canone della ragionevolezza, in quanto la stessa norma costituzionale individua appunto nel concorso lo strumento di selezione del personale, in linea di principio, più idoneo a garantire l'imparzialità e l'efficienza della P.A. Del resto, mirando il concorso a selezionare tra i concorrenti quelli che possiedono in misura maggiore i requisiti attitudinali e professionali richiesti, non è irragionevole la norma che tuteli i vincitori in modo diverso dai concorrenti che, pur non essendone privi, tuttavia non hanno dimostrato di possedere un uguale grado di preparazione. 24. Tanto precisato osserva il Collegio che, per quanto attiene il comparto della scuola, il citato D.Lgs. n. 165 del 2001 sancisce, all'art. 70, comma ottavo, che "Sono fatte salve le procedure di reclutamento del personale della scuola di cui al D.Lgs. 16 aprile 1994, n. 297 e successive modificazioni ed integrazioni". 25. Da ciò consegue, sulla base coordinamento delle previsioni di cui al richiamato D.Lgs. n. 165 del 2001, che il sistema del reclutamento del personale della scuola, di cui al D.Lgs. n. 297 del 1994 e successive modificazioni ed integrazioni, è escluso dall'ambito di applicazione della normativa dei contratti a termine prevista per i lavoratori privati. 26. Rilevano, in particolare, ai fini di cui trattasi, la prima parte dell'art. 2, comma 2 - il quale stabilisce che "I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo 1, titolo 2, del libro 5 del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel 194 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 presente decreto" -, e l'art. 36 - il quale, come detto, riconosce la praticabilità del contratto a termine e di altre forme negoziali flessibili nel rapporto di lavoro pubblico rimettendo ai contratti collettivi nazionali la previsione della relativa disciplina "in applicazione di quanto previsto dalla L. 18 aprile 1962, n. 230, dalla L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, dal D.L. 30 ottobre 1984. n. 726, art. 3, convertito, con modificazioni, dalla L. 19 dicembre 1984, n. 863, dal D.L. 16 maggio 1994, n. 299, art. 16, convertito con modificazioni, dalla L. 19 luglio 1994, n. 451, dalla L. 24 giugno 1997, n. 196, nonchè da ogni successiva modificazione o integrazione della relativa disciplina"-. 27.Tanto determina che la disciplina sul reclutamento del personale assunto a termine del cd. settore scolastico, ex D.Lgs. n. 297 del 1994, non può ritenersi abrogata dal D.Lgs. n. 368 del 2001. 28. Quest'ultimo provvedimento legislativo, infatti, costituisce una "successiva" modificazione o integrazione della disciplina sul contratto a termine in generale rispetto alla quale vi è la specifica e generale previsione di esclusione, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 70, ex comma 8, che vale a conferire, altresì, alla normativa relativa al reclutamento in parola il connotato di specialità rispetto alla legge in generale, sì da escluderne ogni incidenza da parte di successivi interventi legislativi di tal genere. 29. Ciò, tra l'altro, corrisponde al principio, immanente del nostro ordinamento giuridico secondo il quale lex posterior generalis non derogat legi priori speciali (V. per tutte Cass. 31 gennaio 2012 n. 392 cit.). 30. Nè può sottacersi al riguardo che la già evidenziata specialità della normativa sul reclutamento del personale nel settore della scuola che giustifica - come rilevato - la sua assoluta "impermeabilità" alla disciplina del D.Lgs. n. 368 del 2001, si manifesta anche con riferimento a tutti i restanti settori della pubblica amminis trazione, nei quali i contratti di lavoro a termine assumono caratteri differenziati da quelli riscontrabili nell'ambito del personale scolastico, in cui le peculiari finalità ad essi sottese - oltre ad escludere la conversione a tempo indeterminato - portano ad escludere la stessa configurabilità di un abuso del diritto nei termini patrocinati dal ricorrente. 31. A diverse conclusioni non può indurre neanche il D.L. n. 70 del 2011, art. 9 convertito in L. n. 106 del 2011, il quale, con il comma 18, ha aggiunto, al D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 10, il comma 4 bis secondo il quale: "Stante quanto stabilito dalle disposizioni di cui alla L. 27 dicembre 1997, n. 449, art. 40, comma 1, e successive modificazioni, alla L. 3 maggio 1999, n. 124, art. 4, comma 14 bis, e al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 6, comma 5, sono altresì esclusi dall'applicazione del presente decreto i contratti a tempo determinato stipulati per il conferimento delle supplenze del personale docente ed ATA, considerata la necessità di garantire la costante erogazione del servizio scolastico ed educativo anche in caso di assenza temporanea del personale docente ed ATA con rapporto di lavoro a tempo indeterminato ed anche determinato. In ogni caso non si applica l'art. 5, comma 4 bis, del presente decreto". 32. Trattasi, invero, di esplicitazione di un principio che, in quanto già enucleabile, alla stregua di quanto in precedenza rimarcato, dal precedente sistema, non ha comportato alcuna innovazione e risponde, piuttosto, all'esigenza, avvertita dal legislatore, di ribadire, a fronte del proliferare di controversie sulla illegittimità delle assunzioni a termine nel settore in parola, di una regula iuris già insita nella legislazione concernente la cd. privatizzazione del pubblico impiego. 33. E che il suddetto art. 9 non può che aver valore d'interpretazione autentica, per rendere chiaro ed espresso quello che sì evinceva dal precedente sistema normativo, deve ritenersi certo perchè se si dovesse diversamente interpretare, nel senso di consentire la conversione del contratto a termine in contratto a tempo determinato con il conseguente riconoscimento CONTENZIOSO NAZIONALE 195 del risarcimento dei danni, si finirebbe per legittimare una totale disapplicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001 con riferimento al personale della scuola. 34. Per di più si determinerebbe una violazione dei criteri di efficienza per incidere sugli organici del personale della scuola e sulla complessa amministrazione del settore e, conseguentemente, penalizzando il merito e gli altri principi posti a fondamento del rapporto di pubblico impiego, nel cui ambito va collocato (con riferimento alle finalità perseguite dalle disposizioni di cui al citato D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 4, 5 e 10) il detto personale. Ed, infine, si finirebbe per attribuire illogicamente alla suddetta norma una portata priva di razionalità ed al di fuori di una logica di sistema. Nel momento in cui attraverso il collegato lavoro (di cui alla L. 4 novembre 2010 n. 183), si andava ad incidere in senso riduttivo sul risarcimento del danno nello stesso tempo si sarebbe, infatti, esposta la pubblica amministrazione ad uno sforamento di bilancio, assicurando al personale della scuola un trattamento diverso e, sotto più versanti, maggiormente favorevole rispetto agli altri dipendenti pubblici, sia sul piano delle condizioni della trasformazione in contratto a tempo indeterminato, sia su quello risarcitorio (cfr. Cass. 29 febbraio 2012 n. 3056, sulla interpretazione dello ius supervenines L. n. 183 del 2010, ex art. 32, commi, 5, 6, 7 sebbene la stessa riconosca che il risarcimento configuri una sorta di penale ex lege da assicurarsi in ogni caso e senza necessità di prova del lavoratore). 35. Tanto precisato mette conto di rilevare che lo speciale regime del reclutamento del personale scolastico cd. precario si articola in un sistema di supplenze regolato dalla L. n. 124 del 1999 cit., art. 4, che ai primi tre commi, testualmente, dispone: "1. Alla copertura delle cattedre e dei posti di insegnamento che risultino effettivamente vacanti e disponibili entro la data del 31 dicembre e che rimangano prevedibilmente tali per l'intero anno scolastico, qualora non sia possibile provvedere con il personale docente di ruolo delle dotazioni organiche provinciali o mediante l'utilizzazione del personale in soprannumero, e semprechè ai posti medesimi non sia stato già assegnato a qualsiasi titolo personale di ruolo, si provvede mediante il conferimento di supplenze annuali, in attesa dell'espletamento delle procedure concorsuali per l'assunzione di personale docente di ruolo. 2. Alla copertura delle cattedre e dei posti di insegnamento non vacanti che si rendano di fatto disponibili entro la data del 31 dicembre e fino al termine dell'anno scolastico si provvede mediante il conferimento di supplenze temporanee fino al termine delle attività didattiche. Si provvede parimenti al conferimento di supplenze temporanee fino al termine delle attività didattiche per la copertura delle ore di insegnamento che non concorrono a costituire cattedre o posti orario. 3. Nei casi diversi da quelli previsti ai commi 1 e 2 si provvede con supplenze temporanee". 36. I criteri in base ai quali sono conferite le supplenze annuali sono precisati dai successivi commi 6 e 7 i quali stabiliscono, ai fini dei successivi regolamenti da adottarsi con D.M.- poi emanati con i D.M. n. 201 del 2000, D.M. n. 131 del 2007 e D.M. n. 430 del 2000 -, rispettivamente, che: "per il conferimento delle supplenze annuali e delle supplenze temporanee sino al termine delle attività didattiche si utilizzano le graduatorie permanenti di cui all'art. 401 del testo unico,come sostituito dall'art. 1, comma 6 della presente legge" (comma 6); "per il conferimento delle supplenze temporanee di cui al comma 3 si utilizzano le graduatorie di circolo o di istituto. I criteri, le modalità e i termini per la formazione di tali graduatorie sono improntati a principi di semplificazione e snellimento delle procedure con riguardo anche all'onere di documentazione a carico degli aspiranti" (comma 7). 37. L'art. 399 del T.U., di cui al D.Lgs. n. 297 del 1994, così come modificato dalla L. n. 124 del 1999, rubricato "Accesso ai ruoli", poi, testualmente dispone, ai primi due commi, che: "1. L'accesso ai ruoli del personale docente della scuola materna,elementare e secondaria, ivi 196 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 compresi i licei artistici e gli istituti d'arte, ha luogo, per il 50 per cento dei posti a tal fine annualmente assegnabili, mediante concorsi per titoli ed esami e, per il restante 50 per cento, attingendo alle graduatorie permanenti di cui all'art. 401. 2. Nel caso in cui la graduatoria di un concorso per titoli ed esami sia esaurita e rimangano posti ad esso assegnati, questi vanno ad aggiungersi a quelli assegnati alla corrispondente graduatoria permanente. Detti posti vanno reintegrati in occasione della procedura concorsuale successiva". 38. Ed ancora l'art. 401 - rubricato "graduatorie permanenti" stabilisce ai primi due commi che: "1. Le graduatorie relative ai concorsi per soli titoli del personale docente della scuola materna, elementare e secondaria, ivi compresi i licei artistici e gli istituti d'arte, sono trasformate in graduatorie permanenti, da utilizzare per le assunzioni in ruolo di cui all'art. 399, comma 1. 2. Le graduatorie permanenti di cui al comma 1 sono periodicamente integrate con l'inserimento dei docenti che hanno superato le prove dell'ultimo concorso regionale per titoli ed esami, per la medesima classe di concorso e il medesimo posto, e dei docenti che hanno chiesto il trasferimento dalla corrispondente graduatoria permanente di altra provincia. Contemporaneamente all'inserimento dei nuovi aspiranti è effettuato l'aggiornamento delle posizioni di graduatoria di coloro che sono già compresi nella graduatoria permanente". La L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 605, lett. e), ha, infine, trasformato le graduatorie permanenti in graduatorie ad esaurimento. 39. Da questo articolato normativo emerge, innanzitutto, che il legislatore ha mantenuto, per quanto attiene il reclutamento del personale, il ed sistema del doppio canale (V. per la disciplina previgente il D.L. n. 357 del 1989, convertito in L. n. 417 del 1989, nonchè la L. n. 1074 del 1971, L. n. 477 del 1973, L. n. 463 del 1978, L. n. 270 del 1982, L. n. 326 del 1984, e L. n. 246 del 1988) in virtù del quale l'accesso ai ruoli avviene per il 50 per cento de posti mediante concorso per titoli ed esami (D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 399) e, per il restante 50 per cento, attingendo dalle graduatorie permanenti (D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 400 cit.). 40. Scopo di tali graduatorie permanenti è quello precipuo, come rilevato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 41 del 2011, d'individuare i docenti cui attribuire le cattedre e le supplenze secondo il criterio di merito al fine di assicurare la migliore formazione scolastica. 41. Nè il sistema di reclutamento in parola si pone in contrasto con l'art. 97 Cost., disponendo questo, al comma 3 che "Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge" (V. Corte cost. n. 89 del 2003 cit.). 42. Emerge, altresì, dal contesto normativo in esame, che il sistema delle graduatorie permanenti - ora ad esaurimento - è funzionalizzato non solo alla garanzia della migliore formazione scolastica, ma anche al rispetto della posizione acquisita in graduatoria la quale, progredendo anche in relazione all'assegnazione delle supplenze (V. D.M. citati in particolare il n. 201 del 2000), garantisce l'immissione in ruolo. 43. In altri termini il conferimento dell'incarico di supplenza, specie quello annuale, è il veicolo attraverso il quale l'incaricato si assicura l'assunzione a tempo indeterminato in quanto, man mano che gli vengono assegnati detti incarichi, la sua collocazione in graduatoria avanza e, quindi, gli permette l'incremento del punteggio cui è correlata l'immissione in ruolo ex art. 399 del T.U. di cui al D.Lgs. n. 297 del 1994 cit.. 44. Inoltre, ed è bene sottolinearlo, la formazione della graduatoria permanente ovvero di circolo o istituto è ancorata a rigidi criteri oggettivi (D.M. citati in precedenza ed in particolare il D.M. n. 201 del 2000) che costituiscono attuazione, come sottolineato da questa Corte (sent. 22 marzo 2010 n. 6851), del principio generale secondo il quale l'assunzione dei dipendenti pubblici, anche non di ruolo, deve avvenire secondo procedure sottratte alla discrezionalità CONTENZIOSO NAZIONALE 197 dell'amministrazione (art. 97 Cost., D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35, la cui violazione è sanzionata con la nullità del contratto di lavoro (Cfr.: Cass. 7 maggio 2008, n. 11161). 45. Il sistema delle supplenze in parola rappresenta, pertanto, sotto il profilo in esame, un percorso formativo-selettivo, volto a garantire la migliore formazione scolastica, attraverso il quale il personale della scuola viene immesso in ruolo in virtù di un sistema alternativo a quello del concorso per titoli ed esami e vale a connotare di una sua intrinseca "specialità e completezza" il corpus normativo relativo al reclutamento del personale scolastico. 46. Nè può sottacersi come il sistema in esame risponda anche all'esigenza di parametrare nella scuola una flessibilità in entrata che comporta una situazione di precarietà, bilanciata, però, ampiamente da una sostanziale e garantita (anche se in futuro) immissione in ruolo che, per altri dipendenti del pubblico impiego è ottenibile solo attraverso il concorso e per quelli privati può risultare di fatto un approdo irraggiungibile. Ciò ha portato autorevole dottrina a parlare nella materia scrutinata di una tipologia di flessibilità atipica destinata a trasformarsi in una attività lavorativa stabile. 47. Per di più a tale sistema di reclutamento non sono certo estranee indifferibili esigenze di carattere economico che impongono - in una situazione di generale crisi economica e di deficit di bilancio facenti parte del notorio - risparmi doverosi per riscontrarsi nel sistema di reclutamento in esame, come detto, una seria prospettiva del riconoscimento di un lavoro a tempo indeterminato pur in assenza di alcuna legge di carattere costituzionale o comunitario capace di garantire, anche in presenza di un effettivo abuso di successione di contratti a termine, un rapporto a tempo indeterminato e pur avendo la Corte Costituzionale reiteratamente affermato che "resta affidata alla discrezionalità del legislatore la scelta dei tempi e dei modi di attuazione della garanzia del diritto al lavoro" (tra le altre, sentenza 13 ottobre 2000 n. 419 e più di recente Corte Cost. 9 novembre 2011 n. 303). 48. E nella stessa direzione è opportuno da un lato rimarcare che - come ha osservato il giudice delle leggi - la politica del reclutamento del personale presso le amministrazioni dello Stato è dettata in conformità del contenimento della spesa pubblica perchè l'assunzione di nuovo personale e le disponibilità economiche dello Stato devono adeguarsi al "principio di coordinamento della finanza pubblica" Cfr. Corte Cost. 17 dicembre 2004 n. 300), e dall'altro ricordare che, come è noto, la giurisprudenza comunitaria ha più volte evidenziato che nella determinazione della portata applicativa delle direttive un accentuato rilievo va dato alle esigenze di bilancio degli stati membri. 49. Sotto diverso profilo mette conto, poi, di annotare che il sistema in esame è, altresì, oggettivamente funzionalizzato alla esigenza di sopperire alla necessità della copertura dei posti di insegnamento che risultino effettivamente vacanti e disponibili entro la data del 31 dicembre (L. n. 124 del 1999, art. 4, comma 1 cit.), ovvero alla copertura dei posti di insegnamento non vacanti che si rendano di fatto disponibili entro la data del 31 dicembre (L. n. 124 del 1999, art. 4, comma 2 cit.), ovvero ancora ad altre necessità quale quella di sostituire personale assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro (L. n. 124 del 1999, art. 4, comma 3 cit.). 50. Tanto in ragione, fatte salve le "altre necessità", della discrasia tra l'organico di fatto - ossia quello che si forma all'interno dell'Istituto scolastico all'inizio dell'anno scolastico e a seguito della popolazione scolastica che risulta iscritta - e l'organico di diritto -costituito dall'insieme del corpo docente e/o del personale ATA che il Ministero assegna ad un determinato Istituto scolastico in base alla popolazione scolastica che istituzionalmente dovrebbe essere iscritta presso quell'istituto. 51. Risulta confermato, pertanto, che il descritto quadro normativo rappresenta un insieme di fonti che valgono, per la loro completezza, organicità e funzionalizzazione, a costituire un corpus 198 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 speciale autonomo disciplinante la materia del reclutamento del personale in ordine al quale, non trovando applicazione, come innanzi rilevato, il D.Lgs. n. 368 del 2001 - emanato in attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall'UNICE, dal CEEP e dal CES - va verificata la conformità alla detta direttiva. 52.A tal fine va tenuto conto che, secondo giurisprudenza comunitaria, nell'applicare il diritto interno, i giudici nazionali devono interpretarlo, per quanto possibile, alla luce del testo e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest'ultima e conformarsi, pertanto, all'art. 249, comma 3, CE (V., sentenza 5 ottobre 2004, cause riunite da C 397/01 a C 403/01, Pfeiffer e a., punto 113, e giurisprudenza ivi citata, nonchè sentenza 4 luglio 2006 C-212/04, Adeneler, punto 108). 53. Non senza considerare che tale obbligo di interpretazione conforme riguarda l'insieme delle disposizioni del diritto nazionale, sia anteriori sia posteriori alla direttiva di cui trattasi (V., ìn particolare, sentenze 13 novembre 1990, causa C 106/89, Marleasing, punto 8, e Pfeiffer e a., cit., punto 115). 54. Tanto precisato deve ribadirsi, in primo luogo, che l'accordo quadro - di cui alla Direttiva del Consiglio Ce 1999/70/CE del 28 giugno 1999 non stabilisce le condizioni precise in base alle quali si può far ricorso al contratto a tempo determinato. 55. È, infatti, sancita soltanto l'adozione, qualora il diritto nazionale non preveda norme equivalenti, di almeno una delle misure in essa enunciate, che attengono, rispettivamente, a ragioni obiettive che giustificano il rinnovo di tali contratti o rapporti di lavoro, alla durata massima totale degli stessi contratti o rapporti di lavoro successivi ed al numero dei rinnovi di questi ultimi, pur restando fermo che gli Stati membri sono tenuti, in generale, nell'ambito della libertà che viene loro riservata dall'art. 249, comma 3, Trattato CEE, a scegliere le forme e i mezzi idonei al fine di garantire l'efficacia pratica delle direttive (V. sentenza 4 luglio 2006 C-212/04, Adeneler cit. punto 65 e sentenza 26 gennaio 2012 C-586/10 Kucuk punto 26 e giurisprudenza ivi citata, nonchè: Cass. 21 maggio 2008 n. 12985). 56. Secondo conforme giurisprudenza comunitaria la nozione di "ragioni obiettive", ai sensi della clausola 5, punto 1, lett. a), dell'accordo quadro, deve essere intesa nel senso che si riferisce a circostanze precise e concrete caratterizzanti una determinata attività e, pertanto, tali da giustificare in questo particolare contesto l'utilizzazione di contratti di lavoro a tempo determinato successivi. 57. Tali circostanze possono risultare segnatamente dalla particolare natura delle mansioni per l'espletamento delle quali siffatti contratti sono stati conclusi e dalle caratteristiche inerenti a queste ultime o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro. 58. Per contro, una disposizione nazionale che si limiti ad autorizzare, in modo generale e astratto attraverso una norma legislativa o regolamentare, il ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato successivi non soddisfarebbe i requisiti precisati nei due punti precedenti. Infatti, una siffatta disposizione, di natura meramente formale e che non giustifica in modo specifico l'utilizzazione di contratti di lavoro a tempo determinato successivi con l'esistenza di fattori oggettivi relativi alle caratteristiche dell'attività interessata e alle condizioni del suo esercizio, comporta un rischio concreto di determinare un ricorso abusivo a tale tipo di contratti e non è pertanto compatibile con lo scopo e l'effettività dell'accordo quadro (sentenza 4 luglio 2006 C-212/04, Adeneler cit. punti da 69 a 72 nonchè sentenza 28 aprile 2009 C- 370/07 Angelidaki punti 101 e segg.). 59. Alla luce della richiamata giurisprudenza comunitaria ritiene questa Corte che il corpus CONTENZIOSO NAZIONALE 199 normativo disciplinate il reclutamento del personale, nel consentire la stipula di contratti a tempo determinato in relazione alla oggettiva necessità di far fronte, con riferimento al singolo istituto scolastico - e, quindi, al caso specifico -, alla copertura dei posti di insegnamento che risultino effettivamente vacanti e disponibili entro la data del 31 dicembre, ovvero alla copertura dei posti di insegnamento non vacanti che si rendano di fatto disponibili entro la data del 31 dicembre, ovvero ancora ad altre necessità quale quella di sostituire personale assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro, riferendosi a circostanze precise e concrete caratterizzanti la particolare attività scolastica costituisce "norma equivalente" alle misure di cui alla clausola 5 n. 1, lett. da A) a C) dell'accordo quadro secondo quanto indicato dalla sentenza 28 aprile 2009 C-370/07 Angelidaki cit.. 60. Rileva, altresì, ai fini di cui trattasi, - e con riferimento alle fattispecie regolate dal primo e dalla L. n. 124 del 1999, art. 4, comma 2 cit. - quale fattore oggettivo, relativo all'attività scolastica, lo stretto collegamento tra la necessità di ricorrere alla supplenza e la ciclica variazione in aumento ed in diminuzione della popolazione scolastica e la sua collocazione geografica. 61. Nè può non considerarsi che, come in precedenza rimarcato, il sistema delle graduatorie per garantire l'oggettività della scelta dell'incaricato, la migliore formazione scolastica (Corte cost. n. 41 del 2011 cit.) e la stessa immissione in ruolo dell'incaricato - la cui posizione in graduatoria progredisce, in ragione dell'assicurato diritto di precedenza, in funzione del numero delle supplenze - comporta necessariamente la reiterazione degli incarichi che, pur tuttavia, come osservato, rimangono temporanei e collegati ciascuno alla specifica e precisa esigenza del singolo istituto scolastico. 62. Al riguardo va ricordato che la direttiva n. 70 del 1999 guarda alla successione di più contratti di rapporti di lavoro a tempo determinato come potenziale fonte di abuso in danno dei lavoratori dipendenti sì da richiedere apposite disposizioni di tutela minima (dirette ad evitare la "precarizzazione" della situazione dei lavoratori suddetti), identificabili non di certo in norme legali o regolamentari limitate ad autorizzare - in modo generale ed astratto il ricorso a ripetuti contratti di lavoro a tempo determinato (sentenza 26 gennaio 2012 C-586/10 Kucuk, punto 28, e sentenza 28 aprile 2009 C-370/07, Angelidaki cit., punto 97). Il fatto che i contratti di lavoro a tempo indeterminato costituiscano la forma comune dei rapporti di lavoro, non esclude però che i contratti di lavoro a tempo determinato possano rappresentare una caratteristica dell'impiego in alcuni settori e per determinate occupazioni e attività, sicchè viene lasciato agli Stati membri una certa discrezionalità nello stabilire le condizioni precise alle quali si può fare uso di questi contratti (sentenza 26 gennaio 2012 C-586/10 Kucuk, cit. punto 52; sentenza 4 luglio 2006 C-212/04, Adeneler, cit. punto 91; sentenza 7 settembre 2006, causa C-53/04, M. e S., punto 47; sentenza 28 aprile 2009 C-370/07, Angelidaki cit. punti 145 e 183). 63. È corollario di quanto ora detto che spetta al giudice nazionale di valutare se in concreto l'impiego di un dipendente per un lungo periodo di tempo in forza di ripetuti e numerosi contratti sia rispettosa della clausola 5, punto 1, dell'accordo quadro (sentenza 26 gennaio 2012 C-586/10 Kucuk, cit. punto 55), che deve ritenersi, nel caso di specie, rispettata perchè il reiterarsi degli incarichi, come rilevato - ma è opportuno ribadirlo - risponde ad oggettive, specifiche esigenze, a fronte delle quali non fa riscontro alcun potere discrezionale della pubblica amministrazione, per essere la stessa tenuta al puntuale rispetto della articolata normativa che ne regola l'assegnazione. 64. Alla stregua delle esposte considerazioni ritiene questa Corte che la specifica disciplina del reclutamento del personale scolastico, ed in particolare quella relativa al conferimento delle supplenze, è conforme alla clausola 5, punto 1, dell'accordo quadro di cui alla Direttiva 200 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 del Consiglio Ce 1999/70/CE del 28 giugno 1999 e costituisce, quindi, " norma equivalente". 65. Premesso che il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia è ammesso soltanto ove al giudice nazionale si ponga un dubbio relativo alla interpretazione e all'applicazione delle norme comunitarie, ma non nel caso in cui a questi si ponga l'opposto problema di interpretare la norma interna al fine di verificarne la compatibilita con la normativa comunitaria (V. sentenza 17.6.1999 C. 295/97 Piaggio Spa, nonchè: Cass. 22 settembre 2006 n. 20708 e Cass. 15 maggio 2007 n. 11125), osserva il Collegio che la rilevata esistenza di molteplici conformi pronunce della Corte di giustizia delle Comunità Europee sull'interpretazione della norma comunitaria di cui trattasi (V. tutta la uniforme giurisprudenza comunitaria citata nei precedenti punti da 54 a 59 e da 62 a 63) induce a ritenere che si è in presenza di un acte claire. Questo come tale, quindi, - non lasciando spazio ad alcun ragionevole dubbio sulla esegesi della direttiva 1999/70/CE relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall'UNICE, dal CEEP e dal CES - non impone al presente giudice di ultima istanza l'obbligo di rinviare, in via pregiudiziale, alla predetta Corte di Giustizia la questione d'interpretazione della richiamata norma comunitaria (Cfr. sentenza 6 ottobre 1982, C-283/81, Cilfit nonchè Corte EDU sentenza 20 settembre 2011, ric. nn. 3989/07 e 38353/07, Ullens de Schooten e Rezabek nonchè, per tutte e da ultimo, Cass. 26 marzo 2012 n. 4776). 66. Del resto che il rinvio pregiudiziale non debba essere disposto allorquando la lettura delle direttive comunitarie consenta al giudice nazionale di accertare - attraverso una documentata, ragionata e poi motivata attività ermeneutica - la loro piena compatibilita con le norme interne, risponde al principio ora costituzionalizzato del processo "giusto" e di "ragionevole durata" (art. 111 Cost., commi 1 e 2) dal momento che un ricorso "disinvolto" alla pregiudizale - perchè non sorretto da una congrua e doverosa riflessione ed attenzione - potrebbe, in assenza di un ragionevole dubbio sulla esegesi delle suddette direttive, finire per determinare, oltre che pregiudizievoli ricadute sul versante socio-economico, anche alti costi privi di giustificazione. 67. Dei principi sopra enunciati la sentenza impugnata ha fatto, dunque, corretta applicazione per avere osservato che, nel caso di specie, non è ontologicamente configurabile quell'abuso di diritto ritenuto sanzionabile dalla direttiva e dalla giurisprudenza comunitaria in quanto le ragioni che stanno alla base dei contratti a termine assumono una "oggettiva portata" per riguardare situazioni fattuali rispetto alla quali non è lasciata alcuna discrezionalità alle autorità scolastiche le quali non possono esimersi dall'individuare i soggetti destinatari di tali contratti nel rigoroso rispetto della normativa regolante la materia. 68. La Corte territoriale ponendosi infatti - come espressamente rimarca in continuità con un indirizzo della giurisprudenza di merito - ha sostanzialmente messo in rilievo che la successione di una pluralità di contratti a tempo determinato, attraverso la quale si succedono le supplenze annuali e quelle temporanee - sia per la copertura di posti non vacanti e di fatto disponibili sia per la sostituzione del personale assente per congedo, aspettativa, congedo ecc -, non concretizza di certo in alcun modo l'abuso ai danni dei lavoratori contemplato dalla direttiva comunitaria perchè una siffatta successione è funzionalizzata a ragioni - è bene ripeterlo - di natura obiettiva, come quelle di assicurare la continuità nel servizio scolastico - obiettivo di rilevanza costituzionale - a fronte di eventi contingenti, variabili ed in definitiva imprevedibili, non solo nelle loro concrete ricadute a livello territoriale per la popolazione scolastica interessata, ma anche nella collocazione temporale. 69. Per concludere, quindi, la sentenza impugnata - essendo pervenuta, sia pure con motivazione parzialmente diversa, ad analogo risultato - va confermata previo l'esercizio dei poteri correttivi di cui all'art. 384 c.p.c., u.c.. CONTENZIOSO NAZIONALE 201 70. Con riferimento, poi, alla domanda del ricorrente a vedersi riconoscere il diritto al risarcimento del danno subito, va affermato che la sua infondatezza è corollario della mancanza di un abuso del diritto nel succedersi di detti contratti. Tale conclusione, infatti, si presenta obbligata per ricavarsi al di là di ogni dubbio, come in precedenza evidenziato, sia dalla normativa statale che da quella comunitaria la piena legittimità del reclutamento del personale scolastico articolato sulla successione di pur numerosi contratti a termine, ravvisandosi un abuso del diritto nel caso - non ricorrente di certo nella controversia in esame - in cui si sia in presenza di supplenze annuali o temporanee al di fuori delle condizioni legislativamente previste (come, ad esempio, nel mancato rispetto delle graduatorie nella assegnazione delle supplenze), che rende azionabile un sistema capace - in ragione di una accentuata responsabilizzazione dei dirigenti pubblici e del riconoscimento del diritto al risarcimento dei danni subiti dal dipendente - di prevenire, prima, ed eventualmente di sanzionare, poi, in forma adeguata, l'utilizzo abusivo da parte dei suddetti dirigenti dei contratti o dei rapporti di lavoro a tempo determinato (cfr. di recente sul punto: Cass. 13 gennaio 2012 n. 392 cit.). 71. A sostegno di quanto ora detto si è puntualmente osservato in dottrina che se l'ordinamento ha disconosciuto, come detto, con una disposizione di rango costituzionale il diritto alla costituzione di un rapporto a tempo indeterminato, appare arduo poi concepire la risarcibilità di un mancato diritto - quale quello richiesto volto a parametrare il risarcimento ad Euro 5.000,00 per ogni contratto - perchè manca il presupposto stesso della tecnica risarcitoria, che è quello di ripristinare, attraverso la restaurazione dell'ordine giuridico violato, la situazione soggettiva che, garantita da una norma giuridica, venga in concreto a subire una lesione. E proprio disconoscendo ogni rilevanza giuridica ai periodi d'inattività lavorativa nel caso di succedersi delle supplenze questa Corte di Cassazione - seppure in una fattispecie diversa ma con qualche analogia con quella in esame - ha affermato che la categoria del personale supplente si caratterizza per un rapporto di servizio che, fondato su incarichi attribuiti di volta in volta, si interrompe nell'intervallo da un incarico ed un altro per cui non spettano, con riferimento al periodo non lavorato, gli scatti biennali (cfr. in tali sensi Cass. 8 aprile 2011 n. 8060, che invece ha riconosciuto detti scatti ai docenti di educazione musicale per avere visto costoro con apposita e specifica normativa novato il loro rapporto non di ruolo a tempo indeterminato sino alla successiva immissione in ruolo). 72. All'esito delle considerazioni, sinora svolte, nelle quali rimangono assorbite tutte le ulteriori argomentazioni poste a base delle esaminate censure, il ricorso va, pertanto, rigettato. 73. La novità della questione trattata e la complessità della materia giustificano la compensazione delle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 5 giugno 2012. 202 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 La regolarità causale nel contenzioso emotrasfusionale «Nesso causale da comportamento omissivo» e «criterio per la delimitazione temporale della responsabilità del Ministero» (Annotazione a Cassazione civ., Sez. III, sentenza 31 gennaio 2013 n. 2250) La sentenza n. 2250/13 - facendo concreta applicazione del principio dell’unicità dell’evento lesivo in caso di contagio da virus HCV (epatite C), HBV (epatite B) o HIV (AIDS) affermato dalle SS.UU (sentenze da 576/08 a 581/08) - esclude la regolarità causale, sotto il profilo dell’assoluta imprevedibilità ed eccezionalità dell’evento, fra l’omesso controllo da parte del Ministero sui prodotti emoderivati ed il contagio da virus HCV in un caso risalente ad epoca precedente la scoperta del virus dell’epatite B. Marina Russo* Cassazione civile, Sez. Terza, sentenza del 31 gennaio 2013 n. 2250 - Pres. Segreto, Rel. Ambrosio, P.M. Velardi (in parte difforme) - Min. salute (avv. gen. Stato) c. M.R., M.V (avv. Andriani), T.M., T.G. quali procuratori generali di TA.SA.(avv. Mele). SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con sentenza in data 18 maggio 2003 il Tribunale di Roma - decidendo sulla domanda di risarcimento danni proposta da G.M., quale erede della moglie C.G. nei confronti del Ministero della Salute (di seguito brevemente il Ministero) per il risarcimento dei danni da epatite C, subiti dalla moglie a seguito di una trasfusione di sangue effettuata in data 2 dicembre 1970 - accertava la responsabilità del suddetto Ministero e lo condannava al pagamento della somma di Euro 336.733,00 oltre accessori in favore di M.R. e M.V. (succeduti, nelle more del giudizio, al padre, originario attore), nonchè in favore di Ta.Sa., figlia ed erede di C.G., intervenuta in corso di causa; condannava il medesimo Ministero al pagamento in favore di Ta.Sa. dell'ulteriore somma di Euro 41.008,00 oltre accessori; condannava, infine, il Ministero al pagamento delle spese processuali e di c.t.u.. La decisione, gravata da impugnazione del Ministero, era confermata dalla Corte di appello di Roma, la quale con sentenza in data 6 novembre 2006 condannava l'appellante al pagamento delle ulteriori spese. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Ministero, svolgendo quattro articolati motivi. Hanno resistito R. e M.V., nonchè Ta.S., rappresentata dai procuratori generali G. e T.M., depositando distinti controricorsi. È stata depositata memoria da parte dei controricorrenti R. e M.V.. MOTIVI DELLA DECISIONE (...) 3. Con il terzo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione dell'art. 2043 cod. (*) Avvocato dello Stato. CONTENZIOSO NAZIONALE 203 civ. (art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la Corte di appello ritenuto la responsabilità del Ministero, nonostante all'epoca della trasfusione di cui si tratta fosse impossibile la stessa individuazione della malattia (che era ignota), incerte le modalità di trasmissione, non noti metodi efficaci per combatterla. 4. (...) 5. Va esaminato, sulla base del principio della c.d. ragione più liquida il terzo motivo di ricorso, che si rivela assorbente rispetto agli altri motivi. 5.1. In particolare il ricorrente Ministero - premesso che fino alla scoperta nell'anno 1978 del virus HBV, nel 1986 del virus HIV e nel 1988 del virus HCV il relativo evento infettivo non era astrattamente verosimile - osserva che, nella fattispecie, al momento del contagio era impossibile la stessa individuazione della malattia che era ignota, incerte le modalità di trasmissione della stessa e non noti metodi efficaci per prevenirla; con la conseguenza che non era possibile ravvisare qualsivoglia responsabilità in capo all'Amministrazione per trasfusioni eseguite pacificamente in epoca anteriore alla piena conoscenza medica della patologia per difetto dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa e dello stesso nesso causale. 5.2. Il motivo è fondato alla luce di principi consolidati nella giurisprudenza di questa Corte, che - con riguardo allo specifico tema della responsabilità omissiva per contagio - ha evidenziato come il problema della conoscenza del virus debba essere inquadrato anzitutto nell'ambito della regolarità causale e quindi del nesso causale e solo in via residuale nell'ambito dell'elemento soggettivo: ciò in quanto ciascuno è responsabile soltanto delle conseguenze della sua condotta, attiva o omissiva, che appaiono sufficientemente prevedibili al momento nel quale ha agito, escludendosi in tal modo la responsabilità, per tutte le conseguenze assolutamente atipiche o imprevedibili. In particolare le Sezioni Unite - muovendo dalla considerazione che i principi generali che regolano la causalità materiale (o di fatto) sono anche in materia civile quelli delineati dagli artt. 40 e 41 cod. pen. e dalla regolarità causale, salva la differente regola probatoria che in sede penale è quella dell'"oltre ogni ragionevole dubbio", mentre in sede civile vale il principio della preponderanza dell'evidenza o "del più probabile che non" - hanno precisato che la regola della "certezza probabilistica" non può essere ancorata esclusivamente alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classe di eventi (c.d. probabilità quantitativa), ma va verificata riconducendo il grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma disponibili nel caso concreto (c.d. probabilità logica) (cfr. Sez. Unite, sentenza 11 gennaio 2008, n. 581). Da tale premessa concettuale è derivato con specifico riferimento all'azione - come quella in oggetto - per contagio da somministrazione di sangue ed emoderivati infetti, il seguente principio: premesso che sul Ministero gravava un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in materia di impiego di sangue umano per uso terapeutico (emotrasfusioni o preparazione di emoderivati) anche strumentale alle funzioni di programmazione e coordinamento in materia sanitaria, affinchè fosse utilizzato sangue non infetto e proveniente da donatori conformi agli standars di esclusione di rischi, il giudice, accertata l'omissione di tali attività, accertata, altresì, con riferimento all'epoca di produzione del preparato, la conoscenza oggettiva ai più alti livelli scientifici della possibile veicolazione di virus attraverso sangue infetto ed accertata - infine - l'esistenza di una patologia da virus HIV o HBV o HCV in soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati, può ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell'insorgenza della malattia, e che, per converso, la condotta doverosa del Ministero, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito la versificazione dell'evento. 5.3. Dal principio sopra esposto in tema di nesso causale da comportamento omissivo, 204 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 emerge anche il criterio per la delimitazione temporale della responsabilità del Ministero: in altri termini si tratta di verificare se, ai fini della regolarità causale, il virus dell'epatite C nel dicembre del 1970 - epoca in cui intervenne l'emotrasfusione individuata come causa della stessa malattia - fosse un evento assolutamente eccezionale ed imprevedibile e quindi estraneo alla regolarità causale. Ciò in quanto in tema di patologie conseguenti ad infezione con i virus HBV (epatite B) , HIV (AIDS) e HCV (epatite C) contratti a causa di assunzione di emotrasfusioni o di emoderivati con sangue infetto, non sussistono tre eventi lesivi, bensì un unico evento lesivo, cioè la lesione dell'integrità fisica (essenzialmente del fegato) in conseguenza dell'assunzione di sangue infetto; ne consegue che già a partire dalla data di conoscenza dell'epatite B - la cui individuazione spetta all'esclusiva competenza del giudice di merito, costituendo un accertamento di fatto - sussiste la responsabilità del Ministero della salute, sia pure col limite dei danni prevedibili, anche per il contagio degli altri due virus, che non costituiscono eventi autonomi e diversi, ma solo forme di manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo. (Cass. civ., Sez. Unite, 11 gennaio 2008, n. 576). 5.4. Orbene dagli atti emerge che il virus dell'epatite B fu conosciuto solo alla metà degli anni 1970 (l'organizzazione mondiale della sanità l'ha ufficialmente riconosciuto solo nel 1978) e che in precedenza si conosceva solo che il sangue poteva veicolare virus. Ciò comporta che va esclusa la regolarità causale tra il mancato controllo del Ministero e l'infezione da epatite C per l'emotrasfusione subita dalla C. nel dicembre 1970. Il motivo all'esame va, dunque, accolto, risultando assorbiti gli altri. 6. La causa può essere decisa nel merito in quanto non occorrono ulteriori accertamenti per rigettare la domanda. Le spese dell'intero giudizio vanno compensate. Invero la procedura transattiva prevista dalla L. 29 novembre 2007, n. 222, di conversione del D.L. n. 159 del 2007 e dalla L. 24 dicembre 2007, n. 2444 per il componimento dei giudizi risarcitori per effetto di trasfusioni con sangue infetto (pur lasciando libera la P.A se pervenire alla transazione) denota un sostanziale trend legislativo di favor della definizione stragiudiziale del contenzioso e tanto integra giusto motivo di compensazione delle spese processuali, a norma dell'art. 92 c.p.c., nella formulazione - applicabile alla fattispecie - anteriore alla modifica apportata dalla L. n. 263 del 2005, art. 2, comma 1. P.Q.M. La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito, rigetta la domanda degli attori e dell'intervenuta; compensa tra le parti le spese dell'intero giudizio. CONTENZIOSO NAZIONALE 205 Sul termine breve di impugnazione nel caso di “notifica”, da parte del cancelliere, di ordinanza di correzione (Annotazione a Corte dei Conti, Sez. Terza Giurisdizionale Centrale d’Appello, sentenza del 18 gennaio 2013 n. 43) La Corte dei Conti conclude una lunga ed intricata vicenda processuale affermando il principio - particolarmente interessante in considerazione dell’assenza di precedenti giurisprudenziali - che la notifica dell’ordinanza di correzione dell’errore materiale eseguita ad iniziativa del cancelliere a mente dell’art.121 disp. att. c.p.c., non è idonea a far decorrere il termine “breve” di cui all’art. 285 c.p.c. Ciò in quanto - come sostenuto dalla difesa del Ministero - la funzione acceleratoria del giudizio di cognizione, cui di regola assolve la notifica della sentenza, corrisponde ad un interesse, proprio solo della parte vittoriosa in primo grado, a conseguire un’abbreviazione dei termini per la formazione del giudicato; non si può, dunque, ricondurre un analogo risultato alla notifica eseguita da un soggetto - quale la cancelleria - diverso dalla parte processuale. Secondo la Corte quindi, ai fini dell’applicabilità del “termine breve”, la notifica dell’ordinanza di correzione dell’errore materiale equivale ad una mera comunicazione di cancelleria. Marina Russo* Corte dei Conti, Sezione Terza Giurisdizionale Centrale d’Appello, sentenza del 18 gennaio 2013 n. 43 - Pres. Ignazio de Marco, Est. Angelo De Marco - Min. economia (avv. gen. Stato) c. F.P. (avv. A. Savino). FATTO Con l'impugnata sentenza, pronunciaa nell'udienza del 2 ottobre 2002, poi corretta con successiva ordinanza dell'8 agosto 2011, il giudice unico delle pensioni presso la Sezione giurisdizionale per la Regione Puglia ha riconosciuto il diritto del Sig. P.F. all'indennità integrativa speciale e alla tredicesima mensilità sul trattamento pensionistico tabellare in godimento per il periodo in cui ha svolto attività di lavoro subordinato, con il limite - riconosciuto in accoglimento della relativa eccezione sollevata in udienza dal rappresentante dell'INPDAP - della prescrizione quinquennale; ha inoltre stabilito che sulle somme dovute per arretrati spetta al ricorrente il maggior importo tra rivalutazione monetaria e interessi legali. Poichè l'accoglimento dell'eccezione di prescrizione, enunciato in parte motiva nonché nel dispositivo della sentenza, non risulta presente nel dispositivo letto al termine dell'udienza di discussione, l'ordinanza di correzione, intervenuta a conclusione di una complessa vicenda processuale di cui ora si dirà, ha sostituito il dispositivo scritto (che fa esplicito riferimento (*) Avvocato dello Stato. 206 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 alla prescrizione) con quello letto in udienza (nel quale come detto, manca ogni riferimento alla prescrizione). Prima di tale correzione, la sentenza oggi appellata ê stata in un primo momento dichiarata giuridicamente inesistente da parte dello stesso giudice pugliese, con sentenza n. 594/2004; successivamente, per effetto dell'annullamento dell'anzidetta sentenza n. 594/2004 da parte della Sezione Seconda Centrale d'appello, con sentenza 3/2007 del 26 gennaio 2007, così come interpretata dalla stessa Sezione con successiva sua sentenza n. 459/2009 del 23 settembre 2009, tale sentenza è stata sottoposta alla procedura "per la correzione materiale", disposta con la ricordata ordinanza del 10 agosto 2011. L'appellante Avvocatura generale dello Stato, premesso che per effetto della correzione si è determinato un insanabile contrasto tra le parte motiva e quella dispositiva della sentenza n. 746/2002 - passata in giudicato per non essere stata mai appellata - e che l'impugnazione è possibile avverso la parte corretta (nella specie, il dispositivo) "nel termine ordinario decorrente dal giorno in cui è stata notificata l'ordinanza di correzione"; precisato che la notifica dell'ordinanza eseguita il 12 settembre 2011, in quanto non effettuata su istanza della parte processuale, ha finalità puramente partecipativa e non è pertanto idonea a far decorre il termine breve per l'appello; sostiene, nel merito, che il dispositivo corretto è in contrasto con le disposizioni vigenti e va pertanto riformato, in quanto il diritto alla corresponsione dell'indennità integrativa speciale e della tredicesima mensilità sulla pensione tabellare è soggetto a prescrizione quinquennale, che è stata ritualmente eccepita in giudizio e di cui il giudice ha tenuto debito conto in motivazione. L'appellato si è costituito in giudizio con il patrocinio dell'avvocato Antonio Savino il quale eccepisce preliminarmente la tardività dell'appello proposto ben cinque mesi dopo la rituale notifica della sentenza corretta e relativa ordinanza di correzione, effettuata su istanza del cancelliere come previsto dall’art. 121 delle disposizioni di attuazione del c.p.c.; nel merito sostiene l'inammissibilità dell'eccezione di prescrizione sollevata in udienza dall'Amministrazione, per violazione dell'art. 416 c.p.c., richiamato dalla legge 205/2000 in materia di giudizi pensionistici; conclusivamente (dopo avere adombrato la possibilità che si tenga conto, in via subordinata, di quanto stabilito dall'art. 2946 c.c. in tema di prescrizione decennale per “il diritto di credito relativo a qualsiasi somma che non sia stata posta in riscossione") chiede la dichiarazione di inammissibilità dell'appello; in via gradata chiede la sua reiezione; chiede, comunque, la condanna dell'appellante per responsabilità aggravata, oltre che al pagamento delle spese del giudizio. All'odierna pubblica udienza, dopo la relazione introduttiva l'Avvocato dello Stato ha preliminarmente sostenuto che la notifica dell'ordinanza di correzione, pur ritualmente eseguita a cura della segreteria della Sezione, non è idonea a far scattare il termine breve per l'impugnazione, in quanto tale effetto consegue solo alla notifica effettuata ad istanza di parte: dal che scaturisce la tempestività e quindi l'ammissibilità dell'appello. Nel merito, ha insistito per l'accoglimento del gravame, avendo il primo giudice adeguatamente motivato in ordine all'ammissibilità e alla fondatezza dell'eccezione di prescrizione sollevata in udienza. L'avvocato Savino ha, per parte sua, stigmatizzato la pervicacia con la quale l'Amministrazione insiste nel negare l'evidenza di quanto risulta con chiarezza dai fatti, e cioè che il primo giudice ha in sede di redazione modificato il dispositivo letto in udienza, correggendo l’omissione relativa alla prescrizione e che in fattispecie del genere, di contrasto tra dispositivo scritto e dispositivo letto, è quest'ultimo a prevalere sul primo. Tutto ciò, non senza censurare la grossolana tardività dell'appello, a fronte di una evidente notifica e non mera comunicazione dell'ordinanza, come risulta dalla dizione usata nel foglietto di segreteria. CONTENZIOSO NAZIONALE 207 Considerato in DIRITTO Come ricordato nell'esposizione del fatto, perviene oggi all'esame del collegio una sentenza emessa nel 2002, passata in giudicato per non essere stata oggetto d'impugnazione; tale sentenza è stata dichiarata inesistente nel 2004, in un parallelo procedimento attivato per la sua esecuzione, ma è stata poi rivitalizzata nel 2007, con una sentenza del giudice d'appello, dallo stesso giudice autenticamente interpretata nel 2009; infine, nel 2011, detta sentenza è stata corretta mediante sostituzione del dispositivo scritto con quello letto in udienza e viene oggi gravata d'appello per la parte relativa all'oggetto specifico (sostituzione del dispositivo) dell'ordinanza di correzione d'errore. Il primo problema che si pone al collegio è quello relativo dell’ammissibilità dell'appello, che, se non viene contestata per il profilo relativo alla sua esclusiva riferibilità alle sole parti corrette (il che consente di ritenere non eluso il principio della irretrattabilità del giudicato) viene però posta in serio dubbio dall’appellato per il profilo relativo alla tempestività del gravame, notificato dopo la scadenza del termine "breve" per impugnare. Al riguardo il colleggio ritiene che debba farsi riferimento, per la soluzione del problema, alle norme speciali che disciplinano la notificazione delle sentenze di prirno grado ai fini della decorrenza del termine breve con particolare riguardo all'art. 285 c.p.c., il quale testualmente dispone: “la notificazione della sentenza, al fine della decorrenza del termine per l'impugnazione, si fa, su istanza di parte, a norma dell'art. 170”. Appare evidente la specifica funzione che tale notificazione assolve, acceleratoria del giudizio di cognizione, facendo decorrere il termine c.d. "breve" per la proposizione dell'appello, in luogo di quello c.d "lungo" (in realtà ordinario) altrimenti - in difetto, cioè, di notificazione - ordinariamente applicabile: funzione che la notificazione assolve per corrispondere ad un interesse precipuo della parte vittoriosa in prime cure che è quello di conseguire al più presto la definitività della pronuncia ottenuta e quindi i1 celere soddisfacimento del diritto fatto valere in giudizio. Un tale interesse, evidentemente, è del tutto estraneo alla segreteria della Sezione, la cui attività di informazione dell’avvenuto deposito della sentenza, pur eventualmente qualificata come notifica della stessa, ha in realtà finalità di mera, doverosa comunicazione ed è per tale ragione insuscettibile (al di la della sua formale ma impropria qualificazione come notifica) di produrre l'effetto specifico della decorrenza del termine breve per impugnare, esperibile dalla sola parte. Sul punto, conclusivamente, concordando con la tesi dell'Avvocatura e con le ulteriori considerazioni dalla medesima svolte nell'atto scritto, il collegio ritiene l'appello tempestivo e quindi ammissibile. L'appello e altresi fondato, per le ragioni seguenti. L'ipotesi che ricorre nella singolare fattispecie all'esame è quella del contrasto tra dispositivo letto all'udienza e dispositivo scritto in sentenza, il quale ultimo è però del tutto coerente con l’impianto motivazionale della sentenza, rispecchiandone le argomentazioni in relazione all'andamento della pubblica udienza di discussione. Il difensore della parte oggi appellata sostiene che in tale ipotesi deve darsi prevalenza al dispositivo letto all'udienza, poichè questo, mediante la pubblicazione con la lettura in udienza ai sensi dell'art. 420 c.p.c., cristallizza stabilmente il decisum, precludendone il ripensamento, in un momento successivo, da parte dello stesso giudice. L'assunto non è infondato, considerata la peculiarità del processo del lavoro nel quale la disposizione citata si inserisce e potrebbe in astratto condividersi anche nel contesto del processo 208 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 pensionistico, che del rito del lavoro ha mutuato taluni circoscritti e ben individuati istituti. Considera però il collegio che, in assenza di tempestivo appello della sentenza come originariamente redatta per far valere come motivo di gravame la nullità conseguente al suddetto contrasto (ai sensi dell'art. 16 c.p.c.) e per il sovrapporsi di molteplici differenti iniziative giudiziarie dell'interessato sfociate in pronunciamenti di vari organi, monocratici e collegiali, non sempre coerenti e lineari, si è pervenuti in fine ad una sentenza che, a seguito della correzione apportata alla sola parte dispositiva (che viene in questa sede impugnata, fermo il resto, passato in giudicato) è palesemente errata e deve essere pertanto riformata. Il diritto alla corresponsione dell'indennità integrativa speciale e della tredicesima mensilità sulla pensione tabellare è soggetto alla prescrizione quinquennale (non decennale, come ipotizzato in via gradata dal difensore dell'appellato nell'atto scritto: argomento peraltro non coltivato nell'odierno intervento orale) che, nel caso di specie, e stata ntualmente eccepita in giudizio e della quale il giudice ha tenuto debito conto in motivazione. Ciö comporta che il dispositivo risultante dal nuovo testo della sentenza, che non considera la prescrizione, è palesemente errato e va conseguentemente corretto in questa sede. In senso contrario il difensore dell'appellato sostiene che, da combinato disposto degli articoli 420 e 416 c.p.c. (secondo il quale nella memoria di costituzione debbono essere proposte a pena di decadenza 1e eventuali domande in via riconvenzionale e le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d'ufficio), deve concludersi che “l’eccezione di prescrizione sollevata dall’amministrazione sic et simpliciter in udienza é da ritenersi irrituale, inamrnissibile, tardiva e pertanto non meritevole di accoglimento”. Su tale tesi - già disattesa dal primo giudice - il collegio non può convenire, alla luce del principio di diritto enunciato dalle Sezioni riunite con sentenza n. 2/2008/QM del 21 febbraio 2008. Hanno statuito le Sezioni riunite che non può affermarsi che nel processo pensionistico dinanzi alla Corte dei conti le eccezioni processuali o di merito non rilevabili d'ufficio debbono necessariamente proporsi, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta, non solo perché una tale preclusione non è desumibile dal rinvio al codice di procedura civile contenuto nell'art. 26 del RD n. 1038 del 1933, ma anche perché non sussiste in tale processo (come invece indubbiamente sussiste nel rito del lavoro) l'affermata necessaria strumentalità dell'art. 416 c.p.c. (non espressamente richiamato dall'art. 5, comma 2 della legge n. 205 del 2000) rispetto al disposto di cui all'art. 420, comma primo, ultima parte (espressamente, invece, richiamato). Conclusivamente, l'appello in epigrafe viene accolto e il dispositivo della sentenza n. 746/02, come corretto dall'ordinanza n. 248/11 della Sezione giurisdizionale per la Regione Puglia, viene riformato nel senso della declaratoria di prescrizione delle somme arretrate a titolo di indennità integrativa speciale e di tredicesirna mensilità sui ratei pensionistici maturati fino al quinquennio precedente la data dell'11 aprile 2001 e dunque fino all'11 aprile 1996. Non vi è luogo a pronuncia sulle spese di giudizio, in ragione del principio di gratuità che assiste il contenzioso pensionistico; le spese di lite vanno invece poste a carico della parte soccombente e vengono liquidate come da dispositivo P.Q.M. La Corte dei conti, Sezione Terza Centrale d'Appello, definitivamente pronunciando, accoglie l'appello in epigrafe e, per l'effetto, riforma il dispositivo della sentenza impugnata come corretta con ordinanza, nei termini di cui in parte motiva. Nulla per le spese di giustizia. Spese legali a carico del soccombente, nell'importo di euro 500,00 (cinquecento/00). Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 19 ottobre 2012. CONTENZIOSO NAZIONALE 209 Silenzio assenso ed ipotesi non regolate di nulla osta paesaggistico: l’interpretazione teleologica del Consiglio di Stato (Nota a Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 21 giugno 2011 n. 3723) Sibilla Ottoni* La disciplina del silenzio significativo di un’amministrazione preposta alla tutela del vincolo paesaggistico si pone, nell’attuale assetto ordinamentale amministrativo, all’incrocio dei venti tra le istanze di semplificazione e quelle di tutela rafforzata di alcuni interessi particolarmente sensibili. Nell’impianto del capo IV della L. 241/90 è possibile infatti riscontrare la ripetuta menzione di alcuni interessi cui il legislatore ha voluto riconoscere uno status di tutela rafforzata: sicurezza, salute, ambiente, patrimonio artistico e paesaggistico, che si ritrovano nei “dissensi qualificati” espressi in seno alla conferenza di servizi, giustificano l’improcedibilità in caso di mancato rilascio del parere in materia, sono esclusi dall’ambito di applicazione della Segnalazione certificata di inizio attività (d’ora in poi “scia”) e del silenzio assenso. Rispetto all’interesse ambientale e paesaggistico, in particolare in materia di silenzio assenso, il problema si è posto di recente in giurisprudenza a fronte dell’esistenza, nella normativa di settore, di ipotesi non regolate di silenzio delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo. 1. Il Consiglio di Stato si è occupato, nella sentenza n. 3723 del giugno 2011 (1), della qualificazione del silenzio di un’amministrazione preposta alla tutela del vincolo ambientale e paesaggistico, in sede di rilascio di accertamento di conformità di un’opera edificata in difformità dal titolo. Nella specie, il Collegio affronta la questione dell’applicabilità a tale fattispecie della disciplina del silenzio assenso prevista, per il rilascio del nulla osta preventivo, dall’art. 13 della l. 394/1991, recante la disciplina delle aree protette. Tale pronuncia afferma in sintesi che i procedimenti edilizi in sanatoria, attengano a condono edilizio o ad accertamento in conformità, costituiscono situazioni di contrarietà all’ordinamento giuridico, superabili soltanto attraverso una rivalutazione espressa di tutti i profili attinenti la possibilità di sanatoria. Di con- (*) Dottoranda in diritto amministrativo, Università di Roma “La Sapienza” e Univérsité Panthéon- Assas Paris II. Già praticante presso l’Avvocatura dello Stato. L’articolo è stato redatto poco prima del Disegno di legge sulle Semplificazioni bis - ottobre 2012 - Disegno di legge che sul punto che qui interessa ha suscitato unanime dissenso nel mondo ambientalista. (1) Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza breve 21 giugno 2011 n. 3723, di riforma dalla sentenza breve TAR Campania-Salerno, Sez. II, 28 settembre 2010 n. 11140. 210 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 seguenza, la disciplina del silenzio assenso in materia di nulla osta paesaggistico, prevista dall’art. 13, l. 6 dicembre 1991 n. 394, non si applica alle fattispecie di sanatoria edilizia, che rispondono alla diversa ratio della necessità di un provvedimento espresso. Sarà utile ripercorrere brevemente gli snodi principali della motivazione. L’oggetto della controversia è un abuso edilizio commesso nell’area del Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diano (2). Le opere abusive, relative ad un fabbricato agricolo, erano realizzate in difformità rispetto all’originario titolo abilitativo; ciò provocava il diniego del nulla osta da parte dell’Ente parco, in sede di accertamento di conformità. Tale diniego veniva impugnato dai proprietari del fabbricato, con ricorso accolto dal TAR Campania, ma respinto dal Consiglio di Stato sulla scorta delle motivazioni che si andranno ad esporre. La parte privata aveva richiesto ed ottenuto un permesso di costruire al fine di procedere alla ristrutturazione del fabbricato; al permesso accedeva il nulla osta preventivo dell’Ente parco, rilasciato a condizione del rispetto di alcune misure di mitigazione, posto che la zona è soggetta a vincolo paesaggistico. In sede di esecuzione dei lavori, tuttavia, venivano eseguite opere decisamente difformi rispetto a quelle a cui il titolo edilizio abilitava, posto che invece di procedere ad una ristrutturazione, i proprietari demolivano ed in seguito ricostruivano il fabbricato. Contestualmente, veniva presentata una denuncia di inizio attività (d’ora in poi “dia”) al comune di Camerota (nel cui territorio si trova il fabbricato), che a sua volta trasmetteva la pratica all’Ente parco per l’acquisizione del parere sulla compatibilità paesaggistica (il cui accertamento postumo era stato ammesso dalla Soprintendenza). A lavori ultimati, il fabbricato veniva sequestrato dalla Guardia di Finanza per totale difformità dal permesso di costruire, asserita la non validità della dia in quanto carente del parere di conformità paesaggistica. Con provvedimento espresso, veniva successivamente negato il nulla osta, ritenendo l’intervento in contrasto con le norme di attuazione del Piano del Parco. Tale diniego era impugnato dinanzi al TAR Campania, con la motivazione che sull’istanza si sarebbe medio tempore formato silenzio assenso. Secondo tale ricostruzione, il successivo provvedimento di rigetto avrebbe dovuto piuttosto considerarsi adottato in autotutela. Il giudice di primo grado avallava tale ricostruzione, applicando alla fattispecie in esame la disciplina dell’art. 13 L. 394/91, che applica il silenzio assenso al nulla osta paesaggistico preventivo, ed annullava il provvedimento di diniego. A seguito di appello proposto dall’Ente parco, il Consiglio di Stato nella pronuncia che oggi si annota rovescia la soluzione appena prospettata, riforma la sentenza di primo grado e rigetta per l’effetto il ricorso originario. (2) Si tratta di zona A1 della perimetrazione del Parco (definita, dalle Misure di Salvaguardia allegate al DPR istitutivo del Parco, come zona di rilevante interesse naturalistico, paesaggistico e culturale). CONTENZIOSO NAZIONALE 211 Basandosi sui rilievi svolti dall’Avvocatura di Stato per l’Ente appellante, ritengono i giudici di Palazzo Spada che la soluzione data dal TAR nasca da un errato inquadramento dell’istituto del nulla osta paesaggistico rilasciato in sede di accertamento di conformità. A questo non si applicherebbe la disciplina del silenzio assenso tipica delle norme sul nulla osta preventivo di cui alla normativa delle aree protette (il citato art. 13, L. 394/91), bensì il regime, opposto, del silenzio rigetto, essendo esso riconducibile ad un procedimento di sanatoria edilizia (art. 36, DPR 380/2001) e non al rilascio di un titolo preventivo. Il Consiglio di Stato, in assenza di una specifica disciplina, si è preoccupato quindi di individuare la ratio dell’istituto, onde ricondurlo ad uno o all’altro modello e ricavare di conseguenza il regime del silenzio applicabile. Il Consiglio di Stato fa altresì un veloce riferimento all’art. 16 della l. 241/90, recante la disciplina generale dei pareri (3). Tale ultima norma, come si è già ricordato, nel caso di parere rilasciato da un ente preposto alla tutela dell’interesse ambientale, paesaggistico o territoriale, non permette all’amministrazione procedente di prescindere dallo stesso né di supplire con meccanismi devolutivi. Viene così a configurarsi, secondo la giurisprudenza (4), un’ipotesi implicita di silenzio rifiuto; e comunque, in tali casi l’inerzia dell’amministrazione che deve rilasciare il parere provoca inevitabilmente il silenzio dell’amministrazione procedente, questo sì espressamente qualificato come silenzio rifiuto (5). Sebbene il nulla osta dell’Ente parco - in qualunque sede rilasciato - non sia qualificabile come parere bensì, più propriamente, rientri nel novero degli strumenti autorizzatori (6), il richiamo a tale disciplina serve a completare la collocazione sistematica dell’interesse ambientale e paesaggistico nel procedimento, ed infatti l’art. 16 è richiamato a sostegno delle proprie tesi dall’Avvocatura di Stato, nonché riproposto dal Consiglio di Stato nella parte motiva della sentenza. 2. Basandosi anche sulla tutela rafforzata dell’interesse ambientale e paesaggistico che emerge dal quadro normativo appena richiamato, il Consiglio di Stato ha incentrato la propria motivazione sul vaglio delle norme in materia di sanatoria edilizia, al fine di riscontrare una comune ratio che le rendesse applicabili per analogia al caso di specie. Da tale analisi, già svolta nell’atto di appello dell’Avvocatura dello Stato, è emerso che il procedimento di sana- (3) Si vedano anche, a riguardo, le già richiamate modifiche introdotte dal d.l. 70/2011 (Decreto sviluppo) all’art. 20 del T.U. sull’edilizia, che espressamente prevedono che in caso di parere da acquisire nell’ambito del procedimento di rilascio del permesso di costruire, l’esito negativo si ripercuota sulla mancata adozione del provvedimento finale, configurando silenzio rifiuto, su cui cfr. supra. (4) Cons. St., Sez. IV, 14 settembre 2005, n. 4751; Cass. civ., Sez. I, 27 giugno 2005, n. 13479; Cons. St., 31 marzo 2009, Sez. IV, n. 2024/2009; tutte in www.giustizia-amministrativa.it. In dottrina, R. GAROFOLI - G. FERRARI, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2010, 630. (5) Dall’art. 36 DPR 380/01. (6) Attraverso il rilascio del nulla osta, infatti, l’Amministrazione provvede a rimuovere un limite legale, su istanza dell’interessato, all’esercizio di un diritto soggettivo preesistente in capo al soggetto istante. 212 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 toria edilizia (sia esso vero e proprio condono, o accertamento di conformità) richiede sempre a conclusione un provvedimento espresso. Per l’accertamento di conformità, ciò è richiesto dall’art. 36 del D.P.R. 380/01, dove è previsto che l’autorità comunale debba pronunciarsi con provvedimento espresso nel termine di 60 giorni dalla domanda, decorsi i quali essa si intende rifiutata; così è anche per il condono edilizio di cui all’art. 32 della L. 47/85, ove all’eventuale silenzio viene attribuito il valore di rifiuto del provvedimento in sanatoria. Nello stesso senso, il Consiglio di Stato richiama anche la L.R. Campania 22 dicembre 2004, n. 14, che rispetto agli accertamenti in conformità in materia edilizia prevede una forma di silenzio devolutivo, per cui in caso di inerzia dell’amministrazione comunale la questione è rimessa a quella provinciale. Si legge nella sentenza che “il senso di tali previsioni normative è che un abuso edilizio, quale che sia la sua natura (meramente formale o sostanziale), cristallizza plasticamente una situazione di contrarietà del fatto all’ordinamento giuridico, superabile soltanto a mezzo di una rivalutazione espressa di ogni profilo suscettibile di incidere sulla concreta possibilità di “sanare” l’abuso edilizio, sulla scorta di un puntuale esame nel merito di tutti gli interessi pubblici implicati”. Il giudice sembra, cioè, estrapolare un principio: i provvedimenti di sanatoria in materia edilizia ed urbanistica necessitano una forma espressa di manifestazione della volontà di regolarizzare l’abuso. Di qui la conclusione che il silenzio assenso previsto dall’art. 13 L. 394/91 si riferisca esclusivamente al nulla-osta paesaggistico preventivo, e non a quello rilasciato in sede di accertamento di conformità. La disciplina del parere dell’Ente preposto al vincolo, quando espresso in sede di sanatoria, sarà ispirata al medesimo principio, per cui sarà necessario un provvedimento espresso, e l’eventuale inerzia dovrà essere considerata come rifiuto. Si è scelto quindi di estendere al parere paesaggistico il regime del silenzio previsto per il rilascio del titolo edilizio in sanatoria, in ragione di una identità di ratio tra provvedimenti ugualmente attinenti la regolarizzazione di un precedente abuso. Tale soluzione, che apre ad ulteriori riflessioni in materia di ricorso all’analogia, risulta comunque corretta, posto che il ruolo dell’interesse ambientale e paesistico all’interno dell’ordinamento è tale da non lasciare spazio a dubbi circa l’impossibilità di applicargli istituti di semplificazione. 3. Tale pronuncia offre interessanti spunti di riflessione rispetto alla tematica della semplificazione amministrativa in materie ritenute dal legislatore particolarmente sensibili. Nell’impianto della L. 241/90 si riscontra infatti una tutela rafforzata dell’interesse paesistico, incluso nel novero di quelli che resistono alla semplificazione, non solo provvedimentale ma anche procedimentale (7). Si tratta di materie considerate sensibili, riconducibili ai principi costituzionali di egua- CONTENZIOSO NAZIONALE 213 glianza, solidarietà, tutela della persona e della salute (8). La menzione di siffatti interessi, tra cui appunto quello paesaggistico-ambientale (9), è ricorrente, posto che la si ritrova nella disciplina del silenzio (10), dei pareri (11), della scia (12) (7) Si veda, sul silenzio procedimentale, R. GAROFOLI - G. FERRARI, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2010, 629 ss. (8) Si veda G. MORBIDELLI, Il silenzio-assenso, in La disciplina generale dell’azione amministrativa, a cura di V. CERULLI IRELLI, Napoli, 2006, 268 ss. (9) Sulle diverse nozioni di paesaggio ed ambiente, certamente correlate ma non sovrapponibili, si veda N. PAOLANTONIO, Beni culturali, beni paesaggistici e tutela dell’ambiente, in Diritto amministrativo, a cura di F.G. SCOCA, Torino, 2008, 691 ss., ove i doverosi riferimenti alla giurisprudenza costituzionale che ha definito i due concetti. (10) Per quanto attiene specificamente ai settori esclusi, la lettera originaria dell’art. 20 rimetteva ad un regolamento governativo (d.p.r. 300 del 26 aprile 1992, lo stesso che disciplinava i casi di applicabilità della dia) la definizione delle ipotesi di silenzio assenso, escluso dalla giurisprudenza per gli atti per cui fosse previsto l’esperimento di prove, o nei settori soggetti a contingentamento, o per gli atti passibili di compromettere valori storico-artistici-culturali o il rispetto delle norme a tutela del lavoratore: Cons. St., Ad. Gen., n. 27/1992, in Foro it., 1992, III, 200. Dall’elencazione pretoria degli interessi limitativi dell’applicabilità del silenzio assenso era sparita (temporaneamente) la tutela dell’ambiente e del paesaggio; restava tuttavia fermo il concetto della necessità di una tutela rafforzata per alcuni interessi primari, che non avrebbero potuto essere sacrificati né messi in pericolo se non attraverso un’analisi espressa del merito della situazione. Le modifiche portate all’art. 20 dalla l. 80/2005, oltre a reintrodurre l’interesse paesaggistico tra quelli tutelati in modo rafforzato, trasforma il silenzio assenso da istituto a carattere eccezionale ad istituto di applicazione generale. (11) La giurisprudenza ha previsto che il silenzio di un’amministrazione preposta al vincolo paesaggistico- ambientale, in sede di parere rilasciato ad altra amministrazione, non sia superabile ma, se lesivo, impugnabile, e si configuri quindi come silenzio rifiuto (Cons. St., Sez. IV, 18 novembre 1999, n. 1716. In dottrina, si veda VIRGA, Diritto amministrativo. Atti e ricorsi, vol. II, Milano, 2001, 281), il che è certamente configurabile in caso di atti di diniego espresso, ma è stato poi esteso anche alle ipotesi di inerzia (T.A.R. Campania, Napoli, Sez. I, 29 dicembre 2005, n. 20709 e 18 luglio 2005, n. 9921, tutte in www.giustizia-amministrativa.it. In dottrina, E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2011, 455), sempre dove non siano previsti altri meccanismi per superarla (ad esempio, sia previsto un silenzio devolutivo, o sia ammessa la possibilità di prescindere dall’acquisizione del parere o richiederlo ad un soggetto diverso). Tale soluzione non è applicabile ai pareri vincolanti a prescindere dall’interesse tutelato, perché per loro stessa natura essi non possono essere elusi in alcun modo da parte dell’amministrazione richiedente (Cons. St., Sez. IV, 14 settembre 2005, n. 4751; Cass. civ., Sez. I, 27 giugno 2005, n. 13479, tutte in www.giustizia-amministrativa.it. In dottrina, R. GAROFOLI – G. FERRARI, Manuale..., cit., 630). In tal senso, secondo la giurisprudenza, il mancato rilascio del parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico impedisce il formarsi del silenzio assenso sulla domanda di condono edilizio (Cons. St., 31 marzo 2009, Sez. IV, n. 2024/2009, in www.giustiziaamministrativa. it), poiché tale parere avrebbe natura non soltanto obbligatoria, ma anche vincolante (Cons. St., 31 marzo 2009, Sez. IV, n. 2024/2009, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II quater, 27 giugno 2007, n. 5818; T.A.R. Lazio, Roma, 26 novembre 2009, n. 11863, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it). Se ciò non bastasse, l’art. 16, al comma 3, fa espressamente salvi (a prescindere dal loro carattere vincolante) i pareri rilasciati da alcune amministrazioni in ragione della natura primaria degli interessi da esse tutelate, secondo un modello analogo a quello dell’art. 20: è il caso, di nuovo, dei pareri rilasciati da amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistica, territoriale e della salute dei cittadini. (12) In materia di scia, giova ricordare che l’interesse ambientale è incluso dall’art. 19 della L. 241/90 nel novero di quelli che legittimano l’amministrazione all’esercizio dei poteri di autotutela, che permettono di intervenire anche dopo il decorso del termine previsto dal comma 3 per l’esercizio del potere inibitorio, si tratta quindi, anche qui, di una tutela rafforzata. 214 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 e finanche della conferenza di servizi (13). Nel caso specifico del silenzio-assenso e dell’interesse alla tutela del paesaggio e dell’ambiente, la giurisprudenza ha ritenuto che l’art. 20 novellato nel 2005 (che fa del silenzio assenso un istituto di carattere generale) non abbia abrogato l’ art. 13 della L. 394/91, recante la disciplina delle aree protette e che prevede il silenzio assenso per il rilascio del nulla-osta paesaggistico preventivo, posto che la L. 394/91 è normativa speciale rispetto alla L. 241/90 (14). È quindi importante segnalare fin d’ora l’esistenza di una deroga espressa nella normativa di settore, che tuttavia sembra lasciare impregiudicato il principio espresso all’art. 20 rispetto al grado di tutela da accordare all’interesse paesaggistico-ambientale, cui si riconosce rango primario da tutelarsi attraverso la piena applicazione delle garanzie procedimentali e l’esclusione degli istituti di semplificazione. Ciò sembra confermato anche dai più recenti interventi legislativi, come si vedrà immediatamente. 4. Se la materia dell’interesse ambientale e paesaggistico risulta particolarmente resistente alle istanze della semplificazione, al contrario la materia edilizia risulta loro, fin dall’inizio, particolarmente sensibile (15). Le modifiche apportate alla normativa edilizia con il decreto sviluppo del maggio 2011 (16) attengono, tra l’altro, alla natura del silenzio in materia di permesso di costruire, ed all’introduzione dell’istituto della scia in sostituzione di quello della dia edilizia: tali novità meritano una breve analisi, al fine di verificare se ad esse conseguano differenze di regime sostanziali rispetto al tema del silenzio sul nulla osta paesaggistico, nonché se la tutela del relativo vincolo risulti, alla luce delle stesse, in qualche modo rafforzata o indebolita. Il previgente art. 20 del Testo Unico in materia edilizia prevedeva che il permesso di costruire fosse rilasciato dal dirigente o responsabile dell’ufficio unico nel termine di 75 giorni dalla domanda (17), decorso inutilmente il quale sulla domanda si intendeva formato silenzio rifiuto (18). In un’ottica di semplificazione e liberalizzazione delle attività edilizie, il nuovo articolo 20 rovescia quest’impostazione, prevedendo al comma 8 che (13) Tale tendenza non ha mancato di sollevare critiche in dottrina, che l’ha ritenuta una soluzione troppo radicale, che rischia di paralizzare il procedimento proprio in quelle materie ritenute di interesse primario, senza lasciare spazio a soluzioni intermedie e più elastiche. Si veda M. D’ALBERTI, Lezioni di diritto amministrativo, Torino, 2012, 195, 197, 306. (14) Consiglio di Stato, Sez. VI, 29 dicembre 2008 n. 6591, e T.A.R. Puglia, Bari, Sezione II, 14 gennaio 2010 n. 53, in www.giustizia-amministrativa.it. (15) Il primo esempio di silenzio assenso riguarda infatti proprio la disciplina urbanistica: si tratta della previsione di cui all’art. 7 del decreto Nicolazzi del 1982 (Decreto-legge 23 gennaio 1982, n. 9, convertito, con modificazioni, dalla L. 25 marzo 1982, n. 94), che prevedeva l’applicazione di tale istituto per interventi sul territorio, purché non sottoposti a vincoli storico-artistico-culturali e paesaggistici, e purché conformi alle prescrizioni urbanistiche comunali. (16) Decreto Legge 13 maggio 2011, n. 70, in Gazz. Uff. 13 maggio 2011, n. 110, convertito con modificazioni in legge 12 luglio 2011, n. 106, “Semestre europeo – Prime disposizioni urgenti per l’economia”. CONTENZIOSO NAZIONALE 215 il regime generale per il rilascio del permesso di costruire sia quello del silenzio assenso. Il provvedimento di assenso tacito si forma al decorrere infruttuoso del termine di 90 giorni (19) dalla domanda, salvo sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali (20); per queste ultime ipotesi, i successivi commi 9 e 10 prevedono espressamente il regime del silenzio rifiuto (21). La disciplina risultante dalle modifiche del 2011 sembra quindi molto chiara, così come la ratio che la sottende: la presenza di interessi ambientali e paesaggistici esclude l’applicabilità del silenzio assenso e porta, in caso di avviso negativo, inevitabilmente a provvedimento di rigetto o a silenzio diniego dell’amministrazione procedente. Così è a prescindere dalla natura dell’atto dell’ente garante del vincolo, posto che i suoi pareri sono vincolanti (se non rilasciati, paralizzano il provvedimento principale ex art. 16, L. 241/90) ed il suo nulla osta è condizione di legittimità del titolo edilizio. 5. Per concludere la panoramica sugli aggiornamenti normativi apportati dal decreto sviluppo del 2011, è necessario un riferimento all’istituto della dia edilizia. L’art. 22, comma 6, del Testo unico prevede che, nel caso di immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistica-ambientale, la realizzazione degli interventi cui si applica la dia sia subordinata al preventivo rilascio del parere o dell’autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative (22). In seguito all’estensione del regime della scia alle attività edilizie sottoposte alla dia ordinaria (23), la novità di maggior rilievo sembra essere quella apportata dall’articolo 5, comma 2, lett. c) del decreto sviluppo: è infatti espressamente specificato che, nei casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali, la scia non sostituisca gli atti di autorizzazione o nulla osta, comunque denominati, delle amministrazioni preposte alla relativa tutela (24). Tale norma è interpretativa della previsione generale di cui all’art. 19, L. 241/90, secondo la quale laddove la legge richieda l’acquisizione di pareri di organi o (17) D.P.R. 380/2001, art. 20, nel testo precedente la riforma del 2011, commi 3 e 5, che prevedono rispettivamente il termine di 60 giorni per la formulazione di una proposta di provvedimento da parte del responsabile del procedimento, e di 15 giorni dalla ricezione della proposta per l’adozione del provvedimento finale, salvo il caso di interruzione finalizzata all’integrazione documentale. A prevedere che questi termini siano raddoppiati in caso di comuni con popolazione superiore ai 100.000 abitanti è il successivo comma 8. (18) D.P.R. 380/2001, art. 20, nel testo precedente la riforma del 2011, comma 9. (19) D.P.R. 380/2001, art. 20, commi 3 e 6, che prevedono rispettivamente i termini di 60 giorni per la presentazione della proposta, e di 30 per l’adozione del provvedimento definitivo. (20) D.P.R. 380/2001, art. 20, comma 8. (21) Rispettivamente per i casi in cui la tutela competa, anche in via di delega, all’amministrazione comunale, e per quelli in cui competa ad altra amministrazione. (22) D.P.R. 380/2001, art. 22 (non toccato dalla novella del 2011), comma 6, in cui sono richiamate espressamente le previsioni di cui al d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490. (23) E non già la scia alternativa al permesso di costruire. Il legislatore risolve così un dubbio che si era creato fin dall’introduzione della scia, con l’entrata in vigore della l. 122/2010. (24) Tale previsione è operata mediante il richiamo, all’art. 2° comma 3, TU Edilizia, dell’art. 5 comma 4, che a sua volta alla lettera i) richiama il nulla osta di cui all’art. 13, L. 394/91. 216 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 enti, questi sono comunque sostituiti dalle autocertificazioni, attestazioni e asseverazioni o certificazioni di cui all’articolo stesso (25). Il decreto sviluppo risolve così la questione della applicabilità della scia ai casi di interventi edilizi da attuare in zona di vincolo paesaggistico (o ambientale o culturale) (26). Alla luce di questo breve aggiornamento, non sembra potersi concludere che la tutela dell’interesse paesistico-ambientale abbia subito un ridimensionamento da parte del legislatore rispetto allo scenario preesistente. Al contrario sembra ormai consolidata, soprattutto in materia edilizia, l’esigenza di garantire a quest’interesse una tutela di rango primario, giustificativa di regimi speciali in tutte le fasi procedimentali in cui sia coinvolta un’amministrazione preposta alla tutela del relativo vincolo. L’interesse paesaggistico-ambientale, al pari di quello culturale e di altri interessi connessi all’incolumità ed alla salute pubblica, dimostra una resistenza rafforzata alle istanze della semplificazione, in una prospettiva garantista e costituzionalmente orientata. 6. Al di là della particolarità della disciplina della tutela paesaggisticoambientale, nella pronuncia in esame si è prospettata una soluzione che dà adito ad alcune riflessioni ulteriori sul tema dei meccanismi interpretativi capaci di colmare eventuali lacune normative. Riassumendo brevemente, il problema che si è posto è quello dell’assenza di una disciplina puntuale del parere di conformità o nulla osta paesaggistico, rilasciato dall’Ente parco nell’ambito di un procedimento di sanatoria di abusi edilizi di competenza dell’amministrazione comunale. La normativa più “vicina” a questa fattispecie è costituita, per un verso, dall’art. 13 della L. 394/1991 sul procedimento di nulla osta paesaggistico preventivo e, per un altro, dalle norme del D.P.R. 380/2001 in materia di sanatoria di abusi edilizi. Il Consiglio di Stato ha risolto nel senso dell’applicabilità del regime da ultimo richiamato, perché partecipe della medesima ratio di regolarizzazione di un (25) La natura giuridica della scia è stata peraltro di recente chiarita dal Consiglio di Stato nell’Adunanza Plenaria n. 15/2011, che ha compiuto una minuziosa ricostruzione dell’istituto e delle tesi che si sono alternate circa la sua natura. La conclusione raggiunta propende per l’identificazione dell’effetto abilitativo, prodottosi col decorso infruttuoso del termine previsto per l’esercizio dl potere inibitorio, con un silenzio significativo dell’amministrazione, da identificarsi in silenzio rifiuto del provvedimento. Si veda anche, a riguardo, M.A. SANDULLI, Primissima lettura della Adunanza plenaria n. 15 del 2011, in Federalismi.it, 2011, 18, e Dalla d.i.a. alla s.c.i.a.: una liberalizzazione “a rischio”, in Rivista giuridica dell’edilizia, 6, 2010, 465. (26) Su tale normativa è nuovamente intervenuto il legislatore con il D.l. 22 giugno 2012, n. 83, recante “Misure urgenti per la crescita del Paese”, in Gazz. Uff. 26 giugno 2012, n. 147, Suppl. Ordinario n. 129, convertito, con modificazioni, in L. 7 agosto 2012, n. 134. Tale norma, all’art. 13, comma 2-bis, si limita a precisare che i commi 3 e 4 dell’art. 23 si riferiscono ai casi appena richiamati di vincoli non solo ambientali e paesaggistici, ma anche “culturali e degli atti rilasciati dalle amministrazioni preposte alla difesa nazionale, alla pubblica sicurezza, all'immigrazione, all'asilo, alla cittadinanza, all'amministrazione della giustizia”. Resta invariato il contenuto dei commi 3 e 4, per cui la decorrenza dei termini per la dia avviene rispettivamente dal rilascio dell’atto di assenso o dalla decisione della conferenza di servizi, a seconda che alla tutela sia preposta l’amministrazione comunale o altra amministrazione. CONTENZIOSO NAZIONALE 217 abuso, e non invece del regime dell’art. 13 che, pur attinente ad un atto del tutto analogo quanto a contenuto, accede al rilascio di un titolo abilitativo, ed ha quindi carattere preventivo. Una simile conclusione apre a riflessioni ulteriori. La prima è certamente nel senso di condividere la lettura sistematica delle norme fornita dal Consiglio di Stato nella sentenza analizzata, che non soltanto colloca - correttamente - l’accertamento in conformità nell’alveo dei procedimenti in sanatoria, ma inoltre riconosce all’interesse ambientale e paesaggistico un rango primario, non intaccato dalle istanze della semplificazione che hanno reso il silenzio assenso un istituto di carattere generale. Come ricordato anche dall’Avvocatura di Stato nell’atto d’appello, infatti, lo stesso art. 20 (come modificato nel 2005), sulla scorta della giurisprudenza precedente (27), ha espressamente escluso dal proprio ambito di applicazione alcune materie ritenute sensibili: accanto alle materie legate alla tutela della persona e della salute, sono esclusi i provvedimenti in materie d’interesse culturale, ambientale e paesaggistico. Un pensiero critico può essere tuttavia formulato rispetto al tipo di sindacato esercitato dal Consiglio di Stato nel caso concreto, e cioè la scelta di estendere per via analogica la disciplina dei provvedimenti in sanatoria all’accertamento in conformità. La scelta di coniare un principio ad hoc per applicarlo alla fattispecie non normata si pone in linea con la predilezione per il criterio teleologico cui il giudice amministrativo si è da sempre ispirato, ma fa al tempo stesso riemergere l’antica questione del limite tra applicazione estensiva ed analogia. Quest’ultima era tradizionalmente considerata una tecnica connaturata al sindacato del giudice amministrativo, soprattutto in una fase in cui le lacune della disciplina ne rendevano necessario il ricorso (28). La dottrina più recente ha però sollevato perplessità, in una fase come quella odierna, dove le esigenze di colmare lacune normative sono ormai rare, circa il perdurare di una tale prassi pretoria, non priva di (27) Si rimanda ai richiami di ordine storico già svolti supra ed ai correlati riferimenti giurisprudenziali. Come accennato, la giurisprudenza che riteneva inapplicabile il silenzio assenso a talune materie, tra cui quella della tutela del paesaggio e dell’ambiente, preesiste alla formulazione stessa dell’articolo 20 poiché si è formata nella vigenza della legislazione precedente, in cui il silenzio assenso era previsto da legislazione di settore proprio in materia edilizia ed urbanistica (il citato DL 23 gennaio 1982, n. 9, c.d. decreto Nicolazzi). (28) Il tema dell’analogia nel diritto amministrativo è stato oggetto di dibattito nei primi decenni del secolo ad opera di autori come S. ROMANO, di cui si veda L’interpretazione delle leggi di diritto pubblico, 1899, ora in Idem, Scritti minori, I, Milano, 1950, 115 ss., ed in seguito M. S. GIANNINI di cui si vedano L’interpretazione dell’atto amministrativo, Milano, 1939; L’analogia giuridica, in Jus 1941 e 1942; Polemiche sull’interpretazione, in Riv. Internaz. Fil. Dir., 1941; Il potere discrezionale della pubblica amministrazione. Concetti e problemi, Milano, 1939; ora tutte in Scritti, I, Milano, 2000 e II, Milano, 2002. Il tema è stato poi per lungo tempo abbandonato, a causa probabilmente dell’acquisita consapevolezza della disponibilità piena per il giudice amministrativo di un simile strumento, del resto connaturato alla sua funzione di sindacato delle decisioni amministrative, a loro volta frutto di attività “interpretativa” (secondo la terminologia gianniniana). 218 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 criticità dal punto di vista della certezza del diritto e dell’uguaglianza dei cittadini (29). Tuttavia, in questa stessa prospettiva, l’atteggiamento del Consiglio di Stato potrebbe essere letto in un’ottica più ampia, a testimonianza di un mutamento dello stesso principio di legalità, che da formale diventa sostanziale: dal primato della legge si passa al primato della higher law, ovvero la Costituzione e l’assetto dei “principi materiali di giustizia”(30). L’applicazione e la formulazione stessa di tali principi passa per il tradizionale canone ermeneutico del giudice amministrativo, che è quello teleologico. Non si ha quindi analogia come funzione normativa del giudice, che estende una disciplina positiva esistente ad una fattispecie non regolata, bensì l’estrapolazione e poi l’applicazione di norme di principio come ausilio interpretativo volto a far emergere una ratio già immanente nella norma. Tale approssimativa sintesi di riflessioni ben più articolate deve essere letta nel senso che il bilanciamento tra interessi in conflitto (nel caso odierno, la libertà privata di eseguire opere su una proprietà e la tutela dell’ambiente e del paesaggio) coinvolge tutti i poteri che partecipano del riempimento valoriale della norma. Il bilanciamento è compiuto innanzitutto in sede legislativa: la tutela rafforzata che alcuni interessi ricevono già a livello costituzionale vincola a cascata tutti i successivi attori giuridici; la espressa menzione legislativa dei settori cui applicare o escludere certi istituti sottende una scelta valoriale prettamente politica, non eludibile in sede applicativa. Di tale bilanciamento normativo, la collocazione dell’interesse paesaggistico ed ambientale nel nostro ordinamento rappresenta un chiaro esempio. Sull’operato dell’amministrazione in applicazione della normativa si inserisce poi quello del giudice, che valuta anche e soprattutto il rispetto dei principi, facendosi carico talvolta dell’enunciazione degli stessi, che ricava dalla lettura sistematica delle norme in un’ottica teleologica ed evolutiva. Nella sentenza in esame, il Consiglio di Stato è giunto fino all’enunciazione di un principio che collega la tutela di interessi di rango primario, quale quello paesaggistico-ambientale, agli istituti di semplificazione previsti in via generale dall’ordinamento, per escluderne l’applicazione nel relativo ambito, e collega poi gli istituti di semplificazione con quelli di sanatoria edilizia, per sancirne l’incompatibilità. È indubbio che tale soluzione si ponga in linea di coerenza e continuità con quanto emerge dallo studio complessivo della nor- (29) Le conclusioni più recenti della dottrina in materia di analogia sono metodologiche, più che teoriche: esse vanno nel senso che l’interesse scientifico per l’analogia ha senso soltanto volendone limitare il ricorso da parte del giudice, e che lo strumento migliore a tal fine non è il divieto, bensì il disincentivo, che si ottiene agendo sui motivi che hanno indotto il giudice a farvi ricorso. Si veda per tutti A. ROMANO TASSONE, Sul problema dell’analogia nel diritto amministrativo, in Dir. amm., 2011, 01, 1, cui si rimanda per ogni ulteriore approfondimento in materia. (30) G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite. Legge diritto giustizia, Torino, 1992, 123. Si veda anche A. SANDULLI, La proporzionalità dell’azione amministrativa, Padova, 1998, 13 ss., e dottrina ivi citata. CONTENZIOSO NAZIONALE 219 mativa, speciale e generale, in materia. Il giudice, cioè, ha tradotto in parole quanto già presente, in forma inespressa, nell’ordinamento; può riscontrarsi in ciò una sorta di sinergia tra legislatore, amministrazione e giudice nel plasmare ed applicare principi generali, contribuendo alla coerenza complessiva del sistema. Consiglio di Stato, Sezione Sesta, sentenza 21 giugno 2011 n. 3723 - Pres. Coraggio, Est. Castriota Scanderbeg - Ente Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano (avv. gen. Stato) c. M.A. e A.A.P. (avv. Agosto). 1. L’Ente parco nazionale del Cilento e Vallo di Danio impugna la sentenza del Tar Campania, sez. di Salerno, n. 11140 del 2010, resa in forma semplificata, che ha accolto il ricorso degli odierni appellati avverso il diniego di nulla-osta adottato dall’appellante nell’ambito di un procedimento di accertamento di conformità afferente taluni interventi edilizi su fabbricato agricolo realizzati in difformità rispetto all’originario titolo abilitativo. 2. Si è costituita la parte appellata per resistere al ricorso e per chiederne la reiezione. Gli appellati hanno altresì proposto appello incidentale, riproponendo con tale mezzo i motivi rimasti assorbiti nella sentenza di primo grado. 3. All’udienza camerale del 24 maggio 2011, fissata per la delibazione dell’istanza di sospensione dell’efficacia della sentenza impugnata, la causa, previa comunciazione ai difensori delle parti, è stata trattenuta per la decisione in forma semplificata. 4. Ritiene inanzitutto il Collegio che la manifesta fondatezza nel merito dell’appello consente la definizione del giudizio con sentenza breve, ai sensi del combinato disposto degli artt. 60 e 74 del cod. proc. amm.. 4.1 La questione centrale da dirimere attiene alla applicabilità anche ai procedimenti di sanatoria edilizia (e quindi non soltanto limitatamente ai casi ordinari di interventi edilizi ancora da realizzare) dell’art.13 della legge 6 dicembre 1991 n. 394 (recante, nell’insieme, la disciplina normativa delle aree protette). 4.2 Ed invero, nel caso oggetto di causa, in cui i ricorrenti di primo grado, in sede di ristrutturazione di un fabbricato agricolo, hanno eseguito consistenti opere in difformità rispetto all’originario titolo edilizio ed hanno per conseguenza avviato un procedimento di accertamento di conformità (ai sensi dell’art. 36 del d.P.R. n. 380/01), la questione da decidere è appunto se si sia legittimamente formato per silentium il titolo assentivo ben prima della adozione del diniego espresso dell’Ente parco, intervenuto oltre il termine di 60 giorni dalla richiesta di nulla-osta da parte del Comune di Camerota (ove l’immobile si trova). Nella impugnata sentenza il Tar, in accoglimento del ricorso, ha ritenuto che si fosse formato il provvedimento abilitativo per silentium già al momento dell’adozione, da parte dell’Ente appellante, del gravato atto negativo ed ha conseguentemente annullato il diniego di nulla-osta. 4.3 La censura principale sollevata dall’Ente appellante è al contrario affidata al rilievo secondo cui, nei procedimenti di sanatoria edilizia (attengano questi a veri e propri procedimenti di condono edilizio ovvero, come nella specie, ad atti di accertamento di conformità), sia sempre necessario un provvedimento espresso, con la conseguente piena legittimità del diniego adottato. La censura è fondata. Nel procedimento di accertamento di conformità previsto dall’art. 36 del d.P.R. n.380/01 (at- 220 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 tivato nel caso di specie ad iniziativa della odierna parte privata appellata) è espressamente previsto che l’autorità comunale deve pronunciarsi con provvedimento espresso e con adeguata motivazione nel termine di 60 giorni dalla domanda; decorso tale termine la richiesta si intende rifiutata. Analoga scelta è compiuta in materia di condono edilizio (art. 32 L.n. 47/85), ove al silenzio viene attribuito il significato legale tipico di rifiuto di provvedimento di sanatoria. Il senso di tali previsioni normative è che un abuso edilizio, quale che sia la sua natura (meramente formale o sostanziale), cristallizza plasticamente una situazione di contrarietà del fatto all’ordinamento giuridico, superabile soltanto a mezzo di una rivalutazione espressa di ogni profilo suscettibile di incidere sulla concreta possibilità di l’abuso edilizio, sulla scorta di un puntuale esame nel merito di tutti gli interessi pubblici implicati. Della stessa ratio partecipa d’altra parte l’art. 16 della legge n. 241/90 nella parte in cui non ritiene surrogabile il parere espresso dalle autorità preposte alla tutela di beni paesaggistici ed ambientali, in tale ambito potendosi al più prevedere ipotesi di silenzio devolutivo (che comportano quindi la traslazione della determinazione alla istanza superiore) ma non di silenzio assenso. 4.4 In definitiva dal sistema normativo (brevemente in particolare, art. 36 d.P.R. n. 380/01; art. 32 della legge n. 47/85; art. 16 della legge n. 241/90) sembra trarsi il principio, peraltro rispondente ad intuibili esigenze di ragionevolezza e di buon andamento dell’azione amministrativa, secondo cui i provvedimenti di sanatoria, in materia edilizia ed urbanistica, necessitano per regola generale di una forma espressa e non tacita di manifestazione di volontà delle amministrazioni coinvolte nel rilascio del provvedimento assentivo, salvo ipotesi derogatorie introdotte in particolari settori dal legislatore con disposizioni normative ad hoc. Inserita in tale contesto normativo la dianzi citata disposizione (art. 13 L. 394/91) va quindi letta ed interpretata nel senso che essa trovi applicazione con riguardo agli interventi edilizi da realizzare e non invece ai procedimenti di sanatoria di opere abusive già realizzate. Ne viene che correttamente l’Ente parco deduce la inconfigurabilità della formazione di una fattispecie assentiva per silentium in un caso in cui la nuova opera realizzata dagli odierni appellati si appalesa contrastante non soltanto con l’originario titolo edilizio, ma anche con le nuove previsioni del piano del parco approvato nel 2009 (che non consentono nuovi interventi edilizi nelle zone a protezione integrale quale appunto quella in cui ricade l’immobile de quo). 5. A conclusioni non diverse peraltro conduce l’esame dell’art. 43 della LR della Campania 22 dicembre 2004 n. 14 nella parte in cui, in materia di accertamenti di conformità delle opere edilizie abusive, prevede un’ipotesi di silenzio devolutivo in favore dell’ente provinciale, nel caso in cui sulla richiesta di accertamento di conformità resti inadempiente l’amministrazione comunale. Al contrario di quanto sostenuto dalla difesa dell’appellato, anche in sede di discussione orale, la disposizione normativa appena citata conforta nella tesi secondo cui, nella materia dei provvedimenti clemenziali propri del settore urbanistico-edilizio, il legislatore mostra di preferire, anche quando adotta il meccanismo del cosiddetto silenzio devolutivo, l’opzione del provvedimento formale espresso, e ciò in considerazione dei rilevanti interessi pubblici connessi alla tutela del territorio e del paesaggio, a fronte dell’interesse privatistico alla sanatoria dell’opera abusivamente realizzata. 6. Da ultimo, alla luce dei rilievi svolti e della interpretazione che si è data al quadro normativo di riferimento, va osservato che in contrario avviso non può indurre la sentenza di questa Sezione 29 dicembre 2008 n. 6591, nella parte in cui la stessa si è pronunciata per la non abrogazione tacita dell’art. 13 della legge 6 dicembre 1991 n. 394 a seguito della entrata in vigore della legge 14 maggio 2005 n. 80 (che, nell’innovare il contenuto dell’art. 20 della legge 241 del 1990 ha escluso che l’istituto generale del silenzio-assenso possa trovare applicazione in CONTENZIOSO NAZIONALE 221 materia di tutela paesaggistica). Per quanto detto, l’ipotesi di provvedimento per silentium, prevista dal citato art. 13 della legge n. 394 del 1991, riguarda gli interventi edilizi a farsi e non già quelli già abusivamente realizzati, in ordine ai quali l’interessato deve necessariamente attendere un provvedimento espresso di sanatoria da parte di tutti i soggetti pubblici coinvolti nel procedimento funzionale al rilascio del titolo assentivo. 7. Quanto ai motivi assorbiti, va anzitutto disatteso il motivo di primo grado afferente la pretesa incompetenza del direttore del parco ad adottare il provvedimento del tipo di quello impugnato, sollevato sotto il profilo che sarebbe invece competente il responsabile dell’area tecnica. 7.1 Osserva al riguardo il Collegio che per un verso il direttore del parco, in quanto affidatario, a termini dello Statuto dell’ente (art. 26), di un’ampia competenza in merito all’adozione degli atti di gestione amministrativa (compresi gli atti aventi rilevanza esterna) non risulta essere soggetto incompetente ad adottare ed a trasmettere al Comune di Camerota il contestato diniego di nulla-osta; per altro verso, non può dirsi sussistere un autonomo interesse, in capo ai ricorrenti di primo grado, a coltivare la detta censura di incompetenza una volta acclarato che, in tema di sanatoria edilizia, il silenzio non equivale a provvedimento assentivo, di tal che la soddisfazione della pretesa fatta valere dagli originari ricorrenti non può che attuarsi attraverso la espressa e positiva delibazione della compatibilità dell’intervento realizzato con le preminenti esigenze di tutela del parco. 7.2 Ancora, non meritano condivisione le censure di primo grado afferenti le pretese violazioni delle disposizioni afferenti la partecipazione procedimentale (sia sotto il profilo della violazione dell’art. 7 che dell’art. 10 bis della legge n. 241/90) avuto riguardo alla ininfluenza causale dell’apporto partecipativo che avrebbero potuto fornire gli interessati, a fronte della conclamata contrarietà dell’intervento edilizio eseguito alla tipologia degli interventi nella zona di protezione integrale in cui ricade l’area interessata. 7.3 Non convince, da ultimo, la prospettazione dei ricorrenti originari secondo cui, trattandosi di immobile esistente da tempo immemorabile, non sarebbe stata necessaria alcuna autorizzazione preventiva dell’Ente parco da rilasciare ai sensi dell’art.7 del d.P.R. 5 giugno 1995 (istitutivo del parco del Cilento). Osserva il Collegio che, al contrario, l’autorizzazione dell’Ente parco doveva ritenersi necessaria (come correttamente ritenuto in sede procedimentale dal Comune di Camerota e dallo stesso Ente parco) proprio in considerazione delle rilevanti modifiche apportate dai ricorrenti al vecchio fabbricato rurale ed introdotte in sede di (non autorizzata) demolizione e ricostruzione del manufatto (essendo consistite, in particolare, dette modifiche nell’uso di materiali edilizi vietati dall’originario titolo nonché nella realizzazione di un nuovo vano interrato). 8. In definitiva, l’appello principale va accolto e, in riforma della impugnata sentenza, va respinto il ricorso originario della attuale parte appellata; va altresì respinto l’appello incidentale. 9. Le spese di lite del doppio grado di giudizio possono essere compensate tra le parti, in considerazione della particolarità della vicenda trattata e del suo particolare epilogo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) definitivamente pronunciando in forma semplificata sul ricorso (r.g. n 2637/2011), come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto, in riforma della impugnata sentenza, respinge il ricorso di primo grado. Respinge altresì l’appello incidentale. Spese del doppio grado compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 24 maggio 2011. 222 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Parametri europei (e nazionali) per l’identificazione di “una unità istituzionale pubblica” (Annotazione a Consiglio di Stato, Sezione Sesta, sentenza 28 novembre 2012 n. 6014) La sentenza riguarda il tema dell’individuazione degli enti che l’ISTAT può legittimamente inserire nell’elenco delle amministrazioni pubbliche redatto ai sensi del Regolamento CE n. 2223/96 del 25 giugno 1996 del Consiglio, relativo al “Sistema europeo dei conti nazionali e regionali nella Comunità Ue” (SEC 95). Il Consiglio di Stato ha stabilito che si può ravvisare una ”unità istituzionale pubblica” (secondo la definizione comunitaria) laddove sussistano, separatamente o congiuntamente, i due elementi del controllo e del finanziamento, precisando, tuttavia, che l’individuazione di tali requisiti non è necessaria nei casi in cui un Ente sia ontologicamente pubblico in ragione della funzione svolta, “strettamente correlata all’interesse pubblico, costituendo la privatizzazione una innovazione di carattere essenzialmente organizzativo”. In tal modo si è ritenuto che le Autorità indipendenti, che ovviamente non possono essere assoggettate a controllo, siano state correttamente inserite nell’elenco, proprio in ragione della loro natura ontologicamente pubblica. Quanto al finanziamento, il Consiglio di Stato ha precisato che esso non deve necessariamente essere diretto, ma può essere anche “indiretto e mediato”, o attraverso l’impiego di “risorse comunque distolte dal cumulo di quelle destinate a fini generali” o attraverso forme di contribuzione aventi comunque natura tributaria, in quanto la legge, anziché prevedere il versamento di un tributo nelle casse dello Stato e poi la successiva devoluzione del gettito in favore dell’ente, ha deciso che il relativo importo sia versato direttamente all’ente nella forma del contributo. Roberta Tortora* Consiglio di Stato, Sezione Sesta, sentenza 28 novembre 2012 n. 6014 - Pres. Maruotti, Est. Vigotti - Istituto Nazionale di Statistica (Istat) ed altri (avv. gen. Stato) c. Associazioni di enti previdenziali privati, Coni Servizi spa, Autorità per l’energia elettrica ed il gas, Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. FATTO e DIRITTO L’Istituto nazionale di statistica (Istat) e i Ministeri del lavoro e dell’economia chiedono la riforma delle sentenze, in epigrafe indicate, con le quali il Tar del Lazio ha accolto in parte i ricorsi proposti dalle associazioni e dagli enti previdenziali oggi resistenti, nonché dalla Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas avverso l’in- (*) Avvocato dello Stato. CONTENZIOSO NAZIONALE 223 serimento nel conto consolidato elaborato dall’Istat ai sensi dell’art. 1 comma 5 della legge 30 dicembre 2004, n. 311 e dell’art. 1 comma 3 della legge 31 dicembre 2009, n. 196. A loro volta, gli enti previdenziali appellati hanno proposto appello incidentale nel ricorso n. 5023 del 2008, per contestare la sentenza impugnata nella parte in cui non ha accolto alcune censure proposte in primo grado. La società Coni servizi ha invece proposto appello avverso la sentenza del medesimo Tar n. 4826 del 2007, che ha respinto il ricorso avente il medesimo oggetto. I) L’art. 1, comma 5, legge 30 dicembre 2004, n. 311 (legge finanziaria 2005), rubricato “limite all’incremento delle spese delle pubbliche amministrazioni”, ha disposto che “al fine di assicurare il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica stabiliti in sede di Unione europea, indicati nel Documento di programmazione economico-finanziaria e nelle relative note di aggiornamento, per il triennio 2005-2007 la spesa complessiva delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato, individuate per l'anno 2005 nell'elenco 1 allegato alla presente legge e per gli anni successivi dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) con proprio provvedimento pubblicato nella Gazzetta Ufficiale non oltre il 31 luglio di ogni anno, non può superare il limite del 2 per cento rispetto alle corrispondenti previsioni aggiornate del precedente anno, come risultanti dalla Relazione previsionale e programmatica”. Tra le amministrazioni pubbliche inserite nell’elenco allegato alla legge il Legislatore ha compreso gli “Enti nazionali di previdenza e assistenza” e le “Autorità amministrative indipendenti”, senza ulteriori specificazioni. In attuazione della disposizione richiamata, a decorrere dall’anno 2006 e in sostituzione dell’elenco direttamente previsto dalla legge, l’Istat ha provveduto a individuare le amministrazioni inserite nel conto economico consolidato con provvedimento del 29 luglio 2005: nell’elenco così formato figurano, sotto la rubrica “Enti nazionali di previdenza e assistenza” tutte le Casse previdenziali privatizzate con d.lgs. n. 509 del 1994, il Comitato olimpico nazionale e, alla voce “Autorità amministrative indipendenti”, tra altre, l’Autorità per l’energia elettrica e il gas. Con l’art. 1, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196 (legge di contabilità e di finanza pubblica), è stato infine specificamente previsto che per amministrazioni pubbliche tenute al perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica “si intendono gli enti e gli altri soggetti che costituiscono il settore istituzionale delle amministrazioni pubbliche individuati dall’Istituto nazionale di statistica sulla base delle definizioni di cui agli specifici regolamenti comunitari”. Sulla base di tale norma e del Regolamento UE n. 2223/96-SEC 95, è stato adottato il comunicato Istat recante l’elenco delle Amministrazioni pubbliche da inserire nel conto consolidato dello Stato per l’anno 2011, pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 30 settembre 2011, n. 228, nel quale permangono le Casse previdenziali private, il Coni, e viene specificamente inserita l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni Il quadro normativo nel quale si inserisce l’oggetto dei ricorsi è quindi costituito dai provvedimenti sopra richiamati, e alla luce degli stessi deve perciò essere esaminata la controversia, indipendentemente dagli effetti che al contestato inserimento sono ricollegati dalla successiva produzione normativa, evidenziata in giudizio dalle Casse resistenti. II) Avverso l’inserimento nell’elenco formato dall’Istat il 29 luglio 2005 (avente valenza annuale e sostanzialmente riprodotto negli anni successivi che interessano le controversie, in particolare con i provvedimenti di cui ai comunicati dell’Istat del 24 luglio 2010 e del 30 settembre 2011), che postula il riconoscimento della natura pubblica dei soggetti interessati, sono stati proposti i ricorsi decisi dal Tar del Lazio con le sentenze impugnate. In particolare: 224 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 - gli Enti previdenziali privatizzati con d.lgs. 30 giugno 1994, n. 509, hanno evidenziato la propria natura di soggetti privati, svolgenti attività in regime privatisti: di conseguenza, ne sarebbe illegittimo l’inserimento nell’elenco delle amministrazioni pubbliche tenute al rispetto del limite di spesa previsto dall’art. 1, comma 5, della suddetta legge. Il Tar ha accolto tale tesi, rilevando che l’attrazione nell’ambito della ‘pubblica amministrazione’ di soggetti qualificati come privati e organizzati come tali dal legislatore del 1994 non è giustificata, dato che la finalità perseguita dalla suddetta norma, quello cioè di contenere la spesa pubblica, non potrebbe essere incisa da enti privati che non usufruiscono di finanziamenti pubblici, né gravano in alcun modo sul bilancio pubblico. Né, ad avviso del Tar, l’inclusione nell’elenco potrebbe essere legittimata dal richiamo, operato dall’Istat, al regolamento comunitario n. 2223 del 1996, che “non obbliga alcuno Stato membro ad elaborare per le proprie esigenze i conti in base al SEC (Sistema europeo dei conti nazionali e regionali nella Comunità Ue) 95”; - le Autorità di garanzia hanno evidenziato che, alla luce delle classificazioni e delle metodologie rilevanti in sede comunitaria, espressamente assunte a parametro dall’Istat (Regolamento CE n. 223 del 2009 e SEC95, di cui sopra), esse non possono essere considerate tra gli “Enti soggetti a controllo pubblico”, la cui nozione, a livello comunitario, non coincide con quella recepita nell’ordinamento italiano. La tesi è stata accolta dal Tar. - Coni servizi s.p.a. ha proposto appello per contestare la sentenza che ha respinto il ricorso di primo grado per la ritenuta assimilabilità del Comitato agli “Enti produttori di servizi assistenziale e culturali”, elencati nei provvedimenti pubblicati il 29 luglio 2005 e il 28 luglio 2006. III) Come è evidente, gli appelli in esame propongono questioni comuni, attinenti all’indagine circa la natura giuridica dei soggetti ricorrenti in primo grado e, di conseguenza, alla legittimità o meno della loro attrazione nell’ambito delle pubbliche amministrazioni per i fini che si diranno. Di essi è, quindi, opportuna la riunione al fine di un’unica decisione. A tale proposito, l’eccezione svolta dall’Istat, tendente a dimostrare l’inammissibilità del ricorso proposto dagli Enti previdenziali privatizzati (sotto il profilo della carenza di interesse per il fatto che la stessa legge n. 311 del 2004 li esclude, all’art. 1 comma 57, dai vincoli imposti), non può essere accolta: l’inserimento negli elenchi annualmente predisposti in attuazione del Regolamento SEC95 individua i soggetti chiamati a concorrere alla manovra di bilancio, di volta in volta assoggettati alle misure di contenimento (e, infatti, la legge finanziaria n. 296 del 2006 include anche tali Enti privatizzati nel novero dei soggetti tenuti al rispetto del limite di spesa). All’inserimento nell’elenco si riconnettono, quindi, in via diretta determinati effetti che i ricorrenti in primo grado mirano a paralizzare. Per esaurire l’esame delle questioni preliminari, deve essere respinta quella, proposta negli appelli n. 1434, 1436 e 1438 del 2012 dall’Istat, tendente ad evidenziare la cessazione della materia del contendere per l’entrata in vigore, nelle more del processo, del d.l. 2 marzo 2912, n. 16, che, nel riconfermare l’inserimento delle Autorità indipendenti ricorrenti in primo grado nel novero delle Amministrazioni tenute agli obblighi di contenimento della spesa pubblica, avrebbe fatto venir meno, quantomeno a decorrere dall’anno in corso, l’interesse alla decisione attinente alla legittimità dell’elenco Istat, dato che l’obbligo deriverebbe direttamente dalla nuova disposizione normativa. Gli appelli sono, invece, tuttora procedibili, poiché, assumendo gli elenchi predisposti dall’Istat, che costituiscono appunto l’oggetto dei ricorsi decisi con le sentenze impugnate con i suddetti appelli, quale riferimento oggettivo, il decreto legge intervenuto non potrebbero che trovare limitata la propria efficacia in dipendenza dell’eventuale caducazione giurisdizionale dei provvedimenti ai quali ha operato il rinvio (evidentemente dinamico). Gli appelli sono pertanto tutti procedibili. CONTENZIOSO NAZIONALE 225 IV) Alla specifica questione circa l’individuazione della natura pubblica o privata di Enti la cui azione interseca, in vario modo, quella dell’amministrazione pubblica, valgono, in generale, alcuni indici, tra i quali quello che valorizza il controllo da parte di soggetti pubblici e quello che si incentra sull’erogazione di risorse pubbliche, provenienti da leggi (e da provvedimenti applicativi) emanati in coerenza con l’art. 23 della Costituzione, in tema di prestazioni patrimoniali imposte, aventi una causa di attribuzione di natura pubblicistica. Proprio di tali indici ha fatto applicazione l’Istat, che ha provveduto alla compilazione dell’elenco oggetto del giudizio, assumendo come regole classificatorie quelle proprie del sistema statistico comunitario; in esso ha quindi ricompreso le «unità istituzionali» di origine comunitaria in possesso dei requisiti richiesti dal Regolamento UE n. 2223/96-SEC95. Nel settore della pubblica amministrazione, il SEC95 (prg. 2.69) ha riconosciuto tale qualifica alle «istituzioni senza scopo di lucro» dotate di personalità giuridica, che agiscono da produttori di beni e servizi non destinabili alla vendita, alla duplice condizione che «siano controllate e finanziate in prevalenza da amministrazioni pubbliche», sì da incidere in modo significativo sul disavanzo e sul debito pubblico; l’art. 1.2 del manuale del SEC 95 ribadisce che una istituzione senza fine di lucro deve essere considerata pubblica se “sia controllata, sia prevalentemente finanziata dalle amministrazioni pubbliche” Controllo e finanziamento pubblico assumono quindi, anche alla luce della normativa comunitaria della quale l’elenco Istat è applicazione, la funzione di indicatori della natura pubblica del soggetto esaminato, ai fini della determinazione dei soggetti sottoposti alle regole della riduzione del disavanzo pubblico. V) Alla luce delle suddette puntualizzazioni possono essere esaminati i singoli appelli. V.1) E’ agevole desumere la fondatezza degli appelli proposti dall’Istat nei confronti degli Enti previdenziali resistenti. Sotto il profilo processuale, vanno previamente respinte le deduzioni contenute nell’appello n. 5023 del 2008, secondo cui il ricorso di primo grado n. 10612 del 2005 dovrebbe essere dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione, ovvero improcedibile. Ad avviso dell’Istat, il difetto di giurisdizione deriverebbe dal fatto che l’atto impugnato in primo grado sarebbe meramente ripetitivo di una norma di legge. Tale deduzione va respinta, sia perché le censure originarie hanno lamentato la difformità dell’atto impugnato rispetto alle disposizioni di legge che ne hanno previsto l’emanazione, sia perché – quand’anche vi fossero state soltanto misure attuative di norme primarie – la controversia sarebbe stata comunque devoluta alla giurisdizione amministrativa, anche quanto al potere di valutare la sussistenza dei presupposti per sollevare questioni di costituzionalità. Neppure risulta l’improcedibilità del ricorso di primo grado, in ragione dei successivi mutamenti del quadro normativo, poiché l’atto impugnato in primo grado ha comportato l’insorgenza di obblighi e di responsabilità, rispetto ai quali va considerato perdurante l’interesse alla rimozione degli effetti degli atti risultati lesivi, secondo quanto si è sopra detto al punto III. Quanto alle censure formulate con l’appello n. 5023 del 2008 e n. 1439 del 2012, ritiene la Sezione che esse siano fondate e vadano accolte. Infatti, l’attrazione degli enti previdenziali – originari ricorrenti - nella sfera privatistica operata dal d.lgs. 30 giugno 1994, n. 509, riguarda il regime della loro personalità giuridica, ma lascia ferma l'obbligatorietà dell'iscrizione e della contribuzione (art. 1 d.lgs. cit.); la natura di pubblico servizio, in coerenza con l’art. 38 Cost., dell’attività da essi svolte (art. 2); il potere di ingerenza e di vigilanza ministeriale (art. 3, per il cui comma 2 tutte le deliberazioni in materia di contributi e di prestazioni, per essere efficaci, devono ottenere l’approvazione dei Mi- 226 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 nisteri vigilanti), e fa permanere il controllo della Corte dei conti sulla gestione per assicurarne la legalità e l'efficacia (art. 3). Inoltre, il finanziamento connesso con gli sgravi e la fiscalizzazione degli oneri sociali, insieme alla obbligatorietà della iscrizione e della contribuzione, garantiti agli Enti previdenziali privatizzati dall’art. 1 comma 3 del predetto decreto legislativo, valgono a configurare un sistema di finanziamento pubblico, sia pure indiretto e mediato attraverso risorse comunque distolte dal cumulo di quelle destinate a fini generali. Tale conclusione è resa ancor più evidente dalla attrazione del settore della previdenza privata nella normativa dettata in tema di controllo del disavanzo del settore (si veda la legge 23 dicembre 1996, n. 662, relativa a misure di razionalizzazione della finanza pubblica, e la legge 8 agosto 1995, n. 335. che, nel riformare il sistema pensionistico obbligatorio e complementare per l’esigenza di stabilizzazione della spesa nel settore, ha specifica attinenza anche alle forme garantite dagli Enti privatizzati). La trasformazione operata dal d.lgs. 509/1994 ha lasciato, quindi, immutato il carattere pubblicistico dell'attività istituzionale di previdenza ed assistenza svolta dagli Enti in esame, che conservano una funzione strettamente correlata all’interesse pubblico, costituendo la privatizzazione una innovazione di carattere essenzialmente organizzativo. V.2) L’appello proposto da Coni Servizi s.p.a. non è fondato. Nelle unità istituzionali che fanno parte del Settore Amministrazioni Pubbliche (Settore S13), i cui conti concorrono alla costruzione del conto economico consolidato delle amministrazioni pubbliche il sistema comunitario comprende: a) gli organismi pubblici, che forniscono alla collettività beni e servizi non destinabili alla vendita; b) le istituzioni senza scopo di lucro produttrici di beni e servizi; c) gli enti di previdenza. Il Tar ha ritenuto che la società Coni servizi debba essere compresa nella prima di tali categorie; la ricorrente contesta sul punto la sentenza, ritenendo di non rientrare nel novero dei soggetti “che gestiscono e finanziano un insieme di attività, principalmente consistenti nel fornire alla collettività beni e servizi non destinabili alla vendita". Tale assunto non può essere condiviso. Va premesso che, come ha rilevato il Tar, l’inclusione nel novero delle istituzioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato non presuppone necessariamente, in base alle norme tecniche di cui al Regolamento SEC 95, che ricorra l'elemento della diretta contribuzione a carico del bilancio dello Stato: il ricevere o meno trasferimenti diretti da parte dello Stato, non rappresenta, di per sé, un autonomo criterio di classificazione delle unità istituzionali rientranti nell'elenco delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato. Per il corretto inquadramento del problema vengono, allora, in evidenza i consueti parametri già evidenziati, in particolare per ciò che concerne l’esistenza del controllo da parte di organi dello Stato. Giova così ricordare che la società Coni Servizi p.a. è stata istituita nell'ambito del riassetto del Coni: in particolare, con d.l. 8 luglio 2002, n. 138, convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, l. 8 agosto 2002, n. 178, recante «interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il sostegno dell'economia anche nelle aree svantaggiate” è stato previsto (art. 8) che il Coni « si articola negli organi, anche periferici, previsti dal d.lg. 23 luglio 1999 n. 242” e che per l'espletamento dei propri compiti si avvale della società per azioni appositamente costituita con la denominazione "Coni Servizi s.p.a.", il cui capitale sociale può godere di apporti da parte del dal Ministro dell'economia e delle finanze, di intesa con il Ministro per i beni e le attività culturali. Le azioni della società CONTENZIOSO NAZIONALE 227 sono attribuite al Ministero dell'economia e delle finanze; il presidente della società e gli altri componenti del consiglio di amministrazione sono designati dal Coni, mentre il presidente del collegio sindacale è designato dal Ministro dell'economia e delle finanze e gli altri componenti del medesimo collegio dal Ministro per i beni e le attività culturali. Sulla società si svolge il controllo della Corte dei conti con le modalità previste dall'art. 12, l. 21 marzo 1958, n. 259; la stessa può avvalersi del patrocinio dell'Avvocatura dello Stato, ai sensi dell'art. 43 del testo unico delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull'ordinamento dell'Avvocatura dello Stato, di cui al r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611, e successive modificazioni. Emerge quindi con tutta evidenza che, come ha sottolineato la Corte dei Conti, sez. giurisd. reg. Lazio, 23 gennaio 2008, n. 120, per la valenza pubblicistica dell'attività svolta, per la natura pubblica dei finanziamenti del CONI, per la somma dei poteri di ingerenza della parte pubblica, talmente intensi da arrivare alla misura estrema del commissariamento, e che si esplicano normalmente attraverso atti di riconoscimento, di indirizzo, di controllo dei bilanci, della gestione, dell'attività sportiva, l’attività del Coni si inserisce a pieno titolo nell’ambito dell’azione pubblica. Tale configurazione non risulta venuta meno neppure a seguito dell'entrata in vigore del d.l. n. 138 del 2002, in quanto l'art. 8, che, come si è detto, ha disposto il riassetto del Coni istituendo la Coni Servizi s.p.a., non ha eliso né le finalità pubbliche perseguite né il carattere pubblico delle risorse impiegate al tal fine. V.3) Gli appelli proposti dall’Istat nei confronti delle Autorità di garanzia sono fondati. Il Tar ha ritenuto che nei confronti delle stesse non possano essere rinvenuti i parametri che sopra si sono puntualizzati come propri della natura pubblica dell’organismo esaminato. In particolare, nella ricostruzione dei primi giudici, dalla legge 14 novembre 1995, n. 481, istitutiva dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas e dell’Autorità per le comunicazioni, non si può fare derivare una posizione di ‘dipendenza’ di tali organismi rispetto al soggetto al quale devono la propria investitura (l’art. 2, comma 7, della medesima legge prevede, quali passaggi della nomina degli organi di vertice la proposta del Ministro dello sviluppo economico, la deliberazione del Consiglio dei Ministri, il parere delle Commissioni parlamentari competenti per materia e infine il decreto del Presidente della Repubblica). Inoltre, le suddette Autorità godono, secondo il Tar, di autonomia finanziaria, date le fonti dalle quali traggono le entrate (id est i contributi obbligatoriamente versati dagli operatori dei settori regolati) e la possibilità di intervenire per garantirne nel tempo la corrispondenza alle uscite. Le sentenze meritano la riforma richiesta con gli appelli. Esse, infatti, si basano sulla definizione di “unità istituzionale pubblica”, di derivazione comunitaria, che, come si è detto, fa leva sul concetto di “controllo” e di “finanziamento” da parte di pubbliche amministrazioni. Tale definizione, peraltro, soccorre qualora non sia evidente che l’organismo esaminato è esso stesso una pubblica amministrazione: diversamente opinando gli stessi organi istituzionali dello Stato ordinamento sfuggirebbero dalla definizione dal momento che, per essi, sarebbe difficile configurare un controllo in senso amministrativo, ovvero un sistema di finanziamento eterologo. È allora evidente che le Autorità indipendenti non sono “istituzioni senza fini di lucro” di cui al punto 1.2 del Manuale del Sec 95, che sfuggirebbero alla definizione di organismo pubblico in quanto non sottoposte al controllo dello Stato, ovvero al finanziamento pubblico, come ha ritenuto il Tar: esse, invece, sono amministrazioni pubbliche in senso stretto, poiché, composte da soggetti ai quali è attribuito lo status di pubblici ufficiali (art. 2 comma 10 legge n. 481 del 228 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 1995), svolgono, in virtù del trasferimento di funzioni operato dall’art. 2, comma 14 della medesima legge istitutiva, compiti propri dello Stato, e così di potere normativo secondario (o, altrimenti, il potere di emanazione di atti amministrativi precettivi collettivi) (art. 2, comma 12, lett. h), l. n. 481 del 1995) di poteri sanzionatori, di ispezione e di controllo, hanno, in conclusione, poteri direttamente incidenti sulla vita dei consociati che si giustificano solo in forza della natura pubblica che deve – necessariamente- essere loro riconosciuta. D’altra parte, le “Autorità amministrative indipendenti” sono definite tali dal legislatore (anche per l’applicazione delle disposizioni processuali sui riti speciali: v. art. 119, comma 1, lett. b) in ragione della loro “piena indipendenza di giudizio e di valutazione”, la quale: - non va intesa, contrariamente a quanto ha affermato il TAR, come ragione di esonero dalla applicazione della disciplina di carattere generale riguardanti le pubbliche amministrazioni; - più limitatamente, comporta che, tranne i casi espressamente previsti dalla legge, il Governo non può esercitare la tipica funzione di indirizzo e di coordinamento, nel senso che non può influire sull’esercizio dei poteri tecnico-discrezionali, spettanti alle Autorità. L’assunto sul quale si basano i ricorsi accolti dal Tar con le sentenze in esame, essere cioè le Autorità di garanzia organismi che sfuggono alle definizioni rilevanti in sede comunitaria ai fini dell’inclusione nell’elenco di cui trattasi e degli oneri che ad esso si connettono, risulta dunque infondato: di conseguenza, sono irrilevanti i profili dedotti in primo grado e riproposti in appello dalle Autorità resistenti, relativi alla pretesa violazione della normativa comunitaria, dal momento che, come si è detto, la qualifica di tali organismi deriva non da tali parametri, ma dalla stessa loro natura ontologica di pubblica amministrazione. Risulta altresì non condivisibile la ricostruzione secondo cui l’Autorità avrebbe una autonomia finanziaria che giustificherebbe la mancata applicazione della normativa sostanziale di settore. Gli operatori del settore versano i contributi (da qualificare come tributi: Corte Cost., sent. 256 del 2007) direttamente alla Autorità, restandone obbligati perché vi sono disposizioni di legge riconducibili ai principi desumibili dall’art. 23 della Costituzione, sulle prestazioni patrimoniali imposte: la legge, che ben potrebbe disporre il pagamento di tali contributi nelle casse di un Ministero (tenuto poi a versare le somme di riferimento alla Autorità), ha preferito semplificare gli aspetti contabili, prevedendo il pagamento diretto nelle casse della Autorità (per gli importi determinati dall’Autorità stessa), ma ciò non esclude che la causa della attribuzione patrimoniale sia riconducibile allo svolgimento di una funzione pubblica, da parte di una pubblica amministrazione. Pure le argomentazioni della sentenza di primo grado, sul rilievo del ‘controllo pubblico’, non possono essere condivise, perché esso riguarda i soggetti privati da qualificare, ma di certo non le pubbliche amministrazioni in senso tecnico. Del pari, e per la medesima ragione, palesemente priva di profili di fondatezza è la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 legge n. 196 del 2009, dedotta per violazione degli artt. 23, 41 e 97 Cost. ove fosse interpretato nel senso di aver previsto la possibilità di includere nell’elenco Istat soggetti diversi dalle “Amministrazioni pubbliche che concorrono al perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica”. VI) La rilevata fondatezza degli appelli proposti dall’Istat impone l’esame dell’appello incidentale avanzato dagli Enti previdenziali avverso la sentenza del Tar del Lazio n. 1938 del 2008, nella parte in cui ha disatteso il secondo, il sesto, il settimo motivo di ricorso ed ha implicitamente assorbito il quarto. Anche tale gravame incidentale è infondato. Alla luce di quanto si è detto, la qualificazione delle Casse private di assistenza e previdenza, e CONTENZIOSO NAZIONALE 229 la conseguente loro inclusione nell’elenco di cui si tratta, non è frutto di illogicità, ma corrisponde ai principi, sopra esaminati, correttamente applicati dall’Istat: è quindi infondato il primo motivo dell’appello, con il quale si ripropone il secondo motivo di ricorso, già respinto dal Tar. Parimenti infondato è il secondo mezzo, relativo alla reiezione del sesto motivo del ricorso di primo grado, poiché l’elenco predisposto dall’Istat trova nella conformità al parametro normativo la propria giustificazione, senza necessità di ulteriore motivazione, né di specifica istruttoria. Come ha ritenuto il Tar nel respingere il settimo motivo del ricorso, la natura certificativa dell’elenco in questione esimeva l’Istituto dal seguire gli oneri procedimentali mediante la comunicazione dell’avvio del procedimento, proprio perché, come si è detto, l’inclusione degli Enti previdenziali privatizzati corrisponde, sia nella ratio, che nella portata letterale, a quanto stabiliva già la legge 30 dicembre 2004, n. 311, che, come si è sopra rilevato, includeva dall’origine gli “Enti di previdenza e assistenza” tra quelli tenuti agli oneri di contenimento della spesa: anche il terzo motivo d’appello è quindi infondato. La legittimità della qualificazione degli Enti ricorrenti in primo grado nel novero delle amministrazioni pubbliche, secondo quanto si sopra detto, rende poi evidente la palese infondatezza dell’eccezione di costituzionalità riproposta in via subordinata con il quarto mezzo d’appello avverso l’art. 1, comma 5, della legge n. 311 del 2004, che consentirebbe, in tesi, la modifica dell’elenco contestato al di fuori di ogni ragionevole limite di discrezionalità amministrativa e l’imposizione di prestazioni patrimoniali al di fuori del parametro normativo: l’applicabilità di prestazioni a carico degli Enti privatizzati non è, infatti, frutto di una valutazione arbitraria dell’Amministrazione, ma, al contrario, corrisponde alla qualificazione pubblica degli stessi e ai criteri stabiliti dalla legge in coerenza con i principi desumibili dall’art. 81 della Costituzione e con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione. VII) In conclusione, tutti gli appelli proposti dall’Istat sono fondati e devono essere accolti; l’appello proposto da Coni servizi s.p.a. è invece infondato e deve essere respinto. Tale conclusione rende irrilevante l’eccezione, proposta dall’Istat, di inammissibilità dell’intervento svolto da Falbi in adesione agli appelli proposti dalle Autorità indipendenti. Pertanto, tutti i ricorsi di primo grado vanno respinti. La complessità e la novità delle questioni esaminate giustificano la compensazione delle spese tra le parti in causa, in relazione ai due gradi di tutti i giudizi. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) definitivamente pronunciando sugli appelli in epigrafe indicati: -accoglie previa loro riunione gli appelli nn. 5023 del 2008, 1434 del 2012, 1436 del 2012, 1438 del 2012, 1439 del 2012 e, per l’effetto, in riforma delle sentenze impugnate, respinge i rispettivi ricorsi di primo grado; - respinge (previa riunione con gli altri appelli) l’appello n. 5671 del 2008 e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata. Spese compensate dei due gradi di tutti i giudizi. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 ottobre 2012. 230 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Rimborso spese legali a pubblico dipendente ex art. 18 D.L. 67/1997 Nel caso di specie: imputazione di concussione per fatti che esulano da fini istituzionali e assoluzione con formula parzialmente liberatoria (Nota a Consiglio di Stato, Sez. Sesta, sentenza 26 febbraio 2013 n. 1190) Vincenzo Rago* Il ricorrente, abusando della sua qualità di pubblico ufficiale - per avere acquistato a titolo personale alcuni telefoni cellulari a prezzi inferiori a quelli di mercato - e coinvolto in un processo penale di concussione, procedimento concluso con sentenza di assoluzione perchè il "fatto non sussiste", aveva successivamente chiesto il rimborso delle spese legali ai sensi di quanto disposto dall'art. 18 D.L. n. 67/1997, convertito in Legge n. 135/1997. L’amministrazione ha respinto la richiesta di rimborso, sulla base anche del parere dell’Avvocatura Generale secondo cui “sebbene l’imputazione di concussione presupponga uno stato giuridico di pubblico ufficiale, non si ravvisa nella specie alcuna connessione fra i fatti che hanno dato origine al procedimento penale e l’espletamento del servizio o l’assolvimento degli obblighi istituzionali”. Il ricorrente aveva dedotto, dinanzi al TAR, la violazione dell’art. 18, D.L. 67/1997, conv. in legge 135/1995, nonchè l'eccesso di potere. Il TAR aveva respinto il ricorso. In sede di appello - a parte una eccezione processuale, che non rileva in questa sede - l'appellante ha, sostanzialmente, sostenuto che i fatti oggetto del processo penale fossero in connessione con il servizio. Il Consiglio di Stato ha respinto il gravame con decisione, che si condivide. Ed infatti, così come è stato rilevato nella memoria difensiva, in materia di rimborso delle spese di giudizio da parte di un dipendente pubblico, la giurisprudenza ha chiarito (cfr. tra le tante T.a.r. Sicilia, Palermo, Sezione I, Sentenza 4 aprile 2012, n. 695 ) che il rimborso delle spese legali non spetta quando, come nel caso di specie, il procedimento penale non è da mettere in relazione immediata e diretta con il servizio reso, che costituisce solo una mera occasione del reato contestato al pubblico dipendente. Del resto, la ratio dell'art. 18, del D.L. 25 marzo 1997, n. 67, convertito con L. 23 maggio 1997, n. 135, è quella di far sì che i pubblici dipendenti, coinvolti in giudizi civili, amministrativi o penali in ragione dell’espletamento delle loro funzioni, siano tenuti indenni dalle conseguenze economiche derivanti dalla necessità di assumere un patrocinio legale a propria difesa, tutte le (*) Avvocato dello Stato. CONTENZIOSO NAZIONALE 231 volte che sia accertata, con sentenza definitiva, la assenza di responsabilità, onde evitare che possano subire pregiudizio per il solo fatto di svolgere i compiti istituzionali loro demandati (T.A.R. Lazio Roma, sez. I, 26 aprile 2010, n. 8478; Cassazione civile, sez. I, 3 gennaio 2008 n. 2). Trattandosi di una speciale prerogativa riconosciuta ai pubblici funzionari, cui comunque è correlato un onere erariale, la disposizione normativa in questione è di stretta interpretazione, con la conseguenza che il rimborso delle spese legali da parte dell’Amministrazione non costituisce un obbligo, cui corrisponde un diritto automatico del lavoratore interessato, discendendo viceversa da una specifica e motivata valutazione che lo stesso ente deve effettuare nel suo esclusivo interesse, essendo il suo apprezzamento pur sempre teso allo scopo di assicurare un corretto e ragionevole impiego delle risorse erariali. Nel caso di specie il Ministero ha effettuato una doverosa e discrezionale valutazione della ricorrenza dei presupposti richiesti per il rimborso delle spese, ovvero la connessione del processo subito dal dipendente alla funzione pubblica esercitata; la definizione del processo con una sentenza di assoluzione, che espressamente accerti l’assenza nel dipendente dell’elemento psicologico del dolo o della colpa grave, nonché la insussistenza di un conflitto di interessi tra gli atti o la condotta incriminata e l’amministrazione. Per quanto concerne la connessione con la funzione pubblica svolta, la giurisprudenza ha chiarito che essa sussiste tutte le volte in cui gli atti e i fatti per i quali il dipendente sia stato incriminato siano riconducibili direttamente all’ente di appartenenza, perché assunti nell’esercizio delle sue funzioni istituzionali, cosicché la tutela di queste ultime è perseguita necessariamente per tramite della difesa del primo, verificandosi una coincidenza di interessi tra i due soggetti, in virtù del rapporto organico che li astringe, alla stregua dei principi fissati dall’art. 28 della Costituzione (per tutte T.A.R. Veneto, Sezione I, 23 marzo 2000, n. 835). Ma, nel caso di specie, la connessione diretta non vi era, poiché il ricorrente è stato processato per avere acquistato telefonini svariati a prezzi inferiori a quelli di mercato, abusando del proprio ruolo. Deve quindi escludersi la rimborsabilità delle spese di che trattasi qualora gli atti e i fatti per i quali il dipendente sia stato incriminato esulino dai fini istituzionali dell’ente pubblico, risultando piuttosto frutto di una sua autonoma manifestazione di volontà, rispondente a scopi diversi (ex multis Consiglio di Stato, Sezione V, 22 dicembre 1993, n. 1392). Inoltre, è anche necessario che questi atti e fatti siano teleologicamente legati da un rapporto di stretta causalità e non di mera occasionalità; in altre parole, vi deve essere un rapporto di strumentalità tale che il dipendente non avrebbe potuto assolvere ai compiti del proprio ufficio se non compiendo quegli atti o fatti oggetto di imputazione (T.A.R. Palermo, Sezione I, n. 127/05). Questo rapporto di strumentalità non sussiste in presenza di un abuso 232 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 della qualità di pubblico ufficiale e di compimento di attività estranee alla funzione pubblica svolta. In proposito, è appena il caso di osservare che la valutazione circa la sussistenza di un rapporto non meramente occasionale con il fatto di reato contestato rientrava nella discrezionalità dell’Amministrazione datrice di lavoro e, in quanto tale, incensurabile in sede di legittimità, se non in caso di cattivo esercizio di questa discrezionalità (cfr. Cassazione, Sezione Lavoro, 20 novembre 2003, n. 17651). E tanto più il rapporto si interrompe tutte le volte in cui l'Amministrazione - in astratto - potrebbe anche costituirsi parte civile, per fare valere un danno alla propria immagine, leso dai comportamenti del militare, poco consoni alla funzione da questi ricoperta (cfr., Consiglio di Stato, Sezione V, 9 ottobre 2006, n. 5986; Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 17 settembre 2002, n. 13624). È infatti evidente che quando l’Amministrazione si costituisce parte civile, mostra di aver già apprezzato negativamente il comportamento del proprio dipendente. Nel caso del ricorrente, infine, difettava anche il terzo requisito, costituito dalla conclusione del processo penale con una sentenza di assoluzione che accerti l’inesistenza del profilo psicologico del dolo o della colpa grave nella condotta ascritta al dipendente. Ed infatti, l’assoluzione perché il "fatto non sussiste" non era completamente satisfattoria e liberatoria, sia perchè, nella specie, la sostanza non limpida dei comportamenti assunti dal ricorrente era stata confermata, sia perché quella utilizzata è la formula utilizzata in luogo della vecchia assoluzione per insufficienza di prove (cfr. Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale Regione Puglia, 17 dicembre 1993, n. 95; Corte di Cassazione, Sezione Civile I, 3 gennaio 2001, n. 48; Consiglio di Stato, IV, 6 giugno 2011, n. 3396; T.a.r. Sicilia, I, 21 aprile 2010, n. 5570; 3 febbraio 2005, n. 127; Consiglio di Giustizia Amministrativa, Sezione Consultiva, 4 aprile 2006, n. 358). Consiglio di Stato, Sezione Quarta, sentenza 26 febbraio 2013 n. 1190 - Pres. Giaccardi, Est. De Felice - P.B. (avv. Caponi) c. Ministero della Difesa (avv. gen. Stato). FATTO Con ricorso proposto innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio l’attuale appellante, B.P., agiva per l’annullamento del decreto del 27 ottobre 2008 del Ministero della Difesa, con cui si rigettava la sua richiesta di rimborso delle spese legali, in relazione al procedimento penale n. 895 del 2006, conclusosi con sentenza di assoluzione ex art. 530 c.p.p. dal reato di concussione di cui all’art. 317 c.p. perché “il fatto non sussiste”. L’amministrazione aveva negato il rimborso sulla base del parere dell’Avvocatura Generale dello Stato, secondo cui “sebbene l’imputazione di concussione presupponga uno stato giu- CONTENZIOSO NAZIONALE 233 ridico di pubblico ufficiale, non si ravvisa nella specie alcuna connessione fra i fatti che hanno dato origine al procedimento penale e l’espletamento del servizio o l’assolvimento degli obblighi istituzionali”. Il ricorrente deduceva i vizi di violazione di legge ed eccesso di potere sotto svariati profili. Il primo giudice, con la sentenza appellata, definita in forma semplificata all’esito della camera di consiglio fissata per la fase cautelare, ha rigettato il ricorso, ritenendo che, pur sussistendo il requisito della completa assoluzione penale, tuttavia manca il primo presupposto necessario e cioè che il giudizio penale sia stato promosso in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento degli obblighi istituzionali. Nella specie, si era trattato di una vicenda di acquisto a titolo personale di telefoni cellulari in cui era stato contestato l’abuso della qualità di pubblico ufficiale (da cui poi era stato assolto). L’imputazione quindi, secondo il primo giudice, non era originata da una attività svolta in diretta connessione con i fini dell’amministrazione o nell’ambito del rapporto di immedesimazione organica tale da consentire una immediata riferibilità della condotta all’ente. Si era invece trattato di una condotta del tutto estranea ai compiti dell’istituto, in cui il dipendente aveva agito per scopi del tutto personali e in cui la qualità di pubblico ufficiale, che era venuta in rilievo proprio perché se ne contestava l’abuso, era in conflitto con l’interesse proprio dell’amministrazione di appartenenza, non potendosi inoltre escludere elementi potenzialmente rilevanti sotto il profilo disciplinare o amministrativo. Avverso tale sentenza propone appello il medesimo B.P., che deduce in primo luogo la nullità della sentenza, perché la difesa del ricorrente non è potuta comparire alla camera di consiglio fissata per la sospensiva in data 4 marzo 2009, avendo ricevuto la comunicazione della fissazione dell’udienza di discussione soltanto dopo è cioè in data 5 marzo 2009. Conseguentemente, sostiene la nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa essendo stata introitata la causa direttamente nel merito in assenza di comparizione delle parti ed essendo stato posto nella impossibilità di comparire. Nel merito, deduce la erroneità della sentenza appellata, in quanto la formula assolutoria “perché il fatto non sussiste” non può consentire di ritenere esclusa la connessione con il rapporto organico con l’amministrazione; in caso contrario, al B. non sarebbe stato contestato il reato di concussione. Il giudice di primo grado non ha tenuto conto che i fatti oggetto di procedimento penale riguardavano fatti avvenuti durante il normale servizio di controllo del territorio da parte del carabiniere e che lo sconto che gli è stato effettuato sull’acquisto dei cellulari rientrava nella libera contrattazione di mercato; contesta che i fatti dai quali è stato assolto possano determinare l’apertura di procedimenti disciplinari o di tipo amministrativo, non avendo l’amministrazione subito alcun danno. Chiede anche la modifica della statuizione di condanna alle spese. Si è costituito il Ministero della Difesa chiedendo il rigetto dell’appello perché infondato. Alla udienza pubblica del 19 febbraio 2013 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO L’appello è infondato. È vero che il mancato invio della comunicazione dell'avviso di fissazione d'udienza configura un difetto di procedura sancito dall'art. 35 comma 1 l. Tar, che determina la nullità dell'udienza di discussione e di tutti i successivi atti processuali, ivi compresa la decisione finale. Nella specie, la parte appellante deduce di avere ricevuto la comunicazione della camera di 234 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 consiglio soltanto successivamente (il giorno dopo, 5 marzo 2009) rispetto al giorno fissato (4 marzo 2009). Tuttavia, nulla dimostra al riguardo; né diversamente risulta dal fascicolo di primo grado acquisito agli atti, dal quale risulta soltanto che era stato fatto avviso alle parti, con atto datato 26 febbraio 2009, di cui peraltro difetta la prova della comunicazione. L’appello è infondato nel merito. L'art. 18 d.l. n. 67/1997 conv. in l. n. 135/1997 individua i presupposti che legittimano l'amministrazione a contribuire alla difesa del suo dipendente imputato in un processo penale: è necessario che il giudizio di responsabilità sia stato promosso in conseguenza di fatti ed atti connessi con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento degli obblighi istituzionali, e che esso si sia concluso con sentenza od altro provvedimento che abbia escluso la responsabilità dell'istante. Ai fini dell'applicazione dell'art. 18 comma 1, d.l. 25 marzo 1997 n. 67, conv. nella l. 23 maggio 1997 n. 135, in tema di rimborso di spese legali, la connessione dei fatti con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali va intesa nel senso che tali atti e fatti siano riconducibili all'attività funzionale del dipendente stesso in un rapporto di stretta dipendenza con l'adempimento dei propri obblighi, dovendo trattarsi di attività che necessariamente si ricollegano all'esercizio diligente della pubblica funzione, nonché occorre che vi sia un nesso di strumentalità tra l'adempimento del dovere e il compimento dell'atto, nel senso che il dipendente non avrebbe assolto ai suoi compiti se non compiendo quel fatto o quell'atto. Nella specie, esaminando gli atti, interrogatori e testimonianze rese nel corso del giudizio, il fatto imputato di abuso della qualità o di concussione esulava del tutto dal servizio pubblico e aveva ad oggetto fatti privati posti in essere dall’appellante. La vicenda riguarda l’acquisto, a titolo del tutto personale – e tale circostanza assume valore assorbente - di telefoni cellulari in cui è stato contestato l’abuso della qualità di pubblico ufficiale; tra l’altro, l’istruttoria ha portato a concludere da un lato sulla insufficienza degli elementi di prova ai fini della configurabilità del reato di concussione; dall’altro lato, si sarebbe delineata una condotta dell’imputato arrogante e poco consona alla qualità rivestita di appuntato dei Carabinieri. L’amministrazione ha correttamente negato il rimborso sulla base del parere dell’Avvocatura Generale dello Stato, secondo cui “sebbene l’imputazione di concussione presupponga uno stato giuridico di pubblico ufficiale, non si ravvisa nella specie alcuna connessione fra i fatti che hanno dato origine al procedimento penale e l’espletamento del servizio o l’assolvimento degli obblighi istituzionali”. Ai fini del rimborso delle spese legali sostenute da un pubblico dipendente (nella specie, un maresciallo aiutante), affinché sia ravvisabile una connessione tra la condotta tenuta e l'attività di servizio del dipendente, è necessario che la suddetta attività sia tale da poterne imputare gli effetti dell'agire del pubblico dipendente direttamente alla Amministrazione di appartenenza, poiché il beneficio del ristoro delle spese legali richiede un rapporto causale con una modalità di svolgimento di una corretta prestazione lavorativa le cui conseguenze ricadrebbero sull'Amministrazione nè è sufficiente che l'evento avvenga durante e in occasione della prestazione (tra tante, Consiglio Stato sez. III, 1 marzo 2010, n. 275). L'imputazione basata sulla qualifica di pubblico ufficiale muove da giudizi prognostici ed astratti che non possono valere ad indebitamente estendere il perimetro applicativo dell'art. 18 d.l. n. 67 del 1997 modificandone il paradigma legale, il quale richiede che le condotte siano connesse con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali, CONTENZIOSO NAZIONALE 235 e dunque rientranti nell'alveo della riferibilità al valore dell'Amministrazione, con esclusione di quelle che siano occasionalmente ricollegabili ad un incarico - come per esempio, come nella specie, l’acquisto a titolo privato di beni quali telefoni cellulari, abusando della qualità - e non pure al diretto svolgimento delle funzioni istituzionali e i cui effetti non siano imputabili all'Amministrazione, in quanto non ascritte al novero delle incombenze direttamente promananti dalla posizione funzionale ed organizzativa rivestita dall'interessato nell'ambito della struttura dell'Amministrazione di appartenenza. La mera connessione occasionale delle condotte con la qualifica di pubblico ufficiale non è, quindi, sufficiente ai fini dell'ammissibilità del rimborso delle spese legali, altrimenti dovendo farsi rientrare nel campo applicativo della norma tutte le imputazioni relative ai reati propri inerenti a condotte che trovino nel servizio la mera occasione di realizzazione. Non è sufficiente a dimostrare la connessione, se non a titolo meramente occasionale, la circostanza, evidenziata dall’appellante a sostegno delle sue pretese, che il venditore disponeva del cellulare del carabiniere avendo subito alcuni furti, né che l’appellante era solito recarsi presso quel rivenditore. Il giudizio di responsabilità si considera promosso in conseguenza di fatti ed atti connessi con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento degli obblighi istituzionali solo nei casi in cui l'imputazione riguardi un'attività svolta in diretta connessione con i fini funzionali dell'ente e, come tale, ad esso imputabile. La possibilità del rimborso delle spese legali è da escludersi qualora vi sia conflitto di interessi tra dipendente ed amministrazione, emergendo o comunque potendo emergere estremi di natura disciplinare ed amministrativa, per mancanze attinenti al compimento dei doveri d'ufficio. Per le sopra esposte considerazioni, l’appello deve essere respinto. Sussistono giusti motivi per disporre tra le parti la compensazione delle spese di giudizio del presente grado. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione quarta, definitivamente pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe, così provvede: rigetta l’appello, confermando la impugnata sentenza. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 febbraio 2013. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO Recupero dei crediti alimentari ai sensi della Convenzione di New York del 20 giugno 1956 (Parere prot. 210639 del 28 maggio 2012, AL 33776/11, avv. ILIA MASSARELLI) La questione di massima, sottoposta all’attenzione della Scrivente, concerne l’ammissibilità del ricorso al procedimento di iscrizione a ruolo ex art. 17 D. Lgs. n. 46/1999 per l’attuazione coattiva degli obblighi alimentari ricadenti nell’ambito di applicazione della Convenzione Internazionale “sull’esazione delle prestazioni alimentari all’estero”, firmata a New York il 20 giugno 1956 e ratificata dalla Repubblica Italiana il 28 luglio 1958. In particolare, a seguito di un’importante nota del MEF del 10 gennaio 2011, codesto Ministero dell’Interno sollecita un nuovo pronunciamento della Scrivente in merito alla possibilità di eseguire i provvedimenti giurisdizionali (di giurisdizioni straniere) di condanna al pagamento di assegni alimentari, debitamente riconosciuti nell’ordinamento italiano, avvalendosi, anziché dell’ordinario processo esecutivo, del procedimento speciale regolato dal combinato disposto del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 e del D. Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46. La soluzione ermeneutica accolta dal Comitato Consultivo di questa Avvocatura Generale, con parere del 23 aprile 2004, n. 59153, favorevole all’impiego dell’iscrizione a ruolo per l’esecuzione delle obbligazioni de quibus, è stata difatti rimessa in discussione da un recente parere del MEF, per ragioni sia sostanziali che procedurali: - da un lato, l’organo economico, anche alla luce della giurisprudenza formatasi in materia, ha espresso delle riserve in merito alla possibilità di qualificare in termini di entrate statali, come tali soggette all’art. 17 D. Lgs. n. 46 cit., crediti alimentari di natura privatistica; - dall’altro, ha evidenziato come l’impiego dell’iscrizione a ruolo confligga con i principi di contabilità e finanza pubblica sanciti dalla L. n. 196/2009, sotto il profilo dell’assenza sia di un apposito capitolo di bilancio 238 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 in cui iscrivere le somme rinvenenti dalla riscossione coattiva de qua, sia di disposizioni primarie legittimanti una rassegnazione delle somme (in tal modo riscosse) in favore del privato creditore. Pertanto, ai fini della soluzione del quesito prospettato, occorre soffermarsi: - dapprima, sulla natura giuridica del credito alimentare azionato dalle autorità nazionali nel rispetto delle previsioni di diritto uniforme, al fine di verificare se possa essere inteso come entrata statale, tale da essere ricondotto all’ambito di applicazione dell’art. 17 D. Lgs. n. 46 cit.; - successivamente, ove dovesse essere fornita una risposta positiva all’interrogativo preliminare, dovrà essere presa in esame la compatibilità dell’esecuzione mediante ruolo con i principi contabili e finanziari dettati dalla Legge n. 196. Prima di esaminare le questioni illustrate, giova comunque accennare all’ambito di applicazione dell’art. 17 D. Lgs. n. 46 cit, spiegando le ragioni per le quali non possa essere applicato oltre le fattispecie cui espressamente si riferisce, non risultando sufficiente la presenza di un generico interesse pubblico per legittimare la riscossione coattiva di entrate diverse da quelle statali. Nonostante l’elastica formulazione normativa del precitato art. 17, richiamante genericamente le entrate statali e non i crediti statali, l’interpretazione della disposizione deve presentarsi compatibile con i principi giuridici ricavabili dalla nostra Carta costituzionale, in specie il principio di legalità: difatti, la riscossione coattiva mediante ruolo, rappresentando un tipico esercizio di poteri di autotutela (esecutiva) - atteso che l’amministrazione può risolvere i conflitti di interesse in cui è parte, coinvolgenti propri atti o condotte, prescindendo dall’intermediazione dell’autorità giudiziaria - deve trovare fondamento in una specifica disposizione di rango primario. Trattasi di disposizioni, quest’ultime, che non possono essere qualificate come norme generali, interpretabili analogicamente, dovendo piuttosto essere intese come norme eccezionali, inapplicabili al di fuori delle fattispecie tassativamente previste dal legislatore. Nel caso che ci occupa, atteso che l’amministrazione, riscuotendo coattivamente il credito, esercita un potere di imperio, in grado di incidere in via diretta ed unilaterale sul patrimonio giuridico del privato, occorre evitare un’interpretazione analogica delle relative disposizioni legislative, pena la violazione dei diritti di libertà individuali e del fondamentale principio di legalità. Alla luce delle considerazioni che precedono, l’art. 17 cit. non può trovare applicazione qualora l’amministrazione sia soltanto legittimata ad agire per l’attuazione di un credito altrui, dovendosi limitare l’esercizio del potere di riscossione coattiva (mediante iscrizione a ruolo) ai casi in cui venga in rilievo un’entrata statale, di cui quindi sia soltanto lo Stato ad essere il titolare. Dopo aver precisato la necessità di ricomprendere nella portata applicativa dell’art. 17 cit. le sole entrate statali, pure non tributarie e traenti il proprio fondamento in rapporti privatistici, occorre verificare se i crediti alimentari PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 239 disciplinati dalla Convenzione di New York del 1956 possano essere intesi nei medesimi termini. La risposta al quesito prospettato risente notevolmente della posizione ermeneutica che si intende assumere in ordine alla legittimazione processuale delle autorità statali: al fine di facilitare l’esecuzione delle obbligazioni alimentari (per propria natura aventi come creditori soggetti in stato di bisogno, necessitanti quindi di un pagamento sollecito dei relativi assegni), la Convenzione di New York e gli strumenti di diritto uniforme intervenuti in subiecta materia nel corso degli anni (da ultimo si veda il regolamento comunitario n. 4/2009 del Consiglio del 18 dicembre 2008) hanno previsto un sistema di cooperazione tra le autorità centrali degli Stati contraenti (o membri, nel caso dell’UE), fondato sulla legittimazione ad intraprendere le attività giudiziali e stragiudiziali necessarie per assicurare l’attuazione (anche coattiva) del credito alimentare. Pertanto, a condizione che la parte attiva e passiva del rapporto obbligatorio siano soggetti a giurisdizioni differenti, si consente al creditore anziché di recarsi nello Stato di stabilimento del debitore per ivi ottenere il riconoscimento e l’attuazione del proprio diritto, di rivolgersi alle autorità del proprio ordinamento (ccdd. Autorità Speditrici), affinché trasmettano alle autorità centrali dello Stato del debitore (ccdd. Istituzioni Intermediarie) la documentazione necessaria per il soddisfacimento del credito alimentare. Ne deriva l’attribuzione, in favore delle autorità nazionali, del potere di agire in giudizio, nell’ambito del proprio ordinamento, per l’attuazione dei titoli esecutivi emessi dai giudici stranieri: si pone quindi un problema qualificatorio circa la natura giuridica della legittimazione conferita, in subiecta materia, alle autorità nazionali. Orbene, l’analisi della giurisprudenza formatasi nel tempo in materia consente alla Scrivente, in armonia, peraltro, con quanto comunicato dal MEF nella nota evidenziata, di propendere per la tesi che inquadra la legittimazione dello Stato-Istituzione Intermediaria (i.e. il Ministero dell’Interno) - giusta la previsione dell’art. 6 della Convenzione cit. -, nell’istituto della c.d. sostituzione processuale di cui all’art. 81 c.p.c. Come noto, il sostituto processuale è il soggetto abilitato da un’apposita previsione normativa - che nel caso di specie è rinvenibile nelle legge di esecuzione della Convenzione del 1956 - ad agire in giudizio in nome proprio per la tutela di “un diritto altrui” (81 c.p.c.): deve tuttavia evidenziarsi che, contrariamente a quanto potrebbe desumersi da un’interpretazione letterale del disposto positivo, il sostituto processuale, in realtà, come sostenuto da autorevole dottrina e come imposto dei principi processuali in materia di legittimazione ed interesse ad agire, non invoca la tutela di un diritto altrui, bensì di una situazione soggettiva propria, seppure incidente su un rapporto giuridico alieno, con conseguente necessità di differenziare l’interesse azionato dal sostituto e l’interesse di cui è titolare il sostituito, costituenti distinte situazioni giuridiche soggettive. 240 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Tali principi influenzano sensibilmente la soluzione del quesito prospettato alla Scrivente. Se, difatti, si qualifica la legittimazione statale in termini di legittimazione straordinaria da ricondurre alla previsione dell’art. 81 c.p.c., come peraltro ripetutamente affermato dalla giurisprudenza, si viene a distinguere, come evidenziato, l’interesse (pubblico) azionato dall’Autorità intermediaria dall’interesse (privato) imputato al creditore degli alimenti, con conseguente impossibilità di qualificare il credito alimentare come entrata statale. Difatti, accogliendo la tesi de qua, si conclude nel ritenere che l’azione giudiziaria esercitata dallo Stato, in veste di sostituto processuale, sia funzionale: - in via primaria, alla tutela dell’interesse pubblico alla cooperazione internazionale e al sollecito adempimento delle obbligazioni alimentari; - e soltanto in via riflessa, al soddisfacimento del credito alimentare di cui viene chiesta concretamente l’esecuzione. Accanto al rapporto principale, di carattere pubblicistico, intercorrente fra le autorità centrali degli Stati contraenti, emergerebbe dunque il rapporto secondario (alimentare) che, in ragione della sua natura privatistica, coinvolgerebbe le sole sfere giuridiche del creditore straniero (ossia il sostituito processuale) e del debitore stabilito nell’ordinamento italiano. Tale ricostruzione, accolta dalla giurisprudenza nel tempo, portando, in ultima analisi, a negare l’equiparazione tra il credito azionato e l’entrata statale - atteso che ciò determinerebbe una confusione tra il profilo pubblico e privato della vicenda configurando un unico rapporto giuridico -, impedirebbe - per le ragioni supra illustrate - la possibilità di ricorrere alla riscossione coattiva mediante iscrizione a ruolo. Ed al proposito, la Corte Suprema di cassazione ha più volte ribadito che “Il Ministero dell'interno, nell'esercizio delle funzioni conferitegli dalla citata Convenzione di New York, non si pone come rappresentante legale del minore (tale restando il genitore o chi assuma la tutela secondo l'ordinamento di appartenenza), ma assume una rappresentanza "speciale", che prescinde da un mandato del creditore (o di chi legalmente lo rappresenta), e che risponde all'interesse generale di assicurare che le posizioni dell'alimentando trovino effettivo soddisfacimento” (Cass. n. 11278/1996); pertanto, “il relativo potere di azione è svincolato dal rilascio della procura da parte del soggetto creditore degli alimenti, restando subordinato solo alla richiesta avanzata dalle autorità speditrici (Cass. 18 dicembre 1974 n. 4346; Cass. 17 luglio 1980 n. 4648), con la conseguenza che la procura del creditore alimentare all'autorità intermediaria, prevista solo in via eventuale dall'art. 3 n. 3 della più volte citata Convenzione di New York, nessun potere rappresentativo ulteriore può aggiungere a quello già spettante a detta istituzione ed è riconducibile a quello della categoria dei meri atti di impulso (Cass. n. 1992/1996) Ne deriva, infine, che “l'Autorità intermediaria che chieda la delibera- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 241 zione di sentenze straniere recanti condanna agli alimenti si qualifica come sostituto processuale ai sensi dello art. 81 c.p.c., ossia come soggetto che, pur non essendo titolare del diritto azionato, è tuttavia legittimato a farlo valere in giudizio in nome proprio, in quanto portatore di un interesse di natura pubblicistica” (Cass. n. 4327/1994; cfr. anche Cass. n. 7148/1993; n. 4165/1989; n. 4648/1980; n. 4254/1977; n. 4346/1974). Alla luce delle considerazioni che precedono, deve ritenersi che il Ministero dell’Interno, agendo in giudizio per l’esecuzione di un credito alimentare in veste di Istituzione Intermediaria, invochi la tutela di una situazione giuridica propria, id est l’interesse alla cooperazione internazionale e alla sollecita attuazione delle obbligazioni alimentari, distinta dalla situazione soggettiva creditoria, che, pur incisa dall’azione giudiziaria statale, rimane di esclusiva spettanza della parte sostituita. Pertanto, difettando il presupposto del potere di autotutela esecutiva contemplato nell’art. 17 D. Lgs. n. 46/1999 - non si riscontra cioè la presenza di alcuna entrata statale - l’amministrazione degli Interni, in ottemperanza agli obblighi assunti in sede internazionale, è tenuta ad attivare l’ordinario processo di esecuzione nel rispetto delle previsioni del Libro III c.p.c., con la precisazione che le somme rinvenenti dalla vendita o dall’assegnazione, in quanto non riconducibili alla categoria generale delle “entrate statali”, non possono essere incamerate nel bilancio statale, dovendo essere direttamente intestate al sostituito processuale. In tale modo si risolverebbero altresì gli ulteriori problemi sollevati dall’amministrazione finanziaria, in specie la carenza di un apposito capitolo di bilancio presso cui registrare le entrate derivanti dall’esecuzione forzata: in quanto il Ministero agisce per tutelare un interesse proprio, strettamente connesso con quello privato, senza acquisire alcun diritto di credito nei confronti del debitore italiano, o comunque soggetto alla giurisdizione italiana, le somme riscosse non dovranno essere registrate presso alcuna voce di bilancio statale, dovendo - come osservato - essere direttamente assegnate al creditore straniero. Alla luce delle premesse considerazioni, quindi, l’Autorità-Intermediaria, al fine di tutelare il proprio interesse, è chiamata ad agire dinnanzi al giudice dell’esecuzione, chiedendo - nel rispetto delle previsioni codicistiche - il pignoramento, l’assegnazione e/o vendita forzata dei beni del debitore e la distribuzione del ricavato, in maniera da garantire il soddisfacimento delle esigenze sociali sottese alla materia alimentare. Cosicchè, oltre ad essere realizzato l’interesse pubblico primario, risulterà contestualmente soddisfatto anche l’interesse privato secondario, posto che la positiva conclusione della procedura espropriativa presuppone la diretta intestazione delle somme rinvenenti dall’esecuzione in favore del creditore sostituito, senza pertanto possibilità alcuna di addivenire alla loro registrazione nel bilancio erariale. 242 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Il presente parere è passato all’esame del Comitato Consultivo, che si è espresso in conformità. Competenze dell’Agenzia del Demanio in materia di gestione di beni confiscati (Parere prot. 418413 del 25 ottobre 2012, AL 12909/11, avv. ALESSANDRA BRUNI) Codesta Agenzia propone alla Scrivente una articolata richiesta di parere, in ordine a svariate questioni inerenti la gestione dei beni confiscati, partendo dalla considerazione che il Demanio, prima della riforma normativa di cui alla legge 50 del 2010, ha ritenuto sussistere la propria competenza limitatamente alla gestione dei beni pervenuti all’erario a seguito di confisca irrevocabile disposta ai sensi della normativa antimafia (legge 575/1965 e art. 12 sexies del d.l. 306/1992). Più precisamente è stato chiesto di sapere : 1- quale sia il soggetto pubblico competente alla gestione dei beni confiscati all'esito di procedimenti penali inerenti la realizzazione o gestione non autorizzata di discariche ex art. 256, comma 3, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 e quale sia il soggetto tenuto all’eventuale ripristino e bonifica. 2- quale sia il soggetto pubblico competente alla gestione dei beni confiscati all'esito di procedimenti riguardanti la immigrazione clandestina ex d. lgs. 286/1998 e successive modifiche. 3- quale sia, nella ipotesi di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (legge 488 del 1992) ex art. 640 bis cp, il procedimento da seguire dopo la confisca, essendo applicabili gli artt. 640 quater cp e 322 ter cp e come ci si debba regolare nella ipotesi in cui oggetto della confisca a seguito delle citate disposizioni normative, siano società. Prima di entrare nel merito delle questioni da trattare sembra opportuno evidenziare che le numerose disposizioni normative che prevedono la confisca dei beni, non sono armonicamente coordinate fra loro, e che in qualche caso addirittura si sovrappongono, generando, ovviamente, difficoltà interpretative e applicative. Occorre pertanto tenere sempre presente la differenza che corre tra la confisca quale misura di prevenzione, prevista dalla normativa antimafia (oggi disciplinata dal decreto legislativo 159 del 2011), dalla confisca quale misura di sicurezza patrimoniale mutando, a seconda della tipologia del provvedimento di esproprio, il procedimento, l’oggetto, l’esecuzione del sequestro, l’amministrazione dei beni, la tutela dei terzi, la destinazione finale dei beni confiscati. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 243 La differenza fra i due istituti, ontologicamente diversi fra loro, è costituita dall’individuazione dei soggetti destinatari delle due misure. La confisca, quale misura di sicurezza, può essere applicata solo al soggetto condannato, laddove per la misura di prevenzione i soggetti destinatari sono preindividuati dalla normativa di riferimento che prescinde, inoltre, da un vincolo di pertinenzialità diretta tra i beni confiscati ed i reati per i quali si procede. Passando ai singoli quesiti si rileva quanto segue: Sul punto 1 quale sia il soggetto pubblico competente alla gestione dei beni confiscati all'esito di procedimenti penali inerenti la realizzazione o gestione non autorizzata di discariche ex art. 256, comma 3, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 e quale sia il soggetto tenuto all’eventuale ripristino e bonifica. La norma si inserisce nel corpus del codice dell'ambiente, finalizzato a semplificare, razionalizzare, coordinare e rendere più chiara la legislazione ambientale. La tutela contro i reati ambientali ivi contenuta è stata recentemente rafforzata in virtù dell'entrata in vigore del d.lgs. 7 luglio 2011, n. 121, che potenzia la risposta sanzionatoria per i reati già previsti, introduce nuove fattispecie incriminatrici e la responsabilità delle persone giuridiche anche per i reati ambientali. L’art. 256 comma 3 prevede che “Chiunque realizza o gestisce una discarica non autorizzata è punito con la pena dell'arresto da sei mesi a due anni e con l'ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro. Si applica la pena dell'arresto da uno a tre anni e dell'ammenda da euro cinquemiladuecento a euro cinquantaduemila se la discarica è destinata, anche in parte, allo smaltimento di rifiuti pericolosi. Alla sentenza di condanna o alla sentenza emessa ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale, consegue la confisca dell'area sulla quale è realizzata la discarica abusiva se di proprietà dell'autore o del compartecipe al reato, fatti salvi gli obblighi di bonifica o di ripristino dello stato dei luoghi”. Prima di affrontare le problematiche di cui alla richiesta di parere, sembra opportuno fare chiarezza su alcuni istituti giuridici. La confisca comporta l’acquisto della proprietà dei beni da parte dello Stato, a titolo originario per consolidato orientamento giurisprudenziale. Pertanto, anche i beni confiscati a seguito di realizzazione o gestione di discarica abusiva ex art. 256 del d.lgs. 152/2006 entrano a far parte definitivamente del “patrimonio pubblico” (Cass. Pen., sent. 28 maggio 2001, n. 21640). La Corte di Cassazione, con orientamento ormai consolidato, (Cass. Pen., I Sez., 14 luglio 2005, Sent. n. 25979; Cass., Sez. Unite, 28 gennaio - 23 marzo 1998) ha statuito “l’intangibilità della confisca ... anche in considerazione del fatto che, nel momento del passaggio in giudicato della sentenza che la dispone, …consegue un istantaneo trasferimento a titolo originario in favore 244 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 del patrimonio dello Stato del bene che ne costituisce l’oggetto con conseguente esaurimento della situazione giuridica considerata”. Quando si parla di proprietà dello Stato è verosimile ritenere, anche in forza del r.d. 2440/1923, che ci si riferisca all'attuale Ministero dell'Economia e delle Finanze. Quanto detto sin qui appare corroborato dalla circostanza che quando il legislatore ha voluto attribuire la proprietà ad un soggetto giuridico diverso dallo Stato, lo ha detto espressamente, come nel caso del trasferimento dei beni del demanio idrico a Regioni, Province e Comuni, ai sensi del d.lgs. 28 maggio 2010, n. 85. Comunque la distinzione tra titolarità della proprietà e potestà gestoria è un elemento caratteristico dei nuovi schemi di organizzazione amministrativa affermatisi negli anni Novanta. Nello specifico ci si riferisce all'art. 65 del d.lgs. 300/1999 che espressamente separa la proprietà, dalla competenza gestoria. Per la sopra citata disposizione normativa: "All'Agenzia del Demanio è attribuita l'amministrazione dei beni immobili dello Stato”. L’Agenzia non è dunque proprietaria dei beni che gestisce, la cui titolarità spetta allo Stato, ma assolve, per espressa disposizione di legge, le sole funzioni gestorie unicamente in relazione a beni immobili. La specificazione che le norme sulla gestione si riferiscono ai soli beni immobili, fatta salva la competenza prevista da normativa speciale, di altri soggetti pubblici, è stata ribadita anche nel decreto legge n. 95 del 2012 convertito in legge 135/2012 all’art. 3 comma 18. Sembra necessario chiarire anche che le norme di cui agli articoli 195 e seguenti del codice in materia ambientale riguardano la ripartizione di competenze tra Stato, Regioni ed enti locali limitatamente all’ordinario processo di smaltimento dei rifiuti, attribuendo in linea generale al potere centrale ampie potestà di organizzazione e coordinamento. Ripartizione di competenze che non incide sulla gestione dei beni confiscati collegati alle fattispecie di reati ambientali di cui parla lo stesso codice, La richiesta di parere tuttavia sembra rivolgersi nello specifico alle competenze gestorie piuttosto che a problematiche inerenti la proprietà. Al fine di rispondere al quesito posto sono inoltre necessari anche alcuni chiarimenti in ordine alla natura giuridica della confisca prevista dall’art. 256 co. III d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152. La stessa va ricondotta nell’alveo delle misure di sicurezza patrimoniali previste in via generale dall’art. 240 c.p.. Detto istituto ha invero come presupposto applicativo anche la pericolosità del bene soggetto al provvedimento ablativo e questo, peraltro, è l’unico elemento di continuità con la confisca quale misura di prevenzione patrimoniale prevista dalla normativa antimafia. I due istituti, di fatto divergono sotto plurimi profili che, sia pur sinteticamente, occorre ricordare. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 245 In primo luogo ai fini dell’applicazione della confisca quale misura di sicurezza patrimoniale tanto la norma codicistica, quanto quella speciale, prevedono la sussistenza di un pronunziamento di condanna laddove, per quel che riguarda la misura di prevenzione patrimoniale, essa giunge all’esito di un procedimento, quello di prevenzione, che non richiede la condanna del proposto bensì la mera sussistenza d’indizi rispetto a delitti di criminalità organizzata. La linea di demarcazione più profonda fra i due istituti, giova ripeterlo ontologicamente diversi fra loro, è allora costituita dall’individuazione dei soggetti destinatari delle due misure. Circa la confisca quale misura di sicurezza, la stessa può essere applicata solo al soggetto condannato, laddove per la misura di prevenzione i soggetti destinatari sono preindividuati dalla norma dianzi indicata. A ciò consegue che la confisca irrogata ex art. 256 cit., potendo essere applicata solo a seguito di una condanna o della sentenza di applicazione di pena su richiesta delle parti, non rientra nell’alveo delle misure di prevenzione. Ovviamente, in linea teorica, le aree sulle quali si commette il reato di discarica abusiva non sono astrattamente escluse dalla possibilità di confisca di prevenzione, ma sulla base di un procedimento diverso e che non prevede l’ applicazione della norma incriminatrice de qua. La diversa natura del provvedimento e del procedimento di applicazione conducono pertanto a diverse conseguenze rispetto al soggetto pubblico cui compete la gestione del bene confiscato. Nella ipotesi di confisca a seguito di condanna, è soggetto preposto alla gestione l’Agenzia del Demanio, laddove invece si tratti di reati contro la criminalità organizzata, previsti dalla normativa antimafia, sia quando la confisca viene disposta nell’ambito di un procedimento di prevenzione - e, quindi, quale misura di prevenzione - sia quando la confisca viene decretata in esito ad un procedimento di cognizione - e, quindi, quale misura di sicurezza -, per la gestione dell’immobile confiscato si dovrà fare esclusivo riferimento all’Agenzia per la Amministrazione e Gestione dei Beni Confiscati alla Criminalità Organizzata, soggetto giuridico istituito per tale finalità dalla legge 50-2010, modificata dalla legge 159 del 2011. Ai sensi del già citato art. 65 del dlgs 300 del 1999, come modificato dal dlgs 173 del 2003 la competenza nella gestione del Demanio è limitata ai soli beni immobili si legge infatti nel testo di legge: “All'Agenzia del Demanio è attribuita l'amministrazione dei beni immobili dello Stato, con il compito di razionalizzarne e valorizzarne l'impiego, di sviluppare il sistema informativo sui beni del demanio e del patrimonio, utilizzando in ogni caso, nella valutazione dei beni a fini conoscitivi ed operativi, criteri di mercato, di gestire con criteri imprenditoriali i programmi di vendita, di provvista, anche mediante l'acquisizione sul mercato, di utilizzo e di manutenzione ordinaria e straordinaria di tali immobili”. 246 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 “All'Agenzia è altresì attribuita la gestione dei beni confiscati. L'agenzia può stipulare convenzioni per le gestioni dei beni immobiliari con le regioni, gli enti locali ed altri enti pubblici. Può avvalersi, a supporto delle proprie attività estimative e sulla base di apposita convenzione, dei dati forniti dall'osservatorio del mercato immobiliare dell'Agenzia del Territorio”. In mancanza di una regolamentazione specifica per la categoria di beni, come si è verificato con la legge 50/2010, che ha istituito un nuovo soggetto giuridico quale “l’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata” per la gestione del patrimonio immobiliare sottratto alla criminalità organizzata, sembra si possa applicare la norma di carattere generale citata. Ai sensi e per gli effetti dell’art. 256 d.lgs 152 del 2006, coniugato il tenore letterale della norma con la natura giuridica dell’istituto della confisca, da riconnettersi come detto nella categoria delle misure di sicurezza patrimoniali, sembra potersi affermare che gli obblighi di bonifica previsti dalla disposizione citata incombano esclusivamente sul condannato, qualora questo sia proprietario dell’area, ovvero esso proprietario abbia comunque partecipato - rectius - concorso alla realizzazione della condotta incriminata. Invero, attesa anche la natura giuridica e la ratio della misura di sicurezza patrimoniale, sembra doversi escludere la responsabilità del proprietario dell’immobile, in buona fede, circoscrivendola quindi solo al caso di concorso nel reato. La conclusione sembra l’unica armonica rispetto al costante orientamento della Suprema Corte, volto ad escludere i presupposti del provvedimento ablativo della proprietà in tutti i casi in cui sia esclusa la sua responsabilità e, comunque il titolare del diritto reale risulti in buona fede. Tali conclusioni, oltre a conformarsi al generale principio di personalità della responsabilità penale e tutela dell'incolpevole affidamento del terzo in buona fede (Corte cost., sent. 10 gennaio 1997, n. 1), rispondono ad uno specifico orientamento della Cassazione in materia di confisca. Non a caso la Cassazione afferma che “la misura sanzionatoria non può ritorcersi in ingiustificati sacrifici delle posizioni giuridiche soggettive di chi sia rimasto estraneo all'illecito” e neanche può pregiudicare eventuali diritti reali di garanzia a favore di terzi, che “pur avendo tratto oggettivamente vantaggio dall'altrui attività criminosa, riescano a provare di trovarsi in una situazione di buona fede e di affidamento incolpevole finalizzata a dimostrare la reale estraneità al reato” (Cass. Pen., sez. I, sent. 29 aprile 2010, n. 29378). Ancor più incisivamente tale orientamento è stato recentemente riaffermato proprio in riferimento al reato di discarica abusiva, giungendo, in ipotesi di comproprietà, a limitare la confisca “alla sola quota del comproprietario responsabile del reato escludendo la quota del soggetto estraneo” (Cass. Pen., sez. III, sent. 2 luglio 2010, n. 37199). Alla luce di quanto sopra evidenziato, non è un caso che il disposto normativo del più volte citato art. 256 cod. amb. nel momento stesso in cui di- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 247 spone la confisca, fa salvi gli obblighi di bonifica o di ripristino dello stato dei luoghi, lasciando intendere chiaramente che quegli obblighi permangono a carico dell’autore o compartecipe del reato e salva, la responsabilità sussidiaria del proprietario non responsabile, prevista dall’art. 253 cod. amb. Sul punto 2 quale sia il soggetto pubblico competente alla gestione dei beni confiscati all'esito di procedimenti di confisca disposti nell’ambito della normativa in materia di immigrazione clandestina ex d.lgs. 286-1998 e successive modifiche. Ai sensi dell’art. 12, comma 5 bis, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 “... Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque cede a titolo oneroso un immobile di cui abbia la disponibilità ad un cittadino straniero irregolarmente soggiornante nel territorio dello Stato è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni. La condanna con provvedimento irrevocabile comporta la confisca dell'immobile, salvo che appartenga a persona estranea al reato. Si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni vigenti in materia di gestione e destinazione dei beni confiscati. Le somme di denaro ricavate dalla vendita, ove disposta, dei beni confiscati sono destinate al potenziamento delle attività di prevenzione e repressione dei reati in tema di immigrazione clandestina”. Nel caso di specie, non sembrano emergere particolari problemi ermeneutici, rimandando la legge speciale alla normativa generale sui beni confiscati, in quanto applicabile, sicchè si ritiene che in linea teorica, la gestione e la destinazione di tali beni possa rientrare nella competenza del Demanio attribuita dal già citato articolo 65 del d.lgs 300 del 1999, come modificato dal d.lgs 173 del 2003, precisando che la gestione deve considerarsi quale attività residuale ed eccezionale dovendo possibilmente il bene essere subito venduto con le modalità previste dall’art. 86 delle disp att. cod. proc. pen., cercando così di limitare gli oneri per la Amministrazione. Sul punto 3 quale sia, nella ipotesi di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (legge 488 del 1992) ex art. 640 bis cp, il procedimento da seguire dopo la confisca, essendo applicabili gli artt. 640 quater cp e 322 ter cp e come ci si debba regolare nella ipotesi in cui oggetto della confisca a seguito delle citate disposizioni normative, siano società. Il Demanio chiede quale sia il percorso da seguire per il recupero del credito erariale nella ipotesi di indebita percezione di contributi ex legge 488- 1992, qualora sia intervenuta sia la revoca da parte della Amministrazione del contributo, che la confisca della società, qualora si versi nella fattispecie di cui all’art 640 quater cp. Più precisamente codesta Agenzia chiede se sia esperibile per il recupero dei contributi indebitamente erogati, non l’ordinaria procedura che prevede l’intervento del concessionario della riscossione sulla base 248 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 dei provvedimenti di revoca emessi dal competente Dipartimento, ma mediante la vendita della stessa società a cura della Agenzia, tramite l’amministratore giudiziario, con procedura di gara alla quale dovrebbe prendere parte anche il MISE, mediante un proprio rappresentante in seno alla gara, facendo riferimento ad una esperienza maturata dal Demanio nella gestione delle società confiscate alla criminalità organizzata. Va preliminarmente posto in evidenza che nella richiesta di parere si richiama un provvedimento emesso dal Tribunale di Palermo, che però non è stato messo a disposizione della Scrivente. Il procedimento speciale di vendita individuato dal Demanio non sembra percorribile sulla base del seguente ordine di considerazioni. Il quesito rimanda, come già anticipato, alla fattispecie regolata dall’art. 640 quater cp. La norma sancisce la applicabilità dell’art. 322 ter cp (confisca) alle fattispecie di cui all’art. 640 secondo comma n. 1 cp (truffa a danno dello Stato o di altro ente pubblico), 640 bis cp (truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche). L’art. 322 ter cp, richiamato dall’art. 640 quater, consente la confisca per equivalente nelle ipotesi in cui la confisca diretta del prezzo o del profitto del reato in esso considerato sia impedita da un fatto sopravvenuto che ne abbia determinato la perdita o il trasferimento irrecuperabile (Cass. Pen., sez. V, sent. 1 ottobre 2002 n. 32797). La confisca prevista dall’art. 322-ter c.p. (delitti contro la P.A.). è stata inserita nel codice penale dall’art. 3, comma 1, Legge 29 settembre 2000, n. 300, che prevede in caso di condanna che venga disposta la confisca dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, dei beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo. Ai sensi dell’art. 86 disp. att. c. p. p. i beni oggetto di confisca penale sono destinati alla vendita, salvo che per essi non sia prevista una specifica destinazione. La vendita dei beni è regolata dagli articoli 149, 152, 153, 154 e 156 del T.U. sulle spese di giustizia contenuto nel DPR 30 maggio 2002, n. 115. Per la vendita si deve seguire l’iter procedimentale indicato dalla sopra citata disposizione normativa, ossia: la vendita è eseguita a cura dell’Ufficio, anche a mezzo degli istituti di vendite giudiziarie (art. 152 T.U.), e le somme ricavate dalla vendita sono devolute alla cassa delle ammende (art. 154 T.U.), dedotte le spese sostenute nella procedura di vendita (art. 156 T.U.). L’art. 149 del citato T.U. detta, però, una norma di raccordo in forza della quale la vendita dei beni sottoposti a sequestro penale, e quindi alla successiva confisca, è regolata dalle norme citate, se non diversamente previsto da norme speciali. In linea generale dunque i beni confiscati vanno venduti (art. 86 disp. att. c.p.p.) seguendo le procedure previste dal TU sulle spese di giustizia (artt. 153 ss. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 249 TU spese di giustizia). Dunque è tramite la vendita che l’Erario può astrattamente rientrare dei contributi illegittimamente percepiti dall’impresa poi confiscata. Ciò premesso è pur vero che il predetto TU (art. 149) astrattamente configura delle possibili deroghe. Nella fattispecie in esame una deroga potrebbe essere costituita dalla ipotesi prevista dal d.lgs. 270/1999 e successive modifiche, che offre la possibilità di procedure particolari di vendita con forme adeguate alla natura dei beni e finalizzate al migliore realizzo, in conformità ai criteri stabiliti dal Ministero dello Sviluppo Economico. Tuttavia, per potersi applicare questa normativa è però preventivamente necessario verificare la sussistenza dei requisiti di ammissione di cui all’art. 2 del citato d.lgs. 270, come modificato da ultimo con l. 244/2007 (legge finanziaria per l’anno 2008), art. 1, co. 257. In generale l’amministrazione straordinaria è la procedura concorsuale che caratterizza la grande impresa commerciale insolvente, con finalità conservative del patrimonio produttivo, mediante prosecuzione, riattivazione o riconversione delle attività imprenditoriali. Ne discende che vi sono soggette anzitutto imprese aventi requisiti tali da comprovarne le grandi dimensioni (numero di lavoratori subordinati non inferiori a 200 e debiti per un ammontare non inferiore ai due terzi del totale dell'attivo dello stato patrimoniale e dei ricavi dell'ultimo esercizio). La summenzionata finanziaria del 2008 ha inoltre esteso la portata applicativa della normativa de qua, anche in mancanza dei requisiti dimensionali di cui sopra, alle imprese confiscate ai sensi della legge 575/1965 (v. ora, il d. lgs. n. 159 del 2011). Nel caso di specie non risulta che le imprese oggetto della richiesta di parere soddisfino le condizioni per essere definite “grandi” imprese né risulta, dalla documentazione in possesso della Scrivente, che le confische di cui si discute siano in qualche modo ricollegabili alle fattispecie previste dalla legge 575/1965 (v. il d.lgs n. 159 del 2011). A tal proposito va comunque rilevato che codesta Agenzia non ha trasmesso, come già posto in evidenza, la sentenza del Tribunale di Palermo. Peraltro va evidenziato che, qualora i provvedimenti ablativi fossero stati disposti ai sensi della più volte citata legge 575, la gestione dei beni sarebbe spettata comunque alla Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata in forza del richiamato decreto legislativo n. 159 del 2011. Pertanto, alla luce di quanto rappresentato, non si ravvisano gli estremi per derogare alle procedure di vendita di cui al T.U. sulle spese di giustizia (vedi anche parere dell’Avvocatura distrettuale di Catanzaro del 2 febbario 2010 prot. 1655). Si precisa da ultimo, alla luce delle condizioni economiche e finanziarie delle imprese oggetto di confisca, che, qualora le stesse falliscano, si applicheranno le norme sul fallimento. 250 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 La circostanza che una società sia stata confiscata non porta come conseguenza di poter escludere la dichiarazione di fallimento della stessa, sicché sussistendo lo stato di insolvenza, anche una società che sia stata totalmente o parzialmente confiscata deve necessariamente ritenersi soggetta a fallimento. Il principio della fallibilità delle società commerciali di cui lo Stato sia socio, risulta costantemente affermato dalla giurisprudenza. Sul punto si allega comunque altro parere della Scrivente che ha diffusamente trattato il profilo. Alla luce delle considerazioni svolte, sembra non configurabile il percorso speciale di vendita e recupero delle agevolazioni ex lege 488/1992 evidenziato nella nota del 23 settembre u.s. Il procedimento da seguire, come peraltro anche evidenziato dalla Avvocatura di Catanzaro, nel parere del 2 febbraio 2010, già richiamato, è quello di cui all’art. 86 disp. att. c.p.p. e artt. 149 ss. T.U. in materia di spese di giustizia, in forza del quale dovrà procedersi a mezzo degli appositi istituti di vendita giudiziaria, non trovando fondamento giuridico, per la fattispecie in esame, la considerazione della esperienza acquisita dal Demanio relativamente alla gestione di società confiscate alla criminalità organizzata. La questione è stata esaminata dal Comitato Consultivo che si è espresso in conformità nella seduta del 22 ottobre 2012. Materia doganale: natura della violazione prevista dall'art. 302 co. 1 del d.p.r. 23 gennaio 1973 n. 43. (Parere prot. 421776 del 26 ottobre 2012, AL 3355/11, avv. ANTONIO GRUMETTO) Con la richiesta di consultazione in esame codesta Agenzia chiede di sapere: 1) se la sanzione prevista dall'articolo 302, comma 1, del d.p.r. 43/73 sia una sanzione formale o una sanzione sostanziale e ciò agli effetti dell'applicazione della causa di non punibilità prevista dall'articolo 6, comma 5 bis, del D.lgs 472/97; 2) quale sia la rilevanza del comportamento del capitano della nave che presenta la richiesta di iscrizione postuma di merce non dichiarata nel manifesto precedentemente presentato dallo stesso alla Dogana. Per rispondere ai due quesiti occorre fare alcune premesse. Occorre innanzitutto premettere che, come è noto, il comma 5 bis dell'articolo 6 del D.lgs 472/97 stabilisce che non sono punibili le violazioni che non arrecano pregiudizio all'esercizio dell'azione di controllo e non incidono sulla determinazione della base imponibile, dell'imposta e sul versamento del tributo. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 251 Tale disposizione si applica, come è reso evidente dalla intestazione del predetto D.lgs, in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie; ragion per cui sorge la necessità di stabilire se la sanzione prevista dall'articolo 302 del d.p.r. 43/73 per le differenze tra il carico ed il manifesto costituisca una sanzione comminata per la violazione di una norma tributaria. Ritiene la Scrivente che a questo primo quesito debba darsi una risposta positiva. Ciò in primo luogo per il tipo di sanzione prevista per la violazione della disposizione dell’art. 301, comma 1, TULD, che è commisurata all'ammontare dei diritti di confine (rectius: dei tributi doganali) e che rende manifesta la ratio sottesa alla disposizione incriminatrice, da ravvisare nell'esigenza di assicurare, attraverso la veridicità del contenuto del manifesto di carico, il controllo sul corretto pagamento dei tributi doganali. Tale interpretazione della disposizione in esame trova, del resto, una conferma nella disposizione dell'ultimo comma dell'articolo 302, che nella sua attuale formulazione (risultante dall'articolo 10 del D.lgs 18 dcembre 1997, numero 473) espressamente prevede, in luogo dell'originaria pena dell'ammenda, una sanzione amministrativa per le altre violazioni relative al manifesto di carico. Non è un caso che proprio l'articolo 10 del D.lgs 473/97 rechi la rubrica "sanzioni in materia di tributi doganali e di imposte sulla produzione e sui consumi", rendendo così evidente che l'intervento con tale disposizione attuato sul testo dell'ultimo comma dell'articolo 302 TULD ha comportato una modifica "in materia di sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie". Ragion per cui se per il Legislatore la violazione prevista dall'ultimo comma dell'articolo 302 comporta una sanzione amministrativa per la violazione di una norma tributaria, ad analoga conclusione non può non pervenirsi anche per la sanzione prevista dal primo comma della medesima disposizione. Precisata la natura della violazione prevista dall'articolo 3021 TULD, va ricordato come la disposizione del comma 5 bis dell'articolo 6 del D. Lgs 472/97 escluda la punibilità delle violazioni meramente formali, da intendersi per tali quelli che "non arrecano pregiudizio all'esercizio delle azioni di controllo e non incidono sulla determinazione della base imponibile, dell'imposta e sul versamento del tributo”. Come correttamente ricorda codesta Agenzia nella richiesta di parere, ai fini dell'applicazione dell'esimente in parola è necessario che siano escluse entrambe le circostanze, ora ricordate, del pregiudizio all'azione di controllo e dell'incidenza sulla determinazione della base imponibile, dell'imposta e sul versamento del tributo, come è del resto reso evidente dall’uso della congiunzione "e" adoperata nel testo della disposizione in esame e come da tempo ha avuto occasione di precisare anche l'Agenzia delle Entrate con circolare del 3 agosto 2001 n. 77/E. Pertanto anche la sussistenza di una soltanto delle due condizioni com- 252 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 porta l'inapplicabilità dell'esimente e la conseguente punibilità della violazione. Quanto, infine, al problema dell'applicabilità della disposizione dell'articolo 6, comma 5 bis, del D. Lgs 472/97 all'illecito previsto dall'articolo 302 del TULD, ritiene la Scrivente di dover esaminare separatamente le 2 circostanze previste dal predetto comma 5 bis dell’articolo 6. Viene in primo luogo in esame la seconda ipotesi prevista dal comma 5 bis, vale a dire quella in cui le differenze tra il carico e il manifesto non abbiano inciso sulla determinazione della base imponibile, dell'imposta sul versamento del tributo. Sotto questo profilo, con la nota del 29 aprile 2011 protocollo 145162 la Scrivente aveva richiesto a codesta Agenzia chiarimenti sull'efficacia del "manifesto di carico" ed in particolare sul se la presentazione del manifesto di carico costituisca presentazione della merce in dogana ai fini della determinazione dei diritti doganali. Con la nota del 7 giugno 2011 protocollo 68480, rispondendo a tale richiesta di chiarimenti, codesta Agenzia ha precisato che "la dichiarazione sommaria che, per le merci provenienti da mare, è costituita dal manifesto di carico, consente alla dogana l'esercizio della vigilanza sulle merci arrivate dall'estero dal momento del loro arrivo nel territorio doganale fino al momento del loro esito con il vincolo ad un regime doganale mediante la presentazione di una dichiarazione doganale nelle forme previste dalla normativa di settore, cui si ricollega anche la nascita dell'obbligazione". Con tale precisazione deve pertanto ritenersi acquisito, come prefigurato nella richiesta di chiarimenti della Scrivente del 29 aprile 2011, che la presentazione del manifesto di carico non determina la nascita dell'obbligazione doganale, in conformità, del resto, a quanto prevede l'articolo 201, 2º paragrafo, del CDC (Reg Ce 2913/92), il quale subordina la costituzione dell'obbligazione doganale al momento dell'accettazione della dichiarazione doganale per un determinato regime di vincolo della merce; laddove l'articolo 95 del TULD stabilisce che le merci che hanno formato oggetto della dichiarazione sommaria e quelle che sono descritte nei manifesti delle navi devono essere introdotte, di regola entro 24 ore dall'arrivo o dallo sbarco, nei magazzini o nei recinti di temporanea custodia in attesa che sia ad esse data una destinazione doganale o che siano rispedite fuori del territorio doganale. In conclusione, in considerazione della irrilevanza del contenuto del manifesto di carico, considerato in se stesso, ai fini della nascita dell'obbligazione doganale, sembra alla Scrivente che le differenze fra il carico e il manifesto possono considerarsi violazioni formali ai sensi della seconda parte del comma 5 bis dell'articolo 6 del D. Lgs 472/97, dato che il contenuto del manifesto di carico non costituisce elemento di per sé costitutivo dell'obbligazione doganale. *** A diversa conclusione, a giudizio della Scrivente, deve invece, pervenirsi per quanto concerne la seconda circostanza prevista dal comma 5 bis dell'ar- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 253 ticolo 6 del D. Lgs 472/97 e cioè la interferenza fra le incompletezze del manifesto di carico e l'azione di controllo svolta da codesta Agenzia sulle merci oggetto di tale manifesto. Con nota del 30 maggio 2012 protocollo 214814, la Scrivente ha richiesto a codesta Agenzia di specificare le modalità di svolgimento dell'analisi dei rischi che l'autorità doganale compie ai sensi dell'articolo 184 quinques del Regolamento al CDC (Reg Ce 2454/93). Ciò al fine di comprendere se tale analisi dei rischi costituisca l'esercizio di un'azione di controllo che possa essere pregiudicata dalle differenze tra il carico e il manifesto di carico. Con nota dell'11 luglio 2012 protocollo 85692, codesta Agenzia ha fatto tenere alla Scrivente la relazione del 22 giugno 2012 dell'Ufficio centrale antifrode di codesta Agenzia, nella quale si specificano non i tipi di controlli doganali che vengono svolti nei riguardi delle merci in arrivo nell'Unione Europea. Da tale relazione risulta che i controlli doganali possono essere suddivisi in 3 categorie e precisamente: 1) controlli di sicurezza effettuati prima dell'arrivo della merce nell'Unione Europea e destinati soprattutto al contrasto delle minacce alla sicurezza della UE e della salute dei suoi cittadini; 2) controlli di tipo tributario ed extra-tributario effettuati al momento dell'arrivo della merce nell'Unione Europea e prima che la stessa venga vincolata ad una destinazione doganale prevista dal CDC (Reg Ce 2913/92); 3) controlli effettuati sulla base della dichiarazione di vincolo ad una destinazione doganale. Così classificate le azioni di controllo svolte da codesta Agenzia sulle merci in arrivo nel territorio dell'Unione, ritiene la Scrivente che ai fini della consultazione in esame debbano essere esclusi i controlli di sicurezza effettuati prima dell'arrivo della merce nell'Unione Europea (§1) in quanto destinati a finalità diverse da quella di assicurare il corretto pagamento di tributi doganali; nonché i controlli effettuati sulla base della dichiarazione di vincolo ad una destinazione doganale (§2), in quanto, come si è precisato in precedenza, il manifesto di carico riguarda merci non ancora vincolate ad una destinazione doganale. Con riferimento, viceversa, ai controlli di cui al punto 2) che precede, le ipotesi che possono verificarsi in concreto evidenziano il rischio che le divergenze tra il carico e il manifesto di carico incidano sul corretto svolgimento di controlli di tipo tributario da effettuarsi al momento dell'arrivo della merce nell'Unione Europea. E poiché, come evidenzia codesta Agenzia nella ricordata relazione del 22 giugno 2012 dell'Ufficio centrale antifrode, i controlli in esame vengono attuati sulla base di un'analisi dei rischi dell'ufficio locale che riceve il manifesto e in base ai dati inseriti in quest'ultimo, le divergenze tra il carico ed il manifesto possono effettivamente arrecare pregiudizio all'azione di controllo e, in caso di accertata divergenza fra la dichiarazione sommaria e il carico 254 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 della nave, determinare l'applicazione delle sanzioni amministrative previste dall'articolo 302 TULD. Se tali sanzioni debbano, poi, applicarsi in un caso specifico è questione che prescinde dalla formulazione del parere richiesto alla Scrivente e che è subordinata alla verifica dell’effettivo pregiudizio all'azione di controllo svolta nel caso di specie da codesta Agenzia. Al riguardo va ricordato come l'applicazione del comma 5 bis dell'articolo 6 del D. Lgs 472/97 preveda la punibilità dell'illecito amministrativo solo per le violazioni che non arrecano pregiudizio all'esercizio delle azioni di controllo, con ciò intendendosi per tali quelle violazione che in concreto non abbiano ostacolato l'attività di controllo svolta dall'ufficio. In altri termini non è sufficiente, per escludere la natura meramente formale della violazione, che quest'ultima possa arrecare pregiudizio all'esercizio dell'azione di controllo dell'ufficio, dato che in questo caso per le ipotesi di divergenza tra il carico ed il manifesto, per quanto si è detto in precedenza, la violazione non potrebbe mai ritenersi meramente formale; ai fini dell'applicabilità della esimente è, viceversa, necessario che la violazione non abbia in concreto determinato un ostacolo all'attività di controllo svolta dall'ufficio, dovendosi avere riguardo, in tal caso alle specifiche circostanze di fatto in cui è stata commessa la violazione. *** Il secondo quesito sottoposto da codesta Agenzia la Scrivente riguarda "la qualificazione della condotta di un capitano di nave che presenta una richiesta di iscrizione postuma di merce non dichiarata nel manifesto precedentemente presentato dallo stesso alla Dogana". Com'è evidente dalla stessa formulazione del quesito, la risposta ad esso richiederebbe una più specifica illustrazione delle circostanze di fatto relative all'ipotesi avuta presente da codesta Agenzia. In mancanza, la risposta della Scrivente non può che avere un contenuto di carattere generale. Dalla qualificazione delle sanzioni previste dall'articolo 302 TULD come sanzioni relative alla violazione di norme tributarie deriva, per quanto si è detto, la applicabilità ad esse della disposizione dell'articolo 13 del D. Lgs 472/97 in materia di ravvedimento. Fermo rimanendo che il beneficio previsto dalla disposizione dell'articolo 13 non può essere applicato quando la violazione sia stata già constatata o comunque siano iniziati accessi, ispezioni, verifiche o altre attività amministrative di accertamento delle quali l'autore ed i soggetti solidalmente obbligati abbiano avuto conoscenza, ad avviso della Scrivente, tuttavia, la formulazione della norma non sembrerebbe prestarsi ad una applicazione nel caso sottoposto alla Scrivente. Ciò in quanto l'ipotesi avuta presente dal Legislatore nella formulazione di tale disposizione deve ritenersi limitata alle ipotesi di errori e omissioni PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 255 nella presentazione di dichiarazioni rilevanti ai fini della determinazione dell'imponibile, dell'imposta o sul versamento del tributo. Non solo, infatti, il primo comma esclude l'applicazione dell'articolo 13 nei casi in cui siano iniziati accessi, ispezioni, verifiche o altre attività amministrative di accertamento, - con il che sembra alludersi in realtà ad attività che comunque abbiano ad oggetto la individuazione dell'imponibile, la determinazione dell'imposta o la verifica del corretto versamento del tributo - ; ma a confermare l'interpretazione data all'ambito di applicazione della presente disposizione concorrono: 1. da un lato, l'ipotesi prevista dalla lettera a) del primo comma, la quale fa espressamente riferimento al mancato pagamento del tributo o di un acconto quale fatto illecito cui è applicabile, in caso di ravvedimento operoso, la riduzione della sanzione; 2. dall’altro, il riferimento contenuto nel primo comma all'autore e ai soggetti solidalmente obbligati con quest'ultimo, con il che, ad avviso della Scrivente, sembrerebbe alludersi ad un comportamento di ravvedimento posto in essere dopo la nascita dell'obbligazione tributaria (senza la quale non potrebbe parlarsi di soggetti solidalmente obbligati con l'autore del ravvedimento). E poiché, come si è detto in precedenza, le divergenze tra il carico ed il manifesto di carico non incidono sulla determinazione del tributo doganale, richiedendosi a tal fine una dichiarazione doganale di vincolo delle merci ad un determinato regime, ritiene la Scrivente che sia da escludersi per le sanzioni previste dall'articolo 302 TULD la applicabilità dell'istituto del ravvedimento. Non è irrilevante, in conclusione, sottolineare, altresì, che l'ipotesi del ravvedimento in caso di omissioni o di errori che non ostacolino accertamenti in corso o che non incidano sulla determinazione o sul pagamento del tributo era in origine prevista dal 4º comma dell'articolo 13 in esame, con disposizione poi abrogata dall'articolo 7, comma 1, lettera b) del D. Lgs 32/01 e quindi con disposizione autonoma rispetto al primo comma del medesimo articolo, per la quale, dunque, il ravvedimento poteva essere posto in essere anche prima e indipendentemente dalla nascita dell’obbligazione (presupposta invece, per quanto si è detto, dalla disposizione del primo comma). Ciò non toglie, comunque, che sarebbe auspicabile una modifica della disposizione dell’art. 13 del Dlgs cit. che consenta di dare rilevanza al ravvedimento posto in essere anche nel caso di errori od omissioni contenuti nel manifesto di carico, rilevanza che, per quanto detto, non appare immediatamente contemplata dall'attuale formulazione legislativa della predetta disposizione. Sulla questione è stato sentito il Comitato consultivo della Scrivente il quale si è espresso in conformità. 256 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Pagamento del tributo in pendenza del processo: compatibilità dell’art. 68 co. 2, D.Lgs. n. 546/92 al Codice Doganale Comunitario (Parere prot. 7307 dell’8 gennaio 2013, AL 23083/08, avv. GIANNI DE BELLIS) Con la precedente nota 26 marzo 2009 n. 99560, questa Avvocatura esprimeva il proprio parere in ordine al quesito formulato da codesta Agenzia, concernente l’applicabilità dell’art. 68 comma 2 del D.Lgs n. 546/1992 ai soli tributi oggetto di riscossione frazionata ovvero anche a quelli (come le imposte doganali) per i quali opera invece la riscossione totale in pendenza di giudizio. Nel citato parere la Scrivente evidenziava: a) che l’art. 68 comma 2 citato (in forza del quale che, una volta intervenuta una pronuncia di merito della Commissione tributaria che dichiari non dovuto un tributo, l’Amministrazione deve provvedere d’ufficio alla restituzione delle somme medio tempore incamerate), si configurava come “un principio di carattere generale, applicabile a tutti i casi di ricorso avverso un atto impositivo, indipendentemente dal fatto che la riscossione del tributo in corso di causa sia frazionata o meno”; b) che “L’attribuzione di una sorta di immediata esecutività alla sentenza del giudice di merito (come emerge dall’art. 68 comma 2), appare più coerente con il sistema processuale nel suo complesso”, in quanto costituisce la regola nel processo civile (art. 282 c.p.c.); c) che anche per le misure cautelari in materia tributaria il legislatore ne aveva previsto la caducazione in presenza di una sentenza di merito sfavorevole all’Amministrazione, ancorchè non definitiva (art. 22 D.Lgs. n. 472/1997); d) che in tal senso era anche orientata la giurisprudenza della Suprema Corte in tema di fermo amministrativo ex art. 69 L. Cont. St. Il parere citato non si occupava del diverso problema delle garanzie, al quale non si faceva cenno nella richiesta di parere formulata con la nota 11 giugno 2008 n. 1610/IV/08. Con la nota 16 aprile 2012 n. 40951/R.U., codesta Agenzia ha ora evidenziato: 1) che l’interpretazione della Scrivente data nel citato parere 26 marzo 2009 “era stata confermata anche dalla Commissione Europea – Direzione Generale TAXUD” con nota 23 novembre 2009 n. 371939, alla quale codesta Agenzia aveva rivolto specifico quesito in relazione ai dazi doganali; 2) che la D.G. TAXUD aveva evidenziato: - che la legislazione doganale comunitaria non conteneva disposizioni che disciplinassero gli effetti sulle garanzie di una sentenza di merito impugnata dall’Amministrazione; - che conseguentemente trovava applicazione la legislazione nazionale; - che prevedendo quest’ultima l’immediata esecutività della sentenza PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 257 (anche se impugnata dall’Amministrazione), l’eventuale garanzia avrebbe dovuto essere restituita; 3) che alla luce dei due pareri suddetti codesta Agenzia con nota 12 gennaio 2010 n. 171956/RU.2009 ‹‹aveva impartito conformi disposizioni stabilendo che, in presenza di una sentenza favorevole alla parte della Commissione Tributaria Provinciale notificata all’Amministrazione, gli uffici doganali avrebbero dovuto procedere ad effettuare il rimborso di quanto eventualmente già corrisposto, in eccedenza, dal contribuente, nonché a svincolare le eventuali garanzie a tutela del credito in contestazione ed a sgravare il ruolo esattoriale eventualmente formato in relazione alla decisione di “prime cure”, essendo venuto meno l’atto impositivo o di irrogazione della sanzione che legittimava l’esecuzione a ruolo››; 4) che successivamente con nota 24 maggio 2011 n. 561809, la Direzione Generale Bilancio della Commissione Europea manifestava un diverso orientamento, in particolare sostenendo che “Secondo i servizi della Commissione, il rimborso non è possibile se l'organo competente a decidere il ricorso si esprime nel senso contrario all'Agenzia delle Dogane ma quest'ultima decide di continuare con i successivi gradi di giudizio. In tale eventualità, la decisione oggetto di ricorso sarebbe ancora pendente e non sarebbe possibile procedere al rimborso ai sensi dell'articolo 236 del regolamento (CEE) n. 2913/92. Non è, pertanto, previsto il rimborso al soggetto passivo dell'importo versato, né sono previste rettifiche all'articolo 8 del regolamento (CE, Euratom) n. 1150/2000”; 5) che la divergenza tra le due Direzioni Generali della stessa Commissione è stata risolta dal Servizio Giuridico, le cui conclusioni sono state recepite con la nota congiunta 14 marzo 2012 n. 256812 delle due medesime Direzioni Generali; 6) che la posizione ufficiale della Commissione Europea è quindi ormai nel senso: - che la garanzia prestata non debba essere svincolata nei casi di sentenza sfavorevole all’Amministrazione, la quale ritenga però d’impugnarla, dovendo permanere fino al passaggio in giudicato di una sentenza sfavorevole; - che tale principio si desume dall’art. 199 del CDC (Codice Doganale Comunitario) n. 2913/1992 con il quale pertanto si porrebbe in contrasto l’art. 68 comma 2 del D.Lgs. n. 546/1992 laddove stabilisce l’immediata esecutività tra le parti della sentenza; - che l’art. 68 si porrebbe in contrasto anche con l’art. 17 par. 1 del Reg. CEE n. 1150/2000; - che conseguentemente l’Italia dovrebbe modificare la disposizione suddetta per renderla conforme alla normativa comunitaria. Alla luce di quanto sopra esposto codesta Agenzia ha chiesto il parere della Scrivente in ordine alla posizione della Commissione Europea “se cioè la posizione dell'Esecutivo europeo sia giuridicamente condivisibile oppure vi siano, invece, motivi che possano legittimamente sostenere la compatibilità 258 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 dell'articolo 68, comma 2, del Decreto Legislativo n. 546/1992 con la normativa dell'Unione, utili per consentire a questa Agenzia di replicare alla nota della Commissione Europea”. Ciò premesso, questa Avvocatura osserva quanto segue. Osservazioni generali In via generale, le conseguenze che possono derivare dalla emanazione di una sentenza di merito non definitiva del giudice tributario che ritenga infondata una pretesa fiscale possono attenere a tre diversi profili e precisamente: a) alla sorte delle eventuali garanzie a favore dell’Amministrazione che assistevano il credito in contestazione. b) alla possibilità di proseguire o meno la riscossione coattiva del credito; c) all’eventuale obbligo di restituzione delle somme già eventualmente riscosse. La normativa nazionale Dal punto di vista della normativa nazionale, l’art. 68 comma 2 disciplina l’ipotesi c) prevedendo l’obbligo per l’Amministrazione di restituire le somme già riscosse entro 90 giorni dalla sentenza favorevole al contribuente. Tale previsione appare ostativa anche all’ipotesi b) non potendosi logicamente ipotizzare una riscossione di somme che la norma impone nel contempo di restituire. L’art. 68 non si occupa invece degli effetti sulle garanzie (ipotesi a). Una disciplina al riguardo si trova in materia di IVA nell’art. 38 bis comma 6 del D.P.R. n. 633/1972, in base al quale nelle ipotesi in cui il contribuente ottenga il rimborso “accelerato” dell’IVA a credito risultante dalla dichiarazione, “Se successivamente al rimborso o alla compensazione viene notificato avviso di rettifica o accertamento il contribuente, entro sessanta giorni, deve versare all'Ufficio le somme che in base all'avviso stesso risultano indebitamente rimborsate o compensate, insieme con gli interessi del 2 per cento annuo dalla data del rimborso o della compensazione, a meno che non presti la garanzia prevista nel secondo comma fino a quando l'accertamento sia divenuto definitivo”. In materia doganale rilevano gli artt. 87 e 89 del TULD approvato con D.P.R. n. 43/1973, i quali non contengono però alcuna disciplina in ordine alla questione suddetta. La normativa comunitaria Dal punto di vista comunitario rilevano gli articoli 244 e 199 del CDC del 1992. In particolare l’art. 244 così dispone: “La presentazione di un ricorso non sospende l'esecuzione della decisione contestata. Tuttavia, l'autorità doganale può sospendere, in tutto o in parte, l'esecu- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 259 zione della decisione quando abbia fondati motivi di dubitare della conformità della decisione impugnata alla normativa doganale, o si debba temere un danno irreparabile per l'interessato. Quando la decisione impugnata abbia per effetto l'applicazione di dazi all'importazione o di dazi all'esportazione, la sospensione dell'esecuzione è subordinata all'esistenza o alla costituzione di una garanzia. Tuttavia non si può esigere detta garanzia qualora, a motivo della situazione del debitore, ciò possa provocare gravi difficoltà di carattere economico o sociale”. L’art. 199 prevede che: “1. La garanzia non può essere svincolata finché l'obbligazione doganale per la quale è stata costituita non si è estinta o non può più sorgere. La garanzia deve essere svincolata non appena l'obbligazione doganale è estinta o non può più sorgere. 2. Quando l'obbligazione doganale è parzialmente estinta o non può più sorgere per una parte dell'importo garantito, la garanzia costituita viene, a richiesta dell'interessato, parzialmente svincolata, a meno che l'importo stesso non lo giustifichi”. Le citate disposizioni (richiamate nel parere della Commissione Europea), non più in vigore dal 24 giugno 2008, sono ora contenute (con formulazione sostanzialmente identica) negli artt. 24 e 65 del Reg. (CE) 23 aprile 2008 n. 450/2008 (1) Profilo a): lo svincolo delle garanzie A parere della Scrivente la posizione della Commissione Europea in ordine agli effetti dell’art. 199 sopra riportato appare condivisibile, dal momento che la disposizione espressamente pone un divieto di svincolo della garanzia (1) L’art. 24 del Reg. (CE) n. 450/2008 così dispone “Articolo 24 Sospensione dell'applicazione 1. La presentazione di un ricorso non sospende l'applicazione della decisione contestata. 2. Le autorità doganali sospendono tuttavia, interamente o in parte, l'applicazione di tale decisione quando hanno fondati motivi di ritenere che la decisione contestata sia incompatibile con la normativa doganale o che vi sia da temere un danno irreparabile per l'interessato. 3. Nei casi in cui al paragrafo 2, quando la decisione contestata ha per effetto l'obbligo di pagare dazi all'importazione o dazi all'esportazione, la sospensione di tale decisione è subordinata alla costituzione di una garanzia, a meno che sia accertato, sulla base di una valutazione documentata, che tale garanzia può provocare al debitore gravi difficoltà di carattere economico o sociale. La Commissione può adottare, secondo la procedura di regolamentazione di cui all'articolo 184, paragrafo 2, misure per l'applicazione del primo comma del presente paragrafo”. Il successivo art. 65 dispone: “Articolo 65 Svincolo della garanzia. 1. Le autorità doganali svincolano immediatamente la garanzia quando l'obbligazione doganale o l'obbligo di pagamento di altri oneri è estinto o non può più sorgere. 2. Quando l'obbligazione doganale o l'obbligo di pagamento di altri oneri è parzialmente estinto o può sorgere solo per una parte dell'importo garantito, su richiesta dell'interessato la parte corrispondente della garanzia costituita viene svincolata, salvo nel caso che l'importo in questione non lo giustifichi. 3. La Commissione può adottare, secondo la procedura di regolamentazione di cui all'articolo 184, paragrafo 2, misure per l'applicazione del presente articolo. 260 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 “finché l'obbligazione doganale per la quale è stata costituita non si è estinta o non può più sorgere” (ed un annullamento disposto con sentenza non irrevocabile non è idoneo a provocare l’estinzione della obbligazione). Di converso la stessa disposizione impone lo svincolo “non appena l’obbligazione doganale è estinta”. Profilo b): sospensione della riscossione Riguardo il rapporto tra l’ipotesi b) con l’art. 244 del CDC del 1992, il cui par. 1 prevede che “La presentazione di un ricorso non sospende l'esecuzione della decisione contestata”, si ritiene che anche in questo caso la norma potrebbe non ritenersi in contrasto con l’art. 68 comma 2 del D.Lgs. n. 546/1992. Occorre infatti considerare che la Corte di Giustizia nell’interpretare l’art. 244 del CDC ha precisato che esso “va interpretato nel senso che attribuisce la facoltà di disporre la sospensione dell'esecuzione di una decisione impugnata solo alle autorità doganali. Tuttavia, tale disposizione non limita il potere di cui dispongono le autorità giudiziarie adite con un ricorso ai sensi dell'art. 243 del medesimo regolamento di disporre una siffatta sospensione per conformarsi al loro obbligo di assicurare la piena efficacia del diritto comunitario” (sentenza 11 gennaio 2001 in causa C-1/99 Kofisa Italia). Ne consegue che se un giudice nazionale può sospendere l’esecuzione dell’atto impugnato, a maggior ragione un tale effetto può (legittimamente) conseguire ad una decisione di merito (ancorchè non definitiva) che annulli l’atto medesimo. La compatibilità della ipotesi b) con la normativa comunitaria non sembra quindi contestabile. Profilo c): obbligo di restituzione delle somme Resta da esaminare l’ipotesi c), e cioè se sia compatibile con l’ordinamento comunitario il citato art. 68 comma 2 del D.Lgs. n. 546/1992 laddove (oltre a paralizzare l’azione esecutiva dell’Amministrazione a seguito di una sentenza anche non definitiva alla stessa sfavorevole), impone la restituzione delle somme nel frattempo già riscosse. Una tale previsione, come si è già accennato, non è incompatibile con l’ipotesi a) (e cioè con il mantenimento delle garanzie fino al giudicato). Ed infatti la disciplina della modalità di riscossione coattiva di un credito in relazione ai possibili esiti delle fasi di giudizio, si pone su un piano diverso rispetto alla funzione della garanzia. Basti pensare che in campo civilistico, pur in presenza di un principio di generalizzata esecutività delle sentenze (sia di primo che di secondo grado), l’art. 2884 c.c. continua a prevedere che alla cancellazione dell’ipoteca il conservatore possa procedere “quando è ordinata con sentenza passata in giudicato o con altro provvedimento definitivo emesso dalle autorità competenti”. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 261 Orbene, premesso che non si rinvengono nel CDC disposizioni che disciplinano espressamente gli effetti di una sentenza di merito non definitiva favorevole al contribuente, questa Avvocatura ritiene che non si possa applicare la normativa nazionale che impone la restituzione delle somme medio tempore riscosse, per i seguenti motivi. In primo luogo l’eventuale restituzione delle somme potrebbe configurare nella sostanza una rinuncia alle garanzie, non consentita dal citato art. 199 del CDC, con i conseguenti rischi paventati dalla Commissione, secondo cui “l’Amministrazione doganale non sarebbe in grado di versare i dazi in questione qualora il debitore fallisse o fosse dichiarato in stato di fallimento dopo lo svincolo della cauzione e prima della sentenza della Corte d'Appello”. In secondo luogo occorre considerare l’art. 79 del nuovo CDC (Reg. n. 450/2008) il quale dispone: “Fatte salve le condizioni stabilite nella presente sezione, si procede al rimborso o allo sgravio degli importi del dazio all'importazione o all'esportazione, sempre che l'importo oggetto di rimborso o di sgravio superi un dato importo, per i seguenti motivi: a) importi del dazio all'importazione o all'esportazione applicati in eccesso; b) merci difettose o non conformi alle clausole del contratto; c) errore delle autorità competenti; d) equità. Si procede inoltre al rimborso dell'importo del dazio all'importazione o all'esportazione pagato qualora la corrispondente dichiarazione in dogana venga invalidata a norma dell'articolo 114”. La normativa comunitaria nel disciplinare le ipotesi di rimborso o sgravio non fa quindi cenno a casi di restituzione non definitive nell’ambito di un giudizio pendente. In terzo luogo occorre considerare che a norma dell’art. 17 par. 1 e 2 del Reg. (CE, Euratom) n. 1150/2000 del Consiglio, “Gli Stati membri sono tenuti a prendere tutte le misure necessarie affinché gli importi corrispondenti ai diritti accertati in conformità dell'articolo 2 siano messi a disposizione della Commissione alle condizioni previste dal presente regolamento. 2. Gli Stati membri sono dispensati dall'obbligo di mettere a disposizione della Commissione gli importi corrispondenti ai diritti accertati che risultano irrecuperabili: a) o per cause di forza maggiore; b) o per altri motivi che non sono loro imputabili”. Anche la normativa comunitaria in tema di risorse proprie che disciplina il rapporto tra gli Stati e la Commissione, prevede l’obbligo per gli Stati di mettere a disposizione della Comunità le somme accertate, con esclusione dei soli casi in cui sia impossibile il loro recupero. Non viene neppure ipotizzata una restituzione non definitiva delle somme. In conclusione si ritiene che l’art. 68 comma 2 del D.Lgs. n. 546/1992 ri- 262 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 sulta derogato per le imposte doganali dalle disposizioni contenute nel CDC; ciò non comporterebbe la necessità di una modifica della norma, tenuto conto della prevalenza del diritto comunitario. Tuttavia una modifica si ritiene comunque opportuna, anche al fine di rendere più chiara la normativa e per prevenire un contenzioso interno; a tal fine potrebbe essere aggiunta, dopo il comma 2, una disposizione che escluda l’applicabilità del comma precedente ai diritti doganali, ivi compresa l’IVA all’importazione (sottoposta al medesimo regime). La questione è stata sottoposta all'esame del Comitato Consultivo dell’Avvocatura dello Stato di cui all’art. 26 della legge 3 aprile 1979 n. 103, che si è espresso in conformità nella riunione del 30 novembre 2012. In materia di contributi pubblici alle imprese editoriali (Parere prot. 69729 del 14 febbraio 2013, AL 16684/11, avv. MARCO STIGLIANO MESSUTI) Si trasmette copia della favorevole sentenza, con cui il Consiglio di Stato ha dichiarato inammissibile il ricorso per revocazione ordinaria, proposto avverso la sentenza n. (...) del Consiglio di Stato. Si segnala, altresì, che avverso la decisione resa in sede di revocazione, F.T. ed A.A. hanno proposto, con atto che si allega in copia, ricorso per cassazione per motivi di giurisdizione. Tutto ciò premesso, con tre successive note, rispettivamente del 30 luglio 2012, 27 novembre 2012 e 24 dicembre 2012, in relazione all'esecuzione della sentenza del Consiglio di Stato, si chiede di conoscere: 1) "Se, con riferimento alle somme da recuperare dalle imprese editoriali, sia ammissibile il loro scomputo, in via di compensazione legale, dai contributi per l'editoria 2011 che dovessero eventualmente essere concessi a favore delle succitate imprese editoriali". Con sentenza confermata in sede di revocazione ordinaria, il Consiglio di Stato sanciva la legittimità sostanziale e formale della delibera dell'Agcom, nonché degli atti consequenziali del Dipartimento Informazione ed Editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri (par. 20 della sentenza). Con la delibera, a sua volta, l'Agcom aveva comminato la sanzione di euro 103.300,00, a carico di A.A., per aver violato l'obbligo di comunicare le situazioni di controllo, previsto dall'art. 1, comma 8, l. n. 416/1981, nonché dall'art. 8, comma 1, del Regolamento AGCOM per l'organizzazione e la tenuta del registro degli operatori di comunicazione, contenuto nella delibera n. 236/01/CONS e ss. modificazioni. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 263 Per converso, con i suddetti provvedimenti consequenziali, la Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per l'Informazione e l'Editoria, ai sensi dell'art. 1, comma 574, l. n. 266/2005, revocava i contributi per l'editoria, concessi alle imprese editoriali per le annualità dal 2006 al 2010. Pertanto, la Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per l'informazione e l'editoria - chiede di conoscere attraverso quali strumenti sia possibile dare esecuzione alla sentenza del Consiglio di Stato, anche prospettando una serie di opzioni, per recuperare le somme corrispondenti ai contributi per gli anni 2006 e 2007, liquidati alle due imprese editoriali quando non era ancora emersa la situazione di controllo, successivamente accertata dall'AGCOM. Tutto ciò premesso, con riferimento al quesito in esame, in disparte dalle preoccupazioni espresse a pag. 3, 3° cpv., della nota della PCM del 30 luglio 2012 prot. n. DIE 12630 P-4.14.16, è pacifico come la sinallagmaticità di crediti e debiti, all'interno di un unico rapporto obbligatorio, non sia richiesta per la loro compensazione (BIANCA, Diritto Civile, Vol. 4 - L'obbligazione, Giuffré, Milano, 2006, p. 487). Piuttosto, è proprio l'autonomia strutturale delle diverse annualità di contributo a giustificare la compensazione legale tra le stesse, quando le situazioni debitorie e creditorie, si elidano o si riducano vicendevolmente tra gli stessi soggetti, sempre che crediti e debiti siano entrambi coesistenti, determinati o determinabili, liquidi ed esigibili (Consiglio di Stato, Sez. VI, 23 aprile 2009, n. 2512; Cassazione, Sez. lav., 25 giugno 2007, n. 14711; 16 gennaio 1988, n. 301). Senza dire come, in giurisprudenza, si è ammessa la compensazione legale di debiti e crediti dei privati nei confronti della pubblica amministrazione statale, indipendentemente dalla specifica amministrazione di riferimento ed indipendentemente dalla specifica fonte delle situazioni debitorie e creditorie compensabili (Cassazione, Sez. I, 6 dicembre 1974, n. 4033). Ad ogni buon conto, posto che l'art. 1243 c.c. richiede la liquidità ed esigibilità dei crediti e debiti posti in compensazione, con riferimento al caso di specie, ciò sarà possibile soltanto quando dovessero eventualmente essere concessi i contributi per l'editoria 2011, con contestuale riconoscimento del credito a favore delle imprese editoriali. (omissis) In conclusione: 1) risulta possibile la compensazione legale tra i crediti vantati nei confronti delle imprese editoriali ed i debiti che eventualmente dovessero sorgere, in dipendenza del riconoscimento dei contributi per l'editoria 2011, sempre che la compensazione sia effettuata in seguito al riconoscimento dei contributi suddetti; (omissis) Sul presente parere è stato sentito il Comitato Consultivo, che nella seduta del 13 febbraio 2013, si è espresso in conformità. 264 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Collegi arbitrali. Legge 6 novembre 2012 n. 190, art. 1 co. 18: regime intertemporale sul divieto di partecipazione di magistrati e di avvocati/procuratori dello Stato (Parere prot. 110932 dell’11 marzo 2013, AL 46089/12, avv. STEFANO VARONE) L’art. 1 comma 18 della L. 6 novembre 2012 n. 190 prevede che ai magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari, agli avvocati e procuratori dello Stato e ai componenti delle commissioni tributarie “è vietata, pena la decadenza dagli incarichi e la nullità degli atti compiuti, la partecipazione a collegi arbitrali o l'assunzione di incarico di arbitro unico”. In relazione alla suddetta norma sono pervenute richieste di chiarimenti in ordine al regime intertemporale ed in particolare si è posto il quesito se la stessa possa essere applicata agli arbitri nominati in precedenza all’entrata in vigore della norma e, in caso di risposta positiva, quale sia il doveroso comportamento da tenere in relazione ai collegi già costituiti. Al riguardo va osservato che la norma in questione non è assistita da una disposizione regolante il regime transitorio. Infatti mentre per i successivi commi (da 19 a 24), che disciplinano peculiari aspetti delle controversie arbitrali di cui è parte una pubblica amministrazione, è espressamente previsto che il nuovo regime non si applica “agli arbitrati conferiti o autorizzati prima della data di entrata in vigore della presente legge” nulla è previsto per il divieto di partecipazione previsto dal precedete comma 18. Tuttavia, ciò non sembra poter essere letto come indice della volontà legislativa di applicare retroattivamente il divieto di assunzione degli incarichi arbitrali. In primo luogo occorre considerare che l’art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile prevede che “la legge non dispone che per l'avvenire essa non ha effetto retroattivo”, sì che in mancanza di una diversa disciplina sulla efficacia nel tempo che deroghi al principio in questione, ogni norma introdotta nell’ordinamento trova applicazione alle sole fattispecie successive alla sua entrata in vigore (fra le tante Cass. civ. Sez. I, 13 luglio 2012, n. 12003). La norma d’altronde introduce un divieto in precedenza non previsto e pertanto è certamente da escludere che assuma i caratteri della disposizione interpretativa, come tale idonea a sottrarla al generale principio di irretroattività (Cass. civ., 8 febbraio 2012, n. 1850). Sempre in tema di disciplina delle fattispecie normative nel tempo, va osservato che la giurisprudenza di legittimità ha più volte chiarito che il principio di irretroattività della legge implica che la norma sopravvenuta sia applicabile agli effetti non ancora esauriti di un rapporto giuridico sorto anteriormente solo allorchè la nuova legge sia diretta a disciplinare tali effetti, con autonoma considerazione dei medesimi (Cass. civ. Sez. III Sent., 16 aprile 2008, n. 9972), ipotesi che certamente non ricorre nel caso di specie. La disposizione in que- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 265 stione non pare infatti suscettibile di essere letta come inerente ad un’ipotesi di incompatibilità a svolgere l’incarico di arbitro, circostanza avvalorata dal mancato richiamo alla disciplina della ricusazione ex art. 815 c.p.c. e dall’individuazione di una autonoma fattispecie di nullità. La norma pare pertanto configurare un divieto di assunzione dell’incarico, sì che può essere ragionevolmente applicata solo alle ipotesi di funzioni conferite successivamente alla sua entrata in vigore. L’esegesi letterale prospettata, oltre ad essere suggerita dal tenore della norma, sarebbe - ove fosse necessario supportarla con un’interpretazione teleologica - confermata anche da una lettura costituzionalmente orientata. L’intervento del legislatore sui giudizi arbitrali in corso, tale da determinare la possibile caducazione del collegio e delle attività medio tempore espletate, parrebbe infatti porsi in contrasto tanto con l’art. 111 comma II Cost. quanto con la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, lì dove ricomprende (art. 6, par. 1) tra i diritti civili tutelati quello a un tempo ragionevole di durata del processo. Va evidenziato che la lesione di tale diritto può concorrere a determinare un danno erariale lì dove la parte interessata adisse le vie giurisdizionali per conseguire il risarcimento del danno lamentato, tendenzialmente parametrabile ai criteri di liquidazione applicati dalla Corte Europea (Cass. civ. Sez. VI, 28 maggio 2012, n. 8471). La caducazione dei collegi già costituiti potrebbe inoltre determinare un ulteriore pregiudizio erariale in considerazione dell’obbligo di remunerare comunque le attività svolte (si pensi a titolo d’esempio alle CTU che dovessero essere rinnovate) ed anche gli stessi arbitri “decaduti”. In relazione a tale ultimo profilo infatti, come ribadito dalla Cassazione (Sez. Unite, Sent. 1 luglio 2008, n. 17930), tra le parti e gli arbitri del giudizio arbitrale sui lavori pubblici, non diversamente che nell' arbitrato disciplinato dal codice di procedura civile, si instaura un rapporto di prestazione d'opera intellettuale dal quale deriva un vero e proprio diritto soggettivo di credito al compenso. La medesima “decadenza” dei collegi, incidendo sull'esercizio dell'azione già in essere, sarebbe poi tendenzialmente idonea a determinare un sacrificio del diritto costituzionalmente tutelato dall’art. 24 della Carta Fondamentale che potrebbe eccedere il limite della ragionevolezza. Sulla fattispecie è stata interessata la Presidenza del Consiglio dei Ministri che con nota DAGL prot. 1493/2013 ha manifestato il proprio avviso condividendo l’esegesi diretta ad escludere l’applicazione del divieto agli arbitrati in corso. In conclusione sussistono plurime ragioni tali da escludere che l’art. 1 comma 18 della L. 6 novembre 2012 n. 190, lì dove prevede, per determinate categorie di pubblici dipendenti, che è vietata, “la partecipazione a collegi arbitrali o l'assunzione di incarico di arbitro unico”, possa applicarsi agli incarichi arbitrali assunti anteriormente all’entrata in vigore della disposizione. 266 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Esecuzione all’estero delle sentenze emesse dalla Corte dei Conti. Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968 (Parere reso in via ordinaria, prot. 427337 del 31 ottobre 2012, AL 38606/11, avv. DIANA RANUCCI) Con la nota in riscontro codesta Direzione chiede il parere della Scrivente in merito ai possibili strumenti di esecuzione delle sentenze di accertamento di responsabilità per danno erariale pronunciate dalla Corte dei Conti nei confronti di debitori residenti all’estero, e, di seguito, in particolare se sia possibile adottare gli strumenti previsti dalla Convenzione in oggetto. 1) Il primo quesito attiene alla eseguibilità all’estero delle sentenze di condanna della Corte dei Conti. a) La disciplina delle sentenze di condanna per danno erariale è stata innovata con il D.P.R. n. 260 del 24 giugno 1998 che ha abrogato espressamente le norme di cui al R.D. 5 settembre 1909 n. 776. Le sentenze di condanna sono immediatamente esecutive e determinano il sorgere di un diritto di credito dell’Amministrazione danneggiata ad ottenere, anche coattivamente tramite una procedura esecutiva, la somma indicata nella sentenza stessa, la quale costituisce titolo esecutivo ex art. 474 lett. 1) c.p.c. Il predetto D.P.R. nulla dispone sulle esecuzioni che devono compiersi all’estero, per cui è evidente che, sotto questo profilo, la sentenza di condanna al pagamento di somme resa dal giudice contabile in nulla differisce rispetto a qualunque altra sentenza di condanna, sia essa del giudice ordinario che amministrativo ed è pertanto eseguibile con gli stessi strumenti. La risposta è pertanto affermativa. 2) Esattamente codesta Direzione evidenzia come non sia possibile utilizzare la procedura della riscossione coattiva nel caso in cui i beni del debitore si trovino all’estero. Chiede pertanto di sapere se sia possibile applicare la disciplina generale dettata dalla Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, ratificata con legge n. 804 del 1971, la quale stabilisce le norme concernenti la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale applicabili tra gli Stati membri dell’Unione Europea. L’art. 26, comma 1°, della Convenzione di Bruxelles dispone che “le decisioni rese in uno stato contraente sono riconosciute negli altri stati contraenti senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento”. Di rilevanza, inoltre, l’art. 31 della Convenzione, ai sensi del quale “le decisioni rese in uno Stato contraente e quivi esecutive, sono eseguite in un altro Stato contraente dopo essere state munite, su istanza della parte interessata, della formula esecutiva”; si precisa, poi, all’art. 33 1° cpv della Convenzione medesima, che “le modalità del deposito dell’istanza sono determinate PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 267 in base alla legge dello Stato richiesto”. Occorre, infine, che l’istanza di riconoscimento ed esecuzione di una decisione straniera, formulata secondo le modalità stabilite dalla legge dello Stato richiesto, sia corredata dai documenti indicati dagli artt. 46 e 47 della Convenzione. Nel marzo del 2002 è entrato in vigore il Regolamento n. 44/2001, che ha facilitato ancora più il riconoscimento delle sentenze e di qualsiasi altro provvedimento giurisdizionale all’interno dell’U.E., snellendo e rendendo più celere il relativo procedimento. Questo Regolamento, noto come “Bruxelles I” e concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, si applica anche ai Paesi nuovi entrati nell’UE (Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Slovenia, Ungheria) e sostituisce la Convenzione di Bruxelles, applicandosi a tutti i Paesi dell’Unione Europea, con l’eccezione della Danimarca e dei territori degli Stati membri per i quali, secondo il Trattato che istituisce la Comunità Europea, il Regolamento non è vincolante. A questi continuerà ad applicarsi la Convenzione di Bruxelles del 1968. Il procedimento introdotto dal Regolamento 44/2001 per il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni, identificate in “qualsiasi decisione emessa da un giudice di uno Stato membro, quale ad esempio decreto, sentenza, ordinanza o mandato di esecuzione, nonché la determinazione delle spese giudiziali da parte del cancelliere”, non è molto diverso da quello contenuto nella Convenzione di Bruxelles del 1968. La principale novità introdotta dal Regolamento in questione è costituita dal fatto che, mentre sotto il regime della Convenzione di Bruxelles, il giudice del Paese dove la sentenza andava portata ad esecuzione poteva entrare nel merito della decisione, con la possibilità di rilevare anche eventuali motivi di nullità della stessa, ora il Regolamento n. 44/2001 consente di ottenere in tempi brevi la dichiarazione di esecutività di una decisione giudiziaria, in quanto il giudice del Paese di esecuzione deve compiere solo un controllo puramente formale della decisione (art. 41 Reg. 44/2001). L’istanza di esecuzione deve essere presentata al giudice territorialmente competente secondo le modalità previste dalla legge dello Stato membro richiesto, corredata dai documenti di cui all’art. 53 Reg. 44/2001: “una copia della decisione che presenti tutte le condizioni di autenticità”, ed un attestato (art. 54 Reg. 44/2001) rilasciato, su richiesta di qualsiasi parte interessata, dal giudice o dall’autorità competente dello Stato membro, compilato utilizzando il formulario di cui all’allegato V del Regolamento stesso. Certamente, il regolamento 44/2001 ha semplificato la procedura di exequatur per l’ottenimento della dichiarazione circa il carattere esecutivo della decisione, che può essere contestata dall’avversario solo in fase di opposizione. 268 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 3) Alla luce di quanto esposto, codesto Ministero Della Difesa dovrà, quando necessario, contattare i competenti Uffici consolari italiani o le proprie Addettanze militari presso le Ambasciate italiane site nei Paesi interessati dalla procedura esecutiva, al fine di acquisire precise informazioni circa le modalità di presentazione dell’istanza di esecuzione. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ «Ecosistemi», «biodiversità» e «servizi naturali»: definizioni e caratteristiche Paolo Francalacci* PREMESSA La presente pubblicazione contiene la mia tesi di dottorato... L’argomento si è focalizzato, da subito, sul concetto di “ecosistema”, posto a fianco del termine “ambiente” nel novellato art. 117 della Costituzione, per le implicazioni che tale concetto può determinare ed esprimere, rispetto alle sfide poste dalla tutela della biodiversità, alla vigilia degli eventi culturali in occasione della ricorrenza della sottoscrizione della Convenzione europea del paesaggio a Firenze e mentre si sono compiuti alcuni disastri ecologici catastrofici, come quello del Golfo del Messico. Considerando l’argomento prescelto, ho privilegiato un approccio interdisciplinare in grado di indagare la complessità e le implicazioni che i concetti di “ecosistema” e di “ecologia” esprimono, attraverso gli approcci delle discipline scientifiche, economiche e giuridiche che hanno contribuito a delinearne i caratteri. Ci sono due aspetti fondamentali che ho posto come punti di partenza della presente ricerca sui rapporti tra la natura e la vita umana nei meccanismi ecologici che reciprocamente li uniscono: - da un lato la consapevolezza che gli uomini contribuiscono con le loro scelte, spesso inconsapevoli rispetto alla complessità dei fenomeni che attraversano, a determinare l’evoluzione del mondo vivente che genera e sostiene la nostra stessa esistenza; - dall’altro la percezione che la nostra cultura abbia generato una competizione tra i diversi saperi, per appropriarsi del controllo di questi fenomeni in modo settoriale e semplificato. (*) Dottore di ricerca, Università degli Studi di Firenze, Dipartimento di Diritto pubblico - Diritto Urbanistico e dell’Ambiente. Il presente scritto riproduce una versione “sintetica” della tesi di dottorato dell’Autore su “Il ruolo delle aree protette nella tutela dei servizi ecosistemici e della biodiversità”. Per la sua originalità se ne pubblica la prima parte. 270 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Il diritto appare così stretto tra la sfida di negare la complessità oppure di aprire un confronto che possa portare a verificare i modelli di regolazione tenendo in considerazione i meccanismi vitali che regolano la nostra stessa vita - e che spesso sfuggono ai nostri tentativi di catalogazione e conoscenza - e la percezione e rappresentazione che i cittadini e la società hanno di questi processi. È l’ecologia umana che viene alla ribalta nel mondo del diritto, laddove la nostra Costituzione afferma che lo Stato, in prima persona, provvede alla “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema” (art. 117, secondo comma, lett. s, Cost.) attraverso la tutela il paesaggio (art. 9 Cost.). L’umanità, sempre vissuta secondo leggi di natura adattandosi all’ordine naturale e soggiacendo alle regole imposte dall’andamento degli eventi vitali, scopre la fragile e sconosciuta catena della vita e ad essa si rivolge per scoprirne i limiti e le fragilità nel momento in cui avverte che tali azioni risultano necessarie per tutelare la salute e il benessere umano. Così ad un diritto che lasciava al personale modo di intendere i rapporti individuali con la natura sono progressivamente subentrati nuovi dati di realtà, elaborati dalla scienza e dalla tecnologia, che mutano il senso dell’appello al diritto e richiedono forme nuove di regolazione giuridica (1). Separato dal contesto naturale e sollevato dalla faticosa coesistenza con le severe regole della natura, si apre di fronte all’uomo l’orrore del vuoto e dei fantasmi della sua poca conoscenza. Quali forme, allora, percorrere e fino a che punto spingersi perché l’ambiente di vita, su cui poggia la nostra stessa esistenza, possa essere percepita, rappresentata e tutelata dalla nostra società per ritrovare, con il mondo naturale che la sostiene, un accordo consapevole? Quali strumenti e forme giuridiche possono costituire riferimento nella gestione del territorio per tentare un riavvicinamento tra la società e la natura, nei suoi meccanismi vitali di funzionamento e di reciproco sostentamento? La tutela dell’ecosistema (o meglio degli ecosistemi) può costituire una strada percorribile per giungere a tale fine? La presente tesi cerca di dare alcune provvisorie risposte limitandosi a sperimentare e valutare le implicazioni che conseguono dal concetto di ecosistema e di ecologia del paesaggio nel settore della gestione del territorio, guardando agli approcci eco sistemici che stanno emergendo dalle elaborazioni giuridiche internazionali ed alle implicazioni che queste possono avere nel nostro ordinamento giuridico, con particolare riferimento agli strumenti di pianificazione territoriale, cercando di percorrere una lettura dell’approccio eco sistemico applicabile nel nostro paese, in grado di tener conto della nostra tradizione giuridica e dei metodi colturali di gestione del territorio. La ricerca in particolare si focalizza sulle implicazioni ecosistemiche-ecologiche all’interno degli strumenti di conoscenza e valutazione delle scelte di gestione ambientale, in una fase in cui le discipline economiche (economia dell’ambiente) ed ecologiche (ecologia del paesaggio) elaborano strumenti di indagine e studio delle interazioni tra comunità umane ed assetti naturalistici e paesaggistici. (1) S. RODOTÀ, La vita e le regole, Tra diritto e non diritto, Feltrinelli, Milano, 2006. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 271 Tali interazioni sono spesso riferite alla morfologia spaziale - geografica del territorio, ridotto ad alcuni singoli elementi, proposti isolatamente dal contesto ecologico e separati dal loro intrinseco sistema vivente: cioè dai loro ecosistemi. L’ambito dell’indagine si concentra nei settori normativi più direttamente afferenti il territorio e la sua gestione ecologica (biodiversità, reti ecologiche, aree protette). In particolare l’indagine riguarda la capacità di comprendere, esprimere e valutare i processi ecologici cioè le interazioni tra strutture e funzioni. Si tratta quindi di muoversi nell’ambito di una concezione dell’ambiente “ecocentrica” che vede “l’ambiente e la natura come valori in sé e l’uomo come elemento vitale che trova il suo posto nell’equilibrio della biosfera” (Stefano Grassi) (2) laddove gli ecosistemi costituiscono la fonte di salute e benessere dell’uomo. La tesi di dottorato si articola in tre parti principali. 1) La prima parte riguarda le indagini finalizzate a comprendere l’origini e l’evoluzione del concetto di “ecosistema” (o “ecosistemi”). Il termine “ecosistema” viene assunto - a partire dalla teoria dei sistemi - nel suo significato di relazioni ecologiche unitarie interconnesse a scale spazio-temporali distinte che legano il singolo elemento (bioma) alla biosfera (l’intero pianeta) attraverso modalità di interazione codificate dalle discipline dell’Ecologia e dell’Ecosystem Management (EM). Tale tema, ponendo la comprensione degli ecosistemi al centro dell’indagine, appare coerente con le sfide della complessità, sulle quali il nostro Dottorato si interroga (3), dove si assiste, tra realismo e normatività, al tentativo di indagare nuove frontiere del diritto nella fase cosiddetta della “mondializzazione” (4) che ha messo in crisi gli strumenti di regolazione tradizionali (command and control) a favore, sempre più, di un approccio interdisciplinare e sperimentale (5). «Il giurista non deve illudersi di poter svolgere il suo mestiere conoscendo esclusivamente il diritto. Egli deve innanzi tutto conoscere i fenomeni che dovrà trattare con gli strumenti del suo mestiere»; e ancora «Le certezze e le incertezze delle scienze naturali stanno al centro in particolare dei problemi che pongono le attività economiche dal punto di vista ambientale, così che è con la mediazione dell’economia che spesso meglio si capisce il rilievo della scienza per il diritto dell’ambiente» (6). L’impostazione di questa prima parte della tesi, riflette la fiducia che possa risultare utile lo sforzo di ricercare concordanze tra discipline scientifiche separate, per allineare categorie appartenenti ad ambiti diversi, laddove un singolo approccio risulti incerto e richieda scelte interpretative, come spesso impone l’elevato tasso di tecnicità della ma- (2) S. GRASSI, Tutela dell’ambiente (diritto amministrativo), ad vocem, in Annali, aggiornamento I, pp. 1114 ss. (3) C. VINTI, F. MINAZZI, M. NEGRO, A. CARRINO, Le forme della razionalità tra realismo e normatività, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2009 e ivi C. VINTI, Realismo epistemico e crisi dell’oggettività, p. 17 ss. e U. ALLEGRETTI, Essenza e futuro della Costituzione repubblicana, pp. 511 ss. e L. FOGLIA, Immagini percettive e non percettive come condizioni di risposta del Sé, pp. 259 ss. (4) U. ALLEGRETTI, Diritti e Stato nella mondializzazione, Città aperta edizioni, Trina-Enna, 2002. (5) P. CARETTI, Premessa, in Ambiente e diritto, a cura di S. Grassi, M. Cecchetti, A. Andronio, Leo S. Olschki, Firenze, 1999, p. 5 ss. (6) D. SORACE, Considerazioni conclusive, in Ambiente e diritto, a cura di S. Grassi, M. Cecchetti, A. Andronio, Leo S. Olschki, Firenze, 1999, pp.. 125 e 126. 272 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 teria e come peraltro le stesse istituzioni europee suggeriscono (7). Il tema ecologico risulta, in tal senso, al centro del dibattito culturale contemporaneo, come testimoniano la letteratura giuridica recente (8) e le manifestazioni e le iniziative culturali di questi anni (9). In particolare: le scienze ecologiche, economiche, e di governo del territorio - oltre naturalmente quelle giuridiche - costituiscono riferimenti primari per indagare il significato e le implicazioni dei processi ecosistemici. La matrice culturale fondamentale sarà costituita dall’ecologia del paesaggio che si è venuta sempre più affermando come sintesi delle discipline che si occupano di studiare i processi ecologici umani. (...). (Tesi discussa il 5 aprile 2012, TUTOR Prof. Stefano Grassi) SOMMARIO PARTE I: 1. AMBIENTE ED ECOSISTEMI: DEFINIZIONI E CARATTERISTICHE. Origine e definizioni. Scale e confini degli ecosistemi. Organizzazione, funzionamento ed evoluzione. 2. LA GESTIONE AMBIENTALE BASATA SULL’APPROCCIO ECOSISTEMICO. Ecosystem approach (EA): caratteristiche e definizione. Ecosystem Management (EM): le basi scientifiche. Gli approcci sperimentali dell’ecosystem approach (EA). 3. (segue) APPROCCIO ECO SISTEMICO: SERVIZI NATURALI DEGLI ECOSISTEMI E BIODIVERSITÀ (BES). Biodiversità e funzioni degli ecosistemi. 4. TUTELA DELL’AMBIENTE E DEGLI ECOSISTEMI IN ITALIA: INQUADRAMENTO GENERALE. 1. Ambiente ed ecosistemi: definizioni e caratteristiche. Origine e definizioni. Il termine ecosistema, introdotto all’art. 117, lett. s), della Costituzione - da cui muove la presente ricerca - riconosce l’ambiente come un sistema, nel quale i fattori naturalistici e quelli antropici interagiscono tra loro. La sua acquisizione nella Carta fondamentale pone la necessità di comprendere il significato e la rilevanza giuridica, che tale concetto assume, nel passaggio dall’ambito scientifico, che lo ha introdotto, a quello giuridico, che lo ha recepito, transitando attraverso le elaborazioni della geografia umana ed economica e delle scienze territoriali e paesaggistiche. (7) Cfr. AA.VV., The Drama of the Commons, a cura di E. Ostrom et altri, National Research Council, Washington D.C., National Academy Press, 2002; N. GEORGESCU ROEGEN, Bioeconomia. Verso un’altra economia ecologicamente e socialmente sostenibile, Bollati Boringhieri, Torino, 2003. (8) F. FRACCHIA, Lo sviluppo sostenibile. La voce flebile dell’altro tra protezione dell’ambiente e tutela della specie umana, editoriale scientifica, 2010; C. DESIDERI, Dalla disciplina del paesaggio alla valutazione delle condizioni di esistenza, 2009, in http://www.issirfa.cnr.it//4554,908.html (contributo destinato al Liber amicorum dedicato a Federico Spantigati, si veda in particolare il punto 3.2. Il paesaggio incerto e senza ambiente del Codice). (9) Basti pensare alla recente mostra “Da Corot a Monet. La sinfonia della natura” (Roma, maggio, 2010) che ripropone e documenta puntualmente una lettura della pittura impressionista come espressione di una estetica ecologica finalizzata all’indagine sugli ecosistemi locali. (...) LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 273 Il punto di partenza dell’itinerario ermeneutico è costituito dalle scienze biologiche (13), che prospettano molteplici definizioni e classificazioni degli ecosistemi, con esiti anche sensibilmente diversi, passando da una visione iniziale prevalentemente sinecologica, basata sulle comunità di specie (14), ad una visione dell’ecosistema come struttura portante delle attività economiche e degli assetti paesaggistici costruiti dall’uomo, come dimostra, da ultimo, la lezione di Andersonn sui principi della wise forest management (2003) e i recenti studi di Almo Farina sulla percezione delle relazioni ecologiche (2010) (15). (13) Il termine ecosistema viene introdotto, per la prima volta, da Arthur G. Tansley nel 1935, riprendendo il concetto di "biocenosi" da Möbius e quello di "biosistema" da Thiemann. Pochi anni dopo, nel 1939, definì e diede il nome ad un altro elemento importante dell'ecologia: l' "ecotopo". Il termine ecologia viene coniato, invece, nel 1866 da E. Haeckel ed è riferito alla scienza che studia le relazioni degli organismi viventi, tra loro e con l’ambiente in cui vivono. Per la bibliografia essenziale in materia di ecologia ed ecosistemi si rinvia a: - E.P. ODUM, Ecology, Holt, Baltimora 1963 (traduz. italiana a cura di Guido Modiano, Zanichelli, Bologna 1966); - S. KAUFFMAN, A casa nell'universo, Ed. Riuniti, 2001; - E. P. ODUM, Ecologia, Bologna, 1966 (in particolare p. 11 e ss.) e, dello stesso Autore, Fundamentals of ecology, Philadelphia, PA Saunders, 1975, e Basi di ecologia, Padova, 1988; - E. J. CORMODY, Concepts of Ecology, Price Hall, New York, 1969; p. 165 ss.; - P. SUSMEL, Principi di ecologia, Padova, 1988, p. 29 ss.; - W. NYBAKKEN, Biologia marina: un approccio ecologico, 1982. - SCIALABBA, Gestione integrata delle aree costiere e l’agricoltura, la silvicoltura e la pesca, 1998. Dalla letteratura scientifica possiamo trarre alcuni ricorrenti parametri di analisi degli ecosistemi. Ogni ecosistema è costituito da una comunità, detta anche biocenosi o componente biotica, e dall'ambiente fisico circostante, il geotopo, che fa parte di una ecoregione, e che costituisce la componente abiotica, con il quale si vengono a creare interazioni reciproche in equilibrio dinamico. Un ecosistema viene definito come un sistema aperto, con struttura e funzione caratteristica determinata da un flusso di energia e da circolazione di materia tra componente biotica e abiotica. Gli ecosistemi presentano quattro caratteristiche: sono sistemi aperti, sono strutture interconnesse con altri ecosistemi, tendono a raggiungere e a mantenere nel tempo una certa stabilità, sono sempre formati da una componente abiotica e da una componente biotica. Nella quasi totalità degli ecosistemi terrestri il flusso di energia si origina dalla radiazione solare che, a differenza della materia, non è riciclabile. Parte di questa energia viene catturata ed utilizzata dagli organismi autotrofi fotosintetici per la trasformazione della sostanza inorganica in sostanza organica mediante la fotosintesi clorofilliana, che avviene nelle parti verdi delle piante acquatiche e terrestri. (14) Un ecosistema può essere definito come «a system of complex interactions of populations between themselves and with their environment» (M. PANDA, Population and Environment Relationship in Developing Countries: a select review of approaches and methods, in www.http://paa2004.princeton.edu) o come «the joint functioning and interaction of these two compartments (populations and environment) in a functional unit of variable size» (M.D. HUNTER, P. W. PRICE, Playing chutes and ladders: heterogeneity and the relative roles of bottom up and top down forces in natural communities, in Ecology, 73(3), 1992, pp. 724-732). Per le scienze biologiche, l’ecosistema costituisce l’unità funzionale dell’ecologia poiché comprende l’insieme degli organismi, biotici ed abiotici e le loro interrelazioni, che determinano un equilibrio dinamico in costante evoluzione. Per queste nozioni si rinvia a trattazioni specifiche quali: P. E. ODUM, Ecologia, Bologna, 1966, p. 11 e ss.; E. J. CORMODY, Concepts of Ecology, Price Hall, New York, 1969; p. 165 ss.; P. SUSMEL, Principi di ecologia, Padova, 1988, p. 29 ss. (15) Si vedano dell’ecologo ALMO FARINA le seguenti pubblicazioni: Ecologia del paesaggio, Utet, Torino, 2001; Verso una scienza del paesaggio, Alberto Perdisa editore, Bologna, 2004; Il paesaggio cognitivo. Una nuova entità ecologica, 2007. 274 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Il processo di diffusione del concetto di “ecosistema”, e il suo utilizzo da parte delle autorità istituzionali, produce la dilatazione della originaria e specifica area semantica per assumere una valenza olistica e complessa, che supera la visione del mondo scientifico e pone l’ecosistema alla base delle sfide del nuovo ordine mondiale (16). Gli studiosi di geografia economica e di geografia umana tendono a posizionare il concetto di ecosistema al centro del rapporto tra società e ambiente naturale, come punto di equilibrio necessario per una nuova concezione della sostenibilità dello sviluppo, in grado di salvaguardare il benessere e la salute dell’uomo (17). L’Organizzazione Mondiale della Sanità sottolinea, infatti, l’interazione tra ambiente e società nella tutela dell’ecosistema e definisce l’ambiente come «l’insieme degli elementi fisici, chimici, biologici e sociali che debbono rimanere in equilibrio tra loro per non alterare l’ecosistema». Risulta evidente che le definizioni esclusivamente tecnico-scientifiche di “ecosistema” mostrano i loro limiti intrinseci proprio per la valenza interdisciplinare che tale concetto assume all’interno della funzione di governance, rispetto alla quale è utilizzato ai fini della presente ricerca. Un contributo importante deriva dalle scienze dell’ecologia del paesaggio e dalle moderne scuole di ecologia applicata che, abbandonando rigide separazioni tra statuti disciplinari, hanno intrapreso riflessioni sulla necessità di considerare tutti gli ecosistemi (naturali, forestali, agricoli, fluviali, marini, urbani) nel contesto ecologico-ambientale di appartenenza, al fine di creare un ambito di riferimento attraverso cui realizzare obiettivi di gestione, definiti in un più ampio processo di governance. L’ecosistema assume così una dimensione plurisensa che richiama la responsabilità etica intergenerazionale e sfida la capacità delle istituzioni di rappresentare e gestire la ragnatela dei processi vitali, interscalari e diacronici, da cui derivano le condizioni ambientali del futuro del nostro pianeta. “Sistema composito, complesso, complicato denso di consapevolezze (16) Si veda , ad esempio, W. SACHS, Dizionario dello sviluppo, Edizioni gruppo abele, Bologna, 1992. (17) Come avvertirono i nuovi illuministi del Club di Roma, una maggiore consapevolezza del sistema mondo insita nella concezione di ecosistema e poi l’adesione al paradigma conciliante della sostenibilità sono condizioni necessarie ma non sufficienti per l’adesione ad un nuovo ordine mondiale. La realizzazione di questo obiettivo è molto più problematica di quella evocata negli anni ’70 dal nobel dell’economia Jan Tinbergen nel suo progetto RIO (Riconversion International Order). La riproposizione da parte del Nobel per l’economia Amartya Sen si è infatti avvalsa di costanti riferimenti alla dimensione fondamentalmente etica dello sviluppo umano. E il premio nobel Elinor Ostrom affronta direttamente il problema della gestione dei beni collettivi con un approccio ai sistemi territoriali locali, valorizzando direttamente la partecipazione delle comunità locali e le scelte di gestione dei beni collettivi e delle risorse limitate. Vd. E. OSTROM, Governare i beni collettivi, Marsilio, Padova, 2008. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 275 scientifiche fino al punto da racchiudere quasi l’intero patrimonio acquisito dalla conoscenza umana attuale, l’ecosistema, pur nelle molteplici accezioni, più o meno puntuali che dilagano, insieme a quelle di sostenibilità, in una copiosa letteratura e in migliaia di siti web, evoca sempre l’insieme delle azioni, reazioni e retroazioni legate allo sviluppo umano. Inoltre sembra ormai acquisita la sua flessibilità scalare per cui l’ecosistema mondo è collocato in un continuum, più o meno gerarchizzato, molto più articolato della diade locale-globale”(18). Spinelli introduce così il fondamentale tema delle scale e della gerarchia degli ecosistemi. Scale e confini degli ecosistemi. L’ecosistema può essere considerato a differenti scale geografiche e riferito ad entità biologiche o naturalistiche circoscritte, come un singolo biotopo (19) quale, ad esempio, un albero, fino ad entità geografiche ed ecologiche sempre più estese e complesse, quali un lago, un bosco o un fiume, interi bacini ed eco-regioni geografiche, il mediterraneo o l’Europa centrale, fino al pianeta Terra e all’intera biosfera. In breve, il mondo può essere rappresentato come un complesso sistema di ecosistemi tra loro interconnessi secondo differenti scale gerarchiche, e funzionante secondo processi chimici e biologici interni ed esterni, tra le singole parti dell’ecosistema e tra gli ecosistemi nel loro complesso, con scambi di materia e di energia (20). Ne consegue che gli ecosistemi non risultano univocamente definibili alla scala spaziale e la loro mappatura territoriale, pur costituendo presupposto necessario per la gestione eco sistemica, presenta un rilevante grado di convenzionalismo e discrezionalità. I margini di incertezza derivano dalla scala territoriale considerata e dalla (18) G. SPINELLI, La condizione umana nel cambiamento dell’ecosistema, in Bollettino della Società geografica Italiana, Roma, serie XII, vol. V, 2000, pp. 611-619. (19) In ecologia il biotopo è un'area di limitate dimensioni (ad esempio uno stagno, una torbiera, un altipiano) di un ambiente dove vivono organismi vegetali ed animali di una stessa specie o di specie diverse, che nel loro insieme formano una biocenosi. Biotopo e biocenosi formano una unità funzionale chiamata ecosistema. Il biotopo è dunque la componente dell'ecosistema caratterizzata da fattori abiotici (non viventi), come terreno o substrato, con le sue caratteristiche fisiche e chimiche, temperatura, umidità, luce e così via. In alcuni biotopi si ritrova un insieme di caratteristiche specifiche e particolari, non facilmente riproducibili altrove. In tali casi, il biotopo può rivestire particolare importanza in quanto può rappresentare l'unico luogo dove vivono specie autoctone. A volte, questo insieme di caratteristiche peculiari è frutto di un equilibrio instabile, come avviene per esempio negli ambienti salmastri di laguna, che sono in costante evoluzione; questo rende fragile l'ecosistema che si regge su quel biotopo. (20) Come osserva Lackey, gli ecosistemi possono essere definiti secondo un ampio range di scale geografiche e territoriali “from a drop of morning dew to an ocean,… from a pebble to a planet”. 276 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 tipologia dei processi ecologici da assumere come parametri di riferimento (21). Considerando la dimensione ambientale e paesaggistica come l’espressione di scala superiore per la rappresentazione degli ecosistemi - the total human ecosystem nella definizione di Naveh e Lieberman (22) - ci si chiede quale ruolo possono esprimere le reti ecologiche delle aree protette e se queste sono suscettibili di intercettare e rappresentare la dimensione eco sistemica allo scopo di individuare una scala di gestione efficace rispetto agli obiettivi di conoscenza, di conservazione e di tutela. L’art. 2 della legge 394 del 1991, legge quadro sulle aree protette, definisce i parchi come «aree terrestri, fluviali, lacuali o marine che contengono uno o più ecosistemi intatti o anche parzialmente alterati da interventi antropici» (art. 2 comma 1) e le riserve naturali come «costituite da aree che presentino uno o più ecosistemi importanti per la diversità delle risorse genetiche» (art. 2 comma 3). Il termine parco naturale o area protetta - riferito ad ecosistemi naturali che si intendono conservare nella loro integrità - può dunque essere assunto, dal punto di vista ecologico, come uno dei livelli nello spettro dell’organizzazione gerarchica degli ecosistemi, da associare alle dinamiche dei contesti territoriali e paesaggistici, generati dalle società umane, attraverso lo strumento delle reti ecologiche (23). Le relazioni tra ambiente, paesaggio e aree protette costituiscono le di- (21) Un tentativo di assumere un ambito eco-geografico significativo è costituito dalle “eco regioni”, definite dal WWF come "unità relativamente grandi di terra o acqua contenenti un assemblaggio distinto di specie e comunità naturali, con confini che approssimano l'estensione originale delle comunità naturali prima di importanti cambiamenti nell'uso della terra". In alternativa si possono definire le ecoregioni come aree di potenziale ecologico basate su combinazioni di parametri biofisici, quali il clima e la topografia. Gli ecologi del WWF propongono di suddividere la superficie continentale della Terra in 8 ecozone principali, contenenti a loro volta 867 ecoregioni terrestri. Tra queste, sulla base del contenuto in biodiversità, ne sono state selezionate 200, denominate "Global 200": queste contengono la maggior parte della biodiversità del pianeta. Il WWF, di conseguenza, sta concentrando i suoi sforzi per la salvaguardia di queste 200 ecoregioni, che - per quanto riguarda l'Italia - comprendono le Alpi e il Mediterraneo. Molti considerano questa classificazione un traguardo fondamentale e propongono le ecoregioni come confini stabili per iniziative di democrazia bioregionale o ecoregionale. Esempi di bio-regioni sono: la foresta amazzonica, il mediterraneo, i deserti, e simili. (22) Z. NAVEH – A.S. LIEBERMAN, Landscape ecology. Theory and application, Springer Verlag, New York, 1984. Secondo tale approccio il paesaggio è definibile come un “sistema complesso di ecosistemi” nel quale si integrano fenomeni naturali ed azioni dell’uomo, secondo i principi dell’ecologia del paesaggio. La denominazione di “ecologia del paesaggio” si deve al bio-geografo tedesco Carl Troll che nel 1939 intuì l’evoluzione degli ecosistemi e delle loro proprietà verso entità superiori che chiamò “paesaggi” rilevando la necessità di una apposita disciplina per lo studio dei paesaggi ecologicamente definiti. L’ecologia del paesaggio (landscape ecology) nasce infatti come scienza applicata, interfaccia tra geografia ed ecologia. (23) MOTTA R., È possibile migliorare il bosco?, in Forest@ 4 (3), 244-245, 2007, URL: http://www.sisef.it. Naveh e Liebermann hanno definito il paesaggio the total human ecosystem con riferimento alla specie animale in grado di influenzare in maniera più significativa (nello spazio e nel tempo) i processi naturali. Vd. Z. NAVEH – A.S. LIBERMAN, Landscape ecology. Principles and Applications, Springer Verlag, Berlin-Heidelberg, 1984. Cfr. anche B. CASTIGLIONI, Un modello interpretativo per una riflessione sul paesaggio, in Dendronatura, 2, 23-28, 1998. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 277 namiche in cui si inseriscono le differenti scale ecosistemiche e all’interno delle quali disciplinare le strutture e le modalità di funzionamento dei singoli ecosistemi (riserva naturale, sito ecologico, parco, paesaggio, ambiente) tenendo conto della loro continua evoluzione e del loro funzionamento in un sistema unico, aperto e interrelato. Organizzazione, funzionamento ed evoluzione. All’interno di ciascun ambito gestionale alle diverse scale - dal biotopo alla biosfera, dall’area protetta al paesaggio - è necessario individuare e definire la struttura ed il funzionamento degli ecosistemi e le relative interazioni con le società umane sulla cui base definire gli obiettivi gestionali. Tali interazioni tra ambiente ed attività umane (agricoltura, pesca, caccia, attività estrattive, insediamenti urbani) portano a delineare quattro grandi categorie all’interno dell’analisi eco sistemica: 1) un sistema biotico, che include i target delle risorse di specie e popolazioni, con le specie associate e dipendenti e i loro habitat di vita; 2) un sistema abiotico, caratterizzato dalla topografia dei luoghi, dalla qualità delle acque, dal clima; 3) una organizzazione umana, che determina la raccolta e il consumo delle risorse; 4) un assetto istituzionale, che comprende l’organizzazione necessaria per la gestione e il governo del territorio. Gli uomini sono parte della componente biotica degli ecosistemi da cui traggono risorse, cibo e servizi e, al tempo stesso, sono parte delle risorse vitali e degli ecosistemi che contribuiscono a plasmare (24). Nella prospettiva antropologica l’uomo è sia utilizzatore che creatore delle risorse tuttavia né la creatività umana né le risorse sono illimitate (25). (24) Il nostro pianeta è un insieme di parti legate tra loro da flussi di materia ed energia e funziona come un sistema (geo-sistema) nel quale coesistono ambienti diversi. Il geo-ecosistema si comporta come un sistema aperto che riceve dall’esterno consistenti apporti di energia ed è mantenuto in equilibrio da una serie di cicli al suo interno (ciclo delle rocce, ciclo dell’acqua, ciclo del carbonio, ciclo dell’azoto e simili). I vegetali trasformano l’energia solare e la materia abiotica del terreno per produrre bioenergia (produttori). Gli animali "primari" (erbivori) si cibano dei vegetali assorbendone la bioenergia, divenendo, a loro volta, prede degli animali "secondari" (carnivori) e cedendo la bioenergia a questi ultimi. I resti degli animali sono trasformati nuovamente in materia abiotica tramite l'azione dei microrganismi decompositori. La materia è quindi l'oggetto di scambio tra i settori abiotici e biotici mediante continui flussi in equilibrio tra loro. Un terzo elemento fondamentale è l'energia proveniente dal sole. Senza l'irraggiamento solare non ci sarebbero i cicli abiotici e biotici. Senza il sole non ci sarebbero fenomeni atmosferici, piante o altri produttori né la vita come oggi noi la conosciamo. Il problema nasce dalla diversa scala temporale dei processi: quelli brevi dei consumi legati ai tempi economici e quelli lunghi del ripristino o del riequilibrio legati ai tempi geologici. (25) MOSCOVICI, S. The phenomenon of social representations. In R.M. FARR and S. MOSCOVICi, Social Representations, Cambridge, England, Cambridge University Press, 1984. 278 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Gli ecosistemi sono entità composite e dinamiche con una grande quantità di flussi di materia, energia e informazioni tra le sue parti componenti, in forme spesso ancora sconosciute (26). I cambiamenti ambientali possono produrre effetti non direttamente controllabili e possono esercitare una influenza fondamentale sulla stabilità e resilienza degli ecosistemi. Visto che molti di questi cambiamenti non sono prevedibili allo stato attuale delle conoscenze, le incertezze sullo stato futuro degli ecosistemi e sulla reazione rispetto alla loro utilizzazione e gestione, possono determinare potenziali errori e conseguenti rischi per le popolazioni e per le stesse risorse. La maggior parte degli Stati è alla ricerca di efficaci strategie per sviluppare una gestione sostenibile degli ecosistemi, in grado di rappresentare la dimensione olistica ed integrata delle relazioni ambientali: si parla infatti di democrazia bio-regionale od eco-regionale. Queste strategie si sviluppano sul sottile crinale che collega le discipline economiche e quelle giuridiche nella gestione dell’ambiente, anche se la relazione tra regolamentazione giuridica e gestione dell'ecosistema sembra essere molto più complicata di quella tra diritto e sviluppo economico. La ricerca di un modello integrato di governo degli ecosistemi ha portato, infatti, le istituzioni a confrontarsi con un nuovo modello di sviluppo e di gestione che presuppone un approccio eco sistemico cioè un modello che riconosca e valorizzi le relazioni tra la società umana ed i servizi che gli ecosistemi rendono all’uomo. Tentiamo ora di delineare le caratteristiche essenziali di questo approccio, da assumere ai fini dello sviluppo della presente ricerca. 2. La gestione ambientale basata sull’approccio eco sistemico. Ecosystem approach (EA): caratteristiche e definizione. Il termine “ecosystem approach” è generalmente usato nella forma di “ecosystem approach to…” come, ad esempio,“ecosystem approach to environmental protection”, per indicare appunto un approccio che «riconosce esplicitamente la complessità degli ecosistemi e le interconnessioni tra le sue parti componenti» (27). La Convenzione sulla diversità biologica del 1992 (CBD) definisce l’ap- (26) Non ci sono teorie univoche e condivise sulle forme di controllo di questi flussi mediante: - abitudini alimentari dei grandi predatori (top-down control); - produttori primari (bottom-up control); - specie abbondanti nella parte mediana della catena alimentare (wasp-waist control); - combinazioni di alcune o di tutte queste specie, derivanti dagli ecosistemi e dal loro possibile status. Cfr. R. CURRY, B. DICKSON, I. YASHAYAEV, A change in the freshwater balance of the Atlantic Ocean over the past four decades, in Nature, 18-25 dicembre 2003, p. 426. (27) DUNCAN E. J. CURRIE, Ecosystem-based Management in Multilateral Environmental Agreements: Progress towards Adopting the Ecosystem Approach in the International Managemente of Living Resources, in S. PLOURDE, Fisheries and Oceans, Canada, 2002. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 279 proccio eco sistemico come «ecosystem and natural habitats management… to meet human requirements to use natural resources, whilst maintaining the biological richness and ecological processes necessary to sustain the composition, structure and function of the habitats or ecosystems concerned. Important within this process is the setting of explicit goals and practices, regularly updated in the light of the results of monitoring and research activities». Nel corso della Quinta Conferenza delle Parti si precisa che l’ “ecosystem approach” è una strategia «per la gestione integrata di paesaggio, acqua e risorse vitali che promuove la conservazione e l’uso sostenibile in modo equo, (…) per raggiungere l’equilibrio tra… conservazione, uso sostenibile e giusta condivisione dei benefici derivanti dall’utilizzo delle risorse genetiche» (Decisione V/6). L’approccio eco sistemico si fonda su presupposti e requisiti definiti dalle scienze ecologiche applicate e dall’ecologia del paesaggio, che possiamo sintetizzare in: a) definizione e descrizione degli ecosistemi, in termini di scale, estensione, struttura e funzionamento; b) analisi dello stato iniziale dell’ecosistema, in termini di salute ed integrità; c) definizione dei pericoli attuali e di quelli futuri, in quanto prevedibili, per la salute dell’ecosistema; d) definizione delle strategie di gestione adattativa per il mantenimento, la protezione, la riabilitazione e l’uso degli ecosistemi. Tale approccio riconosce che «l’ecosistema è una unità funzionale a qualunque scala spaziale … che gli uomini sono una componente integrale di molti ecosistemi … e che si richiede l’adozione di tecniche di gestione adattativa » (Segretariato della Convenzione sulla diversità biologica, 2000). Dopo la dichiarazione di Reykjavik, l’Ecosystem Approach (EA) è riconosciuto come una forma di governance che utilizza i principi concettuali e gli strumenti operativi tradizionali ma applicati con funzione di gestione dell'ecosistema. Quali campi della moderna governance, le tecniche di gestione eco sistemica trovano le loro radici nelle discipline di gestione delle risorse naturali o della fauna selvatica anche se sono stati messi a punto paradigmi operativi molto diversi, utilizzando e sperimentando la gestione integrata. Il suo contenuto è esplicitato nei dodici principi guida della Dichiarazione di Malawi (Allegato I) (28) che riconosce le caratteristiche fondamentali del- (28) Nel corso di un workshop sull’approccio eco sistemico, tenutosi a Lilongwe, Malawi, nel gennaio 1998, sono stati identificati dodici principi per un approccio ecosistemico alla gestione della biodiversità. Tali Principi sono stati poi presentati alla quarta riunione della Conferenza delle Parti della Convenzione sulla diversità biologica (Bratislava, Slovacchia, 4-15 maggio 1998, UNEP/CDB/COP/4/Inf.9). Si riportano di seguito tali principi nella lingua originale in cui sono stati formulati: 280 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 l’approccio eco sistemico come questione di scelta sociale secondo un modello di sussidiarietà (1° e 2° principio) riportando gli ecosistemi e le loro interrelazioni nei contesti socio-economici di appartenenza (principi 3 e 4) per conservarne struttura e funzionalità (principi 5 e 6) secondo scale spaziali e temporali appropriate (principi 7 e 8), prendendo atto che il cambiamento dell’ecosistema è inevitabile e che è necessario trovare un equilibrio tra conservazione e consumo della biodiversità (principi 9 e 10) recuperando tutte le forme e i livelli di conoscenza (11 e 12). Ecosystem Management (EM): le basi scientifiche. L’evoluzione dell’approccio eco sistemico e il suo progressivo impiego nella gestione del territorio ha prodotto l’elaborazione di una specifica pratica: l’Ecosystem Management(EM). Il concetto di Ecosystem Management(EM) è stato introdotto in apertura del trattato sull’etica della conservazione da Aldo Leopold (1966) (29), si è poi affermato a partire dalla Conferenza su Diritti umani e ambiente di Stoccolma (1972) e diffuso a seguito della Conferenza su Ambiente e sviluppo della Convenzione sulla Diversità Biologica (1992). La gestione dell'ecosistema (o appunto ecosystem management) riguarda un processo di governance guidato da obiettivi espliciti, definiti attraverso il monitoraggio e la ricerca, sulla base della migliore comprensione delle interazioni ecologiche, necessarie per sostenere la struttura e il funzionamento degli ecosistemi e la fornitura dei sevizi. Esistono molte definizioni di “ecosystem management” (30). (1) Management objectives are a matter of societal choice. (2) Management should be decentralized to the lowest appropriate level. (3) Ecosystem managers should consider the effects of their activities on adjacent and other ecosystems. (4) Recognizing potential gains from management there is a need to understand the ecosystem in an economic context, considering e.g. mitigating market distortions, aligning incentives to promote sustainable use, and internalizing costs and benefits. (5) A key feature of the ecosystem approach includes conservation of ecosystem structure and functioning. (6) Ecosystems must be managed within the limits to their functioning. (7) The ecosystem approach should be undertaken at the appropriate scale. (8) Recognizing the varying temporal scales and lag effects which characterize ecosystem processes, objectives for ecosystem management should be set for the long term. (9) Management must recognize that change is inevitable. (10) he ecosystem approach should seek the appropriate balance between conservation and use of biodiversity. (11) The ecosystem approach should consider all forms of relevant information, including scientific and indigenous and local knowledge, innovations and practices. (12) The ecosystem approach should involve all relevant sectors of society and scientific disciplines. (29) A. LEOPOLD, Almanacco di un mondo semplice, Red edizioni, 1997 (edizione italiana). (30) In base agli studi di Lackey, per ecosystem management può intendersi “the application of ecological, economic, and social information, options, and constraints to achieve desired social benefits LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 281 L’Ecological Society of America ha definito l’ecosystem management come «management driver by explicit goals, executed by policies, protocols, and practicies, and made adaptable by monitoring and research based on our best understanding of the ecological interactions and processes necessary to sustain ecosystem composition, structure, and function» (31). La gestione basata sull’approccio eco sistemico (detta anche ecosystem based) non si concentra solo sui risultati di breve periodo ma riguarda, piuttosto, la sostenibilità intergenerazionale e stabilisce obiettivi misurabili che specificano i processi futuri e i risultati necessari per la sostenibilità, attraverso la comprensione e la ricerca svolta a tutti i livelli di organizzazione ecologica. Tale paradigma riconosce che la diversità biologica e la complessità strutturale rafforzano gli ecosistemi contro le perturbazioni esterne e forniscono le risorse genetiche necessarie per adeguarsi ai cambiamento di medio-lungo termine. I maggiori ostacoli riguardano l’inadeguata informazione sulla diversità biologica degli ambienti e sulle dinamiche degli ecosistemi oltre ad una insufficiente percezione pubblica sui rischi di futuri danni all'ecosistema. Sotto il profilo gestionale i maggiori punti critici riguardano l'apertura e la interconnessione degli ecosistemi su scale che trascendono i confini di gestione su base amministrativa. I processi ecosistemici operano secondo un ampio range di scale spaziali e temporali, e il loro comportamento è fortemente influenzato dai sistemi circostanti. Non esiste pertanto una sola scala appropriata o un periodo circoscritto di tempo per la loro gestione proprio in ragione del carattere fortemente dinamico e dell’inevitabile cambiamento cui gli ecosistemi sono soggetti. Riconoscendo che il cambiamento e l'evoluzione sono connaturati alle dinamiche degli ecosistemi, la gestione dovrà privilegiare approcci di gestione adattativa da intendere come ipotesi soggette continuamente a verifica sulla base di programmi di ricerca e monitoraggio continuo (32). within a defined geographic area and over a specified period” (LACKEY, R.T., Radically contested assertions in ecosystem management, J. Sustainable Forestry, 1999, 9(1-2):21- 34). Assumendo una definizione più generale, l’Ecosystem management può essere identificato come: «a management philosophy which focuses on desired states rather than system outputs and which recognizes the need to protect or restore critical ecological components, functions and structures in order to sustain resources in perpetuity» (H. J. CORTNER et al., Institutions matter: the need to address the institutional challenges of ecosystem management, 1994). Vedere anche: CHRISTENSEN, e altri, The scientific basis for ecosystem managemen, in Ecological Applications, 1996, 6:665-691; R. T. LACKEY, Values, Policy, and Ecosystem Health, BioScience 51(6): 437-443. 2001. (31) The Report of the Ecological Society of America Committee on the Scientific Basis for Ecosystem Managemente, p. 665, in http://www.jstor.org, 21 novembre 2004. (32) Si riportano di seguito i precetti scientifici fondamentali per la gestione degli ecosistemi, elaborati dalle moderne scuole di ecologia applicata. 282 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Gli approcci sperimentali dell’ecosystem approach (EA). Alcune sperimentazioni dell’approccio ecosistemico sono state promosse dalla disciplina internazionale e comunitaria - e recentemente anche da quella interna - che riguarda, principalmente, le aree costiere e marine degli oceani e del Mediterraneo, le aree protette, alcune proprietà pubbliche. Gli Stati Uniti hanno avviato, per le proprietà federali, alcune esperienze di gestione ecosistemica (33) sulla base della legislazione previgente. Alcuni riferimenti espliciti agli ecosistemi e alla biodiversità sono contenuti nell’Endangered Species Act del 1973, nel National Forest Management Act del 1976, e nel National Environmental Policy Act del 1969. Tali riferimenti sono stati interpretati a sostegno delle iniziative di gestione eco sistemica sul dominio pubblico federale e, di conseguenza, il concetto di gestione dell'ecosistema è (1) Definire obiettivi e strategie sostenibili. Strategie sostenibili per la fornitura di beni e servizi ecosistemici non possono assumere come punto di partenza le aspettative o i desideri attuali delle popolazioni come l'approvvigionamento di legname, la domanda d'acqua, la pesca a prescindere dalle capacità degli ecosistemi. Piuttosto, la sostenibilità deve essere il paradigma primario, e i livelli di fornitura delle materie prime devono essere regolati secondo tale parametro. (2) Conciliare scale spaziali. La funzione degli ecosistemi comprende ingressi, uscite, cicli di materiali ed energia, interazioni tra organismi. I confini o i perimetri definiti per lo studio o la gestione di un processo sono spesso inadeguati allo studio di altri. La gestione dell'ecosistema sarebbe notevolmente semplificata se le giurisdizioni amministrative risultassero spazialmente coerenti con il comportamento dei processi degli ecosistemi. Vista la varietà nel dominio spaziale tra processi, non è possibile adottare una soluzione unitaria per tutti i processi mentre appare più facilmente praticabile la ricerca di coordinamento tra i vari attori compresi all'interno di ciascun ecosistema alla scala considerata. (3) Conciliare scale temporali. Le autorità amministrative di gestione sono spesso costrette a prendere decisioni secondo fasi temporali su base annuale, la gestione degli ecosistemi deve fare i conti con scale temporali intergenerazionali e richiedono pianificazioni a lungo termine. (4) Rendere il sistema di gestione adattabile. La corretta gestione dell'ecosistema richiede istituzioni in grado di adattarsi ai cambiamenti delle caratteristiche degli ecosistemi e della nostra conoscenza di base. La gestione adattativa richiede pertanto l'interazione continua dello scienziato con i dirigenti e il pubblico. La comunicazione deve fluire in entrambe le direzioni e gli scienziati devono essere disposti a dare la priorità nelle loro ricerche alle necessità di gestione critica, sviluppando programmi di monitoraggio e modelli scientifici adeguati supportati da nuovi meccanismi per comunicare ricerca e risultati di gestione al pubblico e ai manager. (5) La biodiversità e la funzione degli ecosistemi dipende dalla sua struttura, diversità ed integrità. La gestione dell'ecosistema cerca di mantenere la diversità biologica come elemento fondamentale per rafforzare gli ecosistemi contro i disturbi esterni. Così, la gestione della diversità biologica riconosce che la struttura e il funzionamento dell’ecosistema è influenzato significativamente dal sistema circostante. (6) Riconoscere l'incertezza e i limiti della conoscenza. La gestione dell'ecosistema riconosce che i fenomeni si basano su previsioni incerte. La gestione adattativa risolve questa situazione di incertezza combinando l'analisi scientifica, l'educazione e l'apprendimento istituzionale, la nostra comprensione dei processi degli ecosistemi e le conseguenze di interventi di gestione per migliorare la qualità dei dati da porre alla base delle decisioni. The Report of the Ecological Society of America Committee on the Scientific Basis for Ecosystem Managemente, p. 665, in http://www.jstor.org, 21 novembre 2004. (33) Cfr. ROBERT B. KEITER, Ecosystems and the Law: Toward an Integrated Approach, in Ecological Applications, Volume 8, Issue 2 (May 1998) pp. 332-341, Ecological Society of America, in http://www.jstor.org/stable/i325028. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 283 stato approvato da tutte le agenzie di gestione delle terre federali. Per le proprietà pubbliche, dunque, la gestione su base eco sistemica può ritenersi in fase di sperimentazione mentre non è applicata alle aree in regime di proprietà privata. Per gli ecosistemi marini, il Large Marine Ecosystem approach (LMEA), elaborato dalla National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), in base al piano d'azione americano (USOAP 2004), ha introdotto cinque moduli per strutturare l’approccio eco sistemico (produttività, risorse, inquinamento e salute degli ecosistemi, aspetti socioeconomici, governance) da applicare a sedici progetti internazionali col coordinamento delle Nazioni Unite (ONU) (34). I progetti risultano coerenti con il vertice mondiale di Johannesburg del 2002 sullo Sviluppo Sostenibile (WSSD), mirato a proteggere, ripristinare e gestire l'utilizzo delle risorse costiere ed oceaniche attraverso un approccio eco sistemico entro il 2010 e confermano la progressiva adozione da parte dell’ONU. La Direttiva FAO Ecosystem approach to fisheries (1995) propone il passaggio da un approccio monospecifico, che prestava attenzione alla single specie attraverso il sistema delle quote di pescato, ad un approccio eco sistemico che tiene in considerazione l’intero sistema ambientale e il suo funzionamento, basato sulle dinamiche dei processi ecologici e sulla struttura e funzionamento dell’ecosistema. Il Reg. UE 199/2008 per il monitoraggio sulle risorse mediante raccolta costante di dati strutturali (ad esempio il numero delle barche e le caratteristiche dello sbarcato) ma anche attivando ricerche indipendenti sulle modalità di funzionamento dell’ecosistema ittico e non solo delle specie bersaglio della pesca. Nel modulo utilizzato a tal fine, tra gli indicatori eco sistemici, compare la biodiversità. Tali studi sono finalizzati a mappare le aree sensibili per passare dal dato conoscitivo al dato gestionale (Reg 1967/2006 UE). La Direttiva quadro per l’ambiente marino (2008/56/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 17 giugno 2008), che istituisce un quadro per l’azione comunitaria nel campo della politica per l’ambiente marino, prende atto, nei considerando, che «le pressioni sulle risorse marine naturali e la do- (34) Si rinvia a: Global applications of the Large Marine Ecpsystem Concept 2007-2010, a cura di Kenneth Sherman, Marie-Christine Aquarone, and Sally Adams, 2010. Nell'ecosistema marino di grandi dimensioni (LME) il NOAA ha messo a punto un modello sperimentale di gestione basato sull’approccio ecosystemico (ecosystem based) da applicare a 16 progetti internazionali in Africa, Asia, America Latina e Europa dell'Est. Tale modello prevede la messa a punto di un sistema da applicare in alcune regioni in collaborazioni con i paesi costieri secondo i cinque moduli (produttività, risorse, inquinamento e salute degli ecosistemi, aspetti socioeconomici, governance). Il modulo di governance sta mettendo in atto pratiche innovative nei progetti GEF-LME attualmente in corso in Africa e in Asia, per la Guinea, e per il Benguela, dove sono stati raggiunti accordi tra l'impatto ambientale, i ministri della pesca, dell'energia e del turismo dei paesi che entrano in relazione con il LME per una valutazione internazionale delle risorse e sono state istituite commissioni di gestione. Per il LME che interessa la Grande Barriera Corallina e l’Antartide la gestione eco sistemica è garantita tramite la Commissione per la Conservazione delle Risorse Biologiche Marine. 284 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 manda di servizi eco sistemici marini sono spesso troppo elevate» e che gli ecosistemi marini devono essere preservati mediante apposite strategie in attuazione del Sesto Programma di azione ambientale includendo, in tale approccio, le aree protette marine, al fine di conseguire un buono stato ecologico per consentire un uso sostenibile della biodiversità e mantenere livelli di produttività degli ecosistemi (35). Il buono stato ecologico è conseguito per ciascuna regione o sottoregione (36) mediante la gestione adattativa basata sull’approccio eco sistemico, identificando, a tal fine: lo “stato ecologico” iniziale (art. 3 comma 1, punto 4 ) (37); il “buono stato ecologico” da conseguire e mantenere (art. 3 comma 1 punto 5) (38) e l’inquinamento (art. 3, comma 1, punto 8) (39). (35) A tali fini la direttiva 2008/56 istituisce un quadro all’interno del quale gli Stati membri adottano le misure necessarie per conseguire o mantenere un buono stato ecologico dell’ambiente marino entro il 2020, ripristinando gli ecosistemi marini nelle zone dove hanno subito danni ed eliminando progressivamente l’inquinamento per escludere impatti significativi per la biodiversità, gli ecosistemi la salute umana e gli usi legittimi del mare (art. 1, comma 2). A tal fine le strategie per l’ambiente marino «applicano un approccio eco sistemico alla gestione delle attività umane, assicurando che la pressione collettiva di tali attività sia mantenuta entro livelli compatibili con il conseguimento di un buono stato ecologico e che la capacità degli ecosistemi marini di reagire ai cambiamenti indotti dall’uomo non sia compromessa, consentendo nel contempo l’uso sostenibile dei beni e dei servizi marini da parte delle generazioni presenti e future» (art. 1, comma 3). (36) Sono regioni o sottoregioni marine, ad esempio, la regione marina del Mar Mediterraneo e le sottoregioni Mediterraneo occidentale, Adriatico, Ionio e Mediterraneo centrale, Egeo orientale. (37) «Stato ecologico: stato generale dell’ambiente nelle acque marine, tenuto conto della struttura, della funzione e dei processi degli ecosistemi marini che lo compongono, nonché dei fattori fisiografici, geografici, biologici, geologici climatici naturali e delle condizioni fisiche, acustiche e chimiche, comprese quelle risultanmtio dalle attività umane all’interno o all’estreno della zona considerata» (Dir. 2008/56 CE, art. 3 comma 1, punto 4). (38) «Buono stato ecologico: stato ecologico delle acque marine tale per cui queste preservano la diversità ecologica e la vitalità di mari ed oceani che siano puliti, sani e produttivi nelle proprie condizioni intrinseche e l’utilizzo dell’ambiente marino resta ad un livello sostenibile, salvaguardando in tal modo il potenziale per gli usi e le attività delle generazioni presenti e future, vale a dire: a) la struttura, le funzioni e i processi degli ecosistemi che compongono l’ambiente marino, assieme ai fattori fisiografici, geografici, geologici e climatici, consentono a detti ecosistemi di funzionare pienamente e di mantenere la loro resilienza ad un cambiamento ambientale dovuto all’attività umana. Le specie e gli habitat marini sono protetti, viene evitata la perdita di biodiversità dovuta all’attività umana e le diverse componenti biologiche funzionano in modo equilibrato; b) le proprietà idromorfologiche e fisico-chimiche degli ecosistemi, ivi comprese le proprietà derivanti dalle attività umane nella zona interessata, sostengono gli ecosistemi come sopradescritto. Gli apporti antropogenici di sostanze ed energia, compreso il rumore, nell’ambiente marino non causano effetti inquinanti » (Dir. 2008/56 CE, art. 3 comma 1, punto 5). (39) «Inquinamento: introduzione diretta o indiretta, conseguente alle attività umane, di sostanze od energia nell’ambiente marino, compreso il rumore sottomarino prodotto dall’uomo, che provoca o che può provocare effetti deleteri come danni alle risorse biologiche o agli eosistemi marini, inclusa la perdita di biodiversità, pericoli per la salute umana, ostacoli alle attività marittime, compresi la pesca, il turismo, l’uso ricreativo e altri utilizzi legittimi del mare, alterazioni della qualità delle acque marine che ne pregiudichino l’utilizzo e una riduzione della funzione ricreativa dell’ambiente marino o, in generale, il deterioramento dell’uso sostenibile dei beni e dei servizi marini» (Dir. 2008/56 CE, art. 3 comma 1, punto 8). LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 285 L’attuazione della Direttiva 2008/56 è avvenuta, in Italia, mediante decreto legislativo 13 ottobre 2010 n. 190, recante Attuazione della direttiva 2008/56/CE che istituisce un quadro per l’azione comunitaria nel campo della politica per l’ambiente marino: la definizione di stato ambientale su base ecologica- eco sistemica introdotta dal decreto (40) tiene «conto della struttura, della funzione e dei processi degli ecosistemi marini» con particolare attenzione alle attività umane, adottando la gestione ecosistemica per escludere «danni alle risorse biologiche … inclusa la perdita di biodiversità, pericoli per la salute umana, … alterazioni della qualità delle acque marine che ne pregiudichino l’utilizzo e ne riducano la funzione ricreativa e o, in generale, la compromissione dell’uso sostenibile dei beni e dei servizi marini» (41). 3. (segue) Approccio eco sistemico: servizi naturali degli ecosistemi e biodiversità (BES). L’approccio eco sistemico - come abbiamo visto nei paragrafi precedenti - riconosce i servizi eco sistemici e la biodiversità quali elementi fondamentali (40) L’art. 1 del d.lgs. 190/2010, nel fissare le strategie di tutela fa espresso riferimento all’approccio eco sistemico ed indica che tali strategie: - «applicano un approccio eco sistemico alla gestione delle attività umane per assicurare che la pressione complessiva di tali attività sia mantenuta entro livelli compatibili con il conseguimento di un buon stato ambientale» (art. 1, comma 2, lett. a); - «salvaguardano la capacità degli ecosistemi marini di reagire ai cambiamenti indotti dall’uomo» (lett. b); - «considerano gli effetti transfrontalieri sulla qualità dell’ambiente marino degli Stati terzi situati nella stessa regione o sottoregione marina» (lett. c); - «rafforzano la conservazione della biodiversità dell’ambiente marino, attraverso l’ampliamento e l’integrazione della rete delle aree marine protette previste dalla vigente normativa e di tutte le altre misure di protezione» (lett. e); - «assicurano che le condizioni di monitoraggio e la ricerca scientifica sul mare siano orientate all’acquisizione delle conoscenze necessarie per la razionale utilizzazione delle sue risorse e potenzialità» (lett. f). (41) Si riportano di seguito le definizioni adottate dal d.lgs. 190/2010: - «stato ambientale: stato generale dell’ambiente nelle acque marine, tenuto conto della struttura, della funzione e dei processi degli ecosistemi marini che lo compongono, nonché dei fattori fisiografici, geografici, biologici, geologici e climatici naturali e delle condizioni fisiche, acustiche e chimiche, comprese quelle risultanti dalle attività umane all’interno o all’esterno della zona considerata» (dlgs 190/2010, art. 3, comma 1, lett. g); - «buono stato ambientale: stato ambientale delle acque marine tale per cui le stesse preservano la diversità ecologica e la vitalità di ari ed oceani puliti, sani produttivi nelle proprie condizioni intrinseche e tale per cui l’utilizzo dell’ambiente marino si svolge in modo sostenibile, salvaguardandone le potenzialità per gli usi e le attività delle generazioni presenti e future. Il buono stato ambientale è definito in relazione a ciascuna regione o sottoregione marina, sulla base dei descrittori qualitativi dell’allegato I» (dlgs 190/2010, art. 3, comma 1, lett. f); - «inquinamento: introduzione diretta o indiretta, conseguente alle attività umane, di sostanze o energia nell’ambiente marino, compreso il rumore sottomarino prodotto dall’uomo, che provoca o che può provocare effetti negativi come danni alle risorse biologiche e agli ecosistemi marini, inclusa la perdita di biodiversità, pericoli per la salute umana, limitazioni alle attività marittime, compresi la pesca, il turismo, l’uso ricreativo e altri utilizzi legittimi del mare, alterazioni della qualità delle acque marine che ne pregiudichino l’utilizzo e ne riducano la funzione ricreativa e o, in generale, la compromissione dell’uso sostenibile dei beni e dei servizi marini» dlgs 190/2010, art. 3, comma 1, lett. l). 286 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 e caratterizzanti degli ecosistemi e, in quanto tali, suscettibili di assumere valore strategico nella definizione dei modelli di tutela, idonei a costituire la base scientifica su cui modulare strumenti e tecniche di gestione. L’ordinamento giuridico accorda esplicito riconoscimento ai servizi eco sistemici, con particolare riferimento ai profili risarcitori. La Direttiva comunitaria sull’illecito ambientale definisce i servizi naturali meritevoli di tutela come «funzioni svolte da una risorsa naturale a favore di altre risorse naturali e/o del pubblico» (art. 2, par. 13). Il D.lgs. n. 152 del 2006, che concorre ad attuare la suddetta direttiva 2004/35/CE, all’art. 300, eleva i servizi naturali a componenti ambientali suscettibili di riparazione e li descrive come fenomeni di interazione dinamica tra le singole risorse naturali, a loro volta suscettibili di ristoro anche isolatamente considerate (42). La dottrina ha rilevato come «l’esplicito riferimento ai servizi, in seno alle norme, vale ad affrancare la configurazione giuridica dell’ambiente dallo schema della giustapposizione di corpi, esaltando un dato funzionale che a sua volta chiama in causa le interdipendenze» (43). La qualità dei servizi forniti dagli ecosistemi dipende dal loro stato di salute e quindi anche dalla loro biodiversità. Da molti anni ormai anche in Italia, al bosco così come al fiume o al sistema costiero, ma anche agli altri stadi della successione ecologica, vengono attribuite e riconosciute, una molteplicità di funzioni rispetto a quelle inerenti i servizi economici produttivi tradizionali (ad esempio la filiera foresta-legno o la regimazione delle acque e protezione di insediamenti, opere e manufatti), derivanti dalla loro essenza di sistemi ecologici, quali quelle relative alla conservazione della natura. L’importanza della biodiversità per l’uomo è infatti dovuta alle numerose prestazioni fornite dagli ecosistemi come dimostra il progetto Millennium Ecosystem Assessment (MA, 2005) (44), condotto sotto gli auspici delle Nazioni Unite e in particolare dell’ United Nations Environmental Programme (UNEP) con l’obiettivo di analizzare, su basi scientifiche multidisciplinari, l’evoluzione degli ecosistemi del pianeta e l’incidenza delle attività umane al fine di identificare le strategie di intervento per uno sviluppo sostenibile (45). (42) Si rinvia alla seconda parte della presente ricerca per la trattazione di dettaglio di questi argomenti. (43) M. CAFAGNO, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente come sistema complesso, adattativo, comune, G. Giappichelli editore, Torino, 2007, p. 122 ss. (44) Si stima che il valore economico globale di queste prestazioni si situi tra i 16000 e i 54000 miliardi di dollari l’anno, di cui trae beneficio la maggior parte dei settori della società: agricoltura, selvicoltura, pesca, caccia, sport, turismo, industria farmaceutica, dei profumi e tessile, edilizia, commercio di materie prime e sanità. (45) Secondo il Millennium Ecosystem Assessment, si possono distinguere quattro categorie di servizi ecosistemici: LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 287 I benefici di tali servizi non sono sufficientemente rappresentati nell’attuale regime convenzionale di economia di mercato che non riesce a contabilizzare e recepire, nei sistemi fiscali contemporanei, fenomeni quali l'inquinamento, la deforestazione o la riduzione delle funzioni ecologiche. Diviene così basilare determinare: 1. fino a che punto gli ecosistemi sono in grado di fornire beni e servizi in modo sostenibile e come possiamo misurare gli effetti del degrado degli ecosistemi e la perdita di biodiversità; 2. come attribuire valore ai servizi eco sistemici - valore non solo economico, ma anche ecologico e culturale - e promuoverne la effettiva percezione da parte delle popolazioni; 3. come identificare gli utenti o i beneficiari dei servizi ecosistemici e coinvolgerli nella definizione di strategie di tutela e nel controllo degli investimenti finanziari; 4. come comunicare le conoscenze sui servizi ecosistemici ai decisori e all'opinione pubblica, e quindi costruire il supporto locale e politico per una effettiva partecipazione e tutela; 5. come convincere i finanziatori che i benefici della conservazione e dell'uso sostenibile degli ecosistemi superano i costi. Si deve tuttavia rilevare come, negli ultimi decenni, l'attenzione per i servizi ecosistemici e per il loro valore è sensibilmente aumentato. Le conferenze internazionali quali il Congresso Mondiale dei Parchi di Durban, nel 2003, o il World Conservation Congress, promosso dall’IUCN a Bangkok nel 2004, così come le convenzioni internazionali sulle zone umide di Ramsar e sulla diversità biologica di Rio, hanno sottolineato il valore e l’importanza dei servizi eco sistemici e il Millennium Ecosystem Assessment ha messo in evidenza la dipendenza del benessere umano dagli ecosistemi e sottolineato la necessità di descrivere e quantificare il valore e l'importanza dei beni e servizi forniti dagli ecosistemi e dalla biodiversità. Mediante l’Ecosystem Partnership Service dell’ONU-UICN è stata co- - Prestazioni di sostegno: tra le prestazioni di base degli ecosistemi non utilizzate direttamente dall’uomo, ma indispensabili per tutte le altre prestazioni figurano la produzione di ossigeno e il mantenimento dei cicli dei nutrienti o del ciclo dell’acqua. - Prestazioni di approvvigionamento economico. Gli ecosistemi e le loro specie sono fattori di produzione di numerosi beni come acqua potabile, cibo, vettori energetici, fibre per l’abbigliamento, materiali di costruzione o principi attivi della medicina. Le risorse genetiche sono la base per lo sviluppo di nuove piante utili, farmaci e materie prime per l’industria. Gli ecosistemi e le loro specie sono importanti per l’impollinazione e la lotta contro i parassiti nell’agricoltura e formano suoli fertili. - Prestazioni di regolazione a favore della sicurezza. Le biocenosi naturali negli ecosistemi assorbono CO2, proteggono contro le valanghe e le piene, prevengono l’erosione e regolano il clima. - Prestazioni culturali. Gli ecosistemi e le specie contribuiscono alla varietà dei paesaggi, rispondendo così ai bisogni estetici dell’uomo. La funzione ricreativa della biodiversità è notevole. Da sempre lo sviluppo della cultura e delle società è strettamente legato alla biodiversità: basti pensare alle conoscenze tradizionali sulle piante medicinali. 288 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 stituita, nel 2008, una piattaforma per favorire la collaborazione tra scienziati e professionisti per lo scambio di studi e ricerche sui servizi ecosistemici (46). Recentemente lo studio TEEB (The Economics and the Ecosystem Biodiversity), presentato alla decima Conferenza delle parti della CBD, tenutasi a Nagoya in Giappone nel 2010, in attuazione della Convenzione sulla diversità biologica, ha promosso la valutazione globale della rilevanza economica della biodiversità e degli ecosistemi (47). Biodiversità e funzioni degli ecosistemi. Secondo la chiave di lettura proposta dal Millennium Ecosystem Assessment la biodiversità è un elemento costitutivo fondamentale della vita sulla Terra e un presupposto essenziale per la fornitura dei servizi naturali stessi. Per “biodiversità” può intendersi la varietà della vita all’interno di un ecosistema o dell’intero pianeta, spesso usata come misura della salute biologica (48), anche se le definizioni non sono univoche nell’ambito della biologia conservazionistica. In generale gli scienziati concordano che il numero delle specie per unità di area fornisce un utile punto di partenza (49) anche se è riconosciuto che alcune specie possono risultare più importanti di altre per la biodiversità (50). Gli ecologi hanno accettato che la biodiversità possa essere descritta e misurata in termini di diversità di specie all’interno di una comunità o di un habitat (51) ovvero in termini di diversità delle funzioni ecologiche (52). Si deve rilevare che la capacità di comprensione di questi concetti da parte del pubblico può sollevare alcune problematiche. Le indagini hanno rivelato che il grande pubblico ha una scarsa conoscenza del significato di “biodiversità”. Il termine, infatti, elaborato dalle discipline scientifiche, è oggi usato in contesti culturali molto diversi. Una rilettura del concetto scientifico di biodiversità ed una analisi della sua percezione da parte degli stakeholders è oggi necessario (53). La biodiversità richiede una analisi multi prospettiva integrando diversi (46) Si veda ampiamente il sito: www.es-partnership.org. (47) Il rapporto TEEB è consultabile sul sito: www.teebweb.org. Si veda anche il Journal of Biodiversity Science, sui legami tra biodiversità, servizi ecosistemici e gestione degli ecosistemi, consultabile in www.tandf.co.uk / riviste/TBSM. (48) CHRIS IMPEY, La fine di tutto, Dai singoli individui all’intero universo, W.W. Northon & Company, 2010, edizione italiana trad. Jasmina Trifoni, ed. Puntoweb, 2010, in Glossario, p. 306. (49) HARPER J.L., HAWKSWORTH D.L. Preface. In: Hawksworth, Biodiversity: Measurement and Estimation, Chapman and Hall, London, 1995, pp. 5-12. (50) WILSON C., TISDELL C., Conservation and economic benefits of wildlife-based marine tourism: sea turtles and whales as case studies. Human Dimensions of Wildlife, 2003, 8, pp. 49-58. (51) ARTS G.H.P., ROELOFS J.G.M., DE LYON M.J.H. Differential tolerances among softwater macrophyte species to acidification. Canadian Journal of Botany (1990). 68: 2127-2134. (52) STENECK R.S., DETHIER M.N., A functional group approach to the structure of algal-dominated communities. Oikos, 1994, 69, pp. 476-498. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 289 approcci scientifici ed umanistici (geografia, botanica, zoologia, ecologia, socio-economia, agro economia, diritto, politiche). Nell’ambito della definizione degli approcci, una delle necessità che si presenta è quella di classificare i diversi ecosistemi e le tipologie dei servizi offerti. Metodologie e tecniche di ecologia quantitativa, analisi dei sistemi, valutazione economica dei beni non di mercato, possono permettere, attraverso un applicazione integrata e sinergica, di produrre le valutazioni necessarie, purché non si perda di vista la dimensione intrinsecamente dinamica dei socioecosistemi. Molto spesso singole misure efficaci per la conservazione di un certo ecosistema e/o la valorizzazione di uno specifico servizio possono avere effetti collaterali negativi su altri servizi, oppure su altri ecosistemi, anche a grandi distanze. È risultato ben chiaro l’importanza di assegnare un valore alla biodiversità al fine di stabilire priorità di gestione (54). Il problema valutativo consiste allora nell’analisi dei servizi offerti da ogni ecosistema, partendo dalla loro identificazione per passare poi alla quan- (53) La risoluzione del Parlamento europeo del 27 settembre 2010 ha sottolineato l'importanza di proteggere la tradizionale conoscenza ecologica (TEK) e il loro ruolo in una pianificazione partecipativa. Gli effetti delle politiche su queste prospettive non sono immediati (ad esempio, l'educazione nelle scuole elementari avranno effetti a lungo termine e non lineare) e le tendenze generali possono essere stimate solo a ritroso, e ad una scala più grande del fenomeno in esame. In ogni caso, la creazione di legami basati sulla fiducia reciproca tra le parti interessate, compresi quelli che studiano la biodiversità e la gestione, migliora il processo e favorisce la creazione di feed-back, che sono un efficace sistema di regolazione di processo in un ambiente complesso. (54) I responsabili politici e gli scienziati sostengono che i criteri economici devono essere parte dell'attuazione delle politiche di conservazione e comprendono il valore economico della biodiversità (Risoluzioni del Parlamento europeo 27 e 21 settembre 2010). Tra le tecniche di valutazione economica, il metodo di valutazione contingente è stato ampiamente utilizzato per misurare il valore economico della specie e della biodiversità. La procedura è basata su un mercato ipotetico nel quale si chiede alle persone di esprimere la loro massima disponibilità a pagare (WTP) per la protezione della biodiversità. In generale, le specie utili per gli esseri umani sono positivamente correlate al WTP, mentre quelle che producono danni economici ottengono indici negativi. La maggior parte delle specie sono valutate come neutrali, nonostante il loro ruolo negli ecosistemi. Ne emerge un quadro che privilegia una specie a fronte di un’altra, danneggiando così l'ecosistema nel suo complesso. Il valore dell’ambiente è composto da valori d’uso e da valori di esistenza (valori di non uso). Esistono una serie di approcci che possono essere impiegati per scopi di valutazione economica. Gli approcci ipotetici basano la loro stima diretta o indiretta sulle risposte alle domande di valutazione ipotetica. Questi approcci includono prezzo competitivo di mercato, mercati simulati, giochi di offerta e disponibilità a pagare, classifica contingente, e referendum contingente. Ciascuno di questi approcci ha i suoi vantaggi e svantaggi e non possono essere impiegati in genere per affrontare tutti i casi possibili. Ci sono tuttavia alcuni punti critici. McVittie e Moran argomentano contro un modello di valutazione top-down preferendo quelli generati attraverso una cooperazione con le parti interessate, fino ad indurre un apprendimento. Si suggerisce che la comprensione corretta del benessere umano si costruisce dal basso verso l'alto mediante la comprensione dei processi. 290 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 tificazione, ed infine, alla loro valorizzazione, individuando specifici strumenti come nel caso dei Payment for Ecosystem Services (PES). È, pertanto, necessario integrare il valore della biodiversità e le funzioni dell’ecosistema con i relativi benefici e servizi ad essi associati, all’interno di politiche e di strumenti di gestione per sviluppare e applicare un nuovo concetto integrato del valore della biodiversità, come richiedono le linee di ricerca più avanzate (55). Prioritariamente le strategie si rivolgono agli strumenti di conservazione della natura. Considerando, tuttavia, la caratteristica di sistemi aperti che è connaturata agli ecosistemi, le politiche di conservazione delle aree protette non possono prescindere dalle necessarie interconnessioni con gli altri ecosistemi, come dimostra il tentativo di organizzare le aree protette a livello globale, europeo e mondiale, secondo una rete ecologica, integrata e diffusa. La partizione in aree protette e non protette è necessaria nell'attuale crisi ambientale dei paesi sviluppati. Scientificamente, tuttavia, il concetto stesso di partizione è in contrasto con le caratteristiche fondamentali degli ecosistemi che sono, per definizione, aperti e dinamici. Il concetto di aree protette, ai fini della presente ricerca, dovrà pertanto essere illustrato valorizzando le interpretazioni coerenti con i valori ecologici ed eco sistemici, come vedremo nel prosieguo del lavoro e soprattutto nella parte terza. 4. Tutela dell’ambiente e degli ecosistemi in Italia: inquadramento generale. Nel Digesto delle discipline pubblicistiche si legge che «sotto il termine ecologia può essere riassunto, dal punto di vista giuridico, tutto il sistema normativo funzionale alla prevenzione e alla lotta agli inquinamenti e alla protezione dell’ambiente naturale»(56): ciò lascia sottendere il valore olistico ed (55) Di seguito alcuni obiettivi indicati da una recente ricerca definita dall’Università di Firenze, Dipartimento di biologia evoluzionistica in collaborazione con il Dipartimento di Diritto Pubblico, per rafforzare il valore della biodiversità all’interno degli ecosistemi: 1. stabilire condizioni di base, ecologiche, socio-economico e istituzionali, nei siti di studio includendo l’analisi degli attuali conflitti sociali in materia ambientale e valutando, in particolare, le conseguenze dell'applicazione delle politiche comunitarie di conservazione della biodiversità negli scenari locali; 2. conduzione di un lavoro partecipativo con diversi stakeholder per una giusta considerazione della percezione sociale di ciò che realmente significa BEF per ogni stakeholder, assicurando così la partecipazione attiva nel processo di valutazione; 3. rafforzare lo studio delle relazioni tra biodiversità e funzioni dell'ecosistema (BEF); 4. condurre un approccio integrato e valutativo della biodiversità e delle funzioni dell'ecosistema nei siti di studio; 5. valorizzare l’interfaccia tra scienza e politiche di sensibilizzazione sulla biodiversità. (56) D. BORGONOVO RE, Ecologia, ad vocem, Digesto delle discipline pubblicistiche, Aggiornamento, Utet, Torino, 2000, p. 199 ss. Si veda anche R. VIGOTTI, Ecologia, in Digesto delle discipline pubblicistiche. Aggiornamento, vol. I, Torino, 2000. In particolare per le relazioni tra ecosistema ed aree protette si rinvia a: LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 291 omnicomprensivo che tale concetto può assumere nell’ordinamento giuridico, coerentemente con quanto osservato nelle discipline scientifiche ed umanistiche che - come abbiamo visto - lo riferiscono alla dimensione ambientale nella sua interezza. L’art. 117 della Costituzione, alla lettera ‘s’, associa, infatti, al termine “ambiente” quello di “ecosistema”. I due termini vengono espressamente introdotti con legge costituzionale n. 3/2001 con diverso grado di elaborazione critica nel dibattito istituzionale. La ricostruzione della nozione di “ambiente” è, infatti, da sempre oggetto di un intenso dibattito, sviluppatosi ampiamente attraverso illustri tesi ricostruttive a partire dalla nota tripartizione Gianniniana e dalla concezione unitaria di Alberto Predieri attraverso generazioni di studiosi fino ai giorni nostri (S. Grassi) (57). La “tutela … dell’ecosistema”, nonostante i frequenti riferimenti operati dalla legislazione ambientale, costituisce, invece, un emendamento apportato al testo costituzionale in fase di approvazione, su richiesta del Gruppo dei Verdi, al di fuori di approfondimenti e riflessioni generali da parte della comunità scientifica mentre risulta ancora pendente un disegno di legge per modificare l’art. 9 della Costituzione ed introdurre espressamente la tutela dell’ecosistema come principio fondamentale dell’ordinamento. La nostra Costituzione non costituisce, tuttavia, un unicum, visto che altre costituzioni attribuiscono espresso riconoscimento agli aspetti ecologici: si ricordano, tra gli altri, il caso del Perù (1979), che stabilisce il diritto di vivere in un ambiente sano, ecologicamente equilibrato ed appropriato allo sviluppo della vita, della Svizzera (1986) e dell’Argentina (1994), che riconoscono il principio dello sviluppo sostenibile, di qualità della vita, di informazione ed educazione ambientale per garantire un ambiente di vita ecologicamente sano (58). Nel nostro paese, il concetto di “ecosistema” riceve precisazioni attraverso i riferimenti contenuti nella legislazione ambientale e nelle elaborazioni a vario - M. CECCHETTI, Riforma del titolo V della Costituzione e sistema delle fonti: problemi e prospettive nella materia in Diritto e gestione dell’ambiente, 2002, p. 399 ss. e in www.federalismi.it; - P. JANES CARRATÙ, Ecosistema: parchi e tutela della fauna, in F. LUCARELLI, a cura di, Ambiente, territorio e beni culturali, Napoli, 2006; - R. GAMBINO, Parchi, paesaggi, territorio in Parchi, 2007, pp. 54 ss.; - P. CARPENTIERI, La nozione giuridica di paesaggio, in RTDP, 2004, in part. p. 399 ss.; - P. URBANI, Strumenti giuridici per il paesaggio, in Interpretazioni di paesaggio, A. CLEMENTI, a cura di, Roma, 2002. (57) Si rinvia ampiamente per la bibliografia e le ricostruzioni teoriche a: - S. GRASSI e altri, a cura di, Ambiente e diritto, Leo S. Olschki, Firenze, 1999; - S. GRASSI, Tutela dell’ambiente, ad vocem, cit. p. 1115; - S. GRASSI – M. CECCHETTI, a cura di, Governo dell’ambiente e formazione delle norme tecniche, Milano, Giuffré, 2006. (58) Corso di Legislazione ambientale, S. MAGLIA, Ipsoa edizioni, 2002. 292 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 titolo presenti in giurisprudenza e in dottrina dopo la novella costituzionale. Il termine “ecosistema” (o “ecosistemi”) ricorre, infatti, in una pluralità di fonti normative, antecedenti e successive al testo costituzionale. Possiamo tentare una periodizzazione - con le semplificazioni che tale schematismo inevitabilmente contiene - per sintetizzare l’evoluzione dell’approccio giuridico nella disciplina degli ecosistemi, identificando almeno tre fasi. A) Nella fase storica fino agli anni ’60 e ‘70, il concetto di ecosistema emerge con particolare riferimento alla valenza economica e produttiva: in questa fase gli ecosistemi sono assunti dall’ordinamento col valore di “risorse”, al fine precipuo di garantirne la riproducibilità. Le “risorse” sono infatti un elemento costitutivo degli ecosistemi e ne rappresentano la componente più direttamente economica (cave, miniere, legname, prodotti alimentari, risorse ittiche e simili). La disciplina storica delle aree boscate, ad esempio, era finalizzata ad assicurare un corretto equilibrio tra tagli e nuovi impianti per garantire essenzialmente la fornitura di legname attraverso il rimboschimento 7oltre che il mantenimento di alcune aree per evitare dissesti idrogeologici e garantire la stabilità dei versanti (R.D. 3267/1923). Si trattava di gestire le risorse forestali secondo criteri di eco-efficienza, razionalizzandone l’uso in modo da evitarne la distruzione e garantire la massimizzazione dei beni naturali utili all’uomo per il bene delle generazioni attuali e di quelle future. Analogamente la disciplina della caccia opera in riferimento all’equilibrio ecologico delle specie, rispetto al quale deve essere valutata e definita la misura consentita di prelievo o di abbattimento di un determinato quantitativo di specie animali per assicurare la riproduzione, escludendo o limitando le attività venatorie in tali periodi. La disciplina della pesca fissa le quote consentite di “pescato” (risorse ittiche) sulla base di tabelle destinate a garantire la riproduzione delle quote sottratte. La legislazione sanitaria e la legislazione per la tutela alimentare si rivolgevano a singole sostanze o singoli inquinanti, ritenuti pericolosi per la salute umana o per le alterazioni ambientali. Il concetto di risorse (ecosistemiche), impiegato in questa prima fase, ha avuto poi una lunga permanenza nell’ordinamento: basti pensare alla legislazione regionale Toscana successiva al 2000 (ad esempio la legge regionale n. 1 del 2005) che impiega il termine per descrivere le componenti naturali del territorio toscano (“risorse naturali”) ed associa, a tali risorse, le relative “prestazioni” introducendo, nell’alveo giuridico, ancora un concetto ecosistemico. B) In una successiva fase il concetto di “ecosistema” comincia ad affermarsi assumendo significati complessi, anche a seguito delle elaborazioni comunitarie ed internazionali, sollecitate dall’affermazione della coscienza LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 293 ecologica negli anni ’70 e ’80. Si assiste al progressivo affioramento di una disciplina eco sistemica in nuce all’interno dell’ordinamento giuridico, sia nelle fonti primarie che secondarie. Si tratta di riferimenti che emergono secondo una trama a macchia di leopardo, spesso al di fuori di un principio guida unitario, e che assumono specifica rilevanza all’interno dei singoli settori dell’ordinamento nei quali il concetto di ecosistema è, di volta in volta, attratto. Ne emergono implicazioni e valori sostanzialmente innovativi che affiancano, al valore economico delle risorse, profili complessi e interdisciplinari. Alcune fonti, ad esempio, sottolineano il valore relazionale degli ecosistemi e le interazioni tra i singoli fattori ambientali recuperando, così, una delle valenze fondamentali del concetto di ecosistema, così come era stato elaborato dalle discipline scientifiche. Le “relazioni ecologiche” sono oggetto di verifica da parte della VAS/Valutazione Ambientale Strategica (art. 5, par. 1, Direttiva 2001/42/CE del Parlamento e del Consiglio del 27 giugno 2001) e dell’art. 5, comma 1, lett. c), del d.lgs. 152/2006, che, nel definire la nozione di “impatto”, descrive testualmente l’ambiente come un sistema di relazioni. L’art. 24 del d.lgs. 152 rimette, infatti, alla procedura di valutazione, la stima degli effetti, diretti ed indiretti, di ogni progetto «sull’uomo, sulla fauna, sulla flora, sul suolo, sulle acque di superficie e sotterranee, sull’aria, sul clima, sul paesaggio e sull’interazione tra detti fattori». Analogamente il DPCM 27 dicembre 1988 n. 16100, allegato I, punto 1, lett. e), descrive gli ecosistemi sottolineando il sistema unitario di relazioni ambientali ad essi sotteso qualificandoli come «complessi di componenti e fattori fisici, chimici e biologici tra loro interagenti ed interdipendenti, che formano un sistema unitario ed identificabile (quali un lago, un bosco, un fiume, il mare) per propria struttura, funzionamento ed evoluzione temporale». Un profilo eco sistemico più specifico rispetto all’azione culturale promossa dall’uomo è sottolineato dalla disciplina paesaggistica che coglie il valore relazionale sotto il profilo della interazione uomo-natura quale espressione dei valori culturali e paesaggistici. Il D.lgs. 42/2004, recante Codice dei beni culturali e del paesaggio, identifica il paesaggio come risultante dell’azione di fattori naturali ed umani e della loro interazione così come la Convenzione europea siglata a Firenze, il 20 ottobre 2000, che definisce il paesaggio come «la parte di territorio, così come percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni» (59). (59) G. F. CARTEI, Convenzione europea del paesaggio e governo del territorio, Il Mulino, Bologna, 2007; G. F. CARTEI, La disciplina del paesaggio tra conservazione e fruizione programmata, G. Giappichelli editore, Torino, 1995. 294 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Così anche le informazioni ambientali (art. 2, Dir. 2003/4/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 28 gennaio 2003) riguardano “le interazioni” tra i singoli elementi che compongono l’ambiente (aria, atmosfera, acqua, suolo, territorio, paesaggio, siti naturali, zone costiere, diversità biologica) ed analogamente è statuito nel decreto di recepimento (d.lgs. n. 195 del 19 agosto 2005). Un elemento fondamentale ed innovativo degli ecosistemi viene prescelto dall’ordinamento nella disciplina del danno ambientale, laddove individua, quali elementi da assoggettare a ristoro, anche i servizi naturali degli ecosistemi. L’art. 300 del d.lgs. 152/2006 - che concorre ad attuare la direttiva 2004/35/CE - eleva i servizi naturali a componenti ambientali suscettibili di riparazione e li descrive come fenomeni di interazione dinamica tra le singole risorse naturali, a loro volta suscettibili di ristoro anche isolatamente considerate. Il danno può infatti consistere nella compromissione dei rapporti funzionali tra suolo, sottosuolo, acque interne, acque costiere, specie, fauna, habitat, collettività umane. Così la disciplina delle attività agricole integra gli aspetti strettamente colturali legati alla produzione con gli aspetti agro-ecosistemici derivanti dalle coltivazioni biologiche e bio-dinamiche. Un particolare riferimento deve essere fatto alla legislazione su parchi ed aree protette. In una prima fase evolutiva, negli anni ’70 e ‘80, la legislazione storica si evolve dalle singole aree naturalistiche e si struttura secondo sistemi di aree protette, soprattutto ad opera della legislazione regionale (estremamente significativo il caso della Regione Piemonte ma anche Veneto e Toscana) e quindi della legge quadro statale n. 394 del 1991 (i sistemi di aree protette nazionali e regionali delle Alpi, dell’Appennino e delle coste). In una seconda fase, successiva agli anni ’90 ed alla legge quadro, la cui attuazione è tuttora in corso, i sistemi di aree protette assumono la configurazione di una rete ecologica vera e propria, che si interconnette alla scala europea secondo eco-regioni continentali, assistita dalla valutazione di incidenza per le verifiche ecologiche in senso stretto, in attuazione della direttiva europea n. 43 del 1992. C) Nella fase attuale, che costituisce l’esito delle elaborazioni sviluppate soprattutto a partire dagli anni ’90 e massimamente nel nuovo millennio, si assiste all’introduzione di strategie che adottano un approccio eco sistemico olistico ed integrato da cui prendere le mosse per assicurare una corretta gestione ambientale. L’esito è diametralmente opposto: nelle fasi pregresse i singoli settori normativi delle discipline ambientali attraevano al proprio interno le tematiche ecosistemiche che venivano sezionate e piegate alle specifiche esigenze del singolo settore dell’ordinamento ambientale. Nella fase attuale, invece, le nuove strategie di gestione ambientale pongono gli ecosistemi e le loro carat- LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 295 teristiche funzionali alla base dei modelli di conservazione, tutela e gestione ambientale, assumendoli come categoria logico-giuridica. Abbiamo visto, nei paragrafi precedenti, che le fonti normative più recenti, richiamano in modo espresso l’approccio ecologico ed integrano, nella disciplina degli aspetti economici, il valore sociale, culturale e paesaggistico degli ecosistemi. Ne studiano il funzionamento in quanto valore in sé da comprendere e valorizzare per le funzioni naturalistiche e di supporto alla vita che svolgono. Tentano di capire le tendenze evolutive degli ecosistemi valorizzando le funzioni conoscitive e di monitoraggio, ritenendole percorsi fondamentali di crescita e di sviluppo per la nostra società. Significativo, in proposito, il caso della “biodiversità” che, come espressione degli ecosistemi e della loro salute, viene posta alla base di tutti i settori ambientali e paesaggistici, informandoli dal loro interno a costituirne la matrice logica e giuridica, al fine di concorrere, in via prioritaria e coordinata, alla loro tutela e gestione: questa fase, tuttavia, è in larga misura ancora da costruire (si rinvia ampiamente alla seconda parte di questo lavoro). Su tali basi, la giurisprudenza e la dottrina, soprattutto a partire dal 2001, hanno sviluppato alcune ricostruzioni delle tematiche ecosistemiche, sia pur mantenendo ancora un approccio che privilegia i riferimenti alla tutela ambientale. Le ricostruzioni dottrinali e giurisprudenziali si attestano su alcune ipotesi che possiamo così sintetizzare: - l’ecosistema come endiadi, da associare alla tutela dell’ambiente; - l’ecosistema come categoria logico-giuridica generale che costituisce la matrice interna e definisce la struttura ed i processi funzionali dei sistemi ambientali. - l’ecosistema come equilibrio ecologico dell’ambiente; - l’ecosistema come sistema naturale, riferibile prioritariamente ai sistemi faunistici e naturalistici (parchi ed aree protette). Il punto di partenza delle riflessioni dottrinali è costituito dalle ricostruzioni dell’ambiente come “materia” o come “valore”, cui l’ecosistema può essere assimilato, a partire dalle storiche riflessioni che già contenevano i primi cenni alle tematiche ecosistemiche (60). (60) Tali ipotesi interpretano l’ambiente: 1) come “materia oggetto”, unitaria in senso tecnico (Sandulli); 2) come “materia complessa”, non unitaria, composta da un complesso di settori normativi secondo una concezione pluralista (Giannini). Secondo la teoria pluralista di Massimo Severo Giannini, nell’ambito del concetto di ambiente, vanno individuati: l’ambiente come paesaggio; l’ambiente come difesa del suolo, dell’aria e dell’acqua; l’ambiente come urbanistica. Cfr. M.S. GIANNINI, Ambiente: saggio sui suoi diversi aspetti giuridici, in Riv. trim. dir. pubbl., 1973, p.15 ss e, dello stesso Autore, Primi rilievi sulle nozioni di gestione dell’ambiente e di gestione del territorio, in Riv. trim. dir. pubbl., 1975, 2, p.479 ss. Alla teoria di Giannini ha fatto seguito la concezione bipartita di Alberto Predieri, incentrata sulla distinzione dell’ambiente inteso come assetto del territorio rispetto alla disciplina concernente la tutela dell’acqua, dell’aria e del suolo (si veda: A. PREDIERI, Paesaggio, in Enc. Dir., ad vocem, Giuffré, Milano, 1981. 296 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Riferimento essenziale e doveroso va alle ricostruzioni di Alberto Predieri che aveva manifestato particolare sensibilità ed interesse alle tematiche ecosistemiche (le interazioni orizzontali e verticali) all’interno della dimensione paesaggistica (61). Venendo più da vicino alla formula della “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema” (art. 117, lett. s, della Costituzione) si è ritenuto che tale espressione configurerebbe non tanto una materia vera e propria ma, piuttosto, starebbe ad indicare «una clausola generale, che potrà essere utilizzata, se e quando necessario, per assicurare allo Stato funzioni e compiti riferibili a materie anche molto diverse tra loro, ma tutte destinate a garantire quel valore fondamentale, quell’interesse unitario ed insuscettibile di frazionamento quale è appunto considerato l’ambiente» (62). Posizioni intermedie sono espresse da chi individua nella formula costituzionale sia un valore trasversale rispetto al complesso delle materie connesse sia una materia vera e propria da riferire alla legislazione di settore «il cui oggetto risulti quello di definire e garantire, in modo diretto e immediato, determinati equilibri ecologici» (63). Così la tutela dell’ecosistema può assumere valore di endiadi e di maggiore specificazione, finalizzata ad evidenziare la necessità di provvedere al 3) come “materia scopo” o “materia trasversale” (A. MARINI, La Corte costituzionale nel labirinto delle materie trasversali: dalla sentenza n. 282 alla sentenza 407 del 2002, in Giur. cost. 2002, p. 2951 ss). Quest’ultima interpretazione ha poi dato luogo a due letture: 4) una visione unitaria ed oggettiva, che vede l’ambiente come materia trasversale da associare all’equilibrio ecologico riferito alle singole discipline con finalità ecologica (aria, acqua, rumore, difesa del suolo, smaltimento rifiuti, protezione della natura, aree protette). Beniamino Caravita ha osservato come la «tutela dell’ambiente va intesa come tutela dell’equilibrio ecologico della biosfera o degli ecosistemi considerati. È opportuno precisare che, parlando di tutela degli equilibri ecologici della biosfera e degli ecosistemi, non si vuole far riferimento alla tutela dell’ambiente inteso in senso esclusivamente “naturale”: della biosfera e degli ecosistemi fa parte l’uomo e ne fanno parte ambienti costruiti e strutturati dall’uomo e dagli esseri viventi; l’equilibrio ecologico non è dunque quello di situazioni irrealisticamente “naturali”, ma quello delle situazioni concrete dove l’uomo e gli esseri viventi operano e così come lo hanno nei secoli e nei millenni strutturato.» (B. CARAVITA, Diritto dell’ambiente, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 33); 5) ed un’altra concezione, unitaria ma diffusa, che vede l’ambiente come materia trasversale da riferire al valore costituzionale fondato sugli articoli 9 e 32 ed ora anche 117 che va oltre le singole discipline ecologiche e si profila come un compito o una funzione di carattere trasversale, da intendersi unitariamente sotto il profilo teleologico (posizione espressa dalla giurisprudenza costituzionale). (61) Non si può non richiamare la nota definizione di A. PREDIERI, Paesaggio, in Enciclopedia del diritto, vol. XXXI, Giuffré, Milano, 1981, p. 506 cit.: «gli scambi tra ambiente visibile o paesaggio ed ambiente invisibile, così come le retroazioni tra ambiente ed azione pubblica e viceversa, sono istituzionali e permanenti e comportano continue interazioni orizzontali e verticali, cioè tanto fra le diverse funzioni individuate nelle aree di tutela, quanto nel collegamento tra quelle funzioni e la totalità sovrastante o retrostante dell’ambiente globalmente inteso come oggetto dell’attività pubblica». (62) A. FERRARA, in La materia ambiente nel testo di riforma del titolo V, in Osservatorio sul Federalismo. I processi di federalismo: aspetti e problemi giuridici, Milano 30 maggio 2001, pagg. 1-7. (63) M. CECCHETTI, Riforma del titolo V della Costituzione e sistema delle fonti: problemi e prospettive nella materia tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, in “www.federalismi.it”. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 297 mantenimento degli equilibri ecologici tra fattori fisici, chimici e biologici che permettono la vita di tutti gli esseri viventi, a prescindere da una specifica interazione con l’uomo (M. Cecchetti) (64). O ancora il termine può assumere il significato di unità ecologica interna all’ambiente e al paesaggio, in quest’ultimo caso in riferimento soprattutto alle interazioni uomo-natura (Cafagno, Boscolo), alla prova della concezione integrale del paesaggio (G.F. Cartei) (65). Anche il contributo interpretativo della giurisprudenza costituzionale contribuisce a chiarire il valore e le implicazioni che l’ecosistema può esprimere. Il riferimento all’ecosistema è sempre stato, a vario titolo, presente nella giurisprudenza costituzionale, anche precedente la novella costituzionale del 2001 e la stessa legge quadro sulle aree protette (66). Particolarmente significative, rispetto alle implicazioni unitarie e relazionali degli ecosistemi, risultano le sentenze della Corte costituzionale che richiamano l’ambiente e la tutela dell’ecosistema come valore (67). Fondamentale, in tal senso, la sentenza n. 407 del 10 luglio 2002 ed il suo antecedente logico e giuridico della decisione n. 282 del 9 giugno 2002 (68). Manfredi osserva che dalla lettura di tali pronunce emerge come la Consulta prenderebbe a riferimento, in continuità con il precedente orientamento legato alla cooperazione e collaborazione Stato-Regioni in materia paesaggistico- ambientale, non tanto la nozione che la dottrina prevalente evince dalla normativa primaria, intendendo l’ambiente come equilibrio ecologico della biosfera o dei singoli ecosistemi di riferimento e la “tutela dell’ambiente” come “tutela dell’equilibrio ecologico della biosfera o dei singoli ecosistemi di riferimento” (B. Caravita) (69) ma piuttosto la nozione di ambiente conso- (64) M. CECCHETTI, Ambiente, paesaggio e beni culturali, in G. CORSO e V. LOPILATO, Il diritto amministrativo dopo le riforme costituzionali, Giuffrè editore, parte speciale, vol. I, p. 319. (65) G.F. CARTEI, Convenzione europea del paesaggio e governo del territorio, Il Mulino, Bologna, 2007; G. F. CARTEI, La disciplina del paesaggio tra conservazione e fruizione programmata, G. Giappichelli editore, Torino, 1995. (66) La sentenza 641 del 1987 della Corte costituzionale in relazione alla legittimazione ad agire per danno ambientale ai sensi dell’art. 18 della legge 349 del 1986, che stabilisce che spetta allo Stato e in via concorrente agli enti territoriali sui quali incidono i beni oggetto del fatto lesivo, individua tale legittimazione “nella loro funzione a tutela della collettività e della comunità nel proprio ambito territoriale e degli interessi all’equilibrio ecologico, biologico e sociologico del territorio che ad essi fanno capo”. (67) G. MANFREDI, Standards ambientali di fonte statale e poteri regionali in tema di governo del territorio, nota a sentenze della Corte cost. 1 ottobre 2003 n. 303, 7 ottobre 2003 n. 307, 7 novembre 2003 n. 331, in Urb. App. 2004, p. 296 ss. (68) M. CECCHETTI, Legislazione statale e legislazione regionale per la tutela dell’ambiente: niente di nuovo dopo la riforma del titolo V ?, nota a sentenza 10-26 luglio 2002 n. 407 in Le Regioni, 2003, p. 312. (69) B. CARAVITA, Diritto dell’ambiente, Il Mulino, Bologna, III edizione, Bologna, 2005, pp. 22 dove osserva: «La definizione in termini unitari dell’ambiente, in realtà, è possibile solo se i giuristi prendono le mosse dalle esperienze e dalle nozioni di altre scienze. In materia ambientale è lungamente mancato, invece, il riferimento ai dati e alle elaborazioni dell’eco- 298 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 lidatasi prima della riforma come “valore costituzionale trasversale”. La sentenza della Corte costituzionale n. 307 del 2003 ha giudicato invece l’espressione “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema” una endiadi descrittiva di una competenza statale unitaria avente ad oggetto “la protezione della fauna, delle risorse ambientali e del paesaggio”. La giurisprudenza costituzionale successiva al recepimento della tutela dell’ecosistema nel testo dell’art. 117 ha operato talora un riferimento diretto alla protezione della natura. È il caso dell’indirizzo giurisprudenziale sancito dalla sentenza 108/2005 e successivamente riconfermato, come dimostra, da ultimo, la sentenza 151/2011. La Corte costituzionale, nella sentenza 108, richiamate le precedenti decisioni sul valore trasversale della tutela ambientale (sentenze n. 307/2003, n. 404/2002, n. 259/2004, n. 303/2003 e n. 312/2003) precisa ulteriormente l’ambito degli interventi normativi in materia di aree protette, ed individua, nella Legge quadro sulle aree protette, tre nuclei di norme. Un primo nucleo di carattere generale (artt. 1-7), un secondo composto da norme che costituiscono lo standard di tutela uniforme all’interno dei parchi nazionali (artt. 8-21) e, infine, un terzo dedicato alle aree protette regionali (artt. 22-28). In questo contesto, le norme regionali istitutive di aree naturali protette trovano il limite di deroga in peius degli standard di tutela uniforme sull’intero territorio nazionale, mentre sono libere nello stabilire obiettivi di tutela, di logia, della scienza, cioè, che studia le condizioni di vita reali degli organismi sotto il profilo delle interrelazioni fra gli organismi e l’ambiente, con la conseguente utilizzazione di quelle elaborazioni per costruire su di essi nozioni giuridicamente significative. (…) Un significato autonomo ed unitario della nozione di ambiente (e di quella relativa e conseguente, di tutela dell’ambiente) è possibile trovare solo accogliendo, con tutti i limiti che ne conseguono, la prospettiva ecologica: - “ambiente” allora va inteso come equilibrio ecologico, di volta in volta, della biosfera o dei singoli ecosistemi di riferimento; - “tutela dell’ambiente” va intesa come tutela dell’equilibrio ecologico della biosfera o degli ecosistemi considerati. È opportuno precisare che, parlando di tutela degli equilibri ecologici della biosfera e degli ecosistemi, non si vuole far riferimento alla tutela dell’ambiente inteso in senso esclusivamente “naturale”: della biosfera e degli ecosistemi fa parte l’uomo e ne fanno parte ambienti costruiti e strutturati dall’uomo e dagli esseri viventi; l’equilibrio ecologico non è dunque quello di situazioni irrealisticamente “naturali”, ma quello delle situazioni concrete dove l’uomo e gli esseri viventi operano e così come lo hanno nei secoli e nei millenni strutturato. Data questa nozione di ambiente, nella disciplina del “diritto dell’ambiente” rientrano, poi, tutte quelle discipline di settore in cui si persegue come finalità prevalente la tutela degli equilibri ecologici (e quindi: disciplina dell’aria, dell’acqua, del rumore, della difesa del suolo, dello smaltimento dei rifiuti, protezione della natura, delle aree protette; nonché quegli strumenti tipicamente rivolti alla tutela degli equilibri ecologici: valutazione di impatto ambientale, danno ambientale); restano invece fuori tutte quelle discipline (ad es. relative al paesaggio; all’agricoltura; alla sicurezza sul lavoro; ecc.) - che pur presentando connessioni e collegamenti con il diritto dell’ambiente - in cui risultano essere prevalenti altre finalità (quelle di ordine estetico-culturale; o di ordine economico-produttivo; o di tutela della salute sul lavoro)». LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 299 protezione e di promozione in relazione agli obiettivi di sviluppo sociale ed economico all’interno dei parchi. Alla luce delle indicazioni giurisprudenziali sottolineate nella sent. della Corte costituzionale n. 108 del 2005, recente dottrina ritiene «possibile rilevare, pur nella complessità della materia, che la protezione della natura si va configurando come materia autonoma rispetto alla tutela dell’ambiente e a quelle contermini aventi ad oggetto, in genere, l’utilizzo del territorio e si viene identificando progressivamente con la locuzione costituzionale “tutela dell’ecosistema” » (Crosetti) (70). Tale indirizzo è confermato da ultimo dalla sentenza 151 del 18 aprile 2011 (71). Possiamo sintetizzare le provvisorie conclusioni di questa prima parte riconoscendo che «Il diritto, nella disciplina dell’ambiente, viene posto in modo immediato e diretto a contatto con le altre scienze. L’attenuarsi della separazione tra la conoscenza della natura e il sistema normativo si traduce nella necessità di un ripensamento nella stessa costruzione dei principi e delle norme giuridiche positive; le configurazioni tradizionali di molti strumenti giuridici (…) manifestano la loro insufficienza rispetto alle problematiche ambientali e costringono i giuristi ad individuare nuovi strumenti di interpretazione del mondo che li circonda e nuove tecniche di predisposizione delle risposte ai problemi che la natura e l’equilibrio ecologico pongono alla comunità umana» (S. Grassi) (72). (70) A. CROSETTI, Le tutele differenziate, in A. CROSETTI, R. FERRARA, F. FRACCHIA, N. OLIVETTI RASON, Diritto dell’ambiente, Editori Laterza, Bari, 2008, p. 516. (71) La sentenza riguarda un giudizio di legittimità costituzionale in via principale rispetto agli artt. 117, primo comma, secondo comma, lettera s), terzo e quinto comma, della Costituzione, nonché all’art. 8 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige) delle Legge della Provincia autonoma di Bolzano 12 maggio 2010, n. 6 (Legge di tutela della natura e altre disposizioni) riconoscendo che si tratta di materia di competenza esclusiva statale, con un livello uniforme di tutela fissato dalla legge statale a protezione dell’ambiente e dell’ecosistema ai sensi della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche. In particolare, l’art. 4 della legge prov. Bolzano n. 6 del 2010, nel disciplinare con divieti a carattere generale la tutela di specie animali, indipendentemente dall’esercizio della caccia e dalla disciplina dei parchi naturali, invade la sfera di competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., che trova applicazione anche nei confronti delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome, in quanto tale materia non è compresa tra le previsioni statutarie riguardanti le competenze legislative, primarie o concorrenti, regionali o provinciali. (72) Tutela dell’ambiente, ad vocem, cit., p. 1115. 300 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Le disposizioni in materia di “parità di genere” negli organi di amministrazione e controllo delle società Francesco Spada* SOMMARIO: 1. La legge 12 luglio 2011 n. 120 e le modifiche al TUF - 2. La delibera CONSOB n. 18098/2012 - 3. Il decreto del Presidente della Repubblica 30 novembre 2012, n. 251. 1. La legge 12 luglio 2011 n. 120 e le modifiche al TUF. La legge 12 luglio 2011, n. 120 (1), ha apportato modifiche al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, concernenti la parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in mercati regolamentati. La legge si compone di tre articoli riguardanti, rispettivamente: l’equilibrio tra i generi negli organi delle società quotate; la decorrenza delle nuove disposizioni; le società a controllo pubblico. In particolare, l’articolo 1 ha introdotto il comma 1-ter dell’articolo 147- ter del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, prevedendo, in materia di elezione e composizione del consiglio di amministrazione, che: • lo statuto preveda che il riparto degli amministratori da eleggere sia effettuato in base ad un criterio che assicuri l'equilibrio tra i generi; • il genere meno rappresentato debba ottenere almeno un terzo degli amministratori eletti; • detto criterio di riparto si applichi per tre mandati consecutivi; • qualora la composizione del consiglio di amministrazione risultante dall'elezione non rispetti il criterio di riparto previsto, la Consob diffidi la società interessata affinché si adegui a tale criterio entro il termine massimo di quattro mesi dalla diffida. In caso di inottemperanza alla diffida, la Consob applica una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 100.000 a euro 1.000.000, secondo criteri e modalità stabiliti con proprio regolamento e fissa un nuovo termine di tre mesi ad adempiere. In caso di ulteriore inottemperanza rispetto a tale nuova diffida, i componenti eletti decadono dalla carica; (*) Dirigente di II fascia del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Ha svolto la pratica forense presso l’Avvocatura Generale dello Stato. Il presente contributo riflette le opinioni dell’Autore e non impegna in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza. (1) In base ai dati Eurostat 2012, in Italia l’occupazione delle donne tra i 25 ed i 54 anni è inferiore del 12% rispetto alla media dell’Unione europea: inoltre, i dati Istat e Censis 2011 dimostrano che solo il 7% delle società quotate aveva una presenza femminile nei CdA. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 301 • lo statuto provveda a disciplinare le modalità di formazione delle liste ed i casi di sostituzione in corso di mandato al fine di garantire il rispetto del criterio di riparto previsto; • la Consob statuisca in ordine alla violazione, all'applicazione ed al rispetto delle disposizioni in materia di quota di genere, anche con riferimento alla fase istruttoria e alle procedure da adottare, in base a proprio regolamento da adottare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore delle disposizioni recate dal presente comma; • le disposizioni fin qui descritte si applichino anche alle società organizzate secondo il sistema monistico. Inoltre, il medesimo articolo 1 ha previsto che, dopo il comma 1 dell'articolo 147-quater del testo unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, in materia di composizione del consiglio di gestione, è aggiunto il comma 1-bis, che prevede che qualora il consiglio di gestione sia costituito da un numero di componenti non inferiore a tre, ad esso si applicano le disposizioni dell'articolo 147-ter, comma 1-ter, ossia le disposizioni sopra descritte. Infine, l’articolo 1 ha apportato modificazioni all’articolo 148 del testo unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni, in materia di composizione degli organi di controllo, prevedendo che: • l'atto costitutivo della società stabilisce, inoltre, che il riparto dei membri di cui al comma 1 sia effettuato in modo che il genere meno rappresentato ottenga almeno un terzo dei membri effettivi del collegio sindacale; • tale criterio di riparto si applica per tre mandati consecutivi; • qualora la composizione del collegio sindacale risultante dall'elezione non rispetti il criterio di riparto previsto, la Consob diffida la società interessata affinché si adegui a tale criterio entro il termine massimo di quattro mesi dalla diffida. In caso di inottemperanza alla diffida, la Consob applica una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 20.000 a euro 200.000 e fissa un nuovo termine di tre mesi ad adempiere. In caso di ulteriore inottemperanza rispetto a tale nuova diffida, i componenti eletti decadono dalla carica; • la Consob statuisce in ordine alla violazione, all'applicazione ed al rispetto delle disposizioni in materia di quota di genere, anche con riferimento alla fase istruttoria e alle procedure da adottare, in base a proprio regolamento da adottare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore delle disposizioni recate dal presente comma. Il successivo articolo 2 della legge n. 120/2011 ha dettato disposizioni regolanti la decorrenza della nuova disciplina introdotta dall’articolo 1, prevedendo che quest’ultima si applica a decorrere dal primo rinnovo degli organi di amministrazione e degli organi di controllo delle società quotate in mercati regolamentati successivo ad un anno dalla data di entrata in vigore della medesima legge, riservando al genere meno rappresentato, per il primo mandato 302 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 in applicazione della legge, una quota pari almeno a un quinto degli amministratori e dei sindaci eletti. Infine, l’articolo 3 della legge n. 120/2011 ha esteso l’ambito di applicazione fin qui delineato, prevedendo che le disposizioni della medesima legge si applicano anche alle società, costituite in Italia, controllate da pubbliche amministrazioni ai sensi dell'articolo 2359, commi primo e secondo, del codice civile, non quotate in mercati regolamentati, e che, con regolamento da adottare entro due mesi dalla data di entrata in vigore della legge, sono stabiliti termini e modalità di attuazione del medesimo articolo 3, al fine di disciplinare in maniera uniforme per tutte le società interessate, in coerenza con quanto previsto dalla legge, la vigilanza sull'applicazione della stessa, le forme e i termini dei provvedimenti previsti e le modalità di sostituzione dei componenti decaduti. 2. La delibera CONSOB n. 18098/2012. In attuazione delle deleghe regolamentari conferite alla CONSOB dai citati articoli 147-ter, comma 1-ter, e 148, comma 1-bis, la CONSOB ha adottato la delibera n. 18098/2012, con cui ha inserito un nuovo Capo (il Capo I-bis, rubricato “Equilibrio tra generi nella composizione degli organi di amministrazione e controllo”) nel Titolo V-bis, Parte III del regolamento di attuazione del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, concernente la disciplina degli emittenti, approvato con delibera n. 11971 del 14 maggio 1999 e successive modifiche. In particolare, il nuovo Capo I-bis sopra citato ha introdotto un nuovo articolo 144-undecies nel regolamento di attuazione del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, prevedendo che: • le società con azioni quotate prevedono che la nomina degli organi di amministrazione e controllo sia effettuata in base al criterio che garantisce l'equilibrio tra generi previsto dagli articoli 147-ter, comma 1-ter, 148, comma 1-bis, del Testo unico, e che tale criterio sia applicato per tre mandati consecutivi; • gli statuti delle società quotate disciplinano: - le modalità di formazione delle liste nonché criteri suppletivi di individuazione dei singoli componenti degli organi che consentano il rispetto dell'equilibrio tra generi ad esito delle votazioni. Gli statuti non possono prevedere il rispetto del criterio di riparto tra generi per le liste che presentino un numero di candidati inferiore a tre; - le modalità di sostituzione dei componenti degli organi venuti a cessare in corso di mandato, tenendo conto del criterio di riparto tra generi; - le modalità affinché l'esercizio dei diritti di nomina, ove previsti, non contrasti con quanto previsto dagli articoli 147-ter, comma 1-ter, e 148, comma 1-bis, del Testo unico; LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 303 • qualora dall'applicazione del criterio di riparto tra generi non risulti un numero intero di componenti degli organi di amministrazione o controllo appartenenti al genere meno rappresentato, tale numero è arrotondato per eccesso all'unità superiore; • in caso di inottemperanza alla diffida prevista dagli articoli 147-ter, comma 1-ter, e 148, comma 1-bis, del Testo unico, la Consob fissa un nuovo termine di tre mesi ad adempiere e applica le sanzioni, previa contestazione degli addebiti, ai sensi dell'articolo 195 del Testo unico e tenuto conto dell'articolo 11 della legge 24 novembre 1981, n. 689 e successive modifiche. 3. Il decreto del Presidente della Repubblica 30 novembre 2012, n. 251. In attuazione di quanto disposto dall’articolo 3 della legge n. 120/2011 è stato emanato il decreto del Presidente della Repubblica 30 novembre 2012, n. 251, che detta disposizioni concernenti la parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo nelle società, costituite in Italia, controllate da pubbliche amministrazioni, ai sensi dell'articolo 2359, commi primo e secondo, del codice civile, non quotate in mercati regolamentati. Il decreto del Presidente della Repubblica 30 novembre 2012, n. 251, si compone di cinque articoli. L’articolo 1 individua l’ambito di applicazione del d.P.R., prevedendo che il medesimo detta i termini e le modalità di attuazione della disciplina concernente la parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo nelle società, costituite in Italia, controllate ai sensi dell'articolo 2359, primo e secondo comma, del codice civile, dalle pubbliche amministrazioni indicate all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ad esclusione delle società con azioni quotate. Il successivo articolo 2 detta disposizioni in materia di composizione degli organi sociali, prevedendo che: • le società di cui all'articolo 1 prevedono nei propri statuti che la nomina degli organi di amministrazione e di controllo, ove a composizione collegiale, sia effettuata secondo modalità tali da garantire che il genere meno rappresentato ottenga almeno un terzo dei componenti di ciascun organo; • qualora sia previsto per la nomina degli organi sociali il meccanismo del voto di lista, gli statuti disciplinano la formazione delle liste in applicazione del criterio di riparto tra generi, prevedendo modalità di elezione e di estrazione dei singoli componenti idonee a garantire il rispetto delle previsioni di legge. Gli statuti non possono prevedere il rispetto del criterio di riparto tra generi per le liste che presentino un numero di candidati inferiore a tre. Inoltre gli statuti disciplinano l'esercizio dei diritti di nomina, ove previsti, affinché non contrastino con quanto previsto dal presente regolamento; • qualora dall'applicazione di dette modalità non risulti un numero intero di componenti degli organi di amministrazione o controllo appartenenti al ge- 304 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 nere meno rappresentato, tale numero è arrotondato per eccesso all'unità superiore; • le società prevedono altresì le modalità di sostituzione dei componenti dell'organo di amministrazione venuti a cessare in corso di mandato, in modo da garantire il rispetto della quota di cui al comma 1; • la quota di cui al comma 1 si applica anche ai sindaci supplenti. Se nel corso del mandato vengono a mancare uno o più sindaci effettivi, subentrano i sindaci supplenti nell'ordine atto a garantire il rispetto della stessa quota. L’articolo 3 individua la decorrenza della nuova disciplina, stabilendo che: • le società assicurano il rispetto della composizione degli organi sociali indicata all'articolo 2, anche in caso di sostituzione, per tre mandati consecutivi a partire dal primo rinnovo successivo alla data di entrata in vigore del medesimo regolamento; • per il primo mandato la quota riservata al genere meno rappresentato è pari ad almeno un quinto del numero dei componenti dell'organo. L’articolo 4 detta disposizioni in materia di monitoraggio e vigilanza sull'applicazione della normativa (2) di cui al medesimo regolamento, prevedendo che: • il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro delegato per le pari opportunità vigila sul rispetto della normativa e presenta al Parlamento una relazione triennale sullo stato di applicazione della stessa; • a tale fine, le società di cui all'articolo 1 sono tenute a comunicare al Presidente del Consiglio dei Ministri o al Ministro delegato per le pari opportunità la composizione degli organi sociali entro quindici giorni dalla data di nomina degli stessi o dalla data di sostituzione in caso di modificazione della composizione in corso di mandato; (2) Il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri è la Struttura deputata ad espletare le funzioni di monitoraggio e di vigilanza sull'attuazione della normativa al fine di assicurare il raggiungimento di un’adeguata rappresentatività di genere nelle attività economiche ed una più incisiva presenza femminile nella governance delle imprese. Si riportano di seguito i principali compiti istruttori che il Dipartimento per le pari opportunità è chiamato a svolgere: • controllare la corretta applicazione delle disposizioni normative; • predisporre l’elenco delle società controllate da pubbliche amministrazioni nonché della composizione aggiornata degli organi societari; • raccogliere le segnalazioni sulla mancata attuazione della normativa; • esaminare le segnalazioni pervenute; • emanare i provvedimenti di diffida; • verificare l’ottemperanza alle diffide; • elaborare la relazione al Parlamento. Nell’esercizio delle elencate attività il Dipartimento per le pari opportunità sarà supportato da un apposito Gruppo di lavoro istituito con Decreto del Ministro delegato alle pari opportunità in data 12 febbraio 2013, del quale fanno parte la dott.ssa Magda Bianco, la Prof.ssa Marina Brogi e la Prof.ssa Paola Profeta. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 305 • è fatto obbligo all'organo di amministrazione e all'organo di controllo delle medesime società di comunicare al Presidente del Consiglio dei Ministri o al Ministro delegato per le pari opportunità la mancanza di equilibrio tra i generi, anche quando questa si verifichi in corso di mandato; • tale segnalazione può essere altresì fatta pervenire al Presidente del Consiglio dei Ministri o al Ministro delegato per le pari opportunità da chiunque vi abbia interesse; • nei casi in cui il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro delegato per le pari opportunità accerti il mancato rispetto della quota stabilita all'articolo 2, comma 1, nella composizione degli organi sociali, diffida la società a ripristinare l'equilibrio tra i generi entro sessanta giorni. In caso di inottemperanza alla diffida, il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro delegato per le pari opportunità fissa un nuovo termine di sessanta giorni ad adempiere, con l'avvertimento che, decorso inutilmente detto termine, ove la società non provveda, i componenti dell'organo sociale interessato decadono e si provvede alla ricostituzione dell'organo nei modi e nei termini previsti dalla legge e dallo statuto. Infine, l’articolo 5 detta l’usuale clausola di invarianza, stabilendo che dall'attuazione del regolamento non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica e che le amministrazioni interessate provvedono agli adempimenti previsti dal medesimo con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente. CONTRIBUTI DI DOTTRINA Tutela e fruizione del patrimonio culturale Stefano Grassi* Ringrazio di essere stato chiamato a contribuire, in qualità di giurista, nel commentare le parole che danno il titolo al convegno. Le parole - e ciò è particolarmente vero per le parole del diritto - sono segni che connotano le cose, le identificano; ma al tempo stesso danno forma alle cose, le orientano. Ed infatti, i mutamenti giuridici sono mutamenti linguistici (Ainis), e i giuristi hanno il compito di discutere sulle parole del diritto (come ricordava Noberto Bobbio, "quando i giuristi discutono fra di loro, fanno delle logomachie": parlano cioè delle parole, discutono e si confrontano su di esse) per giungere a definizioni rigorose, ma anche per individuare nelle proposizioni normative il significato e la direzione verso la quale si muove il legislatore. Il compito del giurista è particolarmente difficile, se non quasi impossibile, con riferimento alle parole e al vocabolario che il legislatore italiano ha utilizzato nell'ambito dei beni culturali e dei beni paesistici: "tutela" e "fruizione" del "patrimonio culturale" sono parole pesantissime, con significati pregnanti, e sono state utilizzate dal legislatore in modo via via differente nel succedersi delle normative. Sull'intensa evoluzione dei termini e degli istituti utilizzati dal legislatore, in questa materia, è sufficiente ricordare il rilevante sviluppo nella definizione degli oggetti da tutelare (dalle "cose" e i "beni" di interesse culturale, al concetto più generale di "bene culturale", fino alla più recente espansione di questo (*) Giurista. Il presente scritto costituisce l’intervento dell’Autore al Convegno di studi “Tutela e fruizione del patrimonio culturale”, tenutosi a Firenze - Biblioteca degli Uffizi - il 15 e 16 aprile 2011. Per una completa consultazione degli atti del convegno si rimanda alla pubblicazione a cura di Cosimo Ceccuti, Edizioni Polistampa, 2011. 308 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 stesso concetto nel più ampio di "patrimonio culturale") e la forte incertezza sulla definizione dei termini che identificano le funzioni pubbliche che debbono essere attivate (come "tutela", "valorizzazione", "fruizione"). È soprattutto difficile non tener conto delle continue e articolate fasi di sviluppo nella riorganizzazione degli apparati burocratici cui sono affidati i compiti in questo delicato settore (dal 1999, si sono succedute ben quattro rilevanti riforme e ridefinizioni dell'organizzazione del recente Ministero dei beni culturali, e tuttora si discute di nuove e rilevanti esigenze di riordino). In questa sede, mi posso limitare ad un commento delle parole del convegno, con i concetti che è possibile ricavare dall'interpretazione del testo dello stesso art. 9 della nostra Costituzione (dalla quale, da costituzionalista e da cittadino, non posso prescindere). Si tratta di un punto di partenza condiviso dall'attuale Ministro dei beni culturali, che, nella prima comunicazione resa al Parlamento nella sua nuova veste (v. il resoconto dell'audizione presso il Senato del 13 aprile 2011), ha indicato questa disposizione costituzionale come una norma che pone dei valori comuni e condivisi e che quindi obbliga ad un approccio bipartisan per la soluzione dei problemi (con il conseguente invito ad evitare le diatribe e preferire la dialettica, perché, anche se siamo divisi su tutto, conviene evitare di esserlo anche su questo punto essenziale per la vita del paese). Ed è significativo che, nel citare il new deal roosveltiano, il Ministro abbia fatto riferimento alla matrice comune, di ispirazione occidentale, della nostra Costituzione, sottolineando lo stretto collegamento della protezione e della valorizzazione dei nostri beni culturali con la piü ampia prospettiva della tutela internazionale e comunitaria nel cui ambito il nostro ordinamento si deve muovere. In tale contesto la cultura ed i beni culturali costituiscono presupposti indefettibili alle libertà democratiche (come si legge nella dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 10 dicembre 1948 "Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ha i suoi benefici. Ogni individuo ha diritto alla protezione degli interessi morali e materiali derivanti da ogni produzione scientifica, letteraria e artistica di cui egli sia autore"). Si tratta di una prospettiva dinamica, che non può non orientare l'interprete anche con riferimento ai complessi, e ricchi di significato, termini oggetto di questo convegno. In questa direzione, il concetto di "patrimonio culturale" non può essere letto solo secondo ii suo significato etimologico, che risale al giustinianeo patrimonium (e cioè "un'entittà composita, formata dall'insieme delle situazioni soggettive suscettibili di valutazione economica - intesa come estrema abilità pecuniaria - dalla legge unificate in considerazione della loro appartenenza a un soggetto o della loro destinazione unitaria "- v. V. Durante, voce Patrimonio, dir civ. in Encic. Giur. Treccani), che mette in evidenza il carattere patrimoniale e il carattere unitario del concetto. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 309 Quando l'art. 9 della nostra Costituzione fa riferimento al "patrimonio storico ed artistico della nazione", indica un concetto riferibile ad una pluralità di beni che appartiene alla comunità nazionale, ma che ha le caratteristiche di un elemento di identità e di appartenenza unitario che amplia notevolmente e rende dinamico il concetto. Siamo nell'ambito della definizione di patrimonio come "complesso di risorse (naturali, ambientali o industriali, artistiche, ecc.) che sono proprie (in quanto considerate bene comune e permanentemente a disposizione) di una determinata comunità insediata in un territorio, la quale attraverso l'esperienza, la fruizione, l'incremento di esse riconosce parte rilevante della propria identità storica, sociale, culturale e trae vantaggi e utilità notevoli" (così la definizione che è possibile reperire nel Dizionario della lingua italiana del Battaglia). Mentre il riferimento alla Nazione come titolare di questi beni vale a collegare la tutela del patrimonio indicato dall'art. 9 con la cultura, la storia e le tradizioni del popolo italiano, configurando gli interessi sostanziali riconosciuti dalla norma come elementi fondanti, fattori unificanti, della comunità nazionale (come il concetto di difesa della Patria di cui all'art. 52 e lo stesso concetto di Repubblica "una e indivisibile" di cui all'art. 5). Viene così definito un valore costituzionale che va al di là del suo contenuto economico e la cui immaterialità permette di identificarlo in un obiettivo comune, che deve essere assunto come oggetto di responsabilità e perseguito come fine condiviso sia dai poteri pubblici che da tutti i cittadini. L'inserimento dell'art. 9 tra i principi fondamentali, che aprono il testo della nostra Costituzione, significa aver riconosciuto alla cultura, alla ricerca scientifica e tecnica, al paesaggio ed al patrimonio storico ed artistico della nazione il contenuto di valori fondanti il patto costituzionale. Il diritto alla cultura come altri diritti essenziali (il diritto alla salute, il diritto alla vita e all'alimentazione, il diritto all'informazione) costituisce quindi, per espressa disposizione costituzionale, un "interesse a soddisfazione necessaria" (un interesse di cui tutti i cittadini si devono alimentare) che non può non trovare adeguati strumenti di tutela giuridica e di organizzazione burocratica, che la Repubblica, in tutte le sue articolazioni, deve garantire. Nell'art. 9, ci sono tutte le premesse per quello sviluppo legislativo e giurisprudenziale che ha caratterizzato la stessa definizione di bene culturale ed il successivo passaggio ai concetti più ampi di ambiente e di patrimonio culturale. DaIla concezione arretrata, che individuava le "cose" caratterizzate da un valore storico ed artistico come oggetto di tutela, si è passati a sottolineare che i "beni" (cioe le cose oggetto di diritti) storici ed artistici non soltanto sono da considerare come interessati dai diritti e dagli obblighi del proprietario, ma sono in grado di assolvere ad una determinata funzione, destinata alla fruizione pubblica, che li qualifica come beni culturali. Il bene è culturale, non se rappresenta un determinato oggetto o se è costituito da una determinata cosa, con 310 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 i suoi caratteri materiali, ma se assolve ad una determinata funzione, se ad esso corrisponde un valore immateriale, che insiste sulla cosa e al tempo stesso ne costituisce il carattere immanente (con la conseguente necessità di limitare la circolazione del bene, proprio per mantenere il contesto culturale in cui è in grado di svolgere tale funzione). Alla luce dell'art. 9, è quindi possibile giungere alla definizione di bene culturale, al di là del collegamento con determinate testimonianze materiali di civiltà ed individuare - come ormai avviene da quache decennio nelle dichiarazioni internazionali cui l'Italia ha aderito - i beni culturall anche laddove si tratti di determinate attività di carattere scientifico, di tradizione, di sviluppo di civiltà - come 1'artigianato, l'arte contemporanea, la musica, il teatro, il cinema, le tradizioni orali. Indubbiamente, sia nell'art. 9 della Costituzione, sia nell'art. 2 del codice Urbani, il "patrimonio culturale" viene definito facendo riferimento ai concetti tenuti distinti di "beni paesistici" e di "beni culturali". È presente, infatti, nel secondo comma dell'art. 9, così come nella definizione del recente codice Urbani, la dicotomia della legislazione anteriore alla Costituzione (a partire dalla legge Rosati del 1909 sui beni culturali, cui si aggiungeva, e in qualche modo si contrapponeva, la legge Croce del 1922 sui beni paesistici; dicotomia che le leggi Bottai del 1939 hanno lasciato inalterata). Ma lo stesso art. 9 Cost., cui si ispira espressamente, come prima normativa di attuazione, l'intero codice Urbani (vedi art. 1), contiene le premesse per ricondurre paesaggio e patrimonio storico artistico ad un concetto unitario dalle potenzialità molto più ampie. In primo luogo, occorre considerare congiuntiva non disgiuntiva la "e" di cui al secondo comma dell'art. 9, che collega appunto "paesaggio" "e" "patrimonio storico ed artistico". Ma ancor più significativo è lo sviluppo che il concetto di paesaggio, come forma del paese, come territorio, natura e cultura che caratterizzano il contesto nel quale si svolge la vita collettiva (secondo la nota impostazione di Predieri), ha avuto nella giurisprudenza della Corte costituzionale (che, proprio a partire da questi concetti ricavabili dall'art. 9, è giunta a riconoscere il valore costituzionale dell’"ambiente", quale espressione di sintesi degli obiettivi posti dalla norma costituzionale). La prospettiva si amplia ulteriormente, se si richiama la più omnicomprensiva nozione di paesaggio contenuta nella Convenzione europea del 20 ottobre 2000 - "paesaggio designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e umani e dalle loro interrelazioni" - per rendersi conto che non è possibile avere una concezione statica di paesaggio e di patrimonio storico ed artistico. Occorre tener conto del necessario sviluppo dinamico di tali concetti (che si definiscono anche attraverso la percezione collettiva e la loro definizione mediante forme di partecipazione e di dibattito trasparente) e di tenerli CONTRIBUTI DI DOTTRINA 311 insieme in una visione complessiva ed unitaria. In questo senso, l'art. 9 Cost. consente di adeguare l'interpretazione dei due concetti di paesaggio e di patrimonio storico e artistico alle esigenze emerse nell'ambito internazionale e comunitario. Il "patrimonio storico e artistico" diviene "patrimonio culturale", anche perché è possibile collegare il principio di "tutela", affermato nel secondo comma dell'art. 9, con il principio della "promozione" e dello "sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica", indicato come obiettivo della Repubblica, nel primo comma dello stesso articolo. Si fa riferimento alla cultura in senso ampio, come esito e sviluppo continuo della ricerca scientifica e delle opere dell'ingegno. L'interprete deve stabilire uno stretto legame, una circolarità, tra la previsione dinamica della promozione e dello sviluppo della cultura e i risultati di tali attività, quali il paesaggio e il patrimonio storico ed artistico (secondo l'impostazione interpretativa proposta da Merusi). Ed il compito di tutela non può essere configurato in termini statici di mera conservazione, ma si deve sviluppare come un processo dinamico in grado di far acquisire sempre maggiore consapevolezza e condivisione dei valori culturali da parte della collettivita (in tutte le articolazioni plurali che caratterizzano la Repubblica). In questa ottica il patrimonio culturale assume un valore pregnante e capace di notevoli espansioni: cosi come permette l’introduzione nel nostro sistema giuridico dei concetti emersi nell'ambito internazionale, quali il concetto di "patrimonio dell'umanità", la individuazione dei "siti naturali" e dei "siti misti" (quali oggetto di tutela giuridica specifica, nell'ambito di situazioni caratterizzate dalla complessità dei valori e degli interessi da tutelare - Convenzione Unesco del 1972), la definizione del "patrimonio culturale immateriale" - ivi compresa la stessa individuazione di bene a rilevanza culturale come i locali storici e come le città d'arte (v. in particolare le definizioni dell'art. 2 della Dichiarazione del Consiglio d'Europa, di Faro del 27 ottobre 2005: "a cultural heritage is a group of resourses inherited from the past which people identify, independent of ownership, as a reflection and expression of their constantly evolving values, beliefs, knowledge and tradition. It includes all aspects of the environment resulting from the interaction between people and places through time" - e dell'art. 2 della Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale di Parigi de1 17 ottobre 2000 - "per patrimonio culturale immateriale si intendono le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know how - come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi - che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, e costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà 312 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 loro un senso di identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana"). Il concetto di patrimonio culturale è quindi un concetto molteplice e articolato, non definibile a priori, ma frutto di conoscenza e di valutazione dai diversi punti di vista e definito dai diversi soggetti titolari degli interessi connessi. Infatti la cultura si coniuga al plurale e i beni ed il patrimonio culturale sono oggetto di un continuo dibatttito e di una continua dialettica, l'unica in grado di definirli. Si tratta dell'impostazione presente anche nei Trattati sull'Unione Europea. L'art. 3 del Trattato sull'Unione Europea prevede che l'Unione "promuove la coesione economica, sociale territoriale e la solidarietà tra gli Stati membri; rispetta la ricchezza della sua diversità culturale linguistica e vigila sulla salvaguardia e sullo sviluppo del patrimonio europeo". L'articolo 167 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea prevede che l'Unione "contribuisce al pieno sviluppo della cultura degli Stati membri nel rispetto delle loro diversità nazionali e regionali", evidenziando nel contempo "il retaggio culturale comune"; l'Unione incoraggia la cooperazione tra Stati membri e se necessario appoggia l'integrazione nei settori del miglioramento della conoscenza, della diffusione della cultura e della storia dei popoli europei, della conservazione e salvaguardia del patrimonio culturale di importanza europea, degli scambi culturali non commerciali, della creazione artistica e letteraria, compreso il settore audiovisivo. Ancora, l'art. 22 della Dichiarazione di Nizza sui diritti fondamentali, oggi allegata e parte integrante del Trattato sull'Unione Europea, stabilisce che l'Unione "rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica". Una nozione così ampia e articolata di "patrimonio culturale" permette di dare una base giuridica, di natura costituzionale, all'insieme delle norme dirette alla protezione, alla disciplina della circolazione, alla tutela e alla fruizione dei beni culturali, intesi nella loro più ampia accezione. Il rischio è quello di avere un concetto di bene culturale e di patrimonio culturale eccessivamente ampio e in grado di giustificare qualunque tipo di organizzazione, valutazione e gestione dei beni individuati come tali. Ma il carattere dinamico che la nozione di bene culturale e di patrimonio culturale debbono assumere, alla luce dell'interpretazione costituzionale, permette di sottolineare la necessità di prevedere una articolazione delle funzioni e delle competenze degli organi preposti alla tutela dei beni culturali che parta non tanto dalla definizione dei beni e del patrimonio culturale, quanto dalla individuazione dei settori fortemente diversificati in cui si espande il valore del patrimonio culturale: si tratta di una serie di cerchi concentrici, ciascuno dei quali ha la necessità di una diversa individuazione delle funzioni, delle competenze e dei metodi (i beni culturali in senso stretto, per i quali sono necessarie competenze storiche e scientifiche; i beni paesistici e ambientali, per CONTRIBUTI DI DOTTRINA 313 i quali occorrono competenze tecniche più articolate, accompagnate da strumenti di verifica della percezione collettiva; i beni immateriali, che esigono forme diversificate di promozione e di tutela; i siti naturali e culturali da gestire in forme adeguate a conservarne i valori e al tempo stesso a svilupparne le capacità di futuro ecc.). In realtà per concetti complessi e unitari come quelli di ambiente o di patrimonio culturale occorre tener conto della necessità di individuare non tanto una definizione a priori degli oggetti da tutelare quanto una serie di principi e di metodi con i quali giungere a garantire il perseguimento del valore costituzionale condiviso. Occorre individuare metodi di dibattito e dialettica adeguati, con la capacità, di offrire il massimo della informazione e della trasparenza in relazione alla gestione del bene e il massimo di partecipazione nella deftnizione delle modalidà con le quali in concreto attuare le forme di tutela. Dovranno quindi essere individuate forme differenziate e metodi diversificati in relazione ai diversi obiettivi. Se questa è l'impostazione suggerita dai principi dell'art. 9 della Costituzione, e della sua lettura nel contesto internazionale e comunitario, diventa relativamente più semplice cercare di individuare la definizione dei termini "tutela" e "fruizione", sui quali il dibattito tra gli addetti ai lavori e tra i giuristi è ancora molto aperto. Già, Massimo Severo Giannini nel definire il bene culturale come bene pubblico sottolineava che il bene culturale è pubblico, "non in quanto bene di appartenenza ma in quanto bene di fruizione". I beni culturali hanno cioè quel valore funzionale allo sviluppo della cultura, che li rende indispensabili e che debbono essere messi a disposizione della collettività per arricchirne la cultura e consentirne la crescita e lo sviluppo intellettuale e scientifico. Il difetto della ricerca di una definizione di "tutela" e di "fruizione", che abbia implicazioni puntuali nella costruzione degli apparati burocratici che debbono assumere la responsabilità di tali missioni e funzioni, è costituito dalla circostanza che il legislatore in tutte le sue recenti ricostruzioni ha cercato di individuare, nella distinzione tra le funzioni di tutela e quelle di valorizzazione, esclusivamente il criterio per separare le competenze statali e regionali con riferimento ai beni culturali. Si tratta di una prospettiva piena di contraddizioni, che può essere riassunta nell'interpretazione che ne ha dato - subito dopo la modifica del titolo V della Costituzione, ad opera della legge di revisione costituzionale n. 3 del 2001 - la Corte costituzionale. La Corte ha individuato nella "tutela" la funzione "diretta principalmente ad impedire che il bene possa degradarsi nella sua struttura fisica e quindi nel suo contenuto culturale; ed è significativo che la prima attività in cui si sostanzia la tutela è quella di riconoscere il bene culturale come tale". Mentre, sempre secondo la Corte, la "valorizzazione" è 314 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 la funzione "diretta soprattutto alla fruizione del bene culturale, sicché anche il miglioramento dello stato di conservazione attiene a quest'ultima, nei luoghi in cui avviene la fruizione e nei modi di questa" (così la sentenza n. 9 del 2004, che fa riferimento alla netta differenziazione della competenza in materia di "tutela dei beni culturali" - affidata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato dall'articolo 117, secondo comma, lettera s, Cost. - rispetto alla competenza in materia di "valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali" - affidata alla competenza concorrente del legislatore regionale, nell'ambito dei principi fondamentali riservati alla legislazione dello Stato, dallo stesso art. 117, terzo comma, Cost.). In realtà il problema della differenziazione tra la tutela e la valorizzazione può essere ricercato nella distinzione tra il momento statico, costituito dalla tutela materiale del bene, e il momento dinamico, costituito dalla considerazione del bene culturale come risorsa o servizio da rendere alla collettività. Ma questa distinzione si rivela insufficiente di fronte al carattere onnicomprensivo e dinamico del concetto di patrimonio culturale e di bene culturale che deriva dall'interpretazione costituzionale. Occorre piuttosto tener conto della obiettiva difficoltà di distinguere in modo chiaro il momento della tutela dal momento della valorizzazione e giungere alla conclusione che tra le due funzioni esiste uno stretto coordinamento e che l'art. 9 Cost. suggerisce l'opportunità di trovare altrove il criterio della separazione o distinzione delle competenze statali e regionali. È a mio avviso corretto l'inserimento nell'ambito del concetto di "tutela" dell'altrettanto difficile e problematico concetto di "fruizione", come viene suggerito dall'art. 3 del Codice Urbani, nel quale si precisa che la tutela del patrimonio culturale consiste "nell'esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette, sulla base di un'adeguata attività conoscitiva, ad individuare i beni costituenti il patrimonio culturale ed a garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione", con il conseguente "esercizio delle funzioni anche attraverso provvedimenti volti a conformare e regolare i diritti ed i comportamenti inerenti al patrimonio culturale". Nell’art. 6 dello stesso Codice, la valorizzazione viene definita come la funzione che consiste "nell'esercizio delle funzioni e nella disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio stesso. Essa comprende anche la promozione ed il sostegno degli interventi di conservazione del patrimonio culturale e la valorizzazione attuata in forme compatibili con la tutela e tali da non pregiudicarne le esigenze" con la precisazione che "la Repubblica favorisce e sostiene la partecipazione di soggetti privati, singoli o associati, alla valorizzazione del patrimonio culturale". In realtà, tutela e valorizzazione sono entrambe funzionali alla corretta fruizione dei beni culturali e tale fruizione non può che essere il risultato della compartecipazione di tutti i soggetti responsabili del patrimonio culturale. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 315 Anche su questo punto il codice Urbani si muove secondo una logica che è possibile condividere: in un apposito titolo, che disciplina la fruizione dei beni culturali, individuando gli istituti e i limiti della cultura - v. art. 101 - e la relativa fruizione, che deve essere assicurata da tutti gli enti pubblici, da tutti i livelli di governo (Stato, regioni, altri enti pubblici territoriali ed ogni altro ente ed istituto può intervenire, con la relativa disciplina dell'accesso e delle modalità di fruizione ivi comprese la disciplina dell'uso dei beni culturali). A mio avviso, il tema della fruizione diventa il tema centrale per una ampia tutela e una effettiva valorizzazione dei beni culturali Infatti, attraverso l'identificazione degli istituti giuridici per la fruizione dei beni culturali si può articolare la disciplina giuridica in funzione dei diversi e molteplici beni e valori che sono inclusi nell’ampio concetto di patrimonio culturaIe. Fruire significa "avere a propria disposizione beni materiali o spirituali (come risorse economiche, diritti e privilegi, facoltà o virtù non comuni, ecc.) capaci di appagare pienamente e sicuramente le aspirazioni dei sensi e dello spirito; usarne, avvalersene, giovarsene, prenderne diletto" (v. Dizionario della lingua italiana di Battaglia). Si tratta di concetto diverso da quello del valorizzare, che è termine connesso con il valore economico dei beni culturali. La valorizzazione è lo strumento per far rendere il capitale costituito dal patrimonio culturale; ma questo concetto è insufficiente rispetto alla logica ed ai principi affermati dall'art. 9 Cost. In questo senso la norma costituzionale costituisce un utile elemento per orientare il legislatore, in quell'ottica circolare che lega il secondo comma - che indica la tutela del patrimonio secondo una visione che potrebbe assumere le caratteristiche proprie di un valore economico da salvaguardare - al primo comma della stessa norma costituzionale - che esige uno sviluppo dinamico dei valori culturali come strumento di continua ricerca e l'individuazione dei presupposti per un miglioramento del livello culturale dei consociati e per ottenere risultati non solo economici, ma che costituiscono la base stessa del vivere collettivo e il riconoscimento in un contesto unitario della identità nazionale. Il concetto di fruizione diviene quindi essenziale per dare vita a questi valori costituzionali, e l'organizzazione della fruizione si collega e costituisce una delle connotazioni più sintomatiche della Repubblica, come Stato democratico costituzionale. Il corollario di questi principi sul piano organizzativo è proprio rappresentato dall'uso, nell'art. 9, del termine Repubblica, per individuare il soggetto responsabile della promozione dello sviluppo della cultura e della tutela del paesaggio e del patrimonio storico ed artistico. I costituenti hanno così fatto riferimento a tutti i livelli di governo in cui la Repubblica è articolata. Si trattò di una scelta consapevole: sarebbe stata una contraddizione utilizzare il termine Stato con riferimento a funzioni e a compiti che non potevano non essere assunti anche dalle regioni e dagli enti 316 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 territoriali autonomi, cioè di quegli enti territoriali che avrebbero costituito la struttura del nostro ordinamento (caratterizzato dal pluralismo istituzionale proprio di uno Stato regionale, ispirato ai principi dell'autonomia delle comunità locali e del decentramento delle funzioni amministrative statali - come puntualizzato dai principi dell'art. 5 Cost.). Con la riforma del titolo V della Costituzione, intervenuta con la legge di revisione n. 3 del 2001, questa impostazione si è ulteriormente sviluppata ed accentuata, con l'individuazione dei livelli di governo in cui si articola la Repubblica a partire dal basso, come precisa il nuovo art. 114 Cost.: comuni, province, regioni e Stato (citati in quest'ordine dalla nuova norma costituzionale) "costituiscono" la Repubblica e danno vita ad un sistema articolato di poteri pubblici cui sono affidate le responsabilità connesse al perseguimento dei valori costituzionali. La necessità del coinvolgimento di tutti livelli di governo è confermata dalla circostanza che nello stesso articolo 117 si è potuto riscontrare non solo quella incerta attribuzione delle competenze allo Stato e alle regioni in tema di beni culturali e paesistici di cui si è subito dovuta occupare la Corte costituzionale (attribuzione della "tutela" alla legislazione esclusiva dello Stato e della "valorizzazione" alla competenza concorrente della legislazione regionale) ma anche la necessità di uno stretto coordinamento tra valorizzazione e tutela nei diversi livelli di governo. Come confermano sia l’ultimo comma dell'articolo 116 (nel quale si prevede che ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possano essere previste per singole regioni anche in tema di tutela dei beni culturali) sia nell'art. 118, terzo e quarto comma, dove si prevede che la legge statale disciplini forme di intese e coordinamento tra Stato e regioni proprio nella materia della tutela dei beni culturali. Come per l'ambiente e per il paesaggio, diventa centrale il principio di sussidiarietà: concetto nuovo e fondamentale, che non a caso nasce a livello europeo in materia di ambiente, e con il quale si deve confrontare ogni ipotesi di riordino degli apparati amministrativi del settore. Attraverso la sussidiarietà si potranno dare soluzioni alle esigenze di raccordo e di coordinaniento fra il centro, la periferia e i privati. Non entro nel merito delle soluzioni; ma sicuramente questo è un capitolo importantissimo per l'organizzazione delle funzioni, sul quale c'e molto da lavorare. Se ci si rende conto dell'impossibilità di scindere la tutela dell'ambiente e dei beni culturali attribuita al centro, dalla valorizzazione, che rientra invece nei compiti delle regioni, e dalla stessa fruizione, che può coinvolgere l'iniziativa dei privati, la direzione in cui muoversi è quella dell'individuazione delle forme di coordinamento e degli istituti che lo rendano possibile ed efficiente. Questa impostazione dovrebbe guidare anche l'aggiornamento del Codice Urbani (anche se, a mio avviso, il Codice è il risultato positivo da tenere come punto femo del nostro sistema: infatti, quando si arriva alla formulazione di un CONTRIBUTI DI DOTTRINA 317 Codice, se esso ha la dignità di Codice, è bene tutelarlo e rinunciare ad opere di completa revisione, puntando solo sulla manutenzione o sul 'restauro'). Nell'ambito del Codice, probabilmente occorre stabilire quelle che sono le responsabilità: ed chiaro che riferendosi alla responsabilità della tutela non si può non fare tesoro dell'esperienza delle Soprintendenze. Bisogna cioè essere capaci di imporre soluzioni in modo distante, senza lasciarsi coinvolgere, dagli interessi locali. Ma è chiaro che le Soprintendenze non possono fare tutto. Perché se pretendono di poter svolgere un ruolo attivo su tutti i settori, rischiano di svolgere ruoli al di fuori della loro portata (per esempio, per il paesaggio, occorrono competenze tecniche diverse da quelle che hanno gli storici dell'arte). Indubbiamente ci sono funzioni che debbono essere svolte al livello centrale, perché attengono a beni e complessi di beni che si caratterizzano per il loro valore identitario dell'unità nazionale. In questo senso, bisogna essere intransigenti sul fatto che lo Stato faccia bene il suo mestiere di tutela, che abbia la capacità di guidare le attività da svolgere in sede locale attraverso l'elaborazione di linee guida, che predisponga piani di gestione secondo le tecniche dei siti d'interesse Unesco e comunitario: che mostri cioè di avere quella capacità che gli è propria, nel dare il coordinamento indispensabile sul piano delle elaborazioni tecniche e scientifiche e delle idee guida. Lo svolgimento di un ruolo forte di coordinamento e di direzione da parte degli organi centrali, permetterà, attraverso i meccanismi propri della sussidiarietà di ottenere l'applicazione concreta e l'amministrazione puntuale delle linee guida da parte degli enti regionali e locali. In una fase come quella attuale, in cui le risorse a disposizione sono molto scarse, il lavoro da fare pare quello di attivare la ricerca di nuovi strumenti e nuove tecniche di coordinamento e quello di precisare una nuova disciplina degli istituti più idonei a consentire la fruizione dei beni culturali (come i musei, i siti Unesco e i siti naturali, le città d'arte, ma anche le fondazioni musicali, i teatri, ecc.) Occorre anche, per questa via, individuare nuove forme di partecipazione e di intervento dell'iniziativa privata. Ciascuno deve poter svolgere adeguatamente il suo ruolo. Il principio di fondo, a mio avviso, è quello giustamente richiamato nel corso di questo convegno: quello della insostituibilità delle valutazioni scientifiche effettuate dagli apparati centrali, ma anche quello delle differenziazioni che debbono essere fatte nelle diverse realtà territoriali e culturali. Sussidiarietà e differenziazione sono concetti del diritto comunitario di importanza fondamentale: a questi principi si dovrà ispirare ogni iniziativa di riordino e di nuova definizione dell'esercizio delle funzioni degli apparati amministrativi centrali e locali, nella prospettiva disegnata dall'art. 9 della nostra Costituzione. 318 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Per un bilanciamento di valori tra persona e impresa Stefano Bini* SOMMARIO: 1. Il rapporto tra diritto e tradizione: le regole come proiezione di valori condivisi - 2. Dalla Costituzione all’autonomia privata collettiva: la centralità di un equilibrato bilanciamento di valori - 2.1. Un caso di studio: lo sciopero nei servizi pubblici essenziali - 3. Il ruolo della Corte costituzionale nell’evoluzione dell’ideologia normativa: il parametro della razionalità applicato al bilanciamento di interessi - 3.1. Un caso di studio: il contratto a termine illegittimo e l’indennità onnicomprensiva: l. 183/2010 (art. 32, commi 5, 6, 7) e Corte cost. n. 303/2011. 1. Il rapporto tra diritto e tradizione: le regole come proiezione di valori condivisi. Per cogliere pienamente la centralità dei valori e del loro bilanciamento a fondamento del discorso giuridico, ed in special modo nell’ambito del Diritto del lavoro, appare rilevante soffermarsi in via preliminare sul rapporto intercorrente tra “diritto” e “tradizione” (1). Il “diritto” in termini teorico-generali può essere definito come l’insieme di regole condivise, interiorizzate e radicate nella coscienza collettiva di una determinata comunità, mentre la “tradizione” consiste nella sintesi ed espressione di valori etici e principi morali socialmente condivisi, identificativi di una collettività, al punto tale da essere capace di esprimere una comune ideologia normativa. Da un’analisi congiunta delle due definizioni, si rileva in tutta evidenza che allorquando il diritto, nel suo continuo processo di sviluppo storico-evolutivo, si allontana dalla tradizione, determinando così una frattura, uno scollamento tra le due menzionate categorie, il risultato si determina conseguentemente, il passaggio da un’intima condivisione valoriale ad una arbitraria imposizione di regole, socialmente non condivise e quindi percepite come imposte. Il rischio di un possibile scollamento tra diritto e tradizione si avverte come potenzialmente concreto nel rapporto tra la tradizione valoriale nazionale ed un diritto espressivo di una identità, quale ad esempio quella europea, percepibile come diversa, estranea, non condivisa (in quanto fondata su valori non del tutto coincidenti con quelli nazionali) e, dunque, come imposta. Interessante e quanto mai attuale profilo di concreta criticità, relativamente alla coerenza tra regole e tradizione, presenta il rapporto tra ordinamento nazionale ed ordinamento comunitario. Esso, improntato ad una (*) Ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato, dottorando di ricerca in “Diritto ed impresa” presso la LUISS “Guido Carli” di Roma. (1) Si veda al riguardo il saggio del “Maestro”: R. PESSI, Il dialogo tra giurisprudenza costituzionale e sistema ordinamentale, in Arg. Dir. Lav., 2006, pp. 1542-1566, al cui studio questo scritto è profondamente ispirato. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 319 relazione di autonomia e di netto dualismo istituzionale, sebbene “contaminato” da un insieme di norme tese a garantire un efficace coordinamento tra normativa statale e comunitaria, viene dunque in rilievo quale legame tra l’insieme di valori e principi socialmente condivisi dalla comunità nazionale ed un diritto rappresentativo di valori e principi altri (2). Soccorre peraltro, di fronte al profilarsi di un siffatto rischio, la previsione costituzionale di un organo di chiusura del sistema, la Corte costituzionale che, come si vedrà più dettagliatamente (v. infra § 3), è investita della difficile funzione di integrazione del diritto nazionale con quello di derivazione comunitaria (anche alla luce di un necessario e proficuo dialogo con la Corte europea) (3), individuando coerenze e superando antinomie, così da ricondurre a sistema i differenti prodotti normativi, nel superamento del conseguente caos normativo (4). Risulta infatti imprescindibile concepire il diritto, ed il diritto del lavoro in modo particolare, come complesso normativo soggetto ad un continuo e costante fluire storico-evolutivo, che risente in maniera significativa anzitutto dell’accentuata e duratura situazione di instabilità socio-economica; quest’ultima, infatti, influisce significativamente sul succedersi delle scansioni temporali del diritto, producendo così indirettamente anche una progressiva stratificazione di quei valori e quei principi morali che formano la tradizione di una comunità (5). Il consequenziale caos normativo (6) ed il marcato clima di incertezza - sulla cui origine un ruolo centrale è assunto anche dalla stessa giurisprudenza, allorquando questa assecondi spinte autoreferenziali e talvolta non sempre coerenti (7) - accompagnano, come dei «traumi ordinamentali» (8), le fasi di transizione tra ideologie normative. (2) Particolarmente florida è, sul punto, la produzione della dottrina giuslavoristica; si vedano ex multis: G. SANTORO PASSARELLI, Il difficile adeguamento del diritto interno al diritto comunitario, in Riv. It. Dir. Lav., 1998, I, pp. 317 e ss; M. D’ANTONA, Armonizzazione del diritto del lavoro e federalismo nell’Unione Europea, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1994, pp. 695 e ss.; R. FOGLIA, Il lavoro, in M. BESSONE (diretto da), Il diritto privato nell’Unione Europea, Torino, 1999, pp. 18 e ss. (3) Interessante al riguardo è lo studio di R. FOGLIA, Il ruolo della Corte di Giustizia e il rapporto tra giudice comunitario e i giudici nazionali nel quadro dell’art. 177 del Trattato (con particolare riferimento alle politiche sociali), in Dir. Lav., 1999, I, pp. 138 e ss. (4) M. PERSIANI, Diritto del lavoro e autorità dal punto di vista giuridico, in Arg. Dir. Lav., 2000, I, p. 14; A.M. SANDULLI, Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale, in Dir. Soc., 1975, pp. 561 e ss. (5) Il diritto quale fondamentale componente culturale della società, come tale, soggetto ad un processo di evoluzione storica è presentato anche in G. VISENTINI, Lezioni di teoria generale del diritto, Padova, 2008, pp. 2 e ss.: «Il diritto è fenomeno storico e peculiare di una civiltà, quella alla quale apparteniamo, che oggi va diffondendosi» (p. 4). (6) Espressione coniata da M. PEDRAZZOLI, La difficile conoscibilità delle norme. In margine ad un Codice dei Valori, in AA. VV., Scritti in memoria di M. D’Antona, Milano, 2004, pp. 1181 e ss. (7) Come posto in luce da Mattia Persiani nella sua relazione - sul tema L’interpretazione: categorie concettuali e argomentazioni retorico-persuasive - al seminario di Bertinoro, 15-16 luglio 2005, Le fonti e l’interpretazione nel diritto del lavoro. (8) R. PESSI, Il dialogo tra giurisprudenza costituzionale e sistema ordinamentale, in Arg. Dir. Lav., 2006, p. 1543. 320 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Affermato allora l’incessante fluire evolutivo delle regole che compongo un “diritto” in rapporto ad una “tradizione”, occorre a tal punto sottolineare come, tuttavia, il lungo e lento processo di interiorizzazione ed assorbimento nelle coscienze collettive di una determinata tradizione (favorito anche dalla rilevante incidenza delle dinamiche comunicative), percepita quindi come “propria” ed identificativa di un idem sentire, non si pone come facilmente modificabile in un momento storico successivo (9). Condicio sine qua non affinché il continuo evolversi del diritto non sfoci in una vuota e pericolosa manifestazione di arbitrarietà, ma sia sempre invece espressione di una comune ideologia normativa, è costituita dunque dal suo restare necessariamente e solidamente ancorato ad un robusto substrato valoriale. Di straordinaria profondità e chiarezza risulta a tal proposito la visione sistemico- valoriale cristallizzata da autorevole dottrina (PERSIANI, 2005): «il giurista non è solo quando possa contare su una robusta codificazione di valori, quali quelli espressi dalla Carta Costituzionale e da un organo di chiusura del sistema che vigila sulla loro persistenza nell’ordinamento, garantendo un processo evolutivo operato attraverso un loro ragionevole e razionale bilanciamento» (10). In queste parole è infatti espresso con grande efficacia il conforto che il giurista trae dalla presenza di un solido fondamento valoriale, sotteso alla produzione normativa. La coerenza e la costante aderenza del diritto alla tradizione sono infine assicurate dall’attento e scrupoloso vaglio di legittimità costituzionale operato dalla Corte costituzionale che, attraverso le lenti della razionalità, valuta il bilanciamento di interessi condotto dal legislatore, nelle sue scelte politiche. 2. Dalla Costituzione all’autonomia privata collettiva: la centralità di un equilibrato bilanciamento di valori. «I valori sostanziali (o materiali) sono gli elementi primi delle disposizioni costituzionali e il loro contenuto essenziale. Ma i valori non sono strutture inerti o cose. Essi sono portatori di una propria logica “essenziale” e “di relazione” ed esigono, pertanto, che le regole dell’interpretazione e la natura stessa dell’ermeneutica si adeguino alla loro logica, alla logica della ragionevolezza e alle regole sulle relazioni tra valori (bilanciamento, ecc.). Essi, dunque, esigono un profondo rinnovamento teorico e un significativo cambiamento del metodo [...]» (11). (9) Si prenda a questo proposito in esame un caso particolarmente emblematico, quale quello della c.d. «impermeabilità della società alla recezione della previdenza complementare» (cfr. R. PESSI, Il dialogo tra giurisprudenza costituzionale e sistema ordinamentale, in Arg. Dir. Lav., 2006, p. 1544). Per una trattazione più ampia della previdenza complementare nell’ambito del modello costituzionale italiano si veda R. PESSI, Lezioni di diritto della previdenza sociale, Torino, 2012, pp. 25-26 e 805-855. (10) M. PERSIANI, relazione sul tema L’interpretazione: categorie concettuali e argomentazioni retorico-persuasive, al seminario di Bertinoro, 15-16 luglio 2005, Le fonti e l’interpretazione nel diritto del lavoro, in R. PESSI, Il dialogo tra giurisprudenza costituzionale e sistema ordinamentale, in Arg. Dir. Lav., 2006, p. 1545. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 321 Constatata dunque la necessaria ed imprescindibile coesistenza, nell’impianto assiologico dei principi costituzionali, dei valori del lavoro e dell’impresa, occorre acquisire piena consapevolezza della impossibilità di raccordare tali valori ordinandoli lungo una scala gerarchica, risultando invece quanto mai fondamentale lo sforzo di garantire la coesistenza tra gli stessi, attraverso il ricorso alla tecnica del bilanciamento (12). Quella che viene infatti definita dal “Maestro” (PESSI, 2006) come “crisi di identità” del diritto del lavoro impone di procedere ad un approccio sistematico delle norme e dei principi costituzionali in materia di lavoro ed impresa. Assumendo - alla luce delle esposte considerazioni di teoria generale del diritto (v. supra § 1) - la Costituzione come il «precipitato in opzioni di diritto positivo dei valori etici, ovvero la positivizzazione dei principi morali» (13), chiara emerge, ad un’analisi assiologica del dettato normativo costituzionale, la prevalenza dei valori della persona su quelli dell’impresa, soggetti a limitazioni non previste invece per la prima categoria (14). Di fondamentale importanza è dunque concepire l’impresa, e più in generale le ragioni dell’efficienza economica, in un’ottica strumentale, come essenziale precondizione per la tutela degli interessi della persona. Nello spirito di costante ricerca di un equilibrato bilanciamento tra interessi e valori reciprocamente distanti, il diritto del lavoro costituisce terreno prioritario per la composizione di antinomie normative, espressive di interessi contrapposti, ma da non considerare mai come irrisolvibili posizioni contraddittorie. L’area normativa del diritto del lavoro, inteso nella sua accezione più ampia, emerge come intrinsecamente e profondamente connotata da sostanziali rapporti di tensione dualistica; si pensi, oltre al principale binomio capitale/lavoro anche alla cruciale contrapposizione tra insiders (soggetti occupati, la- (11) A. BALDASSARRE, Costituzione e teoria dei valori, in Pol. Dir., 1991, IV, p. 658. Dello stesso autore si veda anche A. BALDASSARE, Diritti della persona e valori costituzionali, Torino, 1997, pp. 80 e ss. (12) M. PERSIANI, Diritto del lavoro e autorità del punto di vista giuridico, in Arg. Dir. Lav., 2000, I, p. 17. (13) R. DE LUCATAMAJO, Giurisprudenza costituzionale e diritto del rapporto di lavoro, in AA. VV., Lavoro. La Giurisprudenza costituzionale (1 luglio 1989 - 31 dicembre 2005), vol. IX, Roma, 2006, p. 42. (14) Il principale esempio in merito è rinvenibile nella stessa formulazione dell’art. 41 Cost. che, nei primi due commi, esprime efficacemente l’esigenza di un equilibrato contemperamento tra le ragioni dell’iniziativa economica privata (riconosciuta come libera al primo comma: «L’iniziativa economica privata è libera») e la sfera delle libertà e dei diritti della persona umana (sanciti dal secondo comma: «Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana»). Predisponendo, dunque, il secondo comma dell’articolo in esame un sistema di limiti all’iniziativa economica privata, si esprime implicitamente il disegno dei padri costituenti teso a riconoscere la preminenza dei valori della persona su quelli dell’attività economica. Si segnala un interessante studio su tali aspetti, rappresentato da F. MAZZIOTTI, Diritti fondamentali e solidarietà nei rapporti di lavoro, in R. PESSI e A. VALLEBONA (a cura di), Il lavoratore tra diritti della persona e doveri di solidarietà, Padova, 2011, pp. 121 e ss.; l’autore riconosce nel comma 2 dell’art. 41 Cost.: «il primo e principale limite alla realizzazione di finalità economiche», nonché: «il principale riconoscimento dei diritti fondamentali nei rapporti di lavoro». 322 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 voratori) ed outsiders (potenziali lavoratori, soggetti che ambirebbero ad essere occupati ed inseriti nei processi produttivi) (LINDBECK, SNOWER, 1988), determinata dalla endemica condizione di scarsità occupazionale che caratterizza il mercato del lavoro, come anche dalla c.d. “rigidità salariale” che non rende “vantaggioso” per il datore di lavoro il turn over, a causa dei costi connessi al ricambio della forza lavoro (15). Il conflitto, da esercitarsi sempre nel pieno rispetto della legalità costituzionale, si presenta quindi quale componente intrinsecamente irrinunciabile, caratterizzante le relazioni sociali ed espressiva della forma di Stato pluralista e democratica: come evidenzia il “Maestro” (PESSI, 2006), infatti, occorre superare ogni forma di tentato superamento del conflitto, rendendosi invece quanto mai necessario operare, nell’ambito del conflitto medesimo, un continuo e costante tentativo di composizione, armonizzazione e bilanciamento degli interessi e, dunque, dei valori interessati da rapporti di tensione (16). Il diritto del lavoro, in estrema sintesi, si sostanzia - più di ogni altro ramo del diritto - nella perpetua ricerca di un assetto quanto più possibile bilanciato e ragionevolmente equilibrato dei molteplici ed eterogenei interessi coinvolti, da considerarsi questi ultimi in una logica dualistica di tensione da comporre, mediante proficui risultati compromissori. 2.1. Un caso di studio: lo sciopero nei servizi pubblici essenziali. Al fine di verificare concretamente e applicare praticamente quanto sin qui affermato in una dimensione prettamente teorico-speculativa, si prende in esame un importante fenomeno, nell’ambito del diritto sindacale, che presenta - anzitutto per le sue numerose implicazioni sociali - maggiori aspetti di interesse: lo sciopero nei servizi pubblici essenziali (17). La disciplina introdotta con la l. 12 giugno 1990, n. 146 (18) - nella legislazione italiana, unica previsione legislativa in materia di sciopero (19) - rappresenta «un indicatore delle profonde trasformazioni del sistema costituzionale delle relazioni sociali» (20), costituendo essa stessa uno strumento di e per il bilanciamento tra interessi potenzialmente confliggenti. (15) R. PESSI, Persona e impresa nel diritto del lavoro, in AA. VV., Diritto e libertà: studi in memoria di Matteo Dell’Olio, Torino, 2008, pp. 1238-1257; A. LINDBECK, D.J. SNOWER, The insider-outsider theory of employment and unemployment, London, 1988, pp. 2 e ss.; R. DEL PUNTA, L’economia e le ragioni del diritto del lavoro, in Dir. Lav. Rel. Ind., 2001, pp. 3 e ss. (16) R. PESSI, Economia e diritto del lavoro, in Arg. Dir. Lav., 2006, p. 448. (17) R. PESSI, Lezioni di diritto del lavoro, Torino, 2012, pp. 193 e ss.; M. PERSIANI, Diritto sindacale, Padova, 2012, pp. 247 e ss. (18) M.N. BETTINI, La legge 12 giugno 1990, n. 146 nella opinione degli interpreti: lo stato dell’arte, in Riv. Giur. Lav., 1991, I, pp. 479 e ss. (19) Francesco Santoro Passarelli definiva la situazione del diritto sindacale in generale e del diritto di sciopero in particolare come un “diritto senza norme”: si veda l’interessante saggio di M. PERSIANI, Diritti fondamentali della persona e diritto dei lavoratori a scioperare, in DL, 1992, I, pp. 13 e ss. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 323 Il contemperamento che viene però qui in considerazione assume contorni di straordinaria peculiarità, dovendosi operare un procedimento di bilanciamento non tra “semplici” interessi contrastanti, bensì tra diritti costituzionali fondamentali. Certamente prezioso è richiamare in questa sede la formulazione dell’art. 1, comma 2, della legge qui in esame, così da cogliere nella sua pienezza l’espressione della ratio normativa: «Allo scopo di contemperare l’esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, di cui al comma 1, la presente legge dispone le regole da rispettare e le procedure da seguire in caso di conflitto collettivo, per assicurare l’effettività, nel loro contenuto essenziale, dei diritti medesimi, in particolare nei seguenti servizi e limitatamente all’insieme delle prestazioni individuate come indispensabili ai sensi dell’articolo 2 [...]». Prima ancora dell’entrata in vigore della l. 146/1990, la giurisprudenza aveva giocato un ruolo decisivo nel riconoscere forme di tutela agli interessi della persona coinvolti nell’esercizio del diritto di sciopero, ma comunque estranei rispetto a quelli propri delle parti coinvolte nel conflitto industriale. Si pensi, tra le molteplici, alla sentenza della Corte di Cassazione, 30 gennaio 1980, n. 711, nella quale si riconosce lungimirantemente la necessità di esercitare il diritto di sciopero secondo modalità che non ledano altri interessi costituzionalmente rilevanti (21); l’importanza della sentenza ha indotto autorevole dottrina (PERSIANI, 2000) a considerare la stessa addirittura quale fonte di ispirazione della successiva l. 146/1990 (22). In ultima analisi, quindi, l’art. 1, comma 2, l. 146/1990 racchiude l’intima essenza del bilanciamento di interessi, presentando con grande chiarezza espressiva i termini del bilanciamento da operare, nonché la finalità centrale dell’intervento normativo, da rinvenire nell’esigenza di armonizzare l’esercizio di diritti tutti costituzionalmente tutelati. Come posto in luce dalla surrichiamata dottrina (PERSIANI, 1992), infine, la chiave interpretativa della legge qui in esame è da rinvenire nella consapevolezza che la ratio della norma risiede nella tutela dei diritti della persona (e quindi non nella primaria esigenza di assicurare l’esercizio del diritto di sciopero) e, conseguentemente può pertanto procedersi al bilanciamento solamente allorquando il conflitto si ponga tra di- (20) O. ROSSELLI, La dimensione costituzionale dello sciopero, Torino, 2005, p. 80. Si noti peraltro che l’autore ha accompagnato il titolo dell’opera con l’efficace sottotitolo: “Lo sciopero come indicatore delle trasformazioni costituzionali”, così da enfatizzare la rilevante tendenza evolutiva che ha caratterizzato l’istituto dello sciopero nell’ordinamento giuridico italiano; «l’idea stessa di sciopero è il prodotto della cultura del tempo e questa fornisce il substrato al legislatore ed all’interprete [...] per giungere, secondo i poteri che l’ordinamento loro attribuisce, a definirlo giuridicamente» (p. 88). (21) Cass., 30 gennaio 1980, n. 711, in Giust. Civ., 1980, I, pp. 803 e ss. (22) M. PERSIANI, Diritto del lavoro e autorità del punto di vista giuridico, in Arg. Dir. Lav., 2000, I, pp. 27-28. 324 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 ritto di sciopero e diritti della persona umana di rango “paritario” (23). 3. Il ruolo della Corte costituzionale nell’evoluzione dell’ideologia normativa: il parametro della razionalità applicato al bilanciamento di interessi. Il naturale percorso storico-evolutivo dell’ideologia normativa propria dell’ordinamento nazionale è accompagnato, con grande equilibrio, dai giudici costituzionali che, attraverso il vaglio di costituzionalità, compiono una continua e cruciale valutazione di natura metagiuridica, tesa ad individuare ed analizzare nel profondo i valori sottesi alle scelte legislative. Il processo di continua «“vivificazione” dell’ideologia normativa» di cui si dirà (v. infra § 3.1.), è infatti compiuto dalla Corte attraverso un giudizio che rimanda costantemente al corpus valoriale che legittima le scelte politiche rinvenibili nei provvedimenti legislativi. In materia giuslavoristica, in particolare, si coglie ancor più concretamente la funzione di chiusura del sistema che la Corte riveste, compiendo essa il giudizio di costituzionalità su una normativa che rappresenta costantemente la continua espressione di una dialettica compromissoria tra i differenti interessi coinvolti. La legislazione lavoristica costituisce invero il frutto di una continua tensione valoriale che il legislatore cerca di comporre attraverso il ricorso alla preziosa tecnica del bilanciamento di interessi (24). Proprio su un tale fondamentale presupposto, i giudici costituzionali sottopongono le scelte legislative ad un controllo di proporzionalità rispetto ai valori ed ai principi cristallizzati nella Costituzione (da intendersi - come richiamato in supra § 2 - quale «precipitato in opzioni di diritto positivo dei valori etici, ovvero la positivizzazione dei principi morali» (25)). La grande capacità dei giudici costituzionali di non considerare l’ordinamento come mero corpo normativo statico ed autoconcluso può essere pienamente apprezzata, specialmente con riferimento alla legislazione del lavoro, nell’opera di vigilanza - condotta attraverso una incessante lettura evolutiva dei valori costituzionali, anche mediante il ricorso a tecniche ermeneutiche tese al continuo adeguamento del tessuto normativo esistente ai mutati contesti storico-sociali (26) - sulla ragionevolezza complessiva del contemperamento di interessi condotto dal legislatore. Tale funzione di presidio della comune ideologia normativa ha necessa- (23) M. PERSIANI, Diritti fondamentali della persona e diritto dei lavoratori a scioperare, in DL, 1992, I, p. 18. (24) Cfr. R. PESSI, Fattispecie ed effetti nel diritto del lavoro, in R. PESSI, Valori e regole costituzionali, Roma, 2009, pp. 137 e ss. (25) R. DE LUCATAMAJO, Giurisprudenza costituzionale e diritto del rapporto di lavoro, in AA. VV., Lavoro. La Giurisprudenza costituzionale (1 luglio 1989 - 31 dicembre 2005), vol. IX, Roma, 2006, p. 42. (26) Con riferimento alle molteplici tecniche interpretative, si veda F. MODUGNO, Appunti dalle lezioni di teoria dell’interpretazione, Padova, 1998, pp. 2 e ss. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 325 riamente indotto la Corte ad elaborare una serie di strumenti e di canoni concettuali, mediante i quali condurre una valutazione circa l’eventuale arbitrarietà del bilanciamento di interessi e valori condotto dal legislatore. Di importanza assolutamente preminente in tal senso è, tra tutti, il parametro della razionalità, da intendersi quale criterio informatore del controllo di legittimità, in termini di coerenza, adeguatezza e proporzionalità delle scelte politiche operate in sede legislativa nel bilanciare interessi distanti, rispetto ai principi valoriali, costituzionalmente cristallizzati. «Ponendosi i principi costituzionali come elementi direttivi del sistema giuridico, diviene necessario il giudizio di coerenza tra quei principi ed il singolo precetto dettato dal legislatore ordinario» (27). 3.1. Un caso di studio: l. 183/2010 (art. 32, commi 5, 6, 7) e Corte cost. n. 303/2011 (contratto a termine illegittimo e indennità onnicomprensiva) (28). Volendo individuare un concreto caso di specie esemplificativo della cruciale funzione di garanzia, in termini di coerenza e razionalità, assolta dalla Corte costituzionale, si ritiene particolarmente prezioso il richiamo, seppur sintetico, di una storica sentenza della Corte, dalla cui formulazione traspare chiaro il controllo di razionalità condotto su un concreto bilanciamento di interessi. La Corte costituzionale, con la sentenza 11 novembre 2011, n. 303, ha dichiarato la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale, sollevate con riferimento all’art. 32, commi 5, 6, 7 della legge 4 novembre 2010, n. 183 (c.d. “collegato lavoro”). L’essenza dell’art. 32, l. 183/2010, sul quale si è concentrato il giudizio di costituzionalità dei giudici della Corte costituzionale, è da rinvenire nella definizione di nuovi criteri per il risarcimento del danno spettante al lavoratore, nell’ipotesi di illegittimità del termine di durata apposto al contratto di lavoro; in caso di conversione del rapporto di lavoro a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato, viene infatti previsto dal comma 5 dell’art. 32 della l. 183/2010, un tetto all’indennità risarcitoria avente carattere onnicomprensivo, alla cui corresponsione è tenuto il datore di lavoro (da un minimo di 2,5 ad un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto). Disattendendo le argomentazioni poste a fondamento delle ordinanze di rimessione, nelle quali si assumeva l’innovativa normativa come «irragionevolmente riduttiva del risarcimento del danno integrale già conseguibile dal (27) R. PESSI, Il dialogo tra giurisprudenza costituzionale e sistema ordinamentale, in Arg. Dir. Lav., 2006, p. 1553. (28) Per un’analisi più approfondita della sentenza qui brevemente commentata si rinvia a S. BINI, Nota a sentenza Corte Costituzionale, 11 novembre 2011, n. 303. Indennità onnicomprensiva e contratto a termine: certezza del diritto e bilanciamento di interessi costituzionalmente rilevanti, in Iuris Prudentes, 2012, 4, pp. 12-13. 326 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 lavoratore sotto il regime previgente» (29), la Corte ha riconosciuto la legittimità costituzionale della disposizione contenuta nell’importante provvedimento legislativo del 2010, sostenendo l’idoneità e l’adeguatezza della stessa a conseguire un equilibrato bilanciamento d interessi contrastanti. La Corte costituzionale considera, in sintesi, l’art. 32, l. 4 novembre 2010, n. 183 come l’equilibrato punto di sintesi di interessi tra loro contrapposti: da un lato, infatti, viene garantita al lavoratore sia l’indennità risarcitoria avente carattere forfettario ed onnicomprensivo, sia la conversione del rapporto di lavoro a termine in rapporto di lavoro a tempo indeterminato (ecco dunque come appare chiara la natura aggiuntiva e non sostitutiva di quella che potrebbe definirsi come sanzione economica per il datore di lavoro); dall’altro lato, invece, trovano tutela le ragioni propriamente datoriali, consentendosi la predeterminazione del risarcimento del danno conseguente alla illegittima apposizione del termine, con la fondamentale e storica introduzione della limitazione all’indennità stessa, relativa al periodo intercorrente tra la data di interruzione del rapporto di lavoro e quella dell’accertamento giudiziale del diritto del lavoratore alla stabilizzazione dello stesso (fermo restando, naturalmente, il diritto alla retribuzione per il periodo successivo alla sentenza) (30). Ai fini del presente studio, risulta particolarmente efficace la formulazione della sentenza qui richiamata, giacché al punto 3.3.1 del “considerato in diritto”, si legge che: «in definitiva, la normativa impugnata risulta, nell’insieme, adeguata a realizzare un equilibrato componimento dei contrapposti interessi» (31). Nelle poche parole appena riportate è invero possibile rinvenire l’essenza stessa del ruolo di chiusura del sistema, di cui è investita la Corte costituzionale: assolutamente centrale nell’evoluzione dell’ideologia normativa, essa assolve infatti ad una cruciale funzione di guida nel processo storico-evolutivo della comune tradizione giuridica. (29) Si riportano per completezza gli estremi delle ordinanze di rimessione: Cass., 28 gennaio 2011, n. 2012 e Trib. Trani, 20 dicembre 2011; in esse la presunta illegittimità dell’art. 32, commi 5, 6, 7, l. 183/2010 viene asserita in relazione agli artt. 3, 4, 11, 24, 101, 102, 111 e 111, comma 1 della Costituzione. (30) Per un’analisi particolarmente accurata della normativa introdotta dal c.d. “collegato lavoro” in materia di contratto a termine si vedano: A. VALLEBONA, La certezza finalmente alla ribalta: legittimità costituzionale dell’indennità per il termine illegittimo, in Mass. Giur. Lav., 2011, n. 12, pp. 939 e ss.; A. VALLEBONA, Il collegato lavoro: un bilancio tecnico, in Mass. Giur. Lav., 2010, n. 12, pp. 900 e ss.; A. VALLEBONA, Una buona svolta del diritto del lavoro: il “collegato” 2010, in Mass. Giur. Lav., 2010, n. 4, pp. 210 e ss. (31) Proseguono poi i giudici della Corte, esponendo efficacemente i contenuti del bilanciamento di interessi condotto dal legislatore del collegato, ritenuto adeguato dalla stessa Corte: «[...] al lavoratore garantisce la conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, unitamente ad un’indennità che gli è dovuta sempre e comunque, senza necessità né dell’offerta della prestazione, né di oneri probatori di sorta. Al datore di lavoro, per altro verso, assicura la predeterminazione del risarcimento del danno dovuto per il periodo che intercorre dalla data d’interruzione del rapporto fino a quella dell’accertamento giudiziale del diritto del lavoratore del riconoscimento della durata indeterminata di esso». CONTRIBUTI DI DOTTRINA 327 Come autorevolissima dottrina (PESSI, 2006) ha riconosciuto, la straordinarietà dell’importanza della Corte può cogliersi nell’abilità della stessa di favorire una continua “vivificazione” dell’ordinamento giuridico, senza mai concepire lo stesso come un sistema autoreferenziale e, come tale, autoconcluso (32). Attraverso il vaglio di costituzionalità, dunque, la Corte conduce una continua valutazione di adeguatezza della produzione normativa, tesa a garantire costantemente - anche e soprattutto attraverso un prezioso e proficuo “dialogo pedagogico” intessuto con il legislatore (33) - la non arbitrarietà del diritto (v. § 1), l’effettiva aderenza del diritto alla tradizione e quindi la complessiva coerenza dell’assetto normativo rispetto al complesso di valori e principi eticomorali espressione della comunità e collettività nazionale. (32) R. PESSI, Diritto del lavoro: bilancio di un anno tra bipolarismo e concertazione, Padova, 2008, pp. 12 e ss. (33) R. PESSI, Il dialogo tra giurisprudenza costituzionale e sistema ordinamentale, in Arg. Dir. Lav., 2006, p. 1558. 328 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 L'Astreinte amministrativa. Problematiche applicative dell'art. 114, co. 4, lett. e), c.p.a. e prime applicazioni giurisprudenziali Giulia Guccione* Con l'art. 114, comma 4, lettera e), del codice del processo amministrativo è stata per la prima volta introdotta, in via generale, la cd. penalità di mora Un istituto, quest'ultimo, avente affinità con quello già previsto, per il processo civile, dall'art. 614 bis c.p.c., aggiunto dall'art. 49 della legge 18 giugno 2009, n. 69 con il precipuo scopo di completare la tutela esecutiva e fornire all'organo giudicante un efficace strumento di attuazione delle sentenze di condanna agli obblighi di fare infungibile o di non fare. Obblighi, questi, che per loro intrinseca natura richiedono una non surrogabile attività di collaborazione e cooperazione da parte del soggetto obbligato (1). Riprendendo il modello, fornito oltralpe, dell'astreinte, il legislatore - consapevole della inadeguatezza dei tradizionali mezzi di esecuzione forzata nel realizzare l'interesse creditorio all'adempimento di siffatte prestazioni - ha così introdotto una misura coercitiva indiretta a carattere pecuniario finalizzata a vincere la resistenza del debitore, inducendolo ad adempiere all'obbligazione sancita a suo carico. Nell'ambito del processo amministrativo, l'istituto della penalità di mora è contenuto nel titolo I del libro IV del codice del processo amministrativo, all'interno della disciplina del giudizio dell'ottemperanza. Con l'articolo 114, comma 4, lett. e), c.p.a. si dà per la prima volta al giudice amministrativo la possibilità di imporre alla pubblica amministrazione il pagamento di una somma di denaro qualora vi sia ritardo nell'esecuzione della sentenza o per ogni violazione del giudicato (2). Ciò che emerge ictu oculi è la portata più ampia rispetto all'art. 614 bis c.p.c.: da una prima, sommaria, lettura emerge che l'art. 114 c.p.a. non contiene, circa l'ambito di applicazione, limitazioni al solo caso di inadempimento degli obblighi aventi per oggetto un non facere o un facere infungibile, poichè non opera alcuna distinzione in ordine alla prestazione dedotta in giudizio. Giova sin d'ora anticipare che ciò, tuttavia, non ha impedito il sorgere di un contrasto applicativo a riguardo, risolto nei termini che successivamente verranno esaminati. (*) Abilitata alla professione forense, ha svolto pratica presso l'Avvocatura Generale dello Stato. (1) Per una panoramica sull'argomento si segnala: BARATELLA, Le pene private, Milano, 2006. (2) In tema si segnalano: AA.VV., Il nuovo codice del processo amministrativo, in Italia Oggi-Guida giuridico normativa, 2010, 82 ss.; CHIEPPA, Il codice del processo amministrativo. Commento a tutte le novità del giudizio amministrativo, Milano, 2010, 473 ss.; TARULLO, Il giudizio di ottemperanza alla luce del Codice del processo amministrativo, in Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, 2011. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 329 Nelle intenzioni del legislatore v'era quella di introdurre, anche nel processo amministrativo, un istituto avente la generale finalità (comune, per il vero, col rimedio processualcivilista) di dissuadere il debitore dal persistere nella mancata attuazione del dovere di ottemperanza: ad una siffatta identità di ratio, e in virtù del generico rinvio operato dall'art. 39 c.p.a., consegue che - per quanto non specificamente disposto dall'art. 114 c.p.a. - troveranno applicazione anche nel processo amministrativo, le norme del processo civile, con particolar riferimento ai parametri di commisurazione della sanzione (salvo quanto appresso si dirà circa il criterio della quantificazione del danno). Sotto il profilo comparativo, la soluzione italiana si presenta del tutto peculiare: sorprende, infatti, che al tradizionale modello dell'ottemperanza, attributivo finanche del potere, concesso al giudice amministrativo in sede di giurisdizione di merito, di sostituirsi all'amministrazione attraverso lo strumento del commissario ad acta sia stato concesso l'ulteriore potere di irrogare sanzioni alla P.A., proprio di ordinamenti (3) (quali quello francese e tedesco) che attribuiscono esclusivamente all'Amministrazione il compito di eseguire e conformarsi a pronunce che impongano ad essa qualsivoglia obbligo. In tali sistemi, difatti, la tutela dei privati viene realizzata esclusivamente grazie all'effetto compulsorio dei meccanismi di coercizione indiretta, piuttosto che tramite sostituzione nell'attività amministrativa (4). Con la nuova previsione dell'art. 114, comma 4, lett. e) del c.p.a. l'ordinamento italiano diviene, pertanto, un sistema misto poichè permette l'opzione, ad istanza di parte, del rimedio compulsorio, comunque mantenendo la tradizionale possibilità di surrogazione commissariale. Peculiarità, questa, che ha portato la dottrina e la giurisprudenza a domandarsi su quali siano i rapporti fra i due strumenti di attuazione del giudicato e, in particolare, se la nomina del commissario ad acta sia compatibile con l'irrogazione di astreintes. È infatti pacificamente riconosciuta in giurisprudenza la possibilità, per il ricorrente, di farne domanda cumulativa, ma non altrettanto chiaro è il potere del giudice a riguardo. In particolare ci si domanda se i rimedi siano fungibili l'uno all'altro, tale per cui la concessione dell'uno precluda l'altro. La ritenuta incompatibilità andrebbe ravvisata nella circostanza che i due strumenti sono rappresentativi di due distinte concezioni del rapporto fra giudice amministrativo e potere della P.A.: l'astreinte infatti è conforme al principio di separatezza fra potere giudiziale e potere amministrativo (rigidamente accolto in Francia, tanto che in quest'ordinamento è sconosciuta la forma di (3) In tema, v. CAPPONI, Astreintes nel processo civile italiano? in Giust. Civ., 1999, 4; CHIARLONI, Misure coercitive e tutela dei diritti, Milano, 1980; MASUCCI, Il processo amministrativo in Francia, Milano, 1995; TARZIA, Presente e futuro delle misure coercitive civili, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1981. (4) PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2012. 330 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 tutela della sostituzione commissariale); diversamente, la previsione normativa di nomina del commissario ad acta presuppone il superamento di tale rigida separazione, quando ciò sia necessitato dall'effettività della tutela giudiziaria. Chi sostiene la tesi dell'incompatibilità - tale per cui delle due l'una: o permane in capo all'Amministrazione il dovere di agire o è il giudice ad adottare i provvedimenti necessari per la soddisfazione delle ragioni del ricorrente, direttamente o tramite la nomina di un commissario - trascura che, da tempo oramai, s'afferma che, anche qualora sia stata giudizialmente disposta l'esecuzione surrogatoria, l'Amministrazione mantiene il potere di provvedere, poichè questo, finchè non viene concretamente esercitato, non è ancora consumato (5). In tal senso è stata dunque riconosciuta la astratta possibilità di concedere entrambe le misure "atteso che - secondo l'orientamento preferibile e prevalente - l'Amministrazione non perde il potere di provvedere dopo la nomina del commissario ad acta, sicché la coazione indiretta costituita dall'astreinte continuerebbe ad aver un senso. Le due forme di tutela, in altri termini, appaiono cumulabili perché non incompatibili tra loro" (6) ed è stata riconosciuta la possibilità, per il giudice, sia di contestuale concessione delle stesse, sia di modulazione delle stesse in successione temporale, in maniera tale da subordinare l'entrata in scena del commissario ad acta al decorrere di un lasso di tempo in cui, invece, opererebbe l'astreinte (7). Fermo restando, naturalmente, che - poichè i presupposti delle due misure sono parzialmente differenti - il rigetto dell'una non comporta anche l'inammissibilità dell'altra. Ammessa la astratta compatibilità fra i due istituti, ci si potrebbe interrogare, tuttavia, circa la reale utilità pratica di uno strumento di coercizione indiretta, laddove la soddisfazione dell'interesse creditorio sia attuabile direttamente tramite sostituzione nell'esecuzione degli obblighi. Analizzando gli ordinamenti stranieri, questa emerge con tutta evidenza dalla possibilità, generalmente riconosciuta all'organo giudicante, di comminarla già in sede di cognizione: anticipare al momento della decisione del ri- (5) Sull'argomento, diffusamente, v. NIGRO, Giustizia amministrativa, Bologna, 2000, 332 e ss. Ulteriori dubbi possono sorgere nell'ulteriore caso in cui il commissario ad acta abbia concretamente iniziato a operare ma non ancora concluso l'attività provvedimentale richiesta. Ci si chiede se, in tali casi, la P.A. perda il potere con l'inizio delle operazioni commissariali o soltanto con la conclusione delle stesse: nell'ultimo caso, infatti, l'astreinte continuerebbe a maturare, a carico della PA, fino all'effettiva e finale ottemperanza. Diversamente, essa si interromperebbe fino a che non avvenga il passaggio delle funzioni in via esclusiva all'organo di nomina giudiziale. V., altresì, DELLE DONNE, Astreinte e condanna pecuniaria della PA tra Codice di procedura civile e Codice del processo amministrativo, in Esecuzione forzata, 2011, 2 . (6) T.A.R. Campania Napoli, Sez. IV, Sent. 15 aprile 2011, n. 2162. (7) Una soluzione siffatta è stata, ad esempio, adottata dal Tar Puglia, Bari, Sez. III, 26 gennaio 2012, n. 259. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 331 corso la previsione di una sanzione pecuniaria già stabilita nel suo ammontare induce, con buona probabilità, il debitore all'adempimento prima dell'eventuale ulteriore segmento processuale (il giudizio dell'ottemperanza). L'istituto, quindi, se utilizzato in sede di cognizione, assumerebbe anche una funzione deflattiva dei giudizi esecutivi (8). Tuttavia, il legislatore, con l'art. 114 c.p.a. apparentemente sembra circoscrivere la sede naturale per l'adozione del rimedio al solo giudizio di ottemperanza, recependo così un istituto straniero senza considerarne la principale esperienza applicativa fattane dalla giurisprudenza d'oltralpe la quale, nel corso degli anni, ha spostato il baricentro dell'istituto dalla sede esecutiva a quella di cognizione, proprio al fine di ottimizzarne gli effetti compulsivi. Una simile impasse è superabile coordinando il disposto dell'art. 114 c.p.a. con la disciplina sulle sentenze di merito ex art. 34 c.p.a. In forza di siffatto articolo, difatti, il giudice amministrativo ha il potere di condannare l'amministrazione all'adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio o di disporre tutte le misure idonee ad assicurare l'attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, compresa la nomina di un commissario ad acta, che può avvenire anche in sede di cognizione con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l'ottemperanza. In altre parole, si consente all'organo giudicante di anticipare provvedimenti propri della fase dell'ottemperanza, sancendo il superamento di quella netta distinzione fra le due fasi sussistente antecedentemente all'entrata in vigore del codice e contribuendo così a connotare la sentenza conclusiva del giudizio di merito di forte atipicità. Possibilità, questa, non condizionata dal legislatore al ricorrere di particolari requisiti o presupposti: pertanto, l'adozione dei singoli provvedimenti è subordinata alla sola istanza di parte. D'altronde, tale soluzione è quella maggiormente conforme al principio costituzionale dell'effettività della tutela. L'ampiezza dei presupposti applicativi trova, infatti, come unici limiti la "manifesta iniquità" e "altre ragioni ostative": clausole elastiche che connotano chiaramente nel senso della discrezionalità e in virtù delle quali il giudice dovrà prendere in considerazione le circostanze del caso concreto, quali la necessità o meno di reiterare il procedimento, il subordinare l'astreinte alla scadenza di un termine (9), etc. In virtù di un siffatto disposto normativo dovrebbe, quindi, escludersi una limitazione dell'ambito applicativo dell'istituto data dalla natura della presta- (8) LIPARI, L'effettività della decisione tra cognizione e ottemperanza in www.federalismi.it, Rivista di diritto pubblico, italiano, comunitario e comparato. (9) D'altronde, la fissazione del termine per l'esecuzione delle decisioni si rende tanto più opportuno, se non addirittura necessario, ove si consideri la scelta del legislatore di non riprodurre nel nuovo codice del processo l'onere, in capo al ricorrente vittorioso, della diffida alla P.A. prima di intraprendere il giudizio di ottemperanza. 332 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 zione oggetto dell'obbligazione inadempiuta dedotta in giudizio. Tuttavia, le iniziali pronunzie rese in prime cure hanno escluso una tale conclusione. Privilegiando una lettura restrittiva della norma, giustificata dalla circostanza che l'aver usato, nel definire le limitazioni applicative, espressioni indefinite aventi una certa ampiezza semantica, riveli la preferenza del legislatore per un uso prudente dell'istituto al fine di limitare l'esborso di pubblico denaro ai casi in cui questo sia realmente necessario per la tutela, il Tar Campania (10) ha dubitato dell'ammissibilità dell'astreinte qualora l'esecuzione del giudicato consista nel pagamento di una somma di denaro. In particolare, rientrerebbe nei casi di "manifesta iniquità" una condanna in tal senso, posto che il rimedio ex lege previsto per il ritardo nell'adempimento delle obbligazioni pecuniarie è costituito dalla debenza degli interessi legali. Il prevedere una somma dovuta a titolo di astreinte accanto a quest'ultimi comporterebbe indebite - e dunque inique - locupletazioni per il creditore. Il Collegio campano aderisce, pertanto, alla tesi secondo la quale sarebbe preferibile qualificare la penalità di mora come criterio di liquidazione del danno, piuttosto che come pena privata o sanzione civile indiretta. E ciò proprio al fine di evitare ingiustificati arricchimenti del creditore della prestazione principale: tali rischi non sussisterebbero, invece, nel caso in cui la prestazione dedotta abbia ad oggetto un non facere o un facere infungibile e, dunque, l'art. 114 c.p.a. altro non sarebbe se non la riproduzione dell'art. 614 bis c.p.c., introdotto dal legislatore al fine di renderne incontrovertibile l'applicazione anche nel processo amministrativo (11). Questo orientamento è stato disatteso dal Consiglio di Stato in una recente ordinanza (12) il quale ha espressamente negato che l'art. 114, comma 4, lettera e), del c.p.a. rientri fra i rimedi risarcitori e ne ha affermato la finalità sanzionatoria: la misura, difatti, "non è volta a riparare il pregiudizio cagionato dall'esecuzione della sentenza ma a sanzionare la disobbedienza alla statuizione giudiziaria e stimolare il debitore all'adempimento". Non si deve trascurare, infatti, che anche il codice del processo amministrativo già appresta tutela al pregiudizio che alla parte possa derivare dall'inottemperanza della P.A. con l'art. 112, comma 3, laddove si prevede che nel giudizio di ottemperanza possa proporsi, tra le altre, la domanda di risarcimento dei danni derivanti dall'inesecuzione, violazione o elusione del giudicato (13). Sussiste, quindi, in capo alla P.A., un obbligo all'adempimento, cui corrisponde un vero e proprio diritto soggettivo in capo al ricorrente vittorioso; (10) T.A.R. Campania Napoli Sez. IV, Sent. 15 aprile 2011, n. 2162. (11) Nella stessa prospettiva, v. T.A.R. Lazio, Sez. I, 29 dicembre 2011 n. 10305 e T.A.R. Lazio, Sez. II-quater, 31 gennaio 2012, n. 1080. (12) Cons. Stato, Sez. V, ord. 14 maggio 2012, n. 2744. (13) DELLE DONNE, Astreinte e condanna pecuniaria della PA, cit. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 333 la non esecuzione, da parte del soggetto pubblico, della sentenza di condanna è così configurata dal codice quale illecito cui corrisponde una fattispecie risarcitoria azionabile ex art. 112 c.p.a. La previsione di un rimedio approntato dal legislatore ad hoc cozza con l'interpretazione della penalità di mora quale "criterio di liquidazione del danno"; ne consegue la logica conclusione per cui non è con l'astreinte ex art. 114 che il privato deve ottenere la ristorazione del danno (che non necessariamente coinciderà con l'ammontare degli interessi legali). Tale misura presenterebbe piuttosto importanti differenze rispetto alla previsione di cui all'art. 614-bis c.p.c., applicabile - per espresso disposto legislativo - solo alla violazione di obblighi di fare infungibile o di non fare. L'art. 114, comma 4, lett. e), c.p.a. non ha riprodotto il medesimo limite stabilito della norma di rito civile: conseguentemente "integra la limitazione di tale strumento alle sole obbligazioni da ultimo indicate una inaccettabile vulnerazione del principio cardine della effettività della tutela, le cui ricadute effettuali ben coinvolgono l'esercitabilità di tutti gli strumenti suscettibili di condurre alla pienezza del soddisfacimento della pretesa (fondatamente) dedotta in giudizio" (14). Avendo, come sopra evidenziato, una più ampia portata applicativa rispetto al processo civile ed essendo preordinato alla piena realizzazione del fondamentale principio poc'anzi richiamato, ne consegue che il rimedio in esame è, e deve essere, sempre applicabile nel caso in cui sussistano tutti i presupposti stabiliti dall'art. 114 c.p.a.: la richiesta di parte, l'insussistenza di profili di manifesta iniquità e la non ricorrenza di altre ragioni ostative. Nè può ritenersi che la manifesta iniquità sia data dal fatto che così si creerebbero indebite locupletazioni posto che la finalità dell'istituto non è risarcitoria e l'astreinte non costituisce risarcimento del danno: diverso essendo, quindi, il presupposto diversa ne è altresì la giustificazione causale e tanto vale ad escludere che essa sia un "doppione" del rimedio risarcitorio. Nella medesima prospettiva, il Consiglio di Stato in una ulteriore sentenza (15) ha confermato che "La misura prevista dall'art. 114 comma 4 lettera e) del c.p.a. va infatti considerata applicabile anche alle sentenze di condanna pecuniarie della p.a., trattandosi di un modello normativo caratterizzato da importanti differenze rispetto alla previsione di cui all'art. 614-bis c.p.c., (applicabile solo alla violazione di obblighi di fare infungibile o di non fare)", e ciò risulta dallo stesso dato testuale, "in quanto l'art. 114, comma 4, lettera e), del codice del processo amministrativo non ha riprodotto il limite, stabilito della norma di rito civile, della riferibilità del meccanismo al solo caso di inadempimento degli obblighi aventi per oggetto un non fare o un fare infungibile". (14) T.A.R. Lazio Roma Sez. I, Sent. 24 ottobre 2012, n. 8746. (15) Cons. Stato Sez. V, Sent. 14 maggio 2012, n. 2744. 334 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Emerge, dunque, dalle pronunce sopracitate una decisa ammissibilità dell'istituto dell'astreinte anche alle obbligazioni pecuniarie. D'altronde, le esaminate differenze col rimedio civilistico sono giustificate ove si consideri che gli obblighi aventi per oggetto un non fare o un fare infungibile, qualora vengano dedotti in un giudizio ove parte sia la P.A., non pongono le stesse problematiche presenti nel rito civile fra privati cittadini: non sussiste, infatti, l'ostacolo della non surrogabilità degli atti necessari ad assicurare l'esecuzione in re del precetto giudiziario, posto che, nel processo amministrativo, è presente una forma di "esecuzione surrogatoria" data dalle peculiarità del rimedio dell'ottemperanza e, in particolare, dal potere del giudice, di sostituirsi alla P.A o in via diretta (qualora l'attività sia vincolata o la discrezionalità consumata) o mediante la nomina di un commissario ad acta. Ne consegue che lo strumento in esame non mira a compensare gli ostacoli derivanti dalla non diretta coercibilità degli obblighi di contegno sanciti dalla sentenza del giudice civile e, dunque, sarebbe irragionevole circoscriverne l'applicabilità a queste particolari ipotesi, ben sussistendo nelle prestazioni di qualsivoglia natura l'esigenza di dissuadere il debitore dal persistere nella mancata attuazione del dovere di ottemperanza. Ma se la "penalità di mora amministrativa" assolve alla doppia finalità, ex ante di stimolazione del debitore all'adempimento ed ex post di sanzione della disobbedienza alla statuizione giudiziaria (16), senza che possa essere considerato, al contempo, un rimedio risarcitorio perchè non destinato a riparare il pregiudizio cagionato dall'esecuzione della sentenza, deriva - inevitabilmente - una ulteriore differenziazione, in ordine alla commisurazione del quantum, con il corrispondente istituto del codice di rito civile. Com'è noto, il secondo comma dell'art. 614-bis c.p.c. stabilisce che il giudice, nel determinare l'ammontare della somma dovuta, deve tener conto di elementi quali il valore della controversia, la natura della prestazione, il danno quantificato o prevedibile e "ogni altra circostanza utile". La circostanza che la misura del danno quantificato e prevedibile venga considerata solo uno dei parametri di commisurazione induce a ritenere che l'istituto de quo non abbia natura prettamente risarcitoria ma presenti anche finalità sanzionatorie (17). Nelle logiche riparatorie e risarcitorie, difatti, unico dato rilevante è la situazione, patrimoniale e talvolta personale, del danneggiato; la misura in oggetto, invece, nel voler disincentivare la disobbedienza del debitore condannato alla statuizione giudiziaria, richiede che si tenga conto, perchè risulti adeguata, anche della situazione patrimoniale dell'obbligato. (16) Ex plurimis: Cons. Stato, Sez. V, 20 dicembre 2011, n. 6688; Cons. Stato, Sez. IV, 31 maggio 2012, n. 3272. (17) CARPI, Riflessioni sui rapporti tra l'art. 111 della Costituzione ed il processo esecutivo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2002, 2, 381. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 335 Dalla natura giuridica mista, al contempo risarcitoria e compulsoria, deriva la conseguenza che il giudice possa (rectius: debba) tenere conto dell'importo dovuto a titolo di risarcimento del danno, fermo restando che la funzione di mezzo di coazione della stessa e la natura di "pena privata" ostano a una "integrale e meccanica scomputabilità dell'astreinte da quanto dovuto a titolo di risarcimento del danno" (18). Al contrario, l'astreinte comminata ex art. 114, comma 4 lett. e) del c.p.a., essendo connotata in termini di sanzione (e ciò si evince anche dall'assenza di ogni riferimento a condotte riparatorie) e trovando la propria ratio nella funzione sollecitatoria all'ottemperanza può configurarsi in maniera più autonoma rispetto al danno; sicchè l'ottica da privilegiare non sarà più quella del danneggiato, bensì quella della situazione in cui versa il debitore. Quest'ultima è, dunque, totalmente opposta rispetto a quella da utilizzarsi in sede di giudizio risarcitorio, ove la sfera patrimoniale presa in considerazione è esclusivamente (salvo minimi temperamenti equitativi) quella del danneggiato. Anzi, tanto più la finalità propria dell'istituto verrà realizzata quanto più il giudice terrà conto non del danno al creditore (verificatosi o da evitare), ma delle conseguenze negative nella sfera patrimoniale del debitore che costui non è disposto a tollerare qualora persista nell'inadempimento. (18) LOMBARDI, Il nuovo art. 614-bis c.p.c.: l'astreinte quale misura accessoria ai provvedimenti cautelari ex art. 700 c.p.c., in Giur. Merito, 2010, 2, 398. 336 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Il procedimento cautelare davanti al Giudice amministrativo I) La graduazione dell’urgenza, la prognosi sommaria e i casi di fumus qualificato nel codice processuale amministrativo. II) Il procedimento minicautelare. Maria Vittoria Lumetti* PARTE I SOMMARIO: 1. I presupposti e l’ambito della tutela cautelare - 2. L’urgenza e la sua ratio - 3. Il laboratorio giuridico del periculum: dal danno grave ed irreparabile (artt. 55 comma 1, 98, 119 comma 3, 120 comma 8 c.p.a.) - 4. (segue) … a quello estremo (artt. 56 e 119 comma 4 c.p.a.) ed eccezionale (artt. 61 e 111 c.p.a.) - 5. Il fumus più accurato della ragionevole previsione sull’esito del ricorso (art. 55 comma 9) - 6. Il fumus dell’antefatto cautelare - 7. Periculum bilaterale, irreparabilità senza gravità e preminente interesse nazionale (art. 125 c.p.a. 2) - 8. La relazione di reciproca interdipendenza tra fumus boni iuris e periculum in mora - 9. La misura intermedia prevista dall’art. 55 comma 10: il fumus qualificato dalle esigenze apprezzabili favorevolmente e la pretesa tutelabile adeguatamente solo con la definizione sollecita del giudizio di merito - 10. La ponderazione degli interessi pubblici e privati e il principio di proporzionalità. 1. I presupposti e l’ambito della tutela cautelare. L’art. 55 del Codice subordina l’ottenimento della concessione delle misure cautelari alla sussistenza dei presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora. A dire il vero il primo comma dell’art. 55 non fa espresso riferimento al requisito del fumus giuridico, avendo essenzialmente riguardo al profilo del periculum. La necessaria valutazione della sussistenza di tale elemento da parte del giudice è rinvenibile al nono comma dello stesso articolo, laddove prevede che l’ordinanza cautelare debba indicare “i profili che, a un sommario esame, inducono ad una ragionevole previsione sull’esito del ricorso” (1). Il periculum deve avere il connotato della gravità e dell’irreparabilità del pregiudizio arrecato al ricorrente e può riguardare qualsiasi bene della vita rientrante nell’ambito della sfera soggettiva del ricorrente, esattamente come era previsto nella precedente disciplina (2). (*) Avvocato dello Stato. (1) Così come previsto dall’abr. art. 21 della legge n. 1034 del 1971 nel testo novellato dalla legge n. 205 del 2000. (2) V. Consiglio di Stato - Sezione V, 13 luglio 2011, in www.sospensiveonline.it: va sospesa “l' esclusione da gara per l'affidamento dei lavori di opere di urbanizzazione primarie di un piano insediamenti produttivi, aggiudicato a terzi per carenza del requisito di regolarità fiscale del concorrente, se la parte ricorrente ha provveduto a depositare, tempestivamente rispetto al termine di cui all’art. 55, comma 5 c.p.a., dichiarazione dell’istituto bancario da cui risulta che l’importo è stato trasmesso per via tele- CONTRIBUTI DI DOTTRINA 337 Il presupposto dell’urgenza nel procedimento cautelare ordinario o in corso di causa è costituito dall’esistenza di un pregiudizio grave e irreparabile a carico del ricorrente, che può chiedere al collegio l’emanazione delle “misure cautelari che appaiono secondo le circostanze, più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso”. È inoltre necessaria l’esistenza del fumus boni iuris che attiene ai “profili che, ad un sommario esame, inducono ad una ragionevole previsione sull’esito del ricorso” (art. 55 comma 9). È naturalmente impossibile classificare le circostanze di fatto che di volta in volta possono essere invocate dalle parti per dimostrare la sussistenza del fumus boni iuris e del periculum in mora, le quali possono essere attinte dalla infinita congerie dei fatti empirici (3). Si può dire, tuttavia, che i fatti posti a base del fumus boni iuris corrispondono alle allegazioni sulla base delle quali la parte ha proposto o intende proporre la domanda di merito e vanta la sua pretesa giuridica nei confronti del resistente. I fatti posti a base del periculum in mora, invece, sono diversi da quelli allegati o da allegare nel procedimento di merito, in quanto sono tipici del procedimento cautelare, consistendo in quelle ulteriori circostanze di fatto che, se provate, sono in grado di far ritenere al giudice la probabilità del verificarsi di un danno (4). Il danno deve essere specificatamente allegato dal ricorrente nell’istanza di sospensione: il giudice non può d’ufficio ipotizzarne l’esistenza né introdurlo nel processo (5). 2. L’urgenza e la sua ratio. Il periculum in mora o pericolo nel ritardo presuppone una situazione nella quale la durata del processo può incidere sull’effettività della tutela che la parte ricerca nel giudizio di merito e consiste nella probabilità del verificarsi di un danno, che può derivare all’attore dalla durata, o anche a causa della dumatica in data 1 febbraio 2011 e regolarmente ricevuto dai sistemi banca e che non ha trovato regolare esecuzione per motivazioni tecniche; ritenuto che la mancata regolare esecuzione del pagamento non fa venir meno il ravvedimento operoso e tempestivo, anteriore alla scadenza del termine per la presentazione delle offerte; Considerata la gravità ed irreparabilità del danno subito per effetto dell’esclusione...” accoglie l’istanza cautelare. (3) L. LOMBARDO, Natura e caratteri dell’istruzione probatoria nel processo cautelare, in Riv. Dir. Proc., n. 2, 2001, 472. Non sembra dunque corretto accogliere la tesi della sussistenza del periculum implicitamente apprezzabile nella sussistenza del medesimo requisito del fumus (Corte App. civ. sez. II Bologna, ord. del 29 giugno 2010), in quanto anche la legge civile richiede la contemporanea presenza del fumus boni iuris e del periculum in mora. (4) Per il parallelo con il processo cautelare civile v. L. LOMBARDO, op. cit., 474. (5) Tar Emilia-Romagna – Parma, ord. n. 58 del 1 aprile 2008: “Considerato che l’interesse alla tutela cautelare non è implicito nell’affermazione della lesione della posizione soggettiva azionata, ma richiede una specifica allegazione del danno prodotto dall’atto oggetto della controversia; che, nella fattispecie, la ricorrente ha omesso di indicare quale pregiudizio grave e irreparabile deriva, allo stato, dal diniego impugnato… respinge la suindicata domanda di sospensione”. 338 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 rata, del processo di merito (6). L’art. 55 comma 1 così dispone: “Se il ricorrente, allegando un pregiudizio grave e irreparabile durante il tempo necessario a giungere alla decisione sul ricorso, chiede l’emanazione di misure cautelari, compresa l’ingiunzione a pagare una somma, che appaiono, secondo le circostanze, più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso, il tribunale amministrativo regionale si pronuncia sull’istanza con ordinanza emessa in camera di consiglio” (7). Il periculum in mora, nelle sue diverse configurazioni di “pericolo di infruttuosità” e “ pericolo di tardività” (8) non si sostanzia nel generico pericolo di danno giuridico, al quale si può in certi casi ovviare con la tutela ordinaria (9), ma deve riferirsi a quell’ulteriore danno marginale, che potrebbe derivare dal ritardo, reso inevitabile dalla lentezza del procedimento ordinario, del provvedimento definitivo (10). Per pericolo da infruttuosità si intende il pericolo che, durante il tempo necessario per lo svolgimento del processo a cognizione piena, sopraggiungano fatti tali da rendere impossibile o molto più difficoltosa la concreta possibilità di attuazione della sentenza. Per pericolo da tardività si intende, invece, il pericolo che sia la mera durata del processo col procrastinare del tempo lo stato di insoddisfazione del diritto, ad essere causa di pregiudizio. Nel caso di pericolo da infruttuosità la misura cautelare deve prevenire il danno che può derivare dal verificarsi, nelle more del processo, di fatti lesivi del diritto controverso: si configura, pertanto, (6) Nella letteratura processualcivilistica cfr. A. PROTO PISANI, voce Procedimenti cautelari, in Enc. Giur. Italiana, vol. XXIV, Roma 1991, 8425 ss., 5: in senso analogo ATTARDI, Diritto processuale civile, I, 2 ed., Padova 1997, 140; C. MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, III, Torino, 2010, 279 ss. Cfr. E. ALLORIO, Per una nozione del processo cautelare, in Riv. dir. proc., 1936 , I, 38, il quale sottolinea come lo stato di pericolo, nel quale si trova il diritto principale quando si tardi a tutelarlo, non è altro che l’interesse ad agire proprio di ciò che egli definisce “azione esecutiva cautelare”. (7) L’abrogato art. 21 comma 8 legge n. 1034 del 1971, come sostituito dall’art. 3 legge n. 205/2000, in maniera simile così disponeva: «Se il ricorrente, allegando un pregiudizio grave e irreparabile derivante dall’esecuzione dell’atto impugnato, ovvero dal comportamento inerte dell’amministrazione, durante il tempo necessario a giungere ad una decisione sul ricorso, chiede l’emanazione di misure cautelari, compresa l’ingiunzione a pagare una somma, che appaiono, secondo le circostanze, più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso, il tribunale amministrativo regionale si pronuncia sull’istanza con ordinanza emessa in camera di consiglio». La versione ancora precedente della norma abrogata faceva riferimento al cd. periculum in mora, ossia alla probabilità di danni gravi e irreparabili derivanti dal provvedimento impugnato. (8) G. ARIETA, I provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c., Padova, 1985, 48. (9) Cons. di St. Sez. III del 17 sett. 2011 ord. n. 4037/2011: “la documentazione medica depositata non attesta la sussistenza di patologie o handicap in capo al ricorrente che ne limitino in maniera significativa la autosufficienza in materia di negato rilascio di permesso di soggiorno per motivo di lavoro a cittadino extracomunitario”. (10) P. CALAMANDREI, Introduzione allo studio sistematico dei provvedimenti cautelari, Padova, 1936, (ripubblicato in Opere Giuridiche, IX, Napoli, 1983, 157 e ss.); N. PICARDI, Manuale del processo civile, Milano, 2006, 515. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 339 come misura conservativa della situazione di fatto o di diritto su cui dovrà incidere la futura sentenza (cd. provvedimento conservativo). Nel caso di pericolo da tardività, invece, la misura cautelare deve impedire il pregiudizio che il perdurare di una situazione antigiuridica può provocare al titolare del diritto o dell’interesse legittimo: si configura come misura anticipatoria del contenuto della futura sentenza di merito (cd. provvedimento anticipatorio) (11). Lo scopo del provvedimento cautelare è quello di prevenire il danno derivante dalle lungaggini che si frappongono per ottenere un provvedimento definitivo, al fine di ovviare agli inconvenienti derivanti da una giustizia che potrebbe giungere in ritardo, potendo nel frattempo il provvedimento definitivo tardivamente emanato dimostrarsi del tutto inutile (12). 3. Il laboratorio giuridico del periculum: dal danno grave ed irreparabile (artt. 55 comma 1, 98, 119 comma 3, 120 comma 8 c.p.a.)... Il provvedimento cautelare sfugge ad una classificazione formulata in astratto, in quanto essendo il suo contenuto atipico, come quello di cui all’art. 700 c.p.c., è determinato di volta in volta dal giudice, e può essere ora conservativo ora anticipatorio (13). La giurisprudenza raramente ha ritenuto nel passato che il potere di sospensiva fosse subordinato alla “irreparabilità del danno”, ritenendo sufficiente la gravità di esso. Ciò in base al dato testuale dell’abrogato art. 39 del R.D. 26 giugno 1924, n. 1054 (in Gazz. Uff., 7 luglio, n. 158): “I ricorsi in via contenziosa non hanno effetto sospensivo. La esecuzione dell'atto o del provvedimento può essere sospesa per gravi ragioni, con decreto motivato dalla sezione, sopra istanza del ricorrente”. Il suddetto indirizzo non è mutato a seguito dell’entrata in vigore della L. 6 dicembre 1971, n. 1034, istitutiva dei tribunali amministrativi regionali che all’art. 21 ult. comma così disponeva “Se il ricorrente, allegando danni gravi e irreparabili derivanti dall'esecuzione dell'atto, ne chiede la sospensione, sull'istanza il tribunale amministrativo regionale pronuncia con ordinanza motivata emessa in camera di consiglio”. Anche se il nuovo testo appariva più rigoroso, la giurisprudenza ha continuato a ritenere sufficiente la gravità del pregiudizio che ne fosse derivata al destinatario a seguito dell’adozione dell’atto. Per una parte della dottrina la (11) A. PROTO PISANI, voce Procedimenti cautelari in Enc. Giur. Italiana, vol. XXIV, Roma, 1991, 8425 ss., 6; E. FAZZALARI, voce Provvedimenti cautelari, 842. Per la distinzione tra misure conservative e misure innovative v. A. ATTARDI, Diritto processuale civile, I, Padova, 1999, 138. (12) F. VERDE, I provvedimenti cautelari. La nuova disciplina, Padova, 2006, 3, il quale alla nota n. 1 richiama la ricostruzione. (13) L. TORCHIA, Le nuove pronunce nel codice del processo amministrativo, in Giorn. dir. amm., 2010, 12, 1319. Nella letteratura processualcivilistica v. F. VERDE, I provvedimenti cautelari. La nuova disciplina, 2006, 25 ss.; G. ARIETA, I provvedimenti… , op. cit., 48; C. MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, III, Torino, 2010, 331. 340 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 legge n. 205 del 2000 nulla aveva innovato sul punto, in quanto il termine pregiudizio era comunque da considerare sinonimo di danno grave ed irreparabile. Secondo altri invece, il pregiudizio rappresenterebbe qualcosa di meno rilevante rispetto al danno, che richiederebbe invece una quantificazione di carattere economico. Inoltre, il termine pregiudizio appare svincolato dai caratteri di imminenza ed attualità. Significativa si configura la correlazione tra il pregiudizio ed il tempo necessario per definire il giudizio e giungere alla sentenza: un medesimo atto amministrativo potrebbe recare pregiudizio grave ed irreparabile a seconda della durata del processo dinnanzi allo specifico T.a.r. investito del ricorso (14). La gravità del pregiudizio deve essere valutata in termini assoluti: tale valutazione giustifica la concessione della invocata sospensiva solo nell’eventualità che il danno sia connotato da una particolare rilevanza tanto da un punto di vista quantitativo, con riferimento alla sua entità o intensità, quanto da un punto qualitativo (ad es. nel caso di un danno che comporti la perdita di un bene primario o comunque infungibile). Peraltro, alla luce del disposto dell’art. 55 comma 1, come del resto da quello dell’abrogato art. 21 della l. n. 1034/1971, (così come è stato modificato dall’art. 3 l. n. 205/2000), il danno deve avere anche il carattere della irreparabilità, il quale risulta soddisfatto solamente nell’ipotesi in cui il pregiudizio provocato dal provvedimento non sia agevolmente rimediabile. In altri termini, la perdita del bene per il ricorrente deve risultare tendenzialmente definitiva e l’accoglimento dell’istanza condizionato all’impossibilità del ripristino della situazione anteriore. I medesimi presupposti si applicano anche in sede di appello (art. 62 c.p.a.) nel rito abbreviato (art. 119 comma 3) abbreviato speciale (art. 120 comma 8) e nell’ipotesi di richiesta di sospensione della sentenza impugnata in appello (art. 98) (15). 4. (segue) … a quello estremo (artt. 56 e 119 comma 4 c.p.a.) ed eccezionale (artt. 61 e 111 c.p.a.). Si profilano altri tipi di urgenza nella nuova tutela cautelare oltre al pregiudizio grave ed irreparabile previsto nel procedimento cautelare ordinario. (14) F.G. SCOCA, Giustizia amministrativa, Torino, 2006, 289: “e così, mentre per i giudici amministrativi di primo grado che hanno un basso tasso di contenzioso ed una durata non eccessiva dei processi, occorrerà apprezzare con maggiore rigore il pregiudizio, viceversa per i TAR i cui processi hanno considerevole durata, il pregiudizio potrà dirsi quasi in re ipsa”. In tal modo si perde, tuttavia, quel requisito di oggettività del pregiudizio che garantisce una applicazione omogenea del pregiudizio. (15) Con ordinanza n. 469/2003 del 7 febbraio 2003, il Cons. St. ha accolto l’istanza cautelare proposta dal Ministero della Giustizia, sospendendo l’efficacia della sentenza impugnata, ritenendo che, ad una prima sommaria delibazione, fosse assorbente il profilo del pregiudizio grave e irreparabile derivante dal disposto annullamento, ad opera del giudice di primo grado, del bando di concorso sia pure “in parte qua”. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 341 Il codice prevede l’estrema gravità ed urgenza, prevista nel procedimento cautelare monocratico (art. 56 c.p.a.) e nel rito abbreviato nel caso in cui non venga convertito in giudizio di merito (art. 119 comma 4), e l’eccezionale gravità ed urgenza, richiesta nel procedimento ante causam (art. 61 c.p.a.) e nell’ipotesi di sospensione della sentenza impugnata in Cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione (art. 111 c.p.a.) e il cd. periculum bilaterale (art. 125 comma 2 c.p.a.). Si riscontra dunque una successione di gradi intermedi tra due estremi. L’art. 61, primo comma, infatti pone a presupposto della assunzione delle misure cautelari ante causam l’esistenza di una situazione “di eccezionale gravità e urgenza, tale da non consentire neppure la previa notificazione del ricorso e la domanda di misure cautelari provvisorie”. La formulazione adottata dall’art. 61, primo comma, è più restrittiva di quella contenuta all’art. 56, primo comma, relativo alle misure cautelari monocratiche provvisorie, ove si ha riguardo a situazioni di “estrema gravità e urgenza” (mentre all’art. 55, primo comma, per le misure cautelari collegiali la norma fa riferimento a situazioni di “pregiudizio grave e irreparabile”, senza ulteriore qualificazione). Nondimeno non pare così immediato poter contraddistinguere, nell’ambito dell’urgenza, quella che è “estrema” e tale da legittimare la tutela monocratica ai sensi dell’art. 56, e quella che ciononostante è “eccezionale”, tale da dispensare il ricorrente dalla proposizione del ricorso. Riscontrata tale ultima ipotesi il privato, senza dover redigere e notificare un ricorso, come richiesto comunque per la tutela monocratica, bensì con semplice istanza, e quindi anteriormente alla causa, può richiedere al Presidente del Tar la tutela ante causam, ossia le “misure interinali e provvisorie che appaiono indispensabili”, durante il tempo occorrente per la proposizione del ricorso nel merito e della domanda cautelare in corso di causa. In ordine all’unico presupposto indicato dalla norma, costituito dal periculum, la formula utilizzata dal legislatore, che ha qualificato la situazione giuridica azionabile di “eccezionale gravità e urgenza” tale da non consentire neppure la proposizione del ricorso, induce a ritenere che le misure cautelari ante causam possano essere concesse solo in presenza di situazioni assolutamente indilazionabili, tali da essere irrimediabilmente compromesse in assenza delle immediate misure cautelari richieste. Pertanto, deve ritenersi che sia richiesta al Presidente del T.A.R. una specifica valutazione di tale situazione di eccezionalità, correlata espressamente all’arco temporale occorrente per la proposizione del ricorso con la domanda di provvedimenti cautelari in corso di causa. La situazione di “eccezionale gravità e urgenza” può essere costituita anche da comportamenti omissivi dell’amministrazione, il cui perdurare rischierebbe di generare effetti irreparabili nelle more della presentazione del ricorso. 342 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 5. Il fumus più accurato della ragionevole previsione sull’esito del ricorso (art. 55 comma 9). Il fumus boni iuris consiste in una valutazione sommaria sul merito della pretesa fatta valere dal cittadino con l’impugnazione: il giudice realizza una ragionevole probabilità sul buon esito del ricorso, attraverso un sommario giudizio prognostico. Si tratta della probabile fondatezza alla titolarità ed esistenza del diritto che si intende tutelare e garantire, nonché della previsione sommaria in merito al positivo esito del ricorso. L’espressa previsione del fumus boni iuris non era contenuta in alcuna norma, anche se tale requisito era egualmente apprezzato dal giudice, in quanto è implicito nel sistema e scaturisce dalla funzione strumentale delle misure cautelari rispetto al provvedimento di merito (16). Il vincolo sulla decisione di merito è insussistente in quanto la misura cautelare viene decisa in base ad una sommaria cognitio. L’accertamento del giudice adito deve vertere sulla fondatezza del ricorso e non già, come avveniva in precedenza, sulla non manifesta infondatezza dello stesso. Deve valutarsi attraverso un accurato giudizio degli elementi emergenti dal ricorso, la prevedibilità dello stesso di avere, in sede di merito, una valutazione favorevole a chi chiede il provvedimento cautelare. Il fumus deve assimilarsi alla ragionevole apparenza del diritto fatto valere: come tale sarà sussistente qualora i motivi appaiano ictu oculi fondati. In caso contrario sarebbe enorme il pregiudizio che il pubblico interesse soffrirebbe a causa della sospensione di un provvedimento difficilmente censurabile. 6. Il fumus dell’antefatto cautelare. L’art. 61, primo comma, del Codice del processo amministrativo pone a presupposto della assunzione delle misure cautelari ante causam unicamente l’esistenza di una situazione “di eccezionale gravità e urgenza, tale da non consentire neppure la previa notificazione del ricorso e la domanda di misure cautelari provvisorie”. La norma fa espresso riferimento ad uno soltanto dei presupposti propri delle misure cautelari (il periculum) senza menzionare l’ulteriore ordinario presupposto costituito dal fumus boni iuris e, dunque, la valutazione, anche sommaria, della fondatezza della domanda di merito. Pur in assenza di uno specifico richiamo, si ritiene preferibile che il giudice assuma le misure cautelari ante causam all’esito di un sommario esame anche della situazione di merito che sarà successivamente azionata con il ri- (16) Cfr. sul punto W. FERRANTE, Le misure cautelari nel processo amministrativo, in Rass. Avv. St., 2006, n. 4, 1 ss. Lo stesso è accaduto nel processo cautelare civile, in cui il fumus boni iuris non é esplicitamente dettato da alcuna delle disposizioni di legge che regolano la materia della tutela cautelare, L. LOMBARDO, op. cit. 472. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 343 corso necessariamente da proporre. A tale conclusione deve inevitabilmente pervenirsi per ragioni di ordine sistematico, dato che è proprio dei provvedimenti cautelari indicare i “profili che, ad un sommario esame, inducano ad una ragionevole previsione sull’esito del ricorso” (art. 55, nono comma, del Codice del processo amministrativo). Tale indicazione costituisce elemento necessario del provvedimento cautelare, posto che sulla base di essa potranno essere valutati le eventuali successive istanze di modifica o di revoca dei provvedimenti stessi. Deve conseguentemente ritenersi inammissibile una istanza di misure cautelari ante causam che non contenga alcun elemento che dia conto dell’illegittimità del provvedimento che sarà impugnato. Tali elementi di fumus non dovranno, tuttavia, essere articolati con la puntualità e la completezza richiesti per la proposizione di un ricorso ma dovranno almeno indicare i vizi di legittimità che l’istante ritiene di avere riscontrato. 7. Periculum bilaterale, irreparabilità senza gravità e preminente interesse nazionale (art. 125 c.p.a. 2). L’art. 125 del Codice, al secondo comma, disciplina la materia di provvedimenti cautelari afferenti la realizzazione di infrastrutture strategiche di preminente interesse nazionale. In tale peculiare fattispecie è previsto che il Giudice debba tenere conto anche espressamente “del preminente interesse nazionale alla sollecita realizzazione dell’opera”. In tal caso all’interesse pubblico è conferita un’attenzione particolare, in quanto la norma precisa che la irreparabilità del pregiudizio per il ricorrente debba essere comparata con quello del soggetto aggiudicatore alla celere prosecuzione delle opere. In sede di pronuncia del provvedimento cautelare il giudice deve tenere conto delle probalibili conseguenze del provvedimento per tutti gli interessi che possono essere lesi e tale considerazione dovrà essere tenuta in debita considerazione nella motivazione. Si tratta delle materie sensibili disciplinate dagli artt. 120 ss e che sono regolate dal rito speciale abbreviato. La deroga si spiega a causa della particolarità delle controversie relative a infrastrutture strategiche, insediamenti produttivi e relative attività di espropriazione, occupazione e asservimento. La disposizione era già presente nell’art. 246 del Codice dei contratti pubblici, e anche in leggi pregresse (17). (17) G. VACIRCA, Relazione sull'attività svolta dal TAR Toscana. Significativa al riguardo è stata nell’anno 2002 l’emanazione del d.lgs. 20 agosto 2002, n. 190 in materia di realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi strategici e di interesse nazionale, il cui art. 14 richiede che la valutazione del provvedimento cautelare debba tener conto delle probabili conseguenze del provvedimento stesso per tutti gli interessi che possono essere lesi, nonché del preminente interesse nazionale alla sollecita realizzazione dell'opera e che nel concedere la misura cautelare il giudice non possa prescindere dal motivare anche sulla gravità ed irreparabilità del pregiudizio all'impresa del ricorrente, il cui interesse dovrà comunque essere comparato con quello del soggetto aggiudicatore alla celere prosecuzione delle procedure. 344 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Con la locuzione periculum bilaterale si indica, pertanto, l’esigenza che la valutazione del pregiudizio in sede cautelare non debba essere considerata in stretta correlazione al solo ricorrente, ma anche prendendo in considerazione la posizione dell’amministrazione e degli eventuali controinteressati. La finalità è quella di salvaguardare il pregiudizio altrettanto meritevole di tutela della parte resistente e dei terzi in quanto potrebbero subire un pregiudizio altrettanto meritevole di tutela, dal blocco dell’esecuzione del provvedimento (18). Non vi sono disposizioni esplicite che fanno riferimento a tale valutazione, ma essa si ricava sia dalla citazione “secondo le circostanze”, sia dalla possibilità di disporre, in luogo del provvedimento cautelare di una cauzione sotto forma di fideiussione (19). Al giudice spetta una valutazione bilanciata e comparata degli interessi confliggenti, stabilendo quale posizione debba essere considerata recessiva rispetto all’altra. L’art. 125 comma 2, oltre che richiedere un fumus qualificato richiede anche un periculum particolarmente pregnante. Il giudice, infatti, riguardo al fumus, nelle controversie relative a infrastrutture strategiche deve tenere conto delle probabili conseguenze per tutti gli interessi in gioco che possono essere lesi e del preminente interesse nazionale alla sollecita realizzazione dell’opera. Riguardo al periculum, ai fini dell’accoglimento della domanda cautelare, il giudice valuta non solo la irreparabilità del pregiudizio per il ricorrente, ma deve anche valutare l’esigenza del soggetto aggiudicatore alla celere prosecuzione delle procedure al fine di comparare i due interessi confliggenti (20). In dottrina si è osservato che in taluni casi la sospensione di un provvedimento può risultare strumentale anche all’interesse pubblico generale che può non coincidere con quello particolare della Amministrazione che ha emanato l’atto e che ha ingiustamente preposto il pubblico interesse particolare di cui essa è affidataria a quello generale (21). Il medesimo fenomeno, probabilmente ancora più accentuato, si riscontra in materia elettorale (22). (18) R. LEONARDI, La tutela cautelare nel processo amministrativo, Milano, 2011, 189. (19) E. PICOZZA, Il processo amministrativo, Milano, 2008, 276. (20) Sulla comparazione tra interesse pubblico e sulla prevalenza di quest’ultimo cfr. Cons. St. Sez. V n. 5087/2011 e Tar Lazio - Roma, Sezione II ter del 15 settembre 2011, in www. sospensive online. (21) M.A. SANDULLI, La tutela cautelare nel processo amministrativo, in Foro amm.-Tar, 2009, 9, che cita ad esempio la differenza tra l’interesse alla concorrenza o quello al risparmio di tempo di gara o ad avvalersi di appaltatori sperimentati o altamente specializzati, oppure tra l’interesse all’ambiente e quello dello sviluppo economico o territoriale. (22) F. LILLO, Ottemperanza e riti speciali, in Codice del processo amministrativo, a cura di E. PICOZZA, Torino, 2010, 276, che, in materia elettorale evidenzia come talora entrambe le posizioni delle parti rispondono ciascuna ad un diverso ed inconfondibile interesse pubblico della collettività. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 345 8. La relazione di reciproca interdipendenza tra fumus boni iuris e periculum in mora. Esiste una relazione di reciproca interdipendenza tra fumus boni iuris e periculum in mora. Nel processo cautelare non è possibile, a meno di tradirne la funzione e di trasformarlo in processo, limitarsi ad accertare la sussistenza del fumus boni iuris, ossia la probabilità dell’esistenza del diritto che costituirà o che già costituisce oggetto del processo di merito (23). Sulla base di quanto già disposto dall’art. 21 della legge n. 1034/71 il consolidato orientamento giurisprudenziale collega l’applicabilità della tutela cautelare alla presenza congiunta di entrambi i presupposti (24). La valutazione sulla esistenza del fumus è logicamente anteriore rispetto alla valutazione sulla esistenza del periculum. È al servizio del fumus che viene valutato il periculum. È possibile che esista il fumus ma non il pericolo, in quanto il fumus è variabile e indipendente dal periculum, ma non potrà a rigore mai dirsi che esista il periculum una volta negata l’esistenza del fumus in quanto il pericolo infatti è variabile dipendente dell’esistenza del fumus (25). Nondimeno taluni Tar sospendono a prescindere dalla valutazione del fumus boni iuris, legando la motivazione solo ed esclusivamente al periculum e all’esigenza di mantenere inalterato la situazione di fatto fino alla trattazione del merito del ricorso, e talora esplicitamente specificando di voler prescindere dalle valutazioni in merito alla fondatezza degli elementi di fumus boni iuris (26). In altri casi invece si fa riferimento al periculum in mora ai fini del re- (23) A. PROTO PISANI, voce Provvedimenti cautelari, in Enc. Giur. Treccani, XXIV, Roma 1991, 5; Cfr. MONTESANO – ARIETA, Diritto processuale civile, II, Torino, 1995, 145 che parlano di accertamento meramente probabilistico e di verosimiglianza circa la sussistenza del diritto cautelando. (24) Consiglio di Stato Sez. IV, ord. n. 993/2008: “Considerato, nei limiti di delibazione propri della fase, che l’interpretazione valorizzata dalla P.A. sembra compatibile con il testo del bando; Considerato che il pregiudizio paventato dall’appellato non sembra connotato dal requisito della irreparabilità, potendo lo stesso partecipare al corso immediatamente successivo; Rilevato che il corso in contestazione ha già avuto inizio da tempo. Accoglie l'appello e, per l'effetto, in riforma dell'ordinanza impugnata, respinge l'istanza cautelare proposta in primo grado. Spese al definitivo”. Cfr. anche Consiglio di St. Sez. IV decreto monocratico n. 800/2008 “Ritenuto che dall’ordinanza impugnata n. 867/2007 derivi invece un pregiudizio di estrema gravità per l’Amministrazione, che dovrebbe distogliere immediatamente il ricorrente dal suo attuale incarico…”. Cfr. anche L. PAPIANO, Inaugurazione Tar Parma 2008, in www.giustizia-amministrativa.it: “Le ordinanze vengono motivate, ove possibile, anche in relazione al merito del ricorso, oltre che sul pregiudizio grave ed irreparabile. Pertanto la decisione dell’istanza cautelare, salve le possibili diverse valutazioni della causa in sede di merito, spesso contiene una prognosi sul merito del ricorso, senza alcun vincolo per il successivo giudizio definitivo”. (25) CONSOLO, Il nuovo processo cautelare. Problemi e casi, Torino, 1998, 34. (26) T.A.R. Emilia Romagna – Parma del 30 giugno 2011 n. 283/2011: va sospesa la deliberazione del Consiglio comunale avente ad oggetto “Approvazione di convenzione urbanistica ” con vendita di cubatura, in quanto non ricorrono le condizioni per consentire la piena esplicazione dell'efficacia esecutiva dei provvedimenti impugnati, in relazione al carattere prevalente del danno che subirebbero i ricorrenti dalla stipula della convenzione urbanistica, prima ancora del tempo necessario alla stesura della 346 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 spingimento dell’istanza cautelare ritenendolo determinante, senza alcun riferimento al fumus (27). 9. La misura intermedia prevista dall’art. 55 comma 10: il fumus qualificato dalle esigenze apprezzabili favorevolmente e la pretesa tutelabile adeguatamente solo con la definizione sollecita del giudizio di merito. Il comma 10 dell’art. 55 introduce per la prima volta una misura intermedia: la possibilità per il Tar, se ritiene che le esigenze del ricorrente siano apprezzabili favorevolmente e tutelabili adeguatamente con la sollecita definizione del giudizio di merito, di fissare con ordinanza collegiale la data di discussione del ricorso di merito. Nello stesso senso può provvedere il Consiglio di Stato, motivando sulle ragioni per cui ritiene di riformare l’ordinanza cautelare di primo grado. In tal caso la pronuncia di appello è trasmessa al T.A.R. per la sollecita fissazione dell’udienza di merito. La concessione della suddetta misura richiede, oltre al periculum, la sussistenza di un fumus qualificato da esigenze apprezzabili favorevolmente e, dunque, da una prognosi sommaria accentuata sulla favorevole conclusione del ricorso a favore del ricorrente. Richiede altresì un terzo requisito: la necessità che le ragioni del ricorrente possano essere tutelate in maniera adeguata solo in sede di merito. La precisazione si richiama evidentemente all’intento del legislatore di accentuare la accessorietà e strumentalità della tutela cautelare favorendo la risoluzione definitiva delle controversie in fase di merito eliminando la fase cautelare. Qualora invece il giudice ritenga indispensabile l’adozione delle misure cautelari, concesse sulla base dei requisiti ordinari del danno grave ed irreparabile e del fumus boni iuris, si applica il successivo comma 11 dell’art. 55. La norma, come già previsto dall’abr. art. 3 della l. 205/2000, stasentenza. T.A.R. Emilia Romagna – Parma del 30 giugno 2011 n. 283/2011, che sospende l' aggiudicazione definitiva della gara d'appalto per l'affidamento dei servizi e delle forniture necessarie per l'attivazione e la gestione dell’Unità Logistica Centralizzata dell'Area Vasta Emilia Nord per una durata di 6 anni ed un importo di 30 milioni poiché, a prescindere dalle valutazioni in merito alla fondatezza degli elementi di fumus boni iuris, appare necessario mantenere inalterata la situazione di fatto fino alla trattazione del merito del ricorso, la cui udienza viene contestualmente fissata entro il successivo quadrimestre, stante la necessità di pervenire a un valutazione del merito più approfondita. T.R.G.A. - Sezione di Bolzano del 27 giugno 2011: va sospesa la deliberazione del Consiglio comunale avente ad oggetto “Approvazione di convenzione urbanistica ” con vendita di cubatura, in quanto non ricorrono le condizioni per consentire la piena esplicazione dell'efficacia esecutiva dei provvedimenti impugnati, in relazione al carattere prevalente del danno che subirebbero i ricorrenti dalla stipula della convenzione urbanistica, prima ancora del tempo necessario alla stesura della sentenza. (27) T.A.R. Emilia Romagna – Parma del 30 giugno 2011 n. 278/2011: “considerato che, per essere già state poste in essere le opere contestate, nessun concreto beneficio ricaverebbe la parte ricorrente da un eventuale accoglimento dell’istanza, si respinge la suindicata istanza cautelare”. Cfr. anche T.A.R. Emilia Romagna – Parma del 30 giugno 2011 n. 280/2011 che nel caso di specie respinge in quanto il danno lamentato non presenta i caratteri della gravità ed irreparabilità. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 347 bilisce che l’ordinanza con cui è disposta una misura cautelare fissi la data di discussione del ricorso nel merito. In caso di mancata fissazione dell’udienza, il Consiglio di Stato, se conferma in appello la misura cautelare, dispone che il tribunale amministrativo provveda alla fissazione della stessa con priorità. A tal fine l’ordinanza è trasmessa a cura della segreteria del primo giudice. 10. La ponderazione degli interessi pubblici e privati e il principio di proporzionalità. Il giudizio sulla gravità del danno comporta anche una valutazione, non meno rilevante ai fini dell’adozione del provvedimento di sospensione dell’efficacia dell’atto che coinvolge la proporzione tra il pregiudizio arrecato al ricorrente e il danno che, dalla eventuale ordinanza di sospensione, deriverebbe all’amministrazione. È, dunque, necessario, operare una comparazione del sacrificio del ricorrente dall’esecuzione dell’atto con quello che verrebbe altrimenti imposto all’amministrazione dalla relativa sospensione (28). Da ciò discende che, per considerare giustificata la concessione della misura cautelare, il danno subito dal ricorrente deve essere non solo grave in assoluto, ma anche rivelarsi sproporzionato rispetto al vantaggio che dall’esecuzione dell’atto deriverebbe all’amministrazione. Al giudice è dunque richiesto di prendere in considerazione tutti gli interessi coinvolti, sia privati sia pubblici. Infatti, se l'esame si conclude con la concessione di una misura cautelare, si assicura alla parte ricorrente una tutela (a volte insufficiente), ma correlativamente si potrebbe introdurre nell'attività amministrativa un fattore di incertezza a causa della provvisorietà della pronuncia. In certi casi accade invece che l'accoglimento della c.d. sospensiva sia considerato dal ricorrente una pronuncia definitiva e invocata come tale ai fini dell'attività ulteriore dell'amministrazione. Si può verificare, inoltre, che alcuni indirizzi giurisprudenziali in materia cautelare, tendenzialmente seguiti dal giudice in un numero considerevole di controversie per la forza del precedente, si affianchino alla disciplina legislativa, giungendo a costituire una normativa provvisoria ispirata più alle esigenze di tutela dell'interesse del ricorrente che all'interesse pubblico. L'amministrazione, peraltro, pur animata dall'intento di adeguarsi all'ordinanza, può trovarsi in serio imbarazzo qualora un soggetto controinteressato rispetto all'accoglimento del ricorso si opponga all'esecuzione. Per ovviare a tali inconvenienti, la legislazione, pur riconoscendo l’insopprimibilità della tutela cautelare più volte affermata dalla giurisprudenza della Corte costituzionale tende a limitare il ricorso alla misura cautelare, su- (28) In ogni caso “l'esigenza di un atto motivato non comporta un onere di comparazione fra l'interesse dello straniero e quello pubblico”(Tar Toscana ordinanza n. 62/2004 del 14 gennaio 2003). 348 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 bordinandola in certi casi a una motivazione particolarmente diffusa (29). Il presupposto del periculum deve inoltre identificarsi nel pericolo di danni gravi ed irreparabili che devono altresì risultare imminenti, oltre che concreti. La misura cautelare può essere concessa dal giudice solo in presenza di un concreto periculum in mora e non anche quando il danno sia solo potenziale. Tale presupposto non può ritenersi sussistente allorché l’atto impugnato non sia idoneo a cagionare una lesione effettiva ed attuale. L’istanza cautelare non può infatti trovare fondamento nei riflessi che il provvedimento impugnato potrà avere su altre eventuali situazioni che potranno verificarsi nel tempo. Nell’esperienza del processo amministrativo, quando il giudice ritiene che dalla concessione della misura cautelare possano derivare effetti irreversibili, di regola rigetta l’istanza cautelare proposta dal ricorrente. Ciò, soprattutto in considerazione proprio del fatto che, nel valutare la concedibilità della misura cautelare, il giudice amministrativo è tenuto a bilanciare gli interessi coinvolti nella controversia, valutando con particolare attenzione le interferenze del provvedimento giurisdizionale con il perseguimento del pubblico interesse. *** ** *** PARTE II SOMMARIO: 1. La cautela preprocessuale - 2. Il “finto” contraddittorio del procedimento minicautelare - 3. La notifica - 4. La consumazione del potere presidenziale - 5. La casistica relativa al requisito dell’estrema gravità ed urgenza - 6. La valutazione prognostica del fumus - 7. Il problema della competenza e del forum shopping risolto dal codice - 8. Il rischio della contemporanea vigenza delle misure cautelari ante causam con quelle assunte in corso di causa. 1. La cautela preprocessuale. Il nuovo processo cautelare conferma lo strumento particolarmente innovativo del decreto monocratico inaudita altera parte emesso dal presidente del TAR o dai presidenti di Sezione del Consiglio di Stato, su istanza della parte ricorrente, prima della trattazione della domanda cautelare. L’art. 56 disciplina in modo più organico le misure cautelari monocratiche in corso di (29) G.VACIRCA, Relazione sull'attività svolta dal TAR Toscana, in http://www.giustiziaamministrativa. it/documentazione/studi_contributi/Vacirca1.htm.: “In definitiva, in molti casi la semplice sospensiva, pur essendo un indispensabile strumento di tutela dell'interesse individuale del ricorrente si rivela, nell'ottica dell'interesse pubblico, un mezzo eccessivo e causa di incertezze. Nelle controversie sull'aggiudicazione di appalti o forniture, ad esempio, l'interesse dell'amministrazione è quello di stipulare il contratto alle migliori condizioni e ottenerne in tempi rapidi l'esecuzione. La controversia fra imprese che hanno presentato offerte, spesso non molto diverse, è in realtà un processo fra privati, rispetto al quale l'amministrazione è sostanzialmente indifferente. È, quindi, essenziale e rispondente all'interesse pubblico una definizione estremamente rapida del giudizio”. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 349 causa introdotte per la prima volta dalla legge n. 205 del 2000 che aveva novellato a sua volta l’art. 21 della legge n. 1034 del 1971. Il comma 1 precisa che la richiesta al presidente di disporre le misure cautelari provvisorie deve essere proposta contestualmente alla domanda cautelare, oppure con distinto ricorso. Anche in questo caso il codice sostituisce il termine “ricorso” a quello di “istanza”, utilizzato dalla pregressa normativa. Tenuto conto che la nuova procedura fissata dall’art. 55 per l’assunzione delle misure cautelari collegiali ha previsto termini un po’ più lunghi rispetto al regime precedente per la fissazione della camera di consiglio, è probabile che il ricorso alle misure cautelari monocratiche possa intensificarsi rispetto al passato, potendo verificarsi più frequentemente i presupposti per la loro adozione. Non sono mutati i presupposti per l’assunzione di tali misure cautelari: devono sussistere ragioni di “estrema gravità e urgenza” tali da non consentire neppure la dilazione sino alla data della camera di consiglio per la trattazione delle misure cautelari collegiali. Anche per le misure cautelari vige la condizione di procedibilità già indicata dall’art. 55 del codice, costituita dalla presentazione dell’istanza di fissazione dell’udienza di merito, fatto salvo il caso che l’udienza debba essere fissata d’ufficio. La concessione o il diniego di misure cautelari monocratiche può essere subordinato alla prestazione di cauzione qualora da esso derivino effetti irreversibili. Valgono le considerazioni già formulate per la cauzione prevista anche per le misure cautelari collegiali, con la precisazione che nel caso in esame essa può essere imposta anche qualora la domanda cautelare attenga a diritti fondamentali della persona o ad altri beni di primario rilievo costituzionale. Il decreto non si presta ad impugnazione o riesame ad istanza della parte pubblica, anche se i tempi di definitiva pronuncia cautelare possano essere dilatati da esigenze di integrazione del contraddittorio o di attività istruttoria (1). Il presidente del tribunale, o della sezione cui il ricorso è stato assegnato, può delegare altro magistrato all’assunzione delle misure cautelari monocratiche richieste. (1) Prima della legge n. 205 del 2000, con le ordinanze Sez. V, 28 aprile 1998, n. 181 e 19 maggio 1998, n. 814, il Consiglio di Stato aveva sancito la nullità assoluta del decreto di sospensione emesso dal solo presidente anziché dal collegio, ritenendo che tale decreto fosse stato emesso in assenza di una norma di legge, da un soggetto non investito di potere giurisdizionale, con indebita sottrazione all’Amministrazione del diritto alla difesa. Cfr. Corte di Giustizia delle comunità europee - Sentenza 29 aprile 2004. Per un ampio excursus cfr. D.TARULLO, La tutela cautelare ante causam nel processo amministrativo: un nodo da sciogliere, in www.giustamm.it., il quale evidenzia che “nonostante la chiarezza della littera legis, in singoli casi alcuni Tribunali amministrativi regionali si erano pronunciati ante causam ed inaudita altera parte. In particolare la Sezione III del Tribunale amministrativo regionale della Lombardia si era resa protagonista di una giurisprudenza alquanto innovativa. Già nel 1997 tale Sezione aveva adottato un provvedimento cautelare a carattere preventivo ed in assenza di contraddittorio (ord. 14 novembre 1997 n. 758). 350 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Tale precisazione, introdotta dal Codice, consente di superare i dubbi sorti in ordine alla precedente disciplina, che tale facoltà di delega non prevedeva (2). È da evidenziare che diversamente dallo strumento previsto e disciplinato dall’art. 61 c.p.a. il procedimento minicautelare può essere utilizzato sia nel giudizio di appello avverso ordinanza, che in quello avverso sentenza, essendo teso a porre rimedio nell’attesa della discussione in camera di consiglio e non a fronteggiare una situazione eccezionale (3). Il carattere temporaneo della misura cautelare monocratica ne giustifica la sua non impugnabilità, come già previsto nella precedente disciplina. Pur se non impugnabile, il decreto presidenziale è sempre revocabile o modificabile su istanza di parte (4). 2. Il “finto” contraddittorio del procedimento minicautelare. Ai fini dell’assunzione delle misure cautelari monocratiche non è prevista obbligatoriamente l’audizione delle parti. Queste ultime possono essere sentite fuori udienza, senza formalità dal presidente del tribunale, ai sensi dell’art. 56 comma 2, anche separatamente prima dell’emanazione del decreto. La suddetta audizione può essere effettuata solo se necessario e qualora le parti si siano rese disponibili. Nel caso di mancata costituzione delle parti intimate, che spesso non hanno nemmeno il tempo materiale di costituirsi, l’intervenuta notifica fa salvo il contraddittorio sul piano formale. Del pari è vero che il giudice potrebbe ravvisare eventuali esigenze istruttorie ritenute indispensabili ai fini del decidere. Si tratta di una forma assai impropria di contraddittorio per le caratteristiche che lo connotano, considerato che le parti possono essere sentite anche separatamente e altresì in modo del tutto eventuale, non essendo obbligatorio aderire alla eventuale convocazione del presidente. Si è già detto che il legislatore, con la previsione di un decreto cautelare inaudita altera parte, ha voluto contemperare l’esigenza di celerità del meccanismo processuale, che deve far fronte a situazioni di estrema gravità ed urgenza, con il rispetto di un irrinunciabile tasso minimo di coinvolgimento processuale delle parti diverse dal ricorrente. Il processo amministrativo verte pur sempre sulla tutela del primario interesse pubblico: la ratio perseguita dal legislatore è quella di evitare che il giudice amministrativo possa adottare una qualsiasi misura, anche provvisoria ed interinale, senza che almeno un contraddittore (P.A. o controinteressato) (2) M. ANNONI, Il riordino della tutela cautelare, in giustamm.it, dic. 2010, anno VII, 2. (3) Come ricorda S. DI CUNZOLO, Il procedimento e il regime delle misure cautelari, in AA.VV., La tutela cautelare e sommaria nel nuovo processo amministrativo, a cura di F. FRENI, Milano, 2011, 105. (4) All’istanza di revoca o di modifica si applica la medesima procedura (notifica alle parti, etc.) prevista per la domanda di misure cautelari monocratiche. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 351 sia stato avvisato o messo in condizione di costituirsi. Spesso la costituzione è resa impraticabile dalla ristrettezza dei tempi che non consentono di approntare una difesa neppure embrionale (5). L’impiego della tutela precautelare monocratica che si svolge senza contraddittorio non pare più sollevare dubbi circa la sua naturale vocazione a soddisfare e garantire effettività e certezza del diritto, nelle more della decisione sull’istanza rituale di sospensione od, addirittura, anche prima della sua proposizione. Parte della dottrina si era, in passato, mostrata perplessa, e aveva evidenziato che “se si accedesse all’opinione che il Presidente, senza neppure sentire le parti, possa anticipare la sua opinione sulla sussistenza dei presupposti per la concessione della misura cautelare, si porrebbero dei dubbi di legittimità costituzionale della norma, per contrasto con l’art. 24 della Costituzione” (6). 3. La notifica. La domanda di misure cautelari monocratiche deve essere proposta unitamente alla domanda cautelare collegiale o anche separatamente, a mezzo di autonomo ricorso notificato alle altre parti del giudizio. Valgono per la notifica di tale domanda cautelare le stesse considerazioni formulate in merito all’art. 55. La domanda deve essere indirizzata al presidente o, se notificata successivamente al ricorso, al presidente della sezione cui il ricorso è già stato assegnato. Il secondo comma dell’art. 56 impone al Presidente di verificare, prima di pronunciarsi sulla misura cautelare richiesta, se la notifica del ricorso contenente la richiesta di misure cautelari monocratiche si sia perfezionata nei confronti dell’amministrazione e di almeno uno dei controinteressati (7). Per ragioni di celerità è sempre consentita la notifica del ricorso a mezzo fax, ma in tal caso il ricorso deve essere notificato per via ordinaria entro 5 giorni dalla richiesta delle misure cautelari monocratiche. In assenza di tale adempimento le misure (5) R. LEONARDI, La tutela cautelare nel processo amministrativo, Milano, 2011, 105, il quale osserva che il codice si sforza comunque di garantire il diritto al contraddittorio e ad un giusto processo, ancorché ci si trovi in una fase preliminare del giudizio che ciò nonostante può provocare degli effetti, sui diversi interessi in gioco, di non poco conto. Cfr. anche M. I. LEONARDO e S.TARULLO, Luci ed ombre in tema di tutela cautelare monocratica in www.giustamm.it TAR Lazio, ord. 25 ottobre 2000, n. 9076. (6) V. CAIANIELLO, Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 2003, 737. Per il caso della notifica del ricorso a mezzo posta, il perfezionamento della notifica nei confronti del destinatario può essere oggi provato mediante il servizio internet delle poste di monitoraggio della corrispondenza, al pari di quanto previsto per le misure cautelari collegiali. (7) La dottrina, anche prima del codice, aveva sottolineato l’esigenza di garantire la struttura dialettica tra le parti ed il giusto processo, M.A. SANDULLI, La tutela cautelare nel processo amministrativo, in www.federalismi.it, n. 20/2009, 14 e ss., come ricordato anche da R. LEONARDI, La tutela cautelare nel processo amministrativo, Milano, 2011, 105. Decreto Presid. Tar Em. Ro. – Bologna, Sez. I, n. 597 del 18 luglio 2011 in materia di non superamento dell’esame di maturità che respinge anche in quanto “non risulta perfezionata la notificazione del ricorso al Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, e al Liceo Scientifico”. 352 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 cautelari eventualmente concesse nelle more cessano di avere efficacia. Il termine di 5 giorni è previsto per l’effettuazione della notifica da parte del ricorrente e non per il perfezionamento della stessa nei confronti del destinatario. Si applicano pertanto le regole proprie del perfezionamento della notifica per il notificante (consegna all’ufficiale giudiziario, spedizione a mezzo posta, ecc.), ai sensi dell’art. 56 comma 5. Potrebbe, tuttavia, accadere per fatto non imputabile al ricorrente, che non sia possibile nei termini imposti dall’urgenza del provvedere conseguire l’accertamento dell’avvenuto perfezionamento della notifica nei confronti di alcuni destinatari. Per il caso di notifica del ricorso a mezzo posta, il perfezionamento della notifica nei confronti del destinatario può essere provato mediante il servizio internet delle poste di monitoraggio della corrispondenza (al pari di quanto previsto per le misure cautelari collegiali). Potrebbe però accadere, per fatto non imputabile al ricorrente, che non sia possibile nei termini imposti dall’urgenza del provvedere conseguire l’accertamento dell’avvenuto perfezionamento della notifica nei confronti di destinatari. In tali circostanze l’art. 56 del codice consente al presidente di provvedere, salvo il potere di revoca delle misure adottate. Anche nel regime pregresso il ricorrente non aveva l’obbligo di fornire la prova di tutte le notifiche, ma almeno di una (8). È dunque necessario attendere che sia certa e provata al momento dell’accesso alla tutela cautelare almeno una notifica. Tale soluzione offre un compromesso tra le esigenze cautelari del ricorrente e quelle dei litisconsorti passivi necessari i quali, grazie alla comprovata antecedenza temporale, per quanto minima, della notifica rispetto al provvedimento monocratico, dovrebbero essere posti in grado di contraddire (9). La giurisprudenza ha stabilito che sia da rigettare l’istanza di revoca di un decreto cautelare provvisorio fondata sul mancato perfezionamento della notifica del ricorso introduttivo in quanto circostanza concomitante e non sopravvenuta rispetto ad esso (10). Qualora, infatti, dagli atti di causa risulti la notifica del ricorso introduttivo all’autorità emanante, si realizzerebbe il contraddittorio sufficiente ai fini dell’adozione del decreto presidenziale (11). (8) Cfr. Pres. TAR Calabria Sez. stacc. Reggio Calabria del 14 agosto 2003 (cd. caso del Catania calcio il quale dispone che “la notifica del presente decreto presidenziale agli Enti intimati e alla controinteressata venga effettuata dalla ricorrente anche soltanto a mezzo telefax e, se del caso, per via Telematica (E-Mail) come espressamente previsto dall’art. 12 della predetta legge n. 205/2000 e, genericamente, dall’art. 151 c.p.c”. (9) M. I. LEONARDO e S. TARULLO, Luci ed ombre..., op. cit. (10) T.a.r. Lazio - Roma - Sezione III - Decreto Presidenziale n. 9/2005 del 5 gennaio 2005. (11) T.a.r. Lazio - Roma - Sezione III - Decreto Presidenziale 5 gennaio 2005 n. 9: “È di dubbia ammissibilità la istanza di revoca di un decreto di concessione di misure cautelari provvisorie il termine finale della cui efficacia sia fissato per legge alla pronuncia dello stesso collegio nella prima camera di consiglio utile. È da rigettare l’istanza di revoca di un decreto cautelare provvisorio fondata sul mancato perfezionamento della notifica del ricorso introduttivo in quanto circostanza concomitante e non so- CONTRIBUTI DI DOTTRINA 353 Le ragioni di urgenza devono essere tali da non tollerare neppure la minima dilazione, ossia il tempo di attesa delle notifiche. Tale opzione consente di avere la prova dell’avvenuta notifica in brevissimo tempo, attraverso il cd. rapportino fax e conseguentemente di accedere immediatamente alla cautela, “pur nella quasi certezza (lo si deve riconoscere) che le controparti non avranno il tempo di predisporsi alla difesa” (12). 4. La consumazione del potere presidenziale. Il codice ha voluto fissare con certezza il periodo di durata della misura cautelare monocratica, imponendo al presidente di indicare nel decreto di accoglimento la data della camera di consiglio in cui sarà trattata la domanda di misure cautelari collegiali. Il decreto esplica efficacia solo sino a tale data, anche nel caso che a tale camera di consiglio la domanda cautelare non sia trattata, ovvero non sia rinviata la trattazione (13). Il decreto con cui il Presidente, prima della trattazione della domanda cautelare, dispone le misure cautelari provvisorie ex comma 4 dell’art. 58 (che abroga l’art. 21, l. 6 dicembre 1971 n. 1034), è efficace sino alla pronuncia pravvenuta rispetto ad esso. Quando dagli atti di causa risulti la notifica del ricorso introduttivo all’autorità emanante, si realizza il contraddittorio sufficiente ai fini dell’adozione del decreto presidenziale; che è dubbio che la revoca del decreto presidenziale di concessione di misure cautelari provvisorie, il termine finale della cui efficacia è fissato per legge alla pronuncia del collegio cui la domanda cautelare deve essere sottoposta nella prima camera di consiglio utile, sia ammissibile; che, in considerazione dell’esiguità dei giorni lavorativi che precedono la camera di consiglio del 12 gennaio 2005 fissata per la pronuncia collegiale, non si ravvisa interesse alla richiesta revoca; che comunque il motivo di rito su cui è fondata l’istanza di revoca - mancato perfezionamento della notifica del ricorso introduttivo del giudizio nei confronti della istante… alla data di pronuncia del provvedimento cautelare - costituisce un fatto non sopravvenuto bensì concomitante; che, come risulta dagli atti di causa, alla data di pronuncia del provvedimento cautelare il ricorso introduttivo del giudizio era notificato all’autorità emanante, sicché si era realizzata la situazione di contraddittorio non completo di cui all’art. 21, comma 8, l. n. 1034/71 sub art. 3 l. n. 205/00 che consente la pronuncia del decreto presidenziale (cfr. Corte cost., ord. n. 179 del 2002); che, vertendosi in materia di appalti pubblici, occorre tener conto del fatto che il diritto comunitario immediatamente applicabile impone la tutela cautelare anche ante causam (Corte giust. CE, 15 maggio 2003 in causa C-214/00) e che ciò può influire sulla tipicità del procedimento cautelare come disciplinato dal diritto interno; rigetta l’istanza di revoca”. (12) M.I. LEONARDO e S. TARULLO, op. cit., i quali osservano che de iure condendo sarebbe bene consentire che la difesa delle amministrazioni possa essere affidata a funzionari amministrativi. In base ad una giurisprudenza minoritaria deve ritenersi, anche ai sensi dell’abrogato art. 21, 9º comma, legge Tar, introdotto dall’art. 3, 1º comma, l. n. 205/2000, che la domanda preliminare di sospensione del provvedimento impugnato possa essere accolta con decreto presidenziale anche in assenza di notifica dell’atto introduttivo all’amministrazione ed agli eventuali controinteressati. Il decreto presidenziale di accoglimento della domanda cautelare può infatti essere emesso inaudita altera parte nonostante che, stante l’urgenza, il ricorso non sia stato preventivamente notificato ma solo depositato, al fine di sottoporre l’istanza cautelare all’esame immediato del presidente, T.a.r. Sicilia, sez. Catania [decr. pres.], sez. II, 6 dicembre 2001, n. 32, in Foro amm.-Tar, 2002, 279, con nota di GAVA. (13) In caso di fissazione dell’udienza di merito l’ordinanza collegiale, qualora intenda disporre ulteriormente la sopensione del provvedimento impugnato, deve specificare che il provvedimento cautelare presidenziale è confermato. V. in materia di ammissione con riserva all’esame di maturità Tar Em. Ro. Sez. – Bologna, sez. I, ord. n. 592 del 7 luglio 2011. 354 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 del collegio, cui l'istanza cautelare è sottoposta nella prima camera di consiglio utile. Lo stesso accade nel caso in cui il collegio ritenga di definire il giudizio con sentenza in forma semplificata. In questo caso, sino all’emanazione della sentenza il decreto presidenziale svolge un’efficacia prolungata, ben oltre la data della camera di consiglio. Nel caso invece di ordinanza istruttoria emessa a seguito della camera di consiglio é necessario sospendere espressamente in sede di ordinanza il provvedimento al fine di paralizzarlo. Qualora manchi qualsiasi riferimento espresso, il decreto continua a svolgere i suoi effetti. La funzione dell'intervento monocratico consiste nel fronteggiare interinalmente situazioni nelle quali l'attesa della pronuncia cautelare in sede collegiale possa vanificare la speranza di tutela e, quindi, le misure adottate con il decreto presidenziale rivestono una rilevanza meramente provvisoria, in quanto esse sono destinate ad essere sostituite dall'ordinanza assunta in sede collegiale (14). Pertanto, la definizione del giudizio cautelare, con la reiezione in sede collegiale della domanda cautelare inizialmente accolta con decreto presidenziale, comporta la caducazione degli effetti prodotti dal decreto cautelare ed anche degli effetti prodotti dagli atti che siano stati eventualmente adottati dall'amministrazione per dare esecuzione al decreto presidenziale (15). Qualora il decreto presidenziale, non si limiti ad assumere valore meramente conservativo, mediante la sospensione degli effetti di un atto pregiudizievole, ma rivesta carattere di strumento anticipatorio, attraverso l'imposizione di comportamenti positivi come, ad esempio, nel caso di ammissione con riserva alle gare o ad esami, gli effetti provvisori originati da questi dovranno ritenersi tamquam non essent, in caso di rigetto della domanda cautelare da parte del Collegio (16). Una volta che il Presidente si sia pronunciato, i poteri cautelari passano automaticamente al Collegio. Secondo questa prospettazione, essendo il termine finale di efficacia del decreto provvisorio fissato al dies del vaglio collegiale nella prima camera di consiglio utile, si determina la consumazione del potere presidenziale (17). Di conseguenza è precluso alle controparti svan- (14) T.a.r. Lombardia Milano, Sez. III, 11 novembre 2005, n. 3971, in Foro amm. TAR 2005, 11 3387. T.a.r. Lazio - Roma - Sezione III - Decreto Presidenziale n. 9/2005 del 5 gennaio 2005. Sul carattere di interinalità del decreto monocratico cfr. R. GAROFOLI – G. FERRARI, Manuale di diritto amministrativo, 4 ed., Roma, 2011, 905, il quale argomenta dell’efficacia del decreto limitata fino alla camera di consiglio della fase collegiale. (15) T.a.r. Lombardia Milano,… cit.. (16) T.a.r. Lombardia Milano,… cit.. Qualora con decreto presidenziale sia stata disposta la sospensione delle operazioni di gara con differimento del termine di presentazione delle offerte a data successiva alla camera di consiglio, l'amministrazione non ha l'obbligo di fissare un nuovo termine di scadenza, poiché il provvedimento giurisdizionale comporta la diretta sospensione del decorso del termine in questione, prorogandone la scadenza fino all'esito del giudizio cautelare. (17) M.I. LEONARDO e S. TARULLO, Luci ed ombre in tema di tutela cautelare monocratica nel processo amministrativo, in www.giustamm.it. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 355 taggiate dalla misura interinale, di adire nuovamente la sede monocratica con un’istanza di revoca (18). 5. La casisitica relativa al requisito dell’estrema gravità ed urgenza. L’art. 56 comma 1, ricalcando il dettato di cui all’art. 3 l. n. 205 del 2000, richiede la dimostrazione della estrema gravità e urgenza, tale da non consentire neppure la dilazione sino alla data della camera di consiglio. È opportuno valutare se l’estrema gravità ed urgenza assurga agli estremi della irreparabilità del pregiudizio, ossia se il danno derivante all’attore dalla durata o dalla causa della durata del processo a cognizione sommaria, consista in un danno irreparabile, ovverossia in un danno insuscettibile di essere riparato adeguatamente a posteriori (19). È indispensabile, anche, che il ricorrente indichi e specifichi il tipo di pregiudizio cui andrebbe incontro in caso di man- (18) T.A.R. Lombardia Milano, sez. III, 11 novembre 2005, n. 3970, in Foro amm. TAR 2005, 11 3387. Si segnala sul punto la pronuncia del Consiglio di Stato, Sez. IV, 14 gennaio 2011 n. 186 che, in accoglimento dell'appello dell'Avvocatura Generale, afferma importanti principi in materia di esame di avvocato chiarendo, in particolare, che la nota norma "abilitante" di cui all'art. 4 comma 2 bis d.l. 115/2005 conv., con modificazioni, nella l. 168/2005, presuppone il superamento di una completa procedura di abilitazione (id est : sia delle prove scritte, sia della prova orale) in esecuzione di un'ordinanza cautelare valida ed efficace. Di conseguenza non può trovare applicazione nel caso in cui (come avvenuto nella specie) la candidata, senza aver mai superato le prove scritte, sia stata ammessa direttamente dal TAR in sede cautelare a sostenere la prova orale, poi superata, a nulla valendo la successiva iscrizione all'albo degli avvocati, costituente una sopravvenienza (che non priva il g.a. del potere/dovere di sindacare il presupposto procedimento di abilitazione) destinata a cadere automaticamente (senza neccessità di impugnazione a parte di alcuno) a seguito (della riforma in appello dell'ordinanza propulsiva del TAR, e, comunque,) del rigetto, nel merito, del ricorso di primo grado. Ora il problema è stato risolto sia dal codice processuale amministrativo sia dal codice degli appalti. (19) V. decreto pres. n. 342/2011 TAR. Em. Rom. - Sez. staccata Parma (sezione prima): Ritenuto che è principio pacifico che l’estrema gravità e l’irreparabile urgenza a provvedere, che soltanto giustificano l’adozione di misure cautelari monocratiche da parte del Presidente, non possono essere determinate dall’inerzia o, comunque, dal comportamento processuale di parte ricorrente; Ritenuto, altresì, che parte ricorrente avrebbe potuto tranquillamente utilizzare, attivandosi nei termini utili, delle udienze cautelari collegiali di luglio o, quantomeno, della scorsa udienza collegiale di ieri; Respinge l’istanza di misure cautelari monocratiche proposta dai ricorrenti. V. anche decreto Presid. Tar Em. Ro. Sez. - Bologna, sez. I, n. 600 del 21 luglio 2011 in materia di non ammissione alla classe successiva: lo stato di profonda frustrazione dell’alunno e di grave caduta del senso di autostima che seguono a enormi sforzi profusi nell’anno scolastico non si configurano come un caso di estrema gravità e urgenza, ai sensi dell’art. 56, comma 1 del codice. Cfr. decreto Pres. III sez. TAR Lazio del 31 luglio 2003, che motiva anche in ordine alla capacità riparatoria dell’ordinanza cautelare successiva “considerato che, nelle more della prossima Camera di consiglio, non sussistono le ragioni di estrema gravità ed urgenza prospettate dal ricorrente, in considerazione che il campionato inizia il 7 settembre p.v. ed in relazione alla capacità eventualmente riparatoria e ripristinatoria del provvedimento giurisdizionale anche cautelare… respinge la predetta istanza di misure cautelari provvisorie, tenuto conto anche della natura del pregiudizio prospettato, e fissa la camera di consiglio al 27 agosto 2003 per l’esame della domanda cautelare”. Cfr. anche, sul rilievo di come già normalmente ciò che sia provvisorio in diritto tenda a divenire definitivo di fatto F. CARPI, La tutela d’urgenza fra cautela, “sentenza anticipata” e giudizio di merito, in Riv. dir. proc., 1985, 683, riportato anche da L. QUERZOLA, Tutela cautelare e convenzionale di Bruxelles nella esperienza della Corte di giustizia delle Comunità europee, in Riv. dir. proc. civ., 2000, 184. 356 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 cata sospensione del provvedimento (20). È fatto notorio che nella tutela cautelare l’accertamento è sommario in quanto meramente ipotetico e prescindente dalla acquisizione di risultanze probatorie, per appagarsi di una valutazione della verosimiglianza delle allegazioni fondata su un mero calcolo di probabilità (21). Potrebbe risultare non conforme allo spirito del codice affermare il principio, peraltro avversato anche dalla dottrina processualcivilista che, smantellando oltre misura quelle pur ridotte e quindi tanto più necessarie garanzie delle parti, sia consentita la concessione di misure cautelari sulla base della mera valutazione di verosimiglianza delle affermazioni della parte istante (22), senza necessità alcuna di riscontro oggettivo, ossia probatorio (23). Importante, poi, é verificare se tra la data della no- (20) V. decreto Presid. Tar Em. Ro. Sez. - Bologna, sez. I, n. 597 del 18 luglio 2011 in materia di non superamento dell’esame di maturità che respinge anche in quanto il ricorrente non fa nessuna menzione del motivo per cui risulti indispensibile l’adozione delle misure cautelari e provvisorie che si richiedono. Decreto Pres. f.f. Tar Emilia Romagna, n. 823 del 18 novembre 2003: “Considerato che il ricorrente non ha in alcun modo specificato quale pregiudizio gli deriverebbe, in ipotesi, dal differimento della esposizione faunistica rispetto alla data richiesta, cui non si ricollega, a quanto risulta, alcuna scadenza o preclusione… respinge l’istanza”. (21) F. TOMMASEO, voce Provvedimenti d’urgenza, in Enc. Dir., Milano, 1988, 861. (22) G. MONTELEONE, Diritto processuale civile, 3 ed., Padova, 2002, 1206, si preoccupa di specificare come la tutela cautelare non deve sostituire la cognizione ordinaria, surrettiziamente in modo rapido e sommario il medesimo risultato dell’azione ordinaria, vale a dire la decisione anticipata della controversia. Ad esempio, in materia di immigrazione, risulta evidente che quasi tutti i provvedimenti riguardanti gli stranieri recano, fisiologicamente, un danno grave per il destinatario, costretto in molti casi a fare ritorno al proprio paese di origine. Tale principio, tuttavia, se accolto rischia, non solo di offrire un utile escamotage per aggirare la legge, che non prevede riti speciali innanzi al Giudice Amministrativo (come ad esempio in Francia), ma vanifica, cosa ben più grave, l’attività delle Questure e delle Prefetture che già oberate di lavoro a causa del fenomeno dell’immigrazione, si trovano costrette a svolgere attività aggiuntive onerose, anche dal punto di vista economico, con spreco di risorse umane e materiali. (23) Decreto Pres. f.f. Tar Toscana n. 834 del 31 luglio 2003: i ricorrenti hanno impugnato il decreto del Prefetto di Pistoia di diniego dell’istanza di regolarizzazione e la revoca del permesso di soggiorno rilasciato ad un extracomunitario. I ricorrenti hanno chiesto ed ottenuto da parte del TAR il decreto inaudita altera parte di sospensione dei provvedimenti impugnati. Il suddetto decreto, emesso senza contraddittorio tra le parti e, dunque, senza che le Amministrazioni fossero poste nella condizione di far valere le proprie ragioni, ha sospeso per oltre un mese l’efficacia dei provvedimenti impugnati fino alla camera di consiglio del 9 settembre 2003. Il decreto è motivato solo ed esclusivamente con argomentazione riguardante il danno e grave ed irreparabile. Anche i decreti Pres. f.f. TAR Toscana n. 769 del 19 luglio 2003, Pres. f.f. TAR Toscana n. 833 del 31 luglio 2003, decreto Pres. Tar Lombardia sez. staccata Brescia n. 438 del 21 giugno 2003, e decreto Pres. Tar Lombardia sez. staccata Brescia n. 929 del 29 ottobre 2003 accolgono solo sulla base del periculum in mora. (23 ) Decreto Pres. Tar Emilia Romagna, n. 271/2008: Considerato che grave e irreparabile sarebbe il pregiudizio derivante al ricorrente ove non venisse disposta la sospensione del provvedimento impugnato nella parte in cui dispone l’allontanamento dal territorio dello Stato, fino alla prossima Camera di Consiglio fissata per il 24 aprile 2008; ... accoglie l’istanza”. Cfr. anche Consiglio di Stato - Sezione IV, Decreto Presidenziale 3 luglio 2007, n. 3322: «Considerato che l’ordinanza di primo grado impugnata risale al 21 febbraio 2007 e che le cartelle esattoriali prodotte in giudizio (docc. 15 e 16) sono state notificate il 21 maggio 2007; Ritenuto, pertanto, che la situazione di estrema urgenza dedotta in relazione alla prossima scadenza del termine per il pagamento all’Agente della riscossione (20 luglio 2007) sia prevalentemente imputabile al comportamento processuale della società ricorrente, che ha proposto ap- CONTRIBUTI DI DOTTRINA 357 tifica e il deposito intercorra un certo lasso di tempo: la negligenza del ricorrente deve essere valutata. Sarebbe opportuno verificare, anche, se tra la data di notifica e dell’immediato deposito, il calendario delle udienze TAR preveda un nutrito numero di udienze, anche a brevissima distanza (24). La misura cautelare monocratica é da utilizzare solo in situazioni eccezionali, non altrimenti tutelabili, che insorgano nell’intervallo tra udienze ordinarie già calendarizzate (25). Solo in tale prospettiva la situazione di estrema gravità e urgenza legittima l’intervento cautelare presidenziale: essa deve dipendere da cause oggettive e pello con atto depositato il 28 giugno 2007; considerato, altresì, che è possibile esaminare la domanda cautelare in sede collegiale nella camera di consiglio del 17 luglio 2007, anteriore alla scadenza predetta, rigetta l’istanza di misure cautelari provvisorie». Ed inoltre cfr. decreto Pres. TAR Toscana n. 1036 del 17 ottobre 2003 “Considerato che il ricorrente ha impugnato il diniego di regolarizzazione del cittadino albanese Z., il quale richiama il diniego di nulla osta del Questore di… motivato autonomamente con un'espulsione con accompagnamento alla frontiera e con la sussistenza della fattispecie di cui all'art. 13, comma 13, d. lgs. n. 286 del 1998 e successive modificazioni (rientro in Italia senza speciale autorizzazione del Ministro dell'interno); considerato che il ricorrente, datore di lavoro, non prospetta un pregiudizio di estrema gravità a lui personalmente riferibile; considerato, altresì, che non sussiste una estrema urgenza, atteso che il provvedimento, notificato il 22 luglio 2003, è stato impugnato con ricorso notificato il 18 settembre 2003 e depositato il 15 ottobre 2003; considerato che la prima camera di consiglio utile alla trattazione collegiale dell’istanza cautelare, incidentalmente proposta con il ricorso sopra indicato, è fissata per il giorno 28 ottobre 2003 p.v. ... respinge l’istanza di misure cautelari provvisorie presentata nel ricorso di cui in epigrafe”. (24) Cfr. Decreto presid. Tar Bologna II Sez. n. 770 del 26 settembre 2011: respinge l’istanza di sospensione relativa all’impugnazione del provvedimento di non ammissione dell’alunno alla classe liceale successiva, in quanto il ricorso risulta depositato dopo l’inizio dell’anno scolastico, nonché del limitato lasso di tempo (17 giorni) intercorrente dalla data della camera di consiglio per l’esame collegiale dell’istanza cautelare ordinaria. Cfr. Tar Bologna II Sez., decreto n. 790/2007: «… rilevato che non appare sussistere una situazione di “estrema gravità ed urgenza” quale è richiesta dalla norma di cui all’art. 3 L. n. 205/2000 nel breve lasso di tempo intercorrente dalla già fissata camera di consiglio del 13 dicembre 2007 per l’esame dell’istanza cautelare ordinaria, avuto riguardo alla prolungata durata del corso in oggetto (nove mesi), già iniziato dal 28 setembre 2007; rilevato altresì che la richiamata norma di cui all’art. 11 d.m. n. 245/99 (v. ricorso, pag. 17) non sembra applicabile alla fattispecie in esame, avendo essa esclusivamente riguardo a “comprovata causa di malattia o gravi e documentati motivi di carattere privato riconosciuti dallo stato maggiore della Difesa” pacificamente inesistenti nel caso in oggetto e che comunque parte ricorrente non precisa quale sarebbe la data effettiva di scadenza del termine indicato dalla norma predetta, limitandosi ad affermare genericamente che essa sarebbe “a breve”». Cfr. al riguardo decreto Pres. TAR Toscana n. 1092 del 6 novembre 2003 “Considerato che nel brevissimo intervallo di tempo intercorrente tra il deposito del ricorso e la riunione del Collegio in camera di consiglio non sono configurabili danni di estrema gravità … respinge l’istanza di misure cautelari provvisorie” e decreto Pres. TAR Toscana n. 446 del 5 maggio 2003 “… considerato che è possibile esaminare tempestivamente l’istanza cautelare in sede collegiale… respinge…). Cfr. anche decreto Pres. f.f. Tar Toscana n. 1079 del 6 novembre 2003 “Ritenuto, infine, che il periodo di tempo intercorrente per la trattazione Collegiale della domanda di sospensiva non è tale da arrecare pregiudizio all’interesse del Consorzio ricorrente” e Decreto pres. TAR Lazio II Sez. bis, del 31 ottobre 2003: “Considerato che non sussistono le ragioni di estrema gravità ed urgenza prospettata dai ricorrenti e richiesta dalla predetta disposizione quale presupposto per la tutela cautelare anticipata, essendo utile anche ai fini della tutela cautelare ordinaria invocata la prossima Camera di Consiglio del 10 novembre 2003… respinge …”. (25) Decreto presid. Tar Bologna I Sez. n. 885 del 20 ottobre 2011 sempre in materia di impugnazione di provvedimento di non ammissione alla classe successiva. 358 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 non già divenire tale per ritardo o inerzia dell’interessato. Ne consegue che non potrebbe darsi luogo alla tutela monocratica allorché “la scansione temporale degli eventi lasci ampio margine per la deliberazione della causa in sede collegiale, previa eventuale istanza di abbreviazione dei termini per la trattazione del ricorso durante la prima camera di consiglio utile” (26). Vero è che la controparte potrebbe chiedere l’istanza di anticipazione dell’udienza, se ritenesse che il proprio caso sia così urgente ed indilazionabile (27). È infatti, onere della controparte, vista l’urgenza, effettuare celermente la notifica del ricorso senza attendere la scadenza ultima, soprattutto nel caso in cui non si ricorra all’abbreviazione dei termini, e di depositare lo stesso in tempi ristretti al fine di poter ottenere la trattazione dell’udienza cautelare quanto prima (28). Ciò, in particolare, nei casi in cui la redazione del ricorso non presenti difficoltà tecniche rilevanti. Invece, spesso, si opta per la soluzione più comoda ma meno garantista per lo svolgersi di un processo equo. Opportuno, sarebbe contemperare sempre il danno derivante al ricorrente con il prevalente interesse pubblico (29), sia ai fini del rigetto sia ai fini dell’accoglimento (30). (26) V. Pres. II Sez. Em. Romagna n. 547/11 del 24 giugno 2011 che respinge l’istanza facendo riferimento alla fissazione a breve della camera di consiglio cautelare nonché alla prevalenza, nella fase preliminare, dell’interesse pubblico alla sicurezza collettiva in considerazione dei precedenti penali del ricorrente. V. anche Pres. I Sez. TAR Lombardia n. 1192 del 24 aprile 2001, il quale ritiene che nella comparazione degli interessi in gioco prevale la tutela dell’interesse pubblico (in materia di ripristino ambientale). In dottrina, F. CARINGELLA, Corso di diritto processuale amministrativo, Milano, 2003, 1078. (27) V. decreto monocratico Tar Em. Rom. Sez. Parma n. 186/2011 del 2 maggio 2011: “Ritenuto che allo stato, non sussistano le condizioni di estrema gravità ed urgenza necessarie per l’adozione di un provvedimento monocratico, in quanto non risultano emanati provvedimenti consequenziali; ritenuto inoltre che l’inerzia della parte sul piano processuale non può valere come motivo idoneo a determinare situazioni di urgenza… respinge l’istanza cautelare provvisoria”. (28) Cfr. decreto Pres. TAR Toscana n. 1213 del 27 novembre 2003 “Considerato che il danno derivante dal mancato rilascio dei due nulla osta all’assunzione non è talmente grave da comportare l’adozione di un provvedimento provvisorio senza contraddittorio e che il provvedimento, notificato il 19 settembre 2003, è stato impugnato alla scadenza del termine (18 novembre); Considerato che nel periodo 19 settembre 2003-26 novembre 2003 si sono tenute numerose camere di consiglio nelle quali il ricorso con istanza cautelare, se fosse stato proposto con maggiore tempestività, avrebbe potuto essere esaminato collegialmente… respinge…”. (29) Cfr. anche decreto Pres. f.f. TAR Sicilia del 2 settembre 2003; Cfr. G.VACIRCA, Relazione sull’attività svolta dal TAR Toscana, in www.giustizia amministrativa.it/documentazione/studi_contributi/ vacircal.htm “… Significativa al riguardo è stata nell’anno 2002 l’emanazione del d.lgs. 20 agosto 2002, n. 190 in materia di realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi strategici e di interesse nazionale, il cui art. 14 richiede che la valutazione del provvedimento cautelare debba tener conto delle probabili conseguenze del provvedimento stesso per tutti gli interessi che possono essere lesi, nonché del preminente interesse nazionale alla sollecita realizzazione dell'opera e che nel concedere la misura cautelare il giudice non possa prescindere dal motivare anche sulla gravità ed irreparabilità del pregiudizio all'impresa del ricorrente, il cui interesse dovrà comunque essere comparato con quello del soggetto aggiudicatore alla celere prosecuzione delle procedure”. Il bilanciamento degli interessi delle parti nella domanda cautelare è un requisito valutato nei processi dei vari ordinamenti. Cfr., per quanto riguarda il processo comunitario, M.BIAVATI - F.CARPI, Diritto processuale comunitario, Milano, 2000, 294; L. QUERZOLA, Tutela cautelare e convenzione di Bruxelles nell’esperienza della Corte di giustizia CONTRIBUTI DI DOTTRINA 359 In taluni casi la concessione del decreto cautelare diventa motivo di respingimento dell’istanza cautelare proprio per la possibilità che l’istante ha avuto nel lasso di tempo concesso di ovviare agli eventuali danni causati dall’attesa della camera di consiglio collegiale (31). 6. La valutazione prognostica del fumus. Relativamente alla genesi, il decreto monocratico parte dal presupposto della generale applicabilità al processo cautelare amministrativo del modello di cui agli artt. 669, bis e ss. c.p.c. 669 quaterdecies c.p.c., riguardanti i processi cautelari in generale. Ed, invero, i procedimenti cautelari sono regolati dal codice tra i procedimenti sommari: la loro funzione è la conservazione o tutela di situazioni giuridiche, assicurando la cd. res adhuc integra. La caratteristica strutturale della tutela cautelare è la provvisorietà, l’inidoneità a dettare una disciplina definitiva della vertenza: il provvedimento cautelare viene emanato sulla base di una cognizione sommaria, di un giudizio di probabilità e verosimiglianza (32). Per quanto riguarda gli obblighi motivazionali, il tenore del decreto non può avere riguardo unicamente al periculum, che peraltro costituisce il presupposto più rilevante per l’accoglimento della domanda, ma deve altresì considerarsi la sussistenza del fumus giuridico. È opportuno porsi il problema se il fumus debba essere valutato anche in sede di emissione di decreto monocratico. A dire il vero, seguendo l’interpretazione che è sempre stata data alla tutela cautelare, sembra che non ci siano dubbi sulla sua valutazione (33). delle Comunità europee, in Riv. dir. proc. civ., 2000, 805 ss. Per quanto attiene al processo civile cfr.A. PROTO PISANI, Chiovenda e la tutela cautelare, in Scritti per Mario Nigro, Milano, 1991, 408. (30) Cfr. in tal senso i primi decreti emessi dopo, l’entrata in vigore della l. n. 205 del 2000: decreto Pres. f.f. TAR Toscana, n. 276 del 14 marzo 2003. Cfr. decreto Pres. ff. Tar Toscana n. 1079 del 4 novembre 2003 ”Ritenuto pertanto che il pregiudizio dedotto appare connotato da elementi certi di estrema gravità ed urgenza e che il periodo di tempo intercorrente per la trattazione collegiale della domanda di sospensiva non è tale da arrecare pregiudizio all’interesse dell’amministrazione…”. Oppure decreto Tar Emilia-Romagna n. 126/2007 del 23 febbario 2007, R.G. 203/2007: “ritenuto, che - nella presente fase - nella comparazione dei contrapposti interessi appare necessariamente prevalente la tutela dell’interesse pubblico alla sicurezza collettiva rispetto all’interesse privato fatto valere in giudizio, respinge l’istanza”. (31) Cfr. Tar Em. Rom. Sez. Parma ord. n. 277/2011 che respinge in quanto il “protrarsi dell’occupazione dell’alloggio di servizio, anche per effetto della misura cautelare monocratica, ha consentito al ricorrente di fruire di un tempo sostanzialmente congruo per la ricerca di soluzioni alternative”. (32) Si precisa, per completezza, che il codice di procedura civile prevede da un lato provvedimenti sommari non cautelari, come i decreti ingiuntivi e dall’altro i provvedimenti sommari cautelari, ossia quelli strumentali, tra cui rientrano l’ordinanza cautelare e il decreto monocratico. (33) Tale necessità è espressa ormai, senza dubbi, dalla dottrina, cfr. D. DE CAROLIS, La tutela cautelare: le misure cautelari, presidenziali e collegiali tra atipicità ed effettività della tutela, in Il nuovo processo amministrativo dopo due anni di giurisprudenza, a cura di F. CARINGELLA, M. PROTTO, Milano, 2002, 273. 360 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Dall’esame dei vari decreti è emerso, nel passato, un andamento discontinuo: talora il fumus non è stato valutato, talaltra è stato preso in esame ai fini dell’accoglimento, o del rigetto (34). In realtà l’esame del fumus dovrebbe essere effettuato sempre, sia in caso di rigetto che di accoglimento (35). È vero, tuttavia, che il fumus deve essere adeguatamente motivato, visto anche il tenore della norma che richiede che il decreto venga motivato: non sarebbe, dunque, sufficiente, una mera clausola di stile (36). La tendenza, a volte, sembra quella di invocare il fumus quando ciò è strumentale ad accogliere (37), e non a rigettare. Ed invero, quasi l’ottanta per cento dei ricorsi vengono proposti sulla base di un prospettato grave danno: è essenziale provare anche il fumus altrimenti, fisiologicamente, buona parte delle istanze di decreto monocratico o di sospensiva dovrebbero essere accolte solo sulla base del danno grave, considerati la tipologia ed il carattere del processo amministrativo cautelare. Che il requisito del fumus debba in ogni modo essere valutato, è principio consolidato anche nella dottrina processualcivilista: anzi, ivi si registra la tendenza a richiedere un “giudizio più completo e meditato” del fumus, con una progressiva attenuazione, sino all’eliminazione, del presupposto del periculum in mora (38). Anche la dottrina amministrativistica è ormai attestata sull’esi- (34) Decreto n. 695/2003 Pres. f.f. TAR Marche: salvo ed impregiudicata ogni valutazione circa il fumus. (35) In tal senso v. decreto Pres. Tar Toscana n. 1078/2003, che respinge “ritenuto che, a un primo sommario esame, il ricorso non sia provvisto di sufficiente fumus boni iuris”. Cfr. anche il decreto (di accoglimento) Pres. TAR Toscana n. 303 del 24 marzo 2003 e n. 386 dell’11 aprile 2003. Il decreto n. 1078 del 3 novembre 2003 del Pres. TAR Toscana citato nel testo è di rigetto. Cfr. in tal senso anche decreto Pres. f.f. TAR Toscana n. 1079 del 7 novembre 2003 “il pregiudizio grave ed irreparabile risulta genericamente individuato nella eventualità che il contratto di permuta conseguente alla precitata deliberazione sia perfezionato in data anteriore alla prima udienza utile fissata per la trattazione in sede collegiale della domanda cautelare; lo stesso interesse soggettivo, destinato ad essere inciso dal gravato provvedimento, mostra, quanto meno agli effetti del richiesto provvedimento monocratico, di essere a sua volta correlato ad una generica aspettativa a partecipare ad un procedimento concorsuale, finalizzato alla aggiudicazione del bene in proprietà del Comune, senza che sia fornito alcun principio di prova od argomentazione intesi a rendere concretamente "visibile" siffatto interesse”. Cfr. anche decreto Pres. Tar Toscana n. 1091 del 6 novembre 2003 “Considerato che l’esercizio della facoltà di sospensione in via cautelativa dell’attività, di cui all’art. 31, comma 6, l. reg. 3 novembre 1998, n. 78 deve essere adeguatamente motivato; considerato che nel provvedimento e nella relazione tecnica del 2 ottobre 2003 ivi richiamata non sono indicate concrete situazioni di pericolo idrogeologico o ambientale; vista la documentazione attestante i gravissimi danni derivanti dalla sospensione della fornitura di materiale a imprese di costruzione, rigetta l’istanza”. (36) Cfr. il decreto Pres. f.f. Tar Campania. (37) Tar Brescia 1149/2003. (38) E.F. RICCI, Profili della nuova tutela cautelare amministrativa del privato nei confronti della PA, in Dir. proc. amm., n. 2 del 2003, 299 e 301. Va concessa la misura cautelare provvisoria di cui all'art. 21 comma 9 l. n. 1034 del 1971, chiesta dal destinatario di un provvedimento comunale di sospensione temporanea dell'attività di vendita al dettaglio che esaurirebbe i suoi effetti prima dell'udienza cautelare di trattazione, in quanto, in disparte i profili di fondatezza del ricorso, detto provvedimento è CONTRIBUTI DI DOTTRINA 361 genza che la valutazione del fumus sia imprescindibile (39). È da attenzionare lo squilibrio che si può determinare in danno del destinatario passivo della misura cautelare monocratica, quasi sempre emanata in assenza di contraddittorio (40), anche perché il dato normativo prevede espressamente l’obbligo di motivazione del decreto del presidente. La motivazione non dovrebbe risolversi in una mera clausola di stile non argomentata, anche al fine di evitare disorientamenti in capo alle Amministrazioni. Anche perché, è bene precisare che l’impatto di tali provvedimenti di sospensione nei confronti di Amministrazioni è molto più forte di quello che può essere percepito da chi di mestiere si occupa tutti i giorni del processo amministrativo. La percezione, infatti, può sostanziarsi in una sorta di atteggiamento di resa o, comunque, di disorientamento circa l’attività posta in essere nonché della bontà dell’operato da parte delle Amministrazioni che hanno speso notevoli energie sia materiali sia economiche per giungere all’emanazione dei provvedimenti impugnati. Emerge, sicuramente, la tendenza dei giudici a considerare la sussistenza di entrambi i presupposti al fine di accogliere o meno la domanda, “dando una certa prevalenza alla prova della estrema gravità e urgenza, peraltro da accertare caso per caso” (41). L’accostamento e la contiguità tra tutela sommaria cautelare giustificata da ragioni di urgenza di effettività della tutela e la sommarietà dell’accertamento del diritto controverso si rendono, dunque, imprescindibili. La corretta percezione della pericolosità propria della eventuale irreversibilità degli effetti prodotti dal provvedimento cautelare, ossia della gravità del pregiudizio che un provvedimento cautelare può arrecare al convenuto che risulti vittorioso al termine del processo di cognizione piena, deve influire, a partire dal giudice monocratico, anche nel senso di una accurata valutazione del fumus, deve stimolarlo a contenere la sommarietà della cognizione in punto di fumus: solo così è possibile di fatto limitare il rischio di ribaltamento del giudizio nel processo a cognizione piena (42). indubbiamente produttivo di un danno particolarmente grave e di difficoltoso ristoro, tenuto anche conto che alla sanzione inflitta con lo stesso provvedimento potrebbe essere poi data agevole esecuzione ove il procedimento cautelare avesse esito sfavorevole per il ricorrente (T.A.R. Veneto, Sez. III, 24 ottobre 2005, n. 842, in Foro amm. TAR 2005, 10 3107). (39) Cfr. per tutti, ABBAMONTE - LASCHENA, Giustizia Amministrativa, vol. XX del Trattato di Diritto Amministrativo, diretto da Santaniello, Padova, 2001. (40) “Può accadere, inoltre, che alcuni indirizzi giurisprudenziali in materia cautelare, tendenzialmente seguiti dal giudice in un numero considerevole di controversie per la forza del precedente, si affianchino alla disciplina legislativa, giungendo a costituire una normativa provvisoria ispirata più alle esigenze di tutela dell'interesse del ricorrente che all'interesse pubblico… In definitiva, in molti casi la semplice sospensiva, pur essendo un indispensabile strumento di tutela dell'interesse individuale del ricorrente, si rivela, nell'ottica dell'interesse pubblico, un mezzo eccessivo e causa di incertezze”, G. VACIRCA, op. cit. (41) F. D. DE CAROLIS, La tutela cautelare…, op. cit., 275. (42) A. PROTO PISANI, Procedimenti cautelari, in Enc. Giur. 4. 362 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 Tanto più che la fase cautelare successiva non si presenta come una fase a cognizione piena, ma si basa, ancora una volta, sulla valutazione del fumus (43). Sul requisito del fumus, dunque, la dottrina è unanime nel considerarlo imprescindibile, sia pure con una pregnanza maggiore attribuita al periculum (44). Il bilancio di questo decennio registra, comunque, che il decreto monocratico è stato concesso con parsimonia dal giudice amministrativo sia di primo che di secondo grado, proprio a causa dell’assenza di contradditorio (45). 7. Il problema della competenza e del forum shopping risolto dal codice. Riguardo alla competenza, come abbiamo visto, il codice introduce una rilevante novità: il presidente del tribunale prima di assumere la misura cautelare monocratica richiesta deve accertare la competenza del tribunale medesimo. È dunque da escludersi la possibilità di una tutela cautelare “autosufficiente”, cioè tale da comportare l’acquisizione di risultati definitivi o irreversibili che renderebbero del tutto inutile la pronuncia definitiva nel merito del ricorso (46), in quanto non è questa la ratio e la finalità di tale misura. Come (43) A. PROTO PISANI, op. cit., 4. (44) “Trattasi di valutazioni di estrema delicatezza, ma a valutazioni di queste specie è affidata l’attuazione equilibrata della garanzia costituzionale dell’effettività del diritto di azione e del diritto di difesa”, A. PROTO PISANI, op. cit., 4. (45) Per comprendere il grado di improcastinabilità del rimedio, richiesto dalla giurisprudenza, si possono citare i numerosi decreti cautelari emessi dal Presidente di sezione del Consiglio di Stato e successivamente confermati dal Collegio il giorno prima dell’inizio delle prove scritte del concorso notarile in relazione all’ammissione con riserva, disposta dal T.A.R., di tutti coloro che avevano commesso un solo errore alla preselezione informatica. La quasi totalità dei ricorrenti esclusi per aver commesso un errore nella prova preselettiva avevano proposto ricorso, così vanificando l’intento del legislatore di limitare l’accesso alla procedura concorsuale al fine di assicurare un più celere ed efficiente svolgimento. L’effetto delle massicce ammissioni con riserva, con sostanziale disapplicazione della legge, è stato reputato dal Consiglio di Stato tale da legittimare l’adozione di provvedimenti monocratici inaudita altera parte a tutela non solo dell’interesse dell’amministrazione ad un regolare svolgimento della procedura concorsuale ma anche di tutti coloro che avevano legittimamente superato la prova preselettiva e che avevano visto ampliarsi, oltre i limiti consentiti dalla normativa vigente, il numero dei concorrenti a fronte di un ristretto numero di posti banditi. V. W. FERRANTE, Le misure cautelari nel processo amministrativo, in Rass. Avv. St., 2006, v. 4, 1 ss.. (46) T.A.R. Sicilia-Sezione staccata di Catania I sezione - sentenza n. 1490/2005 decreto 1282/2005: con D.P. n. 1282 del 9 settembre 2005 è stata accolta la domanda di misure cautelari provvisorie, in considerazione della concessione di decreti cautelari monocratici, in pari data, da parte del Presidente della Sez. II del T.A.R. Lazio Roma in ordine ad analoghe ordinanze sindacali, al fine quindi di conferire un assetto giurisdizionale uniforme per garantire in via provvisoria la par condicio tra le squadre partecipanti. Nella camera di consiglio del 27 settembre 2005 il ricorso, chiamato per la trattazione della domanda cautelare, è passato in decisione ai sensi dell'articolo 26 della legge numero 1034 del 1971, su concorde richiesta delle parti di decisione in forma semplificata, essendo cessata ormai l’esigenza cautelare. Preliminarmente, il Collegio osserva che, nonostante l’irreversibilità degli effetti del D.P. n. 1282/2005, in virtù del quale, sospesa l’ordinanza impugnata, è stata disputata la partita in questione, per cui il conseguimento dell’utilità immediata garantita dalla misura cautelare ha determinato la definitività degli effetti, in considerazione dell’esaurimento in un brevissimo arco temporale dell’efficacia spiegata dalla misura cautelare stessa, il Collegio non può essere spogliato del potere decisorio, tanto più quando la misura cautelare è stata adottata con decreto monocratico da sottoporre al T.A.R. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 363 già detto l’ultima parte del 1° comma dell’art. 56 del c.p.a. dispone infatti che il presidente provveda sulla domanda solo se ritiene la competenza del Tar, altrimenti rimette le parti al collegio per i provvedimenti di cui all’art. 55, comma 13 in materia di regolamento di competenza. Lo stesso disposto è stato introdotto in relazione al procedimento cautelare ante causam ex art. 61: il comma 3 del medesimo articolo dispone che l’incompetenza del giudice sia rilevabile anche d’ufficio. Il fenomeno del c.d. forum shopping andava sicuramente arginato in relazione alla tendenza di alcuni T.A.R. ad affermare, talvolta proprio con decreto cautelare inaudita altera parte ex art. 9 l. 205/2000 abr., la cessazione della materia del contendere a seguito dell’esecuzione della misura cautelare con effetti provvisoriamente satisfattivi per il ricorrente. Il frequente ricorso al c.d. forum shopping era uno dei tanti motivi per cui il Consiglio di Stato aveva ritenuto inammissibile la introduzione del decreto inaudita altera parte. La scissione tra tutela cautelare e tutela di merito sembra infatti porsi in contrasto con il principio di cui all’art. 25 Cost. del giudice naturale precostituito per legge. È necessario che il giudice valuti la sussistenza delle condizioni dell’azione che sono, come per ogni altra azione giudiziaria, la legitimatio ad causam, l’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c., l’esistenza della situazione giuridica fatta valere (interesse legittimo o diritto soggettivo) (47). Secondo un filone giurisprudenziale invero minoritario, il presidente del TAR, adito in via di assoluta urgenza, poteva provvedere monocraticamente ordinando un facere nominando commissari ad acta, con ampi poteri sostitutivi, che utilizzino la collaborazione, nella sua istituzionale composizione collegiale, e considerato, oltretutto, che le stesse parti hanno chiesto concordemente la definizione del ricorso con sentenza. Di fatti, la tutela cautelare ha natura strumentale rispetto alla pronuncia che definisce il giudizio nel merito, trattandosi di una “tutela mediata” che, secondo un notissimo quanto autorevole orientamento dottrinario, serve più che a far giustizia a garantire l’efficacia pratica della sentenza definitiva che servirà, a sua volta, ad attuare il diritto. Di guisa che deve escludersi la possibilità di una tutela cautelare “autosufficiente”, cioè tale da comportare l’acquisizione di risultati definitivi o irreversibili che renderebbero del tutto inutile la pronuncia definitiva nel merito del ricorso. Ciò posto, nel merito, il ricorso si appalesa infondato, e tanto esime dal prendere in esame l’eccezione di inammissibilità sollevata dalla difesa del Comune. Secondo un orientamento giurisprudenziale nell’ipotesi in cui l’urgenza del caso non consenta l’adozione di misure cautelari provvisorie intese a differire l’attività amministrativa sino alla prima camera di consiglio utile in modo da poter rimettere al collegio la res adhuc integra, è possibile esaminare la controversia stessa pur nella consapevolezza che gli effetti dell’eventuale adozione del decreto presidenziale di concessione di misure cautelari urgenti inaudita altera parte, ai sensi dell’art. 21 l. 6 dicembre 1971 n. 1034, nel testo sostituito dall’art. 3 l. 21 luglio 2000 n. 205 potrebbe produrre effetti comunque irreversibili. Cfr. anche Cons. giust. amm. sic., [decr.], 22 maggio 2002, n. 9, in Cons. Stato, 2002, I, 1439. (47) L. IEVA, Sull’interesse ad agire negli appalti pubblici nella prospettiva del diritto comunitario (Nota a C. Stato, Sez. V, 10 ottobre 2006, n. 6026, Soc. Giesse ’84 c. Prov. Cuneo), in Urbanistica e appalti, 2007, 207. Cfr. anche M. INTERLANDI, Brevi riflessioni sui recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di ampliamento della legittimazione ad agire nel processo amministrativo, in Giust. amm., 2006, 1299 ss.; A. CORSARO, Processo amministrativo: rapporti tra regolamento di competenza e tutela cautelare (Nota a Cons giust. amm. sic., sez. giurisdiz., ord. 28 luglio 2004, n. 661), in Foro amm.-Cons. Stato, 2004, 2307. 364 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4/2012 anche forzata, manu militari, dei presidenti, dirigenti e funzionari delle amministrazioni coinvolte (48). Ai sensi degli art. 2 e 3 l. 1034/71, spetta al Tar del Lazio la competenza a conoscere del ricorso avverso un provvedimento di un ente pubblico a carattere ultraregionale avente sede a Roma (49). 8. Il rischio della contemporanea vigenza delle misure cautelari ante causam con quelle assunte in corso di causa. Merita alcune considerazioni il tema della contemporanea vigenza delle misure cautelari ante causam con quelle assunte in corso di causa. L’art. 61, quinto comma, prevede che le misure cautelari ante causam perdono efficacia con il decorso di sessanta giorni dalla data del provvedimento di accoglimento “dopo di che restano efficaci le sole misure cautelari che siano confermate o disposte in corso di causa”. La previsione della permanenza dell’efficacia (“restano efficaci”) delle misure assunte in corso di causa alla data di cessazione dell’efficacia delle misure cautelari ante causam presuppone che le stesse, almeno in ipotesi, siano state assunte precedentemente alla scadenza di quelle adottate ante causam e che anch’esse abbiano efficacia dal momento della loro adozione. Posto che, per quanto sopra osservato, le misure cautelari ante causam hanno una funzione limitata e strumentale alla proposizione del ricorso con la relativa domanda di misure cautelari in corso di causa e pertanto possano avere un contenuto in tutto o in parte differente da quelle assunte in corso di causa (preordinate ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso) è ben possibile che in un dato momento coesistano più provvedimenti cautelari parimenti efficaci ma non del tutto consonanti tra loro. L’autonomia e l’esclusività del potere monocratico riconosciuto al Presidente del tribunale amministrativo nell’assunzione dei provvedimenti cautelari ante causam porta ad escludere che i provvedimenti cautelari adottati in corso (48) Sono risalenti i casi più eclatanti, cfr. T.a.r. Calabria - Reggio Calabria - decreto presidenziale 14 agosto 2003 n. 1546. Nel caso di specie il facere è costituito dalla iscrizione di una squadra di calcio al campionato. Con il decreto monocratico infatti si sospende la delibera del Consiglio federale che ammette una squadra (Calcio Napoli) al campionato di calcio di serie B ritenendo garantito un debito finanziario attraverso fideiussioni rivelatesi nulle; nel contempo va ammessa con riserva al medesimo campionato la squadra (Catania calcio) controinteressata. (49) C. Stato, Sez. VI, 7 ottobre 2003, n. 5930. Cfr. anche Cons. Stato, Sez. VI, 9 giugno 1994, n. 979, in Foro Amm., 1994, 1461: Spetta al Tar Lazio, a norma dell'art. 3 l. 6 dicembre 1971 n. 1034, la cognizione di ricorso avente per oggetto atti (ammissione al campionato nazionale dilettanti delle società A.C. Arezzo, calcio club Catania, A.S. Ternana calcio, SCFC/Casertana calcio, Taranto calcio, A.S. Messina calcio e non ammissione della società Frattese club), che hanno effetto su tutto il territorio nazionale e la cui efficacia non può essere limitata al luogo di residenza dei ricorrenti; Cons. Stato, Sez. VI, 12 marzo 1994, n. 333, in Vita Notar., 1994, I, 155: L'impugnazione dei provvedimenti di non ammissione al campionato di serie C/1 del Club calcio Catania e di revoca dell'affiliazione, nonché delle normative in materia di formazione di campionati adottati dalla federazione italiana Gioco calcio, avente sede in Roma, va proposta innanzi al TAR del Lazio, con sede in Roma, in quanto le partite del campionato ed i campionati di serie C/1 si svolgono, senza limitazione regionale su tutto il territorio nazionale; cfr. anche C. Stato, Sez. VI, 7 ottobre 2003, n. 5930. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 365 di causa possano modificare quelli assunti ante causam. Alla stessa stregua le misure cautelari assunte in assenza di una specifica istanza di parte (50). Conseguentemente deve ritenersi che ove si determini una situazione di mancata consonanza tra successivi provvedimenti cautelari adottati, entrambi efficaci nel medesimo momento, la parte lesa da tale situazione debba presentare, ai sensi del quinto comma dell’art. 61, del Codice del processo amministrativo, istanza di modifica o di revoca delle misure cautelari ante causam al Presidente del tribunale amministrativo affinché esso provveda in merito al provvedimento adottato e consenta alle successive misure cautelari assunte in corso di causa di dispiegare appieno i propri effetti. (50) A tal proposito si segnala che la modifica o revoca d’ufficio prevista dall’art. 254 del D. Leg. vo n. 163 del 2006 non è stata riproposta nell’art. 61 del Codice. RECENSIONI FEDERICO BASILICA, FIORENZA BARAZZONI (*), Verso la Smart Regulation in Europa - Towards Smart Regulation in Europe. (Ed. Maggioli, Gennaio 2013, pp. 456) Il volume - scritto in italiano con traduzione in inglese - contiene un’inedita analisi della Better Regulation e della sua evoluzione in Smart Regulation, l’obiettivo politico che l’Europa si pone per semplificare il contesto normativo e creare le condizioni per introdurre norme più “intelligenti”, evitando squilibri tra costi e benefici, regole non chiare o addirittura inattuabili. La Smart Regulation è ormai un aspetto imprescindibile della politica economica dei Paesi europei e della stessa Unione, che ne fanno una leva in grado di migliorare la crescita, la competitività, lo sviluppo economico e l’occupazione. L’importanza di questi temi ha portato gli Autori a una comune riflessione sulle più innovative iniziative per migliorare la qualità della regolazione adottate nei vari Paesi e dalle Istituzioni europee, analizzandone i punti di forza e le eventuali debolezze. Il confronto comparativo messo in luce dai principali protagonisti europei di tali politiche, riuniti in tale mirabile opera dai curatori, evidenzia le principali tendenze evolutive e le significative differenze esistenti tra gli approcci e gli strumenti della riforma adottati dai singoli Paesi ed Istituzioni europee, offrendo spunti agli studiosi e agli operatori pratici per ulteriori approfondimenti e sviluppi, sia in ambito europeo che nazionale, nella convinzione che il miglioramento della regolazione rappresenti tutt’ora una sfida che richiede continui aggiustamenti, alla luce del contesto economico e del sistema di governance europeo. Gli Autori (*) Federico Basilica, Avvocato dello Stato. Fiorenza Barazzoni, Direttore Generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri. 368 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4 /2012 SERGIO DI AMATO (*), La responsabilità disciplinare dei magistrati. Gli illeciti - Le sanzioni - Il procedimento. Presentazione di Ernesto Lupo. (Giuffrè Editore, 2013, pp. XXIV, 626) La giustiza disciplinare dei magistrati ordinari dopo la riforma del 2006: luoghi comuni e verità dei numeri Gli oltre sei anni trascorsi dall’entrata in vigore del d. lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 consentono di tracciare un primo attendibile bilancio sull’applicazione della nuova disciplina della responsabilità disciplinare dei magistrati. In questa prospettiva il volume che ho il piacere di presentare offre uno strumento davvero prezioso di studio e approfondimento anche attraverso una completa analisi, critica e non meramente espositiva, degli orientamenti maturati in questi anni nella giurisprudenza della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura e nella giurisprudenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione: dal 2007 ad oggi la prima ha emesso, tra sentenze ed ordinanze, 935 provvedimenti, mentre le seconde, nello stesso periodo, hanno emesso 247 sentenze. Il dato, già in questa forma grezza, è altamente rappresentativo della forte attenzione riservata dai titolari dell’azione disciplinare al profilo deontologico della condotta dei magistrati. Eppure nell’opinione pubblica, condizionata dalla rappresentazione della giustizia disciplinare offerta dai media, troppo spesso ispirati da sentimenti di parte nei ricorrenti scontri tra politica e magistratura, si è fatta strada l’idea di un sistema sostanzialmente incapace di punire i magistrati che si macchiano di condotte deontologicamente riprovevoli; e ciò per la prevalente presenza di magistrati nella composizione della Sezione disciplinare. L’immagine che viene proposta è, perciò, quella di una giustizia corporativa e domestica. Di qui il facile passaggio all’idea che per avere una giustizia disciplinare davvero efficace occorrerebbe, cambiando la Costituzione, cambiare lo stesso giudice disciplinare. Non è questa naturalmente la sede per affrontare i temi posti da ipotesi di riforma la cui discussione, ferma restando l’irrinunciabilità di un legame tra autogoverno e disciplina della magistratura, risponderebbe a concrete esigenze solo in presenza di altri e più ragionevoli presupposti, come ad esempio quello dell’eventuale realizzazione di una unità della giurisdizione; qui è, tuttavia, possibile contestare decisamente il presupposto dell’inefficienza della giustizia disciplinare dei magistrati ordinari. L’analisi dei provvedimenti emessi dal 2004 (1) mostra che, dopo l’entrata in vigore della riforma (19 giugno 2006) ed il decorso del tempo necessario perché i procedimenti promossi con le nuove regole fossero portati all’attenzione della Sezione disciplinare, si è registrato negli anni dal 2008 al 2010 un progressivo e forte incremento dei procedimenti definiti e perciò, ovviamente, delle azioni disciplinari promosse. Nel 2011 e nel (*) Sergio Di Amato, in magistratura dal 1972, è consigliere della prima sezione civile della Corte di cassazione. Dal 2007 al 2012 ha svolto le funzioni di Direttore generale dei magistrati presso il Ministero della giustizia ed in tale veste ha trattato ex professo la materia della responsabilità disciplinare dei magistrati. È stato componente del Comitato scientifico del CSM per la formazione dei magistrati. RECENSIONI 369 2012 (i cui dati si fermano però al 30 settembre) i procedimenti definiti hanno subito una leggera flessione. Al riguardo, sembra molto ragionevole pensare che dopo l’impatto iniziale della nuova disciplina vi sia stata una maggiore presa di coscienza da parte dei magistrati dei doveri da rispettare ed una conseguente maggiore attenzione nei comportamenti. Tale evoluzione rappresenta il naturale portato di un codice disciplinare che ha abbandonato la generica formulazione dell’illecito disciplinare, già dettata dall’art. 18 del r.d. lgs. 31 maggio 1946, n. 511 ed ha, invece, opportunamente accolto il principio di tipizzazione. È vero che si tratta di una tipizzazione imperfetta che lamenta diversi limiti, quali l’assenza di norme di chiusura per categorie di beni protetti, spesso neppure indicati dalle singole previsioni di illecito, la presenza di numerose, ma spesso ineludibili clausole generali, il cui riempimento è affidato alla Sezione disciplinare, e la sicura sovrabbondanza, in certi casi, delle fattispecie di illecito, con un rapporto tra le norme di difficile interpretazione. Ciò nondimeno, pur con questi limiti, la tipizzazione ha consentito di individuare, con molta maggiore precisione rispetto al passato, gli illeciti dei magistrati ed ha, quindi, svolto, dopo l’impatto iniziale, quella che deve essere la prima funzione di un codice disciplinare e cioè quella di prevenire, prima ancora che di reprimere, i comportamenti deontologicamente scorretti individuati dal legislatore. In ogni caso, pur con l’andamento descritto, il numero dei procedimenti definiti si è mantenuto sui massimi livelli raggiunti prima della riforma e il dato, indipendentemente dall’esito del procedimento, non è privo di rilievo perché testimonia l’attenzione dei titolari dell’azione disciplinare. Il fatto, poi, che vengano scrutinate anche condotte che in sede di giudizio sono riconosciute come disciplinarmente irrilevanti o di scarsa rilevanza rientra, naturalmente, nella fisiologia di un sistema in cui l’accusa, in contraddittorio con la difesa, sottopone al giudice la domanda di punizione; il fatto, inoltre, (1) Dalle statistiche della Sezione disciplinare dal 2004 al 30 settembre 2012 risultano i seguenti dati: Anni 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 Totale Condanne 24 37 30 21 41 55 58 43 36 345 Assoluzioni 46 60 67 25 24 35 43 34 27 361 Sentenze di non doversi procedere 0 0 0 0 0 12 14 8 8 42 Ordinanze di non luogo a procedere per cessazione dall’ordie giudiziario 16 10 18 19 17 17 29 20 16 162 Ordinanze di non luogo a procedere per altre ragioni 40 29 26 25 40 28 46 34 13 281 Totale 126 136 141 90 122 147 190 139 100 1191 Misure cautelari 3 3 2 6 8 10 5 10 9 56 Rigetto misure cautelari 1 2 1 0 0 5 0 0 0 9 370 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4 /2012 testimonia anche che è “sorvegliata” tutta la zona di confine, spesso non così netto come sarebbe auspicabile, tra il fatto disciplinarmente rilevante e quello irrilevante. Se, poi, si passa dal numero dei procedimenti al numero delle condanne, l’idea di una giustizia disciplinare corporativa e domestica è ancora più fortemente contraddetta. Dalle 24 condanne del 2004, sostanzialmente stabili sino al 2007, si è progressivamente passati alle 58 del 2010, scese a 43 nel 2011 ed a 36 nel 2012 (sino al 30 settembre). In totale, dal 1° gennaio 2007 al 30 settembre 2012 si sono perciò registrate ben 254 condanne. A questo dato, di per sé molto significativo, si devono poi aggiungere, nello stesso periodo, le 118 cessazioni volontarie dal servizio di magistrati sottoposti a procedimento disciplinare, le quali, se non tutte, almeno in gran parte sono riconducibili alla scelta dell’incolpato di evitare una condanna. Nella stessa direzione si pongono, poi, le misure cautelari il cui numero è più che raddoppiato dopo l’entrata in vigore della riforma. Il dato assoluto, quindi, non consente minimamente di parlare di una giustizia indulgente perché domestica e corporativa; e nella valutazione di questo dato si deve tenere conto anche della gravità delle sanzioni: dal 2007, infatti, in cinque casi è stata inflitta la sanzione della rimozione. Se poi si confrontano queste statistiche con quelle risultanti per gli altri Paesi europei dal rapporto “European judicial systems” redatto nel 2012 dalla CEPEJ (Commission européenne pour I'efficacité de la justice) sulla base dei dati dell’anno 2010, si scopre che la giustizia disciplinare italiana è decisamente più attiva e severa della media degli altri paesi europei (2). Dei 36 Paesi presi in considerazione soltanto Ucraina (n. 877), Inghilterra e Galles (n. 789), Finlandia (n. 590) e Turchia (n. 199) precedono, per numero di procedimenti disciplinari iniziati, l’Italia (n. 175), che è seguita a distanza dai tre Paesi che hanno il sistema giudiziario più simile al nostro, e cioè Spagna (n. 47), Germania (n. 17) e Francia (n. 7). Non diverso è il risultato della statistica ponderata e cioè del numero di procedimenti ogni cento giudici, nella quale a fronte di una mediana statistica europea (e cioè di una media statistica calcolata espungendo i dati più alti e quelli più bassi) pari ad 1, il dato italiano è pari a 2, mentre Spagna, Germania e Francia registrano, la prima, un dato pari a 1 e, la seconda e la terza, un dato pari a 0,1. Anche per ciò che riguarda l’esito dei procedimenti si può osservare che a fronte di una mediana statistica europea di 0,4 condanne ogni cento giudici, il dato italiano è di 0,6 condanne. Queste statistiche e questi confronti non solo disattendono il luogo comune di una giustizia disciplinare corporativa ed indulgente, ma confortano nell’idea che la magistratura italiana ed il suo organo di autogoverno siano ben consapevoli del rilievo centrale del tema della responsabilità disciplinare in un sistema giudiziario che, come vuole la nostra Costituzione, è retto dai cardini dell’autonomia ed indipendenza della magistratura ed è caratterizzato dall’obbligatorio reclutamento dei magistrati per concorso. In questo sistema, infatti, il magistrato può ripetere la propria legittimazione soltanto da una adeguata preparazione giuridica e da un rigoroso rispetto di quei doveri che sono stati da tempo individuati dalla giurisprudenza disciplinare e che il d. lgs. n. 109/2006 ha consacrato nel primo comma dell’art. 1, prevedendo che « il magistrato esercita le funzioni (2) Il rapporto è pubblicato on line (all’indirizzo http://www.coe.int/t/dghl/cooperation/cepej/evaluation/ default_en.asp) in francese ed inglese. La materia disciplinare è trattata al capitolo 11.7 (pagg. 289-306). RECENSIONI 371 attribuitegli con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio e rispetta la dignità della persona nell'esercizio delle funzioni ». La chiarezza dei doveri non esclude, tuttavia, la complessità dei problemi posti dalla disciplina dei magistrati. In molte situazioni, infatti, la deontologia intercetta la non facile questione del bilanciamento tra valori egualmente garantiti dalla Costituzione, come nel caso del contemperamento del principio di indipendenza del magistrato, soggetto soltanto alla legge, con il principio di responsabilità previsto per tutti i pubblici dipendenti e valido anche per i magistrati ovvero come nel caso del contemperamento delle libertà individuali, spettanti indistintamente a tutti i cittadini, con il dovere del magistrato di apparire, oltre che essere, imparziale. Anche rispetto a queste difficoltà interpretative il volume di Sergio Di Amato si fa apprezzare per un significativo contributo di approfondite riflessioni. In proposito, anzi, il tema del contributo degli studiosi della materia offre lo spunto per segnalare la necessità di superare il pericolo di una naturale quanto sterile autoreferenzialità. In questa prospettiva diventa fondamentale il dialogo tra la Sezione disciplinare e le Sezioni unite della Corte di cassazione anche perché la tipizzazione, sia pure imperfetta, scelta dal legislatore del 2006 non affida più integralmente alla Sezione disciplinare l’individuazione della regola disciplinare, limitando l’intervento della Corte di cassazione ad una verifica di logicità e congruità, ma stabilisce essa stessa gli illeciti, ampliando notevolmente il campo delle questioni suscettibili di sindacato di legittimità. Un tale dialogo, tuttavia, attualmente viene attivato, sostanzialmente a senso unico, quasi soltanto dai magistrati condannati e solo raramente dal Ministro della Giustizia e dal Procuratore generale (a titolo d’esempio, nell’anno 2011, su 56 ricorsi alle Sezioni unite, 42 sono stati presentati da incolpati, 13 dal Ministro della giustizia ed 1 dal Procuratore generale). Si può comprendere, quando comunque vi sia stata una condanna, o quando l’assoluzione sia stata ribadita in sede di giudizio di rinvio, dopo un primo annullamento, il disagio rispetto ad iniziative che potrebbero apparire di mero “accanimento disciplinare”. Ciò, tuttavia, di fatto non ha consentito alla Corte di cassazione di esprimersi su molte complesse e controvertibili questioni quali, ad esempio, quelle relative ai numerosi casi in cui più disposizioni concorrono (apparentemente o formalmente?) a disciplinare una stessa fattispecie. Con la consapevolezza, quindi, della necessità di un largo dibattito sulle tante questioni poste da una materia così complessa, auguro a questo volume una fortunata, quanto meritata, accoglienza. Ernesto Lupo Prefazione dell’Autore Questo lavoro ha tratto occasione da una esperienza di quasi cinque anni come magistrato fuori ruolo con funzioni di Direttore generale della Direzione generale dei magistrati, articolazione del Ministero della Giustizia cui compete la formulazione al Ministro delle proposte in materia disciplinare; per tale ragione la Direzione rappresenta un osservatorio privilegiato della materia in quanto crocevia obbligato delle relazioni dell’Ispettorato generale, delle iniziative della Procura generale presso la Corte di cassazione ed anche delle decisioni della Sezione disciplinare, che vengono valutate ai fini di una eventuale impugnazione. In 372 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4 /2012 questo delicato compito ho avuto la fortuna, nel momento della prima applicazione del d.lgs. n. 109/2006, di avvalermi della preziosa, leale ed appassionata collaborazione di colleghi che hanno condiviso con me, attraverso il metodo di una quotidiana camera di consiglio, dubbi e soluzioni. Verso di loro - ed il pensiero va soprattutto ad Antonio Bianco, Matilde Carpinella, Giancarlo Ciani, Pierluigi Picozzi, ma anche a Daniela Bianchini, nel diverso ruolo di responsabile del servizio disciplinare del Gabinetto - sono debitore di idee e di stimoli alla riflessione e ad essi esprimo perciò la mia gratitudine. Questa esperienza, come spesso accade per il condizionamento indotto dalle funzioni svolte, mi ha portato a considerare sotto una nuova luce l’azione disciplinare del Ministro della Giustizia ed a prendere consapevolezza che essa, ancorchè spesso avvertita da noi magistrati come un tentativo di ingerenza dell’esecutivo sulla giurisdizione, rappresenta in realtà l’insostituibile meccanismo di bilanciamento voluto dal Costituente per consentire l’attuazione dei principi di autonomia ed indipendenza, ma senza fare della magistratura un corpo separato ed autoreferenziale. Certo, esiste il rischio che una scelta del ministro di turno possa, indipendentemente dalle proposte che gli vengano formulate, essere asservita a logiche di parte; si tratta, però, di un rischio, non solo relativo alla patologia e non alla fisiologia della funzione, ma che il Costituente ed il legislatore hanno contenuto in un sistema di pesi e contrappesi, che affida l’esercizio dell’azione disciplinare ad una “parte imparziale”, quale il Procuratore generale presso la Corte di cassazione, e riserva la decisione ad una articolazione giurisdizionale del Consiglio superiore della magistratura, nella quale è garantita la presenza per due terzi di magistrati e per un terzo di membri eletti dal Parlamento. La stessa esperienza mi fa pensare che spesso la polemica sui magistrati fuori ruolo non colga le implicazioni della delicatezza per l’ordinamento giudiziario di alcune funzioni ministeriali. Non intendo naturalmente dire, perché sarebbe chiaramente errato, che solo i magistrati hanno le competenze professionali per ricoprire alcuni incarichi; è però vero che i magistrati portano con sé, se non con certezza almeno con elevata probabilità, la cultura della giurisdizione e possono perciò offrire le maggiori garanzie di attuare il principio di imparzialità nell’attività amministrativa. Il che non sembra trascurabile rispetto ad attività che, come quella delle proposte disciplinari, presentano un forte connotato paragiurisdizionale. Senza tacere, infine, che il magistrato fuori ruolo, più facilmente di qualsiasi altro funzionario, può preservare la propria fedeltà ai principi di autonomia ed imparzialità, con la semplice scelta di rientrare in ruolo. Roma, gennaio 2013 RECENSIONI 373 LIVIA GIULIANI (*), Autodifesa e difesa tecnica nei procedimenti de libertate (Pubblicazioni della Università di Pavia, Facoltà di Giurisprudenza. Studi nelle Scienzse giuridiche e sociali) (CEDAM, 2012, pp. XII, 291) INTRODUZIONE Giunta finalmente a dare un assetto compatibile con i principi costituzionali ad un tema nutrito da decenni di autorevoli riflessioni, quella regolante le misure cautelari personali si era dimostrata ben presto una disciplina che - nonostante la raffinata elaborazione delle soluzioni tecniche e la solidità dell'impianto sistematico - non appariva in grado di raggiungere il principale tra gli obiettivi perseguiti dal legislatore: ridurre il ricorso alla detenzione ante iudicium. In questa assunzione di consapevolezza pressoché immediata dei limiti nell'architettura della nuova codificazione, non fu senza rilievo la coincidenza con un periodo di acceso contrasto tra magistratura e potere politico, determinatosi a seguito dell'instaurazione di numerosi processi per corruzione nella stagione cosiddetta di "mani pulite". Pur facendo la tara ai toni esacerbati delle cronache di un periodo storico senza dubbio eccezionale, quantità e qualità degli eventi giudiziari sembravano suggerire che la nuova disciplina processuale non era in grado di scongiurare usi eccessivi e forse distorti del potere cautelare. Non si trattava però solo, come spesso si è affermato, di prassi devianti: eccessi ed abusi - se anche di abusi si trattò - erano consentiti da un assetto che non offriva adeguate chances difensive all'imputato, soprattutto nella fase delle indagini preliminari. Fin dal faticoso rodaggio della nuova codificazione era risultato evidente, del resto, che il legislatore del 1988, guidato dal proposito di introdurre un sistema improntato ai principi accusatori, aveva finito col dar vita - complici gli interventi controriformistici della Corte costituzionale - ad un processo fortemente sbilanciato dal lato dell'accusa. Tutto teso verso il traguardo della giurisdizionalizzazione del potere cautelare, il legislatore aveva definitivamente realizzato un sistema nel quale la titolarità di quel potere era incentrata sul solo giudice, mentre l'organo delle indagini veniva ricondotto al suo ruolo di parte, dando cosi attuazione al principio per cui chi esercita funzioni investigative non deve poter disporre della libertà altrui se non in situazioni eccezionali di urgenza e con effetti provvisori. Nondimeno, il carattere giurisdizionale dell'organo investito del potere di limitare la libertà personale, punto di arrivo della lunga elaborazione che aveva condotto all'approvazione del codice vigente, doveva rappresentare non altro che un punto di partenza verso un effettivo riconoscimento dei diritti del destinatario della misura restrittiva. Restava ancora tutto da elaborare, accanto al profilo formale della giurisdizionalità, quello sostanziale, formato dal tessuto di rapporti ed interscambi tra i soggetti partecipanti alla vicenda cautelare. L'evoluzione verso una struttura dialettica del processo - in ogni sua articolazione, anche incidentale - formalmente proclamata dalla l. cost. 23 novembre 1999, n. 2, é stata lunga ed incompleta ed ha fatto emergere nitidamente le figure dell’imputato e del suo difensore, in (*) Professore associato. 374 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 4 /2012 precedenza offuscate da soluzioni normative ed interpretazioni non del tutto in linea con i precetti costituzionali. Non sarebbe stato necessario (rectius, non avrebbe dovuto esserlo) ribadire nell'art. 111 Cost. principi già desumibili dal testo della nostra Carta dei diritti fondamentali. Nella particolare ottica delle procedure incidentali de libertate - in controtendenza rispetto al ruolo demolitore giocato con riguardo alle regole dell'accertamento nel processo principale - la Corte costituzionale si era pronunciata ripetutamente e con chiarezza sulla necessità di un contraddittorio, e di un contraddittorio "anticipato" in tutti i casi nei quali "esigenze prioritarie" confliggenti non lo sconsigliassero. Di fronte ad affermazioni di principio di grande spessore, si trattava di dar fondo alla discrezionalità legislativa per far emergere linee di tutela compiute e coerenti. Solo in parte l’obiettivo si e realizzato. Se e vero, infatti, che. nel corso dei due decenni di vita del codice, i diritti della difesa hanno complessivamente registrato un incremento, e vero altresì che gli assetti dell’incidente cautelare attendono ancora una soddisfacente sistemazione. Neppure dall'aver sancito quei principi a livello costituzionale è stato possibile trarre rimedi risolutivi per sciogliere le difficoltà di bilanciamento fra gli interessi dell'autorità e quelli dell'individuo che la materia impone. Non a caso, a quasi tre lustri da quella riforma - e nonostante la velocità stupefacente con la quale, ai tempi del "giusto processo", proliferano i precetti cogenti anche per il legislatore penale, sempre più pressato dalla "vecchia" e dalla nuova Europa - il compito di misurarsi con quelle difficoltà è ancora dinanzi all'interprete. Il quale, per verità, si trova a doversi muovere in un perimetro che, se per certi versi rivela interessanti profili di novità, per lo più prospetta orizzonti di principio ben consolidati. Inviolabilità della libertà personale, principio di legalità, contraddittorio e diritto alla prova erano i temi principali del dibattito che aveva preceduto e poi seguito l'avvento del nuovo codice, sviluppandosi molto spesso intorno alla necessità di ridurre il ricorso alle misure cautelari detentive. A vent'anni dal cambio della guardia fra le due codifìcazioni, ci si ritrova ancora di fronte a un sistema “carcere-centrico” - assistito da un impatto mediatico cresciuto in modo esponenziale con l'immenso progresso della tecnologia dell'informazione - e a modalità di svolgimento del procedimento de libertate che non concedono spazio adeguato alla difesa dell'imputato. Ripercorrendo temi da sempre al centro dell'attenzione dottrinale, ci si dispone, quindi, a riflettere su disfunzioni e possibili rimedi con una consapevolezza che pure non appare del tutto nuova: si potranno cioè limare le disposizioni normative alla ricerca di soluzioni più rispettose dei diritti dei singoli ma l'ordinamento non riuscirà ad evolvere finché non si sarà evoluta la sensibilità dei cittadini e degli operatori. Da un lato, infatti, il legislatore non potrà mai prospettare con successo soluzioni normative corrispondenti a modulazioni dei diritti che la mentalità comune non è pronta ad accettare, essendo semmai incline - come è accaduto troppe volte - a retrocedere sul fronte delle garanzie dell'imputato per irrobustire la tutela dell'ordine pubblico. Dall'altro, le innovazioni devono scontare le renitenze degli interpreti ufficiali: anche a non voler ricordare il peso delle prime decisioni di illegittimità costituzionale che investirono il codice d'impianto accusatorio, l'esperienza ce lo ha insegnato, basta un tratto di penna della Suprema Corte per far cambiare, a legge invariata, i destini degli uomini. Finito di stampare nel mese di aprile 2013 Servizi Tipografici Carlo Colombo s.r.l. Via Roberto Malatesta n. 296 - Roma