ANNO LXIV - N. 1 GENNAIO-MARZO 2012 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO COMITATO SCIENTIFICO: Presidente: Aldo Linguiti. Componenti: Franco Coppi - Giuseppe Guarino - Natalino Irti - Eugenio Picozza - Franco Getano Scoca. DIRETTORE RESPONSABILE: Giuseppe Fiengo - CONDIRETTORI: Giacomo Arena e Maurizio Borgo. COMITATO DI REDAZIONE: Lorenzo D’Ascia - Gianni De Bellis - Sergio Fiorentino - Paolo Gentili - Maria Vittoria Lumetti - Antonio Palatiello - Massimo Santoro - Carlo Sica - Stefano Varone. CORRISPONDENTI DELLE AVVOCATURE DISTRETTUALI: Andrea Michele Caridi - Stefano Maria Cerillo - Luigi Gabriele Correnti - Giuseppe Di Gesu - Paolo Grasso - Pierfrancesco La Spina - Maria Vittoria Lumetti - Marco Meloni - Maria Assunta Mercati - Alfonso Mezzotero - Riccardo Montagnoli - Domenico Mutino - Nicola Parri - Adele Quattrone - Pietro Vitullo. HANNO COLLABORATO INOLTRE AL PRESENTE FASCICOLO: Felice Ancora, Carlo Bellesini, Emanuela Brugiotti, Ignazio Francesco Caramazza, Simone Cardin, Carlo Curti Gialdino, Gabriella D’Avanzo, Roberto de Felice, Enrico De Giovanni, Fabrizio Fedeli, Flavio Ferdani, Wally Ferrante, Federico Maria Giuliani, Gianni Letta, Marta Moretti, Glauco Nori, Gabriella Palmieri, Fabio Pammolli, Diana Ranucci, Valeria Romano, Marina Russo, Nicola C. Salerno, Francesco Spada, Paolo Togni, Francesca Zambuco. E-mail: giuseppe.fiengo@avvocaturastato.it - tel. 066829313 maurizio.borgo@avvocaturastato.it - tel. 066829597 ABBONAMENTO ANNUO ..............................................................................€ 40,00 UN NUMERO .............................................................................................. € 12,00 Per abbonamenti ed acquisti inviare copia della quietanza di versamento di bonifico bancario o postale a favore della Tesoreria dello Stato specificando codice IBAN: IT 42Q 01000 03245 348 0 10 2368 05, causale di versamento, indirizzo ove effettuare la spedizione, codice fiscale del versante. I destinatari della rivista sono pregati di comunicare eventuali variazioni di indirizzo AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO RASSEGNA - Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma E-mail: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it Stampato in Italia - Printed in Italy Autorizzazione Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 INDICE - SOMMARIO TEMI ISTITUZIONALI Lectio magistralis dell’avv. Ignazio Francesco Caramazza: “La difesa dello Stato in giudizio e la soluzione italiana”. Introduce il dott. Gianni Letta - Roma, Università Luiss “Guido Carli”, Sala delle Colonne . . . . Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato, avv. Ignazio Francesco Caramazza, in occasione della Cerimonia di inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2012 - Roma, Palazzo di Giustizia, Aula Magna . . . . . . . . . Protocollo di intesa con l’Agenzia del Territorio, Circolare A.G.S. del 29 dicembre 2011 prot. 418791 n. 70 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Deposito dei documenti in Cassazione - Interpretazione dell’art. 369, comma 2, n. 4, c.p.c., Circolare A.G.S. del 29 dicembre 2011 prot. 418802 n. 71 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Estinzione dei giudizi pendenti innazi alla Corte di cassazione e alle Corti d’appello, Circolare A.G.S. dell’11 gennaio 2012 prot. 9940 n. 2. . . . . . Sentenze della Corte dei Conti e rimborso spese legali a seguito di proscioglimento, Circolare A.G.S. del 23 gennaio 2012 prot. 26557 n. 6 . . . Art. 78 del D.L. n. 112/2008 - Patrocinio del Commissario strarordinario del Governo per la ricognizione della situazione economico-finanziaria del Comune di Roma (ora Roma Capitale), Comunicazione di servizio A.G.S. del 23 gennaio 2012 prot. 26544 n. 7 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . D.L. 24 gennaio 2012 n. 1 art. 9 - Abolizione delle tariffe professionali, Circolare V.A.G. delegato del 30 gennaio 2012 prot. 36992 n. 7. . . . . . . Parere approvato dal comitato consultivo sugli effetti della sentenza della Corte Costituzionale n. 293/2011 che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 11 commi 12 e 13 del D.L. 78/10 conv. in l. 122/10; applicazione delle leggi 229/05 e 244/07. Riconoscimento degli arretrati e condotta da tenere in sede processuale, Circolare A.G.S. del 29 febbraio 2012 prot. 76411 n. 12 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE Ignazio Francesco Caramazza, Wally Ferrante, Potere giudiziario e diritto europeo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Carlo Curti Gialdino, Prolegomeni, ovvero la formazione del giurista europeo ed i commentari ai Trattati sull’Unone europea . . . . . . . . . . . . . . Roberto de Felice, Francesca Zambuco, Osservazioni in merito ai rilievi sollevati dalla Commissione e dal Parlamento dell’Unione europea alla nuova Costituzione ungherese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Glauco Nori, La responsabilità per provvedimenti giurisdizionali nel diritto dell’Unione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1 ›› 32 ›› 39 ›› 44 ›› 45 ›› 46 ›› 54 ›› 57 ›› 58 ›› 63 ›› 79 ›› 99 ›› 121 1.- I giudizi in corso della Corte di giustizia Ue Marina Russo, Cooperazione giudiziaria in materia civile, causa C- 190/11. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Marina Russo, Ravvicinamento delle legislazioni; Tutela dei consumatori; Libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi, causa C- 435/11. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Wally Ferrante, Trasporti, causa C-509/11. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Wally Ferrante, Libera circolazione dei lavoratori; Libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi; Diritto di stabilimento; Libera circolazione dei servizi, causa C-575/11. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Marina Russo, Ravvicinamento delle legislazioni; Proprietà industriale e commerciale; Libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi; Libera circolazione dei servizi, causa C-607/11. . . . . . . . . . . . . . . . . . Wally Ferrante, Trasporti, causa C-628/11. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . CONTENZIOSO NAZIONALE Marta Moretti, La vexata quaestio dell’incidente di falso nel processo amministrativo (C. cost., sent. 11 novembre 2011 n. 304) . . . . . . . . . . . . . . Gianni De Bellis, La pronuncia delle SS.UU. sul deposito degli atti processuali in Corte: “Una vittoria del Buon Senso (prima ancora che del diritto)” (Cass. civ., Sez. Un., sent. 3 novembre 2011 n. 22726). . . . . . . Valeria Romano, Giudizio cautelare e incidente di legittimità costituzionale (Cons. St., Sez. Sesta, ord. 28 novembre 2011 n. 6277). . . . . . . . . . Felice Ancora, Il vincolo sull’Agro Romano e la conservazione del suolo agricolo nelle zone periurbane (Cons. St., Sez. Sesta, sent. 30 dicembre 2011 n. 7005) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Carlo Bellesini, Raggruppamento Temporaneo di Imprese e pubblici appalti: il potere di rinuncia all’aggiudicazione della “capogruppo” (TAR Lazio, Sez. Terza, sent. 11 gennaio 2012 n. 260) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO Aldo Linguiti, Impianto di termovalorizzazione di Acerra. Problematiche connesse al trasferimento della proprietà ed alla determinazione del “valore proprietario” dell’impianto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Gianni De Bellis, Modalità di riscossione dei crediti esattoriali. Interpretazione della disposizione sui solleciti di pagamento per crediti fino ad € 2.000 previsti dall’art. 7 comma 2 gg-quinquies del D.L. n. 70/2011 . . . Fabrizio Fedeli, Convenzione tra la Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria - e la RAI per la trasmissione di programmi televisivi in lingua tedesca e ladina nella Provincia autonoma di Bolzano. Art. 2 commi 106-125 della Legge 191/2009 (Finanziaria 2010). Concorso negli oneri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Maurizio Borgo, Valutazione della bozza di determina avente ad oggetto l’individuazione di Telecom S.p.A. quale fornitore e partner tecnologico pag. 127 ›› 130 ›› 135 ›› 142 ›› 148 ›› 153 ›› 161 ›› 187 ›› 204 ›› 217 ›› 236 ›› 247 ›› 252 ›› 254 dei servizi di comunicazioni elettroniche usufruiti dall'Amministrazione di Pubblica Sicurezza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Wally Ferrante, Conflitto di interessi tra Amministrazioni ammesse al patrocinio dell’Avvocatura dello Stato. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Gabriella Palmieri, Legge 1293/57: cause di esclusione dalla gestione delle rivendite di generi di monopolio. Sul carattere tassativo della elencazione contenuta nella normativa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Fabrizio Fedeli, D.P.C.M. 21 maggio 2008 “Dichiarazione dello stato di emergenza in relazione agli insediamenti di comunità nomadi nel territorio delle regioni Campania, Lazio e Lombardia”. Ricorso ad istanza di European Roma Rights Centre Foundation ed altri . . . . . . . . . . . . . . . . Gabriella D’Avanzo, Concordato preventivo: estensione della prelazione sugli interessi per il credito assistito da privilegio ex art. 24 della legge n. 449 del 1997 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Diana Ranucci, Contratti a termine di docenti, cittadini italiani e residenti in Spagna, in servizio nella scuola statale italiana di Barcellona. Ricorsi presentati al Tribunale sociale locale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . LEGISLAZIONE ED ATTUALITA’ Fabio Pammolli, Nicola C. Salerno, La sostenibilità dei sistemi sanitari regionali. SaniMod-Reg 2012-2030 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Francesco Spada, La mobilità dei dipendenti pubblici dopo la legge di stabilità 2012 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . CONTRIBUTI DI DOTTRINA Emanuela Brugiotti, E-government e tutela dei dati personali: un quadro d’insieme . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Simone Cardin, Il nuovo reato di oltraggio a pubblico ufficiale (art. 341 bis c.p.): l’offesa della pubblica amministrazione di appartenenza e la risarcibilità del danno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Flavio Ferdani, Il datore di lavoro e la corresponsabilità del RSPP e del preposto nell’infortunio del lavoratore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Federico Maria Giuliani, Principio dell’apparenza giuridica, società apparente e tutela dei terzi contraenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . RECENSIONI Paolo Togni, Una certa visione dell’ambiente 2. Presa d’aria 2008-2010. Prefazione di Altero Matteoli e Maurizio Lupi. I Paperback di Tempi - Distribuzione Itacalibri.it . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 258 ›› 270 ›› 275 ›› 278 ›› 279 ›› 281 ›› 287 ›› 294 ›› 303 ›› 318 ›› 337 ›› 351 ›› 359 TEMI ISTITUZIONALI IGNAZIO FRANCESCO CARAMAZZA Avvocato Generale dello Stato Lectio magistralis: "La difesa dello Stato in giudizio e la soluzione italiana" (LUISS, 8 maggio 2012, ore 16 Sala delle Colonne, Viale Pola, 12) Introduce: GIANNI LETTA Una sede così prestigiosa, un personaggio così importante, una platea così autorevole, avrebbero meritato ben altra introduzione. E invece … Non ho titoli istituzionali, né accademici, né giuridici: ne sono consapevole, e me ne scuso. Ma se sono qui e se, alla fine, ho ceduto alle insistenze di chi, nonostante tutto, mi chiedeva di esserci, non è per presunzione, ma solo per un dovere: il dovere della testimonianza. Un testimone non si può sottrarre, e Voi me lo insegnate. E io – questo, sì – sono un testimone che sa, che ha visto e, forse per questo, può e deve anche parlare. L’ho incontrato – l’Avvocato Caramazza – la prima volta nel 1994, Segretario Generale dell’Avvocatura. A gennaio 2002 ho portato in Consiglio dei Ministri la sua nomina a Vice Avvocato Generale. Il 14 ottobre 2010 ero a suo fianco nella cerimonia solenne, alla presenza del Capo dello Stato, quando si è insediato come Avvocato Generale. In tutti questi anni – e sono tanti – sono stato il primo testimone della sua attività intelligente e illuminata, del suo impegno competente e generoso, della sua dedizione operosa, assoluta e leale, del suo equilibrio, 2 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 della sua saggezza, della vastità della sua esperienza giuridica, della sua discrezione. Ho osservato da vicino come ha sempre assolto la sua altissima funzione, ho scoperto come si dirige una macchina complessa come l’Avvocatura, ho potuto constatare l’autorevolezza e il prestigio che tutti gli riconoscevano e gli riconoscono: i colleghi, i collaboratori, i responsabili di tutte le Amministrazioni dello Stato. Seguendolo giorno per giorno, in tante vicende piccole e grandi, ho “toccato” il suo senso del dovere e ho capito come si serve lo Stato, e come Lui lo ha servito. Proprio come sanno e debbono fare gli uomini che credono nelle Istituzioni e a loro danno l’anima, facendone la storia. I Civil Servant della cultura anglosassone, i Grand Commis dell’esperienza francese. Quelli che nella nostra tradizione vengono chiamati i Grandi Servitori dello Stato. Una tradizione, la nostra, che affonda nello spirito risorgimentale che ha segnato la formazione dello Stato unitario, e che poi, attualizzandosi e modernizzandosi, ha accompagnato via via le diverse fasi della vita nazionale. Ignazio Caramazza è uno di questi: anzi ne è il prototipo. Io per esperienza diretta, l’ho potuto constatare nei lunghi anni in cui ho avuto il privilegio e la fortuna di lavorare con Lui. Il testimone ha il dovere della verità, deve raccontare i fatti di cui abbia conoscenza diretta, e solo quelli, e non per sentito dire. Non c’è posto per le sue opinioni e tanto meno per le supposizioni. E io – testimone – ho raccontato proprio i fatti, quelli che ho visto e che ho vissuto. Del resto, sono fatti di tale assoluta e riconosciuta oggettività che neppure il mio sentimento di ammirazione e di gratitudine potrà mai inficiare agli occhi di nessun giudice. E qui ne vedo tanti… Non credo però di togliere valore alla mia testimonianza, se aggiungo che per me l’Avvocato Caramazza è stato un esempio e un modello, una costante “lezione di vita” il suo quotidiano operare. Da Lui ho imparato tanto, e non solo sul piano giuridico e amministrativo, ma ancor prima sul piano dell’etica pubblica, del comportamento, del modo di assolvere ad una funzione pubblica e di servire lo Stato. Anche perché, al di là del rapporto istituzionale, sempre corretto e formalmente attento alla distinzione e alla diversità dei ruoli, a Lui ho potuto far ricorso anche in maniera più informale e diretta ogni volta che mi sono trovato alle prese con un problema delicato e difficile, ricevendone sempre orientamento e consiglio, conforto e aiuto. È stata per me una guida sicura, prodiga di insegnamenti, elargiti sempre con generosità, competenza e saggezza, pari solo alla discrezione, alla comprensione e alla signorilità. E questo mi ha consentito di scoprire anche la sua grande umanità, la sua cultura, il suo carattere forte e mite TEMI ISTITUZIONALI 3 al tempo stesso, la sua grande tempra morale. Non lo dimenticherò. Deriva da qui l’unico titolo che può forse giustificare la mia introduzione, oggi. Per questo incontro che è destinato a riflettere su una Istituzione come l’Avvocatura dello Stato e, insieme, a dare un giusto e meritato riconoscimento a chi, come l’Avvocato Caramazza, ricopre oggi così degnamente la carica di Avvocato Generale dello Stato e che al servizio di questa Istituzione ha speso tutta la vita. E c’è un profondo legame fra questi due aspetti. Le Istituzioni, come ci ha ricordato di recente il Presidente Carlo Azeglio Ciampi, non sono nozioni astratte, ma sono “fatte di uomini, dei quali esse finiscono per esprimere i valori, i convincimenti, in breve, la cultura”. La storia dell’Avvocatura dello Stato è, quindi, la storia di tanti Avvocati e Procuratori dello Stato che, ora come in passato, hanno donato le loro capacità e le loro energie per la difesa degli interessi pubblici, consentendo di vivere e operare all’Ufficio cui erano preposti. Il compito dell’Avvocato dello Stato - anche questo posso testimoniarlo di persona - non è dei più semplici: per la complessità delle questioni giuridiche da affrontare, per la delicatezza degli interessi in gioco, per l’ingente dimensione del contenzioso pubblico, gli Avvocati dello Stato sono spesso chiamati a offrire un contributo di eccellenza in tempi ristretti e in condizioni di lavoro non favorevoli. D’altro canto, proprio l’attività professionale svolta negli anni dall’Avvocato Caramazza non solo illustra le caratteristiche e i meriti della difesa erariale in Italia, ma, soprattutto, costituisce la prova di come il Corpo degli Avvocati dello Stato, grazie all’elevato livello di preparazione e al notevole spirito di sacrificio, abbia saputo risultare pienamente all’altezza del ruolo che era chiamato a ricoprire. Dal 1964 nell’Avvocatura dello Stato (che per 10 anni ha coordinato come Segretario Generale) l’Avvocato Caramazza ha sostenuto con successo la difesa erariale nei più delicati processi davanti a tutte le giurisdizioni. Ha, inoltre, operato sia in ambito internazionale, prestando la Sua consulenza a prestigiosi organismi delle Nazioni Unite, sia a livello di Governo, ricoprendo l’incarico di Sottosegretario di Stato al Ministero dell’Interno. È stato un impegno fecondo e particolarmente ricco di attività e di iniziative come testimonia la sua biografia densa di successi e di pubblicazioni. Una tra tutte però mi piace ricordare, quella svolta nell’ambito della Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi, della quale l’Avvocato Caramazza è stato autorevole ed ascoltato Vicepresidente. In tutta la sua carriera, l’Avvocato Caramazza ha saputo impersonare in modo esemplare la peculiare figura dell’Avvocato dello Stato che, come 4 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 si sottolineava già in un dibattito parlamentare della fine dell’Ottocento, partecipa, ad un tempo, della natura dell’avvocato, di quella del funzionario e, sotto un certo profilo, anche di quella del magistrato. Come gli altri protagonisti del Foro, l’Avvocato dello Stato è in primo luogo un avvocato e deve impiegare le sue elevate competenze tecniche per conseguire un risultato processuale. Si tratta, tuttavia, di un’attività di difesa legale con connotati particolari, perché per un verso essa è affidata a uno specifico ufficio statale al servizio esclusivo degli interessi pubblici – e in questo l’Avvocato dello Stato opera come un pubblico funzionario – mentre, per altro verso, è esercitata in posizione di indipendenza funzionale rispetto alle autorità politiche, e ciò avvicina l’Avvocato erariale al magistrato. Questi caratteri singolari hanno avuto modo di manifestarsi pienamente nel corso della storia dell’Avvocatura, ma erano rinvenibili con chiarezza già nei lineamenti fondativi dell’Istituto. Quanto alla posizione di indipendenza funzionale, ad esempio, già il primo Avvocato Generale dello Stato – Giuseppe Mantellini – nel suo celebre Decalogo invitava i suoi Avvocati dello Stato, “nel trattare gli affari erariali” a essere “prima giudici che avvocati”. Parimenti, l’assunzione diretta da parte dello Stato della rappresentanza e difesa in giudizio delle pubbliche Amministrazioni, affidata ad un particolare corpo di avvocati pubblici, era un carattere già rinvenibile nell’Avvocatura regia del Granducato di Toscana, sul cui modello venne concepita l’Avvocatura erariale italiana. La pluridecennale attività dell’Avvocato Caramazza, sia quando si è trattato di interagire con le Istituzioni regionali e locali sia nella trattazione del contenzioso costituzionale sia, infine, nella difesa della Repubblica italiana davanti alle Corti internazionali, alla Corte europea dei diritti dell’Uomo e soprattutto, davanti alla Corte di Giustizia e al Tribunale dell’Unione dà, poi, conto di un altro carattere distintivo e meritorio del sistema di difesa erariale in Italia: l’Avvocatura dello Stato come organo chiamato a considerare e rappresentare in modo indipendente e unitario gli interessi pubblici, al di là delle diverse articolazioni della struttura istituzionale. Sin dall’inizio, infatti, l’allora Avvocatura Erariale non venne concepita come Istituto preposto alla sola cura degli interessi dello Stato-apparato, visti in termini di contrapposizione rispetto agli altri interessi pubblici, ma come Istituto chiamato a farsi carico della visione unitaria degli interessi generali dello Stato-Comunità. Se in origine, quando l’unica forma di autonomia presente nel nostro ordinamento era quella comunale, questo significava affidare agli Avvocati dello Stato il compito di essere “pacieri sempre fra Stato e Comuni” – TEMI ISTITUZIONALI 5 cito sempre il Decalogo di Mantellini –, questo ruolo di composizione ha assunto un rilievo centrale a seguito di quel radicale processo di rinnovamento del modello statuale italiano che ha visto, in senso orizzontale, una progressiva valorizzazione delle competenze regionali e locali, culminata nella modifica del Titolo V della Costituzione, e, in direzione verticale, l’ampliamento progressivo dei livelli di integrazione del nostro sistema con realtà sopranazionali e internazionali. Quanto al primo aspetto, in un ordinamento che si avvia ad assumere un assetto quasi federale, l’Avvocatura dello Stato, proprio per la sua struttura capillare e la sua posizione di indipendenza, si candida a svolgere un importante ruolo di collegamento e di mediazione fra le diverse Amministrazioni statali e fra queste, le Regioni e gli enti locali, conservando una visione d’insieme degli interessi pubblici. Questo ruolo acquista preminente rilievo soprattutto quando l’Avvocatura dello Stato svolge un’attività di consulenza legale. Ancor più della difesa giudiziaria – che comporta, talvolta, soluzioni obbligate –, la consulenza consente di garantire la tutela non tanto e non soltanto dell’interesse contingente e parziale della singola Amministrazione, ma anche degli interessi pubblici generali, realizzando in concreto il principio di legalità. Riprova di questa attitudine è la proficua attività di assistenza che l’Avvocatura presta anche alle Autorità indipendenti. La competenza tecnica e la considerazione unitaria espresse al livello più elevato dall’Avvocatura dello Stato costituiscono, inoltre, un indispensabile ausilio nella gestione del contenzioso costituzionale tra lo Stato e le Regioni, al fine, da un lato, di ridurre la conflittualità; dall’altro, di indirizzare l’attività dell’Amministrazione centrale nell’alveo dei principi delineati dalla Corte Costituzionale. L’ambito nel quale questa peculiare missione dell’Avvocatura dello Stato emerge con maggiore evidenza è quella del contenzioso sopranazionale e internazionale in cui, per la naturale divaricazione fra la dimensione internazionale della responsabilità, imputata allo Stato nel suo insieme, e la ripartizione interna delle competenze legislative e amministrative, l’Avvocatura si trova sovente a difendere la Repubblica italiana in contenziosi originati da presunte azioni o omissioni riferibili a livelli di governo regionale o locale. Analoghe considerazioni possono farsi con riguardo al ruolo dell’Avvocatura dello Stato nella fase pre-contenziosa delle procedure di infrazione, nelle quali occorre rappresentare la posizione nazionale nelle relazioni con la Commissione europea, calandola nel peculiare contesto comunitario. L’attitudine dell’Istituto, maturata in primo luogo nel contenzioso costituzionale, a considerare in modo unitario e come espressione complessiva lo Stato, gioca un ruolo determinante proprio in questi settori. 6 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 Si tratta di un compito di particolare importanza che proprio l’Avvocato Caramazza ha saputo interpretare in modo ottimale, maturando nel corso degli anni un’esperienza di altissimo livello nella gestione del contenzioso costituzionale e nella difesa davanti alle Corti internazionali e dell’Unione europea e distinguendosi per l’accurata e equilibrata definizione della posizione dello Stato nei diversi giudizi. Se, dunque, è giusto trarre insegnamento da chi si distingue per la sua particolare conoscenza e esperienza – il Magister nell’etimo latino della parola è chi si dimostra “più grande” (superlativo da “magis”) - attendo, quindi, con piacere di ascoltare una lezione che a buon titolo merita la qualifica di “magistrale” e, sin d’ora, rivolgo a Lei, Avvocato Caramazza, e a tutti gli Avvocati e Procuratori dello Stato, un sincero ringraziamento. Lectio: La difesa dello Stato in giudizio e la soluzione italiana SOMMARIO: 1. Lo Stato in giudizio e la sua difesa in generale - 2. La soluzione italiana - 2.1. Gli uffici del contenzioso - 2.2. La riforma del 1865 e l’istituzione della Avvocatura Erariale - 2.3. La c.d. “controriforma Crispi” - 2.4. L’evoluzione successiva alla Costituzione repubblicana - 2.5. La crisi di trasformazione in atto - 3. L’Avvocatura dello Stato nell’ordinamento vigente: profili descrittivi - 3.1. Il rapporto dell’Avvocatura dello Stato con le amministrazioni statali e con il Governo - 3.2. Organizzazione dell’Avvocatura dello Stato - 3.3. La funzione di rappresentanza e difesa giudiziaria e la funzione consultiva - 4. L’Avvocatura dello Stato nell’ordinamento vigente: profili critici e ricostruttivi dell’attività funzionale - 4.1. La funzione di rappresentanza e difesa giudiziaria: il mandato legislativo diretto ex lege - 4.2. La funzione consultiva. Natura istituzionale dell’attività: caratteri comuni o differenziali rispetto alla consulenza generale del Consiglio di Stato - 5. Considerazioni conclusive e brevi notazioni sui costi e benefici dell’attività di istituto. 1. Lo Stato in giudizio e la sua difesa in generale Il problema dello Stato in giudizio e del come possa essere organizzata la sua difesa, suole generalmente essere collegato al principio della divisione dei poteri ed è considerato figlio della Rivoluzione francese sotto l’etichetta dell’assoggettamento dell’esecutivo al giudiziario. È questa una semplificazione riduttiva che appiattisce centinaia di anni di storia in una sintesi imprecisa, in quanto il problema nacque ben prima della rivoluzione francese e questa, lungi dall’assoggettare l’esecutivo al giudiziario volle creare, invece, un’amministrazione senza giudice. Bisogna, infatti, attendere la seconda metà dell’ottocento perché quell’assoggettamento possa considerarsi realizzato. In Francia come in Italia come in molti altri Paesi a regime amministrativo. TEMI ISTITUZIONALI 7 Per la verità l’esigenza che lo Stato, quanto meno in qualche suo aspetto, debba essere assoggettato al giudizio è stata avvertita – in modo invero confuso – anche in tempi antichissimi. La prima definizione razionale del problema compete al diritto romano dell’età imperiale, che, come è noto, distingueva l’Aerarium – patrimonio pubblico – dal Fiscus, patrimonio non personale ma privato dell’imperatore, affidatogli perchè potesse provvedere – da privato qual’ era – ad amministrare i servizi di Stato. Una singolarità del diritto romano dell’età imperiale era data dal fatto che l’imperatore non era considerato un pubblico funzionario ma un privato, anche se dotato di tutte le potestà pubbliche; potestà per il cui esercizio era necessario una adeguata provvista finanziaria. Tale singolarità deriva dalla raffinata tecnica utilizzata da Ottaviano per realizzare il passaggio di Roma dalla repubblica alla monarchia. Dopo il trionfo della battaglia di Azio, Ottaviano rinunciò alla carica di triumviro rei publicae constituendae ed il Senato lo insignì del titolo di Augusto, che aveva valenza quasi religiosa e che doveva prefigurare la futura deificazione – sia pure solo post mortem – degli imperatori romani (1) e gli offrì tutte le più importanti cariche dello Stato. Ottaviano rifiutò di volta in volta le cariche ma accettò di svolgerne le funzioni. Non volle, ad esempio, la carica di Tribuno ma accettò di esercitare la tribunicia potestas. Si trovò, così, in breve tempo, a cumulare nelle sue mani tutte le fondamentali potestà pubbliche, dall’imperium militiae in giù. Il passaggio dalla repubblica alla monarchia imperiale divenne così un fatto compiuto. In questo quadro il Fisco, patrimonio privato, a differenza dell’Erario, era dunque soggetto al giudizio ordinario (2) ed aveva quindi bisogno di un avvocato che lo difendesse in giudizio: il più famoso advocatus fisci fu Papiniano, non a caso evocato come predecessore dal Mantellini, ultimo Avvocato Regio di Toscana e primo Avvocato Generale Erariale del Regno d’Italia. L’età di mezzo, con la sua assoluta confusione di poteri, risospinse il problema nell’indistinto e bisogna attendere i regimi preliberali dell’assolutismo illuminato per vedere ricomparire il concetto abbozzato dal diritto romano e vederlo anzi precisare in termini dogmatici di assoluta chiarezza. Mentre nell’assolutismo puro vigeva il principio – consacrato nell’editto di Saint Germain – della assoluta inassoggettabilità a giudizio della pubblica Amministrazione, nei regimi di assolutismo illuminato – si parla della Prussia di Federico II il Grande, dell’Austria di Maria Teresa, della Toscana di Pietro Leopoldo di Lorena – si distingueva l’attività pubblica, l’actum principis, posto in essere iure imperii, come tale non giustiziabile (ma, a differenza che nell’assolutismo puro, già autolimitantesi con le regole della cameralistica e del diritto di polizia) dall’attività privata, iure gestionis, dello Stato inteso come ente patrimo- (1) E. MALCOVATI, Augusto in Enc. Italiana Treccani. (2) U. TAMBRONI, Avvocature Erariali, in II Digesto Italiano, UTET, 1893-1899 – p. 719 ss. 8 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 niale e come tale assoggettata al sindacato dei giudici ordinari (3). Si tratta dei famosi giudici di Berlino che già conosceva il mugnaio di Sans-Souci, si tratta dei giudici ordinari di Firenze, cui Pietro Leopoldo commise le cause patrimoniali del Granducato, affidandone la difesa ad un avvocato pubblico all’uopo istituito. Al tardo settecento prerivoluzionario va dunque datata la nascita del problema della difesa dello Stato in giudizio e nella stessa epoca va collocata la prima soluzione adottata, quella lorenese ora accennata. Con motu proprio 27 maggio 1777, infatti, il Granduca Leopoldo di Toscana istituiva la magistratura dell’Avvocato Regio (4) per “la difesa delle cause interessanti il Fisco, le Regalie ed il Nostro patrimonio ... le quali vogliamo siano trattate e difese con puro spirito di verità e di giustizia e che l’interesse del Fisco non prevalga mai alla ragione dei privati”. Veniva, così, realizzata una delle tante riforme grazie alle quali il Granducato, in un quarto di secolo (1765-1790), cambiò radicalmente volto. Quello che era stato un povero ed infelice paese, schiacciato da un regime assoluto di rigore secondo solo all’inefficienza organizzativa e dissanguato dal disordine e dalla rapacità degli amministratori, si trasformò in una serena oasi di civiltà, retta da un ordinato ed efficiente regime “pre-liberale”, che fece della Toscana leopoldina il centro di attenzione della cultura europea, il campo sperimentale delle più avanzate innovazioni propugnate dai filosofi, dagli economisti e dai giuristi più insigni del “secolo dei lumi”. Elencando alcune soltanto delle riforme leopoldine e con limitazione al settore della giustizia ricorderemo: la soppressione del Tribunale dell’inquisizione e di tutti i fori privilegiati, l’abolizione della pena di morte e della tortura “che assolve il reo robusto e condanna il debole innocente”, l’inviolabilità del diritto di difesa, l’introduzione dell’istituto del risarcimento dei danni per errori giudiziari e per ingiusta detenzione. Per sottolineare quanto in anticipo sui tempi fossero queste riforme, sia consentito ricordare che per l’introduzione nell’ordinamento dei due istituti per ultimo citati, l’Italia unita dovette attendere la seconda metà del secolo scorso. Cioè circa duecento anni ... 2. La soluzione italiana Il sistema italiano derivato dall’antenato toscano sopra descritto e che è proprio anche dell’Austria e della Spagna, potrebbe essere definito come sistema asburgico, perchè Austria, Spagna ed Italia (o, per essere più esatti, uno (3) M.S. GIANNINI, Istituzioni di diritto amministrativo, Milano, 1981, 11 ss. (4) Agli uffici pubblici del Granducato competeva la qualifica di “regi”, nonostante non facessero parte di un Regno, in virtù del titolo di Altezza Imperiale e Reale che spettava ai granduchi della dinastia Asburgo-Lorena (L. PACINOTTI: L’Avvocatura Regia del Granducato di Toscana, in Rassegna Mensile dell’Avvocatura dello Stato, 1956, 125). TEMI ISTITUZIONALI 9 degli Stati italiani preunitari) hanno in comune la circostanza storica di essere stati governati da dinastie che discendevano dal comune ceppo degli Asburgo. La matrice storico-culturale di tale sistema va cercata in quell’Austria teresiana che vide nascere la Cameralistica e il Diritto di polizia, scienze che furono precorritrici del diritto amministrativo. La relativa civiltà esprimeva una concezione schiettamente illuministica dell’amministrazione dello Stato, e privilegiava una ordinata ed attenta gestione del settore finanziario. In quello spirito e nell’ottica di una natura privatistica di quella attività, con conseguente sua sottoposizione a giudizio, fu dunque previsto, nell’ambito della gestione del patrimonio e della riscossione delle imposte, un ufficio legale che tutelasse gli interessi dell’amministrazione finanziaria nei confronti degli amministrati. Il sistema vide, quindi, il nascere di uno speciale organo, cui venne istituzionalmente affidata la difesa dello Stato in giudizio. L’Istituto, nato, così come si è visto, nella Toscana lorenese nel tardo ‘700 fu, poi trapiantato, dopo l’unificazione, nel Regno d’Italia. Dell’800 sono, invece, le analoghe “Finanzprokuratur” austriaca – con cui l’Avvocatura italiana è legata da un vero e proprio gemellaggio storico-culturale – e la “Direcciòn de lo Contencioso del Estado” spagnola, che ha assunto dal 1985, in occasione di una riforma, il nome di Servizio Giuridico dello Stato. Questo sistema in esame prevede che la difesa dello Stato in giudizio sia assunta da uno speciale organo tecnico costituito da avvocati che sono allo stesso tempo funzionari dello Stato ed esercitano una competenza a carattere generale, estesa, in linea di principio, a tutti i tipi di giudizio. La razionalità del sistema comporta tre vantaggi fondamentali: il primo è quello di ispirare una linea di condotta uniforme per tutte le cause, quale che sia il giudice davanti al quale si discute, il secondo è quello di creare una classe di avvocatifunzionari altamente specializzati. Il terzo vantaggio è di tipo economico, perchè si tratta ovviamente di un sistema che consente allo Stato, come meglio si vedrà in prosieguo, notevoli risparmi di spesa. Finanzprokuratur, Servizio Giuridico dello Stato, Avvocatura dello Stato sono istituti caratterizzati da un vincolo di dipendenza strutturale dalla pubblica amministrazione. In Austria l’istituto è alle dipendenze del Ministero delle Finanze, in Ispagna alle dipendenze del Ministero della Giustizia (ma era alle dipendenze di quello delle Finanze fino al 1984), in Italia è alle dipendenze della Presidenza del Consiglio, ma si tratta beninteso di un vincolo di dipendenza strutturale, non funzionale. Da un punto di vista funzionale esiste, invece, una garanzia di indipendenza correlata alla professionalità della funzione, professionalità incompatibile, com’è ovvio, con il principio di gerarchia. In altri termini l’incardinazione dell’Avvocatura nell’amministrazione in senso soltanto strutturale comporta una netta distinzione dell’organo tecnico da tutte le singole branche dell’Amministrazione che devono essere rappresentate e consiliate, con una conseguente visione d’insieme di tutto il conten- 10 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 zioso dello Stato dinanzi a tutte le giurisdizioni. Caratteristica, quest’ultima, particolarmente importante in uno Stato di non piccole dimensioni territoriali con una magistratura indipendente e caratterizzato dalla soggezione alla giurisdizione di una coesistente pluralità di Corti nazionali e sovranazionali, quale è il caso dell’Italia oggi. Una difesa dello Stato non unitaria ma parcellizzata in vari uffici del contenzioso incardinati nelle singole amministrazioni o confidata a vari avvocati liberi professionisti potrebbe, ad esempio, essere indotta a non impugnare una sentenza che viene reputato conveniente accettare nel singolo caso, con conseguente passaggio in giudicato di un precedente che, se diventasse diritto vivente, potrebbe esporre lo Stato alla soccombenza nelle migliaia di altri casi pendenti nel Paese ed ignoti al singolo difensore responsabile della decisione di non impugnare, con drammatiche conseguenze finanziarie per il Bilancio dello Stato. Altra ipotesi potrebbe essere quella della elaborazione di una tesi difensiva che, se accolta nella singola causa e divenuta poi diritto vivente, potrebbe esporre l’ordinamento ad una declaratoria di incostituzionalità della norma così interpretata o, peggio, ad una condanna in sede sovranazionale. Il sistema austro-ispano-italiano è stato adottato, con varie modificazioni, da qualche decina di Paesi. Gli Stati di tradizione anglosassone si ispirano, invece, in linea di principio ad una promiscuità di funzioni civili e penali del P.M.; Francia e Germania si affidano a funzionari specializzati delle singole Amministrazioni. In quasi tutti i sistemi diversi dal nostro è poi prevista, in varie misure, la possibilità del ricorso ad avvocati del libero foro (5) . 2.1 Gli uffici del contenzioso Come si è accennato, l’Avvocatura dello Stato italiana deriva dall’avvocato regio di Toscana. Il trapianto dell’istituto lorenese nell’ordinamento italiano non fu, però, immediato. All’indomani dell’unificazione, con R.D. 9 ottobre 1962, n. 915 venne esteso, invece, a tutto il Regno il sistema borbonico delle agenzie del contenzioso, modellato sull’esempio francese dell’agent judiciaire du trésor. Il che era perfettamente logico in un sistema, ispirato anch’esso a quello francese, di un contenzioso dello Stato affidato essenzialmente ai tribunali ordinari del contenzioso amministrativo, che costituivano una sorta di sistema di giustizia interno all’Amministrazione e dinanzi ai quali lo Stato si difendeva direttamente con propri funzionari. Gli uffici del contenzioso interpretarono in maniera estremamente riduttiva i loro compiti e si ridussero “... ad una amministrazione di spese pagate e (5) Per la bibliografia su tale specifico argomento comparatistico si rinvia agli atti del Convegno Giuridico Internazionale delle Istituzioni di assistenza e difesa legale delle Amministrazioni dello Stato, tenutosi a Roma il 10-14 maggio 1976, Roma, 1978. TEMI ISTITUZIONALI 11 di spese riscosse per liti perdute o per liti guadagnate ...” (6) guadagnando inoltre una fama di scarsa trasparenza nei metodi seguiti per l’affidamento ai liberi professionisti delle (peraltro poche) cause dello Stato che dovevano essere trattate dinanzi ai giudici ordinari e che erano naturalmente, all’epoca, soltanto quelle relative alle attività iure gestionis. 2.2. La riforma del 1865 e l’istituzione della Avvocatura Erariale Prima di passare alla storia della nascita e dello sviluppo dell’istituto sia consentita una osservazione di carattere generale. Quando la difesa dello Stato in giudizio venga affidata, come accade nel nostro ordinamento, ad un organo tecnico incardinato nell’Amministrazione, ma distinto dalle singole branche dell’Amministrazione, tale organo diventa allora un osservatorio privilegiato del variare del punto di equilibrio tra principio di libertà e principio di autorità. Punto di equilibrio che evolve nel tempo, in sintonia con le grandi crisi di trasformazione della società, dello Stato e del diritto. Si tratta di crisi che, per linee generalissime, possiamo individuare in quattro momenti: il passaggio dall’ancien régime allo Stato liberal borghese; il passaggio dallo Stato liberal borghese allo Stato sociale o, per usare una terminologia gianniniana, allo Stato pluriclasse; il passaggio dallo Stato pluriclasse allo stato cosiddetto post-moderno. L’ultima crisi, quella attuale, che stiamo vivendo ai giorni nostri, segna, infine, il passaggio dallo Stato postmoderno allo Stato minimo. Sono tutti cambiamenti che, semplificando al massimo, possiamo descrivere attraverso un diverso bilanciamento dei punti di equilibrio dei tre poteri tradizionali, legislativo, esecutivo e giudiziario che, da quando nacquero dall’indistinto del potere assoluto del sovrano, videro mutare (e di molto) le reciproche valenze nell’arco di due secoli, con conseguente intuitivo riflesso di tale mutamento sia sulla giustizia che sui compiti e le funzioni dell’avvocato che difende lo Stato in giudizio. Dobbiamo, ovviamente, prendere l’avvio da quella che è tuttora la pietra miliare del nostro ordinamento di giustizia amministrativa, la legge abolitrice del contenzioso amministrativo del 1865, legge che, come è noto, soppresse i tribunali speciali del contenzioso, devolvendo al giudice ordinario tutte le cause, anche contro l’Amministrazione, in cui si facesse questione di un diritto civile o politico. L’unico limite posto al giudice ordinario nei confronti dell’Amministrazione fu il divieto di annullare l’atto amministrativo, che poteva essere soltanto disapplicato. Fu una scelta di civiltà liberale coraggiosissima, perché si modellò su quella che era l’esperienza inglese, mediata attraverso la Costituzione belga del 1831 (dei cui articoli 92, 93 e 107, gli articoli 2, 4 e 5 della legge italiana (6) G. MANTELLINI, Lo Stato e il Codice civile, Firenze, 1883, III, 37. 12 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 abolitrice del contenzioso amministrativo rappresentano la letterale traduzione). Si trattò però di una scelta probabilmente troppo in anticipo sui tempi, tanto vero che fiorì, immediatamente dopo l’approvazione della legge abolitrice, la primavera di una giurisprudenza che, sulla falsariga del modello belga, concesse aperture estremamente allarmanti per la classe dirigente del tempo, inducendola a correre ai ripari con energiche controspinte conservatrici. Nell’anno 1876 era pacifica, infatti, una giurisprudenza di tutte le Corti di Cassazione italiane che consentiva a chi fosse stato danneggiato da un atto amministrativo (ad esempio da un provvedimento prezzi) di chiedere il risarcimento del danno (7). Era un riconoscimento della risarcibilità dei danni da lesione di interesse legittimo ante litteram, che precorreva i tempi di ben 125 anni. Tutto questo avveniva, poi, nonostante l’arcigna guardia montata dal Consiglio di Stato, all’epoca incardinato nell’esecutivo e però contraddittoriamente eretto in giudice dei conflitti fra potere esecutivo e potere giudiziario. In sintomatica coincidenza con la concessione alla Corte di Cassazione romana della funzione di giudice dei conflitti, la classe politica ebbe il timore di spingersi troppo in là, considerata anche la larga apertura liberale già effettuata dalla giurisprudenza. Come controspinta ad una riforma troppo in anticipo sui tempi istituì, quindi, l’avvocatura allora chiamata erariale, e non a caso perché la riduttiva denominazione dava ragione di quella che sarebbe stata la linea di difesa commessa al nascente istituto, creato al dichiarato scopo di contenere i poteri di sindacato del giudice sull’atto della pubblica amministrazione. L’avvocatura erariale si mosse, quindi, lungo la linea di contenere al massimo possibile l’ingerenza del giudiziario nei confronti dell’esecutivo. D’altra parte non dobbiamo dimenticare quale fosse all’epoca il rispettivo valore dei tre poteri tradizionali. Lo Stato liberal-borghese era nato con una supremazia del potere legislativo rispetto agli altri due. Era quella l’epoca delle grandi codificazioni, che realizzarono il sogno illuminista di una rete di regole generali ed astratte che imbrigliasse tutta la variegata dimensione dell’operare umano. In proposito aveva scritto Napoleone: Waterloo sarà dimenticata, ma il mio codice civile vivrà per sempre. Il potere esecutivo, forte nella sostanza, aveva però un campo di azione estremamente limitato: era quello il tempo dello “Stato gendarme”, che si limitava sostanzialmente a difendere le frontiere all’esterno e l’ordine pubblico all’interno. Il potere giudiziario, poi, era veramente figlio di un dio minore, perché dalla rivoluzione francese era nato un potere giudiziario guardato con sospetto e diffidenza, soprattutto quando veniva chiamato a sindacare l’esecutivo, perché era considerata verità di fede l’equazione: “giudicare l’Amministrazione equivale ad amministrare”. (7) Cass. Roma, 13 marzo 1876, in Foro it., 1876, I, 842. Nella nota redazionale si attestava che il principio affermato costituiva “giurisprudenza costante di tutte le cassazioni del Regno”. TEMI ISTITUZIONALI 13 L’Avvocatura erariale del tempo, sotto la guida di Giuseppe Mantellini, ultimo Avvocato Regio di Toscana e che era diventato primo Avvocato Generale Erariale, al fine di contenere i poteri del giudiziario nei confronti dell’esecutivo si mosse – con pieno successo – lungo tre direttrici: quella di negare la natura di diritti alle situazioni nascenti da leggi amministrative; quella di negare la possibilità per i giudici di disapplicare l’atto amministrativo che avesse direttamente recato un pregiudizio; infine, quella più grave, di negare giurisdizione al giudice quando l’Amministrazione avesse operato jure imperi. Ecco, quindi, perché l’Avvocatura si denominava erariale: perché lo Stato intendeva assoggettarsi al giudizio soltanto quando avesse operato nella sua veste di diritto privato. Quando avesse operato, invece, come autorità esso doveva ritenersi sottratto al sindacato giurisdizionale. Alla stregua, cioè di quanto avveniva ai tempi dell’assolutismo illuminato. Alla primavera della giurisprudenza liberale succedette, quindi, per gli amministrati, l’inverno del più profondo scontento (8). Si verificava, così, uno di quegli ironici contrappassi di cui la storia non è avara: un Istituto nato cento anni prima in uno Stato preunitario come avanguardia preliberale veniva trapiantato nell’Italia unita in funzione di controspinta conservatrice. 2.3. La c.d. “controriforma Crispi” Il révirement giurisprudenziale ora descritto suscitò le più vibrate proteste della società civile e dei suoi più illuminati rappresentanti, fra i quali spiccava Silvio Spaventa, dalle cui iniziative nacque, nel 1889, la Quarta Sezione del Consiglio di Stato. La relativa legge è nota anche come “controriforma Crispi” e va notato, però, che essa non nacque affatto in spirito controriformistico, perché si continuava a pensare che unico giudice, unica giurisdizione, fosse quella del giudice ordinario. La Quarta Sezione del Consiglio di Stato veniva investita quindi, secondo le intenzioni del legislatore del tempo, di un compito amministrativo di giustizia interna all’Amministrazione, con la funzione di sindacare la legittimità degli atti amministrativi attraverso una valutazione di tipo esclusivamente cassatorio (9). L’Avvocatura erariale, per bocca del suo Avvocato Generale, fu tra i grandi sostenitori della legge Crispi. Fu, poi, ancora l’Avvocatura erariale, con un ricorso alle sezioni unite della Cassazione romana, a provocare nel 1893 quella sentenza che riconobbe al Consiglio di Stato natura giurisdizionale (10), determinando quindi, il passaggio, nell’arco di appena quattro anni, del Consiglio di Stato, da organo di giustizia interna, ad organo giurisdizionale, per tale legislativamente confermato nel 1907. Questo, però, determinava anche (8) Atti Parlamentari, Senato del Regno, Discussioni, Tornata del 20 marzo 1888, 1170. (9) N. SCIALOIA, Come il Consiglio di Stato divenne organo giurisdizionale, Riv. Dir. Pubbl. 1931, 411. (10) Cass. SS.UU. Roma 21 marzo 1893 n. 177 in Foro it. 1893, I, 294. 14 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 una promozione dell’Avvocatura, che non era più soltanto il difensore della personalità patrimoniale dello Stato, ma diventava difensore del potere esecutivo e delle sue prerogative e quindi avvocato a tutto tondo “dello Stato” e non più soltanto dello Stato come persona privata. Il disegno si doveva completare negli Anni ‘20 e ‘30 del secolo scorso con l’unificazione della Cassazione a Roma, con l’incardinamento dell’Avvocatura dello Stato, del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti nella Presidenza del Consiglio, con l’istituzione del Foro erariale e con il mutamento, anche formale, della denominazione da Avvocatura erariale in Avvocatura dello Stato (11). Tale mutazione corrisponde al passaggio dallo Stato liberal-borghese allo Stato sociale, o pluriclasse, in cui l’equilibrio dei tre poteri si modifica; il potere esecutivo abbandona le dimesse vesti di guardiano notturno e comincia ad occuparsi di edilizia, di sanità, di istruzione, di credito, di assicurazioni. Aumenta anche l’importanza del potere giudiziario che finalmente può sindacare l’esecutivo mentre arretra il legislativo. Dominante, in questa fase, appare dunque il potere esecutivo, tant’è vero che tra le due grandi guerre del secolo scorso, allignarono le peggiori dittature che la storia ricordi. In questo periodo l’Avvocatura dello Stato diventò il difensore delle prerogative del potere pubblico, e questo sia nel giudizio civile, nel quale allora le prerogative del potere pubblico erano molte ed importanti (basti ricordare il solve et repete), sia dinanzi al giudice amministrativo, dove l’avvocato dello Stato deduceva in giudizio la presunzione di legittimità dell’atto amministrativo. Così come nella fattoria degli animali tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri - diceva acutamente Piccardi - ci sono giudizi di parti in cui una parte è un po’ meno parte dell’altra. Questo era il caso del giudizio amministrativo in cui, anche simbolicamente, la funzione dell’avvocato dello Stato era raffigurata in posizione diversa da quella dell’avvocato difensore della parte privata, perché l’avvocato dello Stato siede alla destra del giudice, sul banco che nei giudizi penali compete al Pubblico Ministero. Oggigiorno, probabilmente, questo è soltanto un retaggio del passato, un simbolo, così come è un simbolo la parrucca bianca dell’avvocato inglese, perché, come è noto, al tempo attuale le prerogative della difesa pubblica non esistono praticamente più. 2.4. L’evoluzione successiva alla Costituzione repubblicana Terza crisi di trasformazione è quella del passaggio dallo Stato sociale allo Stato detto post-moderno, con definizione puramente diacronica. Essa intercorre nel periodo che, per semplificare, va dalla Costituzione repubblicana fino, grosso modo, al 1990. (11) G. MANZARI, Avvocatura dello Stato, Digesto, IV ed., Torino, 1988, II ss.. TEMI ISTITUZIONALI 15 Volendo ricorrere ad una definizione più sostanzialistica e ricorrendo al criterio del bilanciamento dei poteri tradizionali, si può constatare come il potere che avanza impetuosamente nella seconda metà del secolo scorso è il giudiziario, tant’è vero che il relativo tipo di Stato è stato anche autorevolmente chiamato da Mario Nigro “Stato di giurisdizione”. La mano pubblica, non solo in Italia, in quel torno di anni, aveva dilatato enormemente la sua sfera di influenza, quindi i punti di crisi, di contatto e conflitto tra Amministrazione e cittadino erano andati aumentando. Si diceva che un bravo cittadino inglese, prima della prima guerra mondiale, non si sarebbe mai accorto della presenza dello Stato se non fosse stato per gli uffici postali e per i poliziotti (12). Certo questo non avrebbe più potuto essere detto in nessun paese dell’occidente negli anni ‘70 o negli anni ‘80 del secolo scorso. Vi era quindi un’esigenza accresciuta di domanda di giustizia e di partecipazione determinata anche da un miglioramento del tenore di vita e sintomatizzata in tutto il mondo da una serie di dati caratteristici, come l’irraggiamento dell’istituto dell’ombudsman, che, se non è istituto giurisdizionale, è però uno strumento di giustizia nell’Amministrazione; il progredire delle regole sul procedimento ed una maggior attenzione alle esigenze partecipative del cittadino; l’introduzione nei procedimenti amministrativi di regole quasi giudiziali; un aumento dei poteri del giudiziario nei confronti dell’esecutivo. In una parola, un aumento della domanda di giustizia, un aumento della risposta di giustizia, un aumento della incisività della risposta di giustizia, soprattutto nei confronti della Pubblica Amministrazione. Questo sia nei paesi a regime amministrativo, come il nostro, sia nei paesi di common law come ad esempio, l’Inghilterra. In Italia l’avanzata impetuosa del potere giudiziario è andata addirittura al di là, perché quella che ormai viene chiamata comunemente la “rivoluzione dei giudici”, alle soglie dell’ultimo decennio del secolo scorso, ha spazzato via un’intera classe politica, agendo come punta avanzata di una marea montante di lungo respiro che aveva interessato l’intero occidente industrializzato e determinando, in Italia, quello che è stato definito come passaggio dalla prima alla seconda Repubblica. Come è mutata in questo periodo la natura della difesa dello Stato? È mutata nel senso che l’Avvocatura ha assunto un’altra dimensione, ulteriore rispetto a quelle precedenti. È rimasta, certo, la difesa dello Stato sia come persona pubblica che come persona privata dinanzi agli organi di giustizia ordinaria e amministrativa (difesa depurata, però, di quelli che erano stati i privilegi del passato). Ma ad essa si è aggiunta una nuova dimensione, quella di una rappresentanza e difesa dello Stato non soltanto come potere esecutivo, ma nella sua unitarietà, segnatamente di soggetto di diritto internazionale o (12) A.J.P. TAYLOR, English History, 1914-1915 cit. in H.W.R. WADE, Administrative Law, V ed. Oxford 1984. 16 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 sopranazionale. Ciò ad esempio dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, o dinanzi alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja; ed ancora, rappresentanza e difesa dello Stato non come potere esecutivo ma come ordinamento, ad esempio nei giudizi incidentali dinanzi alla Corte Costituzionale sulla legittimità delle leggi. Questa appare indubbiamente come l’assunzione di una dimensione ulteriore e direi di non poco momento cui va aggiunta l’assunzione delle difesa di nuovi soggetti assistiti, quali numerosissimi enti pubblici nazionali ed internazionali o sovranazionali quali numerosi Stati esteri, la Commissione UE, la B.E.I. e la F.A.O.. 2.5. La crisi di trasformazione in atto Veniamo adesso alla parte più difficile della nostra analisi, più difficile perché attiene alla crisi di trasformazione che stiamo vivendo adesso, ed il contemporaneo è il meno privilegiato degli osservatori. Si tratta del passaggio dallo Stato di giurisdizione allo Stato attuale e che è stato chiamato in molti modi. Forse la denominazione più suggestiva è però quella di “Stato minimo”. Il pendolo della storia ha cambiato direzione a seguito di molti avvenimenti, primo fra tutti la caduta del “muro di Berlino”, caduta che è simbolo della crisi di un’ideologia collettivistica che aveva realizzato il massimo dell’intervento della mano pubblica. L’implosione dell’impero che ne rappresentava l’inveramento in terra ed il consolidarsi a livello continentale dei valori guida dell’Unione europea - la concorrenza ed il mercato - hanno innescato quella che è stata definita la corsa verso il privato e quindi verso lo Stato minimo, in uno scenario in cui i valori del mercato si sostituiscono a quelli della politica. Il quadro non è privo, naturalmente, di singolari contraddizioni, perché, come insegnava un liberista della statura di Einaudi, la prima necessità di un mercato sono i carabinieri che ne fanno osservare le regole ed i nuovi carabinieri di questo nuovo Stato gendarme sono le Autorità Indipendenti che debbono far osservare le regole del mercato. Sennonché le Autorità indipendenti sono, dal punto di vista formale, autorità amministrative, che operano attraverso atti amministrativi. La loro attività ricade, quindi, in via generale sotto il sindacato del giudice amministrativo, così come sotto il sindacato del giudice amministrativo viene a ricadere l’attività svolta con procedure ad evidenza pubblica di soggetti che, in realtà, non sono pubblici ma privati. La privatizzazione dello Stato si è risolta, quindi, contraddittoriamente in Italia in un ampliamento della competenza del giudice, quanto meno nella sua epifania di giudice amministrativo. A ciò si è aggiunta la rivoluzione di fine millennio nella giustizia amministrativa. Rivoluzione che ha la caratteristica di avere realizzato nell’arco di tre anni, dal 1997 al 2000, attraverso un’accelerazione improvvisa, i risultati finali di linee di tendenza che si erano venute faticosamente dipanando nel corso dei precedenti cinquant’anni, in particolare con l’affidamento al giudice TEMI ISTITUZIONALI 17 amministrativo di quel formidabile strumento di controllo sociale che è la tutela risarcitoria e ciò non solo con riguardo ai danni da lesione di diritti soggettivi, in sede di giurisdizione esclusiva, ma anche a quelli derivanti da lesione di interessi legittimi. Veniva così esorcizzato un duplice dogma più che centenario e segnata un’ulteriore importante tappa nella avanzata del potere giudiziario (13). Cosa muta in questo quadro nel rapporto tra poteri dello Stato? Qual è la posizione dell’Avvocatura dello Stato in questo nuovo assetto? L’osservatore contemporaneo, lo ripeto, è il meno privilegiato, in quanto è estremamente difficile cogliere una realtà in divenire, ed un divenire, per di più, così rapido. Ho l’impressione che il progresso tecnologico velocissimo abbia superato quelle che sono le nostre realtà istituzionali, attualmente inadeguate a contenerlo. Lo stesso dicasi per la fuga in avanti di una finanza internazionale disancorata, non solo da qualunque principio etico, ma anche da qualsiasi collegamento con l’economia reale e che costituisce una seria minaccia per l’economia degli Stati e per lo stesso equilibrio geopolitico. De Rita ha parlato di deistituzionalizzazione, di destrutturazione dell’Amministrazione Pubblica e sicuramente i punti di equilibrio e di bilanciamento dei tre poteri dello Stato non sono più quelli del passato anche recente, mentre, per l’Avvocatura si va accentuando un dualismo già constatato nello Stato di giurisdizione. Essa è, infatti, da un lato, difensore dello Stato, soprattutto dinanzi al giudice amministrativo (recessive apparendo le funzioni del giudice ordinario nei giudizi con lo Stato) con una posizione da avvocato tendenzialmente equiordinata a quella del difensore privato. Essa acquista e potenzia, poi, una dimensione diversa e più squisitamente pubblicistica in quelli che sono i giudizi di costituzionalità (in cui opera più come amicus curiae che come avvocato) ed i giudizi dinanzi alle corti internazionali e sovranazionali in cui rappresenta non già lo Stato-amministrazione, sibbene lo Stato come personificazione anche esterna di tutta la Comunità nazionale; per non parlare, da ultimo, delle cause in cui difende le Autorità indipendenti, e che presentano problematiche tutte particolari. Dal punto di vista della natura della crisi che lo Stato, la società e il diritto stanno attraversando, forse si sta avverando la profezia che Giannini faceva più di vent’anni fa, quando parlava della crisi dello Stato nazionale nella sua configurazione seicentesca teorizzata da Jean Bodin. Stato nazionale che, dopo quattro secoli di storia, sarebbe giunto alla fine del suo ciclo vitale. Un segnale importante in questo senso nel nostro Continente è il dialogo quotidiano che gli operatori del diritto nazionali debbono intrattenere, in Europa, con le Corti di Lussemburgo e di Strasburgo, auspicabile auspicio di un (13) I.F. CARAMAZZA, Le nuove frontiere della giurisdizione amministrativa (dopo la sentenza della Corte Costituzionale 8 luglio 2004 n. 204) in R. Avv. S. 2004, 741 ss. 18 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 possibile, ma purtroppo non certo né prossimo futuro intitolato agli Stati Uniti d’Europa. 3. L’Avvocatura dello Stato nell’ordinamento vigente: profili descrittivi 3.1 Il rapporto dell’Avvocatura dello Stato con le amministrazioni statali e con il Governo Passando a delineare un breve quadro descrittivo dell’ordinamento dell’Avvocatura, si può osservare come la normativa che regge l’Istituto nella sua attuale configurazione si articoli in due testi legislativi fondamentali: il t.u. r.d. 30 novembre 1933, n. 1611 che segnò il culmine e la sistematizzazione di una serie di riforme maturate fra le due guerre e la l. 3 aprile 1979, n. 103 che, a sua volta, sistematizzò, da un lato, le nuove funzioni che l’Istituto era andato assumendo nel nuovo assetto dello Stato repubblicano accentuò, dall’altro, insieme con la vocazione giustiziale, quella tecnico-professionale dell’Avvocatura nel quadro di una riforma che, seppure parziale, ha valori di fondo ispirati a principi di efficienza e democraticità (14). Riservando al seguito l’approfondimento della posizione acquisita dall’Istituto nel sistema della Costituzione vigente, è certo da escluderne l’immedesimazione con gli organi dell’amministrazione pubblica, nei cui confronti esercita la funzione istituzionale, autonoma e indipendente, di consulenza e difesa in giudizio (15). L’Istituto è, infatti, attributario per legge, in via generale, del compito di provvedere “alla tutela legale dei diritti e degli interessi dello Stato” di corrispondere alla richiesta di consultazione di tutte le amministrazioni statali, “di consigliarle e dirigerle quando si tratti di promuovere, contestare o abbandonare giudizi”. A tal fine, corrisponde “direttamente” con dette amministrazioni, che sono tenute a fornirgli i chiarimenti, le notizie e i documenti necessari per l’adempimento delle sue attribuzioni. Tale disciplina concorre a chiarire la portata della statuizione di legge secondo la quale “gli uffici dipendono dal Capo del Governo Primo Ministro Segretario di Stato (oggi Presidente del Consiglio dei Ministri) e sono posti sotto l’immediata direzione dell’Avvocato Generale. Siffatta dipendenza dal vertice del governo, espressamente riferita agli “Uffici” non può che riguardare il sistema organizzatorio di questi, e così la provvista del personale e dei mezzi finanziari e strumentali, la costituzione dei rapporti di servizio (le nomine sono disposte per gli avvocati e procuratori, con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio) e gli eventuali altri provvedimenti di stato giuridico nonché ogni (14) B.G. CARBONE, Avvocatura dello Stato in N.N.D.I. App. I, Torino, 1980 p. 625-626. (15) P.G. FERRI, Avvocatura dello Stato, Voce dell’Enciclopedia italiana Treccani. TEMI ISTITUZIONALI 19 altra iniziativa connessa con la responsabilità politica del Presidente del Consiglio e inerente all’organizzazione e alla rispondenza dell’attività dell’Istituto ai compiti fissati dalla legge o sulla base di essa affidatigli. Fuori discussione è invece l’indipendenza e l’autonomia funzionale di ordine tecnico-professionale (16), vieppiù accentuata dalle innovazioni portate dalla l. n. 103 del 1979. 3.2 Organizzazione dell’Avvocatura dello Stato Sotto il profilo organizzativo gli uffici dell’Avvocatura sono costituiti dalla Avvocatura Generale e dalle Avvocature Distrettuali. La prima con sede in Roma e competenza estesa all’ambito nazionale per quanto non riservato alla competenza degli uffici distrettuali, aventi sede in ciascun distretto di Corte d’Appello e quindi, di massima, in ciascun capoluogo di regione. Fanno eccezione alla regola il distretto di Roma, per il quale l’Avvocatura generale svolge anche l’attribuzione territoriale di Avvocatura distrettuale e la Valle d’Aosta per cui ha competenza l’Avvocatura distrettuale di Torino. Il criterio di riparto delle competenze è, ovviamente, quello territoriale della localizzazione del giudice competente o dell’ufficio richiedente il parere. L’Avvocatura generale è inoltre competente funzionalmente dinanzi ai collegi internazionali o comunitari, e, in materia consultiva, per i pareri che involgano questioni di massima. Al vertice dell’Istituto è posto l’Avvocato generale, coadiuvato dall’Avvocato Generale Aggiunto (17), qualifiche che la legge tiene separate e distinte, dagli altri avvocati dello Stato, i quali, con l’entrata in vigore della l. n. 103 del 1979, sono ordinati in tale unica qualifica, a sua volta distinta dalla quarta qualifica che è quella dei procuratori. L’Avvocato generale dello Stato è nominato con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri previa deliberazione del Consiglio stesso. I suoi compiti sono i seguenti: - determinare le direttive inerenti alla trattazione degli affari contenziosi e consultivi; - presiedere e convocare il Consiglio degli avvocati e procuratori dello Stato ed il Comitato consultivo; - vigilare su tutti gli uffici, servizi e il personale dell’Avvocatura dello Stato e soprintendere alla loro organizzazione, dando le opportune disposizioni ed istruzioni generali; - risolvere, sentito il Comitato consultivo, le divergenze di parere sia tra gli uffici distrettuali dell’Avvocatura dello Stato, sia tra questi e le singole amministrazioni; - assegnare agli avvocati e procuratori in servizio presso l’Avvocatura ge- (16) Cons. Stato Ad. Gen. 23 novembre 1967 n. 1237. (17) Art. 6 bis, D.L. 24 dicembre 2003 n. 354 convertito con L. 26 febbraio 2004 n. 45. 20 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 nerale dello Stato gli affari contenziosi e consultivi, in base a criteri stabiliti dal Comitato consultivo; - riferire periodicamente al Presidente del Consiglio dei Ministri sull’attività svolta dall’Avvocatura dello Stato, presentando apposite relazioni, e segnalare le eventuali carenze legislative ed i problemi interpretativi che emergono nel corso dell’attività dell’istituto; - fare le proposte ed adottare i provvedimenti espressamente attribuiti alla sua competenza, nonché ogni altro provvedimento riguardante gli uffici ed il personale dell’Avvocatura dello Stato, che non sia attribuito ad altra autorità. L’Avvocato generale dello Stato è coadiuvato, nei suoi compiti, da otto avvocati dello Stato che abbiano conseguito l’ultima classe di stipendio, cui viene conferito – su sua proposta motivata, formulata sentito il Consiglio degli avvocati e procuratori dello Stato e con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri – l’incarico di Vice Avvocato generale. Gli otto Vice Avvocati Generali sono responsabili dell’attività di altrettante sezioni, competenti ciascuna per la consiliazione e la difesa di un certo numero di Amministrazioni. L’Avvocato generale è, inoltre, assistito da un avvocato dello Stato che abbia conseguito la terza classe di stipendio con l’incarico di Segretario generale. Tale incarico viene conferito per un periodo di cinque anni (rinnovabile una sola volta) con le stesse modalità di cui sopra, esclusa la necessità di una deliberazione del Consiglio dei Ministri. Il Segretario generale, oltre ad assistere l’Avvocato generale nell’esercizio delle sue funzioni, cura il funzionamento degli uffici e dei servizi, sovrintende agli affari amministrativi e riservati ed esercita le funzioni di capo del personale amministrativo. Gli Avvocati distrettuali sono incaricati della direzione degli uffici periferici – con la stessa procedura prevista per il conferimento dell’incarico di Segretario generale – con scelta effettuata fra gli avvocati dello Stato che abbiano conseguito da almeno cinque anni la terza classe di stipendio, ed esercitano mutatis mutandis, in sede locale, le stesse funzioni assolte dall’Avvocato generale in sede centrale. Passando agli organi collegiali, occorre rammentare in primo luogo il Consiglio degli avvocati e procuratori dello Stato, che è organo capace di sviluppare funzioni di autogoverno del corpo, pur avendo limitate funzioni deliberanti. Esso è composto dall’Avvocato generale dello Stato che lo presiede, dai due Vice Avvocati generali e dai due Avvocati distrettuali rispettivamente più anziani nell’incarico, e da quattro componenti di cui almeno uno procuratore dello Stato, eletti da tutti gli avvocati e procuratori dello Stato riuniti in un unico collegio elettorale. Oltre ad esplicare le funzioni in precedenza attribuite alla Commissione permanente per gli avvocati e procuratori dello Stato, previste dai rr.dd. 30 no- TEMI ISTITUZIONALI 21 vembre 1933, n. 1611 e n. 1612, tale organo provvede ad esprimere pareri sulla distribuzione dei legali dell’Avvocatura tra l’Avvocatura generale e le Avvocature distrettuali nonché sull’assegnazione degli avvocati e procuratori di prima nomina ai vari uffici e sui trasferimenti; esprime giudizi in merito alla progressione nelle classi di stipendio; decide i ricorsi proposti dagli avvocati e procuratori dello Stato avverso il provvedimento con cui viene disposta la sostituzione nella trattazione degli affari loro affidati; formula parere sul conferimento degli incarichi e sui collocamenti fuori ruolo; esercita nei confronti degli avvocati e dei procuratori dello Stato funzioni di Commissione di disciplina; designa gli avvocati dello Stato che debbono far parte del Comitato consultivo. Il Comitato consultivo – espressione del principio di collegialità sul piano tecnico-istituzionale – è, invece, composto dall’Avvocato generale che lo presiede, da sei avvocati dello Stato, designati dal Consiglio degli avvocati e procuratori dello Stato, i quali devono aver conseguito almeno la terza classe di stipendio, non ricoprire l’incarico di Segretario generale e non essere componenti del Consiglio degli avvocati e procuratori dello Stato. L’organo è di volta in volta integrato con due avvocati designati, per ogni singolo affare, dall’Avvocato generale. Nell’attività istituzionale dell’Avvocatura tale organo “attiva l’esigenza della collegialità” a livello centrale (18). Esso, infatti, ha il potere di dirimere le divergenze di opinione che insorgono nella trattazione degli affari contenziosi e consultivi fra avvocati che esercitano funzioni direttive e avvocati cui sono assegnati gli affari stessi; di determinare i criteri per l’assegnazione degli affari; di formulare pareri su questioni di massima o particolarmente rilevanti e, quando lo disponga l’Avvocato generale, esprimere i pareri richiesti all’Istituto. Fra gli organi collegiali va ricordato, ancora il Comitato permanente per il personale amministrativo, composto dall’Avvocato generale, che lo presiede, da rappresentanti degli avvocati e procuratori e da rappresentanti del personale amministrativo, con i compiti che il testo unico impiegati civili dello Stato attribuisce al Consiglio di amministrazione. Il Consiglio di amministrazione dell’Avvocatura dello Stato, provvede a formulare pareri e proposte sull’organizzazione e sullo svolgimento dei servizi, a fissare i criteri per la ripartizione, tra i vari uffici dell’Avvocatura, delle somme stanziate in bilancio; ad esercitare le attribuzioni di cui all’art. 146 d.p.r. 10 novembre 1957, n. 3. In tale sistema organizzativo si inquadra l’attività tecnica di Istituto – consistente nella “trattazione di affari consultivi e contenziosi” – affidati, mediante atti di assegnazione, a singoli avvocati e procuratori dello Stato (il cui ruolo prevede complessivamente 369 posti) che provvedono alla relativa trattazione (18) S. SANTORO, L’Avvocatura dello Stato dopo la legge 3 aprile 1979 n. 103, T.A.R. 1981, II, 291. 22 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 nella pienezza della loro autonomia tecnico-professionale, ed osservate nell’ambito dell’organizzazione istituzionale, le direttive di massima impartite dagli avvocati che esercitano nell’Istituto le funzioni direttive. Una delle più radicali innovazioni introdotte dal legislatore del 1979, è stata quella di affrancare la figura dell’avvocato dello Stato da obsolete scorie burocratiche esprimentesi in un complesso di qualifiche vicarianti e sostitutive, non consone con la sostanziale identità della funzione di tutti gli appartenenti al corpo e alla dignità della professione. Ispirandosi, in base a una costante prassi di equiparazione, ai criteri seguiti per la progressione in carriera dei magistrati ordinari dalla l. 22 dicembre 1973, n. 831, il legislatore del ’79 ha ridotto a quattro le qualifiche: Avvocato generale, Avvocato Generale Aggiunto, Avvocato dello Stato e Procuratore dello Stato. Nell’ambito della terza e della quarta è, poi, previsto un criterio di progressione economica (articolato in quattro classi di stipendio) secondo anzianità congiunta al giudizio di merito favorevole espresso dal Consiglio degli avvocati e procuratori dello Stato: va rilevato che all’interno della qualifica di avvocato la distinzione di classi non ha soltanto rilevanza di progressione economica ma anche di qualificazione professionale (per la scelta dei Vice Avvocati generali, degli Avvocati distrettuali e del Segretario generale). Alla carriera si accede esclusivamente per pubblico concorso, di primo grado per i procuratori e di secondo grado per gli avvocati. I procuratori dello Stato possono, peraltro, diventare avvocati per promozione invece che per concorso (art. 5 l. n. 103 del 1979) per anzianità (almeno otto anni) congiunta a merito valutato dal menzionato Consiglio. Particolare rilevanza deve attribuirsi ai fini interpretativi della normativa giuridica (ed economica) di stato degli avvocati dello Stato, di cui all’art. 23 del r.d. n. 1611 del 1933 che ne stabilisce l’equiparazione (secondo una tabella di raffronto, costantemente aggiornata in sede legislativa) ai magistrati dell’ordine giudiziario. In forza di tale disposizione, e se non diversamente stabilito da altra speciale norma legislativa, ad esempio, un avvocato dello Stato alla quarta classe di stipendio è equiparato a tutti gli effetti giuridici (quale l’applicazione dell’art. 135, 2° co., Cost.) ad un Presidente di sezione della Corte di cassazione. Esiste infine un ruolo del personale amministrativo dell’Avvocatura, soggetto, salvo a specifiche deroghe, all’ordinamento generale del pubblico impiego statale. Detto personale è addetto ai servizi relativi: a) agli affari generali e amministrativo-contabili, b) all’attività professionale (a supporto degli avvocati e procuratori dello Stato), c) all’informazione e alla documentazione (art. 1 l. 15 ottobre 1986, n. 664). 3.3. La funzione di rappresentanza e difesa giudiziaria e la funzione consultiva Le due fondamentali funzioni dell’Avvocatura dello Stato sono la rappre- TEMI ISTITUZIONALI 23 sentanza e difesa in giudizio, da un lato, e la consulenza legale, dall’altro. La prima è ispirata ad una tendenziale universalità di patrocinio di fronte “a tutte le giurisdizioni” con pochissime e non significative eccezioni. L’elencazione – dai tradizionali giudizi civili, penali, amministrativi e arbitrali ai più recentemente contemplati giudizi dinanzi alla Corte Costituzionale ed ai Collegi comunitari (quali la Corte di Giustizia delle Comunità europee) ed internazionali (quali la Corte di Giustizia internazionale dell’Aja) sarebbe un fuor d’opera. Strettamente connesse con la difesa in giudizio sono le deroghe al comune diritto processuale in tema di rappresentanza (conferita ex lege con la conseguente esenzione della necessità di mandato ad litem), di foro speciale (foro dello Stato), di notifica presso l’Avvocatura dello Stato competente di tutti gli atti processuali diretti a soggetti da essa patrocinati introdotto dalla l. 25 marzo 1958, n. 260. Passando all’esame della funzione consultiva, giova subito osservare come la normativa in materia sembra attribuire all’istituto due tipi di consulenza: una consulenza legale di tipo “giudiziario” funzionalmente collegata ad una lite in potenza o in atto ed una consulenza giuridica “generale” (anche su atti di normazione di varo rango). L’art. 1 del t.u. del 1933 recita testualmente: “L’Avvocatura dello Stato provvede alla tutela legale dei diritti e degli interessi dello Stato; alle consultazioni legali richieste dalle amministrazioni ed inoltre a consigliarle e dirigerle quando si tratti di promuovere, contestare o abbandonare giudizi; esamina progetti di legge, di regolamenti, di capitolati redatti dalle amministrazioni, qualora ne sia richiesta; predispone transazioni, d’accordo con le amministrazioni interessate; esprime parere sugli atti di transazione redatti dalle amministrazioni; prepara contratti e suggerisce provvedimenti intorno a reclami o questioni mossi amministrativamente che possono dar materia di litigio”. L’esercizio della consulenza è attribuzione di istituto e la relativa esternazione sotto forma di parere, compete all’ufficio territorialmente competente e cioè l’Avvocatura distrettuale o l’Avvocatura generale. La competenza territoriale è derogata quando si tratti di pareri “di massima” o di “particolare rilevanza” per i quali il parere deve essere reso dall’Avvocatura generale, che in tale ipotesi lo rende sentito il Comitato Consultivo (art. 26 l. n. 103 del 1979, 1° co.). L’attività consultiva dell’Avvocatura si caratterizza per autonomia e indipendenza del giudizio ed assume il connotato garantistico di una pronuncia pro-veritate di natura giustiziale. Tale natura è resa evidente anche dalla disciplina dell’eventuale contrasto di opinioni insorte tra estensore e responsabile dell’Ufficio. In tal caso la legge rimette la questione alla risoluzione del Comitato consultivo, al quale è riservata la definizione dell’atteggiamento dell’Istituto al riguardo, ferma restando la facoltà dell’estensore la cui tesi sia rimasta minoritaria, di chiedere di essere sollevato dalla trattazione dell’affare. Il che ga- 24 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 rantisce l’autonomia professionale del singolo avvocato. Va, per ultimo, considerata la competenza diretta del Comitato consultivo ad esprimere pareri, quando l’Avvocato generale investa quell’organo collegiale del compito di corrispondere esso stesso alla richiesta dell’amministrazione. Può infine inquadrarsi nell’ambito della funzione consultiva il potere-dovere che l’art. 15 della l. n. 103 del 1979 conferisce all’Avvocato generale di segnalare al Presidente del Consiglio dei Ministri eventuali carenze legislative ed i problemi interpretativi che emergano nel corso dell’attività di Istituto. Se per il primo tipo di consulenza – quello specificamente definibile “giudiziario” – non sorgono problemi particolari, risolvendosi essa, all’evidenza, in una funzione strumentale al giudizio che è propria, in ogni tempo, dell’avvocato, per il secondo tipo – quello ad estensione definibile “generale” – qualche dubbio può sorgere, e sarà affrontato in prosieguo, in relazione alla delimitazione di confini fra la consulenza giuridica generale commessa all’Avvocatura e quella commessa al Consiglio di Stato. Sin da ora ed in linea meramente descrittiva può rilevarsi come la consulenza dell’Avvocatura presenti peculiari caratteristiche spesso mal riducibili alle tradizionali classificazioni. Si pensi alla caratteristica della spontaneità, nel senso che – a differenza di quanto tipicamente accade per la funzione di consulenza – l’Avvocatura rende i propri avvisi, specie quando può insorgere lite, a prescindere dalla richiesta del soggetto ausiliato (19). Si pensi alla scarsa utilizzabilità delle tradizionali categorie qualificatorie del parere come facoltativo, obbligatorio e vincolante, in quanto solo in qualche raro caso la legge configura il parere dell’Avvocatura come obbligatorio o addirittura come vincolante. Ma soprattutto si pensi alla richiamata correlazione della funzione consultiva con quella di rappresentanza e difesa in giudizio, che tipizza il parere dell’Avvocatura con una immanente caratteristica di necessarietà istituzionale, i cui profili funzionali saranno di seguito esaminati. 4.L’Avvocatura dello Stato nell’ordinamento vigente: profili critici e ricostruttivi dell’attività funzionale 4.1 La funzione di rappresentanza e difesa giudiziaria: il mandato legislativo diretto ex lege L’attività di rappresentanza e difesa in giudizio dell’Avvocatura dello Stato presenta caratteri di assoluta originalità sia rispetto all’attività professionale privata degli avvocati liberi professionisti, sia rispetto alla attività di quelli organicamente inseriti in uffici legali di soggetti pubblici non assistiti dall’Avvocatura dello Stato. L’originalità non attiene al momento contenutistico dell’attività difensiva, (19) F. FAVARA, La Costituzione repubblicana e l’Avvocatura dello Stato, in Studi per il Centenario, Roma 1976, 458 s. TEMI ISTITUZIONALI 25 che in qualunque esplicazione dell’attività forense non può che essere informato alla professionalità dell’avvocato né al dato meramente estrinseco del tipo di rapporto – locatio operarum o operis – nell’ambito del quale le persone fisiche esercenti l’attività forense trovano la regolamentazione economica dei loro interessi, sibbene alla particolarissima configurazione che assume lo ius postulandi dell’Avvocatura dello Stato. Essa è organismo unico nel nostro ordinamento, in quanto pubblica istituzione dotata come tale, ex lege, del mandato necessario e irrevocabile di rappresentanza e difesa in giudizio delle amministrazioni statali (e di quelle assimilate). La rappresentanza e la difesa nel diritto processuale comune sono riservate nell’ordinamento italiano alle persone fisiche fornite di abilitazione ed iscritte in apposito albo professionale, investite di mandato fiduciario e revocabile relativo ad ogni singolo giudizio (o fase di giudizio). Ciò vale anche per gli avvocati inseriti in “uffici legali”, come dipendenti di enti pubblici o privati. Gli avvocati e procuratori dello Stato, per contro, esercitano la loro attività, in adempimento ad una funzione istituzionale dell’organo tecnico professionale di appartenenza, innanzi a tutte le giurisdizioni ed in qualunque sede e non hanno bisogno di mandato neppure nei casi in cui le norme processuali comuni richiedono il mandato speciale, bastando che consti della loro qualità. La rappresentanza processuale dell’Avvocatura non comporta, peraltro, anche la rappresentanza “sostanziale” della Pubblica Amministrazione. L’Avvocatura dello Stato può compiere, però, tutti quegli atti processuali, quali ad es. la rinunzia agli atti del giudizio, che, pur non costituendo disposizione del diritto controverso, possono determinare effetti di natura sostanziale (20) e deve guidare e indirizzare, a norma di legge, l’Amministrazione nelle determinazioni concernenti la disponibilità del rapporto controverso. Come ha affermato, infatti, una autorevole dottrina (21) sebbene non dispongano dell’interesse sostanziale dedotto in giudizio, gli avvocati dello Stato godono di autonomia ed indipendenza nella condotta tecnica della causa, con l’unico limite del divieto di assumere iniziative processuali che incidano su interessi politico-amministrativi di particolare rilievo (i quali sono rimessi, in quanto tali, al Presidente del Consiglio dei Ministri). A tali concetti la giurisprudenza ricollega la proponibilità dell’appello da parte dell’Avvocatura senza bisogno di una delibera dell’Amministrazione (22). Infatti interest rei publicae che gli scopi demandati ai singoli Enti siano legittimamente ed opportunamente perseguiti ed, inoltre, che la loro realizza- (20) Cons. Stato, Sez. IV, 6 maggio 1980 n. 502. (21) A.M. SANDULLI, Manuale di diritto Amministrativo, Napoli 1979, 765 ss.. (22) Cons. Stato A.G. 23 novembre 1967 n. 1237 e Sez. IV 9 novembre 1979 n. 979. 26 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 zione avvenga, anche in sede contenziosa, in maniera coordinata ed armonica e non già secondo visioni atomistiche e settoriali alla cui stregua ciascuno degli interessi pubblici verrebbe a concepirsi come confliggente con altri: è questa esigenza ... che sta a fondamento dell’estensione del patrocinio dell’Avvocatura agli enti pubblici, affinché gli interessi di questi, filtrati attraverso l’ottica dell’organo che ha per suo compito istituzionale quello di considerare e salvaguardare gli interessi dello Stato nella sua unità, risultino opportunamente coordinati e tutelati secondo una teleologica visione e non già contingentemente difesi, a discapito di altri, in questa o quella controversia giudiziaria (23). Il coordinamento fra unitarietà di indirizzo dell’Istituto ed autonomia professionale dei singoli avvocati dello Stato si compie poi, come si è già visto in sede consultiva, all’insegna del principio di collegialità. Tale principio, – ipostatizzato nel Comitato consultivo – costituisce, d’altronde, criterio-guida di ogni attività di indirizzo professionale anche al di fuori di interventi formali dell’organo collegiale. Il che appare strettamente conseguenziale con i principi ispiratori della riforma del 1979, essendo la professionalità incompatibile con la gerarchia e suscettibile solo di coordinamento collegiale funzionale all’adozione di un indirizzo unitario d’istituto. Sembra potersi così concludere, quanto all’attività difensiva dell’Istituto (e dei singoli avvocati assegnatari dell’affare contenzioso), che essa è processualmente identica e contenutisticamente analoga a quella del libero professionista, ma che, attesa la natura dei soggetti tutelati, la pluralità dei giudizi nei quali si svolge, la natura di organo pubblico dell’Istituto e la sua indipendenza tecnica – cui è funzionale quella dei suoi avvocati – assurge a livello di funzione (non giurisdizionale ma) giustiziale (24). Si è già detto dell’autonomia professionale degli avvocati dello Stato. Quanto a quella dell’Istituto giova richiamare il disposto dell’art. 12 l. 103/79, norma che in caso di contrasto di opinioni insanabile tra Avvocatura dello Stato e Ministero interessato circa la instaurazione di un giudizio o la resistenza nel medesimo, dispone che il contrasto sia risolto dal Ministro competente con determinazione non delegabile e conseguente assunzione di responsabilità politica (ferma la assoluta autonomia dell’Avvocatura nella scelta degli argomenti difensivi). 4.2 La funzione consultiva. Natura istituzionale dell’attività: caratteri comuni o differenziali rispetto alla consulenza generale del Consiglio di Stato Analoghe considerazioni possono valere per la funzione consultiva dell’Avvocatura. Questa si caratterizza, in primo luogo, come attività istituzio- (23) S. LAPORTA, Interesse Pubblico o patrocinio facoltativo di enti non statali da parte dell’Avvocatura, R. Avv. S. 1975, I, 699. (24) G. MANZARI, Avvocatura dello Stato, Voce del Digesto UTET, V ed., 38. TEMI ISTITUZIONALI 27 nale, in secondo luogo come attività formale, in terzo luogo come consulenza giuridica a competenza generale, nel senso che non incontra alcuna limitazione di predeterminazione dell’oggetto o di fini o di specifici e particolari obiettivi. Ha carattere, inoltre, di spontaneità, non essendo necessaria, per l’espressione del parere, una richiesta dell’amministrazione. La prima caratteristica fa si che la consulenza istituzionale si distingua da quella di uffici e di persone che, in posizione di dipendenza, operano all’interno dell’amministrazione pubblica come organi di supporto tecnico-legale della stessa. La distinzione di ruolo tra Avvocatura e amministrazione, costituisce il fulcro della funzione consultiva, tanto più autorevolmente esercitabile dall’Avvocatura quanto più essa è estranea all’esercizio del potere pubblico. E non è per caso che questa si sia andata estendendo dall’originario ambito dell’apparato amministrativo statale ad organi costituzionalmente autonomi come la Presidenza della Repubblica, le due Camere, il Consiglio superiore della Magistratura, fino a numerosi enti pubblici ed anche a soggetti ed organismi internazionali e sovranazionali. La terza caratteristica, quella della “generalità” pone il problema della differenziazione nei confronti della competenza consultiva, anch’essa generale, del Consiglio di Stato. È stato in proposito rilevato come esegesi letterale e storico-sistematica convergano insieme a qualificare quella del Consiglio di Stato, in quanto “consulenza giuridico-amministrativa” (e non “giuridica ed amministrativa”) originariamente prestata in prò del Monarca assoluto, come ausilio di merito, quella dell’Avvocatura, in quanto “consulenza legale” sin dall’origine data ad un esecutivo soggetto al giudiziario, come consiglio di legittimità (25). L’intuizione è acuta ma non appagante, in quanto riduttiva di entrambe le funzioni consultive. Sembra più aderente alla realtà normativa riportare la funzione di consulenza dell’Avvocatura dello Stato alla matrice unitaria che come si è già rilevato, afferisce in ogni caso alla funzione propria dell’avvocato, che non è solo quella di assistenza legale per le controversie in atto, ma anche di prevenzione di quelle meramente potenziali. In questo senso la consulenza dell’Avvocatura è funzione immanente e necessaria allo svolgimento dell’azione amministrativa, dovendo essa per legge assicurare la difesa giudiziaria non a favore dell’interesse contingente e parziale della singola amministrazione, ma a tutela degli interessi pubblici generali nel rispetto del principio di legalità. Ciò non significa che tale consulenza debba avere dimensioni riduttivamente “giudiziarie” nel senso di rigorosa correlazione con liti in atto o in po- (25) S. VARVESI, La funzione consultiva dell’Avvocatura dello Stato, R. Avv. S., 1948, nn. 11-12, 1 ss. 28 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 tenza, poiché il “caso” o la “questione” (o – più spesso – la serie aperta ed indeterminata di numerosissimi “casi” o “questioni”) che il parere dell’Avvocatura considera vanno intesi non nella accezione processuale tradizionale ma in quella ben più vasta derivante dalla intera gamma di giudizi cui istituzionalmente partecipa: non solo quindi giudizi penali, civili o amministrativi, ma ogni tipo di giudizio (costituzionali, nel loro complesso e diverso atteggiarsi, internazionali e comunitari). Una consulenza, dunque, afferente ad ogni tipo di rapporto: dal rapporto particolare già costituito a quello da costituire con atti contrattuali privatistici o con strumenti pubblicistici; dalla conformità delle leggi alla Costituzione, ai limiti di attribuzione dei soggetti istituzionali pubblici statali e non statali; dall’ammissibilità di un referendum popolare alla conflittualità tra Stato e Regioni, tra Regioni, tra poteri dello Stato; alla ricerca di un consenso sulla regula iuris da applicare per la corretta composizione sia di contrastanti interessi pubblici, diversamente graduati nell’unità dell’ordinamento, sia di interessi pubblici confliggenti con quelli privati, individuali o di gruppo fino al contenzioso internazionale e comunitario. In tale dilatata dimensione del “giudizio” ben può dirsi che ogni consulenza dell’Avvocatura è ad esso funzionalizzata in quanto sempre riferibile al parametro del sindacato di un atto o di un comportamento alla stregua di una norma invocabile dinanzi ad un “giudice”. 5. Considerazioni conclusive e brevi notazioni sui costi e benefici dell’attività di istituto Alla stregua di quanto si è andato fin qui dicendo appare ormai antica e inadeguata la tralatizia definizione di una così singolare istituzione-avvocato come organo ausiliario dell’Amministrazione centrale dello Stato gerarchicamente subordinato alla Presidenza del Consiglio alle cui dipendenze è posto per legge. L’ambito soggettivo delle istituzioni assistite si è esteso, come si è visto, ben oltre tale quadro originario, e l’ambito oggettivo della funzione si è contestualmente spostato dalla tutela legale di intessi prevalentemente patrimoniali a quella di tutti i primari valori giuridici dell’ordinamento dello Stato e del suo assetto costituzionale, insieme pluralistico ed unitario. La dipendenza dal Presidente del Consiglio, come si è visto, è affermata in funzione della responsabilità politica, con caratteri quindi di esteriorità (si è espressamente parlato di “gerarchia esterna”) (26); essa non interferisce minimamente sull’autonomia tecnico-professionale dell’Istituto. Del resto, anche nell’ambito interno, la l. n. 103 del 1979 ampliando e vieppiù qualificando la funzione autonoma (e quindi giustiziale) dell’attività di consulenza e di difesa dell’Avvocatura ha introdotto, pur nei limiti di compatibilità con il carattere istituzionale e non personale dell’attività professionale degli avvocati dello Stato, forme di “autoamministrazione, autodichia e TEMI ISTITUZIONALI 29 autogoverno” che tendono a configurarne uno status sostanzialmente assimilabile, sotto il profilo in considerazione, a quello dei magistrati (27). Si deve peraltro notare che la Carta Costituzionale non contempla nel Titolo III, Parte I, (artt. 99 e 100) tra gli “organi ausiliari del Governo” l’Avvocatura dello Stato. Ma non è solo per tale considerazione formale che si può esitare ed estendere tale qualificazione in via esegetica o sistematica (28) all’istituto. Da tempo si è verificata, infatti, l’attrazione dell’istituto nella costituzione materiale che si è andata via via realizzando dall’entrata in vigore della Carta costituzionale repubblicana. Una prima attrazione, anche di rilevanza formale, si è verificata con il richiamo nella legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1 contenente “norme integrative della Costituzione concernenti la Corte Costituzionale” che espressamente rinvia alla legge ordinaria (in pari data, n. 87) “emanata per la prima attuazione” delle norme costituzionali relative al funzionamento della Corte stessa. Questa infatti stabilisce che il “Governo, anche quando intervenga nella persona del Presidente del Consiglio dei Ministri o di un Ministro a ciò delegato, è rappresentato e difeso dell’Avvocato generale dello Stato o da un suo sostituto”. Del resto, anche a prescindere dal dato formale, si è già messo in luce come in non pochi casi l’Avvocatura operi formalmente non a tutela dello Stato-amministrazione ma dello Stato-ordinamento. Quanto ai giudizi costituzionali la notazione appare del tutto intuitiva: si pensi all’intervento del Presidente del Consiglio – e per esso dell’Avvocatura dello Stato – nei giudizi sulla legittimità costituzionale delle leggi. In tali giudizi il Presidente non interviene per la tutela di un interesse di parte, ma nell’interesse dell’ordinamento alla conservazione delle leggi che, immuni da difetti di costituzionalità, ne costituiscono parte integrante. La circostanza che l’intervento dell’Avvocatura non sia obbligatorio ma legato alla decisione politica del Presidente si spiega in relazione alla valutazione, a questo completamente demandata, della maggiore o minore rilevanza politica della legge sindacata nel sistema normativo, rilevanza atta ad indurre il Governo a patrocinarne o meno la conservazione. Analogamente nel giudizio per conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato o tra Stato e Regioni, dove pure l’Avvocatura sostiene le ragioni “di parte” del Governo, l’intervento va inteso sempre in funzione dell’interesse unitario dello Stato-ordinamento a una corretta dialettica fra soggetti e fra poteri. Del tutto superflua sarebbe l’analisi in relazione agli altri tipi di giudizio costituzionale. (26) Cons. Stato Ad. gen. 23 novembre 1967 n. 1237. (27) Cons. Stato Ad. plen 16 dicembre 1983 n. 27. (28) P.G. FERRI, op. cit.. 30 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 A ciò si aggiunga che anche nei giudizi (e nelle consultazioni) in cui l’interesse formalmente protetto si riferisce ad una rivendicazione di potere da parte dell’esecutivo nei confronti di altri poteri dello Stato, in posizione più propriamente di parte, vi è sempre l’immanenza della tutela di quel più generale interesse al rispetto del sistema di articolazioni delle competenze disegnato dalla Costituzione cui si collega la funzione dell’Avvocatura dello Stato (29). Si deve, infine, rilevare come nei giudizi dinanzi ai collegi internazionali e comunitari non sia certo in difesa dello Stato-amministrazione che opera l’Istituto, sibbene in rappresentanza dello “... Stato come personificazione anche esterna di tutta la comunità nazionale” (30). Si può conclusivamente affermare che pur nel silenzio della Carta del ’48 l’Avvocatura dello Stato occupa un posto ben preciso nella costituzione materiale della Repubblica con riferimento alla molteplicità ed alla natura così dei soggetti ausiliati come delle funzioni ad essa commesse ed alle modalità istituzionali di assolvimento di tali funzioni, essendo chiamata ad esercitare, accanto alla contingente funzione di assistenza del soggetto pubblico, una immanente funzione di giustizia nel sistema unitario e indivisibile dello Stato-ordinamento. L’evoluzione del sistema giuridico costituzionale ha così portato l’Istituto da una elementare funzione mediatrice fra amministrazione e giurisdizione nell’ambito di un esecutivo di concezione ottocentesca, ad un compito di attiva presenza su tutti i terreni in cui si verifica il confronto di entità attributarie di pubbliche potestà o in cui si presenti comunque una necessità di tutela legale del pubblico interesse. Essa è, infatti, ora chiamata a collaborare quale “avvocato pubblico istituzionale”, alla costante verifica di una congruenza fra normativa ordinaria e normativa costituzionale, fra normativa interna e normativa sovranazionale, fra normativa nazionale, normativa regionale e normativa di rango inferiore nella gerarchia delle fonti, così suggellando l’evoluzione di un processo storico più che bicentenario. Sia consentito a questo punto concludere riportando due giudizi lusinghieri sull’Istituto a cui ho l’onore di appartenere e che, provenendo da un illustre giurista scomparso e da uno studio economico effettuato da soggetti terzi imparziali ed autorevoli, posso permettermi di citare senza essere tacciato della colpa di autocelebrazione. Scriveva alcuni decenni fa un giurista della statura di Arturo Carlo Jemolo: “Quante volte sento affermare che lo Stato è sempre servito peggio dei privati, mi sorge spontanea l’obbiezione: Però c’è l’Avvocatura dello Stato. In questo crederei arduo dimostrare che vi sia grande impresa che dal lato dell’assistenza legale ottenga un servizio migliore di quello che presta l’Avvocatura”. (29) Cass. SS.UU. 24 febbraio 1975 n. 700. (30) Atti parlamentari Senato, VI legislatura, 429° seduta resoconto sommario, 7. TEMI ISTITUZIONALI 31 Credo che le cifre dimostrino che quelle parole di alto apprezzamento sono ancora attuali. Faccio riferimento ad un recente studio della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione ripreso dal “Sole 24 Ore” (che ha dedicato al tema due intere pagine nel numero del 10 dicembre 2007) dal quale si desume che il costo che lo Stato sopporta per l’esistenza e la gestione dell’Avvocatura è di 164,4 milioni di euro annui, comprensivi di ogni voce, ivi compresi i redditi figurativi degli immobili utilizzati e gli onorari riscossi nelle cause vinte, e che ogni causa - quale che sia la sua durata ed il numero di gradi di giudizio - costa quindi allo Stato in media € 785 (euro più - euro meno i dati sono ancora attuali). Da quello studio risulta ancora che le cause vinte sono pressoché i due terzi del totale (si precisa che la statistica relativa è stata condotta in modo assolutamente rigoroso, di talché sono considerate vinte solo le cause in cui la domanda avversaria è totalmente rigettata, e quindi se chi pretendeva 1000 ha ottenuto 1 la causa si considera persa). A ciò si aggiunga che sono comprese nella statistica anche le cause in cui la soccombenza dello Stato è pressoché certa, quali, ad esempio, quelle numerosissime di risarcimento dei danni derivanti dalla eccessiva durata dei processi, previste dalla notissima “legge Pinto”. Visto quanto sopra sembra legittimo domandarsi se esista altro sistema di difesa in giudizio altrettanto economico ed efficiente. Lo studio della Scuola Superiore concludeva testualmente che “a differenza di molti altri settori della P.A., la gestione del contenzioso dello Stato tramite un organo interno è di gran lunga più economica di una difesa affidata a professionisti esterni ”. Il che è stato ampiamente dimostrato da esperienze recenti e meno recenti. Aggiunge ancora lo studio - e conferma il “Sole 24 Ore” - che il vantaggio economico è monetizzabile in un risparmio del 90% sul costo di mercato e che a tale vantaggio se ne aggiungono altri non monetizzabili e “funzionali” quali la uniformità e imparzialità della condotta processuale, la coerenza fra attività consultiva e contenziosa, le sinergie difensive ai vari livelli di giurisdizione, la garanzia di riservatezza, la assoluta selettività dei sistemi di reclutamento del personale togato. “Ciò - aggiunge ancora la relazione - nonostante l’attuale carico di lavoro sia rappresentato dalla impressionante cifra di 550 nuovi affari contenziosi all’anno pro capite”. Il che, aggiungiamo noi, considerata la durata media dei processi in Italia, significa che ogni avvocato dello Stato ha sul ruolo circa 4000 affari pendenti. Credo che quanto ho ora detto mi consenta di concludere con una constatazione consolatoria, utile in questi tempi così calamitosi: esistono in Italia pubbliche Istituzioni che superano brillantemente l’esame del rapporto costibenefici e che sanno quindi ispirare la loro attività ai principi di economicità ed efficienza. IGNAZIO FRANCESCO CARAMAZZA 32 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 Cerimonia di inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2012 Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato, Avv. Ignazio Francesco Caramazza Signor Presidente della Repubblica, Autorità, Signor Presidente della Corte di Cassazione, Signore e Signori 1.- Considero un privilegio poter prendere la parola in questa solenne Cerimonia di inaugurazione per dare conto delle attività svolte nel 2011 dall’Istituto che ho l’onore di dirigere. La ristrettezza del tempo a disposizione mi impone di ricorrere all’arido ma eloquente linguaggio delle statistiche. I nuovi affari trattati nell’anno dall’Avvocatura dello Stato ammontano, complessivamente, a livello nazionale, ad oltre 151.000 che si aggiungono a molte centinaia di migliaia di affari degli anni scorsi ancora pendenti. Si tratta di una mole di lavoro imponente che grava su un organico di sole 370 unità togate solo in parte coperto, con una media di oltre 400 nuovi affari annui pro capite. Un terzo del lavoro grava sull’Avvocatura Generale che ha contato nel 2011 ben 50.000 affari in cifra tonda. 2.- Lo spettro delle materie trattate è il più variegato che si possa immaginare. L’Avvocatura rappresenta e difende, infatti, lo Stato nelle sue principali articolazioni dinanzi a tutti gli organi giudiziari sopranazionali e nazionali (*). 2.1- Sul piano sovranazionale ricordo, fra i 340 affari trattati dinanzi ai giudici comunitari, la procedura di infrazione concernente i massimi delle tariffe forensi, conclusasi favorevolmente per l’Italia con la sentenza 29 marzo 2011 (causa C-565/08), di particolare attualità alla luce delle liberalizzazioni decretate in questi giorni dal Governo; la questione pregiudiziale riguardante la decorrenza della prescrizione del diritto al risarcimento del danno per violazione del diritto comunitario (sentenza 19 maggio 2011, causa C-452/09), pronunciata in relazione al folto contenzioso riguardante i medici specializzandi, oggetto delle importanti sentenze della Cassazione dello scorso anno (n. 10813/11 e n. 17350/11), che hanno tuttavia offerto una soluzione più garantista di quella ritenuta compatibile con il diritto comunitario dalla Corte di giustizia; l’intervento dell’Italia a sostegno della Commissione europea in una (*) Legenda: Il punto 2.1- si sofferma sulle cause comunitarie; Il punto 2.2.1- sulle cause in Corte costituzionale; Il punto 2.2.2- sulle cause per l’eccessiva durata del processo, altre rilevanti cause civili e penali, i processi penali tributari; Il punto 2.2.3- sui contenziosi dinanzi al Giudice amministrativo; Il punto 2.2.4- sugli affari consultivi; Il punto 3.- sui giudizi dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione. TEMI ISTITUZIONALI 33 procedura di infrazione nei confronti dell’Austria (causa C-29/09) per aver introdotto gravosi divieti di transito su un lungo tratto dell’autostrada del Brennero (giustificati dalla necessità di combattere l’inquinamento), con rilevanti danni per i trasportatori e produttori italiani, conclusasi con sentenza di condanna dell’Austria del 21 dicembre 2011; la proposizione avanti alla Corte di giustizia UE delle cause relative ai risarcimenti reclamati dai militari italiani internati nei campi di concentramento in Germania dopo l’11 settembre 1943; l’impugnazione avanti al Tribunale dell’UE di una decisione della Commissione europea che aveva applicato rettifiche forfettarie rispetto al prelievo supplementare nel settore delle quote latte. 2.2.1-A livello nazionale, degni di particolare menzione, fra i 466 giudizi trattati in Corte Costituzionale, sono quello conclusosi con la sentenza n. 80/2011, che ha confermato l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, anche dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, le norme CEDU, come interpretate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, integrano, quali norme interposte, il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, comma 1 Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali nonché quello deciso con sentenza n. 339/2011 sul riparto delle competenze legislative fra Stato e Regioni in tema di affidamento degli impianti per l’utilizzazione delle acque pubbliche di grandi derivazioni idroelettriche, questione di rilevante impatto economico, in cui la Corte ha accolto in toto il ricorso della Presidenza del Consiglio nei confronti della Regione Lombardia. Si aggiungano ancora le sentenze sull’ammissibilità dei referendum sui servizi idrici e le centrali nucleari (sentt. 24 – 28/2011) e sulla legittimità della devoluzione della materia di gestione dei rifiuti alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (sentt. 5 e 167/11). 2.2.2- Dinanzi ai giudici ordinari, va citato il vasto contenzioso relativo alla irragionevole durata del processo, pari a complessivi 5038 affari nella sola sede di Roma, in relazione al quale, è sorto un nuovo filone c.d. “Pinto su Pinto” in cui si lamenta l’eccessiva durata delle stesse controversie proposte ai sensi della legge n. 89/2001, dimostrando che il rimedio offerto dall’ordinamento italiano, lungi dall’accelerare i processi, ha prodotto un ulteriore ingolfamento della giustizia con un catastrofico impatto economico ed una perdurante negativa esposizione internazionale. Con riferimento a tale contenzioso, va segnalato inoltre che, su sollecitazione dell’Avvocatura dello Stato, la Corte di cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite la questione attinente alla decorrenza del termine di prescrizione per azionare il diritto all’equa riparazione. Degno di nota è poi il contenzioso, di rilevante valore economico, riguardante gli aiuti alle imprese che operano nelle aree depresse del Paese, in generale, e gli incentivi nel campo energetico, in particolare; nonché quello attinente alla responsabilità dei componenti della Commissione Grandi Rischi 34 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 per la mancata previsione del pericolo immediato di terremoto nel territorio aquilano; quello attinente alla realizzazione dei termovalorizzatori in Sicilia; quello riguardante le azioni risarcitorie promosse dagli eredi delle vittime del disastro aereo di Ustica. In materia di acque pubbliche e sicurezza idraulica, importante principio è stato affermato dalla Cassazione a Sezioni Unite (sentenza n. 3936/11) in ordine alla qualificazione di “bene pubblico” quale fonte di beneficio per la collettività in relazione al problema delle valli da pesca della laguna veneta. Innanzi al giudice del lavoro, numerosissime sono state le controversie promosse dal personale scolastico precario per conseguire, oltre al risarcimento del danno, la stabilizzazione del rapporto di lavoro e l’integrazione delle retribuzioni percepite durante l’operatività dei contratti a tempo determinato susseguitisi nel tempo. Quanto ai processi penali in cui l’Avvocatura dello Stato si è costituita parte civile, vanno segnalati il processo bis per la strage di via dei Georgofili a Firenze nonché quello relativo al tragico disastro ferroviario di Viareggio; quello dinanzi al Tribunale di Reggio Calabria denominato “Operazione Crimine infinito” scaturito dalla maxi inchiesta sulla penetrazione della ‘ndrangheta calabrese nel tessuto economico della Lombardia, condotta congiuntamente dagli organi investigatori reggini e milanesi, che ha determinato nel 2011 l’arresto di oltre 300 presunti affilati alla ‘ndrangheta; quello c.d. “Addio Pizzo” pendente in appello a Palermo contro i massimi esponenti di “Cosa Nostra” e quello per i reati di naufragio colposo, omicidio colposo ed omissione di soccorso nei confronti di un comandante di una nave che ha provocato l’affondamento di altra unità navale appartenente al CNR, sempre pendente a Palermo. Particolarmente delicati sono anche i processi penali in materia tributaria trattati dalla sede di Milano, di rilevantissimo valore economico, sia con riferimento al reato di truffa ai danni dello Stato, sia con riferimento a quello di frode fiscale. Di pari rilievo, nell’ambito della lotta all’evasione fiscale sono le azioni per contrastare forme sempre più sofisticate di operazioni finanziarie, qualificate come puramente elusive (spesso compiute con intermediazioni all’estero) ma in realtà integranti gli estremi dell’evasione con conseguenti risvolti sul piano penale, come nei procedimenti a carico di stilisti e case di moda (Gruppo Boggi, Bryan & Berry; Gruppo Dolce e Gabbana; Gruppo Mythos). Con riferimento ai reati tributari, si segnalano le pronunzie che hanno espressamente riconosciuto anche il risarcimento del danno all’immagine quale danno morale. La sede di Milano ha inoltre trattato un processo penale per peculato in cui gli imputati sono stati chiamati a rispondere dell’appropriazione di oltre 100 milioni di euro, oggetto di prelievo supplementare nel settore delle quote latte, conclusosi con sentenza del 29 settembre 2011 che ha accertato la responsabilità penale degli imputati, condannandoli altresì al pagamento, in favore dell’AGEA, di una provvisionale pari a 30 milioni di euro. TEMI ISTITUZIONALI 35 2.2.3- Altrettanto corposo il contenzioso dinanzi ai giudici amministrativi, in particolare quello in tema di appalti di opere pubbliche, nell’ambito del quale vanno segnalate la causa relativa all’appalto per la concessione cinquantennale dell’autostrada del Brennero e quelle per il pedaggio sulle tratte di competenza ANAS, come il GRA di Roma. Di particolare rilevanza è anche il contenzioso relativo alle numerose impugnazioni avverso il decreto ministeriale con cui è stato dichiarato il notevole interesse pubblico, ai sensi dell’art. 141 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, di una vasta area a sud della Capitale storicamente identificata come “Agro Romano”, affrontato con successo sia in primo che in secondo grado, così contribuendo a preservare tale area da una crescita incontrollata e ad evitare il grave pregiudizio per la sua identità paesaggistica. Degna di nota è poi la sentenza del Consiglio di Stato (n. 6617/2011) in tema di autodichia della Presidenza della Repubblica che ha accolto gli argomenti difensivi dell’Avvocatura dello Stato uniformandosi pienamente ai principi delineati dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 6529/2010), secondo i quali gli organismi di autodichia in questione rispettano le condizioni di precostituzione, imparzialità ed indipendenza che presidiano l’esercizio della giurisdizione. Sempre folto è il contenzioso attinente agli esami di idoneità alla professione forense ed ai concorsi per la copertura dei posti di notaio e di magistrato. Particolarmente delicati sono, poi, i ricorsi proposti da magistrati ordinari contro i provvedimenti del C.S.M. in tema di incarichi direttivi e semidirettivi; molto impegnativo, per la complessità delle questioni giuridiche sottese e la rilevanza economica che lo caratterizza, è inoltre il contenzioso riguardante i provvedimenti delle Autorità indipendenti, come ad esempio la problematica della tariffazione nel settore “Gas” e le conseguenti sanzioni, di rilevante impatto economico per le aziende distributrici e particolari risvolti sociali per la tutela dei consumatori. 2.2.4- In sede consultiva, l’Avvocatura dello Stato, oltre alla consueta attività di consulenza nelle transazioni e nelle composizioni bonarie, ha affiancato nel suo primo operare l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, istituita con D.L. n. 4 del 2010 convertito in L. n. 50 del 2010, contribuendo a risolvere le prime problematiche applicative della normativa istitutiva e offrendo supporto legale alle determinazioni dell’Agenzia volte, in particolare, all’amministrazione dei beni sottratti alla criminalità organizzata ed al loro riutilizzo per finalità sociali ed istituzionali, così conferendo maggior forza ed efficacia a tale importante strumento di contrasto del fenomeno mafioso. 3.- Da ultimo, e non per ultimo ma solo per evidenziarne la particolare importanza, il nostro impegno dinanzi alla Corte di cassazione, che oggi ci ospita e con la quale siamo onorati di poter lavorare in piena armonia. Dinanzi alla Corte Suprema il contenzioso è particolarmente nutrito: nel 2011 sono stati im- 36 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 piantati dall’Avvocatura Generale ben 10.909 affari, che rappresentano il 22% di tutti gli affari contenziosi e consultivi impiantati nell’anno dall’Avvocatura Generale. Limitando l’esame agli affari contenziosi iniziati nell’anno in Cassazione e trattati dall’Avvocatura, si constata che il contenzioso dello Stato rappresenta oltre un terzo di tutto quello all’esame della Suprema Corte e che, di questo terzo, circa il 90% (9.606 affari) è costituito dal contenzioso tributario. Nel 2011, si è rafforzata la stretta collaborazione tra la Corte di cassazione e l’Avvocatura dello Stato, finalizzata alla fissazione in tempi brevi dell’udienza di discussione in cause “pilota”, su questioni che hanno dato luogo a numerose controversie nei gradi di merito nonché alla fissazione di udienze tematiche, che consentono un maggiore approfondimento di questioni giuridiche complesse, e che danno luogo a sentenze che analizzano contestualmente tutte le diverse problematiche compresenti al fine della rapida decisione di interi “filoni” di cause. Con grande favore vanno, poi, salutate due importanti decisioni delle Sezioni Unite dello scorso anno in materia processuale, che costituiscono l’accoglimento di tesi difensive sostenute da tempo dall’Avvocatura dello Stato. La prima, la sentenza del 3 novembre 2011 n. 22726, fornisce una risposta pienamente soddisfacente alla preoccupazione già manifestata in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario del 2011. Con la citata sentenza, le Sezioni Unite, abbandonando la tesi precedentemente sostenuta dalla sezione V (sentenza n. 21121 del 2010), hanno affermato che l’art. 369, comma 2, n. 4 c.p.c. va inteso nel senso che il ricorrente non ha l’onere di produrre i documenti e gli atti su cui si fonda il ricorso, ove contenuti nel fascicolo d’ufficio, essendo all’uopo sufficiente il deposito dell’istanza di trasmissione di detto fascicolo ai sensi dell’art. 369, comma 3 c.p.c. Tale principio è particolarmente importante per i giudizi tributari nei quali, ai sensi dell’art. 25 d.lgs. n. 546/1992, i fascicoli delle parti restano acquisiti al fascicolo d’ufficio e sono ad esse restituiti al termine del processo, con la conseguenza che le parti non possono ritirare il loro fascicolo prima del passaggio in giudicato della sentenza. Vengono così scongiurate pronunce di inammissibilità per la mancata osservanza di un onere formale del tutto superfluo atteso che, con la presentazione dell’istanza ex art. 369, comma 3 c.p.c., vi è la certezza che tutti i documenti già prodotti in giudizio saranno acquisiti al giudizio di cassazione. La seconda decisione, la sentenza dell’11 luglio 2011, n. 15144, capovolgendo un precedente orientamento, ha affermato a tutela dell’affidamento delle parti, che non sono applicabili retroattivamente mutamenti di giurisprudenza nell’interpretazione di norme processuali in tema di preclusioni e decadenze. Il principio ha una valenza generale ma sicuramente assume particolare rilevanza per i giudizi di cassazione, visti i recenti mutamenti della giurisprudenza proprio in relazione agli oneri procedurali nella redazione del ricorso per cassazione. Per l’Avvocatura dello Stato che con le esigue risorse togate a disposizione, pre- TEMI ISTITUZIONALI 37 senta ogni anno migliaia di ricorsi per cassazione, questi due nuovi principi affermati in ambito processuale costituiscono un successo importantissimo che assicura alle parti maggiore certezza del diritto e alleggerisce sensibilmente l’impegno necessario per ottenere una sentenza di accoglimento o di rigetto. 4.- Passando ai risultati del nostro lavoro, fornisco alcuni dati statistici relativi alla sede romana. Dinanzi al Tribunale civile le cause vinte sono il 60%, dinanzi al giudice amministrativo il 70%, dinanzi alla Corte d’appello il 53% e dinanzi alla Cassazione il 58%. La percentuale più bassa di esiti favorevoli innanzi alla Corte d’Appello è attribuibile al fatto che nel numero sono comprese le cause di “legge Pinto”, che rappresentano la maggioranza degli affari trattati in Corte d’Appello (come unico grado di merito) e che sono nella stragrande maggioranza cause perse per lo Stato. Depurati i dati falsati dai fattori alteranti, può concludersi su una percentuale media di vittoria vicina ai 2/3 delle cause. Il che porta a concludere per un buon rapporto costi-benefici dell’attività svolta dall’Avvocatura, ove si consideri che ogni causa - quale che sia la sua durata ed il numero dei gradi di giudizio - costa in media allo Stato molto meno di 1.000 euro, cioè meno di un decimo di quello che sarebbe il costo di mercato. Purtroppo la sua funzionalità è minacciata da una grave limitazione nel turnover del personale togato e da una grave insufficienza di risorse economiche. Ritengo doveroso da parte mia segnalare sotto il primo profilo che l’organico del personale togato, già largamente insufficiente, subisce una continua progressiva diminuzione per la emorragia dei pensionamenti per limiti di età, solo in minima parte compensati – in difetto di intervento derogatorio della Presidenza del Consiglio – dai posti per i quali possono essere banditi nuovi concorsi; sotto il secondo profilo devo segnalare che l’Istituto avrà gravissime difficoltà ad assolvere ai suoi doveri con l’attuale importo stanziato in bilancio per le spese correnti, che sono incomprimibili ed indispensabili per garantire l’assolvimento dei compiti istituzionali, quali ad esempio le spese di funzionamento degli uffici tra cui quelle per l’acquisto di carta per le fotocopie necessarie a depositare gli atti defensionali nel numero di esemplari richiesto. Sul relativo capitolo è stanziata, infatti, la somma complessiva di € 26.700, mentre la spesa, nello scorso anno, è stata di € 1.628.735 di cui € 221.502 per le sole fotocopie. È in corso al riguardo un dialogo con il competente Ministero dell’Economia e spero proprio che l’impasse possa essere superata; il che è indispensabile fino a quando non sarà a regime il processo telematico perchè l’alternativa è la paralisi dell’Istituto. Con riguardo al processo telematico, preciso che l’informatizzazione si è mossa, nel corso del 2011, in tre direzioni: 1) un aggiornamento del sistema informatico che consenta di associare ai dati presenti nel sistema il fascicolo elettronico e la relativa gestione documentale; 38 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 2) la possibilità di colloqui telematici con gli uffici giudiziari, sia civili che amministrativi (per la ricezione tramite posta elettronica certificata di biglietti di cancelleria e sentenze) nonché con le pubbliche amministrazioni patrocinate che hanno la facoltà di consultare i nostri fascicoli attraverso il sito; 3) il capillare raggiungimento e coinvolgimento delle sedi distrettuali e l’estensione ad esse, attraverso il portale, dei servizi informatici già esistenti per l’Avvocatura Generale. Per ridurre i tempi e i costi dei processi di lavoro, l’iter di dematerializzazione della carta e l’ausilio dell’informatica appaiono ormai un percorso inevitabile per gestire l’enorme mole di contenzioso ed essere al passo con i tempi. La sua piena realizzazione richiede però ancora tempi non brevi. 5.- Mi avvio alle conclusioni osservando che il difficilissimo momento che il Paese sta attraversando richiede a tutte le nostre Istituzioni ed a tutti noi il massimo impegno nell’esercizio delle funzioni e la massima disciplina nella accettazione dei necessari sacrifici. Sono certo di poterLe assicurare, Signor Presidente della Repubblica, che l’Avvocatura dello Stato e i suoi componenti faranno ogni possibile sforzo per essere all’altezza delle funzioni e dei compiti loro affidati e debbono peraltro confidare, come credo di aver chiarito, in analogo sforzo da parte di altre pubbliche Istituzioni perchè il loro impegno non sia reso vano. Grazie, Signor Presidente della Repubblica, grazie a tutti per avermi ascoltato. Roma, lì 26 gennaio 2012 Palazzo di Giustizia, Aula Magna TEMI ISTITUZIONALI 39 Avvocatura Generale dello Stato CIRCOLARE N. 70/2011 Oggetto: Protocollo di intesa con l’Agenzia del Territorio. Si trasmette in allegato copia del protocollo di intesa sottoscritto dall’Avvocato Generale e dal Direttore dell’Agenzia del Territorio in data 19 dicembre 2011. L’Avvocato Generale dello Stato Avv. Ignazio Francesco Caramazza PROTOCOLLO DI INTESA TRA L’AGENZIA DEL TERRITORIO E L’AVVOCATURA DELLO STATO Considerato che ai sensi dell’art. 72 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, l’Agenzia del Territorio (di seguito denominata solo Agenzia) può avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato (di seguito denominata anche solo Avvocatura), ai sensi dell’art. 43 del regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611, e successive modificazioni e che, in base a tale ultima disposizione, l’Avvocatura dello Stato è autorizzata ad assumere la rappresentanza e la difesa dell’Agenzia, salve le ipotesi di conflitto ed i casi speciali ivi previsti, Vista la delibera n. 44 del 23 novembre 2011 - allegato sub A) al presente atto -, con la quale il Comitato di gestione dell’Agenzia ha ritenuto, ai sensi dell’art. 43 del regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611, di avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato; Ritenuta l’opportunità di disciplinare, sulla base dei rispettivi ruoli e competenze le modalità di collaborazione tra l’Agenzia e l’Avvocatura, al fine di assicurare nel modo migliore la piena tutela degli interessi pubblici coinvolti, prevedendo anche forme snelle e semplificate di relazioni, tali da rafforzare l’efficienza e l’efficacia della azione amministrativa e l’ottimale funzionalità delle strutture; Ravvisata, in particolare, l’opportunità di prevedere modalità operative volte a garantire un efficiente ed incisivo apporto consultivo dell’Avvocatura, nonché lo svolgimento del patrocinio dell’Agenzia affidato alla stessa Avvocatura nei giudizi attivi promossi o proseguiti in gradi ulteriori dalla Agenzia e nei giudizi passivi instaurati o coltivati da terzi nei confronti della medesima; Tra il Direttore dell’Agenzia del Territorio, dott.ssa Gabriella Alemanno e L’Avvocato Generale dello Stato, avv. Ignazio Francesco Caramazza SI CONVIENE QUANTO SEGUE 1. ATTIVITA’ CONSULTIVA 1.1. L’Agenzia, tramite le competenti Direzioni centrali, coordina la proposizione di quesiti e richieste di pareri che vengono rivolte all’Avvocatura Generale, in ordine a questioni di ca- 40 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 rattere generale o di particolare rilevanza. 1.2. L’Avvocatura, considerato che l’efficacia dell’attività consultiva è direttamente correlata alla tempestiva acquisizione dei richiesti pareri, provvede a corrispondere con tempestività alle relative richieste e comunque nei termini imposti dai procedimenti amministrativi, o in mancanza, entro 60 giorni dalla richiesta (eventualmente anticipando il parere per posta elettronica o fax) segnalando i casi in cui ciò non sia possibile. 1.3. L’Agenzia informa l’Avvocatura – nella persona del Vice Avvocato Generale che presiede la sezione competente alla trattazione degli affari della medesima – dei principali orientamenti dalla stessa assunti, fra l’altro in ordine alla interpretazione di normativa di prima applicazione, con particolare riguardo ad eventuali riflessi sulla gestione del relativo contenzioso, in atto o potenziale. 2. ASSISTENZA E RAPPRESENTANZA IN GIUDIZIO 2.1 Disposizioni generali 2.1.1. L’Agenzia, attraverso le proprie strutture centrali o territoriali, provvede ad investire l’Avvocatura delle richieste di patrocinio con il più ampio margine rispetto alle scadenze, al fine di consentire il rispetto dei termini processuali. A tale riguardo l’Agenzia, al fine di rendere il necessario supporto per l’efficace difesa delle proprie ragioni, fornisce tempestivamente all’Organo legale una completa e documentata relazione in fatto e in diritto sulle vicende per cui è causa, istruita con riferimento alle specificità di ciascuna controversia anche in caso di giudizi seriali. La suddetta relazione è trasmessa all’Avvocatura sia in formato cartaceo, sia – contestualmente – a mezzo e-mail diretta all’indirizzo di posta elettronica dedicato. In sede di richiesta di patrocinio, l’Agenzia precisa il nominativo del funzionario incaricato dell’istruttoria e indica le modalità per la diretta reperibilità dello stesso (telefono, fax, posta elettronica), al fine di agevolare le comunicazioni, nonché l’acquisizione di dati e notizie. Analogamente, l’Avvocatura segnala alla struttura richiedente dell’Agenzia il nominativo dell’Avvocato incaricato dell’affare e le modalità di immediata reperibilità (telefono, fax, posta elettronica). Ogni eventuali modifica dei predetti recapiti viene tempestivamente comunicata. 2.1.2. È assicurato all’Avvocatura l’accesso alla documentazione in possesso dell’Agenzia, al fine di garantire nel modo più sollecito ed efficace lo svolgimento delle rispettive attività. 2.1.3. Qualora l’Avvocatura ritenga di non convenire per singole controversie con le richieste avanzate dall’Agenzia, ne darà, se del caso previa acquisizione di supplementi istruttori, tempestiva e motivata comunicazione alla struttura richiedente, al fine di pervenire ad una definitiva determinazione. Le divergenze che insorgano tra l’Avvocatura e l’Agenzia, circa l’instaurazione di un giudizio o la resistenza nel medesimo, sono risolte dal Direttore dell’Agenzia ai sensi dell’articolo 12, secondo comma, della legge 3 aprile 1979, n. 103. 2.1.4. Gli atti introduttivi del giudizio o di un grado di giudizio e qualunque altro atto o documento eventualmente notificato all’Agenzia presso l’Avvocatura, non ancora investita della difesa, sono da quest’ultima prontamente inviasti alla competente struttura dell’Agenzia, utilizzando gli strumenti in concreto più rapidi. Per i ricorsi in via di urgenza, l’invio dovrà essere effettuato immediatamente. 2.1.5. L’Avvocatura segnala tempestivamente i casi particolari nei quali non può assumere il patrocinio, potenedosi configurare un conflitto di interessi con altra amministrazione. Nei casi TEMI ISTITUZIONALI 41 in cui l’Agenzia ravvisi una divergenza tra la propria linea difensiva e quella di altra amministrazione, parimenti assistita dall’Avvocatura, con provvedimento motivato del Direttore dell’Agenzia, ne dà segnalazione all’Avvocatura. L’Avvocatura, preso atto delle osservazioni dell’Agenzia, si pronunzia motivatamente e con tempestività in ordine alla sussistenza o meno del conflitto di interessi. 2.1.6. L’Avvocatura informa la competente struttura dell’Agenzia dei significativi sviluppi delle controversie dalla stessa curate, anche con riferimento agli esiti di attività istruttorie. Invita all’occorrenza copia degli atti difensivi e delle produzioni delle controparti, per sollecitarne eventuali utili osservazioni e controdeduzioni. Laddove, in casi particolari, il Direttore dell’Agenzia, il Direttore centrale Pubblicità immobiliare e affari legali, o i Direttori regionali ne facciano espressa e motivata richiesta, l’Avvocatura invia anche copia degli atti difensivi propri. Dà in ogni caso pronta comunicazione dell’esito del giudizio, con la trasmissione di copia della decisione, in particolare se notificata. Nel caso in cui si tratti di pronuncia sfavorevole per l’Agenzia suscettibile di gravame, l’Avvocatura rende il proprio parere in ordine alla impugnabilità della decisione, di norma contestualmente all’inoltro della stessa all’Agenzia. Le decisioni della Corte di Cassazione e le altre pronunce che investano questioni di carattere generale, sono dall’Avvocatura segnalate alla Direzione centrale pubblicità immobiliare e affari legali dell’Agenzia e alla diversa Direzione centrale eventualmente interessata. 2.1.7. Per le cause che si svolgono davanti ad Autorità Giudiziarie aventi sede diversa da quella della competente Avvocatura, quest’ultima, ai sensi dell’art. 2 del regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611, può avvalersi per la rappresentanza in giudizio, salvo diversa intesa con l’Agenzia, di funzionari dell’Agenzia stessa e, in casi eccezionali, anche di legali esercenti nel circondario dove si svolge il giudizio. In tal caso l’Avvocatura trasmette l’atto di delega alla competente struttura territoriale dell’Agenzia. 2.1.8. A richiesta del Direttore dell’Agenzia, l’Avvocatura può assumere, ai sensi dell’art. 44 del regio decreto n. 1611 del 1933, la rappresentanza e la difesa di dipendenti dell’Agenzia nei giudizi civili e penali che li interessano per fatti e cause di servizio. 2.2 Controversie in cui l’amministrazione può stare in giudizio direttamente 2.2.1. Nelle controversie in cui l’Amministrazione può, a sensi di legge, stare in giudizio direttamente, avvalendosi di propri dipendenti, l’Avvocatura, d’intesa con l’Agenzia, assicura comunque il patrocinio, qualora vengano in rilievo questioni particolarmente rilevanti del valore economico o dei principi di diritto in discussione. 2.2.2. Le sentenze pronunciate in grado di appello notificate presso le Avvocature Distrettuali dello Stato, sono da queste ultime trasmesse contemporaneamente, oltre che all’Avvocatura Generale dello Stato, alla struttura dell’Agenzia parte del giudizio di appello, unitamente agli atti essenziali di cui l’Agenzia stessa non sia in possesso. 2.3 Giudizi davanti alle Commissioni tributarie 2.3.1. L’Avvocatura assicura, a richiesta e d’intesa con la competente Direzione regionale, il patrocinio nelle controversie particolarmente rilevanti in considerazione del rilievo tributario e/o del principio di diritto in discussione, anche a seguito di rinvio della Corte di Cassazione. 2.4 Ricorsi per cassazione 2.4.1. Le richieste di proposizione di ricorso per cassazione concernenti giudizi tributari sono 42 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 trasmesse all’Avvocatura Generale via e-mail all’indirizzo di posta elettronica dedicato, contestualmente all’invio del cartaceo, dalla Direzione regionale, salvo casi eccezionali di particolare e motivata urgenza in cui l’Ufficio provinciale provvede direttamente, dandone comunque tempestiva notizia alla Direzione regionale e alle Direzioni centrali competenti. Le Direzioni regionali, o gli Uffici nei predetti casi eccezionali, trasmettono le richieste di proposizione di ricorso per cassazione senza indugio e comunque in modo da assicurare la ricezione da parte dell’Avvocatura entro il termine massimo di: a. trenta giorni dalla notificata della sentenza all’Agenzia o dalla trasmissione dell’atto notificato all’Agenzia medesima da parte dell’Avvocatura. In caso di notifica presso più sedi, si fa riferimento alla prima notifica ricevuta; b. settantacinque giorni dalla data di deposito della sentenza non notificata. Tale termine è aumentato a sei mesi per i giudizi instaurati fino al 4 luglio 2009, data di entrata in vigore della legge 18 giugno 2009, n. 69, che ha ridotto il termine di impugnazione di cui all’art. 327 c.p.c. da un anno a sei mesi. Ai predetti termini si aggiungono la sospensione feriale di cui all’art. 1, della legge 7 ottobre 1969, n. 742, nonché altre eventuali sospensioni dei termini, ove applicabili. 2.4.2. L’Avvocatura, nei casi in cui non condivida la richiesta di ricorso per cassazione, dà tempestiva comunicazione del proprio motivato parere negativo alla Direzione centrale Pubblicità immobiliare e affari legali e alla competente Drezione regionale, tramite posta elettronica o fax, dandone – se del caso – anticipazione telefonica ai recapiti indicati nella richiesta di ricorso. In ogni caso, tale parere è inviato alle strutture dell’Agenzia, salvo obiettive circostanze impedienti, almeno dodici giorni prima della scadenza del termine d’impugnazione. Per la risoluzione di eventuali divergenze, si applica il secondo periodo del punto 2.1.3. 2.4.3. L’Avvocatura si può avvalere della collaborazione degli uffici dell’Agenzia per la richiesta di trasmissione del fascicolo d’ufficio, ai sensi dell’art. 369, terzo comma, c.p.c.. In tal caso, l’Avvocatura invia la predetta richiesta all’ufficio del luogo in cui ha sede l’Organo giudiziario che ha emesso la sentenza. 2.4.4. La richiesta di cui cui al punto precedente, dopo gli adempimenti di rito, è immediatamente restituita, tramite posta celere, all’Avvocatura. 2.4.5. Nel caso di ricorso per cassazione notificato ex adverso concernente un giudizio tributario, la Direzione Regionale o, in caso di particolare e motivata urgenza, l’ufficio provinciale, invia entro venti giorni all’Avvocatura Generale l’originale notificato del ricorso, completo di relata di notifica, la relazione per il controricorso e l’eventuale ricorso incidentale, con tutti gli atti di causa, (atto impugnato, ricorso, controdeduzioni e ogni altro atto o documento depositato). Per il computo dei termini si tiene conto della sospensione di cui all’ultimo periodo del punto 2.4.1. La relazione con i relativi allegati è trasmessa alla competente sezione dell’Avvocatura Generale, contestualmente sia in formato cartaceo, sia via e-mail diretta all’indirizzo di posta elettronica dedicato. Nei casi in cui l’invio sia effettuato direttamente dall’Ufficio provinciale, la documentazione è dallo stesso trasmessa, per conoscenza, alla Direzione regionale e alle Direzioni centrali competenti. Qualora il ricorso sia notificato alla sede centrale dell’Agenzia, la Direzione centrale Pubblicità immobiliare e affari legali trasmette direttamente all’Avvocatura l'originale del ricorso notificato e, contestualmente, ne invia copia all’Ufficio provinciale, che provvede ad inviare la relazione per il controricorso e per l’eventuale ricorso TEMI ISTITUZIONALI 43 incidentale, con la tempistica e modalità di cui sopra (compresa, ove possibile, la trasmissione telematica degli atti). 2.4.6. L’Avvocatura, se ritiene che non sia opportuna la proposizione del ricorso incidentale o del controricorso, dà tempestiva comunicazione del proprio motivato parere negativo alla competente Direzione regionale e alla Direzione centrale Pubblicità immobiliare e affari legali, almeno dieci giorni prima della scadenza del termine per la notifica del ricorso incidentale, tramite posta elettronica o fax, dandone - se del caso - anticipazione telefonica ai recapiti indicati nella richiesta. 2.4.7. Nel caso di parere negativo dell’Avvocatura si applica, per la risoluzione della divergenza, il secondo periodo del punto 2.1.3. 2.4.8. Le modalità di cooperazione tra Agenzia e Avvocatura, di cui al presente paragrafo, si applicano, in quanto compatibili, anche alla restante attività di assistenza e rappresentanza in giudizio ed anche con riferimento alle controversie di lavoro. 2.5 Recupero spese di giudizio 2.5.1. L’Avvocatura, ai sensi dell’art. 21 del regio decreto 30 dottore 1933, n. 1611, nei giudizi in cui ha prestato patrocinio, cura l’esazione delle spese di giudizio nei confronti delle controparti quando tali spese sono poste a loro carico per effetto di sentenza, ordinanza, rinuncia transazione. Nelle ipotesi di compensazione di spese in cause dalle quali l’Agenzia non sia rimasta soccombente, così come in caso di transazione dopo sentenza favorevole, trova applicazione il disposto dell’art. 21, commi terzo, quarto e quinto, del regio decreto n. 1611 del 1933. 3. INCONTRI PERIODICI 3.1. Tra l’Avvocatura e la Direzione centrale Pubblicità immobiliare e affari legali è fissato un calendario di incontri periodici, di regola a cadenza quadrimestrale, per l’esame dell’evoluzione del contenzioso concernente le più significative e rilevanti problematiche in discussione (in particolare, in ordine all’applicazione delle norme tributarie e alle controversie di lavoro), al fine di definire congiuntamente e uniformemente le linee di condotta delle controversie in corso e l’interesse alla prosecuzione delle stesse. In quella sede sono esaminate congiuntamente anche le tematiche di particolare rilevanza generale che possono avere un impatto sulla conduzione e sulla soluzione del contenzioso potenziale o in atto. Agli incontri partecipano funzionari in rappresentanza dell’Agenzia e avvocati dello Stato, gli uni e gli altri designati dalla Dirigenza dei rispettivi Istituti per un periodo prefissato, salvo proroga. Per ciascuna sede, l’Avvocatura indica un proprio avvocato con funzioni di referente. 4. DISPOSIZIONE FINALE 4.1. L’Avvocatura e l’Agenzia si impegnano a segnalare reciprocamente tutte le difficoltà operative eventualmente insorte nella gestione dei rapporti oggetto del presente protocollo, allo scopo di provvedere, nello spirito della più ampia collaborazione, al superamento delle stesse ed eventualmente alla modifica delle modalità di cooperazione. Roma, 19 dicembre 2011 Per l’Agenzia del Territorio Per l’Avvocatura dello Stato Il Direttore L’Avvocato Generale dello Stato Dott.ssa Gabriella Alemanno Avv. Ignazio Francesco Caramazza 44 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 CIRCOLARE N. 71/2011 Oggetto: Deposito dei documenti in Cassazione. Interpretazione dell’art. 369, comma 2, n. 4, c.p.c. Si segnala che, con la sentenza 3 novembre 2011, n. 22726, le Sezioni Unite della Cassazione, aderendo alla tesi da tempo sostenuta dall’Avvocatura dello Stato, e superando un precedente orientamento maggioritario, hanno affermato i seguenti principi: 1) “L’onere del ricorrente, di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, di produrre a pena di improcedibilità del ricorso, entro i venti giorni dall’ultima notificazione dello stesso “gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda” è soddisfatto, quanto agli atti ed ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, anche mediante la produzione del fascicolo nel quale essi siano contenuti e, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo d’ufficio, mediante il deposito della richiesta di trasmissione di detto fascicolo presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata e restituita al richiedente munita di visto ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 3, (ferma in ogni caso l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 6, degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi)”. Pertanto, una volta presentata ai sensi dell’art. 369, comma 3, c.p.c. l’istanza di trasmissione alla Corte di Cassazione del fascicolo d’ufficio, non è necessario il deposito di ulteriore copia degli atti o documenti contenuti nel fascicolo d’ufficio. 2) “Per i ricorsi avverso sentenze delle commissioni tributarie, la indisponibilità dei fascicoli delle parti (i quali ex art. 25, secondo comma, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, restano acquisiti al fascicolo d’ufficio e sono restituiti solo al termine del processo) comporta la conseguenza che la parte ricorrente non è onerata della produzione del proprio fascicolo, contenuto nel fascicolo d’ufficio di cui abbia domandato la trasmissione alla Corte di cassazione ex art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, a meno che non abbia irritualmente ottenuto la restituzione del fascicolo di parte dalla segreteria della commissione tributaria; neppure è tenuta, per la stessa ragione, alla produzione di copia degli atti e dei documenti su cui il ricorso si fonda e che siano in ipotesi contenuti nel fascicolo della controparte ”. Pertanto nei giudizi tributari, una volta presentata ai sensi dell’art. 369, comma 3, c.p.c. l’istanza di trasmissione alla Corte di Cassazione del fascicolo d’ufficio, non è necessario il deposito di ulteriore copia dei documenti contenuti nel fascicolo di parte del grado di appello. Le Sezioni Unite hanno ribadito che resta fermo l’obbligo di indicare nel ricorso per cassazione, a pena di inammissibilità, gli atti e i documenti su cui si fonda, con i dati necessari al loro reperimento, in ossequio al principio di autosufficienza. Infine le Sezioni Unite hanno affrontato e risolto l’ipotesi eccezionale in cui, nel processo tributario, una delle parti abbia comunque ottenuto, anche se irregolarmente perché prima della fine del processo, la restituzione del proprio fascicolo dalla segreteria della Commissione tributaria. In tal caso, se il ritiro è stato effettuato dal ricorrente, è suo onere produrre il proprio fascicolo a pena di improcedibilità del ricorso; se invece è stata la parte intimata a ritirare irregolarmente il proprio fascicolo di parte, i principi di lealtà processuale e di non contestazione impongono che il ricorso sia procedibile, con la sola presentazione dell’istanza di trasmissione del fascicolo d’ufficio. L’Avvocato Generale dello Stato Avv. Ignazio Francesco Caramazza TEMI ISTITUZIONALI 45 CIRCOLARE N. 2/2012 Oggetto: Estinzione dei giudizi pendenti innanzi alla Corte di cassazione e alle Corti d’appello. Facendo seguito alla Circolare del 14 dicembre 2011, n. 63, si segnala che l’art. 26 della legge 12 novembre 2011, n. 183 (c.d. legge di stabilità) recante “Misure straordinarie per la riduzione del contenzioso civile pendente davanti alla Corte di cassazione e alle corti di appello” è stato modificato dall’art. 14, comma 1 del decreto legge 22 dicembre 2011, n. 212 che ha eliminato la necessità del previo avviso di cancelleria al fine della decorrenza del termine di sei mesi per la dichiarazione di persistenza dell’interesse alla decisione, pena l’estinzione del giudizio. Secondo la nuova formulazione della norma, nei procedimenti civili pendenti davanti alla Corte di cassazione, aventi ad oggetto ricorsi avverso le pronunce pubblicate prima della data di entrata in vigore della legge 18 giugno 2009, n. 69 (4 luglio 2009), e in quelli pendenti davanti alle corti di appello da oltre tre anni prima della data di entrata in vigore della legge n. 183/2011 (1 gennaio 2012), le impugnazioni si intendono rinunciate se nessuna delle parti, con istanza sottoscritta personalmente dalla parte che ha conferito la procura alle liti e autenticata dal difensore, dichiara la persistenza dell’interesse alla loro trattazione entro il termine perentorio di sei mesi dalla entrata in vigore della citata legge. In tal caso, Il Presidente del collegio dichiara l’estinzione con decreto. Il periodo di sei mesi non si computa ai fini di cui all’art. 2 della legge 24 marzo 2011, n. 89 (c.d. legge Pinto). Nell’assicurare che verrà formalmente caldeggiata una modifica della norma in questione in sede di conversione, al fine di renderla compatibile con i principi costituzionali di cui agli articoli 3 e 24 Cost., conformemente a quanto già affermato in caso analogo dalla Corte costituzionale (sentenza 9-16 aprile 1998, n. 111), si raccomanda, nelle more, di provvedere al tempestivo deposito, e comunque entro il 1° luglio 2012, della dichiarazione di persistenza dell’intesse alla trattazione della causa, di regola, nelle ipotesi in cui l’amministrazione patrocinata sia appellante o ricorrente, secondo quanto già disposto con la Circolare n. 63/2011. A tale fine, il Segretario Generale e il Responsabile dei Servizi Informativi vorranno incaricare gli uffici amministrativi competenti di predisporre, entro il 10 febbraio 2012, per ciascun Avvocato, un elenco di tutte le cause pendenti al 1° gennaio 2012 innanzi alla Corte di cassazione ed alla Corte d’appello di Roma. Gli Avvocati Distrettuali dello Stato conferiranno analogo incarico agli uffici amministrativi in relazione alle cause pendenti innanzi alle Corti d’appello periferiche di rispettiva competenza. L’AVVOCATO GENERALE DELLO STATO Avv. Ignazio Francesco Caramazza 46 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 CIRCOLARE N. 6/2012 Oggetto: Sentenze della Corte dei Conti e rimborso spese legali a seguito di proscioglimento. Con la Circolare n. 55/2008 (Comunicazione di Servizio n. 135/2008) si impartivano indicazioni operative in materia di rimborso spese legali ai dipendenti prosciolti nei giudizi di responsabilità promossi dinanzi alla Corte dei conti alla luce della sentenza n. 428/2008 resa dal Giudice contabile in sede di interpretazione di precedente decisione. Ripercorso l’iter argomentativo tracciato in quella pronuncia, si chiariva in quella sede che, pur in presenza di non secondarie ragioni di perplessità sulla correttezza della soluzione accolta dalla Corte, e in attesa di interventi chiarificatori, si sarebbe cautelativamente provveduto a «sospendere la redazione di pareri di congruità favorevoli al rimborso delle spese legali sostenute nell’ambito di giudizi contabili laddove la sentenza assolutoria della Corte dei conti [avesse] disposto la compensazione delle spese». Mutamenti normativi e sopravvenuti orientamenti giurisprudenziali hanno ora condotto ad un riesame della situazione da parte del Comitato Consultivo dell’Avvocatura. A seguito della consultazione resa dall’organo collegiale in data 25 novembre 2011 è stato quindi reso il parere 5 gennaio 2012, n. 4097, con il quale è stata diffusamente affrontata la materia. Con lo stesso devono ora ritenersi superate le indicazioni precedentemente impartite. S’invitano pertanto le SSLL, per il futuro, ad uniformarsi agli indirizzi interpretativi indicati nel parere, che viene allegato e costituisce - quanto alle sue considerazioni di massima - parte integrante della presente circolare. L’AVVOCATO GENERALE DELLO STATO Avv. Ignazio Francesco Caramazza Avvocatura Generale dello Stato Via dei Portoghesi, 12 05/01/2012-4097 P 00186 ROMA POSTA PRIORITARIA Roma, Ministero della Difesa Partenza n. D.G. Pers. Mil. Tipo Affare Cs. 28348/10 Sez.V Via S. Francesco di Sales 63 Avv. DE GIOVANNI 00165 ROMA Rif. del 23.6.2010 prot. n. 0308860 Oggetto: Sent. Corte dei Conti e rimborso spese legali a seguito di proscioglimento. Istante: C.M. Con la nota che si riscontra codesta Amministrazione ha trasmesso, per il parere di congruità della Scrivente, gli atti relativi alla richiesta di rimborso delle spese legali sostenute dal sig. C.M. in un giudizio avanti alla Corte dei Conti conclusosi, sia in primo che in secondo grado, con sentenza assolutoria. TEMI ISTITUZIONALI 47 La Corte dei Conti, sezione giurisdizionale della Liguria, con la sentenza n. 534/2007, ha, infatti, assolto l'istante, liquidando, in "applicazione dell'art. 3, comma 2 bis, del decreto legge 23 ottobre 1996, n. 543, convertito con legge 20 dicembre 1996 in materia di spese legali sostenute dai soggetti sottoposti al giudizio", la somma di euro 1.500,00 per ciascun convenuto. Con successiva sentenza n. 150/2009, resa su ricorso del solo sig. C., la Corte dei Conti - sez. III Centrale di Appello -, ha confermato la sentenza di primo grado, liquidando “le spese legali del grado ... nei confronti del solo C. nella misura di € 1.300 00, di cui 300 per spese e 1000 per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali". Preliminarmente all'esame della congruità dell'istanza di rimborso delle spese legali avanzata dall'interessato, occorre valutare se ed in che misura il dipendente abbia diritto alla liquidazione delle spese legali, in caso di definitivo proscioglimento, quando tali spese siano state liquidate in sentenza da parte del giudice contabile; la presente consultazione offre peraltro l’opportunità di svolgere considerazioni che valgono, in termini analoghi, per i casi in cui, sempre nel giudizio contabile, le spese sono state compensate, o è stato deciso che nulla spetta per le spese o è stata omessa dal giudice ogni decisione al riguardo. 1. La normativa di riferimento. Il diritto ad ottenere il rimborso delle spese legali in caso di proscioglimento dinanzi al giudice contabile è disciplinato dall'art. 3 comma 2 bis del D.L. 543/96 conv. con legge 639/96 e dall'art. 18 comma 1 del D.L. 67/97 conv. con 1. 135/97. L'art. 18 del D.L. 67/97 stabilisce che: "Le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall'Avvocatura dello Stato. Le amministrazioni interessate, sentita l'Avvocatura dello Stato, possono concedere anticipazioni del rimborso, salva la ripetizione nel caso di sentenza definitiva che accerti la responsabilità". L'art. 3, comma 2 bis del D.L. 543/96, norma che riguarda solamente i giudizi innanzi alla Corte dei Conti e relativa a tutti i dipendenti pubblici, anche non statali, prescrive che: "In caso di definitivo proscioglimento ai sensi di quanto previsto dal comma 1 dell'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, come modificato dal comma 1 del presente articolo, le spese legali sostenute dai soggetti sottoposti al giudizio della Corte dei conti sono rimborsate dall'amministrazione di appartenenza". Il combinato disposto delle anzidette disposizioni comporta che, qualora l'esito della controversia contabile sia il definitivo proscioglimento, le spese legali sostenute dal convenuto assolto sono rimborsate dall'amministrazione di appartenenza. Nel caso in cui quest'ultima sia statale, l'art. 18, d.l. 25 marzo 1997, conv. nella 1. 23 maggio 1997 n. 135, ha espressamente disposto che le suddette spese sono rimborsate nei limiti riconosciuti congrui dalla competente Avvocatura dello Stato. Le norme sopra citate hanno dato vita a rilevanti contrasti interpretativi in ordine alla potestas decidendi del giudice contabile in tema di spese di lite e, in particolare, sulla stessa possibilità di liquidare le spese ovvero di compensarle, anche considerato 48 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 che la normativa prevede un particolare procedimento amministrativo che vede l'intervento dell'Avvocatura dello Stato in caso di richiesta di rimborso delle spese legali da parte del dipendente. Nell'incertezza applicativa creatasi al riguardo, le citate disposizioni sono state oggetto di un intervento normativo di carattere interpretativo ad opera del legislatore che all'art. 10 bis, comma 10, del D.L. 248/05 ha previsto che: "Le disposizioni dell'articolo 3, comma 2-bis, del decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 543, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 dicembre 1996, n. 639, e dell'articolo 18, comma 1, del decreto-legge 25 marzo 1997, n. 67, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 maggio 1997, n. 135, si interpretano nel senso che il giudice contabile, in caso di proscioglimento nel merito, e con la sentenza che definisce il giudizio, ai sensi e con le modalità di cui all'articolo 91 del codice di procedura civile, non può disporre la compensazione delle spese del giudizio e liquida l'ammontare degli onorari e diritti spettanti alla difesa del prosciolto, fermo restando il parere di congruità dell'Avvocatura dello Stato da esprimere sulle richieste di rimborso avanzate all'amministrazione di appartenenza" (enfasi aggiunta). Occorre precisare che il predetto "divieto" per il giudice contabile di disporre la compensazione delle spese di giudizio è stato inserito dal legislatore con l’articolo 17, comma 30-quinquies, del D.L. 1° luglio 2009, n. 78 inserito dall'art. 1 della legge 3 agosto 2009, n. 102 , in sede di conversione. 2. Il parere dell'Avvocatura dello Stato sul rimborso delle spese nel giudizio contabile. Orientamenti giurisprudenziali. Ciò premesso, occorre stabilire quale sia, anche a seguito della norma interpretativa sopra menzionata, l'efficacia, nei confronti del prosciolto, della liquidazione o compensazione (o mancata pronuncia ) relativa alle spese contenuta nella sentenza della Corte dei Conti, e quale spazio debba essere attribuito al "parere di congruità dell'Avvocatura dello Stato" che la norma continua a prevedere come obbligatorio con riferimento alla richiesta di rimborso nell'ambito del giudizio contabile. Appare al riguardo utile, innanzi tutto, procedere ad una generale ricognizione della ratio del più volte citato art. 18 del D.L. 67/97, da considerare anche nel contesto della disciplina normativa degli onorari e diritti dovuti agli avvocati per le prestazioni giudiziali. La finalità della predetta norma è, con ogni evidenza, quella di tenere indenne il pubblico dipendente dalle spese legali sopportate in relazione a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, conclusi con l’esclusione della predetta responsabilità, da esso dipendente subiti con riferimento ad atti o fatti posti in essere in una posizione di immedesimazione organica con l’Amministrazione; il rimborso, però, va quantitativamente contenuto nei limiti di congruità ritenuti dall’Avvocatura dello Stato. Tale disposizione presuppone, ovviamente, il diritto del difensore al pagamento di onorari e diritti, a cui il cliente - pubblico dipendente è tenuto; siffatto obbligo del cliente, ai sensi dell’art. 2 del D.M. giustizia 8 aprile 2004, n. 127 (relativo alle tariffe forensi) sussiste “indipendentemente dalle statuizioni del giudice sulle spese giudiziali”. Recentemente, al riguardo, la Corte di Cassazione (sez. 6-1, ord. n. 5953 del 14/3/2011) ha riaffermato che “il cliente è obbligato, ai sensi dell'art. 61 r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578 (convertito nella legge 22 gennaio 1934 n. 36) e dell'art. 2 D.M. 24 novembre 1990, n. 392, a corrispondere all'avvocato ed al procuratore da lui nominati TEMI ISTITUZIONALI 49 gli onorari ed i diritti nella misura stabilita nei suoi specifici confronti dal giudice innanzi al quale il professionista abbia proposto domanda di rimborso delle spese e di pagamento degli onorari professionali, il cui ammontare va determinato da detto giudice, indipendentemente dalle statuizioni contenute nel provvedimento che ha definito la causa cui le spese richieste si riferiscono, avendo riguardo all'importanza dell'opera prestata, alla quantità di lavoro svolto dal professionista ed al valore economico e sociale dell'attività in relazione al risultato prefisso” (enfasi aggiunta): nello stesso senso cfr. C. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 11065 del 22 dicembre 1994. In sostanza, dunque, l’ordinamento e la giurisprudenza (in particolare la Suprema Corte) riconoscono in modo chiaro l’inesistenza di ogni vincolo quantitativo derivante dalla statuizione sulle spese del giudice del giudizio di merito rispetto all’obbligo di pagamento delle prestazioni professionali gravante sul cliente. Tale circostanza, in combinata considerazione con la ratio dell’art. 18 del d.l. 67/97 come sopra ricostruita, già consente di affermare, in via generale e con riferimento ad ogni tipo di giudizio in relazione al quale sia previsto il rimborso delle spese legali in favore del dipendente pubblico, che la finalità di tenere quest’ultimo indenne dalle spese legali e l’inesistenza di un limite quantitativo all’entità del rimborso derivante dalla statuizione del giudice consentono di riconoscere al dipendente il predetto rimborso in misura non condizionata o comunque limitata dalla decisione di esclusione di responsabilità, bensì semplicemente in misura parametrata sui vigenti criteri che presiedono alla quantificazione delle tariffe professionali, la cui concreta individuazione è, per legge, sottoposta al parere di congruità dell’Avvocatura dello Stato. Dunque, in ragione del complesso normativo sopra ricordato, non può non ritenersi che il rapporto giuridico intercorso tra il cliente -pubblico dipendente e il suo avvocato assuma rilevanza nel rapporto tra dipendente e Amministrazione ai fini dell’istanza di rimborso. Conclusioni, peraltro, che appaiono tanto più logiche e inevitabili se si considera che il dipendente pubblico (che ha agito in situazione di immedesimazione organica con l’Amministrazione) nell’esercitare in giudizio la propria difesa e nell’ottenere le declaratoria dell’assenza della propria responsabilità finisce con il far riaffermare la correttezza dell’agire della stessa Amministrazione. Tanto premesso si osserva che la giurisprudenza della Corte dei Conti, a seguito del ricordato intervento legislativo di natura interpretativa, si era orientata nel senso di ritenere che in ragione del richiamo esplicito all'art. 91 c.p.c. contenuto nell'art. 10 bis comma 10 D.L. 248/05, la locuzione "spese" non potesse che avere riguardo a tutti gli esborsi che complessivamente considerati costituiscono il "costo del processo", e la cui regolazione, nei giudizi di responsabilità amministrativa, non può che essere attratta alla competenza del giudice contabile (cfr. Corte dei Conti, sezione prima giurisdizionale centrale, sentenza n. 428/2008). Secondo i Giudici contabili le spese legali (per onorari e diritti del difensore), pur involgendo un rapporto trilatero (tra assolto e il suo difensore e, quindi, tra il primo e l'Amministrazione tenuta al rimborso) diverso da quello bilaterale (tra soggetto prosciolto ed Erario) afferente alle c.d. spese di giustizia, "non restano affatto estranee alla regolazione del Giudice contabile che è tenuto, del pari, a definirne la congruità, rispetto al sostanziale esito del giudizio ed al concreto appalesarsi della vicenda giudiziaria passata al suo vaglio". 50 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 Secondo questa interpretazione, la prescritta valutazione di congruità dell'Avvocatura dello Stato, nei giudizi di responsabilità amministrativa "resta confinata alla fase amministrativa" conseguente al giudizio contabile e si concreta in una mera verifica di rispondenza della richiesta di rimborso alla liquidazione del Giudice, nonché di congruità di eventuali spese legali aggiuntive correlate alla attuazione della decisione. Alla luce del descritto orientamento giurisprudenziale, nei casi di compensazione delle spese legali del giudizio svoltosi innanzi alla Corte dei Conti, la Scrivente si era espressa per la non rimborsabilità delle spese legali (cfr., da ultimo, parere prot. 364068/201 del 25 novembre 2010, CS 10615/2009 - Avv. Greco). Di recente la portata applicativa dell'art. 10-bis, comma 10, del D.L. 30 settembre 2005 n. 203, e stata però riesaminata dalle Sezioni Unite, sez. civile, della Corte di Cassazione, che, con sentenza n. 5918 del 14 marzo 2011, hanno precisato che il rapporto che si instaura fra l'incolpato, poi assolto, e l'amministrazione di appartenenza nulla ha a che vedere con quello che ha per oggetto il giudizio di responsabilità; il primo, infatti, si riferisce al rimborso delle spese sopportate dall'incolpato, poi prosciolto e si costituisce tra l'interessato e l'amministrazione di appartenenza. A questo rapporto è estraneo quello relativo al giudizio di responsabilità contabile. Da ciò discende, per i giudici della Suprema Corte, che, mentre sul giudizio contabile la regolamentazione delle spese spetta appunto al giudice contabile, la statuizione sulle spese relative al rapporto sostanziale che intercorre fra amministrazione di appartenenza e dipendente - e sulla base del quale amministrazione è onerata ex lege del suo rimborso in favore del dipendente prosciolto - esula dalla giurisdizione contabile e appartiene a quella del giudice del rapporto di lavoro, da cui il diritto al rimborso promana, con la conseguenza che essa deve ritenersi attribuita, di norma, al giudice ordinario (v. in questo senso anche Cass., S.U., sent. 24 marzo 2010 n. 6996). Alla luce della citata pronuncia delle Sezioni Unite si può dunque ritenere superato l'orientamento della Corte dei Conti in materia di rimborsabilità delle spese legali, atteso che l'art.10-bis, comma 10, del D.L. 30 settembre 2005 n. 203 deve essere interpretato nel senso che la statuizione della Corte dei Conti sulle spese ed onorari di causa non può essere di ostacolo al diritto del dipendente al rimborso, da parte dell'Amministrazione, delle spese effettivamente sostenute per la difesa in giudizio (in tal senso cfr. Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 24 marzo 2010, n. 6996). Sulla base di siffatta impostazione si possono ora esaminare le diverse fattispecie che possono presentarsi. 2. a) Alla conclusione che la statuizione della Corte dei Conti sulle spese ed onorari di causa non può essere di ostacolo al diritto del dipendente al rimborso, da parte dell'Amministrazione, delle spese effettivamente sostenute per la difesa in giudizio si deve pervenire, innanzi tutto, nelle ipotesi di compensazione delle spese eventualmente disposta prima dell'entrata in vigore della normativa sopra ricordata oppure successivamente, e contra legem, dal giudice contabile, o in caso di mancata pronuncia. A questa conclusione si giunge sulla base delle considerazioni già esposte e comunque tenendo presente che, conseguentemente all'espresso divieto a disporre la compensazione previsto dall'art.10-bis, comma 10, del D.L. 30 settembre 2005 n. 203, il diritto al rimborso sarebbe comunque spettante al pubblico dipendente e quindi soggetto TEMI ISTITUZIONALI 51 al consueto parere di congruità dell'Avvocatura dello Stato, rilasciato sulla base dei principi regolatori della materia, senza che possa essere di ostacolo la decisione assunta dal giudice contabile. Tanto è ineludibilmente confermato dal ricordato indirizzo giurisprudenziale da parte della Suprema Corte di Cassazione, che ha riguardo proprio all'art. 10-bis, comma 10, del D.L. 30 settembre 2005 n. 203, che, come detto, in caso di proscioglimento nel merito dell'incolpato, fa espresso divieto al giudice contabile di disporre la compensazione delle spese, imponendo di liquidare, con sentenza, l'ammontare degli onorari e diritti spettanti alla difesa del prosciolto. Ne deriva che il richiamo, contenuto nello stesso art. 10-bis, comma 10, del D.L. 30 settembre 2005 n. 203, al parere obbligatorio dell'Avvocatura dello Stato ("... fermo restando il parere di congruità dell'Avvocatura dello Stato da esprimere sulle richieste di rimborso avanzate dall’Amministrazione di appartenenza", recita l'art. 10-bis, comma 10, D.L. 203/2005), non può avere altro significato che quello della necessità, anche nel caso di mancata liquidazione delle spese legali da parte del giudice contabile, che l'Avvocatura dello Stato (quale organo tecnico deputato a sindacare, sulla base di un giudizio di discrezionalità tecnica, il rapporto che si instaura fra l'incolpato, poi assolto, e l'amministrazione di appartenenza), sia chiamata a pronunciarsi definitivamente sulla congruità delle richieste di rimborso avanzate dal dipendente prosciolto all'amministrazione di appartenenza, e ciò senza che detta pronunzia possa essere ostacolata e/o limitata dalla mancata quantificazione delle spese effettuata dal giudice contabile in sentenza. 2. b) A medesima conclusione, inoltre, si deve pervenire anche nel caso di liquidazione delle spese legali da parte del giudice contabile (come nel caso che qui interessa). Fermo quanto finora già ritenuto, va al riguardo anche osservato che ove, nel caso di intervenuta liquidazione delle spese legali da parte del giudice contabile, si pervenisse ad una diversa conclusione si dovrebbe conseguentemente ritenere che, a seguito dell’introduzione del divieto di disporre la compensazione delle spese, disposta dall’art. 17, comma 30-quinquies, del D.L. 1° luglio 2009, n. 78, per il dipendente pubblico prosciolto nei giudizi di responsabilità contabile, diverrebbe (per assurdo) più favorevole l’ipotesi in cui il giudice contabile abbia disposto, nonostante il divieto, la compensazione delle spese - atteso che in tal caso il diritto al rimborso sarebbe comunque soggetto al consueto parere di congruità dell’Avvocatura dello Stato, rilasciato sulla base dei principi regolatori della materia, senza che possa essere di ostacolo la decisione assunta dal giudice contabile - dall’ipotesi in cui il giudice abbia liquidato le spese di giudizio, posto che in tal caso il parere dell’Avvocatura resterebbe confinato alla fase amministrativa conseguente al giudizio contabile, con conseguente frustrazione del diritto del dipendente al rimborso delle spese legali, ove la decisione del giudice contabile avesse liquidato una somma simbolica e/o non completamente satisfattiva. Comunque, tornando all’esame del recente arresto della Corte Regolatrice sopra segnalato, va ribadito che il rapporto che si instaura fra il dipendente prosciolto e l'amministrazione di appartenenza, per riprendere l’espressione utilizzata dalla Suprema Corte, si riferisce al rimborso delle spese sopportate dall'incolpato, poi assolto, e per il quale l’art. 10-bis, comma 10, del D.L. 30 settembre 2005 n. 203 richiede obbligatoriamente il parere di congruità dell’Avvocatura dello Stato. A questo rapporto è del tutto 52 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 estraneo quello relativo al giudizio di responsabilità contabile. In sostanza, quindi, possono identificarsi nella complessa fattispecie in esame, tre diversi rapporti: quello relativo al giudizio di responsabilità contabile, il cui esito costituisce antecedente fattuale dei successivi; quello tra il cliente -pubblico dipendente e il proprio difensore, a cui pertiene l’obbligo per il cliente di pagare onorari e diritti; quello fra il dipendente prosciolto e l'amministrazione di appartenenza, che si sostanzia nel diritto del dipendente di ottenere il rimborso delle spese legali nella misura ritenuta congrua dall’Avvocatura dello Stato. Il primo dei tre rapporti non può condizionare, sul piano dall’an e del quantum, i due successivi. Tale conclusione, del resto, sembra essere più coerente alla segnalata ratio dell’istituto del rimborso delle spese legali di tenere indenne il dipendente dall’onere economico connesso all’attività difensiva nel caso in cui il procedimento aperto nei suoi confronti si sia concluso con piena esclusione di responsabilità. Spetta pertanto all’Avvocatura dello Stato, nel caso di liquidazione delle spese da parte del giudice contabile, stabilire quanto l’Amministrazione debba rimborsare al proprio dipendente, sussistendo, ovviamente, tutti i presupposti del diritto al rimborso; va comunque sottolineato che la cifra liquidata dal giudice contabile va assorbita nel rimborso complessivo, non potendo essere aggiunta al di là della cifra complessivamente ritenuta congrua. 2. c ) Le conclusioni esposte sub 2.a) e 2.b) trovano peraltro conferma (o comunque non vengono contraddette) nella recente sentenza della Corte dei Conti, Sezione Terza Giurisdizionale Centrale d’Appello, n. 559/2011, del 13 luglio 2011, la quale, pur senza fare alcun riferimento al recente arresto giurisprudenziale delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass., s.u., n. 5918 del 14 marzo 2011 ampiamente citata), ha affermato che, nel giudizio di responsabilità contabile, nel caso di assoluzione per mancanza di colpa grave, l’art. 17, comma 30-quinquies della l. n. 102/2009, ha “posto il divieto di compensare “le spese di giudizio””, con la conseguenza che ove nonostante l’assoluzione il Giudice contabile abbia disposto comunque la compensazione delle spese, l’eventuale gravame della sentenza non potrebbe che essere accolto. Tale pronuncia conferma quindi la conclusione, cui perviene il presente parere, secondo la quale, nei giudizi di responsabilità contabile, in caso di proscioglimento nel merito con compensazione delle spese del giudizio, considerato l’espresso divieto a disporre la compensazione previsto dall’art.10-bis, comma 10, del D.L. 30 settembre 2005 n. 203, il diritto al rimborso è comunque soggetto al consueto parere di congruità dell’Avvocatura dello Stato, rilasciato sulla base dei principi regolatori della materia, senza che possa essere di ostacolo la decisione assunta dal giudice contabile. Con riguardo alla diversa ipotesi di liquidazione degli onorari e dei diritti spettanti alla difesa del prosciolto, l’anzidetta pronuncia della Corte dei Conti non sembra offrire nuovi e utili spunti di riflessione, atteso che la stessa, come detto, pur essendo stata depositata successivamente alla pronuncia della Suprema Corte di Cassazione, a quest’ultima non fa riferimento, non consentendo, pertanto, di valutare quale sia l’incidenza di detta pronuncia sulla posizione della giurisprudenza contabile. In ogni caso si ritiene di dover segnalare che del tutto improprio sembra il riferimento, contenuto in sentenza, alla circolare n. 55/2008 dell’Avvocatura Generale dello Stato, atteso che essa - lungi TEMI ISTITUZIONALI 53 dal concordare con l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale il parere dell’Avvocatura dello Stato, nei giudizi di responsabilità contabile, “resta confinato alla fase amministrativa” conseguente al giudizio contabile e si concreta in una mera verifica di rispondenza della richiesta di rimborso alla liquidazione del Giudice - aveva sostenuto che l’interpretatio abrogans del richiamato art. 10 bis, comma 10, del D.L. 203/2005, convertito in legge 248/2005 non appariva condivisibile. Con riguardo specifico alla compensazione delle spese, aggiungeva che sarebbe stato promosso un intervento normativo chiarificatore, che poi in effetti è intervenuto, ad opera dell’art. 17, comma 30- quinquies, del D.L. 1° luglio 2009, n. 78 inserito dall’art. 1 della legge 3 agosto 2009, n. 102, in sede di conversione, che ha disposto il divieto di compensazione delle spese. In ogni caso si precisava, nella citata circolare n. 55/2008, che nelle more appariva opportuno sospendere la redazione di pareri di congruità favorevoli al rimborso delle spese legali sostenute nell’ambito di giudizi contabili laddove la sentenza assolutoria della Corte dei conti avesse disposto la compensazione delle spese. Pertanto, proprio a seguito del recente arresto della Suprema Corte di Cassazione, appare necessario riprendere la redazione dei pareri di congruità favorevoli al rimborso delle spese legali sostenute nell’ambito di giudizi contabili, atteso che spetta pertanto all’Avvocatura dello Stato, nel caso di liquidazione delle spese da parte del giudice contabile, stabilire quanto l’Amministrazione debba rimborsare al proprio dipendente, sussistendo, ovviamente, tutti i presupposti del diritto al rimborso. 3. Esame della fattispecie concreta. Ricorrenza dei presupposti del diritto al rimborso. (omissis) 4. Esame della congruità delle note spese. (omissis) Sui profili di massima della questione è stato sentito il Comitato Consultivo del 25 novembre 2011, che si è espresso in conformità. L’AVVOCATO GENERALE AGGIUNTO AVV. ALDO LINGUITI 54 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 COMUNICAZIONE DI SERVIZIO N. 7/2012 Oggetto: Art. 78 del D.L. n. 112/2008 - Patrocinio del Commissario straordinario del Governo per la ricognizione della situazione economico-finanziaria del Comune di Roma (ora Roma Capitale). A seguito del parere reso dal Comitato Consultivo nel corso della seduta del 5 dicembre 2011, con nota n. 394854 del 7 dicembre 2011 (*) è stato fornito riscontro al quesito formulato dalla Struttura commissariale in oggetto chiarendo che, “pur con le doverose perplessità che l’assenza di una puntuale ed espressa disciplina sul tema fa sorgere, … l’eccezionalità, del tutto particolare, della disciplina della Gestione prevista dall’art. 78 D.L. 112/2008 non autorizza detta gestione ad avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato e sembra imporre, invece, la prosecuzione del patrocinio della Avvocatura Comunale”. Si rende ora necessario diramare le conseguenti istruzioni al fine di consentire una uniforme trattazione delle fattispecie che potranno presentarsi. 1. Atteso il ritenuto difetto di ius postulandi, almeno fino al sopravvenire di consolidati contrari orientamenti giurisprudenziali, gli atti notificati nei confronti del Commissario straordinario presso la Avvocatura dello Stato dovranno essere trasmessi senza indugio all’Avvocatura comunale ai fini della tempestiva costituzione, che dovrà avvenire per Roma Capitale, che ha la titolarità dei rapporti fatti valere in giudizio essendo rimessa al Commissario la sola gestione contabile e liquidatoria degli stessi. 2. L’Avvocatura non provvederà comunque mai alla costituzione in giudizio per il Commissario. 3. Coerentemente, nemmeno si dovrà procedere alla instaurazione di giudizi di cognizione o esecutivi in nome e per conto del Commissario. Ulteriori indicazioni operative potranno essere fornite alla luce della evoluzione giurisprudenziale sul punto. L’AVVOCATO GENERALE DELLO STATO AVV. IGNAZIO FRANCESCO CARAMAZZA (*) Per comodità di consultazione si allega in copia: « Con il foglio in riscontro codesta gestione commissariale del Comune di Roma, nel presupposto che la propria istituzione con l’art. 78 del D.L. 112/2008 (convertito in legge 6 agosto 2008 n. 133) abbia posto capo ad una gestione distinta e separata dall’Amministrazione comunale di Roma per tutti i rapporti obbligatori attivi e passivi anteriori al 28 aprile 2008, chiede: a) se la istituzione della gestione commissariale abbia determinato la nascita di un nuovo soggetto succeduto a titolo particolare al Comune di Roma nei rapporti obbligatori a lei affidati; b) se tale successione possa inquadrarsi processualmente nella disciplina dell’art. 111 c.p.c., salva la possibilità per la gestione commissariale di intervenire nel giudizio (nella qualità, appunto, di successore a titolo particolare nella posizione del Comune); c) se la gestione commissariale (benché governativa) possa essere rappresentata TEMI ISTITUZIONALI 55 dall’Avvocatura Comunale, attraverso uno specifico mandato ad litem; d) se, in quanto governativa, debba essere rappresentata dall’Avvocatura dello Stato. Nella richiesta di parere codesta Gestione evidenzia il numero rilevante del contenzioso in atto relativo a rapporti obbligatori anteriori al 28 aprile 2008 (circa 48.000) e la opportunità che la propria rappresentanza e difesa nei giudizi tutti resti affidata all’Avvocatura Comunale, attese le difficoltà che insorgerebbero dalla necessaria interrelazione tra detta Avvocatura e l’Avvocatura dello Stato, ove quest’ultima venga ritenuta titolare dello ius postulandi. Ritiene la Scrivente che, pur dopo la trasformazione del Comune di Roma in Roma Capitale (di cui al Decreto legge approvato dal Consiglio dei Ministri nel Novembre 2011) non sia intervenuta alcuna estinzione dell’ente territoriale Comune di Roma che “ancorché dissestato non può cessare di esistere, in quanto espressione di autonomia locale, che costituisce un valore costituzionalmente tutelato” (TAR Lazio Sez. II Roma 27 ottobre 2010 / 10 novembre 2010 n. 33345), e che la situazione non possa quindi farsi ricadere nella disciplina dell’art. 110 c.p.c. La gestione Commissariale di cui all’art. 78, comma 3 D.L. 112/2008 sopra richiamato è stata voluta dal legislatore “nelle more dell’approvazione della legge di disciplina dell’ordinamento, anche contabile, di Roma Capitale ai sensi dell’art. 114, III comma, della Costituzione”, al fine della “ricognizione della situazione economico-finanziaria del Comune e delle Società da esso partecipate ... e per la predisposizione e l’attuazione di un piano di rientro dall’indebitamento pregresso” come espressamente detta l’art. 78, I comma D.L. 112/2008. Dalla lettura di tali disposizioni emerge, oltre alla già rilevata impossibilità di estinzione del Comune di Roma, la provvisorietà della istituzione del Commissario straordinario (nelle more di costituzione di Roma Capitale) e la perimetrazione della sua competenza (ricognizione situazione economico-finanziaria e predisposizione ed attuazione di piano di rientro dall’indebitamento). - Tale configurazione esclude quindi che possa parlarsi di una successione a titolo particolare nei rapporti obbligatori facenti capo al Comune di Roma e dei quali al Commissario è richiesto di operare la sola ricognizione predisponendone il piano di rientro -. Ciò comporta che la disciplina dell’art. 111 c.p.c. non sia invocabile. La previsione della gestione commissariale in parola, pur prendendo spunto da una riconosciuta e grave situazione di dissesto del Comune di Roma non mette capo alla integrale applicazione della procedura di dissesto di cui all’art. 246, comma 1, del D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267, dettato in via generale per tutte le ipotesi di situazioni di dissesto dei Comuni, e ciò in ragione della voluta esclusione della completa paralisi di attività che dalla applicazione della procedura di dissesto sarebbe derivata anche per il Comune di Roma e che però sarebbe stata incompatibile con la istituzione di Roma Capitale in prosecuzione del Comune di Roma. La normativa di cui all’art. 78 D.L. 112/2008, peraltro, pur espressamente escludendo, per tutta la durata del regime commissariale, la adozione della deliberazione di dissesto di cui all’art. 246, comma 1, del D.Lgs. n. 267/2000 (art. 78, comma 5) fa frequente richiamo alla disciplina in tale D.Lgs. contenuta (art. 78, comma 6 e 7). Tale rilievo consente di ritenere che, ove non fosse stata espressamente dettata l’esclusione 56 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 della procedura di dissesto, di detta procedura si sarebbe dovuta fare applicazione, ritenendo coerentemente che come “la dichiarazione di dissesto di un ente territoriale non lo spoglia della sua capacità processuale” (Cass. Sez. I^ n. 15498/2011) così la istituzione della Gestione commissariale di cui all’art. 78 D.L. 112/2008 non spoglia il Comune di Roma della sua legittimazione processuale. Tale affermazione - nel caso dell’istituzione della Gestione commissariale in esame - è rafforzata dalla considerazione che detta Gestione è finalizzata al compimento di mera attività contabile volta a inventariare e superare la situazione economico-finanziaria del Comune di Roma anteriore al 28 aprile 2008 (con la predisposizione del piano di rientro relativo) da quella successiva a tale data, che farà capo a Roma Capitale. La gestione commissariale in questione, non serve a far posto alla procedura concorsuale di cui al D.Lgs. 267/2000 sul dissesto, che tra i poteri dell’organo straordinario di liquidazione lì previsto indica pure quello di alienare i beni appartenenti all’ente in dissesto (comma 9, art. 255 D.Lgs. citato) limitandosi i compiti della gestione di cui all’art. 78 D.L. 112/2088 a quelli meramente contabili ricognitori sopra ricordati. Appare anche rilevante, ai fini della soluzione dello specifico quesito proposto in tema di capacità e rappresentanza processuale, la disposizione (art. 78, comma 6, II inciso) secondo la quale “tutte le entrate di competenza dell’anno 2008 e dei successi anni sono attribuite alla gestione corrente, di competenza degli organi istituzionali dell’ente”. Tale disposizione conferma, da un lato, la già rilevata sopravvivenza dell’ente comunale e, dall’altro lato, che l’attività della gestione commissariale è svolta nell’interesse dell’ente stesso ai cui organi istituzionali devono affluire le entrate di sua competenza, per gli anni 2008 e seguenti; conforta tale ultima osservazione il disposto dell’ultimo comma dell’art. 2 del D.P.C.M. 5 dicembre 2008 secondo il quale “è restituita alla Gestione ordinaria del Comune la quota di risorse finanziarie esuberanti rispetto alle necessità della liquidazione o pagamento dei debiti del piano”. Particolarmente significative sono anche: la disposizione (art. 78, comma 2, lett. b) che prevede che gli organi commissariali “si avvalgono delle strutture comunali”, e quella (art. 78, comma 2, lett. a) che rinvia al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (poi adottato in data 4 luglio 2008) la individuazione degli istituti e strumenti disciplinati dal titolo VIII del testo unico di cui al D.Lgs. 10 agosto 2000 n. 267 (sulla procedura di dissesto) di cui può avvalersi il Commissario straordinario “parificato a tal fine all’organo straordinario di liquidazione” e dunque non ad altri fini. La limitazione dei compiti del commissario di governo per il Comune di Roma ad attività meramente contabili ricognitorie della situazione economico-finanziaria al 28 aprile 2008 ed al relativo piano di rientro è confermata dal DPCM 4 luglio 2008 che individua gli istituti e strumenti disciplinati dal D.Lgs. 267/2000 esclusivamente nel potere organizzatorio di cui all’art. 253 e nel potere transattivo di cui all’art. 254. Del pari il DPCM 5 dicembre 2008 (che ha approvato il piano di rientro redatto dal Commissario di Governo), pur attribuendo al Commissario di Governo poteri di amministrazione attiva di gestione del piano di rientro (art. 2, comma 1, DPCM 5 dicembre 2008), non amplia i compiti del Commissario al di là della “liquidazione e al pagamento dei debiti anche, se possibile, mediante transazioni”, senza menzionare alcun ulteriore compito, di amministrazione attiva relativo alla promozione o prosecuzione di attiivtà e competenze proprie del Comune, diverso dalla semplice liquidazione e pagamento TEMI ISTITUZIONALI 57 (eventualmente ove possibile anche transattivamente) dei debiti relativi a rapporti anteriori al 20 aprile 2008. Sembra potersi, perciò, affermare che al Commissario straordinario sia stata trasferita non già la titolarità di rapporti obbligatori anteriori al 28 aprile 2008 ma solo la gestione liquidatoria di detti rapporti. Né sembrano di ostacolo a tale conclusione le funzioni di cui all’art. 1, comma 26 D.L. 138/2011 convertito con L. n. 148/2011 che prevede la possibilità per il Commissario di affidamento in house a società statali di sue competenze, né quella di concludere transazioni, giacché tali possibilità, circoscritte pur sempre nell’ambito della funzione liquidatoria attribuita al Commissario, non sarebbero state espressamente previste se il Commissario fosse stato visto e voluto quale organo statale titolare dei rapporti e quindi dei relativi poteri di amministrazione attiva. In particolare, con riguardo al contenzioso pendente (i cui dati, in termini quantitativi - certi o probabili -, sono stati forniti dalla Avvocatura Comunale: v. punto 5.2 del piano di rientro), nessuna attività appare demandata al Commissario straordinario. Tutto quanto sopra osservato, pur con le doverose perplessità che l’assenza di una puntuale ed espressa disciplina sul tema fa sorgere, appare idoneo a consentine di affermare che l’eccezionalità, del tutto particolare, della disciplina della Gestione prevista dall’art. 78 D.L. 112/2008 non autorizza detta gestione ad avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato e sembra imporre, invece, la prosecuzione del patrocinio della Avvocatura Comunale. Sul presente parere è stato sentito il Comitato Consultivo che si è espresso in conformità il 6 dicembre 2011. L’Avvocato Generale Aggiunto Avv. Aldo Linguiti » CIRCOLARE N. 7/2012 Oggetto: D.L. 24 gennaio 2012 n. 1 art. 9. Abolizione delle tariffe professionali. Com’è noto l’art. 9 del decreto legge n. 1/2012 ha stabilito che “sono abrogate le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico”, tra le quali rientrano quelle forensi. La norma prevede che il compenso per le prestazioni professionali deve essere “pattuito al momento del conferimento dell’incarico professionale” mediante un’indicazione preventiva della complessità dell’opera e delle attività preventivabili. La finalità della norma, che sembra ispirata allo scopo di favorire la competitività all’interno delle categorie professionali, induce a ritenere che essa sia inapplicabile ai rapporti tra le Amministrazioni pubbliche e l’Avvocatura dello Stato, che è difensore istituzionale, e dunque esclusivo, inserito organicamente nella compagine statale. In ogni caso, in attesa della conversione in legge del decreto e delle eventuali indicazioni che potranno risultare, e con riserva di fornire conseguenti ulteriori istruzioni, per le liquidazioni ai sensi dell’art. 21 R.D. n. 1611/1933 commi terzo e quarto si potrà continuare ad uti- 58 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 lizzare la tariffa forense, secondo la prassi vigente al momento in cui è stato instaurato il giudizio, ispirata, come sempre, a criteri di moderazione nei rapporti con le Amministrazioni patrocinate. Il Vice Avvocato Generale dello Stato delegato Avv. Antonio Palatiello CIRCOLARE N. 12/2012 Oggetto: Parere approvato dal comitato consultivo sugli effetti della sentenza della Corte Costituzionale n. 293/2011 che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 11 commi 12 e 13 del D.L. 78/10 conv. in l. 122/10; applicazione delle leggi 229/05 e 244/07 - riconoscimento degli arretrati e condotta da tenere in sede processuale. Si trasmette, per opportuna conoscenza e per quanto di competenza, copia del parere in oggetto, approvato dal Comitato Consultivo nella seduta del 24 febbraio 2012. L’AVVOCATO GENERALE DELLO STATO Avv. Ignazio Francesco Caramazza Avvocatura Generale dello Stato Via dei Portoghesi, 12 27/02/2012-72149 P 00186 ROMA POSTA PRIORITARIA Roma, Ministero della Salute Partenza n. Dipartimento della Programmazione e Tipo Affare cs 48803/2011 - Sez.V dell’Ordinamento del SSN Avv. RUSSO M. D.G. dei Dispositivi medici, del Servizio Risposta a note n. 39543 del 30.11.11 e n. Farmaceutico e della Sicurezza delle Cure 3651 del 20.1.12 Uff. VIII ex DPROG Viale Giorgio Ribotta n. 5 00144 Roma Parere sugli effetti della sentenza della Corte Costituzionale n. 293/2011 che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 11 commi 12 e 13 del D.L. 78/10 conv. in l. 122/10; applicazione delle leggi 229/05 e 244/07 - riconoscimento degli arretrati e condotta da tenere in sede processuale. Con le note in riferimento, codesta Amministrazione ha sottoposto alla Scrivente un articolato quesito, nel quale si chiede di conoscere: 1. Se, per effetto della sentenza n. 293/11 della Corte Costituzionale, si debba modificare la base di calcolo degli indennizzi spettanti - rispettivamente - ai danneggiati da vaccino TEMI ISTITUZIONALI 59 ed ai talidomidici in base alle leggi n. 229/05 e 244/07, nel senso di rivalutarne l’intero importo salvo poi applicare l’ulteriore rivalutazione prevista dalle leggi 229/05 e 244/07; da chiarimenti intercorsi in via breve è emerso che il quesito deve intendersi articolato in più questioni: a) se - al momento dell’iscrizione a ruolo ex novo di un indennizzo per talidomidici ex lege 244/07 (d’ora in avanti, per brevità, I.T.) o di un indenizzo “ulteriore” ex lege 229/05 per vaccinati (d’ora in avanti, per brevità, I.V.), si debba - per effetto della sentenza n. 293/11 - rivalutarne la base di calcolo, costituita dall’indennizzo ex lege 210/92 art. 2, includendovi sia la componente “assegno” che quella “IIS”, solo successivamente applicando, sull’ammontare così ottenuto, l’ulteriore rivalutazione prevista dalle rispettive leggi regolatrici; b) se - una volta iscritto a ruolo un I.T. o un I.V, lo si debba rivalutare annualmente procedendo innanzi tutto alla periodica rivalutazione della base di calcolo (includendovi sia la componente “assegno” che la componente “IIS”), ed applicando poi, sull’ammontare così ottenuto, anche la rivalutazione annuale prevista dalle leggi 229/05 e 244/07 in combinato disposto con il D.M. 163/09; c) se i soggetti già titolari, alla data della sentenza della Consulta, dell’I.T. o dell’I.V. abbiano diritto, per il pregresso, alla corresponsione delle somme arretrate a titolo di rivalutazione della componente dell’indennizzo-base ex art. 2 l. 210/92 commisurata all’indennità integrativa speciale (IIS) e, in caso affermativo, con quale decorrenza. 2. Quale sia la condotta da tenere relativamente alla liquidazione ai titolari di indennizzo ex art. 2 l. 210/92 degli importi arretrati, dovuti a titolo di rivalutazione dell’IIS; in particolare, se tali arretrati vadano corrisposti con decorrenza analoga a quella riconosciuta per l’indennizzo, ovvero se si debba tenere conto della prescrizione e - in tal caso - quale sia il termine applicabile - o se, piuttosto, possa limitarsi la corresponsione degli arretrati al periodo successivo alla data di entrata in vigore della legge 244/07, individuata quale tertium comparationis dalla Corte Costituzionale nel ritenere l’incostituzionalità dell’art. 11 comma 13 del D.L. 78/10 conv. in l. 122/10; 3. Quale sia il comportamento processuale da tenere con riferimento ai giudizi in cui si faccia questione della spettanza della rivalutazione sulla componente dell’indennizzo ex art. 2 l. 210/92 commisurata all’IIS e, segnatamente, se si debba procedere all’abbandono dei giudizi stessi, ovvero differenziare la condotta processuale a seconda che l’oggetto del contendere verta sull’an o sul quantum debeatur. §§§ Tanto premesso, la Scrivente ritiene che ai quesiti debba darsi risposta nei termini che qui di seguito si espongono. A. Quanto al quesito di cui al punto 1, come meglio specificato sub a), b) e c), la Scrivente ritiene che la risposta debba essere articolata. Le norme rilevanti ai fini della soluzione del quesito sono le seguenti. - Art. 2 l. 210/92: “1. L'indennizzo di cui all'articolo 1, comma 1, consiste in un assegno, reversibile per quindici anni, determinato nella misura di cui alla tabella B allegata alla legge 29 aprile 1976, n. 177, come modificata dall'articolo 8 della legge 2 maggio 1984, n. 111. L'indennizzo è cumulabile con ogni altro emolumento a qualsiasi titolo percepito ed è rivalutato annualmente sulla base del tasso di inflazione programmato. 2. L'indennizzo di cui al comma 1 è integrato da una somma corrispondente all'importo dell'indennità in- 60 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 tegrativa speciale di cui alla legge 27 maggio 1959, n. 324…”; - Art. 1 l. 229/2005: “1. Ai soggetti di cui all'articolo 1, comma 1, della legge 25 febbraio 1992, n. 210, è riconosciuto, in relazione alla categoria già loro assegnata dalla competente commissione medico-ospedaliera, di cui all'articolo 165 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092, un ulteriore indennizzo. Tale ulteriore indennizzo consiste in un assegno mensile vitalizio, di importo pari a sei volte la somma percepita dal danneggiato ai sensi dell'articolo 2 della legge 25 febbraio 1992, n. 210, per le categorie dalla prima alla quarta della tabella A annessa al testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 dicembre 1978, n. 915, e successive modificazioni, a cinque volte per le categorie quinta e sesta, e a quattro volte per le categorie settima e ottava… 4. L'intero importo dell'indennizzo, stabilito ai sensi del presente articolo, è rivalutato annualmente in base alla variazione degli indici ISTAT.” - Art. 2 comma 363 l. 244/07: “L’indennizzo di cui all’articolo 1 della legge 29 ottobre 2005, n. 229, è riconosciuto, altresì, ai soggetti affetti da sindrome da talidomide, …”; - Art. 1 D.M. 163/09: “1. Il presente regolamento disciplina il procedimento per il riconoscimento e la corresponsione dell'indennizzo previsto dall'articolo 1 della legge 29 ottobre 2005, n. 229, ai soggetti affetti da sindrome da talidomide, …2. L'indennizzo di cui al comma 1, di seguito denominato indennizzo per i talidomidici, consiste in un assegno mensile vitalizio, di importo pari a sei volte la somma corrispondente ad un importo base di riferimento, determinato in analogia a quanto previsto per i soggetti danneggiati da vaccinazione obbligatoria, ai sensi dell'articolo 2 della legge 25 febbraio 1992, n. 210, ….4. L'importo dell'indennizzo per i talidomidici, stabilito ai sensi del presente articolo, … è interamente rivalutato annualmente in base alla variazione degli indici ISTAT ”. §§§ Nel quadro normativo sopra richiamato, l’indennizzo di cui all’art. 2 l. 210/92 costituisce la base di calcolo sia dell’I.V. che, ex lege 229/05, compete ai soggetti danneggiati da vaccino in aggiunta a quello di cui allo stesso art. 2 l. 210/92, sia dell’I.T. che compete, ex art. 2 comma 363 l. 244/07, ai talidomidici. Entrambi tali indennizzi sono, infatti, dei multipli dell’indennizzo-base di cui all’art. 2 comma 1 l. 210/92. Come noto, l’art. 2 comma 2 l. 210/92 è stato oggetto di interpretazione autentica attraverso l’art. 11 comma 13 D.l. 78/10 conv. in l. 122/10, il quale stabiliva: “Il comma 2 dell'articolo 2 della legge 25 febbraio 1992, n. 210 e successive modificazioni si interpreta nel senso che la somma corrispondente all'importo dell'indennità integrativa speciale non è rivalutata secondo il tasso d'inflazione”. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 293/11 ha dichiarato l’incostituzionalità della norma interpretativa per contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto prevede, per la categoria degli emotrasfusi, un regime di rivalutazione dell’indennizzo deteriore rispetto a quello previsto per i talidomidici. A partire dal momento della pronuncia della Consulta (e salvo quanto si dirà infra al punto B) con riferimento al pregresso), dunque, l’indennizzo ex lege 210/92, deve essere rivalutato in entrambe le componenti (assegno ed IIS). Ciò premesso, l’Amministrazione ha chiarito in via breve che - prima della citata sen- TEMI ISTITUZIONALI 61 tenza n. 293/11 - al momento di iscrivere a ruolo ex novo un I.V. o un I.T., la prassi era nel senso di procedere nel seguente modo: I) dopo aver calcolato il valore dell’indennizzo base a mente dell’art. 2 l. 210/92, se ne attualizzava il valore limitatamente alla componente “assegno”; II) Alla somma così ottenuta, si applicava il coefficiente di moltiplicazione previsto dalla legge 229/05; III) La somma così ottenuta veniva, poi, complessivamente rivalutata anno per anno come stabilito - rispettivamente - dall’art. 1 comma 4 l. 229/05 e dall’art. 1 comma 4 D.M. 163/09. La risposta al quesito di cui al punto 1 sub a) è affermativa. Per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 293/11, l’indennizzo di cui all’art. 2 l. 210/92 deve essere rivalutato in entrambe le sue componenti. Pertanto, a tale complessiva rivalutazione non potrà non procedersi anche nel momento in cui l’indennizzo ex art. 2 l. 210/92 viene in considerazione come base di calcolo per la quantificazione dell’I.T. o dell’I.V.. La risposta al quesito di cui al punto 1 sub b) deve essere, invece, negativa, per i motivi che qui di seguito si illustrano. La prassi descritta ai punti I), II) e III) mostra che - una volta individuata la base di calcolo come descritto al punto I), l’unico adeguamento applicato di anno in anno è sempre stato quello previsto dalle norme indicate sub) III, mentre non si è mai proceduto anche alla rivalutazione periodica annuale dell’indennizzo-base, che veniva invece effettuata una tantum, solo al momento dell’istituzione di un nuovo I.V. o I.T.. Tale prassi appare condivisibile e, in analogia con la stessa, non si ritiene debba procedersi ora, per effetto della sentenza n. 293/11 - oltre che alla rivalutazione dell’indennizzo complessivamente considerato come previsto dalla l. 229/05 e dal D.M. 163/09 - anche alla complessiva rivalutazione di anno in anno dell’indennizzo-base, comprensivo sia dell’assegno che dell’IIS: in effetti, l’adeguamento al costo della vita è assicurato per l’I.T. e l’I.V., dalla sola rivalutazione annuale del loro ammontare complessivo, come disposto dalla l. 229/05 e dal D.M. 163/09. La rivalutazione annuale anche dell’indennizzo di cui all’art. 2 l. 210/92 preso a riferimento quale base di calcolo produrrebbe, sommata a quella dell’intero importo di cui alla l. 229/05 ed al D.M. 163/09, una doppia rivalutazione, la quale finirebbe con l’integrare un’ingiustificata disparità di trattamento a danno delle altre categorie di titolari di indennizzo (i danneggiati da emotrasfusione) ed a favore dei danneggiati da vaccino e dei talidomidici, non dissimile - quanto a questi ultimi - da quella già censurata dalla Consulta. La risposta al quesito sintetizzato al punto 1 sub c), è affermativa. L’Amministrazione pone la questione di un ipotetico I.T o I.V, già iscritto a ruolo da tempo, per il quale - al momento della quantificazione della base di calcolo come descritto sopra al punto I) - si sia proceduto all’attualizzazione dell’indennizzo ex art. 2 l. 210/92, limitatamente alla sola componente assegno, senza rivalutare invece la componente IIS. In tale ipotesi, in effetti sembra che - alla luce della sentenza n. 293/11- il titolare di I.T. o I.V. abbia titolo a pretendere la liquidazione della differenza imputabile a tale modalità di parziale rivalutazione censurata dalla Consulta, salvo quanto si dirà al punto successivo, con riferimento alla decorrenza del diritto agli arretrati. §§§ 62 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 B. Quanto al quesito svolto al punto 2, anche in questo caso la risposta deve essere articolata. La Scrivente sta infatti sostenendo, in alcuni giudizi in corso (tra questi, alcuni pendenti innanzi a giudici di merito sia del distretto di Corte d’Appello di Firenze sia di Roma, altri in cassazione), la tesi per cui la corresponsione degli arretrati a titolo di rivalutazione dell’IIS va limitata al solo periodo successivo alla data di entrata in vigore della legge 244/07 (1 gennaio 2008), presa a riferimento dalla Corte Costituzionale quale tertium comparationis nel ritenere l’incostituzionalità dell’art. 11 comma 13 del D.L. 78/10 conv. in l. 122/10. Questa tesi appare ragionevolmente argomentabile e sarà pertanto sostenuta dalla Scrivente nei giudizi ai quali sia pertinente. Va, peraltro, evidenziato che la stessa, indubbiamente foriera di nuovo contenzioso, presenta comunque un margine di dubbio quanto all’esito, anche in quanto non è certo che i giudici - ove dovessero accogliere la tesi che limita l’efficacia retroattiva della sentenza n. 293/11 al 1 gennaio 2008 - si conformerebbero, per il pregresso, al più recente orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte di cui alle sentenze Cass. Lav. nn. 21703/09 e 22112/09, che hanno negato il diritto alla rivalutazione dell’IIS (sentenze in effetti già sistematicamente disattese dai giudici di merito, sia pure in base ad argomenti che la Consulta non ha espressamente affrontato nella recente pronuncia). In conseguenza di ciò, ci si riserva di valutare l’opportunità di coltivare o meno la suddetta tesi difensiva alla luce degli orientamenti giurisprudenziali che emergeranno nei giudizi già avviati. Qualora la giurisprudenza dovesse rivelarsi sfavorevole alla posizione sostenuta nell’interesse dell’Amministrazione, la corresponsione degli arretrati dovrebbe comunque avvenire entro i limiti della prescrizione. Il termine applicabile è decennale, decorrente dalla data di maturazione delle singole rate, relativamente agli accessori maturati su ratei arretrati, quinquennale decorrente dalle singole scadenze, relativamente ai ratei liquidati regolarmente a scadenza (Cass. lav. 9803/98). C. Quanto al quesito illustrato al n. 3, la risposta è, anche in questo caso, articolata. Laddove i giudizi attengano a prestazioni maturande o comunque maturate dopo la data di entrata in vigore della l. 244/07 (tertium comparationis del giudizio di incostituzionalità), la resistenza in giudizio è, in effetti, senz’altro sconsigliabile, in quanto foriera di sicura soccombenza e di conseguente aggravio di spese per l’Amministrazione. Ove, invece, si tratti di giudizi nei quali si faccia questione di arretrati, riferiti ad un periodo di tempo anteriore all’entrata in vigore della legge 244/07, si potrà sostenere la tesi difensiva illustrata al punto B) che precede, salvo che si consolidi un orientamento giurisprudenziale di legittimità di segno contrario, del che sarà data informazione all’Amministrazione in indirizzo. Sempre da coltivare, infine, sono i giudizi nei quali si faccia questione del quantum debeatur o in cui possa fondatamente sollevarsi l’eccezione di prescrizione. Sulla questione è stato sentito il Comitato Consultivo che, nella seduta del 24 febbraio 2012, si è pronunciato in conformità. L’AVVOCATO GENERALE AGGIUNTO ALDO LINGUITI CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE Potere giudiziario e diritto europeo Ignazio Francesco Caramazza* e Wally Ferrante** SOMMARIO: 1. Premessa - 2. Rapporti fra i poteri tradizionali nello Stato nazionale - 3. Considerazioni generali sui rapporti fra giudici sovranazionali e fra giudici nazionali e sovranazionali - 4. Rapporti fra giudici nell’ordinamento europeo - 4.1. Rapporti tra la Corte di Giustizia dell’Unione Europea e le Corti Costituzionali degli Stati membri - 4.2. Rapporti tra la Corte di Giustizia dell’Unione Europea e i Giudici nazionali - 4.3. Rapporti tra la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e i Giudici nazionali - 4.4. Considerazioni conclusive. 1. Premessa L’argomento al quale questo convegno è dedicato ed ancor più precisamente il titolo di questa tavola rotonda evocano il tema dell’accresciuto ruolo del giudice nella società contemporanea e, più in generale, il fenomeno della prepotente crescita del potere giudiziario nell’età della globalizzazione. Si tratta di un fenomeno evidente sia a livello degli ordinamenti nazionali (in cui dopo un lungo periodo di sottordinazione, prima, e di equiordinazione poi, il potere giudiziario ha preso il sopravvento sugli altri due poteri tradizionali, il legislativo e l’esecutivo) sia a livello di ordinamenti internazionale e sovranazionali. Nella realtà contemporanea, oltre all’ordine giuridico internazionale, vi sono, infatti, molteplici ordini sovranazionali che contemplano corti giudiziarie o organismi quasi-giudiziari o semi-contenziosi (1). (*) Avvocato Generale dello Stato. (**) Avvocato dello Stato. Il presente scritto è tratto da un intervento al Convegno “L’Europa del diritto: i giudici e gli ordinamenti ” tenutosi presso il T.A.R. di Lecce in data 27-28 aprile 2012. (1) S. CASSESE, ne “I Tribunali di Babele”, Donzelli, Roma, 2009, 4, ne conta ben duemila! 64 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 In tali pluralità di ordinamenti giuridici - internazionale, sovranazionali, nazionali - non esiste una norma superiore che ne disciplini i rapporti; rapporti la cui regolazione è quindi rimessa al “dialogo fra le corti” (2) internazionali, sovranazionali e nazionali. Icasticamente è stato detto che il diritto sta prendendo il posto della politica nell’azione globale per la regolazione dei rapporti fra ordinamenti statali e superstatali. Se una volta tale regolazione era rimessa alle spade degli eserciti ed in tempi più recenti alle feluche degli ambasciatori, oggi essa appare rimessa in gran parte alle toghe dei giudici nazionali (costituzionali ed ordinari) sovranazionali ed internazionali. L’area geopolitica in cui tale realtà appare più evidente è indubbiamente l’Europa, continente in cui gli ordinamenti nazionali devono quotidianamente confrontarsi con gli ordinamenti dell’Unione Europea e della CEDU. Mi riprometto quindi di tratteggiare il fenomeno della conquistata primazia del potere giudiziario sia a livello di Stato nazionale sia a livello di integrazione di ordinamenti nazionali e sovranazionali in un mondo globalizzato. 2. Rapporti fra i poteri tradizionali nello Stato nazionale L’equilibrio fra i poteri tradizionali dello Stato non è fisso, ma mobile in relazione al variare del loro “corso” relativo, e questa mobilità è in sintonia con le grandi crisi di trasformazione della società e dello Stato intercorse da quando i tre poteri emersero dall’indistinto potere unico detenuto dal sovrano assoluto. La prima grande crisi di trasformazione corrisponde alla rivoluzione francese e portò dall’Ancien régime allo Stato liberal-borghese. Non c’è dubbio che allora nacque egemone il potere legislativo. Fu quella l’età delle grandi codificazioni: il realizzarsi del sogno illuminista di una ragione scritta attraverso la creazione di una rete di regole generali e astratte che imbrigliava tutta la variegata dimensione dell’operare umano. Napoleone scrisse: “Waterloo sarà dimenticata ma il mio codice civile vivrà per sempre”. Dire “per sempre” era ovviamente esagerato, ma il codice napoleonico è tuttora in vigore in Francia e decine e decine di ordinamenti giuridici nel mondo sono ispirati al codice civile francese. Il potere esecutivo, fortissimo nella sostanza, aveva però un campo di azione estremamente limitato, soprattutto nella sua epifania di pubblica amministrazione. Lo Stato era uno Stato-gendarme che si limitava a curare la difesa delle frontiere all’esterno e dell’ordine pubblico all’interno. Il potere giudiziario aveva una posizione ancor più di second’ordine perchè lo Stato liberal-borghese previde un’amministrazione senza giudice e, come è noto, bisogna aspettare la fine del secolo scorso (il 1872 in Francia, il 1889 in Italia) per arrivare ai primi timidi sindacati del giudice (un giudice speciale, (2) S. CASSESE, Le funzioni costituzionali dei giudici non statali in Riv. Trim. Dir. Pubbl. 2007, 3, pp. 609-626. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 65 per di più) sull’operato dell’amministrazione. Il giudice era allora veramente “figlio di un dio minore”, guardato con sospetto e diffidenza soprattutto quando veniva chiamato a sindacare l’esecutivo, poiché era considerata verità di fede l’equazione “giudicare l’amministrazione equivale ad amministrare”. Tutto cambia con la seconda grande crisi di trasformazione, quella che si verifica grosso modo tra le due guerre mondiali del secolo scorso quando si passa dallo Stato liberal-borghese allo Stato sociale o pluriclasse. Il potere esecutivo abbandona le dimesse vesti di guardiano notturno, comincia a occuparsi di istruzione, di sanità, di edilizia, di lavori pubblici, di credito, di risparmio, di assicurazioni, di imprese. Il potere esecutivo dilaga e non a caso tra le due guerre nascono le più feroci ed efficienti dittature che la storia ricordi. Il potere legislativo arretra, il giudiziario cresce modestamente cominciando a sindacare l’esecutivo. Le cose cambiano ancora con la terza grande crisi di trasformazione che cominciò intorno agli anni ’60 del Novecento, e che ancora non è bene compresa, tanto è vero che viene definita in maniera puramente cronologica. Si parla infatti di Stato post-moderno succeduto allo Stato sociale, o di società post-industriale. Definizioni puramente diacroniche che, ovviamente, sintomatizzano la incomprensione di quello che è il nocciolo del problema. In questa fase abbiamo l’avanzata del potere giudiziario, che, a sua volta, prende il sopravvento sugli altri due poteri. Questo è accaduto a scala planetaria, non solo a livello italiano, con l’avvento di quello che è stato autorevolmente definito “Stato di giurisdizione” (3). L’aumento del rischio di conflitti e di frizioni tra potere pubblico e cittadino ed una acuita coscienza delle esigenze partecipative ha indotto, infatti, ad un aumento della “domanda di giustizia” e questo ha portato alla ricerca di nuovi strumenti atti a garantire la legalità di una azione amministrativa sempre più articolata, sempre più complessa e sempre più presente nella vita di ogni giorno. Un bravo cittadino inglese, è stato scritto, avrebbe potuto vivere, fino alla prima guerra mondiale, senza accorgersi dell’esistenza di uno Stato se non per i poliziotti e gli uffici postali (4). Inutile illustrare, perchè sotto gli occhi di tutti, “quantum mutata ab illa” fosse la situazione successiva in Inghilterra come in Italia. Avvento dello Stato “di giustizia” dunque e non certo nel senso della instaurazione di quel “governo dei giudici” così temuto dai primi legisti rivoluzionari francesi, quanto nel senso di espansione di ogni possibile strumento atto a garantire legalità sostanziale. (3) M. NIGRO, Il giudice amministrativo oggi, in La riforma del processo amministrativo, Milano, 1980, 4-5. (4) A.I.P. TAYLOR, English history, 1914-1945 cit. in H.W.R. WADE, Admistrative Law, 5^ ed. Clarendon Press, Oxford 1982, 3. 66 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 Un sintomo significativo di tale linea di tendenza è stato l’irraggiamento, nel mondo, dell’istituto dell’Ombudsman, da considerare come istituto paragiurisdizionale. È un irraggiamento singolare, paragonabile soltanto a quello del Consiglio di Stato francese nel secolo scorso e che però ha la caratteristica di innestarsi in sistemi giuridici diversissimi fra di loro, alcuni dei quali scarsamente compatibili con l’istituto stesso. L’Ombudsman, quanto meno nella sua originale configurazione svedese, si colloca, infatti, orizzontalmente attraverso i tre poteri tradizionali, derivando la propria legittimazione dal legislativo ed operando attraverso l’adozione di provvedimenti che hanno natura di atti amministrativi ma i cui effetti equivalgono a quelli delle sentenze (5). Ciononostante l’Ombudsman è stato introdotto in più di novanta ordinamenti giuridici statuali con caratteristiche tra le più diverse tra loro. La seconda linea di tendenza indotta nella società postindustriale dalla accresciuta domanda di giustizia è l’aumento dei poteri del giudice, pur nella diversità dei sistemi giuridici. Nei sistemi di common low e, in particolare, in Inghilterra, la dottrina dell’ultra vires ha affinato un penetrante sistema di giustizia amministrativa che controlla sempre più da vicino il corretto esercizio del potere da parte dell’esecutivo (6). Nei paesi di tradizione romanistica, come Francia, Germania, Italia, i giudici sono stati muniti di strumenti sempre più incisivi per il controllo di quell’esecutivo che nel primo 800 si voleva sottratto ad ogni sindacato del giudiziario. Infine in molti settori dell’attività pubblica si era andata diffondendo una procedimentalizzazione retta dalla regola “quasi giudiziale” del giusto procedimento, il che sottolinea ancora una volta l’accresciuta importanza della funzione di giustizia nella nuova società. Su questa linea di tendenza a livello planetario, sin qui tratteggiata, quasi marea montante di lungo respiro, si è poi innestata in Italia, all’inizio dell’ultimo decennio del secolo scorso, un ulteriore e sinergico rafforzamento del potere giudiziario: un rafforzamento che ha portato al collasso di una classe politica e di un sistema per effetto di quella che è stata qualificata, con una definizione ad effetto, come la “rivoluzione dei giudici”. Una “rivoluzione” di cui gli eventi di queste ultime settimane sembrano prospettare una riedizione. Veniamo all’ultima crisi di trasformazione, quella del passaggio dallo Stato di giurisdizione allo Stato in cui stiamo vivendo adesso e che è stato chiamato in molti modi. Forse la denominazione più suggestiva è però quella di “Stato minimo”. Il pendolo della storia ha cambiato direzione a seguito di molti avvenimenti, primo fra tutti la caduta del “muro di Berlino”, simbolo della crisi di un’ideologia collettivistica che aveva realizzato il massimo dell’intervento (5) Cfr. Atti dell’incontro di studio in memoria del prof. Arturo Carlo Jemolo su “L’istituzione del difensore civico nell’ordinamento italiano” in Rass. Avv. Stato, 1982, II, 49 ss. (6) H.W.R. WADE, Administrative Law, Clarendon Press, Oxford, ed. 1988, spec. 249-404. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 67 della mano pubblica. L’implosione dell’impero che ne rappresentava l’inveramento in terra ed il consolidarsi a livello continentale dei valori guida dell’Unione europea - la concorrenza ed il mercato - hanno innescato quella che è stata definita la corsa verso il privato e quindi verso lo Stato minimo, in uno scenario in cui i valori del mercato si sostituiscono a quelli della politica. Il quadro non è privo, naturalmente, di singolari contraddizioni, perchè, come insegnava un liberista della statura di Enaudi, la prima necessità di un mercato sono i carabinieri che ne fanno osservare le regole ed i nuovi carabinieri di questo nuovo Stato gendarme sono le Autorità Indipendenti che debbono far osservare le regole del mercato. Sennonché le Autorità indipendenti sono, dal punto di vista formale, autorità amministrative, che operano attraverso atti amministrativi. La loro attività ricade, quindi, in via generale sotto il sindacato del giudice amministrativo, così come sotto il sindacato del giudice amministrativo viene a ricadere l’attività svolta con procedure ad evidenza pubblica di soggetti che, in realtà, non sono pubblici ma privati. La privatizzazione dello Stato si è risolta quindi, contraddittoriamente in Italia in un ampliamento della competenza del potere giudiziario, sub specie del giudice amministrativo, cui è stata, in definitiva affidata competenza a decidere nel cruciale settore del diritto pubblico dell’economia. A ciò si è aggiunta in Italia la rivoluzione avvenuta a fine millennio nella giustizia amministrativa, rivoluzione che ha realizzato nell’arco di tre anni, dal 1997 al 2000, attraverso un’accelerazione improvvisa, i risultati finali di linee di tendenza che si erano venute faticosamente dipanando nel corso dei precedenti cinquant’anni, in particolare con l’affidamento al giudice amministrativo di quel formidabile strumento di controllo sociale che è la tutela risarcitoria e ciò non solo con riguardo ai danni da lesione di diritti soggettivi, in sede di giurisdizione esclusiva, ma anche a quelli derivanti da lesione di interessi legittimi, così esorcizzando un duplice dogma più che centenario e segnando un ulteriore importante tappa nella avanzata del potere giudiziario. 3. Considerazioni generali sui rapporti fra giudici sovranazionali e fra giudici nazionali e sovranazionali Si è già accennato al metodo del “dialogo fra le corti”, metodo improntato al profondo rispetto reciproco con cui le istanze giudiziarie - diverse e di diverso livello ed in via puramente pretoria - in carenza di regole superiori arrivano a superare situazioni di conflitto, in genere attraverso il metodo del self-restraint. Così, ad esempio, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel regolare i rapporti fra ordinamento del Consiglio d’Europa e ordinamenti degli Stati aderenti alla Convenzione CEDU ha affermato il principio del “margine di apprezzamento” che deve essere lasciato, nella regolazione di fattispecie concrete, agli ordinamenti nazionali in relazione alle peculiarità dello Stato in questione, fermo restando il potere della Corte di sindacare la proporzionalità 68 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 della misura adottata rispetto al fine perseguito (caso Handyside). Ancora, sempre la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha affermato una presunzione di rispetto della CEDU in caso di conformità della specie al diritto comunitario, affermato dalla Corte di Lussemburgo, sulla base del principio di “equivalenza delle garanzie” (caso Bosphorus). Altro caso di reciproca deferenza e self restraint è quello dei giudici costituzionali italiano, spagnolo e polacco sul tema dei rapporti fra ordinamento comunitario ed ordinamento interno. I giudici nazionali hanno affermato la primazia della norma europea con conseguente disapplicazione della norma nazionale eventualmente contrastante purché la norma europea non confligga con i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale o i diritti fondamentali della persona umana (il che però - ha aggiunto la nostra Corte - è in concreto da eslcudere attesa la natura dell’ordinamento europeo: cfr. sent. 232/89, ord. 454/06 e sent. 183/73). Si veda ancora il caso Kadi, nel quale la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha in qualche modo riconosciuto la primazia dell’ordine giuridico globale rappresentato dall’ONU (7). Un recentissimo caso che merita di essere citato è, poi, quello di un Tribunale italiano che ha ritenuto prevalente sul giudicato interno costituito da una sentenza delle SS.UU. della Cassazione resa su regolamento preventivo di giurisdizione una sentenza della Corte internazionale dell’Aja successivamente intervenuta (Trib. Firenze, sent. 14 marzo 2012 resa in causa Pirollo c. Repubblica Federale Tedesca e Repubblica Italiana). In definitiva, e per concludere sul punto, sembra che possa adombrarsi al di là di ogni frontiera nazionale il ritorno ad un concetto di universalità del diritto, o almeno dei suoi principi fondamentali, sì che ciascuna Corte riconosce l’altra nel rispetto di regole comuni a tutto il mondo civile. 4. Rapporti fra giudici nell’ordinamento europeo Il dialogo tra giudici europei e giudici nazionali in quello che oggi viene chiamato “ordinamento integrato” si fonda, poi, specificamente sull’esistenza di valori comuni che, senza annullare la diversità e il pluralismo delle culture e delle tradizioni dei vari Stati nazionali, danno vita ad un insieme di principi e di regole giuridiche che i giudici sovranazionali - la Corte di giustizia dell’Unione europea e la Corte europea dei diritti dell’uomo - ed i giudici dei singoli Stati concorrono, insieme, a definire ed a tradurre in pratica. Tale protezione multilivello dei diritti individuali costituisce, come è stato autorevolmente affermato (8) una sorta di “triangolo virtuoso”, nel senso che una (7) S. CASSESE, op. cit., 80. (8) G. RAIMONDI, Seminario su “Dallo Statuto albertino alla Costituzione repubblicana”, Corte costituzionale, 25 novembre 2011. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 69 crescente sinergia tra i tre livelli non può che garantire una tutela sempre più pregnante dei diritti fondamentali. 4.1. Rapporti tra la Corte di Giustizia dell’Unione Europea e le Corti Costituzionali degli Stati membri L’analisi dei molteplici aspetti del rapporto di cooperazione tra i giudici nazionali e la Corte di Giustizia dell’Unione europea trova il suo fulcro nella procedura del rinvio pregiudiziale, disciplinata dall’art. 267 TFUE, che garantisce l’uniformità dell’interpretazione e dell’applicazione del diritto comunitario all’interno degli Stati membri. Si tratta di uno strumento che, sollecitando una pronuncia della Corte di Giustizia sull’interpretazione dei Trattati o sulla validità ed interpretazione degli atti compiuti dalle Istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione, con particolare riferimento alla loro compatibilità con il diritto comunitario, consente alla Corte di svolgere un ruolo assimilabile, sotto diversi profili, a quello ricoperto dalle Corti costituzionali degli Stati membri. La ricostruzione, in chiave evolutiva, del dialogo tra i giudici nazionali ed i giudici della Corte di Lussemburgo non può, quindi, prescindere dall’esame del complesso rapporto tra quest’ultima e le Corti costituzionali. In particolare, per quanto riguarda la Corte costituzionale italiana, una vera svolta è stata segnata, nei rapporti con la Corte di Giustizia, dall’ordinanza del 13 febbraio 2008, n. 103, con la quale i giudici costituzionali, definendo per la prima volta la Corte stessa un organo giurisdizionale ai sensi dell’art. 234 CE (già art. 117 del Trattato CEE e oggi art. 267 TFUE) - contrariamente a quanto in precedenza sempre sostenuto implicitamente (sentenza n. 14 del 1964; ordinanza n. 206 del 1976) o esplicitamente (ordinanza n. 536 del 1995) - hanno deciso di disporre il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia. In tale ordinanza, è stato osservato che “la Corte costituzionale, pur nella sua peculiare posizione di supremo organo di garanzia costituzionale nell’ordinamento interno, costituisce una giurisdizione nazionale ai sensi dell’art. 234, terzo paragrafo, del Trattato CE e, in particolare, una giurisdizione di unica istanza (in quanto contro le sue decisioni - per il disposto dell’art. 137, terzo comma, Cost. - non è ammessa alcuna impugnazione): essa, pertanto, nei giudizi di legittimità costituzionale promossi in via principale è legittimata a proporre questione pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia CE”. Su tale rinvio pregiudiziale - vertente sull’interpretazione degli artt. 49 CE e 87 CE, nell’ambito dell’impugnazione da parte dello Stato italiano della legge regionale sarda istitutiva di un’imposta sullo scalo turistico degli aeromobili adibiti al trasporto privato di persone nonché delle unità da diporto gravante unicamente sugli operatori aventi il domicilio fiscale fuori dal territorio regionale - si è pronunciata la Corte di giustizia (sentenza del 17 novembre 2009, causa C-169/08) dando per scontata la legittimazione della Corte costi- 70 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 tuzionale ad utilizzare l’istituto del rinvio pregiudiziale quale strumento fondamentale per l’uniforme applicazione del diritto comunitario. Prima della tendenza innovativa inaugurata con la citata ordinanza n. 103 del 2008, la Corte costituzionale si era trovata più volte ad affrontare questioni “doppiamente pregiudiziali”, nelle quali il giudice a quo doveva applicare una normativa interna che suscitava contemporaneamente dubbi di legittimità costituzionale e dubbi di compatibilità con una norma comunitaria oggetto di incertezze interpretative. In tali casi, la Corte costituzionale ha stabilito una priorità logica e temporale tra pregiudiziale comunitaria e questione di legittimità costituzionale, da sollevare solo una volta sciolti i dubbi interpretativi o di validità della norma comunitaria. Conformemente a tale orientamento, ove la questione di legittimità costituzionale fosse stata sollevata prima di investire la Corte di giustizia, la Corte costituzionale ha invariabilmente rimesso gli atti al giudice a quo affinché procedesse al rinvio pregiudiziale (ord. n. 536 del 1995; ord. n. 319 del 1996; ord. n. 108 e 109 del 1998). Da un dialogo “a distanza” per il tramite del giudice a quo, la Corte costituzionale è quindi approdata ad un dialogo diretto con la Corte di giustizia aprendo nuove prospettive di utilizzo del rinvio pregiudiziale (9 ). La Consulta, quindi, pur muovendo da premesse teoriche divergenti rispetto a quelle fatte proprie dalla Corte di Giustizia per ciò che riguarda i rapporti tra ordinamenti, è progressivamente giunta a conclusioni convergenti con il giudice comunitario, realizzando quell’“armonia tra diversi” che oggi caratterizza i rapporti tra le due Corti (10). Un ulteriore passo nella direzione della valutazione “diretta” dell’impatto della normativa comunitaria su quella interna è stato compiuto recentemente dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 28 del 2010 nella quale, per la prima volta, nell’ambito di un giudizio in via incidentale, la Corte ha affrontato in modo esplicito il problema della compatibilità di una norma interna con il diritto comunitario, giungendo ad una pronuncia caducatoria della disposizione interna ritenuta in palese contrasto con una direttiva non dotata di efficacia self executing. In particolare, la Corte costituzionale, avendo escluso la possibilità di interpretare la norma interna in modo conforme al diritto dell’Unione europea, ha ritenuto che “non è implausibile la motivazione con cui il giudice remittente esclude di poter fare diretta applicazione delle direttive comunitarie, disapplicando di conseguenza la norma censurata in quanto ritenuta in conflitto con le prime”. (9) D. BASILE e G.M. DI NIRO, “Corte costituzionale, rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE e dialogo tra le Corti: evoluzioni e prospettive”, in federalismi.it, 19 ottobre 2011. (10) V. ONIDA, “Armonia tra diversi e problemi aperti. La giurisprudenza costituzionale sui rapporti tra ordinamento interno e ordinamento comunitario”, in Quaderni costituzionali, n. 3/2002. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 71 La Corte ha quindi condiviso l’indirizzo espresso dal giudice a quo, propenso ad escludere che le direttive sui rifiuti avessero carattere “autoapplicativo”, con la conseguenza che le disposizioni nazionali, ancorché ritenute in contrasto con le stesse, dovessero avere efficacia vincolante per il giudice. Tuttavia, la Corte ha ritenuto che l’impossibilità di non applicare la legge interna contrastante con una direttiva comunitaria non munita di efficacia diretta, non sottraesse la stessa al controllo di conformità al diritto comunitario spettante alla Corte costituzionale sotto il profilo della violazione degli artt. 11 e 117, comma 1 Cost. La Corte ha quindi dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma interna in quanto palesemente confliggente con le direttive comunitarie come interpretate dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, che sul punto aveva reiteratamente delineato le caratteristiche che consentivano di inquadrare talune materie nella nozione di “sottoprodotto” piuttosto che in quella di “rifiuto”, ritenendo superfluo il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia in assenza di un dubbio interpretativo sulla portata della normativa comunitaria, sufficientemente chiara per effetto della stessa elaborazione giurisprudenziale della Corte di Lussemburgo. Il crescente coinvolgimento dei giudici nazionali nell’applicazione del diritto comunitario ha portato autorevole dottrina (11) ad affermare che gli stessi operano quali “organi decentrati” della giurisdizione comunitaria, concorrendo con questa a garantire l’osservanza di detto diritto. A tale proposito può ritenersi che il dialogo con le Corti costituzionali degli Stati membri sia divenuto oggi ancor più proficuo e costruttivo di quello con gli altri giudici perché è proprio tale confronto che consente il superamento del rischio di conflitti su tematiche sulle quali convergono competenze comuni, quali quelle sui diritti fondamentali. È stato inoltre autorevolmente sostenuto che, pur essendo la Corte di Lussemburgo molto rispettosa delle specificità, delle tradizioni e dei valori di ogni singolo Stato membro, la stessa si fa carico, grazie al “gioiello” del sistema comunitario costituito dal rinvio pregiudiziale, di rendere effettiva la cooperazione con il giudice nazionale, assicurando il principio di effettività della tutela giurisdizionale al fine di garantire la convivenza tra gli ordinamenti nazionali e quello europeo (12). 4.2. Rapporti tra la Corte di Giustizia dell’Unione Europea e i Giudici nazionali La Corte di Giustizia dell’Unione europea si è recentemente pronunciata (11) A. TIZZANO, Il ruolo della Corte di giustizia UE in una fase di crisi del modello sopranazionale, in www.affarinternazionali.it, 10 dicembre 2008. (12) G. TESAURO, Incontro di studio su “Giudici nazionali e Giudici dell’Unione europea”, Università degli Studi di Milano, 1° marzo 2010. 72 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 sul tema dell’autonomia processuale degli Stati membri. In particolare, con la sentenza Elchinov (Grande sezione, sentenza del 5 ottobre 2010, causa C-173/09) ha affermato un importante principio in tema di autonomia del giudice nazionale in sede di rinvio rispetto al principio di diritto enunciato dal giudice di ultimo grado, ove reputato in contrasto con il diritto dell’Unione. I fatti di causa riguardavano una richiesta urgente, da parte di un cittadino bulgaro affetto da tumore al bulbo oculare, di autorizzazione ad avvalersi di cure in Germania che gli avrebbero consentito di combattere la malattia salvando l’occhio laddove in Bulgaria l’unica prestazione sanitaria prevista per la sua patologia avrebbe comportato l’asportazione dell’occhio. In ragione del suo stato di salute, il cittadino bulgaro ha usufruito delle cure in Germania prima di ottenere una risposta dal sistema assicurativo obbligatorio del proprio Paese, che ha successivamente negato l’autorizzazione, atteso che il trattamento sanitario non rientrava tra le prestazioni erogabili alla stregua della normativa bulgara. In proposito, la Corte di giustizia ha precisato che, ove sia stata accertata l’illegittimità del diniego di autorizzazione ad espletare le prestazioni mediche in altro Stato membro e le cure, per la loro urgenza, siano state nel frattempo prestate, l’iscritto al regime previdenziale dello Stato di residenza ha diritto ad ottenere da quest’ultimo il rimborso delle spese mediche secondo un importo equivalente a quello che gli sarebbe stato rimborsato qualora l’autorizzazione fosse stata rilasciata prima dell’inizio delle cure. Ciò posto, la sentenza ha affermato l’importante principio processuale, sopra richiamato, secondo il quale il diritto dell’Unione osta a che un organo giurisdizionale nazionale non di ultima istanza, al quale spetti di decidere a seguito di un rinvio ad esso fatto da un organo giurisdizionale di grado superiore, sia vincolato, in base ad una norma processuale nazionale, al principio di diritto da quest’ultimo enunciato qualora il giudice del rinvio ritenga, alla luce dell’interpretazione da esso richiesta alla Corte di Giustizia, che detto principio non sia conforme al diritto dell’Unione (punti 27, 30, 32). La Corte ha inoltre chiarito incidentalmente, sebbene la questione non si ponesse nel caso di specie, che il giudice del rinvio, in tali circostanze, non è obbligato a chiedere alla Corte di Giustizia un’interpretazione pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE ma può disapplicare di propria iniziativa qualsiasi disposizione nazionale ove l’interpretazione fornitane dall’organo giurisdizionale superiore risulti in contrasto con il diritto dell’Unione (punti 28 e 31). Nella causa principale, infatti, il cittadino bulgaro aveva proposto ricorso avverso il diniego di autorizzazione al Tribunale amministrativo di Sofia che, all’esito di una perizia, aveva annullato il provvedimento impugnato atteso che il trattamento sanitario in questione, pur costituendo una terapia d’avanguardia non ancora praticata in Bulgaria, corrispondeva alle prestazioni elen- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 73 cate nei protocolli di cura clinici. A seguito dell’impugnazione dell’ente assicurativo bulgaro, tuttavia, il Tribunale Supremo amministrativo, giudice di ultima istanza, aveva annullato la sentenza impugnata e rinviato la causa dinanzi ad altra sezione del Tribunale amministrativo di Sofia, affermando che il giudice di primo grado aveva errato nel ritenere che le cure ricevute dal cittadino bulgaro fossero comprese tra le prestazioni elencate nei protocolli di cura clinici e che, comunque, ove dette cure fossero rimborsabili dal regime previdenziale bulgaro, si dovrebbe presumere che le stesse avrebbero potuto essere prestate presso un istituto di cura bulgaro, a meno che si fosse accertato che le stesse non avrebbero potuto essere prestate i tempi tali da non mettere in pericolo la salute dell’interessato, accertamento non effettuato dal giudice di primo grado. Il giudice del rinvio, ritenendo che le valutazioni in diritto del giudice di ultima istanza non fossero conformi al diritto dell’Unione, ha chiesto alla Corte di giustizia se, nonostante il principio dell’autonomia processuale degli Stati membri, egli fosse vincolato al principio di diritto enunciato dal giudice superiore anche laddove lo ritenesse non conforme al diritto dell’Unione. In proposito, la Corte ha affermato che una norma di diritto nazionale, ai sensi della quale gli organi giurisdizionali non di ultima istanza sono vincolati da valutazioni formulate dall’organo giurisdizionale superiore, non può privare detti organi giurisdizionali della facoltà di investirla di questioni relative all’interpretazione del diritto dell’Unione, rilevante nel contesto di dette valutazioni in diritto. La Corte ha quindi ritenuto che il giudice che non decide in ultima istanza dev’essere libero, se esso ritiene che la valutazione in diritto formulata dall’istanza superiore possa condurlo ad emettere un giudizio contrario al diritto dell’Unione, di sottoporre alla Corte le questioni con cui deve confrontarsi. Inoltre la Corte di giustizia ha sottolineato che la facoltà attribuita al giudice nazionale dall’art. 267, secondo comma, TFUE, di chiedere un’interpretazione pregiudiziale della Corte medesima prima di disapplicare, eventualmente, istruzioni di un organo giurisdizionale superiore che risultassero in contrasto con il diritto dell’Unione non può trasformarsi in un obbligo. Il giudice nazionale, infatti, essendo incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le norme di diritto dell’Unione, è tenuto a garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, come, nel caso di specie, la norma nazionale di procedura che lo vincola al principio di diritto enunciato dall’organo giurisdizionale superiore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale. Peraltro, risulta da una giurisprudenza costante che la sentenza con la quale la Corte si pronunzia in via pregiudiziale vincola il giudice nazionale, per quanto concerne l’interpretazione o la validità degli atti delle istituzioni 74 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 dell’Unione, per la definizione della lite principale. Da queste riflessioni discende, secondo la Corte, che il giudice nazionale, che abbia esercitato la facoltà ad esso attribuita dall’art. 267, secondo comma, TFUE, è vincolato, ai fini della soluzione della controversia principale, dall’interpretazione delle disposizioni in questione fornita dalla Corte e deve eventualmente discostarsi dalle valutazioni dell’organo giurisdizionale di grado superiore qualora esso ritenga, in considerazione di detta interpretazione, che queste ultime non siano conformi al diritto dell’Unione. 4.3. Rapporti tra la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e i Giudici nazionali Quanto ai rapporti tra Corte europea dei diritti dell’uomo e giudici nazionali, deve osservarsi come il sistema europeo di protezione dei diritti umani sia basato sul principio di sussidiarietà, per cui non è possibile adire la Corte di Strasburgo senza aver prima esaurito le vie di ricorso interne. Ne discende la necessità che il diritto convenzionale venga applicato in maniera uniforme ed efficace all’interno degli Stati firmatari della Convenzione medesima. Al riguardo, la Corte costituzionale, sin dalle sentenze n. 348 e 349 del 2007 in materia di indennità di espropriazione, ha affermato il principio, ribadito da ultimo anche con la sentenza n. 80 del 2011, secondo il quale la Convenzione europea, in forza del nuovo testo dell’art. 117, comma 1 della Costituzione (come modificato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001), viene a collocarsi in una posizione intermedia tra la Costituzione e la legislazione ordinaria. Infatti, da un lato la norma pattizia deve cedere di fronte alle norme costituzionali con le quali si trovi in contrasto e dall’altro, se non confliggente con la Costituzione, deve fungere da “norma interposta” per valutare se la norma interna, contrastando con essa, violi l’art. 117 della Costituzione. Nelle richiamate pronunce, la Corte costituzionale ha chiarito che, mentre le norme comunitarie debbono avere piena efficacia obbligatoria e diretta applicazione in tutti gli Stati membri, senza la necessità di leggi di ricezione e adattamento, come atti aventi forza e valore di legge in ogni Paese della Comunità in virtù dell'art. 11 Cost. - che consente le limitazioni della sovranità nazionale necessarie per promuovere e favorire le organizzazioni internazionali rivolte ad assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni - altrettanto non può dirsi per le norme CEDU, non essendo individuabile, con riferimento a dette norme pattizie, alcuna limitazione della sovranità nazionale. La distinzione tra le norme CEDU e le norme comunitarie, secondo la giurisprudenza costituzionale, risiede nel fatto che le prime, pur rivestendo grande rilevanza, in quanto tutelano e valorizzano i diritti e le libertà fondamentali delle persone, sono pur sempre norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell'ordinamento interno, tali da consentire ai giudici nazionali di darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, disapplicando le norme interne in eventuale contrasto. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 75 Con l'adesione ai Trattati comunitari, gli Stati membri sono entrati a far parte di un ordinamento di natura sopranazionale, cedendo parte della loro sovranità, anche in riferimento al potere legislativo, nelle materie oggetto dei Trattati medesimi, con il solo limite dell'intangibilità dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione. La Convenzione europea dei diritti dell’uomo, invece, non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme vincolanti direttamente applicabili negli Stati contraenti, con la conseguenza che, se da un lato il nuovo testo dell’art. 117, comma 1 della Costituzione rende innegabile la maggior forza di resistenza delle norme CEDU rispetto a leggi ordinarie successive, dall’altro gli eventuali contrasti non generano problemi di successione di leggi nel tempo ma questioni di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117 primo comma Cost. Le norme CEDU, secondo la Corte costituzionale, assumono quindi la natura di fonti di rango sub-costituzionale, “destinate a dare contenuti ad un parametro che si limita ad enunciare in via generale una qualità che le leggi in esso richiamate devono possedere”. Infatti, tra gli obblighi internazionali assunti dall'Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU, vi è quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione. Non si può parlare quindi di una competenza giurisdizionale che si sovrappone a quella degli organi giudiziari dello Stato italiano, ma di una “funzione interpretativa eminente” che gli Stati contraenti hanno riconosciuto alla Corte europea. Pertanto, in ogni contrasto tra norme interposte e norme legislative interne, occorre verificare congiuntamente la conformità a Costituzione di entrambe e segnatamente la compatibilità della norma interposta con la Costituzione e la legittimità della norma censurata rispetto alla stessa norma interposta. Secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, inoltre, poiché le norme della CEDU vivono nell'interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea, la verifica di compatibilità costituzionale deve riguardare la norma come prodotto di tale interpretazione, escludendo peraltro che le pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali. Tale controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall'art. 117, primo comma, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione. Né il quadro sembra essere mutato con l’avvento del Trattato di Lisbona (sottoscritto il 13 dicembre 2007, in vigore dal 1° dicembre 2009), il cui art. 6 prevede, al comma 2, che “l’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” e, al comma 3, che “i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU e risultanti dalle tradizioni 76 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali ”. Appare evidente la differenza di trattamento che il nuovo art. 6, comma 1 riserva, tra le fonti del diritto comunitario, alla Carta di Nizza, stabilendo che “l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adottata il 2 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati ”. Soltanto quest’ultima, come è stato acutamente osservato (13), appare realmente “comunitarizzata” mentre l’“adesione” dell’Unione alla CEDU ha subito posto problemi interpretativi, non essendo chiaro se l’espressione rappresenti un’esortazione, un’autorizzazione, una dichiarazione programmatica o un auspicio, non potendosi verosimilmente riconoscere all’inciso un effetto costitutivo in re ipsa, considerata la complessa procedura prevista dall’art. 218 TFUE per la negoziazione e la conclusione di accordi tra l’Unione e i paesi terzi o le organizzazioni internazionali (che l’adesione dell’Unione europea alla CEDU non sia ancora avvenuta è peraltro espressamente affermato dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 80 del 2011). Non si vede, infatti, per quale ragione si sarebbe dovuto procedere a due previsioni terminologicamente ben distinte se si fosse inteso procedere al recepimento della Carta di Nizza e quello della CEDU negli stessi termini (14). Lo stesso giudice amministrativo ha attribuito significati e conseguenze contrastanti al nuovo art. 6 del T.U.E., affermando, in un caso, la diretta applicabilità delle norme della CEDU (Consiglio di Stato, n. 1220 del 2010; TAR Lazio, n. 11984 del 2010) e, in un altro, l’obbligo del giudice nazionale di procedere ad una interpretazione “convenzionalmente” orientata della norma interna o, comunque, ad una interpretazione “bilanciata” tra conformità a Costituzione e conformità a Convenzione e, solo ove ciò non si riveli possibile, di investire la Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale con riferimento all’art. 117, comma 1 Cost., rivestendo le norme della CEDU natura di parametro interposto nel giudizio di legittimità costituzionale (Consiglio di Stato, n. 3760/2010). In particolare, la citata sentenza del TAR Lazio ha affermato che il riconoscimento dei diritti fondamentali sanciti dalla CEDU come principi interni al diritto dell'Unione “ha immediate conseguenze di assoluto rilievo, in quanto le norme della Convenzione divengono immediatamente operanti negli ordinamenti nazionali degli Stati membri dell’Unione, e quindi nel nostro ordina- (13) P. GAY, “La diretta applicabilità della CEDU nell’ordinamento italiano: un percorso ancora work in progress”, in margine alla sentenza n. 3760/2010 del Consiglio di Stato, in Giust.Amm., 23 settembre 2010. (14) A. CELOTTO, “Il Trattato di Lisbona ha reso la CEDU direttamente applicabile nell’ordinamento italiano? ”, in margine alla sentenza n. 1220/2010 del Consiglio di Stato, in Giust.Amm., 21 maggio 2010. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 77 mento nazionale, in forza del diritto comunitario, e quindi in Italia ai sensi dell’art. 11 della Costituzione, venendo in tal modo in rilievo l’ampia e decennale evoluzione giurisprudenziale che ha, infine, portato all’obbligo, per il giudice nazionale, di interpretare le norme nazionali in conformità al diritto comunitario, ovvero di procedere in via immediata e diretta alla loro disapplicazione in favore del diritto comunitario, previa eventuale pronuncia del giudice comunitario ma senza dover transitare per il filtro dell’accertamento della loro incostituzionalità sul piano interno”. Detto indirizzo giurisprudenziale ha suscitato numerose perplessità poiché non considera l'impatto che l'equiparazione della CEDU al diritto comunitario, dotato di efficacia diretta, potrebbe avere sul piano dei rapporti tra Corti e giudici nazionali nonché dei delicati problemi di coordinamento tra le norme dei tre ordinamenti coinvolti (15). Attualmente, si può comunque registrare, nella giurisprudenza delle Corti supreme dei vari ordinamenti, un orientamento concorde circa l'opportunità di privilegiare un approccio interpretativo improntato al dialogo tra Corti. Innanzitutto, non si è mai affacciata nella giurisprudenza di nessuna di esse l'ipotesi che il “riconoscimento” delle disposizioni convenzionali quali principi generali del diritto comunitario potesse comportare una equiparazione, quanto agli effetti, delle prime al diritto comunitario autoapplicativo, la piena comunitarizzazione delle disposizioni CEDU o la loro diretta applicabilità all'interno degli Stati membri. In proposito, la Corte costituzionale, con sentenza n. 227 del 2010, ha ribadito il permanere di una netta differenza tra il recepimento delle disposizioni comunitarie e di quelle convenzionali, anche a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona: “restano, infatti, ben fermi, anche successivamente alla riforma, oltre al vincolo in capo al legislatore e alla relativa responsabilità internazionale dello Stato, tutte le conseguenze che derivano dalle limitazioni di sovranità che solo l’art. 11 Cost. consente, sul piano sostanziale e sul piano processuale, per l’amministrazione e i giudici. In particolare, quanto ad eventuali contrasti con la Costituzione, resta ferma la garanzia che, diversamente dalle norme internazionali convenzionali (compresa la CEDU: sentenze n. 348 e n. 349 del 2007), l’esercizio dei poteri normativi delegati all’Unione europea trova un limite esclusivamente nei principi fondamentali dell’assetto costituzionale e nella maggior tutela dei diritti inalienabili della persona (sentenze n. 102 del 2008; n. 284 del 2007; n. 169 del 2006)”. Inoltre, la Corte costituzionale, nella citata sentenza n. 80 del 2011, ha escluso che la modifica dell’art. 6 del T.U.E. abbia determinato una “trattatizzazione” indiretta della CEDU, alla luce della “clausola di equivalenza” che (15) T. GUARNIER, “Verso il superamento delle differenze? Spunti di riflessione sul dibattito intorno alla prospettiva di comunitarizzazione della CEDU ”, in Giust. Amm., 19 luglio 2010. 78 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 figura nell’art. 52, paragrafo 3, della Carta di Nizza. In base a tale disposizione, ove quest’ultima “contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione”. Infatti, secondo la Corte costituzionale, in sede di modifica del Trattato, si è inteso evitare nel modo più netto che l’attribuzione alla Carta di Nizza dello “stesso valore giuridico dei trattati” abbia effetti sul riparto delle competenze fra Stati membri e istituzioni dell’Unione. 4.4. Considerazioni conclusive In considerazione di tutto quanto sin qui detto, sembra potersi osservare che il dialogo fra gli ordinamenti e la collaborazione fra le Corti segnano un movimento di ritorno nel moto pendolare della storia, determinando il formarsi di un “diritto globale” costituito da principi generali comuni, tendenzialmente applicati, sia pure con margini di apprezzamento, da tutte le Corti che fanno parte di una stessa civiltà giuridica, quali i principi di buona fede, di parità di trattamento, di legalità, di rispetto della dignità umana, di rispetto dei patti conclusi (16). Sembra quindi delinearsi una rinascita del concetto di diritto come “scienza universale” comune a tutto il mondo civile, così come accadeva prima che nel secolo decimonono le codificazioni frantumassero in Europa lo “ius commune” basato sul diritto romano e sul diritto canonico in tante entità nazionali (17). Come insegnava l’antico dottore “Multa renascentur quae iam cecidere”. (16) G. BARBAGALLO, “Le Corti di ultima istanza e la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo”, presentazione della Relazione al Parlamento sullo stato di esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo per l’anno 2010, Roma, 11 luglio 2011. (17) R. DADIV, I grandi sistemi giuridici contemporanei, Padova, Cedam 1980, 2. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 79 Prolegomeni, ovvero la formazione del giurista europeo ed i commentari ai Trattati sull’Unione europea Carlo Curti Gialdino* SOMMARIO: 1. La complessità del quadro giuridico dell’Unione europea ed i commentari ai Trattati istitutivi. Stato dell’arte nelle principali letterature europee. La necessità di un commentario in lingua italiana ai Trattati vigenti. - 2. Caratteristiche del genere commentario articolo per articolo ai Trattati sull’Unione europea. - 3. Un commentario destinato precipuamente agli operatori giuridici. - 4. Il diritto dell’Unione europea e l’accesso alle professioni giuridiche in Italia. - 5. La formazione del giurista «europeo» nell’ottica dell’incidenza del diritto dell’Unione europea sull’ordinamento italiano. - 6. Segue: sue conseguenze quanto alla scelta degli Autori dei commenti. - 7. Ringraziamenti e dedica. 1. La complessità del quadro giuridico dell’Unione europea ed i commentari ai Trattati istitutivi. Stato dell’arte nelle principali letterature europee. La necessità di un commentario in lingua italiana ai Trattati vigenti L’ordinamento giuridico dell’Unione europea costituisce notoriamente un ordinamento complesso, autonomo e specifico, per di più in continua evoluzione, quasi ad immagine di un «cantiere» costituzionale, normativo e giurisprudenziale permanente. Basti pensare che i Trattati istitutivi degli enti d’integrazione europea (Comunità ed Unione europea), a cominciare dal Trattato istitutivo della Comunità economica europea (Roma, 1957) hanno subìto nel tempo numerose revisioni - a cominciare dal cd. Trattato di fusione degli Esecutivi (Bruxelles, 1965) e dai Trattati modificativi di alcune disposizioni in materia di bilancio (Lussemburgo, 1970, Bruxelles, 1975) - per continuare, menzionando solo i Trattati che contengono le modifiche più consistenti, con l’Atto unico europeo (Lussemburgo e L’Aia, 1986), con il Trattato di Maastricht (1992), con il Trattato di Amsterdam (1997), con il Trattato di Nizza (2001) e con il Trattato di Lisbona (2007); senza parlare degli emendamenti, relativi soprattutto alle disposizioni istituzionali dei Trattati, conseguenti all’adesione di nuovi Stati membri, prima alle Comunità europee (1973, 1981, 1986) e, successivamente, all’Unione europea (1995, 2004, 2007). (*) Professore associato di Diritto internazionale presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Roma “La Sapienza”, tra le molteplici altre, svolge un’intensa attività di consulenza o di rappresentanza nel campo del Diritto internazionale e del Diritto dell’Unione europa presso organismi internazionali e nazionali. Il presente scritto è l’introduzione al testo di recente pubblicazione “Codice dell’Unione europea operativo. Tue e Tfue commentati articolo per articolo”, Edizioni giuridiche Simone 2012, del quale il Prof. Curti Gialdino, artefice del progetto, ne ha curato la direzione. 80 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 Non si può, inoltre, dimenticare l’abbandonato Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa (Roma, 2004), considerato che, per più del 90% delle sue disposizioni, ha fornito la base, spesso testuale, delle modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona. Ai vigenti Trattati istitutivi - Trattato sull’Unione europea (TUE) e Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) - sono inoltre allegati 37 Protocolli e 2 Allegati, che dei detti Trattati costituiscono parte integrante e condividono lo stesso valore giuridico. Valore giuridico che il Trattato di Lisbona ha altresì riconosciuto alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, nella versione (adattata), proclamata solennemente a Strasburgo il 12 dicembre 2007. Infine, le 65 Dichiarazioni allegate all’Atto finale della Conferenza intergovernativa che ha adottato il Trattato di Lisbona, anche se non hanno, per il principio inclusio unius est exclusio alterius, il valore giuridico dei Trattati, forniscono, pur sempre, utili elementi ai fini dell’interpretazione degli stessi. A rendere ancora più complesso il quadro giuridico, per una visione completa del diritto dell’Unione europea, contribuiscono, poi, da un lato, la alluvionale produzione normativa delle istituzioni dell’Unione, che conta ben 19.404 (1) atti in vigore al 1° gennaio 2012 e, dall’altro, la ormai quasi sessantennale giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (nelle sue attuali tre articolazioni giudiziarie: Corte di giustizia, Tribunale e Tribunale della funzione pubblica) (2), delle Corti costituzionali e supreme nazionali, nonché di tutte le altre giurisdizioni nazionali (3). Queste ultime, poi, operano - secondo l’espressione attribuita a Jean Boulouis (4) e recepita altresì dalla (1) Questo numero include non solo il diritto dell’Unione europea vigente propriamente detto, ma anche strumenti inerenti all’attività dell’Unione europea (UE, CECA, CEE, CE, Euratom), compresi atti di natura politica o singoli atti d’interesse più generale, indicizzati nel Repertorio della legislazione dell’Unione europea in vigore «http:/eur-lex.europa.eu/it/legis/latest/index.htm», consultato il 19 gennaio 2012. (2) Secondo i dati che risultano dalla Relazione sull’attività della Corte di giustizia per il 2010, Lussemburgo, 2011, il corpus giurisprudenziale è addirittura imponente, dato che, dal 1952 al 2010, comprende, per la Corte in senso stretto, complessivamente, 10.049 tra sentenze e ordinanze, nonché 17 pareri, per il Tribunale, dal 1989 al 2010, e per il Tribunale della funzione pubblica, dal 2005 al 2010, rispettivamente, 4.776 e 613 tra sentenze e ordinanze. (3) Conviene segnalare che, dal mese di settembre 2011, la banca dati EUR-Lex offre, nella griglia di ricerca semplice, l’opzione «giurisprudenza nazionale», che permette di reperire utili informazioni sulle decisioni in materia di diritto dell’Unione europea emesse dalle giurisdizioni degli Stati membri, di Stati terzi (Canada, Liechtenstein, Norvegia, Svizzera), nonché dalla Corte dell’Associazione europea di libero scambio e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, «http://eur-lex.europa.eu/RECH_jurisprudence. do». (4) J. BOULOUIS, Note sous Cass. Ch. Mixte, 24 mai 1975, Société des Cafés Jacques Vabres, in AJDA, 1975, 569-574, spec. 573 ove osserva che «(…) l’ordre juridique communau-taire institue bien directement le juge national juge naturel de ses normes directement applica-bles ou, comme on le dit aussi, juge de droit co mmun de cellesci». La menzionata espressione, beninteso, «non deve essere intesa letteralmente, ma piuttosto in maniera simbolica. Infatti, allorché il giudice nazionale si occupa del diritto comunitario, lo fa come organo di uno Stato membro e non come organo comunitario in seguito a un’operazione di sdoppiamento funzionale» (CG, conclusioni dell’Avvocato generale Léger dell’8 aprile 2003, CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 81 giurisprudenza europea - quali giudici «di diritto comune» (5) o «di diritto ordinario » (6) dell’ordinamento giuridico dell’Unione, essendo obbligate a dare piena ed effettiva applicazione a tale diritto anche quando esso sia in contrasto con il diritto interno nonché a privilegiare, in ogni caso, un’interpretazione del diritto nazionale «per quanto possibile» conforme al diritto europeo (7). La complessità di questa situazione spiega forse perché, a differenza di altri settori del diritto - soprattutto interno, ma anche internazionale (8) - il genere commentario articolo per articolo dei Trattati sull’Unione europea non in causa Gerhard Köbler, C-224/01, par. 66). Sulla funzione del giudice nazionale al riguardo, v. soprattutto A. BARAV, La fonction communautaire du juge national, Thèse, Université Robert Schuman, Strasbourg, 1983, dattil.; IDEM, La plénitude de compétence du juge national en sa qualité de juge commu-nautaire, in L’Europe et le droit. Mélanges en hommage à J. Boulouis, Dalloz, Paris, 1991, 1- 20; O. DUBOS, Les juridictions nationales, juge communautaire. Contribution à l’étude des transfor-mations de la fonction juridictionnelle dans les États membres de l’Union européenne, Dalloz, Paris, 2001. (5) V. la sentenza del Tribunale del 10 luglio 1990, Tetra Pak Rausing SA/ Commissione, T-51/89, punto 42. In realtà, la connotazione dei giudici nazionali come giudici di diritto comune dell’ordinamento giuridico comunitario, oggi dell’Unione europea, pur se non ancora racchiusa in una formula destinata a divenire celebre, appare già in filigrana nella giurisprudenza relativa all’effetto diretto del diritto dell’Unione, v. CG, 5 febbraio 1963, Van Gend & Loos, 26/62 e 4 dicembre 1974, Van Duyn, 41/74. (6) Per una recente riaffermazione in tal senso del ruolo dei giudici nazionali, v. le conclusioni dell’Avvocato generale Mengozzi del 2 settembre 2010, DEB, C-279/09, par. 46, che definisce i giudici nazionali come «giudici dell’Unione di diritto comune» ed il parere della Corte di giustizia dell’8 marzo 2011, Creazione di un sistema unico di risoluzione delle controversie in materia di brevetti, 1/09, punto 80. In questo contesto, E. LUPO, Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2010 del Primo Presidente della Corte di Cassazione, letta in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2011, Roma 28 gennaio 2011, 76, definisce i giudici nazionali come «anello centrale della catena interpretativa nella tutela dei diritti». (7) Il principio dell’obbligo di «interpretazione conforme» è stato stabilito dalla Corte di giustizia con la sentenza 10 aprile 1984, Von Colson und Kamann, 14/83 e quindi ribadito con chiarezza nella sentenza 13 aprile 1990, Marleasing, C-106/89, punto 8 (pur se nella traduzione italiana della decisione non figura - come nella versione nella lingua processuale spagnola o nella lingua di lavoro francese - la formula «hacer todo lo posible», «dans toute la mesure du possible», cioè «per quanto possibile», che caratterizza l’attività interpretativa del giudice nazionale). Tale principio, che è inerente al sistema del Trattato, in quanto permette al giudice nazionale di assicurare, nel contesto delle sue competenze, la piena efficacia delle norme dell’Unione quando risolve la controversia ad esso sottoposta, costituisce ormai acquis giurisprudenziale consolidato (CG, 5 ottobre 2004, Pfeiffer e a., C-397/01 a C-403/01, punto 110; 26 giugno 2007, Ordre des barreaux francophones et germanophone e a., C-305/05, punto 28, in cui la Corte ha statuito che «Qualora una norma di diritto comunitario derivato ammetta più di un’interpretazione, si deve dare la preferenza a quella che rende la norma stessa conforme al Trattato (…) rispetto a quella che porta a constatare la sua incompatibilità con il Trattato stesso (…). Gli Stati membri sono infatti tenuti non solo a interpretare il loro diritto nazionale in modo conforme al diritto comunitario, ma anche a provvedere a non fondarsi su un’interpretazione di un testo di diritto derivato che entri in conflitto con i diritti fondamentali tutelati dall’ordinamento giuridico comunitario o con gli altri principi generali del diritto comunitario»; 10 marzo 2011, Deutsche Lufthansa, C-109/09, punto 52; v., amplius, infra, commento all’art. 19 TUE). Per una recente riaffermazione del principio v. Cass. S.U. sent. n. 355 del 3 gennaio 2010. (8) Si pensi ai più noti commentari alla Carta delle Nazioni Unite: cfr. B. SIMMA (Ed.), The Charter of the United Nations. A Commentary, 2 ed., Oxford University Press, New York, 2002; J.-P. COT, A. PELLET (dirigée par), La Charte des Nations Unies. Commentaire article par article, III ed., 2. voll., Economica, Paris, 2005. 82 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 ha conosciuto nel panorama giuridico italiano quel particolare sviluppo che ha invece avuto nella letteratura germanica, ove, negli ultimi due anni, cioè dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (avvenuta il 1° dicembre 2009), sono stati pubblicati ben sette commentari, di cui sei costituiscono edizioni aggiornate di opere pre-Lisbona (9) ed uno è un nuovo commentario giunto già alla seconda edizione (10). Nel nostro Paese, al contrario, dopo i due celebri commentari in più volumi dedicati, rispettivamente, al Trattato CEE (11) e al Trattato CECA (12) - opere che non soltanto hanno contribuito alla piena affermazione della dottrina «comunitaristica» italiana nel panorama europeo, ma che, tuttora, costituiscono un modello incomparabile per metodo di analisi e rigore ricostruttivo - si contano soltanto tre titoli, di cui il più recente risale al 2004 (13), tutti purtroppo fermi alle modifiche dei Trattati istitutivi introdotte dal Trattato di Nizza. Manca dunque, allo stato attuale, un commentario articolo per articolo, (14) aggiornato ai Trattati vigenti ed il presente volume, pur con tutte le insufficienze e le imperfezioni di un’opera prima, certamente perfettibile, aspira a colmare questa lacuna. (9) R. GEIGER, D.E. KHAN, M. KOTZUR (Hrsg.), EUV, AEUV. Vertrag über die Europäische Union und Vertrag über die Arbeitsweise der Europäischen Union. Kommentar, V ed., Beck, München, 2010; C.O. LENZ K., D. BORCHARDT (Hrsg.), EU-Verträge. Kommentar nach dem Vertrag von Lissabon, 5 ed., Bundesanzeiger, Linde, Köln, Wien, 2010; C. CALLIESS, M. RUFFERT (Hrsg.), EUV/AEUV: das Verfassungsrecht der Europäischen Union mit Europäischer Grun-drechtecharta. Kommentar, IV ed., Beck, München, 2011; E. GRABITZ, M. HILF, M. WOLF, H.G. KRENZLER (Hrsg.), Das Recht der Europäischen Union, 5 voll. a fogli mobili (di cui due dedicati al diritto secondario), Beck, München (ultimo aggiornamento consultato: marzo 2011); C. VEDER, W. HEINTSCHEL VON HEINEGG (Hrsg.), Europäisches Unionsrecht EUV, AEUV, Grundrechte-Charta. Handkommentar, II ed., Nomos, Baden-Baden, 2011; STREINZ, R., OHLER, CHR. (Hrsg.), EUV/AEUV. Vertrag über die Europäischen Union unddie Arbeitsweise der Europäi-schen Union, II ed., Beck, München, 2011. (10) K.H. FISCHER, Der Vertrag von Lissabon. Text und Kommentar zum Europäischen Reformvertrag, II ed., Nomos, Stämpfli, Facultas WUV, Baden-Baden, Bern, Wien, 2010. (11) R. QUADRI, R. MONACO, A. TRABUCCHI (a cura di), Trattato istitutivo della Comunità economica europea. Commentario, 4 voll., Giuffré, Milano, 1965. (12) R. QUADRI, R. MONACO, A. TRABUCCHI (a cura di), Trattato istitutivo della Comunità economica europea. Commentario, 3 voll., Giuffré, Milano, 1970. (13) Nell’ordine di pubblicazione, F. POCAR (a cura di), Commentario breve ai Trattati istitutivi dell’Unione europea e delle Comunità europee, CEDAM, Padova, 2001; Trattati dell’Unione e della Comunità europea esplicati Articolo per Articolo, Simone, Napoli, 2001; A. TIZZANO (a cura di), Trattati dell’Unione europea e della Comunità europea, Giuffré, Milano, 2004. Non è propriamente un commentario quanto, piuttosto, una esposizione, articolo per articolo, di massime giurisprudenziali, il Codice dell’Unione europea. Il trattato istitutivo dell’Unione europea ed il Trattato istitutivo della Comunità europea modificati dai Trattati di Maastricht, di Amsterdam, di Nizza e dai Trattati d’adesione; i documenti rilevanti, curato da L. FERRARI BRAVO, A. RIZZO, F.M. DI MAJO, III ed., Giuffré, Milano, 2008. (14) Taglio tematico ha infatti il bel volume curato da F. BASSANINI, G. TIBERI, Le nuove istituzioni europee. Commento al Trattato di Lisbona, nuova ed. riv. e agg., Il Mulino, Bologna, 2010, che costituisce aggiornamento del precedente commento al Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa (La Costituzione europea. Un primo commento, Il Mulino, Bologna, 2004), revisione, a sua volta, di Una Costituzione per l’Europa. Dalla Convenzione europea alla Conferenza intergovernativa, Il Mulino, Bologna, 2003. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 83 Né la situazione è molto diversa - fatti salvi la richiamata eccezione germanica ed un recentissimo commentario portoghese (15) - nelle altre maggiori letterature. In lingua francese, infatti, non è ancora stato pubblicato un vero e proprio commentario articolo per articolo ai Trattati vigenti (16). Il genere commentario, inoltre, è praticamente sconosciuto al mondo giuridico di lingua inglese (17), con la significativa eccezione dello Smit &Herzog on the Law of the European Union (18), e neppure in Spagna risultano pubblicati commentari, organizzati articolo per articolo, ai Trattati vigenti. Paradossalmente, in lingua francese ed in lingua spagnola, ha riscosso una maggiore attenzione l’abbandonato Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa, al quale sono stati infatti dedicati sia commentari «tematici» (19), sia commentari articolati secondo la sequenza delle disposizioni (20). Natura «tematica» ha avuto il commentario del Trattato sull’Unione europea, pubblicato nella metà degli anni ottanta e dedicato al cd. progetto Spinelli, commentario che ha la peculiare caratteristica di essere stato curato dagli insigni studiosi che svolsero (15) ANASTÁCIO G., LOPES PORTO M. (coord.), Tratado de Lisboa, Anotado e Comentado, Almedina, Coimbra, 2012. (16) Tale non si può considerare, invero, quello diretto da I. PINGEL, De Rome à Lisbonne. Commentaire article par article des Traités UE et CE, II éd., Dalloz, Helbing, Lichtenhahn, Bruylant, Paris, Basel, Bruxelles. 2010, che - come indica chiaramente il titolo - commenta le disposizioni pre-Lisbona, dedicando solo brevi cenni al Trattato di Lisbona. Merita segnalazione, peraltro, pur nella sua sinteticità e nel suo carattere di instant book, F.-X. PRIOLLAUD, D. SIRITZHY Le Traité de Lisbonne. Commentaire, article par article, des nouveaux traités européens (TUE et TFUE), La Documentation française, Paris, 2008, che costituisce aggiornamento del commentario dedicato dagli stessi Autori al Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa (La Constitution européenne. Textes et commentaires, La Documentation française, Paris, 2005). (17) Per P. PESCATORE (Préface, in I. PINGEL, De Rome à Lisbonne. Commentaire article par article des Traités UE et CE, cit., IX-X, la spiegazione starebbe nel fatto che il genere «commentario» è concepibile soltanto sul terreno della codificazione, tecnica che è sconosciuta alla tradizione del diritto inglese per la scelta fatta da Re Enrico VIII di rompere con la tradizione romanistica e del ius commune, che sono alla base del diritto continentale e, per l’appunto, della codificazione. Diversa, tuttavia, è la tradizione del diritto americano, a partire da J. STORY, Commentaries on the Constitution of the United States of America whit a Preliminary Review of the Constitutional History of the Colonies and States, before the Adoption of the Constitution, 3 voll., Hilliard, Gray and Company, Brown, Shattuck and Co, Boston, Cambridge, 1833. (18) La nuova edizione dello Smit & Herzog on the Law of the European Union, LexisNexis/Matthew Bender, Newark San Francisco, 2006, opera a fogli mobili in 4 voll., pubblicata inizialmente nel 1976 - ultimo aggiornamento consultato: settembre 2010 -, è curata da P. HERZOG, C. CAMPBELL, G. ZAGEL. (19) Cfr. E. ÁLVAREZ CONDE, V. GARRIDO MAYOL (dirigido por), Comentarios a la Constitución europea, 3 voll., Tirant lo Blanch, Valencia, 2004; G. AMATO, H. BRIBOSIA, B. DE WITTE (dirigée par), Genèse et destinée de la Constitution européenne. Commentaire du Traité établissant une constitution pour l’Europe à la lumière des travaux préparatoires et perspectives d’avenir, Bruy-lant, Bruxelles, 2007. (20) L. BURGORGUE-LARSEN, A. LEVADE, F. PICOD (dirigée par), Traité établissant une Constitution pour l’Europe, t. 1, Parties I e IV «Architecture constitutionnelle«. Commentaire article par article, tome 2, Partie II, La Charte des droits fondamentaux de l’Union,Commentaire article par article, Bruylant, Bruxelles, rispettivamente, 2007 e 2005; C. M. BRU PURON (dirigido por), Exégesis conjunta de los tratados vigentes y constitucional europeos, Thomson Civitas, Cizur Menor (Navarra), 2005. 84 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 le funzioni di consiglieri giuridici della Commissione per gli affari istituzionali del Parlamento europeo (21). 2. Caratteristiche del genere commentario articolo per articolo ai Trattati sull’Unione europea Il genere commentario articolo per articolo, applicato ai Trattati sull’Unione europea, per sua natura, impone una serie di scelte, che danno luogo ad alcuni inevitabili inconvenienti. Anzitutto, esso non può fornire un quadro esaustivo del diritto secondario o dar conto compiutamente della giurisprudenza europea e nazionale, né consente di offrire al lettore una visione sistematica della materia, oggetto delle singole disposizioni (22). Il rischio dei commentari articolo per articolo, rispetto a quelli tematici, è poi quello di non prendere in considerazione taluni concetti chiave del diritto dell’Unione europea, poiché non sono menzionati espressamente nei Trattati. Un esempio particolarmente significativo è rappresentato dal principio della prevalenza di tale diritto sul diritto interno, principio che, come tutti sanno, ha origine pretoria. Nel presente commentario, per evitare questo rischio, l’analisi dei principi «strutturali» elaborati dalla Corte di giustizia (segnatamente - oltre al primato nella sua lettura da parte dei giudici di Lussemburgo e di quelli della Consulta - i principi relativi all’effetto diretto delle diverse disposizioni del diritto dell’Unione, alla responsabilità patrimoniale dello Stato per violazione del diritto dell’Unione, all’obbligo di interpretazione conforme del diritto interno (21) Il commentario, diretto da F. CAPOTORTI, M. HILF, F.G. JACOBS, J.-P. JACQUE, è stato pubblicato, rispettivamente, in francese, in inglese ed in tedesco Le Traité d’Union européenne, Commentaire du projet adopté par le Parlement européen, le 14 février 1984 Brussels, 1985; The European Union Treaty, Commentary of the Draft Adopted by the European Parliament on the 14 February 1984, Clarendon Press, Oxford, 1986; Der Vertrag von Grundung der Europäischen Union, Kommentar zu dem vom Europäischen Parlament am 14. Februar 1984 verabschiedeten Entwurf, Nomos, Baden-Baden, 1986. (22) Per questi motivi, taluni commentari hanno preferito compiere una scelta di carattere «tematico » ed analizzare le disposizioni dei Trattati non in sequenza ma per materia. L’esempio più noto è costituito dal Commentaire J. Mégret, Le droit de la CE et de l’Union européenne, fondato nel 1968 e diretto, fino al 2005, da M. Waelbroeck, J.-V. Louis, D. Vignes, J.-L. Dewost, G. Vandersanden, il cui comitato di redazione, dal 2006, è diretto da M. Dony e comprende C. Blumann, J. Bourgeois, L. Idot, J.-P. Jacqué, H. Labayle e F. Picod, mentre a E. Bribosia è affidata la segreteria di redazione. Questo commentario è ormai giunto alla terza edizione, sempre per i tipi delle Éditions de l’Université Libre de Bruxelles. Nel tempo l’originaria impostazione per capi dei Trattati o per gruppi di capi è mutata e gli articoli dei Trattati risultano ora raggruppati per «grandi materie», quali il mercato interno, l’Europa ed il cittadino, le politiche economiche e sociali, la concorrenza, l’ordinamento giuridico ed il contenzioso, le istituzioni, le relazioni esterne, ciascuna materia coordinata da un riconosciuto specialista del mondo accademico franco-belga. Il Commentaire J. Mégret rappresenta, senza alcun dubbio, il più ampio commentario «sistematico» del diritto dell’Unione europea consistendo, nelle sue tre edizioni, complessivamente di 35 voll. (I ed., 15 voll., pubblicati tra il 1973 ed il 2005; II ed., 13 voll., pubblicati tra il 1991 ed il 2005; III ed., 7 voll., finora pubblicati, tra il 2006 ed il 2011). Un noto precedente di questo genere è costituito dal corposo volume diretto da W.J. GANSHOF VAN DER MEERSCH, Droit des Communautés européennes, Les Nouvelles, Larcier, Bruxelles, 1969. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 85 al diritto dell’Unione, nonché all’autonomia procedurale degli Stati membri) è stata effettuata nel quadro dell’esame della principale disposizione concernente la Corte di giustizia (art. 19 TUE). Quanto, poi, al formato editoriale, l’edizione a fogli mobili (non particolarmente frequente nella tradizione dell’editoria giuridica italiana), consentendo una più agevole modifica nel tempo, parrebbe, prima facie, strumento più idoneo a tener conto della segnalata frequenza delle modifiche apportate al diritto dell’Unione, pur incontrando anch’essa gravi limiti dovuti, per un verso, alla disomogeneità temporale dei commenti alle singole disposizioni e, per altro verso, alla «perdita» nel tempo dei commenti «storici». La classica edizione rilegata, invece, dovendo possibilmente rendere conto della situazione dell’ordinamento ad una certa data fissa, impone agli Autori ed al Curatore una vera e propria lotta contro il tempo per mantenere il più possibile aggiornata l’opera nelle more della preparazione e pubblicazione della stessa, operazioni che, nel caso di opere del genere, inevitabilmente richiedono un impegno pluriennale. Relativamente alle dimensioni dell’opera, va osservato che i commentari articolo per articolo dei Trattati istitutivi organizzati in più volumi costituiscono una minoranza nel panorama giuridico italiano ed europeo, mentre assolutamente prevalenti risultano quelli in un unico volume. A sostegno di quest’ultima scelta militano diverse ragioni. Anzitutto i commentari in un unico volume, all’evidenza, costituiscono un supporto molto più pratico, in quanto il formato «compatto»si prestaad una consultazione più agevole. Naturalmente la scelta di questo formato impone agli Autori dei commenti una rigorosa selezione di quanto va considerato davvero essenziale alla puntuale esegesi di ciascuna disposizione. Il formato in un unico volume è suscettibile poi - come dimostra la letteratura tedesca (23) - di un più facile aggiornamento dell’opera e quindi dà la possibilità di poter fornire agli operatori giuridici edizioni sempre aggiornate ai continui sviluppi del diritto dell’Unione. Di regola, i commentari ai Trattati sull’Unione europea non dedicano una specifica trattazione ai Protocolli allegati ai Trattati (e tanto meno alle Dichiarazioni interpretative allegate agli atti finali delle Conferenze intergovernative che hanno nel tempo adottato i Trattati). Trattasi, nella specie, di una scelta consolidata, seguita anche in quest’opera. Tuttavia detti testi, essendo indispensabili ai fini di una corretta applicazione ed interpretazione degli articoli dei Trattati cui si riferiscono, sono opportunamente esaminati nel quadro del commento a ciascuna delle disposizioni. Lo stesso approccio è stato poi adottato, seppure per grandissime linee, anche con riferimento al diritto secondario. (23) V. i commentari cit. supra, nota 9. Ed in effetti, il grande commentario tedesco in più volumi ed in edizione rilegata, VON DER GROEBEN H., SCHWARZE J. (Hrsg.), Kommentar zum Vertrag über die Europäische Union und zur Gründung der Europäischen Gemeinschaft, EU-EG - Vertrag, 4 voll., VI ed., Nomos, Baden-Baden, 2003-2004, è aggiornato al Trattato di Nizza del 2001. 86 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 Viceversa, per quanto concerne l’analisi della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, tenuto conto del rilievo, sotto il profilo applicativo, sia come fonte di diritto primario che come fonte interpretativa, riconosciutale dalla giurisprudenza (24), si è optato per dedicarvi un’ampia introduzione generale, mentre per il commento alle sue 54 disposizioni ci si è limitati a riprodurre in calce alle stesse le Spiegazioni, nella versione aggiornata redatta sotto la responsabilità del Praesidium della Convenzione sul futuro dell’Europa e dell’evoluzione del diritto dell’Unione. 3. Un commentario destinato precipuamente agli operatori giuridici Il presente volume mira a fornire, per quanto possibile, un’approfondita guida alla comprensione di ciascuna delle disposizioni dei Trattati costitutivi dell’Unione europea (TUE e TFUE). I commenti sono redatti in modo da consentire di cogliere, per ogni articolo, l’origine della disposizione, la sua collocazione sistematica, la ratio, l’ambito di applicazione, gli sviluppi normativi e giurisprudenziali, il tutto completato da una selezione aggiornata della bibliografia pertinente. Per la compilazione di queste bibliografie (nonché della bibliografia generale suddivisa in sezioni distinte concernenti la manualistica corrente, i commentari ai Trattati, le enciclopedie ed i dizionari) ci si è potuti avvalere della Biblioteca della Corte di giustizia, universalmente nota per la ricchezza delle sue collezioni e per l’estensione del relativo catalogo, che offre potenzialità di ricerca molto complete ed un sistema di classificazione particolarmente dettagliato. Dal 1° gennaio 2012, il catalogo è consultabile on line: esso fornisce agli studiosi ed agli operatori del diritto dell’Unione europea un supporto informativo di ineguagliabile valore, divenuto ormai indispensabile in ragione della smisurata produzione scientifica pubblicata in tutte le lingue dell’Unione. Tenuto conto degli indicati criteri generali dettati per la realizzazione dell’opera, ogni commento è stato redatto secondo le sensibilità e lo stile proprio di ciascun Autore. Al di là di una complessiva uniformazione di ordine redazionale, curata personalmente da chi scrive (inizialmente con l’aiuto di Gabriella Angiulli e Carla Pasetto), si è preferito non ricercare ad ogni costo una omogeneità di pensiero. Ciò nella convinzione che, proprio in ragione della natura dell’opera, frutto di un impegno collettivo, la prospettazione di tesi diverse costituisce un suo pregio aggiuntivo, in quanto offre al lettore una pluralità di (24) Ad esempio ricordiamo che per la Corte di Cassazione le disposizioni della Carta, infatti, pur quando non formino oggetto di cognizione di una fattispecie di diritto dell’Unione europea «e quindi non operando il Bill of Rights europeo come vera e propria fonte del diritto ai sensi dell’art. 51 del Testo, … [costituiscono lo] strumento interpretativo privilegiato anche per il diritto interno che si deve presumere coerente con quei valori che gli Stati membri e gli organi dell’Unione hanno comunemente accettato, come espresso dall’art. 6 del Trattato sull’Unione europea, nella nuova formulazione del Trattato di Lisbona» (Cass. 17 maggio 2010, n. 28658). CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 87 soluzioni interpretative. La consultazione del volume è anche agevolata dalla presenza di un dettagliato indice analitico (per la preparazione del quale sono stato validamente coadiuvato da Nicola Colacino), che consente di individuare il passaggio pertinente del commento alla disposizione di proprio interesse. 4. Il diritto dell’Unione europea e l’accesso alle professioni giuridiche in Italia L’ambizione dell’opera è dunque quella di migliorare la conoscenza del diritto dell’Unione europea nel nostro Paese, che in questa materia sconta tuttora un notevole gap culturale (25). Questo gap è conseguenza, in primo luogo, del consistente ritardo - in riferimento ad altri Stati membri dell’Unione europea (26) - con il quale il «diritto delle Comunità europee» o «diritto comunitario» - nonostante la sollecitazione del Parlamento europeo (27) e pur tenendo conto dell’eteroge- (25) L’espressione «ritardo culturale», è utilizzata in questo contesto da G. CONSO, Introduzione, in B. TOSCO JACOPINI (a cura di), Diritto comunitario e diritto interno. Il ruolo del giudice europeo, Atti del I° Corso di formazione in diritto comunitario per magistrati, Urbino 19-21 settembre 1993, Centro Alti Studi Europei, Università degli Studi di Urbino, Arti Grafiche Editoriali, Urbino, 1994, 9, 11. L’insigne Maestro, al tempo Ministro di Grazia e Giustizia, rilevava che i giudici italiani avevano compiuto «un errore di prospettiva» ed avevano dimostrato «resistenza» nei confronti del fenomeno comunitario, «da imputarsi in parte ad una sorta di sciovinismo giudiziario, in parte ad un difetto di formazione in diritto comunitario; quindi, ad una visuale ristretta ». (26) Così, in Francia, già con l’Arrêté del 7 luglio 1977 concernente la licence e la maîtrise en droit, il diritto delle Comunità europee è divenuto materia fondamentale d’insegnamento al terzo anno della Licence (v. ora Arrêté del 29 febbraio 2000). Circa l’accesso al concorso per la magistratura ordinaria - disciplinato dal decreto n. 72-355 del 4 maggio 1972, come modificato dal decreto del 31 dicembre 2008, sia nel concorso esterno per studenti, sia nel concorso interno per funzionari, sia ancora nel concorso interno riservato a coloro che hanno un numero determinato di anni di attività nel settore privato o siano stati titolari di incarichi elettivi, il «diritto europeo», comprendente, oltre al diritto dell’Unione europea, anche la disciplina della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, costituisce materia della prova orale di ammissione. Per quanto attiene, poi, all’esame d’idoneità alla professione di avvocato - disciplinato dagli artt. 4 e 8 dell’Arrêté del 7 gennaio 1993, e successive modificazioni - i candidati possono indicare il diritto comunitario come materia della prova scritta ed il diritto processuale comunitario come materia della prova orale. Infine, fin dal 1982, il diritto comunitario figura tra le materie della quarta prova (opzione diritto pubblico) nel concorso esterno per l’accesso all’École Nationale d’Administration (v. Arrêté del 14 ottobre 1982 e Arrêté del 13 ottobre 1999), che, com’è noto, assicura la formazione unica per l’alta amministrazione francese e consente ai primi classificati di accedere, tra l’altro, alla Cour des comptes, al Conseil d’État, ai Tribunali amministrativi, alla Corte amministrativa d’appello ed alle Camere regionali dei conti. Della situazione della formazione universitaria in diritto comunitario in Francia all’inizio degli anni novanta si è occupato il CONSEIL D’ÉTAT, Rapport public 1992. Considération générales: Sur le droit communautaire, Études et documents du Conseil d’État, n. 44, La Documentation française, Paris, 1993, fornendo tuttavia dati e valutazioni oggetto di vibrata contestazione da parte di illustri accademici (v. J.R. [RIDEAU], in Rev. Aff. Eur., 1993, n. 3, 119-124, spec. 121-124; D. SIMON , A. RIGAAUX, Le Conseil d’État saisi par le droit communautaire: quelques réflexions sur le rapport public 1992, in Europe, 1993, fasc. 11, 1-4). (27) Cfr. la Risoluzione del 21 gennaio 1991 sulla dimensione europea a livello universitario e in particolare la mobilità degli studenti e dei professori, A3-305/90 (GUCE C 48 del 25 febbraio 1991, 216) nella quale l’istituzione parlamentare, pur riconoscendo l’autonomia delle Università, le ha invitate ad introdurre il diritto comunitario come materia obbligatoria nelle Facoltà di Giurisprudenza (punto 88 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 neità dei sistemi nazionali - è divenuto insegnamento obbligatorio nelle Facoltà di Giurisprudenza (alla metà degli anni Novanta) (28) e materia oggetto di prova nei concorsi per l’accesso alle professioni giuridiche. In particolare, rispetto alle prove di concorso per l’accesso alle professioni giuridiche, conviene segnalare, per un verso, che il concorso per Avvocato dello Stato ha previsto, fin dal 1979, il «diritto delle Comunità europee», come materia della prova orale (29) e, per altro verso, che, fin dal 1983, l’indicata disciplina è oggetto tanto di una delle cinque prove scritte quanto dell’esame orale del concorso per Consigliere di Stato (30). Di questa lungimirante «anticipazione » della verifica della conoscenza del diritto comunitario hanno certamente beneficiato sia le difese dello Stato italiano davanti alla Corte di giustizia, sia la lettura «comunitariamente orientata» del diritto nazionale da 28, secondo trattino). Il Parlamento europeo ha reiterato questa sollecitazione, sei anni dopo, approvando la risoluzione B4-0588/97, trasmessa il 16 settembre 1997 dall’on. C. Ferrer, fatta propria dalla commissione giuridica e per i diritti dei cittadini ed allegata alla relazione dell’on. A. Palacio Vallelersundi, A4-0323/97 del 17 ottobre 1997 sulla proposta di decisione del Parlamento europeo e del Consiglio che istituisce un programma d’azione per una maggiore sensibilizzazione degli operatori del diritto al diritto comunitario - AZIONE Robert SCHUMAN (COM (96)0580 - C4- 0606/96 - 96/0277 (COD)).V. la Dec. n. 1496/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 giugno 1998 che approva la detta Azione Schuman, GUCE L 196 del 14 luglio 1998, 24-27. V. pure i successivi programmi di formazione giudiziaria finanziati dall’Unione europea relativi al periodo 2007-2013, da quello generale «Diritti fondamentali e giustizia» a quelli specifici «Giustizia penale», «Diritti fondamentali e cittadinanza» e «Giustizia civile». Per utili informazioni al riguardo v. lo studio commissionato dal Parlamento europeo, Renforcement de la formation judiciaire dans l’Union européenne, a cura di C. BOTHELO, N. LONG, P. GOLDSCHMIDT del Centre européen de la magistrature et des professions juridiques, Institut européen d’administration publique, Luxembourg, doc. PE 419. 951, aprile 2009. (28) Non è possibile cifrare al riguardo un anno preciso, in quanto il decreto del Ministro dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica 11 febbraio 1994, nel riconoscere la necessità di modificare la tabella III dell’Ordinamento didattico annesso al D.M. 30 novembre 1938, n. 1652, relativo al corso di laurea in Giurisprudenza, dava mandato alle singole Facoltà, e quindi alle Università, di adeguarsi al nuovo ordinamento. Nell’effettuare tale adeguamento, in conformità al principio dell’autonomia didattica, il consiglio del corso di studio competente, ai sensi dell’art. 11, co. 2, L. 1990, n. 341, recante riforma dell’ordinamento didattico universitario, nel rispetto di quanto previsto circa le aree disciplinari determinate dalla tabella III del D.M. 11 febbraio 1994 predetto, ha individuato «gli insegnamenti fondamentali obbligatori». Le dette modifiche degli ordini degli studi sono state adottate dalle Università tra 1995 ed il 2000, anche in applicazione del decreto del Ministro dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica 3 novembre 1999, n. 509, sul regolamento recante norme concernenti l’autonomia didattica degli atenei. Così, ad es., nella Facoltà giuridica romana della Sapienza, l’insegnamento del Diritto delle Comunità europee, attivato fin dall’a. a. 1974/1975, come materia complementare, è divenuto obbligatorio solo dall’a. a. 2000/2001, con la denominazione Diritto dell’Unione europea. (29) Cfr. art. 6 della L. 3 aprile 1979, n. 103, recante modifiche dell’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato, di cui al D.Lgs. 2 marzo 1948, n. 155. Resta peraltro inspiegabile, ad oltre trenta anni dalla modifica appena menzionata, la ragione della perdurante assenza del diritto dell’Unione europea tra le materie della prova orale del concorso per procuratore dello Stato, tuttora disciplinata dall’art. 54 del R.D. 30 ottobre 1933, n. 1312, recante approvazione del regolamento per l’esecuzione del testo unico delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato, come modificato dall’art. 2 del R. D. 17 settembre 1936, n. 1854. (30) Cfr. art. 5 del D.P.R. 17 gennaio 1983, n. 68. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 89 parte del supremo giudice amministrativo (31) . Molto più tardiva è stata, invece, l’attenzione riservata al diritto comunitario nell’accesso alla magistratura ordinaria, dato che, solo nel 1997, questa disciplina è divenuta materia di prova orale (32). Si è poi atteso addirittura il 2003 per modificare, nello stesso senso, la prova orale di abilitazione alla professione forense (33); infine, dal 2000, in base ad una deliberazione del Consiglio di Presidenza, il diritto comunitario è materia di prova orale nel concorso per referendario della Corte dei conti. In questo contesto, alla luce della segnalata disciplina del concorso per Consigliere di Stato, appare stupefacente, che, a tutt’oggi, il diritto dell’Unione europea non sia stato formalmente menzionato nelle prove del concorso per referendario dei Tribunali amministrativi regionali (T.A.R.) come materia della prova orale (se non pure di quella scritta) (34). Invero, nell’attività dei magistrati amministrativi, il diritto dell’Unione europea trova sicuramente maggiore applicazione concreta rispetto all’economia politica, che è invece materia della prova orale (35). Vale la pena rilevare, inoltre, che nonostante l’Italia non sia il fanalino di coda tra gli Stati membri fondatori (36) per quanto riguarda la presenza del (31) Ad es. il Consiglio di Stato (sez. VI, 25 gennaio 2005, n. 168; sez. VI, 30 gennaio 2007, n. 362) - ben prima, cioè, dell’abrogazione dell’art. 37, co. 2, secondo periodo, cod. nav., stabilita dall’art. 1, co. 18 del D.L. n. 194/2009, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. n. 25/2010 e della stessa apertura da parte della Commissione europea della procedura di infrazione n. 2008/4908 nei confronti dell’Italia (2 febbraio 2009) - ha fornito una interpretazione «comunitariamente orientata» del cd. diritto di insistenza, cioè il diritto del vecchio concessionario di essere preferito agli altri in sede di rinnovo della concessione demaniale marittima a finalità turistico-ricreativa, di fatto disapplicandolo. (32) Cfr. art. 3 del D. Lgs. 17 novembre 1997, n. 398, recante modifica alla disciplina del concorso per uditore giudiziario e norme sulle scuole di specializzazione, a norma dell’art. 17, co. 113 e 114 della L. 15 maggio 1997, n. 127, che inserisce un nuovo art. 123-ter dell’ordinamento giudiziario, approvato con R. D. 30 gennaio 1941, n. 12, ove il «diritto comunitario» figura tra le materie oggetto di prova orale. (33) Cfr. art. 5 della L. 18 luglio 2003, n. 180, recante conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, che emendando l’art. 17-bis, co. 3, lett. a) del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, inserisce il «diritto comunitario» tra le materie oggetto di prova orale. (34) Peraltro, quesiti di diritto dell’Unione europea, quanto meno riguardanti i profili istituzionali, possono rientrare, in ragione dell’affinità scientifico-disciplinare, nella materia «diritto internazionale pubblico e privato», intesa in senso ampio. (35) Cfr. art. 19, co. 5 del D.P.R. 21 aprile 1973, n. 214, recante regolamento di esecuzione della L. 6 dicembre 1971, n. 1034 istitutiva dei tribunali amministrativi regionali. (36) Ad oggi, in Germania, il diritto dell’Unione europea non risulta essere, in quanto tale, materia obbligatoria dell’esame di Stato per le professioni giuridiche (giudice, avvocato e notaio). Infatti, secondo l’art. 5 a (2) del Deutsche Richtergesetz dell’8 settembre 1962, e successive modificazioni, tra le materie obbligatorie figurano il «Öffentlichen Rechts und des Verfahrensrechts einschließlich der europarechtlichen Bezüge» («Diritto pubblico e Diritto processuale inclusi gli aspetti di diritto europeo»), mentre il diritto dell’Unione europea può costituire oggetto di un «settore di particolare importanza» («Schwepunktbereich»). V. anche la disciplina contenuta nel Justizausbildungsgesetzen («Leggi e ordinanze sulla formazione nel settore della Giustizia») emanate dai sedici Länder. 90 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 diritto dell’Unione europea come materia obbligatoria di esame nell’abilitazione alle professioni giuridiche, nel nostro Paese, la combinazione della scarsa conoscenza professionale del diritto europeo e della corriva consuetudine a restare legati alle abituali categorie concettuali (37), dando prova di «sciovinismo giudiziario» (38) - ha talvolta prodotto una nociva sedimentazione di impostazioni legate a tradizioni giuridiche e modelli culturali ormai superati. Alla luce di quanto osservato circa la conoscenza del diritto dell’Unione europea, da parte degli operatori delle professioni giuridiche, il quadro che ne risulta è fatto più di ombre che di luci. Tra queste ultime spiccano, tuttavia, tre elementi di segno positivo. Anzitutto, il numero dei rinvii pregiudiziali (39) alla Corte di giustizia effettuati da giudici italiani è sempre stato numericamente molto elevato (40), pur se desta qualche preoccupazione l’alta percentuale (quasi 1/3 del totale) delle pronunce di irricevibilità (41), che va probabilmente imputata alla non adeguata conoscenza delle informazioni che è necessario fornire nella domanda di pronuncia pregiudiziale (42) . (37) G. CONSO, Introduzione, cit., 13 (v. supra, nota 25) rilevava in proposito che «per questa deficienza il giudice percepisce l’ordinamento comunitario come estraneo alla sua ottica nazionale e, di conseguenza, l’ingresso della normativa comunitaria nell’ordinamento nazionale viene visto non come un fattore di integrazione, ma come fattore di conflitto tra due sistemi giuridici. Egli tende, perciò, a respingere, quasi istintivamente, la norma comunitaria, vedendola come estranea al suo mondo, addirittura minacciosa per la sua consolidata, ma ristretta preparazione giuridica». (38) G. CONSO, Introduzione, cit., 11 (v. supra, nota 25). (39) È appena il caso di ricordare che la violazione dell’obbligo di rinvio pregiudiziale da parte di una giurisdizione di ultima istanza (art. 267, co. 3, TFUE) può far sorgere la responsabilità patrimoniale dello Stato per violazione del diritto dell’Unione, responsabilità che è in ogni caso presunta quando la decisione interviene ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte di giustizia in materia (CG, 30 settembre 2003, Gerhard Köbler, C-224/01, punto 51 e le precisazioni contenute al riguardo in CG, 13 giugno 2006, Traghetti del Mediterraneo, C-173/03, punti 42-44). (40) A fine 2010, con 1056 domande pregiudiziali proposte (di cui 1 dalla Corte Costituzionale, 108 dalla Cassazione, 64 dal Consiglio di Stato e 883 dagli altri organi giurisdizionali), l’Italia si classificava in seconda posizione assoluta preceduta dalla Germania (1802) e seguita dalla Francia (816). Per una indagine di taglio sociologico-giuridico sull’attività pregiudiziale dei giudici italiani, v. M.C. REALE, M. BORRACCETTI, Da giudice a giudice. Il dialogo tra giudice italiano e Corte di giustizia delle Comunità europee, Giuffré, Milano, 2008, specialmente, 111-182. (41) Invero, su complessive 169 pronunce di irricevibilità, ben 50 sono relative a pregiudiziali italiane, a fronte dei 23 casi tedeschi e dei 21 francesi, per mantenere il confronto tra Stati membri comparabili. Sono italiane, in ogni caso, le domande pregiudiziali dichiarate «irricevibili» (rectius: inammissibili), che hanno inaugurato il filone pregiudiziale del controllo della Corte sulla pertinenza dei quesiti (CG, 11 marzo 1980, Foglia, 104/79; 26 gennaio 1993, Telemarsicabruzzo, C-320/90, C-321/90 e C-322/90). Sulle ragioni del «rigetto» delle domande di pronuncia pregiudiziale proposte da organi giurisdizionali italiani, v. D.P. DOMENICUCCI, Circa il meccanismo del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea, in Il Foro italiano, 2011, n. 10, parte IV, 484-487. La conclusione dell’Autore è assolutamente condivisibile. Egli rileva, infatti, che il giudice nazionale deve evitare «di porre quesiti inutili, improbabili o non debitamente contestualizzati, dal momento che il loro rigetto rappresenta un insuccesso non tanto e non solo per il giudice e per le parti del processo a quo, ma anche, e soprattutto, per il buon funzionamento della giustizia italiana ed europea». CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 91 Inoltre, va segnalato che, in ragione della qualità delle questioni sottoposte, i rinvii pregiudiziali italiani hanno sovente fornito ai giudici di Lussemburgo l’occasione per stabilire dei principi chiave del diritto dell’Unione. Basti citare, tra i più significativi, il principio della prevalenza del diritto europeo sul diritto nazionale (43), quello della soggezione dell’amministrazione locale e regionale al diritto europeo (44) e quello della responsabilità patrimoniale dello Stato per violazione del diritto dell’Unione (45). Infine, appare ormai chiara la consapevolezza, almeno nella parte più avvertita della Magistratura e dell’Avvocatura, per un verso, del fondamentale ruolo dei giudici nazionali come veri protagonisti del momento attuativo del diritto dell’Unione, con la conseguenza che «il diritto europeo non può essere escluso dal bagaglio di conoscenze che ognuno di loro deve possedere» (46) e, per altro verso, della rilevanza della formazione professionale continua nel diritto dell’Unione europea, quale strumento essenziale per un pieno esercizio della giurisdizione (47) e per un effettivo diritto di difesa in un quadro notoriamente caratterizzato dalla compresenza di sistemi giuridici ed approcci culturali diversi. D’altra parte, vale la pena di ricordare che, al riguardo, un’efficace azione di stimolo è stata svolta dal Consiglio europeo (48), dalla Commissione euro- (42) Al riguardo la Corte di giustizia, da almeno quindici anni, ha diffuso una guida contenente indicazioni pratiche miranti ad orientare i giudici nazionali nella formulazione e presentazione delle domande pregiudiziali. Per la versione più recente della Nota informativa riguardante le domande di pronuncia pregiudiziale da parte dei giudici nazionali (2011/C 160/01), v. GUUE C 160 del 28 maggio 2011, 1. (43) CG, 15 luglio 1964, Costa/ENEL, 6/64; 9 marzo 1978, Simmenthal, 106/77. (44) CG, 22 giugno 1989, Fratelli Costanzo, 103/88. (45) CG, 19 novembre 1991, Francovich, C-6/90 e C-9/90. (46) V. la delibera del Consiglio Superiore della Magistratura del 13 aprile 2011 concernente il Piano d’azione per l’attuazione del Programma di Stoccolma. Progetto European Gaius per il rafforzamento della cultura giuridica europea dei magistrati italiani. (47) Alla formazione europea dei giudici italiani ha efficacemente contribuito il Consiglio Superiore della Magistratura (C.S.M.). Il C.S.M., infatti - su impulso del Vice Presidente G. Bosco - organizzò, dal 26 novembre al 1° dicembre 1973, il primo corso centrale di diritto comunitario e, dal 1997, ha realizzato corsi decentrati di diritto comunitario, volti ad approfondire, nelle singole sedi di Corte d’Appello, le problematiche dell’integrazione europea, segnatamente con riguardo alla cooperazione giuridica in materia di assistenza giudiziaria, rogatorie internazionali ed estradizione. Una selezione delle relazioni svolte nei detti corsi, tenuti sia a livello centrale che decentrato (tra il 1973 ed il 1997) è stata raccolta nel volume Il diritto comunitario e la cooperazione penale, Quaderni del C.S.M, 1998, n. 102. Recentemente, il C.S.M. ha approvato, con la menzionata delibera del 13 aprile 2011, il progetto European Gaius, che è modellato sull’analogo programma Eurinfra, lanciato nel 2000 nei Paesi Bassi e tutt’ora operativo. Questo programma ha sicuramente favorito i rinvii pregiudiziali proposti dai giudici olandesi che, infatti, si attestano, a fine 2010, a 767, numero particolarmente significativo, tenuto conto della popolazione dei Paesi Bassi, a fronte dei 1056 rinvii italiani e degli 816 francesi. Sul progetto Eurinfra v., D. CAPPUCCIO, G. GRASSO, A. MUNGO, La Corte di giustizia vista da vicino: note, impressioni e spunti critici di tre giudici italiani, in Contratto e impresa/Europa, 2010, spec. 903-905. (48) V. la Dichiarazione del 14 e 15 dicembre 2001, formulata dal Consiglio europeo di Laeken, che invita a creare rapidamente una rete europea per sostenere la formazione dei magistrati, onde incrementare la fiducia tra gli attori della cooperazione giudiziaria (SN (2001) 1200). 92 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 pea (49), dal Consiglio (50) e dal Parlamento europeo (51). La centralità della formazione europea dei giudici e del personale giudiziario - alla cui base, piace ricordarlo, vi è una proposta presentata dall’Italia nel 1991 in sede di Consiglio dei ministri delle Comunità europee (52) - è poi essenziale ai fini dell’efficace funzionamento sia del procedimento pregiudiziale d’urgenza, che è applicabile ai rinvii pregiudiziali relativi allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia (53), sia della cooperazione giudiziaria tanto in materia civile che in materia penale (54). In questo contesto non si può non ricordare che, conformemente all’invito rivoltole nel Rapporto dell’ex commissario europeo Mario Monti, del 9 maggio 2010, Una nuova strategia per il mercato unico al servizio dell’economia e della società europea (55), la Commissione ha recentemente fissato l’ambi- (49) Cfr. Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio, del 29 giugno 2006 sulla formazione giudiziaria nell’Unione europea (COM(2006) 356 def), del 5 settembre 2007, su un’Europa dei risultati - applicazione del diritto comunitario (COM(2007)0502) e del 4 febbraio 2008, relativa alla creazione di un forum di discussione sulle politiche e sulle prassi dell’UE nel settore della giustizia (COM(2008)0038). (50) Risoluzione del Consiglio e dei rappresentanti dei governi degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio relativa alla formazione dei giudici, dei procuratori e degli operatori giudiziari nell’Unione europea (2008/C 299/01), GUUE C 299 del 22 novembre 2008, 1. (51) Risoluzione del Parlamento europeo del 9 luglio 2008 sul ruolo del giudice nazionale nel sistema giudiziario europeo, (2007/2027 (INI), adottata sulla base della relazione dell’on. D. Wallis, a nome della commissione per gli affari giuridici. (52) V. Doc. 9090/91 del 31 ottobre 1991, JUR 107, COUR 13. V., anche, la Risoluzione del Parlamento europeo del 23 novembre 2010 sugli aspetti relativi al diritto civile, al diritto commerciale, al diritto di famiglia e al diritto internazionale privato del Piano d’azione per l’attuazione del programma di Stoccolma (2010/2080(INI)). La Risoluzione considera «che la capacità di comprendere e di gestire le differenze tra i nostri sistemi giuridici può soltanto nascere da una cultura giudiziaria europea che deve essere coltivata condividendo le conoscenze e la comunicazione, studiando il diritto comparato e mutando radicalmente il modo in cui viene insegnato il diritto nelle Università e il modo in cui i giudici partecipano alla formazione e sviluppo professionale, come indicato nella risoluzione del Parlamento del 17 giugno 2010, ivi compresi sforzi aggiuntivi per superare le barriere linguistiche» (considerando I.) e, conseguentemente, raccomanda che «il trattamento del diritto dell’Unione in quanto materia distinta nell’insegnamento e nella formazione giuridica ha un effetto marginalizzante; raccomanda pertanto che i piani di studio e di formazione nel settore giuridico integrino ovviamente il diritto dell’Unione in ogni area fondamentale; ritiene che il diritto comparato debba diventare un elemento chiave dei piani di studio universitari» (punto 11). (53) V. Decisione 2008/79/CE, Euratom del Consiglio, del 20 dicembre 2007, recante modifica del Protocollo sullo statuto della Corte di giustizia e le modifiche allegate, apportate al regolamento della Corte di giustizia, che introducono detto procedimento. (54) Non a caso, l’art. 81, par. 2, lett. h) e l’art. 82, par. 1, lett. c) del TFUE prevedono che il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, adottino misure volte a sostenere la formazione dei magistrati e degli operatori giudiziari. (55) Nel Rapporto, cit., 112, si legge che «L’ordinamento giuridico dell’Unione dà ai cittadini e alle imprese la facoltà di difendere i propri diritti in giudizio, dinanzi al giudice nazionale. L’applicazione delle norme su iniziativa dei privati è quindi un mezzo privilegiato per contribuire a ridurre il deficit di conformità e assicurare l’efficacia del mercato unico. Il cosiddetto private enforcement può essere rafforzato in due modi. In primo luogo, il ruolo dei giudici nazionali nell’interpretare e applicare il diritto dell’Unione, oltre al diritto nazionale, è cruciale. La Commissione dovrebbe, in partenariato con gli Stati membri, dare maggiore sostegno a programmi e strutture di formazione che consentano ai giudici CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 93 zioso obiettivo di assicurare che, entro il 2020, la metà dei professionisti del diritto dell’Unione europea, ad un ritmo di ventimila l’anno, partecipino ad una formazione giudiziaria europea a livello locale, nazionale ed europeo (56). 5. La formazione del giurista «europeo» nell’ottica dell’incidenza del diritto dell’Unione europea sull’ordinamento italiano È ben noto che la formazione del giurista comporta anzitutto la capacità, intesa come conoscenza ed analisi critica, di cogliere l’essenza del diritto, che non è solo un complesso di regole, ma è anche la rappresentazione di fenomeni che hanno radici nel sentire sociale, in connessione con la realtà economica, culturale, politica e giuridica della società che dette regole disciplinano. Anche il diritto dell’Unione europea ha un riferimento, una giustificazione diretta, nella realtà, cosicché le sue regole, lungi dal configurare esclusivamente un sistema deontico, sono solo il riflesso di una situazione sociale in continua evoluzione. Ora, comprendere l’essenza del diritto significa proprio praticare il metodo «della comprensione del particolare nel generale» (57). Ciò detto, per fare un vero e proprio salto di qualità, per radicare il diritto di matrice europea nel nostro ordinamento, negli ambiti in cui esso è destinato ad incidere, è indispensabile intercettare meglio l’interesse degli operatori pratici del diritto, in primis, magistrati, avvocati, notai, giuristi d’impresa, ed insieme a loro la folta schiera dei funzionari della pubblica amministrazione statale e regionale e del settore privato, ormai quotidianamente messi a confronto con l’applicazione e l’interpretazione del diritto dell’Unione europea. Per quanto riguarda i funzionari pubblici, in particolare, vale la pena rilevare - sulla scorta di quanto osservato dal Consiglio di Stato francese (58) - che l’ordinamento giuridico dell’Unione europea fa di ciascuno di essi un funzionario europeo, responsabile dell’applicazione delle regole definite a Bruxelles nello stesso modo di quelle concepite a Roma per la legislazione statale, o sul territorio della Repubblica, per la legislazione regionale. Ai funzionari italiani compete, pertanto, prendere in considerazione la dimensione europea sia nell’elaborazione dei testi giuridici, sia nell’attuazione delle politiche facendo attenzione, in entrambi i casi, ad assicurare la piena compatibilità tra le nazionali e ai professionisti legali di acquisire una solida conoscenza delle regole del mercato unico che più di frequente devono applicare». La Commissione ha iscritto questa raccomandazione chiave quale priorità sia nel Piano d’azione del Programma di Stoccolma (Risoluzione sulla formazione giudiziaria - Programma di Stoccolma del 17 giugno 2010), sia nella Relazione 2010 sulla cittadinanza dell’Unione (COM (2010) 603). (56) Cfr. Susciter la confiance dans une justice européenne. Donner une dimension nouvelle à la formation judiciaire européenne, COM (2011) 551 fin. del 13 settembre 2011. (57) L’espressione ed il relativo concetto sono di P. PESCATORE, Préface, cit., X. (58) Cfr. CONSEIL D’ÉTAT, Rapport public 2007, II. L’administration française et l’Union européenne. Quelles influences? Quelles stratégies?, Études et documents du Conseil d’État, n. 58, La Documentation française, Paris, 2007, 334. 94 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 norme giuridiche italiane e quelle del diritto dell’Unione europea (59). Il diritto dell’Unione europea, infatti, sempre più incide sui diversi aspetti della vita giuridica, politica, economica e sociale degli Stati membri ed ha prodotto, altresì, il fenomeno della cd. «europeizzazione» del diritto nazionale. Un diritto, vale la pena di ricordare, che penetra nel diritto interno con carattere di prevalenza e che può, pertanto, garantire un’effettiva tutela delle posizioni soggettive dei destinatari delle sue norme. Questi, infatti, a determinate condizioni, possono far valere tali norme dinanzi ai giudici nazionali - e, a monte, nei confronti della pubblica amministrazione, così come di ogni operatore tenuto ad applicarle, anche in presenza di norma nazionale discordante e contraria, da disapplicare nel caso di specie - senza necessità di investire la Corte Costituzionale ai fini dell’eliminazione della norma interna incompatibile. Per misurare la portata della segnalata incidenza è sufficiente richiamare i dicta di due sentenze, rispettivamente, della Corte di giustizia europea e della nostra Corte costituzionale, tanto celebri quanto risalenti nel tempo. Fin dal 1978, i giudici di Lussemburgo hanno statuito che «qualsiasi giudice nazionale adito nell’ambito della propria competenza, ha l’obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario e di tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli disapplicando le disposizioni eventualmente incompatibili della legge interna sia anteriore sia successiva alla norma comunitaria; è quindi incompatibile con le esigenze inerenti alla natura stessa del diritto comunitario qualsiasi disposizione facente parte dell’ordinamento giuridico di uno Stato membro o qualsiasi prassi legislativa, amministrativa o giudiziaria, la quale porti ad una riduzione della concreta efficacia del diritto comunitario per il fatto che sia negato al giudice, competente ad applicare questo diritto, il potere di fare, all’atto stesso di tale applicazione, tutto quanto è necessario per disapplicare le disposizioni legislative nazionali che eventualmente ostino alla piena efficacia delle norme comunitarie» (60) . (59) La direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 10 settembre 2008, Tempi e modalità di effettuazione dell’analisi tecnico-normativa (ATN), recante la disciplina che deve essere contenuta nella relazione che accompagna gli schemi di atti normativi adottati dal Governo ed i regolamenti, ministeriali o interministeriali, ai fini della iscrizione all’ordine del giorno della riunione preparatoria del Consiglio dei Ministri (non diversamente da quanto previsto per le ATN regionali) dà una maggiore enfasi - rispetto alla precedente direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 27 aprile 2000 - al contesto normativo dell’Unione europea. Infatti, la griglia metodologica, che va seguita nella redazione della parte seconda dell’ATN, concerne specificamente: a) l’analisi della compatibilità dell’intervento con gli obblighi posti dall’ordinamento UE; b) la verifica dell’esistenza di procedure d’infrazione aperte dalla Commissione europea sul medesimo o analogo oggetto; c) l’indicazioni delle linee prevalenti della giurisprudenza ovvero della pendenza di giudizi dinanzi alla Corte di giustizia UE sul medesimo o analogo oggetto. (60) CG, Simmenthal, cit., punti 21 e 22; giurisprudenza consolidata: cfr. CG, 28 gennaio 2010, Uniplex, C-406/08, punto 50, in cui la Corte stabilisce che, qualora il giudice ritenga che le disposizioni nazionali non si prestano ad una interpretazione conforme al diritto dell’Unione, è tenuto a disapplicarle al fine di attuare integralmente il diritto dell’Unione e di tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 95 In quest’ordine d’idee - e tuttavia fedele alla propria consolidata impostazione dualista dei rapporti fra ordinamenti - la Corte Costituzionale, dodici anni dopo, ha statuito che «il potere-dovere del giudice di applicare la norma comunitaria anziché quella nazionale (riconosciuto ai giudici dalla sentenza n. 170 del 1984 di questa Corte e delle successive che hanno confermato e sviluppato tale giurisprudenza) non si fonda sulla presunta illegittimità di quest’ultima, bensì sul presupposto che l’ordinamento comunitario è autonomo e distinto da quello interno, con la conseguenza che nelle materie previste dal Trattato C.E.E. la normativa regolatrice è quella emanata dalle istituzioni comunitarie secondo le previsioni del Trattato stesso, fermo beninteso il rispetto dei diritti fondamentali e dei diritti inviolabili della persona umana: di fronte a tale normativa l’ordinamento interno si ritrae e non è più operante» (61) . Come noto, di tale incidenza hanno preso atto tanto il legislatore costituzionale che quello ordinario. Basti rammentare, sul primo versante, l’art. 117, co. 1, Cost., che stabilisce che l’attività legislativa statale e regionale deve rispettare i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario; sul secondo, l’art. 1, co. 1, L. 7 agosto 1990 n. 241, come modificato dall’art. 1 della L. 11 febbraio 2005, n. 15, che sancisce la soggezione dell’attività amministrativa ai «principi dell’ordinamento comunitario». Occorre poi riconoscere che, in progresso di tempo, molteplici settori del diritto interno risultano ormai disciplinati in maniera prevalente a livello di Unione europea, con la conseguente necessità di conformazione dell’ordinamento nazionale. 6. Segue: sue conseguenze quanto alla scelta degli Autori dei commenti Per attirare l’interesse degli operatori giuridici che ambiscano ad essere dei giuristi realmente «europei», è manifesta l’esigenza di fornire loro uno strumento utile, affidabile, aggiornato, approfondito, completo e, naturalmente scritto in modo chiaro e di rapida ed efficace consultazione nella pratica quotidiana. Ciò comporta la necessità di privilegiare un approccio fondato, in particolare, sulla giurisprudenza e sulla prassi delle istituzioni, organi ed organismi dell’Unione europea. Nel contempo, in quest’ottica, le soluzioni avanzate dalla dottrina, lungi dall’essere considerate mere speculazioni teoriche, vanno richiamate al giusto, specie allorché è necessario esaminare profili non oggetto di chiarimenti giurisprudenziali o quando la giurisprudenza è stata sottoposta a critica. Queste premesse lasciano così comprendere le ragioni che hanno giustificato la scelta degli Autori dei commenti agli articoli del TUE e del TFUE. Destinato prevalentemente agli operatori giuridici (ma sicuramente utile anche a chi studia il diritto dell’Unione europea ed indispensabile a chi si prepara agli esami professionali ed ai pubblici concorsi), quest’opera è redatta in (61) Corte Cost., 14 giugno 1990, n. 285, punto 4.2. 96 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 prevalenza da coloro che per mestiere si occupano o si sono occupati quotidianamente del diritto dell’Unione europea, cioè, soprattutto, i giuristi che attualmente lavorano nelle istituzioni europee o che per molti anni vi hanno prestato la loro attività, credendo sempre nelle virtù del processo d’integrazione giuridica dell’Europa, ma conoscendone molto bene anche le manchevolezze. Infatti, dei 99 Autori, ben 60 sono o sono stati funzionari o agenti delle istituzioni, degli organi e degli organismi dell’Unione europea, con una netta prevalenza [29] di referendari o ex referendari delle tre articolazioni giudiziarie della Corte di giustizia dell’Unione europea (62), che non a caso è considerata la «fabbrica» dell’Europa del diritto (63). Rilevante è anche la partecipazione di membri o ex membri dei Servizi giuridici della Commissione europea [12] (64), del Parlamento europeo [2] (65), della Corte dei conti [3] (66) e della Banca europea per gli investimenti [2]. Figurano tra gli Autori, altresì, membri delle commissioni di ricorso dell’Ufficio per l’armonizzazione del mercato interno, marchi, disegni e modelli [1], ex membri delle commissioni di ricorso dell’Ufficio comunitario per le varietà vegetali [1] nonché amministratori presso il Servizio europeo per l’azione esterna [1]. Non mancano, poi, magistrati ordinari [5] e contabili [1], assistenti di studio presso la Corte costituzionale [2] e molto rilevante è altresì il numero di avvocati [23] che esercitano la professione in Italia ed in Europa. Conviene infine segnalare che un alto numero di Autori [69/99] possiede una formazione realmente «europea », cioè acquisita mediante titoli di studio e/o esperienze lavorative maturate fuori del Paese di origine. Pertanto, la caratteristica ed insieme l’originalità dell’opera, rispetto a tutti i modelli italiani e stranieri di analoghi commentari ai Trattati istitutivi dell’Unione europea, sta nell’aver voluto accentuare la finalità di ausilio pratico all’operatore del diritto - propria della collana nella quale il volume è inserito - invertendo il rapporto tra giuristi accademici e giuristi delle istituzioni europee (67). Gli stessi accademici, peraltro, per la maggior parte, hanno avuto (62) Tra gli Autori figurano, altresì, amministratori o ex amministratori della cancelleria della Corte di giustizia (1) o del Tribunale della funzione pubblica (2), o che lavorano o hanno lavorato presso il consigliere giuridico per gli affari amministrativi (1), presso la Direzione Biblioteca, Ricerca e Documentazione (4), presso il Servizio Stampa e Informazione (2), nonché tra le fila dei giuristi linguisti (7). (63) P. MBONGO, A. VAUCHEZ (dirigée par), Dans la fabrique du droit européen. Scènes, acteurs et public de la Cour de justice des Communautés européennes, Bruylant, Bruxelles, 2009. (64) Tra gli Autori figurano anche membri del Gabinetto di Commissari europei (3) ed amministratori o ex amministratori presso il Segretariato generale (4) o presso varie Direzioni generali (16) della Commissione europea. (65) Tra gli autori si contano anche amministratori o ex amministratori presso il Segretariato generale (1) o presso varie Direzioni generali (4) del Parlamento europeo. (66) Occorre aggiungere il membro italiano della Corte dei conti. (67) I giuristi delle istituzioni, organi ed organismi dell’Unione si esprimono, beninteso, a titolo esclusivamente personale ed i loro punti di vista non impegnano in alcun modo le istituzioni di appartenenza o presso le quali hanno prestato la loro attività. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 97 esperienze nelle istituzioni europee e/o esercitano attivamente la professione forense. Vale la pena segnalare, ancora, che questo primo commentario italiano al TUE ed al TFUE, non è opera soltanto di giuristi italiani. Fra gli Autori dei commenti figurano, infatti, giuristi di Belgio, Francia, Germania, Irlanda, Slovenia e Spagna, alcuni dei quali hanno anche scritto direttamente in italiano. La loro partecipazione a questa impresa comune costituisce prova evidente della realtà di quella «Unione di diritto» (68) che i Trattati hanno realizzato, insieme all’avanzata omologazione - pure implicata dal diritto dell’Unione - dei modelli della cultura giuridica europea, in un disegno complessivo finalizzato alla sempre più necessaria coesione ed unità dell’Europa. 7. Ringraziamenti e dedica Quest’opera non avrebbe potuto vedere certamente la luce senza il validissimo contributo di oltre cento persone, tra Autori dei commenti e traduttori dal francese e dall’inglese all’italiano. A ciascuno di loro va il più vivo e sincero ringraziamento di chi scrive per l’adesione al progetto, per la disponibilità a sottrarre alle proprie occupazioni professionali il tempo necessario alla redazione di commenti di notevole qualità scientifica e, soprattutto, per la tolleranza dimostrata nel rispondere alle plurime richieste di aggiornamento in corso d’opera dei contributi, in modo che il volume possa considerarsi tendenzialmente aggiornato all’autunno 2011. Un ringraziamento particolare devo rivolgere a Fabio Pappalardo, che ha assicurato il coordinamento scientifico generale dell’opera. Se è stato possibile concludere quest’opera, così complessa e corposa, a circa tre anni dal suo concepimento, ciò lo si deve alla sua pazienza, alla sua tenacia e, soprattutto, alla sua capacità di intrattenere, con tatto e diplomazia, i rapporti con un numero così elevato di Autori, per di più provenienti da ambienti giuridici nazionali e professionali non omogenei. Ringrazio altresì Daniele P. Domenicucci e Nicola Scafarto, per l’utilissimo aiuto nella ricerca iniziale dei commentatori, in particolare nel mondo degli Studi Legali specializzati nel diritto dell’Unione europea a Bruxelles ed in Italia, nonché per la valida collaborazione (68) Com’è noto - sulla scorta dell’espressione «Rechtgemeinschaft», coniata da W. Hallstein e dal medesimo concettualmente precisata in occasione della conferenza tenuta all’Università di Padova il 12 marzo 1962, v. T. OPPERMAN (Hrsg.), W. HALLSTEIN, Europäische Reden, Stuttgart, 1979, 341-348 - la formula «Comunità di diritto» - nella quale né gli Stati che ne fanno parte, né le sue istituzioni sono sottratti al controllo della conformità dei loro atti alla carta costituzionale di base costituita dal Trattato - è stata utilizzata in giurisprudenza per la prima volta dalla Corte di giustizia nella sentenza 23 aprile 1986, Les Verts/Parlamento, 294/83, punto 23 e ha come principio cardine «l’idea stessa di legalità» (CG, conclusioni dell’avvocato generale Mancini relative alla causa Les Verts/Parlamento, 294/83, par. 7). La formula «Unione di diritto», coniata da J. RIDEAU (L’incertaine montée vers l’Union de droit, De la Communauté de droit à l’Union de droit. Continuités et avatars européens, LGDJ, Paris, 2000, 1) è stata impiegata per primo dall’Avvocato generale Poiares Maduro (CG, conclusioni del 16 dicembre 2004 Spagna/Eurojust, C-160/03, par. 17) ed è stata poi consacrata dalla Corte (CG, 3 settembre 2008, Kadi e Al Barakaat International Foundation/Consiglio e Commissione, C 402/05 P e C 415/05 P, punto 281) successivamente alla firma del Trattato di Lisbona, che sostituisce la Comunità con l’Unione, senza attendere l’entrata in vigore del Trattato. 98 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 nella fase di revisione di una parte dei contributi, José Maria Fernández Martín, per la rilettura dei commenti relativi alla Banca centrale europea e Giacomo Gattinara, per le preziose indicazioni concernenti i giuristi italiani che lavorano presso le istituzioni e gli organi dell’Unione europea a Bruxelles e, in particolare, nelle diverse Direzioni generali della Commissione europea, disposti a collaborare a questa impresa comune. Inoltre, la sperimentata équipe redazionale della Casa Editrice Simone, coordinata da Simonetta Gerli, ha assicurato un editing particolarmente curato e tempi di pubblicazione ragionevoli, tenuto conto della complessità e dimensione dell’opera. Last but not least desidero rivolgere il mio più deferente ringraziamento al Presidente Durão Barroso per aver onorato il volume con la sua prefazione. Sia consentito, infine, dedicare il volume alla memoria dei membri italiani della Corte di giustizia, i quali hanno fortemente contribuito, sia dalla giurisdizione sia dall’Università, ad edificare un’Europa fondata sul diritto e per il diritto. In particolare, caro a chi scrive è il ricordo di coloro che gli sono stati Maestri di scienza e di vita: Riccardo Monaco, Francesco Capotorti e G. Federico Mancini. Il personale impegno di cui quest’opera costituisce il frutto è ampiamente debitore del loro saldo convincimento europeistico, della loro visione dell’unità europea attraverso l’integrazione giuridica e, soprattutto, del loro comune sentire per la democrazia e per l’Europa. Roma, 1° febbraio 2012 CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 99 Osservazioni in merito ai rilievi sollevati dalla Commissione e dal Parlamento dell’Unione europea alla nuova Costituzione ungherese Roberto de Felice*, Francesca Zambuco** SOMMARIO: 1. Procedure d’infrazione - 1.1. Banca centrale - 1.2. Autorità giudiziaria - 1.3. Garante per la protezione dei dati personali - 2. Ulteriori rilievi del Parlamento europeo - 3. Commenti alle procedure d’infrazione - 4. Rilievi ulteriori - 4.1. Preambolo - 4.2. Foundation - 4.3. Freedom and responsibility - 4.4. State - 5. Conclusioni. Il 18 aprile 2011 l’Assemblea della Repubblica Ungherese adottava la Costituzione (1), entrata in vigore il 1° gennaio 2012. Il Parlamento ha approvato il testo con 262 voti a favore e 44 contro (e un’astensione) mentre altri 79 deputati, tutti membri dell’opposizione non si sono presentati in aula per la votazione. I 44 voti contrari sono stati espressi dai deputati del partito di destra Jobbik, sempre facente parte dell’opposizione, mentre gli assenti erano i deputati socialisti (del partito MSZP) e liberali (del partito LMP). Al solo leggere il prolisso Preambolo non vi è dubbio in merito al fatto che la nuova Legge Fondamentale esprima i valori cardine del partito di centrodestra: il Fidesz-Unione Civica Ungherese, che a seguito della crisi del partito Socialista nel 2006 ottenne alle elezioni del 2010 la schiacciante maggioranza del 52,73%, conquistando, grazie ad un premio di maggioranza, due terzi dei seggi in parlamento che gli hanno consentito di modificare la costituzione, è notoriamente un partito conservatore, populista e che proclama il proprio integralismo cristiano. È membro del Partito Popolare Europeo, dell'Unione Democratica Internazionale (conservatori) e dell'Internazionale Democratica Centrista (2). Quanto al testo della nuova Costituzione (105 articoli) da segnalare l’insolita numerazione, diversa per ciascuna delle tre parti: gli articoli della prima parte, sulle fondamenta, sono segnati da una lettera (da A a T); la seconda parte, sui diritti e doveri, (intitolata “Libertà e responsabilità”), porta numeri romani (da I a XXXI) ed infine la terza parte, sull’organizzazione dello stato, ha numeri arabi (da 1 a 54). (*) Avvocato dello Stato. (**) Dottore in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. (1) http://www.google.com/url?sa=t&rct=j&q=hungarian%20fundamental%20law&source=web&cd= 2&sqi=2&ved=0CC4QFjAB&url=http%3A%2F%2Ftasz.hu%2Ffiles%2Ftasz%2Fimce%2Falternative_tran slation_of_the_draft_constituion.pdf&ei=sDR7T4rFF8L_4QT-_4WIBA&usg=AFQjCNHm4glexjwyRHD4ZU8_ 19UUOgCfjw. (2) http://www.forumcostituzionale.it/site/images/stories/pdf/documenti_forum/telescopio/0028_kelemen. pdf. 100 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 Le novità sostanziali sono numerose. La prima che parrebbe tale ovvero il cambio della denominazione ufficiale del Paese che da Repubblica Ungherese diventa semplicemente “Ungheria” in realtà costituisce solo un dato formale in quanto l’articolo B della Costituzione, al secondo comma, stabilisce che “la forma di stato dell’Ungheria è una repubblica”. Diversamente nella parte sui diritti e doveri, oltre alla definizione del matrimonio e alla protezione del feto dal momento del concepimento, è esplicito il riferimento all’ergastolo, senza possibilità di riduzione della pena, che potrà essere comminato soltanto per reati dolosi violenti (articolo IV). Nella disposizione sul principio di uguaglianza (articolo XV) tra le basi di discriminazione viene inclusa anche la disabilità, e l’ultimo comma estende il dovere dello Stato alla protezione degli anziani (oltre che dei bambini, delle donne e delle persone disabili). La riforma del sistema pensionistico, già adottata l’anno scorso, viene introdotta nella Costituzione che prevede un sistema statale unico (articolo XIX). Cambia anche la formulazione dei diritti sociali: in virtù del terzo comma dell’articolo XIX “la legge può determinare la natura e la misura dei provvedimenti sociali adeguandoli all’utilità per la comunità delle attività svolte dalla persona ”. È una novità anche l’introduzione del dovere di “contribuire alla crescita della comunità con attività lavorative secondo le proprie capacità e possibilità” subito dopo la disposizione che sancisce il diritto al lavoro (articolo XII). È stato tra le dichiarate priorità dei redattori della Costituzione bilanciare la presenza dei diritti e dei doveri nella carta fondamentale: basti pensare al quarto comma dell’articolo XIV il quale stabilisce che “i figli maggiorenni sono tenuti a prendersi cura di genitori bisognosi”. Diverse questioni sono lasciate al legislatore che dovrà adottare, sempre con una maggioranza dei due terzi, delle leggi organiche per attuare numerose disposizioni costituzionali. Saranno queste leggi a regolare il sistema pensionistico, il sistema tributario, la tutela del patrimonio nazionale (artt. 38, 40 e 41), la tutela delle famiglie (articolo L), il sistema elettorale, le incompatibilità dei deputati parlamentari, la Banca Centrale Nazionale, la Corte costituzionale (art. 25), il funzionamento dei partiti, la difesa (art. 45), la polizia e i servizi di sicurezza nazionale (art. 46), e così via. 1. Procedure d’infrazione Il Parlamento Europeo ha ritenuto che il processo costituzionale fosse stato poco trasparente e che l’adozione in tempi eccessivamente brevi non avrebbe consentito un completo e sostanziale dibattito pubblico sul progetto di testo. Così, nella risoluzione del 5 luglio 2011, si segnalano la mancata affermazione di una serie di principi che l’Ungheria, in base ai propri obblighi internazionali, deve rispettare e promuovere quali ad esempio il divieto della pena di morte, di discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, ecc. non- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 101 chè la presenza di formulazioni ambigue in ordine a nozioni fondamentali come “famiglia” e “diritto alla vita dal momento del concepimento”. Nonostante i suddetti rilievi la Costituzione è entrata in vigore spingendo la Commissione europea ad avviare tre procedimenti di infrazione nei confronti di un nuovo pacchetto legislativo varato nel quadro della stessa. Le leggi “incriminate” sono relative all’indipendenza della Banca Centrale, alle misure nei confronti dell’autorità giudiziaria ed all’autorità responsabile della protezione dei dati (3). La procedura è ora al suo inizio, con l’invio di tre lettere di messa in mora che lasciano all’Ungheria un mese di tempo per rispondere. Per evidenziare l’eventuale contrasto delle norme con i Trattati occorre analizzare più da vicino cosa prevede la nuova disciplina ungherese e cosa ha rilevato l’UE. Si è detto che le procedure riguardano tre aspetti che pare opportuno valutare separatamente: l’indipendenza della banca centrale nazionale, l’indipendenza dell’autorità giudiziaria e l’indipendenza dell’autorità garante per la protezione dei dati personali. 1.1. Banca centrale La legge sulla Banca centrale ovvero la Magyar Nemzeti Bank (di seguito MNB) prevede che il ministro possa partecipare direttamente alle riunioni del consiglio monetario, che l'agenda delle riunioni stesse venga inviata al governo in anticipo, che le modifiche al regime di remunerazione del governatore siano rese immediatamente applicabili nei confronti del governatore in carica ed infine che il governatore ed i membri del consiglio monetario debbano prestare un giuramento di fedeltà al paese ed ai suoi interessi. Queste norme, ad avviso della Commissione, conferirebbero al governo il potere di influenzare la MNB dall'interno, limiterebbero la possibilità di tenere dibattiti riservati e trasformerebbero le remunerazioni in strumento di pressione nei confronti della Banca. Altre preoccupazioni sollevano poi le regole relative al licenziamento del governatore e dei membri del consiglio monetario potendo anche il Parlamento proporre il licenziamento di uno di questi soggetti. Sotto l’occhio della Commissione anche una disposizione contenuta in Costituzione che disciplina la possibile fusione della MNB con l'autorità di vigilanza finanziaria. In realtà non è la fusione in sé a rappresentare un problema ma l’effetto della stessa ovvero la trasformazione del governatore della MNB in un semplice vicepresidente della nuova struttura a danno della sua indipendenza. Aldilà delle generiche considerazioni sopra riportate per la Commissione le violazioni al diritto primario si sostanziano nel contrasto con l'articolo 130 (3) Comunicato del Presidente Barroso reperibile ai seguenti link: http://europa.eu/rapid/pressReleasesAction. do?reference=IP/12/24&format=HTML&aged=0&language=EN&guiLanguage=fr; http://europa.eu/rapid/pressReleasesAction.do?reference=MEMO/12/17. 102 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 del TFUE, con l'articolo 127, paragrafo 4, del TFUE, con l'articolo 14, paragrafo 2, dello statuto del Sistema europeo di banche centrali e della Banca centrale europea e con l'articolo 4 della decisione del Consiglio 98/415/CE relativo alla consultazione della BCE in tempo utile. In particolare l'articolo 130 del TFUE stabilisce che: "né la Banca centrale europea né una banca centrale nazionale né un membro dei rispettivi organi decisionali possono sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell'Unione, dai governi degli Stati membri né da qualsiasi altro organismo" mentre l'articolo 127, paragrafo 4, del TFUE stabilisce che "La Banca centrale europea viene consultata […] in merito a qualsiasi proposta di atto dell'Unione che rientri nelle sue competenze" e quindi in merito alla riorganizzazione della Banca Ungherese. 1.2. Autorità giudiziaria La seconda infrazione, legata all'autorità giudiziaria, si basa sulla nuova età pensionabile dei giudici e dei pubblici ministeri e fa riferimento alla decisione dell'Ungheria di abbassare l'età pensionabile minima per i giudici, i pubblici ministeri e i notai portandola da 70 a 62 anni (ossia all'età pensionabile generale) dal 1° gennaio 2012. Le norme UE relative alla parità di trattamento in materia di occupazione (direttiva 2000/78/CE) proibiscono la discriminazione sul posto di lavoro in base all'età. Con sentenza del 13 settembre 2011 la Corte di giustizia (C-447/09) ha affermato che se un governo decide di ridurre l'età pensionabile per un gruppo di persone e non per altri, è necessaria una giustificazione oggettiva e proporzionata (4). Tale giustificazione per un trattamento differenziato di giudici e pubblici ministeri rispetto ad altri gruppi non è stata individuata dalla Commissione tanto più che il governo ha già comunicato alla Commissione che intende innalzare l'età pensionabile generale a 65 anni. Senza trascurare l’attuale momento storico in cui l'età pensionabile in tutta l'Europa viene progressivamente innalzata, non abbassata. Sotto il “mirino” della Commissione anche la nuova legge sull'organizzazione dei tribunali in base alla quale il presidente della nuova Corte di giustizia accentra i poteri relativi alla gestione operativa dei tribunali, alle risorse umane, al bilancio e all'assegnazione delle cause. Ad una sola persona vengono rimesse tutte le decisioni in materia di autorità giudiziaria, compresa la nomina dei giudici, senza la salvaguardia della decisione collegiale o simili cautele. (4) Absrtact: “l’art. 6, n. 1, primo comma, della direttiva 2000/78, stabilisce che le disparità di trattamento in ragione dell’età non costituiscono discriminazione qualora siano oggettivamente e ragionevolemente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il perseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari”. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 103 1.3. Garante per la protezione dei dati personali Il terzo ed ultimo procedimento d’infrazione, che riguarda il responsabile del controllo della protezione dei dati, si riferisce alla recente decisione dell'Ungheria di creare una nuova agenzia nazionale per la protezione dei dati destinata, dal 1° gennaio 2012, a sostituire l'attuale autorità responsabile della protezione dei dati. Le prime problematiche riguardano innanzitutto l’anticipata interruzione del mandato di sei anni del garante della protezione dei dati attualmente in carica, nominato nel 2008, la mancata previsione di misure ad interim fino al 2014, ossia fino alla scadenza del mandato dell'attuale garante, ed il potere del primo ministro e del presidente di licenziare arbitrariamente il nuovo responsabile. Ad avviso della Commissione le norme violate sarebbero due: l'articolo 16 del TFUE che garantisce l'indipendenza dei responsabili della protezione dei dati (“Ogni persona ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano. Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, stabiliscono le norme relative alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati di carattere personale da parte delle istituzioni, degli organi e degli organismi dell'Unione, nonché da parte degli Stati membri nell'esercizio di attività che rientrano nel campo di applicazione del diritto dell'Unione, e le norme relative alla libera circolazione di tali dati. Il rispetto di tali norme è soggetto al controllo di autorità indipendenti”) e l'articolo 8 della Carta dei diritti fondamentali a norma del quale “Ogni individuo ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che lo riguardano. Tali dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge. Ogni individuo ha il diritto di accedere ai dati raccolti che lo riguardano e di ottenerne la rettifica. Il rispetto di tali regole è soggetto al controllo di un'autorità indipendente”. Inoltre la direttiva 95/46/CE impone agli Stati membri di istituire un'autorità di controllo incaricata di controllare l'applicazione della direttiva in completa autonomia. La Corte di giustizia nella sentenza C-518/07 del 9 marzo 2010 ha sottolineato che le autorità responsabili del controllo della protezione dei dati devono restare libere da influenze esterne, compresa l'influenza diretta o indiretta dello Stato e la presenza di un rischio di influenza politica esercitata attraverso la vigilanza dello Stato è sufficiente ad ostacolare l'esercizio indipendente dei compiti delle autorità di vigilanza. 2. Ulteriori rilievi del Parlamento europeo Il Parlamento europeo il 16 febbraio 2012 ha adottato una nuova risoluzione dove esprime “grave preoccupazione per la situazione in Ungheria per quanto concerne l'esercizio della democrazia, lo Stato di diritto, il rispetto e la protezione dei diritti umani e sociali, il sistema di controlli e contrappesi, 104 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 l'uguaglianza e la non discriminazione”. Inoltre ha chiesto alla Commissione libertà civili di verificare, insieme alle altre istituzioni europee, se le autorità ungheresi hanno seguito le raccomandazioni della Commissione e del PE e di presentarne i risultati in una relazione ed alla Commissione UE di monitorare attentamente le possibili modifiche e l'attuazione delle controverse leggi ungheresi e verificare la loro compatibilità con i trattati europei. Nella stessa risoluzione i deputati europei hanno chiesto all’Esecutivo di preparare uno studio per verificare: a) la totale indipendenza della magistratura, in particolare garantendo che l'autorità giudiziaria nazionale, il pubblico ministero e i tribunali in genere siano amministrati senza interferenze politiche e che il mandato dei giudici indipendenti non possa essere abbreviato in maniera arbitraria; b) che il regolamento della banca nazionale ungherese rispetti la legislazione europea; c) che l'indipendenza istituzionale della protezione dei dati e della libertà d'informazione sia ripristinata e garantita dalla lettera e dall'attuazione della legge pertinente; d) che il diritto della Corte costituzionale di riesaminare ogni atto legislativo sia pienamente ristabilito, incluso il diritto di rivedere le leggi fiscali e in materia di bilancio; e) che la libertà e il pluralismo dei mezzi d'informazione siano garantiti dalla lettera e dall'attuazione della legge ungherese sui mezzi d'informazione, in particolare per quanto riguarda la partecipazione dei rappresentanti della società civile e dell'opposizione in seno al consiglio dei mezzi d'informazione; f) che la nuova legge elettorale sia conforme alle norme democratiche europee e rispetti il principio dell'alternanza politica; g) che il diritto di esercitare l'opposizione politica in maniera democratica sia garantito tanto all'interno quanto all'esterno delle istituzioni; h) che la legge sulle chiese e sulle confessioni religiose rispetti il principio fondamentale della libertà di coscienza ed eviti di subordinare la registrazione delle chiese all'approvazione della maggioranza di due terzi nel Parlamento ungherese. 3. Commenti alle procedure d’infrazione Un così copioso intervento delle istituzioni europee sul quadro che la Costituzione ungherese e le leggi attuative realizzano è tale da non lasciare dubbi sulla non conformità di tale normativa nazionale con il diritto comunitario e induce a ritenere che sarebbe opportuno spingere il Governo ungherese a rivedere le proprie posizioni. Nel momento in cui l’Ungheria è entrata a far parte dell’Unione europea essa ha deciso non solo di far propri i principi che stanno alla sua base ma anche di far in modo che tali principi trovino concreta attuazione nella legi- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 105 slazione. In questa direzione poteva muoversi la Carta Fondamentale, nel segno di una più organica individuazione delle basi di partecipazione al diritto dell’Ue, laddove invece sembra distaccarsene affermando principi con esso in aperto contrasto o mancando di affermare principi la cui non esplicitazione può lasciar spazio a eclatanti violazioni. Procedendo con ordine, la prima lettera di messa in mora concerne le disposizioni relative alla MNB. Il giustificato timore della Commissione riguarda il danno che dalle nuove norme deriverebbe all’indipendenza della banca centrale. Tale indipendenza viene sancita tanto nel TFUE quanto nello Statuto del Sistema europeo di banche centrali e si atteggia in quattro modi: come indipendenza funzionale, finanziaria, istituzionale e personale. Le nuove leggi intaccano entrambi questi ultimi due aspetti ove consentono vere e proprie intrusioni da parte del governo ungherese (5) nelle riunioni e di conseguenza nelle decisioni della MNB, in violazione degli artt. 127 (6) e 130 TFUE (7), e non forniscono adeguate cautele di permanenza in carica degli organi decisionali, lasciando all’arbitrio del Parlamento, ma in realtà del Governo data la schiacciante maggioranza, l’eventuale licenziamento. L’indipendenza personale è lesa non soltanto tramite la minaccia del licenziamento, tanto del governatore quanto dei membri del consiglio monetario, ma anche mediante lo strumento dell’immediata applicabilità delle modifiche al regime delle remunerazioni. È infatti ovvia la pressione che in questo modo si vuole esercitare sui suoi membri. L’effetto di queste previsioni è allora chiaro: onde evitare ritorsioni il consiglio stesso agirà in via preventiva allineandosi alle posizioni governative. Questo scenario contrasta evidentemente con i Trattati e crea gravi squilibri allorchè la politica della MNB viene di fatto ancorata alla maggioranza parlamentare a danno non solo della sua stabilità e continuità ma con evidenti ripercussioni sull’intero SEBC. Tanto più considerando l’attuale momento di profonda crisi economica mondiale che richiede di non agganciare alle scadenze elettorali l’operato della banca centrale ma al contrario di consentirgli di poter pianificare i propri interventi in piena autonomia ed in tempi lunghi. Quanto alla seconda infrazione, due sono gli aspetti degni di rilievo: l’abbassamento dell’età pensionabile di giudici e pubblici ministeri e la concentrazione della gestione operativa dei tribunali in capo ad unico soggetto ovvero al Presidente della nuova Corte di Giustizia. Sotto il primo profilo è evidente una discriminazione, avallata dalla stessa (5) In particolare del Ministro dell’economia. (6) Articolo 127 paragrafo 4 TFUE: "La Banca centrale europea viene consultata […] in merito a qualsiasi proposta di atto dell'Unione che rientri nelle sue competenze". (7) Articolo 130 TFUE: "né la Banca centrale europea né una banca centrale nazionale né un membro dei rispettivi organi decisionali possono sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell'Unione, dai governi degli Stati membri né da qualsiasi altro organismo". 106 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 Costituzione che all’art. XV manca di indicare l’età come elemento di differenziazione nell’attribuzione dei diritti. Sebbene non si riscontri nei Trattati un riferimento alla discriminazione sul posto di lavoro in base all’età, l’UE ha provveduto con la direttiva 2000/78/Ce che addirittura consente deroghe al divieto ma solo in presenza di giustificazioni oggettive e per il perseguimento di scopi precisi. In particolare ai sensi dell’art. 6 della direttiva gli elementi che annullano il divieto di limiti di età sono una finalità legittima e l’adozione di mezzi appropriati e necessari. Nessuno di questi requisiti si riscontra nella normativa ungherese. Di recente tra l’altro nella sent. C-447/09 la CGE ha avuto modo di ribadire tale divieto ricordando che il considerando 25 della direttiva legittima eventuali disparità di trattamento giustificate “da obiettivi legittimi di politica dell’occupazione, mercato del lavoro e formazione professionale”. Oltre alla direttiva il divieto di discriminazione fondata sull’età è sancito, seppure non esplicitamente, dall’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue che dal 2009 ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Da quanto detto pare dunque evidente che la norma piuttosto che mirare ad una razionalizzazione del sistema giudiziario miri piuttosto ad anticipare il pensionamento di una categoria di giudici poco gradita alla nuova compagine governativa. Se poi si legge tale riforma in combinato con l’ingiustificata concentrazione in capo ad un unico soggetto di tutta la gestione in materia di autorità giudiziaria i tentativi di ingerenza sono ancora più evidenti. Infatti quello che diventerebbe l’unico soggetto decisore è membro del supremo organo giudicante ungherese, la Corte suprema, i cui giudici sono eletti proprio dal Parlamento. Si va in questo modo non soltanto a porre in essere una normativa discriminatoria ma a violare uno dei principi cardine dello Stato di diritto ovvero quello della separazione dei poteri. Sostanzialmente si rimette la giurisdizione ad un unico soggetto che di fatto dipende dal Governo. L’ultima violazione concerne il garante per la protezione dei dati. In questo caso c’è sia violazione del diritto primario, in particolare dell’art. 16 TFUE e dell’art. 8 della Carta dei diritti fondamentali, che del diritto derivato ovvero della direttiva 95/46/CE. Anche in tale ipotesi il punto cruciale si risolve nei poteri di ingerenza che vengono attribuiti al governo laddove il primo ministro può arbitrariamente licenziare il nuovo responsabile. Come nell’ipotesi della banca centrale un simile potere permette di influenzare dall’interno il garante onde costringerlo ad adottare i provvedimenti più graditi al governo per evitare il licenziamento. Operazione resa ancor più semplice dalla sostituzione dell’autorità attuale, con anticipazione della scadenza del mandato precedente, con un’autorità che sarà evidentemente più vicina al governo stesso. Infatti se già la sola vigilanza dello stato sarebbe sufficiente ad ostacolare l’esercizio indipendente delle funzioni, come ha avuto modo di affermare la Corte di Giustizia, a maggior ragione la minaccia del licenziamento attribuirà al Governo un potere inibitorio e di indirizzo. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 107 4. Rilievi ulteriori Espressa la piena condivisione per le preoccupazioni sollevate dal parlamento e per le procedure di infrazione intentate già si è anticipato come molte altre questioni sollevano non pochi dubbi in merito alla compatibilità con il diritto europeo e con il quadro di valori ad esso ispirato. Per rendere più agevole la ricostruzione dei profili problematici pare opportuno seguire la linea adottata dalla Commissione di Venezia che ha giustamente effettuato le proprie considerazioni seguendo lo stesso ordine della Costituzione (8). 4.1. Preambolo Nel “National avowal” ovvero nel preambolo ci sono una serie di dichiarazioni preoccupanti soprattutto alla luce dell’art. R (9) il quale prevede che le disposizioni costituzionali vadano interpretate anche alla luce di esso. Già l’esordio per cui la Costituzione è scritta in nome di “NOI MEMBRI DELLA NAZIONE UNGHERESE” pone dei problemi per il mancato riferimento ai cittadini del paese nel suo complesso e quindi per la distinzione che viene posta tra la nazione ungherese e le altre nazionalità che vivono in Ungheria. Data la nota funzione politica dei preamboli, oltre al ruolo di affermazione del valore che al testo costituzionale vuole attribuirsi, è necessario che uno dei punti ai quali il legislatore costituzionale presti la giusta attenzione sia il principio di amichevoli relazioni con i Paesi vicini. Tuttavia ove tale affermazione manchi e si intenda la nazione ungherese in senso ampio come comprensiva degli ungheresi che vivono in altri stati (assunto confermato dalla lettura dell’art. D che afferma la responsabilità dell’Ungheria per la sorte degli ungheresi che vivono oltre i suoi confini) con conseguente attribuzione della sovranità anche al di fuori del proprio territorio c’è il rischio di ostacolare le relazioni interstatali oltre che creare tensioni interetniche. Né a superare l’ostacolo vale la troppo generica affermazione per cui “le nazionalità che vivono con noi fanno parte della comunità politica e sono parti costitutive dello Stato”, dato l’esordio che non utilizza la più ampia formula di “cittadini” ma si riferisce ai “membri della nazione ungherese”. A superare queste obiezioni sarebbe stato sufficiente una maggiore specificità che tuttavia manca, come si evidenzierà nel corso della trattazione. Proseguendo nella lettura della dichiarazione iniziale si legge che “il Cristianesimo ha un ruolo determinante nel mantenimento della Nazione ”(10). Tale affermazione è altrettanto preoccupante e pone le basi per una eventuale (8) http://www.venice.coe.int/docs/2011/CDL-AD(2011)016-e.pdf. (9) Art. R (3) “The provisions of the Fundamental Law shall be interpreted in accordance with their purposes, the National Avowal and the achievements of our historical constitution”. (10) “We recognise the role of Christianity in perserving nationhood”. 108 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 discriminazione fondata sulla religione, seppure poi l’art. XV ponga un divieto in tal senso. Infatti ove si attribuisce solo al Cristianesimo una capacità unificante implicitamente si afferma che religioni diverse potrebbero costituire elementi disgreganti dell’unità nazionale. Le vere e proprie disposizioni costituzionali sono suddivise in tre parti, che pare opportuno analizzare separatamente, rispettivamente rubricate: “Foundation”, “Freedom and Responsibility” e “The State”. 4.2. Foundation Nel primo corpus immediatamente degno di nota è il sopra citato articolo D (11). L’affermazione di responsabilità dell’Ungheria per gli ungheresi che vivono oltre i suoi confini tocca un problema molto delicato quale quello della sovranità degli Stati. L’assunto è troppo generico e l’utilizzo del termine “responsibility” è pericoloso in quanto può essere interpretato nel senso di autorizzare l’intervento delle autorità ungheresi nei confronti di persone di origine ungherese ma cittadini di altri Stati. La conseguenza è evidente ovvero il rischio di conflitti di competenze con le autorità del Paese interessato. Tanto più che tale azione è molto incisiva in quanto comprende il sostegno alla “creazione di Comunità auto-governo” o l’affermazione di “diritti individuali e collettivi”. A lenire la portata fortemente preoccupante della norma potrebbe intervenire la legislazione attuativa di un’altra disposizione della stessa parte ovvero l’art. Q. Infatti ai sensi del terzo comma di detta disposizione “l’Ungheria accetta le regole di diritto internazionale generalmente riconosciute” e si impegna a far diventare altre fonti del diritto internazionale parte del sistema legale ungherese mediante legge. Ebbene su questo punto sarebbe allora opportuno intervenire in via preliminare ovvero sulla legislazione futura onde evitare di creare tensioni non soltanto con l’Unione europea ma con l’intera comunità internazionale. Un’attenzione, seppur limitata, merita l’articolo H (12) che regola la protezione della lingua ungherese come lingua ufficiale del Paese senza prevedere una garanzia costituzionale di protezione delle lingue delle minoranze nazionali. Tuttavia una tutela implicita potrebbe ricavarsi dall’articolo XXIX che garantisce il diritto all’uso di tali lingue da cui un obbligo per lo Stato di tutelarle e sostenerne la conservazione e lo sviluppo. (11) Articolo D: “Bearing in mind that there iso ne single Hungarian nation that belongs together, Hungary shall bear responsibility for the fate of Hungarians living beyond its borders, and shall facilitate the survival and development of their communities; it shall support their efforts to preserve their Hungarian identity, the assertion of their individual and collective rights, the establishment of their community self- governments, and their prosperity in their native lands, and shall promote their cooperation with each other and with Hungary”. (12) Articolo H: “In Hungary the official language shall be Hungarian. Hungary shall protect the Hungarian language. Hungary shall protect Hungarian Sign Language as a part of Hungarian culture ”. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 109 Più preoccupante l’articolo L (13) che protegge il matrimonio esclusivamente come unione di un uomo e di una donna e ritiene la famiglia la base della sopravvivenza della nazione, incoraggiando pertanto ad avere figli. Nonostante su questa disposizione la Commissione di Venezia si sia pronunciata molto blandamente, in assenza di un consensus europeo disciplinante l’istituto del matrimonio, è necessario formulare delle osservazioni. Infatti la norma previene qualsiasi riconoscimento futuro alle coppie dello stesso sesso. Benché in Ungheria sia vigente una normativa sulle coppie di fatto (14) in costituzione manca una norma antidiscriminatoria dell’orientamento sessuale. Tanto più che la disposizione attribuisce, da un punto di vista assiologico, un valore alla famiglia che va ben al di là della sua portata: si nega non solo agli omosessuali ma a chiunque non abbia contratto matrimonio un ruolo nella sopravvivenza della nazione. Sicuramente la famiglia va tutelata e protetta e nulla osta a che uno Stato adotti politiche incentivanti all’ampliamento del nucleo familiare. Tuttavia la famiglia quale che sia il suo regime non è concepibile come una “incubatrice” di cittadini quanto piuttosto come sede di sviluppo della persona umana. Una visione diversa non può che definirsi autoritaria. Inoltre nessuna concezione della famiglia può escludere il ruolo che ciascuno, indipendentemente dal matrimonio, ha nel mantenimento o, per utilizzare il termine della Costituzione, nella sopravvivenza della nazione. Il mancato riconoscimento di tale eguale dignità già da solo costituisce fonte di grande discriminazione. Proprio sul punto nella recente risoluzione del 13 marzo 2012 sulla parità tra donne e uomini nell’Unione europea (15) il parlamento al paragrafo 7 espressamente “si rammarica dell’adozione da parte di alcuni Stati membri di definizioni restrittive di con lo scopo di negare la tutela giuridica alle coppie dello stesso sesso e ai loro figli; ricorda che il diritto dell’UE viene applicato senza discriminazione sulla base di sesso o orientamento sessuale, in conformità della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ”. Qualche perplessità suscita anche il terzo comma dell’articolo N (16) ove alla Corte Costituzionale è imposto di rispettare il principio di cui al primo comma ovvero di “gestione del bilancio equilibrata, trasparente e sostenibile”. Le perplessità (13) Articolo L: “Hungary shall protect the institution of marriage as the union of a man and a woman established by voluntary decision, and the family as the basis of the nation’s survival. Hungary shall encourage the commitment to have children…”. (14) Nel 2009 è stata approvata dal Parlamento Ungherese la legge sulle "bejegyzett élettársi kapcsolat" (letteralmente unioni domestiche registrate) entrata in vigore nel luglio 2009. Le principali differenze rispetto al matrimonio risiedono nell’impossibilità per i conviventi di scegliere un cognome comune, di avvalersi del diritto di adozione congiunta o adozione dei figli del convivente e nel divieto di valersi di tecniche di procreazione medicalmente assistita. (15) www.europarl.europa.eu/sides/getDoc?/pubRef. (16) Articolo N, comma 1 e 3: “Hungary shall enforce the principle of balanced, transparent and sustainable budget management….In the course of performing their duties, the Constitutional Court, courts, local governments and other state organs shall be obliged to respect the principle set out in Paragraph (1)”. 110 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 derivano dal fatto che tale norma pare attribuire alla gestione del bilancio una priorità rispetto a quello che invece deve essere il ruolo primario della Corte Costituzionale ossia quello di valutare i vari interessi in gioco in caso di violazione di diritti fondamentali. È principio ormai consolidato quello per cui in nessun caso le ragioni finanziarie, che pure possono essere utilizzate nell’interpretazione ed applicazione delle norme, possono essere di tale importanza da consentire di superare le garanzie costituzionali. Di conseguenza la Corte non può essere distolta dal suo compito di esaminare un atto eventualmente invalidandolo a danno del principio di cui sopra se esso viola la Costituzione. 4.3. Freedom and responsibility Il secondo blocco, “Freedom and responsibility” adotta una numerazione diversa e comprende gli articoli dall’ I al XXXI. Subito va segnalato che tale capitolo contiene disposizioni di diversa natura giuridica in quanto passa dai principi e diritti fondamentali a cc.dd. diritti sociali ed alle responsabilità. Inoltre i diritti fondamentali non sono limitati agli individui ma anche alle “communities”( 17). Questa circostanza accompagnata alla indeterminatezza di molti dei termini utilizzati attribuisce alle leggi speciali (18), che di fatto detteranno le norme per i diritti e doveri, eccessivi margini di discrezionalità con il rischio di erodere il contenuto di queste garanzie. Questo problema non è di poco conto se si considera che il contenuto dei diritti fondamentali è una questione costituzionale per eccellenza. Già l’articolo I (19) contiene formulazioni troppo generiche ove al terzo comma afferma che un diritto fondamentale può essere ristretto per tutelarne un altro altrettanto fondamentale o difendere un valore costituzionale. Tale disposizione consente una ingiustificata limitazione per il perseguimento di un obiettivo non meglio specificato senza fissare limiti di contenuto e temporali a tale restrizione, e soprattutto senza individuare un nucleo di diritti che per loro natura non possono in alcun modo essere sospesi, nemmeno temporaneamente. L’articolo II prevede, oltre alla inviolabilità della dignità umana ed al diritto alla vita ed alla dignità altresì la tutela della vita del feto dal momento del concepimento. Questa disposizione pare gettare le basi per una più generalizzata restrizione del ricorso all’aborto, con la modifica dell’attuale disciplina, se non addirittura per un divieto. Tuttavia onde scongiurare un simile rischio, al di là delle concezioni morali o religiose relative all’aborto, c’è da considerare che lo Stato oltre a dover tutelare la vita del feto deve proteggere (17) Articolo I, comma 2. (18) Articolo I, comma 4. (19) Articolo I comma 3: “The rules for fundamental rights and obligations shall be determined by special acts. A fundamental right may be restricted to allow the exercise of another fundamental right or to defend any constitutional value to the extent absolutely necessary, in proportion to the desired goal and in the respect of the essential content of such fundamental right ”. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 111 l’integrità fisica della madre per la quale l’aborto può non essere una scelta se a repentaglio è la sua stessa vita. Negando tale possibilità alla madre si considera la vita del futuro nascituro un bene superiore rispetto alla vita della madre. Suscita qualche perplessità l’articolo IV, ove prevede la condanna all’ergastolo senza possibilità di riduzioni di pena, in relazione all’art. 3 della CEDU (20). La Corte Europea dei diritti dell’uomo ha recentemente avuto modo di affermare (21) che l’imposizione di una condanna all’ergastolo non è di per sé proibita o incompatibile con l’art. 3 o altra disposizione della Cedu qualora il diritto nazionale offra una possibilità di revisione della pena e quindi la condanna sia de facto e de iure riducibile. Tale previsione manca nel secondo comma dell’articolo in esame. L’articolo VII sancisce al primo comma il diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione; al secondo da un lato afferma che Stato e chiese sono separate e che le Chiese sono autonome, ma dall’altro dispone che lo Stato cooperi con la Chiesa per il perseguimento di obiettivi comuni. A garantire le libertà in questione provvede l’articolo 9 CEDU che si applica non solo agli individui ma anche alle chiese ed alle comunità religiose. Secondo la Corte europea in questo quadro lo Stato deve agire in modo neutrale ed imparziale nell’organizzazione delle diverse credenze religiose onde mantenere la sicurezza pubblica, l’armonia religiosa e la tolleranza. A questo scopo essenziale per uno Stato di diritto è la separazione tra Stato e Chiesa. Nella norma analizzata tale separazione è apoditticamente affermata, ma a questo assunto segue poi la previsione di una cooperazione con la Chiesa per il perseguimento di specifici obiettivi la cui determinazione non risulta nè in Costituzione né è rimessa a leggi successive (22). A tale mancata specificazione occorre supplire onde evitare che il richiamo alla religione venga utilizzato per dar corso a discriminazioni fondate sulla stessa. L’articolo IX (23) pone problemi in quanto le libertà di stampa e di espressione non sono formulate come diritto di un individuo ma come un obbligo dello Stato. In questo modo tali libertà vengono di fatto a dipendere dalla volontà dello Stato con conseguenze in ordine alla sostanza ed alla qualità della tutela ed alle possibilità di successo giurisdizionale nei casi violazione della norma. Tale ricostruzione non è accettabile: la libertà di espressione costituisce (20) Art. 3 CEDU: “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. (21) Sentenza del 12 febbraio 2008 n. 21906/04, Kafkaris c. Cipro. (22) Si parla di Cardinal act solo con riferimento alle regole applicabili alle chiese non anche agli obiettivi che queste devono perseguire insieme allo Stato. (23) Articolo IX: “Every person shall have the right to express his or her opinion. Hungary shall recognise and defend the freedom and diversity of the press, and shall ensure the conditions for free dissemination of information necessary for the formation of democratic public opinion. The detailed rules for the freedom of the press and the organ supervising media services, press products and the infocommunications market shall be regulated by a cardinal Act”. 112 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 uno dei fondamenti essenziali di una società democratica ed il rispetto del pluralismo deve valere non soltanto per le informazioni o le idee accolte con favore o considerate come inoffensive, ma anche per quelle che urtano lo Stato o una frazione qualunque della popolazione (24); anzi la libertà di critica politica rivolta ai pubblici poteri è così essenziale in una democrazia che quando sono in discussione questioni di interesse generale la critica può assumere anche toni molto aspri e aggressivi senza che sia possibile alcuna restrizione (25). Nel caso di specie il problema è poi ancor più acuito dal fatto che la disciplina di dettaglio e le modalità di vigilanza sul rispetto di tali “diritti” vengono rimesse ad un cardinal Act senza illustrare le finalità, i contenuti e le eventuali limitazioni di tale legislazione attuativa. L’articolo XV manca di specificità, al pari di molte disposizioni che lo precedono, ove afferma parità di trattamento senza discriminazione basata sulla razza, il colore, il sesso, la disabilità, la lingua, la religione, le opinioni politiche o di altro genere, l’origine nazionale o sociale, finanziaria, di nascita o su altre circostanze. Oltre alla genericità manca anche un elemento: il divieto di discriminazione fondata sull’orientamento sessuale. Tale carenza è ancor più grave se considerata alla luce dell’art. L che nega dignità costituzionale alle unioni tra soggetti dello stesso sesso, né all’individuo in quanto tale attribuisce un ruolo essenziale nella sopravvivenza della nazione. Conseguentemente questi soggetti non riceverebbero protezione né come individui singolarmente considerati né come coppie. Il tutto in contrasto con il TFUE, in particolare con l’art. 19 (26), con varie fonti di diritto europeo secondario che esplicitamente tutelano contro discriminazioni basate sull’orientamento sessuale (27) e con l’art. 21 (28) della Carta di Nizza. (24) CEDU, sent. 7 dicembre 1976, Handyside c. Regno Unito. (25) CEDU, sent. 27 febbraio 1995, Vogt c. Germania; CEDU sent. 8 luglio 1999, Baskaya e Okçuoglu c. Turchia. (26) Art. 19 TFUE: “1. Without prejudice to the other provisions of the Treaties and within the limits of the powers conferred by them upon the Union, the Council, acting unanimously in accordance with a special legislative procedure and after obtaining the consent of the European Parliament, may take appropriate action to combat discrimination based on sex, racial or ethnic origin, religion or belief, disability, age or sexual orientation. 2. By way of derogation from paragraph 1, the European Parliament and the Council, acting in accordance with the ordinary legislative procedure, may adopt the basic principles of Union incentive measures, excluding any harmonisation of the laws and regulations of the Member States, to support action taken by the Member States in order to contribute to the achievement of the objectives referred to in paragraph 1”. (27) Direttiva 2000/78/CE sulla parità di occupazione. (28) Art. 21: “1. È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali. 2. Nell'ambito d'applicazione del trattato che istituisce la Comunità europea e del trattato sull'Unione europea è vietata qualsiasi discriminazione fondata sulla cittadinanza, fatte salve le disposizioni particolari contenute nei trattati stessi”. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 113 4.4. State La terza ed ultima parte, riferita allo Stato, prevede una numerazione ulteriormente diversa con gli articoli dall’1 al 54. Nonostante il cambiamento di denominazione del paese da Repubblica Ungherese ad Ungheria, la nuova costituzione mantiene la forma repubblicana. Sono tuttavia fonte di preoccupazione tanto l’indebolimento dei poteri della maggioranza parlamentare quanto della posizione della Corte Costituzionale. Inoltre le disposizioni contenute in questa parte, come nelle precedenti, sono molto generiche con la conseguenza che la legislazione successiva potrebbe approntare cambiamenti radicali. Quanto alla Corte Costituzionale subito viene in rilievo l’art. 24 che non ne disciplina in dettaglio organizzazione, mandato e funzionamento lasciando ad un Cardinal Act la suddetta disciplina, come il compito di definire la portata delle sue competenze e delle relative norme e procedure, sebbene qualche riferimento si rinvenga all’art. N. Oltre a questa lacunosità una certa limitazione delle competenze si ricava dalla lettura delle disposizioni successive soprattutto quanto al controllo in materia di bilancio e tasse, come meglio specificato di seguito. Gli articoli da 25 a 28 si occupano delle Corti stabilendo anche in questo caso un quadro molto generale per il funzionamento del sistema giudiziario e rimettendo ancora una volta ad un cardinal Act la definizione tanto delle “modalità di organizzazione e amministrazione dei tribunali ” quanto dello “stato giuridico e [del]la remunerazione dei giudici”. L’articolo 25 disciplina il sistema dei tribunali affermando che la magistratura debba avere un’organizzazione multi-livello (29), senza tuttavia specificare cosa debba intendersi con questa espressione nè se i tribunali esistenti verranno mantenuti. Mancando inoltre qualsiasi riferimento al Consiglio nazionale della magistratura non è chiaro se questo organo continuerà ad esistere. L’articolo 26 stabilisce che i singoli magistrati siano indipendenti e subordinati solo alla legge ma manca una dichiarazione esplicita per cui gli stessi costituiscono un corpo separato e indipendente, dichiarazione necessaria alla luce del principio di separazione dei poteri sancito nella stessa Costituzione all’articolo C. Ai sensi del comma 2 della disposizione in esame l’età pensionabile generale viene applicata anche ai giudici, il che pone problemi sia alla luce dei principi fondamentali di indipendenza e inamovibilità dei giudici che alla luce del principio di continuità e sicurezza giuridica in quanto la riforma porterà al pre-pensionamento di circa 300 giudici entro un anno con una evidente compromissione della capacità operativa dei tribunali. Qualche perplessità suscita anche il successivo articolo 27 alla luce delle norme europee relative allo status dei giudici ove, al comma 3, dà la possibilità ai segretari giudiziari, in specifici casi, di esercitare le competenze dei giudici (29) Art. 25 co. 4: “The judiciary shall have a multi- level organization…”. 114 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 unici soggetti all’art. 26. Il problema deriva dalla necessità che vengano fissati tanto i requisiti necessari ad adempiere a tali funzioni giurisdizionali quanto le condizioni che dovrebbero garantire indipendenza, competenza e imparzialità dei giudici. Terminata l’analisi della disciplina delle “Courts” degno di nota è l’articolo 30 il quale prevede la sostituzione da parte di un unico commissario per i diritti fondamentali dei precedenti quattro commissari parlamentari specializzati. Il suo compito principale è quello di “proteggere i diritti fondamentali”. Tuttavia rientra tra i diritti fondamentali anche il diritto alla protezione dei dati personali che la costituzione affida ad un’autorità indipendente (30) di cui non sono specificati nè competenze né funzionamento senza peraltro la rimessione di tale determinazione ad un futuro atto legislativo. Se è vero che gli stati membri godono di un certo margine di discrezionalità nel recepimento degli accordi internazionali è altrettanto vero che una volta instaurato un certo livello di garanzie per la tutela e promozione dei diritti fondamentali tale livello non può essere abbassato, conseguenza che potrebbe verificarsi a seguito della diminuzione di istituzioni a ciò deputate. Gli articoli dal 31 al 35 disciplinano i governi locali. L’art. 31 pur disponendo che i governi locali sono incaricati di amministrare i pubblici affari ed esercitare il potere pubblico a livello locale manca di menzionare il principio di autogoverno locale in contrasto con il CEAL ovvero la Carta Europea delle autonomie locali. Tale atto esige il rispetto di un numero minimo di principi tra cui quello dell’autonomia locale cui si affiancano i principi di sussidiarietà, di autonomia finanziaria, di adeguatezza tra risorse e competenze e di tutela giuridica delle autonomie stesse (31). Sempre problemi di compatibilità con il Ceal (32) pone l’articolo successivo ove in materia di controllo sulle attività dei governi locali non distingue tra le competenze proprie delle autorità locali e quelle delegate dal governo centrale né tra il controllo di legittimità sulle attività e la supervisione sulla convenienza delle loro decisioni. Da ultimo l’articolo 35 (33) consente lo scioglimento da parte del Parlamento degli organi elettivi locali a fronte di una violazione della Costituzione (30) Art. VI, comma 3. (31) Articolo 2 Ceal: “The principle of local self-government shall be recognised in domestic legislation, and where practicable in the constitution”. (32) Art. 8: “Any administrative supervision of local authorities may only be exercised according to such procedures and in such cases as are provided for by the constitution or by statute. Any administrative supervision of the activities of the local authorities shall normally aim only at ensuring compliance with the law and with constitutional principles. Administrative supervision may however be exercised with regard to expediency by higher-level authorities in respect of tasks the execution of which is delegated to local authorities. Administrative supervision of local authorities shall be exercised in such a way as to ensure that the intervention of the controlling authority is kept in proportion to the importance of the interests which it is intended to protect ”. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 115 senza una decisione vincolante di un tribunale e attribuendo alla Corte Costituzionale un ruolo meramente consultivo. Gli articoli da 36 a 45 sono dedicati alla finanza pubblica, con lo scopo specifico di migliorare le finanze dello Stato. Nessuna obiezione può essere mossa alle disposizioni costituzionali miranti a mantenere il disavanzo dello Stato sotto il 50% del Pil. Tuttavia questo obiettivo non può minare valori costituzionali altrettanto fondamentali impedendo alla Corte Costituzionale uno scrutinio su atti eventualmente lesivi di diritti fondamentali. In tal senso significativa è la disposizione di cui al comma 4 dell’art. 37 che pone una grave limitazione alle competenze della Corte, affermando che il suo potere di riesame si limita a campi specificatamente elencati. Tale limitazione crea l’impressione che il mantenimento del disavanzo al di sotto della soglia sopra indicata sia un obiettivo talmente importante da giustificare anche il ricorso a leggi incostituzionali. Se è vero che in questa materia gli Stati membri godono di ampi margini di discrezionalità è altrettanto vero che tale discrezionalità non è illimitata ed è specifico compito del legislatore trovare un giusto equilibrio tra le esigenze di tutela del generale interesse pubblico e le esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’individuo non imponendo a quest’ultimo oneri eccessivi e sproporzionati. Pertanto negli Stati che hanno istituito una Corte Costituzionale è essenziale consentire a tale Corte di valutare la conformità di tutte le leggi con i diritti umani costituzionalmente garantiti senza alcuna distinzione in relazione all’oggetto della legge stessa. L’articolo 44 si occupa del Consiglio di bilancio, le cui competenze hanno un impatto significativo sull’adozione del bilancio dello Stato e sul relativo potere del Parlamento, costituendo il bilancio uno degli strumenti principali attraverso cui la maggioranza parlamentare esprime ed attua il suo programma politico. L’adozione del bilancio dello Stato è notoriamente competenza esclusiva del Parlamento e subordinarne l’adozione al consenso di un organo quale il Consiglio di bilancio, con limitata legittimità democratica, in quanto nessuno dei suoi membri è eletto direttamente, è soluzione molto problematica. Essa infatti va a ripercuotersi negativamente sulla legittimità democratica delle decisioni di bilancio, tanto più che sulle stesse la Corte Costituzionale non può esercitare appieno il proprio sindacato. Gli articoli 45 e 46 che statuiscono sulle forze di difesa, sulla polizia e sui servizi di sicurezza nazionale, non pongono problemi particolari. Al contrario sollevano molti dubbi e perplessità le disposizioni successive, dalla 48 alla 54 ricomprese sotto la formula “Special legal orders” che dettano “Common rules for the state of National crisis and the state of emer- (33) Art. 35 co. 5: “Parliament may dissolve any local representative body which violates the Fundamental Law at the proposal of the Government after consultation with the Constitutional Court ”. 116 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 gency”. Queste disposizioni sono dettate per situazioni in cui non è possibile il normale funzionamento degli organi dello Stato e pertanto si dà vita a speciali ordinamenti giuridici ove vengono adottate misure straordinarie. Peraltro un preludio ad un simile corpus di norme già si desumeva dalla previsione di cui all’art. I comma 3 ove si affermava che “un diritto fondamentale può essere limitato per consentire l’esercizio di un altro diritto fondamentale, o per difendere un valore costituzionale nella misura in cui sia assolutamente necessario, in proporzione all’obiettivo desiderato …”. Innanzitutto l’impressione che si ricava è quella di uno Stato sotto assedio con la previsione di ben cinque ipotesi di stati straordinari quali lo stato di crisi nazionale, lo stato di emergenza, lo stato di difesa preventiva, gli attacchi inaspettati e lo stato di estremo pericolo. Inoltre la disciplina di questi ordinamenti speciali non è limitata a quanto fissato in Costituzione ma deve meglio essere specificata dalla legislazione successiva come disposto al comma 4 dell’art. 54, che ben potrebbe ampliare le ipotesi di ricorso a misure eccezionali. Proprio l’art. 54 è la disposizione più problematica ove afferma che al verificarsi di una di queste ipotesi si può restringere se non addirittura sospendere l’esercizio di un diritto fondamentale. Gli unici diritti che mai possono essere sospesi sono quelli di cui agli artt. II-III e XXVIII (solo commi 2 e 5) e quindi, in sintesi, il diritto alla dignità umana, il diritto a non essere soggetto a trattamenti inumani e degradanti ed il diritto a non essere considerati colpevoli di un reato fino ad una sentenza che ne accerti la commissione. Ebbene risulta evidente la gamma di diritti altrettanto fondamentali che al sorgere di uno stato di necessità possono essere sospesi quali il diritto alla libertà ed alla sicurezza personale di cui all’art. IV, la libertà di espressione e di stampa ex art. IX e soprattutto il diritto ad un eguale trattamento di fronte alla legge senza discriminazione, espressione del più generale principio di uguaglianza, sancito già in modo assai limitato dall’art. XV. L’esclusione di tali diritti fondamentali dalla sospensione risulta inaccettabile in quanto nessuna situazione straordinaria può giustificarla. Nel caso di specie poi la situazione è resa ancor più grave dalla mancata specificazione delle condizioni al ricorrere delle quali, di vera emergenza si possa parlare, lasciando anche tale determinazione alla legislazione attuativa. Occorre dunque analizzare la compatibilità dell’articolo 54 con la CEDU. L’articolo 15 (34) della Convenzione consente a ciascuno stato membro di adottare misure derogatorie a taluni obblighi della convenzione a fronte di particolari condizioni che minaccino la vita della nazione. Una norma analoga è prevista nell’art. 4 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 che dovrebbe vincolare la generalità degli stati membri dell’ONU. Tuttavia la giurisprudenza della Corte di Strasburgo nel tempo ha tentato, sulla base di ricorsi individuali pervenuti da soggetti che subirono lesioni ai CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 117 loro diritti fondamentali in applicazione delle norme nazionali derogatorie, di individuare un “nucleo duro” di principi fondamentali e libertà costituzionalmente garantite che devono essere comunque assicurate, anche durante gli stati di eccezione, in qualsiasi forma di Stato democratico. Innanzitutto l’interpretazione dell’articolo 15 deve essere fortemente restrittiva (35) e cioè alludere a situazioni di una gravità eccezionale tale da autorizzare non delle semplici limitazioni, ma delle deroghe alle norme poste a tutela dei diritti fondamentali. Ciò in relazione agli articoli da 8 a 11 che già consentono restrizioni a taluni diritti fondamentali in caso di pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza. In sostanza i provvedimenti adottati non dovrebbero avere una finalità di mera prevenzione dell’aggravamento di una situazione in atto, ma soltanto quella di rimediare ad un pericolo attuale o comunque imminente e concreto e di intensità tale da minacciare tutta la popolazione. Chiaramente la valutazione circa la sussistenza di un pericolo pubblico che minacci la vita di una nazione e di quali siano le misure necessarie per affrontare in concreto la situazione è lasciata dalla Corte al margine di apprezzamento degli Stati, i quali tuttavia allorché si vogliano avvalere dell’art. 15 CEDU devono rispettare una determinata procedura di comunicazione relativa al contenuto delle misure prese ed ai motivi che le hanno imposte. Quanto al “nucleo duro” dei diritti inviolabili l’articolo 15 da un lato configura uno standard minimo e dall’altro implicitamente consente di sindacare sul rispetto di eventuali altri e più penetranti ed inderogabili obblighi internazionali. Ne deriva che ad essere inderogabili non sono soltanto il diritto alla vita, il divieto di tortura, il divieto di schiavitù e i principi di tassatività ed irretroattività della legge penale, indicati all’art. 15, ma anche l’abolizione della pena di morte (36), il diritto di non essere punito o giudicato due volte (37), il diritto alla personalità giuridica (38), la libertà di pensiero, coscienza e religione (39), il divieto di privare un individuo della libertà a causa di un ina- (34) Articolo 15 CEDU: “1. In caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione, ogni Alta Parte contraente può adottare delle misure in deroga agli obblighi previsti dalla presente Convenzione, nella stretta misura in cui la situazione lo richieda e a condizione che tali misure non siano in conflitto con gli altri obblighi derivanti dal diritto internazionale. 2. La disposizione precedente non autorizza alcuna deroga all’articolo 2, salvo il caso di decesso causato da legittimi atti di guerra, e agli articoli 3, 4 § 1 e 7. 3. Ogni Alta Parte contraente che eserciti tale diritto di deroga tiene informato nel modo più completo il Segretario generale del Consiglio d’Europa sulle misure prese e sui motivi che le hanno determinate. Deve ugualmente informare il Segretario generale del Consiglio d’Europa della data in cui queste misure cessano d’essere in vigore e in cui le disposizioni della Convenzione riacquistano piena applicazione ”. (35) Commissione europea dir. umani, rapp. 19 dicembre 1959, Lawless v. Ireland, par. 28. (36) Art. 3 Prot. n. 6 alla CEDU. (37) Art. 4 Prot. n. 7 alla CEDU. (38) Art. 16 Patto internazionale sui diritti civili e politici. (39) Prevista dall’art. 9 CEDU, ma che l’art. 18 del Patto internazionale sui diritti civili e politici considera inderogabile. 118 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 dempimento contrattuale (40) e il principio di non discriminazione (41). Tutti principi che non vengono nemmeno lontanamente presi in considerazione nella Costituzione Ungherese. Dalla lettura della norma della Convenzione si evince poi l’esigenza del rispetto di due ulteriori principi ovvero quelli di necessità e proporzionalità che consentono di valutare il rapporto di stretta necessità delle misure derogatorie adottate rispetto alla situazione di emergenza e il nesso di proporzionalità tra le modalità concrete di esercizio dei poteri eccezionali e le esigenze concrete poste dalla singola situazione di emergenza. Proprio il controllo sul nesso di proporzionalità dà rilevanza decisiva alla previsione a livello nazionale di adeguate garanzie giuridiche contro possibili abusi nell’applicazione delle misure derogatorie. Ne deriva che ad ampliare il nucleo duro sopravvengono altresì il controllo parlamentare e le garanzie giurisdizionali. In ogni caso oltre ad un possibile ampliamento dei diritti inderogabili già esaminando i tre gruppi di principi esplicitamente enucleati nella CEDU si ravvisa da parte della Legge Fondamentale ungherese il mancato rispetto dello standard minimo che la Cedu impone. Innanzitutto non può mettersi in dubbio l’inderogabilità del diritto alla vita al quale però sono connessi i divieti non solo della pena di morte ma anche di estradizione e di espulsione qualora da questi provvedimenti possa essere messo a repentaglio il diritto stesso perché non tutelato nel paese di destinazione. Ebbene se le deroghe ungheresi implicitamente tutelano il diritto alla vita mancano di far salvi questi divieti sanciti all’art. XIV della Costituzione ungherese che non viene sottratto alla deroga dell’art. 54. È chiaro che una completa protezione della vita deve estendersi a provvedimenti che possano metterla in pericolo al di fuori del territorio nazionale ma a causa di un atto nazionale. Infatti l’obbligo di ogni Stato va al di là del dovere fondamentale di assicurare il diritto alla vita predisponendo una legislazione penale concreta che dissuada dal commettere violazioni contro la persona e fondata su un meccanismo di applicazione concepito per prevenire, reprimere e sanzionare le violazioni ma pone a carico dell’autorità l’obbligo di adottare preventivamente misure di ordine pratico per proteggere l’ individuo la cui vita sia minacciata dai comportamenti criminosi di altri. Il secondo gruppo che viene in rilievo comprende il diritto all’integrità, il divieto di tortura e di pene e trattamenti inumani e degradanti. Trattasi di diritti assoluti che non ammettono deroghe ma che possono altresì essere compromessi, al pari del diritto alla vita, da eventuali pratiche di estradizione ed espulsione che non vengono qualificate come inapplicabili in situazioni di emergenza. Maggiori problemi pone la mancata inclusione del divieto di discrimina- (40) Art. 1 del Prot. n. 4 alla CEDU, ma che l’art. 2 del Patto considera inderogabile. (41) Previsto dall’art. 14 CEDU, ma è previsto come fondamentale ed inderogabile dall’art. 4 del Patto. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 119 zione nel nucleo di diritti inderogabili di cui all’art. 54 della Costituzione ungherese. Infatti seppure tale principio non è espressamente previsto come inderogabile anche durante periodi eccezionali in base all’art. 15 CEDU lo è sulla base del richiamo fatto in quest’ultima norma al rispetto degli altri obblighi internazionali, tra i quali vi è il Patto internazionale sui diritti civili e politici, nel quale il principio è invece considerato come inderogabile. Inoltre è noto che il principio di non discriminazione rappresenta una manifestazione del più generale principio di uguaglianza, che è stato considerato dalla Corte di Giustizia come uno dei principi fondamentali del diritto dell’Unione europea (42). È chiaro che una eventuale deroga al principio in esame potrebbe compromettere anche il rispetto di altri principi considerati invece come intangibili. Sicuramente non agevola il quadro l’ambivalente nozione di sicurezza, cui si ricorre in tutte queste ipotesi derogatorie. Essa può essere considerata non soltanto come un limite possibile all’esercizio dei diritti fondamentali, ma anche come un diritto soggettivo. Il bisogno di sicurezza, da soddisfarsi come diritto, è previsto fin dall’art. 2 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 e tutelato a fianco del diritto alla libertà dall’art. 5, comma 1, CEDU quasi ad intenderlo come un rafforzativo della protezione della libertà personale. In un simile contesto di contemperamento di diverse esigenze e difficoltà interpretative un intervento mitigatore, a fronte di eventuali violazioni dei pubblici poteri di questi principi fondamentali in qualsiasi circostanza emergenziale, potrebbe essere svolto dal giudice costituzionale, il cui ruolo però è più o meno efficace a seconda dei limiti intrinseci al più generale sistema di giustizia costituzionale adottato in ogni Paese. E già si è avuto modo di analizzare come il potere della Corte, pur fatto salvo nella norma in esame, sia di fatto fortemente ridotto per effetto delle disposizioni precedenti. In conclusione è evidente che in uno stato democratico la sicurezza e l’ordine pubblico non possono diventare il pretesto delle peggiori soppressioni dei diritti fondamentali è non c’è società democratica senza che il pluralismo, la tolleranza, lo spirito di apertura si traducano effettivamente nel suo regime istituzionale con la previsione di un controllo efficace dell’Esecutivo, esercitato senza pregiudizio del controllo parlamentare e di un potere giudiziario indipendente, entrambi volti ad assicurare il rispetto della persona umana (43). 5. Conclusioni I principi ed i valori che possono riassumersi nella ontologica eguaglianza degli esseri umani, e nel divieto di discriminazioni per ragioni di carattere (42) Corte Europea di Giustizia, Racke, sentenza del 13 novembre 1984, causa 283/83, in Raccolta 1984, p. 3791; EARL, sentenza del 17 aprile 1997, causa C-15/95, in Raccolta 1997, p. I-1961; Karlsson, sentenza del 13 aprile 2000, causa C-292/97, in Raccolta 2000, p. 2737. (43) CEDU, sent., 26 aprile 1979, Sunday Times c. Regno Unito. 120 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 ideologico o religioso, appartengono ad un nucleo cui si è giunti di recente e non senza resistenze e contorsioni nella storia degli ordinamenti giuridici. Pertanto è sempre presente il rischio che uno Stato, forte della maggioranza dei suffragi, faccia macchina indietro nella strada dell’affermazione e dell’ampliamento di tali valori. Il quadro giuridico europeo, a partire dal Trattato di Maastricht e passando per la Carta di Nizza, nonché la superba elaborazione dei diritti garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, assicurata dalla Corte, pone un argine, per quanto debole, a questa flessibilità. Ricordiamo che l’articolo 7 comma 3 TUE consente la sospensione dello Stato membro dell’Unione non solo del diritto di voto nel Consiglio, ma di diritti in generale derivanti dall’applicazione dei Trattati. La Costituzione Ungherese, all’evidenza, consente la sospensione dei diritti fondamentali in ipotesi (salvo l’attacco esterno) sostanzialmente non descritte nei presupposti e rinvia troppe materie alla disciplina di leggi attuative. È auspicabile che l’Unione applichi i suoi strumenti giuridici (perché si tratta di stretta applicazione del diritto e non di sanzioni politiche) onde reindirizzare lo Stato Ungherese sui binari della piena applicazione della Cedu e della Carta di Nizza, senza le ambiguità presenti nella attuale Costituzione. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 121 La responsabilità per provvedimenti giurisdizionali nel diritto dell’Unione Glauco Nori* È tornata di attualità la responsabilità diretta dei giudici. È da tempo che se ne discute. Dopo il referendum del 1987 e la legge n. 117/1988 la questione ogni tanto è riaffiorata per assumere recentemente toni accesi. Talvolta è stata richiamata anche la normativa comunitaria sulla quale può essere utile soffermarsi non per definire la questione, ma solo per renderne più chiari i termini. Queste sono le questioni da affrontare per prime: quali siano le conseguenze, in genere, della violazione di norme comunitarie; se per gli atti giurisdizionali la disciplina sia differenziata; a quali condizioni le conseguenze si producano; come vadano classificate dal punto di vista giuridico. Solo dopo ci si soffermerà sul rapporto tra la legge n. 117/1988 ed il diritto dell’Unione. Prima questione Già con la sentenza 16 dicembre 1960, Humblet, 6/60 la Corte di Giustizia, pronunciandosi a proposito del Protocollo CECA, ha chiarito che se un atto degli organi di uno Stato membro contrasta con il diritto comunitario, lo Stato è tenuto a “riparare gl’illeciti effetti che ne possono essere derivati”. Successivamente il principio è stato espresso in termini ancora più precisi: “Nell’ipotesi che il danno derivi dalla violazione di una norma di diritto comunitario da parte dello Stato, questo dovrà rispondere, nei confronti del soggetto leso, in conformità alle disposizioni di diritto interno relative alla responsabilità della pubblica amministrazione” (1). I danni che lo Stato provoca ai singoli violando il diritto comunitario, oggi dell’Unione, vanno pertanto risarciti. Seconda questione Nella sentenza Humblet come fonte di responsabilità è stato indicato un atto legislativo od amministrativo. L’atto giurisdizionale non per questo restava (*) Avvocato dello Stato, Presidente emerito del Comitato scientifico di questa Rassegna. (1) Così in sentenza 22 gennaio 1976, Russo, 60/75. V. anche sentenza 19 novembre 1991, Francovich, C-6 e C-9/90, punti 33 e ss.: “... sarebbe messa a repentaglio la piena efficacia delle norme comunitarie e sarebbe infirmata la tutela dei diritti da esse riconosciuti se i singoli non avessero la possibilità di ottenere un risarcimento ove i loro diritti siano lesi da una violazione del diritto comunitario imputabile ad uno Stato membro … Ne consegue che il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario ad esso imputabili è inerente al sistema del Trattato ”. 122 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 escluso. Non è stato richiamato solo perché il giudizio verteva su atti di natura diversa. Quando è stata una sentenza a provocare il danno, la Corte ha seguito lo stesso principio adattandolo alla specificità dell’atto: “… Al fine di stabilire un’eventuale responsabilità dello Stato per una decisione di un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, occorre tener conto della specificità della funzione giurisdizionale nonché delle legittime esigenze della certezza del diritto ... La responsabilità dello Stato a causa della violazione del diritto comunitario in una tale decisione può sussistere solo nel caso eccezionale in cui il giudice abbia violato in maniera manifesta il diritto vigente ” (2). La “maniera manifesta” va individuata secondo i principi del diritto dell’Unione, considerando in particolare “il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, il carattere intenzionale della violazione, la scusabilità o l’inescusabilità dell’errore di diritto, la posizione adottata eventualmente da una istituzione comunitaria nonchè la mancata osservanza da parte dell’organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234, terzo comma, CE. In ogni caso, una violazione del diritto comunitario è sufficientemente caratterizzata allorchè la decisione di cui trattasi è intervenuta ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte in materia ” (3). Terza questione I danni sono risarcibili “allorchè la violazione ... deriva da una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado, sempreché la norma di diritto comunitario violata sia preordinata ad attribuire diritti ai singoli, la violazione sia sufficientemente caratterizzata e sussista un nesso causale diretto tra questa violazione e il danno subito dalle parti lese” (4). Quarta questione La Corte di cassazione ha risolto le oscillazioni della sua giurisprudenza in materia di violazione del diritto dell’Unione da parte di un soggetto pubblico con la sentenza a Sezione Unite n. 9147/2009. Dopo aver richiamato i principi di diritto comunitario da applicare, la Corte ha concluso che “i profili sostanziali della tutela apprestata dal diritto comunitario inducono a reperire gli strumenti utilizzabili nel diritto interno fuori dalla schema della responsabilità civile extracontrattuale e in quello dell’obbligazione ex lege dello Stato inadempiente, di natura indennitaria per attività non antigiuridica, che il giudice deve determinare … in modo che sia (2) Sentenza 30 settembre 2003, Kobler, C-224/01, punto 53. (3) Punto 55 e 56 sempre della sentenza Kobler. (4) Punto 59 della stessa sentenza. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 123 idonea a porre riparo effettivo ed adeguato al pregiudizio subito dal singolo ... E ciò in linea con il principio secondo cui la qualificazione della situazione soggettiva dei privati deve farsi con esclusivo riferimento ai criteri dell’ordinamento interno ..., imponendo l’ordinamento comunitario soltanto il raggiungimento di un determinato risultato”. Secondo la Corte di cassazione, dunque, a carico dello Stato sorgerebbe una obbligazione da atto legittimo. La Corte di Giustizia ha sempre deciso in senso opposto. Nella sentenza Kobler è ripetuto più di una volta che lo Stato deve risarcire i danni, con la precisazione che mentre il “diritto al risarcimento ... trova direttamente il suo fondamento nel diritto comunitario … è nell’ambito delle norme del diritto nazionale relative alla responsabilità che lo Stato è tenuto a riparare le conseguenze del danno provocato, fermo restando che le condizioni stabilite dalle legislazioni nazionali in materia di risarcimento dei danni (il corsivo è aggiunto) non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano reclami analoghi di natura interna e non possono essere congegnate in modo da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento”(5). Sempre in termini di risarcimento si sono espresse le sentenze successive. Nel brano già trascritto le Sezioni Unite, per giustificare la diversa qualificazione data all’obbligazione dello Stato, hanno richiamato la loro giurisprudenza secondo la quale “la qualificazione delle situazione soggettiva dei privati deve farsi con esclusivo riferimento ai criteri dell’ordinamento giuridico interno (cfr. Cass. sez. un., 27 luglio 1993, n. 8385), imponendo l’ordinamento comunitario soltanto il raggiungimento di un determinato risultato”. “Secondo una costante giurisprudenza, in mancanza di una disciplina comunitaria, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare il giudice competente e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto comunitario”(6). Se la posizione giuridica soggettiva per l’ordinamento italiano sia di diritto soggettivo o di interesse legittimo e quale, di conseguenza, sia il giudice competente per l’ordinamento comunitario non ha rilievo. Per le Sezioni Unite la posizione giuridica soggettiva del privato va qualificata secondo i criteri dell’ordinamento interno. Le stesse Sezioni Unite, senza motivazione, hanno poi applicato lo stesso principio anche per classificare l’attività dello Stato, che è questione diversa. Quando a carico dello Stato italiano è riconosciuta una violazione del diritto dell’Unione il suo atto costituisce un illecito per il quale, come è previsto (5) Punto 58. (6) Punto 46 della sentenza Kobler. 124 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 dall’art. 260 TFUE, può essere applicata anche una penalità. Lo Stato non può cambiarne la qualifica secondo i principi dell’ordinamento interno, definirlo come “attività non antigiuridica” che dà luogo ad una obbligazione di natura indennitaria e non risarcitoria. È utile ribadirlo. Un conto è la qualificazione della condotta, che va fatta secondo l’ordinamento dell’Unione, ed un conto è la qualificazione delle posizioni giuridiche soggettive che ne possono nascere, lasciata all’ordinamento interno. Questo vale qualunque sia l’atto che ha violato il diritto dell’Unione, comprese le sentenze. Le Sezioni Unite sono cadute in un equivoco. Nel giudizio, nel quale si sono pronunciate, era stata fatta valere da un interessato la mancata attuazione di una direttiva. Se per l’ordinamento italiano fosse configurabile un diritto o un interesse legittimo e quale fosse di conseguenza il giudice davanti al quale portare la controversia, per il diritto dell’Unione era indifferente, fermo restando che la qualificazione del comportamento dello Stato andava fatta secondo l’ordinamento dell’Unione per il quale costituiva un illecito perché, come precisato nella sentenza Kobler, il “diritto al risarcimento del danno trova direttamente il suo fondamento nel diritto comunitario” (il danno in contestazione era stato prodotto dalla sentenza di un organo giurisdizionale di ultima istanza). La definizione come diritto si spiega col fatto che l’ordinamento comunitario distingue solo tra interessi protetti, quindi diritti, ed interessi di fatto e non conosce gli interessi legittimi. Gli ordinamenti nazionali possono cambiarne la definizione, ma resta fermo che quello dello Stato è un comportamento comunitariamente illecito. Nella sentenza delle Sezione Unite potrebbe vedersi, pertanto, una infrazione comunitaria da giustificare un giudizio ex art. 258 TFUE anche se non è probabile che sia promosso. Con quell’argomento la Cassazione ha evitato la prescrizione del diritto dichiarando applicabile il termine decennale per la natura obbligatoria del rapporto, invece del termine quinquennale. La tutela della posizione soggettiva di diritto comunitario è stata ampliata così come la Corte di Giustizia ha dichiarato ripetutamente consentito all’ordinamento interno sia pure senza violare il diritto dell’Unione. Resta da vedere quando matura l’illecito. In tutti gli ordinamenti di tradizione occidentale, ma non solo in questi, sono previsti mezzi di impugnazione delle sentenze a condizioni e secondo criteri diversi. Gli ordinamenti danno, dunque, per presupposto che i giudici possano commettere errori, non importa di quale gravità. L’errore del giudice di primo grado di per sé non costituisce un illecito perché, chi si sente danneggiato, può proporre l’impugnazione e ottenerne la CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 125 correzione (7). La responsabilità per danni andrebbe esclusa anche se la sentenza non fosse impugnata. L’interessato dimostrerebbe di aver condiviso la soluzione ed il suo danno deriverebbe, più che dalla sentenza, dal non avere utilizzato i mezzi per rimediare. Per questo la legge n. 117/1988 all’art. 2.4 richiede che la sentenza non sia più impugnabile perché si possa profilare una responsabilità. L’ordinamento dell’Unione segue la stessa linea (8). L’art. 267 TFUE al terzo comma impone solo al giudice di ultima istanza di proporre la questione interpretativa alla Corte di Giustizia, mentre gli altri possono, ma non sono tenuti. Una sentenza di ultima istanza può incorrere in una violazione del diritto dell’Unione solo, se non rispettando l’art. 267, si mette nell’impossibilità di ricevere l’interpretazione dalla Corte di Giustizia. Le violazioni finiscono con l’essere due: la prima per non aver investito la Corte di Giustizia; la seconda per avere male interpretato la norma comunitaria. La prima, già da sola, giustificherebbe un giudizio per infrazione, ma non una domanda di risarcimento dei danni davanti al giudice nazionale. Pur non avendo rimesso al giudice comunitario, il giudice nazionale potrebbe avere interpretato correttamente le norme dell’Unione cosicchè una responsabilità per danni non sarebbe configurabile. Al contrario di quanto talvolta è stato prospettato, spesso in termini non precisi, quanto sinora si è detto non incide sulla responsabilità dei magistrati. Sempre nel giudizio Kobler la Repubblica Austriaca aveva eccepito che dedurre la responsabilità per danni da una sentenza avrebbe messo in pericolo l’indipendenza dei magistrati. La Corte ha risposto che “per quanto riguarda l’indipendenza del giudice, occorre precisare che il principio di responsabilità di cui trattasi riguarda non la responsabilità personale del giudice, ma quella dello Stato. Ora, non sembra che la possibilità che sussista, a talune condizioni, la responsabilità dello Stato per decisioni giurisdizionali incompatibili con il diritto comunitario comporti rischi particolari di rimettere in discussione l’indipendenza di un organo giurisdizionale di ultimo grado ”. La Corte di Giustizia ha già avuto occasione di prendere in esame la legge n. 117 del 1988 in un giudizio promosso dalla Commissione ai sensi dell’art. (7) Potrebbe costituire fonte di responsabilità la esecutorietà della sentenza di primo grado che fosse portata ad esecuzione in pendenza dell’impugnazione, ma si tratta di questione che non interessa per l’indagine. (8) Sempre nella sentenza Kobler, punto 58 è ribadito che “il principio secondo cui gli Stati membri sono obbligati a risarcire i danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario ad essi imputabili è applicabile anche allorchè la violazione di cui trattasi deriva da una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado ”. 126 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 258 TFUE. Vi ha riscontrato una violazione del diritto dell’Unione perché le condizioni che richiede perchè sorga la responsabilità dello Stato sono diverse ed incompatibili con quelle in base alle quali va individuata la violazione “in maniera manifesta”, richiesta dall’ordinamento dell’Unione perché lo Stato sia responsabile (9). La legge n. 117/1988 è applicabile, pertanto, alle controversie che abbiano solo rilievo interno (10). Responsabile nell’ordinamento dell’Unione è, dunque, solo lo Stato, in quanto soggetto che ha stipulato i Trattati, che per questo risponde per tutta la sua organizzazione pubblica. Che poi si possa rivalere nei confronti di chi è il diretto responsabile è una questione di solo diritto interno alla quale i principi dell’Unione non possono essere estesi nemmeno in via riflessa (11). (9) La sentenza è del 24 novembre 2011, C-379/10 che ha concluso: La Repubblica italiana, escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di norme di diritto o da valutazione di fatti a prove effettuati dall’organo giurisdizionale medesimo e limitando la responsabilità ai soli casi di dolo e colpa grave, ai sensi dell’art. 2, commi 1 e 2, della legge 13 aprile 1988 n. 117, sul risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità dei magistrati, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell’Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado. (10) La legge n. 177/1988 sarà applicabile anche quando parte del giudizio fosse un cittadino comunitario, ma con la controversia da risolversi secondo il diritto italiano. La Corte di Giustizia, come noto, non può pronunciarsi in materie nelle quali non è applicabile il diritto comunitario (art. 19.1 TUE). (11) Si è insistito sulla trascrizione dei brani delle sentenze della Corte di Giustizia per evitare le imprecisioni, e gli equivoci conseguenti, possibili quando sono riassunte. La Corte di Giustizia in genere non utilizza formule particolarmente elaborate e, una volta che un principio è stato formulato, lo richiama successivamente senza modificazioni o aggiunte, se non indispensabili. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 127 Osservazioni del Governo della Repubblica italiana (avv. Stato Marina Russo, AL 26901/11) nella causa C-190/11 promossa dall’Oberster Gerichtshof (Austria) con ordinanza depositata il 22 aprile 2011. Materia: Cooperazione giudiziaria in materia civile. A) IL GIUDIZIO A QUO A.1) L’azione promossa innanzi ai giudici austriaci dalla sig. Muhlleitner (d’ora in poi, “la ricorrente”) in danno dei sigg. Yusufi (d’ora in poi, “i resistenti”) ha ad oggetto una domanda di rimborso del prezzo e di risarcimento del danno relativa ad un contratto di compravendita di un’autovettura. Tale contratto è stato concluso fra la ricorrente, residente in Austria, ed i resistenti, residenti in Germania, in tale ultimo Stato presso la sede dei resistenti stessi, ove la ricorrente si è all’uopo recata, dopo aver preso cognizione dell’offerta commerciale dei resistenti sul sito internet dei medesimi. A.2) Il giudice a quo espone che l’autorità giurisdizionale austriaca è stata adita dalla ricorrente (che è, senza dubbio, un “consumatore” ai sensi dell’art. 15 n. 1 del Regolamento CE n. 44/2001 del 22 dicembre 2000 - “Regolamento Bruxelles I”) nel presupposto che alla fattispecie sia applicabile il combinato disposto degli artt. 15 n. 1 lett. c) e 16 n. 1 del già citato Regolamento Bruxelles I. Sempre ad avviso del giudice a quo, anche alla luce della giurisprudenza della Corte (sentenza del 7 Dicembre 2010, resa nelle cause riunite C-585/08 e C- 144/09 Pammer/Holtel Alpen Gesmbh, che ha individuato i criteri per l’individuazione delle attività commerciali dirette verso altri Stati membri ai sensi dell’art. 15 n. 1 lett. c) del Regolamento Bruxelles I), non vi è dubbio circa il fatto che i resistenti abbiano posto in essere un’operazione commerciale diretta verso l’Austria, ai sensi dell’art. 15 n. 1 lett. c) sopra menzionato. A.3) Il dubbio prospettato dal giudice remittente attiene al fatto che la facoltà di scelta che l’art. 16 n. 1 richiamato al precedente punto accorda al consumatore, fra il proporre l’azione contro l’altra parte del contratto innanzi al giudice dello Stato membro nel cui territorio è domiciliata la parte convenuta (nella specie, la Germania), ed il proporla - invece - innanzi al giudice del luogo in cui è domiciliato il consumatore (nella specie, l’Austria), presupponga la sussistenza del solo requisito della direzione dell’operazione commerciale verso lo Stato membro in cui è domiciliato il consumatore, ovvero esiga altresì che la conclusione del contratto sia avvenuta a distanza. Tale secondo requisito, infatti, manca nel caso di specie, nel quale il consumatore si è recato presso la I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 128 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 sede dei commercianti resistenti in Germania, ed ivi ha stipulato il contratto. B) IL CONTESTO NORMATIVO Le norme rilevanti ai fini del presente giudizio sono gli artt. 15 n. 1 lett. c) e 16 n. 1 del Regolamento Bruxelles I, le quali - rispettivamente - prevedono: art. 15 n. 1 lett. C): “1. Salve le disposizioni dell'articolo 4 e dell'articolo 5, punto 5, la competenza in materia di contratti conclusi da una persona, il consumatore, per un uso che possa essere considerato estraneo alla sua attività professionale è regolata dalla presente sezione: … c) in tutti gli altri casi, qualora il contratto sia stato concluso con una persona le cui attività commerciali o professionali si svolgono nello Stato membro in cui è domiciliato il consumatore o sono dirette, con qualsiasi mezzo, verso tale Stato membro o verso una pluralità di Stati che comprende tale Stato membro, purché il contratto rientri nell'ambito di dette attività”; art. 16 n. 1: “L'azione del consumatore contro l'altra parte del contratto può essere proposta o davanti ai giudici dello Stato membro nel cui territorio è domiciliata tale parte, o davanti ai giudici del luogo in cui è domiciliato il consumatore”. C) IL QUESITO Il giudice a quo, a mente dell’art. 267 TFUE, ha sottoposto alla Corte il seguente quesito: “Se l’applicazione dell’art. 15 n. 1 lett. c) del Regolamento (CE) n. 44/2001 (in prosieguo: Il “Regolamento Bruxelles I”) presupponga che il contratto tra consumatore e imprenditore sia stato concluso a distanza”. IL GOVERNO ITALIANO SVOLGE LE SEGUENTI OSSERVAZIONI I) L’interpretazione della norma oggetto del quesito deve necessariamente avvenire in base a due criteri: quello letterale e quello teleologico. Quanto al primo di tali criteri, si osserva che la norma non contiene alcun riferimento alle modalità di conclusione del contratto, sia esso stipulato inter presentes o, al contrario, a distanza, per mezzo di strumenti di comunicazione. L’art. 15 n. 1 lett. c) del Regolamento Bruxelles I, infatti, parla semplicemente di “contratto … concluso …”, senza ulteriori specificazioni. Ne discende che, stando al tenore letterale della norma, la stessa non richiede - ai fini dell’applicabilità delle norme di cui al capo II sezione IV del Regolamento - che il contratto sia stato necessariamente concluso a distanza. II) Quanto al criterio teleologico, esso vale a confermare quanto già chiaramente risulta dal testo della norma. Infatti, come ricordato dallo stesso giudice remittente, l’art. 15 n. 1 lett. c) ha sostituito l’art. 13 comma 1 n. 3 della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 129 decisioni in materia civile e commerciale. Tale ultima normativa esigeva, ai fini della relativa applicazione, che gli atti necessari alla conclusione del contratto avvenissero nello Stato del consumatore. L’attribuzione della competenza giurisdizionale al giudice di tale ultimo Stato restava quindi esclusa, nel caso del consumatore “attivo” che si recasse nello Stato membro dell’imprenditore per ivi concludere il contratto. III) In un’ottica di protezione del consumatore, quale parte “debole” del rapporto commerciale, con il Regolamento Bruxelles I si è inteso eliminare questa limitazione. Ciò risulta espressamente confermato dalla proposta della Commissione (menzionata nell’ultima pagina dell’ordinanza di rimessione, cui per brevità si fa rinvio). IV) Non a caso, anche il giudice a quo, in considerazione di quanto esposto ai precedenti punti da I a III, sembra propendere per un’interpretazione dell’art. 15 n. 1 lett. c) cit. nel senso che esso non presupponga la conclusione a distanza del contratto. Tuttavia, egli ritiene che un dubbio interpretativo al riguardo sia originato da un passaggio della recente sentenza della Corte in data 7 dicembre 2010 (cause riunite C-585/08 e C-144/09 Pammer/Holtel Alpen Gesmbh), menzionata sopra, al punto A.2. V) Tale dubbio sembra, peraltro, agevolmente superabile. Ai punti nn. 86 ed 87 della suddetta sentenza, infatti, si legge: “86. La società … sostiene peraltro che il contratto con il consumatore sia stato concluso in loco e non a distanza, considerato che la consegna delle chiavi della stanza ed il pagamento sono stati effettuati sul posto e che, pertanto, non può trovare applicazione l’art. 15 n. 1 lett. c) del regolamento 44/2011. 87. A tal riguardo, la circostanza che le chiavi siano state consegnate … e che il pagamento sia stato effettuato … nello Stato membro sul territorio del quale il commerciante è stabilito non osta all’applicazione di tale disposizione, qualora la prenotazione e la relativa conferma abbiano avuto luogo a distanza, in modo tale che il consumatore abbia assunto gli obblighi contrattuali a distanza”. Sebbene il brano sopra riportato possa indurre, ad una prima lettura, qualche incertezza, è avviso del Governo italiano che i dubbi interpretativi siano comunque superabili, in considerazione della lettura della norma suggerita dai criteri letterale e teleologico di cui si è detto sub I e II. VI) Ed infatti, poiché - avuto riguardo ai suddetti criteri - deve necessariamente giungersi alla conclusione, per le ragioni esposte ai suddetti punti, che l’art. 15 n. 1 lett. c) non presupponga la conclusione del contratto a distanza, appare allora ragionevole ritenere che - con la statuizione di cui ai punti 86 ed 87 della sentenza Pammer/Holtel Alpen Gesmbh - la Corte abbia inteso affermare, coerentemente con il testo e le finalità della norma, solo che le circostanze del luogo di esecuzione e/o di conclusione del contratto sono indifferenti, e come tali non ostative, ai fini dell’applicazione delle norme in materia di competenza giurisdizionale di cui alla sezione IV del Regolamento. 130 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 VII) Lo stesso avvocato generale Verica Trstenjak, nelle conclusioni depositate nella causa C-144/09 Holtel Alpen Gesmbh, ha aderito ad una lettura quale quella prospettata sub I e II, affermando al punto 55: “… bisogna analizzare anche la questione se per stabilire la competenza giurisdizionale ai sensi dell’art. 15, n. 1, lett. c) del regolamento n. 44/2001, il contratto debba essere concluso a distanza. Nonostante la conclusione del contratto a distanza venga citata in riferimento all’applicazione di tale articolo nella dichiarazione congiunta del Consiglio e della Commissione, … come pure nel ventiquattresimo ‘considerando’ del regolamento Roma I, che riassume tale dichiarazione congiunta …, l’art. 15, n. 1, lett. c) del regolamento n. 44/2001 non prevede questa condizione. Ritengo che tale condizione, soprattutto in cause quali quelle in esame, presenti taluni problemi … Il consumatore può, ad esempio, effettuare a distanza solo la prenotazione dei servizi alberghieri o turistici e concludere poi il contratto nel luogo in cui usufruisce dei servizi. Secondo il mio parere, anche in questo caso la competenza deve essere stabilita ai sensi dell’art. 15, n. 1, lett. c) del regolamento n. 44/2001”. §§§ Il Governo italiano propone pertanto di rispondere come segue al quesito: L’applicazione dell’art. 15 n. 1 lett. c) del Regolamento (CE) n. 44/2001 non presuppone che il contratto tra consumatore e imprenditore sia stato concluso a distanza. Marina Russo Avvocato dello Stato Osservazioni del Governo della Repubblica italiana (avv. Stato Marina Russo, AL 46734/11) nella causa C-435/11 promossa dall’Oberster Gerichtshof (Austria) con ordinanza depositata il 26 agosto 2011. Materia: Ravvicinamento delle legislazioni; Tutela dei consumatori; Libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi. A) IL GIUDIZIO A QUO A.1) La vicenda da cui trae origine la domanda di pronuncia pregiudiziale riguarda una controversia tra due imprese che gestiscono agenzie di viaggi, proponendo corsi di sci o settimane bianche in Austria per scolaresche provenienti dal Regno Unito. A.2) Nella brochure di vendita in lingua inglese della resistente, alcuni CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 131 alberghi erano evidenziati, mediante vistosi richiami, come “esclusivi”, con ciò intendendosi che, nelle date indicate, erano offerti in via esclusiva dall’agenzia. Quest’ultima aveva infatti stipulato con numerose strutture alberghiere contratti aventi ad oggetto un certo numero di posti letto, per determinati periodi nel 2012, nei quali veniva concordata una prenotazione fissa da parte della resistente ventotto giorni prima della partenza. I contratti contenevano la clausola secondo la quale gli stock di camere specificati erano messi illimitatamente a disposizione della resistente. Senza l’espresso consenso scritto di quest’ultima, l’albergo non avrebbe potuto derogare all’accordo. A garanzia dell’esclusività, la resistente pattuiva con l’albergo diritti di recesso nonché una penale. Infine, su specifica richiesta in tal senso, la resistente otteneva una dichiarazione dagli alberghi secondo cui non sarebbero state effettuate prenotazioni da parte di altri operatori turistici e si accertava che, per carenza di capacità nelle strutture alberghiere, altre comitive non trovassero posto negli alberghi. A.3) Nonostante quanto esposto al punto A.2), la ricorrente successivamente prenotava a sua volta un certo stock di posti letto nelle stesse strutture alberghiere e per le medesime date. La ricorrente chiedeva quindi che, con provvedimento cautelare, fosse inibito alla resistente di affermare, nell’esercizio della sua attività di agenzia di viaggi, che per un dato periodo di soggiorno un determinato alloggio fosse da essa proposto in via esclusiva. Infatti, tale affermazione non sarebbe stata veritiera, posto che la ricorrente stessa aveva prenotato tutti gli alloggi disponibili o parte di essi per il periodo delle vacanze pasquali o semestrali 2012. A.4) La resistente eccepiva di aver adottato, nella predisposizione della brochure, la necessaria diligenza professionale, in quanto: (i) con tutte le strutture alberghiere in questione aveva stipulato contratti di prenotazione irrevocabili; (ii) aveva accertato di volta in volta che nei periodi di prenotazione nessun altro operatore turistico avesse già prenotato o, a fronte dello stock prenotato e della capacità di letti messa a disposizione, potesse più prenotare posti letto; (iii) i contratti conclusi dalla ricorrente con detti alberghi erano stati stipulati in un momento successivo rispetto agli accordi della resistente; (iv) la ricorrente e gli albergatori avrebbero dovuto sapere dell’esistenza di contratti efficaci ed irrevocabili con la resistente e che il fatto di concedere una prenotazione alla ricorrente costituiva una violazione contrattuale; (v) fino all’inizio del procedimento, la resistente non era comunque a conoscenza dell’esistenza dei contratti tra i gestori delle strutture ricettive e la ricorrente. A.5) Il giudice di primo grado rigettava la domanda cautelare, in quanto, alla luce dei contratti di prenotazione irrevocabili precedentemente stipulati dalla resistente, la contestata affermazione di esclusività sarebbe stata corretta. Il giudice di secondo grado confermava il rigetto della domanda, posto che la resistente aveva adempiuto alle norme di diligenza professionale per garantire 132 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 la possibilità della prenotazione esclusiva da essa pubblicizzata, potendo fare affidamento sul rispetto del contratto concluso con gli albergatori. A.6) La Corte Suprema, chiamata a pronunciarsi sul ricorso per cassazione, è propensa a ritenere che il ricorso proposto non possa trovare accoglimento ove la resistente possa far valere, nonostante la presenza di un’affermazione pubblicitaria oggettivamente non veritiera ed idonea a ingannare il consumatore, di non aver agito in modo contrario alle norme di diligenza professionale. In proposito, il giudice si chiede in quale rapporto si trovi la definizione generale della pratica commerciale sleale di cui all’art. 5, n. 2, della Direttiva sulle pratiche commerciali sleali (2005/29/CE) rispetto alle definizioni speciali di pratiche commerciali ingannevoli e aggressive di cui agli arti 6-9 della Direttiva stessa. A norma dell’art. 5, n. 2, della Direttiva, una pratica commerciale è sleale se è contraria alle norme di diligenza professionale e se è idonea a falsare in misura rilevante il comportamento economico di un consumatore medio. Il giudice rileva che, da un lato, si potrebbe presumere che un comportamento ricompreso nelle fattispecie previste agli artt. 6-9 della Direttiva soddisfi in ogni caso i requisiti dell’art. 5, n. 2, lett. a), della stessa, e quindi violi sempre la diligenza professionale. Secondo questa interpretazione, la pratica commerciale sarebbe sleale già nel momento in cui il comportamento contestato ha carattere ingannevole o aggressivo dal punto di vista del consumatore medio; la questione, poi, se esso sia in contrasto con le norme di diligenza professionale o meno, non necessiterebbe di un esame specifico. Dall’altro lato, secondo l’interpretazione che il giudice avalla, si potrebbe ritenere che, in presenza di una pratica commerciale ingannevole o aggressiva dal punto di vista del consumatore medio, occorra aggiuntivamente accertare se il comportamento contestato sia contrario alle norme di diligenza professionale. Secondo questa interpretazione, il professionista dovrebbe poter dimostrare, a fronte delle circostanze del singolo caso, di aver agito nel rispetto della diligenza professionale. B)IL QUESITO Il giudice a quo, a mente dell’art. 267 TFUE, ha sottoposto alla Corte il seguente quesito: “Se l’art. 5 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 11 maggio 2005, 2005/29/CE, relativa alle pratiche commerciali sleali fra imprese e consumatori nel mercato interno e che modifica la direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le direttive 97/7/CE, 98/27/CE e 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e il regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio (direttiva sulle pratiche commerciali sleali, in prosieguo: la “direttiva”), debba essere interpretato nel senso che, in caso di pratiche commerciali ingannevoli di cui all’art. 5, n. 4, della direttiva, sia inammissibile un esame specifico dei criteri di cui all’art. 5, n. 2, lett. a), della direttiva ”. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 133 C) IL CONTESTO NORMATIVO Ai fini della soluzione dei quesiti, interessano le seguenti norme: DIRETTIVA 11.5.2005 N. 2005/29/CE DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO relativa alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori nel mercato interno e che modifica la Direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le Direttive 97/7/CE, 98/27/CE e 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e il Regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio. 7^ Considerando: “… In sede di applicazione della direttiva, in particolare delle clausole generali, è opportuno tenere ampiamente conto delle circostanze del singolo caso in questione”. 17^ Considerando: “È auspicabile che le pratiche commerciali che sono in ogni caso sleali siano individuate per garantire una maggiore certezza del diritto. L'allegato I riporta pertanto l'elenco completo di tali pratiche. Si tratta delle uniche pratiche commerciali che si possono considerare sleali senza una valutazione caso per caso in deroga alle disposizioni degli articoli da 5 a 9...”. Art. 5: “1. Le pratiche commerciali sleali sono vietate. 2. Una pratica commerciale è sleale se: a) è contraria alle norme di diligenza professionale, e b) falsa o è idonea a falsare in misura rilevante il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori” … 4. In particolare, sono sleali le pratiche commerciali: a) ingannevoli di cui agli articoli 6 e 7 o b) aggressive di cui agli articoli 8 e 9”. Art. 6: “1. È considerata ingannevole una pratica commerciale che contenga informazioni false e sia pertanto non veritiera o in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, inganni o possa ingannare il consumatore medio, anche se l'informazione è di fatto corretta, riguardo a uno o più dei seguenti elementi e in ogni caso lo induca o sia idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso: a) l'esistenza o la natura del prodotto;…”. I) IL GOVERNO ITALIANO SVOLGE LE SEGUENTI OSSERVAZIONI I a) Ai sensi dell’art. 5, comma 2, della Direttiva 2005/29/CE (d’ora in poi, “la Direttiva”), una pratica commerciale è sleale se: a) è contraria alle norme di diligenza professionale; b) è falsa o idonea a falsare in misura rilevante il comportamento economico di un consumatore medio. Il comma 4 del medesimo articolo 5 prevede poi che, in particolare, sono sleali le pratiche commerciali a) ingannevoli, di cui agli articoli 6 e 7 o b) aggressive, di cui agli articoli 8 e 9. 134 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 I.b) La norma di cui all’art. 5 cit. è - quindi - chiaramente strutturata nel senso di prevedere un’ipotesi di carattere generale (quella descritta al n. 1, lettere a) e b)), e delle ipotesti particolari (quelle di cui al punto 4, lettere a) e b)), che – rispetto a quella generale - costituiscono una specificazione. I.c) La norma di cui al punto che precede, poi, va letta anche alla luce dei Considerando anteposti al testo della Direttiva, ed in particolare del 7^ e del 17^ (riprodotti sopra, al punto C), i quali evidenziano – in una chiara ottica di garantismo – la necessità che la natura sleale delle pratiche commerciali sia verificata caso per caso, con riferimento alle peculiarità del caso concreto. Da una lettura sistematica degli articoli della Direttiva e dei menzionati Considerando, sembra debba trarsi la conclusione che soltanto le pratiche commerciali elencate nella c.d. “black list” (l’elenco di cui all’Allegato I alla Direttiva - Pratiche commerciali considerate in ogni caso sleali) possono considerarsi sleali senza una valutazione caso per caso, mentre le pratiche ingannevoli e aggressive tipizzate agli artt. 6-9, rappresentando un’articolazione della clausola generale di cui all’art. 5, comma 2, devono comunque integrare i requisiti di contrarietà all’obbligo di diligenza. I.d) Nel senso esposto al punto precedente depone anche la giurisprudenza della Corte che, sebbene non abbia finora direttamente affrontato la questione oggetto del quesito oggi sottoposto al suo esame, ha comunque in più occasioni sostenuto la necessità di compiere una valutazione caso per caso laddove non sussistano le condizioni per individuare una delle pratiche commerciali di per sé vietate ed elencate nell’Allegato I della Direttiva: “Occorre ricordare che le pratiche commerciali che rientrano nell’ambito di applicazione dell’ art. 7, n. 4 della direttiva 2005/29 richiedono una valutazione caso per caso, mentre le pratiche commerciali cui fa riferimento l’allegato I della richiamata direttiva sono considerate sleali in ogni situazione (v., in tal senso, sentenze 23 aprile 2009, cause riunite C-261/07 e 299/07, VTB-VAB, Racc. pag. 1-2949, punto 56, nonché 14 gennaio 2010, causa C-304/08, Plus Warenhandelsgesellschafi, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 45)” (sentenza 12 maggio 2011, causa C-122/10, Konsumentombudsmannen, punto 51). Nella sentenza C-304/08 Plus Warenhandelsgesellschaft, la Corte sottolinea invero, al punto 45, con riguardo alle pratiche commerciali elencate nell’allegato I, che “come espressamente precisato dal diciassettesimo “considerando” della direttiva, solo tali pratiche possono essere considerate sleali senza una valutazione caso per caso ai sensi delle disposizioni degli articoli 5- 9 della direttiva 2005/29 ”.Nello stesso senso, sentenza del 9 novembre 2010, causa C-540/08, Mediaprint Zeitungsund Zeitschriftenverlag, punto 40). In sostanza, la Corte di Giustizia sembra essere orientata nel senso di ritenere che le sole pratiche per le quali non sia prevista una valutazione caso per caso sono quelle contenute nell’allegato I alla Direttiva, in quanto considerate sleali in ogni situazione, mentre, per le restanti pratiche, sarà sempre necessaria CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 135 un’analisi del caso di specie, alla luce dei criteri previsti agli artt. 5-9 della Direttiva. §§§ Il Governo italiano propone pertanto di rispondere come segue al quesito: L’art. 5 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 11 maggio 2005, 2005/29/CE, relativa alle pratiche commerciali sleali fra imprese e consumatori nel mercato interno e che modifica la direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le direttive 97/7/CE, 98/27/CE e 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e il regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio (direttiva sulle pratiche commerciali sleali), deve essere interpretato nel senso che, in caso di pratiche commerciali ingannevoli di cui all’art. 5, n. 4, della direttiva, non può prescindersi da un esame specifico dei criteri di cui all’art. 5, n. 2, lett. a), della direttiva. Marina Russo Avvocato dello Stato Osservazioni del Governo della Repubblica italiana (avv. Stato Wally Ferrante, AL 49012/11) nella causa C-509/11. Materia: Trasporti. QUESTIONI PREGIUDIZIALI 1. Con l’ordinanza [8 settembre 2011, depositata in data 30 settembre 2011 dal Verwaltungsgerichtshof - Austria], è stato chiesto alla Corte di Giustizia dell’Unione europea di pronunciarsi, ai sensi dell’art. 267 TFUE, sulle seguenti questioni pregiudiziali: “1. Se l’art. 30, n. 1 primo comma, del regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 23 ottobre 2007, n. 1371, relativo ai diritti e agli obblighi dei passeggeri nel trasporto ferroviario debba essere interpretato nel senso che, ai fini dell’applicazione di detto regolamento, l’organismo nazionale designato ha il potere di rendere obbligatorio per un’impresa ferroviaria, le cui modalità di risarcimento relative all’indennizzo per il prezzo del biglietto non siano conformi ai criteri stabiliti dall’art. 17 di tale regolamento, il contenuto specifico delle modalità di indennizzo da adottare da parte di detta impresa, anche qualora la normativa nazionale gli conferisca solo la possibilità di dichiarare inefficaci siffatte modalità di indennizzo. 2. Se l’art. 17 del regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 23 ottobre 2007, n. 1371, relativo ai diritti e agli obblighi dei passeggeri nel trasporto ferroviario debba essere interpretato nel senso che un’impresa 136 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 ferroviaria può escludere, in casi di forza maggiore, l’obbligo di prestare gli indennizzi per il prezzo del biglietto, in applicazione analogica delle cause di esclusione previste dai regolamenti (CE) n. 261/2004, (UE) n. 1177/2010 o (UE) n. 181/2011 oppure per effetto del ricorso ad esenzioni da responsabilità come contemplate dall’art. 32, n. 2, delle regole uniformi concernenti il contratto di trasporto internazionale per ferrovia dei viaggiatori e dei bagagli (CIV, allegato I del regolamento) anche relativamente dalle ipotesi di indennizzo per il prezzo del biglietto”. ESPOSIZIONE DEI FATTI DI CAUSA 2. La domanda di pronuncia pregiudiziale è stata sollevata in relazione ad una causa, pendente tra un’impresa ferroviaria (ricorrente) e l’autorità nazionale di regolamentazione (resistente). 3. Detta impresa applica ai contratti di trasporto condizioni generali che prevedono anche disposizioni relative all’indennizzo per il prezzo del biglietto nel caso di ritardo o soppressione del servizio. 4. L’autorità nazionale di regolamentazione, con decisione del 6 dicembre 2010, ha imposto alla ricorrente di modificare le modalità di indennizzo nella parte in cui escludono il diritto all’indennizzo o al rimborso delle spese sostenute in ragione del ritardo del treno in alcuni casi specifici accomunati dall’assenza di colpa del trasportatore. 5. La ricorrente ha impugnato tale provvedimento assumendo che l’autorità resistente non sarebbe competente ad ordinare una modifica delle modalità di indennizzo e che l’esclusione dell’obbligo di indennizzo in caso di forza maggiore sarebbe contemplato dal regolamento n. 1371/2007. NORMATIVA COMUNITARIA 6. L’art. 30, n. 1 comma 1 del regolamento n. 1371/2007 prevede che: “Ogni Stato membro designa uno o più organismi responsabili dell’applicazione del presente regolamento. Ciascun organismo adotta le misure necessarie per garantire il rispetto dei diritti dei passeggeri ”. 7. Secondo il diritto nazionale austriaco, l’organismo di controllo di cui al citato art. 30 ha solo il potere di dichiarare inefficaci le clausole che stabiliscano modalità di indennizzo dei passeggeri non conformi al regolamento. 8. L’art. 17 del predetto regolamento disciplina l’indennità per il prezzo del biglietto in caso di ritardo del treno o soppressione del servizio. 9. In particolare, il par. 1 prescrive le condizioni e la misura dell’indennizzo: “1. Fermo restando il diritto al trasporto, il passeggero può chiedere all’impresa ferroviaria un indennizzo in caso di ritardo tra il luogo di partenza e il luogo di destinazione indicati sul biglietto se non gli è stato rimborsato il biglietto in conformità dell’articolo 16. I risarcimenti minimi in caso di ritardo sono fissati come segue: CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 137 a) il 25 % del prezzo del biglietto in caso di ritardo compreso tra 60 e 119 minuti; b) il 50 % del prezzo del biglietto in caso di ritardo pari o superiore a 120 minuti. I passeggeri titolari di un titolo di viaggio o di un abbonamento che siano costretti a subire un susseguirsi di ritardi o soppressioni di servizio durante il periodo di validità dello stesso possono richiedere un indennizzo adeguato secondo le modalità di indennizzo delle imprese ferroviarie. Tali modalità enunciano i criteri per la determinazione dei ritardi e il calcolo dell’indennizzo. L’indennizzo per il ritardo è calcolato in relazione al prezzo effettivamente pagato dal passeggero per il servizio in ritardo. Qualora il contratto di trasporto riguardi un viaggio di andata e ritorno, il risarcimento in caso di ritardo nella tratta di andata o in quella di ritorno è calcolato rispetto alla metà del prezzo del biglietto. Analogamente il prezzo di un servizio in ritardo in base a qualsiasi altro tipo di contratto di trasporto che consenta di effettuare varie tratte successive è calcolato in rapporto al prezzo totale. Nel calcolo del ritardo non è computato il ritardo che l’impresa ferroviaria può dimostrare di avere accumulato al di fuori del territorio in cui si applica il trattato che istituisce la Comunità europea ”. 10. Il par. 2 del citato art. 17 stabilisce il termine entro il quale va corrisposto l’indennizzo e le modalità di erogazione dello stesso: “2. Il risarcimento del prezzo del biglietto è effettuato entro un mese dalla presentazione della relativa domanda. Il risarcimento può essere effettuato mediante buoni e/o altri servizi se le condizioni sono flessibili (per quanto riguarda in particolare il periodo di validità e la destinazione). Il risarcimento è effettuato in denaro su richiesta del passeggero”. 11. Il par. 3 dell’art. 17 prevede l’inapplicabilità di costi che possano decurtare l’importo del risarcimento, ferma restando una franchigia minima: “3. Il risarcimento del prezzo del biglietto non è soggetto a detrazioni per i costi legati alla transazione finanziaria quali tasse, spese telefoniche o valori bollati. Le imprese ferroviarie possono introdurre una soglia minima al di sotto della quale non sono previsti risarcimenti. Detta soglia non può superare 4 EUR ”. 12. Infine, il par. 4 dell’art. 17 prevede due cause di esclusione del diritto all’indennizzo: “4. Il passeggero non ha diritto a risarcimenti se è informato del ritardo prima dell’acquisto del biglietto o se il ritardo nell’ora di arrivo prevista proseguendo il viaggio su un servizio diverso o in base a itinerario alternativo rimane inferiore a 60 minuti ” (evidenza nostra). 13. L’art. 32 dell’allegato I al regolamento n. 1371/2007, recante le regole uniformi concernenti il contratto di trasporto internazionale per ferrovia dei viaggiatori e dei bagagli (CIV), al quale espressamente rimanda l’art. 15 del regolamento medesimo per la disciplina della responsabilità dell’impresa ferroviaria per i ritardi, le perdite di coincidenza e le soppressioni, dispone, al par. 1: “1. Il trasportatore è responsabile nei confronti del viaggiatore per il danno dovuto al fatto che, a causa della soppressione, del ritardo o della man- 138 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 canza di una corrispondenza, il viaggio non può continuare nello stesso giorno, o comunque la sua continuazione non è ragionevolmente esigibile nello stesso giorno per via di circostanze contingenti. Il risarcimento dei danni comprende le spese ragionevoli di alloggio, nonché le spese ragionevoli per avvisare le persone che attendono il viaggiatore ”. 14. Il par. 2 del predetto art. 32 disciplina le cause di esonero di responsabilità del trasportatore in ipotesi di colpa del viaggiatore o di eventualità riconducibili alla forza maggiore: “2. Il trasportatore è esonerato da questa responsabilità quando la soppressione, il ritardo o la mancanza di una corrispondenza sono imputabili ad una delle seguenti cause: a) circostanze esterne all’esercizio ferroviario che il trasportatore, malgrado la diligenza richiesta dalle particolarità del caso di specie, non poteva evitare o alle cui conseguenze non poteva ovviare; b) colpa del viaggiatore; oppure c) un comportamento di terzi che il trasportatore, nonostante abbia riposto la diligenza richiesta dalle particolarità del caso di specie, non poteva evitare e alle cui conseguenze non poteva ovviare; un’altra impresa che utilizzi la stessa infrastruttura ferroviaria non è considerata parte terza; il diritto di regresso rimane impregiudicato”. RISPOSTA AL PRIMO QUESITO 15. Il giudice del rinvio chiede, nella sostanza, alla Corte di Giustizia di stabilire se l’organismo nazionale designato da ciascun Stato membro possa ordinare all’impresa ferroviaria l’adozione di specifiche modalità di indennizzo, là dove quelle introdotte da parte di tale impresa non siano conformi ai criteri dettati dall’articolo 17 del Regolamento n. 1371/2007. 16. La questione riguarda la portata e l’efficacia della tutela dei diritti del consumatore, acquirente e fruitore dei servizi di trasporto ferroviario, nonché l’estensione dei poteri di intervento dell’autorità di regolazione cui spetta la funzione generale di tutela del consumatore. 17. Il Governo italiano è dell’avviso che l’articolo 30 del Regolamento n. 1371/2007/Ce, secondo cui “Ciascun organismo adotta le misure necessarie per garantire il rispetto dei diritti dei passeggeri”, debba essere interpretato nel senso di riconoscere all’organismo di controllo non solo il potere di dichiarare inefficaci le modalità di indennizzo previste dall’impresa ferroviaria, ove non conformi al regolamento medesimo, ma anche quello di ordinare all’impresa stessa l’adozione di modalità di indennizzo conformi all’articolo 17. 18. Tale potere appare, infatti, necessario a garantire che, mediante l’intervento dell’organismo di controllo, i diritti dei passeggeri del trasporto ferroviario - identificati nel considerando 3 del Regolamento 1371/2007/Ce come parte debole del contratto di trasporto - ricevano una tutela piena, adeguata, tempestiva ed efficace. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 139 19. In un contesto in cui tra gli obiettivi del Regolamento compare anche il rafforzamento dei diritti di indennizzo e di assistenza in caso di ritardo, perdita di coincidenza o soppressione del servizio a vantaggio dei viaggiatori (considerando 13), ritenere che i poteri dell’organismo di controllo contemplino solo la mera dichiarazione di inefficacia significherebbe privare tale organismo degli strumenti necessari a garantire il pieno soddisfacimento della sua “missione”, in aperto contrasto con quanto espressamente disposto proprio dall’articolo 30. 20. Non può, infatti, non rilevarsi come, nell’ipotesi in cui dovesse prevalere quest’ultima opzione interpretativa, l’organismo di controllo potrebbe disporre di uno strumento di intervento non solo non decisivo né efficace ai fini del riconoscimento, a favore dei passeggeri, di un sistema di indennizzo adeguato, ma che potrebbe addirittura prestarsi a favorire comportamenti “dilatori” dell’impresa ferroviaria volti a ritardare l’entrata a regime di meccanismi di indennizzo conformi ai criteri del Regolamento. 21. Dunque, la tesi secondo cui l’organismo di controllo può ordinare all’impresa ferroviaria l’adozione di specifiche modalità di indennizzo appare perfettamente conforme alla ratio dell’articolo 30 del Regolamento, poiché riconosce all’organismo di controllo un potere necessario e proporzionato rispetto al fine enunciato nella norma stessa, che è quello di garantire il rispetto dei diritti dei passeggeri. 22. A ciò si aggiunga che l’attribuzione all’organismo di controllo di ampi poteri di intervento appare coerente anche con quanto previsto nell’articolo 32 del Regolamento citato, ai sensi del quale gli Stati membri dovrebbero stabilire sanzioni proporzionate, efficaci e dissuasive per le infrazioni alle disposizioni del Regolamento stesso. RISPOSTA AL SECONDO QUESITO 23. Con il secondo quesito, il giudice del rinvio chiede alla Corte di Giustizia se l’articolo 17 del Regolamento n. 1371/2007/Ce debba essere interpretato nel senso di consentire all’impresa ferroviaria di escludere la sua responsabilità in ordine agli indennizzi per il prezzo del biglietto in presenza di cause di forza maggiore, in analogia con quanto previsto nei Regolamenti n. 261/2004/CE, n. 1177/2010/UE e n. 181/2011/UE in materia di trasporto aereo, via mare e con autobus nonché dall’art. 32, n. 2 delle regole uniformi concernenti il contratto di trasporto internazionale per ferrovia dei viaggiatori e dei bagagli (allegato I del regolamento). 24. Al riguardo, il Governo italiano ritiene che l’articolo 17 del Regolamento 1371/2007 rechi una disciplina compiuta ed esaustiva dell’indennità per il prezzo del biglietto, che non contempla cause di esclusione della responsabilità, neanche nei casi di forza maggiore. 25. Il rinvio operato dall’articolo 15 del Regolamento 1371/2007 alle disposizioni del Contratto di trasporto Internazionale per ferrovia dei Viaggiatori 140 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 e dei bagagli (CIV), ed in particolare all’articolo 32 di quest’ultimo, non appare, infatti, pertinente in quanto tale disposizione disciplina un’ipotesi particolare e diversa di risarcimento, riguardante le spese ragionevoli di alloggio, nonché le spese ragionevoli per avvisare le persone che attendono il viaggiatore, derivanti dalla soppressione, dal ritardo o dalla mancanza di una corrispondenza che precludano la prosecuzione del viaggio nello stesso giorno. 26. Il citato articolo 17 contempla, invece, un’ipotesi diversa che è quella dell’indennizzo del solo prezzo del biglietto in caso di ritardo e soppressione del treno, che deve essere sempre pagato dall’impresa ferroviaria là dove ricorrano le condizioni indicate nell’articolo 17 stesso. 27. Del resto che le due ipotesi siano diverse e che per esse non possano valere le medesime cause di esclusione della responsabilità dell’impresa ferroviaria è desumibile anche dalla circostanza che il viaggiatore, che ha subìto il ritardo, potrebbe non avere sempre diritto anche al risarcimento delle spese di alloggio o per avvisare le persone che lo attendono. 28. Quanto alle cause di esclusione della responsabilità previste dai regolamenti disciplinanti, rispettivamente, il trasporto aereo, via mare e per autobus, il Governo italiano ritiene che le stesse non siano estensibili al trasporto ferroviario in ragione delle peculiari motivazioni, attinenti alle condizioni metereologiche e alla sicurezza, che giustificano dette esenzioni per quei tipi di trasporto e non anche per quello ferroviario. 29. L’art. 5, n. 3 del regolamento n. 261/2004 dispone che: “il vettore aereo operativo non è tenuto a pagare una compensazione pecuniaria a norma dell’art. 7, se può dimostrare che la cancellazione del volo è dovuta a circostanze eccezionali che non si sarebbero comunque potute evitare anche se fossero state adottate tutte le misure del caso”. 30. Dal canto suo, l’art. 20, n. 4 del regolamento n. 1177/2010 stabilisce che: “L’art. 19 [che prevede il diritto a compensazione economica connessa al prezzo del biglietto in caso di ritardo all’arrivo] non si applica se il vettore prova che la cancellazione o il ritardo è provocato da condizioni metereologiche che mettono a rischio il funzionamento sicuro della nave o da circostanze straordinarie che ostacolano l’esecuzione del servizio passeggeri, le quali non potevano essere evitate anche adottando tutte le misure ragionevoli ”. 31. Infine, l’art. 23, n. 2 del regolamento n. 181/2011 prescrive che “L’art. 21, lettera b) [che prevede la sistemazione in albergo o in altro alloggio nonché il trasporto tra la stazione e il luogo di alloggio quando si renda necessario un soggiorno di una o più notti] non si applica se il vettore prova che la cancellazione o il ritardo sono dovuti a condizioni metereologiche avverse o gravi catastrofi naturali che mettono a rischio il funzionamento sicuro dei servizi a mezzo autobus ”. 32. L’inapplicabilità delle suddette norme di esenzione da responsabilità al trasporto ferroviario deriva altresì dal preciso tenore dell’art. 6 del regola- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 141 mento n. 1371/2007, in base al quale gli obblighi nei confronti dei passeggeri stabiliti nel regolamento medesimo non possono essere soggetti a limitazioni o esclusioni, segnatamente mediante l’introduzione di clausole derogatorie o restrittive nel contratto di trasporto. Detta norma prevede semmai che le imprese ferroviarie possono offrire al passeggero condizioni contrattuali più favorevoli delle condizioni fissate dal regolamento ma certamente non peggiorative. 33. Del resto, la Corte di Giustizia (sentenza 19 novembre 2009, cause riunite C-402/07 e C-432/07, Sturgeon, punto 45) ha chiaramente affermato che le disposizioni che conferiscono diritti ai passeggeri del traffico aereo, comprese quelle che riconoscono il diritto alla compensazione pecuniaria, devono essere interpretate estensivamente (nello stesso senso, Corte di giustizia, sentenza 22 dicembre 2008, causa C-549/07, Wallentin-Herzmann, punto 17). 34. A contrario, si deduce che le disposizioni che prevedono esclusioni o limitazioni di responsabilità a carico dei vettori debbono essere interpretate restrittivamente e non oltre i casi dalle stesse espressamente disciplinati. 35. Tanto è vero che la citata sentenza Sturgeon ha ritenuto che un problema tecnico occorso ad un aereomobile e che comporta la cancellazione o il ritardo del volo non rientra nella nozione di “circostanze eccezionali” ai sensi dell’art. 5, n. 3 del regolamento n. 261/2004. 36. Si concorda quindi con la tesi sostenuta dal Giudice del rinvio secondo la quale l’art. 17 del regolamento n. 1371/2007 non contempla esenzioni di responsabilità per causa di forza maggiore. CONCLUSIONI 37. Il Governo italiano propone quindi alla Corte di Giustizia di risolvere il primo quesito affermando che l’art. 30, n. 1 primo comma, del regolamento n. 1371/2007 debba essere interpretato nel senso che l’organismo nazionale designato ha il potere di rendere obbligatorio per un’impresa ferroviaria, le cui modalità di risarcimento relative all’indennizzo per il prezzo del biglietto non siano conformi ai criteri stabiliti dall’art. 17 di tale regolamento, il contenuto specifico delle modalità di indennizzo da adottare da parte di detta impresa, anche qualora la normativa nazionale gli conferisca solo la possibilità di dichiarare inefficaci siffatte modalità di indennizzo. 38. Il Governo italiano propone inoltre alla Corte di Giustizia di risolvere il secondo quesito affermando che l’art. 17 del regolamento n. 1371/2007 debba essere interpretato nel senso che un’impresa ferroviaria non può escludere, in casi di forza maggiore, l’obbligo di prestare gli indennizzi per il prezzo del biglietto in caso di ritardo o soppressione del servizio. Roma, 2 febbraio 2012 Wally Ferrante Avvocato dello Stato 142 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 Osservazioni del Governo della Repubblica italiana (avv. Stato Wally Ferrante, AL 3907/12) nella causa C-575/11. Materia: Libera circolazione dei lavoratori; Libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi; Diritto di stabilimento; Libera circolazione dei servizi. QUESTIONE PREGIUDIZIALE 1. Con l’ordinanza [del 30 giugno 2011, depositata in data 16 novembre 2011 dal Symvoulio tis Epikrateias (Consiglio di Stato) – Grecia], è stato chiesto alla Corte di Giustizia dell’Unione europea di pronunciarsi, ai sensi dell’art. 267 TFUE, sulla seguente questione pregiudiziale: “Se, ai sensi dell’art. 43 del Trattato che istituisce la Comunità europea e tenuto conto del principio di proporzionalità, l’intento di garantire la prestazione di servizi sanitari di livello elevato sia sufficiente a giustificare una restrizione alla libertà di stabilimento risultante dal sistema delle disposizioni vigenti in un determinato Stato membro (Stato membro ospitante), le quali: a) consentano l’esercizio di talune attività professionali esclusivamente a coloro che hanno il diritto di esercitare la professione regolamentata di fisioterapista in tale Stato membro; b) escludano la possibilità di un accesso parziale a tale professione e c) comportino, di conseguenza, per il cittadino dello Stato membro ospitante – che abbia ottenuto in un altro Stato membro (Stato membro di provenienza) un titolo che gli consente di esercitare una professione regolamentata in quest’ultimo Stato membro connessa con la prestazione di servizi sanitari (titolo che però, a causa della mancata sussistenza delle condizioni della direttiva del Consiglio 92/51/CEE “relativa ad un secondo sistema generale di riconoscimento della formazione professionale, che integra la direttiva 89/48/CEE”, GU L. 209, non gli consente di esercitare la professione di fisioterapista nello Stato membro ospitante) – l’assoluta impossibilità di esercitare nello Stato membro ospitante, mediante un accesso parziale alla professione di fisioterapista, anche soltanto talune delle attività riconducibili alla suddetta professione, ossia quelle che l’interessato ha il diritto di esercitare nello Stato membro di provenienza”. ESPOSIZIONE DEI FATTI DI CAUSA 2. La questione pregiudiziale trae origine da una controversia vertente sul rigetto, da parte del “Consiglio per il riconoscimento dell’equipollenza dei titoli di istruzione e formazione” della Grecia, della domanda avanzata dal un cittadino greco di riconoscimento del titolo professionale di “massaggiatore - idroterapista” ottenuto in Germania, a seguito di un corso di studi della durata di due anni e mezzo presso una scuola specializzata, con conseguente autorizzazione ad esercitare la suddetta professione in Germania. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 143 3. Il titolo di studio rilasciato in Germania per l’esercizio della professione di massaggiatore - idroterapista è di livello secondario e, in tale Paese, detta professione è regolamentata. 4. Il riconoscimento del titolo di studio è stato rigettato, in primo luogo, perché in Grecia la professione di massaggiatore - idroterapista non è regolamentata e, in secondo luogo, perché non è possibile riconoscere al ricorrente la facoltà di esercitare in Grecia la professione di “fisioterapista” che rappresenta la professione più affine a quella di “massaggiatore - idroterapista” in quanto il titolo posseduto dal ricorrente costituisce un “certificato” ai sensi della direttiva 89/489/CEE (rilasciato a seguito d un ciclo di studi secondari) mentre in Grecia, per accedere alla professione di fisioterapista, è richiesto il possesso di un “diploma” ai sensi della medesima direttiva (rilasciato a seguito di un ciclo di studi post secondari). 5. Il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 1, lettera a) e dell’art. 3, lettere a) e b) della direttiva 92/51/CEE che definiscono, rispettivamente, il concetto di “diploma” e le condizioni per l’accesso ad una professione regolamentata nello Stato ospitante (possesso di un diploma o esercizio della professione per due anni nello Stato di provenienza) assumendo di essere in possesso altresì del diploma di maturità greco e di aver esercitato la professione di massaggiatore - idroterapista in Germania, senza tuttavia aver dimostrato tale ultima circostanza. 6. Inoltre, secondo il ricorrente, il mancato riconoscimento, da parte delle autorità greche, del diritto di accesso almeno “parziale” alla professione regolamentata di fisioterapista in Grecia, in modo da consentire l’esercizio di quella parte delle attività professionali dei fisioterapisti (massoterapia e idroterapia) che il ricorrente può esercitare in Germania nell’ambito della professione di massaggiatore - idroterapista, costituirebbe una violazione dell’art. 43 CE (oggi art. 49 del TFUE) che sancisce la libertà di stabilimento all’interno dell’Unione per l’esercizio delle attività non salariate. NORMATIVA COMUNITARIA 7. L’art. 3 della direttiva 89/48/CEE, relativa ad un sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione superiore che sanzionano formazioni professionali di una durata minima di tre anni, dispone che “Quando nello Stato membro ospitante l’accesso o l’esercizio della professione regolamentata è subordinato al possesso di un diploma, l’autorità competente non può rifiutare ad un cittadino di un altro Stato membro, per mancanza di qualifiche, l’accesso a/o l’esercizio di tale professione, alle stesse condizioni che vengono applicate ai propri cittadini: a) se il richiedente possiede il diploma che è prescritto in un altro Stato membro per l’accesso o l’esercizio di questa professione sul suo territorio, e che è stato ottenuto in un altro Stato membro, oppure b) se il richiedente ha esercitato a tempo pieno tale professione per due anni 144 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 durante i precedenti dieci anni in un altro Stato membro in cui questa professione non è regolamentata … ed è in possesso di uno più titoli di formazione” da cui risulti che il titolare ha seguito con successo un ciclo di studi post secondari di durata minima di tre anni. L’art. 4 della predetta direttiva prevede inoltre delle misure di compensazione per il caso in cui la durata della formazione sia inferiore a quella prescritta nello Stato membro ospitante, consistenti nel possesso di un’esperienza professionale o nel compimento di un tirocinio o nel superamento di una prova attitudinale. 8. L’art. 1 della direttiva 92/51/CEE, relativa ad un secondo sistema generale di riconoscimento della formazione professionale che integra la direttiva 89/48/CEE, definisce i concetti di “diploma” e di “certificato”, stabilendo, alla lettera a), che il primo si consegue a seguito di un ciclo di studi post secondari della durata di almeno un anno e, alla lettera b), che il secondo si ottiene al termine di un ciclo di studi secondari, completato, se del caso, dal tirocinio o dalla pratica professionale richiesti. 9. Gli allegati C e D della citata direttiva 92751/CEE sono stati modificati dalla direttiva 94/38/CE. 10. Infine, la direttiva 2005/36/CE, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali, sostituisce le direttive 89/48/CEE e 92/51/CEE, come risulta espressamente dal suo nono considerando, riorganizzando e razionalizzando le relative disposizioni al fine di uniformare i principi applicabili. RISPOSTA AL QUESITO 11. Il giudice del rinvio chiede, nella sostanza, alla Corte di Giustizia se l’art. 43 del Trattato CE (oggi art. 49 del TFUE), che sancisce la libertà di stabilimento nell’area UE, osti al fatto che, quando il titolare di un titolo di studio ottenuto in uno Stato membro richiede l’autorizzazione per accedere ad una professione regolamentata (quella di fisioterapista) in un altro Stato membro, le autorità di tale ultimo Stato accolgano la domanda parzialmente, a determinate condizioni, limitando la portata dell’autorizzazione alle sole attività (massoterapia e idroterapia) alle quali il titolo di studio in questione dà accesso nello Stato membro in cui è stato conseguito. 12. Il problema si pone per qualifiche professionali che consentono di esercitare determinate attività nel Paese di provenienza, le quali, tuttavia, non risultano riconducibili in toto al campo di attività del corrispondente profilo professionale vigente nel Paese di stabilimento. 13. Il giudice chiede dunque se il richiamato principio del Trattato possa estendersi fino al punto di consentire, in assenza della totale equipollenza tra i titoli di studio, un accesso parziale all’esercizio di talune attività professionali, segnatamente in campo sanitario. 14. Innanzi tutto, va premesso che il sistema di mutuo riconoscimento dei diplomi istituito dalle direttive sopra richiamate non implica che i diplomi CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 145 rilasciati da altri Stati membri attestino una formazione analoga o comparabile a quella prescritta dallo Stato membro ospitante. 15. Infatti, come riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia (sentenza 19 gennaio 2006, causa C-330/03, Colegio de Ingenieros de Caminos, Canales y Puertos, punto 19), secondo il sistema creato dalle predette direttive, un diploma non è riconosciuto in ragione del valore intrinseco della formazione che sanziona ma in quanto dà accesso, nello Stato membro in cui è stato rilasciato o riconosciuto, ad una professione regolamentata. 16. In tale pronuncia, la Corte, pur riconoscendo che un accesso parziale alla professione potrebbe comportare un rischio di moltiplicazione delle attività professionali esercitate in modo autonomo dai cittadini di altri Stati membri e, di conseguenza, una certa confusione nella mente dei consumatori (punto 25) ha concluso nel senso che tale rischio potenziale non è sufficiente per affermare, l’incompatibilità con la direttiva di un riconoscimento parziale dei titoli professionali (in quel caso, quello di ingegnere). 17. Il problema si pone tuttavia in termini diversi per le professioni sanitarie, come ritenuto dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 11 luglio 2002, causa C-294/00, Gräbner. 18. Posto che il testo della direttiva 2005/36/CE sul riconoscimento delle qualifiche professionali non consente né vieta esplicitamente l’accesso parziale all’esercizio delle professioni, la questione si inquadra in una prospettiva de jure condendo, volta all’aggiornamento della predetta direttiva 2005/36/CE, in relazione alla quale la posizione del Governo italiano è di una condivisione di massima per le professioni diverse da quella sanitaria, ferma restando la necessità di introdurre criteri condivisi di applicazione del principio, nonché strumenti idonei ad evitare di ingenerare confusione nei destinatari dei servizi e a prevenire eventuali abusi da parte dei professionisti. 19. A diversa conclusione deve giungersi con riferimento all’ammissibilità del riconoscimento parziale in relazione alle professioni sanitarie. 20. In tale ambito, infatti, avuto riguardo all’insieme delle competenze connesse ai contenuti formativi previsti per ciascuna qualifica professionale regolamentata, non appare possibile individuare attività professionali separabili dall’insieme delle attività oggetto della professione sanitaria senza compromettere la tutela della salute pubblica, il livello delle prestazioni e l’affidamento riposto dagli utenti nel corrispondente titolo di studio. 21. Deve ritenersi quindi che la tutela della salute pubblica giustifichi alcune restrizioni al diritto di stabilimento e la non applicabilità dell’accesso parziale alle professioni sanitarie. 22. A tale proposito, si sottolinea che l’art. 45 del TFUE (ex art. 39 TCE), nel garantire la libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione, fa salve le limitazioni giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica. 146 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 23. In particolare, quest’ultima risulterebbe esposta a inevitabile compressione nel caso in cui si consentisse una frammentazione delle competenze professionali tale da ingenerare deprecabile confusione ed incertezza nella prestazione dei servizi sanitari in ambito comunitario. 24. Inoltre, è del tutto evidente che gli utenti dei servizi sanitari, a fronte di una specifica qualificazione professionale vantata dall’operatore sanitario, potrebbero non essere garantiti dalle effettive competenze professionali acquisite dallo stesso. 25. A tale proposito, va ricordato che, ai sensi dell’art. 43, secondo comma CE, l’esercizio della libertà di stabilimento è subordinato alle condizioni definite dalla legislazione del Paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini. Ne consegue che, qualora l’accesso ad un’attività specifica sia subordinato nello Stato membro ospitante a una determinata disciplina, il cittadino di un altro Stato membro che intenda esercitare tale attività deve, di regola, soddisfare i requisiti fissati da tale normativa (Corte di giustizia, sentenza 30 novembre 1995, causa C-55/94, Gebhard, punto 36; sentenza 1 febbraio 2001, causa C-108/96, Mac Quen e a., punto 25). 26. Ciò posto, deve ricordarsi che, secondo la giurisprudenza costante della Corte di giustizia, i provvedimenti nazionali restrittivi delle libertà fondamentali garantite dal Trattato devono soddisfare quattro condizioni: applicarsi in modo non discriminatorio, rispondere a motivi imperativi di interesse pubblico, essere idonei a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e non andare oltre quanto necessario per il raggiungimento di questo (sentenza 31 marzo 1993, causa C-19/02, Kraus, punto 32; sentenza 4 luglio 2000, causa C-424/97, Haim, 5123; sentenza Gebhard cit., punto 37; sentenza Mac Quen e a. cit., punto 26). 27. Al riguardo, è pacifico, in primo luogo, che la normativa greca sull’esercizio della professione regolamentata di fisioterapista si applica indipendentemente dalla cittadinanza della persona che richiede l’autorizzazione all’esercizio di tale professione. Nel caso di specie, peraltro, il ricorrente è cittadino greco pur avendo conseguito la propria formazione professionale in Germania. La restrizione non si applica quindi in modo discriminatorio. 28. In secondo luogo, per quanto attiene all’esistenza di un motivo imperativo di interesse generale idoneo a giustificare la restrizione, deve sottolinearsi che un riconoscimento parziale delle qualifiche professionali potrebbe in linea di principio avere l’effetto di suddividere le professioni regolamentate all’interno di uno Stato membro in diverse attività. Ciò potrebbe comportare il rischio di generare confusione nella mente dei destinatari dei servizi, che potrebbero essere indotti in errore relativamente all’estensione di tali qualifiche (sentenza 19 gennaio 2006, causa C-330/03, cit., punto 32). 29. Orbene, la protezione dei destinatari dei servizi, e in generale dei consumatori, è considerata dalla giurisprudenza comunitaria una ragione impera- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 147 tiva di pubblico interesse idonea a giustificare limitazioni alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi (sentenza 4 dicembre 1986, causa C-220/83, Commissione/Francia, punto 20; sentenza 21 settembre 1999, causa C-124/97, Läärä e a., punto 33; sentenza 11 settembre 2003, causa C-6/01, Anomar, punto 73). 30. Ancor più specificamente, la tutela della sanità pubblica figura tra i motivi imperativi di interesse generale che, ai sensi dell’art. 46, n. 1 CE (oggi art. 52 TFUE) possono giustificare restrizioni alla libertà di stabilimento (Corte di giustizia, sentenza Gräbner cit., punto 42). 31. In terzo luogo, la decisione di uno Stato membro di riservare ad una categoria di professionisti in possesso di specifiche qualifiche, come i titolari di un diploma di fisioterapista, il diritto di svolgere tale attività che incide direttamente sulla salute fisica delle persone, può essere considerata un mezzo idoneo a conseguire l’obiettivo della protezione della sanità pubblica. 32. In quarto luogo, con riferimento alla verifica di proporzionalità del divieto rispetto allo scopo perseguito, deve osservarsi che il fatto che in Germania parte dell’attività di fisioterapista (massoterapia e idroterapia) sia consentita anche a chi sia in possesso di un titolo di studio di livello secondario e quindi inferiore a quello richiesto in Grecia, non comporta automaticamente l’illegittimità della restrizione. 33. Deve ricordarsi, in proposito, che il fatto che uno Stato membro imponga norme meno severe di quelle imposte da un altro Stato membro non significa che queste ultime siano sproporzionate e perciò incompatibili con il diritto dell’Unione (Corte di Giustizia, sentenza 12 dicembre 1996, causa C- 3/95, Reisebüro Broede, punto 42; sentenza 19 febbraio 2002, causa C-309/99, Wouters, punto 108; sentenza Mac Quen e a. cit., punto 33; sentenza Gräbner cit., punto 46). 34. Inoltre, in mancanza di armonizzazione a livello comunitario del titolo di studio necessario per l’esercizio di determinate prestazioni sanitarie, ciascuno Stato membro può decidere, conformemente alla sua concezione della tutela della sanità pubblica, di autorizzare o meno soggetti non in possesso della qualifica di fisioterapisti all’esercizio di attività parzialmente ricomprese in tale qualifica, fissando i presupposti che essi devono soddisfare relativamente all’esperienza o al titolo di studio. 35. Dunque, il Governo italiano ritiene che l’accesso parziale alle professioni sanitarie possa rivelarsi foriero di una parcellizzazione delle prestazioni tale da poter ingenerare dubbi ed incertezze nei destinatari dei servizi, mettendo a repentaglio la tutela della sanità pubblica. CONCLUSIONI 36. Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere il quesito nel senso che, ai sensi dell’art. 43 del Trattato e tenuto conto del principio di 148 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 proporzionalità, l’intento di garantire la prestazione di servizi sanitari di livello elevato è sufficiente a giustificare una restrizione alla libertà di stabilimento risultante dal sistema delle disposizioni vigenti nello Stato membro ospitante, le quali: a) consentano l’esercizio di talune attività professionali esclusivamente a coloro che hanno il diritto di esercitare la professione regolamentata di fisioterapista in tale Stato membro; b) escludano la possibilità di un accesso parziale a tale professione e c) comportino, di conseguenza, per il cittadino dello Stato membro ospitante l’assoluta impossibilità di esercitare in tale Stato, mediante un accesso parziale alla professione di fisioterapista, anche soltanto talune delle attività riconducibili alla suddetta professione, ossia quelle che l’interessato ha il diritto di esercitare nello Stato membro di provenienza. Roma, 9 marzo 2012 Wally Ferrante Avvocato dello Stato Osservazioni del Governo della Repubblca italiana (avv. Stato Marina Russo, AL 5876/12) nella causa C-607/11 promossa dalla High Court of Justice (Chancery Division) (Regno Unito) con ordinanza depositata il 28 novembre 2011. Materia: Ravvicinamento delle legislazioni; Proprietà industriale e commerciale; Libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi; Libera circolazione dei servizi. I) IL GIUDIZIO A QUO I.1) Con ordinanza della High Court of Justice in data 17 novembre 2011. è stata sollevata un’articolata questione pregiudiziale, incentrata sull’interpretazione dell’art. 3 n. 1 della Direttiva 22 maggio 2001, n. 2011/29/CE sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione e, segnatamente, della nozione di “comunicazione al pubblico” (d’ora in poi, “La Direttiva”); I.2) Il giudizio a quo riguarda un caso in cui alcune società televisive (d’ora in poi, “le ricorrenti”), titolari dei diritti d’autore su programmi televisivi e filmati pubblicitari in essi inseriti, ritengono che detti diritti siano violati da una società denominata TV Catch Up LTD (d’ora in poi “la TVC”) che gestisce un sistema di trasmissione in streaming via internet. In particolare, la TVC - intercetta i segnali di trasmissione prodotti dalle originarie emittenti; CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 149 - li mette a disposizione di un pubblico che, potenzialmente, potrebbe riceverli anche dall’emittente originaria sul proprio apparecchio televisivo (infatti, l’utenza internet del servizio streaming presuppone il pagamento del canone di abbonamento televisivo). Tale ricezione può - tuttavia - avvenire, da parte degli utenti del servizio streaming, nel momento prescelto, quindi anche in tempi diversi da quelli di diffusione della trasmissione originaria, ed in qualunque luogo all’interno dello Stato membro; - antepone alla trasmissione in streaming propri messaggi pubblicitari a scopo di lucro; I.3) con riferimento alla questione sintetizzata al precedente punto, il giudice a quo ha sottoposto alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea i seguenti quesiti: “Se il diritto di autorizzare o vietare una "comunicazione al pubblico, su filo o senza filo, delle loro opere" ai sensi dell'art. 3, n. 1, della direttiva si estenda al caso in cui: i) gli autori autorizzino l'inclusione delle loro opere all'interno di una trasmissione di cui è prevista la diffusione in chiaro su una televisione terrestre destinata alla ricezione in tutto il territorio di uno Stato membro o in una determinata area geografica all'interno di uno Stato membro; ii) un soggetto terzo (vale a dire un organismo diverso dal fornitore originario) offra un servizio grazie al quale singoli abbonati presenti nell'area cui è destinata la trasmissione, e che potrebbero ricevere legalmente le trasmissioni su un apparecchio televisivo a casa propria, possono accedere al server del soggetto terzo e ricevere il contenuto della trasmissione in streaming via Internet. Se, ai fini della soluzione di detta questione, rilevi la circostanza che: a) il soggetto terzo consenta unicamente un collegamento individuale per ogni abbonato, nell'ambito del quale ciascun abbonato crea il suo specifico collegamento al server e i singoli pacchetti di dati trasmessi dal server attraverso Internet sono destinati esclusivamente a uno specifico utente; b) il servizio offerto dal soggetto terzo si finanzi grazie a messaggi pubblicitari "pre-roll" (vale a dire trasmessi nel lasso di tempo che intercorre tra il login da parte dell'abbonato e il momento in cui questi inizia a ricevere il contenuto della trasmissione) o "in-skin" (vale a dire, all'interno della cornice del software di visualizzazione del programma che l'utente riceve sul suo apparecchio video, ma al di fuori dell'immagine del programma), ma all'utente vengano presentate le pubblicità originarie contenute nel programma nel punto del programma in cui sono state inserite dall'emittente; c) l'organizzazione interveniente: i) offra un servizio alternativo a quello dell'emittente originario, agendo in tal modo in diretta concorrenza con l'emittente originario per acquisire spettatori; o 150 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 ii) agisca in concorrenza diretta con l'emittente originario per quanto riguarda i proventi pubblicitari ”. IL GOVERNO ITALIANO SVOLGE LE SEGUENTI OSSERVAZIONI A) La Direttiva 22 maggio 2001, n. 2011/29/CE, sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione ha per scopo quello di garantire un alto livello di protezione del diritto di autore, nonché un sistema di tutela del diritto stesso effettivo e rigoroso. Tali finalità sono ripetutamente esplicitate in più punti della Direttiva stessa, segnatamente: - al 4^ Considerando: “Un quadro giuridico armonizzato… prevedendo un elevato livello di protezione della proprietà intellettuale promuoverà notevoli investimenti… e di conseguenza una crescita e una maggiore competitività ”; - al 9^ Considerando: “Ogni armonizzazione del diritto d’autore dovrebbe prendere le mosse da un alto livello di protezione, dal momento che tali diritti sono essenziali per la creazione intellettuale”; - all’11^ Considerando: “Un sistema efficace e rigoroso di protezione del diritto d’autore … è uno dei principali strumenti in grado di garantire alla proprietà intellettuale le risorse necessarie …”. Coerentemente con la descritta finalità di garantire un alto livello di protezione al diritto d’autore, nonché nell’ottica di un’armonizzazione del diritto d’autore applicabile alla comunicazione di opere al pubblico, il 23^ Considerando precisa che tale ultima nozione deve essere intesa “… in senso lato, in quanto concernente tutte le comunicazioni al pubblico non presente nel luogo in cui esse hanno origine”. B)I principi sopra richiamati costituiscono il punto di partenza per la corretta interpretazione dell’espressione utilizzata dalla Direttiva all’art. 3 n. 1. Si dovrà infatti necessariamente accedere ad una nozione ampia di “comunicazione al pubblico”, affinché la stessa possa garantire al meglio la tutela del diritto d’autore ad essa correlato. C) Per rispondere ai quesiti proposti, occorrerà innanzi tutto verificare se i destinatari della comunicazione effettuata dalla TVC possano essere qualificati “pubblico” nel senso inteso dalla Direttiva. A tale questione deve sicuramente darsi risposta affermativa, posto che – come affermato dalla Corte ai punti 37 e 38 nella sentenza del 7 dicembre 2006 resa nella causa C-306/07 “Rafael Hoteles” – il termine pubblico riguarda un numero indeterminato di spettatori potenziali e “Si tratta in genere di un numero di persone abbastanza rilevante, di modo che queste devono essere considerate come un pubblico in considerazione dell’obiettivo principale della Direttiva”. In effetti, rispondono a questa definizione coloro che, in possesso dell’abbonamento per la fruizione dei servizi erogati da TVC, hanno titolo per visionare i programmi che questa diffonde in streaming. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 151 D) Se, poi, quella effettuata nei confronti del “pubblico” come sopra individuato costituisca una “comunicazione” ai sensi dell’art. 3 n. 1 della Direttiva, è anch’essa questione che può risolversi alla luce dei principi interpretativi elaborati dalla Corte proprio nella sentenza Rafael Hoteles citata al punto che precede. Secondo tale pronuncia (punto 41), è opportuno attenersi alle indicazioni interpretative di massima fornite dall’OMPI in relazione alla Convenzione di Berna, secondo le quali “… l’autore, autorizzando la radiodiffusione della sua opera, prende in considerazione solo gli utilizzatori diretti ” (enfasi aggiunta) mentre, se la diffusione dell’opera si estende ad un pubblico più ampio, “… tale ricezione pubblica dà adito al diritto esclusivo dell’autore di autorizzarla”. Anche il giudice a quo mostra di aver bene inteso l’importanza di tale passaggio, laddove (punto 17 dell’ordinanza) fa riferimento al fatto che la Corte, nei suoi precedenti pronunciamenti in materia, ha dato importanza al fatto che la comunicazione abbia raggiunto un pubblico “nuovo” o “aggiuntivo” rispetto a quello che direttamente fruisce della “comunicazione”, e (punto 15) distingue fra “comunicazione” e semplice approntamento di un mezzo tecnico per il miglioramento della ricezione. E)Venendo al caso di specie, e facendo applicazione al medesimo delle nozioni generali descritte ai punti che precedono, non potrà negarsi che il pubblico destinatario del servizio di streaming costituisca – appunto – un pubblico “nuovo” nel senso indicato al punto C. Il dubbio del giudice a quo su tale questione è originato dal fatto che gli abbonati a TVC potrebbero comunque ricevere gli stessi programmi che vengono erogati in streaming anche sugli schermi dei propri apparecchi televisivi. Ciò in quanto essi devono, per fruire del servizio di TVC, essere in regola con il canone di abbonamento televisivo (vedi punto I.2 secondo trattino del presente atto). La circostanza che gli utenti TVC possano ricevere gli stessi progammi per altra via non è, peraltro, significativa ai fini dell’esclusione della qualità di “pubblico nuovo” ovvero “aggiuntivo” di cui si è detto al punto D. Infatti, il pubblico raggiunto da TVC può fruire del programma in condizioni di tempo e luogo differenti e più ampie di quelle del normale pubblico televisivo. Esso può, infatti, ricevere il programma “scaricandolo” dal web anche in orari differenti da quelli in cui ha luogo la sua trasmissione televisiva, e su tutto il territorio nazionale del Regno Unito (non solo, quindi, nella propria abitazione ove è sito il televisore). Chi, quindi, non avrebbe visto il programma quando lo stesso è andato in onda in televisione, può vederlo successivamente, nonché ovunque all’interno dello Stato Membro, purché possa collegarsi ad una rete internet. Da quanto sopra discende l’irrilevanza del fatto che TVC consenta unicamente un collegamento individuale per ogni abbonato, nell'ambito del quale ciascun abbonato crea il suo specifico collegamento al server e i singoli pacchetti di 152 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 dati trasmessi dal server attraverso Internet sono destinati esclusivamente a uno specifico utente. Infatti, premesso che – per i motivi indicati sopra, al punto C) – anche questi utenti costituiscono “pubblico” ai sensi della Direttiva, le circostanze esposte nel presente punto comportano altresì che si tratti di pubblico “nuovo”, “aggiuntivo” rispetto a quello delle trasmissioni televisive diffuse dalle ricorrenti. F) Alle circostanze descritte fin qui si aggiunge, infine, che la “comunicazione al pubblico” effettuata da TVC ha anche un indiscusso scopo di lucro, in quanto diffonde contenuti pubblicitari esclusivi di TVC, il che vale a rafforzare l’esigenza di tutelare il diritto d’autore anche in occasione di questa “comunicazione al pubblico”, ulteriore rispetto a quella eseguita dalle ricorrenti, coerentemente con le esigenze di tutela del contenuto economico del diritto di proprietà intellettuale esplicitate nei Considerando riportati al punto A). §§§ Per le ragioni esposte, il Governo italiano propone di rispondere come segue ai quesiti sollevati dal giudice remittente: “Il diritto di autorizzare o vietare una "comunicazione al pubblico, su filo o senza filo, delle loro opere" ai sensi dell'art. 3, n. 1, della direttiva si estende al caso in cui: i) gli autori autorizzino l'inclusione delle loro opere all'interno di una trasmissione di cui è prevista la diffusione in chiaro su una televisione terrestre destinata alla ricezione in tutto il territorio di uno Stato membro o in una determinata area geografica all'interno di uno Stato membro; ii) un soggetto terzo (vale a dire un organismo diverso dal fornitore originario) offra un servizio grazie al quale singoli abbonati presenti nell'area cui è destinata la trasmissione, e che potrebbero ricevere legalmente le trasmissioni su un apparecchio televisivo a casa propria, possono accedere al server del soggetto terzo e ricevere il contenuto della trasmissione in streaming via Internet. Ai fini della soluzione di detta questione, non rileva nel senso di escludere il diritto di autorizzare o vietare una "comunicazione al pubblico, su filo o senza filo, delle loro opere" ai sensi dell'art. 3, n. 1, la circostanza che il soggetto terzo consenta unicamente un collegamento individuale per ogni abbonato, nell'ambito del quale ciascun abbonato crea il suo specifico collegamento al server e i singoli pacchetti di dati trasmessi dal server attraverso Internet sono destinati esclusivamente a uno specifico utente. Rileva, invece, il fatto che il servizio offerto dal soggetto terzo si finanzi grazie a messaggi pubblicitari "pre-roll" (vale a dire trasmessi nel lasso di tempo che intercorre tra il login da parte dell'abbonato e il momento in cui questi inizia a ricevere il contenuto della trasmissione) o "in-skin" (vale a dire, all'interno della cornice del software di visualizzazione del programma che l'utente riceve sul suo apparecchio video, ma al di fuori dell'immagine del pro- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 153 gramma), e ciò sebbene all'utente vengano presentate anche le pubblicità originarie contenute nel programma nel punto del programma in cui sono state inserite dall'emittente. Rileva altresì la circostanza che l'organizzazione interveniente: i) offra un servizio alternativo a quello dell'emittente originario, agendo in tal modo in diretta concorrenza con l'emittente originario per acquisire spettatori; o ii) agisca in concorrenza diretta con l'emittente originario per quanto riguarda i proventi pubblicitari. Marina Russo Avvocato dello Stato Osservazioni del Governo della Repubblica italiana (avv. Stato Wally Ferrante, AL 9390/12) nella causa C-628/11. Materia: Trasporti. QUESTIONI PREGIUDIZIALI 1. Con l’ordinanza [del 24 novembre 2011, depositata in data 7 dicembre 2011 dal Oberlandesgericht Braunschweig – Germania], è stato chiesto alla Corte di Giustizia dell’Unione europea di pronunciarsi, ai sensi dell’art. 267 TFUE, sulle seguenti questioni pregiudiziali: 1. “Se ricada nella sfera di applicazione del principio di non discriminazione disciplinato dall’art. 18 TFUE (ex art. 12 CE) la fattispecie in cui uno Stato membro (Repubblica federale di Germania) richieda ad un vettore aereo che dispone di una valida licenza d’esercizio ai sensi degli artt. 3 e 8 del Regolamento (CE) del Parlamento europeo e del Consiglio 24 settembre 2008, n. 1008, recante norme comuni per la prestazione di servizi aerei nella Comunità, rilasciata in un altro Stato membro (Repubblica d’Austria) l’autorizzazione all’ingresso per voli charter (voli commerciali non di linea) che, provenienti da Stati terzi, entrino nel territorio dello Stato membro? 2. Se – in caso di soluzione affermativa della questione 1 – sussista una violazione dell’art. 18 TFUE (ex art. 12 CE) già, in re ipsa, nella necessità di richiesta dell’autorizzazione, qualora un’autorizzazione all’ingresso per servizi aerei da Stati terzi, il cui rilascio possa essere conseguito a fronte del versamento di una sanzione pecuniaria, venga richiesta ai soli vettori aerei in possesso di un’autorizzazione di volo (licenza d’esercizio) negli altri Stati membri, ma non ai vettori aerei con licenza di esercizio nella Repubblica federale di Germania? 154 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 3. Se – nell’ipotesi in cui, pur ricadendo la fattispecie de qua nella sfera di applicazione dell’art. 18 TFUE (ex art. 12 CE) (questione sub 1), la richiesta di un’autorizzazione non venga tuttavia considerata di per sé discriminatoria (questione sub 2) – il rilascio di un’autorizzazione all’ingresso per servizi aerei effettuati dalle imprese interessate, diretti verso (punto 3) la Repubblica federale di Germania in provenienza da Stati terzi, possa essere subordinato, a pena di una sanzione pecuniaria, senza che ciò implichi violazione del principio di non discriminazione, dal fatto che il richiedente vettore aereo dello Stato membro fornisca all’autorità competente per il rilascio delle licenze la prova che i vettori aerei muniti di permesso nella Repubblica federale di Germania non siano in condizione di effettuare i voli (dichiarazione di non disponibilità)?”. ESPOSIZIONE DEI FATTI DI CAUSA 2. La questione pregiudiziale trae origine da un procedimento penale a carico della Jet Management GmbH, vettore aereo con sede in Austria, per aver effettuato alcuni voli charter, utilizzando i propri velivoli, da Paesi terzi (Russia e Turchia) verso la Germania senza essere in possesso di un’autorizzazione per l’ingresso in detto Stato membro ai sensi della legge sul traffico aereo tedesca. 3. La società ricorrente è titolare di una valida licenza d’esercizio ai sensi degli articoli 3 e 8 del Regolamento n. 1008/2008, recante norme comuni per la prestazione di servizi aerei nella Comunità, rilasciata dal Ministero dei trasporti austriaco nonché di un certificato di operatore aereo ai sensi dell’art. 6 del citato regolamento rilasciato dalle competenti autorità austriache. 4. Tuttavia, in tre casi, l’autorizzazione all’ingresso in Germania è stata negata dall’Ufficio federale per il traffico aereo tedesco per mancanza della cosiddetta “dichiarazione di non disponibilità”, ossia dell’accertamento che nessuna impresa tedesca intendesse effettuare il volo a condizioni equivalenti. Nei restanti casi, al momento dell’ingresso nel territorio tedesco, non era stata ancora adottata alcuna decisione sulla domanda di autorizzazione, né successivamente sono state accertate le ragioni del mancato rilascio dell’autorizzazione medesima. 5. Il predetto vettore austriaco, condannato al pagamento di sanzioni pecuniarie dal Tribunale di primo grado di Braunschweig, ha impugnato la sentenza innanzi al giudice del rinvio (1° sezione penale dell’Oberlandesgericht di Braunschweig), lamentando la violazione del principio generale di non discriminazione di cui all’art. 18 TFUE (ex art. 12 CE) e, in via subordinata, la violazione della libertà di circolazione dei servizi disciplinata dall’art. 56 TFUE (ex art. 49 CE). CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 155 NORMATIVA COMUNITARIA 6. L’art. 18, comma 1 TFUE (ex art. 12 CE) stabilisce che: “Nel campo di applicazione dei trattati, e senza pregiudizio delle disposizioni particolari, dagli stessi previste, è vietata ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità”. 7. Gli articoli 3 e 8 del Regolamento n. 1008/2008, recante norme comuni per la prestazione di servizi aerei nella Comunità, disciplinano l’obbligo di ottenere la licenza d’esercizio per poter effettuare a titolo oneroso trasporti aerei di passeggeri, posta o merci e, rispettivamente, la validità della licenza d’esercizio. 8. L’art. 6 del predetto regolamento prescrive che il rilascio e la validità di una licenza di esercizio sono subordinati al possesso di un certificato di operatore aereo (COA) valido che specifichi le attività contemplate dalla licenza d’esercizio. 9. Ai sensi dell’art. 2, n. 1 del suddetto regolamento, per “licenza d’esercizio” si intende “un’abilitazione rilasciata dall’autorità competente per il rilascio delle licenze a un’impresa, che consente di operare servizi aerei, secondo le modalità indicate nell’abilitazione stessa”. Ai sensi del n. 8 del medesimo art. 2, per “certificato di operatore aereo” si intende “un certificato rilasciato a un’impresa in cui si attesti che l’operatore ha la capacità professionale e l’organizzazione necessarie ad assicurare lo svolgimento in condizioni di sicurezza delle operazioni specificate nel documento stesso, come previsto nelle pertinenti disposizioni del diritto comunitario o nazionale applicabile” (evidenza nostra). 10. A norma degli articoli 4 e 5 del regolamento n. 785/2004, relativo ai requisiti assicurativi applicabili ai vettori aerei e agli esercenti di aeromobili, i vettori aerei sono assicurati in materia di responsabilità specifica nei trasporti aerei per quanto concerne i passeggeri, i bagagli, le merci e i terzi e dimostrano di rispettare i requisiti assicurativi minimi stabiliti dal regolamento depositando presso le autorità competenti dello Stato membro interessato un certificato di assicurazione o fornendo un’altra prova di un’assicurazione valida. RISPOSTA AL PRIMO QUESITO 11. Il rinvio pregiudiziale attiene alla materia dell’aviazione internazionale, vale a dire ai servizi di trasporto aereo tra Stati membri dell’Unione europea e Paesi esterni all’Unione stessa ed afferisce alle attività di volo commerciale non di linea (charter). 12. Come noto, le relazioni aeronautiche con Paesi esterni all’Unione europea sono per lo più regolate da accordi bilaterali che definiscono, tra l’altro, i soggetti legittimati allo svolgimento dei servizi di trasporto aereo di linea e le modalità di effettuazione di detti servizi. 13. Sebbene gli accordi bilaterali regolino di norma i servizi di linea, e 156 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 solo sporadicamente altre tipologie di servizi, si ritiene che gli stessi possano essere assunti come quadro normativo di riferimento – anche in via analogica – per i voli charter. Ciò in quanto la clausola di designazione, pur essendo precipuamente prevista per i soli voli di linea, può essere considerata in linea generale utile per l’individuazione delle compagnie legittimate ad operare con un determinato Paese esterno all’Unione. 14. In applicazione del Regolamento (CE) 847/2004 relativo alla negoziazione e all’applicazione di accordi in materia di servizi aerei stipulati dagli Stati membri con i Paesi terzi nonché della politica posta in essere dalla UE, gli accordi bilaterali attualmente esistenti sono riconducibili alle seguenti tipologie: - accordi bilaterali stipulati tra uno Stato membro ed un Paese terzo che – in quanto non modificati dopo l’entrata in vigore del regolamento (CE) 847/2004 – mantengono ai fini della designazione la cd. “clausola di nazionalità”, in base alla quale possono essere designate le sole compagnie con licenza rilasciata dagli Stati contraenti e di proprietà di detti Stati ovvero di cittadini degli stessi (ad es. sulle rotte Francia – Federazione Russa possono essere designate le sole compagnie di proprietà francese, con licenza rilasciata dall’autorità francese); - accordi bilaterali stipulati tra uno Stato membro ed un Paese terzo, che hanno sostituito la precedente clausola di nazionalità con la cd. “clausola tipo” di designazione UE, che consente ai vettori con licenza rilasciata da uno Stato membro, anche diverso da quello contraente - e di proprietà di un qualsiasi Stato membro (o di Paesi EFTA) o di cittadini degli stessi – di avere titolo a svolgere servizi sulle rotte tra lo Stato membro contraente ed un Paese terzo, solo nel caso in cui siano stabiliti nello Stato membro contraente (ad esempio, tali accordi consentono di svolgere servizi di linea tra Italia e Senegal ad una compagnia, stabilita in Italia, con licenza rilasciata dall’autorità francese); - accordi globali, stipulati tra la UE e gli Stati membri, da un lato, ed uno Stato esterno all’Unione, dall’altro, che, per quanto rileva ai fini della materia in argomento, prevedono che possono volare da ciascuno Stato membro – anche se non stabilite nello stesso – tutte le compagnie con licenza rilasciata da Stati dell’Unione europea. 15. Come noto, i servizi charter sono regolati dall’art. 5, comma 2, della Convenzione di Chicago del 7 dicembre 1944 sulla circolazione aerea internazionale, che tra l’altro prevede “il diritto dello Stato ove ha luogo l’imbarco o lo sbarco di imporre quelle norme, condizioni o limitazioni che giudicherà utili”. 16. Gli Stati, di norma, hanno ritenuto di assoggettare i servizi charter su rotte esterne all’Unione europea, al regime autorizzatorio. In particolare, con riferimento agli accordi vigenti, i servizi charter extra UE sono soggetti a permessi di volo. 17. La valutazione di un’eventuale violazione del principio di non discriminazione disciplinato dall’art. 18 TFUE non può prescindere dalla valutazione CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 157 del contenuto degli accordi vigenti tra uno Stato membro ed un Paese terzo. 18. In vigenza di un accordo globale, costituisce violazione del principio di non discriminazione il diniego al rilascio di un’autorizzazione allo svolgimento di servizi charter richiesta da una compagnia in possesso di una valida licenza d’esercizio, rilasciata ai sensi del Regolamento (CE) n. 1008/2008. 19. In vigenza di una clausola tipo di designazione dei vettori UE, prevista da un accordo bilaterale tra uno Stato membro ed uno Stato terzo, costituisce violazione del principio di non discriminazione il diniego al rilascio di un’autorizzazione allo svolgimento di servizi charter richiesta da una compagnia stabilita in detto Stato membro in possesso di una valida licenza d’esercizio rilasciata ai sensi del Regolamento (CE) 1008/2008. 20. Ciò premesso, come ricordato dal giudice del rinvio, la Germania ha aderito alla Convenzione di Chicago avvalendosi della facoltà, prevista dal citato art. 5, comma 2, di applicare ulteriori limitazioni. Il diritto all’ingresso senza autorizzazioni non deriva quindi da un accordo internazionale. 21. Occorre quindi domandarsi, rispondendo al primo quesito, se la fattispecie in esame ricada nella sfera di applicazione del diritto dell’Unione europea ed in particolare del principio di non discriminazione di cui all’art. 18 TFUE. 22. Come correttamente rilevato dal giudice del rinvio, la soluzione al quesito dipende dai diritti di sovranità che sono stati trasferiti nei Trattati europei. Orbene, l’Unione ha una competenza concorrente con quella degli Stati membri in materia di trasporti aerei ai sensi dell’art. 4, n. 2, lett. g TFUE e art. 100, n. 2 TFUE (ex art. 80, n. 2 CE), materia in cui ha legiferato anche mediante il diritto derivato. 23. Al riguardo, la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha chiarito che, se è vero che, a norma dell’art. 80, n. 2 CE, i trasporti marittimi ed aerei sfuggono – fintantoché il legislatore comunitario non abbia deciso diversamente – all’applicazione delle norme del titolo V della parte terza del Trattato, relative alla politica comune dei trasporti, essi restano nondimeno assoggettati, al pari delle altre modalità di trasporto, alle norme generali del Trattato (sentenza 25 gennaio 2011, causa C-382/08, Neukirchinger, punto 21; sentenza 30 aprile 1986, cause riunite C-209/84 e C-213/84, Asjes e a., punto 45; sentenza 4 aprile 1974, causa C-167/73, Commissione/Francia, punto 32). 24. Ciò detto, nel caso di specie, non appare determinante il fatto che i voli in questione provenissero da Stati terzi (Russia e Turchia), posto che l’autorizzazione è stata chiesta per l’ingresso in uno Stato membro (Germania) di un vettore aereo con sede in altro Stato membro (Austria) ed i cui velivoli dispongono della licenza di esercizio in tale Stato. 25. La sanzione pecuniaria infatti non è connessa al decollo in uno Stato terzo bensì all’applicabilità della legge sul traffico aereo tedesca. 26. Non sembra quindi potersi dedurre che il semplice decollo in uno Stato terzo valga a sottrarre la causa all’ambito di applicazione del diritto 158 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 dell’Unione, trattandosi di stabilire se vi sia stata, nel caso di specie, una disparità di trattamento di un’impresa austriaca rispetto alle imprese tedesche che esercitino la medesima attività di vettori aerei. 27. Ad avviso del Governo italiano, quindi, la fattispecie in esame ricade nella sfera di applicazione del principio di non discriminazione disciplinato dall’art. 18 TFUE (ex art. 12 CE). RISPOSTA AL SECONDO QUESITO 28. Avendo risposto positivamente al primo quesito, occorre domandarsi se sussista una violazione dell’art. 18 TFUE nel fatto stesso che sia richiesta un’autorizzazione all’ingresso per servizi aerei da Stati terzi ovvero se debba considerarsi discriminatorio solo il diniego di rilascio dell’autorizzazione per mancanza di una dichiarazione di non disponibilità, che persegue evidentemente finalità di protezionismo economico. 29. L’Ufficio federale per il traffico aereo tedesco sostiene che l’obbligo di autorizzazione sarebbe funzionale, oltre che alla protezione dell’economia nazionale, anche alla sicurezza del volo. 30. L’autorizzazione sarebbe infatti volta a verificare l’esistenza di una polizza assicurativa e la validità della licenza d’esercizio rilasciata da altro Stato membro. 31. In proposito, il predetto Ufficio, pur ammettendo che l’autorità competente per il rilascio dell’autorizzazione non esamina nessun elemento alla cui verifica non sia obbligato anche lo Stato membro della sede dell’impresa, assume che frequentemente gli Stati membri non adempirebbero al loro obbligo di vigilanza. 32. Al riguardo, il Governo italiano ritiene che la citata sentenza Neurikichinger – che curiosamente riguardava, all’opposto, l’applicazione di una sanzione pecuniaria ad un vettore tedesco, titolare di una licenza in Germania, per aver esercitato la propria attività di trasporto commerciale di passeggeri in pallone aerostatico in Austria senza possedere le licenze di trasporto prescritte dalla legge austriaca – sia del tutto pertinente per la soluzione al secondo quesito. 33. Innanzitutto, va ricordato che, secondo una consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia, le norme sulla parità di trattamento tra soggetti nazionali e stranieri proibiscono non solo le discriminazioni palesi fondate sulla nazionalità ovvero, nel caso delle società, sulla sede, ma anche qualsiasi forma di discriminazione dissimulata che, mediante applicazione di altri criteri distintivi, conduca di fatto al medesimo risultato (sentenza 27 ottobre 2009, causa C-115/08, CEZ, punto 92). 34. Pertanto, una normativa di uno Stato membro che obbliga un soggetto residente o stabilito in un altro Stato membro, titolare in quest’ultimo di una licenza per l’organizzazione di voli commerciali in pallone, a farsi rilasciare nel primo Stato membro una nuova licenza, senza che venga tenuto in debito CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 159 conto del fatto che le condizioni per il rilascio di quest’ultima sono sostanzialmente identiche a quelle previste per la licenza già rilasciata al predetto soggetto nell’altro Stato membro, introduce un criterio distintivo che conduce di fatto al medesimo risultato di un criterio fondato sulla nazionalità (sentenza Neurikichinger cit., punto 38). 35. La Corte ha altresì chiarito che, rifiutando di tener conto della licenza rilasciata nell’altro Stato membro, la normativa censurata impone al soggetto interessato di adempiere una seconda volta a tutte le incombenze necessarie per l’ottenimento della licenza, senza che un tale obbligo possa giustificarsi e ritenersi proporzionato ai legittimi obiettivi di tutelare la sicurezza della navigazione aerea. 36. Le condizioni per il rilascio delle licenze di trasporto nei due Stati membri sono infatti sostanzialmente identiche e pertanto detti obiettivi sono necessariamente già stati considerati in occasione del rilascio della prima licenza. 37. Infatti, il vettore austriaco è in possesso sia della licenza di esercizio, sia del certificato di operatore aereo che, come si è visto, ai sensi dell’art. 2, n. 8 del regolamento n. 1008 del 2008, attesta tra l’altro la capacità professionale del vettore medesimo ad assicurare lo svolgimento in condizioni di sicurezza dell’attività di trasporto aereo. 38. Inoltre, ai sensi degli articoli 4 e 5 del regolamento n. 785 del 2004, la stipula di una polizza assicurativa per la tutela dei passeggeri, dei bagagli, delle merci e dei terzi costituisce un presupposto indispensabile per lo svolgimento dell’attività di trasporto aereo. Peraltro, a norma del comma 4 del citato art. 5, per i vettori comunitari, la presentazione della prova della copertura assicurativa nello Stato membro che ha rilasciato la licenza di esercizio è sufficiente per tutti gli Stati membri. 39. Inoltre, ai sensi del’art. 15, n. 2 del regolamento n. 1008 del 2008, gli Stati membri si astengono dall’assoggettare la prestazione di servizi aerei intracomunitari da parte di un vettore aereo comunitario a qualsivoglia permesso o autorizzazione e non chiedono a tale vettore di fornire alcun documento o informazione che questo abbia già presentato all’autorità competente al rilascio della licenza. 40. Si ritiene quindi che la normativa tedesca, nel richiedere un’ulteriore autorizzazione ai vettori aerei stabiliti in un altro Stato membro per il solo fatto che alcuni voli decollino in Stati terzi mentre analoga ulteriore autorizzazione non è richiesta ai vettori con sede in Germania, né ai vettori stabiliti in altro Stato membro per le tratte intracomunitarie, non è compatibile con il principio di non discriminazione di cui all’art. 18 TFUE. RISPOSTA AL TERZO QUESITO 41. La risposta positiva fornita al secondo quesito consente di ritenere assorbita la risposta al terzo quesito. 160 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 CONCLUSIONI 42. Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere il primo quesito nel senso che ricade nella sfera di applicazione del principio di non discriminazione disciplinato dall’art. 18 TFUE (ex art. 12 CE) la fattispecie in cui uno Stato membro (Repubblica federale di Germania) richieda ad un vettore aereo che dispone di una valida licenza d’esercizio ai sensi degli artt. 3 e 8 del Regolamento (CE) n. 1008/2008 rilasciata in un altro Stato membro (Repubblica d’Austria) l’autorizzazione all’ingresso per voli charter (voli commerciali non di linea) che, provenienti da Stati terzi, entrino nel territorio dello Stato membro. 2. Il Governo italiano propone inoltre alla Corte di risolvere il secondo quesito nel senso che sussiste una violazione dell’art. 18 TFUE (ex art. 12 CE) già, in re ipsa, nella necessità di richiesta dell’autorizzazione, qualora un’autorizzazione all’ingresso per servizi aerei da Stati terzi, il cui rilascio possa essere conseguito a fronte del versamento di una sanzione pecuniaria, venga richiesta ai soli vettori aerei in possesso di un’autorizzazione di volo (licenza d’esercizio) negli altri Stati membri, ma non ai vettori aerei con licenza di esercizio nella Repubblica federale di Germania. 3. La risposta positiva fornita al secondo quesito consente di ritenere assorbito il terzo quesito. Roma, 4 aprile 2012 Wally Ferrante Avvocato dello Stato CONTENZIOSO NAZIONALE La vexata quaestio dell’incidente di falso nel processo amministrativo (Nota a Corte costituzionale, sentenza 11 novembre 2011 n. 304) Marta Moretti* Nel nostro ordinamento non è consentito al giudice (qualsiasi esso sia) di pronunciarsi incidenter tantum sulla falsità degli atti assistiti da fede priviliegiata (atto pubblico, scrittura privata autenticata o legalmente riconosciuta o verificata). Se, nell’ambito di un processo, è eccepita la falsità di un atto fidefacente, nel giudizio principale si innesta una causa pregiudiziale. Pertanto, il giudice, se competente, decide con efficacia di giudicato, altrimenti, deve sospendere il giudizio a quo e rimettere la causa di falso ad altro giudice. Spetta esclusivamente al Giudice ordinario (di seguito G.O.) accertare il falso documentale. Pertanto, se è eccepita la falsità di un documento dinanzi al Giudice amministrativo (di seguito G.A.), questi, non potendo statuire nel merito, deve sospendere il processo (1). Sarà, quindi, onere della parte inte- (*) Dottore in Giurisprudenza, già praticante forense presso l’Avvocatura dello Stato. (1) Dagli articoli 41 e 42 del Regolamento sulla procedura dinanzi al Consiglio di Stato si è dedotto che al G.A. è preclusa perfino ogni indagine, sia pur sommaria, in punto di ammissibilità della querela proposta in sede civile, essendo ad esso demandato esclusivamente il potere di accertare se la querela di falso sia stata proposta secondo le modalità stabilite dal codice civile e se essa sia rilevante per la risoluzione della controversia pendente dinanzi a sé (v. P. FRISINA, Osservazioni in tema di incidente di falso nel processo amministrativo, in Giur. merito, 1984, 6, p. 1305 e seg.). Tuttavia, la giurisprudenza amministrativa ha ripetutamente affermato che «una rituale querela di falso rispetto ad atti impugnati in un processo amministrativo comporta la sospensione necessaria del giudizio solo se la questione di falso abbia carattere di pregiudizialità e se non appaia manifestamente infondata o dilatoria» (v. per tutte la decisione del Consiglio di Stato del 17 febbraio 2000, n. 911). La competenza giurisdizionale del giudice civile ad accertare la verità o falsità di un atto fidefacente sussiste anche qualora si sia formato il giudicato in sede amministrativa sulla legittimità dell’atto, in 162 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 ressata proporre, nel termine fissato dal G.A., querela di falso davanti al G.O. (2). In tale ipotesi, il processo amministrativo resta sospeso fino alla definizione del giudizio di falso. La parte interessata avrà, altresì, l’onere di provocare la ripresa del processo amministrativo, depositando, entro il termine decadenziale di quarantacinque giorni (vertendosi in materia elettorale) dal passaggio in giudicato della sentenza del G.O. (3). Con la sentenza dell’11 novembre 2011, n. 304, la Corte Costituzionale ha chiarito la ratio delle disposizioni di legge che riservano al G.O. il potere di accertare la verità o falsità degli atti fidefacenti quand’anche essi facciano parte di un procedimento amministrativo (4). Tale pronuncia offre lo spunto per richiamare talune questioni ancora dibattute in dottrina, quali: la natura e la funzione delle certezze legali, l’oggetto della querela di falso, le modalità di risoluzione delle questioni pregiudiziali di falso nel processo amministrativo (5). A queste specifiche questioni, si riconnette, nella vicenda sottoposta alquanto, se la questione di falso non fu proposta, essa non è coperta dal giudicato, e se, invece, la questione fu sollevata incidentalmente, non vi fu (o non vi sarebbe dovuta essere) alcuna pronuncia in merito da parte del G.A. (v. U. FORTI, L’incidente di falso nel giudizio amministrativo, in Foro it., I, p. 794). Si ritiene, invece, che il G.A. possa conoscere della falsità (materiale) della copia di un atto amministrativo di cui è dedotta la difformità rispetto all’originale (loc. cit.). La giurisprudenza amministrativa ha precisato che la presentazione di una semplice “denuncia-querela” della falsità di un documento (ossia una contestazione della falsità del documento compiuta senza l’osservanza delle forme previste dal c.p.c. o dal c.p.p.) non può comportare la sospensione del processo amministrativo (v. la decisione del Consiglio di Stato del 4 gennaio 2011, n. 8). (2) L’art. 77, commi 1 e 3, c.p.a. prevedono rispettivamente che «chi deduce la falsità di un documento deve provare che sia stata già proposta la querela di falso o domandare la fissazione di un termine entro cui possa proporla innanzi al tribunale ordinario competente» e «La prova dell'avvenuta proposizione della querela di falso è depositata agli atti di causa entro trenta giorni dalla scadenza del termine fissato ai sensi del comma 1. In difetto il presidente fissa l'udienza di discussione». (3) L’art. 78 c.p.a. dispone: «Definito il giudizio di falso, la parte che ha dedotto la falsità deposita copia autentica della sentenza in segreteria. Il ricorso è dichiarato estinto se nessuna parte deposita la copia della sentenza nel termine di novanta giorni dal suo passaggio in giudicato». L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con decisione 2 dicembre 2010, n. 3, ha rilevato che l’art. 78 c.p.a., fissando come dies a quo per il decorso del termine di deposito della sentenza dichiarativa di falso il passaggio in giudicato di tale sentenza, si differenzia dal disposto dell’art. 43 del R.D. n. 642/1907 che lo individuava nella “pubblicazione” della sentenza, da intendersi, come di regola, nella relativa pubblicazione. Su tale pronuncia v. la nota di S. TASSONE, Il nuovo processo amministrativo al vaglio dell’Adunanza plenaria: primi spunti di riflessione, in Giur. it., 2011, fasc. 8-9, p. 1921 e seg. Ai sensi dell’art. 130 c.p.a. nei giudizi in materia di operazioni elettorali i termini processuali sono dimezzati. Sulle peculiarità del rito elettorale v. M. BORGO, Il contenzioso in materia di operazioni elettorali nel nuovo codice del processo amministrativo, in Rass. Avv. St., n. 2/2011, p. 239 e seg. (4) La pronuncia è stata altresì annotata da L. MESSINA, La Corte Costituzionale si pronuncia sulla falsità in atti nel giudizio elettorale, su www.ildirittoamministrativo.it. (5) Su vari aspetti dell’incidente di falso nel processo amministrativo v. U. PETRUCCI, Sull’incidente di falso nel processo amministrativo, in Studi sen., 1932, p. 138 e seg.; U. FORTI, L’incidente di falso nel giudizio amministrativo, cit., p. 793 e seg.; P. FRISINA, Osservazioni in tema di incidente di falso nel processo amministrativo, cit., p. 1302 e seg., e E.A. APICELLA, L’incidente di falso nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2011, n. 2, p. 776 e seg. Cfr., riguardo alla disciplina delle questioni di falso nel processo tributario, U. PERRUCCI, Disconoscimento e querela di falso nel processo tributario, in Bollettino trib., 1999, p. 693 e seg. CONTENZIOSO NAZIONALE 163 l’attenzione della Consulta, il più ampio tema dell’incidenza che potrebbe avere l’ampliamento dei poteri e degli strumenti istruttori del G.A. sui suoi poteri di cognizione. Con l’ordinanza del 16 febbraio 2011, n. 1000 il Consiglio di Stato ha ritenuto che non fosse manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale delle norme del D.lgs. n. 104/2010, il “codice del processo amministrativo” (di seguito: c.p.a.) che, al pari delle norme previgenti (6), assegnano alla giurisdizione ordinaria la decisione sulla querela di falso (7), disponendo altresì la sospensione necessaria del processo amministrativo, in riferimento agli articoli 24, 76, 97, 103, 111, 113 e 117 della Costituzione (8). La questione de qua è sorta nell’ambito di un giudizio promosso da taluni candidati alle elezioni regionali del Piemonte nel marzo del 2010 per l’annullamento degli atti di proclamazione degli eletti alle cariche di Presidente della Giunta Regionale e di Consigliere regionale, ritenuti illegittimi a causa di talune violazioni di legge che sarebbero state poste in essere durante il procedimento elettorale. La rilevanza della questione era data dal fatto che i ricorrenti avevano domandato al G.A. di accertare che, nel corso del procedimento elettorale, taluni consiglieri comunali avevano falsamente attestato l’autenticità delle sottoscrizioni di accettazione delle candidature alle cariche di Consigliere regionale nel Comune in cui ricoprivano la propria carica, in quanto tali firme erano state falsificate o erano state apposte al di fuori dell’ambito territoriale in cui il pubblico ufficiale aveva il potere di autenticarle. I ricorrenti sostenevano che, tolte le firme accertate come false, il numero delle firme raccolte per la presentazione della lista “Pensionati per Cota” risultava inferiore a quello minimo richiesto dalla legge, cosicché era illegittima l’ammissione di tale lista alla competizione elettorale ed andavano annullate e ripetute integralmente le operazioni di voto. In primo grado il T.A.R. Piemonte ha rilevato che le autenticazioni di sottoscrizioni nell’ambito del procedimento elettorale costituiscono degli atti pubblici ai sensi dell’art. 2699 c.c. e, come tali, sono assistite da fede privilegiata (6) Le suddette norme sono: l’art. 7 del R.D. n. 2840/1923 (Modificazioni all’ordinamento del Consiglio di Stato e della Giunta provinciale amministrativa in sede giurisdizionale), gli articoli 41, 42 e 43 del R.D. n. 642/1907 (Regolamento per la procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato), gli articoli 28, terzo comma, e 30, secondo comma, del R.D. n. 1054/1924 (Approvazione del Testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato), gli articoli 7, terzo comma, ultima parte, e 8 della legge n. 1034/1971 (Istituzione dei Tribunali amministrativi regionali). (7) Le norme in relazione alle quali è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale sono gli articoli 8, comma 2, 77, 126, 127, 128, 129, 130 e 131 c.p.a. e 2700 c.c. Va, poi, precisato che il parametro dell’art. 76 Cost. è stato invocato solo rispetto alle menzionate disposizioni del c.p.a., in quanto rispetto a queste disposizioni il Consiglio di Stato ha prospettato il dubbio di un eccesso di delega. (8) Come si è detto, ha formato altresì oggetto della questione di legittimità costituzionale l’art. 2700 c.c. 164 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 ex art. 2700 c.c. (9), revocabile in dubbio e contestabile soltanto mediante un apposito strumento processuale, la querela di falso, disciplinato agli articoli 221 e seguenti c.p.c. (10). Posto che il c.p.c. ed il c.p.a. demandano al G.O. la questione della falsità dei documenti prodotti in un giudizio amministrativo (11), il T.A.R. Piemonte ha sospeso il giudizio, assegnando ai ricorrenti un termine per la proposizione della querela di falso dinanzi al Tribunale civile (12). Contro tale sentenza i ricorrenti hanno proposto appello, chiedendo che il giudice amministrativo accertasse autonomamente la falsità ideologica delle attestazioni ed invalidasse le elezioni. Il Consiglio di Stato ha condiviso quanto affermato dal giudice di primo grado circa la natura di atto pubblico delle autenticazioni delle firme raccolte per le elezioni regionali e l’impossibilità di accertare incidenter tantum la falsità delle stesse, essendo tale questione riservata dalle leggi alla cognizione del Giudice civile (13). Tuttavia, esso ha ritenuto dubbia la legittimità costituzionale della disciplina che preclude in materia elettorale al G.A. di accertare incidentalmente eventuali falsità di atti del procedimento elettorale. Secondo i Giudici di Palazzo Spada, tale disciplina che, in passato, era giustificata dalla limitatezza dei poteri istruttori riconosciuti alle parti del processo amministrativo e allo stesso G.A., non avrebbe più ragion d’essere, in quanto, mediante una serie di interventi normativi, quei poteri sono stati notevolmente ampliati, al punto da apparire oggi analoghi a quelli previsti per il processo civile (14). (9) I.e. fanno piena prova di quanto attestato per scienza diretta del pubblico ufficiale. (10) V. la sentenza del T.A.R. Piemonte n. 3196/2010. (11) Per il caso in cui nel giudizio amministrativo voglia dedursi la falsità di un documento, l’art. 41 del R.D. n. 642/1907, stabiliva che «chi deduce la falsità di un documento deve provare che sia stata già proposta la querela di falso, o domandare la prefissione di un termine entro cui possa proporla innanzi al Tribunale competente». Tale disciplina è stata sostanzialmente riprodotta nell’art. 9, comma 2, c.p.a. V. M. SANINO (a cura di), Codice del processo amministrativo, Torino, 2011, p. 59. Va precisato che, se le irregolarità delle sottoscrizioni della lista contestata fossero state tali da rendere nulle (perché mancanti dei requisiti essenziali previsti dalla legge) o “inesistenti” (in quanto completamente difformi dal paradigma normativo) le autenticazioni delle firme, il G.A. ben avrebbe potuto accertare siffatte forme d’invalidità e, rilevata l’insufficienza delle firme valide, annullare gli atti impugnati (v. infra). Nel caso di specie, invece, la questione sottoposta al G.A. riguardava la falsità delle firme e delle relative autenticazioni ed esulava, quindi, dalla sua cognizione. (12) V. la giurisprudenza citata da R. GAROFOLI – G. FERRARI, Codice del processo amministrativo, tomo I, Roma, 2010, p. 98. (13) V. l’ordinanza collegiale n. 1000 del 16 febbraio 2011. Nello stesso senso v. la sentenza del Consiglio di Stato n. 5345 del 22 settembre 2011. (14) Nell’ordinanza in esame l’Organo supremo della giustizia amministrativa afferma che l’evoluzione della disciplina dell’istruttoria nel processo amministrativo «ha trovato ora pieno compimento con l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, i cui artt. 63 e ss. disciplinano i mezzi di prova, ammettendo anche nella giurisdizione di legittimità tutti i mezzi di prova previsti dal c.p.c., sempre con l’esclusione di interrogatorio formale e giuramento, che mal si attagliano alla specialità del processo amministrativo». Sull’evoluzione della disciplina dei mezzi di prova prima dell’entrata in vigore del c.p.a. v. C. MIGNONE, I mezzi di prova in rapporto alle plurime giurisdizioni del Giudice amministrativo, in Dir. proc. amm., 2003, n. 1, p. 1 e seg.; M. LIPARI, I princìpi generali dell’istruttoria nel CONTENZIOSO NAZIONALE 165 In particolare, se, nel caso di specie, il G.A. avesse avuto il potere di accertare la falsità delle sottoscrizioni “incriminate”, esso avrebbe potuto disporre una perizia calligrafica. In tal modo, si sarebbe risolto celermente l’incidente di falso. I Giudici di Palazzo Spada hanno rilevato che la normativa vigente, obbligando il G.A. a sospendere il processo fino al passaggio in giudicato della sentenza resa dal G.O. nella causa di falso, comporta un prolungamento della durata del processo amministrativo. Ora, ogni ritardo nella definizione del processo è di per sé incompatibile con il diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale effettiva. Tuttavia, il Consiglio di Stato ha evidenziato come, in materia elettorale, si profili spesso un aut aut: o la tutela giurisdizionale è tempestiva o è irrimediabilmente compromessa (15). Tale constatazione ha indotto il Sommo Collegio a dubitare della compatibilità delle norme censurate con le garanzie giurisdizionali sancite agli articoli 24, 103, 111 e 113 della Costituzione. La Costituzione, invero, assicura ai singoli che vantano degli interessi legittimi nei confronti della P.A. (al pari di quelli che sono titolari di diritti soggettivi) una tutela giurisdizionale efficace. Ciò significa che costoro devono disporre di un giudizio che porti ad una decisione atta a rendere concretamente giustizia, i.e. a far conseguire loro il bene della vita legittimamente agognato (16). Ora, nel caso di specie, questa fondamentale esigenza sarebbe stata soddisfatta solo se si fosse sciolto il nodo della falsità delle firme prima che giungessero a scadenza le cariche elettive oggetto di contesa. Come si vede, l’Organo remittente ha dato per assodato che, mentre il G.A. impiegherebbe un tempo congruo per risolvere l’incidente di falso, così assicurando una tutela giurisdizionale effettiva ai soggetti coinvolti, ciò sarebbe stato impossibile per il G.O., dati i tempi usuali del processo civile. In altri termini, secondo il Consiglio di Stato, allo stato, i tempi della giustizia civile sarebbero in assoluto incompatibili con la peculiare esigenza di celerità processo amministrativo dopo la L. n. 205 del 2000. Le trasformazioni del giudizio e gli indirizzi della giurisprudenza, ibidem, p. 55 e seg.; S. VENEZIANO, I nuovi mezzi probatori nella giurisdizione di legittimità e nella giurisdizione esclusiva, ibidem, p. 180 e seg. Sulla disciplina dell’istruttoria dettata dal c.p.a. e sulla sua incidenza sui poteri di cognizione del G.A. v. per tutti R. GRECO, L’istruttoria e l’accertamento del fatto nel Codice del processo amministrativo, su www.giustizia-amministrativa.it. Per un’analisi del giudizio di autenticità di un documento v. G. BERTOLINO, Documento in senso forte e documento in senso debole, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, n. 3, p. 850 e seg. (15) È chiaro che l’esigenza di tempestività della tutela giurisdizionale è particolarmente stringente in materia elettorale, posto che l’interesse del candidato è «quello di partecipare ad una competizione elettorale nella situazione politica-amministrativa esistente alla data prefissata, secondo le regole del gioco, nel mentre, una correzione o riedizione della competizione in un momento successivo, non sarebbe pienamente satisfattiva, perché influenzata dalle modificazioni, medio tempore verificatesi, dal contesto politico-ambientale in diretta dipendenza di quegli atti di ammissione illegittimi, che hanno condizionato il risultato elettorale» (P. QUINTO, Il nuovo codice, il giudizio elettorale e la Corte Costituzionale: una singolare coincidenza, in Foro amm. TAR, 2010, n. 6, p. 2235). (16) All’art. 1 c.p.a. è espressamente richiamato il principio costituzionale della tutela giurisdizionale piena ed effettiva e viene altresì precisato che il medesimo principio è riconosciuto anche dal diritto dell’U.E. 166 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 che si pone in materia elettorale (17), sicché le disposizioni legislative che riservano al G.O. il potere di conoscere della falsità degli atti del procedimento elettorale violano il principio costituzionale della tutela giurisdizionale effettiva, che esige che la decisione di merito sia resa entro un tempo ragionevole, ossia quando è ancora “utile” (in senso giuridico) al ricorrente. All’illustre collegio è parso evidente che, nel caso di specie, ai ricorrenti non avrebbe giovato l’annullamento delle elezioni che fosse intervenuto dopo la scadenza della consigliatura regionale. A questi dubbi di incostituzionalità riguardanti sia le norme del c.p.a. che quelle previgenti, ne è stato aggiunto un altro, riferibile soltanto all’art. 8, comma 2, c.p.a. Tale norma, sempre per le ragioni suesposte, è sembrata all’Organo rimettente in contrasto con uno dei criteri fissati dalla Legge-delega in virtù della quale il Governo aveva emanato il c.p.a. (18), ovvero «assicurare la snellezza, concentrazione ed effettività della tutela, anche al fine di garantire la ragionevole durata del processo». Secondo i Giudici di Palazzo Spada, la mancata osservanza di questo criterio, concretando una violazione dell’art. 76 (17) Sull’esigenza di celerità che è propria del contenzioso sulle operazioni elettorali v. A. TRAVI, I termini del processo amministrativo e i riti speciali, Relazione svolta al Convegno “La codificazione del processo amministrativo nel terzo millennio” tenutosi a Roma, presso il Consiglio di Stato, il 20 maggio 2008, su www.giustizia-amministrativa.it, e P.M. SAVASTA, Il contenzioso elettorale, Relazione al Convegno Nazionale di Studi “La codificazione del processo amministrativo: riflessioni e proposte” tenutosi a Siracusa 30 e 31 ottobre 2009, ibidem. (18) Si tratta, com’è noto, della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al Governo per il riassetto della disciplina del processo amministrativo, il cui art. 44 aveva il seguente tenore: «1. Il Governo è delegato ad adottare, entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi per il riassetto del processo avanti ai tribunali amministrativi regionali e al Consiglio di Stato, al fine di adeguare le norme vigenti alla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori, di coordinarle con le norme del codice di procedura civile in quanto espressione di princìpi generali e di assicurare la concentrazione delle tutele. 2. I decreti legislativi di cui al comma 1, oltre che ai princìpi e criteri direttivi di cui all’articolo 20, comma 3, della legge 15 marzo 1997, n. 59, in quanto applicabili, si attengono ai seguenti princìpi e criteri direttivi: (omissis) c) procedere alla revisione e razionalizzazione dei riti speciali, e delle materie cui essi si applicano, fatti salvi quelli previsti dalle norme di attuazione dello statuto speciale della regione Trentino-Alto Adige; d) razionalizzare e unificare le norme vigenti per il processo amministrativo sul contenzioso elettorale, prevedendo il dimezzamento, rispetto a quelli ordinari, di tutti i termini processuali, il deposito preventivo del ricorso e la successiva notificazione in entrambi i gradi e introducendo la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nelle controversie concernenti atti del procedimento elettorale preparatorio per le elezioni per il rinnovo della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, mediante la previsione di un rito abbreviato in camera di consiglio che consenta la risoluzione del contenzioso in tempi compatibili con gli adempimenti organizzativi del procedimento elettorale e con la data di svolgimento delle elezioni». Nel senso che il principio della tutela giurisdizionale effettiva dovesse essere un criterio guida nell’elaborazione del c.p.a., v. R. CHIEPPA, Il Codice del processo amministrativo alla ricerca dell’effettività della tutela, su www.giustizia-amministrativa.it; R. CAPONIGRO, Il principio di effettività della tutela nel codice del processo amministrativo, ibidem; P.M. ZERMAN, L’effettività della tutela nel Codice del processo amministrativo, ibidem. CONTENZIOSO NAZIONALE 167 Cost., rendeva illegittima la menzionata disposizione codicistica. Infine, l’ordinanza di rimessione ha prospettato che la disciplina dell’incidente di falso nel rito elettorale, essendo suscettibile di ostacolare una sana amministrazione della giustizia, fosse altresì incompatibile con il principio del buon andamento dell’amministrazione pubblica di cui all’art. 97 Cost. La Corte Costituzionale, all’esito di un articolato iter motivazionale, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale. In primo luogo, la Consulta ha revocato in dubbio che le disposizioni di legge censurate siano contrarie al principio di tutela giurisdizionale effettiva e, in particolare, all’esigenza di durata ragionevole del processo, di cui agli articoli 24 e 111 Cost. La Consulta ha sconfessato la premessa da cui muoveva il ragionamento del Consiglio di Stato, ossia che la tradizionale devoluzione al G.O. delle questioni incidentali di falso sollevate dinanzi al G.A. fosse dovuta alla circostanza (ormai venuta meno) che il G.A. non disponeva di poteri istruttori idonei ad accertare la falsità materiale o ideologica degli atti fidefacenti. La Consulta ha ritenuto piuttosto che la ratio della disciplina censurata fosse di garantire la certezza e la speditezza del traffico giuridico, facendo in modo che l’accertamento giudiziale dell’autenticità degli atti fidefacenti spieghi i suoi effetti al di là delle parti e dell’oggetto del processo in cui è stata decisa la questione di falso (19). Tale finalità è tradizionalmente perseguita attribuendo in via esclusiva al G.O. il potere di statuire con efficacia erga omnes sulle questioni di falso, quand’anche esse siano pregiudiziali rispetto a controversie che ricadono nella giurisdizione amministrativa. Ciò consente di evitare «ad un tempo, il rischio di contrastanti pronunce – che minerebbero la fiducia verso determinati atti ovvero in ordine a condizioni e qualità personali di essenziale risalto agli effetti dei rapporti intersoggettivi – e il ricorso a modelli variegati di accertamento, dipendenti dalle specificità dei procedimenti all’interno dei quali simili questioni “pregiudicanti” possono intervenire». La Corte Costituzionale ha ritenuto che la scelta del legislatore delegato di mantenere invariata la riserva di giurisdizione in favore del G.O. sulle questioni di falso, lungi dal costituire un mero omaggio alla tradizione, risponde «a persistenti valori ed esigenze di primario risalto», qual è appunto la necessità di tutelare la fede pubblica. La Consulta ha precisato che la tutela della fede pubblica può essere garantita più efficacemente se le questioni di falso sono devolute alla cognizione di un unico Giudice, quale che sia la sede processuale in cui esse vengono sollevate. Ed invero, se fosse consentito ad ogni giudice dinanzi al quale sia contestata la falsità di un documento fidefacente di verificarne incidenter tantum l’autenticità, sarebbero compromesse la certezza e la speditezza del traffico (19) V. la sentenza della Consulta n. 304/2011. 168 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 giuridico. Tali fondamentali esigenze sarebbero parimenti pregiudicate se fosse attribuito sia al G.O. che al G.A. (e a qualsiasi giudice speciale) il potere di accertare con efficacia di giudicato l’autenticità di un documento fidefacente, giacché, in tal caso, potrebbero essere emesse pronunce contrastanti sulla veridicità del medesimo atto. Tenuto conto di ciò, il Giudice delle leggi ha affermato che «la “unitarietà” della giurisdizione in specifiche materie ben può, dunque, costituire una necessità destinata a prevalere su quella di concentrazione dei singoli e diversi giudizi» (20), a prescindere da ogni considerazione riguardo alla maggiore o minore idoneità di un modello processuale rispetto agli altri ad assicurare adeguata tutela in quelle stesse materie. Inoltre, criticando il ragionamento del Giudice rimettente, la Corte Costituzionale, da un lato, ha evidenziato come l’esigenza di speditezza del processo elettorale – sicuramente meritevole di debita considerazione in quanto propedeutica all’effettività della tutela giurisdizionale – non sia un valore assoluto, ma debba essere contemperata con le esigenze connesse alla salvaguardia della fede pubblica; dall’altro, ha ritenuto che la normativa censurata, imponendo al G.A. di rimettere al G.O. le questioni incidentali di falso, non fosse incompatibile con l’esigenza di definire tempestivamente siffatte questioni ove siano pregiudiziali rispetto all’accertamento della validità delle elezioni. Sotto il primo profilo, la Consulta ha rilevato che la soluzione prospettata dal giudice a quo per assicurare la celerità del processo amministrativo in materia elettorale – ossia la verifica da parte del G.A., con efficacia limitata al giudizio a quo, della contestata autenticità degli atti del procedimento elettorale – non avrebbe degli effetti soltanto sul piano processuale (riduzione della durata del processo), ma anche sul piano sostanziale, giacché comporterebbe un “affievolimento” dell’ «efficacia e [del]la qualità di atto munito di fede privilegiata » propria degli atti pubblici posti in essere nell’ambito di un procedimento elettorale, i quali non varrebbero più come “piena prova fino a querela di falso”. Sotto il secondo profilo, la Corte Costituzionale ha osservato che «tutti i meccanismi di accertamento pregiudiziale, comprese la pregiudizialità costituzionale e quella comunitaria» possono, di per sé, «incidere sulla durata del processo, senza che ciò automaticamente si risolva, com’è ovvio, nella violazione del principio di ragionevole durata» del giudizio principale (21). La Corte ha chiarito, dunque, che «non è, dunque, mediante la soppressione di fasi processuali, essenziali ai fini della decisione che si consegue l’obiettivo di garantire la celerità dei processi, compreso quello amministrativo in materia elettorale». (20) Cfr. M. PROTTO – M. BELLAVISTA, La giurisdizione in generale, in R. CARANTA (a cura di), Il nuovo processo amministrativo, Bologna, 2011, p. 167 e seg., secondo cui l’effettività della tutela giurisdizionale nel processo amministrativo si attua, ai sensi dell’art. 7, comma 7, c.p.a., attraverso la concentrazione dinanzi al G.A. di ogni forma di tutela sia degli interessi legittimi che dei diritti soggettivi. CONTENZIOSO NAZIONALE 169 Dopo aver escluso che le disposizioni legislative censurate fossero contrarie agli articoli 24 e 111 Cost., che sanciscono in termini generali il principio della tutela giurisdizionale effettiva, la Consulta ha altresì escluso che le stesse fossero incompatibili con gli articoli 103 e 113 Cost., che garantiscono la tutela giurisdizionale contro gli atti della P.A. (22), e con l’art. 76 Cost. da cui discendeva l’obbligo per il Legislatore delegato di attenersi al criterio direttivo stabilito dalla Legge secondo cui occorreva, in particolare, assicurare una tutela giurisdizionale efficace e tempestiva nel contenzioso amministrativo in materia elettorale (23). Infine, la Corte ha ritenuto inconferente il riferimento operato dall’ordinanza di rimessione all’art. 97 Cost., posto che tale norma impone il rispetto del principio del buon andamento nell’esercizio del potere esecutivo, ma non ha nulla a che vedere con quello giurisdizionale. La scelta di riservare al G.O. la cognizione delle questioni pregiudiziali che sorgono nell’ambito di un processo amministrativo può essere analizzata sotto angolature diverse a seconda di quale si ritenga essere l’oggetto delle cause di falso. Quest’ultimo è stato individuato dalla dottrina, alternativamente, in un fatto e, precisamente, la verità o falsità di un documento (24), in una questione pregiudiziale di natura sostanziale (25), nell’efficacia probatoria (21) Sembra che la Consulta, riferendosi alla “pregiudiziale comunitaria” (oltre che alla “pregiudiziale costituzionale”), abbia voluto fugare il dubbio che le norme processuali italiane che devolvono le questioni pregiudiziali da decidersi con efficacia di giudicato (cause pregiudiziali) ad un giudice diverso da quello dinanzi al quale pende la causa principale siano contrarie al diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale effettiva garantito dall’ordinamento dell’Unione europea. Il Consiglio di Stato non aveva prospettato la possibilità che le disposizioni di legge censurate fossero altresì contrarie al diritto alla tutela giurisdizionale effettiva di cui all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E., il che appare condivisibile in quanto gli Stati membri sono obbligati a rispettare i diritti fondamentali riconosciuti ai singoli dall’ordinamento dell’U.E. solo entro l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, e quindi non anche negli “affari” di rilevanza esclusivamente interna (v. art. 51, par. 1). Opportunamente il Consiglio di Stato aveva, invece, richiamato quale parametro di legittimità costituzionale della normativa interna gli articoli 6 e 13 della Convenzione europea per la Salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali (di seguito CEDU), che, in virtù dell’art. 117, comma 1, Cost., impongono di assicurare un ricorso effettivo ed un equo processo dinanzi ai giudici interni. (22) V. per tutti A. POLICE, Art. 103, 1° e 2° co., in R. BIFULCO – A. CELOTTO – M. OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, Torino, 2006, p. 1987 e seg., e F. SAITTA, Art. 113, ibidem, p. 2136 e seg. (specialmente da p. 2143). (23) La Consulta ha rilevato altresì che, del resto, laddove il Legislatore delegato non faccia in parte uso della delega conferitagli, ciò non integra una violazione della Legge delega e, per interposizione di quest’ultima, dell’art. 76 Cost. (24) Si tratta della tesi di E.T. Liebman (v. G. VERDE, Querela di falso, in Enc. giur., Roma, 1991, vol. XXV, p. 1), a cui ha aderito inter alia DE STEFANO, Falso (querela di), in Enc. del diritto, Milano, 1967, vol. XVI, pp. 701 e 702. (25) In tal senso si è espresso F. Carnelutti (v. G. VERDE, loc. cit.). Analogamente, secondo MONTESANO (La tutela giurisdizionale dei diritti, Torino, 1985, p. 125), i documenti muniti di efficacia probatoria legale «hanno funzioni non solo processuali, ma pure dirette a rafforzare la certezza nello svolgimento dei rapporti sostanziali» e il giudice nei processi di falso ha il potere-dovere di rimuovere situazioni antigiuridiche sostanziali. 170 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 di un documento (26), in un rapporto probatorio (27), nel dovere del giudice di eliminare dal traffico giuridico i documenti falsi per via del danno alla collettività che essi procurano (28). Facendo astrazione dagli aspetti che contraddistinguono le singole teorie sull’oggetto del giudizio di falso, esse sono riconducibili a due distinti indirizzi: quello secondo cui il giudizio di falso verte su una situazione giuridica sostanziale connessa al rapporto giuridico che forma oggetto della causa principale e quello secondo cui il medesimo giudizio concerne un aspetto meramente processuale (l’efficacia probatoria di un documento ed il vincolo del giudice a dare per certo quanto è ivi attestato). Ora, sia che si acceda al primo indirizzo sia che si opti per il secondo, si può giungere a ritenere giustificata dal punto di vista costituzionale la scelta del legislatore ordinario di riservare al G.O. la decisione sulle questioni pregiudiziali di falso (29). Nell’ultimo decennio la giurisprudenza ha trattato con un elevato grado di approfondimento il tema del riparto di giurisdizione tra G.O. e G.A. Innanzitutto, la giurisprudenza costituzionale ha chiarito che la “specialità” del G.A. si fonda unicamente sul fatto che quest’ultimo è chiamato ad assicurare la giustizia “nell’amministrazione” (30), e non può dipendere dal fatto che della causa sia parte la P.A., posto che in tal caso lo stesso sarebbe “giudice dell’Amministrazione”, con conseguente violazione degli articoli 25 e 102, secondo comma, Cost. (31). (26) È l’opinione di N. Attardi (v. G. VERDE, loc. cit.). (27) Lo hanno sostenuto E. Garbagnati, G. Laserra, S. Satta e C. Vocino (v. G. VERDE, loc. cit.). Per precisazioni sulla tesi di S. Satta v. DE STEFANO, op. cit., p. 700 e 701. (28) V. V. DENTI, Querela di falso, in Novissimo Digesto It., Torino, 1967, vol. XIV, p. 662 e seg. Per i risvolti sul piano processuale della teoria di questo Autore v. IDEM, Prova documentale in diritto processuale civile, in Dig. Disc. Priv., Torino, 2003, p. 39. (29) In senso contrario v. però V. DENTI, Prova documentale in diritto processuale civile, cit., p. 39. (30) Com’è noto, la suddetta espressione fu coniata da Silvio Spaventa nel discorso pronunciato il 7 marzo 1880 all’Associazione costituzionale di Bergamo (v. P. ALATRI – a cura di –, Silvio Spaventa. La giustizia nell’amministrazione, Torino 1969, p. 102) ed è stata poi riprodotta nell’art. 100, comma 1, della Costituzione. (31) V. la celeberrima sentenza della Corte Costituzionale 5 luglio 2004, n. 204. Fra i molti autorevoli commenti a tale pronuncia si ricordano quelli di V. CERULLI IRELLI, Giurisdizione esclusiva e azione risarcitoria nella sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 5 luglio 2004, in federalismi.it; R. CHIEPPA, Il riparto di giurisdizione dopo le sentenze n. 204 e n. 281 del 2004 della Corte costituzionale, in Dir. e form., 2004, p. 1629 e seg.; F. CINTIOLI, La giurisdizione piena del giudice amministrativo dopo la sentenza n. 204 della Corte costituzionale, in www.giustamm.it; M. CLARICH, La “tribunalizzazione” del giudice amministrativo evitata: commento alla sentenza della Corte Costituzionale 5 luglio 2004 n. 204, su www.giustizia. amministrativa.it; M.A. SANDULLI, Un passo avanti ed uno indietro: il giudice amministrativo è giudice pieno ma non può giudicare dei diritti (una prima lettura a margine di Corte Cost. n. 204 del 2004), in Riv. giur. edilizia, 2004, 1230 e seg.; F.G. SCOCA, Sopravviverà la giurisdizione esclusiva?, in Giur. cost., 2004, p. 2200 e seg.; G. VIRGA, Il giudice della funzione pubblica (sui nuovi confini della giurisdizione esclusiva tracciati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 204/2004), in Lexitalia.it; R. VILLATA, Leggendo la sentenza n. 204 della Corte costituzionale, in Dir. proc. amm., 2004, p. 832 e seg. CONTENZIOSO NAZIONALE 171 Inoltre, la Consulta ha precisato che, ancorché il criterio generale in base al quale il legislatore ordinario deve ripartire le cause tra G.O. e G.A. sia, conformemente all’art. 113 Cost., quello delle situazioni giuridiche soggettive di cui si invoca la tutela giurisdizionale, il legislatore ordinario può attribuire in via esclusiva alla giurisdizione del G.A. le cause che concernono particolari materie caratterizzate da un inestricabile intreccio tra diritti soggettivi e interessi legittimi (32). In tale ipotesi, il criterio di riparto basato sulla causa petendi lascia eccezionalmente il passo a quello per materia (33). Le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza n. 120/2007, hanno sottolineato che, per determinare la posizione giuridica vantata dal ricorrente e, quindi, se sussiste la giurisdizione del G.O. o del G.A., è necessario far riferimento alla natura vincolata o discrezionale dell’attività amministrativa. Alla tradizionale ripartizione che vedeva radicarsi la giurisdizione del G.O. in caso di attività vincolata e quella del G.A. in caso di attività discrezionale, si sono aggiunte le importanti specificazioni operate dal Consiglio di Stato. Infatti, la decisione dell’Adunanza Plenaria n. 8 del 24 maggio 2007 ha chiarito che «anche a fronte di attività connotate dall’assenza in capo all’amministrazione di margini di discrezionalità valutativa o tecnica, quindi, occorre avere riguardo, in sede di verifica della natura della corrispondente posizione soggettiva del privato, alla finalità perseguita dalla norma primaria, per cui quando l’attività amministrativa, ancorché a carattere vincolato, tuteli in via diretta l’interesse pubblico, la situazione vantata dal privato non può che essere protetta in via mediata, così assumendo consistenza di interesse legittimo » (34). Inoltre, la decisione dell’Adunanza Plenaria n. 10 del 30 luglio (32) Parte della dottrina ritiene “antistorica” l’idea dell’eccezionalità della giurisdizione esclusiva in rapporto a quella generale di legittimità, giacché non tiene conto che, nel diritto sostanziale, vi è stata un’evoluzione dei rapporti tra P.A. e privati, che ha portato all’«inserimento degli interessi materiali del privato tra le componenti dell’interesse pubblico inteso quale interesse dell’ordinamento», con conseguente «coincidenza strutturale, e non più soltanto occasionale (ed in fondo irrilevante), tra soddisfazione dei primi e realizzazione del secondo» (A. ROMAMO-TASSONE, La giurisdizione esclusiva tra glorioso passato ed incerto futuro, su www.giustiziaamministrativa.it). (33) Secondo autorevole dottrina, dall’art. 113 Cost. si deduce che il legislatore ordinario potrebbe introdurre delle specifiche ipotesi di giurisdizione esclusiva del G.O., cui spetterebbe anche la cognizione in via principale di interessi legittimi, con potere di annullamento degli atti lesivi (v. F. CARINGELLA, Il riparto di giurisdizione, su www.giustizia.amministrativa.it). (34) Di conseguenza, l’acclarata natura vincolata dell’attività demandata all’amministrazione non comporta in modo automatico la qualificazione della corrispondente posizione soggettiva del privato in termini di diritto soggettivo, con il conseguente precipitato processuale in punto di giurisdizione. Invero, anche in seno alle attività di tipo vincolato, si deve distinguere tra quelle ascritte all’amministrazione per la tutela in via primaria dell’interesse del privato e quelle che, invece, la stessa è tenuta ad esercitare per la salvaguardia dell’interesse pubblico. Nella specie, l’Adunanza Plenaria ha affermato che sussiste la giurisdizione del G.A. per le controversie che concernono l’attribuzione di doppio punteggio per il servizio scolastico prestato in scuole ubicate in comuni di montagna ai fini della determinazione, sulla base dei titoli, delle graduatorie permanenti dei docenti aspiranti all’assunzione (e ciò benché avesse riconosciuto che la procedura concorsuale in esame sembrava ascrivibile «alle fattispecie in cui l’atto 172 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 2007 ha evidenziato che sussiste la giurisdizione generale di legittimità del G.A., anche quando la domanda giudiziale abbia ad oggetto il risarcimento del danno, per le controversie nelle quali la condotta materiale della P.A. «trova occasione, collegamento e sviluppo nel medesimo provvedimento; cosicché, l’illecito consegue pur sempre all’adozione del provvedimento illegittimo da parte dell’amministrazione, anzi avviene proprio in virtù dello stesso » (35). Questa giurisprudenza e parte della dottrina propendono per la sostituzione del criterio - a lungo usato per discernere tra posizioni giuridiche soggettive ai fini dell’individuazione del giudice competente - basato sulla distinzione tra attività vincolata e discrezionale con quello della presenza o meno di un potere pubblico autoritativo (che può essere esercitato tramite provvedimenti amministrativi o moduli convenzionali). In base a tale criterio, la giurisdizione del G.O. sussiste quando la P.A. è titolare di una posizione soggettiva (attiva o passiva) di diritto privato o ha posto in essere un’attività meramente materiale (36), mentre vi è la giurisdizione del G.A. quando la P.A. dell’amministrazione, in quanto adottato sulla base di riscontro di tipo vincolato in merito alla sussistenza dei presupposti richiesti dalla norma per la produzione di taluni effetti, assume natura meramente dichiarativa, e di conseguenza lo stesso sarebbe per ciò solo sfornito di quell’attitudine degradatoria che sola determina l’afferenza a posizione di interessi legittimi della conseguente controversia»). Su tale questione si erano formati due orientamenti contrastanti nell’ambito della giurisdizione di legittimità e in quella amministrativa (giacché, secondo la Corte di Cassazione, rientrerebbero nella giurisdizione dell’A.G.O. le controversie relative all’inserzione di aspiranti in graduatorie ad utilizzazione soltanto eventuale, nelle quali il privato fa valere il suo diritto al lavoro, ex articoli 4 e 36 Cost., chiedendone la concreta attuazione alla P.A. dotata del relativo potere di accertamento e di valutazione meramente tecnica in ordine alla sussistenza di requisiti predeterminati in precedenza, senza che residui alcun margine di discrezionalità circa la rispondenza o meno del chiesto riconoscimento all’interesse pubblico; viceversa, la giurisprudenza amministrativa riteneva che si potesse assimilare alla materia concorsuale, devoluta alla giurisdizione del G.A. in forza dell’art. 68, 4° comma del D.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, la formazione di graduatorie finalizzate a future eventuali assunzioni, sul presupposto che anche tali procedure si caratterizzino per l’emanazione di provvedimenti autoritativi incidenti su posizioni di interesse legittimo, pur con riguardo all’attribuzione di punteggi predeterminati per i titoli conseguiti dagli interessati, senza che assuma rilievo discriminante la circostanza che le valutazioni operate nel corso del procedimento si basino su valutazioni discrezionali o tecniche o su meri accertamenti. (35) Nella specie l’Adunanza Plenaria ha affermato che ricadono nella giurisdizione generale di legittimità del G.A. le domande di condanna dell’Amministrazione comunale al risarcimento dei danni subiti a causa di un provvedimento illegittimo di requisizione di immobile emesso oltre la scadenza del termine fissato nell’ordinanza di requisizione. L’Adunanza Plenaria ha spiegato che anche la condotta successiva alla scadenza del termine di (legittima) requisizione trova occasione, collegamento e sviluppo nel medesimo provvedimento; cosicché, l’illecito consegue pur sempre all’adozione del provvedimento illegittimo da parte dell’amministrazione, anzi avviene proprio in virtù dello stesso; e, collegandosi la tutela risarcitoria a quella della situazione soggettiva incisa dal provvedimento amministrativo illegittimo, si rapporta alla lesione di una situazione di interesse legittimo che fa da contraltare all’esercizio del potere. (36) M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, vol. II, Milano, 1993, p. 6, ha precisato che la c.d. attività materiale della P.A. è «una sintesi verbale attinente a dati esteriori, non una locuzione che enunci qualcosa di giuridicamente proprio». Infatti, gli atti giuridici possono consistere sia in dichiarazioni di scienza o di volontà (o comportamenti ad esse equiparati) che in atti reali e questi ultimi possono essere definiti «giuridicamente in relazione al rapporto nel seno del quale si attuano, onde possono essere atti CONTENZIOSO NAZIONALE 173 è titolare di un potere pubblico autoritativo (37). Ora, senza pretendere di aggiungere nulla alle esaustive argomentazioni svolte nella sentenza in commento, si tenterà qui di dimostrare come le critiche mosse dal Consiglio di Stato alla disciplina legislativa dell’incidente di falso nel processo amministrativo appaiono poco fondate. Com’è noto, l’autentica di firma consiste nella dichiarazione, che viene redatta in fine della scrittura e di seguito alle firme apposte dai sottoscrittori, con la quale un notaio (con riguardo alla specie delle “autentiche notarili”) o altro pubblico ufficiale (con riferimento alla specie delle “autentiche amministrative”) attesta l’avvenuta apposizione in sua presenza di una firma proveniente da una persona previamente identificata. L’autentica di firma è, dunque, un atto pubblico (propriamente una certificazione di autenticità) di natura dichiarativa, che possiede una propria autonomia rispetto al documento a cui viene apposta. L’autonomia di questo atto si evince dalla circostanza che l’autentica di firme rappresenta lo strumento per mezzo del quale si attribuisce al documento una certa valenza probatoria, che altrimenti non avrebbe, nota come “certezza legale privilegiata” (v. l’art. 2700 c.c.). È pacifico che gli atti dichiarativi (iscrizioni, certificati, verbali, relazioni, notificazioni, avvisi e simili) siano dichiarazioni di scienza, non manifestazioni di volontà (38). Chi registra, accerta, certifica non manifesta una volontà all’assetto di un bene della vita, ma rende noto o conoscibile un fatto di cui egli ha acquisito conoscenza. Pertanto, gli atti dichiarativi adottati dalle Amministrazioni pubbliche non sono qualificabili come provvedimenti (39). A fronte del potere certificativo della P.A. il privato vanta un diritto soggettivo. Pertanto, la pretesa tesa a far accertare la falsità dell’autenticazione di una firma, in base al criterio generale di riparto delle cause tra G.O. e G.A., dev’essere fatta valere dinanzi al G.O. L’efficacia dell’autenticazione non ha, però, una rilevanza unicamente endoprocedimentale o endoprocessuale (sebbene questo, e segnatamente il campo probatorio, sia il settore in cui meglio si apprezza il suo peculiare valore giuridico di documento costituente “prova legale”, vincolante per il giudice nei limiti dell’art. 2700 c.c.); la “certezza” che da essa promana si manifesta altresì nei rapporti interprivati e, quindi, prima e al di fuori del prodi esecuzione o atti preparatori di provvedimenti amministrativi, atti di esecuzione di obblighi o di adempimento di obbligazioni dell’amministrazione, atti di attuazione di obblighi o di incombenze d’ufficio (rilevanti nei rapporti interni), e così via» (enfasi aggiunta). (37) V. F. CARINGELLA, Il riparto di giurisdizione, cit. (38) Sugli atti dichiarativi v. B.G. MATTARELLA, Atto amministrativo, in Il Diritto. Enc. giur. del Sole 24 Ore, 2007, pp. 192 e 193. (39) In tal senso, v. per tutti M.S. GIANNINI, Istituzioni di diritto amministrativo, Milano, 2000, p. 393. Gli atti amministrativi dichiarativi pur non avendo natura provvedimentale vengono per vari aspetti assoggettati dalla giurisprudenza alla disciplina dei provvedimenti amministrativi (ad es. la L. n. 241/1990 viene considerata applicabile anche nei procedimenti dichiarativi). 174 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 cesso (40). In altri termini, l’atto di certezza legale ha un sicuro effetto sostanziale consistente nell’assumere e nell’imporre quanto affermato dall’atto come certezza e «di precludere ogni altra interpretazione del fatto diversa da quella contenuta nell’atto di certezza: tale obbligo e tale effetto preclusivo corrispondono all’interesse di uno (o più) e di tutti i membri di un determinato ordinamento » (41). Ciò contribuisce a spiegare perché il legislatore ha sempre riservato al G.O. il potere di risolvere le questioni di falso, come pure le controversie in materia di stato o di capacità delle persone, diversa dalla capacità di stare in giudizio. Inoltre, occorre considerare che l’effetto di certezza legale proprio dell’autentica non presuppone l’intermediazione di un’attività amministrativa di natura discrezionale, ma si produce automaticamente a seguito del perfezionamento di una determinata fattispecie normativa. Questo rilievo concorre nel senso della naturale attribuzione al G.O. della materia. Perfino se si riconoscesse all’atto di certezza legale una rilevanza essenzialmente processuale (come parte della dottrina desume dagli articoli 2699 e seg. del c.c.), si potrebbe ritenere ragionevole la disciplina legislativa oggetto della sentenza in commento. Trattandosi di atti destinati a spiegare efficacia di “piena prova” in ogni processo, è ragionevole che anche la pronuncia con cui ne viene accertata la falsità e distrutta l’efficacia sia efficace in ogni processo (42). A tale scopo - come ha messo in luce la Corte Costituzionale nella sentenza annotata - è necessario, da un lato, precludere l’accertamento inci- (40) Come ha evidenziato M.S. GIANNINI, Istituzioni di diritto amministrativo, Milano, 2000, pp. 415 e 416, nell’atto di certezza legale coesistono due aspetti: «l’uno di preclusione di ogni diversa scienza, l’altro di fatto dal cui avverarsi la norma fa discendere effetti costitutivi (modificativi, estintivi) di status, di situazioni giuridiche soggettive, di qualificazioni giuridiche». L’Autore ha osservato che nella dottrina processualcivilistica è prevalsa a lungo una concezione probatoria delle certezze legali (considerate come atti costitutivi di presunzioni o volti a costituire mezzi di prova), ma tale concezione è inappagante perché trascura il fatto che le certezze legali hanno principalmente una circolazione sostanziale, cioè extraprocessuale (ibidem). Per una chiara disamina dell’evoluzione della dottrina in tema di atti dichiarativi A.G. CHIZZONITI, Le certificazioni confessionali nell'ordinamento giuridico italiano, Milano, 2000, p. 52 e seg. (41) AA.VV., Diritto e informatica, Milano, 2007, p. 60. In particolare, nell’ambito delle operazioni elettorali, l’autenticazione delle sottoscrizioni dei candidati alle elezioni non costituisce un semplice mezzo di prova surrogabile con altri strumenti apprestati dall’ordinamento, ma è un requisito prescritto per garantire, nell’interesse pubblico, la provenienza della presentazione della lista da parte di chi figura averla sottoscritta. Nell’autenticazione si distinguono una fase accertativa ed una certificativa. Sotto il profilo sostanziale, è essenziale il corretto accertamento della identità della persona che sottoscrive (ed in ciò consiste la fase accertativa). Il che può avvenire o per conoscenza diretta o sulla base di un documento identificativo del sottoscrittore, documento che, ovviamente, per consentire una effettiva identificazione deve essere munito di fotografia, argomentando dall’art. 292 del Regolamento di esecuzione del T.U delle leggi di pubblica sicurezza (R.D. 6 maggio 1940, n. 635). Sotto il profilo formale (rappresentato dalla fase certificativa) la correttezza del riconoscimento è attestata, in particolare, dalla descrizione sintetica di modalità identificative utili ad evidenziare il rispetto di dette garanzie. V. A. CARASTRO, La presentazione e l’ammissione delle candidature per l’elezione del sindaco e del consiglio comunale: problematiche e proposte, su www.listeciviche.org. CONTENZIOSO NAZIONALE 175 denter tantum (con effetti limitati al singolo processo) della falsità di tali atti e, dall’altro, concentrare nelle mani di un unico Giudice il potere di statuire con efficacia di giudicato sul punto, onde evitare il rischio di pronunce contrastanti sul punto. Last but not least sembra criticabile l’approccio adottato dal Consiglio di Stato nell’ordinanza di rimessione, ossia tentare di desumere il criterio per ripartire le controversie tra G.O. e G.A. dalle norme del c.d.a. che regolano l’istruttoria nel processo amministrativo. È stato autorevolmente rilevato che, «se è vero che una certa lettura» della nuova normativa processuale «porta ad intravedere una “trama” dei rapporti tra P.A. e amministrati del tutto originale ed innovativa, e tale da indurre a un profondo ripensamento di nozioni e concezioni consolidate (in tema di riserva di amministrazione, di immanenza dell’interesse pubblico al giudizio amministrativo, di poteri conformativi del giudice, e così via), è allora lecito chiedersi se sia plausibile che una tale “rivoluzione copernicana” si realizzi per tramite della disciplina del processo, anziché di quella sostanziale» (43). Invero, «non pare accettabile – anche in considerazione dei precisi limiti posti al Codice dalla delega legislativa – che una trasformazione radicale del diritto amministrativo avvenga con tali modalità “oblique”», sicché, in attesa che il legislatore attui siffatte riforme modificando il diritto sostanziale, è auspicabile che la giurisprudenza faccia della nuova disciplina processuale e della sua esegesi «l’uso attento e oculato che si conviene a un giudice consapevole della propria “specificità” […] che consiste nell’essere il giudice culturalmente e professionalmente più attrezzato a intervenire su controversie nelle quali è in gioco un interesse della collettività, secondo il modello di “giustizia nell’amministrazione” ricavabile dalla moderna interpretazione dell’art. 100 Cost.» (44). (42) Come ha chiarito la giurisprudenza di legittimità, «La querela di falso, sia essa proposta in via principale ovvero incidentale, ha il fine di privare un atto pubblico (od una scrittura privata riconosciuta) della sua intrinseca idoneità a “far fede”, a servire, cioè, come prova di atti o di rapporti, mirando, così, attraverso la relativa declaratoria, a conseguire il risultato di provocare la completa rimozione del valore del documento, eliminandone, oltre all’efficacia sua propria, qualsiasi ulteriore effetto attribuitogli, sotto altro profilo dalla legge, e del tutto a prescindere dalla concreta identificazione dell’autore della falsificazione. Ne consegue che la relativa sentenza, eliminando ogni incertezza sulla veridicità o meno del documento, riveste efficacia “erga omnes”, e non solo nei riguardi della controparte presente in giudizio» (v. ex multis la sentenza della Corte di Cassazione, I Sez. civile, del 20 giugno 2000, n. 8362). (43) R. GRECO, L’istruttoria e l’accertamento del fatto nel codice del processo amministrativo, cit. (44) R. GRECO, loc. cit. 176 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 Corte costituzionale, sentenza dell’ 11 novembre 2011 n. 304 - Pres. Quaranta, Red. Grossi - Giudizio di legittimità costituzionale promosso dal Consiglio di Stato nel procedimento vertente tra M.B. ed altra (avv.ti Enrico Piovano, Federico Sorrentino e Gianluigi Pellegrino) e la Regione Piemonte (avv.ti Angelo Clarizia e Luca Procacci) (avv. Stato Maurizio Borgo per il Presidente del Consiglio dei ministri). (Omissis) Ritenuto in fatto 1. – Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale solleva, con ordinanza del 16 febbraio 2011, questione di legittimità costituzionale degli articoli 8, comma 2, 77, 126, 127, 128, 129, 130 e 131 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo) [c.d. codice del processo amministrativo] e delle previgenti disposizioni di cui agli articoli 7 del regio decreto 30 dicembre 1923, n. 2840 (Modificazioni all’ordinamento del Consiglio di Stato e della Giunta provinciale amministrativa in sede giurisdizionale); 41, 42 e 43 del regio decreto 17 agosto 1907, n. 642 (Regolamento per la procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato); 28, terzo comma, e 30, secondo comma, del regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054 (Approvazione del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato); 7, terzo comma, ultima parte, e 8 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali); nonché dell’art. 2700 del codice civile, in riferimento agli artt. 24, 76 – parametro, questo, evocato con esclusivo riferimento alle norme del codice del processo amministrativo –, 97, 103, 111, 113 e 117 della Costituzione, nella parte in cui precludono al giudice amministrativo di accertare anche solo incidentalmente la falsità degli atti pubblici nel giudizio amministrativo in materia elettorale. Premessa, in linea di fatto, la descrizione delle vicende processuali svoltesi davanti al Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte (e conclusesi, da un lato, con la dichiarazione di infondatezza della domanda principale, tesa ad accertare le dedotte falsità; e, dall’altro lato, con l’assegnazione di un termine per la proposizione dell’incidente di falso davanti al competente tribunale ordinario) e riferite le diverse posizioni espresse dai vari soggetti intervenuti nel giudizio d’appello, il collegio ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalità della disciplina denunciata, atteso il carattere pregiudiziale che essa assumerebbe ai fini della decisione sul merito. In punto di non manifesta infondatezza, il collegio rimettente osserva come la riserva al giudice ordinario dell’accertamento della falsità degli atti muniti di fede privilegiata attraverso lo specifico rimedio della querela di falso, e la connessa preclusione al giudice amministrativo di accertare incidenter tantum la falsità degli atti, si iscrive in una tradizione che si giustificava alla luce della carenza di strumenti di accertamento nell’ambito del processo amministrativo. Limite, questo, che si sarebbe progressivamente attenuato, essendosi riconosciuta una gamma sempre più estesa di poteri istruttori anche al giudice amministrativo, con la sola esclusione dell’interrogatorio formale e del giuramento, che renderebbe ormai ingiustificabile «la permanenza di preclusioni soprattutto in quei giudizi, quali il contenzioso elettorale, caratterizzati da una esigenza “rafforzata” di garantire il principio della ragionevole durata del processo». La limitazione denunciata si porrebbe, dunque, in contrasto anzitutto con gli artt. 24 e 113 Cost., in quanto, alla luce anche dei princìpi affermati da questa Corte nella sentenza n. 236 del 2010 in tema di effettività e tempestività della tutela giurisdizionale delle situazioni soggettive immediatamente lese, la necessaria devoluzione al giudice ordinario dell’accertamento della falsità degli atti pubblici del procedimento elettorale comprimerebbe fortemente CONTENZIOSO NAZIONALE 177 la possibilità di una effettiva tutela giurisdizionale, come si è verificato in diverse circostanze, in cui il giudicato sulla falsità era intervenuto addirittura a consiliatura ormai conclusa e si erano da tempo svolte nuove elezioni. Un sistema, quello censurato, che per di più preclude anche la possibilità di una tutela cautelare. Viene correlativamente ravvisata una violazione anche dell’art. 111 Cost., in quanto la sospensione del giudizio amministrativo non assicurerebbe la ragionevole durata del processo, nonché dell’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento agli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, i quali riconoscono il diritto ad un ricorso effettivo. Risulterebbe, inoltre, compromessa anche la tutela degli interessi legittimi, assicurata dal giudice amministrativo e garantita dagli artt. 103 e 113 Cost., conseguentemente vulnerati. Si denuncia, poi, violazione dell’art. 97 Cost., non risultando coerente con il principio del buon andamento un procedimento nel quale anche in presenza di evidenti falsità di atti pubblici, gli organi preposti alla procedura non possono accertare tali falsità, né vi sarebbe possibilità, per le ragioni già dette, di una tutela immediata. Si prospetta poi, con esclusivo riferimento alle norme del codice del processo amministrativo denunciate, la violazione dell’art. 76, non essendo stati rispettati i criteri fissati dalla legge delega di cui all’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, fra i quali vi era quello generale di «assicurare la snellezza, concentrazione ed effettività della tutela, anche al fine di garantire la ragionevole durata del processo». Nel circoscrivere la portata del quesito alla possibilità di svolgere un accertamento «anche solo incidentale» in ordine alla falsità dei soli atti pubblici del procedimento elettorale, il giudice rimettente sottolinea come gli stessi presentino rilevanza ed effetti solo in quest’ultimo procedimento, con la conseguenza che non sussisterebbe «alcuna esigenza di un accertamento con effetti generali ed erga omnes, quale l’accertamento del falso in sede civile». 2. – Costituendosi in giudizio, M.B.e L.S.P., parti nel giudizio a quo, hanno sollecitato l’accoglimento della questione, osservando, conclusivamente, come essa sia imposta in particolare dal principio della durata ragionevole del processo: «le norme vigenti finiscono col sottrarre al giudice amministrativo, al quale pure appartiene la giurisdizione in ordine alle operazioni elettorali, la giurisdizione stessa, allorché, come nella specie accade, la falsità di un documento che esaurisce i suoi effetti nel procedimento elettorale costituisca la ragione stessa della contestazione, onde la sua devoluzione al giudice civile in un separato giudizio collide irragionevolmente con la giurisdizione attribuita in materia di operazioni elettorali al giudice amministrativo». In punto di rilevanza, la memoria sottolinea come, essendosi il giudizio di primo grado celebrato prima della entrata in vigore del nuovo codice del processo amministrativo, fosse necessario coinvolgere, nel controllo della sentenza da parte del giudice d’appello, le norme anteriormente vigenti. Quanto all’art. 2700 cod. civ., sarebbe proprio questa disposizione a precludere al giudice amministrativo di valutare secondo il suo libero apprezzamento l’autenticità degli atti pubblici. Puntualizzati, poi, i diversi profili di illegittimità posti a fondamento della ordinanza di rimessione, la memoria, conclusivamente, sottolinea come: a) la materia elettorale non si presti «ad una tutela per equivalente che possa minimamente ritenersi tale, sicché negare una tutela pronta e correttiva vuol dire in radice negare tutela tout court»; b) «l’allargamento dei soggetti titolari del potere di autentica, con l’attribuzione dello stesso anche a soggetti “politici” in quanto titolari di “munus elettivo” (id est i consiglieri comunali), e l’applicazione di 178 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 tale allargamento proprio alla materia elettorale rende tutt’altro che eccezionale l’ipotesi che la contestazione dell’esito del procedimento elettorale sia fondata sulla dedotta falsità di tal tipo di autentiche che peraltro […] proprio nel procedimento elettorale esauriscono i loro effetti diretti». Non si ravviserebbero, dunque, esigenze di accertamento della eventuale falsità autonome rispetto alla verifica della regolarità delle operazioni elettorali. In una memoria depositata in prossimità dell’udienza, si è segnalato che il Tribunale di Torino, con sentenza del 30 giugno 2011, ha condannato M.G. e C.G. come colpevoli dei reati ad essi ascritti ed ha altresì dichiarato la falsità delle 17 autenticazioni della firma poste in calce alle rispettive «dichiarazioni di accettazione di candidatura» oggetto di imputazione. L’intervento richiesto alla Corte si collocherebbe nella stessa linea della previsione che consente al giudice penale di accertare autonomamente il falso, ex art. 537 del codice di procedura penale, riguardando atti che non hanno effetti al di fuori del procedimento elettorale e assegnando al giudice amministrativo la possibilità di svolgere un accertamento incidenter tantum sulla loro eventuale falsità. Né varrebbe in contrario l’argomento del possibile contrasto fra giudicati. Evidente sarebbe anche la violazione della norma di delega: non si tratterebbe di una mancata esecuzione di una direttiva ma di un contrasto con la stessa, posto che si imponeva al legislatore delegato di «garantire la concentrazione e la celerità della tutela assegnata al giudice amministrativo in materia elettorale». Si deduce, infine, la inammissibilità del tentativo della difesa del G. di introdurre nel giudizio di costituzionalità pretese contestazioni concernenti le liste collegate con l’on. B., trattandosi di questioni estranee alla ordinanza di rimessione ed allo stesso giudizio a quo. 3. – Si sono costituiti R.V. ed altri – tutti consiglieri regionali del Piemonte eletti a seguito della consultazione elettorale del 28 e 29 marzo 2010, parti nel giudizio a quo – chiedendo dichiararsi inammissibile o infondata la proposta questione, con argomenti ulteriormente precisati nella memoria depositata in prossimità dell’udienza. L’incidente di falso sarebbe un giudizio con una sua struttura tipica ed unitaria, necessariamente attribuito, per l’esigenza generale di affidamento e di sicurezza del traffico giuridico, alla giurisdizione del giudice ordinario. Tale esigenza di unità della giurisdizione prevarrebbe su quella di concentrazione delle tutele, secondo una linea costantemente adottata sin dai primi anni del Novecento e che non ha formato oggetto di contestazione, neppure nei tempi più recenti. L’accertamento sulla falsità dell’atto, peraltro, proprio perché destinato a riflettersi su ogni rapporto e giudizio, mal si concilierebbe con un accertamento di tipo incidentale, dovendo esso, proprio per svolgere la sua funzione, essere effettuato in via principale; ciò anche nel giudizio elettorale amministrativo, posto che anche per esso valgono gli evidenziati interessi primari. Né sarebbe corretto dire che gli atti del procedimento amministrativo elettorale rilevano solo in sede di giurisdizione amministrativa, considerato che, laddove coinvolgano rapporti tra soggetti, partecipanti o meno alla competizione elettorale, appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario. L’accoglimento della questione non risolverebbe, d’altra parte, il problema prospettato, richiedendosi piuttosto un intervento legislativo: le disposizioni denunciate costituiscono una mera specificazione di una scelta compiuta dal legislatore con la disciplina del processo civile, come stabilito dall’art. 1 del codice di rito. Una eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale non avrebbe, dunque, l’effetto di attribuire al giudice amministrativo la competenza in materia. Quanto alla questione relativa all’art. 2700 cod. civ., essa andrebbe dichiarata CONTENZIOSO NAZIONALE 179 inammissibile o infondata, in assenza dell’esposizione di plausibili ragioni contrarie. 4. – A.A. ed altri, nella loro qualità di consiglieri regionali della Regione Piemonte, parti nel giudizio a quo, hanno depositato atto di costituzione, nel quale hanno chiesto dichiararsi inammissibile o infondata la proposta questione. Nella successiva memoria, i medesimi hanno precisato che l’inammissibilità deriverebbe, sotto un duplice profilo, dal carattere contraddittorio e alternativo della questione sollevata nonché dalla sua irrilevanza nel giudizio principale. L’ordinanza non consentirebbe di «individuare un petitum univoco» e di «identificare in maniera chiara il thema decidendum»; e il dubbio di legittimità costituzionale, rivolto sia alla disciplina vigente sia a quella previgente, sarebbe fondato sull’«argomento centrale» dell’evoluzione del processo amministrativo, ovviamente riferibile al solo codice del processo amministrativo. D’altra parte, la normativa vigente non sarebbe applicabile al giudizio a quo (instaurato prima dell’entrata in vigore del codice stesso) e la relativa questione sarebbe perciò irrilevante. La contraddittorietà, o alternatività, della prospettazione rileverebbe anche sotto un altro profilo: da un lato, la questione riguarderebbe «in toto» l’istituto in esame, in riferimento ai poteri del giudice amministrativo nel suo processo; dall’altro essa si riferirebbe soltanto al giudizio elettorale, restando peraltro imprecisato se si richieda un intervento caducatorio o uno additivo. La normativa denunciata sarebbe, peraltro, applicabile al solo processo di primo grado: «ove mai la questione qui in discussione venisse accolta, sarebbe il TAR Piemonte a dover effettuare le autonome verifiche sul presunto falso materiale di cui si discute e non certo il Consiglio di Stato». Difettando il carattere di incidentalità, si sarebbe al limite della fictio litis, che condurrebbe a una pronuncia di manifesta inammissibilità. Quanto all’infondatezza della questione, la memoria sottolinea che la disciplina in esame costituisce, in definitiva, «un caposaldo del riparto di giurisdizione e come tale è stato puntualmente riproposto e mantenuto fermo in tutte le successive modificazioni dell’assetto della giurisdizione amministrativa», nonostante la progressiva estensione della sua sfera anche con l’attribuzione della giurisdizione esclusiva. Si pretenderebbe di «scardinare questo secolare modello in nome dei princìpi di concentrazione e celerità e dei nuovi poteri istruttori del giudice amministrativo», in realtà dirigendo la contestazione nei confronti dei tempi, eccessivamente lunghi, di svolgimento del processo civile e dunque nei confronti di un «inconveniente di fatto», inidoneo ad essere valutato nel giudizio costituzionale. Del resto, «la garanzia del riparto delle giurisdizioni costituisce un elemento con cui la ragionevole durata [del processo] va contemperato», al pari del diritto di difesa e dell’effettività della tutela giurisdizionale. Inconferente risulterebbe il richiamo dell’art. 97 Cost., attesa l’esclusione della riferibilità del principio del buon andamento all’esercizio della funzione giurisdizionale. Le previsioni relative all’accertamento di diritti da parte del giudice amministrativo costituirebbero, del resto, una «regola eccezionale e soggetta ad ulteriori limiti», identificati dalla stessa giurisprudenza amministrativa, ferma tuttavia restando la scelta – «discrezionale e non irragionevole» – di attribuire le questioni di falso al giudice ordinario per la «salvaguardia di uno dei più importanti interessi superindividuali, quello della fede pubblica, ossia della forza fidefacente di un atto pubblico, idoneo a produrre ex se effetti di certezza privilegiata». Quanto alla lamentata violazione dell’art. 76 Cost., la censura sarebbe, da un lato, inammissibile per irrilevanza, dall’altro non fondata, non potendosi ritenere che la delega «ricomprendesse anche la possibilità di intaccare i capisaldi più tradizionali dell’ambito di 180 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 giurisdizione amministrativa». 5. – Ha depositato atto di costituzione anche il Presidente della Regione Piemonte, chiedendo ugualmente dichiararsi inammissibile o infondata la questione, e formulando riserva di ulteriori deduzioni. Con memoria depositata in prossimità dell’udienza, la difesa ha insistito nelle richieste esponendo argomenti sostanzialmente analoghi a quelli esposti dalla difesa A. 6. – Hanno depositato comparsa di costituzione M.G. e S.F., controinteressati nel giudizio a quo, chiedendo dichiararsi inammissibile o infondata la questione. Nel riservarsi di presentare memoria illustrativa – poi, a quanto consta, non pervenuta – le parti private anzidette hanno rilevato che, alla stregua della documentazione prodotta, risulterebbe asseverata una non meglio precisata “prova di resistenza”, che renderebbe irrilevante la proposta questione. 7. – Ha infine depositato atto di intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, chiedendo dichiararsi manifestamente infondata la proposta questione. La riserva di giurisdizione in tema di querela di falso troverebbe la sua giustificazione nella «particolare delicatezza del procedimento necessario per eliminare, dal mondo giuridico, l’efficacia probatoria dei documenti assistiti da pubblica fede». Inoltre, se si consentisse l’accertamento incidentale da parte di altro giudice, si correrebbe il rischio di decisioni contrastanti: né si determinerebbe alcuna irragionevole compressione del diritto di difesa. D’altra parte, sul versante della durata del procedimento, essendo l’incidente di falso proponibile anche in via principale, le parti ricorrenti ben avrebbero potuto attivare ad un tempo sia il giudice amministrativo che quello ordinario ai soli fini del giudizio di falso, evitando di dover attendere la decisione del giudice amministrativo. Generica e insufficiente sarebbe poi la motivazione della ordinanza in merito alla supposta violazione dell’art. 97 Cost., posto che la eliminazione della preclusione non avrebbe conseguenze ai fini della auspicata verifica della regolarità delle operazioni da parte degli organi preposti, mentre non avrebbe senso giuridico il riferimento a situazioni di “evidente falsità”, trattandosi di atti assistiti da fede pubblica rimuovibile solo attraverso il relativo procedimento. Infondato sarebbe anche il prospettato dubbio di eccesso di delega, circa le norme del nuovo codice del processo amministrativo, in quanto, contrariamente a ciò che afferma il giudice a quo, le deroghe alla disciplina ordinaria stabilite dalla legge di delega devono ritenersi tassative. 8. – In prossimità dell’udienza ha depositato “atto di costituzione e memoria” la Regione Lombardia, in persona del Presidente della Giunta regionale pro tempore, parte di altro giudizio rispetto a quello a quo, pendente, con oggetto asseritamente simile, presso il medesimo giudice che ha rimesso la questione all’esame. Con detto atto la Regione Lombardia ha chiesto di essere ammessa al presente giudizio incidentale di legittimità costituzionale ed ha anche domandato di disporre il rinvio della udienza pubblica fissata per la trattazione, al fine di poter «esercitare in modo pieno e senza pregiudizio il proprio diritto di difesa», eccependo l’inammissibilità e l’infondatezza della relativa questione di legittimità costituzionale. Con ordinanza pronunciata all’udienza, e qui allegata in appendice, il richiesto intervento è stato dichiarato inammissibile. Considerato in diritto 1. – Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale solleva questione di legittimità costituzionale degli articoli 8, comma 2, 77, 126, 127, 128, 129, 130 e 131 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo) [c.d. codice del processo amministra- CONTENZIOSO NAZIONALE 181 tivo]; e delle previgenti disposizioni di cui agli artt. 7 del regio decreto 30 dicembre 1923, n. 2840 (Modificazioni all’ordinamento del Consiglio di Stato e della Giunta provinciale amministrativa in sede giurisdizionale), 41, 42 e 43 del regio decreto 17 agosto 1907, n. 642 (Regolamento per la procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato); 28, terzo comma, e 30, secondo comma, del regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054 (Approvazione del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato); 7, terzo comma, ultima parte, e 8 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali), nonché dell’art. 2700 del codice civile, in riferimento agli artt. 24, 76 – parametro, questo, evocato con esclusivo riferimento alle norme del codice del processo amministrativo – 97, 103, 111, 113 e 117 della Costituzione, nella parte in cui precludevano e precludono al giudice amministrativo di accertare, anche solo incidentalmente, la falsità degli atti pubblici nel giudizio amministrativo in materia elettorale. Osserva, in particolare, il giudice rimettente che l’obbligo della devoluzione al giudice ordinario della risoluzione dell’incidente di falso in riferimento agli atti muniti di fede privilegiata a norma dell’art. 2700 cod. civ., si giustificava, quanto al processo amministrativo, in ragione della carenza di strumenti di accertamento che precludevano la possibilità di una verificazione incidentale della falsità. Preclusione, quella accennata, che, invece, alla luce dei nuovi poteri istruttori previsti dal codice del processo amministrativo, di recente entrato in vigore, sarebbe venuta meno, quanto a ratio essendi originaria, così da generare una irragionevole perdita di concentrazione della attività processuale, contraria all’esigenza di speditezza del giudizio amministrativo e alla corrispondente necessità di assicurare un effettivo e pronto ristoro delle posizioni soggettive coinvolte dal falso, specie in ragione delle peculiarità che caratterizzano il controllo della regolarità delle operazioni elettorali nell’ambito del relativo contenzioso. Sarebbero, dunque, vulnerati, a parere del giudice rimettente, gli artt. 24 e 113 Cost., in quanto la obbligatoria devoluzione al giudice ordinario della querela di falso in ordine agli atti pubblici del procedimento elettorale, con l’attesa del relativo giudicato, frustrerebbe, in concreto, la possibilità di una solerte ed efficace tutela giurisdizionale, posto che la pronuncia irrevocabile sul falso può intervenire a distanza di tempo tale da non presentare più alcuna reale incidenza sulla stessa competizione elettorale. Risulterebbe al tempo stesso compromesso il principio di ragionevole durata del processo e violato, anche, l’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento agli artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in quanto la preclusione anzidetta vanificherebbe il diritto ad un ricorso effettivo, comprimendo pure la tutela degli interessi legittimi, affidata al giudice amministrativo e garantita dagli artt. 103 e 113 Cost. Sarebbe, inoltre, violato l’art. 97 Cost., in quanto, in contrasto con il principio del buon andamento della pubblica amministrazione, non sarebbe consentito agli organi preposti alla procedura elettorale di accertare falsità di atti pubblici anche se evidenti, né sarebbe prevista, a fronte di ciò, la possibilità di una tutela immediata. Viene infine prospettata, con riguardo esclusivo alle pertinenti disposizioni del nuovo codice del processo amministrativo, la violazione dell’art. 76 Cost., in quanto, per le ragioni innanzi evidenziate, attraverso la mancata previsione della possibilità di accertare incidenter tantum la falsità degli atti in materia elettorale, non sarebbero stati rispettati i princìpi ed i criteri direttivi sanciti dall’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), quali quello di «assicurare la snellezza, concentrazione ed effettività della tutela, anche al fine di garantire la ragionevole durata del processo» e, con specifico riferimento ai giudizi in materia elettorale, di «razionalizzare e unificare le norme vigenti per il processo amministrativo sul contenzioso 182 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 elettorale, prevedendo il dimezzamento, rispetto a quelli ordinari, di tutti i termini processuali, il deposito preventivo del ricorso e la successiva notificazione in entrambi i gradi». 2. – Si sono costituiti in giudizio M.B. e L.S.P.; R. V. ed altri; A.A. ed altri; M.G. e S.F.; nonché la Regione Piemonte, in persona del Presidente della Giunta regionale pro tempore, tutte parti nel giudizio a quo. È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato. Gli argomenti esposti negli atti e nelle memorie di costituzione o di intervento sono stati descritti in narrativa. 3. – In prossimità dell’udienza ha depositato “atto di costituzione e memoria” la Regione Lombardia, in persona del Presidente della Giunta regionale pro tempore, parte di altro giudizio rispetto a quello a quo, chiedendo di essere ammessa al presente giudizio incidentale. L’intervento è stato dichiarato inammissibile con ordinanza letta all’udienza, allegata in appendice, ed il cui contenuto si intende qui integralmente confermato. 4. – La questione non è fondata. 5. – La ultracentenaria tradizione – in vario modo risalente al primo impianto codicistico postunitario, civile e di procedura civile, nonché alla stessa legge di unificazione amministrativa (legge 20 marzo 1865, n. 2248 e, in particolare, allegati E e D) ed espressamente proseguita, via via, con le normative di riforma del sistema e degli istituti di giustizia amministrativa degli anni 1889-1890, del 1907, del 1923-1924 e, dopo la Costituzione repubblicana, del 1971 – di riservare al giudice civile la risoluzione delle controversie sullo stato e la capacità delle persone, salvo la capacità di stare in giudizio, nonché la risoluzione dell’incidente di falso, in tema di atti muniti di fede privilegiata, risponde, come è noto, alla esigenza di assicurare in talune peculiari materie – rispetto alle quali maggiore è la necessità di una certezza erga omnes e sulle quali possa dunque formarsi anche un giudicato – una sede e un modello processuale unitari: così da evitare, ad un tempo, il rischio di contrastanti pronunce – che minerebbero la fiducia verso determinati atti ovvero in ordine a condizioni e qualità personali di essenziale risalto agli effetti dei rapporti intersoggettivi – e il ricorso a modelli variegati di accertamento, dipendenti dalle specificità dei procedimenti all’interno dei quali simili questioni “pregiudicanti” possono intervenire. La devoluzione al giudice civile della querela di falso rappresenta, pertanto, una (unanimemente condivisa) opzione di sistema, non soltanto, come si è accennato, di risalente e costante tradizione – estesa poi al processo tributario (art. 39 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, recante «Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413») ed ora trasfusa nell’art. 8, comma 2, del nuovo codice del processo amministrativo, in una linea da considerare di sostanziale e immutata continuità rispetto alla corrispondente disciplina di cui alla serie delle disposizioni previgenti –, ma anche rispondente a persistenti valori ed esigenze di primario risalto: tra questi va, anzitutto, annoverata la necessaria tutela della fede pubblica, che in determinate ipotesi – quale è quella degli atti muniti di valore fidefacente privilegiato a norma dell’art. 2700 cod. civ. – deve essere assicurata a prescindere dalla sede processuale in cui l’autenticità dell’atto sia stata, incidentalmente, messa in dubbio. La certezza e la speditezza del traffico giuridico – che rappresentano, come è noto, il bene finale presidiato dal regime probatorio normativamente riservato a determinati atti – potrebbero risultare, infatti, non adeguatamente assicurate ove l’accertamento sulla autenticità dell’atto fosse rimesso ad un mero “incidente”, risolto all’interno di un determinato procedimento giurisdizionale, senza che tale verifica avesse effetti giu- CONTENZIOSO NAZIONALE 183 ridici al di là delle parti e dell’oggetto dello specifico procedimento. Da ciò consegue che la prevista disciplina della pregiudiziale di falso nel processo amministrativo risponde ad una causa normativa del tutto in linea con la necessità di assicurare la salvaguardia di esigenze, come si è detto, di primario rilievo: e ciò, non soltanto nel quadro di una – pur doverosa – armonia nel sistema delle giurisdizioni, ma – soprattutto – nell’ambito di una adeguata ponderazione delle varie esigenze coinvolte. La “unitarietà” della giurisdizione in specifiche materie ben può, dunque, costituire una necessità destinata a prevalere su quella di concentrazione dei singoli e diversi giudizi, senza che a tal proposito possa in qualche modo venire in discorso – come al contrario mostra di ritenere il giudice a quo – la maggiore o minore idoneità di questo o quello tra i modelli processuali ad assicurare adeguata tutela in quelle stesse materie. A fronte di ciò, l’organo rimettente pone a fulcro della questione non un composito e ponderato apprezzamento dei vari interessi e valori coinvolti, ma unicamente le esigenze di speditezza del processo amministrativo in materia elettorale, pretendendo apoditticamente di desumere da esse la salvaguardia di una effettività di tutela, sulla falsariga dei princìpi affermati da questa Corte, proprio in tema di contenzioso elettorale, nella sentenza n. 236 del 2010, più volte evocata nella ordinanza di rimessione. Ma tanto la premessa argomentativa – fondata sulla presupposizione che alla eliminazione della pregiudiziale di falso corrisponda una maggiore celerità del procedimento – quanto il richiamo alla pronuncia di questa Corte non assumono portata dirimente, non apparendo la prima condivisibile ed il secondo pertinente. A proposito, infatti, della sentenza n. 236 del 2010, può subito osservarsi che in essa questa Corte dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 83-undecies del decreto del Presidente della Repubblica 16 maggio 1960, n. 570 (Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle Amministrazioni comunali), introdotto dall’art. 2 della legge 23 dicembre 1966, n. 1147 (Modificazioni alle norme sul contenzioso elettorale amministrativo), nella parte in cui tale disposizione escludeva la possibilità di un’autonoma impugnativa degli atti del procedimento preparatorio alle elezioni, ancorché immediatamente lesivi, anteriormente alla proclamazione degli eletti. Nel frangente, si ebbe a sottolineare come una simile compressione della tutela giurisdizionale non potesse giustificarsi alla luce delle specifiche esigenze di rango costituzionale che caratterizzano il procedimento in materia elettorale, dovendosi distinguere tra procedimento preparatorio alle elezioni – nel quale è inclusa la fase di ammissione delle liste o di candidati – e procedimento elettorale, comprendente le operazioni elettorali e la successiva proclamazione degli eletti. Gli atti relativi al primo procedimento – si osservò –, quali la esclusione di liste o di candidati, debbono poter essere impugnati immediatamente, «al fine di poter assicurare la piena tutela giurisdizionale, ivi inclusa quella cautelare, garantita dagli artt. 24 e 113 Cost.». Si trattava di un contesto decisionale, quindi, affatto diverso da quello evocato dal giudice a quo a fondamento della proposta questione, essendo il caso allora scrutinato riferito ad una preclusione della azione di impugnativa e non – come per l’incidente di falso – ad una riserva di giurisdizione. Il valore della effettività della tutela nell’ambito del contenzioso amministrativo in materia elettorale va dunque preservato, quanto al vincolo della pregiudizialità che scaturisce dall’incidente di falso, nel più ampio contesto delle esigenze di certezza che la soluzione di quell’incidente ragionevolmente postula, non potendo tali esigenze essere (questa volta sì irragionevolmente) totalmente pretermesse a vantaggio di una ipotetica maggiore speditezza 184 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 del procedimento. Né va trascurato di evidenziare che, pur prospettando la questione come di natura strettamente “processuale”, intesa a rimuovere gli effetti preclusivi della pregiudiziale di falso, il giudice rimettente si è trovato nella necessità di coinvolgere espressamente nel dubbio di legittimità costituzionale anche il valore “sostanziale” dell’art. 2700 cod. civ. Con la conseguenza, in ipotesi, che, allo scopo di salvaguardare le esigenze di speditezza e di effettività della tutela nel contenzioso elettorale, contraddittoriamente si produrrebbe, quale naturale effetto, quello di “affievolire” l’efficacia e la qualità dell’atto munito di fede privilegiata, proprio in materia elettorale: consentendo, in altri termini, solo un accertamento incidentale da parte del giudice amministrativo, si finirebbe ineluttabilmente per frustrare il valore probatorio dell’atto pubblico, proprio perché non più fidefacente “fino a querela di falso”. Il che, evidentemente, rende ancor più implausibile la validità del costrutto logico posto a base della ordinanza di rimessione. 6. – Alla luce delle suindicate considerazioni si può passare all’esame delle singole censure, con riferimento agli specifici parametri costituzionali evocati. 6.1. – Il giudice rimettente assume che la preclusione all’accertamento incidentale, da parte del giudice amministrativo, della falsità degli atti pubblici vìoli gli artt. 24 e 113 della Costituzione nonché il principio di effettività della tutela giurisdizionale in riferimento anche all’art. 117, primo comma, Cost. e agli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Le censure non meritano accoglimento. La giurisprudenza costituzionale è costante nell’affermare che la disciplina degli istituti processuali rientra nella discrezionalità del legislatore (ex multis, sentenze n. 221 del 2008 e n. 237 del 2007; ordinanza n. 101 del 2006). Nell’esercizio di tale discrezionalità è necessario, tra l’altro, che si rispetti il principio di effettività della tutela giurisdizionale, il quale rappresenta un connotato rilevante di ogni modello processuale. Nella specie, non può ritenersi che la conformazione dell’accertamento della falsità documentale, per come discrezionalmente effettuata dal legislatore con la disciplina di cui al complesso delle disposizioni denunciate, sia di per sé idonea a recare un vulnus al predetto principio di effettività. La verifica della falsità da parte del giudice ordinario – destinata a confluire nel processo amministrativo ai fini della definizione della controversia – oltre a rinvenire la sua giustificazione nel sistema delle tutele di cui alle linee di sviluppo sommariamente indicate, è comunque in grado di assicurare un livello di protezione conforme alle prescrizioni costituzionali e internazionali. 6.2. – Il Consiglio di Stato assume, altresì, il contrasto delle disposizioni di cui si assume la illegittimità con l’art. 111 Cost., atteso che la necessaria sospensione del giudizio amministrativo non assicurerebbe la ragionevole durata del processo. La censura non merita accoglimento. Deve, infatti, rilevarsi, su un piano generale, come tutti i meccanismi di accertamento pregiudiziale, comprese la pregiudizialità costituzionale e quella comunitaria, possano, per se stessi, incidere sulla durata del processo, senza che ciò automaticamente si risolva, com’è ovvio, nella violazione del principio di ragionevole durata del processo medesimo. Non è, dunque, mediante la soppressione di fasi processuali, essenziali ai fini della decisione, che si consegue l’obiettivo di garantire la celerità dei processi, compreso quello amministrativo in materia elettorale. 6.3. – Secondo il giudice a quo le norme censurate violerebbero anche gli artt. 103 e 113 della Costituzione, in quanto la preclusione posta da tali norme comprimerebbe la tutela CONTENZIOSO NAZIONALE 185 degli interessi legittimi, assicurata dal giudice amministrativo, «introducendo una limitazione della tutela, costituzionalmente non compatibile». Le censure non sono fondate. Sul punto può essere sufficiente rilevare come il sistema di definizione delle questioni pregiudiziali di falso, prefigurate dal legislatore, non limita in alcun modo, per le ragioni sin qui esposte, le forme di tutela degli interessi legittimi. 6.4. – Si assume, altresì, la violazione dell’art. 97 Cost., non risultando coerente con il principio di buon andamento un procedimento, quale quello elettorale, «in cui, anche in presenza di evidenti falsità di atti pubblici gli organi preposti alla procedura elettorale non possono accertare tali falsità». La censura non è fondata. Quanto previsto nell’evocato parametro costituzionale opera esclusivamente con riguardo, come riconosce lo stesso remittente, all’attività amministrativa e non anche a quella giurisdizionale (da ultimo ordinanza n. 219 del 2011). Rimane, inoltre, oscura la connessione che il giudice a quo pone tra i lamentati limiti alla tutela giurisdizionale e l’esigenza di osservare la prescrizione posta dall’art. 97 della Costituzione. 6.5. – Infine, si assume la violazione dell’art. 76 Cost., in quanto non sarebbero stati rispettati dal codice del processo amministrativo i criteri fissati dalla legge delega di cui all’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, fra i quali quello di «assicurare la snellezza, concentrazione ed effettività della tutela, anche al fine di garantire la ragionevole durata del processo» nonché, con riguardo ai giudizi elettorali, quello di «razionalizzare e unificare le norme vigenti per il processo amministrativo sul contenzioso elettorale, prevedendo il dimezzamento, rispetto a quelli ordinari, di tutti i termini processuali, il deposito preventivo del ricorso e la successiva notificazione in entrambi i gradi». La censura non è fondata. La giurisprudenza costituzionale è costante nel ritenere che la eventuale omissione del legislatore delegato che non faccia in parte uso della delega conferitagli non determina violazione del parametro costituzionale evocato (tra le tante, sentenze n. 149 del 2005, n. 110 del 1982, n. 8 del 1977). Ma anche a prescindere da ciò, è assorbente il rilievo che, una volta affermato il non contrasto delle norme censurate con i princìpi di effettività della tutela e di ragionevole durata del processo, non potrebbe neanche prospettarsi la violazione dei criteri direttivi, richiamati dal giudice rimettente, che a tali princìpi fanno riferimento. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 8, comma 2, 77, 126, 127, 128, 129, 130 e 131 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al Governo per il riordino del processo amministrativo); dell’articolo 7 del regio decreto 30 dicembre 1923, n. 2840 (Modificazioni all’ordinamento del Consiglio di Stato e della Giunta provinciale amministrativa in sede giurisdizionale); degli articoli 41, 42 e 43 del regio decreto 17 agosto 1907, n. 642 (Regolamento per la procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato); degli articoli 28, terzo comma, e 30, secondo comma, del regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054 (Approvazione del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato); degli articoli 7, terzo comma, ultima parte, e 8 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei tribunali amministrativi regionali); nonché dell’articolo 2700 del codice civile, sollevata, in riferimento agli articoli 24, 76, 97, 103, 111, 113 e 117 della Costituzione, dal Consiglio di Stato con l’ordinanza indicata in epigrafe. 186 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 ottobre 2011. ORDINANZA LETTA ALL'UDIENZA DEL 4 OTTOBRE 2011 ORDINANZA Rilevato che la Regione Lombardia, in persona del Presidente della Giunta regionale pro tempore, ha depositato, in data 30 settembre 2011, un "atto di costituzione in giudizio e memoria", con i quali ha chiesto di essere ammessa al giudizio incidentale di legittimità costituzionale di cui al Registro ordinanze n. 73 del 2011 e ha anche chiesto di disporre il rinvio della udienza pubblica di trattazione fissata per il 4 ottobre 2011 al fine di poter "esercitare in modo pieno e senza pregiudizio il proprio diritto di difesa", eccependo l'inammissibilità e l'infondatezza della relativa questione di legittimità costituzionale; che, sulla base delle prospettazioni del predetto "atto di costituzione e memoria", la Regione Lombardia è parte non del giudizio a quo ma di altro giudizio con oggetto asseritamente simile, pendente presso il medesimo giudice che ha rimesso la questione all'esame, il quale, senza nuovamente sollevare la questione di legittimità costituzionale delle norme già denunciate, si sarebbe limitato a disporre la sospensione del secondo giudizio in attesa della pronuncia di questa Corte. Considerato che, secondo il costante indirizzo di questa Corte, sono ammessi ad intervenire nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale – oltre che, come previsto, il Presidente del Consiglio dei ministri o, nel caso si discuta di legge regionale, il Presidente della Giunta regionale – soltanto le parti del giudizio principale o quei soggetti che, per quanto estranei a questo, siano tuttavia riconosciuti come titolari di un interesse qualificato, in quanto direttamente e immediatamente inerente allo specifico rapporto sostanziale dedotto nel giudizio e non in quanto semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalle norme oggetto di censura (ex plurimis, ordinanza dibattimentale pronunciata all'udienza del 10 maggio 2011, allegata alla sentenza n. 199 del 2011); che, secondo una giurisprudenza altrettanto consolidata, non è rilevante, ai fini dell'ammissibilità dell'intervento, la circostanza secondo cui il giudizio, di cui è parte il soggetto che aspiri a intervenire, sia stato sospeso in attesa dell'esito di quello incidentale di legittimità costituzionale scaturito da altro indipendente giudizio, «essendo evidente che la contraria soluzione si risolverebbe nella sostanziale soppressione del carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale e nell'irrituale esonero del giudice a quo dal potere-dovere di motivare adeguatamente la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione sottoposta al vaglio della Corte» (sentenza n. 470 del 2002; ordinanza n. 179 del 2003; ordinanza n. 119 del 2008; sentenza n. 151 del 2009); che, d'altra parte, ove si accedesse alla richiesta dell'atto di cui in premessa, l'eventuale intervento, proprio in quanto totalmente svincolato dal giudizio incidentale ritualmente instaurato e regolarmente pendente, risulterebbe esentato dal rispetto di qualsiasi termine, con violazione della disciplina del contraddittorio; che, pertanto, ai sensi dell'art. 4, comma 3, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, l'intervento deve essere dichiarato inammissibile. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara inammissibile l'intervento della Regione Lombardia nel giudizio introdotto con l'ordinanza di cui al Reg. ord. n. 73 del 2011. CONTENZIOSO NAZIONALE 187 La pronuncia delle SS.UU. sul deposito degli atti processuali in Corte (Cassazione civ., Sez. Un., sentenza 3 novembre 2011 n. 22726) IN ALLEGATO: Una breve annotazione alla sentenza in rassegna e la memoria difensiva dell’Avvocatura. UNA VITTORIA DEL BUON SENSO (PRIMA ANCORA CHE DEL DIRITTO) Con la sentenza n. 22726/2011 le Sezioni Unite hanno posto fine ad un orientamento giurisprudenziale “innovativo”, in base al quale era da ritenersi improcedibile il ricorso per cassazione in cui il ricorrente non avesse provveduto a depositare (nel termine di 20 giorni dalla notifica del ricorso) “gli atti processuali” su cui il ricorso si fondava, anche se gli stessi atti erano già inseriti nel fascicolo d’ufficio. La questione era stata rimessa al primo Presidente (come si legge nell’ordinanza di rimessione della Sezione tributaria n. 8027/2011) per la composizione del contrasto tra diverse Sezioni, per la natura di massima della questione, ed “atteso anche il dissenso esternato, con diffuse pressioni, dall'avvocatura privata e pubblica in merito alla ritenuta applicabilità della previsione dell'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 ai giudizi di cassazione su controversie tributarie ”. È quindi da salutare con favore questa sentenza, che insieme alla n. 15144/2011 delle stesse Sezioni Unite (richiamata nella memoria dell’Avvocatura), ben possono essere annoverate nella categoria delle “decisioni del buon senso ”. Gianni De Bellis* Ct. 42630/09 CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE – SEZIONI UNITE CIVILI MEMORIA DIFENSIVA nella causa n. 25741/09 (udienza 27 settembre 2011 n. 1) per L’AGENZIA DELLE DOGANE in persona del Direttore pro-tempore, rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato presso i cui uffici è domiciliata in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12 resistente contro la società Itierre s.p.a. ricorrente per l’annullamento della sentenza n. 59/02/09 emessa inter partes dalla Commissione Tributaria Regionale del Molise. (*) Avvocato dello Stato. 188 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 *** La questione che viene sottoposta all’esame delle Sezioni Unite, riguarda la corretta interpretazione dell’art. 369 comma 2 c.p.c., in forza del quale “Insieme col ricorso debbono essere depositati, sempre a pena di improcedibilità: […] 4. Gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda ”. Con l’ordinanza n. 8027/2011 la Sezione Tributaria, della Corte, dopo avere precisato che «in controversia tributaria, la società ricorrente, non ha depositato, unitamente al ricorso per cassazione, il ricorso introduttivo e l'atto di appello, ove, con la censura di omessa pronunzia dedotta con il primo motivo di ricorso, assume introdotte doglianze non decise dal giudice a quo, nè la relazione dell'esperita c.t.u., in rapporto alle cui risultanze, con il secondo motivo di ricorso, adduce insufficiente, e contraddittoria la motivazione della decisione impugnata», ha rimesso gli atti al Presidente (per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite) per la soluzione del contrasto creatosi in seno a diverse sezioni della Corte nella interpretazione del citato art. 369 comma 2 c.p.c. Nell’ordinanza si precisa che «In merito alla definizione dell'oggetto dell'onere in rassegna [deposito degli atti processuali] con specifico riguardo al quadro normativo successivo alla novella introdotta dal D.Lgs. n. 40 del 2006, la giurisprudenza di questa Corte non risulta uniforme. Varie decisioni (segnatamente delle sezioni terza e tributaria: v., tra le altre, Cass. 3522/11, 2803/11, 26525/10, 21580/10, 17463/10, 15938/10, 1797/10, 303/10, 29/10, 24940/09, 26266/08, 22303/08) mostrano di ritenere che, ai sensi dell'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, ed alla luce della sua nuova formulazione, tutti gli "atti processuali" sui quali si fondino le censure espresse nei motivi del ricorso per cassazione (e, dunque, necessari alla valutazione della relativa ammissibilità e fondatezza) devono essere depositati dal ricorrente nel termine utile per il deposito del ricorso. Talune pronunzie della sezione lavoro (v. Cass. 18854/10, 17196/10, 4894/10) mostrano, invece, di ritenere che gli "atti processuali" dei quali il legislatore ha imposto l'onere di deposito, a pena di improcedibilità del ricorso ex art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, sono soltanto quelli che non fanno parte del fascicolo d'ufficio del giudizio nel quale è stata pronunciata la sentenza impugnata». Per tali motivi la Sezione ha ritenuto opportuno «rimettere gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni unite, al fine della risoluzione del rilevato contrasto giurisprudenziale e, comunque, della decisione su questione di massima di particolare importanza anche ai fini della proficua organizzazione (v. sub punto 2^ 3.1b) dell'attività di "filtro" di cui all'art. 376 c.p.c., comma 1, come modificato dalla L. n. 69 del 2009, art. 46, comma 1, lett. b». L’Amministrazione evidenzia che per la sua posizione di resistente nella causa, avrebbe ovviamente interesse ad una pronuncia di inammissibilità del ricorso di controparte. Ciò nonostante la portata generalissima della questione, unita ad una doverosa coerenza di strategia processuale nonché (come si evidenzierà), all’esigenza di rispetto dei principi costituzionali e comunitari, induce a prendere posizione, anche nel presente giudizio, in favore dell’ammissibilità del ricorso di controparte (per quel che riguarda il profilo della ipotizzata violazione dell’art. 369 comma 2 c.p.c.). Ciò premesso, si procede all’esame della questione sulla base del seguente schema. CONTENZIOSO NAZIONALE 189 1) La giurisprudenza sull’art. 369 comma 2 c.p.c. nel testo ante riforma ex D.Lgs. n. 40/2006; 2) la modifica dell’art. 369 comma 2 c.p.c. introdotta nel 2006; 3) le due possibili interpretazioni dell’inciso “atti processuali”; 4) la giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale in tema di cause di inammissibilità; 5) una interpretazione costituzionalmente orientata dell’inciso “atti processuali”; 6) la ratio della disposizione; 7) in subordine: la inapplicabilità in ogni caso al processo tributario della interpretazione sfavorevole al ricorrente; 8) in subordine: verifica del rispetto del principio di effettività: necessità di un rinvio pregiudiziale alla CGUE ex art. 267 TFUE; 9) in estremo subordine: applicazione nella fattispecie del principio di “Overruling” di cui alla sentenza n. 15144/2011 delle Sezioni Unite. * * * 1) La giurisprudenza sull’art. 369 comma 2 c.p.c. nel testo ante riforma ex D.Lgs n. 40/2006 L’art. 369 c.p.c., nel testo in vigore fino al 28 febbario 2006, disponeva al comma 2: “Insieme col ricorso debbono essere depositati, sempre a pena di improcedibilità: […] 4. gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda”. Nell’interpretare tale disposizione, mai la Corte aveva affermato la necessità che venissero depositati in giudizio anche gli atti già contenuti nel fascicolo d’ufficio. Nelle precedenti sentenze delle SS.UU. in materia, si discuteva infatti dell’omesso deposito di atti da produrre per la prima volta in Cassazione a sostegno di motivi di ricorso (1) (cfr. SS.UU n. 10167/2002; 15920/2005). 2) La modifica dell’art. 369 comma 2 c.p.c. introdotta nel 2006 Con la modifica del 2006 l’art. 369 comma 2 c.p.c. è stato modificato con l’aggiunta dell’inciso “processuale” (nonché con il riferimento, che in questa sede non rileva, agli accordi collettivi). Tale modifica è alla base della nascita dell’orientamento giurisprudenziale “innovativo”, diretto a ritenere improcedibile il ricorso per l’omesso deposito degli atti dello stesso processo ancorchè già presenti nel fascicolo d’ufficio. 3) Le due possibili interpretazioni dell’inciso “atti processuali” In base alla interpretazione “innovativa”, dall’inciso “processuale” si evincerebbe che il legislatore abbia voluto riferirsi proprio agli atti del processo (ovviamente dalle fasi precedenti), indipendentemente dalla loro presenza nel fascicolo. Tale interpretazione non appare però l’unica possibile, tenuto conto che: 1) In SS.UU. n. 10167/2002 si affermava infatti che «Nel giudizio di cassazione, i documenti miranti a dimostrare l'irregolare composizione, a causa della presenza nel collegio di un membro con mandato scaduto, del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Sicilia in sede giurisdizionale (irregolare composizione che si presta ad essere denunciata con ricorso alle Sezioni Unite come motivo attinente alla giurisdizione), possono essere depositati davanti alla Corte stessa, anche se non prodotti nel precedente grado di giudizio, purchè con il ricorso (secondo quanto prescrive l'art. 369, comma 2, n. 4, c.p.c.), e non successivamente, come è invece disposto (dall'art. 372, comma 2, dello stesso codice) per i documenti che riguardano l'ammissibilità del ricorso e del controricorso». 190 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 a) per giurisprudenza costante, anche nella precedente versione la parola “atti” era interpretata come riferita agli atti processuali (intesi come alternativi ai documenti: cfr. le citate SS.UU. n. 10167/2002; 15920/2005); per cui nessuna novità è intervenuta sotto tale profilo, avendo avuto la norma del 2006 il solo scopo di chiarire quanto già sostenuto in via interpretativa; b) non è possibile desumere dalla mera introduzione della parola “processuali”, che l’obbligo di deposito a pena d’improcedibilità debba riguardare anche gli atti (e documenti) già presenti nel fascicolo. Ad una simile conclusione si potrebbe pervenire solo qualora non fosse ipotizzabile un deposito di atti diversi da quelli già inseriti nel fascicolo. Ma si è già visto che non è così: la denuncia di un vizio di composizione del collegio che ha emesso la sentenza impugnata, va supportata da atti e documenti non ancora presenti nel fascicolo (analogamente per la deduzione per la prima volta con ricorso di una eccezione di giudicato esterno). L’interpretazione “innovativa”, secondo cui il ricorrente (e, se del caso, anche il resistente se ricorrente in via incidentale) dovrebbe ridepositare nuovamente gli atti e i documenti su cui si fondano i propri motivi di gravame ancorchè già presenti nel fascicolo di parte, non appare quindi essere l’unica interpretazione possibile della norma. Da ciò la necessità di una sua interpretazione costituzionalmente orientata. Per costante giurisprudenza di codesta Suprema Corte infatti, fra due possibili interpretazioni “deve essere preferita quella più costituzionalmente orientata ” (Cass. SS.UU. 15 dicembre 2008 n. 29294). 4) La giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale in tema di cause di inammissibilità (o improcedibilità) La Corte costituzionale ha avuto modo di precisare come il sistema processuale “deve garantire la tutela delle parti in posizione di parità, evitando irragionevoli sanzioni di inammissibilità che si risolvano a danno del soggetto che si intende tutelare” (sentenza 13 giugno 2000 n. 189). Nella successiva sentenza 6 dicembre 2002 n. 520, il Giudice delle leggi ha affermato: «In occasione dell'esame di profili di inammissibilità di atti introduttivi di giudizi, sia il legislatore, sia la giurisprudenza di legittimità si sono, in più occasioni, richiamati alla esigenza di non contrastare la realizzazione della giustizia senza ragioni di seria importanza, ed ai criteri di equa razionalità nella valutazione di profili di forma, quando questi non implichino vera e propria violazione delle prescrizioni tassativamente specificate nella legge processuale. La giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto non conformi a Costituzione (artt. 3 e 24) "le disposizioni legislative che frappongono ostacoli non giustificati da un preminente interesse pubblico ad uno svolgimento del processo civile adeguato alla funzione ad esso assegnata, nell'interesse generale, a protezione di diritti soggettivi dei cittadini" (sentenza n. 113 del 1963) ovvero che impongano "oneri (OMISSIS) o modalità tali da rendere (OMISSIS) estremamente difficile l'esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento di attività processuale" (sentenze n. 63 del 1977; n. 47 del 1964 e n. 214 del 1974)». Anche codesta Corte, dal canto suo, ha fatto propri i suddetti principi, richiamando il contenuto delle citate sentenze della Corte Costituzionale (cfr. al riguardo Cass. SS.UU. 29 ottobre 2007 n. 22641). 5) Una interpretazione costituzionalmente orientata dell’inciso “atti processuali” CONTENZIOSO NAZIONALE 191 Proprio in applicazione dei suddetti principi, l’unica interpretazione compatibile con i principi costituzionali appare essere quella “storica”. È innegabile infatti la irragionevolezza di una lettura della norma nel senso d’imporre a pena di improcedibilità un adempimento del tutto superfluo, quale è quello di ridepositare atti e documenti già presenti nel fascicolo d’ufficio. Nè appaiono ragionevoli le giustificazioni portate in alcune decisioni richiamate nell’ordinanza di rimessione n. 8027/2011, nelle quali si afferma che «la duplicazione documentale determinata dalla norma - circoscritta, peraltro, ai soli documenti essenziali al giudizio di cassazione e se decisivi ai fini della pronunzia: cfr. Cass. 12028/10, 20504/06, 19132/05, 15063/05 - non risulta affatto "irragionevole e inutilmente vessatoria, dovendo la ragione della previsione del deposito di documenti già presenti nel fascicolo di causa ravvisarsi innanzitutto ed essenzialmente nella diversità dei tempi di disponibilità per la Corte dei suddetti documenti (posto che, mentre il fascicolo di causa sarà trasmesso successivamente, il deposito della sentenza impugnata e degli atti su cui il ricorso è fondato unitamente al deposito del ricorso medesimo consente subito un primo screening dell'impugnazione, funzionale ad una immediata catalogazione ed organizzazione delle sopravvenienze), senza peraltro sottovalutare la maggiore facilità e velocità di accesso a tali documenti, una volta che essi risultino ben individuati e specificamente depositati, evitando così la necessità del reperimento dei medesimi all'interno dei fascicoli dei gradi di merito pervenuti in Corte in un momento spesso anche di molto successivo al deposito del ricorso"». Basti considerare che il ricorrente è obbligato, a norma dell’art. 369, ultimo comma c.p.c., a depositare al giudice a quo un’istanza di trasmissione del fascicolo alla Corte. Ne consegue che di norma il deposito del ricorso (nei 20 giorni dalla notifica) e l’arrivo del fascicolo d’ufficio da parte del giudice a quo sono coevi. Alle giustificazioni sopra riportate invocate dalla giurisprudenza “innovativa”, in verità qualificabili come mere (ed ipotetiche) difficoltà di gestione del lavoro, si può agevolmente contrapporre l’onere che viene addossato alle parti (spesso si tratta di atti e documenti molto voluminosi, da fotocopiare) e la conseguente lievitazione dei fascicoli (per cui paradossalmente, un voluminoso processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza, di frequente alla base di molti giudizi tributari, potrebbe essere presente sia nel fascicolo d’ufficio che in ciascuno di quelli di parte). In conclusione, l’unica interpretazione corretta appare essere quella “storica”. A tale riguardo non è superfluo richiamare quanto di recente affermato da codeste SS.UU. “Dinanzi a due possibili interpretazioni alternative della norma processuale, ciascuna compatibile con la lettera della legge, le ragioni di economico funzionamento del sistema giudiziario devono indurre l'interprete a preferire quella consolidatasi nel tempo, a meno che il mutamento dell'ambiente processuale o l'emersione di valori prima trascurati non ne giustifichino l'abbandono e consentano, pertanto, l'adozione dell'esegesi da ultimo formatosi” (Cass. SS.UU. 18 maggio 2011 n. 10864). Se, come si è detto, nella sostanza la norma è rimasta invariata (non essendovi differenza alcuna tra “atti” e “atti processuali”), non vi è quindi motivo di modificare una interpretazione pacifica da decenni. 6) La ratio della disposizione Né può ritenersi che l’interpretazione “storica” (che esclude la necessità di riprodurre atti e documenti già presenti nel fascicolo) renda la norma priva di effettiva utilità. 192 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 Come si è detto, la disposizione trova la sua giustificazione nel fatto che nel giudizio civile è consentito alle parti di ritirare il proprio fascicolo di parte anche prima della completa definizione della causa. Se nel giudizio in Cassazione controparte non si costituisce dopo avere ritirato il suo fascicolo contenente la documentazione necessaria per ottenere l’annullamento della sentenza impugnata, è onere del ricorrente depositare gli atti su cui il ricorso si fonda; diversamente la Corte non potrebbe decidere. In tal senso la previsione di inammissibilità appare coerente. Oltre a ciò vale quanto sopra detto in ordine ai possibili motivi di ricorso che si basano su atti non ancora presenti nei fascicoli del giudizio di merito. 7) In subordine: la inapplicabilità in ogni caso al processo tributario della interpretazione sfavorevole al ricorrente È solo in via subordinata che si evidenzia la inapplicabilità della suddetta interpretazione ai giudizi tributari. A norma dell’art. 25 del D.Lgs. n. 546/1992 infatti “I fascicoli delle parti restano acquisiti al fascicolo d'ufficio e sono ad esse restituiti al termine del processo. Le parti possono ottenere copia autentica degli atti e documenti contenuti nei fascicoli di parte e d'ufficio” (Analoga disposizione è contenuta nell’art. 33 del D.P.R. n. 636/1972, ancora applicabile ai giudizi davanti alla Commissione Tributaria Centrale). Ne deriva che tutte le produzioni documentali vanno a formare il fascicolo d’ufficio ed ivi restano fino al passaggio in giudicato della sentenza. Appare allora evidente la pressoché totale inapplicabilità al giudizio tributario dell’art. 369 comma 2 n. 4) c.p.c. (restano salvi i casi di atti e documenti mai prodotti nelle fasi di merito), in quanto tutti gli atti e documenti su cui il ricorso si fonda, sono già inseriti nel fascicolo di parte (che la Commissione Tributaria Regionale deve inviare alla Corte a seguito del deposito da parte ricorrente dell’istanza ex art. 369 c.p.c.). 8) In subordine: verifica del rispetto del principio di effettività: necessità di un rinvio pregiudiziale alla CGUE ex art. 267 TFUE In subordine si evidenzia come una eventuale applicazione della giurisprudenza “storica” al caso di specie imporrebbe un rinvio pregiudiziale alla CGCE ex art. 267 TFUE. La presente controversia ha infatti ad oggetto la debenza o meno di tributi doganali ed IVA, costituenti (com’è noto) risorse proprie della Comunità Europea. Da ciò la indiscussa applicabilità al presente giudizio dei principi elaborati dalla Corte di Giustizia (anche) in materia processuale. Nel momento in cui la Corte dovesse pervenire alla conclusione secondo cui il ricorso è improcedibile a causa dell’omesso deposito di atti e documenti già presenti nel fascicolo d’ufficio, non potrebbe fare a meno di interrogare la Corte di Giustizia (essendovi a ciò obbligata, quale giudice di ultima istanza, ai sensi dell’art. 267 TFUE) circa la compatibilità di una simile interpretazione con il principio comunitario di effettività della tutela. 9) In estremo subordine: applicazione nella fattispecie del principio di “Overruling” di cui alla sentenza n. 15144/2011 delle Sezioni Unite È solo in estremo subordine, per l’ipotesi in cui la Corte non ritenga in alcun modo evitabile l’interpretazione “innovativa”, che si chiede l’applicazione del principio di “Overruling” di cui alla recente sentenza n. 15144/2011 di codeste Sezioni Unite. In base a tale (del tutto condivisibile) orientamento infatti, è ormai da escludersi una in- CONTENZIOSO NAZIONALE 193 terpretazione retroattiva in peius di una norma fino ad allora interpretata diversamente. In materia tributaria l’interpretazione “innovativa” dell’art. 369 c.p.c. risulta essere stata data per la prima volta con la sentenza n. 24140/09, depositata il 13 novembre 2009. Ed allora deve logicamente escludersi la possibilità di dichiarare improcedibili (per violazione dell’art. 369 comma 2 c.p.c) tutti quei ricorsi proposti in epoca anteriore al nascere di tale giurisprudenza (e quindi quanto meno fino alla data del 13 novembre 2009, anche se il termine dovrebbe essere spostato in avanti, non potendo equipararsi sic e simpliciter una pronuncia, rimasta peraltro isolata per diversi mesi, ad una legge pubblicata in G.U., con la conseguente presunzione di conoscenza). * * * Da ultimo non appare superfluo rilevare la pesante iniquità prodotta dalla giurisprudenza “innovativa”, che è talvolta apparsa finalizzata più ad un alleggerimento del gravoso carico di lavoro della Corte che a “giudicare” (nel senso di fare giustizia) nel merito i motivi di ricorso. A ciò si aggiunga l’assoluta aleatorietà delle pronunce, dove numerosi ricorsi sprovvisti di documentazione al pari di quelli dichiarati (più o meno occasionalmente) improcedibili, sono stati invece decisi nel merito, con una conseguente irragionevole disparità di trattamento in situazioni identiche. Si confida pertanto in una pronuncia chiarificatrice delle Sezioni Unite che porti ad una interpretazione della norma coerente con la sua ratio e rispettosa dei principi costituzionali e comunitari. Roma, 22 settembre 2011 Gianni DE BELLIS AVVOCATO DELLO STATO Cassazione civile, Sez. Un., sentenza 3 novembre 2011 n. 22726 - Primo Pres. f.f. Vittoria, Pres. Sez. Lupi, Rel. Amatucci, P.M. Ceniccola (adesione tesi restrittiva sulla interpretazione dell’art. 369 c.p.c., comma 2. n. 4) - Ittierre S.p.A. (avv.ti Bragaglia e Bellante) c. Agenzia dogane (avv. Stato De Bellis). (Omissis) Svolgimento del processo 1.- La Commissione tributaria provinciale di Campobasso respinse il ricorso della Ittierre s.p.a. avverso l'avviso di rettifica con il quale l'Agenzia delle dogane aveva richiesto la somma di Euro 1.604.791,97 per tributi doganali, IVA e interessi di mora a seguito dell'accertamento di irregolarità nelle importazioni definitive di capi di abbigliamento effettuate dal 2003 al 2006, consistite nella falsa attestazione, nei certificati di origine preferenziale, della provenienza italiana di prodotti finiti importati da paesi terzi. In esito all'appello della società la decisione fu parzialmente riformata dalla Commissione tributaria regionale di Campobasso che, sulla scorta delle risultanze dell'esperita consulenza tecnica, con sentenza depositata il 31 luglio 2009 escluse dal recupero a tassazione le sole bollette doganali provenienti dalle lavorazioni eseguite in Turchia, in quanto incidenti su capi realizzati con materia prima di origine comunitaria. 2.- Avverso la decisione di appello la società contribuente ha proposto ricorso per cassazione affidandosi a due motivi, coi quali deduce "violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c." 194 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 (segnatamente su questioni attinenti all'eccessiva durata della verifica, all'intervenuta prescrizione e decadenza, all'incompetenza territoriale ed all'illegittima disapplicazione di atti ufficiali di Autorità estere), nonchè "insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio" in rapporto al complessivo tenore della consulenza tecnica pure posta a base della decisione. L'Agenzia ha resistito con controricorso. 3.- La relazione ex art. 380 bis cod. proc. civ. ha concluso per la trattazione del ricorso in camera di consiglio, prospettandone in particolare l'improcedibilità per non avere la ricorrente prodotto, contestualmente al ricorso, il ricorso introduttivo e quello in appello, in cui sosteneva essere state prospettate questioni non esaminate dal giudice a quo, nonchè la relazione di c.t.u., in rapporto alle cui risultanze assumeva insufficiente e contraddittoria la motivazione della decisione impugnata. Con ordinanza 7 aprile 2011, n. 8027 la Sezione tributaria ha rimesso gli atti al Primo presidente per l'eventuale assegnazione alla Sezioni unite della questione di massima di particolare importanza avente ad oggetto il contrasto giurisprudenziale sull'interpretazione dell'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4. Il ricorso è stato dunque assegnato a queste Sezioni unite. La Ittierre s.p.a. in amministrazione straordinaria ha depositato memoria, con la quale sostiene la procedibilità del ricorso. L'Agenzia, rappresentata dall'Avvocatura Generale dello Stato, ha partecipato alla discussione orale, anch'essa domandando che il ricorso sia dichiarato procedibile. Motivi della decisione 1.- La questione in esame riguarda la definizione dell'ambito oggettivo dell'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, nel testo sostituito dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 7, a far data dal 2 marzo 2006, secondo il quale, insieme col ricorso per cassazione, debbono essere depositati, a pena di improcedibilità, "gli atti processuali, i documenti, contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda" (il testo originario si riferiva agli "atti e documenti sui quali il ricorso si fonda"). Il problema che si pone è se, tra gli atti processuali da depositare nel termine perentorio di cui all'art. 369 c.p.c., comma 1, (di venti giorni dall'ultima notificazione del ricorso), debbano ricomprendersi tutti quelli posti a sostegno delle censure espresse nei motivi del ricorso per cassazione, tra i quali il ricorso introduttivo, l'atto di appello o di costituzione in appello, la relazione di c.t.u. ecc.; e ciò anche se, al momento del primo esame del ricorso, i predetti atti già siano o comunque siano per essere nella disponibilità della Corte, in quanto presenti nel fascicolo d'ufficio del giudice a quo trasmesso su richiesta della parte, ai sensi dell'art. 369 c.p.c., u.c.. A tale riguardo non v'è uniformità di vedute nella giurisprudenza della Corte, riscontrandosi due contrapposti orientamenti. 2.- Un primo e prevalente orientamento, che potrebbe definirsi "rigorista", al quale sostanzialmente aderisce l'ordinanza di rimessione n. 8027 del 2011, è stato inaugurato da Cass., sez. 5^, n. 24940/2009 e seguito da diverse decisioni della Sezione tributaria, tra le quali si annoverano le nn. 303/2010, 21121/2010,, 21580/2010,, 26525/2010, 2803/2011, 3522/2011, e da alcune decisioni della Terza Sezione: nn. 4201/2010, 17463/2010 e 3689/2011. Secondo detto orientamento, per come in gran parte sintetizzato nell'ordinanza di rimessione, l'innovazione introdotta nell'art. 369 c.p.c., n. 4, dal legislatore del 2006 "non sembra poter obiettivamente assumere altro significato che quello di sancire inequivocabilmente l'estensione CONTENZIOSO NAZIONALE 195 dell'onere di deposito in esame a tutti gli atti processuali e documenti (negoziali e non) necessari alla decisione sul ricorso e la ricomprensione nella relativa sfera oggettiva degli atti processuali generalizzatamente intesi", risultando altrimenti la novella "francamente ingiustificata, se finalizzata ad incidere unicamente sugli atti processuali estranei al fascicolo d'ufficio (consulenze di parte, citazione dei testimoni, ecc), agevolmente catalogabili già alla luce della previgente formulazione normativa". Infatti, "escludere dall'onere di deposito sancito dalla disposizione gli atti processuali ricompresi nel fascicolo d'ufficio dei gradi di merito ovvero ritenere l'assolvimento di tale onere fungibile, per detti atti, con il deposito dell'istanza di trasmissione del fascicolo di merito vistata dal Cancelliere del giudice a quo, a sua volta prescritto dall'art. 369 c.p.c., comma 3, si risolverebbe nella sostanziale abrogazione della portata innovativa del D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 7, essendo, quest'ultimo, adempimento funzionale all'ineludibile esigenza (non solo certificativa) che la Corte abbia comunque in sua disponibilità, all'occorrenza, le complessive risultanze processuali dei gradi di merito del giudizio". L'interpretazione proposta viene giustificata mediante una lettura del dato testuale di cui all'art. 369 c.p.c., n. 4, in chiave "finalistica" ovvero "in proiezione dinamica rispetto a quello della previgente formulazione della norma", al fine di soddisfare "l'esigenza di offrire alla Corte, immediatamente, un quadro completo ed oggettivamente autosufficiente di elementi utili alla decisione; esigenza... il cui soddisfacimento costituisce condizione necessaria alla prospettiva - propria della riforma procedimentale di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006 (ed, altresì, di quello di cui alla L. n. 69 del 2009) - di potenziare la capacità decisionale della Corte, per fronteggiare il progressivo aumento delle sopravvenienze, attraverso l'incremento delle decisioni nelle più snelle forme di cui agli artt. 375 e 380 bis c.c. (...)". In questa prospettiva si esclude l'irragionevolezza o la vessatorietà della duplicazione documentale per la parte ricorrente, "dovendo la ragione della previsione del deposito di documenti già presenti nel fascicolo di causa ravvisarsi innanzitutto ed essenzialmente nella diversità dei tempi di disponibilità per la Corte dei suddetti documenti (posto che, mentre il fascicolo di causa sarà trasmesso successivamente, il deposito della sentenza impugnata e degli atti su cui il ricorso è fondato unitamente al deposito del ricorso medesimo consente subito un primo screening dell'impugnazione, funzionale ad una immediata catalogazione ed organizzazione delle sopravvenienze), senza peraltro sottovalutare la maggiore facilità e velocità di accesso a tali documenti, una volta che essi risultino ben individuati e specificamente depositati, evitando così la necessità di reperimento dei medesimi all'interno dei fascicoli dei gradi di merito pervenuti in Corte in un momento spesso anche di molto successivo al deposito del ricorso" (in tal senso è riportata la motivazione delle già citate Cass., sez. 5^, nn. 26525/2010 e 2803/2011). È richiamato il principio costituzionalizzato della ragionevole durata del processo, che "impone un'organizzazione del lavoro sempre più anticipata, accurata e mirata da parte della Corte", e si esclude l'esistenza del potere della Corte "di supplire alle omissioni di indicazioni volte ad individuare la consulenza (come qualsiasi atto processuale su cui si fondi il ricorso)": ciò "appare implicitamente negato dall'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, che onera la parte ricorrente in Cassazione, a pena di improcedibilità, della produzione degli atti processuali su cui il ricorso si fonda, così evidenziando la sussistenza del dovere del ricorrente di produrre anche tali atti, eventualmente in copia se gli originali siano atti del fascicolo d'ufficio del giudice a quo. E ciò, ancorchè sia previsto in via autonoma l'onere di richiedere la trasmissione di detto fascicolo, adempimento nel quale, evidentemente, il ricorrente non può fare affidamento quando il ricorso si fondi su atti processuali che dovrebbero essere inseriti nel fascicolo d'ufficio. Il che si spiega sia con il fatto che tale fascicolo, pur richiesto, potrebbe non pervenire in 196 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 tempo utile per la trattazione (ed un rinvio di essa per l'acquisizione mal si concilierebbe con il ricordato principio costituzionale), sia con il fatto che potrebbe non essere stato tenuto correttamente o potrebbe non contenere più l'atto processuale" (Cass., sez. 3^, n. 4201/2010 cit., in motivazione). 2.1.- Si esclude inoltre la impraticabilità della soluzione nell'ambito dei giudizi di cassazione in materia tributaria, denunciata dalla dottrina sulla base del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 25, comma 2, che, non consentendo alle parti il libero accesso agli atti del giudizio sino alla sua definitiva conclusione, precluderebbe anche il deposito in Cassazione di atti comunque destinati a confluire nel giudizio di legittimità, in quanto inseriti nel fascicolo che la Cancelleria del giudice di appello è tenuta a inviare alla Corte su istanza del ricorrente. Infatti, da un lato, si afferma la piena compatibilità del predetto art. 25 con le norme del codice di procedura civile, non dubitandosi che anche il ricorso per cassazione in controversia tributaria è improcedibile se non si deposita la copia autentica della sentenza impugnata, sebbene questa sia compresa tra gli atti presenti nel fascicolo d'ufficio dei gradi di merito e, quindi, destinata a confluire tra gli atti del giudizio di cassazione; dall'altro, si sostiene che l'onere in questione "non può obiettivamente considerarsi aggravio insopportabile dell'attività difensiva della parte", potendo essere assolto dal ricorrente anche mediante l'allegazione di semplice fotocopia degli atti e documenti presenti nei fascicoli di parte e d'ufficio, sui quali si fonda il ricorso, visto che le parti possono ottenerne copia ai sensi del medesimo art. 25. 3.- Un secondo minoritario orientamento, qualificabile come "liberale", è espresso dalla Sezione lavoro con le decisioni nn. 4898/2010, 13174/2010, 17196/2010 e, 18854/2010. Nelle prime due la Corte ha osservato che la disposizione dettata dall'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, "deve essere coordinata con quella contenuta nel successivo comma, ove è stabilito che il ricorrente deve chiedere alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata la trasmissione del fascicolo di ufficio e deve depositare (anche) tale richiesta insieme col ricorso"; ha quindi affermato che "gli atti processuali, i documenti etc. dei quali il legislatore ha imposto il deposito unitamente al ricorso a pena di improcedibilità sono quelli che non fanno parte del fascicolo d'ufficio del giudizio nel quale è stata pronunciata la sentenza impugnata e l'onere della richiesta del quale continua a gravare sul ricorrente, imponendogli di depositarla unitamente al ricorso. Orbene, nel fascicolo di ufficio, formato dal cancelliere ai sensi dell'art. 168 c.p.c., deve essere inserita, tra gli atti di istruzione che ne divengono parte integrante, la relazione scritta del consulente tecnico di ufficio, la quale, infatti, ai sensi dell'art. 195 c.p.c., deve essere depositata in cancelleria nel termine fissato dal giudice che ha disposto la nomina dell'ausiliare tecnico" (in tal senso la sentenza n. 4898/2010, richiamata adesivamente dall'ordinanza n. 17196/2010, aveva rigettato l'eccezione di improcedibilità, avendo il ricorrente richiesto la trasmissione del fascicolo d'ufficio del giudizio di appello e trascritto nel ricorso i passaggi criticati della relazione del c.t.u. nominato in appello). S'è precisato che "il suddetto onere deve ritenersi ottemperato anche se nel fascicolo di ufficio, formato dal cancelliere ai sensi dell'art. 168 cod. proc. civ. e nel quale devono essere inseriti gli atti di istruzione compiuti, tra cui anche la relazione scritta del consulente tecnico di ufficio, la relazione in effetti manchi, sempre che il ricorrente, a sostegno della denunciata insufficienza e illogicità della motivazione della sentenza impugnata, abbia provveduto alla trascrizione di quelle parti della relazione su cui si incentra il dedotto vizio e su tali brani della relazione non siano formulate dall'avversario censure per difformità della trascrizione dall'effettivo contenuto delle osservazioni e conclusioni dell'ausiliare nominato dal giudice" (in tal senso l'ordinanza n. 17196/2010 aveva concluso per l'improcedibilità del ricorso, non avendo CONTENZIOSO NAZIONALE 197 la ricorrente trascritto le parti criticate della relazione del c.t.u.). Nel caso esaminato nella sentenza n. 18854/2010, il ricorrente addebitava alla sentenza impugnata (che aveva confermato la sentenza di primo grado di rigetto della sua domanda) di non avere pronunciato sulle deduzioni sollevate nell'atto di appello e riferite alla c.t.u. espletata in primo grado e alle osservazioni critiche del consulente tecnico di parte; tuttavia, pur avendo indicato e riportato il contenuto dei menzionati atti processuali, ai sensi dell'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, non ne aveva curato una distinta produzione, depositando però il fascicolo di parte dei gradi di merito e l'istanza di trasmissione del fascicolo d'ufficio, ai sensi dell'art. 369 c.p.c., comma 3. Nella predetta sentenza la Corte, ribadita "l'esigenza della indicazione e descrizione specifica di tali atti secondo il canone dell'autosufficienza del ricorso, ha precisato che l'onere di produzione riguarda quei documenti, contratti collettivi ed atti processuali (su cui il ricorso si fonda) che non siano nella disponibilità della Corte in base a distinte previsioni normative, con le quali la disposizione dell'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, deve comunque coordinarsi.... La prescrizione di deposito in cassazione è rispettata ove l'atto - in particolare la consulenza tecnica d'ufficio - sia compreso fra quelli che devono essere inseriti nel fascicolo d'ufficio del giudice a quo, formato ex art. 347 c.p.c., comma 3, (per il grado di appello) in combinato disposto con l'art. 168 c.p.c. (per il fascicolo di primo grado), della cui trasmissione la parte abbia fatto richiesta ai sensi dell'art. 369 c.p.c., u.c." (a meno che l'impugnazione non sia proposta contro una sentenza non definitiva, nel qual caso "il giudice dell'impugnazione può, se lo ritiene necessario, richiedere la trasmissione del fascicolo d'ufficio, ovvero ordinare alla parte interessata di produrre copia di determinati atti" ex art. 123 bis disp. att. c.p.c.). L'onere di deposito di atti e documenti, prescritto dall'art. 369 c.p.c., comma 2, si riferisce "agli atti prodotti dalla parte nel giudizio di merito, e contenuti nel fascicolo di parte, e non in quello d'ufficio, intendendosi, in particolare, non solo gli atti sostanziali, come gli atti negoziali, ma anche quelli processuali (non compresi nel fascicolo d'ufficio ex art. 168 c.p.c.), come le consulenze tecniche di parte, le citazioni dei testimoni, le relazioni di notificazione ecc. su cui si fondi il ricorso per cassazione", fermo restando, comunque, l'onere della specifica indicazione, ai sensi dell'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6. Si verificherebbe, altrimenti, "un inutile appesantimento della produzione in giudizio... e soprattutto una duplicazione di oneri a carico della parte, non spiegabile sul piano sistematico (in particolare, non potendosi attribuire all'acquisizione del fascicolo d'ufficio in base alla specifica disposizione dell'art. 369 c.p.c., comma 3, una impropria funzione di autenticazione dei medesimi atti separatamente prodotti dalla parte) e, comunque, contrastante con il principio comunitario di effettività della tutela giurisdizionale, il quale osta ad una disciplina processuale che renda eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti (cfr. Cass., sez. un., n. 3117 del 2006, in motiv.) e impone un'interpretazione, se necessario adeguatrice, del sistema processuale nel senso di restringere le ipotesi di inammissibilità dei rimedi giurisdizionali (Corte cost. n. 189 del 2000)". La citata sentenza n. 18854/2010 ha richiamato l'orientamento delle Sezioni Unite (n. 23329/2009) secondo cui l'improcedibilità del ricorso per cassazione a norma dell'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, non può conseguire al mancato deposito del contratto collettivo di diritto pubblico, ancorchè la decisione della controversia dipenda direttamente dall'esame e dall'interpretazione delle relative clausole, atteso che, in considerazione del peculiare procedimento formativo, del regime di pubblicità, della sottoposizione a controllo contabile della compatibilità economica dei costi previsti, l'esigenza di certezza e di conoscenza da parte del giudice era già assolta, in maniera autonoma, mediante la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, ai 198 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 47, comma 8, sì che la successiva previsione, introdotta dal D.Lgs. n. 40 del 2006, deve essere riferita ai contratti collettivi di diritto comune". Con la sentenza n. 13174/2010 la Corte, rigettando l'eccezione di "inammissibilità" del ricorso per la mancata produzione della relazione di c.t.u. di primo grado, ha aggiunto che "d'altra parte, se il ricorrente si limita ad argomentare in ordine alle risultanze dell'atto processuale quale risultanti dalla stessa sentenza impugnata, è sufficiente il deposito di quest'ultima". 4.- L'orientamento c.d. rigorista è stato criticato dalla dottrina sulla base degli argomenti qui di seguito riassunti. In generale, ai fini del principio di autosufficienza del ricorso, soddisfatto con la specifica indicazione degli atti processuali e/o dei documenti su cui il ricorso si fonda e della loro collocazione fisica (cfr. art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), non occorre (nè è mai stata richiesta dall'anteriore diritto vivente) la riallegazione al ricorso per cassazione di atti e/o documenti già prodotti nelle precedenti fasi del processo, riallegazione che diventa un onere necessario nella sola ipotesi in cui, basandosi il ricorso anche su atti e/o documenti contenuti nel fascicolo della controparte, quest'ultima non si costituisca e quindi non depositi il proprio fascicolo. "La novità esegetica" dell'orientamento c.d. rigorista "sembra solo un'acrobazia tra il semantico e l'interpretativo: l'art. 369 c.p.c., non dispone che il ricorrente (e il ricorrente incidentale) sia tenuto a depositare due volte atti e documenti; basta che siano depositati una sola volta: alternativamente, o nel fascicolo di parte (ritualmente depositato) oppure ex novo, ma solo quando il fascicolo di parte non venga depositato. Quello che conta è la loro specifica indicazione/ collocazione". Le critiche della dottrina hanno riguardato soprattutto il giudizio di cassazione nelle controversie tributarie. S'è in particolare osservato: - che nel processo tributario vige una norma speciale (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 25, comma 2) che rende indisponibili gli atti e i documenti prodotti alle Commissioni tributarie, i quali restano acquisiti al fascicolo senza possibilità per le parti di ritirarli fino al termine del processo; la loro restituzione avviene solo dopo la sentenza definitiva, a differenza di quanto accade nel processo civile nel quale le parti possono sempre fare istanza per ritirare i propri fascicoli (art. 169 c.p.c., e art. 77 disp. att. c.p.c.) e chi ha vinto in secondo grado può ritirare il proprio fascicolo, non costituirsi in Cassazione e fare venire meno un documento che potrebbe danneggiarlo (ciò spiega l'onere della controparte di estrarne copia e di esibirla in Cassazione); - che, non essendo il ricorrente in possesso degli originali degli atti e dei documenti e non potendo quindi produrli in originale, l'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, non può applicarsi nelle controversie tributarie, alle quali, del resto, le norme dettate per il procedimento civile in Cassazione sono applicabili quando "compatibili" (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62, comma 2); - che il ricorrente in Cassazione ha l'onere di richiedere la trasmissione del fascicolo d'ufficio alla cancelleria della Cassazione e di depositare la richiesta insieme al ricorso, ai sensi dell'art. 369 c.p.c., u.c., mentre l'obbligo di trasmettere gli originali degli atti e dei documenti è a carico della segreteria della Commissione tributaria, che è l'unico soggetto che può adempiere (e che dell'omissione può essere chiamato a rispondere in sede civile e penale): tale obbligo non può essere spostato sul ricorrente nè, in mancanza di una specifica disposizione di legge, una facoltà (di ottenere copia autentica degli atti e documenti prodotti nei fascicoli di parte e d'ufficio D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 25, comma 2) può trasformarsi in obbligo o onere della parte; - che non vale affermare che l'onere in questione non può obiettivamente considerarsi aggravio insopportabile dell'attività difensiva della parte, posto che "quando si dice che l'onere non è gravoso, si ammette implicitamente che l'onere non c'è, ma può essere posto, poichè tanto CONTENZIOSO NAZIONALE 199 non è gravoso": talora la Cassazione ha bensì valutato taluni adempimenti processuali non "particolarmente complessi" nè tali da ostacolare "apprezzabilmente" l'esercizio del diritto di difesa, ma tanto ha fatto in casi riguardanti adempimenti espressamente previsti dal legislatore a carico della parte (Cass., sez. 2^, n. 22108/2006, nella valutazione della manifesta infondatezza della prospettata illegittimità costituzionale dell'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, nella parte in cui stabilisce che il ricorso per cassazione è improcedibile quando il ricorrente non abbia depositato copia autentica del provvedimento impugnato); - che il sistema è rimasto immutato anche dopo il D.Lgs. n. 40 del 2006, che, pur avendo apportato modifiche al giudizio di cassazione, non ha innovato il meccanismo del deposito di atti e documenti: infatti se si mettono a confronto la versione originaria e quella nuova conseguente all'entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006, si rileva che il cambiamento ha riguardato, oltre all'aggiunta dei "contratti o accordi collettivi", l'aggiunta "processuali" alla parola atti, "che è totalmente irrilevante poichè anche prima del 2006 la norma si riferiva sicuramente agli atti processuali"; - che devono evitarsi le interpretazioni di norme processuali che favoriscano l'inflizione alla parte di una sanzione processuale grave, come l'improcedibilità, per un'omissione di cui nessuno prima aveva manifestato consapevolezza e, quindi, per causa non imputabile ad essa e per fatti che nemmeno possono verificarsi "poichè si deve escludere che quegli atti non arrivino in Cassazione, tranne che non ci sia lo smarrimento del fascicolo, che sicuramente non è imputabile al ricorrente"; - che la nuova interpretazione "costituisce un'artificiosa deformazione, letteralmente inventata" che legittimerebbe la parte che subisce la sanzione dell'improcedibilità del ricorso a proporre domanda di risarcimento danni nei confronti dello Stato ex art. 6 della CEDU, non essendo ammessi altri strumenti processuali per porvi rimedio. Infine, la medesima dottrina ha osservato che l'onere posto a carico del ricorrente di allegare una semplice fotocopia (e non l'originale) degli atti presenti nel fascicolo d'ufficio stride con il formalismo che caratterizza il sistema processuale del deposito degli atti in Cassazione, coerentemente con la "funzione eminentemente pubblicistica del processo, tesa a dettare regole che ne consentano l'ordinato svolgimento e che, come tali, non ammettono equipollenti e non sono disponibili dalle parti" (così Cass., sez. un., n. 9005/2009). 5.- È tempo, a questo punto dello scrutinio ed in vista delle conclusioni, rilevare che l'orientamento c.d. rigorista ritiene, in definitiva, che l'onere di deposito previsto dalla prima disposizione sussista sempre e a prescindere dall'eventualità che gli atti da depositare siano già presenti nel fascicolo d'ufficio trasmesso dalla cancelleria del giudice a quo su richiesta del ricorrente, a sua volta tempestivamente depositata. Si tratterebbe, in sostanza, di adempimenti autonomi ed entrambi doverosi, in quanto rispondenti a rationes diverse: il primo (ex art. 369, comma 2, n. 4) funzionale alla "esigenza di offrire alla Corte, immediatamente, un quadro completo ed oggettivamente autosufficiente di elementi utili alla decisione"; il secondo (ex art. 369, comma 3) volto a consentire che la Corte "abbia comunque in sua disponibilità, all'occorrenza, le complessive risultanze processuali dei gradi di merito del giudizio". La diversità di ratio viene precisata con la considerazione della diversità dei tempi di disponibilità dei documenti per la Corte, posto che il fascicolo di causa può essere trasmesso successivamente rispetto al deposito del ricorso il quale, essendo contestuale al deposito della sentenza impugnata e degli atti su cui esso si fonda, "consente subito un primo screening dell'impugnazione, funzionale ad una immediata catalogazione ed organizzazione delle sopravvenienze... senza sottovalutare la maggiore facilità e velocità di accesso a tali documenti, una 200 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 volta che essi risultino ben individuati e specificamente depositati". L'orientamento c.d. "liberale" tenta invece di coordinare le due disposizioni, valorizzando, nella sostanza, il principio generale (ex art. 121 c.p.c., e art. 156 c.p.c., comma 3) di strumentalità rispetto allo scopo assegnato obiettivamente all'atto nell'ambito del processo. In questa prospettiva, non può negarsi che il terzo comma dell'art. 369 c.p.c., pone già a carico del ricorrente lo specifico onere di richiedere alla cancelleria del giudice a quo la trasmissione del fascicolo d'ufficio (e di depositare tempestivamente la relativa richiesta) proprio allo scopo di mettere gli atti processuali e ì documenti ivi inseriti nella disponibilità della Corte di cassazione, la quale potrà esaminarli, sempre che, naturalmente, siano stati specificati e individuati nel ricorso (a pena di inammissibilità, ex art. 366 c.p.c., n. 6). Il principio di strumentalità delle forme processuali ha già trovato diffusa applicazione da parte della Corte di cassazione in una pluralità di casi. Si è infatti affermato che: - "il mancato deposito dell'istanza di trasmissione del fascicolo d'ufficio (art. 369 c.p.c., u.c.) nel termine fissato per il deposito del ricorso per cassazione, cioè entro venti giorni dalla notificazione, determina l'improcedibilità del ricorso stesso soltanto se l'esame di quel fascicolo risulti indispensabile ai fini della decisione del giudice di legittimità" (Cass., sez. 3^, n. 5108/2011; sez. 1^, n. 10665/2006; sez. 3^, n. 19297/2005; sez. lav., n. 3852/2002; nonchè sez. 1^, n. 570/1998, richiamata nell'ordinanza di rimessione); - "la violazione dell'obbligo di deposito degli atti e dei documenti sui quali il ricorso o il controricorso si fondano è legittimamente predicabile nel solo caso in cui la mancata produzione riguarda atti o documenti (già acquisiti al giudizio di merito) il cui esame sia necessario per la decisione della causa" (Cass., sez. 2^, n. 12028/2010); - la mancata richiesta della trasmissione del fascicolo d'ufficio, in sede di regolamento preventivo di giurisdizione, "non determina l'improcedibilità del ricorso nell'ipotesi in cui, nonostante l'indisponibilità dell'anzidetto fascicolo, risultino certi i termini della controversia, sulla base degli atti di parte e delle rispettive produzioni" (Cass., sez, un., n. 20504/2006) - l'omessa menzione nel ricorso per cassazione dell'istanza di trasmissione del fascicolo d'ufficio (...) non è causa di inammissibilità dell'impugnazione nè determina improcedibilità del ricorso stesso, giacchè da un lato tale indicazione non rientra tra quelle imposte a pena di inammissibilità dall'art. 366 c.p.c., e, dall'altro lato, l'improcedibilità deriva solo dalla mancanza degli atti indispensabili ai fini della decisione" (Cass., sez. 1^, n. 2327/2006; sez. 2^, n. 5113/1999; sez. 1^, n. 8972/1997). - l'onere di richiedere la trasmissione del fascicolo d'ufficio relativo al procedimento conclusosi con la sentenza impugnata, posto a carico del ricorrente dall'art. 369 c.p.c., "non è riferibile all'ipotesi in cui sia proposto ricorso per revocazione avverso una sentenza della stessa Corte di cassazione, in quanto, trovandosi in tal caso il fascicolo già presso il giudice ad quem, la richiesta di un'apposita istanza di acquisizione costituirebbe un inutile formalismo, contrastante con le esigenze di efficienza e semplificazione, le quali impongono di privilegiare interpretazioni coerenti con la finalità di rendere giustizia" (così Cass. sez. 1^, n. 24856/2006; e cfr. anche, in tema di requisiti formali del ricorso per revocazione di sentenza della Corte di cassazione, sez. un., n. 17631/2003, con la quale s'è escluso che la posizione del ricorrente possa subire aggravamenti estranei alle esigenze di funzionalità). Ritengono queste Sezioni unite che il menzionato principio di strumentalità e le esigenze e la finalità da ultimo richiamate facciano premio, in sede ermeneutica, sul "vantaggio" per la Corte di cassazione di disporre immediatamente degli atti e dei documenti sui quali il ricorso si fonda e che siano già contenuti nel fascicolo d'ufficio, comunque destinato a pervenire nella CONTENZIOSO NAZIONALE 201 sua disponibilità una volta richiestane la tempestiva trasmissione da parte del ricorrente. Che, a ben vedere, l'alternativa sarebbe costituita dalla gravissima sanzione della declaratoria di improcedibilità del ricorso (ex art. 387 c.p.c., non più riproponibile) per non avere la parte prodotto atti di cui la Corte già normalmente dispone nel momento in cui esamina il ricorso, o di cui può agevolmente disporre, sollecitando l'invio del fascicolo d'ufficio alla cancelleria del giudice che ha emesso la sentenza impugnata nei casi, per vero abbastanza rari, in cui esso non sia ancora pervenuto al momento del primo esame del ricorso. Va, comunque, recisamente escluso che le esigenze o le disfunzioni organizzative degli uffici giudiziari possano giustificare decadenze non espressamente previste dalla legge. E va osservato che il principio della ragionevole durata del processo è stato bensì costituzionalizzato, ma con la previsione che è la legge ad assicurarla (art. 111 Cost., comma 2) ed è sempre la legge a regolare il "giusto processo" (art. 111 Cost., comma 1). È stato d'altronde già statuito (Sez. un., ordinanza n. 7161/2010 e sentenza n. 28547/2008) che, quanto agli atti ed ai documenti contenuti nei fascicoli di parte, la produzione documentale possa avvenire mediante la produzione del fascicolo del merito, affermandosi che "qualora il documento sia stato prodotto nelle fasi di merito dallo stesso ricorrente e si trovi nel fascicolo di quelle fasi, la produzione può avvenire per il tramite della produzione di tale fascicolo, ferma restando la necessità di indicare nel ricorso la sede in cui esso ivi è rinvenibile e di indicare che il fascicolo è prodotto, occorrendo tali indicazioni perchè il requisito della indicazione specifica sia assolto"; ed è stato chiarito che solo se il documento risulti prodotto nelle fasi di merito dalla controparte "è necessario che il ricorrente... - cautelativamente e comunque stante l'autonoma previsione dell'art. 369 c.p.c., n. 4, che riferisce l'onere di produzione direttamente al ricorrente, per il caso che quella controparte possa non costituirsi in sede di legittimità o possa costituirsi senza produrre il fascicolo o possa produrlo senza il documento - produca in copia il documento stesso (appunto ai sensi dell'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, ed indichi tale modalità di produzione nel ricorso)". Così come, dunque, l'onere di deposito è assolto, per gli atti contenuti nel fascicolo di parte, dalla produzione di quel fascicolo senza necessità che si proceda ad un ulteriore specifico atto di deposito, analogamente esso è soddisfatto, per gli atti contenuti nel fascicolo d'ufficio, dalla richiesta di trasmissione dello stesso ex art. 369 c.p.c., comma 3, che costituisce il meccanismo "istituzionale" di trasmissione dei suddetti atti alla Corte di Cassazione. La conclusione è in linea con l'originaria, consolidata interpretazione della disposizione in esame, anteriore al mutamento di indirizzo del 2009 di cui sopra s'è detto (sub 2.), fondato su una modificazione della lettera dell'art. 369 c.p.c., n. 4, (aggiunta delle parole "atti processuali" con la novella del 2006) cui non può attribuirsi l'univoco senso del riferimento anche agli atti già contenuti nel fascicolo d'ufficio. Sicchè è in definitiva ribadito il principio secondo il quale una diversa interpretazione della norma processuale "non ha ragione di essere ricercata e la precedente abbandonata, quando l'una e l'altra siano compatibili con la lettera della legge, essendo da preferire - e conforme ad un economico funzionamento del sistema giudiziario - l'interpretazione sulla cui base si è, nel tempo, formata una pratica di applicazione stabile. Soltanto fattori esterni alla formula della disposizione di cui si discute - derivanti da mutamenti intervenuti nell'ambiente processuale in cui la formula continua a vivere, o dall'emersione di valori prima trascurati - possono giustificare l'operazione che consiste nell'attribuire alla disposizione un significato diverso" (così Cass., sez. un., n. 10864/2011). 5.1.- Per il processo tributario, il meccanismo istituzionale di trasmissione ex art. 369 c.p.c., comma 3, si estende anche ai fascicoli di parte che restano acquisiti al fascicolo d'ufficio e sono 202 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 ad esse restituiti al termine del processo (così il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 25, comma 2), dove per termine del processo deve intendersi, quante volte esso si concluda con una sentenza, il momento del suo passaggio in giudicato, secondo quanto s'è sempre ritenuto. Nel processo tributario non è dunque necessario che le parti producano copia autentica degli atti e documenti contenuti nei fascicoli di parte, che "possono" bensì ottenere ai sensi della disposizione da ultimo citata, ma che non "devono" richiedere. Va anzi precisato che, proprio perchè i fascicoli delle parti restano acquisiti al fascicolo d'ufficio fino al termine del processo e con quel fascicolo devono dunque pervenire alla Corte di cassazione, al ricorrente non potrà farsi carico neppure della mancata produzione della copia degli atti e documenti (sui quali il ricorso si fondi) contenuti nel fascicolo di merito della controparte, essendo il meccanismo istituzionale di acquisizione connotato da una regola particolare anche per quel fascicolo di merito. Nei ricorsi avverso le sentenze delle Commissioni tributarie non è conseguentemente applicabile il principio enunciato da queste Sezioni unite con le citate decisioni nn.7161/2010 e 28547/2008, con le quali s'era affermato che "se il documento risulti prodotto nelle fasi di merito dalla controparte, è necessario che il ricorrente... - cautelativamente e comunque stante l'autonoma previsione dell'art. 369 c.p.c., n. 4 citato, che riferisce l'onere di produzione direttamente al ricorrente, per il caso che quella controparte possa non costituirsi in sede di legittimità o possa costituirsi senza produrre il fascicolo o possa produrlo senza il documento - produca in copia il documento stesso (appunto ai sensi dell'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4,...)". Tanto per l'ovvia ragione (che è tuttavia il caso di ribadire) che il fascicolo della controparte deve pervenire alla Corte di cassazione unitamente al fascicolo d'ufficio che lo contiene. Uno spazio applicativo del principio generale va riservato al solo caso in cui la parte ricorrente abbia comunque ottenuto, anche se irregolarmente perchè prima della fine del processo, la restituzione del proprio fascicolo dalla segreteria della Commissione tributaria. In tal caso, poichè la mancata acquisizione del suo fascicolo di parte unitamente al fascicolo d'ufficio è ricollegabile ad una precedente iniziativa della stessa parte ricorrente, che proprio per questo non può confidare nell'acquisizione del suo fascicolo secondo le modalità ordinarie (per il processo tributario), alla mancata produzione del fascicolo di parte conseguirà l'improcedibilità del ricorso ex art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4. Se, per contro, il fascicolo irregolarmente ritirato sia quello della controparte, tanto risulti dalle annotazioni contenute nel fascicolo d'ufficio e questa non lo abbia, per qualunque ragione, versato in atti, allora i principi di lealtà processuale e di non contestazione impongono che si abbia per vero il contenuto dell'atto o del documento su cui il ricorso si fonda (e di cui non sia possibile disporre per fatto della controparte), quale indicato e riportato in ricorso nel rispetto, a pena di inammissibilità, delle prescrizioni di cui all'art. 366 c.p.c.. 5.2.- Quanto sin qui osservato in ordine ai presupposti legali dell'improcedibilità ovviamente non preclude affatto al ricorrente - essendo anzi auspicabile che vi si determini - di produrre comunque copia degli atti e dei documenti sui quali il ricorso si fonda. 5.3.- È il caso di riaffermare che il deposito dell'istanza di trasmissione del fascicolo d'ufficio alla cancelleria della Corte di cassazione non è richiesto dall'art. 369 c.p.c., comma 3, a pena di improcedibilità del ricorso (Cass., sez. un., n. 9005/2009); e che "la mancata allegazione della richiesta vistata al momento del deposito del ricorso non comporta l'invalidità di questo deposito e, automaticamente, l'improcedibilità ex art. 369 c.p.c., comma 1; determina, invece, un'autonoma improcedibilità che, tra l'altro, si verifica solo quando il deposito di detta richiesta non sia comunque avvenuto nel termine di venti giorni dalla notifica del ricorso stesso, e sem- CONTENZIOSO NAZIONALE 203 pre che il fascicolo d'ufficio non sia stato altrimenti trasmesso e che, per effetto della sua indisponibilità, la Corte si trovi nell'impossibilità di portare il suo esame su atti e domande che devono essere vagliati per la decisione dell'impugnazione" (così, tra le altre, Cass., sez. 1^, n. 51/1994). 6.- Il contrasto va dunque composto e la questione risolta con l'enunciazione dei seguenti principi di diritto: - l'onere del ricorrente, di cui all'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, di produrre a pena di improcedibilità del ricorso, entro i venti giorni dall'ultima notificazione dello stesso, "gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda" è soddisfatto, quanto agli atti ed ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, anche mediante la produzione del fascicolo nel quale essi siano contenuti e, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo d'ufficio, mediante il deposito della richiesta di trasmissione di detto fascicolo presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata e restituita al richiedente munita di visto ai sensi dell'art. 369 c.p.c., comma 3, (ferma in ogni caso l'esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 6, degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi); - per i ricorsi avverso sentenze delle commissioni tributane, la indisponibilità dei fascicoli delle parti (che, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, ex art. 25, comma 2, restano acquisiti al fascicolo d'ufficio e sono restituiti solo al termine del processo) comporta la conseguenza che la parte ricorrente non è onerata della produzione del proprio fascicolo, contenuto nel fascicolo d'ufficio di cui abbia domandato la trasmissione alla Corte di cassazione ex art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, (a meno che non abbia irritualmente ottenuto la restituzione del fascicolo di parte dalla segreteria della commissione tributaria); neppure è tenuta, per la stessa ragione, alla produzione di copia degli atti e dei documenti su cui il ricorso si fonda e che siano in ipotesi contenuti nel fascicolo della controparte. 7.- Il ricorso è conclusivamente procedibile. Gli atti vanno rimessi alla Sezione tributaria per l'ulteriore corso. P.Q.M. LA CORTE DI CASSAZIONE, A SEZIONI UNITE, dichiara procedibile il ricorso e rimette gli atti alla Sezione tributaria per l'ulteriore corso. 204 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 Giudizio cautelare e incidente di legittimità costituzionale (Nota a Consiglio di Stato, Sez. VI, ordinanza 28 novembre 2011, n. 6277) Valeria Romano* Con l’ordinanza in commento il Consiglio di Stato ha rimesso alla Corte Costituzionale il vaglio di legittimità dell’art. 25 della Legge 30 dicembre 2010, n. 240 recante "Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l'efficienza del sistema universitario" (1). Nel sottoporre la disposizione al sindacato del Giudice delle Leggi, l’ordinanza affronta il tema dei rapporti tra incidente di legittimità costituzionale e giudizio cautelare, fornendone un’efficace ricostruzione anche alla luce del nuovo codice del processo amministrativo. Nel caso di specie un professore universitario aveva proposto, presso l’Ateneo di appartenenza, istanza per la permanenza in servizio dopo il raggiungimento dell’età di collocamento a riposo. A seguito del mancato accoglimento della richiesta, il professore impugnava i decreti rettorali di diniego innanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio chiedendone l’annullamento ed, in via incidentale, la sospensione. Il Tribunale adito rigettava l’istanza cautelare proposta dal ricorrente. L’ordinanza emessa dal T.A.R. Lazio veniva, di seguito, appellata di fronte al Consiglio di Stato. In sede cautelare il professore deduceva l’illegittimità costituzionale dell’art. 25 della citata Legge n. 240 del 2010 in ragione della portata preclusiva della norma de qua con riguardo al trattenimento in servizio dei professori universitari. I suddetti sviluppi processuali determinavano, dunque, l’instaurarsi, nell’ambito di un giudizio cautelare, di un incidente di legittimità costituzionale. La problematicità del rapporto tra la tutela cautelare e l’incidente di costituzionalità si coglie considerando le confliggenti logiche sottostanti ai due estremi del rapporto stesso. Da un lato, la tutela cautelare è funzionale ad anticipare, nelle more del giudizio, il contenuto di una pronunzia definitiva allo scopo di “apprestare degli argini alle distorsioni processuali derivanti dal mero passaggio del tempo necessario per ottenere ragione” (2). D’altro canto, (*) Dottore in Giurisprudenza, ammessa alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. (1) La norma rubricata “Collocamento a riposo dei professori e dei ricercatori” stabilisce quanto segue: “L'articolo 16 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, non si applica a professori e ricercatori universitari. I provvedimenti adottati dalle università ai sensi della predetta norma decadono alla data di entrata in vigore della presente legge, ad eccezione di quelli che hanno già iniziato a produrre i loro effetti”. La legge 30 dicembre 2010, n. 240 è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 10 del 14 gennaio 2011 - Suppl. Ordinario n. 11. (2) R. GALLI, Corso di diritto amministrativo, Cedam, 2011. CONTENZIOSO NAZIONALE 205 l’incidente di legittimità costituzionale si configura come il risvolto processuale del principio del sindacato accentrato di costituzionalità nel nostro ordinamento. Il punctum dolens del rapporto tra il processo cautelare e l’incidente di legittimità costituzionale è rintracciabile, pertanto, nella difficoltà di conciliare la necessaria celerità dei giudizi cautelari con il principio del controllo accentrato di costituzionalità che, ancorché fondato sull’esigenza di certezza del diritto e coerenza ordinamentale, implica significativi costi in termini di speditezza dei giudizi a quo. Altrimenti detto, nell’ipotesi in cui, nell’ambito di giudizio cautelare, venga sollevata una questione di costituzionalità si pone il problema di “conciliare la tutela immediata e reale, ancorché interinale, degli interessi in gioco, con il carattere accentrato del controllo di costituzionalità delle leggi”(3). L’ordinanza in commento prende le mosse proprio dagli aspetti problematici della relazione tra giudizio cautelare ed incidente di costituzionalità. La pronunzia indugia, in particolare, sull’esame del “circolo vizioso” (4) in cui appare costretto il giudice amministrativo chiamato a decidere su un’istanza cautelare che abbia ad oggetto un provvedimento emesso sotto la vigenza di una norma di dubbia legittimità costituzionale. Al verificarsi di siffatta circostanza, spiega l’ordinanza, davanti al giudice si aprono due possibili strade. In primo luogo, il giudice può sospendere il processo cautelare nelle more del giudizio di costituzionalità. Tale soluzione, tuttavia, presta il fianco ad una agevole critica: sospendendo il giudizio cautelare il giudice finisce per mortificare le esigenze di immediatezza proprie del processo cautelare e, contestualmente, lascia medio tempore l’istante del tutto privo di tutela (5). Proprio in ossequio alla necessità di fornire una protezione tempestiva rispetto alle domande cautelari, un diverso orientamento giurisprudenziale ritiene che il giudice debba adottare il provvedimento d’urgenza richiesto qualora ne reputi sussistenti i presupposti per poi investire la Corte Costituzionale del sindacato sulla norma sospettata di illegittimità (6). Siffatta soluzione, analogamente alla prima, non va esente da critiche. Nell’ipotesi in cui il giudice adotti il provvedimento cautelare oggetto dell’istanza, la questione di legittimità è destinata ad essere dichiarata inammissibile dalla Corte per difetto di rilevanza dell’esito del vaglio di costituzionalità nel giudizio a quo. In altri termini, una (3) Cons. Stato, Ad. plen., ordinanza 20 dicembre 1999, n. 2, in Foro it., 2000, III, 9. (4) F. FRENI, La tutala cautelare sommaria nel nuovo processo amministrativo, Giuffrè, 2011. Altra parte della dottrina ha parlato di “tensione drammatica tra contrapposti doveri” in cui sembra trovarsi il giudice chiamato al coordinamento tra i due giudizi incidentali cautelare costituzionale, così BACCARINI, Intervento, Relazione presentata al Convegno La sospensione del giudizio ammnistrativo, Torino, 1999. (5) R. LEONARDI, La tutela cautelare nel processo amministrativo. Dalla L. n.205/2000 al codice del processo amministrativo, Giuffrè, 2011. (6) Cons. Stato, Ad. plen., ordinanza 20 dicembre 1999, n. 2, in Foro it., 2000, III, 9; Cons. Giust. Amm., ordinanza 20 giugno 2001, n. 458. 206 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 volta soddisfatto il petitum cautelare dell’istante, vengono meno le ragioni della rilevanza dell’espunzione della norma di dubbia legittimità costituzionale ai fini del giudizio di fronte al giudice remittente. Consapevole di tale impasse, la giurisprudenza ha elaborato una terza via percorribile dall’organo giudicante in caso di contestualità tra l’istanza di misura cautelare e l’incidente di costituzionalità. Tale ulteriore soluzione postula un’ideale scomposizione del giudizio cautelare in due fasi: una ante ed una post iudicium di costituzionalità. L’ordinanza in commento elegge tale articolazione bifasica del giudizio cautelare a strada maestra nel caso concreto reputando la soluzione in parola come la più conforme “ai principi su cui si fonda il nostro sistema di giustizia costituzionale” (7). In base a tale indirizzo durante la prima fase c.d. interdittale (8), precedente alla pronunzia della Corte Costituzionale, il giudice può ammettere la domanda cautelare con un “accoglimento a termine” efficace solo fino alla decisione del Giudice delle Leggi. Nel corso della seconda fase, successiva all’esito del giudizio di costituzionalità, l’autorità giudiziaria, tenendo in conto gli esiti della pronunzia della Corte Costituzionale, valuta in via definitiva l’istanza cautelare originaria. Siffatta scomposizione bifasica del processo cautelare implica, dunque, il riconoscimento in capo al giudice amministrativo di un potere di disapplicazione temporanea delle norme di sospetta illegittimità. La soluzione in esame tende, pertanto, ad accordare un rilievo prioritario all’esigenza di fornire una tutela cautelare immediata, ancorché provvisoria, degli interessi dell’istante, prevedendo la possibilità di esercizio da parte dei giudici a quo di una forma, seppur limitata, di sindacato diffuso di costituzionalità. La sensibilità dimostrata dall’ordinanza in commento rispetto alla protezione “dell’utilità sostanziale” (9) sottesa al petitum cautelare appare interpretabile come il riflesso delle rilevanti novità apportate dall’intervento riformatore del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (10). Il nuovo c.p.a. ha segnato, come noto, l’evoluzione del processo amministrativo “da giudizio sull’atto a giudizio sul rapporto”, da “giudizio di legittimità a giudizio di spettanza”( 11). Il conseguente superamento del modello tradizionalmente caducatorio del processo amministrativo è ragione di una rinnovata centralità riconosciuta alle pretese sostanziali fatte valere di fronte al giudice ammini- (7) Cfr., paragrafo n. 5.3 dell’ordinanza in commento. (8) A. CERRI, Corso di giustizia costituzionale, Giuffrè, 2008. (9) F. G. SCOCA, Attualità dell’interesse legittimo?, in Diritto Processuale Amministrativo, n. 2, 2011. (10) Decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104. Attuazione dell'articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo. Pubblicato in G.U. n. 156 del 7 luglio 2010. È appena il caso di specificare che il Codice non affronta direttamente il problema del coordinamento tra la tutela cautelare e la pregiudiziale di costituzionalità, si sarebbe viceversa determinato un eccesso di delega rispetto alla Legge 18 giugno 2009, n. 69 (art. 44). (11) Cons. St., Ad. Plen., sent. 24 marzo 2011, n. 3, in Guida al diritto, n. 15, 2011. CONTENZIOSO NAZIONALE 207 strativo durante il corso del processo e, dunque, anche in sede di giudizio cautelare. Si deve a questo punto segnalare come la medesima preoccupazione di assicurare ai singoli una tutela giurisdizionale effettiva avesse già motivato, sin dai primi anni novanta, una serie di pronunzie della Corte di Giustizia dell’Unione Europea adita in ordine al problema, per alcuni versi analogo a quello oggetto dell’ordinanza in commento, dei rapporti tra giudizio cautelare e questione pregiudiziale ex art. 234 del Trattato CE (oggi art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea). La Corte di Giustizia aveva riconosciuto, in tali occasioni, il potere in capo ai giudici nazionali di sospendere "interinalmente" l’esecuzione di un provvedimento amministrativo nazionale emanato in attuazione di un regolamento comunitario di dubbia legittimità (12). La Corte consentiva, in tal modo, ai giudici nazionali di fornire una tutela provvisoria in sede cautelare anche in pendenza di una questione pregiudiziale. Sebbene sia corroborata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, la teoria della scomposizione bifasica del giudizio cautelare, implicando una duplicazione delle decisioni da parte del giudice remittente, non può dirsi del tutto soddisfacente soprattutto se esaminata alla stregua del criterio dell’economia dell’attività processuale. La tutela interinale accordata nella prima fase del processo cautelare è, come detto, precaria e condizionata all’esito del giudizio di costituzionalità. Ne consegue che l’adozione della misura cautelare provvisoria non esaurisce il potere del giudice amministrativo. Questi è infatti chiamato, nella seconda fase del processo cautelare bipartito, ad una nuova valutazione della domanda cautelare dovendo decidere sulla stessa alla luce della decisione del Giudice delle Leggi. Il fatto che la pronunzia della Corte Costituzionale possa operare come fattore modificativo o estintivo della tutela cautelare riconosciuta prima facie dal giudice rende, poi, evidente la stretta interrelazione tra il giudizio incidentale cautelare e di costituzionalità. Il rapporto biunivoco tra i due giudizi impone pertanto al giudice a quo una prognosi postuma, sin dal momento della proposizione dell’istanza cautelare, in ordine all’esito del giudizio di costituzionalità di fronte alla Corte. In questa ottica deve leggersi il passaggio dell’ordinanza in commento con il quale i giudici remittenti, nell’ipotizzare una declaratoria di incostituzionalità dell’art. 25 della Legge 240 del 2010, prospettano una possibile riespansione applicativa della disciplina precedente all’entrata in vigore della Legge 240 del 2010 e, nello specifico, dell’art. 72, comma 7 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito in Legge n. 133 del 2008. L’ordinanza, infatti, testualmente (12) Corte giustizia U.E. 21 febbraio 1991, Zuckerfabrik, C-143/88 e C-92/89; 9 novembre 1995, C-465/93, Atlanta; 19 giugno 1990, C-213/89, Factotame. Significativo il passaggio di tale pronunzia nel quale si legge che l’effetto dell’art. 117 del Trattato CEE sarebbe “ridotto se il giudice nazionale che sospende il procedimento in attesa della pronuncia della Corte sulla sua questione pregiudiziale non potesse concedere provvedimenti provvisori fino al momento in cui si pronuncia in esito alla soluzione fornita dalla Corte”. 208 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 afferma: “L’eventuale dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 25 legge n. 240 del 2010 avrebbe così l’effetto di rimuovere l’ostacolo normativo all’applicazione dell’art. 16 d.lgs. n. 503 del 1992, consentendo, quindi, al ricorrente di ottenere che la sua istanza di permanenza in servizio sia esaminata (ed eventualmente accolta) dall’Università sulla base dei criteri introdotti dall’art. 72, comma 7, decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito in legge n. 133 del 2008 ” (13). Ad una prima lettura l’assunto riportato potrebbe apparire in potenziale contrasto con il pacifico principio per cui la declaratoria di incostituzionalità di disposizioni modificative non può far rivivere le norme antecedenti alla modifica senza violare il principio per cui il controllo di legittimità costituzionale “esclude ogni valutazione sull’uso del potere discrezionale del Parlamento” (14). La posizione assunta dai giudici remittenti, tuttavia, radica le sue ragioni giustificative nell’orientamento assunto dalla Corte Costituzionale in tema di automatica riespansione di norme quale conseguenza delle declaratorie di incostituzionalità (15). Secondo l’indirizzo appena richiamato, nel caso di pronunzie di incostituzionalità aventi ad oggetto norme che sottraggano una certa classe di soggetti all’applicazione di una disposizione maggiormente comprensiva, la rimozione della diposizione speciale determina “la riespansione automatica della norma generale” (16) senza che, siffatto meccanismo, possa essere considerato pregiudizievole delle prerogative del Legislatore. Altrimenti detto, la declaratoria di incostituzionalità della norma derogatoria può generare la conseguenza dell’automatica riespansione della norma generale o comune. Seguendo l’impostazione in parola, dunque, l’eventuale censura di incostituzionalità dell’art. 25 della Legge 240 del 2010, determinerebbe la riespansione dell’art. 72, comma 7 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 configurandosi tale ripristino come “una reazione naturale dell’ordinamento alla scomparsa della norma incostituzionale” (17). Seppur fondata sulle argomentazioni sin qui rappresentate, l’ordinanza in commento sembra tuttavia trascurare la valutazione di un fondamentale profilo legato alle peculiarità del caso di specie. Nella vicenda sottoposta all’esame dei giudici, infatti, il ricorrente aspirava al mantenimento in servizio per un biennio. Orbene, l’adozione della teoria della scomposizione bifasica (13) Cfr., paragrafo n. 5.2. dell’ordinanza in commento. (14) Cfr., art. 28 della Legge L. 11 marzo 1953, n. 87 recante “Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale”, pubblicata in G.U. 14 marzo 1953, n. 62. (15) Corte Costituzionale, sentenza 23 novembre, n. 394 del 2006, in Dir. e giust. 2006, 46, 34. (nota di MANES). In senso analogo cfr., anche Corte Costituzionale, sentenza del 26 maggio, n. 161 del 2004, in Cass. pen. 2004, 3938. Nonostante siano state emesse in ambito penalistico, alle pronunzie citate deve riconoscersi un’indubbia portata esemplare ed extrasettoriale. (16) Cfr., paragrafo 6.1 della citata sentenza della Corte Costituzionale 23 novembre, n. 394 del 2006. (17) Cfr., paragrafo 6.1, capoverso 3, della citata sentenza della Corte Costituzionale 23 novembre, n. 394 del 2006. CONTENZIOSO NAZIONALE 209 del giudizio cautelare implica, come detto, un doppio vaglio dell’istanza cautelare da parte del giudice remittente intervallato dal controllo di legittimità della Corte costituzionale. Tale triplo filtro giurisdizionale può dispiegarsi su un lasso di tempo presumibilmente di alcuni mesi. Ne consegue che dal momento dell’emanazione del primo provvedimento sospensivo a quello della definitiva pronunzia cautelare, in costanza di sospensione del provvedimento di collocamento a riposo, il ricorrente finirebbe per ottenere de facto e fuori da un vaglio nel merito della questione il “bene della vita” cui aspirava, con una chiara distorsione della fisiologica dialettica processuale. Più in generale, in quei casi in cui l’istante miri ad ottenere un’utilità sostanziale di natura temporanea, l’adozione della teoria della scomposizione bifasica del giudizio cautelare condurrebbe alla non desiderabile conseguenza dell’attribuzione della stessa fuori dall’incardinamento del giudizio di merito con grave pregiudizio alle chances difensive di controparte. Altrimenti detto, la modulazione bifasica del giudizio cautelare sarà anche la soluzione più idonea a “conciliare il carattere accentrato del controllo di costituzionalità delle leggi con il principio di effettività della tutela giurisdizionale” (18), ma sembra nondimeno piegarsi a potenziali strumentalizzazioni in sede processuale. Il problema del possibile impatto della teoria in parola sul concreto esercizio del diritto alla difesa della parte resistente all’istanza cautelare avrebbe, pertanto, meritato un maggiore approfondimento nella motivazione dell’ordinanza in commento. Consiglio di Stato, Sezione Sesta, ordinana 28 novembre 2011 n. 6277 - Pres. Severini, Est. Giovagnoli - S.A. (avv. M. Racco) c. Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Min. Istruzione, Università, Ricerca (avv. gen. Stato). (Omissis) 1. A seguito di istanza in data 2 ottobre 2007, il professore omissis è stato autorizzato, con decreto del Rettore dell’Università omissis n. 6628 del 20 dicembre 2007, a permanere in servizio per un ulteriore biennio oltre il normale limite d’età per collocamento a riposo ai sensi dell’art. 16 d.lgs. n. 30 dicembre 1992, n. 503, con conseguente previsione di definitivo collocamento a riposo a far data dal 1° novembre 2013. Nelle more è intervenuto il decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133) che, all’art. 72, comma 10, ha annullato tutti i trattenimenti in servizio già autorizzati, con effetto dal 1° gennaio 2010, stabilendo, altresì, al comma 7, che i dipendenti qualora interessati al trattenimento, fossero tenuti a presentare una nuova istanza dai 24 ai 12 mesi precedenti il limite di età per il collocamento a riposo previsto dal proprio ordinamento. Con nuova istanza del 4 maggio 2010 il professor omissis ha quindi inoltrato domanda di trattenimento in servizio per un biennio ai sensi dell’art. 16 del d.lgs. n. 503 del 1992, come modificato dalla legge n. 133 del 2008. (18) Cfr., paragrafo n. 5.3. dell’ordinanza in commento. 210 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 Quando ancora l’Amministrazione non si era pronunciata su detta istanza è sopravvenuta la legge 30 dicembre 2012, n. 240, la quale, all’art. 25, ha disposto che "l’art. 16 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 non si applica ai professori universitari". Conseguentemente, con provvedimento prot. n. 13889/11 il Rettore dell’Università omissis facendo applicazione e richiamando in motivazione l’art. 25 della legge n. 240 del 2010, ha rigettato l’istanza di trattenimento in servizio presentata dal professore omissis , che, con successivo decreto rettoriale n. 944/2011, è stato collocato a riposto. 2. Il professor omissis, con ricorso al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, ha impugnato, chiedendone in via incidentale la sospensione, i citati provvedimenti del Rettore della Università omissis , con i quali è stato disposto il rigetto dell’istanza di trattenimento in servizio ai sensi dell’art. 16 d.lgs. n. 503 del 1992 ed il conseguente collocamento a riposto a far data dal 1° novembre 2011. Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, con ordinanza cautelare n. 3674 del 6 ottobre 2011 ha rigettato l’istanza cautelare proposta dal ricorrente sulla base della seguente motivazione: "Ritenuto ad un prima sommaria delibazione che non sussistono i presupposti, alla stregua del quadro normativo vigente, per l’accoglimento della proposta istanza cautelare". Per ottenere la riforma di tale ordinanza e, quindi, l’accoglimento della domanda cautelare proposta, il professor omissis ha proposto appello innanzi al Consiglio di Stato, deducendo, sotto diversi profili, l’illegittimità costituzionale dell’art. 25 della citata legge n. 240 del 2010, nella misura in cui preclude ogni possibilità di trattenimento in servizio dei professori universitari. 3. Con ordinanza del 26 ottobre 2011, n. 4713, questa Sezione, pronunciandosi in sede cautelare, ha disposto la sospensione del giudizio per la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale, come da separata ordinanza. Al fine di conciliare il carattere accentrato del sindacato di costituzionalità con il principio di effettività della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 113 Cost.; art. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali), questo Consiglio di Stato, nell’ordinanza appena citata, ha concesso una misura cautelare "interinale", fino alla camera di consiglio successiva alla restituzione degli atti da parte della Corte costituzionale, ordinando all’Amministrazione di ripronunciarsi sull’istanza di trattenimento in servizio presentata dal ricorrente, alla luce del quadro normativo esistente anteriormente all’entrata in vigore del citato art. 25 legge n. 240 del 2010, e, in particolare, dei criteri fissati dall’art. 72, comma 7, decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133). 4. Il Collegio ritiene che la questione di costituzionalità dell’art. 25 della legge n. 240 del 2010 (secondo cui "l’articolo 16 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, non si applica a professori e ricercatori universitari", con l’ulteriore specificazione che "i provvedimenti adottati dalle università ai sensi della predetta norma decadono dalla data di entrata in vigore della presente legge, ad eccezione di quelli che hanno già iniziato a produrre i loro effetti"), sia rilevante e non manifestamente infondata. 5. Con riferimento al requisito della rilevanza si osserva che la norma in esame è certamente applicabile alla fattispecie oggetto del giudizio. Il provvedimento amministrativo impugnato ha rigettato l’istanza del ricorrente proprio facendo applicazione dell’art. 25 legge n. 240 del 2010 che, alla luce del suo chiaro tenore letterale, preclude irrimediabilmente la possibilità di trattenimento in servizio per professori e ricercatori universitari, escludendo che nei loro confronti possa essere applicata la disciplina contenuta nell’art. 16 d.lgs. n. 503 del 1992. 5.1. L’applicazione che l’Università ha fatto di tale norma risulta corretta, atteso che non esi- CONTENZIOSO NAZIONALE 211 stono spazi per una diversa interpretazione. Ed infatti, anche se l’istanza di trattenimento in servizio è stata presentata anteriormente all’entrata in vigore della norma, quest’ultima doveva comunque essere applicata. Ciò risulta chiaramente dall’ultimo periodo dell’art. 25 legge n. 240 del 2010, che specifica che "i provvedimenti adottati dalle università ai sensi della predetta norma decadono alla data di entrata in vigore della presente legge, ad eccezione di quelli che hanno già iniziato a produrre i loro effetti": se la norma, per espressa previsione legislativa, si applica anche ai casi in cui il provvedimento è già stato adottato, ma non ha iniziato a produrre effetti, essa deve, a maggior ragione, applicarsi laddove, come accade nel presente giudizio, l’istanza di trattenimento era stata solo presentata, ma non ancora positivamente riscontrata. 5.2. L’eventuale dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 25 legge n. 240 del 2010 avrebbe così l’effetto di rimuovere l’ostacolo normativo all’applicazione dell’art. 16 d.lgs. n. 503 del 1992, consentendo, quindi, al ricorrente di ottenere che la sua istanza di permanenza in servizio sia esaminata (ed eventualmente accolta) dall’Università sulla base dei criteri introdotti dall’art. 72, comma 7, decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito in legge n. 133 del 2008. 5.3. La rilevanza della questione non è parimenti esclusa dalla natura cautelare del giudizio nell’ambito del quale la questione di costituzionalità viene sollevata. Il problema dei rapporti tra incidente di legittimità costituzionale e giudizio cautelare è oggetto di una significativa elaborazione giurisprudenziale e dottrinale. Sul punto, la Corte costituzionale è costante nel ritenere inammissibile la questione di legittimità costituzionale per difetto di rilevanza qualora essa venga sollevata dopo l’adozione del provvedimento cautelare. Si afferma che, in tal caso, la rimessione alla Corte è tardiva in relazione al giudizio cautelare, ormai concluso, e prematura in relazione al giudizio di merito, in ordine al quale, il collegio, in mancanza della fissazione della relativa udienza di discussione, è privo di potere decisorio. Per evitare, tuttavia, che la legge sospettata di incostituzionalità possa precludere definitivamente la tutela cautelare mortificando le esigenze di tutela immediata ad esse sottese – il che si tradurrebbe in una palese violazione di fondamentali principi costituzionali (artt. 24 e 113 Cost.), o sovranazionali (art. 6 e 13 CEDU) – la giurisprudenza, nel tentativo di conciliare il carattere accentrato del controllo di costituzionalità delle leggi con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, ha sperimentato due soluzioni. La prima consiste nel concedere la sospensiva, disapplicando la legge sospettata di incostituzionalità, rinviando al giudizio di merito la rimessione della questione di legittimità costituzionale (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., ordinanza 20 dicembre 1999, n. 2; Cons. Giust. Amm., ordinanza 20 giugno 2001, n. 458). La seconda consiste, invece, nella scomposizione del giudizio cautelare in due fasi: nella prima fase si accoglie la domanda cautelare "a termine", fino alla decisione della questione di costituzionalità contestualmente sollevata; nella seconda fase, all’esito del giudizio di costituzionalità, si decide "definitivamente", tenendo conto, per valutare se sussiste il fumus boni iuris, della decisione della Corte costituzionale, sulla domanda cautelare. Tra le due soluzioni possibili, il Collegio ritiene preferibile la seconda, perché è quella che meno si allontana dai principi su cui si fonda il nostro sistema di giustizia costituzionale: essa evita, infatti, che il giudice a quo possa disapplicare "definitivamente" la legge, sottraendosi contestualmente anche all’obbligo, di cui all’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, di sollevare la questione di costituzionalità. Tale soluzione, del resto, risulta anche in linea con quella accolta dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea in ordine alla questione, per alcuni versi analoga, dei 212 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 rapporti tra giudizio cautelare e questione pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea sulla validità di un atto comunitario. La Corte di giustizia ha riconosciuto al giudice nazionale, nei casi di urgenza, il potere, di sospendere "interinalmente" l’esecuzione di un provvedimento amministrativo nazionale emanato in attuazione di un regolamento comunitario della cui legittimità dubiti, a condizione che: a) sollevi contestualmente la questione pregiudiziale per l’accertamento della validità del regolamento; b) rinvii la definizione del giudizio cautelare all’esito della decisione della Corte di giustizia sulla questione pregiudiziale (Corte giustizia U.E. 19 giugno 1990, C- 213/89, Factotame; Id. 21 febbraio 1991, Zuckerfabrik, C-143/88 e C-92/89; Id., 9 novembre 1995, C-465/93, Atlanta). Anche l’iter procedimentale delineato dalla Corte di giustizia è, quindi, nel senso dell’articolazione bifasica del giudizio cautelare: il giudice nazionale non può sospendere e rinviare al merito la pregiudiziale di validità, ma deve rimettere subito la questione alla Corte e concedere la misura cautelare in via meramente provvisoria, fino alla decisione della questione pregiudiziale. Nonostante le innegabili diversità, questa fattispecie presenta anche alcune significative affinità con le situazioni nella quali viene in rilievo il rapporto tra processo cautelare e incidente di costituzionalità. In entrambi i casi, infatti, il giudice a quo, per concedere la tutela cautelare e apprestare una tutela giurisdizionale effettiva per i diritti dei singoli, esercita un potere di disapplicazione "provvisoria" (ora della norma comunitaria, ora della legge incostituzionale), rimettendo contestualmente la questione di validità al giudice cui il controllo di quelle norme sospettate di illegittimità spetta in via esclusiva (la Corte di giustizia in un caso, la Corte costituzionale nell’altro). Anche la Corte costituzionale, infine, con riferimento a questioni di legittimità sollevate in sede cautelare, ha, in più occasioni, osservato che la potestas iudicandi non può ritenersi esaurita quando la concessione della misura cautelare, come nella specie, è fondata, quanto al fumus boni iuris, sulla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dovendosi in tal caso la sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato ritenere di carattere provvisorio e temporaneo fino alla ripresa del giudizio cautelare dopo l’incidente di legittimità costituzionale (ex plurimis: sentenze n. 444 del 1990, n. 367 del 1991; n. 30 e n. 359 del 1995; n. 183 del 1997, n. 4 del 2000 nonché l’ordinanza n. 24 del 1995 e n. 194 del 2006). 5.4. Sempre in ordine alla rilevanza della questione, si osserva che nel caso di specie il requisito del periculum in mora merita positivo apprezzamento. È evidente, infatti, che il tempo necessario per la decisione del ricorso nel merito potrebbe arrecare al ricorrente un pregiudizio grave e irreparabile, anche in considerazione del fatto che verrebbe a scadere il biennio in relazione al quale egli ha presentato la richiesta di trattenimento in servizio. 6. La questione di legittimità costituzionale non è manifestamente infondata. 6.1. L’art. 25 legge n. 240 del 2010, escludendo senz’altro l’applicazione dell’art. 16 d.lgs. n. 503 del 1992 ai professori e ricercatori universitari, sembra, infatti, porsi in contrasto con gli articoli 3, 33, 97 Cost.. Il Collegio ritiene, in particolare, che la deroga che la norma introduce rispetto alla disciplina generale di cui al citato articolo 16 d.lgs. n. 503 del 1992 appare irragionevole (perché non sorretta da una adeguata ragione giustificatrice), comunque sproporzionata rispetto alla finalità perseguita, e lesiva sia del principio del buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.), sia del principio dell’autonomia universitaria (art. 33, ultimo comma, Cost.), nella misura in cui priva le Università, discriminandole rispetto a qualsiasi altro ente pubblico, di ogni potere di valutazione in ordine alla possibilità di accogliere le istanze di trattenimento in ser- CONTENZIOSO NAZIONALE 213 vizio presentate dal personale docente, anche laddove tale prolungamento risulti funzionale a specifiche esigenze organizzative, didattiche o di ricerca. Si impedisce così alle università di dar corso ad una adeguata, seppur eccezionale, misura organizzativa in tema di provvista di personale, escludendone senza rimedio quello caratterizzato da una ben difficilmente ripetibile qualificazione scientifica, la cui disponibilità inerisce invece la specialità del servizio pubblico proprio delle università, consistente nella concreta trasmissione del sapere. L’effetto è, in danno dell’interesse generale e della funzionalità ad esso di quel servizio, quello dell’irrimediabile dispersione di risorse preziose, quanto oggettivamente infungibili a un tale riguardo. La norma, inoltre, trovando applicazione anche nei confronti dei professori e dei ricercatori universitari che abbiano maturato un aspettativa giuridicamente consolidata in ordine alla possibilità di permanere in servizio risulta lesiva del principio del legittimo affidamento e della sicurezza giuridica, che pure trova il suo fondamento, secondo quanto più volte affermato dalla Corte costituzionale, nell’art. 3 della Costituzione. 6.2. Giova, al riguardo, ricostruire brevemente la disciplina generale – contenuta nell’art. 16 d.lgs. n. 503 del 1992 – che si pone come tertium comparationis alla cui stregua valutare la ragionevolezza della differente disciplina introdotta dall’art. 25 legge n. 340 del 2010. L’art. 16, comma 1, d.lgs. n. 503 del 1992, dopo aver riconosciuto la facoltà per "i dipendenti civili dello Stato e degli enti pubblici non economici di permanere in servizio, con effetto dalla data di entrata in vigore della legge 23 ottobre 1992, n. 421, per un periodo massimo di un biennio oltre i limiti di età per il collocamento a riposo per essi previsti", specifica, nel periodo successivo (introdotto dall’art. 72, comma 7, del decreto-legge 25 giugno 2008, n.112), che "in tal caso è data facoltà all'amministrazione, in base alle proprie esigenze organizzative e funzionali, di trattenere in servizio il dipendente in relazione alla particolare esperienza professionale acquisita dal dipendente in determinati o specifici ambiti ed in funzione dell'efficiente andamento dei servizi". La norma generale, la cui applicabilità è esclusa dall’art. 25 legge n. 340 del 2010 per i professori e ricercatori universitari, prevede, quindi, in seguito alle modifiche introdotte dall’art. 72, comma 7, d.l. n. 112 del 2008, un sistema nel quale il trattenimento in servizio del dipendente pubblico non è più rimesso ad vero e proprio diritto potestativo del medesimo, della cui scelta l’Amministrazione deve limitarsi a prenderne atto, come accadeva, invece, in base all’originaria formulazione dell’art. 16. In seguito alle modifiche intervenute nel 2008, l’art. 16 d.lgs. n. 503 del 1992 non contempla più un diritto soggettivo alla permanenza in servizio del pubblico dipendente, ma prevede che l’istanza che il dipendente ha facoltà di presentare venga valutata discrezionalmente dall’Amministrazione (la quale ha facoltà di accoglierla), e che essa possa avere accoglimento solo in concreta presenza degli specifici presupposti individuati dalla disposizione, i primi dei quali sono legati ai profili organizzativi generali dell'amministrazione medesima ("in base alle proprie esigenze organizzative e funzionali") e i seguenti alla situazione specifica soggettiva e oggettiva del richiedente ("in relazione alla particolare esperienza professionale acquisita dal richiedente in determinati o specifici ambiti ed in funzione dell'efficiente andamento dei servizi"). 6.3. Come la giurisprudenza amministrativa ha chiarito (cfr., in particolare, Cons. Stato, VI, 6 giugno 2011, n. 3360), con l’innovazione introdotta dall'art. 72, comma 7, d.l. n. 112 del 2008, la permanenza in servizio oltre l’ordinario limite di età è divenuto istituto da considerare ormai eccezionale a causa delle esigenze generali di contenimento della spesa pubblica espressamente perseguito con la manovra di cui allo stesso decreto-legge, e segnatamente con le disposizioni del Capo II, tra cui è quella in esame. Pertanto la sua determinazione in concreto 214 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 va sorretta, se nel senso della protrazione del servizio, da adeguate giustificazioni in relazione ai parametri di valutazione indicati dalla disposizione, la cui ragione va puntualmente esternata. Tra questi, secondo l’interpretazione giurisprudenziale deve considerarsi prevalente la considerazione delle effettive "esigenze organizzative e funzionali" dell'amministrazione, rispetto a cui "la particolare esperienza professionale acquisita dal richiedente in determinati o specifici ambiti" rappresenta un criterio giustificativo necessario, ma ulteriore, e non già la ragione determinante. Si tratta, infatti, di dar corso ad un’ipotesi eccezionale di provvista di docente, che deve essere adeguatamente giustificata da oggettivi e concreti fatti organizzativi, tali da imporre che si faccia ricorso ad un tale particolare strumento. Questo Consiglio di Stato ha così precisato che l’esternazione di una tale giustificazione della scelta – insieme a quella sugli altri elementi richiesti, a seguire, dalla disposizione – è necessaria per dar conto del come e perché l’Amministrazione si determini, derogando alle esigenze di risparmio perseguite dalla legge, a seguire questa speciale via (cfr. ancora Cons. Stato, VI, 6 giugno 2011, n. 3360). Non così è quando l’Amministrazione si determini negativamente, ricorrendo allora la situazione ordinaria di normale estinzione del rapporto lavorativo per raggiungimento dei limiti di età, che non richiede una speciale esternazione circa la particolare esperienza professionale dell'interessato. La ratio della modifica del 2008 è, infatti, essenzialmente di contenimento finanziario e questo prevale, perché così vuole questa legge, sulla qualità professionale del docente: sicché è nella prima valutazione che va incentrata la scelta e ne va, se positiva rispetto alla disponibilità offerta dall'interessato, manifestata la ragione. L’innovazione del 2008 ha invertito, quindi, il rapporto tra regola ed eccezione della legislazione del 1992. L'uso del termine "facoltà" descrive null’altro che la possibilità, da parte dell'interessato, di domandare all'Amministrazione il trattenimento in servizio, ma non più un diritto all'ufficio. La struttura della fattispecie definita dalla disposizione del 2008 si configura come eccezionale e sottopone l’accoglimento a rigorose condizioni. 7. Rispetto a tale disciplina, che, come si è appena visto, sottopone il mantenimento in servizio a rigorose condizioni, la scelta radicale, contenuta nell’art. 25 legge n. 240 del 2010, di escludere sempre e comunque per professori e ricercatori universitari, ogni possibilità di mantenimento in servizio, appare irragionevole e sprovvista di una sostanziale giustificazione e, come tale, in contrasto con uno dei corollari del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., ovvero con il principio di ragionevolezza della legge. Non pare ravvisarsi, infatti, una idonea ragione giustificatrice che possa essere addotta a sostegno della definitiva e totale esclusione per questa speciale categoria di dipendenti pubblici, di qualsiasi possibilità di mantenimento in servizio oltre il normale periodo di servizio. 7.1. Non sembra, in particolare, rappresentare una valida giustificazione l’esigenza, che talvolta emerge anche nel corso dei lavori preparatori della legge n. 240 del 2010, di favorire il ricambio generazionale nelle Università. Qui, infatti, non è in discussione la realizzazione di tale obiettivo, che certamente rientra nella discrezionalità del legislatore, ma il bilanciamento che il legislatore deve compiere tra il suo perseguimento e la tutela di altri valori di primario rilievo costituzionale che possono essere incisi dalla scelta legislativa (cfr. Corte cost., 24 luglio 2009, n. 239). Nel caso di specie, la scelta legislativa appare sbilanciata e sproporzionata, perché, in nome dell’esigenza del ricambio generazionale, il legislatore non si fa carico delle negative ripercussioni che potrebbero derivarne sul principio del buon andamento della pubblica (art. 97 CONTENZIOSO NAZIONALE 215 Cost.) amministrazione e della tutela dell’autonomia universitaria (art. 33 Cost.). Ciò emerge in maniera evidente se si considera che gli obiettivi che la norma persegue vengono già adeguatamente perseguiti dall’art. 16 d.lgs. n. 503 del 1992 che, in seguito alle modifiche del 2008, prevede l’eccezionalità del mantenimento in servizio, tanto da specificare che esso possa essere assentito solo in presenza di specifici e stringenti presupposti. Nell’ambito di un sistema che già prevede come regola generale, anche per favorire il ricambio generazionale nell’ambito della pubblica amministrazione, l’eccezionalità del mantenimento in servizio, la scelta di escludere radicalmente, per i professori e i ricercatori universitari, ogni possibilità di prolungamento rischia di rappresentare una limitazione eccessiva e sproporzionata. 8. L’automatismo dell’interruzione del servizio al compimento dell’età prevista, e la totale esclusione di ogni possibilità di diversa valutazione da parte dell’Amministrazione, finisce, in particolare, per minare quei valori, anch’essi di rango costituzionale, che la norma generale (l’art. 16 d.lgs. n. 503 del 1992), qui richiamata come tertium comparationis, cerca al contrario di assicurare. 8.1. Si tratta, in primo luogo, del principio del buon andamento dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost.: l’art. 25 legge n. 240 del 2010 impedisce alle Università di poter disporre il mantenimento in servizio per un ulteriore biennio anche quando la continuità del servizio si imporrebbe in vista della necessità di soddisfare specifiche "esigenze organizzative e funzionali", cui l’art. 16 d.lgs. n. 503 del 1992 fa espresso riferimento. Il valore costituzionale del buon andamento della pubblica amministrazione – che non può non prendere in considerazione il ricordato obiettivo della trasmissione delle conoscenze - è, in tal modo, totalmente obliterato, e questo, oltre a rilevare come autonomo profilo di incostituzionalità, rende ancor più evidente il vulnus, recato dalla rigidità introdotta, al richiamato principio di ragionevolezza. 8.2. Un ulteriore profilo di possibile incostituzionalità viene in rilievo anche in relazione all’art. 33, comma 6, Cost., che tutela l’autonomia funzionale delle Università, riconoscendo il "diritto delle stesse di governarsi liberamente attraverso i suoi organi e, soprattutto, attraverso il corpo dei docenti nelle sue varie articolazioni, così risolvendosi nel potere di autodeterminazione del corpo accademico (cosiddetto autogoverno dell’ente da parte del corpo accademico)" (Corte cost., 9 novembre 1988, n. 1017). L’autonomia universitaria – che è autonomia organizzativa, contabile, didattica e scientifica – rischia di essere pregiudicata da una norma che preclude, invece, proprio alle Università ogni decisione sulla permanenza in servizio del proprio personale docente. In tal modo, la disparità di trattamento tra categorie di pubblici dipendenti (i professori e ricercatori universitari rispetto al restante personale pubblico) viene a tradursi in una disparità di trattamento anche tra i relativi enti di appartenenza, negandosi proprio alle Università, titolari di un’autonomia funzionale costituzionalmente garantita, ogni margine di autonomo apprezzamento. 9. Un ulteriore profilo di irragionevolezza deriva dalla violazione del principio della sicurezza giuridica e di tutela del legittimo affidamento maturato in capo ai professori e ricercatori universitari per effetto della previgente normativa. La Corte costituzionale ha già avuto occasione di affermare che nel nostro sistema costituzionale non è affatto interdetto al legislatore di emanare disposizioni le quali vengano a modificare in senso sfavorevole per i beneficiari la disciplina dei rapporti di durata, anche se l’oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti. Secondo la stessa giurisprudenza costituzionale, rappresenta, tuttavia, condizione essenziale che tali disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo 216 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello Stato di diritto (cfr. sentenze n. 236 e n. 24 del 2009; n. 11 del 2007; n. 409 del 2005; n. 446 del 2002; n. 416 del 1999, n. 360 del 1995, n. 573 del 1990, n. 822 del 1988 e n. 349 del 1985). Il principio del legittimo affidamento, in particolare, deve ritenersi violato (con conseguente incostituzionalità della legge per violazione del principio di uguaglianza, sotto il profilo del difetto di ragionevolezza), nel caso in cui la nuova norma incida, con una disciplina peggiorativa, su aspettative giuridicamente qualificate, che siano pervenute ad un livello di consolidamento così elevato da creare, appunto, quell’affidamento costituzionalmente protetto nella conservazione del pregresso trattamento. Nel caso di specie, l’art. 25 legge n. 240 del 2010 sembra tradire il principio del legittimo affidamento nella misura in cui prevede che la disciplina da esso introdotta si applichi indistintamente a tutti i professori e ricercatori universitari, anche a quelli che, come il ricorrente, per molti anni hanno fatto affidamento su una disciplina che consentiva il mantenimento in servizio per un ulteriore biennio: inizialmente a semplice richiesta, e poi, in seguito alle modifiche introdotte dall’art. 72, comma 7, decreto-legge n. 112 del 2008, previa valutazione discrezionale dell’Amministrazione. Al momento dell’entrata in vigore della norma censurata, il ricorrente era in procinto di iniziare il biennio di prolungamento, tanto che era già stato autorizzato in tal senso con decreto rettorale adottato sulla base della originaria disciplina dell’art. 16 d.lgs. n. 503 del 1992. Egli, pertanto, può ritenersi titolare non di una aspettativa di mero fatto, ma di una aspettativa giuridicamente rilevante, ormai pervenuta, per effetto del tempo trascorso e del provvedimento di autorizzazione al trattenimento in servizio già adottato, ad un livello di consolidamento tale da creare un legittimo affidamento. Sotto tale profilo, l’art. 25 della legge n. 240 del 2010, nella misura in cui esclude dalla nuova disciplina soltanto i beneficiari di un provvedimento di mantenimento in servizio che abbia già iniziato a produrre effetti, opera una irragionevole disparità di trattamento tra situazioni sostanzialmente identiche, tutte comunque caratterizzate da un legittimo affidamento nel prolungamento biennale del rapporto. 10. Per quanto esposto, appare rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 25 della legge 240 del 2010, in relazione agli articoli 3, 33 e 97 della Costituzione. Per l’effetto, vanno trasmessi alla Corte costituzionale gli atti del giudizio sospeso con ordinanza pronunciata in data odierna. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), pronunciando sul ricorso in epigrafe, visti gli artt. 134 della Costituzione; 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1; 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, dichiara rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli articoli 3, 33 e 97 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale di cui in parte motiva. Ordina la immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Ordina che a cura della segreteria della Sezione la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei ministri, nonché comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 ottobre 2011. CONTENZIOSO NAZIONALE 217 Il vincolo sull’Agro Romano e la conservazione del suolo agricolo nelle zone periurbane (Nota a Consiglio di Stato, Sez. Sesta, sentenza 30 dicembre 2011 n. 7005) Felice Ancora* SOMMARIO: 1. Premessa - 2. La vicenda amministrativa complessiva - 3. Le tre componenti della sentenza in rassegna: Il potere normativo della legislazione delegata - 4 (segue) Il provvedimento di vincolo - 5 (segue) La posizione giuridica tutelabile dei ricorrenti - 6. Il problema dell’agricoltura nelle zone periurbane. 1. Premessa La sentenza chiude uno dei seguiti giurisdizionali del provvedimento ministeriale che ha sottoposto a vincolo paesaggistico una ampia porzione della campagna romana. Una prima componente di essa reca diverse puntualizzazioni sulla ampiezza del potere normativo attribuito al Governo e al Parlamento dagli articoli 76, nonché 77 primo comma, della Costituzione. Una seconda, invece, concerne il contenuto del provvedimento di vincolo e statuisce che la sua estensione ad un ampio territorio, piuttosto che ad una specifica "bellezza", non ne inficia la legittimità. In questa seconda componente rientra una considerazione sull’interesse pubblico al "minor consumo di suolo", sancito dall'articolo 135, comma 4 del D.L.vo 22 gennaio 2004 n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio). Una terza componente è costituita da un passaggio finale breve, ma significativo. É preso in considerazione l’interesse dei soggetti che erano stati invitati a presentare la propria candidatura per la definizione e la realizzazione di interventi urbanistico edilizio di tipo consensuale (nel caso, di housing sociale): allo stesso è stata disconosciuta una qualificazione particolarmente consistente, quantomeno in confronto all'impugnato provvedimento di gestione e salvaguardia del territorio. 2. La vicenda amministrativa complessiva I1 Ministero per i beni culturali, con decreto in data 25 gennaio 2010 (pubblicato in G.U. 1 febbraio 2010 n. 25) ha dichiarato di "notevole interesse pubblico" (ai sensi dell'articolo 141 comma 2 del D.L.vo 22 gennaio 2004 n. 42) l’intero settore meridionale dell'Agro romano (per la precisione la porzione di esso compresa tra le pendici dei CasteIli romani, il Raccordo anulare, la via (*) Prof. Avv., ordinario di Istituzioni di diritto pubblico nell’Università di Cagliari. Nota già pubblicata sul sito di Edizioni Libra www.sentenzeitalia.it (aprile 2012). 218 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 Appia, la Via del mare e il mare). Il provvedimento fissa le modalità di gestione conservativa di tale territorio, senza per altro impedire del tutto la edificazione. Nella ampia documentazione prodotta a sostegno (e pubblicata in Gazzetta ambiente, aprile 2011) figura la mappa satellitare di Google. II ricorso a questo strumento è un importante precedente per le attività di programmazione del territorio, perchè ai fini dell'accertamento delle situazioni esistenti (tra cui quello del c.d. sommerso edilizio) sostituisce indagini molto più complicate e laboriose (cio è stato posto in evidenza da G. FIENGO, in Meglio tardi che mai: la tutela integrate della campagna romana, in Gazzetta ambiente, aprile 2011). Diversi proprietari di terreni (alcuni chiaramente imprenditori edili, altri presumibilmente al momento imprenditori agricoli), con distinti ricorsi, hanno impugnato il provvedimento ministeriale (e, appunto, uno di tali ricorsi è quello che ha dato origine al procedimento chiuso con la sentenza sopra riportata). Il Comune e la Regione sono intervenuti ad adiuvandum in diversi di tali giudizi, in più i1 Comune ha presentato un autonomo ricorso; tutto ciò perchè la zona sottoposta al provvedimento ministeriale era stata fatta oggetto, da parte dell'una e dell'altro, di provvedimenti di gestione del territorio e di conferimento di possibilità edificatorie. II T.A.R. Lazio, Sez. II quater, ha respinto tali ricorsi con diverse sentenze, e, cioè, con le nn. 33362/2010, 33363/2010, 33364/2010 e la n. 33365/2010 (quest'ultima ha riguardato il ricorso del Comune), nonchè con la n. 1041/2010 (che è quella cui si riferisce la pronuncia che si annota). Le prime tre (nn. 33362, 33363 e 33364) sono state appellate, ma al momento non è stata ancora fissata l'udienza di discussione. L’ultima e, cioè, la n. 2041, appellata, è stata confermata dalla pronuncia di cui ci si occupa. La vicenda complessiva è, pertanto, ancora aperta perchè pendono i tre appelli alle sentenze del 2010 (contrassegnati dai nn. 3794/11, 4591/11 e 4135/11), tutti e tre di particolare interesse per la questione da essi posta, sulla capacità di resistere al provvedimento ministeriale da parte di precedenti decisioni comunali attributive di specifiche possibilità edificatorie a titolo perequativo- compensativo e, quindi, in generale, sulla possibilità o meno da parte delle diverse soluzioni di urbanistica c.d. consensuale e perequativa di introdurre eccezioni rispetto alle destinazioni generali delle zone di territorio e alle continuità di destinazioni agricole, con conseguente "consumo di suolo". La presente sentenza rappresenta comunque un importante inizio di definizione della vicenda, fosse altro per la chiara impostazione data alle questioni e le altrettanto precise risposte ad esse date. Sulla vicenda complessiva sono illuminanti e persuasive le considerazioni di G. FIENGO (gia citato in precedenza) e di S. AMOROSINO, in Beni naturali, energie rinnovabili, paesaggio. Studi in itinere, Napoli 2012, 83 e ss.. CONTENZIOSO NAZIONALE 219 3. Le tre componenti della sentenza in rassegna: Il potere normativo della legislazione delegata Come gia anticipato, una prima componente della sentenza reca diverse puntualizzazioni sul potere normativo c.d. di legislazione delegata, dal Parlamento al Governo. Essa, con argomentazioni e statuizioni puntuali, sembra in linea con la giurisprudenza della Corte costituzionale (per la quale, v. di recente le sentenze 8 ottobre 2010, n. 293, in Giurisdiz. amm., 2010, III, 806 e 24 giugno 2010, n. 230, in Giurisdiz. amm., 2010, III, 560, dal cui confronto è agevole ricostruire come in concreto la Corte distingua tra delega per un puro coordinamento e delega per "riassetto normativo", come nel caso di specie). Si dà qualche elemento sul potere c.d. di legislazione delegata. Esso era stato largamente utilizzato per la unificazione normativa postunitaria. È stato, poi, disciplinato nelle sue linee fondamentali dagli articoli 76 e 77 (primo comma) della Costituzione ed è stato oggetto di precocissima attenzione da parte della Corte costituzionale (sentenza n. 3 del 1957 che ha qualificato come illegittimità costituzionale il contrasto del decreto legislativo rispetto all'atto parlamentare di delega). Al momento, anche per il disposto dell'art. 14 della L. 23 agosto 1988 n. 400, si è consolidato il modello procedimentale per il quale il Parlamento, con legge, attribuisce al Governo la delega a disciplinare una materia con decreto avente forza di legge, il Governo predispone il testo di quest'ultimo e su di esso il Parlamento, attraverso le competenti Commissioni, esprime il suo parere, dopo di che il decreto è emanato nelle forme di decreto dei Presidente della Repubblica. ll ricorso a questo potere normativo si è ormai affermato per cosiddetti codici di settore e, cioè, per insiemi coordinati e unitari di disposizioni vertenti in una determinata materia (v. al riguardo l'art. 20 della L. 15 marzo 1997 n. 59, come modificato dall'art. 1 della L. 29 luglio 2003 n. 229, che impone, tra l'altro l'ulteriore adempimento del parere da parte della Conferenza unificata). Esso è ormai divenuto estesissimo, tanto che quasi tutte le disposizioni normative vigenti in materia amministrativa sono contenute in codici di settore. Sembrano necessarie due notazioni (senza con questo volersi sostituire ad una vasta ed approfondita dottrina, sulla quale si daranno elementi in seguito). La prima delle due è che nel procedimento di emanazione dei decreti legislativi, il Parlamento, pur intervenendo due volte (una conferendo la delega, l'altra esprimendo parere sullo schema di decreto) ha, dal punto di vista effettivo, un ruolo incomparabilmente più ridotto rispetto a quello che ha nella approvazione di un normale progetto di legge. La discussione sul conferimento della delega tende ad essere corriva, perché, pur avente la veste formale di un disegno di legge, reca contenuti solo di principio ed espressioni inevitabilmente generiche, che non danno adito a forti discussioni; la espressione del 220 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 parere è compiuta dalle Commissioni parlamentari con i ridotti requisiti procedurali stabiliti per la sede consultiva (tra questi l'esiguità del numero legale); nel complesso poco praticabile appare una battaglia parlamentare su un decreto legislativo, né è a dirsi che il deficit di apporto parlamentare possa essere efficacemente compensato dalla espressione di pareri da parte di Commissioni consultive in ambito governativo formate seguendo criteri di pluralità politica, perché nella scelta dei componenti di queste, al di sotto delle formali appartenenze politiche, possono essere determinanti elementi secondari di interesse, poi influenti sulla futura attività. In dottrina, riguardo la insufficienza dell’iter parlamentare consultivo sugli atti normativi del Governo, v. G. PUCCINI, Le forme dei regolamenti del Governo oltre i modelli dell’art. 17 della legge n. 400 del 1998, in U. DE SIERVO (a c.) Il potere regolamentare nell'amministrazione centrale, Bologna 1992, 60-62 e V. CERULLI IRELLI, Semplificazioni amministrative e assetto delle fonti, in Atti preparatori e attuativi di atto legislativo, Milano 2001, 187 e ss.. La seconda è che i cosiddetti codici di settore, per il loro recare una normativa coesa, coerente e chiusa di una materia ben definita, finiscono per porsi in antitesi rispetto alla sottoposizione di tutto l’ordinamento a principi unitari: dove questi ultimi esistevano, come era in ambito civilistico, li rompono, dove essi mancano, impediscono che si formino. Si citano, per la rilevazione in generale del fenomeno, N. IRTI, Codici di settore: compimento della decodificazione, in Diritto e societa, 2005, 131 e ss. e successivamente, con specifico riguardo ai meccanismi applicativi della analogia, F. FERRARO, Analogia e codici di settore, in Riv. dir. civ., 2011, 511 e ss. Sul tema della delegazione legislativa e, piu recentemente, dei codici di settore, la dottrina e molto ampia. Sommariamente si citano: E. TOSATO, Le leggi di delegazione, Padova 1931; M. CARTABIA, I decreti legislativi integrativi e correttivi, il paradosso della effettività, in Rass. parl. 1997, 63 e ss.; C. DE FIORES, Trasformazioni della delega legislativa e crisi delle categorie normative, Padova 2001; S. STAIANO, Delega per le riforme e negoziazione legislativa, in Federalismi, gennaio 2007; G. DI COSIMO, La Corte e il Governo legislatore, in Forum quaderni costituzionali, 2007; L. IANNUCCILLI, L'evoluzione politipica della delega legislativa, in Corte costituzionale. Quaderno predisposto in occasione del Seminario di studio: Palazzo della Consulta 24 ottobre 2008, a c. M. BELLOCCI, T. GIOVANNETTI e L. IANNUCCILLI (reperibili nel sito della Corte costituzionale, www. Corte costituzionale.it); R. ZACCARIA e E. ALBANESI, La delega legislativa tra teoria e prassi, in La delega legislativa. Atti del Seminario svoltosi in Roma, Palazzo della Consulta, 24 ottobre 2008, Milano 2009, 333- 370; R. DIMARIA, La vis espansiva del Governo nei confronti del Parlamento: alcune tracce della eclissi dello stato legislativo parlamentare nel ruolo degli atti aventi fòrza di legge, in Diritto e questioni pubbliche, 2010, n. 10, 305 e ss.; S. SPUNTARELLI, Osservazioni sulla coerenza della bozza di codice del pro- CONTENZIOSO NAZIONALE 221 cesso amministrativo con i principi e criteri direttivi contenuti nelle disposizioni di delega, in www.Giust. amm.it, 2010. Nel complesso la dottrina, sia pure con note critiche spiega, nelle sue diverse manifestazioni, il fenomeno del ricorso sempre più frequente alla delegazione legislativa. Le note critiche per lo più accompagnano i codici al momento della loro emanazione, poi si attenuano, con il progredire della presenza attiva di essi nell'ordinamento (così, ad esempio, è stato per il Codice del processo amministrativo). 4. (segue) Il provvedimento di vincolo Una seconda componente della sentenza concerne il provvedimento di vincolo. La stessa mostra di aderire ad una nozione del paesaggio per la quale quest'ultimo può essere, non solo una singola veduta, ma anche un insieme di elementi, dei quali, ciascuno non necessariamente di particolare pregio, ma la totalità costituente una entità che può dirsi unitaria, per il modo in cui gli elementi sono considerati dalla memoria della comunità nazionale e dalle arti. Sempre secondo la sentenza, componente del paesaggio è la interazione degli elementi fisici di esso con le attività umane, sia come fonte attiva di ispirazione degli artisti, sia come oggetto di trasformazione ad opera dell'uomo, eventualmente secondo il suggerimento delle immagini tratte dalle opere d'arte (nel senso, ad esempio, che chi possiede un terreno nella campagna romana può essere indotto a piantarvi le piante che in modo ricorrente vede raffigurate nei quadri, piuttosto che altre più esotiche). È interessante che la sentenza dia particolare rilievo alla pratica agricola (per la precisione, all’ "uso agricolo diffuso") come elemento ispiratore e attributivo di valore paesaggistico agli elementi materiali sottoposti a vincolo (al riguardo, cfr. la citata Relazione di sintesi istruttoria del provvedimento e S. AMOROSINO, op. cit., 97-98). Del tutto consequenziale a questo ordine di considerazioni è stata la circostanza che la sentenza ha considerato la ampia estensione territoriale del vincolo del tutto spiegabile e legittima, perché adeguata all'ambito unitario di diffusione e percepibilità dell'insieme di bellezze. Così come poc'anzi si era considerata interessante la affermazione del valore ambientale paesaggistico delle attività agricole, si considera interessante la successiva affermazione della sentenza sul valore generale (e non limitato alla sola pianificazione paesaggistica) della esigenza pubblica al "minor consumo di suolo". I riferimenti di dottrina sull'una e sull'altra affermazione possono essere moltissimi. Ci si limita all'essenziale. Quanto alla prima e, cioè, sul possibile valore ambientale e paesaggistico della agricoltura (fosse altro perché la pratica agricola richiede un ambiente non contaminato, ma anche perché essa, tranne casi limite di conduzione iper- 222 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 estensiva, aiuta a mantenere salubre l'ambiente e comunque si pone in alternativa alla urbanizzazione, questa, sì, certo pregiudizievole per l'ambiente), possono vedersi: R. PASCA DI MAGLIANO, L'agricoltura e la valorizzazione dell'ambiente. Nuovi indirizzi di politica agro ambientale, in Agricoltura e diritto. Scritti in onore di Emilio Romagnoli, Milano, 2000, 1, 275 e ss.; R. HENKE, La nuova politica agricola comunitaria tra multifunzionalità e territorio, in Agricoltura, istituzioni, mercati, 2007, 136 e ss., nonché (insieme a C. SALVIONI) Multifunzionalità in agricoltura: sviluppi teorici ed evidenze empiriche, in Ec. agr., 2008, 5 e ss.; C. A. GRAZIANI, Terra e proprietà ambientale, in Diritto privato. Studi in onore di A. Palazzo. Rapporti obbligatori, Torino 2009, III, 355 e ss. (e prima ancora, La terra e le due agricolture, in Agricoltura, istituzioni, mercati, 2007, 65 e ss. e Le due agricolture, in Riv. dir. agr., 2007, 819 e ss.); S. MANSERVISI, La ammíssibilità delle superfici utilizzate a fini agricoli e principalmente destinate alla salvaguardia del paesaggio e alla tutela della natura nella determinazione dei diritti all’aiuto per l'azienda agricola nell'ambito della RUP (nota a sentenza Code UE 14 ottobre 2010, in causa C 61/09), in Riv. dir. agr. 2010, 153; F. ADORNATO, Costituzione e agricoltura, tra passato e presente, in Rivista dell'Associazione Rossi Doria, 2010, I, 1 e ss.; F. OSCULATI e A. ZATTI, Costituzione e ambiente, in www.Astrid on line.it, 2010; S. CARMIGNANI, Paesaggio, agricoltura e territorio. Profili pubblicistici e N. LUCIFERO, Paesaggio, agricoltura e territorio. Nuovi modelli di tutela, entrambi in (a c. S. CARMIGNANI, N. LUCIFERO e E. ROOK BASILE), Strutture agrarie e metamorfosi del paesaggio. Dalla natura delle case alla natura dei fatti, Milano 2011, rispettivamente pp. 1 e ss. e 159 c ss.; i contributi al volume (a c. L. COSTATO, P. BORGHI, L. RUSSO e S. MANSERVISI), Dalla riforma del 2003 alla PAC, dopo Lisbona, Napoli, 2011, di S. MANSERVISI, I riflessi del diritto ambientale sulla PAC prima e dopo it Trattato di Lisbona (p. 245 e ss.) e di S. MASINI, La qualità alimentare quale canone di pianificazione territoriale (p. 353 e ss.) (prima ancora, di quest'ultimo studioso, Profili giuridici di pianificazione del territorio e sviluppo sostenibile dell’agricoltura, Milano 1995 e Ambiente, agricoltura e sviluppo del territorio, Milano 2000, 285 e ss.); N. FERRUCCI La tutela del paesaggio e il paesaggio agrario, in Trattato di diritto agrario, a c. L. COSTATO, A. GERMANÒ, E. ROOK BASILE, Torino 2011, II, 175; L. RUSSO I1 contenimento dell’attività produttiva dell’agricoltura e la valorizzazione del territorio: due finalità compatibili?, in Riv. dir. agr., 2011, 16 (con considerazioni realistiche, ma costruttive sul rapporto tra agricoltura e ambiente); M. TAMPONI, I diritti della terra, in Riv. dir. agr., 2012, 3 e ss.; F. SCARAMUZZI, La conservazione e pianificazione urbanistica del paesaggio agrario danneggia gli agricoltori (Convegno Georgofili 9 febbraio 2012). Al tutto sono da aggiungere le due relazioni alla Tavola rotonda presso il Master SSAT di Nuoro, del 13 aprile 2012, su Attività agricole: produzione di beni alimentari e tutela del territorio, di S. MASINI, I1 territorio linea strategica per lo sviluppo CONTENZIOSO NAZIONALE 223 dell'agricoltura e di L. RUSSO, L'agricoltura europea tra security alimentare e tutela del territorio (atti in corso di pubblicazione). Quanto all’interesse al "minor consumo di suolo" (ed alla affermazione della naturale vocazione del suolo alla attività agricola) si cita, innanzitutto, il dato vistoso di una notevole letteratura urbanistica di denuncia del fenomeno del consumo di suolo e di quello della diffusione urbana (urban sprawl). In questo ambito si hanno: M. C. GIBELLI e E. SALZANO (a c.), No Sprawl, Firenze 2006; European environrment agency, report n. 10/2006. Urban sprawl in Europe. The ignored challenge, disponibile nel sito della Commissione europea); M. C. TREU, L’inflazione urbana e il valore del suolo, 2009, in La misura giusta, www.utopie.it; E. SALZANO, Prima che la città cancelli la campagna, www.Eddyburg.it, 2009; L. PAOLONI, L'uso sostenibile della terra, in Agricoltura, istituzioni, mercati, 2011, 123 e ss. Ma si segnalano anche pronunce giurisdizionali che affermano la "normalità" e la "meritevolezza" della pratica agricola e, implicitamente, la "anormalità" del consumo di suolo ad essa destinato: Corte costituzionale, ord.za 23 giugno 1988 n. 74, che afferma il rango costituzionale dell'interesse agricolo (su di essa v. F. ALBSINNI, L'interesse agricolo quale valore di rango costituzionale nella disciplina urbanistica, in Riv. dir. agr., 1996, 201 e ss.); Consiglio di Stato, Sez. V, 7 agosto 1996, n. 881 (in Riv. giur. urb., 1999, 379, con nota di S. CASTELLAZZI, La destinazione a verde agricolo tra potere di pianificazione e vincolo di inedificabilità, ibidem, 389) che afferma la normalità della destinazione agricola; Cassazione, Sez. 1, 25 novembre 2010, n. 23967 (in Dir. e giur. agr., 2011, 410), che valorizza l'interesse all'indennizzo del pregiudizio alla attività agricola. Ed è anche da segnalare che nello stesso senso sta muovendosi il legislatore (delle diverse maggioranze), giacché con l'articolo 7 della L. 12 novembre 2011 n. 183 (c.d. legge di stabilità) e il successivo articolo 66 del D.L. 24 gennaio 2012 n. 1, convertito in L. 24 marzo 2012 n. 27, sulla concorrenza e lo sviluppo ha disposto la dismissione di terre demaniali per l'esclusivo uso agricolo (e divieto di trasformazione in edificabili per 20 anni) e, inoltre, con l'articolo 5 del D.L. 13 maggio 2011 n. 70, convertito il L. 12 luglio 2011 n. 106 (c.d. decreto legge sviluppo), ha impostato un regime di certezza su tutte le operazioni di attribuzioni aggiuntive di possibilità edificatorie, stabilendo l'obbligo di trascrizione per tutti i contratti di trasferimenti di diritti edificatori. 5. (segue) La posizione giuridica tutelabile dei ricorrenti Una terza componente della sentenza è costituita dalla valutazione dell'interesse dei soggetti che si erano candidati per la realizzazione, nella zona interessata dal provvedimento, di programmi concordati di edilizia sociale. A tale interesse ha disconosciuto un rilievo tale da legittimare la impugnazione del decreto di vincolo. Tale statuizione della sentenza presenta interesse rispetto al problema del 224 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 rapporto tra il decreto di vincolo (e, in generale, tra i provvedimenti di tutela del territorio) e posizioni dei privati individuate da operazioni e procedure di urbanistica consensuale, in itinere, oppure giunte a conclusione, con attribuzione di possibilità edificatorie. Nel caso della sentenza che si annota, la posizione dei privati era individuata da una procedura ancora in itinere e il Giudice ha negato che essa fosse sufficiente a giustificare la proposizione del ricorso. Nel caso delle già ricordate sentenze nn. 33362-63-64-65/2010 del TAR Lazio, in identica materia (delle quali, le prime tre ancora sub judice in appello e l'ultima non impugnata dal Comune), la posizione del privato era di beneficiario effettivo degli esiti di una operazione di urbanistica consensuale (e, cioè, di compensazione di volumi edilizi) e il Giudice di primo grado aveva escluso che esse e l'affidamento da esse ingenerato fossero di impedimento alla statuizione del vincolo e giustificassero, quindi, l'accoglimento dei ricorsi. Dal punto di vista tecnico e processuale le questioni sono diverse: una è di legittimazione al ricorso, l’altra e di accoglibilità del ricorso. Il problema sostanziale è, però, sempre lo stesso: quello della consistenza delle posizioni individuate dalle procedure di urbanistica consensuale e il più intenso o meno intenso riconoscimento dovrebbe valere in modo analogo per quelle relative a procedimenti in itinere e per quelle relative agli esiti dei procedimenti (anche perche tali procedimenti si svolgono attraverso una notevole quantità di passaggi, individuanti altrettante sfumature tra la posizione di semplice aspirante alla presa in considerazione nell'ambito del procedimento e quella di titolare di possibilità edificatorie effettive). In concreto il problema di tale consistenza si pone rispetto ai provvedimenti di tutela del territorio e in particolare della vocazione e ispirazione agricola dello stesso. Al riguardo in generale si prospetta che gli strumenti di urbanistica consensuale, e tra questi in particolare le pratiche della compensazione e dei recuperi di cubatura, tendono a soddisfare meglio l'affidamento del singolo proprietario orientato alla edificazione, garantendogli l'avverarsi delle sue aspettative edificatorie, che non l'affidamento generale che concerne la stabilità dell'assetto del territorio secondo la sua vocazione e che comprende il perdurare da parte dei proprietari della utilizzazione del suolo secondo tale vocazione. Esse, infatti producono variazioni nelle destinazioni del territorio non programmate in anticipo, non prevedibili e quasi sempre dissolutrici della unitarietà delle destinazioni agricole dei fondi e delle economie esterne da essa prodotte. Da questo punto di vista si segnala come una novità importante la ricordata disposizione del D.L. n. 70 del 2011, sulla necessità di trascrizione di tutti i cosiddetti trasferimenti e atterraggi di cubature (in dottrina, in generale, sulla esigenza di certezza sul regime di pubblicità dei terreni agricoli, v. L. RUSSO, L 'integrazione del sistema catastale e della pubblicità immobiliare a garanzia della certezza del diritto, in Dir. e giur. agr., 2009, 90). Si ricorda che sulle pratiche urbanistiche consensuali, le fonti normative CONTENZIOSO NAZIONALE 225 statali (oltre numerose leggi regionali) sono costituite dalla L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 1 commi 258 e 259 e dalla L. 6 agosto 2008 n. 133, art. I e 3, oltre, beninteso la poc'anzi citata disposizione del D.L. n. 70 del 2011. Con riferimento specifico alla vicenda in esame, si trovano considerazioni su tali pratiche molto perplesse dal punto di vista del consumo di suolo e della formazione di rendite nel già citato articolo di G. FIENGO (Meglio tardi...). Per un panorama generale si raccomanda lo studio di P. URBANi, Urbanistica solidale. Alla ricerca della giustizia perequativa tra proprietà e interessi pubblici, Torino (editore Bollati Boringhieri), 2011, quale ultimo contributo sul tema da parte di un autore che nei suoi approfondimenti di diritto urbanistico concilia sempre la puntuale aderenza al diritto positivo con la sensibilità ai temi ambientali e alla esigcnza di onesta aniministrazione. Completando il quadro con contributi meno recenti o attinenti meno direttarnente il caso della sentenza, si citano: M.A. QUAGLIA, Pianificazione urbanisstica e perequazione, Torino, 2000; P. SALVATORE, Piani di lottizzazione, comparti e perequazione urbanistica, in Giurisdiz. amm., 2006, IV, 53 e ss.; A. MONICA, La cosiddetta cessione di cubatura, in Il diritto privato della pubblica amministrazione, a c. A. SATURNO e P. STANZIONE, Padova 2006, 88 e ss.; A. BARTOLINI, Profili giuridici del c.d credito di volumetria, in Riv. giur. urb., 2007, 302; S. CARBONARA c C. M. TORRE (a c. ), Urbanistica e perequazione: dai piani all'attuazione, Milano 2008; G. MORBIDELLI, Della perequazione urbanistica, in www.Giust.amm.it , 2009; E. BOSCOLO, La perequazione e le compensazioni, in Riv. giur. urb., 2010, 104 e ss.; G. CECCHERINI Trasferimento di cubatura e adempimento del cedente tramite presentazione alla p. a. di atto unilaterale di asservimento, in Nuova giur. civ. comm., 2010, 319 e ss.; G. SABBATO, La perequazione urbanistica, in www.Giustizia-amministrativa. it, 22 gennaio 2010; A. GIUSTI, Principio di legalita e pianificazione urbanistica perequata. Riflessioni a margine dell'esperienza del piano regolatore generale della città di Roma, in Foro amm.- Cds. (nota alle sentenze del Consiglio di Stato, Sez. IV, 13 luglio 2010, nn. 4542-45, in Giurisdiz. amm., 1, 866 e ss.), 2011, 125 S. FANTINI, Profili pubblicistici dei diritti edificatori, in w.w.w.Giustizia amininistrativa, 2011. 6. Il problema dell’agricoltura nelle zone periurbane La sentenza e la vicenda sottostante, considerate da un punto di vista complessivo, pongono in evidenza il problema della agricoltura nelle zone periurbane, zone che, in definitiva, coincidono con una parte del territorio nazionale, a causa della elevata concetrazione di abitanti del nostro paese. È un problema unitario, che ha diversi elementi: quello della funzione della proprietà agricola, cioè, la coltivazione ed il mantenimento della campagna; quello della tutela dell'ambiente e della identità nazionale (che è di un paese agricolo, o, se si preferisce, ricordando l'esperienza romana classica, cit- 226 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 tadino-rurale); quello del mantenimento della produzione agricola, per la sicurezza dell'approvvigionamento alimentare, quello della soddisfazione di esigenze abitative e della gradevolezza degli abitati. Gli elementi della stabilità degli assetti, sia fisici, sia proprietari, della campagna e della sicurezza dell'approvvigionamento alimentare hanno rilievo addirittura esistenziale per l'ordinamento giuridico della Repubblica italiana, perché esprimono il radicamento di questo nel territorio, dal punto di vista del controllo e della utilizzazione vitale di esso. Con riguardo a questo ordine di problemi, il legislatore ha fatto poco, in particolare per quanto riguarda le premialità per chi attende la pratica agricola, specie se non titolare di azienda agricola (giacché gli aiuti della UE sono riservati a coloro che rivestono tale ruolo e, cioè, agricoltori professionali). Colpisce, in particolare, che, le possibilità di edificazione (più o meno attuali), mentre hanno ormai un mercato di scambio e possibilità di recupero, non siano assistite anche da una possibilità di rinuncia-estinzione, accompagnata da un ragionevole compenso, foss'altro di natura fiscale. Probabilmente al riguardo qualche spunto potrebbe trarsi dalla già citata normativa di cui alla L. n. 183 del 2011 e al D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, sulle cessioni di terre agricole demaniali: se la esclusione dall'origine della possibilità edificatoria dà diritto ad una vantaggiosa acquisizione delle terre, quella sopravvenuta, di chiunque sia l'iniziativa, e, cioè, anche del privato, dovrebbe dare un vantaggio equivalente. In generale, la proprietà che si esprime attraverso un rapporto stabile con la terra improntato alla utilizzazione naturale di essa, dovrebbe avere una considerazione giuridica più attenta, o attenta quanto quella di cui gode la proprietà che si proeietta verso la edificazione e, in definitiva, verso la trasformazione e lo scambio vantaggioso del bene terra. Giusto è tutelare le ragioni della disposizione del bene terra, ma altrettanto giusto è tutelare quelle del mantenimento e della relazione stabile con essa (in definitiva, alla base del diritto di proprietà). Su questo tema, della agricoltura periurbana, la letteratura tecnica e giuridica comincia ad essere vasta. Si citano al riguardo: A. CARROZZA, Le condizioni del diritto agrario nel quadro di una società urbanizzata (a proposito delle aree verdi intorno alle città), in Riv. dir. agr., 1980, I,. 199 e ss. ; a c. G. A. DELLA ROCCA e B. LAPADULA, Rapporti fra agricoltura e urbanistica nello spazio peri-urbano, Padova 1983; S. MASINI, Profili giuridici di pianificazione del territorio..., cit.; P. DONADIEU e M. MININNI Campagne urbane, Roma 2006; a c. L. PALAZZO, Campagne urbane. Paesaggi in trasformazione nell'area romana, Roma, 2005; M. C. TREU, La matrice urbana e la matrice del suolo. Strumenti di conoscenza per orientare le scelte urbanistiche e produttive e P. SANTERAMO, Produzione agricola e nuovi paesaggi, entrambe in Convegno su Produzione agricola e nuovi paesaggi, organizzato a Milano il 26 novembre 2007 da Istituto per la tutela e la valorizzazione dell'agricoltura CONTENZIOSO NAZIONALE 227 periurbana (ISTVAP) (in www ISTVAP); S. PASCUCCI, Agricoltura periurbana e strategica di sviluppo rurale, in Centro per la formazione di economia e politica agraria. Università di Napoli Federico II, 2007, www.centroporticiunina. it; F. ANCORA, Ambiente, territorio e demanio nell’attuazione del federalismo fiscale, in Patrimonio pubblico, 9 fehbraio 2011 c Termovalorizzatore di Acerra: rifiuti, legge provvedimento, CEDU, espropriazione e proprietà, in Giurisdiz. amm. 2011, I, 1451 e ss., in specie 1463-1464; P. URBANI, La disciplina urbanistica delle aree agricole, in Trattato di diritto agrario a c. L. COSTATO A. GERMANÒ, E. ROOK BASILE, Torino 2011, II, 597. Consiglio di Stato, Sezione Sesta, sentenza 30 dicembre 2011 n. 7005 - Pres. Coraggio, Est. Meschino - F.G. ed altri (avv.ti G. Lavitola, R. Nania e M.E. Cavalli) c. Min. beni e attività culturali (avv. Stato P. Palmieri). (Omissis) FATTO 1. Con decreto del Ministero per i beni e le attività culturali – Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici del Lazio, in data 25 gennaio 2010, è stato dichiarato il notevole interesse pubblico dell’area sita nel Comune di Roma, Municipio XII, qualificata “Ambito Meridionale dell’Agro Romano compreso tra le Vie Laurentina ed Ardeatina”, ai sensi e per gli effetti dell’art. 141, comma 2, del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, e successive modifiche (“Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi della legge 6 luglio 2002, n. 137 ”; in prosieguo “Codice”). 2. I signori F.G., N.G. e S.G., proprietari di aree interessate dal suddetto decreto ministeriale, con il ricorso n. 3020 del 2010 proposto al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, hanno chiesto l’annullamento: del citato Decreto del Ministero per i beni e le attività Culturali – Direzione regionale per i beni culturali e paesaggistici del Lazio del 25 gennaio 2010, ivi compresi la relazione illustrativa, la cartografia, la descrizione dei confini e le prescrizioni d’uso del compendio di beni paesistici (allegato 1 al sopra menzionato decreto), le controdeduzioni al parere della Regione e a tutte le osservazioni presentate (allegato 2 del decreto), nonché la relazione di sintesi dell’istruttoria predisposta dalla Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per il Comune di Roma (allegato 3 del decreto); di ogni altro atto, presupposto, connesso e conseguente, ancorché sconosciuto. 3. Nel ricorso si indica che per le aree di proprietà i ricorrenti hanno individuato, in relazione al decreto di vincolo, una sostanziale identità di previsioni rispetto a quelle già stabilite in sede di Piano Territoriale Paesistico Regionale (in prosieguo “PTPR”), adottato ai sensi dell’art. 134, comma 1, lett. c), del Codice (con deliberazioni della Giunta della Regione Lazio, n. 556 del 25 luglio 2007 e n. 1025 del 21 dicembre 2007). In particolare il “paesaggio agrario di valore” ricopre un’area di circa 287.85 mq e rappresenta il 95,18% dell’intera proprietà, su cui, secondo l’art. 13 delle N.T.A. del decreto impugnato (che ricalca l’art. 25 delle N.T.A. del PTPR) sono consentiti soltanto interventi limitati al miglioramento dell’efficienza dell’attività agricola; il “paesaggio naturale” ricopre un’area di circa 12.387 mq e rappresenta il 4,24% della intera proprietà, su cui, secondo l’art. 9 delle N.T.A. del decreto impugnato (che ricalca l’art. 21 delle N.T.A. del PTPR) è inibita integralmente la 228 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 trasformabilità dei suoli, salvo limitati interventi per il miglioramento dell’efficienza dell’attività agricola e di recupero di manufatti; restano confermate le norme per la protezione dei beni di interesse archeologico e delle aree boscate ai sensi sia del decreto impugnato che del PTPR. I ricorrenti hanno anche rilevato che, comunque, il decreto ministeriale impugnato ha esteso a 5.400 ha. la superficie dell’area già individuata in sede di PTPR come area agricola identitaria della campagna romana e pari a 2.700 ha . 4. Il TAR, con la sentenza n. 1041 del 2011, ha respinto il ricorso, disponendo la compensazione tra le parti delle spese del giudizio. 5. Con l’appello in epigrafe è chiesto l’annullamento della sentenza di primo grado e, per l’effetto, l’annullamento del provvedimento impugnato, previa rimessione alla Corte Costituzionale delle questioni di illegittimità costituzionale proposte nell’appello riguardo a diverse norme del Codice. 6. All’udienza del 6 dicembre 2011 la causa è stata trattenuta per la decisione. DIRITTO 1. Con la sentenza gravata, n. 1041 del 2011, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Sezione seconda quater, ha respinto il ricorso, n. 3020 del 2010, proposto avverso il decreto del Ministero per i beni e le attività culturali del 25 gennaio 2010 con il quale è stata dichiarata di notevole interesse pubblico un’area, sita nel Comune di Roma, in cui sono compresi terreni di proprietà dei ricorrenti. 2. Nell’appello si richiama, anzitutto, che i terreni di cui si tratta, ricadenti in zona H” – Agro Romano vincolato nel Piano regolatore Generale del 1965, erano stati poi nuovamente destinati a zona agricola con la variante generale al detto PRG (così detto “Piano delle certezze” adottata con delibera del Consiglio comunale n. 92 del 1997); i terreni, non qualificati di rilevanza ambientale nell’ambito della “Rete ecologica” del nuovo Piano Regolatore Generale (P.R.G.), sono stati successivamente ricompresi nel PTPR come ambito tipizzato della campagna romana ed ivi classificati nei sistemi di paesaggio “paesaggio agrario di valore ” e “paesaggio naturale” ai sensi dell’art. 134, comma 1, lett. c) del Codice, al cui riguardo il Comune di Roma ha valutato favorevolmente le osservazioni proposte al detto PTPR dai medesimi ricorrenti (delibera del Consiglio Comunale n. 32 del 2008) che hanno quindi partecipato all’invito pubblico indetto dal Comune per l’attuazione del piano di “Housing sociale” (delibera della Giunta del Comune di Roma n. 315 del 2008). Si censura quindi la sentenza di primo grado per i motivi che seguono: -a) in quanto elusiva della censura di incostituzionalità proposta per vizio di eccesso di delega della parte del Codice in cui, in particolare con il d.lgs. 26 marzo 2008, n. 63 (recante “Ulteriori disposizioni integrative e correttive” del Codice “in materia di paesaggio”) in vigore all’adozione del decreto ministeriale impugnato, è stata introdotta una “terza” categoria di beni paesaggistici; sono stati infatti qualificati come assoggettabili a tutela “ulteriori immobili ed aree di notevole interesse pubblico” ovvero “ulteriori contesti” (articoli: 134, comma 1, lett. c); 135, comma 1, terzo periodo; 143, comma 1, lett. d), in aggiunta alle due sole categorie di beni paesaggistici previste rispettivamente dalle leggi n. 1497 del 1939 (oggi art. 136 del Codice) e n. 431 del 1985 (oggi art. 142 del Codice), riguardanti, l’una, bellezze individue e di insieme, e, l’altra, aree individuate in via generale, violando con ciò l’art. 10, comma 2, della legge di delega n. 137 del 2002 in quanto recante il divieto per la normativa delegata di “determinare ulteriori restrizioni alla proprietà privata”e di abrogare gli “strumenti attuali”, con l’obbligo di conformarsi comunque “al puntuale rispetto degli accordi internazionali” (stante la rigorosa giurisprudenza della CEDU in materia di tutela della proprietà privata); CONTENZIOSO NAZIONALE 229 -b) poiché altresì omissiva delle ulteriori censure di incostituzionalità proposte avverso gli articoli 131, comma 1, 134, comma 1, lett. c) e 135, comma 1, del Codice; tali disposizioni infatti, andando oltre la limitazione della qualificazione paesaggistica a singole porzioni del territorio propria delle leggi n. 1497 del 1939 e n. 431 del 1985, recano la identificazione del paesaggio come “territorio espressivo di identità” (art. 131) ovvero in riferimento a “tutto il territorio” (art. 135) e portano perciò alla potenziale coincidenza del bene paesaggistico con l’intero territorio, come avvenuto nella specie in cui il vincolo apposto è di dimensione quantitativa tale da far smarrire la sua identificazione qualitativa; si incorre con ciò non soltanto nel vizio di eccesso di delega, ma anche di contrasto con gli articoli 3, 4, 41, 42, 47 e 97 della Costituzione e con l’art. 1 del 1° Protocollo addizionale della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, per irragionevole lesione della proprietà privata, che può essere sacrificata soltanto a ragione della individuazione di una valenza paesaggistica specifica e non generica di singole aree, e per contrasto con gli ulteriori valori costituzionali sanciti dagli articoli citati, dovendo essere bilanciato con la loro salvaguardia quello della tutela del paesaggio di cui all’art. 9 della Costituzione; in questo quadro anche la legge di delega (art. 10, comma 2, lett. d), della legge n. 137 del 2002) risulterebbe viziata, per mancata definizione dei principi e criteri direttivi, se la si ritenesse idonea a legittimare un indeterminato ampliamento dei condizionamenti a carico della proprietà privata; -c) per avere affermato che il decreto ministeriale impugnato reca soltanto il riconoscimento del notevole interesse pubblico dell’Agro Romano e non un intervento di pianificazione paesaggistica, avendo invece proceduto il Ministero ai sensi dell’art. 138, comma 3, del Codice, con conseguenti prescrizioni che, ai sensi e nel quadro di quanto previsto dagli articoli 140, 141 e 143 del Codice, si incorporano nel Piano paesaggistico, il quale, a sua volta, è oggetto di disposizioni (articoli 135 e 143) orientate non alla disciplina della edificabilità nel limite della salvaguardia del bene tutelato ma ad una generalizzata inedificabilità nell’area, al contrario di quanto stabilito per i piani paesistici dall’art. 23 del regio decreto n. 1357 del 1940; ciò che configura, anche in tale caso, il vizio dell’eccesso di delega non essendo previsto nella legge di delega lo stravolgimento degli strumenti di pianificazione esistenti ma soltanto il loro aggiornamento, ferma restando la compatibilità con la tutela del paesaggio dell’intervento umano se controllato, come affermato dalla giurisprudenza anche costituzionale; d) essendo altresì viziati per incostituzionalità i seguenti articoli del Codice: art. 135, in quanto include nei piani paesaggistici i paesaggi rurali mai riconosciuti meritevoli di tutela, con conseguente eccesso di delega; articoli 135 e 143, poiché includono nei detti piani le aree degradate al fine del loro recupero, in contrasto con gli articoli 3 e 42 della Costituzione, avendo sancito la Corte Costituzionale che meritevole di tutela è soltanto l’immobile originariamente e sempre bello e che è violato il principio di legalità dell’azione amministrativa se il piano paesistico non si limita alla disciplina delle sole zone elencate nelle leggi n. 1497 del 1939 e n. 431 del 1985 (Sentenze n. 56 del 1968 e n. 327 del 1990); art. 136, a seguito della eliminazione dal testo, con il d.lgs. n. 63 del 2008, della espressione “quadri naturali”, ciò che illegittimamente consente la sottoposizione della proprietà privata a vincoli estesi e generici; art. 158, in quanto, rimettendo all’emanazione di normative regionali la cessazione della vigenza della disciplina di fonte statale (regio decreto 3 giugno 1940, n. 1357) viola la riserva di legislazione esclusiva di cui all’art. 117, comma 1, lett. s), della Costituzione; -e) per avere respinto la censura della mancanza, nel caso di specie, dei presupposti e dei requisiti per la dichiarazione di notevole interesse pubblico ai sensi dell’art. 136 del Codice; la sentenza gravata ha infatti trascurato che: le aree in questione hanno esclusivo carattere e con- 230 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 formazione agricola senza alcuna diversa caratteristica, sicché, applicando il criterio alla base del provvedimento impugnato, dovrebbe essere vincolata, di per sé, ogni area di campagna: non vi rientrano aree boscate, invece vincolate; impropriamente vi sono state individuate aree di interesse archeologico, tutelabili soltanto ai sensi della legge n. 1089 del 1939 ovvero per la previsione di cui alla lettera m) del comma 1 del vigente art. 142 del Codice; l’illegittimità del provvedimento impugnato risulta palese, infine, anche in quanto espressamente volto allo scopo di assicurare il minor consumo del territorio, che non è tra i fini propri della normativa applicata nella specie ma di quella in materia urbanistica; -f) per avere respinto le censure dedotte riguardo alla posizione tutelabile formatasi in capo ai ricorrenti per aver partecipato all’avviso pubblico del Comune di Roma per l’attuazione del piano di “housing sociale” ed alla violazione del principio di proporzionalità tra l’estensione dell’area vincolata (30 ettari) e il sacrificio imposto ai privati, affermandosi, con sommarie valutazioni, quanto alla prima censura, che la posizione suddetta sarebbe di mera aspettativa e, quanto alla seconda, che l’interesse pubblico alla tutela del paesaggio sarebbe comunque e sempre preminente indipendentemente dalle modalità della sua applicazione in concreto. 3. Le censure così riassunte non possono essere accolte. Si esaminano anzitutto le questioni di legittimità costituzionale proposte avverso la normativa del Codice esposte nei precedenti punti 2.a (eccesso di delega per la introduzione di una terza categoria di beni paesaggistici), 2.b (eccesso di delega e contrasto, anche della legge delega, con norme costituzionali di tutela della proprietà privata, stante la identificazione del paesaggio con il territorio), 2.c (eccesso di delega a causa della indiscriminata valenza pianificatoria assunta dal provvedimento impugnato) e 2.d (eccesso di delega e contrasto con diverse norme costituzionali) che risultano non rilevanti per il presente giudizio ovvero manifestamente infondate. 3.1. Considerato che il vizio dell’eccesso di delega è asserito per vari profili, che saranno in seguito esaminati, il Collegio ritiene necessario richiamare, in via preliminare, che nella legge n. 137 del 2002 il contenuto della delega è individuato nel “riassetto” e, con riguardo specifico alla materia dei beni culturali e ambientali, nella “codificazione” delle disposizioni legislative in materia (art. 10, comma 1, lett. a); che il “riassetto e codificazione” comportano, in linea generale, non il solo consolidamento formale della normativa, secondo i limiti circoscritti al riguardo dalla Corte Costituzionale (come è per il semplice “riordino” ovvero nel caso in cui il “riassetto” sia ristretto dalla delega al citato coordinamento formale), ma anche la possibilità di revisioni e innovazioni sostanziali della disciplina (Cons. Stato: Adunanza generale, parere n. 2 del 2004; Sezione consultiva per gli atti normativi, parere n. 11602 del 2004; Commissione speciale Difesa, parere n. 149, n 152 del 2010) e che, infine, con ciò risulta coerente la indicazione dei principi e criteri direttivi della delega di cui qui si tratta poiché tra l’altro individuati, per tutti i settori, nel “miglioramento dell’efficacia degli interventi concernenti i beni e le attività culturali” (Art. 10, comma 2, lett. c), e, per quello specifico dei beni culturali e ambientali, nel criterio di “aggiornare gli strumenti di individuazione, conservazione e protezione dei beni culturali e ambientali…”, con formulazioni, perciò, particolarmente ampie pur con le delimitazioni per cui l’intervento delegato non deve determinare “ulteriori restrizioni della proprietà privata” né “l’abrogazione degli strumenti attuali”. Al riguardo è significativo confrontare l’ampiezza delle formulazioni ora citate con la più ristretta portata della delega disposta con la precedente legge 8 ottobre 1997, n. 352 (“Disposizioni sui beni culturali”), volta non alla codificazione della normativa ma alle modificazioni necessarie per il suo solo “coordinamento” formale e sostanziale “nonché per assicurare il riordino e la semplificazione dei procedimenti” (art. 1), sulla cui base venne approvato il CONTENZIOSO NAZIONALE 231 d.lgs. n. 490 del 1999 recante il Testo unico delle leggi in materia. 3.2. La questione di illegittimità costituzionale per eccesso di delega della normativa Codice dedotta per la asserita, indebita inclusione nell’art. 134, comma 1, lett. c), di una nuova categoria di beni paesaggistici (“gli ulteriori immobili ed aree specificamente individuati a termini dell'articolo 136 e sottoposti a tutela dai piani paesaggistici previsti dagli articoli 143 e 156”) non risulta rilevante ai fini del presente giudizio. Infatti: -il provvedimento impugnato è stato emanato ai sensi dell’art. 141, comma 2, del Codice, sulla base dei relativi articoli 136, 138, 139 e 140, e perciò nell’esercizio del potere del Ministero di dichiarare il notevole interesse pubblico di beni paesaggistici ad esso attribuito quale potere autonomo rispetto a quello assegnato all’identico fine alle Regioni; -i beni paesaggistici sono individuati dall’art. 134 in tre categorie, specificate, rispettivamente nelle lettere a), b) e c) del comma 1, la prima delle quali è individuata negli “immobili e le aree di cui all’art. 136, individuati ai sensi degli articoli da 138 a 141” (concernenti, questi ultimi, il procedimento per la dichiarazione di interesse pubblico da parte delle Regioni e del Ministero; vincolo così detto del “primo tipo”), la seconda nelle “aree di cui all’art. 142” (cioè tutelate per legge; vincolo cosi detto del “secondo tipo”) e, la terza, nei già richiamati “ulteriori” immobili e aree di cui all’art. 136 sottoposti a tutela dai piani paesaggistici regionali (vincolo cosi detto del “terzo tipo”); il potere ministeriale di dichiarare un bene paesaggistico di notevole interesse pubblico è previsto dall’art. 138, comma 3 (secondo il procedimento di cui all’art. 141) per il quale la detta dichiarazione riguarda “gli immobili e le aree di cui all’art. 136”e non gli “ulteriori” immobili ed aree di cui all’art. 134, comma 1, lett. c), oggetto, come visto, non della dichiarazione di interesse pubblico espressa con apposito provvedimento amministrativo (regionale o ministeriale) ma di quella determinata con sottoposizione dei beni a tutela da parte dei piani paesaggistici (in particolare ai sensi dell’art. 143, comma 1, lett. d); -il bene paesaggistico oggetto di tutela nella specie non è perciò da riferire a quelli di cui alla lettera c) del comma 1 dell’art. 134 ma a quelli di cui alla lettera a) del medesimo comma, poiché, soltanto per questi la detta lettera a) prevede la dichiarazione di interesse pubblico con singolo provvedimento amministrativo, con il rinvio espresso al procedimento “degli articoli da 138 a 141” (cioè al vincolo del primo tipo); -per cui, in conclusione: il provvedimento impugnato reca la dichiarazione di notevole interesse pubblico ai sensi degli articoli 138 e 141; questa dichiarazione non può che concernere i beni di cui alla lettera a) dell’art. 134 come specificati nell’art. 136; non ha rilevanza di conseguenza per il presente giudizio la questione dell’asserito eccesso di delega di cui alla lettera c) del più volte citato comma 1 dell’art. 134, in quanto disposizione non applicata per l’emanazione del provvedimento suddetto. In questo quadro neppure rileva, di conseguenza, l’asserito eccesso di delega per contrasto con il principio direttivo del divieto di “ulteriori restrizioni della proprietà privata” in quanto dedotto in connessione con il vizio di eccesso di delega sinora esaminato e sulla base di questo. 3.3. L’ulteriore censura di eccesso di delega per avere il Codice introdotto normative idonee alla potenziale coincidenza del bene paesaggistico con l’intero territorio risulta infondata. Nel testo dell’art. 131 del Codice precedente alla modificazione disposta con il d.lgs. 26 marzo 2008, n. 63, il “Paesaggio” era identificato con “parti” del territorio “i cui caratteri distintivi derivano dalla natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrelazioni”, la cui tutela e valorizzazione “salvaguardano i valori che esso esprime quali manifestazioni identitarie percepibili”; a seguito del decreto legislativo n. 63 del 2008 il testo vigente dispone che “1. Per 232 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 paesaggio si intende il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni. 2. Il presente Codice tutela il paesaggio relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell'identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali”. La eliminazione del riferimento al paesaggio come costituito da “parti” del territorio non risulta sufficiente a far ritenere che nel testo vigente sia stata stabilita la effettiva o potenziale coincidenza del paesaggio con tutto il territorio, considerato che dal comma 1 non emerge tale coincidenza essendo per esso paesaggio non tutto il territorio ma la parte di esso espressiva di identità, in conformità alla valenza del paesaggio come fattore identitario della Nazione ai sensi dell’art. 9 della Costituzione ed a quanto previsto dalla Convenzione europea del paesaggio, adottata a Firenze il 20 ottobre 2000 (ratificata con la legge n. 14 del 2006), per il cui articolo 5 il paesaggio è “fondamento” della identità delle popolazioni. La parte del territorio qualificata come paesaggio può perciò, in ipotesi, essere anche molto estesa ma deve essere individuata e delimitata in forza del motivato riconoscimento in essa dei tratti identitari che a loro volta si identificano, per il comma 2 dell’art. 131 del Codice, in “aspetti e caratteri” non generici ma tali da rappresentare in modo “materiale e visibile”, e dunque specifico, l’identità nazionale in quanto espressione “di valori culturali” e non di indifferenziate caratteristiche che non attingano la soglia di tali valori. Ciò considerato il testo vigente non risulta, in sostanza, diverso da quello precedente anch’esso distinto dalla identificazione del paesaggio in quanto parte del territorio espressiva, come visto, di “manifestazioni identitarie percepibili”. Né vale in contrario la disciplina dei piani paesaggistici quale emerge in particolare dagli articoli 135 e 143 del Codice, poiché il riferimento alla necessità di assicurare che “tutto il territorio sia adeguatamente conosciuto, salvaguardato, pianificato e gestito in ragione dei differenti valori espressi dai diversi contesti che lo costituiscono” (art. 135, comma 1) esprime una complessiva esigenza di conoscenza e di articolate modalità di gestione del territorio nella sua ineludibile correlazione con il paesaggio ma non comporta l’assoggettamento a regime vincolistico di tutto il territorio, come risulta chiaramente dall’art. 143, ai sensi del quale la ricognizione del territorio è il presupposto per gli interventi differenziati, per aree e modalità di azione amministrativa, specificati nel comma 1 dell’articolo, in cui è anche inclusa la disciplina necessaria per assicurare altresì lo “sviluppo sostenibile” delle aree interessate attraverso la trasformazione del territorio stesso (lettere f), g) e h). In questo quadro non sussiste l’asserita irragionevole lesione della proprietà privata ad effetto della sola normazione primaria, considerato che la individuazione della valenza paesaggistica è il requisito comunque in essa richiesto per la determinazione delle aree sottoposte a vincolo; la verifica di tale lesione concerne allora l’azione amministrativa per l’accertamento di suoi eventuali vizi di illegittimità. 3.4. La censura di eccesso di delega di cui al precedente punto 2.c), motivata con la valenza pianificatoria del provvedimento impugnato ad effetto della sua integrazione nel piano paesaggistico, è anch’essa infondata. Come noto la previsione della inserzione dei vincoli paesaggistici nel piano paesaggistico risale alla stessa legge n. 1497 del 1939, che all’art. 5 facoltizzava l’Autorità amministrativa a redigere il piano (“piano territoriale paesistico”) con riguardo alle località definite come “vaste” di cui ai punti 3 e 4 dell’art. 1; con la legge n. 431 del 1985 il rapporto tra piano e vincoli non è più eventuale venendo prevista la redazione obbligatoria da parte delle Regioni dei piani paesistici (ovvero di piani urbanistico – territoriali) con riferimento in particolare ai beni e alle aree vincolate ai sensi di legge al fine della pianificazione della relativa tutela (art. 1 bis CONTENZIOSO NAZIONALE 233 del decreto legge n. 312 del 1985 aggiunto dalla legge di conversione n. 431 del 1985); tale impostazione è stata poi assunta nel d.lgs. n. 490 del 1999, con riguardo alla obbligatorietà dei piani rispetto ai beni e alle aree vincolati ex lege (art. 149), pervenendosi quindi all’art. 140 del vigente Codice, il cui comma 2 dispone che la dichiarazione di notevole interesse pubblico costituisce “parte integrante del piano paesaggistico” (come nel testo antecedente la modifica del comma disposta con il d.lgs. n. 63 del 2008), ferma la sua immodificabilità per effetto delle procedure di definizione del piano. Da ciò emerge che l’integrazione nel piano non attribuisce valenza pianificatoria alla dichiarazione di interesse pubblico in quanto tale, restando questa individuata dal contenuto e dall’efficacia propri, ma che la dichiarazione viene con ciò inserita in uno strumento che la correla ad un quadro di programmazione dell’uso e della valorizzazione del paesaggio al fine, già individuato nella ratio della previsione dei piani paesistici dell’art. 5 della legge n. 1497 del 1939, di coordinare la salvaguardia dei valori paesaggistici delle zone dichiarate di particolare interesse in un più ampio contesto (in riferimento al citato art. 5 cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 14 gennaio 1993, n. 29). La dichiarazione di notevole interesse pubblico riguardante un’area “vasta” (qualificazione già contemplata, come visto, nella legge n. 1497 del 1939) non costituisce perciò espressione di una funzione di pianificazione; il provvedimento infatti, adottato nell’esercizio di un diverso e autonomo potere, non attiene alla detta funzione né la acquisisce per il fatto della integrazione nel piano, unico atto cui la funzione è invece attribuita allo scopo, ulteriore rispetto alle determinazioni singole, di coordinare l’interazione tra i vincoli di diverso tipo gravanti sul territorio qualificato come paesaggio in un quadro complessivo. Né la pianificazione risulta orientata al solo effetto della inibizione assoluta della edificabilità poiché il piano presuppone e analizza “lo sviluppo sostenibile delle aree interessate”, la presenza di “dinamiche di trasformazione del territorio” e reca prescrizioni e previsioni atte “alla individuazione delle linee di sviluppo urbanistico ed edilizio” compatibili (art. 143, comma 1, lettere h) e f); art. 135, comma 1, lett. d). La dichiarazione di notevole interesse pubblico non può a sua volta dirsi viziata per illegittimità intrinseca a motivo del solo dato dell’ampiezza dell’area vincolata, in quanto considerato lesivo, di per sé, della tutela della proprietà privata; la sussistenza di vizi di legittimità di un siffatto provvedimento deve infatti, come per ogni altro, essere verificata specificamente quanto ai presupposti, ai contenuti nonché al corretto esercizio della discrezionalità, nel quadro della costante giurisprudenza della Corte costituzionale sul valore comunque primario che ha la tutela del paesaggio nella Costituzione pur nella correlazione degli ulteriori interessi tutelabili (Sentenza n. 367 del 2007, in cui sono richiamate le precedenti in materia). 3.5. Le censure di illegittimità costituzionale riassunte nel punto 2.d) di cui sopra sono altresì infondate, in quanto: - riguardo all’inclusione dei “paesaggi rurali” e delle “aree degradate” nei piani paesaggistici (art. 135, comma 4, lettere b e d), da un lato non si individua la rilevanza di tali previsioni per il presente giudizio che riguarda un provvedimento di vincolo non adottato con piano paesaggistico e, dall’altro, non risulta specificato, in ogni caso, quale sia il limite di oggetto, principi e criteri direttivi violato con eccesso di delega per effetto delle dette previsioni, avendo la Corte Costituzionale chiarito che “la prima disciplina che esige il principio fondamentale della tutela del paesaggio è quella che concerne la conservazione della morfologia del territorio e dei suoi essenziali contenuti ambientali” (Sentenza n. 367 del 2007) ed essendo quindi di certo coerente con tale principio riqualificare la morfologia del paesaggio se alcune aree siano degradate ovvero salvaguardare paesaggi rurali se distintivi di tale morfologia; ciò che 234 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 peraltro risulta anche coerente con le previsioni della Convenzione europea del paesaggio, che per l’articolo 2 “Concerne sia i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, sia i paesaggi della vita quotidiani, sia i paesaggi degradati”; - la eliminazione con la lettera d) del comma 1 dell’art. 136 del riferimento alle bellezze panoramiche “considerate come quadri naturali”, dapprima previsto nell’art. 1 della legge 1497 del 1939 (poi limitato alla sola parola “quadri” nel d.lgs. n. 490 del 1999), non comporta, di per sé, effetti di limitazione della proprietà privata equivalendo sempre la visione delle bellezze panoramiche a quella di quadri naturali ed essendo perciò siffatta nozione, in quanto ulteriormente esplicativa di un già chiaro contenuto estetico, priva di valenza giuridica aggiuntiva, tanto più essendo rimasta identica la restante parte della disposizione; - non sussistono gli asseriti vizi dell’art. 158 del Codice, poiché recante una norma cedevole che dispone l’ultravigenza della normazione regolamentare statale “fino all’emanazione di apposite disposizioni regionali di attuazione del presente codice”, in coerenza con l’attribuzione di funzioni e compiti alle Regioni disposta con il medesimo codice ed in attesa perciò che queste ne dispongano la regolamentazione in corrispondenza e nei limiti degli ambiti di competenza. 3.6. Si esaminano ora le ulteriori censure dedotte di cui ai precedenti punti 2.e (sulla mancanza nella specie dei presupposti per la dichiarazione di notevole interesse pubblico) e 2.f (sulla violazione del principio di proporzionalità e sulla aspettativa tutelabile che si sarebbe formata in capo ai ricorrenti) che risultano altresì infondate. 3.7. La censura della mancanza nel caso di specie dei presupposti e requisiti per la dichiarazione di interesse pubblico dedotta, anzitutto, a ragione della natura agricola dei terreni, non può essere condivisa. Al riguardo occorre prendere atto anzitutto della scelta di fondo di ritenere meritevole di tutela, nel contesto sociale, urbanistico e culturale attuale, la “campagna romana”. Tale scelta si deve ritenere compiuta nell’esercizio della discrezionalità amministrativa espressione della “politica di settore” e in quanto tale non è suscettibile di censura se non nei limiti della ragionevolezza, requisito che non può dirsi certo insussistente. In questa prospettiva, infatti, la natura agricola delle aree costituisce essa stessa fattore identitario del paesaggio e quindi, quale elemento di continuità dell’immagine della campagna romana (come anche indicato in istruttoria) concorre “a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura” (art. 1, comma 2, del Codice). Né si tratta di un’area agricola anodina, poiché, come si osserva nelle relazioni istruttorie alla base del provvedimento, “è il seminativo nudo, che copre gli altipiani e anche gli invasi vallivi più ampi; eredità della strutturazione fondiaria a latifondo, questo modo di conduzione dei suoli svolge un ruolo fondamentale nel determinare, assieme alla più volte richiamata profondità delle visuali dominate nel piano di fondo dal profilo dei Colli Albani, quei caratteri scenici di aperta vastità e quasi solenne monumentalità che…nel territorio in questione, peraltro, appaiono sovente anche in felice contrappunto con i casali e gli altri manufatti storici posti alla sommità delle ondulazioni.”, essendosi aggiunti in seguito, ai seminativi e ai pascoli nel settore sud-orientale del territorio, “grandi superfici a colture legnose specializzate, senza tuttavia…alterazione dei valori paesaggistici” (Relazione della Soprintendenza, pag. 3). Quanto poi all’ulteriore articolazione della censura, secondo cui tutto ciò dovrebbe indurre a vincolare tutta la campagna intorno a Roma, vale la considerazione, sempre contenuta nella relazione che si tratta di “territorio che ancora conserva, nonostante i vari fenomeni sparsi di utilizzazione consolidati e in atto, un’alta qualità paesaggistica, riconducibile ai tratti tipici del paesaggio agrario della Campagna Romana, qui particolarmente caratterizzato dall’am- CONTENZIOSO NAZIONALE 235 piezza dei quadri panoramici oltre che dalla ricca e stratificata articolazione del sistema insediativo storico, con notevole diffusione tanto di beni archeologici che architettonici, questi ultimi rappresentati in una vasta gamma che va dagli antichi casali sorti a partire dai secc. XV e XVI attorno ai nuclei fortificati medievali a quelli più recenti risalenti alla bonifiche realizzate a cavallo tra Otto e Novecento, sovente in stretto rapporto con filari e gruppi arborei di notevole consistenza e di grande rilevanza ai fini della “costruzione” dell’immagine paesistica tipica dei luoghi” (Relazione della Soprintendenza, pagine 1 e 2). Tali considerazioni, ad avviso del collegio, costituiscono una adeguata motivazione della scelta di vincolare questa specifica porzione di territorio. 3.8. Neppure può essere condivisa la censura sulla assoluta estraneità del criterio del “consumo del territorio” rispetto alle valutazioni di cui qui si tratta, essendo evidentemente tale consumo effetto possibile della mancata tutela paesaggistica, e, comunque, essendo richiamato il criterio del “minor consumo del territorio” anche dal Codice a proposito della pianificazione paesaggistica ma di certo con valenza ulteriore (art. 135, comma 4, lett. c). 3.9. Né sussiste la dedotta violazione del principio di proporzionalità, asserita in particolare a ragione della sproporzione che vi sarebbe tra lo scopo perseguito con il provvedimento impugnato e l’estensione dell’area vincolata, con corrispondente sacrificio della proprietà privata. Si deve infatti richiamare che nella ratio del provvedimento è proprio l’estensione dell’area che costituisce il presupposto per la sua qualificazione in termini di paesaggio, offrendo il contesto identitario dell’ampiezza dei quadri panoramici segnati dal permanente uso agricolo diffuso, nel cui ambito si sono stratificati gli ulteriori caratteri sia storici, archeologici e architettonici, che di vegetazione, con un effetto di insieme qualificante l’intera area nella sua unitaria complessità; il riconoscimento di tale unitarietà non sarebbe stato perciò possibile senza l’apprezzamento della configurazione assunta dall’area nella sua estensione non essendo la tutela isolata delle sue singole componenti equivalente alla tutela del complesso in cui ciascun elemento si correla agli altri. 3.10. Conclusivamente il Collegio ritiene che, da quanto sinora considerato riguardo all’istruttoria, alla motivazione e al contenuto del provvedimento, non risultano dimostrati o verificati vizi di illogicità e di irragionevolezza della discrezionalità esercitata, che anzi appare rispondere ad una moderna e coerente visione del paesaggio fermo che, quanto ai criteri utilizzati, si può censurare la sola valutazione che si ponga al di fuori dell’ambito dell’opinabilità, circostanza che nella specie non può dirsi certo ricorrente. 3.11. L’adesione all’invito pubblico “Per l’individuazione di nuovi ambiti di riserva finalizzati al reperimento di aree per l’attuazione del piano comunale di housing sociale e di altri interventi di interesse pubblico”, approvato con deliberazione della Giunta del Comune di Roma n. 315 del 2008, non configura, infine, alcuna posizione giuridica tutelabile in capo ai ricorrenti trattandosi della fase iniziale di un procedimento che non ha prodotto a loro favore alcuna manifestazione di volontà dell’autorità amministrativa e perciò alcun atto suscettibile di condurre ad una posizione di legittimo affidamento. 4. Per le ragioni che precedono l’appello è infondato e deve essere perciò respinto. La complessità dei profili di diritto concernenti la controversia giustifica la compensazione tra le parti delle spese del presente grado del giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) respinge l’appello in epigrafe n. 5611 del 2011. 236 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 Raggruppamento Temporaneo di Imprese e pubblici appalti: il potere di rinuncia all’aggiudicazione della “capogruppo” (Nota a T.A.R. Lazio, Sez. Terza, sentenza 11 gennaio 2012 n. 260) Carlo Bellesini* La sentenza in commento ha ad oggetto l'ambito di estensione dei poteri spettanti alla mandataria in un raggruppamento temporaneo di imprese, costituitosi dopo l'aggiudicazione, con particolare riferimento al potere di sciogliersi da ogni vincolo con la Stazione Appaltante ai sensi dell’articolo 11, comma 9, del Decreto Legislativo n. 163/2006. E la pressoché totale assenza di precedenti giurisprudenziali sul tema fa acquisire alla pronuncia in questione maggiore rilevanza (1). Nel caso di specie, un raggruppamento temporaneo di imprese (da ora: RTI) è risultato aggiudicatario di una gara indetta per l'affidamento di un appalto di lavori pubblici. Tuttavia, visti i notevoli ritardi della Stazione Appaltante nell’addivenire alla stipula del relativo contratto, la capogruppo mandataria del suddetto RTI ha esercitato il potere di rinunciare all’aggiudicazione di cui all’articolo 11, comma 9, del Decreto Legislativo n. 163/2006 (2). Dunque, la Stazione Appaltante, annullata la prima aggiudicazione, ha provveduto ad affidare la suddetta commessa alla seconda classificata. Una delle imprese mandanti del RTI de quo ha, quindi, impugnato il suddetto provvedimento dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale chiedendone l’annullamento. Secondo la tesi ricorsuale, in particolare, la rappresentanza esclusiva conferita dalle mandanti alla mandataria capogruppo del RTI deve essere limitata unicamente a tutti gli atti meramente conseguenziali ed applicativi dell'aggiudicazione, restando esclusa la rinuncia all’aggiudicazione. L’adito T.A.R. ha accolto il ricorso, rilevando che: “l’art. 37, comma 16, del Decreto legislativo n. 163/2006, nel far riferimento testualmente a tutte le (*) Dottore in Giurisprudenza, ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. (1) Sul medesimo tema si registra, oltre alla sentenza in commento, anche l’ordinanza n. 3277/2011 del Cons. St. la quale verrà in seguito approfondita. (2) Il comma 9 dell’art. 11 del D.lgs. n. 163/2006, rubricato “Fasi delle procedure di affidamento”, prevede che: “Divenuta efficace l’aggiudicazione definitiva, e fatto salvo l’esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti, la stipulazione del contratto di appalto o di concessione ha luogo entro il termine di sessanta giorni, salvo diverso termine previsto nel bando o nell’invito ad offrire, ovvero l’ipotesi di differimento espressamente concordata con l’aggiudicatario. Se la stipulazione del contratto non avviene nel termine fissato, ovvero il controllo di cui all’articolo 12, comma 3, non avviene nel termine ivi previsto, l’aggiudicatario può, mediante atto notificato alla stazione appaltante, sciogliersi da ogni vincolo o recedere dal contratto”. CONTENZIOSO NAZIONALE 237 operazioni e gli atti di qualsiasi natura dipendenti dall'appalto, individua i poteri della mandataria con riferimento alla fase successiva all'avvenuta stipula del contratto di appalto, per cui non sembra automaticamente riferibile a quella fase procedurale che va dall'aggiudicazione alla stipula del contratto”. In particolare, il Collegio ha sottolineato che “la rinuncia all’aggiudicazione non rientra neanche implicitamente nell'ambito dei poteri conferiti per legge alla mandataria, atteso che la costituzione del rti, una volta intervenuta l'aggiudicazione, è finalizzata alla stipula del contratto, per cui ben può ritenersi, come evidenziato dal consorzio ricorrente, che i poteri concessi alla capogruppo si estendono per legge a tutte quelle attività conseguenti e successive a tale ultimo provvedimento e finalizzate unicamente a consentire la stipula del contratto”. Ebbene, tale pronuncia non pare aver dato una corretta interpretazione della disciplina fornita dai commi 14, 15 e 16 dell’articolo 37 del Decreto Legislativo n. 163/2006 in materia di raggruppamenti temporanei di imprese (3). Focalizzando l’attenzione sul titolo costitutivo e sulla natura giuridica del RTI, alla luce della disciplina del Codice dei Contratti Pubblici di lavori, servizi e forniture, si ha modo di evidenziare, infatti, l’erroneità della suesposta sentenza. Preliminarmente, è opportuno rilevare che il RTI costituisce uno schema negoziale teso a creare rapporti di cooperazione fra più imprese, diretti al coordinamento delle rispettive attività in vista dell’adempimento di prestazioni per così dire “unitarie”(4). Più specificamente, si tratta di una forma di collaborazione temporanea e occasionale tra operatori economici, volta alla partecipazione congiunta ad una gara per l’affidamento di appalti pubblici (5) (6). (3) L’articolo 37, del D.lgs. n. 163/2009, rubricato “Raggruppamenti temporanei e consorzi ordinari di concorrenti”, prevede, al comma 14, che: “Ai fini della costituzione del raggruppamento temporaneo, gli operatori economici devono conferire, con un unico atto, mandato collettivo speciale con rappresentanza ad uno di essi, detto mandatario”; al comma 15: “Il mandato deve risultare da scrittura privata autenticata. La relativa procura è conferita al legale rappresentante dell’operatore economico mandatario. Il mandato è gratuito e irrevocabile e la sua revoca per giusta causa non ha effetto nei confronti della stazione appaltante”; al comma 16: “Al mandatario spetta la rappresentanza esclusiva, anche processuale, dei mandanti nei confronti della stazione appaltante per tutte le operazioni e gli atti di qualsiasi natura dipendenti dall'appalto, anche dopo il collaudo, o atto equivalente, fino alla estinzione di ogni rapporto. La stazione appaltante, tuttavia, può far valere direttamente le responsabilità facenti capo ai mandanti ”. (4) CAPO, In tema di qualificazione del modello “legale” dell’associazione temporanea di imprese, in Giur. Comm., 2003, 2, 136. (5) SANTORO, Manuale dei contratti pubblici, Rimini, 2005, 777-8. (6) Il fenomeno della partecipazione associata, inizialmente visto con scarso favore nel nostro ordinamento si affermò sotto la spinta del legislatore comunitario, che - al contrario - ne riconobbe la funzione antimonopolistica, tesa a consentire l’aggiudicazione di grandi appalti anche a imprese che singolarmente non avrebbero potuto accedervi, con ciò ponendo un argine al predominio delle grandi imprese: sul punto vd. MAZZAMUTO, I raggruppamenti temporanei d’imprese tra tutela della concorrenza e tutela dell’interesse pubblico, in Riv. It. Dir. Pubbl. comunitario, 2003, 182 e ss. 238 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 A riguardo, i problemi teorici in ordine alla figura del R.T.I. discendono soprattutto dal suo atteggiarsi a “fenomeno giuridico bifronte”, suscettibile di essere considerato sia nei suoi rapporti interni tra le imprese riunite sia da quello esterno con la Stazione Appaltante (7). Più precisamente, con riferimento alla natura giuridica del RTI, infatti, si oscilla, in dottrina, tra chi qualifica l’accordo tra le imprese raggruppate come un contratto associativo atipico (8) e chi, evidenziando l’assenza di molti aspetti caratteristici della categoria dei contratti associativi, ritiene che al più possa trattarsi di un’ipotesi di contratti di cooperazione con comunione di scopo tout court (9); non manca anche chi rileva l’indifferenza del legislatore verso l’assetto interno dei rapporti tra gli operatori riuniti, in quanto ciò che rileva sarebbe unicamente la garanzia di stabilità della compagine e la semplificazione dei rapporti con la Stazione Appaltante in caso di aggiudicazione. E ciò troverebbe conferma nel tenore del medesimo articolo 37: il legislatore usa il più anonimo termine di “raggruppamento” in luogo di associazione. Secondo tale ultima tesi, in altre parole, il fenomeno del RTI integrerebbe una fattispecie complessa, articolata secondo il principio del collegamento negoziale e caratterizzata dal dato formale esterno del mandato collettivo e da una struttura sottostante variabile in funzione delle diverse tipologie negoziali utilizzabili dalle imprese riunite (10). Tale tesi risulta, a parere di chi scrive, la più condivisibile: e la sua correttezza sta nel voler dare una qualificazione giuridica al fenomeno del RTI proprio muovendo dal suo titolo costitutivo ex lege, ossia dal contratto di mandato. Ai sensi del comma 14 del suddetto articolo 37, infatti, è previsto che “ai fini della costituzione del raggruppamento temporaneo, gli operatori economici devono conferire, con un unico atto, mandato collettivo speciale con rappresentanza ad uno di esse, detto mandatario”. Pertanto, l’elemento fondativo del Raggruppamento Temporaneo di Imprese è dato da un particolare mandato, conferito ad un impresa (mandataria), detta capogruppo, da parte delle altre imprese riunite (mandanti). In particolare, dottrina e giurisprudenza sono unanimi nel qualificare tale mandato come: a) collettivo ex att. 1126 c.c., essendo conferito dalle imprese (7) DALLARI, Sulla soggettività giuridica delle associazioni temporanee di imprese, in Foro amm. CdS, 2002, 2, 1260 e ss. (8) BONVICINI, Associazioni temporane di imprese, in Enc. Giur. Treccani, vol. III, Roma, 1988, 7 e BENATTI, Associazioni temporanee di imprese, in Dizionario di diritto privato, a cura di IRTI, vol. I, Milano, 1980, 89. (9) CAPO, In tema di qualificazione del modello “legale” dell’associazione temporanea di imprese, op. cit.. (10) BACCARINI, Le associazioni temporanee di imprese, in L’appalto di opere pubbliche, a cura di VILLATA, Padova, 2005, 222 e ss; CARDARELLI, I raggruppamenti temporanei ed i consorzi ordinari di concorrenti, 1148 e ss. CONTENZIOSO NAZIONALE 239 mandanti con unico atto e per un affare di interesse comune; b) in rem propriam perché conferito anche nell'interesse della mandataria e dell'amministrazione committente, e non solo in quello delle mandanti; c) speciale, attribuendo poteri rappresentativi limitatamente a una specifica gara d'appalto o a più gare specificamente individuate; d) gratuito, in deroga alla presunzione di onerosità posta dall’art. 1709 c.c.; e) irrevocabile in quanto, in deroga agli artt. 1123 e 1726 c.c., la revoca per giusta causa non produce effetti nei confronti dell'amministrazione committente, al fine di garantire stabilità e certezza al rapporto con la stazione appaltante (11). Peraltro, dal combinato disposto dei successivi commi 15 e 16 del medesimo articolo 37, si evince che, nella costituzione del RTI, il mandato deve essere necessariamente accompagnato da una procura speciale con la quale viene attribuita al legale rappresentante dell’impresa mandataria la rappresentanza esclusiva (anche processuale (12)) di ciascuna impresa mandante per ogni attività relativa a quello specifico appalto, a partire dalla formazione dell’offerta fino all’estinzione di ogni rapporto con la Stazione Appaltante. Dunque, in forza di tale atto, l’impresa mandataria è abilitata a concorrere alla gara in nome e per conto di tutte le imprese raggruppate, assumendo la piena ed esclusiva rappresentanza delle stesse nei confronti della Stazione Appaltante per tutta la durata dell’appalto e, dunque, non solo nella fase della gara, ma anche nelle fasi successive, e fino all’estinzione del rapporto contrattuale con la P.A. In particolare, ai sensi del comma 16 dell’articolo 37 D.lgs. n. 163/2007, è previsto che: “al mandatario spetta la rappresentanza esclusiva, anche processuale, dei mandanti nei confronti della stazione appaltante per tutte le operazioni e gli atti di qualsiasi natura dipendenti dall'appalto, anche dopo il collaudo, o atto equivalente, fino alla estinzione di ogni rapporto”. Più precisamente, nella locuzione “operazioni e atti di qualsiasi natura”, rientra ogni azione comunque ricadente nella complessiva gestione del rapporto: come promesse, accettazioni, impegni, dichiarazioni di presa visione, (11) MAZZONE - LORIA, Le associazioni temporanee di imprese, Roma, 1990, 94 ss.; RAGAZZO, L’associazione temporanea di imprese: natura della responsabilità nei confronti dell'amministrazione alla luce dell'istituto del fermo amministrativo, in Riv. giur. ed., 2004, I, 285 ss.; in termini, anche Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, Deliberazione 18 luglio 2001, n. 15. (12) Un profilo pratico rilevante discendente dalla natura giuridica del RTI riguarda la legittimazione processuale attiva: in particolare, la giurisprudenza del Consiglio di Stato è nel senso che legittimata ad impugnare gli atti di gara sia anche la singola impresa riunita (oltre che il medesimo raggruppamento in persona della capogruppo) in quanto portatrice di un autonomo e distinto interesse al legittimo svolgimento della procedura concorsuale; tale legittimazione sussiste sia quando il raggruppamento risulti già costituito al momento della presentazione dell’offerta, sia quando esso debba costituirsi all’esito dell’aggiudicazione: si vd. Cons. St., sez. V, 30 agosto 2004, n. 5646 in www.giustizia-amministrativa.it; vd. anche Cons. St., sez. V, 7 novembre 2003, n. 7112, in Foro amministrativo, 2003, 3368; Cons. St. sez. VI, 23 gennaio 2002, n. 937, Cons. St. sez. V, 18 marzo 2004, n. 1411, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it. 240 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 sottoscrizioni di verbali e contratti etc. (13) Pertanto, la “capogruppo” è legittimata a compiere, nei rapporti con l’amministrazione, ogni attività giuridica connessa o dipendente dall’appalto e produttiva di effetti giuridici direttamente nei confronti delle imprese mandanti sino all’estinzione del rapporto (14). Alla luce di questi rilievi, ferma restando la carenza di autonoma soggettività del raggruppamento, è tuttavia evidente che per effetto del mandato collettivo viene a costituirsi un tendenziale centro autonomo di imputazione giuridica nei confronti dell’amministrazione appaltante: e ciò trova conferma in una recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione, dove è stato detto che: “in tema di associazioni temporanee di imprese, il potere di rappresentanza di cui all’articolo 37, comma 16, del D.lgs. n. 163/2006, spetta all’impresa mandataria “capogruppo”, esclusivamente nei confronti della Stazione Appaltante, per tutte le operazioni e gli atti dipendenti dall’appalto” (Cass., 20 maggio 2010, n. 12422). Ricostruiti ratio e confini del fenomeno dei RTI, appare allora evidente come, nel caso de quo, tra i poteri spettanti alla mandataria ai sensi dell’articolo 37 comma 16 D.lgs. n. 163/2006 rientri anche quello di rinunciare alla aggiudicazione ex articolo 11, comma 9, del D.lgs. n. 163/2006: ed è, parimenti, indubbio che gli effetti scaturenti dall’esercizio del suesposto potere si riverberino sulla mandante. Dunque, l’affermazione compiuta dal T.A.R.nella sentenza in commento, secondo cui i poteri concessi alla capogruppo si estendono per legge a tutte quelle attività conseguenti e successive a tale ultimo provvedimento e finalizzate unicamente a consentire la stipula del contratto, con l’esclusione del suddetto potere di rinuncia all’aggiudicazione, pare essere frutto di un’errata interpretazione dell’articolo 37 D.lgs. n. 163/2006 nonché della disciplina civilistica in materia di mandato con rappresentanza. A riguardo, l’articolo 11 comma 9, nel prevedere i termini per la stipulazione del contratto di appalto, stabilisce che questa debba avere luogo entro il termine massimo di sessanta giorni dal momento in cui l’aggiudicazione definitiva sia divenuta efficace. Si tratta di un termine legale che opera ogni qualvolta non sia stato diversamente stabilito nel bando o nella lettera di invito e/o non sia stato diversamente pattuito tra le parti. Oltre questo termine, si prevede che l’aggiudicatario possa sciogliersi dal vincolo discendente dall’aggiudicazione, ottenendo il rimborso delle spese sostenute per la partecipazione alla gara, mentre viene negata espressamente la spettanza di qualsiasi forma di indennizzo o di risarcimento danni (15). La suddetta norma è evidentemente finalizzata a tutelare gli interessi dell’aggiudicatario (16), il quale non corre così il rischio di vincolarsi alla propria offerta a tempo indeterminato e di subire le conseguenze pregiudizievoli eventualmente discendenti nelle more della sottoscrizione del contratto da CONTENZIOSO NAZIONALE 241 parte dell’Amministrazione Pubblica (17). Venendo al RTI, essendo la capogruppo “mandataria” il soggetto preposto ex lege alla cura dell’interesse delle mandanti, essa deve vantare tra gli altri anche il potere di rinunciare all’aggiudicazione: altrimenti, verrebbe meno la ratio sottesa all’articolo 11, comma 9 del D.lgs.n.163/2009. Per completezza, va rilevato che parte della dottrina (18) ha escluso la sussistenza del potere di rinunciare all’aggiudicazione in capo alla mandataria nel caso specifico del RTI cosiddetto “costituendo”. In particolare, l’articolo 37, comma 8, del D.lgs. n. 163/2006 consente di rinviare la costituzione del raggruppamento temporaneo ad un momento successivo alla presentazione dell’offerta, ma comunque prima della sottoscrizione del contratto: e, in tali casi, l’offerta deve essere firmata da tutte le partecipanti del futuro raggruppamento. Secondo tale tesi, dunque, in caso di rinuncia all’aggiudicazione, il relativo atto deve assumere la forma del contrarius actus, e deve essere, quindi, firmato da tutte le imprese partecipanti al raggruppamento, salvo il potere di rinuncia non sia stato conferito alla mandataria con procura speciale. Tuttavia, alla luce delle suesposte argomentazioni, tale assunto non risulta condivisibile. Ai sensi del medesimo articolo 37 comma 8, infatti, anche in tale fattispecie i concorrenti devono comunque assumere l’impegno di conferire in caso di aggiudicazione della gara, mandato speciale con rappresentanza ad uno di essi indicato in sede di offerta: devono, in altre parole, provvedere alla costituzione del RTI. Pertanto, anche nelle ipotesi di “R.T.I. costituendo”, sempre nel mandatario si identifica l’esclusivo ed immutabile “interfaccia” della stazione appaltante e/o del concedente: è, dunque, il mandatario il solo soggetto che può rapportarsi con il proprio dante causa, svolgendo ogni attività negoziale si renda necessaria nel corso dell’intera procedura di affidamento: compresa la rinuncia all’aggiudicazione. (13) Cons. St., sez. V, 17 marzo 2003. Cfr., anche TAR Toscana, Firenze, sez. I, 4 ottobre 1991, n. 499. (14) Cfr. Cass. 17 settembre 2005, n. 18441. (15) DE NICTOLIS, I contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, op. cit., t. I, 87. (16) L’espressa previsione, contenuta nel comma 9 del suddetto articolo 11, del rimedio dello scioglimento del vincolo da parte dell’aggiudicatario sorto per effetto della natura irrevocabile dell’offerta evidenzia, dunque, come il termine per la stipulazione del contratto è posto nel suo interesse: in particolare, si tratta di un potere espressione di un diritto potestativo a favore dell’aggiudicatario e rispetto al quale la posizione della Stazione Appaltante appare di mera soggezione, nel senso che, a ricorrere dei presupposti sostanziali individuati dalla norma, la committente non potrà che prendere atto dello scioglimento del vincolo: cfr. Cons. St., Sez. V, 29 novembre 2004, n. 7772, CS, I, 2004, 2492. (17) Si veda il contributo di VAIANO D., Commento all’art. 11 in GAROFOLI, FERRARI, Codice degli Appalti Pubblici e nuova direttiva ricorsi, Roma 2011, 147 e ss. (18) Sul punto, si vd. DI ROSA, L'associazione temporanea di imprese: il contratto di joint venture, Milano: Giuffrè, 1998, pagg. 55 e ss. 242 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sez. Terza, sentenza dell’11 gennaio 2012 n. 260 - Pres. Amoroso, Est. Sapone - Uniter Consorzio Stabile a r.l. (avv.ti G. Pellegrini e A. Sgobba) c. ANAS (avv. gen. Stato) ed altri. (Omissis) FATTO Il Consorzio ricorrente ha partecipato come mandante di una costituenda ati con la spa Tecnimont alla gara indetta dall'intimata Anas spa per l'affidamento dei lavori di ammodernamento ed adeguamento dell'autostrada A3 Salerno-Reggio Calabria dal km 153,400 al km 173,900 macrolotto 3° parte 2^, da aggiudicarsi con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa. In esito alle operazioni di gara, essendosi l'offerta presentata dal consorzio Uniter collocata al primo posto della relativa graduatoria, davanti quella dell'ati odierna controinteressata e quella del Consorzio Stabile Sis, la stazione appaltante con determinazione dell'11 giugno 2009 ha provveduto ad aggiudicare i lavori de quibus al costituendo rti Uniter-Tecnimont. Essendo stato il provvedimento de quo impugnato dalla seconda classificata con ricorso n. 6702/2009, nelle more del suddetto contenzioso l'Anas rinviava la stipula del contratto fino alla data di definizione nel merito dello stesso. In tale lasso di tempo, avendo Tecnimont con nota del 13 ottobre 2010 comunicato alla stazione appaltante di "volersi sciogliere da ogni vincolo con l'amministrazione aggiudicatrice ai sensi e per gli effetti dell'art. 11, comma 9, del D.lgvo n. 163/2006", quest'ultima con determinazione del 4 aprile 2011 annullava la prima aggiudicazione e contestualmente aggiudicava l'appalto in questione a favore del rti C.M.B.-Ghella. Alla luce dell'adozione del nuovo provvedimento di aggiudicazione la Sezione con sentenza n. 3310 del 15 aprile 2011 dichiarava improcedibile il ricorso n. 6702/2009, avendo le parti all'udienza pubblica del 6 aprile 2011 fatto presente di non aver più alcun interesse alla definizione della controversia. Tuttavia con il proposto gravame, ritualmente proposto e notificato alle parti resistenti dopo la pubblicazione della citata sentenza n. 3310/2011, il Consorzio Uniter ha impugnato la determinazione del 4 aprile 2011, deducendo a tal fine i seguenti motivi di doglianza: 1) Violazione di legge ed eccesso di potere. Carenza assoluta del presupposto. Violazione per falsa applicazione dell'art. 11, comma 9, del D.lgvo n. 163/2006. Violazione ed errata applicazione degli artt. 3, 34 e 37, comma 8, del D.lgvo n. 163/2006; 2) Violazione di legge ed eccesso di potere; 3) Violazione sotto ulteriore dell'art. 11, co. 9, del D.lgvo n. 163/2006; 4) Violazione della L. n. 241/1990; 5) Violazione e mancata applicazione del punto D.1.5. della lettera di invito. Eccesso di potere per erronea presupposizione, difetto di istruttoria, difetto di motivazione, illogicità, perplessità, ingiustizia manifesta. Si sono costituite sia Anas spa che Tecnimont spa prospettando l'inammissibilità sotto svariati profili del proposto gravame e contestando nel merito la fondatezza delle dedotte doglianze. Si è costituito anche il rti secondo classificato il quale: a) ha eccepito l'inammissibilità del proposto gravame ed ha confutato le prospettazioni ricorsuali; b) ha proposto ricorso incidentale, riproponendo in gran parte le medesime doglianze formulate con il ricorso n. 6702/2009 e contestando la mancata esclusione dalla gara de qua dell'offerta Uniter-Tecnimont. CONTENZIOSO NAZIONALE 243 Ha proposto intervento ad opponendum il Consorzio Stabile Sis, classificatosi al terzo posto nella graduatoria della gara de qua, il quale ha giustificato il proprio interesse sul presupposto che con ricorso n. 3908 del 2011 aveva impugnato il secondo provvedimento di aggiudicazione intervenuto a favore dell'ati CMB-Ghella. Alla pubblica udienza del 7 dicembre 2011 il gravame è stato assunto in decisione. DIRITTO Con il proposto gravame è stata impugnata la determinazione in epigrafe indicata con cui l’intimata Anas ha disposto l’annullamento dell’aggiudicazione a favore del rti Consorzio Uniter- Tecnimont spa dell’appalto avente ad oggetto l'affidamento dei lavori di ammodernamento ed adeguamento dell'autostrada A3 Salerno-Reggio Calabria dal km 153,400 al km 173,900 macrolotto 3° parte 2^, e l’affidamento dei suddetti lavori al rti odierno controinteressato. In ordine logico deve essere per prima esaminato il ricorso incidentale proposto dal rti secondo classificato a cui favore è intervenuto il nuovo provvedimento di aggiudicazione gravato in via principale, atteso che l'eventuale accoglimento dello stesso, comporterebbe l'esclusione dell'offerta del consorzio ricorrente dalla gara de qua, con conseguente inammissibilità per difetto di interesse del ricorso principale. Al riguardo, in linea con quanto osservato dall'odierno istante, il Collegio dichiara inammissibile il gravame incidentale, atteso che: a) come si evince dall'art. 42 del cpa il ricorso incidentale può essere proposto a tutela di un interesse che sorge in dipendenza della domanda formulata in via principale, in quanto, come chiarito dalla giurisprudenza, la proposizione del ricorso incidentale veicola un interesse ad opporre censure nei confronti del ricorrente principale ed ha carattere accessorio rispetto al ricorso principale in quanto esprime interessi che divengono attuali e concreti solo in seguito alla proposizione di quest'ultimo, con la conseguenza che un interesse legittimo che fosse sorto in conseguenza dell'emanazione di precedenti atti da parte dell'amministrazione non legittimerebbe il soggetto che si avvale di tale posizione giuridica soggettiva ad impugnare tardivamente i provvedimenti pregressi suscettibili di contestazione in via autonoma e diretta; b) poichè nella fattispecie in esame l'interesse attualmente fatto valere dalla ricorrente incidentale ben poteva ritenersi sorto in conseguenza della prima aggiudicazione intervenuta a favore dell'offerta Uniter-Tecnimont, come è testimoniato dalla circostanza che l'ati CMBGhella aveva impugnato in via principale la citata aggiudicazione contestando la mancata esclusione dell'offerta vincitrice, ne discende, de plano, che la proposizione del ricorso incidentale risulta in palese contraddizione con il menzionato principio che non consente di impugnare con tale mezzo provvedimenti autonomamente lesivi. Passando all'esame del ricorso principale in primis devono essere vagliate le eccezioni di inammissibilità sollevate da Anas, Tecnimont e dal raggruppamento controinteressato. In merito è stato fatto presente che: I) anche a voler considerare la rinuncia espressa da Tecnimont come non in grado di impegnare la mandante Uniter, tuttavia, è escluso che quest'ultima potrebbe risultare aggiudicataria dell'appalto de quo, in quanto è pacifico che non possiede i requisiti richiesti per partecipare autonomamente alla gara; II) il Consorzio ricorrente in data 2 maggio 2011 è stato posto in liquidazione volontaria e, conseguentemente, considerati i limiti operativi derivanti dalla liquidazione, tra i quali il compimento di nuove operazioni, in cui è da ricomprendere la stipula di un contratto di appalto, ne discende che anche per tale aspetto Uniter non potrebbe mai ottenere, pur in caso di esito positivo del presente giudizio, la stipula del contratto. 244 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 In relazione alla prima eccezione deve essere fatto presente che è ben individuabile l'interesse di Uniter a non essere assoggettato all'escussione della cauzione prestata che la stazione appaltante è tenuta ad effettuare in relazione alla mancata stipula del contratto derivante della rinuncia effettuata da Tecnimont, se quest'ultima fosse riferibile a tutte le imprese componenti l'ati; in sostanza è ben individuabile in capo all'odierno istante un interesse a scindere la propria responsabilità per la mancata stipula del contratto da quella di Tecnimont onde non sottostare alle conseguenze di ordine patrimoniale derivanti dalla stessa, e, tale interesse ha una sua autonomia giuridica rispetto a quello su cui si basa l'eccezione in esame relativo alla capacità del ricorrente di effettuare, anche dopo la rinuncia della mandataria, i lavori de quibus. Nè a sostegno della dedotta eccezione può essere addotta la circostanza che nella fattispecie in esame l'Anas non avrebbe mai potuto procedere all'escussione della cauzione in quanto doveva ritenersi applicabile l'art. 11, comma 9, del D.lgvo n.163/2006 il quale prevede che " Divenuta efficace l'aggiudicazione definitiva, e fatto salvo l'esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti, la stipulazione del contratto di appalto o di concessione ha luogo entro il termine di sessanta giorni, salvo diverso termine previsto nel bando o nell'invito ad offrire, ovvero l'ipotesi di differimento espressamente concordata con l'aggiudicatario. Se la stipulazione del contratto non avviene nel termine fissato, ovvero il controllo di cui all'articolo 12, comma 3, non avviene nel termine ivi previsto, l'aggiudicatario può, mediante atto notificato alla stazione appaltante, sciogliersi da ogni vincolo o recedere dal contratto". In merito deve essere rappresentato che entrambe le parti avevano accettato una proroga dei termini per la stipula del contratto fino alle definizione del giudizio instaurato dalla seconda classificata, fissato per la trattazione nel merito alla pubblica udienza del 27 ottobre 2010, per cui ne consegue che la nota del 13 ottobre 2010 con cui Tecnimont aveva comunicato la propria volontà di sciogliersi da ogni vincolo con la stazione appaltante ex art. 13, non poteva in alcun modo impedire all'Anas di procedere all'escussione della cauzione. Per quanto concerne la seconda eccezione la stessa è palesemente contraddetta dalla delibera di messa in liquidazione del Consorzio stesso; nella suddetta delibera, infatti, è stato esplicitamente fatto presente che rientravano tra le attività, comunque in corso, del Consorzio in liquidazione tutte quelle riguardanti oltre i contratti in essere e descritti in senso al verbale del 2 maggio 2011 anche tutti i lavori aggiudicati e/o oggetto di contenzioso tra i quali quelli oggetto della presente controversia. Alla luce di tali argomentazioni, pertanto, entrambe le sollevate eccezioni non sono suscettibili di favorevole esame. Nel merito l'ubi consistam della presente controversia ha ad oggetto l'ambito di estensione dei poteri della mandataria di un rti costituitosi dopo l'aggiudicazione ed, in particolare, se rientra nei suddetti poteri anche quello di rinunciare all'aggiudicazione. Al riguardo il Consorzio ricorrente sostiene che tale potere di rinuncia non rientra tra quelli conferiti alla mandataria nella procura, in assenza di una esplicita previsione nella stessa, che nella fattispecie in esame è pacifico che non sussisteva. A sostegno di tale interpretazione ha richiamato il disposto dell'art. 37, comma 16, del D.lgvo n. 163/2006 il quale testualmente prevede che "Al mandatario spetta la rappresentanza esclusiva, anche processuale, dei mandanti nei confronti della stazione appaltante per tutte le operazioni e gli atti di qualsiasi natura dipendenti dall'appalto, anche dopo il collaudo, o atto equivalente, fino alla estinzione di ogni rapporto". Secondo la tesi ricorsuale tale rappresentanza esclusiva deve essere limitata unicamente a tutti gli atti meramente conseguenziali ed applicativi dell'aggiudicazione, quale è la stipula del CONTENZIOSO NAZIONALE 245 contratto, per cui essendo la rinuncia all'aggiudicazione palesemente estranea a tale categoria di atti, non può, in assenza di un'esplicita previsione, rientrare tout court nell'ambito dei poteri conferiti dalla legge alla mandataria, con la conseguenza che tale atto per essere valido ed efficace deve essere firmato da tutte le imprese che avevano firmato le offerte ovvero deve essere indicato esplicitamente nell'ambito della procura conferita alla capogruppo. La fondatezza della prospettazione di parte ricorrente è stata contestata da tutte le parti resistenti; al riguardo è stato fatto presente che: a) giusta quanto affermato dalla giurisprudenza il mandato conferito ex art. 37 è "un mandato con rappresentanza gratuito ed irrevocabile che legittima l'impresa capogruppo a compiere nei rapporti con l'amministrazione ogni attività giuridica connessa o dipendente dall'appalto e produttiva di effetti giuridici direttamente nei confronti delle imprese mandanti sino all'estinzione del rapporto; b) in tale contesto ne discende che l'impresa individuata quale mandataria del raggruppamento diviene, dunque, l'unico referente dell'amministrazione e, conseguentemente, l'unico soggetto in grado di manifestare all'amministrazione ogni volontà e determinazione negoziale del raggruppamento (e dunque anche delle singole mandanti) inerente il rapporto contrattuale (pag. 8 della memoria conclusionale Tecnimont). La tesi di parte resistente è stata avallata dal Consiglio di Stato il quale con ordinanza n. 3277/2011, nel riformare l'ordinanza della Sezione n. 2049/2011, ha affermato che "a norma dell'art. 37 del codice dei contratti pubblici rientra nei poteri della mandataria di associazione temporanea di imprese rinunziare all'aggiudicazione, tenuto conto che in virtù della connessa procura rilasciata a detta mandataria quest'ultima agisce anche in nome e per conto della mandante nell'ambito di un rapporto di mandato avente natura collettiva speciale ed irrevocabile, rilasciato anche nell'interesse della mandataria e della stazione appaltante e non soltanto della mandante". Così precisati i termini della controversia il Collegio osserva in primis che il menzionato art. 37 nel far riferimento testualmente a tutte le operazioni e gli atti di qualsiasi natura dipendenti dall'appalto, individua i poteri della mandataria con riferimento alla fase successiva all'avvenuta stipula del contratto di appalto, per cui non sembra automaticamente riferibile a quella fase procedurale che va dall'aggiudicazione alla stipula del contratto. Relativamente a tale fase deve essere fatto presente che: I) l'aggiudicazione è disposta a favore di tutti i componenti del raggruppamento temporaneo i quali hanno firmato l'offerta; II) ne discende che la rinuncia alla stipula del contratto risolvendosi in una sorta di rinuncia all'aggiudicazione, sulla base del principio della forma del contarius actus deve provenire da tutti i soggetti del rti, i quali, peraltro, a tal fine possono esplicitamente attribuire il suddetto potere alla mandataria. In tale contesto si tratta di vedere, quindi, se il menzionato potere di rinuncia debba essere ritenuto implicitamente sussistente nell'ambito dei poteri conferiti dalla legge alla mandataria in sede di costituzione dell'ati che era risultata aggiudicataria, in assenza di un esplicito riferimento allo stesso, come è dato individuare nella fattispecie in esame. Il Collegio sottolinea che il suddetto atto non rientra nell'ambito dei poteri della mandataria, atteso che la costituzione del rti, una volta intervenuta l'aggiudicazione, è finalizzata alla stipula del contratto, per cui ben può ritenersi, come evidenziato dal consorzio ricorrente, che i poteri concessi alla capogruppo si estendono per legge a tutte quelle attività conseguenti e successive a tale ultimo provvedimento e finalizzate unicamente a consentire la stipula del contratto. 246 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 Ad adiuvandum deve essere evidenziato che se la finalità della nomina della mandataria, come correttamente sottolineato dalla Tecnimont, è quella di avere per la stazione appaltante un unico referente per il rti, tuttavia, ciò non può mai comportare che la suddetta impresa venga ad essere titolare di poteri diversi ed ulteriori rispetto a quelli che ordinariamente sono ricompresi dalla legge nella procura o che i mandanti le hanno attribuito con tale atto, con la conseguenza che essendo la rinuncia all'aggiudicazione estranea ai poteri conferiti dalla legge alla mandataria, se pronunciata dalla mandataria in assenza di una esplicita previsione nella procura non può impegnare le altre imprese componenti dell'ati, con l'ulteriore conseguenza che la stazione appaltante è tenuta formalmente ad accertare se sussistono ancora gli estremi per procedere alla stipula del contratto, al fine di adottare i conseguenziali provvedimenti nei confronti delle imprese dell'ati aggiudicatrice che con il loro operato ne hanno impedito la stipula. Ciò premesso, i primi due motivi di doglianza sono fondati, ed il ricorso pertanto, deve essere accolto con assorbimento delle altre censure dedotte. Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del presente giudizio. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, Sezione III, definitivamente pronunciando sul ricorso n. 3942 del 2011, come in epigrafe proposto, lo accoglie, e, per gli effetti, annulla il gravato provvedimento. Spese compensate. Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 dicembre 2011. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO Impianto di termovalorizzazione di Acerra. Problematiche connesse al trasferimento della proprietà ed alla determinazione del “valore proprietario” dell’impianto. (Parere prot. 364831 del 17 novembre 2011, AL 42308/11, avv. ALDO LINGUITI) Con la nota in riscontro codesta Amministrazione ha chiesto il parere della Scrivente in ordine ai seguenti temi: A) fondatezza delle questioni di costituzionalità sollevate - dal TAR Lazio con ordinanza n. 1992/2010 circa gli articoli 6 e 7, commi 1, 2 e 3 del decreto legge 30 dicembre 2009 n. 195 convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2010 n. 26, in base ai quali il valore, ai fini del trasferimento di proprietà, dell’impianto termovalorizzatore di Acerra è fissato in 355 milioni di euro (art. 6), il trasferimento dovrà avvenire in favore della Regione Campania, ovvero alla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento Protezione Civile - o a soggetto privato (art. 7, comma 1), con risorse da individuare (art. 7, comma 2), previa detrazione del canone di affitto ricavato nei 12 mesi antecedenti il trasferimento, delle somme anticipate ai creditori vari del soggetto realizzatore dell’impianto (Soc. A.), delle somme anticipate per interventi funzionali all’esercizio dell’impianto sino al trasferimento della proprietà (art. 7, comma 3); - dal C.d.S. Sez. IV con ordinanza n. 5117/2011 circa l’art. 7, commi 4, 5 e 6 del decreto legge 30 dicembre 2009 n. 195 convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2010 n. 26, in base ai quali nelle more del trasferimento della proprietà codesta Amministrazione mantiene la piena disponibilità, utilizzazione e godimento dell’impianto ed è autorizzata a stipulare un contratto per l’affitto dell’impianto stesso, per una durata fino a 15 anni, contro prestazione di fideiussione da parte del proprietario dell’impianto a garanzia del debito dell’affittante 248 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 verso codesta Amministrazione per la somma anticipata da codesta Amministrazione al proprietario per pagamento di debiti verso creditori del realizzatore dell’impianto o per interventi funzionali all’esercizio dell’impianto (art. 7, comma 4), a codesta Amministrazione spettano i ricavi derivanti dalla vendita dell’energia elettrica prodotta dall’impianto facendosi altresì salvi i rapporti negoziali conclusi tra codesta Amministrazione ed il soggetto aggiudicatario della gestione dell’impianto (Soc. B) (art. 7, comma 5), il canone di affitto dell’impianto è fissato in euro 2.500.000,00 mensili stabilendosi che il contratto di affitto si risolve automaticamente col trasferimento della proprietà dell’impianto (art. 7, comma 6). B) Conseguenze di carattere indennitario e risarcitorio derivanti dalla eventuale pronunzia di illegittimità costituzionale delle norme di cui al punto A che precede. C) Conseguenze derivanti in termini di arricchimento dall’utilizzo di un bene altrui senza corresponsione di alcuna forma di ristoro. D) Legittimità del riconoscimento in sede transattiva di importi ulteriori rispetto a quello di 355 milioni di euro fissato dall’art. 6 del decreto legge n. 195/2009 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 26/2010, a titolo di rivalutazione all’attualità dell’indicato importo di 355 milioni di euro e di quanto ricavato per cessione di energia elettrica prodotta dall’impianto dal 2009 al 2011, con detrazione degli oneri affrontati da codesta Amministrazione per interventi di manutenzione straordinaria, pagamenti di portata debitoria ex art. 12 D.L. 90/2008 e art. 10 D.L. 272/2008 legati tanto alla costruzione dell’impianto realizzato dalla Soc. A., quanto agli oneri di affidamento curati dalla Soc. A. fino al 18 giugno 2008. Dalla nota in riscontro risulta che, senza aver fatto luogo al trasferimento di proprietà dell’impianto (rimasto quindi in capo alla realizzatrice Soc. A.), a seguito di apposita gara, l’attività di gestione dell’impianto è stata affidata da codesta Amministrazione alla Soc. B., per il periodo 2009-2011, stabilendosi convenzionalmente che gli oneri di gestione avrebbero trovato copertura nella quota del 49,9% degli introiti ricavati dalla cessione al Gestore Servizi Energetici (G.S.E.) di energia prodotta dall’impianto, mentre il residuo 50,1% sarebbe spettato a codesta Amministrazione. Il tutto in conformità a quanto previsto dagli artt. 25 e 27 del decreto legislativo n. 163/2006 per quanto attiene all’affidamento della gestione e ad apposita convenzione conclusa tra codesta Amministrazione e la G.S.E. per quanto attiene la cessione dell’energia prodotta dall’impianto ed il riparto degli introiti ricavatine. Risulta altresì da detta nota che non è stato concluso il contratto di affitto dell’impianto (né, conseguentemente, la prestazione di fideiussione da parte PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 249 del proprietario dell’impianto stesso previsto dall’art. 7, comma 4 D.L. n. 195/2009 convertito con L. n. 20/2010) a causa dell’opposizione della Soc. A. ad accettare le onerose condizioni di cui al ricordato art. 7, comma 4, rimesso al vaglio della Corte Costituzionale con la ordinanza del C.d.S. n. 5117/2011. - Con riguardo alla questione di legittimità costituzionale sollevata dal TAR Lazio con ordinanza n. 1992/2010 Ritiene la Scrivente che la norma di cui all’art. 6 D.L. 195/2009 integri gli estremi della norma-provvedimento, suscettibile di vaglio di legittimità costituzionale (v. Corte Costituzionale 62/93, 63/95). Sul merito ha ritenuto il TAR Lazio che tale norma, in quanto configurante sostanzialmente una espropriazione la cui determinazione autoritativa dell’indennità in misura (355 milioni di euro quale controvalore dell’impianto completo e funzionante) rapportata non al valore di mercato del bene al momento del trasferimento della proprietà (che peraltro era previsto dover intervenire tra l’inizio del 2010 ed il 31 dicembre 2011) ma al valore del bene nel periodo 2005 - 2006 possa integrare violazione del dettato dell’art. 117 Cost. perché non rispettosa del principio, dettato dall’art. 1 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, di giusto equilibrio tra il diritto del privato al rispetto dei propri beni e l’obiettivo dello Stato di realizzare fini di utilità sociale. Ha infatti ritenuto il TAR che l’indennità sia stata fissata in misura inferiore al valore venale del bene e che tale ridotta misura, trattandosi di espropriazione isolata non sia riconducibile alla realizzazione di obiettivi di riforma economico-sociale o di mutamento del contesto politico istituzionale, che, nella interpretazione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sarebbe l’unica ipotesi idonea a consentire indennità inferiori al valore di mercato del bene espropriando. Ritiene la Scrivente, in primo luogo che la determinazione della indennità di 355 milioni di euro non è esplicitamente riduttiva rispetto al valore di mercato del bene, giacchè tale ipotesi è frutto solo della valutazione del TAR che ha ritenuto incongruo il valore rispetto ad un valore di mercato (che la norma neppure indica) per il solo fatto che è stato ancorato ad una valutazione ENEA del 2006, sicchè la norma potrebbe sotto tale profilo non essere ritenuta illegittima. In secondo luogo, non sembra da trascurare, quand’anche si possa ritenere la indennità in questione riduttiva rispetto al valore di mercato, che dovrebbe verificarsi se il principio indicato nelle decisioni della CEDU con riguardo alla possibile riduzione della tutela della proprietà privata di cui all’art. 1 della Convenzione non debba allargarsi a comprendere altre ipotesi di riduzione delle indennità di esproprio rispetto al valore di mercato in forza della necessaria considerazione di prevalenza o equiordinazione 250 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 di esigenze di tutela di beni costituzionalmente protetti che la norma sottoposta al vaglio di legittimità ha tenuto presenti nel caso specificamente disciplinato. Al riguardo ritiene la Scrivente che la prolungata emergenza rifiuti in Campania ha posto capo ad una situazione igienico-sanitaria ed ambientale con notori riflessi sull’ordine pubblico che ha portato alla adozione delle iniziative di impulso di codesta Amministrazione (D.L. 90/2008 e D.L. 195/2009 - artt. 2, 3, 4 e 5) volte alla soluzione del problema concretatesi nella realizzazione del termovalorizzatore di Acerra, nella partecipazione di codesta Amministrazione agli oneri di suo completamento, nella sollecita sua messa in funzione e nella adozione anche dei provvedimenti normativi di trasferimento (artt. 6 e 7, commi 1, 2 e 3) oggetto della questione di costituzionalità sopra descritta. Gi interessi pubblici ispiratori di tali provvedimenti (tutela della salute pubblica, tutela dell’ordine pubblico) di sicuro interesse nazionale appaiono di tale rilevante gravità e valore costituzionale da poter giustificare anche l’eventuale riduzione dell’indennizzo espropriativo che venisse ravvisato nell’art. 6 del D.L. 195/2009, realizzando così un equo contemperamento con la tutela della proprietà privata. Tale tesi (che potrebbe riconoscersi anche nelle pronunzie che hanno più volte sollecitato la soluzione del grave problema igienico ambientale creato dalla emergenza rifiuti in Campania - Sent. Corte Giustizia n. 297/08 -) potrebbe consentire ragionevolmente di contestare l’illegittimità costituzionale dell’art. 6 che ha fissato in 355 milioni di euro il valore dell’impianto completo e funzionale ai fini del trasferimento della sua proprietà, da realizzarsi tra il 2010 ed il 31 dicembre 2011. Del pari non sembrano insuperabili le censure di illegittimità legate alla incertezza del destinatario del trasferimento (trattandosi di una incertezza temporanea e relativa - Stato o Regione Campania o altro soggetto privato - che non incide sul diritto del proprietario ad ottenere il giusto ristoro) o alla individuazione delle risorse occorrenti per l’erogazione dell’indennizzo (trattandosi di problema contabile di allocazione della spesa che il legislatore - art. 7, comma 2 - ha previsto debba comunque intervenire entro il 31 dicembre 2011 con apposito provvedimento normativo, che non sembra incidere sul diritto del proprietario ad ottenere il giusto ristoro). In conseguenza, pertanto, l’esborso per il trasferimento della proprietà dell’impianto potrebbe essere limitato alla disposta misura di euro 355 milioni, con esclusione del riconoscimento di ogni ulteriore importo, sempreché ciò intervenga entro il 31 dicembre 2011, apparendo legato al rispetto di tale data il limite dei 355 milioni di euro di corrispettivo indennitario. Ovviamente da tale importo andranno detratti gli importi anticipati da co- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 251 desta Amministrazione per soddisfare i creditori vari del soggetto realizzatore dell’impianto e per interventi funzionali all’esercizio dell’impianto sino al trasferimento della proprietà come previsto dall’art. 7, comma 3; mentre nessuna somma potrà essere detratta per i canoni di un affitto previsto sempre dall’art. 7, comma 3, ma di fatto non intervenuto. - Con riguardo alla questione di legittimità costituzionale sollevata dal C.d.S. con ordinanza n. 5117/2011 Ritiene la Scrivente che, ferma la ammissibilità del vaglio della Corte Costituzionale anche sulle disposizioni-provvedimento di cui all’art. 7, commi 4, 5 e 6 del D.L. 195/2009, effettivamente con tali disposizioni si realizza l’integrale ed immediata sottrazione della disponibilità dell’impianto in favore di codesta Amministrazione in danno del proprietario, senza il contestuale riconoscimento di alcun compenso (tale non potendosi considerare l’ipotetico ricavo dell’affitto dell’impianto peraltro, a tutt’oggi, non intervenuto), mentre per contro codesta Amministrazione si assicura la spettanza (art. 7, comma 5) dei ricavi derivanti dalla vendita dell’energia elettrica prodotta dall’impianto (ricavi che con apposita convenzione sono stati ripartiti tra codesta Amministrazione - 50,1% - e l’affidataria Soc. B. della gestione dell’impianto - 49,9%). Sembra pertanto che la questione al riguardo sollevata dal C.d.S. sia destinata ad accoglimento da parte della Corte Costituzionale. Nelle considerazioni che precedono trovano risposta i quesiti sopra riportati sotto le lettere A, B, C, D, del presente parere: risposte che qui si sintetizzano. - Per il trasferimento della proprietà dell’impianto completo e funzionale potrebbe limitarsi il riconoscimento alla somma di euro 355 milioni, depurata degli oneri affrontati da codesta Amministrazione per pagamenti ai creditori del realizzatore e per interventi funzionali all’esercizio dell’impianto fino al suo trasferimento, la cui entità codesta Amministrazione già conosce, come risulta dalla nota in riscontro. - Per la utilizzazione dell’impianto dall’anno dell’avvio del suo esercizio al suo trasferimento, occorrerà procedere al riconoscimento di tutto quanto ricavato dalla vendita di energia elettrica prodotta dall’impianto, depurato delle spese di gestione dell’impianto stesso, atteso che anche il proprietario non avrebbe potuto non affrontare tali spese. Tanto l’importo del ricavato, quanto l’importo delle spese di gestione da detrarre dal primo potranno avere quali parametri di riferimento i ricavati 252 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 delle vendite di energia elettrica ottenuti dalla Soc. B. nei confronti della acquirente G.S.E. e le spese di gestione. Sulle basi sopra prospettate, può, ad avviso della Scrivente, pervenirsi ad una composizione transattiva della vicenda, da concludere entro la data del 31 dicembre 2011. Il presente parere è stato sottoposto al Comitato Consultivo che lo ha approvato nella seduta del 16 novembre 2011. Modalità di riscossione dei crediti esattoriali. Interpretazione della disposizione sui solleciti di pagamento per crediti fino ad € 2.000 previsti dall’art. 7 comma 2 gg-quinquies del D.L. n. 70/2011. (Parere prot. 401712 del 14 dicembre 2011, AL 37910/11, avv. GIANNI DE BELLIS) L’art. 7 comma 2 gg-quinquies del D.L. n. 70/2011 (nel testo introdotto dalla legge di conversione n. 106/2011), ha disposto che “in tutti i casi di riscossione coattiva di debiti fino a Euro duemila ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, intrapresa successivamente alla data di entrata in vigore della presente disposizione, le azioni cautelari ed esecutive sono precedute dall’invio, mediante posta ordinaria, di due solleciti di pagamento, il secondo dei quali decorsi almeno sei mesi dalla spedizione del primo”. Con la nota in riferimento codesta Agenzia ha chiesto il parere della Scrivente in ordine alla corretta interpretazione della disposizione, con particolare riferimento: a) alla possibilità di computare nella soglia dei 2000 Euro anche gli accessori del credito (interessi) e le spese spettanti all’Agente della riscossione; b) alla possibilità di computare nella medesima soglia anche eventuali altri crediti vantati dall’Agente nei confronti del medesimo debitore. Sotto il primo profilo occorre considerare, come peraltro evidenziato nella nota in riferimento, che in diverse disposizioni del D.P.R. n. 602/1973 (in particolare negli artt. 76 e 77) si richiama il concetto di “importo complessivo del credito”. Più esplicitamente l’art. 3 comma 3 del D.M. 18 gennaio 2008 n. 40, emanato in base all’art. 48 bis comma 2 del D.P.R. n. 602/1973, dispone che “Nel caso previsto dal comma precedente la comunicazione di cui al comma 2 dell'articolo 2 contiene l'indicazione dell'ammontare del debito del beneficiario per cui si è verificato l'inadempimento, comprensivo delle spese esecutive e degli interessi di mora dovuti ”. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 253 Da ultimo il legislatore nell’art. 7 comma 2 lettera gg-decies) del D.L. n. 70/2011, ha previsto che “gg-decies) a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, l’agente della riscossione non può iscrivere l’ipoteca di cui all’articolo 77 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, come modificato, da ultimo, dalla lettera u-bis) del presente comma, se l’importo complessivo del credito per cui lo stesso procede è inferiore complessivamente a:[…] ”. Appare allora evidente che: a) l’importo degli interessi non può che essere ricompreso nel limite di 2000 Euro; oltre ad evidenti esigenze di sistematicità (in quanto la normativa sopra citata fa sempre riferimento all’importo complessivo del credito), non si giustificherebbe una disparità di trattamento tra due soggetti tenuti a pagare la stessa somma, per il solo fatto che per uno gli interessi siano di importo maggiore, tale da far scendere sotto la soglia il credito capitale (in tal caso, peraltro, verrebbe paradossalmente avvantaggiato il soggetto debitore da un più lungo periodo). È vero che talvolta le norme attribuiscono rilievo al solo tributo al netto degli interessi (si veda l’art. 16 comma 3 lett. c) della legge n. 289/2002, tornato applicabile alle c.d. “liti minori” con l’art. 39 comma 12 del D.L. n. 98/2011). In tali casi però l’importo assumeva rilievo per la definizione di giudizi di cognizione. La norma del 2011 sopra citata afferisce invece alle modalità di riscossione dei crediti, con la conseguente irrilevanza della distinzione tra capitale ed interessi (tenuto altresì conto che per il debitore ciò che rileva è l’importo complessivo che egli è tenuto a pagare). Le suesposte considerazioni portano a ritenere ricomprese nel tetto dei 2000 Euro, anche le spese spettanti all’Agente della riscossione. In altri termini il riferimento ai “debiti fino ad Euro duemila” previsto dal citato art. 7 a parere della Scrivente va inteso come somma che il debitore è tenuto complessivamente a pagare. b) Anche la soluzione del secondo quesito va rinvenuta nell’ambito dei principi sopra richiamati. Il prevedere che il riferimento al tetto di 2000 Euro debba riguardare ciascuna voce di debito (rectius: cartella) e non invece l’intero credito (esigibile) vantato dall’Agente (e per la cui riscossione è abilitato a procedere ad esecuzione forzata), porterebbe ad una ingiustificata disparità di trattamento tra soggetti debitori della stessa somma di un unico importo superiore alla soglia (che sarebbero esclusi dall’applicazione della norma di favore) ed altri debitori il cui credito complessivo – anch’esso superiore alla soglia – sia costituito da diverse (e, in ipotesi, numerose) cartelle ciascuna di importo inferiore (i quali beneficerebbero invece della nuova normativa). Ciò in una situazione in cui (come confermato per vie brevi), l’Agente della 254 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 riscossione intraprende un’unica azione esecutiva sulla base del complesso dei crediti (esigibili) vantati nei confronti di ciascun debitore. Occorre da ultimo considerare che la nuova disposizione si pone come derogatoria al principio generale della sollecita riscossione dei crediti pubblici, che trova la sua fonte in principi costituzionali. La Corte Costituzionale ha infatti costantemente affermato che “l'esecuzione esattoriale è regolata come un procedimento nel quale si manifesta energicamente il principio della esecutorietà dell'atto amministrativo per assicurare la sollecita riscossione delle imposte, nel preminente interesse costituzionale di garantire il regolare svolgimento della vita finanziaria dello Stato” (sentenza 10 luglio 1975 n. 195; ord.za 26 luglio 1988 n. 916 ecc.). In sostanza la norma, ancorché rispetto alla procedura esattoriale rappresenti un'eccezione, va interpretata alla luce sia dei principi scaturenti dal diritto dell'Unione europea (principio di proporzionalità e del divieto di aggravamento del procedimento) che dei principi costituzionali. In conclusione anche sotto tale profilo questa Avvocatura ritiene che la disposizione in oggetto debba essere interpretata nel senso che la deroga alla sollecita riscossione coattiva del credito, sia limitata ai soli casi in cui il debitore sia tenuto al pagamento di un importo complessivo ricompreso nel limite di 2000 Euro. La questione è stata sottoposta all'esame del Comitato Consultivo dell’Avvocatura dello Stato di cui all’art. 26 della legge 3 aprile 1979 n. 103, che si è espresso in conformità. Convenzione tra la Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria - e la RAI per la trasmissione di programmi televisivi in lingua tedesca e ladina nella Provincia autonoma di Bolzano. Art. 2 commi 106-125 della Legge 191/2009 (Finanziaria 2010). Concorso negli oneri. (Parere prot. 402119 del 14 dicembre 2011, AL 13169/11, avv. FABRIZIO FEDELI) Con la nota in riferimento codesto Dipartimento ha domandato l’avviso della Scrivente in merito alla condotta da tenere nei rapporti contrattuali con la RAI, derivanti dalla convenzione attualmente in vigore per la trasmissione di programmi televisivi in lingua tedesca e ladina nella Provincia autonoma di Bolzano e ai fini del subingresso, in tali rapporti, della Provincia. In particolare, si chiede di conoscere il parere di questa Avvocatura sui seguenti punti: a) se tra le funzioni delegate nell’ambito del processo di attuazione del PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 255 federalismo fiscale debbano intendersi ricomprese quelle relative alle trasmissioni di lingua tedesca e ladina di competenza della sede RAI di Bolzano, tenuto conto, da un lato, che la disposizione contenuta nella legge finanziaria 2010 (art. 2, comma 123, L. n. 191/2009) non le richiama espressamente facendo un mero rinvio a “gli ulteriori oneri specificati mediante accordo tra il Governo e la provincia autonoma di Bolzano” e, dall’altro lato, che con deliberazione del 30 dicembre 2010, la Giunta provinciale di Bolzano, nelle more della definizione delle norme di attuazione, ha deliberato, nell’ambito del contributo di 100 milioni di cui alla legge finanziaria 2010 per il concorso al conseguimento degli obiettivi di perequazione, di assumere l’onere finanziario di 15 milioni di euro riferito alle trasmissioni di lingua tedesca e ladina di competenza della sede RAI di Bolzano; b) ove le suddette competenze in materia radiotelevisiva siano da intendersi ricomprese tra le funzioni delegate, se l’onere finanziario da parte della Provincia di Bolzano debba intendersi assunto a decorrere dal 1° gennaio 2010 (come sembrerebbe evincersi dalle disposizioni contenute nella legge finanziaria) e, conseguentemente, su quale soggetto (Presidenza del Consiglio dei ministri o Provincia autonoma di Bolzano) gravi l’onere di provvedere al pagamento a favore della RAI del corrispettivo previsto in convenzione per l’anno 2010 (da liquidare nel 2011), nonché per le successive annualità 2011 e 2012, laddove in tale arco temporale non siano state ancora emanate le norme di attuazione della delega; c) se, nelle more della definizione delle norme di attuazione, i rapporti contrattuali con la RAI continuino ad essere regolati sulla base delle condizioni e modalità previste nella convenzione in essere (in relazione al numero delle ore trasmesse, alla consegna dei palinsesti, all’attività di monitoraggio, alla fatturazione e liquidazione dei corrispettivi, ecc.), ivi comprese le comunicazioni che la Presidenza del Consiglio dei Ministri deve effettuare entro i due mesi precedenti la scadenza di ogni esercizio finanziario per comunicare alla RAI le condizioni economiche alle quali intende continuare a fruire delle prestazioni previste nella convenzione per l’anno successivo; d) se si ritenga necessario o quanto meno opportuno, nelle more della definizione delle norme di attuazione, avviare il procedimento di subingresso della Provincia di Bolzano nei rapporti tra la Presidenza del Consiglio dei Ministri e la RAI e attraverso quali modalità. In proposito, la Scrivente osserva quanto segue. L’art. 2 comma 107 lett. h) della Legge 23 dicembre 2009 n. 191 ha modificato l’art. 79 dello Statuto di autonomia disponendo un concorso finanziario della Provincia al riequilibrio della finanza pubblica, nella misura di 100 milioni di euro, a decorrere dal 2010, “mediante l’assunzione di oneri relativi all’esercizio di funzioni statali, anche delegate, definite d’intesa con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, nonché con il finanziamento di iniziative e pro- 256 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 getti, relativi anche ai territori confinanti, complessivamente in misura pari a 100 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2010 per ciascuna provincia”. In base allo Statuto il concorso finanziario della Provincia può riguardare, quindi, sia funzioni delegate e sia funzioni non delegate che rimangono di competenza dello Stato e tradursi nell’assunzione di deleghe o nella mera assunzione di oneri (in tal senso si è espressa anche la Giunta Provinciale di Bolzano nella delibera n. 2169 del 30 dicembre 2010). Il comma 123 dell’art. 2 della L. n. 191/2009 indica, nei limiti sopra descritti, gli ambiti di spesa statale il cui onere può essere assunto dalla Provincia, nel finanziamento della Libera Università di Bolzano, nei costi di funzionamento del Conservatorio “Claudio Monteverdi” di Bolzano, in quelli relativi al servizio di spedizione e recapito postale nell’ambito provinciale e nel finanziamento di infrastrutture di competenza dello Stato sul territorio provinciale, nonché negli ulteriori oneri specificati mediante accordo con il Governo. Ad avviso della Scrivente, le competenze del Dipartimento per l’Editoria in materia di trasmissioni in lingua tedesca e ladina nella Provincia di Bolzano, non espressamente nominate dall’art. 2, commi 122 e 124, della L. n. 191/2009, non rientrano tra le funzioni delegate alla Provincia (1), ma tra quelle per le quali la norma prevede un concorso negli “ulteriori oneri specificati mediante accordo tra il Governo ...e la Provincia autonoma di Bolzano” (art. 2, comma 123, L. n. 191/2009). Ad opinare in senso contrario non si potrebbe invocare il comma 125 dell’art. 2 della L. n. 191/2009 nella parte in cui allude a “l’esercizio delle funzioni delegate di cui ai commi 122, 123 e 124”; il comma 125, infatti, è una norma di natura esclusivamente transitoria finalizzata a regolare i rapporti tra lo Stato e la Provincia fino all’emanazione delle norme di attuazione che disciplinano le funzioni delegate; non sembra, quindi, che il comma 125 abbia lo scopo di trasformare tutte le materie di cui ai commi precedenti in funzioni delegate anche perché, per quanto concerne gli oggetti regolati dal comma 123, ci troveremmo in presenza di una delega “anomala” con limite di spesa. Appare inevitabile, quindi, la conclusione secondo cui l’inserimento del comma 123 tra le norme che prevedono funzioni delegate, all’interno del comma 125 dell’art. 2 della L. n. 191/2009, non abbia altra valida spiegazione se non quella di un difetto di coordinamento normativo, poiché se il comma 123 avesse voluto prefigurare una delega di funzioni e non un mero concorso negli oneri lo avrebbe disposto espressamente (come avvenuto nei commi 122 e 124). L’accordo cui fa riferimento il comma 123 della L. n. 191/2009 può rin- (1) Non risulta, infatti, dai commi 122 e 124 della L. n. 191/2009, che le funzioni in materia di trasmissioni radiofoniche e televisive in lingua tedesca e ladina per la Provincia di Bolzano, regolate mediante convenzione con la RAI ai sensi degli artt. 19 e 20 della L. n. 103/1975, siano state delegate alla Provincia. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 257 venirsi nell’atto stipulato il 30 novembre 2009 tra lo Stato, le Province autonome di Trento e di Bolzano e la Regione Trentino Alto Adige/Suedtirol (recepito nei contenuti dalla Legge 23 dicembre 2009 n. 191, cfr. delibera della Giunta Provinciale di Bolzano n. 2169 del 30 dicembre 2010), per il coordinamento della finanza pubblica nell’ambito del processo di attuazione del federalismo fiscale, in attuazione dell’art. 119 della Costituzione, il quale prevede, al punto 5, “l’assunzione da parte della Provincia autonoma di Bolzano, nella misura massima di cui all’art. 79, comma 1, lettera c), del D.P.R. n. 670 del 1972 degli oneri riferiti… alle trasmissioni di lingua tedesca e ladina di competenza della sede RAI di Bolzano ...”. In conclusione, alla stregua delle cennate disposizioni sembra potersi affermare che, per quanto riguarda le trasmissioni di programmi televisivi in lingua tedesca e ladina, la Legge finanziaria 2010 (art. 2 comma 123 L. n. 191/2009) ha previsto non una delega delle funzioni ma un concorso negli oneri da parte della Provincia di Bolzano, come specificato nell’accordo del 30 novembre 2009 (punto 5), che si potrà attuare mediante decurtazione dei trasferimenti erariali. Ad avviso della Scrivente, dunque, i rapporti contrattuali con la RAI continueranno a essere regolati sulla base delle condizioni e modalità previste dalla Convenzione in vigore con codesta Presidenza del Consiglio - sulla quale grava l’onere di provvedere al pagamento del corrispettivo - in relazione al numero delle ore trasmesse, alla consegna dei palinsesti, all’attività di monitoraggio, alla fatturazione e liquidazione dei corrispettivi, ivi comprese le comunicazioni che la Presidenza del Consiglio dei Ministri è tenuta ad effettuare entro due mesi precedenti la scadenza di ogni esercizio finanziario per comunicare alla RAI le condizioni economiche alle quali intende continuare a fruire delle prestazioni previste nella convenzione per l’anno successivo. L’assunzione del finanziamento delle trasmissioni in lingua tedesca e ladina da parte della Provincia di Bolzano, che decorre dal 1° gennaio 2010 (art. 2 comma 125 L. n. 191/2009) potrà essere disciplinata, nella tempistica e nelle modalità, mediante un atto integrativo della Convenzione da stipularsi tra codesta Presidenza del Consiglio dei Ministri, la Provincia e la R.A.I.. Sulla questione oggetto del presente parere è stato sentito l’avviso del Comitato Consultivo che si è espresso in conformità. 258 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 Valutazione della bozza di determina avente ad oggetto l’individuazione di Telecom S.p.A. quale fornitore e partner tecnologico dei servizi di comunicazioni elettroniche usufruiti dall'Amministrazione di Pubblica Sicurezza. (Parere prot. 409380 del 20 dicembre 2011, AL 49888/11, avv. MAURIZIO BORGO) Con nota del 12 dicembre 2011, prot. n. 600/Segr/3576/2011, codesto Dicastero ha chiesto di conoscere l’avviso della Scrivente in merito al contenuto di una bozza di determina avente ad oggetto l’individuazione di Telecom S.p.A. quale fornitore e partner tecnologico di tutti i servizi di comunicazioni elettroniche, attualmente usufruiti dall'Amministrazione di Pubblica Sicurezza (vengono menzionati, in via esemplificativa, il servizio CIFRA, il servizio Batteria di Governo, la rete nazionale per il servizio trasmissione dati, il sistema di comunicazione fra il Dipartimento di Pubblica Sicurezza e tutti gli Uffici delle Forze di Polizia sul territorio, il collegamento con le Prefetture, i collegamenti con le altre Forze di polizia e con gli Organismi di Sicurezza Nazionale, soprattutto per il profilo della lotta al terrorismo e della sicurezza interna, le banche dati di polizia che supportano anche gli altri collaterali organismi europei, il servizio di interoperabilità con le reti in ponte radio interpolizie e, da ultimo, la gestione del nuovo servizio 112 NUE previsto dalla normativa europea). Al proposito, codesto Ministero, nelle premesse in fatto della bozza di determina, evidenzia che, per effetto della Convenzione sottoscritta in data 26 febbraio 2003 anche al fine di risolvere transattivamente una serie di controversie insorte in relazione alla esecuzione di una serie di contratti intercorsi fra le parti, la Telecom S.p.A. eroga, per conto del Dipartimento di Pubblica Sicurezza, tutti i servizi di telefonia fissa e di trasmissione dati, gestisce in regime di outsourcing le centrali telefoniche, il servizio di posta elettronica, i servizi di amministrazione e sicurezza della rete nonché i servizi di telefonia mobile. Si soggiunge che nell’ambito degli accordi raggiunti con la menzionata Convenzione la Telecom S.p.A. ha assunto l’impegno di supportare codesta P.A. nell’individuazione delle “migliori soluzioni architetturali e tecnologiche di Information e Communication Tecnology finalizzate ad una evoluzione tecnologica dei servizi forniti in linea con gli standard di mercato (art. 4.1. della Convenzione) ed in una logica di contenimento degli oneri economici e di ottimizzazione tecnico-economica delle risorse già acquisite (art. 7 della succitata Convenzione). Ciò premesso in punto di fatto, codesto Ministero - richiamata la normativa comunitaria (cfr. in particolare art. 31 della direttiva 2004/18/CE del 31 marzo 2004 e, più specificamente, art. 28, punto 1), lett. e) della direttiva 2009/81/CE del 13 luglio 2009 relativa al coordinamento delle procedure per l’aggiudicazione di taluni appalti di lavori, di forniture e di servizi nei settori della difesa e della sicurezza da parte delle amministrazioni aggiudicatrici/degli PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 259 enti aggiudicatori, e recante modifica delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE) che contempla, in termini peraltro molto ristretti, la possibilità per le P.A. aggiudicatrici di procedere all’affidamento di appalti di servizi senza previo esperimento di gara - puntualizza che le ragioni che militano nel senso della scelta dell’affidamento diretto alla Società Telecom S.p.A. del nuovo contratto sono correlate alle seguenti considerazioni: a) il fornitore, legato da rapporti convenzionali con l’Amministrazione procedente, è l’unico operatore in grado di utilizzare conoscenze, strumenti e mezzi specifici, da questi espressamente elaborati e messi a disposizione dell’Amministrazione, alcuni dei quali, come ad esempio software specifici per il coordinamento dei servizi e dei sistemi, protetti da diritti di esclusiva; b) nel caso di svolgimento di una procedura di gara - in disparte ogni considerazione sul possesso dei requisiti di idoneità tecnica come sopra individuati - l’eventuale affidamento ad operatori alternativi (comunque ristretti nel novero di quelli operanti sul territorio nazionale data la particolarità del settore considerato) comporterebbe la necessità di modifiche e riconfigurazioni dei sistemi e dei servizi, ed in modo particolare di quelli oggetto di attività di integrazione e coordinamento attraverso le strutture del Sistema di Supervisione Integrato - Si.S.In. (di esclusiva proprietà del pregresso fornitore), tali da impedire, se non al prezzo, a condizioni economiche sproporzionate e con tempi tecnici non compatibili con la necessità di una assoluta continuità dei servizi afferenti alla sicurezza, la ricerca di soluzioni che possano condurre alla scelta di diverso contraente; c) i processi di integrazione logistica hanno comportato l’emersione e la definizione di specifici requisiti di interoperabilità finalizzati alle esigenze di sicurezza che non possono essere derogati dall’Amministrazione procedente, e la cui ridefinizione ed applicazione a servizi/sistemi erogati da altri fornitori comporterebbe una manifesta sproporzione in termini di efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa tale da rendere non conveniente, se non addirittura dannoso, il ricorso a procedure concorrenziali; d) l’art. 1, punto 9) della direttiva 2009/81 CE definisce “materiale sensibile, lavori sensibili e servizi sensibili: materiali, lavori e servizi destinati alla sicurezza che comportano, richiedono e/o contengono informazioni classificate” e che pertanto si tratta di apparecchiature e servizi che, per quanto riguarda questo aspetto, sono trattati alla stessa stregua degli appalti della difesa. Al fine di rendere la richiesta consultazione, occorre, in primo luogo, individuare il parametro normativo alla luce del quale procedere alla valutazione della bozza di determina, meglio indicata in oggetto. Al proposito, questo Generale Ufficio ritiene, per le ragioni che si andranno qui di seguito ad esporre, che la normativa di riferimento vada individuata nella direttiva 2009/81/CE del 13 luglio 2009, relativa al coordinamento delle procedure per l’aggiudicazione di taluni appalti di lavori, di forniture e di servizi nei settori della difesa e della sicurezza da parte delle amministra- 260 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 zioni aggiudicatrici/degli enti aggiudicatori e recante modifica delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE, il cui termine di recepimento è venuto a scadere in data 21 agosto 2011 (la direttiva è stata, peraltro, recepita nell’ordinamento nazionale con il decreto legislativo 15 novembre 2011, n. 208, pubblicato sulla G.U.R.I. del 16 dicembre 2011, n. 292). Quanto alla diretta applicabilità delle disposizioni della predetta direttiva nelle more dell’entrata in vigore del decreto legislativo di recepimento (che avverrà in data 15 gennaio 2012), questo Generale Ufficio ritiene che la stessa possa essere affermata in considerazione della natura self-executing delle disposizioni della direttiva cui si farà riferimento nel prosieguo del presente parere. 1. La direttiva 2009/81/CE: genesi ed ambito di applicazione. Come noto, la materia degli appalti pubblici è regolata, in ambito comunitario, dalla direttiva 2004/18/Ce, approvata dal Parlamento europeo e dal Consiglio il 31 marzo 2004 (direttiva, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, recepita nel nostro ordinamento con il Codice dei contratti pubblici di cui al D.Lgs. n. 163/06). Il campo di applicazione di tale direttiva (capo II), è limitato sia con riferimento al valore economico dell’appalto, sia dal punto di vista materiale; il campo di applicazione rationae materiae della direttiva è il seguente: la direttiva non si applica ad una serie di appalti “esclusi” (artt. da 12 a 18); fra questi appalti “esclusi” figurano “gli appalti segreti o che esigono particolari misure di sicurezza”. L’art. 14, infatti, stabilisce che la direttiva “non si applica agli appalti pubblici che sono dichiarati segreti, quando la loro esecuzione deve essere accompagnata da speciali misure di sicurezza secondo le disposizioni legislative, regolamentari o amministrative vigenti nello Stato membro di cui trattasi o quando ciò è necessario ai fini della tutela di interessi essenziali di tale Stato membro”. Prima dell’entrata in vigore della direttiva 2009/81/CE, gli appalti pubblici aggiudicati nei settori della difesa e della sicurezza, rientravano, pertanto, nel campo di applicazione della direttiva 2004/18/CE. Nella realtà, tuttavia, gli Stati membri raramente hanno applicato la direttiva 2004/18/CE nel settore della difesa e della sicurezza; essi, il più delle volte, si sono avvalsi delle deroghe previste dall’art. 296 del Trattato CE (oggi, art. 346 TFUE) e dall’art. 14 della direttiva 2004/18/CE, per applicare le rispettive norme nazionali in materia di appalti; tali norme, essendo sostanzialmente diverse le une dalle altre, costituiscono degli ostacoli all’integrazione del mercato su scala continentale: le imprese incontrano enormi difficoltà per partecipare ad una gara d’appalto indetta in uno Stato membro diverso da quello in cui sono stabilite e gli Stati membri difficilmente possono acquistare i prodotti dalle imprese non nazionali sulla base di criteri economici. Gli Stati PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 261 non possono sfruttare i vantaggi in termini di rapporto qualità/prezzo derivanti da una sana competizione; le industrie, non operando in un contesto competitivo, non sono incentivate a migliorare i propri processi produttivi e la qualità dei prodotti offerti; in questo modo le industrie europee perdono terreno nei confronti dei concorrenti extraeuropei, nordamericani in particolare. Il ricorso pressoché sistematico alle deroghe è avvenuto nonostante la Corte di Giustizia abbia più volte stabilito che il ricorso alle deroghe del diritto comunitario, ivi compresa quella prevista all’art. 296, deve essere limitato ad ipotesi eccezionali e chiaramente definite. Il comportamento degli Stati era, tuttavia, giustificato, seppure in parte, dal fatto che la direttiva 2004/18/CE non prende adeguatamente in considerazione le esigenze specifiche che certi acquisti di beni e di servizi devono soddisfare nei settori della difesa e della sicurezza. La nuova direttiva (2009/81/CE) mira a soddisfare il bisogno manifestato dagli Stati, e dagli attori economici del settore, di un nuovo quadro legislativo europeo adeguato all’aggiudicazione degli appalti pubblici sensibili in materia di sicurezza e difesa, in particolare garantendo la sicurezza delle informazioni, degli approvvigionamenti e una maggiore flessibilità delle procedure di aggiudicazione degli appalti. La direttiva 2009/81/CE si basa, in larga misura, sull’architettura e sulla filosofia della direttiva 2004/18/CE ma presenta un certo numero di specificità adattate alle caratteristiche degli appalti pubblici sensibili nel campo della difesa e della sicurezza, a cominciare dal campo di applicazione. Il campo di applicazione della direttiva (art. 2) è stato a lungo discusso in sede di negoziato. L’oggetto dell’intenso dibattito è stata l’inclusione, nell’ambito di applicazione della direttiva, del settore della sicurezza non militare. Alcuni Stati membri, fra cui la Germania e il Regno Unito, si sono espressi con diffidenza a tale estensione. Secondo la visione di questi Stati, estendere l’applicazione della direttiva al settore della sicurezza, in assenza di una definizione comune del termine “sicurezza”, avrebbe comportato un esplicito e indesiderato effetto di armonizzazione del concetto di sicurezza nazionale. Anche il “Gruppo di lavoro del Consiglio dell’Ue sul terrorismo” ha espresso alcune perplessità in merito alle disposizioni relative alla pubblicità e alla trasparenza dei contratti relativi ai beni della sicurezza. In un documento diffuso da questo gruppo di lavoro si avvisa che “la protezione delle informazioni sensibili utilizzate nell’ambito della lotta al terrorismo non sarebbe più assicurata in caso di applicazione della direttiva”. Per esempio, se l’autorità competente di uno Stato membro decidesse di acquisire un nuovo sistema di intercettazione, in conformità con la nuova direttiva, dovrebbe pubblicare il contratto di fornitura, contenente informazioni sensibili relative alle capacità tecniche in uso nel campo delle intercettazioni ambientali. Queste informazioni potrebbero essere utilizzate dai terroristi per sviluppare equipaggiamenti in 262 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 grado di eludere le attività investigative. Gli interessi essenziali di sicurezza degli Stati membri non sarebbero così adeguatamente salvaguardati. Ovviamente uno Stato membro è sempre libero di invocare l’art. 296 ma questa possibilità non è ritenuta una garanzia sufficiente a causa dell’incertezza giuridica sulla sua applicazione. In sostanza, chi era contrario all’estensione del campo di applicazione al settore della sicurezza, chiedeva o la non applicazione della direttiva ai contratti nel campo della sicurezza o, almeno, la predisposizione di disposizioni volte a scongiurare l’obbligo di fornire informazioni la cui diffusione sia idonea a compromettere gli interessi essenziali di sicurezza. Tale posizione è rafforzata dall’assenza di una definizione comune di “sicurezza”; armonizzare le regole per l’acquisizione dei beni finalizzati alla sicurezza, avrebbe comportato un indesiderato effetto di armonizzazione del concetto di sicurezza. Al contrario, altri Stati membri si sono da subito dimostrati favorevoli ad estendere l’applicazione della direttiva al settore della sicurezza. L’Italia, per esempio, ha ritenuto che l’inclusione del settore della sicurezza, “doterebbe le Forze di Polizia di uno strumento particolarmente agile e funzionale ai fini della più celere acquisizione di beni e servizi ad alta tecnologia, suscettibili di impiego dual-use, indispensabili all’azione di prevenzione e repressione del terrorismo”. La tesi favorevole all’inclusione si basa su due considerazioni, una di natura strettamente giuridica, l’altra politico-strategica. Dal punto di vista giuridico, come si è visto, i beni non propriamente militari, secondo l’interpretazione della Commissione e della Cgce, sono esclusi dall’ambito di applicazione dell’art. 296. Ciò comporta che gli acquisti di beni ad opera di enti non militari, come per esempio le Forze di Polizia, così come gli acquisti di beni dual-use, dovrebbero essere regolamentati dalla direttiva per gli appalti pubblici civili, uno strumento non adeguato ad equipaggiamenti sensibili. La nuova direttiva garantisce una protezione maggiore delle informazioni sensibili rispetto a quanto non sia possibile con la direttiva 2004/18/Ce. L’inclusione del procurement non militare sarebbe in sintonia con la più recente giurisprudenza della CGCE (restrizione dell’area di applicazione dell’art. 296); al contrario, una sua esclusione potrebbe incoraggiare un ricorso eccessivo all’art. 296 da parte degli Stati membri, esponendoli così alle procedure di infrazione. Considerando le disposizioni della direttiva 2004/18/CE da un lato, e la giurisprudenza della CGCE sui limiti di applicabilità dell’art. 296 dall’altro, l’esclusione del settore della sicurezza dal campo di applicazione della nuova direttiva, paradossalmente, avrebbe l’effetto di indebolire la sicurezza durante i processi di acquisizione. Dal punto di vista strategico, l’emergere della minaccia terroristica e la natura delle odierne crisi internazionali, comportano un impiego, sempre più comune, di mezzi civili e militari. In altre parole, il confine fra il settore della difesa e quello della sicurezza è sempre più sfumato. A livello politico, una PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 263 forte e competitiva base industriale e tecnologica di difesa europea, fondamento di un’efficace PESD, non può costituirsi separando le diverse entità operanti al suo interno; se così fosse l’European Defence Technological and Industrial Base (Edtib) risulterebbe indebolita sul piano dell’occupazione, della dimensione del mercato e della circolazione delle conoscenze. A livello operativo, l’Unione Europea si è fatta promotrice di un modello di intervento nelle aree di crisi fondato su una stretta connessione fra componente militare e di sicurezza, il che presuppone una certa interoperabilità fra le due componenti. A livello industriale, i maggiori gruppi industriali attivi nel mercato della difesa forniscono beni sia per la difesa che per la sicurezza; se si considerano i sottosistemi, spesso lo stesso bene può essere utilizzato a fini di difesa così come di sicurezza. A livello tecnologico, le innovazioni sono spesso applicabili in entrambi i settori, specialmente laddove siano prevalenti le componenti elettroniche. A favore dell’inclusione, si è espressa la Commissione europea, secondo la quale “le forze di sicurezza utilizzano equipaggiamenti che, da un punto di vista tecnologico, sono spesso paragonabili a quelle militari. Di conseguenza, gli acquisti per la sicurezza sono caratterizzati sempre più da una sensibilità, in particolare in termini di complessità e riservatezza, che li assimila agli acquisti destinati alla difesa”. Per quanto riguarda il settore della sicurezza (non militare), in assenza di una definizione condivisa del concetto di sicurezza, nel testo definitivo si è volutamente evitato un riferimento diretto alla sicurezza dell’Unione e dei suoi Stati membri. Nel corpo della direttiva si è preferito utilizzare i termini “materiale sensibile”, “lavori sensibili” e “servizi sensibili”, definiti all’art. 1 come “materiale, lavori e servizi destinati alla sicurezza che comportano, richiedono e/o contengono informazioni classificate”. Qui assume una decisiva importanza la definizione di “informazione classificata” che la direttiva fornisce, sempre all’art. 1, nei seguenti termini: “qualsiasi informazione o materiale, a prescindere da forma, natura o modalità di trasmissione, alla quale è stato attribuito un determinato livello di classificazione di sicurezza o un livello di protezione e che, nell’interesse della sicurezza nazionale e in conformità delle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative in vigore nello Stato membro interessato, richieda protezione contro appropriazione indebita, distruzione, rimozione, divulgazione, perdita o accesso da parte di un soggetto non autorizzato o contro qualsiasi altro tipo di pregiudizio”. 2. La bozza di determina avente ad oggetto l’individuazione di Telecom S.p.A. quale fornitore e partner tecnologico dei servizi di comunicazioni elettroniche usufruiti dall'Amministrazione di Pubblica Sicurezza: riconducibilità all’ambito di applicazione della direttiva 2009/81 CE. 264 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 Alla luce di quanto evidenziato al precedente punto 1. in ordine, in particolare, all’ambito di applicazione della direttiva 2009/81 CE, occorre chiedersi se l’oggetto della bozza di determina di cui alla richiesta di consultazione trovi, in concreto, la propria disciplina nella direttiva sopra menzionata. Al proposito, la Scrivente ritiene debba darsi risposta positiva al predetto quesito atteso che dalla documentazione, allegata alla richiesta di parere, emerge come i servizi, affidati a Telecom S.p.A. ed oggetto della Convenzione del dicembre 2002, siano qualificabili, almeno nella stragrande maggioranza, in termini di “servizi sensibili” ovvero di “servizi destinati alla sicurezza che comportano, richiedono e/o contengono informazioni classificate”. Peraltro, si osserva che anche quei servizi che, a rigore, non sarebbero qualificabili in termini di “servizi sensibili” e che, come tali, esulerebbero dall’ambito di applicazione della direttiva 2009/81 CE, sono, pur tuttavia, assoggettati alla disciplina di cui alla predetta direttiva in forza della disposizione della direttiva relativa agli “appalti misti”; al proposito, la direttiva prevede, all’art. 3, che, per quanto riguarda gli “appalti misti”, ovvero quegli appalti aventi come oggetto lavori, forniture o servizi che rientrano solo in parte nell’ambito di applicazione della direttiva 2009/81/CE, essi ne siano esclusi se la parte non rientrante nell’ambito di applicazione della nuova direttiva è esclusa anche dall’ambito di applicazione della normativa comunitaria in materia di appalti c.d. “civili” (direttive 2004/18 e 2004/17); ne sono, invece, soggetti se la parte non rientrante nell’ambito di applicazione della nuova direttiva, è soggetta all’applicazione di una delle due direttive c.d. “civili”. 3. La procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando di gara nella direttiva 2009/81 CE. Sussistenza dei presupposti per l’affidamento diretto del nuovo contratto avente ad oggetto i servizi di comunicazioni elettroniche usufruiti dall'Amministrazione di Pubblica Sicurezza nei confronti di Telecom S.p.A.. 3.1. La direttiva 2009/81 CE, al fine di conferire maggiore flessibilità alle amministrazioni aggiudicatrici negli appalti pubblici della difesa e della sicurezza, prevede quattro procedure di aggiudicazione: procedura ristretta, procedura negoziata con pubblicazione del bando di gara, dialogo competitivo e procedura negoziata senza pubblicazione del bando di gara. L’inserimento della procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando di gara è volto a proteggere le informazioni sensibili, laddove le altre procedure non lo consentono. Il ricorso a tale procedura è ammesso quando la pubblicazione del bando di gara comporterebbe la diffusione di informazioni che potrebbero essere utilizzate contro l’interesse pubblico, in particolare contro gli interessi in materia di difesa e/o di sicurezza. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 265 Peraltro, può farsi luogo all’affidamento diretto solo in casi specifici, elencati all’art. 28 della direttiva: 1) nel caso degli appalti di lavori, forniture e servizi: a) qualora non sia stata presentata alcuna offerta o alcuna offerta appropriata o non sia stata depositata alcuna candidatura in esito all’esperimento di una procedura ristretta, una procedura negoziata previa pubblicazione di un bando di gara o un dialogo competitivo, purché le condizioni iniziali dell’appalto non siano sostanzialmente modificate e purché una relazione sia trasmessa alla Commissione a richiesta di quest’ultima; b) in caso di offerte irregolari o di deposito di offerte inaccettabili secondo le disposizioni nazionali compatibili con gli articoli 5, 19, 21, 24 e con il capo VII del titolo II, presentate in esito all’esperimento di una procedura ristretta, di una procedura negoziata con pubblicazione di un bando di gara o di un dialogo competitivo, nella misura in cui: i) le condizioni iniziali dell’appalto non sono sostanzialmente modificate; e ii) essi includono nella procedura negoziata tutti, e soltanto, gli offerenti in possesso dei requisiti di cui agli articoli da 39 a 46 che, nella procedura ristretta o nel dialogo competitivo precedenti, hanno presentato offerte conformi ai requisiti formali della procedura di aggiudicazione; c) quando l’urgenza risultante da situazioni di crisi non sia compatibile con i termini previsti dalla procedura ristretta e dalla procedura negoziata con pubblicazione di un bando di gara, compresi i termini ridotti di cui all’articolo 33, paragrafo 7. Ciò può applicarsi, ad esempio, ai casi di cui all’articolo 23, paragrafo 2, lettera d); d) nella misura strettamente necessaria, quando per motivi di estrema urgenza, risultanti da eventi imprevedibili per le amministrazioni aggiudicatrici/gli enti aggiudicatori in questione, non è possibile osservare i termini imposti dalla procedura ristretta o negoziata con pubblicazione di un bando di gara, compresi i termini ridotti di cui all’articolo 33, paragrafo 7. Le circostanze invocate per giustificare l’estrema urgenza non devono essere in alcun caso imputabili all’amministrazione aggiudicatrice/ all’ente aggiudicatore; e) qualora, per ragioni di natura tecnica ovvero attinenti alla tutela di diritti esclusivi, l’appalto possa essere affidato unicamente ad un operatore economico determinato; 2) nel caso degli appalti di servizi e di forniture: a) per servizi di ricerca e sviluppo diversi da quelli menzionati all’articolo 13; b) per prodotti fabbricati unicamente a fini di ricerca e di sviluppo, fatta eccezione per la produzione in quantità volta ad accertare la redditività commerciale del prodotto o ad ammortizzare i costi di ricerca e sviluppo; 3) nel caso degli appalti di forniture: a) nel caso di consegne complementari effettuate dal fornitore originario e destinate o al rinnovo parziale di forniture o di impianti di uso corrente oppure all’ampliamento di forniture o impianti esistenti, qualora il cambiamento di fornitore obbligherebbe l’amministrazione aggiudicatrice/l’ente aggiudicatore ad acquistare materiali con caratteristiche tecniche differenti il cui impiego o la cui manutenzione comporterebbero incompatibilità o difficoltà tecniche sproporzionate. La durata di tali contratti e dei contratti rinnovabili non può superare i cinque anni, salvo in circostanze eccezionali, determinate tenendo conto della prevista durata di vita di qualsiasi prodotto, impianto o sistema fornito e alle difficoltà tecniche che possono es- 266 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 sere causate dal cambiamento di fornitore; b) per forniture quotate e acquistate sul mercato delle materie prime; c) per l’acquisto di forniture a condizioni particolarmente vantaggiose, da un fornitore che cessa definitivamente l’attività commerciale oppure dal curatore o liquidatore di un fallimento, di un concordato preventivo o di una procedura analoga prevista nelle legislazioni o regolamentazioni nazionali; 4) nel caso degli appalti di lavori e di servizi: a) per i lavori o i servizi complementari, non compresi nel progetto inizialmente preso in considerazione né nel contratto iniziale, che sono divenuti necessari, a seguito di circostanze impreviste, per l’esecuzione dei lavori o dei servizi quali ivi descritti, a condizione che siano aggiudicati all’operatore economico che esegue tali lavori o presta tali servizi: b) qualora tali lavori o servizi complementari non possano essere separati, sotto il profilo tecnico o economico, dall’appalto iniziale senza recare gravi inconvenienti all’amministrazione aggiudicatrice/ all’ente aggiudicatore; oppure c) qualora tali lavori o servizi, pur essendo separabili dall’esecuzione dell’appalto iniziale, siano strettamente necessari al suo perfezionamento. Tuttavia, l’importo cumulato degli appalti aggiudicati per lavori o servizi complementari non può superare il 50 % dell’importo dell’appalto iniziale; d) per nuovi lavori o servizi consistenti nella ripetizione di lavori o servizi analoghi già affidati all’operatore economico aggiudicatario dell’appalto iniziale dalle medesime amministrazioni aggiudicatrici/enti aggiudicatori, a condizione che tali lavori o servizi siano conformi a un progetto di base e che tale progetto sia stato oggetto di un primo appalto aggiudicato secondo la procedura ristretta, la procedura negoziata con pubblicazione di un bando di gara o un dialogo competitivo. La possibilità di valersi di questa procedura è indicata sin dall’avvio del confronto competitivo nella prima operazione e l’importo totale previsto per la prosecuzione dei lavori o della prestazione dei servizi è preso in considerazione dalle amministrazioni aggiudicatrici/ dagli enti aggiudicatori per l’applicazione dell’articolo 8. Il ricorso a questa procedura è limitato ai cinque anni successivi alla conclusione dell’appalto iniziale, salvo in circostanze eccezionali, determinate tenendo conto della prevista durata di vita di qualsiasi prodotto, impianto o sistema fornito e delle difficoltà tecniche che possono essere causate dal cambiamento di fornitore; 5) nel caso degli appalti aventi per oggetto servizi di trasporto aereo e marittimo per le forze armate o le forze di sicurezza di uno Stato membro di stanza o che devono essere stanziate all’estero, quando l’amministrazione aggiudicatrice/l’ente aggiudicatore deve procurarsi tali servizi da operatori economici che garantiscono la validità delle loro offerte solo per periodi così brevi che non è possibile rispettare il termine per la procedura ristretta o la procedura negoziata con pubblicazione di un bando di gara, compresi i termini ridotti di cui all’articolo 33, paragrafo 7. 3.2. Tra le ipotesi di cui al superiore elenco, l’unica che possa attagliarsi alla fattispecie che ci occupa è indubbiamente quella di cui al punto 1), lettera e), richiamata nella bozza di determina, laddove si fa riferimento alla circostanza che “per ragioni di natura tecnica ovvero attinenti alla tutela di diritti PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 267 esclusivi, l’appalto possa essere affidato unicamente ad un operatore economico determinato”. Tale previsione, peraltro riproduttiva di quella contenuta all’art. 31 della direttiva 2004/18 (recepita nel nostro ordinamento con l’art. 57 del D.Lgs. n. 163/2006), sembra assumere, con riferimento agli appalti pubblici della difesa e della sicurezza, una valenza del tutto peculiare; circostanza, quest’ultima, che induce questo Generale Ufficio a pervenire a conclusioni rinnovate, pur non in contrasto, rispetto al parere del 9 luglio 2008, prot. n. 88073, espresso con riferimento alla possibilità di affidare a Telecom S.pA. l’incarico di sviluppare il progetto di unificazione del Servizio di Emergenza Pubblica Obbligatorio in attuazione di quanto prescritto dall’Unione Europea. Al proposito, particolarmente interessante risulta il Considerando n. 52 della direttiva 2009/81 CE in cui si precisa che “Può accadere che, per talune forniture rientranti nell’ambito di applicazione della presente direttiva, un solo operatore economico sia in grado di eseguire l’appalto perché titolare di diritti esclusivi o per ragioni tecniche. In tal caso, l’amministrazione aggiudicatrice/ l’ente aggiudicatore dovrebbe poter aggiudicare appalti o accordi quadro direttamente a quell’operatore economico. Tuttavia, le ragioni tecniche in base alle quali un solo operatore economico può eseguire un appalto dovrebbero essere rigorosamente definite e giustificate caso per caso. Esse potrebbero comprendere, ad esempio, l’impossibilità rigorosamente tecnica che un candidato diverso dall’operatore economico selezionato consegua gli scopi richiesti o la necessità di utilizzare conoscenze, strumenti o mezzi specifici di cui solo un unico operatore dispone. Si può trattare, ad esempio, di modifiche o riconfigurazioni di materiale particolarmente complesso. Le ragioni tecniche possono anche derivare da requisiti specifici di interoperabilità o sicurezza che devono essere soddisfatti per garantire il funzionamento delle forze armate o delle forze di sicurezza”. Orbene, pare alla Scrivente che - ferma restando la esclusiva competenza di codesta Amministrazione in ordine alla valutazione dei profili tecnici afferenti l’appalto - codesto Ministero abbia, nella bozza di determina, allegata alla richiesta di consultazione, argomentatamente esposto gli anzidetti profili, in base ai quali un solo operatore economico (nella specie, Telecom S.p.A.) possa eseguire i servizi di comunicazioni elettroniche usufruiti dall'Amministrazione di Pubblica Sicurezza. Più in particolare, nella parte motiva della bozza di determina, si precisa che “il fornitore, legato da rapporti convenzionali con l’Amministrazione procedente, è l’unico operatore in grado di utilizzare conoscenze, strumenti e mezzi specifici, da questi espressamente elaborati e messi a disposizione dell’Amministrazione, alcuni dei quali, come ad esempio software specifici per il coordinamento dei servizi e dei sistemi, protetti da diritti di esclusiva”; ed ancora che “nel caso di svolgimento di una procedura di gara - in disparte 268 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 ogni considerazione sul possesso dei requisiti di idoneità tecnica come sopra individuati - l’eventuale affidamento ad operatori alternativi (comunque ristretti nel novero di quelli operanti sul territorio nazionale data la particolarità del settore considerato) comporterebbe la necessità di modifiche e riconfigurazioni dei sistemi e dei servizi, ed in modo particolare di quelli oggetto di attività di integrazione e coordinamento attraverso le strutture del Si.S.In (di esclusiva proprietà del pregresso fornitore), tali da impedire, se non al prezzo, a condizioni economiche sproporzionate e con tempi tecnici non compatibili con la necessità di una assoluta continuità dei servizi afferenti alla sicurezza, la ricerca di soluzioni che possano condurre alla scelta di diverso contraente”; ed infine che “i processi di integrazione logistica hanno comportato l’emersione e la definizione di specifici requisiti di interoperabilità finalizzati alle esigenze di sicurezza che non possono essere derogati dall’Amministrazione procedente, e la cui ridefinizione ed applicazione a servizi/sistemi erogati da altri fornitori comporterebbe una manifesta sproporzione in termini di efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa tale da rendere non conveniente, se non addirittura dannoso, il ricorso a procedure concorrenziali ”. Questo Generale Ufficio ritiene che le predette giustificazioni sembrano adeguatamente assolvere quell’onere probatorio, cui ha fatto riferimento, in diverse occasioni, la giurisprudenza comunitaria, formatasi sul punto. A tal riguardo, deve evidenziarsi che, anche in tempi recenti (cfr. sentenza Corte di Giustizia delle Comunità europee, Grande Sezione dell’8 aprile 2008 nella causa C-337/2005), la giurisprudenza comunitaria ha avuto modo di ribadire: 1) che “le deroghe alle norme miranti a garantire l’efficacia dei diritti conferiti dal Trattato nel settore degli appalti pubblici devono essere interpretate restrittivamente (v. sentenze 18 maggio 1995, causa C-57/94, Commissione/ Italia, Racc. pag. I-1249, punto 23; 28 marzo 1996, causa C-318/94, Commissione/Germania, Racc. pag. I-1949, punto 13, e 2 giugno 2005, causa C-394/02, Commissione/Grecia, Racc. pag. I-4713, punto 33)”; 2) che, “pena la privazione dell’effetto utile della direttiva 93/36, gli Stati membri non possono quindi introdurre ipotesi di ricorso alla procedura negoziata non previste dalla direttiva medesima o aggiungere alle ipotesi espressamente previste dalla direttiva in esame nuove condizioni aventi l’effetto di rendere più agevole il ricorso a detta procedura (v., in tal senso, sentenza 13 gennaio 2005, Commissione/ Spagna, citata, punto 48)”; 3) che “l’onere di dimostrare che sussistono effettivamente le circostanze eccezionali che giustificano una deroga grava su colui che intenda avvalersene (v. sentenze 10 marzo 1987, causa 199/85, Commissione/Italia, Racc. pag. 1039, punto 14, e Commissione/Grecia, citata supra, punto 33)”. Nel caso deciso con la prefata sentenza, la Corte di Giustizia ha concluso nel senso che “è giocoforza rilevare che la Repubblica italiana non ha dimo- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 269 strato in modo sufficientemente valido in diritto la ragione per cui solamente gli elicotteri prodotti dall’Agusta sarebbero dotati delle specificità tecniche richieste. Tale Stato membro, inoltre, si è limitato a sottolineare i vantaggi dell’interoperabilità degli elicotteri adoperati dai suoi diversi corpi. Tuttavia, non ha dimostrato sotto quale profilo un cambiamento di fornitore l’avrebbe costretto ad acquisire un materiale fabbricato secondo una tecnica differente, tale da comportare un’incompatibilità ovvero difficoltà tecniche di uso o di manutenzione sproporzionate”. Orbene, nel caso che ci occupa, sembra, alla Scrivente, che, ritenuto quanto esposto da codesto Ministero, emerga la sussistenza del presupposto, a dire il vero particolarmente rigoroso, che, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia U.E., consente di procedere all’affidamento diretto; in altre parole, nel caso che ci occupa, sembra venire in rilievo la “impossibilità rigorosamente tecnica che un candidato diverso dall’operatore economico selezionato consegua gli scopi richiesti ” nonché “la necessità di utilizzare conoscenze, strumenti o mezzi specifici di cui solo un unico operatore dispone” di cui è fatta menzione nel Considerando n. 52 della direttiva 2009/81 CE. La fattispecie, che ci occupa, sembra trovare attinenza, in termini concreti, all’ipotesi cui si fa riferimento, in via esemplificativa, nel predetto Considerando, laddove si parla di “modifiche o riconfigurazioni di materiale particolarmente complesso” (particolare complessità che può essere, all’evidenza, predicata in relazione alla architettura, soprattutto informatica, dei sistemi di telecomunicazione). A quanto sopra, si aggiunga che, nel caso di specie, risultano valorizzati quei “requisiti specifici di interoperabilità e sicurezza che devono essere soddisfatti per garantire il funzionamento delle forze di sicurezza”, cui si fa riferimento nel più volte citato Considerando n. 52 della direttiva 2009/81 CE. Da ultimo, si evidenzia che, in forza della disposizione di cui all’art. 3 della direttiva, disciplinante gli appalti misti, cui si è fatto cenno in chiusura del punto 2 del presente parere, l’affidamento diretto potrà riguardare anche quei servizi che, a rigore, non sarebbero qualificabili in termini di “servizi sensibili” e che, come tali, esulerebbero dall’ambito di applicazione della direttiva 2009/81 CE. 4. L’ammissibilità della scelta della conclusione di un accordo quadro. Per completezza, questo Generale Ufficio rappresenta come appaia praticabile, dal punto di vista giuridico, la scelta, operata da codesto Ministero, di pervenire alla stipula con Telecom S.p.A. di un accordo quadro. Al proposito, si osserva che gli appalti nel settore della difesa e della sicurezza possono essere aggiudicati, secondo le medesime procedure più sopra menzionate, anche in conformità alle disposizioni di accordi quadro (framework agreements) conclusi dagli enti aggiudicatori; un accordo quadro è un “accordo concluso tra una o più amministrazioni aggiudicatrici e uno o più 270 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 operatori economici al fine di stabilire le clausole relative agli appalti da aggiudicare durante un determinato periodo, in particolare per quanto riguarda i prezzi e, se del caso, le quantità previste ” (art. 1.11 della direttiva). Riservata a codesta Amministrazione la valutazione circa la durata dell’accordo quadro in esame (il quale, salvo casi eccezionali, non può avere una durata superiore ai sette anni), appare necessario espungere, al punto a) del dispositivo della determina, l’aggettivo “presumibile”, utilizzato con riferimento alla durata dell’accordo quadro da stipularsi con Telecom S.p.A.. Inoltre, in relazione al regime I.V.A., applicabile all’appalto che ci occupa, si suggerisce, in considerazione delle recenti modifiche legislative intervenute sul punto, di indicare, al punto b) del dispositivo della determina, un più generico riferimento all’aliquota I.V.A. “secondo la normativa vigente”. Ciò posto sotto il profilo giuridico, resta ovviamente nell’esclusiva competenza di codesta Amministrazione la determinazione amministrativa in ordine alla scelta della procedura di affidamento indicata. Occorre, comunque, sottolineare l’opportunità che codesta Amministrazione adotti tempestivamente, rispetto alla futura scadenza dell’efficacia dell’accordo quadro, ogni iniziativa idonea a ricercare una soluzione alternativa per l’affidamento dei servizi in oggetto, anche al fine di verificare la praticabilità, da un punto di vista tecnico, di altre modalità procedurali quale, per esempio, quella del dialogo competitivo. Sulla questione è stato sentito il Comitato Consultivo dell'Avvocatura dello Stato, che, nella seduta del 19 dicembre 2011, si è espresso in conformità. Conflitto di interessi tra Amministrazioni ammesse al patrocinio dell’Avvocatura dello Stato. (Parere prott. 414390-94 del 23 dicembre 2011, AL 49986/11, avv. WALLY FERRANTE) Con nota 9 dicembre 2011, prot. n. 0032098/P indirizzata all’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Milano, l'Autorità per l'energia elettrica e il gas ha rappresentato una situazione di conflitto di interessi tra la medesima Autorità indipendente e l'Istat in relazione al ricorso proposto innanzi al Tar Lombardia da numerosi dipendenti della predetta Autorità, i quali hanno impugnato la delibera AEEG 12 maggio 2011, GOP 20/11, con la quale è stata data applicazione alle disposizioni relative al trattamento economico dei dipendenti contenute nel decreto legge 31 maggio 1013, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010, n. 122. In particolare, è stato segnalato che, con il predetto ricorso, proposto anche nei confronti dell'Istat, è stato chiesto l'annullamento dell'inclusione del- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 271 l'Autorità nell'elenco delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato, elenco redatto dal predetto Istituto ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, tenuto conto che le disposizioni contenute nella deliberazione impugnata, che hanno inciso sul trattamento economico dei dipendenti, operano un esplicito riferimento alle amministrazioni incluse nell'elenco in questione. Riferisce sempre l'Autorità che la sua inclusione nel predetto elenco, in quanto ritenuta illegittimamente disposta dall'Istat, era stata in precedenza fatta oggetto di autonomo ricorso innanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio (R.G. 10650/2010). Poiché tale giudizio (rinviato all’udienza di merito del 10 gennaio 2012) è ancora pendente ed è quindi operante a tutti gli effetti il predetto elenco, dello stesso si era ritenuto di tener doverosamente conto nel provvedimento attuativo del decreto legge n. 78/2010, fatto oggetto di impugnativa nel giudizio promosso innanzi al Tar Lombardia dai propri dipendenti. È stato, altresì, precisato che, a suo tempo, in relazione alla proposizione del ricorso innanzi al Tar Lazio, l'Autorità non si era potuta giovare del patrocinio erariale per esservi conflitto d'interesse con l’Istat, ammesso anch’esso in forza di patrocinio autorizzato ex art. 43 R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611 alla rappresentanza e difesa in giudizio da parte dell'Avvocatura dello Stato, segnalando, inoltre, che di tale patrocinio l'Istat aveva in precedenza usufruito in relazione a giudizi promossi da altri enti, nessuno dei quali peraltro autorizzato ad avvalersi del patrocinio erariale ed in relazione a ricorsi che si fondavano su motivi non coincidenti con quelli fatti valere dall'Autorità. Segnatamente, in alcuni di questi giudizi i ricorrenti facevano valere la loro natura di soggetti di diritto privato, mentre, in altri veniva contestata la possibilità che gli enti ricorrenti potessero essere qualificati come istituzioni a scopo di lucro controllati dalla pubblica amministrazione. L'Autorità ha segnalato, pertanto, che anche nel giudizio promosso ad istanza dei propri dipendenti innanzi al Tar Lombardia si riproponeva il conflitto di interessi tra la stessa e l’Istat, che si sostanziava nella manifesta impossibilità, nell'ambito dell'attività difensiva che avrebbe dovuto svolgere in giudizio l'Avvocatura dello Stato, di sostenere proprio la legittimità dell'inclusione dell'Autorità nell'elenco predisposto dall'Istat che era invece contestata dall'Autorità medesima. Stante tale situazione, l’Autorità rappresenta l'opportunità che, ove non si ritenga di superare il conflitto di interessi privilegiando la difesa istituzionale dell'Autorità medesima, sia quantomeno declinata la difesa erariale ad entrambe le parti in causa, Autorità ed Istat, le quali potranno eventualmente avvalersi, per il proprio patrocinio in giudizio, di legali del libero foro, sollecitando in tal senso le determinazioni dell'Avvocatura dello Stato in relazione a quanto prospettato. Per completezza, va sottolineato che, con ricorso al Tar Lazio notificato 272 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 il 24 novembre 2011 (R.G. 9981/11 con udienza cautelare fissata per il 10 gennaio 2012), l’Autorità ha impugnato anche l’inserimento nel citato elenco redatto dall’Istat per l’anno 2011, avvalendosi di legali del libero foro. Con nota del 10 dicembre 2011 prot. 86759P, l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Milano ha chiesto all’Avvocatura Generale di pronunciarsi in merito a quanto prospettato dall’Autorità per l’energie elettrica e il gas, rivestendo la questione profili di carattere generale. La questione di massima sulla quale viene chiesto l’avviso della Scrivente consiste nello stabilire se, in caso di conflitto tra un'amministrazione ammessa istituzionalmente al patrocinio obbligatorio dell'Avvocatura dello Stato e altra amministrazione pubblica che si avvale del patrocinio erariale ex art. 43 R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, debba essere accordata la difesa erariale all’amministrazione istituzionalmente rappresentata e difesa dall’Avvocatura dello Stato, negandola al soggetto pubblico ammesso al patrocinio autorizzato, ovvero, se debba essere declinato il patrocinio erariale ad entrambe le parti pubbliche, che per la loro difesa in giudizio si potranno avvalere di legali del libero foro. In proposito, va preliminarmente rilevato che, come noto, l’Autorità per l'energia elettrica e il gas, pur dovendosi qualificare quale soggetto pubblico estraneo in senso tecnico all'apparato amministrativo dello Stato che fa capo ai Ministeri ed al Governo (cfr. T.A.R. - Lombardia, Sez. III, 10 aprile 2009, n. 3239), rientra a pieno titolo, come le altre Autorità indipendenti, fra le amministrazioni dello Stato istituzionalmente rappresentate e difese dall'Avvocatura dello Stato ai sensi dell’art. 1 R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611 (Cons. Stato, Sez. VI, 2 marzo 2004, n. 926; id. 25 novembre 1994, n. 1716). Si tratta, del c.d. patrocinio obbligatorio, i cui tratti distintivi <> (Cass., Sez. Unite, sent. 10 maggio 2006, n. 10700). Per contro, la rappresentanza e difesa in giudizio dell'Istat da parte dell'Avvocatura dello Stato (ammesso al patrocinio erariale ex art. 15, comma 5, del D.Lgs. 6 settembre 1989, n. 322) si configura quale patrocinio c.d. autorizzato ex art. 43 R.D. n. 1611/1933, che “si distingue da quello obbligatorio, previsto per le amministrazioni dello Stato (anche se organizzate ad ordinamento autonomo) dagli articoli da 1 a 11, sia in ragione della fonte, costituita per il primo da una espressa autorizzazione normativa, sia per i più limitati PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 273 effetti processuali, consistenti, in virtù dell'espresso richiamo, nell'art. 45, all'art. 1, comma 2, nella sola esclusione della necessità del mandato. Il mancato richiamo agli artt. 6 ed 11 determina infatti l'inapplicabilità del foro dello Stato (art. 25 c.p.c.) e della domiciliazione presso l'Avvocatura ai fini della notificazione di atti e provvedimenti giudiziali (art. 144 c.p.c.), previsti per le sole amministrazioni dello Stato” (Cass., Sez. Un., sent. 10700/2006 cit.). Da quanto fin qui rilevato, emerge che, in caso di richiesta di patrocinio da soggetto ricadente nell’ipotesi di patrocinio obbligatorio e da soggetto ricadente nell’ipotesi di patrocinio autorizzato, debba in linea generale assumersi la difesa del soggetto a patrocinio obbligatorio. In termini generali, va pure per completezza considerato che, nel caso di conflitto tra enti ammessi al patrocinio autorizzato, potrà essere di norma consigliabile declinare la difesa di entrambi. Resta quindi da affrontare lo specifico quesito prospettato, che non appare inquadrabile in alcuna delle ipotesi fin qui considerate e che, in termini astratti, pare insuscettibile di univoca soluzione, dovendosi di volta in volta tener conto dell’interesse del quale è portatore ciascuno dei soggetti interessati, dando la prevalenza a quello che sia portatore di un interesse di carattere generale riconducibile all’Amministrazione statale. Nello specifico caso in esame, va appunto rilevato che, mentre l’Autorità si è fatta portatrice di un interesse particolare - volto a dimostrare l’illegittimità della sua inclusione nell’elenco delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato - l’Istat, nel redigere il predetto elenco, svolge una funzione di interesse pubblico generale nell’ambito degli adempimenti demandati alle autorità statistiche nazionali degli Stati membri ai sensi del Regolamento CE n. 2223/96 del 25 giugno 1996 del Consiglio relativo al “Sistema europeo dei conti nazionali e regionali nella Comunità UE” (c.d. Regolamento SEC95). In tale contesto, il Regolamento 223/09, all’art. 5, stabilisce che ciascuno Stato membro designi l’autorità statistica nazionale che, quale organo avente la responsabilità del coordinamento a livello nazionale di tutte le attività connesse allo sviluppo, alla produzione e alla diffusione di statistiche europee (“INS”), costituisca l’interlocutore della Commissione (Eurostat) per le questioni statistiche e che, insieme a quest’ultima, contribuisca a comporre il sistema statistico europeo - SSE. L’Istat, pertanto, predispone ed aggiorna il suddetto elenco, secondo criteri e per finalità di natura statistico-economica, in diretto adempimento della normativa comunitaria. Ai sensi dell’art. 1, comma 5 della legge 30 dicembre 2004, n. 311 e come ribadito dall’art. 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196 (legge di contabilità e finanza pubblica), il Legislatore ha conferito all’Istat il compito di individuare, di anno in anno, l’elenco delle amministrazioni pubbliche o degli altri 274 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 soggetti giuridici che vanno ricondotti al conto economico consolidato dello Stato al fine di perseguire l’obiettivo del contenimento del disavanzo pubblico in ossequio agli adempimenti derivanti dagli impegni dello Stato italiano nei confronti dell’Unione Europea in materia di patto di stabilità. Appare evidente quindi che l’Istat, nella fattispecie, è portatore di un interesse generale di contenimento e razionalizzazione della spesa pubblica coincidente con quello dello Stato, tanto è vero che, in tutti i giudizi promossi da vari enti per contestare la propria inclusione nell’elenco de quo, il ricorso è stato proposto anche nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Nel caso di specie, inoltre, va tenuto conto del fatto che l'Avvocatura dello Stato ha già espresso il proprio avviso negativo (nota del 22 ottobre 2010, n. 322926) in ordine alla possibilità di assumere la difesa in giudizio dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas in relazione all’instaurazione di una controversia innanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio nei confronti dell’Istat, avente problematiche di diritto analoghe a quelle prospettate con il ricorso promosso dai dipendenti dell'Autorità avanti al Tar Lombardia, assumendo per contro il patrocinio dell’Istat, sul presupposto della sostanziale sovrapponibilità della linea difensiva da predisporre per il suddetto Istituto e quella da approntare per la Presidenza del Consiglio dei Ministri e per il Ministero dell’Economia e delle Finanze. Tutto ciò, nel caso di specie - e fatti salvi i principi generali sopra enucleati, in relazione al privilegio che in linea di massima deve essere accordato ai soggetti patrocinati ex art. 1 R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611 - rende impossibile assumere il patrocinio dell’Autorità e suggerisce invece di accordare la rappresentanza e difesa all’Istat. Infatti, l’Avvocatura, costituendosi comunque per le Amministrazioni statali portatrici del sostanziale interesse pubblico del quale l’Istat costituisce mero strumento, si porrebbe in posizione almeno potenzialmente confliggente con quella di cui si è fatta portatrice l’Autorità. (...) Al riguardo vorrà pertanto codesta Avvocatura Distrettuale valutare l’opportunità di intervenire nel giudizio anche per le due suddette amministrazioni statali, alle quali nella specie il ricorso non risulta essere stato notificato nonostante l’evidente coinvolgimento di interessi pubblici di competenza delle stesse, come emerge anche dalla espressa impugnazione del parere del Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato dell’11 gennaio 2011 in merito all’applicabilità delle disposizioni di cui al decreto legge n. 78/2010 alle Autorità indipendenti. Sui profili di massima della presente questione, si è espresso in conformità il Comitato Consultivo nella seduta del 19 dicembre 2011. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 275 Legge 1293/57: cause di esclusione dalla gestione delle rivendite di generi di monopolio. Sul carattere tassativo della elencazione contenuta nella normativa. (Parere prot. 417024 del 27 dicembre 2011, AL 39235/11, avv. GABRIELLA PALMIERI) 1. Con la nota che si riscontra codesta Amministrazione chiede a questa Avvocatura se, alla stregua del potere discrezionale esercitato nella gestione del rapporto concessorio con i rivenditori di generi di monopolio, possano, in base a un’interpretazione sistematica della normativa in materia e senza ledere il principio di tipicità delle sanzioni, essere considerate, quali cause di esclusione dalla gestione dei magazzini di vendita, in base all’art. 6 della legge 22 dicembre 1957, n. 1293, recante “Organizzazione dei servizi di distribuzione e vendita dei generi di monopolio”, ulteriori ipotesi non espressamente contemplate in tale articolo e, quindi, se l’elencazione in esso contenuta abbia carattere tassativo. 2. Preliminarmente occorre riepilogare il quadro normativo di riferimento. L’art. 6, intitolato “cause di esclusione dalla gestione dei magazzini di vendita”, della legge 22 dicembre 1957, n. 1293, recante “Organizzazione dei servizi di distribuzione e vendita dei generi di monopolio”, dispone che: “Non può gestire un magazzino chi: 1) sia minore di età, salvo che non sia autorizzato all’esercizio di impresa commerciale; 2) non abbia la cittadinanza di uno degli Stati membri delle Comunità europee; 3) sia inabilitato o interdetto; 4) sia stato dichiarato fallito fino a che non ottenga la cancellazione dal registro dei falliti; 5) non sia immune da malattie infettive o contagiose; 6) abbia riportato condanne: a) per offese alla persona del Presidente della Repubblica ed alle Assemblee legislative; b) per delitto punibile con la reclusione non inferiore nel minimo ad anni tre, ancorché, per effetto di circostanze attenuanti, sia stata inflitta una pena di minore durata ovvero per delitto per cui sia stata irrogata una pena che comporta l’interdizione perpetua dai pubblici uffici; c) per delitto contro il patrimonio, la moralità pubblica, il buon costume, la fede pubblica, la pubblica Amministrazione, l’industria ed il commercio, tanto se previsto dal Codice penale quanto da leggi speciali ove la pena inflitta sia superiore a trenta giorni di reclusione ovvero ad una multa commutabile, a norma del Codice penale, nella reclusione non inferiore a trenta giorni a meno che, in entrambi i casi, il condannato non goda della sospensione della pena; d) per contrabbando, qualunque sia la pena inflitta; 7) abbia nei precedenti cinque anni rinunciato alla gestione di un magazzino; 8) abbia definito in sede amministrativa procedimento per contrabbando di generi di monopolio a suo carico. È in facoltà dell’Amministrazione consentire la gestione quando siano trascorsi almeno cinque anni dall’avvenuta estinzione del reato; 9) sia stato rimosso dalla qualifica di gestore, coadiutore o commesso di un magazzino 276 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 o di una rivendita, ovvero da altre mansioni inerenti a rapporti con l’Amministrazione dei monopoli di Stato, se non siano trascorsi almeno cinque anni dal giorno della rimozione; 9-bis) non abbia conseguito, entro sei mesi dall’assegnazione, l’idoneità professionale all’esercizio dell’attività di rivenditore di generi di monopolio all’esito di appositi corsi di formazione disciplinati sulla base di convenzione stipulata tra l’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato e l’organizzazione di categoria maggiormente rappresentativa”. Il successivo art. 7 prevede le cause di incompatibilità nella gestione dei magazzini di vendita, precisando che: “Non può gestire un magazzino chi: 1) presti la propria opera, con rapporto di lavoro continuativo, alle dipendenze altrui; 2) eserciti, a qualunque titolo, altro magazzino, rivendita, banco lotto, ricevitoria o collettoria postale, oppure conviva con persona esercente altro magazzino o comunque addetta ad ufficio o stabilimento dei Monopoli di Stato, ovvero appartenente al Corpo della Guardia di Finanza; 3) rivesta la qualifica di concessionario per la coltivazione del tabacco, sia coltivatore di tabacco o conviva con persona che abbia l’una o l’altra di dette qualità. L’incompatibilità cessa se, entro i termini stabiliti dall’Amministrazione, l’interessato ne abbia rimosso la causa ”. L’art. 13, che disciplina le ipotesi di “decadenza dalla gestione”, prevede che: “Il magazziniere decade dalla gestione: a) quando ricorra nei di lui confronti uno dei casi di esclusione previsti dall'art. 6; b) quando ricorra nei di lui confronti uno dei casi di incompatibilità previsti dall'art. 7 e non provveda a rimuovere l'incompatibilità nei termini assegnatigli dall'Amministrazione; c) quando non abbia ottenuto la cancellazione dal registro dei falliti entro due anni dalla sentenza dichiarativa del fallimento; d) quando abbia riportato condanna che importi interdizione temporanea dai pubblici uffici per un periodo superiore a due anni”. 3. Dall’esame della giurisprudenza elaborata dal giudice amministrativo in materia si possono desumere i seguenti principi. Innanzitutto, con riferimento all’art. 6 citato, il Consiglio di Stato, Sezione Sesta, ha statuito che, nel sistema delineato dalla legge n. 1293/1957 citata, “le cause di esclusione e di incompatibilità, previste in via generale per i procedimenti volti all’acquisizione della qualità di gestore, divengono casi specifici di decadenza appositamente contemplati e disciplinati, ove abbiano a verificarsi dopo l’inizio della gestione e nel corso della medesima” (sentenza 29 ottobre 1997, n. 861, in Cons. Stato, I, 1513). Con la sentenza n. 5224/10, richiamata anche da codesta Amministrazione, il Consiglio di Stato, Sezione Quarta, ha sottolineato come la vendita PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 277 di generi di monopoli “sia accompagnata da un regime improntato a particolare severità e che il concessionario sia investito di specifiche responsabilità”, tanto che “ogni fatto costituente violazione di tale dovere di ‘fedeltà commerciale’ può bene dare luogo, una volta accertata l’esistenza dei presupposti di fatto e di diritto, alla irrogazione della massima sanzione disciplinare costituita dalla revoca della licenza di rivendita dei generi di monopolio”. La sentenza del TAR Puglia, Sezione Staccata di Lecce, Sezione Terza, 1 aprile 2010, n. 890, (che espressamente richiama la sentenza del TAR Sicilia, Sezione Staccata di Catania, Sezione Seconda, 13 ottobre 2008, n. 1814), statuisce, invero, in merito a un’ipotesi specifica, (sequestro di tabacchi comunque muniti del sigillo dei monopoli), nella quale dall’esclusione della sussistenza di un’ipotesi di contrabbando deriva l’insussistenza di cause di possibile esclusione o di decadenza dalla gestione delle rivendite. Avuto riguardo agli articoli 6, 7, 12, 13 e 18 della legge n. 1293/1957 citata, la richiamata sentenza del TAR Catania esclude anche che “la sanzionabilità del fatto ai sensi dell’art. 5 della legge n. 50/1994 possa essere assimilata alle ipotesi di esclusione dalla gestione di rivendite normativamente previste in base ad una valutazione di ordine quasi ‘morale’ non contemplata dall’Ordinamento”. Infine, sebbene in una fattispecie affatto particolare (esclusione dalla assegnazione di nuova rivendita per rinuncia art. 6, n. 7, citato), la norma di cui all’art. 6 legge n. 1293/1957 citata è stata ritenuta di stretta interpretazione, perché incide sulla libertà di iniziativa economica (TAR Calabria, Catanzaro, Sezione prima, 28 febbraio 2002, n. 468). 4. Deve, quindi, ritenersi che sussista una relazione biunivoca, alla luce della giurisprudenza richiamata al punto 3., tra le cause di esclusione dalla gestione dei magazzini di vendita dei generi di monopolio e le cause di incompatibilità alla gestione dei predetti magazzini, nel senso che, come sottolineato dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 861/1997 citata, le cause di esclusione e di incompatibilità generali divengono “casi specifici di decadenza appositamente contemplati e disciplinati”, se si verificano dopo l’inizio o nel corso della gestione delle rivendite di generi di monopolio. Ne deriva, infatti, che le cause di incompatibilità previste dall’art. 7 citato, se sussistono sin dal momento del conferimento della gestione, diventano cause di esclusione dalla gestione stessa, se “entro i termini stabiliti dall’Amministrazione”, l’interessato non ne abbia “rimosso la causa”, in base all’art. 13, lett. b), legge n. 1293/1957 citato. In considerazione del tenore della norma di cui all’art. 6 citato, deve ritenersi che essa non possa essere applicata in via analogica a fattispecie similari in essa non previste, ma possa, invece, essere suscettibile di interpretazione estensiva, ampliandone, quindi, il significato precettivo nell’ambito della sua dizione letterale. 278 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 5. Il caso specifico richiamato in via di esemplificazione da codesta Amministrazione e, cioè, l’ipotesi della violazione dell’art. 96 della legge 17 luglio 1942, n. 907, che sanziona “la vendita di generi di monopolio senza autorizzazione ad acquisto da persone non autorizzate alla vendita” con l’applicazione della misura di cui all’art. 5 della legge 18 gennaio 1994, n. 50, può essere, in via di interpretazione estensiva, ricompreso nella previsione di cui all’art. 6, n. 8), sussistendone la medesima “ratio”, anche alla luce delle statuizioni contenute nella sentenza del Consiglio di Stato, Sezione Quarta, 1 giugno 2010, n. 3470. Resta ferma, ovviamente, l’opportunità di sottoporre a questa Avvocatura ogni ulteriore diversa fattispecie che richieda una specifica valutazione in concreto. Si suggerisce, infine, a codesta Amministrazione, atteso il carattere risalente nel tempo della normativa che disciplina la materia, di sollecitare un intervento legislativo di modifica delle norme in questione che possa, perciò, tenere conto delle esigenze rappresentate con la richiesta di parere che si riscontra. La questione è stata esaminata dal Comitato Consultivo che si è espresso in conformità nella seduta del 19 dicembre 2011. D.P.C.M. 21 maggio 2008 “Dichiarazione dello stato di emergenza in relazione agli insediamenti di comunità nomadi nel territorio delle regioni Campania, Lazio e Lombardia”. Ricorso ad istanza di European Roma Rights Centre Foundation ed altri. (Parere prot. 64239 del 21 febbraio 2012, AL 28529/08, avv. FABRIZIO FEDELI) Con un appunto allegato alla nota del 22 novembre u.s., l’Ufficio di Gabinetto di codesto Ministero dell’Interno ha domandato l’avviso della Scrivente circa le conseguenze della sentenza del Consiglio di Stato n. 6050/2011, che ha annullato il D.P.C.M. 21 maggio 2008 dichiarativo dello stato di emergenza per la presenza di comunità nomadi nelle Regioni Lazio, Lombardia e Campania, in merito sia alla sorte dei rapporti pendenti e al completamento delle iniziative Commissariali e sia alla permanenza dello stato di emergenza nelle Regioni Piemonte e Veneto nelle quali la dichiarazione è stata estesa con il primo decreto di proroga non impugnato (così come la seconda proroga) dinanzi al giudice amministrativo. In merito alla sentenza del Consiglio di Stato n. 6050/2011, codesto Dipartimento della Protezione Civile, con nota del 13 dicembre u.s., ha svolto alcune considerazioni critiche, chiedendo alla Scrivente di proporre ricorso per cassazione per motivi di giurisdizione. In proposito, si rappresenta che la Scrivente ha notificato ricorso per cas- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 279 sazione ai sensi dell'art. 111 Cost., comma 3, sotto il profilo dello sconfinamento nella sfera del merito e che a breve verrà proposta istanza di sospensione della sentenza ai sensi dell’art. 111 del codice del processo amministrativo. Considerato che con il secondo motivo questa Avvocatura ha censurato la sentenza 6050/2011 per avere esteso gli effetti demolitori della pronuncia di annullamento anche a provvedimenti non impugnati, come i decreti di proroga dell’emergenza finalizzati al completamento delle iniziative avviate, in attesa della decisione del Consiglio di Stato sull’istanza di sospensione (all’esito della quale la Scrivente si riserva di fornire le opportune indicazioni operative) si suggerisce a codesti uffici Commissariali di limitarsi all’adozione degli atti strettamente indispensabili allo scopo di adempiere ad impegni contrattuali già assunti nei conforti delle imprese (che andrebbero, comunque, remunerati a titolo contrattuale, oppure di ingiustificato arricchimento) e a completare le sole attività in fase di ultimazione, fermo restando la preclusione di nuove attività. Sulla questione oggetto del presente parere è stato sentito il Comitato Consultivo che si è espresso in conformità. Concordato preventivo: estensione della prelazione sugli interessi per il credito assistito da privilegio ex art. 24 della legge n. 449 del 1997. (Parere prot. 199722 del 20 marzo 2012, AL 22049/11, avv. GABRIELLA D’AVANZO) Codesta Avvocatura Distrettuale dello Stato propone alla Scrivente il seguente quesito sottoposto al suo esame dal Ministero dello Sviluppo Economico: se, nell’ambito di una procedura di concordato preventivo, agli interessi maturati su di un credito assistito da privilegio ex art. 24 della legge n. 449 del 1997 vada riconosciuta natura privilegiata senza alcun limite temporale, oppure se, come invece ha ritenuto il liquidatore giudiziale del concordato, l’ammissione al privilegio dei predetti interessi vada riconosciuta limitatamente al biennio antecedente l’apertura della procedura concorsuale, secondo quanto previsto dall’art. 54, comma 3 della legge fallimentare. La Scrivente, condividendo l’avviso di codesta Avvocatura Distrettuale, ritiene che quest’ultima opzione sia quella percorribile, non essendo convincente la tesi formulata dall’avv. (...) (consulente giuridico dell’Amministrazione a sensi dell’art. 4, comma 6 D.L. n. 32/1995, conv. in L.n. 104/95) il quale sostiene che la normativa agevolativa di cui all’art. 24, commi 32 e 33 della legge 27 dicembre 1997, n. 449 recherebbe una disciplina speciale anche in punto di interessi sul capitale, tale, cioè, da attribuire alla prelazione che assiste i medesimi interessi un’estensione temporale illimitata. 280 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 Al riguardo si osserva quanto segue. Secondo quanto previsto all’art. 54 della legge fallimentare, applicabile anche al concordato preventivo in virtù del richiamo operato dall’art. 169 della medesima legge, la disciplina riguardante “l’estensione del diritto di prelazione agli interessi” è regolata, per quanto qui interessa, dall’art. 2749 c.c. il quale, dopo avere disposto che il privilegio accordato al credito si estende alle spese ordinarie per l’intervento nel processo di esecuzione, precisa che il medesimo privilegio “si estende anche agli interessi dovuti per l’anno in corso alla data del pignoramento e per quelli dell’anno precedente” (l’atto di pignoramento è equiparato, a norma del comma 3 del citato art. 54 L.F., alla dichiarazione di fallimento). La prelazione che assiste il credito munito di privilegio generale si estende, dunque, anche agli interessi, limitatamente al periodo biennale specificamente indicato dal legislatore. Secondo l’impostazione suggerita dall’avv. (...) - consulente giuridico dell’Amministrazione ai sensi dell’art. 4, comma 6 del D.L. 8 febbraio 1995, n. 32, conv. in L. 7 aprile 1995, n. 104 - “il diritto alla ripetizione” previsto dall’art. 24, comma 33 della menzionata legge n. 449 del 1997, si riferisce a tutti gli elementi economici indicati al precedente comma 32 e cioè “alle agevolazioni”, agli “interessi” e alle “sanzioni”, tutti costituenti “credito privilegiato”, senza dunque “quei limiti temporali che, per i casi ,sono fissati dall’art. 2749 c.c. e dalla L. fallimentare”. Senonchè dall’analisi delle disposizioni in materia di riscossione di cui alla legge in esame non si rinvengono argomenti convincenti per sostenere la prospettata tesi “derogatoria” del regime temporale del privilegio sugli interessi. Dispone, infatti, l’art. 24 al comma 32 della legge n. 449/1997, che “il provvedimento di revoca delle agevolazioni… costituisce titolo per l’iscrizione a ruolo… degli importi corrispondenti degli interessi e delle sanzioni”; il successivo comma 33 della medesima disposizione stabilisce che “il diritto alla ripetizione costituisce credito privilegiato e prevale su ogni altro titolo di prelazione da qualsiasi causa derivante, ad eccezione del privilegio per spese di giustizia e di quelli previsti dall’art. 2751 - bis del codice civile, fatti salvi i precedenti diritti di prelazione spettanti a terzi…”. La circostanza che il legislatore abbia espressamente previsto, quale strumento di recupero del credito erariale, l’iscrizione a ruolo anche degli interessi e delle sanzioni, non comporta, evidentemente, il riconoscimento di una speciale prelazione del relativo credito, da far valere, cioè, oltre il limite biennale consentito dall’anzidetto art. 2749 c.c. e dall’art. 54 della legge fallimentare; una cosa, infatti, è la previsione riguardante le modalità di recupero del credito, altra cosa è il riconoscimento della causa di prelazione che assiste il medesimo credito. È poi pacifico che le norme sui privilegi, per il loro contenuto limitativo nei confronti del debitore, non possono essere interpretate in maniera analo- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 281 gica, sicchè l’eventuale riconoscimento del privilegio sugli interessi oltre l’anzidetto lasso temporale, previsto in via ordinaria dall’art. 2749 c.c., dovrebbe essere espressamente sancito dalla legge. Nel caso in esame, però, le sopra citate disposizioni in materia di riscossione nulla dispongono sul punto. In relazione a quanto precede, si conviene con codesta Avvocatura Distrettuale nel ritenere senz’altro opportuno astenersi dall’insistere nella richiesta dell’ammissione al privilegio anche degli interessi antecedenti al biennio. Sulla questione è intervenuto il Comitato Consultivo, di cui all’art. 25 L. 103/1979, che si è espresso in conformità al suesteso parere Contratti a termine di docenti, cittadini italiani e residenti in Spagna, in servizio nella scuola statale italiana di Barcellona. Ricorsi presentati al Tribunale sociale locale. (Parere reso in via ordinaria, prot. 97065 del 13 marzo 2012, AL 44950/11, avv. DIANA RANUCCI) Con la nota in riscontro codesto Mae riferisce che cinque supplenti, cittadini italiani e residenti in Spagna, da alcuni anni in servizio con contratti a tempo determinato presso l’Istituto Italiano statale di Barcellona, abilitati ed iscritti nelle graduatorie ad esaurimento degli Uffici scolastici regionali di appartenenza, si sono rivolti al tribunale di Barcellona deducendo l’illegittimità dei loro contratti di lavoro, poiché stipulati con scadenza al termine delle lezioni, termine che, a loro avviso, configurerebbe un indebito licenziamento senza giusta causa secondo la normativa locale. Chiedono pertanto al giudice spagnolo di applicare la legge spagnola e, per l’effetto, di trasformare il contratto in discorso da tempo determinato a tempo indeterminato. Codesta Direzione, difesa in giudizio da un Avvocato di fiducia del consolato, contesta ovviamente la fondatezza della pretesa avversaria, dubitando della competenza del tribunale adito e della possibilità di applicare la legge spagnola. Evidenzia infine che il ricorso non è stato notificato all’Avvocatura dello Stato. Chiede pertanto di conoscere il parere della Scrivente in ordine a tali questioni. 1) Sulla giurisdizione. Il primo e fondamentale problema riguarda l’individuazione del giudice dotato di giurisdizione e quindi competente a conoscere della controversia, nel rilievo che la questione sembra presentare una connotazione di internazionalità, data dal fatto che, pur essendo entrambe le parti italiane e che l’obbligazione deve adempiersi in una scuola statale italiana, tuttavia il luogo di 282 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 svolgimento del rapporto di lavoro è in Spagna, per cui potrebbe determinarsi un potenziale conflitto di norme appartenenti ad ordinamenti giuridici diversi. A parere di questa Avvocatura il conflitto è tuttavia solo apparente: è chiaro infatti che può parlarsi di conflitto di norme - tale da rendere necessaria l’applicazione del sistema del diritto internazionale privato - quando l’elemento di estraneità del rapporto sia tale da impedire che il rapporto giuridico controverso possa essere risolto alla stregua dell’ordinamento nazionale italiano. Dato questo che, in realtà, non sembra affatto cogliersi nella specie, ove entrambe le parti - lavoratore e datore di lavoro - sono italiane e la prestazione di lavoro viene effettuata in un Istituto scolastico statale italiano, così che il fatto che la scuola si trovi in territorio spagnolo sembra costituire più che un elemento di internazionalità del rapporto un mero punto di contatto, come tale inidoneo a modificare i termini della giurisdizione italiana. In altre parole, la prestazione lavorativa fornita dai ricorrenti non sembra ontologicamente caratterizzata da elementi di estraneità tali da sollecitare l’applicazione dei criteri di collegamento di cui al d.i.p., restando invece soggetta alla giurisdizione del giudice italiano. In ogni caso, anche qualora si volesse ritenere la fattispecie in esame valutabile alla stregua dei principi del diritto internazionale privato, la conclusione sarebbe sempre nel senso della giurisdizione italiana. Infatti deve subito rilevarsi che la norma codicistica costituita dall’art. 4 c.p.c. - recante il principio della universalità della giurisdizione italiana nei confronti del cittadino - è stata abrogata dall’art. 73 l. n. 218/95, che, all’art. 3, rubricato “Ambito della giurisdizione”, dispone che “2. la giurisdizione sussiste inoltre in base ai criteri stabiliti dalle sezioni 2, 3 e 4 del titolo II della Convenzione concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, firmata a Bruxelles il 27 settembre 1968 ”. In particolare, per quanto concerne i rapporti di lavoro, rileva l’art. 5 n. 1 della Convenzione, secondo cui “il convenuto domiciliato nel territorio di uno Stato contraente può essere citato in un altro Stato contraente: 1) in materia contrattuale, davanti al giudice del luogo in cui l'obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita; in materia di contratto individuale di lavoro, il luogo è quello in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività; qualora il lavoratore non svolga abitualmente la propria attività in un solo paese, il datore di lavoro può essere citato dinanzi al giudice del luogo in cui è situato o era situato lo stabilimento presso il quale è stato assunto”. Ritiene tuttavia la Scrivente che controparte non possa utilmente invocare l’applicazione di tale disposizione, e ciò per molteplici ragioni. In primo luogo perché la Convenzione - art. 1 - non si applica alla materia amministrativa, nell’ambito della quale rientra il rapporto di lavoro dedotto in giudizio, ove controparte pretende in definitiva di ottenere per via giurisdizionale un contratto a tempo indeterminato quale docente scolastico alle di- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 283 pendenze di una pubblica amministrazione italiana, cioè, in altri termini, un contratto di pubblico impiego. Fermo quanto sopra poi, non può non osservarsi come l’art. 5 prima parte stabilisca criteri di collegamento facoltativi e non obbligatori, come è reso palese dall’uso del verbo può: “il contraente può essere citato...”. Ne deriva che, anche in punto di rapporti di lavoro, il primo e fondamentale criterio da utilizzare per l’individuazione del giudice dotato di giurisdizione non può che essere quello che risulta dall’analisi della volontà delle parti, quale espressione di autonomia negoziale, da accertare, questo sì, in modo rigoroso. Come è stato osservato (BIAVATI, “Criteri interpretativi di proroga della giurisdizione e di foro contrattuale ”, in Corr. Giur. 2002, 5, 661) “non vi è dubbio che sia la L.n. 218/95 sia le disposizioni processuali europee (la Convenzione di Bruxelles e il Reg.Cee n. 44/01, entrambi prevalenti sulla normazione interna di diritto internazionale processuale) disegnino un meccanismo di reciproca fiducia tra i sistemi giurisdizionali, per cui, in via ordinaria, non si favoriscono le eccezioni alla giurisdizione ma al contrario si facilita la stabilità del foro prescelto”; tale rilievo porta a legittimamente dedurre che la volontà delle parti costituisce il criterio di collegamento più rilevante ai fini dell’individuazione del giudice competente in caso di lavoro estero. Nella specie dall’analisi dei contratti di lavoro stipulati dai ricorrenti emerge che essi sono senza dubbio regolati dalla legge italiana, ivi espressamente richiamata, il che implica il radicamento di ogni eventuale giudizio presso il giudice del luogo verosimilmente più prossimo alle fonti legislative, cioè il giudice italiano. Tale conclusione è poi del tutto conforme alle indicazioni provenienti dalla dottrina internazionalistica più recente, tese ad evitare un uso distorsivo dell’art. 5 della Convenzione talvolta usato come viatico per il cd. “forum shopping”, mentre la prevalenza dell’autonomia privata nella scelta della giurisdizione, in un contesto di delocalizzazione, è stata riaffermata anche dalla Corte costituzionale nell’ordinanza n. 428/2000. 2) Sulla legge applicabile ai rapporti di lavoro. Ciò posto, è poi indubbio che nella specie debba applicarsi la normativa italiana. Si legge nella nota in riscontro che i ricorrenti deducono che, poiché risiedono e prestano il loro servizio in Spagna e poiché l’Istituto sarebbe da qualificarsi come una “fondazione spagnola”, la legge applicabile dovrebbe essere quella spagnola e, ai sensi di questa, i loro contratti di lavoro dovrebbero trasformarsi da contratti a tempo determinato a contratti a tempo indeterminato, considerando “la fine delle lezioni” un indebito licenziamento senza giusta causa. Tale assunto a parere di quest’Avvocatura è privo di fondamento. Preliminare è la constatazione che i contratti di lavoro impugnati sono 284 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 stipulati tra due parti sicuramente italiane: i cittadini ricorrenti, seppur residenti all’estero, e l’Istituto Italiano Statale di Barcellona, scuola italiana dipendente dal Ministero degli Affari Esteri e che il luogo di adempimento dell’obbligazione è una scuola statale italiana, e non certo una “fondazione spagnola”. Tali contratti sono inoltre espressamente regolati dal C.C.N.L. del 29 novembre 2007 per il comparto scuola e leggi allegate. La normativa applicabile è dunque quella italiana essendo stata scelta e concordata dalle parti. Vale sul punto quanto già sopra evidenziato in ordine al criterio di collegamento preferenziale costituito dalla volontà delle parti. Fermo dunque che nella specie non sussiste, a parere della Scrivente, alcuna situazione di conflitto di norme, si osserva che comunque anche in base ai principi del d.i.p. resterebbe applicabile la normativa italiana ai rapporti in esame. Infatti l’art. 57 della legge 218/1995 dispone che le obbligazioni contrattuali sono regolate dalla Convenzione di Roma del 19 giugno 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, entrata in vigore il 1° aprile 1991 ad integrazione della Convenzione di Bruxelles del 1968, con lo scopo di armonizzare le norme sul conflitto delle leggi applicabili ai contratti. Fermo restando che l’art. 1 della Convenzione di Roma prevede che “le disposizioni della presente convenzione si applicano alle obbligazioni contrattuali che implicano un conflitto di leggi”, e che, nella specie, per quanto sopra considerato, non si ritiene ricorra alcun conflitto di leggi, vale rilevare che l’art. 6 della Convenzione, recante le norme di d.i.p. specificamente riguardanti il “contratto individuale di lavoro”, prevede che “in deroga all’art. 3 (statuente la regola generale secondo cui “il contratto è regolato dalla legge scelta dalle parti”) nei contratti di lavoro, la scelta della legge applicabile ad opera delle parti non vale a privare il lavoratore dalla protezione assicuratagli dalle norme imperative della legge che regolerebbe il contratto, in mancanza di scelta, a norma del paragrafo 2”. Il paragrafo 2 enuclea due criteri di collegamento per l’individuazione della legge applicabile in caso di conflitto di norme, utilizzabili a meno che “non risulti dall’insieme delle circostanze che il contratto presenta un collegamento più stretto con un altro Paese. In questo caso si applica la legge di quest’altro paese”. Il che è esattamente quanto si rileva nella specie ove i contestati contratti sono collegati esclusivamente alla normativa italiana. 3) Sulla retribuzione e sui contributi previdenziali e assistenziali. Le considerazioni finora svolte non sono inficiate dal fatto che, in punto di retribuzione, i ricorrenti, ai sensi dell’art. 26 del D.lgs. 62/1998 secondo cui i supplenti residenti in un Paese ospite percepiscono lo stipendio equivalente a quello che gli sarebbe riconosciuto in Italia per analoghe attività salva la pos- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 285 sibilità di scegliere la retribuzione corrisposta localmente qualora più favorevole, abbiano esercitato la relativa opzione, poiché in Spagna lo stipendio dei docenti delle scuole pubbliche è superiore a quello dei docenti pubblici italiani. Analoga scelta hanno fatto riguardo ai contributi previdenziali e assistenziali, i quali, di norma, sia per i supplenti residenti sia per i non residenti, sono versati in Italia secondo la normativa italiana ai sensi dell’art. 13 punto d) del Reg. CEE 1408/1971, che prevede che gli impiegati pubblici ed il personale ad esso assimilato, in servizio in altro Stato membro, sono soggetti alla legislazione dello Stato membro al quale appartiene l’Amministrazione da cui essi dipendono. In virtù però dell’art. 17 del Reg. CEE 1408/197, che consente eccezioni al principio generale, i ricorrenti hanno optato per l’applicazione del regime spagnolo anche per quanto attiene ai contributi previdenziali e assistenziali. È indubbio tuttavia che tali possibilità, riconosciute dalla legge italiana e comunitaria in materia di retribuzione e contributi e legittimamente esercitate dai ricorrenti poiché comportanti per loro dei benefici, esplichino i loro effetti solo per l’ambito in cui sono epressamente previste, di tal che non incidono sulla legge applicabile al rapporto di lavoro. Trattasi infatti di istituti di favore previsti per i cittadini italiani residenti all’estero per garantire la salvaguardia delle libertà fondamentali riconosciute e tutelate dal Trattato CE (cfr. la libertà di stabilimento), e costituisce principio pacifico che gli istituti contenenti un beneficio non sono suscettibili né di applicazioni analogiche né tanto meno estensive, né possono valorizzarsi per fini diversi da quelli a cui sono diretti. In conclusione si ritiene che la legge applicabile ai contratti in questione sia dunque la legge italiana. 4) Infondatezza nel merito. La questione dedotta in giudizio è nota, poiché oggetto di numerose pronunce dei Tribunali italiani aditi a seguito di numerosissimi ricorsi dei cd. docenti “precari della scuola”. Ritengono i supplenti ricorrenti che il “termine delle lezioni” debba considerarsi un indebito licenziamento senza giusta causa ai sensi della normativa locale. La tesi è infondata: ai sensi del D.lgs. n. 368/2001, il contratto di lavoro a tempo determinato è il contratto al quale viene apposto un termine a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo, o sostitutivo. Si legge in uno dei contestati contratti (sono redatti su modulistica identica) “che sarà efficace fino al termine delle attività didattiche per l’insegnamento di Matematica e fisica classe concorso A049 per il n. 19 ore settimanali di lezione, con decorrenza dal 08/09/2010 e cessazione al 30/06/2011, presso Istituto Comprensivo Italiano di Barcellona”. Viene apposta in calce una nota la quale precisa che il 30 giugno potrebbe coincidere con un’altra data, ovvero quella prevista per il termine delle attività 286 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 didattiche dai calendari scolastici locali. È palese che il termine previsto nei contratti impugnati è assolutamente legittimo secondo la legge italiana, seppur passibile di lieve cambiamento in virtù della pianificazione delle lezioni risultanti dai calendari scolastici locali. È inoltre di rilievo ricordare che la trasformazione dei contratti a tempo determinato per il conferimento di supplenze in contratti a tempo indeterminato può avvenire “solo nel caso di immissione a ruolo, ai sensi delle disposizioni vigenti e sulla base delle graduatorie previste dalla presente legge e dall’art. 1 comma 605 lettera c) della legge 27 dicembre 2006 n. 296 e successive modifiche” (art. 4, comma 14 bis) L. n.124/1999). La giurisprudenza, ormai costante ed uniforme, a tal riguardo ha chiarito che “in materia di pubblico impiego, un rapporto di lavoro a tempo determinato non è suscettibile di conversione in uno a tempo indeterminato, stante il divieto posto dall’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, il cui disposto è stato ritenuto legittimo dalla Corte Costituzionale (Sent. n. 98 del 2003)” … “L’art. 36, comma 8, del d.lgs. n. 29 del 1993 (ora trasfuso nell’art. 36, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001), secondo il quale la violazione di norme imperative riguardanti l’assunzione di lavoratori da parte delle pubbliche amministrazioni non può comportare la costituzione di rapporto a tempo indeterminato, si riferisce a tutte le assunzioni avvenute al di fuori di una procedura concorsuale ...” (Cass. Lav. n. 11161 del 7 maggio 2008). Anche la giurisprudenza di merito (da ultimo Tribunale di Foggia n. 593 del 13 febbraio 2012 che si allega in copia) ha rigettato domande analoghe a quelle proposte dai supplenti al tribunale di Barcellona. Sul punto si rinvia a quanto ivi dedotto dal giudicante. 5) Notifica all’Avvocatura Generale dello Stato. Da ultimo si evidenzia che la mancata notifica del ricorso all’Avvocatura dello Stato costituisce unicamente una nullità dell’atto introduttivo, sanabile secondo il diritto italiano, o con la costituzione del convenuto o con la rinnovazione della notifica. Tale rilievo appare tuttavia irrilevante ed assorbito dalla sussistenza del dedotto vizio di difetto di giurisdizione del giudice spagnolo. Alla luce delle esposte considerazioni si ritiene opportuno resistere fermamente in giudizio, anche per evitare il ripetersi di una simile prassi, e si prega di far depositare avanti al Tribunale di Barcellona la sentenza allegata. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ La sostenibilità dei sistemi sanitari regionali SaniMod-Reg 2012-2030 Fabio Pammolli* e Nicola C. Salerno** Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla strada dell'azione politica, ma come una indispensabile premessa ad agire prontamente e saggiamente “L'elogio di Pericle alla democrazia ateniese”, Tucidite, II, 37-41 Il lavoro del CeRM “La Sostenibilità dei Sistemi Sanitari Regionali” coerentemente assieme sviluppa: (1) proiezioni regionalizzate della spesa sanitaria (standard e lorda delle inefficienze); (2) proiezioni regionalizzate delle fonti di finanziamento; (3) proiezioni dei flussi redistributivi interregionali. L'orizzonte si spinge sino al 2030, con quantificazioni anno per anno. Grandezze sia in Euro assoluti (costanti 2010) che in percentuale del Pil. L'analisi si sforza di soddisfare nel contempo due obiettivi: “respiro” sistemico e quantificazione. Lavori che riescano a soddisfare queste due caratteristiche contribuiscono - crediamo - a creare quella "cassetta degli attrezzi" essenziale per compiere scelte responsabili sulle riforme della sanità. Tali lavori possono, nel contempo, fornire esempi di quello che dovrebbe fare la relazione tecnica di accompagno di una riforma. Con l'augurio di contribuire positivamente all'approfondimento del dibattito e alla sua finalizzazione di policy, grazie per l’attenzione. CeRM (*) President and Director del CeRM, docente di Economia e Management presso l’Università di Firenze e Direttore di I.M.T. Alti Studi Lucca. (**) Senior economist in CERM. 288 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 SOMMARIO (*) Dopo SaniMod 2011-2030, questo Working Paper continua la costruzione della modellistica di proiezione della spesa del Sistema sanitario Nazionale (“Ssn”) con la versione regionalizzata, SaniMod-Reg 2012-2030. In realtà, anche se il punto di partenza è quello e si arriva a proiettare le spese delle Regioni, definirlo solo un modello di proiezione è improprio. SaniMod-Reg unisce quattro lavori importanti per il dibattito di policy. Quattro aspetti che per la prima volta si ritrovano affrontati assieme e correlati. I tasselli utili, anzi necessari, per decidere sull’efficientamento della spesa, sulle modalità di finanziamento, sullo svolgimento della transizione dallo status quo al nuovo regime: — Il benchmarking interregionale e l’individuazione degli standard nei profili di spesa procapite per fasce di età delle Regioni più virtuose; — Le proiezioni a medio-lungo termine della spesa standard e della spesa lorda delle inefficienze; — Le proiezioni a medio-lungo termine del finanziamento, secondo l’ipotesi che a regime tutte le Regioni (incluse quelle a statuto speciale) concorrano alla copertura integrale della spesa standard con una quota omogenea del loro Pil (“egual sacrifico proporzionale”); — La quantificazione dettagliata, sia in percentuale del Pil che in Euro assoluti, di: spesa regionale standard e lorda delle inefficienze; concorso al finanziamento da parte di ciascuna Regione; flussi di redistribuzione territoriale che derivano dalla combinazione della regola di standardizzazione della spesa e della regola di finanziamento. I due scenari evolutivi, prescelti per caratteristiche di realismo ed equilibrio nelle ipotesi, individuano una forchetta di aumento della pressione della spesa standard sul Pil Italia, da oggi al 2030, compresa tra 1 e 1,5 p.p.. A questi aumenti si devono sommare, nel caso non si riuscisse a riassorbile, inefficienze pari allo 0,25-0,3% del Pil. Deve esser chiaro che la forchetta rappresenta solo una parte dell’incremento di incidenza che ci si può attendere a medio-lungo per esigenze sanitarie. In particolare, essa non comprende la spesa per assistenza continuata ai non autosufficienti (“Ltc”) quasi integralmente estranea ai bilanci dei Sistemi Sanitari Regionali (“Ssr”); e non comprende le esigenze di spesa in conto capitale. La prima componente conta per 1 p.p. di Pil oggi e crescerà continuamente almeno sino a 1,7 p.p. nel 2060 (“Programma di Stabilità dell’Italia”), ma potenzialmente anche oltre se si tiene conto dei driver extra demografici. La seconda componente è più difficile da quantificare, perché storicamente sottovalutata e neppure contabilizzata in maniera adeguata. Se le due componenti fossero incluse, la dinamica della spesa complessiva risulterebbe significativamente più forte, in linea con le più recenti proiezioni Ecofin, Ocse e Fmi, che mettono in guardia su un potenziale quasi raddoppio del peso sul Pil di qui a 50 anni. Le difficoltà di fronteggiare questo crescente assorbimento di risorse sono amplificate dal fatto che il breakdown mostra una pressione della spesa sanitaria regionale sul Pil re- (*) Si riporta il sommario esteso del lavoro “La Sostenibilità dei Sistemi Sanitari Regionali”, lavoro consultabile integralmente sul sito del CERM – Competitività, Regolazione, Mercati: www.cermlab. it. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 289 gionale molto sperequata. Nel Mezzogiorno l’incidenza della spesa standard arriverà presto a superare i 10 p.p., con punte anche al di sopra degli 11. Sono, queste, le stesse Regioni staccate dal resto dal Paese per la qualità delle prestazioni erogate, per il grado di infrastrutturazione settoriale e, soprattutto, per l’inefficienza della spesa sanitaria corrente. In mancanza di concreti recuperi di efficienza, in queste Regioni il peso sul Pil sarà ancora più alto, con punte al di sopra dei 12 p.p. anche prima del 2030. I problemi non si concentrano solo nel Mezzogiorno. Il Lazio risulta la Regione con la più elevata spesa inefficiente (1,1 miliardi di Euro nel primo anno delle proiezioni). La Valle d’Aosta e le due Province Autonome di Bolzano e Trento mostrano i più elevati scarti percentuali dallo standard (rispettivamente addirittura 21, 23 e 17%). Anche Piemonte, Veneto, Friuli Venezia Giulia e Liguria potrebbero migliorare l’efficienza della spesa, pur partendo da gap molto più contenuti. La condizione del Lazio è resa più grave dalla bassa qualità delle prestazioni. È alta invece la qualità della Valle d’Aosta e delle due Province Autonome. Anche Piemonte, Veneto, Friuli Venezia Giulia e Liguria sono nella parte alta del ranking di qualità delle prestazioni (con alcune differenze tra loro, ma tutte sopra la media Italia). Si dovrebbe essere già pronti, con passi avanti già compiuti sulle regole di finanziamento (inclusa la diversificazione multipillar), sulla governance, sulla regolazione lato domanda e offerta di prestazioni, sulla piena responsabilizzazione di chi non rispetta gli standard, sulla gestione della transizione, etc.. Invece, il quadro resta gravemente incompleto, parte del “cantiere” federalista in cui l’Italia è impegnata da almeno un decennio. La Legge n. 42-2009 e il Decreto n. 68-2011, pur segnando un percorso finalmente più concreto rispetto ai tentativi precedenti, contengono snodi su cui è necessario approfondire e compiere scelte. Nel frattempo, però, le urgenze della crisi hanno interrotto i lavori. Si deve tentare di non far passare invano questo tempo, per evitare tra qualche anno di dover ricominciare dall’inizio senza raccogliere gli esempi e i frutti di analisi già fatte e di confronti tecnici e politici già svolti. Una delle mancanze più evidenti della Legge 42 e del Decreto 68 è il raccordo tra spesa e finanziamento. Per compierlo, è necessario fissare regole precise e operative sia per la spesa sia per il finanziamento, cosa che il Legislatore non è arrivato fare. In questo Wp, invece, il passo è compiuto. Per il finanziamento, si ipotizza che tutte le Regioni concorrano a coprire la spesa standard con una quota del loro Pil pari all’incidenza della spesa standard nazionale sul Pil nazionale. È il principio dell’ “uguale sacrificio proporzionale”. Se si applicasse questa regola di finanziamento, tutte le Regioni sarebbero messe nelle condizioni di coprire, anno per anno, la loro spesa standard. Alcune, economicamente meno sviluppate, riceverebbero flussi di redistribuzione territoriale. Altre, economicamente più forti, concorrerebbero a finanziare la redistribuzione. SaniMod-Reg permette di dare un ordine di grandezza al totale delle risorse movimentate dalla redistribuzione: da circa 10 miliardi di Euro nel 2011 a circa 13 nel 2030, per una quota di Pil di poco inferiore a 0,7%, e una quota della spesa sanitaria standard superiore all’8%. Una redistribuzione di proporzioni importanti, dunque, che dimostra, simulazioni alla mano, che standardizzare sui profili di spesa pro-capite delle Regioni più virtuose, e finanziare questa spesa ammissibile in maniera proporzionale su tutti i Pil regionali, è un sistema in grado di perseguire strutturalmente finalità di coesione tra territori. Grazie all’aggiunta del lato del finanziamento, possono prendere corpo altre considerazioni critiche, che rendono se possibile ancor più urgente il cambiamento. La maggior 290 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 parte dei flussi redistributivi si rivolge a Mezzogiorno e parte dal Nord. Tali flussi possono esser visti come un diritto costituzionale delle Regioni con economia più debole, e parallelamente un dovere costituzionale delle Regioni a economia più sviluppata, solo nella misura in cui le prime sono in grado di utilizzarli in maniera efficiente e responsabile. È solo questa, infatti, la coesione “in bene” sancita nella Costituzione. Se le attuali sacche di inefficienza non saranno riassorbite, nelle Regioni che più dipendono dalla coesione territoriale, esse continueranno a contare per quote significative dei flussi redistributivi in ingresso: più del 40% in Campania, più del 30% in Sardegna, più del 20% in Molise, Puglia e Basilicata. Una condizione contraddittoria che mina alle fondamenta i rapporti tra territori. La mappatura dei flussi redistributivi fa emergere anche elementi critici sulla situazione di Regioni del Centro-Nord. Se fosse in vigore il criterio di finanziamento qui proposto, il Lazio dovrebbe mettere a disposizione risorse per le Regioni con Pil più bassi, dovrebbe sostenere la redistribuzione. E invece si è assistito, negli ultimi anni, a rinegoziazioni di linee di prestito dallo Stato per fronteggiare i disavanzi sanitari accumulati. Il Lazio finisce per assommare tre criticità: cospicua sovraspesa, bassa qualità, assorbimento di risorse della collettività nazionale quando invece dovrebbe metterle a disposizione. Una speculare osservazione può essere fatta per Valle d’Aosta, Provincia Autonoma di Bolzano e Provincia Autonoma di Trento. Se si applicasse la regola di finanziamento, queste tre Regioni dovrebbero contribuire ai flussi di redistribuzione, mentre invece beneficiano della fiscalità speciale che, nel contempo, favorisce il mantenimento di alti standard di qualità e, soprattutto, aiuta a tenere nascosti livelli di inefficienza della spesa sanitaria che, in termini percentuali, sono i più alti del Paese. Se la fiscalità non fosse quella speciale, le inefficienze peserebbero di più sui saldi di bilancio e sull’offerta di prestazioni. Mutatis mutandis, l’osservazione può essere ripetuta anche per il Friuli Venezia Giulia. Questa Regione ha uno scarto tutto sommato contenuto dallo standard (soprattutto se confrontato alle devianze più acute), e riesce a far bene sul fronte della qualità. Tuttavia anche il Friuli Venezia Giulia mette di fronte al dilemma se possa essere accettato che una Regione, che sarebbe chiamata a contribuire alla redistribuzione se valessero regole omogenee per tutti, continui a godere di fiscalità agevolata. Domanda non semplice a cui rispondere, perché coinvolge la rivisitazione in chiave contemporanea di tutte le funzioni regionali, delle risorse necessarie al loro assolvimento, e dei sussidi incrociati che col tempo si attivano quando il collegamento tra funzioni e risorse viene perso di vista o, peggio ancora, rivestito di connotati di principio o ideologici (una sorta di “corporativismo istituzionale”). La domanda appare ancor più problematica se si pensa che SaniMod-Reg mette in evidenza che Sardegna e Sicilia, le altre due Regioni a statuto speciale, nonostante (o a causa del fatto che? …) vengano da oltre un sessantennio di fiscalità speciale, combinano ampie inefficienze, bassa qualità, bassa infrastrutturazione e dipendenza, in ipotesi di applicazione del finanziamento della spesa con regole omogenee per tutti, dai flussi di redistribuzione interregionale. A significare che, purtroppo, il vecchio disegno della fiscalità ha interagito, nel tempo, con i tanti problemi dello sviluppo duale dell’Italia, generando anche nella sanità risultati molto diversi dalle intenzioni e dalle attese formulate nel Dopoguerra. Esistono, per fortuna, anche esempi positivi che fanno ben sperare per le riforme e l’ammodernamento in senso lato dei Ssr. Umbria e Marche sono Regioni che utilizzerebbero i flussi di redistribuzione in maniera ottimale: sono efficienti e erogano prestazioni di qualità. Tra l’altro, queste due Regioni portano gli unici esempi di efficienza di spesa e qualità delle prestazioni, pur in presenza di un grado di infrastrutturazione settoriale medio, lontano LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 291 dai livelli più alti di Lombardia, Emila Romagna, FriuliVenezia Giulia, P. A. di Bolzano e Trento, Piemonte. Due esempi importanti, perché testimoniano del fatto che il grado di infrastrutturazione non debba essere confuso tout court con la presenza di strutture ospedaliere (il “mattone”) e la capacità di ricoveri ordinari (il “posto letto”), le grandezze che più influenzano l’indicatore sintetico di infrastrutturazione sviluppato dall’Istat qualche anno fa. In prospettiva, sarà sempre più importante puntare sulla prevenzione, sull’assistenza domiciliare, sull’integrazione socio-sanitaria, sull’adattamento delle prestazioni alle esigenze del territorio e alla casistica soggettiva/familiare. Tutte linee d’azione che, sostenute da una stretta collaborazione tra Regione e Enti Locali, possono favorire il perseguimento, assieme, dei due obiettivi del contenimento della spesa e della qualità/adeguatezza delle prestazioni. Tra sfera sanitaria e sfera sociale non devono esserci steccati istituzionali o, peggio, organizzativi o burocratici. Tra gli esempi positivi anche quelli dell’Emilia Romagna, della Toscana, della Lombardia, che “esporterebbero” redistribuzione, sono efficienti nella spesa ed erogano prestazioni di qualità (Emilia Romagna e Lombardia sono due delle tre Regioni benchmark, assieme all’Umbria). Non si deve sottovalutare, tuttavia, che queste tre Regioni ricevono flussi finanziari in ingresso grazie alla loro capacità di attrarre mobilità sanitaria, e all’incapacità di tante altre Regioni (soprattutto nel Mezzogiorno) di offrire prestazioni di qualità sul loro territorio: la Lombardia per circa 440 milioni di Euro all’anno (il 2,4% della spesa corrente), l’Emilia Romagna per poco meno di 360 milioni (il 4,1% della spesa), la Toscana per oltre 115 milioni (l’1,6% della spesa). Nel complesso, se si considerano le altre Regioni con mobilità in ingresso, ogni anno circa 1 miliardo di Euro affluisce dal Mezzogiorno verso il Nord e in misura minore il Centro. Si tratta di risorse tutto sommato limitate rispetto alla spesa sanitaria del Paese, ma la loro costanza su periodi lunghi le ha rese di fatto strutturali, e nel tempo in grado di accumulare importi significativi. Se è vero che la mobilità tra Regioni deve sempre rimanere a garanzia che tutti i cittadini possano rivolgersi agli erogatori che ritengono migliori, e se è vero che le Regioni che ricevono la mobilità e i relativi flussi finanziari offrono valore aggiunto sanitario, bisogna evitare che l’evoluzione della governance dei Ssr resti dipendente, vincolata da questi flussi. Da un lato, le Regioni più virtuose devono provarsi capaci di perseguire sostenibilità economica e qualità/adeguatezza delle prestazioni, anche qualora si modificassero o venissero del tutto meno i flussi di mobilità. Dall’altro lato, deve rientrare nei percorsi di convergenza delle Regioni inefficienti lo sviluppo di un’offerta sanitaria che riduca il più possibile la mobilità in uscita (elimini la mobilità evitabile), così permettendo di valorizzare all’interno, di reinvestire endogenamente, quelle risorse che adesso sono drenate. Per avere dei termini di paragone con cui soppesare i controvalori della mobilità, si pensi che, nel 2008 e nel 2009, il Fondo Nazionale per le Non Autosufficienze ha capitalizzato per 400 milioni di Euro all’anno, e poi non è stato più rifinanziato nel 2010 per incapienza di bilancio (una delle conseguenze della crisi). Oppure si pensi che il totale degli investimenti fissi lordi della Pubblica Amministrazione è stato negli ultimi dieci anni mediamente pari a circa 30 miliardi di Euro all’anno, di fronte ai quali un flusso annuo di risorse pari a 1 miliardo, dedicabile interamente alla sanità, ha un ordine di grandezza tutt’altro che trascurabile (oltre il 3,3%). Per completare il quadro delle Regioni, ci sono Piemonte e Veneto che, pur avendo margini di miglioramento, fanno bene sia sull’efficienza della spesa sia sulla qualità e, nel 292 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 contempo, contribuirebbero alla redistribuzione se si applicasse a tutti la regola del finanziamento omogeneo in percentuale del Pil. E infine ci sono Abruzzo e Liguria, il primo efficiente nella spesa ma con un forte gap di qualità, la seconda con un possibile contenuto miglioramento sul fronte dell’efficienza e un gap di qualità rispetto alle Regioni più virtuose ma anche questo molto più contenuto rispetto ai gap del Mezzogiorno. Sia Abruzzo che Liguria riceverebbero redistribuzione, e entrambe le Regioni dovrebbero ottenere risultati di governance migliori, per poter affermare che quelle risorse sono pienamente valorizzate. In conclusione, un quadro molto complesso e frastagliato. Le proiezioni indicano pressioni crescenti sulle finanze pubbliche, dando conferma di trend che, da qui a cinquant’anni, potrebbero portare a un raddoppio dell’incidenza della spesa sul Pil. Si dovrebbe già esser preparati a governare questo trend per non subirlo passivamente, ma in realtà le condizioni attuali dei Ssr appaiono molto lontane dall’essere pronte. Nonostante la Legge n. 42-2009 e il Decreto n. 68-2011 abbiano finalmente posto il tema su basi più concrete e percorribili di quanto fatto in precedenza, le modalità di standardizzazione della spesa sanitaria sono ben lungi dall’esser diventate parte della programmazione e della governance. E questo anche se i benchmarking regionali fanno emerge, con metodiche diverse e attraverso aggiornamenti successivi dei dati, ampie sacche di inefficienza e gravi gap di qualità, soprattutto con riferimento alle Regioni del Mezzogiorno. Altre criticità emergono, come si è argomentato, quando il lato delle proiezioni della spesa viene unito a quello del finanziamento, un passaggio sinora eluso da quasi tutte le analisi e, per forza di cose, non affrontato neppure dal Legislatore. Solo così si può costruire una mappatura dettagliata delle fonti di finanziamento e dei flussi di redistribuzione interregionali, per poi interrogarsi sulla loro sostenibilità, sulla capacità delle Regioni beneficiarie di “meritarseli” allocando bene le risorse, sull’avvio di cicli di programmazione almeno quinquennali e vincolanti per i Ssr. Ed è sempre l’unione di spesa e finanziamento che riporta all’attenzione il tema delle Regioni con ordinamenti speciali, che appaiono ormai antistorici e contraddittori anche in analisi settoriali come quelle sulla sanità. Delle contraddittorietà SaniMod-Reg porta diversi esempi. La standardizzazione della spesa dovrebbe essere applicata a tutte le Regioni, di pari passo all’omogenizzazione dei sistemi fiscali, superando la distinzione tra statuti speciali e statuti ordinari. Ulteriori informazioni utili derivano dall’analisi, assieme alla spesa, alla qualità e al finanziamento, del grado di infrastrutturazione. Le esperienze di Regioni, come l’Umbria e le Marche, efficienti nella spesa e di alta qualità delle prestazioni pur con un livello di infrastrutturazione medio, dimostra come in futuro gli investimenti debbano rispondere a strategie nuove, non necessariamente vincolate agli ospedali e ai ricoveri, ma coerenti con la prevenzione, l’integrazione socio-sanitaria, l’adattamento delle prestazioni alle esigenze del territorio e della popolazione. SaniMod-Reg non è solo un modello di proiezione, anche se è da qui che prende le mosse. Porta l’esempio di quella valutazione di impatto macrofinanziario a tutto tondo della riforma della sanità, che dovrebbe accompagnare qualsiasi progetto di legge, e che sinora è sempre mancata, anche in occasione della Legge n. 42-2009 e della sua scia attuativa. Una mappatura così completa e dettagliata e regionalizzata dell’andamento delle spese standard, delle inefficienze, del finanziamento è la base per poter discutere, in maniera responsabile e il più possibile oggettiva, di qualunque trasformazione (di ispirazione federalista, LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 293 ma anche riformista e con ispirazioni diverse). La mappatura è (dovrebbe essere) il punto di partenza per il disegno della transizione, del percorso di convergenza da richiedere alle Regioni tra lo status quo e l’anno in cui le spese ammissibili saranno solo quelle standard, il finanziamento su scala nazionale (coordinato tra Regioni) provvederà solo a queste spese, e ogni Regione sarà (questo è l’auspicio) pienamente responsabilizzata per la sovraspesa in cui incorre. Non è un caso, infatti, che, mancando una valutazione di impatto dettagliata e comprensiva delle spese e delle risorse finanziarie a medio-lungo termine, la transizione sia sempre rimasta elusa, solo accennata senza mai il coraggio di andare a fondo. E senza idee chiare sulla transizione, qualunque progetto di rinnovamento e ammodernamento rischia di apparire un esercizio teorico non supportato da una vera volontà politica. Il prossimo appuntamento di CeRM riguarderà proprio la transizione. Sulla scorta dei risultati di SaniMod-Reg, ci si interrogherà su come definire percorsi di convergenza Region- specific, lungo i quali, gradualmente, la spesa diventi quella standard e i finanziamenti quelli necessari e sufficienti a coprire la spesa standard. Come in questo Wp le proiezioni a medio-lungo della spesa sono occasione per un discorso più ampio coinvolgente anche il lato del finanziamento e i flussi di redistribuzione tra territori, nel prossimo lavoro l’approfondimento della transizione sarà accompagnato da riflessioni su: cornice istituzionale; sviluppo di una base statistica e contabile omogenea e affidabile; regolazione lato domanda e offerta; snodo della selettività dell’universalismo; monitoraggio infrannuale delle tendenze; coordinamento tra Regioni della policy settoriale; piena responsabilizzazione delle Regioni nei confronti degli eccessi di spesa; stabile coordinamento tra la Regione e gli Enti Locali sottesi in funzione della programmazione sociosanitaria e della prevenzione; etc.. Mentre in SaniMod-Reg l’ipotesi è che il finanziamento si adatti alla spesa standard sino a coprirla integralmente lungo tutto l’orizzonte di proiezione, c’è un altro punto di vista che bisognerà sforzarsi di approfondire e quantificare, domandandosi qual è il livello di finanziamento compatibile con condizioni di equilibrio delle finanze pubbliche nazionali e regionali. Per far questo, è necessario, dopo aver microfondato nei profili pro-capite il lato delle spese, microfondare il lato del finanziamento, riconducendo le risorse disponibili a basi imponibili, imposte e quote di gettito. In questa direzione ha già tentato di muoversi anni fa il D.Lgs. n. 56-2000 che, tuttavia, non solo mancava di un riferimento vero e proprio alle proiezioni di spesa, ma è rimasto, sia per la standardizzazione della spesa sia per l’individuazione del finanziamento, ad un livello troppo astratto e simbolico. Sul tema sono ritornati la Legge n. 42-2009 e il Decreto n. 68-2011 senza però, come si è già detto, riuscire a imprimere un svolta decisiva, senza arrivare a una visione di insieme dettagliata delle spese e del finanziamento, da mettere alla prova delle compatibilità economiche e degli altri cambiamenti che stanno interessando i rapporti tra livelli di governo e il sistema fiscale. Sarà, questo, il tema centrale su cui lavorerà CeRM nei prossimi mesi. fp & ncs, Roma lì 14 Febbraio 2012 294 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 La mobilità dei dipendenti pubblici dopo la legge di stabilità 2012 Francesco Spada* SOMMARIO: 1. Premessa - 2. La mobilità individuale - 3. La mobilità collettiva. 1. Premessa Nel rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, con il termine “mobilità” si fa riferimento ad una pluralità di vicende accomunate da un identico tratto caratterizzante, ossia la modificazione del rapporto, di regola sotto il profilo soggettivo. In dottrina si operano alcune distinzioni, tra le quali quella tra mobilità esterna, comportante il passaggio del dipendente da una pubblica amministrazione ad un’altra, e mobilità interna, in cui ciò che muta è soltanto il luogo di esecuzione della prestazione lavorativa e non anche il soggetto beneficiario della prestazione. Un’ulteriore distinzione è quella tra mobilità individuale o volontaria, caratterizzata dal passaggio di un singolo dipendente, a domanda, da un ente ad un altro e mobilità collettiva o obbligatoria, che si verifica in corrispondenza di situazioni di eccedenze di personale tipizzate dal legislatore. Infine, si è soliti differenziare la mobilità, sul piano degli effetti prodotti sul rapporto di lavoro, a seconda che dia luogo ad un trasferimento del dipendente soltanto temporaneo e momentaneo (come nel caso del comando o dell’assegnazione temporanea di dipendenti presso amministrazioni anche straniere), ovvero stabile e duraturo (come nel caso della mobilità volontaria precedentemente descritta). A ben vedere, l’unica specie di mobilità compiutamente disciplinata dal legislatore è quella esterna, nelle due categorie della mobilità individuale e di quella collettiva, in quanto la mobilità interna è sostanzialmente ignorata dall’ordinamento positivo (1), salvo quanto si dirà al paragrafo successivo in relazione ad alcuni recenti interventi normativi. La principale fonte di disciplina dell’istituto della mobilità nel settore pubblico è il decreto legislativo n. 165/2001 (2). L’unica fonte ulteriormente (*) Dirigente di II fascia del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Ha svolto la pratica forense presso l’Avvocatura Generale dello Stato. Il presente contributo riflette le opinioni dell’Autore e non impegna in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza. (1) In realtà, l’ipotesi della mobilità interna, in forza del richiamo contenuto nell’art. 2 del d.lgs. n. 165/2001, dovrebbe essere regolata dall’art. 2103 del codice civile, che disciplina il trasferimento del lavoratore nel settore privato. Si deve però aggiungere che con la recente manovra d’agosto 2011 sembrerebbe essere stata introdotta nella regolamentazione del rapporto di lavoro pubblico una disciplina specifica della mobilità obbligatoria interna. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 295 deputata a regolamentare la materia è la contrattazione collettiva (3), espressamente richiamata dalle vigenti norme primarie. Il quadro normativo generale è caratterizzato da un particolare favor per l’istituto della mobilità, quale strumento per conseguire una più efficiente distribuzione organizzativa delle risorse umane nell’ambito della pubblica amministrazione globalmente intesa, con significativi riflessi sul contenimento della spesa pubblica, nonché sull’effettività del diritto al lavoro quale diritto costituzionalmente garantito (4). Ciò premesso, nel presente contributo si approfondiranno gli istituti previsti e disciplinati dagli articoli 30 (5) e 33 del decreto legislativo n. 165/2001, recentemente modificati dal legislatore con l’approvazione di alcuni provvedimenti normativi (d.lgs. n. 150/2009 - c.d. riforma Brunetta, l. n. 183/2010 - c.d. Collegato lavoro e l. n. 183/2011 - c.d. legge di stabilità 2012), riguardanti rispettivamente il “passaggio diretto di personale tra amministrazioni diverse” e le “eccedenze di personale e mobilità collettiva”. 2. La mobilità individuale I requisiti del passaggio diretto di personale tra amministrazioni diverse, ricavabili dal disposto del comma 1 dell’art. 30 del d.lgs. n. 165/2001, sono: • l’iniziativa del dipendente (6); • la vacanza di posti in organico nell’amministrazione di destinazione; • l’identità della qualifica posseduta dal dipendente rispetto a quella richiesta per la copertura del posto vacante; • il parere favorevole dei dirigenti responsabili degli uffici di appartenenza e di destinazione (7). (2) Si deve, inoltre, segnalare il d.P.R. n. 3/1957, che contiene i tratti essenziali della disciplina dell’istituto del comando. (3) A ben vedere, l’intervento della contrattazione collettiva non è strettamente necessario, in quanto la mobilità può essere realizzata sulla base delle disposizioni di legge, senza dover attendere la regolamentazione contrattuale della materia. Ciononostante, la mobilità è disciplinata anche a livello contrattuale: si veda, ad esempio, l’art. 26 del CCNL Ministeri 2006-2009. (4) In questo senso, Dipartimento della Funzione Pubblica, circolare n. 4/2008. (5) L’art. 30 del d.lgs. n. 165/2001 è stato modificato dall’art. 49 del d.lgs. n. 150/2009 con l’obiettivo di favorire la mobilità attraverso il ricorso a procedure trasparenti. (6) Poiché la norma parla di facoltà della pubblica amministrazione di coprire posti vacanti attraverso il passaggio diretto, non sembra potersi configurare, al riguardo, un diritto soggettivo del dipendente al trasferimento. Secondo parte della dottrina, tuttavia, sussisterebbe la possibilità per il dipendente di sindacare il diniego di consenso alla mobilità quando risulti irrazionale e non corrispondente ai criteri di correttezza e buona fede. (7) Sul punto la vigente disposizione non è particolarmente felice per la sua formulazione letterale: tuttavia, dalla configurazione dell’istituto in termini di cessione del contratto, deriva che per il perfezionamento della fattispecie è comunque necessario, oltre al consenso dell’amministrazione di destinazione, anche quello dell’amministrazione di provenienza. Il parere dei dirigenti responsabili è di natura vincolante, con la conseguenza del rafforzamento del peso delle valutazioni del dirigente in ordine alle professionalità necessarie a garantire lo svolgimento dell’attività dell’ufficio. 296 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 Il decreto legislativo n. 150/2009 ha, poi, introdotto nel comma 1 l’obbligo di pubblicazione dei posti vacanti in organico da ricoprire attraverso passaggio diretto di personale da altre amministrazioni, nonchè quello di fissazione preventiva dei criteri di scelta, delineando in questo modo una particolare procedura di evidenza pubblica, seppur semplificata, a garanzia dei principi pubblicistici (8) di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa (9). Sotto il profilo della natura giuridica dell’istituto, la giurisprudenza (10) ha definitivamente ricondotto la mobilità nell’ambito dello schema civilistico della cessione del contratto, facendone conseguire la necessità del concorso della volontà, oltre che del dipendente che avanza la richiesta, di entrambe le pubbliche amministrazioni coinvolte. La norma in esame disciplina, infatti, una vicenda di diritto sostanziale alla quale devono partecipare necessariamente tre soggetti: il dipendente che chiede di essere trasferito, l'amministrazione verso cui si dirige il trasferimento e l'amministrazione di appartenenza di detto lavoratore (11). Inoltre, la giurisprudenza (12) ha sostenuto che la mobilità volontaria non comporta la costituzione di un nuovo rapporto, ma solo il trasferimento della titolarità di un rapporto di lavoro già esistente da un’amministrazione ad un’altra, con la conseguenza che il cessionario non può sottoporre il dipendente ce- (8) Gli atti adottati in materia di mobilità, pur classificabili come atti di gestione privatistici ex art. 5 del d.lgs. n. 165/2001, mantengono comunque peculiarità pubblicistiche. D’altra parte, occorre considerare che si tratta pur sempre della cessione di un rapporto di lavoro di natura privatistica al quale il dipendente ha avuto accesso previo superamento di un concorso pubblico che ne ha attestato l’idoneità alle funzioni da svolgere. PASQUA S., in La mobilità dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni tra atti autoritativi, atti gestionali e contratto, La mobilità nel lavoro pubblico, su www.funzionepubblica.it osserva che “nella materia vengono in evidenza tre aspetti: un profilo di attinenza della mobilità alla sfera macro-organizzativa della Pubblica Amministrazione in generale, in connessione ai processi di riordino e riallocazione delle funzioni tra diversi livelli di governo e/o tra diverse Amministrazioni; un aspetto di inerenza all’organizzazione e alla pianificazione dell’attività di ciascuna Pubblica Amministrazione in relazione alla programmazione del fabbisogno di professionalità; un profilo “micro” di esame, concernente gli effetti della mobilità rispetto al rapporto di lavoro con l’Amministrazione, con i conseguenti risvolti attinenti alle situazioni giuridiche soggettive ed alla tutela giurisdizionale”. (9) Sul punto, Dipartimento della Funzione Pubblica, nota circolare n. 11786 del 22 febbraio 2011, prevede che “le procedure di mobilità volontaria vanno, pertanto, avviate mediante indizione di appositi bandi. Non si ritiene, infatti, rispettato il precetto normativo con un mero esame delle domande di trasferimento presentate spontaneamente da alcuni dipendenti, salvo disposizioni derogatorie previste dalla legge”. (10) Ex multis, Cass., 9 maggio 2009, n. 11593 e C. Cost., 3-12 novembre 2010, n. 324. (11) Per la giurisprudenza, ne consegue, sul piano processuale, l'esistenza di un litisconsorzio necessario tra tutti i predetti soggetti, sicché, qualora il lavoratore convenga in giudizio soltanto l'amministrazione "ad quam" per il negato trasferimento, il contraddittorio deve essere integrato, ai sensi dell'art. 102, secondo comma, cod. proc. civ., anche nei confronti dell'amministrazione d'appartenenza non evocata in giudizio. (12) Ex multis, Cass., SS.UU. 1 dicembre 2006, n. 26420. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 297 duto ad un nuovo periodo di prova, ove il periodo di prova sia già stato superato nell’amministrazione di provenienza. Anche l’ARAN ha affermato che la mobilità, per sua natura, non comporta la novazione del rapporto di lavoro, ma implica la prosecuzione con un nuovo datore di lavoro del rapporto precedentemente instaurato, sì che l’effettuazione di un nuovo periodo di prova non sembra essere coerente con la portata dell’istituto (13). Il trasferimento è disposto, ai sensi del comma 2-bis del citato art. 30, nei limiti dei posti vacanti, con inquadramento nell’area funzionale e posizione economica corrispondente a quella posseduta presso le amministrazioni di provenienza (14). Il decreto legge n. 138/2011 ha, inoltre, previsto, al fine di facilitare le procedure in commento, che il trasferimento possa essere disposto anche se la vacanza sia presente in area diversa da quella di inquadramento, assicurando la necessaria neutralità finanziaria. Il comma 2-bis della disposizione in commento fissa, infine, due ulteriori principi: quello della prevalenza della mobilità sui concorsi e quello della prioritaria immissione nei ruoli dei dipendenti già in posizione di comando o di fuori ruolo. Quanto al primo, si prevede che le amministrazioni, prima di procedere all’espletamento di procedure concorsuali finalizzate alla copertura di posti vacanti in organico, devono attivare le procedure di mobilità di cui al comma 1. La giurisprudenza ha osservato, al riguardo, che il citato art. 30 impone alle pubbliche amministrazioni che devono coprire eventuali posti vacanti del proprio organico di avviare le procedure di mobilità prima di procedere all'espletamento delle procedure concorsuali, pena la nullità di queste ultime e delle relative assunzioni, con conseguente piena possibilità di tutela giurisdizionale innanzi al giudice amministrativo (15). Quanto al secondo principio, la disposizione consente ai dipendenti in posizione di comando o fuori ruolo di accedere ad una procedura di mobilità “privilegiata”, nel senso che essi - secondo l’interpretazione recentemente for- (13) In questo senso, ARAN, Orientamenti applicativi sulla disciplina contrattuale del Comparto Ministeri. (14) Inoltre, Cass., 17 luglio 2006, n. 16185, ha affermato che “l’art. 30 stabilisce la regola generale dell'applicazione del trattamento giuridico ed economico, compreso quello accessorio, previsto nei contratti collettivi nel comparto dell'amministrazione cessionaria. Dunque, non sono giustificate disparità di trattamento tra dipendenti dello stesso ente, a seconda della provenienza”. Inoltre, Cons. St., Ad. Plen. 11 dicembre 2006, n. 14, ha escluso che il trattamento economico accessorio in godimento possa essere mantenuto nel passaggio per mobilità tra pubbliche amministrazioni. (15) Da ultimo, Cons. St., 18 agosto 2010, n. 5830. Anche TAR Campania, 18 ottobre 2006, n. 8616, ha stabilito che “le amministrazioni pubbliche, per la copertura dei posti vacanti, devono preventivamente attivare le procedure di mobilità e solo successivamente, in caso di infruttuosità delle stesse, possono procedere all’espletamento delle procedure concorsuali”. 298 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 nita dal Dipartimento della Funzione Pubblica - non sono assoggettati ad alcun procedimento ad evidenza pubblica, in quanto, trattandosi di soggetti che già ricoprono temporaneamente la posizione lavorativa che intendono occupare stabilmente attraverso la mobilità, la loro idoneità a svolgere detta funzione si dà per acquisita (16). Inoltre, si deve aggiungere che l’art. 13 della legge n. 183/2010 ha aggiunto all’art. 30 in commento un comma, il 2-sexies, che prevede una forma di mobilità temporanea, disponendo che le pubbliche amministrazioni, per motivate esigenze organizzative, risultanti dai documenti di programmazione previsti all’articolo 6, possono utilizzare in assegnazione temporanea, con le modalità previste dai rispettivi ordinamenti, personale di altre amministrazioni per un periodo non superiore a tre anni, fermo restando quanto già previsto da norme speciali sulla materia, nonché il regime di spesa eventualmente previsto da tali norme e dal decreto legislativo n. 165/2001 (17). Da ultimo, appare opportuno un cenno alla disposizione di cui all’art. 1, comma 29, del decreto legge n. 138/2011 (c.d. manovra di agosto 2011), disciplinante, in contrapposizione a quella volontaria fin qui esaminata, la mobilità obbligatoria. La disposizione da ultimo citata recita testualmente: “I dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, esclusi i magistrati, su richiesta del datore di lavoro, sono tenuti ad effettuare la prestazione in luogo di lavoro e sede diversi sulla base di motivate esigenze, tecniche, organizzative e produttive con riferimento ai piani della performance o ai piani di razionalizzazione, secondo criteri ed ambiti regolati dalla contrattazione collettiva di comparto. Nelle more della disciplina contrattuale si fa riferimento ai criteri datoriali, oggetto di informativa preventiva, e il trasferimento è consentito in ambito del territorio regionale di riferimento; per il personale del Ministero dell’interno il trasferimento può essere disposto anche al di fuori del territorio regionale di riferimento. Dall’attuazione del presente comma non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Il legislatore ha, dunque, ripreso il disposto dell’art. 2103 del codice civile, riadattandolo alla realtà del settore pubblico e prevedendo che i dipendenti pubblici debbano, su richiesta del datore di lavoro, effettuare la prestazione (16) In questo senso, Dipartimento della Funzione Pubblica, nota circolare n. 11786 del 22 febbraio 2011, chiarisce che “l’immissione in ruolo del personale comandato può essere decisa dall’amministrazione a prescindere dall’avvio di procedure concorsuali. In tal caso, il bando dei posti che l’amministrazione intende occupare può avere rilevanza interna rivolta solo a coloro che sono in posizione di comando. Tale procedura non libera l’amministrazione dall’obbligo di cui al comma 1 dell’art. 30 del d.lgs. n. 165/2001 (bando di mobilità) laddove si intenda procedere con assunzioni dall’esterno”. (17) Sembrerebbe trattarsi di una fattispecie di comando, istituto già disciplinato dal d.P.R. n. 3/1957, con durata temporale circoscritta e limitata. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 299 lavorativa in luogo o sede diversi, sulla base di motivate esigenze, tecniche, organizzative e produttive con riferimento ai piani della performance o ai piani di razionalizzazione. In attesa dell’emanazione della disciplina contrattuale di riferimento, si utilizzeranno, a questo fine, i criteri datoriali, oggetto di mera informativa preventiva, e l’ambito entro cui sarà consentito il trasferimento sarà quello regionale, con la sola eccezione del personale del Ministero dell’interno. Si tratta, a ben vedere, di un intervento teso ad introdurre nel settore pubblico una specie particolare di mobilità, in cui ciò che sembrerebbe mutare nel rapporto di lavoro è soltanto il luogo di esecuzione della prestazione e non anche il datore di lavoro, che resterebbe il medesimo. Per quanto riguarda, infine, l’incidenza della mobilità sui vincoli di bilancio delle amministrazioni, la nota circolare n. 11786 del 22 febbraio 2011 del Dipartimento della Funzione Pubblica ha ribadito la perdurante validità dell’art. 1, comma 47, della legge n. 311/2004, per il quale in vigenza di disposizioni che stabiliscono un regime di limitazione delle assunzioni di personale a tempo indeterminato (18), sono consentiti trasferimenti per mobilità, anche intercompartimentale, tra amministrazioni sottoposte al regime di limitazione, nel rispetto delle disposizioni sulle dotazioni organiche. Conseguentemente, nella programmazione triennale del fabbisogno occorrerà specificare soltanto le autorizzazioni necessarie per acquisire personale in mobilità da amministrazioni pubbliche che non sono soggette a vincoli assunzionali specifici (19). D’altra parte, la nota circolare n. 46078 del 18 ottobre 2010 del Dipartimento della Funzione Pubblica aveva già precisato che i trasferimenti per mobilità verso enti ed amministrazioni sottoposti ad un regime assunzionale (18) Si veda, da ultimo, l’art. 16, comma 1, lett. a) del d.l. n. 98/2011 in materia di proroga dell’efficacia delle disposizioni in materia di limitazione delle facoltà assunzionali per le amministrazioni dello Stato. (19) In questo senso, Corte dei Conti, sezione regionale controllo Piemonte, delibera n. 42/2011/SRCPIE/PAR, ha statuito che “la mobilità, anche intercompartimentale, tra amministrazioni sottoposte a disciplina limitativa appare consentita, poiché modalità di trasferimento che non genera variazione della spesa complessiva e, dunque, operazione neutra per la finanza pubblica. Tuttavia, come è stato precisato anche dal Dipartimento della Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dapprima con la circolare n. 4/2008 e poi con parere n. 4 del 19 marzo 2010, la configurabilità della mobilità in termini di neutralità di spesa resta garantita solo ove avvenga tra amministrazioni entrambe sottoposte a vincoli in materia di assunzioni a tempo indeterminato. In tal caso, infatti, la mobilità non è qualificabile come assunzione da parte dell’amministrazione ricevente unità di personale in esito a procedure di mobilità, e i nuovi ingressi non vengono imputati alla quota di assunzioni normativamente prevista. Correlativamente, la mobilità non può essere computata come cessazione da parte dell’ente che cede personale in mobilità al fine di procedere all’instaurazione di nuove assunzioni al di fuori dei limiti previsti dalla disciplina vigente. Qualora l’amministrazione cedente non fosse anch’essa sottoposta a vincoli sulle assunzioni, per l’amministrazione ricevente l’acquisizione andrebbe invece computata come assunzione e dunque sarebbe ammessa nel rispetto dei limiti delle assunzioni possibili”. 300 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 vincolato non rientrano nel limite del 20%, né per quanto concerne il calcolo della spesa delle cessazioni, né di quella delle assunzioni. 3. La mobilità collettiva Nel solco tracciato dalla manovra di agosto 2011 si pone il più recente intervento realizzato con la legge di stabilità 2012 (legge n. 183/2011), che, con l’art. 16, ha completamente riscritto l’art. 33 del decreto legislativo n. 165/2001. La norma fa seguito alle raccomandazioni dell’Unione europea sulle necessità di riduzione della spesa pubblica, con particolare riferimento alla spesa del personale dipendente delle pubbliche amministrazioni, pur costituendo un mero intervento modificativo di un impianto già presente da anni e poco utilizzato (20). Le novità più sostanziali rispetto alla precedente disciplina riguardano gli aspetti di seguito indicati: • la necessità che ogni amministrazione provveda ogni anno ad una verifica della propria dotazione di personale e degli eventuali esuberi (precedentemente non esisteva un limite temporale preciso); • la previsione espressa che l’inosservanza dell’obbligo ricognitivo comporta delle sanzioni, come l’impossibilità per l’amministrazione inadempiente di procedere ad assunzioni o ad instaurare qualsivoglia rapporto di lavoro, pena la nullità degli atti posti in essere; • la comminatoria della responsabilità disciplinare per il dirigente che non attivi le procedure previste (precedentemente era prevista una responsabilità per danno erariale, che in linea teorica non si deve ritenere esclusa neanche adesso ma, prima, difficilmente attivabile in assenza di un limite temporale preciso per l’obbligo di rilevazione); • la mera informazione preventiva (21) alle RSU e alle organizzazioni sindacali firmatarie del CCNL di comparto o di area (precedentemente era prevista una informazione preventiva alle RSU e alle organizzazioni sindacali firmatarie del CCNL, con indicazione dei motivi dell’esubero e dei motivi tecnici e organizzativi per i quali si riteneva di non poter adottare misure per il riassorbimento del personale e su tale informazione si apriva il confronto che, in (20) Si potrebbe sostenere che la nuova formulazione dell’art. 33 si limita ad operare un coordinamento interno al d.lgs. n. 165/2001, soprattutto a seguito delle modifiche apportate a quest’ultimo dalla c.d. riforma Brunetta. (21) Oggi, quindi, i sindacati e le RSU sono semplicemente oggetto di un’informativa e non possono neanche, come in passato, esaminare le cause che hanno contribuito a determinare l’eccedenza di personale e, soprattutto, verificare la possibilità di pervenire ad un accordo sulla ricollocazione. Si ha, quindi, un rafforzamento delle prerogative unilaterali datoriali anche in questa materia, in coerenza con lo spirito della c.d. riforma Brunetta, laddove in passato lo scopo della procedura era invece quello di consentire un confronto con le OO.SS. diretto ad individuare le soluzioni alle riscontrate situazioni di eccedenza. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 301 caso di disaccordo, poteva, almeno per amministrazioni statali ed enti pubblici non economici, proseguire presso il Dipartimento della Funzione Pubblica). Più in dettaglio, la nuova normativa prevede i seguenti passaggi. Le amministrazioni pubbliche, laddove ravvisino situazioni di soprannumero o di eccedenze di personale (22), anche in sede di rilevazione annuale delle eccedenze del personale, ai sensi dell’art. 6, comma 12 del d.lgs. n. 165/2001, devono attivare le procedure indicate nell’articolo, dandone immediata comunicazione al Dipartimento della Funzione Pubblica. Il legislatore specifica, inoltre, che rilevano esclusivamente le “esigenze funzionali” o la “situazione finanziaria” delle amministrazioni come parametro per la valutazione delle eccedenze di personale: ciò è confermato inoltre dall’inciso sull’imprescindibile connessione della rilevazione di eccedenze di personale con gli atti attraverso i quali si procede alla determinazione e alla variazione delle dotazioni organiche (23). La mancata ricognizione annuale comporta per le amministrazioni l’impossibilità di assumere o di instaurare qualsiasi tipo di rapporto di lavoro con qualsiasi tipologia contrattuale, pena la nullità di tali atti. La mancata attivazione delle procedure di cui all’art. 33 in commento comporta, per il dirigente, responsabilità disciplinare. La procedura inizia con l’informazione preventiva che il dirigente deve dare alle rappresentanze unitarie del personale ed alle organizzazioni sindacali firmatarie del CCNL di comparto o area. Decorsi dieci giorni dalla comunicazione, l’amministrazione applica l’art. 72, comma 11 del decreto legge n. 112/2008, in base al quale essa può recedere, unilateralmente, dal rapporto di lavoro al momento del compimento della anzianità massima contributiva di quaranta anni dei lavoratori considerati in soprannumero. In alternativa, ma in subordine, l’amministrazione verifica se è possibile una ricollocazione del personale in eccedenza nell’ambito della stessa amministrazione, anche mediante il ricorso a forme flessibili di gestione del tempo di lavoro, o a contratti di solidarietà (24). Se non è possibile una ricollocazione presso la stessa amministrazione allora, previo accordo, si cercherà di ricollocare i lavoratori presso altre amministrazioni, nell’ambito della medesima regione, tenuto anche conto di (22) Nel vigore della precedente disciplina, l’art. 33 trovava applicazione soltanto nei casi in cui l’eccedenza di personale riguardasse almeno dieci dipendenti. (23) Ciò comporta una stretta connessione tra atti di natura pubblicistica (quali sono quelli con cui si procede alla ridefinizione delle dotazioni organiche) ed atti privatistici (quali sono gli atti che caratterizzano la procedura di mobilità collettiva in esame). (24) È da ritenere che per forme flessibili di gestione del tempo di lavoro si intenda parlare della possibilità di part-time, orizzontali o verticali, mentre non si comprende il richiamo ai contratti di solidarietà, non applicati e non applicabili alla pubblica amministrazione. 302 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 quanto prevede l’art. 1, comma 29 del decreto legge n. 138/2011. Per l’eventuale passaggio diretto ad altre amministrazioni fuori dal territorio regionale, si prevede che possano essere i CCNL a stabilire criteri generali e procedure per consentire tale passaggio. In questo caso si applica quanto dispone l’art. 30 del medesimo decreto legislativo n. 165/2001. Decorsi 90 giorni dalla data di comunicazione alle RSU e alle organizzazioni sindacali, l’amministrazione collocherà in disponibilità (25) il personale che non sia possibile impiegare diversamente nell’ambito della medesima amministrazione e che non è stato possibile ricollocare, ovvero che non abbia preso servizio presso la diversa amministrazione. Dalla data di collocamento in disponibilità restano sospese tutte le obbligazioni inerenti il rapporto di lavoro ed il lavoratore ha diritto, per un massimo di 24 mesi, ad una indennità pari all’80% dello stipendio e dell’indennità integrativa speciale, con l’esclusione di qualsiasi altro emolumento retributivo. È riconosciuto il diritto all’assegno familiare e il periodo di godimento della indennità sarà valido ai fini pensionistici. Decorsi inutilmente i 24 mesi, il rapporto di lavoro si intende definitivamente risolto: in dottrina, si è evidenziato che la fattispecie in esame dà luogo ad una risoluzione automatica ex lege del rapporto, per effetto della disposizione di cui all’art. 34, comma 4, del d.lgs. n. 165/2001, e non già ad un licenziamento (26). (25) Si ritiene, in dottrina, che il dipendente che all’esito della procedura sia collocato in disponibilità possa impugnare, innanzi al G.O., l’atto (privatistico) di collocamento in disponibilità. (26) SORDI P., in La mobilità collettiva, La mobilità nel lavoro pubblico, su www.funzionepubblica. it. CONTRIBUTI DI DOTTRINA E-government e tutela dei dati personali: un quadro d’insieme Emanuela Brugiotti* Con il termine e-government si intende comunemente il processo di informatizzazione (1) della pubblica amministrazione, attraverso il quale è possibile trattare la documentazione e gestire i documenti stessi tramite strumenti digitali, grazie alle strutture proprie dell’ICT (2), allo scopo di rendere più snella ed efficiente l’attività degli enti locali e dell’amministrazione pubblica in generale, offrendo più servizi ai cittadini ed alle imprese, in un’ottica di trasparenza e fruibilità delle informazioni (3). Negli ultimi anni il rapporto fra tecnologia e pubblica amministrazione ha visto il passaggio dall’introduzione dei primi strumenti informatici alla teleamministrazione e digitalizzazione delle attività amministrative. In particolare, le politiche di e-government, contenute nei recenti interventi legislativi e regolamentari, hanno mirato non solo alla realizzazione di un sistema informativo volto all’automazione delle procedure interne della pubblica amministrazione e all’erogazione dei diversi servizi ai cittadini ed alle imprese, ma anche all’interconnessione fra i singoli sistemi informatici (*) Avvocato in Roma, Dottore di ricerca in Giustizia costituzionale e diritti fondamentali nell’Università di Pisa, già praticante forense presso l’Avvocatura dello Stato. (1) Ovvero il processo attraverso il quale il mezzo informatico rende un oggetto materiale (es. documento), interoperabile e consultabile attraverso il computer. (2) ICT è l’acronimo di Information and Communication Technology, con questo termine si intende, generalmente, la possibilità di trasmissione dati attraverso apparecchiature informatiche, anche se nell’ultimo periodo il termine è pure usato per indicare gran parte del mondo informatico. (3) Cfr. S. STIZIA, Informazione, nuove tecnologie e cambiamenti relazionali tra PA e cittadini, in Diritto dell’Internet, Ipsoa, n. 6/2006, p. 615. 304 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 delle amministrazioni (4). Fra le diverse implicazioni della digitalizzazione della p.a. si evidenzia in particolare, per l’argomento trattato in questa sede, l’aumento esponenziale della raccolta di informazioni, nonché la notevole riduzione delle distanze, anche in termini temporali fra produzione, elaborazione e diffusione delle stesse. Perciò questo pone la necessità di contemperare tale sviluppo con le esigenze di tutela della riservatezza, della protezione dei dati personali e della sicurezza informatica in generale (5). Da questo punto di vista, quindi, l’e-government si intreccia necessariamente con la normativa in materia di privacy soprattutto quando viene richiesto alle pubbliche amministrazioni di rendere più fruibili ed accessibili i propri servizi, anche tramite strumenti che consentano al cittadino un’elevata autonomia ed interattività, come i siti web o la posta elettronica. Volendo tracciare un quadro normativo ed istituzionale del fenomeno, si può dire innanzitutto che le azioni italiane in materia di sviluppo dell’e-government (o amministrazione digitale) sono per la maggior parte attuazione a livello nazionale di indirizzi stabiliti in sede comunitaria, ciò ad ulteriore conferma che oggi quasi tutte le questioni assumono ormai una dimensione transfrontaliera e globale (6). Queste linee guida sono state efficacemente sintetizzate (7) in questi termini: • creazione di un unico spazio europeo dell'informazione; • innovazione e investimento nella ricerca; • sviluppo e diffusione di servizi di amministrazione digitale per migliorare l’efficienza e l’efficacia della pubblica amministrazione; • inclusione digitale, ovvero non lasciare indietro nessun cittadino rispetto alla fruizione di servizi di amministrazione digitale. In Italia il recepimento di queste indicazioni si è mosso principalmente attraverso due direttrici: la definizione di un quadro normativo ed una serie di (4) F. G. ANGELINI, Pubblica amministrazione digitale, diritto di accesso e privacy, in L. BOLOGNINI, D. FULCO, P. PAGANINI (a cura di), Next Privacy, pag. 260. Per poter realizzare un sistema informativo integrato ed unificato è necessario garantire che due o più applicazioni residenti in più sistemi, abbiano la possibilità di interoperare tra loro. Così C. SILVESTRO, E-government, e-governance, edemocracy, in G. CASSANO (a cura di), Diritto delle nuove tecnologie informatiche e dell’Internet, IPSOA 2002, pag. 1279-1281. (5) Cfr. E-government: il punto dei Garanti europei, Newsletter del Garante per la protezione dei dati personali n. 174 del 9-15 giugno 2003, consultabile su http://www.garanteprivacy.it/garante/doc.jsp? ID=188992. (6) Il Consiglio europeo con la Strategia di Lisbona, ratificata nel marzo del 2000, ha fissato, infatti, l’obiettivo “di fare dell'Unione Europea la più competitiva e dinamica economia della conoscenza del mondo” entro il 2010, sono seguiti poi i piani eEurope 2002, eEurope 2005 e la strategia i2010, vedi http://europa.eu/legislation_summaries/information_society/c11328_it.htm. (7) F.S. PROFITI, Lo stato di attuazione dell’E-Goverment in Italia, consultabile su http://www.cattolici- liberali.com/tocquevilleacton/pubblicazioni/focus/focus-paper20_ottobre08.pdf. DOTTRINA 305 investimenti sia a livello di pubblica amministrazione centrale sia a livello regionale e degli enti locali, con la predisposizione di progetti cofinanziati. Il nucleo dell’impianto normativo è costituito dal Codice dell’amministrazione digitale (CAD), emanato per la prima volta con D.lgs. 7 marzo 2005, n. 82 (8). Il 19 febbraio 2010 il Consiglio dei Ministri, in virtù della delega contenuta nell’art. 33 della L. n. 69/2009, ha approvato il nuovo Codice dell’amministrazione digitale (9). La tecnica utilizzata è stata quella della novella legislativa. Infatti, il conseguente D.lgs. n. 235 del 30 dicembre 2010 (10) non ha sostituito il vecchio testo con uno nuovo, ma vi ha apportato direttamente le modifiche, operando sui vecchi articoli. Le principali novità hanno riguardato: la riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni (attraverso l’istituzione di un ufficio unico responsabile delle attività Ict (11)), la razionalizzazione organizzativa e informatica dei procedimenti, l’introduzione del protocollo informatico e del fascicolo elettronico, la semplificazione dei rapporti con i cittadini e con le imprese (attraverso l’introduzione di forme di pagamenti informatici, lo scambio di dati tra imprese e Pa, la diffusione e l’uso della Pec - Posta elettronica certificata), l’accesso ai servizi in rete, l’utilizzo della firma digitale - la dematerializzazione dei documenti e l’arricchimento dei contenuti dei siti istituzionali in termini di trasparenza. Inoltre, è stata implementata la sicurezza dei dati attraverso la predisposizione, in caso di eventi disastrosi, di piani di emergenza per garantire la continuità operativa nella fornitura di servizi e lo scambio di dati tra Pa e cittadini. Ancora, una volta operativo il nuovo CAD, il cittadino comunicherà una volta sola i propri dati alla PA centrale; sarà, poi, onere delle amministrazioni in possesso di tali dati assicurare, tramite convenzioni, l’accessibilità delle informazioni alle altre amministrazioni richiedenti. In generale, comunque, sia il vecchio quanto il nuovo Codice, si inseriscono in un tessuto normativo volto alla costruzione di una nuova figura di pubblica amministrazione, maggiormente orientata verso i cittadini e user friendly (12). (8) Consultabile su http://www.interlex.it/testi/dlg05_82.htm. (9) Consultabile su http://www.innovazionepa.gov.it/media/350095/nuovo_codice_della_a mministrazione_ digitale_cad.pdf; http://www.digitpa.gov.it/amministrazione_digitale. (10) G.U. 10 gennaio 2011, n. 6, consultabile su http://www.gazzettaufficiale.it/guridb/dispatcher ?service=1&datagu=2011-010&task=dettaglio&numgu=6&redaz=011G0002&tmstp=1294735143548. Cfr. anche P. RIDOLFI (a cura di), Il nuovo Codice della Amministrazione Digitale, Collana di Minigrafie, Tecnologia dei Processi Documentali, 2011, Fondazione Siav Academy - Edizione fuori commercio, consultabile sul sito http://www.digita-lex.it/pages/documents/ita/minigrafia7.pdf. (11) Cfr. art. 17 Cad. A tale ufficio afferiscono i compiti relativi, tra gli altri, alla cooperazione e revisione della riorganizzazione dell’amministrazione, ai fini di una più efficace erogazione di servizi in rete a cittadini e imprese, mediante gli strumenti della cooperazione applicativa tra pubbliche amministrazioni, ivi inclusa la predisposizione e l’attuazione di accordi di servizio tra amministrazioni, per la realizzazione e compartecipazione dei sistemi informativi cooperativi. (12) E. BASSOLI, E-Government e privacy, consultabile in www.federalismi.it. 306 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 Su questa linea, quindi, l’art. 3 commi 1, 1-bis e 1-ter del CAD ha previsto il diritto del cittadino e delle imprese all’uso delle tecnologie informatiche come strumento per l’interazione con la Pubblica Amministrazione. La normativa ha disciplinato poi gli strumenti utilizzati normalmente per operare con la pubblica amministrazione e necessari nell’ambito dell’amministrazione digitale: la firma elettronica, in sostituzione della firma autografa, la posta elettronica certificata, in sostituzione della comunicazione via fax o via raccomandata a/r, regole per i pagamenti elettronici, lo sportello unico per le attività produttive anche in modalità telematica. Infine, è stata promossa l’alfabetizzazione informatica dei cittadini, la formazione informatica dei dipendenti pubblici, lo scambio di informazioni tra pubbliche amministrazioni, attraverso modalità prettamente informatiche, basate sulle regole della Rete internazionale della pubblica amministrazione e del Sistema Pubblico di Connettività (SPC) (13). Quest’ultimo, in particolare, è inteso come “l’insieme delle infrastrutture tecnologiche e delle regole tecniche per lo sviluppo, la condivisione, l’integrazione e la diffusione del patrimonio informativo e dei dati della pubblica amministrazione” necessarie per la realizzazione della “interoperabilità” - vale a dire dei servizi idonei a favorire lo scambio di dati e informazioni all’interno delle pubbliche amministrazioni e tra queste ed i cittadini - e della c.d. “cooperazione applicativa” che consente l’interazione tra i sistemi informatici delle pubbliche amministrazioni, permettendo così l’integrazione delle informazioni e dei procedimenti amministrativi (14). Il Codice dell’amministrazione digitale, infatti, ha previsto l’accessibilità, da parte delle pubbliche amministrazioni, ai dati detenuti da altre amministrazioni secondo quello spirito di “leale cooperazione istituzionale” tra soggetti pubblici, già esplicitato nell’art. 22, comma 5, L. 241/90, definito ora, appunto, “cooperazione applicativa”. A tal fine, l’art. 14, comma 3 del CAD ha stabilito che lo Stato provveda alla creazione di organismi di cooperazione con le Regioni e le autonomie locali, promuovendo intese ed accordi tematici e territoriali, favorendo la collabora- (13) F.S. PROFITI, Lo stato di attuazione dell’E-Goverment in Italia, op. cit. Il Sistema Pubblico di Connettività (SPC) è stato istituito con il Decreto Legislativo 28 febbraio 2005, n. 42 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 73 del 30 marzo 2005), successivamente confluito nel CAD. Al sistema pubblico di connettività il d.lgs. 4 aprile 2006, n. 159 Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, recante codice dell’amministrazione digitale, in G.U. n. 99 del 29 aprile 2006 – S.O. n. 105, ha dedicato l’intero Capo VIII “Sistema pubblico di connettività e rete internazionale della pubblica amministrazione”. (14) E. BASSOLI, E-Government e privacy, op. cit., pag. 11. In merito cfr. art. 68 Cad il quale appunto prevede che le pubbliche amministrazioni nella predisposizione o nell’acquisizione dei programmi informatici, adottino soluzioni informatiche che assicurino l’interoperabilità e la cooperazione applicativa e che consentano la rappresentazione dei dati e documenti in più formati, di cui almeno uno di tipo aperto, salvo che ricorrano peculiari ed eccezionali esigenze. DOTTRINA 307 zione interregionale, incentivando la realizzazione di progetti a livello locale, in particolare mediante il trasferimento delle soluzioni tecniche ed organizzative, così ad auspicare programmaticamente l’eliminazione del digital divide (15), tra amministrazioni di diversa dimensione e collocazione territoriale. Anche per quanto concerne gli investimenti, di particolare rilievo è la forte collaborazione tra centro, regioni ed enti locali. Gli interventi sono stati articolati in due fasi distinte di attuazione (dette eGov fase I e eGov fase II). Peraltro, il Sistema pubblico di connettività, previsto come indicato dal CAD, deve anche garantire “la sicurezza, la riservatezza delle informazioni, nonché la salvaguardia e l’autonomia del patrimonio informativo di ciascuna pubblica amministrazione” (16). I diversi progetti previsti del Codice sono stati, fino a poco tempo fa, coordinati e monitorati dal Centro Nazionale per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione (17) (CNIPA), attualmente, in seguito all’entrata in vigore del D.lgs. n. 177/2009 (il 29 dicembre 2009), questo ha assunto il nome di DigitPA (18), con il relativo trasferimento delle funzioni. Il DigitPA è un ente pubblico non economico che opera secondo le direttive e sotto la vigilanza del Ministro per la Pubblica Amministrazione e l'Innovazione, con autonomia tecnica e funzionale, amministrativa, contabile, finanziaria e patrimoniale. L’ente svolge funzioni di natura progettuale, tecnica, operativa e di coordinamento nei confronti della pubblica amministrazione centrale e di quelle locali (19). Si tenga presente poi che a gennaio del 2009 è stato presentato dal Ministero per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione un piano d’azione denominato "Piano E-Government 2012" (20), finalizzato a colmare il divario nell’applicazione delle tecnologie nei servizi pubblici da parte dei cittadini italiani rispetto a quelli europei, attraverso l’applicazione del Codice dell’amministrazione digitale e avendo come punto di riferimento il piano d’azione europeo sull’e-goverment. Inoltre, con la legge finanziaria del 2006 è stata istituita l’Agenzia per la diffusione delle tecnologie per l’innovazione (21), con lo scopo di integrare il (15) Digital divide, è il termine tecnico utilizzato per definire le disuguaglianze nell’accesso e nell’utilizzo delle tecnologie. (16) Art. 73 comma 2 del CAD. (17) http://www.cnipa.gov.it/. (18) http://www.digitpa.gov.it/. (19) Cfr. http://www.digitpa.gov.it/digitpa/funzioni. (20) http://www.e2012.gov.it/egov2012/index.php. (21) L’Agenzia per la diffusione delle tecnologie per l’innovazione, istituita con la legge finanziaria 2006, opera a livello nazionale ed è sottoposta ai poteri di indirizzo e vigilanza del Ministero per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione. Ha la finalità di accrescere la capacità competitiva delle piccole e medie imprese e dei distretti industriali attraverso la diffusione di nuove tecnologie e delle re- 308 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 sistema della ricerca con quello produttivo attraverso l'individuazione, valorizzazione e diffusione di nuove conoscenze, tecnologie, brevetti ed applicazioni industriali prodotti su scala nazionale ed internazionale. Fra gli elementi di maggior rilievo nella struttura dell’e-government deve essere segnalato il cd. “fascicolo informatico” (22), strumento cardine dell’intero iter procedimentale (23). Secondo quanto disciplinato dal Codice, le regole per la costituzione e l'utilizzo del fascicolo sono conformi ai principi di una corretta gestione documentale ed alla disciplina della formazione, gestione, conservazione e trasmissione del documento informatico, ivi comprese le regole concernenti il protocollo informatico (24) ed il sistema pubblico di connettività. In ogni caso queste devono rispettare i criteri dell'interoperabilità e della cooperazione applicativa. Inoltre, il fascicolo è consultabile e integrabile da parte di tutte le amministrazioni che intervengono nel procedimento (25), pur essendo nella sua costituzione e gestione curato dall’amministrazione titolare del procedimento. Il fascicolo informatico, inoltre, deve avere i requisiti della facile reperibilità, corretta collocazione e collegabilità; in più è costituito e gestito in modo da consentire l’esercizio in via telematica dei diritti di cui alla L. n. 241 del 1990. Quanto è stato brevemente illustrato mette in evidenza come questo generale processo di automazione e integrazione tecnologica nella p.a., sia nella sua organizzazione sia nei suoi rapporti con i soggetti privati, pone inevitabilmente anche problematiche legate alla necessità di tutela del diritto alla privacy, in considerazione della enorme quantità di dati che entrerà, come osservato, nel patrimonio informativo delle diverse pubbliche amministrazioni, anche per il pregresso. Non sono mancate al riguardo iniziative dell’Autorità garante, la quale lative applicazioni industriali e di promuovere l’integrazione fra il sistema della ricerca e il sistema produttivo attraverso l’individuazione, la valorizzazione e la diffusione di nuove conoscenze, brevetti ed applicazioni industriali prodotti su scala nazionale e internazionale. http://www.aginnovazione.gov.it/it/index.html. (22) Art. 41 del Codice dell’amministrazione digitale. (23) Relazione illustrativa al decreto legislativo 4 aprile 2006, n. 159 Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, recante codice dell’amministrazione digitale, in G.U. n. 99 del 29 aprile 2006, S.O. n. 105. (24) Con il D.P.R. 428/98 - in seguito abrogato dal D.P.R. 445/2000 - il legislatore ha emanato il regolamento per la gestione del protocollo informatico che viene definito come “l’insieme delle risorse di calcolo, degli apparati, delle reti di comunicazione e delle procedure informatiche utilizzate dalle amministrazioni per la gestione dei documenti”. Con questo atto vengono fissati per la prima volta a livello normativo, i criteri generali. Sull’argomento cfr. E.BASSOLI, E-Government e privacy, op. cit., pag. 17 e ss.; http://www.cnipa.gov.it/site/it-it/Attivit%C3%A0/Protocollo_informatico/;http://www. interlex.it/pa/prot_norme.htm; P. RIDOLFI, Amministrazione digitale. Compendio normativo, Collana Minigrafie, Tecnologia dei processi documentali, Fondazione Siav Academy, 2010, consultabile sul sito www.digita-lex.it. (25) L’art. 41 del Codice prevede, quindi, una gestione flessibile del fascicolo da parte della pubblica amministrazione titolare, tuttavia il fascicolo può contenere aree riservate, cui hanno accesso solo la medesima P.A. o alcuni soggetti da essa individuati. DOTTRINA 309 ha segnalato diverse volte la necessità di una maggiore precisione e proporzionalità nell’identificazione della tipologia dei dati da inserire nei documenti, le persone che vi possono accedere e le garanzie da apprestare, soprattutto in relazione ai dati sanitari e biometrici. Senza contare che comportamenti illeciti ed inidonee misure di sicurezza, oltre a ledere diritti, ostacolano la diffusione e l’uso delle tecnologie all’interno del tessuto economico e sociale, alimentando la diffidenza nei confronti delle stesse (26). Il Codice dell’amministrazione digitale ha posto regole di garanzia in materia di tutela dei dati personali sia a livello generale sia in riferimento a singoli istituti. Dal primo punto di vista, l’art. 2 comma 5 ha sancito che le disposizioni del Codice “si applicano nel rispetto della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali e, in particolare, delle disposizioni del codice in materia di protezione dei dati personali approvato con decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196. I cittadini e le imprese hanno, comunque, diritto ad ottenere che il trattamento dei dati effettuato mediante l'uso di tecnologie telematiche sia conformato al rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità dell'interessato”. All’interno della normativa, invece, ad esempio in tema di firme elettroniche e certificatori (27), l’art. 27 comma 2 lett. e) ha previsto, poi, che il soggetto certificatore adotti “adeguate misure contro la contraffazione dei certificati, idonee anche a garantire la riservatezza, l'integrità e la sicurezza nella generazione delle chiavi private nei casi in cui il certificatore generi tali chiavi” (28). Così come è stato previsto il rispetto della normativa a tutela dei dati personali per quanto riguarda, in generale, il trattamento e la disponibilità dei dati da parte delle pubbliche amministrazioni, la sicurezza e l’accesso agli stessi (29). (26) Cfr. ad esempio quanto riportato su http://ansa.it/site/notizie/awnplus/internet/news/2009- 05-12_112376716.html o http://www.helpconsumatori.it/news.php?id=23353. (27) Ai sensi dell’art. 1 lett. g) del CAD il certificatore è “il soggetto che presta servizi di certificazione delle firme elettroniche o che fornisce altri servizi connessi con queste ultime”. (28) Di seguito l’art. 32, comma 5, ha prescritto che “il certificatore raccoglie i dati personali solo direttamente dalla persona cui si riferiscono o previo suo esplicito consenso, e soltanto nella misura necessaria al rilascio e al mantenimento del certificato, fornendo l'informativa prevista dall'articolo 13 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196. I dati non possono essere raccolti o elaborati per fini diversi senza l'espresso consenso della persona cui si riferiscono ”. Ancora, in tema di segretezza della corrispondenza trasmessa per via telematica, l’art. 49 comma 1, ha imposto che “gli addetti alle operazioni di trasmissione per via telematica di atti, dati e documenti formati con strumenti informatici non possono prendere cognizione della corrispondenza telematica, duplicare con qualsiasi mezzo o cedere a terzi a qualsiasi titolo informazioni anche in forma sintetica o per estratto sull'esistenza o sul contenuto di corrispondenza, comunicazioni o messaggi trasmessi per via telematica, salvo che si tratti di informazioni per loro natura o per espressa indicazione del mittente destinate ad essere rese pubbliche”. (29) Cfr art. 50. Disponibilità dei dati delle pubbliche amministrazioni e art. 52. Accesso telematico e riutilizzazione dei dati e documenti delle pubbliche amministrazioni. 310 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 Bisogna sottolineare, al riguardo, che anche in quest’ambito un ruolo fondamentale è svolto proprio dalla sicurezza e, in questo settore in particolare, dalla sicurezza del sistema informatico della pubblica amministrazione (30). Infatti, “qualunque informazione una Pubblica Amministrazione maneggi che sia riconducibile a cittadini identificati o identificabili - quindi pressoché tutte - deve essere protetta”, così “quando noi parliamo di Pubbliche Amministrazioni in senso lato accade che la sicurezza sia oggi l’oggetto principale della privacy ”, perché “la privacy è la sicurezza, la sicurezza è la tutela dei dati dei cittadini” (31). A tal fine, ai sensi dell’art. 71 comma 1 bis del Codice dell’amministrazione digitale è stato emanato il DPCM (1 aprile 2008) (32), contenente le regole tecniche e di sicurezza per il funzionamento del Sistema Pubblico di Connettività. Il Decreto ha previsto che le funzioni di referente centrale nazionale per la prevenzione, il monitoraggio, il coordinamento informativo e l’analisi degli incidenti di sicurezza nel SPC siano svolte dal Computer Emergency Response Team del Sistema Pubblico di Connettività (CERT-SPC) (33), sul modello adottato a livello internazionale. La struttura, già operativa dall’inizio del 2008 all’interno del CNIPA (ora DigiPA), ha finito per sostituire il precedente Gov- Cert (34). Le suddette Regole tecniche hanno disposto, poi, che ogni amministrazione centrale aderente all’SPC si doti di una Unità Locale di Sicurezza (ULS), cui è affidata sia la responsabilità di porre in atto tutte le fasi di prevenzione degli incidenti ICT, sia la gestione operativa degli eventuali incidenti informatici. Fra gli strumenti dell’e-government maggiormente posti all’attenzione (30) Cfr. art. 51 CAD. (31) Così F. PIZZETTI, Sicurezza, privacy, efficienza dei servizi: come conciliare i diritti per lo sviluppo di una moderna pubblica amministrazione, Roma, 22 novembre 2007, consultabile su http://www.forumpa.it/convegni/sicurezzaprivacy/documenti/Pizzetti.pdf. Si vedano anche Linee guida in materia di trattamento di dati personali contenuti anche in atti e documenti amministrativi, effettuato da soggetti pubblici per finalità di pubblicazione e diffusione sul web, del 19 marzo 2011, Gazzetta Ufficiale n. 64 del 19 marzo 2011, consultabile su http://www.garanteprivacy.it/garante/doc.jsp?ID=1793203. Ancora, Linee guida per la sicurezza Ict nelle pubbliche amministrazioni, http://www.cnipa.gov.it/site/_files/Quaderno% 20n%2023.pdf; http://www.cert_spc.it/ index.php/download/govcert /1469-normativa-e-lineeguida. (32) Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 1 aprile 2008 “Regole tecniche e di sicurezza per il funzionamento del Sistema pubblico di connettività previste dall'articolo 71, comma 1-bis del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, recante il «Codice dell'amministrazione digitale»” G.U. 21 giugno 2008, n. 144. Consultabile su http://www.cnipa.gov.it/HTML/RN_ICT_cron/spc_DPCM%201%20aprile% 202008.pdf. (33) http://www.cert-spc.it. Per le Regioni, le Regole Tecniche stabilisco la presenza di un CERTSPC- R. A tal fine è operativo un gruppo di lavoro con le Regioni per definire, attraverso intese, le modalità di partecipazione al sistema di sicurezza SPC, si veda ad esempio il Protocollo d’Intesa tra il CNIPA e la Regione Toscana, consultabile su http://www.e.toscana.it/e-toscana/resources/cms/documents/PI_cnipa_rt_8Lug2008.pdf . (34) http://www2.cnipa.gov.it/site/_contentfiles/01380100/1380130_SEMINARIO_SICUREZZA_ CNIPA.pdf. DOTTRINA 311 pubblica e che più coinvolgono la vita del singolo cittadino, devono a questo punto segnalarsi, in particolare, la posta elettronica certificata e le carte elettroniche. Per questo di seguito se ne illustrano gli elementi fondamentali. Per quanto riguarda la Posta Elettronica Certificata (PEC) (35), questa consiste in un tipo speciale di e-mail che consente di inviare/ricevere messaggi di testo e allegati, con lo stesso valore legale di una raccomandata con avviso di ricevimento, e rappresenta uno degli strumenti più importanti nel processo di digitalizzazione delle amministrazioni pubbliche. La Pec, quindi, è fra le priorità del Piano di e-Government 2012, in cui è inserita come progetto “Casella elettronica certificata”(36). Il CAD ha prescritto che le amministrazioni utilizzino la PEC per comunicare con i soggetti che hanno dichiarato il loro indirizzo, ai sensi della vigente normativa tecnica (art. 6), e sono dotati di una casella PEC per ciascun registro di protocollo (art. 47, c. 3). Inoltre, ha stabilito che le comunicazioni di documenti tra le PA sono valide, ai fini della verifica della provenienza, se trasmesse attraverso sistemi di PEC (art. 47, c. 2). In base all'art. 48 del CAD, la trasmissione telematica di comunicazioni che necessitano di una ricevuta di invio e di una ricevuta di consegna avviene mediante PEC o mediante altre soluzioni tecnologiche individuate con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, sentito DigitPA. Tale trasmissione equivale alla notificazione per mezzo della posta, salvo che la legge disponga diversamente. Norme più recenti poi hanno esteso la portata della PEC, come strumento di scambio di documenti, dal solo ambito delle amministrazioni a quelli delle imprese, dei professionisti e dei cittadini (37). Per quanto riguarda in particolare la tutela dei dati personali, specifica (35) D.P.R. n. 68/2005, consultabile su http://archivio.cnipa.gov.it/site/_files/DPR%2011%20febbraio% 202005%20n.68.pdf. Ai sensi dell’art. 1 comma 1 v-bis del Codice dell’amminsitrazione digitale, per posta elettronica certificata si intende il “sistema di comunicazione in grado di attestare l’invio e l’avvenuta consegna di un messaggio di posta elettronica e di fornire ricevute opponibili ai terzi”; cfr. h t t p : / / w w w. d i g i t p a . g o v. i t / s i t e s / d e f a u l t / f i l e s / d i g i t p a _ m i n i g _ 11 _ a l t a _ 0 . p d f ; https://www.postacertificata.gov.it /guida_utente/normativa-di-riferimento.dot e P. RIDOLFI, Amministrazione digitale. Compendio Normativo, op. cit., pag. 78 e ss.; cfr. ancora V. GAMBETTA, Pec, Posta Elettronica Certificata, Collana di Minigrafie, 2011, Fondazione Siav Academy. (36) Da aprile 2010 tutti i cittadini italiani - anche se residenti all'estero - hanno diritto gratuitamente a una casella di posta elettronica certificata (PEC) per effettuare via internet, con le pubbliche amministrazioni, comunicazioni di cui sia necessario certificare la spedizione, in sostituzione della raccomandata con ricevuta di ritorno. Cfr. http://www.digitpa.gov.it/pec/pec-al-cittadino; http://www.cnipa.gov.it/site/it-it/Attivit%C3%A0/Posta_Elettronica_ Certificata__%28PEC%29/. (37) La PEC per il cittadino (tecnicamente designata come CEC-PAC) può essere utilizzata solo per le comunicazioni con le Pubbliche Amministrazioni. Per comunicare con altri indirizzi PEC è necessario acquistare una casella PEC commerciale. Riguardo alle caselle della pubblica amministrazione, la comunicazione è limitata alle pubbliche amministrazioni iscritte all'Indice P.A.(IPA). Cfr. http://www.digitpa. gov.it/pec/pec-al-cittadino e per la relativa normativa cfr. http://www.digitpa.gov.it/pec/ normativa. 312 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 importanza svolge la sicurezza del servizio di trasmissione telematica di messaggi e documenti (38). Oltre a quanto precedentemente osservato relativamente alla sicurezza del sistema pubblico di connettività, qui si evidenzia che tutte le connessioni sono realizzate tramite l'impiego di canali sicuri, basati sull'utilizzo dei protocolli di trasporto Transport Layer Security (TLS)/Secure Sockets Layer (SSL), che permettono la crittografia dei dati trasmessi in rete, mentre, per quanto riguarda i virus, vengono effettuati controlli sia nei messaggi in ingresso che in uscita. Le configurazioni adottate, inoltre, sono tali per cui tutti i messaggi di PEC in cui è rilevata la presenza di virus sono consegnati al motore di Posta- Certificat@ per essere trattati in conformità alla normativa vigente. Ancora, le registrazioni (log), inerenti i messaggi scambiati, sono memorizzati su un registro riportante i dati significativi dell'operazione. I log dei messaggi sono conservati per 30 mesi a cura del gestore (39). Infine, per quanto riguarda la posta elettronica certificata, il Digitpa svolge sia un ruolo di vigilanza sui gestori del servizio sia di supporto alle pubbliche amministrazioni per la sua introduzione nei procedimenti amministrativi (40). Quanto alle garanzie per il trattamento dei dati personali da parte delle pubbliche amministrazioni, oltre a quelle già indicate (41) previste dal CAD, l’art. 46 dello stesso Codice ha prescritto in particolare che “al fine di garantire la riservatezza dei dati sensibili o giudiziari di cui all’articolo 4, comma 1, lettere d) ed e), del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, i documenti informatici trasmessi ad altre pubbliche amministrazioni per via telematica possono contenere soltanto le informazioni relative a stati, fatti e qualità personali previste da legge o da regolamento e indispensabili per il perseguimento delle finalità per le quali sono acquisite ”. (38) Si vedano il Decreto del Ministro per l'innovazione e le tecnologie 2 novembre 2005 "Regole tecniche per la formazione, la trasmissione e la validazione, anche temporale, della posta elettronica certificata" (G.U. 15 novembre 2005, n. 266), consultabile su http://www.digitpa.gov.it/sites/default/files/normativa/ DM_2-nov-2005.pdf e l’Allegato al Decreto 2 novembre 2005 “Regole tecniche del servizio di trasmissione di documenti informatici mediante posta elettronica certificata”, il quale contiene tutte le regole e le specifiche tecniche per l'utilizzo della PEC, consultabile su http://www.digitpa.gov.it/sites/default/ files/normativa/Pec_regole_tecniche_DM_2-nov-2005.pdf. (39) Per quanto riguarda l’Indice P.A. (IPA), vedi http://www.indicepa.gov.it/, mentre per la sicurezza vedi https://www.postacertificata.gov.it/guida_utente/sicurezza.dot. Esempi di fattori critici per il trattamento dei dati personali possono rinvenirsi nel fatto che la conservazione per 30 mesi delle ricevute include anche l'intero messaggio e suoi eventuali allegati, anche se il gestore PEC è l'unico ad avere le credenziali per aprire "la busta di trasporto", non possono essere esclusi tentativi di accesso da parte di terzi dovuti a vulnerabilità del servizio del gestore o accessi abusivi di soggetti dello stesso. Il gestore dovrà, quindi, munirsi di adeguate misure di sicurezza. Un altro nodo delicato relativo al trattamento dei dati personali è che la normativa non stabilisce dove vada a finire tutta la corrispondenza PEC e le informazioni in essa contenute dopo i trenta mesi. (40) http://www.digitpa.gov.it/pec/ruolo-digitpa. (41) Vedi ad es. l’art. 49 del CAD, cit., che ha assoggettato alla segretezza il contenuto della corrispondenza trasmessa per via telematica. Ed in generale gli artt. 50 e ss. del CAD, cit. DOTTRINA 313 Infine, l’art. 47 comma 3 del CAD, ha previsto che l’utilizzo della posta elettronica per le comunicazioni fra l’amministrazione ed i propri dipendenti avvenga mediante la posta elettronica o altri strumenti informatici di comunicazione, “nel rispetto delle norme in materia di protezione dei dati personali e previa informativa agli interessati in merito al grado di riservatezza degli strumenti utilizzati ”. Passando ora alle carte elettroniche - ovvero la Carta di Identità Elettronica (CIE), la Carta Nazionale dei Servizi (CNS) ed il passaporto elettronico - questi sono strumenti, come detto, ritenuti essenziali per l’ammodernamento della pubblica amministrazione e sono individuati nelle politiche di e-government, fra l’altro, come mezzi attraverso i quali gli utenti vengono riconosciuti in rete in modo certo, al fine di usufruire dei servizi erogati per via telematica dalle amministrazioni pubbliche (42). In particolare, la carta d’identità elettronica (CIE) (43) è uno strumento di identificazione personale nonché di autenticazione per l'accesso ai servizi web erogati dalle Pubbliche Amministrazioni, come previsto dal Codice dell'amministrazione digitale (art. 66). Le regole tecniche del nuovo documento di riconoscimento personale sono state indicate nel Decreto Interministeriale dell'8 novembre 2007 (44). La carta contiene tutti i dati identificativi e le informazioni ufficiali relative alla persona e funzionerà anche come carta di servizi (45). Oltre ai dati identificativi personali, ai sensi dell’art. 66, comma 4 del Codice dell’amministrazione digitale, la carta d’identità elettronica può contenere, (42) Cfr. P. CORSINI, E. ORBINI MICHELACCI, Sostituire il documento cartaceo con il documento informatico, firmarlo e trasmetterlo in rete, in “Diritto dell’Internet”, Ipsoa, n. 3/2006, p. 311; P. RIDOLFI, Amministrazione digitale. Compendio normativo, cit., pag. 63 e ss. (43) La carta d’identità elettronica è una smart card che integra nel supporto in policarbonato una banda ottica e un microprocessore. Più specificamente, i dati del titolare, compresa la foto, sono impressi in modo visibile sia sul supporto fisico, per l’identificazione “a vista”, che sulla banda ottica e poi memorizzati informaticamente sul microchip e ancora sulla banda ottica. Per la normativa di riferimento cfr. http://www.cnipa.gov.it/site/it-it/Normativa/Raccolta_normativa_ICT/Carta_d%E2%80%99identit% C3%A0_elettronica_e_carta_nazionale_dei_servizi/. Ai sensi dell’art. 1, comma 1 lett. c) del Cad, per carta d’identità elettronica si intende “il documento d’identità munito di elementi per l’identificazione fisica del titolare rilasciato su supporto informatico dalle amministrazioni comunali con la prevalente finalità di dimostrare l’identità anagrafica del suo titolare”. (44) G.U. 9 novembre 2007 n. 229, S.O. n. 261, consultabile su http://www.cnipa.gov.it/HTML/ RN_ICT_cron/08/agg05/ ci_20071108_DM.pdf. (45) La Carta Nazionale dei Servizi è una smart card provvista esclusivamente del microchip (su un supporto fisico che non è necessariamente in policarbonato). Contrariamente alla CIE non si tratta in questo caso di un documento per l’identificazione a vista ma di uno strumento di autenticazione in rete che consente l’accesso ai servizi della P.A. resi disponibili per via telematica. La CNS è regolamentata ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 2 marzo 2004, n. 117 (G.U. 6 maggio 2004, n. 105) che ne stabilisce le modalità d’uso e di diffusione. La completa corrispondenza informatica tra CNS e CIE assicurerà l’interoperabilità tra le due carte e la continuità di servizi all’utente che passi dalla Carta Nazionale dei Servizi alla Carta d’Identità Elettronica. Cfr. E. BASSOLI, E-Government e privacy, op. cit., pag. 20. 314 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 “a richiesta dell’interessato, ove si tratti di dati sensibili: a. l'indicazione del gruppo sanguigno; b. le opzioni di carattere sanitario previste dalla legge; c. i dati biometrici indicati col decreto di cui al comma 1, con esclusione, in ogni caso, del DNA; d. tutti gli altri dati utili al fine di razionalizzare e semplificare l'azione amministrativa e i servizi resi al cittadino, anche per mezzo dei portali, nel rispetto della normativa in materia di riservatezza; e. le procedure informatiche e le informazioni che possono o debbono essere conosciute dalla pubblica amministrazione e da altri soggetti, occorrenti per la firma elettronica”. L’introduzione all’interno della carta d’identità elettronica, per fini di semplificazione amministrativa, di altri dati diversi da quelli anagrafici e non strettamente necessari per la funzione di identificazione personale, ha posto, già al suo affacciarsi nel panorama legislativo, diverse questioni in ordine alla tutela della riservatezza dei cittadini. La quantità di dati, anche sensibili, raccolta su ogni cittadino rischia di diventare in vero e proprio archivio, il cui utilizzo illegittimo potrebbe creare non pochi problemi. Già in riferimento alla Carta dei Servizi, il Garante espresse la necessità di particolari cautele e regole che evitassero la formazione di banche dati omnicomprensive, così come la raccolta e l’uso di dati personali in violazione dei principi di necessità, pertinenza e finalità (46). Al riguardo, l’art. 8 del DPCM 22 ottobre 1999, n. 437 (47) ha stabilito che sono dettate con decreto del Ministero dell’interno (48) le regole tecniche e di sicurezza, relative alle tecnologie ed ai materiali utilizzati per la produ- (46) Si veda il parere del Garante al Ministero per l’innovazione tecnologica del 2003, di cui un sunto è contenuto nella newsletter del Garante n. 177 del 7 - 13 luglio 2003, consultabile su http://www.garanteprivacy.it/garante/doc.jsp?ID =246147; quanto osservato da G. BUTTARELLI nel 2002 al Convegno: "Carta di identità elettronica e firma digitale: dalla sperimentazione ai servizi": “ << Si tratta di dati, questi ultimi - ha precisato il Segretario generale - che in realtà aprono una serie di questioni riguardanti da un lato la loro effettiva utilità nell’essere inseriti nella carta di identità elettronica e la loro successiva utilità da parte di terzi, siano essi enti pubblici o strutture private e, dall’altro, gli aspetti tecnici su come effettivamente raccoglierli ed inserirli >>. Altri aspetti delicati derivano dal modo con cui sono registrati e accessibili, dalle tecnologie e dalle finalità prescelte (…) << L’Autorità garante - ha proseguito Buttarelli - ha perciò il compito istituzionale di richiamare l’attenzione nelle sedi istituzionali nazionali e negli organismi internazionali competenti sulla questione, in modo tale che la carta di identità elettronica possa garantire adeguate certezze riguardo alla protezione dei dati personali >>”, cfr. http://www.garanteprivacy.it/garante/doc.jsp?ID=45900; ancora, G.RASI nell’ambito del Convegno: “La sicurezza partecipata: coordinamento e cooperazione interistituzionale” svoltosi all’interno nell’ambito del Forum P.A. 2004: “ <> (…) In particolare, adeguata attenzione dovrà essere posta nella definizione delle regole tecniche e delle misure di sicurezza che dovranno essere garantite al cittadino affinché in caso, ad esempio, di smarrimento o furto, la Carta possa essere immediatamente “invalidata” a garanzia dei dati in essa contenuti”, cfr. http://www.garanteprivacy. it/garante/doc.jsp?ID=1001758. (47) G.U. n. 277 del 25 novembre 1999. Consultabile su www.privacy.it/dpcm19991022.html. (48) Cfr. D.M. 8 novembre 2007, cit., consultabile anche su www.interno.it. DOTTRINA 315 zione delle carte d’identità elettroniche, alle modalità di compilazione, rilascio, aggiornamento e rinnovo dei documenti e per garantire l’integrità, l’accessibilità e la riservatezza delle informazioni contenute nel documento. Lo stesso articolo 8 ha previsto, poi, che le suddette regole tecniche e di sicurezza devono essere adeguate all’evoluzione delle conoscenze scientifiche e tecnologiche con cadenza almeno biennale. Altra questione, legata all’inserimento di ulteriori dati all’interno delle carte d’identità elettroniche e del loro futuro uso come carte dei servizi delle pubbliche amministrazioni, è quella del cd. codice d’identificazione unico. In molti paesi esiste già un identificatore unico utilizzato dai cittadini per i contatti con la pubblica amministrazione. Può trattarsi di un identificatore settoriale, come il codice fiscale italiano, oppure di un numero unico nazionale, come accade in Svezia e Finlandia (49). Un altro strumento di rilievo dell’e-government è il passaporto elettronico che dal 26 ottobre 2006 viene rilasciato dalle questure ed dagli uffici consolari italiani all’estero. Il documento, realizzato con particolari metodi di stampa anti contraffazione, è dotato di un microchip e di un microprocessore che consente la registrazione dei dati e certificati, riguardanti il titolare dello stesso e dell’Autorità che lo ha rilasciato. Inoltre, dal 19 maggio 2010, data dell’entrata in vigore del decreto 303/13 del 23 marzo 2010 (50), viene emesso il “nuovo passaporto ordinario”. Ai sensi dell’art. 2 del suddetto decreto, “nel chip sono, memorizzate, in formato interoperativo, l'immagine del volto e le impronte digitali del titolare. (49) Per un’interessante panoramica dei documenti d’identificazione in diversi paesi europei ed extraeuropei, nonostante la traduzione italiana non perfetta, cfr. http://www.worldlingo.com /ma/enwiki/it/National_identification_number/1. Si evidenzia, inoltre, che il 25 ottobre 2010, hanno preso il via sei progetti pilota, inseriti nel progetto generale denominato STORK, finanziato dal Programma europeo di Sostegno alle Politiche ICT (ICT-PSP) del Programma Quadro Competitività e Innovazione (CIP). Nell’ambito del progetto STORK è stata realizzata una piattaforma europea per l’interoperabilità delle identità elettroniche (eID) ed il 25 ottobre è stato appunto annunciato che i sei progetti piloti sono disponibili al pubblico: Autenticazione trans-frontaliera per servizi elettronici, Chat più sicura, Mobilità degli studenti, Trasmissioni elettroniche trans-frontaliere, Cambio di residenza e l’integrazione col portale dei servizi della Commissione Europea. Questa piattaforma consente ai cittadini di utilizzare il proprio identificativo elettronico nazionale in diversi Stati europei. I sei progetti piloti, avviati ufficialmente, saranno gradualmente migliorati e ne sarà verificata l’integrazione con i servizi dei portali attivi della piattaforma di interoperabilità di STORK. Cfr. http://www.digitpa.gov.it/ notizie/avviati-i-sei-progetti-pilota-di-stork-l%E2%80%99interoperabilit%C3%A0-dell%E2%80%99 identit%C3%A0-elettronica-tutta-eu. (50) Consultabile su http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/passaporto_ordinario /decreto_ 23_marzo_2010.pdf. Cfr. anche il Regolamento (CE) n. 444/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 28 maggio 2009, che modifica il regolamento (CE) n. 2252/2004 del Consiglio relativo alle norme sulle caratteristiche di sicurezza e sugli elementi biometrici dei passaporti e dei documenti di viaggio rilasciati dagli Stati membri, GUUE L 142 del 6 giugno 2009, consultabile su http://eurlex. europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:32009R0444:IT:NOT e http://eurlex.europa.eu/ LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2009:188:0127:0127:IT:PDF. 316 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 Nel chip sono altresì memorizzate le informazioni, già presenti sul supporto cartaceo, relative al passaporto ed al titolare, nonché i codici informatici per la protezione ed inalterabilità dei dati e le informazioni necessarie per renderne possibile la lettura agli organi di controllo. Gli elementi biometrici contenuti nel chip potranno essere utilizzati solo al fine di verificare l'autenticità del documento e l'identità del titolare attraverso elementi comparativi direttamente disponibili quando la legge lo prevede. I dati biometrici raccolti ai fini del rilascio del passaporto non saranno conservati in banche di dati ”. Particolari meccanismi di sicurezza sono finalizzati a garantire l’autenticità, la integrità e la riservatezza dei dati contenuti nel chip. In particolare, sono previsti due tipi di controllo degli accessi alla lettura dei dati registrati nel chip: il primo, Basic Access Control (BAC) per evitare la lettura dei dati senza il permesso del titolare del documento, il secondo, Extended Access Control, (EAC) per consentire la lettura dei file contenenti le immagini delle impronte ai soli soggetti autorizzati dallo Stato emettitore. La Nazione che rilascia passaporti biometrici contenenti impronte digitali può stabilire, per mezzo dell’EAC, i Paesi o i servizi che potranno leggere le impronte digitali registrate (51). Queste misure toccano uno degli aspetti critici del passaporto elettronico che, utilizzato prevalentemente per spostarsi da un paese all’altro, espone i dati in esso contenuti ad una diffusione anche esterna. Perciò sono necessarie, appunto, particolari cautele. Riguardo alla tutela dei dati personali contenuti nei passaporti, si segnala a livello internazionale, la “Risoluzione sull'utilizzo della biometria in passaporti, carte di identità e titoli di viaggio” del 2005, in occasione della 27ma Conferenza internazionale delle Autorità di protezione dei dati e della privacy, in cui quest’ultime hanno preso atto che “governi e organismi internazionali, ed in particolare l'Organizzazione internazionale dell'aviazione civile (ICAO), stanno attualmente completando la definizione di norme e standard tecnici volti ad integrare dati biometrici (impronte digitali, riconoscimento del volto) in passaporti e titoli di viaggio ai fini della lotta al terrorismo e della velocizzazione dei controlli alle frontiere e delle procedure di imbarco”. Pertanto, le stesse Autorità chiedono che “si limiti tecnicamente l'impiego della biometria in passaporti e carte di identità alle finalità di verifica, tramite il confronto fra i dati contenuti nel documento e i dati forniti dal titolare all'atto della presentazione del documento stesso” (52). (51) Tecnologie Biometriche per il controllo delle frontiere nell’Unione europea, consultabile su http://www.cnipa.gov.it/;html/docs/BIOMETRIA%20E%20SICUREZZA%20DELLE%20FRONTIERE. pdf. (52) Consultabile su http://www.garanteprivacy.it/garante/doc.jsp?ID=1170552. DOTTRINA 317 Sempre in merito alla sicurezza dei dati raccolti in questi documenti d’identificazione, si segnalano a livello comunitario il Regolamento (CE) n. 2252/2004 del Consiglio, del 13 dicembre 2004, relativo alle norme sulle caratteristiche di sicurezza e sugli elementi biometrici dei passaporti e dei documenti di viaggio rilasciati dagli Stati membri (53), il parere del 30 settembre 2005 del Gruppo di lavoro dei garanti europei sull’attuazione del suddetto regolamento (54), le decisioni della Commissione europea C (2005) 409 del 28 febbraio 2005 e C (2006) 2909 del 28 giugno 2006, sulle caratteristiche di sicurezza rispettivamente degli elementi biometrici primari e secondari nei passaporti e nei documenti di viaggio ed, infine, il Regolamento del Consiglio dell'Unione europea n. 444/2009 del 6 maggio 2009 (55), il quale modifica il precedente Regolamento del 2004. Anche in questo ambito, quindi, i principi cardine richiamati sono quelli di un elevato livello di sicurezza, della qualità dei dati (i dati personali devono essere adeguati, pertinenti, non eccedenti), della legittimità dei trattamenti e dell’adeguata informazione agli interessati. (53) GUCE L 385 del 29 dicembre 2004, pagg. 1-6, consultabile su http://eur-lex.europa.eu/ LexUriServ/ LexUriServ.do?uri=CELEX:32004R2252:IT:HTML. (54) Consultabile su http://ec.europa.eu/justice/policies/privacy/docs/wpdocs/2005/wp112_it.pdf. (55) GUUE L 142 del 6 giugno 2009, consultabile su http://eur-lex.europa.eu/ LexUriServ/LexUriServ.do?uri= CELEX:32009R0444:IT:NOT, v. , anche la relativa Rettifica, GUUE L 188/127 del 18 luglio 2009, consultabile su http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2009:188:0127:0127:IT:PDF. 318 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 Il nuovo reato di oltraggio a pubblico ufficiale (art. 341 bis c.p.): l’offesa della pubblica amministrazione di appartenenza e la risarcibilità del danno Simone Cardin* SOMMARIO: 1. Premessa - 2. Il “vecchio” reato di oltraggio e la scelta abrogativa del 1999 - 3. Il “nuovo” reato di oltraggio e la scelta penalizzatrice del 2009 - 4. In particolare: il bene giuridico tutelato dal “nuovo” reato di oltraggio - 5. Il terzo comma dell’art. 341 bis c.p. - 6. Il risarcimento del danno patito dalla Pubblica Amministrazione di appartenenza del pubblico ufficiale offeso - 7. Il ruolo dell’Avvocatura dello Stato. 1. Premessa Obiettivo di questo scritto è tracciare sinteticamente i profili del “nuovo” reato di oltraggio a pubblico ufficiale introdotto dalla legge n. 94 del 15 luglio 2009 (c.d. pacchetto sicurezza) nel codice penale all’art. 341 bis, con particolare attenzione alla problematica rappresentata dall’offesa alla Pubblica Amministrazione di appartenenza del pubblico ufficiale ed alla risarcibilità del bene leso da tale offesa. Appare in effetti corretto parlare di introduzione di un “nuovo” reato di oltraggio anziché di reintroduzione del “vecchio” reato, che era previsto dall’art. 341 c.p. e che era stato abrogato dalla legge n. 205 del 25 giugno 1999. Significative e molteplici sono infatti le differenze tra vecchia e nuova fattispecie penale, a partire proprio dagli elementi costitutivi che devono sussistere perché sussista il reato. 2. Il “vecchio” reato di oltraggio e la scelta abrogativa del 1999 Prima di passare all’esame del “nuovo” reato, ed in uno confrontarlo con il “vecchio”, giova un breve excursus storico sulle ragioni che avevano condotto alla abrogazione dell’art. 341 c.p. In passato, la dottrina (1) aveva sollevato seri dubbi circa la compatibilità con la Costituzione del reato di oltraggio a pubblico ufficiale disegnato dal legislatore del 1930, soprattutto con la motivazione che poiché il bene giuridico pro- (*) Avvocato dello Stato. (1) Si vedano, fra gli altri, G. FLORA, Il problema della costituzionalità del reato di oltraggio a pubblico ufficiale, in Arch. Giur. Serafini, 1976, p. 21 ss.; F.C. PALAZZO, Questioni di costituzionalità in tema di oltraggio a pubblico ufficiale, in Giur. cost., 1980, 1309; FIORE, I reati di opinione, Padova, 1972, 138. Per una introduzione alla teoria del diritto penale “costituzionalmente orientato”, si richiama F. MANTOVANI, Diritto penale, Cedam 2001, 192; G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale, parte generale, Bologna, 2009, 3; N. MAZZACUVA, Modello costituzionale di reato. Le definizioni del reato e la struttura dell’illecito penale, in AA.VV, Introduzione al sistema penale, vol. I, Torino, 2007, 83. DOTTRINA 319 tetto dal reato - vale a dire l’onore e il prestigio della pubblica amministrazione - non appariva un bene di rilievo costituzionale, la fattispecie penale non era conforme all’ottica di un diritto penale “costituzionalmente orientato”, in licenza del quale gli unici beni giuridici meritevoli di tutela penale dovrebbero essere quelli espressi nella Costituzione o quanto meno non incompatibili con la stessa. Peraltro, come si dirà meglio oltre, la Corte costituzionale era intervenuta sulla fattispecie dichiarandone l’illegittimità costituzionale solo in relazione al minimo edittale originariamente previsto nella reclusione di mesi sei, ritenendolo manifestamente irragionevole e sproporzionato, se confrontato alla pena prevista per il reato di ingiuria (2). Ad ogni modo, non fu la Corte costituzionale ad espungere dall’ordinamento l’art. 341 c.p. ma ciò avvenne a seguito di un preciso intervento del legislatore, attuato con la legge n. 205/1999. Quindi, dal 1999 al 2009 il presidio penale all’onore ed alla reputazione del pubblico ufficiale venne garantito, con i limiti propri della tipicità delle singole fattispecie, dai reati comuni di ingiuria (art. 594 c.p.) e di diffamazione (art. 595 c.p.) - con applicabilità dell’aggravante prevista dall’art. 61 n. 10 c.p. (“l’avere commesso il fatto contro un pubblico ufficiale”) -, a cui potevano aggiungersi, in relazione al singolo caso concreto, gli specifici reati di minaccia a pubblico ufficiale (art. 336 c.p.) e di oltraggio a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario (art. 342 c.p.). In questo contesto interviene il legislatore nel 2009, nell’ambito del corpo legislativo chiamato “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”, introducendo il “nuovo” reato di oltraggio a pubblico ufficiale. Tale intervento legislativo è stato criticato dalla gran parte della dottrina (3), da un lato, ribadendo, in buona sostanza, le medesime critiche di incostituzionalità che erano state indirizzare al vecchio reato di oltraggio, atteso pure che la nuova fattispecie sarebbe frutto della vecchia concezione autoritaria della Stato, non in linea con la visione paritetica dei rapporti tra p.a. e cittadino espressa dalla Costituzione; dall’altro, mettendo in discussione l’utilità ed opportunità della creazione del nuovo reato, atteso che la nuova fattispecie altro non sarebbe che una “norma manifesto”, di forte impatto simbolico, senza reali conseguenze positive sul sistema. (2) Corte costituzionale, sentenza 19 luglio 1994, n. 341, in Cass. pen., 1995, 25, con nota di G. ARIOLLI. (3) Si vedano, ex pluris, G.L. GATTA, La resurrezione dell’oltraggio a pubblico ufficiale, in O. MAZZA - F. VIGANÒ (a cura di), Il “Pacchetto sicurezza”, Torino, 2009, 153; G. MARTIELLO, Il delitto di oltraggio a pubblico ufficiale: una “riesumazione” davvero necessaria?, in Ius17, Studi e materiali di diritto penale, 2010, 180; G. FLORA, Oltraggio a pubblico ufficiale nel pacchetto sicurezza, in Dir. pen. proc., 2009, 12, 1449; R. PASELLA, Reintroduzione del delitto di oltraggio a pubblico ufficiale, in S. CORBETTA - A. DELLABELLA - G.L. GATTA (a cura di), “Sistema penale e sicurezza pubblica”: le riforme del 2009, Milano, 2009, 39. 320 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 3. Il “nuovo” reato di oltraggio e la scelta penalizzatrice del 2009 Ciò detto, la nuova fattispecie di reato è stata così disegnata dal legislatore del 2009: “Chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone, offende l’onore ed il prestigio di un pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni è punito con la reclusione fino a tre anni. La pena è aumentata se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato. Se la verità del fatto è provata o se per esso l’ufficiale a cui il fatto è attribuito è condannato dopo l’attribuzione del fatto medesimo, l’autore dell’offesa non è punibile. Ove l’imputato, prima del giudizio, abbia riparato interamente il danno, mediante risarcimento di esso sia nei confronti della persona offesa sia nei confronti dell’ente di appartenenza della medesima, il reato è estinto”. La dottrina ha da subito posto l’attenzione sulle differenze sussistenti tra il nuovo reato di oltraggio a pubblico ufficiale ed il vecchio (4). Al riguardo, deve affermarsi che il legislatore del 2009 ha voluto restringere il campo di applicabilità del reato di oltraggio rispetto alla previgente previsione delittuosa, e ciò ha fatto sia determinando con maggiore precisione gli elementi costitutivi della fattispecie sanzionatoria, sia aggiungendo alcuni elementi in passato non previsti, come ora si viene sinteticamente ad esporre. In primo luogo, perché sussista il reato di cui si discute, il fatto lesivo deve avvenire “in luogo pubblico o aperto al pubblico”. Trattasi di una assoluta novità rispetto alla previgente disciplina che comporta la non sussistenza del reato nel caso in cui l’offesa all’onore ed al prestigio del pubblico ufficiale avvenga in un luogo privato. Poi, perché sussista il reato di cui si discute, il fatto lesivo deve avvenire “in presenza di più persone”. Tale dato fattuale costituiva una circostanza aggravante del “vecchio” reato di oltraggio ex art. 341 c.p.; rispetto al “nuovo” reato previsto all’art. 341 bis, esso dato diventa elemento della fattispecie sanzionatoria, con la conseguenza che il reato non sussiste se l’offesa all’onore ed al prestigio del pubblico ufficiale non avviene in presenza di almeno altre due persone, oltre all’offensore ed al pubblico ufficiale oltraggiato. Ancora, perché sussista il reato di cui si discute, il fatto offensivo deve colpire il pubblico ufficiale “mentre compie un atto d’ufficio ed a causa o nell’esercizio delle sue funzioni ”. A fronte della mancata riproduzione, rispetto a quanto indicato nel previgente art. 341 c.p., dell’elemento della “presenza” del pubblico ufficiale al momento dell’offesa, il legislatore ha aggiunto la necessità che l’offesa venga posta in essere mentre il pubblico ufficiale compie un atto d’ufficio (oltre che, come già previsto dall’art. 341 c.p., “a causa o (4) Si richiamano gli interventi già citati sub nota 3; inoltre, v. pure A. NATALINI, “Resuscitato” il reato di oltraggio, in Diritto & Giustizia, 1 agosto 2009. DOTTRINA 321 nell’esercizio delle sue funzioni ”). In sostanza, tale elemento impone che vi sia contestualità di tempo e spazio tra il momento dell’offesa ed il momento dell’attività del pubblico ufficiale, mentre non parrebbe essere più necessario che il pubblico ufficiale sia presente all’esplicarsi dell’offesa nei suoi confronti e che tale offesa sia da lui percepita o percepibile direttamente. Infine, merita ancora da aggiungersi che il legislatore del 2009 non ha più previsto l’ipotesi di commissione del fatto "mediante comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritto o disegno, diretti al pubblico ufficiale"; ciò è coerente con la necessità che vi sia contestualità spazio-temporale tra il momento dell’offesa ed il momento dell’attività del pubblico ufficiale. Complessivamente, può dunque constatarsi che il campo di operatività del nuovo reato di oltraggio a pubblico ufficiale è più ristretto rispetto al passato, cossichè meno frequente ne sarà la sussistenza. Inoltre, non pare errato affermare che il legislatore del 2009, una volta assunta l’opzione di riattribuire rilevanza penale al fatto di oltraggio a pubblico ufficiale, abbia al contempo posto una serie di contromisure che ne rendano meno agevole e generalizzata la contestazione, financo a neutralizzare l’applicazione in concreto della relativa pena. In questa direzione, per così dire, “deflazionistica” si pongono tre ulteriori previsioni normative introdotte dal legislatore del 2009. In primo luogo, la seconda parte del secondo comma dell’art. 341 bis disciplina l’ipotesi in cui l’offesa al pubblico ufficiale si concreti nell’attribuzione a questo di un fatto determinato, prevedendo in tale caso un aumento di pena (i.e. una speciale circostanza aggravante), l’intensità dell’offesa ritenendosi in tal caso maggiore. Se però viene dimostrata la verità del fatto attribuito o se il pubblico ufficiale a cui il fatto è attribuito è condannato per averlo commesso, dopo l’attribuzione del fatto stesso, allora l’autore dell’offesa non è punibile (5). In secondo luogo, il legislatore del 2009 ha introdotto nel codice penale il nuovo art. 393 bis (Rubricato “Causa di non punibilità”), che così dispone: “Non si applicano le disposizioni degli articoli 336, 337, 338, 339, 341-bis, 342 e 343 quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbia dato causa al fatto preveduto negli stessi articoli, eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni ”. In buona sostanza, trattasi di una causa di giustificazione connessa al compimento da parte del pubblico ufficiale di atti arbitrari: è esclusa l’applicabilità del reato se chi ha compiuto l’oltraggio lo ha fatto perché ha reagito ad un pubblico ufficiale (5) Con l’introduzione di tale nuova causa di giustificazione il legislatore del 2009 ha deciso di estendere al nuovo reato di oltraggio la disciplina dettata all’art. 596, comma 4, c.p. per i reati di ingiuria e diffamazione (per l’esclusione dell’applicabilità della disciplina dettata all’art. 596, comma 4, c.p. al reato di oltraggio v. Cassazione penale, sentenza 80/146479). 322 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 che ha ecceduto le proprie attribuzioni, ponendo in essere atti di arbitrio (6). Infine, il terzo comma dell’art. 341 bis prevede una speciale causa di estinzione del reato, che è oggetto di particolare approfondimento nel presente lavoro. 4. In particolare: il bene giuridico tutelato dal “nuovo” reato di oltraggio L’esame di quest’ultima speciale causa di estinzione del reato necessita di essere preceduta, allo scopo di coglierne la reale portata applicativa, da alcune considerazioni in ordine al bene giuridico tutelato dalla nuova fattispecie di reato. Come sopra accennato, è opinione di gran lunga prevalente quella secondo cui il “nuovo” reato di oltraggio a pubblico ufficiale sia finalizzato alla tutela del medesimo bene giuridico già tutelato dal “vecchio” reato, consistente - come espressamente indicato sia nella vecchia e che nella nuova fattispecie legislativa - nell’“onore” e nel “prestigio” del pubblico ufficiale (7). Per quanto concerne la definizione di tale bene, in passato si affermava che per “onore” deve intendersi “l’insieme delle qualità morali di cui è dotata una persona” e che per “prestigio del pubblico ufficiale” deve intendersi “la dignità ed il rispetto dovuto a chi esercita una pubblica funzione” (8). Così inteso, il bene giuridico tutelato veniva identificato non già e non solo nel prestigio del singolo pubblico ufficiale, bensì direttamente nel prestigio della pubblica amministrazione di appartenenza (9), e prova ne era la circostanza che il reato era collocato nel Capo II del Titolo II del Libro II del codice penale, intitolato “Delitti dei privati contro la Pubblica Amministrazione”. Più precisamente, la giurisprudenza (10) aveva ritenuto il reato di natura plurioffensiva: sussisteva una protezione diretta al prestigio della pubblica amministrazione, ritenuta persona offesa primaria (sebbene in via mediata), ed una protezione indiretta o riflessa al prestigio del singolo pubblico ufficiale, ritenuto persona offesa secondaria (sebbene in via immediata). Tale primato del bene giuridico rappresentato dall’onore e il prestigio della pubblica amministrazione è ciò che aveva condotto la gran parte della dottrina (11) a sollevare forti dubbi sulla legittimità costituzionale del reato, nei termini sopra già esposti. (6) Come si ricorderà, già l’art. 4, D.Lgs.Lgt. 14 settembre 1944, n. 288 prevedeva, quale causa di giustificazione, che “Non si applicano le disposizioni degli artt. 336, 337, 338, 339, 341, 342, 343 del codice penale quando il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbia dato causa al fatto preveduto negli stessi articoli, eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni”. (7) Per una recente affermazione v. Cassazione penale, sentenza 25 gennaio 2012, n. 3176, in Diritto & Giustizia, 25 gennaio 2012. (8) Per tutti G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale, parte speciale, Bologna, 2009, 223. (9) Si veda Cassazione penale, sentenza 86/173093; Cassazione penale, 5 giugno 1989, in Riv. Pen., 90, 678. (10) Si veda Cassazione penale, sentenza 93/193689; Cassazione penale, sentenza 83/161163. (11) Vedi supra nota 1. DOTTRINA 323 Tuttavia, già in passato alcuni autori (12) avevano acutamente osservato che la presunta incompatibilità con la Carta costituzionale era superabile mediante una reinterpretazione ed ammodernizzazione costituzionalmente orientata della fattispecie, diretta alla valorizzazione, quale bene giuridico, in luogo del prestigio della pubblica amministrazione, del “normale funzionamento” ovvero del “buon andamento della pubblica amministrazione”, bene previsto espressamente all’art. 97 Cost. Tale osservazione coglieva nel segno del problema, ed infatti questa fu l’impostazione fatta propria dalla Corte costituzionale, la quale Consulta, come sopra detto, era intervenuta sulla fattispecie dichiarandone l’illegittimità costituzionale solo in relazione all’entità della pena, ritenuta irragionevole e sproporzionata, se confrontata a quella prevista per il reato di ingiuria. Invero, le questioni di legittimità costituzionale della fattispecie, (per lo più) formulate secondo lo schema della violazione del principio di uguaglianza stabilito all’art. 3 Cost. determinata dalla diversità del trattamento riservato al reato di oltraggio a pubblico ufficiale rispetto al reato di ingiuria, erano state più volte rigettate dalla Consulta, la quale aveva riconosciuto che la diversità di trattamento era ragionevolmente giustificata dalla necessità di garantire protezione particolare al bene giuridico costituzionalmente rilevante del buon andamento della pubblica amministrazione: “La plurioffensività del reato di oltraggio rende certamente ragionevole un trattamento sanzionatorio più grave di quello riservato all'ingiuria, in relazione alla protezione di un interesse che supera quello della persona fisica e investe il prestigio e quindi il buon andamento della pubblica amministrazione” (13). (12) Si veda per tutti M. ROMANO, I delitti contro la pubblica amministrazione, Milano, 1999, 65; quest’ultimo autore afferma pure che la “colorazione pubblicistica” del reato e la specialità del bene giuridico tutelato giustificano l’esistenza di una norma incriminatrice ad hoc, distinta dal reato di ingiuria. Si aggiunge che anche la Suprema Corte era giunta a questo risultato, laddove non escludeva la sussistenza del reato di oltraggio quando l’offesa proveniva da altro pubblico ufficiale, atteso che anche in questa ipotesi vi era pregiudizio al buon andamento della pubblica amministrazione (Cassazione penale, sentenza 82/156901; Cassazione penale, sentenza 88/181375). (13) Così Corte costituzionale, sentenza 19 luglio 1994, n. 341, cit. Si veda pure Corte costituzionale, sentenza 14 aprile 1980, n. 51, in Giur. cost., 1980, I, 359: “Come già avvertito nella sentenza n. 109 del 1968, l'articolo 341 del codice penale appresta una tutela che trascende la persona fisica del titolare dell'ufficio, per risolversi nella protezione del prestigio della pubblica amministrazione impersonata da quel titolare. Nonostante la contraria opinione del giudice a quo il perseguimento di un simile valore da parte del legislatore ordinario (alla cui insindacabile discrezionalità, ove non trasmodi in arbitrio, vanno rimesse le modalità attuative concrete), corrisponde alla finalità del buon andamento amministrativo prevista dall'art. 97 della Costituzione. Finalità che non si riferisce esclusivamente alla fase organizzativa iniziale della pubblica amministrazione, ma ne investe il complesso funzionamento (confronta sentenza n. 22 del 1966). Di qui una duplice conseguenza: da un lato ragionevolmente nella norma sull'oltraggio viene previsto un trattamento penale più grave di quello riservato all'ingiuria e dall'altro se il pubblico ufficiale, privato del potere di querela, si trova in situazione di disparità rispetto ai comuni cittadini, tale disparità e giustificata dalla protezione di un interesse che supera quello della persona fisica e che trova fondamento nella Carta costituzionale”. E ancora Corte costituzionale, sen- 324 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 Con l’introduzione della nuova fattispecie di reato, che è diretta alla tutela sempre del bene giuridico del prestigio della pubblica amministrazione, la gran parte della dottrina è tornata a ribadirne i profili di incostituzionalità, più che evidenziare alcuni elementi costitutivi e dati sintomatici di una ricercata valorizzazione, da parte del legislatore del 2009, del bene tutelato in termini di “buon andamento della pubblica amministrazione”, ciò che rende la fattispecie compatibile con il testo costituzionale. Detto in altre parole, è possibile affermare che il nuovo reato è stato costruito dal legislatore del 2009 con l’intento di punire quei comportamenti che ostacolano o mettono in discussione il “buon andamento della pubblica amministrazione”, interesse di sicuro rilievo costituzionale (14) e la cui tutela giustifica non solo l’opzione penale, ma anche una diversità di trattamento rispetto al reato comune di ingiuria. Anzi tutto, è sintomatica di questa impostazione la scelta di reintrodurre nel codice penale solo il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, mentre non si è ritenuto di fare altrettanto con il reato di oltraggio a pubblico impiegato (art. 344 c.p. abrogato sempre della legge n. 205/1999); conseguenza è che oggi la speciale tutela penale differenziata è prevista solo per il pubblico ufficiale, con esclusione quindi del mero incaricato di pubblico servizio (15). Altro segno di questa impostazione è il fatto che il “nuovo” reato di oltraggio sussiste solo se sussiste contestualità spazio-temporale tra il momento dell’offesa ed il momento dell’attività del pubblico ufficiale, ossia ciò che il legislatore del 2009 ha voluto punire in modo differenziato e speciale è solo tenza n. 109 del 19 luglio 1968: “Ugualmente infondata la questione sollevata si palesa se considerata con riferimento all'art. 3. Infatti la diversità delle sanzioni disposte nei casi di offesa all'onore e al decoro di una persona, nelle due ipotesi previste rispettivamente dagli artt. 341 e 594 del codice penale, trova un'ovvia giustificazione nella eterogeneità delle fattispecie criminose in essi considerate: una riguardante l'offesa recata ai privati cittadini, l'altra, invece, rivolta contro chi riveste la qualifica di pubblico ufficiale, e nell'atto dell'esercizio dei poteri a lui conferiti. È chiaro che in questo secondo caso la tutela penale dell'onore della persona fisica titolare del pubblico ufficio, è assorbita in quella del prestigio della pubblica Amministrazione che in essa si incarna, che viene colpito nel momento stesso in cui la sua autorità si fa concretamente valere, e pertanto dà luogo ad una nuova e diversa fattispecie legale. Così essendo, non sorge il problema prospettato nell'ordinanza della difficoltà di discriminare fra parte e parte della sanzione prevista dall'art. 341, allo scopo di stabilire quanto della medesima riguardi l'interesse del singolo e quanto quello della pubblica Amministrazione”. (14) Per il riconoscimento di detta portata, al di fuori dell’ambito penale, si veda, ex pluris Corte costituzionale, sentenza 4 gennaio 1999, n. 1, in Giur. cost., 1999, 1. (15) Né depone in senso diverso la redazione del nuovo art. 393 bis c.p., laddove accanto al “pubblico ufficiale” considera pure le figure dello “incaricato di un pubblico servizio” e del “pubblico impiegato”; tale formulazione è da ritenersi frutto di mera svista, derivata dalla volontà di traslare pressoché integralmente nel codice penale l’art. 4, D.Lgs.Lgt. 14 settembre 1944, n. 288 sopra citato e riportato sub nota 6. Questa scelta selettiva fa propri i suggerimenti già dati in passato da alcuni autori, nel senso di un ragionevole ridimensionamento dei soggetti passivi dei plurimi reati di oltraggio previsti in ordine dal codice penale (C. PEDRAZZI, Problemi e prospettive del diritto penale della impresa pubblica, in Riv. It. Dir. Proc. pen., 1966, 392; F. BRICOLA, Tutela penale della pubblica amministrazione e principi costituzionali, in Temi, 1968, 576). DOTTRINA 325 quell’offesa che colpisce il pubblico ufficiale mentre compie un atto d’ufficio, nell’ambito dell’esplicazione pubblica dei suoi poteri, in un contesto spaziotemporale in cui non solo è più evidente la dimensione pubblicistica del prestigio, ma soprattutto l’offesa si pone come di intralcio al buon esercizio dei pubblici poteri e dunque al buon andamento della pubblica amministrazione. In questa linea e logica si pone pure la necessità, di assoluta novità rispetto alla formula del “vecchio” reato di oltraggio, che l’offesa avvenga “in luogo pubblico o aperto al pubblico”, e pure la necessità che l’offesa avvenga “in presenza di più persone”, perché questo è il contesto privilegiato e prevalente in cui si realizza l’esercizio di pubblici poteri da parte della pubblica amministrazione. Ancora, attenta dottrina ha correttamente evidenziato che mentre nella “vecchia” fattispecie di reato di oltraggio il legislatore del 1930 aveva inteso punire colui che offendeva “l'onore o il prestigio di un pubblico ufficiale”, nell’attuale formulazione è stata preferita, per identificare il bene giuridico protetto, l’espressione “l’onore ed il prestigio di un pubblico ufficiale”, con l’uso dunque della congiunzione “e” al posto della “o”. Ciò implica che la tutela dell’onore del singolo pubblico ufficiale viene indissolubilmente a dipendere della tutela del prestigio della pubblica amministrazione di appartenenza, nel senso che perché sussista la protezione penale non è sufficiente che il singolo pubblico ufficiale, in quanto persona fisica, venga offeso nell’“insieme delle qualità morali” di cui egli è dotato, ma è necessario che l’offesa coinvolga direttamente il suo “prestigio di soggetto che esercita pubbliche funzioni”, perché è in questo modo che viene messa in discussione la sua credibilità ed autorevolezza avanti più persone, e conseguentemente ostacolato il corretto e regolare esercizio dei pubblici poteri. Infine, alla luce della ora esposta impostazione, si comprende pure il nuovo trattamento sanzionatorio, più rigoroso di quello previsto per il reato di ingiuria. Se dubbi non sorgono in ordine alla legittimità costituzionale di detta differenziata tutela alla luce del significativo bene giuridico protetto, qualche perplessità suscita, come meglio si dirà oltre, l’inasprimento della pena in quanto tale. 5. Il terzo comma dell’art. 341 bis c.p. Fatte queste considerazioni, si può allora passare all’esame del terzo comma dell’art. 341 bis, il quale così dispone: “Ove l’imputato, prima del giudizio, abbia riparato interamente il danno, mediante risarcimento di esso sia nei confronti della persona offesa sia nei confronti dell’ente di appartenenza della medesima, il reato è estinto”. Trattasi di una speciale causa di estinzione del reato, inquadrabile in quelle contromisure assunte dal legislatore del 2009 per ridurre la punibilità in concreto dei fatti di offesa previsti dal nuovo art. 341 bis c.p., che lega l’effetto estintivo al soddisfacimento economico delle pretese di due distinti sog- 326 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 getti - persone offese e possibili parti civili nel giudizio penale -, ossia il singolo pubblico ufficiale e l’ente di appartenenza dello stesso. Come sopra detto, già in passato la maggioritaria giurisprudenza aveva ritenuto il reato di natura plurioffensiva, individuando nella pubblica amministrazione di appartenenza la persona offesa primaria e nel singolo pubblico ufficiale la persona offesa secondaria. In considerazione della natura plurioffensiva del delitto, la giurisprudenza (16) aveva escluso l’applicabilità al “vecchio” reato di oltraggio della circostanza attenuante del ravvedimento operoso prevista dell’art. 62, n. 6, c.p., sulla base della considerazione che non vi può essere risarcimento per un bene di natura pubblicistica. Peraltro, si osserva che la Suprema Corte, con motivazione non del tutto lineare, era giunta a negare la legittimazione alla costituzione di parte civile ad un Comune in caso di offesa rivolta ad un vigile urbano, ritenendo che il reato di oltraggio non comportasse (neppure) una lesione diretta del Corpo di appartenenza del pubblico ufficiale, e così annullando la condanna al risarcimento dei danni pronunciata in favore del Comune (17). Ebbene, con l’introduzione della nuova speciale causa di estinzione del reato, il legislatore supera queste problematiche, ammettendo espressamente il risarcimento del danno in favore dell’ente di appartenenza del pubblico ufficiale: da un lato, si riconosce che l’ente di appartenenza è persona offesa dal reato di oltraggio, con sicura conseguente possibilità di costituirsi parte civile; dall’altro, si valorizzano le conseguenze della riparazione economica del danno, andando oltre un effetto attenuante della pena. La novità introdotta dal legislatore del 2009 è stata oggetto di plurime critiche. Alcuni autori (18) hanno sottolineato profili di incostituzionalità della norma, la quale comporterebbe una violazione dell’art. 3 Cost. per disparità di trattamento, atteso che la possibilità di estinzione del reato si atteggerebbe in modo diverso a seconda dello stato di abbienza dell’autore del reato. D’altra parte, sempre sotto il profilo costituzionale, altri autori (19) hanno invece osservato che la codificazione della nuova causa di estinzione è finalizzata a garantire proprio la conformità al Testo costituzionale del “nuovo” reato di oltraggio, nel senso che detta possibilità di eliminare la sanzione penale fungerebbe da “bilanciamento”, per così dire, alla scelta di tutela penali- (16) Cassazione penale, sentenza 5 giugno 1989, in Riv. Pen., 90, 678; Cassazione penale, sentenza 21 febbraio 1986, ivi, 87, 355. (17) In questo senso Cassazione penale, sentenza 28 gennaio 1999, n. 1168 (RV 213334). (18) Sul punto v. T. PADOVANI, L’ennesimo intervento legislativo eterogeneo che non è in grado di risolvere i problemi, in Guida dir., 2009, 33, 16; G. BRICCHETTI – L. PISTORELLI, Ritorna l’oltraggio a pubblico ufficiale, in Guida dir., 2009, 33, 51; G. AMATO, Danno riparato se l’offesa viene risarcita, in Guida dir., 2009, 33, 60. (19) MARTIELLO, Il delitto di oltraggio, cit., 191. DOTTRINA 327 stica, che diversamente rimarrebbe soggetta a forti dubbi di costituzionalità. Sotto altro profilo, si è pure criticato (20) il carattere fortemente simbolico della previsione, nel senso che il legislatore avrebbe dettato la disposizione in esame allo scopo di valorizzare l’importanza del “pentimento” da parte dell’offensore, disinteressandosi o comunque indebolendo la funzione rieducativa di deterrente preventivo della pena. Al riguardo, non si ritiene di condividere le critiche mosse alla scelta legislativa di valorizzare le conseguenze della integrale riparazione economica del danno, scelta in sé non impedita dalla Costituzione e già utilizzata dal legislatore in via generale sotto forma di circostanza attenuante (art. 62, n. 6, c.p.), il legislatore legittimamente avendo dato preminente rilievo al bisogno che il pregiudizio subito dalla persona offesa sia integralmente ristorato. Proprio una lettura in chiave “oggettiva” della norma è ciò che permette di superare i sopra esposti dubbi di legittimità costituzionale: finalità della norma è garantire l’integrale ristoro di entrambe le persone offese, a prescindere pure che l’intervento risarcitorio compiuto, nell’interesse del reo, ne manifesti un intento psicologico di ravvedimento (21). Quando detto conduce ad escludere che si attribuisca una lettura della norma in chiave “soggettiva”, siccome diretta ad attribuire rilievo al “pentimento” ed al ravvedimento del reo, in alcun modo valorizzato dal legislatore del 2009. Non sembra errato rilevare che la sopra proposta lettura della norma si pone in linea con l’identificazione del “buon andamento della Pubblica Amministrazione” quale primario bene giuridico penalmente protetto, ed al contempo tende a confermare come l’intento del legislatore del 2009 non sia quello di tutelare penalmente il prestigio in sé stesso di uno Stato autoritario nei confronti dei cittadini offensori. Si vuole dire che la possibilità di estinguere il reato mediante integrale pagamento del danno patito dall’Ente di appartenenza del pubblico ufficiale mal si concilierebbe con una finalità sanzionatoria quale quella dell’affermazione della preminenza dell’autorità statale sul cittadino che offende. Di contro, se il bene tutelato dalla norma è il “buon andamento della Pubblica Amministrazione”, alterato e messo in discussione dall’agire del reo, in uno con il prestigio del singolo ufficiale offeso, allora è comprensibile che il risarcimento di entrambi i soggetti possa portare alla non punibilità del reo. D’altra parte, non diversamente può accadere nel reato di ingiuria, lad- (20) GATTA, La resurrezione dell’oltraggio, cit., 161. (21) In sostanza, la norma deve essere letta secondo l’insegnamento dato della Corte costituzionale con la sentenza n. 138 del 20 aprile 1998 (in Cass. pen., 1998, 2297), laddove la Consulta riconosce quale finalità della circostanza attenuante prevista all’art. 62 c.p., n. 6 “quella del soddisfacimento della pretesa del danneggiato mediante la reintegrazione del suo patrimonio” e così facendo esclude che vi sia contrasto con l’art. 3 Cost., ciò che si verificherebbe qualora si attribuisse una “interpretazione dell’attenuante in chiave meramente soggettiva, che ravvisasse in essa una finalità rieducativa”. 328 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 dove il risarcimento integrale della persona offesa può condurre alla rimessione della querela e dunque alla non punibilità dell’offensore. Al riguardo, bisognerebbe allora dare spiegazione al perché il “nuovo” reato di oltraggio non sia perseguibile a querela delle persone offese, e sia invece prevista la procedibilità d’ufficio. Ebbene, anche tale aspetto appare giustificabile, se si considera che l’agire della Pubblica Amministrazione avviene nell’ambito del costituzionale principio di legalità dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.), cosicché, negli stessi casi in cui specifiche scelte sono rimesse alla volontà del singolo cittadino, quando si tratta di volontà della Pubblica Amministrazione, dette manifestazioni di volontà dell’Ente pubblico sono sostituite da scelte predeterminate dal legislatore, con legittima sottrazione all’Ente pubblico di un discrezionale potere valutativo. Lo schema dunque è il seguente: il legislatore ha predeterminato che, in caso di offesa al “buon andamento della Pubblica Amministrazione” - visione moderna e costituzionalmente aggiornata del bene giuridico tutelato nel reato di oltraggio -, si attivi il procedimento penale, con ciò sgravando l’Ente di appartenenza del pubblico ufficiale della scelta di presentare o meno querela; successivamente, laddove si addivenga a determinati sviluppi della vicenda penale, potrà la Pubblica Amministrazione valutare la consistenza dell’offesa al proprio interesse protetto dalla norma sanzionatoria, consentendone un ristoro economico e dando quantificazione allo stesso; in conseguenza dell’integrale risarcimento, di nuovo il legislatore ne ha predeterminato gli effetti, in termini di estinzione del reato, sgravando ancora l’Ente di appartenenza della scelta di rimettere o meno querela. In definitiva, le scelte che nel reato di ingiuria sono rimesse alla volontà della singola persona offesa - presentare o meno querela, e ritirare o meno querela a fronte del risarcimento proposto -, sono sostituite nel caso in cui si tratti di Pubblica Amministrazione dalla predeterminazione legislativa di fare iniziare il procedimento penale e di estinguerlo in ipotesi di integrale ristoro, con ragionevole limitazione dei poteri valutativi discrezionali della Pubblica Amministrazione. Alla Pubblica Amministrazione offesa è lasciata quella valutazione che solo essa può compiere nel concreto contesto degli eventi, ossia quella di stabilire la bontà dell’entità del risarcimento proposto dal reo e quella di accettarlo o meno in quanto congruo. Così spiegata la nuova previsione del terzo comma dell’art. 341 bis c.p., la stessa in definitiva non appare contraria al Testo costituzionale né irragionevole. Più complessivamente, alla luce di quanto tutto sopra detto, si può concludere che il nuovo reato di oltraggio non sia in contrasto con la Costituzione, in quanto introdotto nell’ottica di proteggere con sanzione penale il “buon andamento della pubblica amministrazione”, interesse di sicuro rilevo costituzionale: il nuovo reato assume una sua precisa collocazione logica nel sistema DOTTRINA 329 penale e la fattispecie penale è costruita in modo ragionevole e logico. Alla fine, l’unico aspetto che lascia perplessi è la gravità della sanzione penale prevista in ipotesi di mancato integrale ristoro. In effetti, la pena prevista dall’art. 341 bis c.p. (reclusione fino a tre anni) appare significativamente gravosa, in particolare se confrontata alla sanzione penale prevista dal previgente art. 341 c.p. per il “vecchio” reato di oltraggio (reclusione da sei mesi a due anni), alla sanzione penale prevista dall’art. 342 c.p. per il reato di oltraggio a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario (multa da 1.000,00 a 5.000,00 euro) ed alla sanzione penale prevista dall’art. 594 c.p. per il reato di ingiuria (reclusione fino a sei mesi o multa fino a 516 euro). 6. Il risarcimento del danno patito dalla Pubblica Amministrazione di appartenenza del pubblico ufficiale offeso Si può ora passare ad esaminare la specifica problematica derivante dalla necessità che la Pubblica Amministrazione possa ottenere in concreto il risarcimento del danno subito, a seguito della lesione del proprio bene giuridico. Ricapitolando sinteticamente quanto sopra detto: alla luce della nuova formulazione del reato di oltraggio, è espressamente ammesso che l’Ente di appartenenza del pubblico ufficiale offeso sia persona offesa dal reato di oltraggio; che l’Ente di appartenenza possa costituirsi parte civile nel processo penale; che l’Ente di appartenenza possa ottenere il risarcimento del danno subito. Trattasi, per l’Ente di appartenenza, di una posizione distinta da quella del pubblico ufficiale offeso, nel senso che il singolo pubblico ufficiale offeso tutelerà autonomamente i propri interessi, anche mediante propria costituzione di parte civile, e sarà esclusivamente il singolo pubblico ufficiale offeso a valutare la bontà dell’offerta risarcitoria formulata nei di lui confronti, e diretta alla risarcibilità del danno dal medesimo solo patito. In uno con quanto detto, si deve allora osservare che all’Ente di appartenenza del pubblico ufficiale offeso spetterà solo di tutelare i propri interessi offesi come meglio crede, potendo addivenire ad ottenere solo ed esclusivamente il risarcimento del proprio danno subito. Sotto il profilo pratico, ciò implica che l’imputato dovrà formulare due distinte offerte risarcitorie, dirette al soddisfacimento economico delle pretese di due distinti soggetti - il singolo pubblico ufficiale e l’Ente di appartenenza dello stesso - , distinte persone offese e entrambi potenziali parti civili nel giudizio penale, e solo se riuscirà ad ottenere l’accettazione dell’offerta risarcitoria proposta da parte di ciascuno di essi potrà beneficiare dell’effetto estintivo previsto dal terzo comma dell’art. 341 bis c.p. (22). (22) Interessante il caso esaminato dal Tribunale di Camerino, sentenza 13 dicembre 2011 (rinvenibile in DeJure, sub art. 341 bis c.p.), in cui, mentre l’Ente di appartenenza (Arma dei Carabinieri) aveva accettato l’offerta risarcitoria, le altri parte offese, quali privati cittadini, avevano rinunciato al risarcimento del danno patito; il Tribunale ha ritenuto che si fossero realizzate le condizioni di operatività del terzo comma dell’art. 341 bis. 330 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 Tanto ulteriormente chiarito, si cercherà allora di fornire qualche utile indicazione in punto di quantificazione del danno, partendo dall’osservazione che il bene giuridico tutelato penalmente - il “buon andamento della Pubblica Amministrazione” - è sì un bene immateriale ma che tale natura in sé non esclude l’enucleazione di parametri di quantificazione della relativa offesa. E quella della quantificazione è una reale necessità, atteso che un suo aprioristico diniego, come una sua inoperatività sul piano pratico, condurrebbero a rendere impossibile per l’Ente di appartenenza l’accettazione delle offerte da parte del reo, con ciò privando lo stesso della facoltà di giungere all’estinzione del reato. In uno con questa, si pone inoltre la necessità che i parametri di quantificazione siano il più possibile oggettivi e slegati dagli atteggiamenti soggettivi del reo, esigenza che ancora una volta si ricollega ai principi costituzionali espressi dall’art. 97 Cost., che impongo alla Pubblica Amministrazione di agire in modo imparziale, efficace ed efficiente, in particolare nell’esercizio dei propri poteri discrezionali. Anzi tutto, ai fini della determinazione dei parametri di quantificazione oggetto di esame, non sembra doversi dare peso ad elementi attinenti la vicenda penale - quali, ad esempio, il grado di colpevolezza del reo -, come neppure a finalità strettamente proprie all’ordinamento penale - quali, ad esempio, la generale e speciale prevenzione -, il legislatore non avendo ritenuto di attribuire espresso rilievo ad esse. Quanto detto porta a distinguere la causa di estinzione prevista dal terzo comma dell’art. 341 bis c.p. da altre ipotesi disciplinate dal sistema; ci si riferisce in particolare alla previsione dell’art. 35 del D.lgs. n. 274 del 28 agosto 2000, laddove la dichiarazione di estinzione del reato, a seguito della dimostrazione da parte dell’imputato di avere proceduto “prima dell'udienza di comparizione, alla riparazione del danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e di aver eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato”, può essere pronunciata dal giudice penale “solo se ritiene le attività risarcitorie e riparatorie idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione”. Non si ritiene dunque che possa attribuirsi al risarcimento previsto dal terzo comma dell’art. 341 bis c.p. un connotato sanzionatorio, neppure parzialmente (23), il risarcimento di cui si discute non ponendosi come surroga alla sanzione penale ma configurandosi solo come ristoro del danno subito. A conferma di quanto detto la constatazione che laddove il legislatore ha ritenuto di attribuire al ristoro del danno subito dalla persona offesa di un reato un qualche connotato sanzionatorio, o comunque ha voluto dare rilievo, ai fini di quantificare il danno, ad elementi penalistici della vicenda, lo ha fatto espressamente; si veda in tale senso la disposizione contenuta nel non più vigente art. 18 legge n. 349/1986, la quale, una volta stabilito che “Qualunque DOTTRINA 331 fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l'ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l'autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato”, ha aggiunto che il giudice, civile o penale, “ove non sia possibile una precisa quantificazione del danno, ne determina l'ammontare in via equitativa, tenendo comunque conto della gravità della colpa individuale, del costo necessario per il ripristino e del profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo dei beni ambientali ”, con la precisazione, estranea alle regole ordinarie della responsabilità civile e più attinente ai principi della responsabilità penale, che “Nei casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità individuale”. Nella stessa logica, i principi penalistici di determinazione della pena sono utilizzabili nella determinazione della sanzione amministrativa solo perché espressamente previsto dal legislatore all’art. 11 della legge n. 689/1981 (che così dispone: “Nella determinazione della sanzione amministrativa pecuniaria fissata dalla legge tra un limite minimo ed un limite massimo e nell'applicazione delle sanzioni accessorie facoltative, si ha riguardo alla gravità della violazione, all'opera svolta dall'agente per la eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione, nonché alla personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche”) e proprio questo richiamo è da vedersi quale indizio dell’accoglimento da parte del legislatore del 1981 di un modello di sanzione amministrativa di tipo afflittivo-punitivo, che si avvicina alla sanzione di stampo penalistico, allontanandosi dal modello civilistico puramente risarcitorio e recuperatorio (24). Questo chiarito, deve osservarsi che il terzo comma dell’art. 341 bis c.p. non indica le voci di danno da risarcirsi all’Ente di appartenenza del pubblico ufficiale, precisando però che l’effetto estintivo del reato si ottiene solo nel caso in cui il danno sia “riparato interamente”. Alla luce di ciò, non sussistono ragioni per limitare le voci di danno risarcibili al solo danno subito dal bene giuridico tutelato penalmente - il “buon andamento della pubblica amministrazione” - l’Ente di appartenenza del pub- (23) Non si condivide la preoccupazione sollevata da alcuni autori in tale senso. Si veda in particolare FLORA, Oltraggio a pubblico ufficiale, cit., 1454, laddove l’autore prospetta il rinfocolarsi del dibattito sulla possibile valenza sanzionatoria del risarcimento del danno. Peraltro, vi è da dire che lo stesso autore tende a concludere negativamente, e ciò fa proprio a seguito del confronto con la disciplina prevista dall’art. 35 ora citato, atteso che l’estinzione del nuovo reato di oltraggio non è subordinata alla valutazione giudiziale dell’intento pacificativo dell’offensore né della idoneità della riparazione al soddisfacimento delle esigenze di riprovazione del reato. Il che induce l’autore a considerare la previsione non proprio nel solco di una logica surrogatoria della punizione. Sul tema in generale cfr. D. FONDAROLI, Illecito penale e riparazione del danno, Padova, 1999, 243. (24) Sul punto, sia consentito richiamare S. CARDIN, Principi generali dell’illecito amministrativo, Padova, 2005, 111. 332 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 blico ufficiale ben potendo richiedere in sede penale il risarcimento di altri ulteriori profili di danno. Detto in altre parole, se da un lato, la protezione penale garantita dal nuovo reato di oltraggio è giustificata dalla volontà di punire l’offesa ad un preciso bene giuridico di rilievo costituzionale, dall’altro, ciò non esclude che il fatto di reato leda altri beni giuridici di cui l’Ente di appartenenza sia titolare, con conseguente necessità che anche i connessi danni siano oggetto di risarcimento da parte del reo, allo scopo di ottenere l’estinzione del reato. Salvo quanto si dirà oltre, è possibile schematicamente indicare due voci di danno il cui risarcimento appare pressoché scontato nell’ambito di una offesa di oltraggio ex art. 341 bis c.p. Invero, un fatto di reato quale l’oltraggio andrà pressoché sempre a colpire, oltre al “buon andamento della pubblica amministrazione”, il distinto bene rappresentato dalla “immagine della pubblica amministrazione”. Infatti, la circostanza che il “nuovo” reato di oltraggio sussista solo se sussiste contestualità spazio-temporale tra il momento dell’offesa ed il momento dell’attività del pubblico ufficiale, - di modo che l’offesa si ponga come di intralcio al buon esercizio dei pubblici poteri e dunque al buon andamento della pubblica amministrazione -, unita all’ulteriore circostanza che nel “nuovo” reato di oltraggio l’offesa deve avvenire “in luogo pubblico o aperto al pubblico” - questo essendo il contesto privilegiato e prevalente in cui si realizza l’esercizio di pubblici poteri da parte della pubblica amministrazione -, fa sì che nella gran parte dei casi il fatto di oltraggio comporti la compromissione pure dell’“immagine pubblica e del prestigio della Pubblica Amministrazione”. Nella gran parte dei casi in cui si verifichi un reato di oltraggio, allora, entrambi i profili di danno dovranno essere oggetto di integrale ristoro da parte del reo, allo scopo di ottenere l’estinzione del reato, previa quantificazione di ciascuno di essi. A tale ultimo fine, si ritiene utile ed opportuno richiamare ed utilizzare l’ampia e significativa elaborazione fatta dalla dottrina e dalla giurisprudenza sviluppatasi nel contesto del giudizio di responsabilità per danno erariale avanti alla Corte dei Conti. In quest’ultimo ambito, si è giunti da tempo ad enucleare una voce di danno risarcibile chiamata “danno da disservizio”, a cui si aggiunge l’ulteriore voce del “danno all’immagine della Pubblica Amministrazione”. Partendo dal primo, posto che nella giurisdizione contabile il “danno da disservizio” è ricollegato a quelle ipotesi in cui sia l’amministratore o il dipendente pubblico, con una condotta commissiva o omissiva dolosa o gravemente colposa, a produrre effetti negativi nella gestione di un pubblico servizio, in termini di “disservizio da illecito esercizio di pubbliche funzioni”, oppure di “disservizio da mancata resa del servizio o prestazione dovuta”, può affermarsi che il nucleo di tale danno si sostanzia proprio nella compromissione del “buon andamento della Pubblica Amministrazione”, ossia nella al- DOTTRINA 333 terazione della normale efficienza ed efficacia del servizio pubblico, con incidenza negativa sull’organizzazione e sullo svolgimento dell’attività amministrativa di una Pubblica Amministrazione (25). Nell’ambito della giurisdizione contabile sono state inoltre individuate linee per la quantificazione del danno, riutilizzabili anche nel contesto penale. Anzi tutto, vi saranno ipotesi in cui la voce di danno in esame potrà essere con sufficiente precisazione quantificata nella eventuale perdita effettiva o nella mancata entrata che l’Amministrazione ha subito a causa del comportamento che ha provocato il disservizio, oppure negli effettivi maggiori costi sostenuti per il personale o comunque nello spreco di personale e di risorse economiche non utilizzate in base agli ordinari canoni di legalità, efficienza e produttività (26). Nella gran parte delle altre ipotesi, il “danno da disservizio”, non potendo ottenere una puntuale determinazione del suo preciso ammontare, sarà oggetto di liquidazione da parte del competente giudice con valutazione equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c., la quale avverrà sulla scorta di plurimi parametri di quantificazione, quali, ad esempio, gli oneri connessi alla riorganizzazione, all’attività di indagine o ispettiva, derivanti dal fatto di offesa (27). Passando al “danno all’immagine della Pubblica Amministrazione”, la giurisprudenza contabile lo distingue concettualmente dal “danno da disservizio”, lo qualifica come la lesione del diritto dell’Ente pubblico al conseguimento, al mantenimento e al riconoscimento della propria identità come persona giuridica pubblica (28), e ne individua il fondamento costituzionale nell’art. 97 Cost., nel senso che i criteri dettati da detto articolo per l’organizzazione e l’agire della Pubblica Amministrazione - criteri di imparzialità, buon andamento, trasparenza ed economicità -, costituiscono gli elementi caratterizzanti della immagine e della identità della stessa Pubblica Amministrazione (29). Sotto il profilo della quantificazione, precisato che secondo la giurisprudenza contabile il danno di cui si tratta è suscettibile di valutazione economica, può anzi tutto evidenziarsi che un dato certo di quantificazione è stato individuato nelle effettive spese sostenute o da sostenere o nei maggiori costi sopportati dall’Amministrazione al fine di ripristinare l’immagine ed il decoro lesi (30). Nella gran parte degli altri casi, nell’impossibilità di attribuire precisa (25) In questo senso, ex pluris, Corte dei Conti, Sez. I Centrale, 15 giugno 2010, n. 481; Corte conti, sez. giur. Umbria, 12 ottobre 2009, n. 100; Corte dei Conti, sez. giur. Trentino A.A., 14 dicembre 2006, n. 130. (26) Si veda, ex pluris, Corte dei Conti, sez. I Appello, 3 dicembre 2008, n. 532. (27) Si veda, ex pluris, Corte dei Conti, n. 481/2010 cit.; Corte dei Conti, Sez. giur. Umbria, 29 novembre 2001, n. 511/R; Corte dei Conti, Sez. II Centrale, 10 aprile 2000, n. 125. (28) Corte dei Conti, Sez. I Centrale, 1 aprile 2011, n. 193; Corte Conti, sez. riun., 23 aprile 2003, n. 10/QM. (29) Corte dei Conti, Sez. III Centrale, 9 aprile 2009, n. 143; Corte dei Conti, Sez. giur. Veneto, 20 maggio 2005, n. 866. (30) Corte dei Conti, n. 193/2011 cit. 334 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 effettiva determinazione al danno subito, il giudice contabile ricorre alla valutazione equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c., la quale viene realizzata sulla scorta di plurimi parametri di quantificazione, quali, ad esempio: il rilievo e la delicatezza dell’attività svolta dalla Pubblica Amministrazione di cui si tratta; la natura dell’Ente pubblico di cui si tratta, la sua capacità esponenziale, l’ambito territoriale, gli interessi di cui ha cura; il ruolo del pubblico ufficiale di cui si tratta nell’organizzazione amministrativa e la funzione da lui svolta, con particolare riguardo ai casi in cui egli riveste una posizione di vertice o dotata di rappresentanza esterna; la gravità dell’illecito; la sporadicità o la continuità della condotta; la reazione della collettività (clamor) e, in particolare, gli atteggiamenti conseguenti degli utenti dei servizi (31). Come è dato vedere, il breve esame delle elaborazioni sviluppatasi nel contesto del giudizio di responsabilità per danno erariale ha permesso di individuare significativi parametri per la quantificazione dei due maggiori profili di danno conseguenti ad un fatto di oltraggio. Tornati all’ambito penale, in primo luogo si osserva che nella maggioranza dei casi la quantificazione sarà compiuta in via equitativa, il che significa che nel meccanismo di estinzione del reato previsto dal terzo comma dell’art. 341 bis c.p. sarà la Pubblica Amministrazione discrezionalmente a stabilire il quantum del risarcimento, sulla scorta dei sopra esposti parametri. In tale valutazione la Pubblica Amministrazione dovrà agire in modo imparziale, trasparente ed efficiente, onde evitare disparità di trattamento tra rei e rifiuti ingiustificati (32). Deve inoltre osservarsi che trattasi per la Pubblica Amministrazione non di valutazione della “convenienza economica” dell’offerta, bensì, più precisamente, di valutazione della “congruità” della stessa, ossia della sua idoneità ad assicurare l’integrale risarcimento del danno. In secondo luogo, deve osservarsi pure che alle due sopra descritte voci di danno non è da escludersi possano aggiungersi altre voci, rinvenibili nella contestualità del singolo caso concreto e parimenti da risarcirsi da parte del reo, allo scopo di ottenere l’effetto estintivo del reato. Per esempio, potrebbe configurarsi un “danno da sviamento di funzione”, laddove la condotta oltraggiosa del reo avesse reso più oneroso il conseguimento delle finalità istituzionali da parte della Pubblica Amministrazione, costringendola a modificare scelte e priorità di intervento, distogliendo risorse finanziarie da diverse destinazioni cui in precedenza erano state assegnate (33). (31) Corte Conti, Sez. I Centrale, 30 ottobre 2003, n. 340/A. (32) Peraltro, sarebbe interessante chiedersi pure quali sarebbero le conseguenze di un illegittimo rifiuto, da parte della Pubblica Amministrazione, di una proposta risarcitoria che fosse oggettivamente congrua. Sul piano penalistico, è stata già configurata l’applicabilità dell’istituto della “offerta reale” ex art. 1209 c.c. e quindi, in caso di rifiuto dell’offerta risarcitoria, se il giudice la riterrà congrua il reato si estinguerà lo stesso (sul punto MARTIELLO, Il delitto di oltraggio, cit., 191). DOTTRINA 335 Infine, alcune brevi osservazioni sui profili processuali del meccanismo previsto dal terzo comma dell’art. 341 bis c.p. In primo luogo, come precisato dalla norma, al fine di beneficiare dell’effetto estintivo del reato, il soddisfacimento della persona offesa deve avvenire, al massimo, “prima del giudizio"; come già osservato in passato dalla giurisprudenza, l’espressione sembra fare riferimento al momento del compimento delle formalità di apertura del dibattimento (34). In tale senso, il risarcimento potrà essere compiuto anche nella fase precedente alla richiesta di rinvio al giudizio, come prima dell’emissione del decreto di rinvio a giudizio, e comunque anche in sede di giudizio dibattimentale, purchè prima del compimento delle formalità di apertura del dibattimento. In secondo luogo, si osserva che la risarcibilità del danno in favore della l’Ente di appartenenza del pubblico ufficiale offeso non viene dalla norma subordinata, o comunque in qualche modo legata, alla avvenuta costituzione di parte civile da parte dell’Ente, con la conseguenza che ben può accadere che l’offerta risarcitoria venga proposta all’Ente in qualità di persona offesa, non costituta parte civile. 7. Il ruolo dell’Avvocatura dello Stato Conclusivamente, si osserva che appare proprio delle attribuzioni dell’Avvocatura dello Stato essere chiamata, dall’Ente di appartenenza del pubblico ufficiale offeso, ad esprimere parere di congruità sulla somma offerta dall’imputato all’Ente, a titolo di risarcimento del danno da questo subito. Ribadito che si tratterà di valutare la “congruità” della offerta risarcitoria, e non la “convenienza” economica della stessa, e ribadito pure che il parere di congruità dell’Avvocatura dello Stato, eventualmente sollecitato dall’Amministrazione, concernerà esclusivamente l’offerta risarcitoria del danno patito dall’Ente di appartenenza, spettando esclusivamente al pubblico ufficiale oltraggiato la valutazione della convenienza della somma offerta per il risarcimento del danno dallo stesso personalmente subito, si ritiene sia possibile, alla fine di questo lavoro e alla luce di quanto sopra detto, enucleare ed indicare alcuni parametri, che l’Avvocatura dello Stato potrà considerare e variamente valorizzare, allo scopo di esprimere il richiesto parere, quali: la perdita effettiva o la mancata entrata che l’Amministrazione ha subito a causa del comportamento offensivo; gli effettivi maggiori costi sostenuti per il personale per l’attività di indagine o ispettiva derivanti dal fatto di offesa; la gravità del fatto di offesa sotto il profilo del numero di pubblici ufficiali coinvolti; la natura e la rilevanza territoriale dell’Ente di appartenenza oggetto di offesa; il ruolo del (33) Sulla risarcibilità del danno non patrimoniale da “sviamento di funzione” cfr. Cassazione penale, sentenza 22 maggio 1991, n. 5554. (34) Cassazione penale, sez. III 21 marzo 1994, Giglione. 336 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 pubblico ufficiale direttamente offeso con particolare riguardo ai casi in cui egli riveste una posizione di vertice o dotata di rappresentanza esterna; la sporadicità o la continuità della condotta di offesa; la gravità dell’offesa sotto il profilo dell’attribuzione di un fatto determinato; la diffusività della notizia della condotta di offesa; la reazione della collettività (clamor) e in particolare gli atteggiamenti conseguenti dei cittadini presenti all’offesa. Il diverso atteggiarsi di detti parametri, in relazione al singolo episodio di offesa, potrà essere di utile sostegno all’Avvocatura dello Stato, per compiutamente valutare l’offerta risarcitoria proposta all’Ente di appartenenza, adattandola al meglio alla concreta vicenda di offesa oggetto di parere. DOTTRINA 337 Il datore di lavoro e la corresponsabilità del RSPP e del preposto nell'infortunio del lavoratore Flavio Ferdani* SOMMARIO: 1. Premessa - 2. Iter normativo - 3. Il ruolo di garanzia del datore di lavoro e del responsabile del servizio di prevenzione e protezione - 4. Il ruolo del responsabile del servizio di prevenzione e protezione e del preposto - 5. Conclusioni. 1. Premessa Il tema della salute e sicurezza sul lavoro continua ad essere una tematica sempre più attenzionata per la sua stringente attualità e richiede, affinchè si realizzi una effettiva tutela della sicurezza e una incisiva lotta agli infortuni, il coinvolgimento e l’interazione fra tutti i soggetti protagonisti ovvero lavoratori e datori di lavoro, nella evidente considerazione che si devono attuare quei comportamenti di prevenzione mediante la compartecipazione di tutti i soggetti protagonisti. Tutto ciò favorisce una partecipazione attiva e permette di far acquisire una maggiore consapevolezza circa la conoscenza dei problemi in materia di sicurezza, sopratutto in caso di infortuni. Va da sè che mettere continuamente in gioco i comportamenti degli attori del rapporto di lavoro, attraverso una attività di costante diffusione della cultura dell’informazione e formazione del personale, di attenzione alla cultura della “safety”, di una mirata sorveglianza sul sistema, di una metodica attività di vigilanza, di una attenta definizione delle procedure, di un pieno coinvolgimento dell’intera organizzazione aziendale, diventano elementi cardini per aumentare tale consapevolezza e favorire il tentativo di eliminare i rischi sul lavoro, contenendo i costi per l'impresa proprio attraverso la riduzione reale degli infortuni. Del resto in un mondo dove il business, richiede al datore di lavoro, nella sua veste di "vertice" dell'organizzazione aziendale, di adottare sempre nuove strategie, di ricorrere a sempre nuove tecnologie per produrre sempre più profitti, occorre che quest’ultimo sia anche attento a saper prevenire potenziali rischi per la sicurezza e i conseguenti infortuni. Questi ultimi oltre a costituire infatti un elemento di distorsione a danno delle imprese virtuose, determinano costi straordinari e di immagine per l’azienda, nonché costi sociali per la collettività. Occorre quindi che le necessità legate alla produzione e all’affermazione della libera concorrenza, si concilino con condizioni di lavoro in sicurezza. (*) Vice Prefetto, Capo di Gabinetto della Prefettura di Pisa 338 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 2. Iter normativo Il percorso normativo a tutela della integrità fisica e della personalità morale dei lavoratori e quindi del loro diritto alla salute, si è andato perfezionando a partire dalla disciplina di cui all'art. 2087 codice civile, a cui ha fatto seguito la L. n. 300 del 1970, gli artt. 2 comma 1, 9, 32 comma 2, 35 comma 1 e 41 commi 1 e 2 della Costituzione, la L. n. 833 del 1978 (artt. 1, 2, 20 e in particolare art. 24), e si è poi cristallizzato con il D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626 che ha costituito un pilastro del sistema ordinamentale antinfortunistico, affidando all’informazione e alla prevenzione, organizzate in un servizio obbligatorio, un fondamentale compito per la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. Il “ sistema sicurezza” si è poi ulteriormente completato col D.Lgs. 9 agosto 2008, n. 81, a conferma della continuità della linea di sistema, in materia di tutela della salute e prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali. Il D.Lgs. 81 del 9 aprile 2008 ha svolto un ruolo fondamentale, perché ha dato organicità ad una tematica assai complessa e ampia, instaurando anche un diverso approccio alla sicurezza fondato soprattutto sulla prevenzione, la formazione, l’informazione dei lavoratori; ha poi riscritto la materia della salute e sicurezza sul lavoro le cui regole, fino a oggi contenute in numerose disposizioni succedutesi nel tempo, sono state riviste in maniera maggiormente organica e ulteriormente “rivisitate e corrette”, pur senza stravolgimenti, dal D.Lgs. 106 del 3 agosto 2009. Anche l’Europa ha svolto un ruolo importante nella affermazione della tutela della salute e della sicurezza del lavoro, sia con la Direttiva quadro n. 89/391 che con la Costituzione Europea, dove non ha mancato di riaffermare l’esigenza della sicurezza prevedendo all’articolo 87 il diritto dei lavoratori all’informazione e alla consultazione nell’ambito dell’impresa e all’articolo 91 il diritto di ogni lavoratore a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose. Anche la nostra Carta Costituzionale, che pone il lavoro quale principio cardine stabilendo all’articolo 1 che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, prevede diversi articoli con i quali riafferma l’importanza dell’obbligo della sicurezza nello svolgimento del rapporto di lavoro ed in particolare quello della tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo. L’articolo 32 si spinge anche oltre laddove riconosce la tutela della salute come fondamentale interesse della collettività, cioè come tutela dell’integrità fisica e, più in generale della salute in quei rapporti caratterizzati da un coinvolgimento della persona nella fase di esecuzione del rapporto. Ha quindi affermato con forza la necessità di limitare i pregiudizi che, eventualmente l’esecuzione del contratto stesso può arrecare alla salute di una delle parti contraenti. Ma la Costituzione contempla anche altri articoli in tema di sicurezza, quali l’art. 35 che tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni e l’art. DOTTRINA 339 41 al comma 1, che pur stabilendo che l’iniziativa economica privata è libera, pone tuttavia un correttivo nel comma 2, laddove stabilisce che non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, che deve intendersi oltre che in senso proprio, anche come incolumità, libertà e dignità umana; valore quest’ultimo affermato esplicitamente nell’articolo 1 della Costituzione Europea. Quindi le norme che impongono all’imprenditore il rispetto delle misure di sicurezza, costituiscono attuazione dei principi di cui agli artt. 32 e 41 comma 2 della Costituzione, che riconoscono al diritto alla salute una valenza prevalente su quello alla libertà di iniziativa economica. È opportuno sottolineare come oltre alla Carta Costituzionale si deve fare riferimento alla Carta Sociale Europea firmata a Torino, già nel 1961 che sanciva il diritto sociale al lavoro ma anche alla sicurezza e alla salute; tali principi trovavano pieno riconoscimento nel punto 3, secondo cui tutti i lavoratori hanno diritto alla sicurezza e all’igiene nel lavoro, a conferma di come la libertà di iniziativa economica è connessa al diritto al lavoro, per cui la piena occupazione deve avvenire nel rispetto dei valori sopraenunciati. 3. Il ruolo di garanzia del datore di lavoro e del responsabile del servizio di prevenzione e protezione L’articolo 2087 del codice civile è norma definibile aperta, in quanto supplisce alle carenze della normativa che ragionevolmente non può prevedere tutti i rischi relativi alla sicurezza sui luoghi di lavoro e che ricorre ogni qualvolta venga accertato che il datore di lavoro non ha adottato le misure necessarie a tutela della integrità fisica e delle condizioni di salute del prestatore d’opera. Più nel dettaglio l’art. 2087 codice civile, con particolare riferimento al contratto di lavoro subordinato, prevede che l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure a tutela della sicurezza secondo tre criteri: la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, ottemperando non solo a regole cautelari scritte, ma anche alle norme prevenzionali che una figura- modello di buon imprenditore è in grado di ricavare dall’esperienza, secondo i canoni di diligenza, prudenza e perizia (1). Questa premessa è importante per affermare che rientra nei doveri del datore di lavoro, quello di accertarsi che, l’ambiente di lavoro abbia i requisiti di affidabilità e legalità, circa i presidi infortunistici idonei ad accertare la tutela del lavoratore e di vigilare costantemente che le condizioni di sicurezza siano mantenute per tutto il tempo in cui è prestata l’opera. Esiste un principio di salvaguardia degli interessi del lavoratore garantito dal rispetto della normativa infortunistica. Va ricordato come il datore di lavoro è il principale destinatario degli ob- (1) Corte di Cassazione Sez. IV, Sent. 16 settembre 2008 n. 38819. 340 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 blighi di assicurazione, osservanza e sorveglianza delle misure e dei presidi di prevenzione infortunistica, e tra tali obblighi rientra certamente quello fondamentale e ineludibile, di organizzare l’attività svolta in modo tale che la stessa rispetti la normativa sulla sicurezza e vigilare sul rispetto delle prescrizioni infortunistiche - Cassazione sezione IV 26 Settembre 2011 n. 3473. Assai importante è la modifica che nel tempo ha avuto il concetto di ambiente di lavoro, che non va inteso più solo come il complesso dei beni ed il locale ove si presta l’ attività lavorativa, ma include anche la salubrità dello stesso e dunque l’ aspetto igienico, sanitario ed anche il fattore umano, in altri termini l’ambiente di lavoro è il complesso di elementi personali e materiali che sono preordinati allo svolgimento della attività lavorativa. Il datore di lavoro è quindi l’unico responsabile civile dell’impresa e il legislatore, con l’art. 2087 ha posto a carico dell’imprenditore il dovere di sicurezza; tant’è che la Suprema Corte con una recente sentenza (2) ha reso più facile il riconoscimento del danno morale dovuto ai parenti delle vittime, stabilendo che non è necessaria la prova specifica della sua sussistenza, atteso che la prova può essere desunta anche solo in base allo stretto vincolo familiare. È quindi fondamentale ribadire la centralità del ruolo del datore di lavoro che deve porre la sicurezza come un vero e proprio obiettivo aziendale, deve essere il cultore della sicurezza, dovendo arrivare non solo a predisporre le misure infortunistiche, ma anche a sorvegliare continuamente sulla loro adozione da parte degli eventuali preposti e dei lavoratori, in quanto in virtù della generale disposizione di cui all’articolo 2087 egli è individuato quale garante dell’incolumità fisica dei prestatori di lavoro (3). Del resto un datore di lavoro deve porre in essere un modello organizzativo che metta in atto efficaci strategie di prevenzione (loss prevention) e gestione dei rischi (risk management), proprio per la sua posizione di garanzia di contenuto ampio, che richiede al datore di lavoro di allestire misure di sicurezza idonee e che si realizza attraverso delineati compiti di vigilanza, di controllo e provvedimenti impeditivi. A conferma del ruolo prioritario che l’imprenditore riveste, va rimarcato come il nuovo testo unico ha introdotto l’istituto della “compliance programs” secondo il quale, qualora l’imprenditore adotta modelli organizzativi migliorativi della sicurezza, gli stessi acquisiscono efficacia esimente ai fini di una eventuale responsabilità penale. I compiti di sicurezza in capo al datore di lavoro impongono a quest’ultimo di prevedere che ogni lavoratore riceva una informazione sufficiente ed adeguata in materia di salute e sicurezza, anche rispetto alle conoscenze linguistiche, con particolare riferimento a: concetti di rischio, danno, preven- (2) Corte di Cassazione Pen. sent. n. 20188/2008. (3) Corte di Cassazione Pen. Sez. IV, 12 aprile 2005, n. 20595. DOTTRINA 341 zione, protezione, organizzazione della prevenzione aziendale, diritti e doveri dei vari soggetti aziendali, organi di vigilanza, controllo ed assistenza; rischi riferiti alle mansioni ed ai possibili danni e alle conseguenti misure e procedure di prevenzione e protezione caratteristici del settore o comparto di appartenenza all’azienda e tale formazione deve avvenire in occasione della costituzione del rapporto di lavoro, del trasferimento o cambiamento di mansioni, all’introduzione di nuove tecnologie sostanze e preparati. Parallela all’informazione esiste in capo al datore di lavoro l’obbligo della formazione (4) dei lavoratori mediante la quale possono essere forniti gli elementi conoscitivi (il cd. sapere che) e le conoscenza professionali (il cd. sapere come). Esiste un dovere e un obbligo in capo al datore di lavoro di mantenere e di migliorare la propria competenza professionale delle maestranze, attraverso la formazione continua che è attività svolta ad assicurare e garantire le proprie aspettative. Qualificare le maestranze significa conseguire vantaggi sul piano della operatività concreta dei lavoratori, che possono ottenere una formazione quanto mai utile per evitare i rischi e porre in essere comportamenti più improntati alla consapevolezza, alla conoscenza e alla padronanza in un contesto lavorativo anche diverso dal precedente. Sull’importanza della formazione, giova rammentare come la Conferenza permanente per i rapporti Stato Regioni nella seduta del 21 dicembre 2011, ha approvato lo schema di accordo tra il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, il Ministro della Salute e le Regioni, sui corsi di formazione per lo svolgimento diretto da parte del datore di lavoro dei compiti del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dei rischi ai sensi dell’articolo 34 commi 2 e 3 del D.lgs. 9 aprile 2008 n. 81. Non può tacersi il fatto che l’imprenditore quale destinatario iure proprio della sicurezza, è titolare o meglio ancora assume in sé una posizione di garante fissata, ai sensi dell’articolo 18 comma 1 lettera f) del Testo unico nella materia della prevenzione e della sicurezza ed anche della correttezza dell’agire del lavoratore e deve quindi esercitare un controllo continuo e pressante affinché i lavoratori rispettino le norme sulla sicurezza, evitando che questi possano sottrarvisi instaurando magari prassi di lavoro non corrette (5), eliminando anche quei comportamenti inusuali e fonti di pericolo (6). (4) Art. 37 D.Lgs. n. 81/2008. (5) Corte di Cassazione Sent. 23 ottobre 2008, n. 39888. (6) Proprietà o qualità intrinseca di un determinato fattore avente il potenziale di causare danni. Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l'azione od omissione e l'evento. Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l'evento. In tal caso, se l'azione od omissione precedentemente commessa costituisce per sé un reato, si applica la pena per questo stabilita. Le disposizioni precedenti si applicano anche quando la causa preesistente o simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui. 342 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 Il datore di lavoro, infatti, si trova in posizione di garanzia rispetto al dipendente in relazione all’obbligo di assicurare adeguate condizioni di sicurezza e, non è sufficiente rispettare le prescrizioni, ma è anche necessario agire in ogni caso con la diligenza, la prudenza e l’accortezza necessarie ad evitare che dall’attività derivi un nocumento a terzi (7); non a caso la diligenza che si richiede che venga osservata da parte del datore di lavoro é particolarmente qualificata, come dispone in via generale il secondo comma dell’articolo 1176, che prevede che nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata (Cod. Civ. 1838 e seguente, 2104-1, 2174-2, 2236). Deve, ad esempio, rispettare gli obblighi circa l’uso dei DPI ai sensi degli artt. 71 (8) e 77 (9) del T.U. 81/2008 (10), per evitare che nei suoi confronti trovino applicazione quelle pesanti sanzioni che derivano da eventuali inosservanze. (7) Corte di Cassazione Pen. Sez. IV 22 gennaio 2007, n. 10109. (8) Art. 71 (Obblighi del datore di lavoro). 1. Il datore di lavoro mette a disposizione dei lavoratori attrezzature conformi ai requisiti di cui all’articolo precedente, idonee ai fini della salute e sicurezza e adeguate al lavoro da svolgere o adattate a tali scopi che devono essere utilizzate conformemente alle disposizioni legislative di recepimento delle direttive comunitarie. 2. All’atto della scelta delle attrezzature di lavoro, il datore di lavoro prende in considerazione: a) le condizioni e le caratteristiche specifiche del lavoro da svolgere; b) i rischi presenti nell’ambiente di lavoro; c) i rischi derivanti dall’impiego delle attrezzature stesse; d) i rischi derivanti da interferenze con le altre attrezzature già in uso ... (9) 1. Il datore di lavoro ai fini della scelta dei DPI: a) effettua l'analisi e la valutazione dei rischi che non possono essere evitati con altri mezzi; b) individua le caratteristiche dei DPI necessarie affinché questi siano adeguati ai rischi di cui alla lettera a), tenendo conto delle eventuali ulteriori fonti di rischio rappresentate dagli stessi DPI; c) valuta, sulla base delle informazioni e delle norme d'uso fornite dal fabbricante a corredo dei DPI, le caratteristiche dei DPI disponibili sul mercato e le raffronta con quelle individuate alla lettera b); d) aggiorna la scelta ogni qualvolta intervenga una variazione significativa negli elementi di valutazione. 2. Il datore di lavoro, anche sulla base delle norme d'uso fornite dal fabbricante, individua le condizioni in cui un DPI deve essere usato, specie per quanto riguarda la durata dell'uso, in funzione di: a) entità del rischio; b) frequenza dell'esposizione al rischio; c) caratteristiche del posto di lavoro di ciascun lavoratore; d) prestazioni del DPI. 3. Il datore di lavoro, sulla base delle indicazioni del decreto di cui all'articolo 79, comma 2, fornisce ai lavoratori DPI conformi ai requisiti previsti dall'articolo 76. 4. Il datore di lavoro: a) mantiene in efficienza i DPI e ne assicura le condizioni d'igiene, mediante la manutenzione, le riparazioni e le sostituzioni necessarie e secondo le eventuali indicazioni fornite dal fabbricante; b) provvede a che i DPI siano utilizzati soltanto per gli usi previsti, salvo casi specifici ed eccezionali, conformemente alle informazioni del fabbricante ... (10) Si intende per dispositivo di protezione individuale «DPI», qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio destinato a tale scopo. DOTTRINA 343 Va detto che il mancato rispetto del dettato di cui all’articolo 78, è fonte di sanzioni anche per i lavoratori che non si sottopongono al programma di formazione e addestramento organizzato dal datore di lavoro nei casi ritenuti necessari. Inoltre i lavoratori devono provvedere alla cura dei DPI messi a loro disposizione, non vi devono apportare modifiche di propria iniziativa e devono segnalare immediatamente al datore di lavoro o al dirigente o al preposto qualsiasi difetto o inconveniente da essi rilevato nei DPI messi a loro disposizione. Proprio il ruolo di “garante” del datore di lavoro impone a quest’ultimo di esigere dal lavoratore il rispetto delle regole di cautela, svolgendo un controllo continuo e pressante per evitare che il lavoratore ponga in essere prassi di lavoro non corrette e pericolose (11); ciò in quanto la normativa contro gli infortuni mira a salvaguardare l’incolumità del lavoratore anche dai rischi derivanti da sue disattenzioni o sue imprudenze (12) e fermo restando comunque che - a fronte di comportamenti imprudenti e non abnormi - la responsabilità del datore di lavoro non è automatica, ma presuppone sempre l’accertamento della sua colpa. Pertanto, in ogni caso di ipotesi di infortunio sul lavoro originato dall’assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale per escludere la responsabilità del datore di lavoro può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all’evento, quando questo sia comunque da ricondurre alla mancanza o alla insufficienza di quelle cautele che, se adottate sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio di siffatto comportamento (13). Da queste premesse emerge come la posizione di garanzia compete senza ombra di dubbio alcuna sul datore di lavoro in quanto ex lege onerato dell'obbligo di prevenire la verificazione di eventi dannosi connessi all'espletamento dell'attività lavorativa. 4. Il ruolo del Responsabile del servizio di prevenzione e protezione e del preposto Dopo aver ampiamente definito il ruolo di garanzia in capo al datore di lavoro, è necessario approfondire il rapporto RSPP /datore di lavoro/preposto, che devono operare per un realizzare un benessere condiviso sul luogo di lavoro, attraverso la realizzazione di una sorta di leale collaborazione tra i soggetti, atteso che il Rspp e il preposto devono collaborare alla tutela dell’incolumità propria e delle altre persone presenti sul luogo di lavoro. Va tuttavia sottolineato come molte delle sentenze in materia di infortuni sul lavoro emettono condanne nei confronti del datore di lavoro, senza tenere (11) Corte di Cassazione Pen. Sez. IV, 28 febbraio 2008. (12) Corte di Cassazione Pen. Sez. IV 6 maggio 2009. (13) Corte di Cassazione Pen. Sez. IV, 6 novembre 2006, n. 41951 e Cass. Pen. Sez. IV 18 gennaio 2007, n. 6348. 344 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 nel debito conto l’importanza legata alle altre figure che a diverso titolo sono coinvolte nel sistema di prevenzione degli infortuni. Ad esempio l’articolo 62 comma 6 (14) del codice penale tiene in notevole considerazione, anche la collaborazione fornita dal datore di lavoro, tant’è che esso prevede per quest’ultimo la concessione di una attenuante, quando il risarcimento sia stato compiuto dal civilmente responsabile di propria iniziativa; in realtà va detto che pur essendo corretto quanto previsto dal comma 6 dell’articolo 62, va tuttavia considerato come l’obbligatorietà dell’assicurazione INAIL, che impone l’obbligo di tenere indenni i lavoratori assicurativi dal rischio da infortunio, renda assai improbabile che il datore di lavoro possa provvedere al risarcimento di propria iniziativa, per cui quindi pur avendo adempiuto ad un obbligo di legge non vedrà mai riconoscersi l’attenuante su un evento negativo. Fatta questa breve premessa, va ricordato che il RSPP viene nominato dal datore di lavoro ai sensi dell’articolo 31 del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 che prevede, che salvo quanto previsto dall’articolo 34, il datore di lavoro organizza il servizio di prevenzione e protezione all’interno della azienda o della unità produttiva, o incarica persone o servizi esterni costituiti anche presso le associazioni dei datori di lavoro o gli organismi paritetici, secondo le regole di cui al presente articolo. Gli addetti e i responsabili dei servizi, interni o esterni, di cui al comma 1, devono possedere le capacità e i requisiti professionali di cui all’articolo 32, devono essere in numero sufficiente rispetto alle caratteristiche dell’azienda e disporre di mezzi e di tempo adeguati per lo svolgimento dei compiti loro assegnati. Essi non possono subire pregiudizio a causa della attività svolta nell’espletamento del proprio incarico. L’ articolo 32 fissa poi le capacità e i requisiti professionali degli addetti e dei responsabili dei servizi di prevenzione e protezione interni ed esterni stabilendo che devono essere adeguati alla natura dei rischi presenti sul luogo di lavoro e relativi alle attività lavorative. A sua volta l’articolo 33 stabilisce i compiti del servizio di prevenzione e protezione che sono legati: a) all’individuazione dei fattori di rischio, alla valutazione dei rischi e all’individuazione delle misure per la sicurezza e la salubrità degli ambienti di lavoro, nel rispetto della normativa vigente sulla base della specifica conoscenza dell’organizzazione aziendale; b) ad elaborare, per quanto di competenza, le misure preventive e protet- (14) Art. 62. Circostanze attenuanti comuni. Attenuano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze attenuanti speciali, le circostanze seguenti: l'avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante il risarcimento di esso, e, quando sia possibile, mediante le restituzioni; o l'essersi, prima del giudizio e fuori del caso preveduto nell'ultimo capoverso dell'articolo 56, adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato. DOTTRINA 345 tive di cui all’articolo 28, comma 2, e i sistemi di controllo di tali misure; c) ad elaborare le procedure di sicurezza per le varie attività aziendali; d) a proporre i programmi di informazione e formazione dei lavoratori; e) a partecipare alle consultazioni in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, nonché alla riunione periodica di cui all’articolo 35; f) a fornire ai lavoratori le informazioni di cui all’articolo 36. Inquadrato normativamente la figura del RSPP va detto che egli non è titolare di alcuna posizione di garanzia rispetto all'osservanza della normativa antinfortunistica e che lo stesso opera, piuttosto, quale "consulente" in tale materia del datore di lavoro, il quale è [e rimane] direttamente tenuto ad assumere le necessarie iniziative idonee a neutralizzare le situazioni di rischio. In effetti, la "designazione" del RSPP, che il datore di lavoro è tenuto a fare a norma dell'articolo 31 del decreto 81/2008 [individuandolo, ai sensi del successivo articolo 32, tra persone i cui requisiti siano "adeguati alla natura dei rischi presenti sul luogo di lavoro e relativi alle attività lavorative"], non equivale a "delega di funzioni" utile ai fini dell'esenzione del datore di lavoro da responsabilità per la violazione della normativa antinfortunistica, perché gli consentirebbe di "trasferire" ad altri - nella fattispecie il delegato - la posizione di garanzia che il datore di lavoro ordinariamente assume nei confronti dei lavoratori. La dottrina ritiene che il responsabile del servizio di prevenzione e protezione rappresenti nel modulo organizzativo della sicurezza aziendale una nuova figura alle dipendenze del datore di lavoro che lo utilizza quale interlocutore privilegiato e diretto in materia di sicurezza anche nei rapporti con l’organo di vigilanza; un rapporto quindi a contenuto prevalentemente collaborativo e propositivo programmatico, quale forma di avvalimento funzionale più che di dipendenza gerarchica (15). Circa i profili di responsabilità la dottrina ritiene altresì che il RSPP non è tra i soggetti destinatari degli obblighi di sicurezza e dunque il suo agire non è direttamente rapportabile a condotte penalmente rilevanti. Tale prospettiva è conforme ad una figura cui si sono voluti assegnare compiti tendenzialmente propositivi e programmatici ma non di autonomia decisionale od operativa, quale obbligazione di mezzi e non di risultato. La collaborazione prestata dal RSPP al datore di lavoro non poteva costituire fonte autonoma di responsabilità, dal che consegue che il profilo penale di responsabilità fa capo esclusivamente al datore di lavoro il quale, pur tenuto obbligatoriamente ad avvalersi della collaborazione del RSPP imposta per legge è sempre libero di non condividerne in tutto o in parte il risultato, qualora non lo soddisfi. Pur riconoscendo che la giurisprudenza sembra avallare tale posizione, (15) PIERGUIDO SOPRANI “ Sicurezza e prevenzione nei luoghi di lavoro” Di Renzo editore, pag.70. 346 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 allorchè essa ha sostenuto che anche la vigilanza sull’applicazione delle misure disposte dal RSPP e sulla loro osservanza da parte del lavoratore sono a carico del datore di lavoro (16), va tuttavia detto che la posizione cosiddetta innocentista, sostenuta dalla dottrina, tesa ad escludere una eccessiva responsabilizzazione delle figure dei consulenti del datore di lavoro, non trova nella posizione giurisprudenziale dominante un eccessivo supporto. Nè è riprova la sentenza del Tribunale di Torino del 3 ottobre 2003 n. 3930 che ha affermato che al RSPP è affidato il compito secondo l’ articolo 9 del D.Lgs. 626 del 94 di individuare i fattori di rischio all’interno della azienda nonchè le misure per la sicurezza e la salubrità degli ambienti di lavoro nel rispetto della normativa vigente; l’aver omesso di svolgere tali funzioni relativamente al rischio rappresentato dalla attività di movimentazione stoccaggio e trattamento di soste zero pericolose presenti in azienda comporta responsabilità del predetto, a nulla rilevando che lo stesso non avesse autonomia decisionale o non disponesse di un adeguato budget di spesa per le opere di sicurezza necessarie ad evitare il rischio di incidenti. Va tuttavia rimarcato che dovrebbe ritenersi “sempre più rilevante la condotta del datore di lavoro, mentre quella del RSPP assumerebbe rilievo se ed in quanto abbia determinato (o significativamente agevolato) le scelte datoriali ”: per cui per evitare una dilatazione eccessiva dei doveri attribuiti ad un soggetto che [...] rimane pur sempre estraneo al catalogo dei titolari delle posizioni di garanzia in ambito prevenzionale e rispettare il principio che la responsabilità penale è personale, sarebbe necessario un rigoroso accertamento dell'incidenza causale della condotta del RSPP e la verifica di un “sostanziale coinvolgimento del consulente stesso nella gestione dell’attività dell'impresa”: al sostanziale mutamento, dunque, del ruolo di mera consulenza in ruolo di gestione. Tale tesi, che sostanzialmente nega ogni possibile responsabilità del RSPP in quanto tale, non pone tuttavia in adeguato rilievo il ruolo effettivamente svolto da tale soggetto nella valutazione dei rischi e nella prevenzione degli infortuni sul lavoro, che rappresenta invero premessa - e, dunque, antecedente causale - imprescindibile per qualsiasi azione positiva volta ad impedire o a ridurre il rischio del verificarsi di un infortunio (17). Orientamento ulteriormente confermato dalla Suprema Corte (18) che lascia in capo al datore di lavoro la titolarità persistente della posizione di garanzia in materia di infortuni sul lavoro, ma ribadisce che il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, ancorché privo dei poteri decisionali e di spesa e, quindi, del potere di intervenire direttamente per rimuovere le si- (16) Corte di Cassazione Penale Sez. IV Sent. 20 maggio 2008 n. 27420. (17) Corte di Cassazione Penale Sez. IV n. 22239/2011. (18) Corte di Cassazione Penale 27 gennaio 2011, n. 2814. DOTTRINA 347 tuazioni di rischio, può essere ritenuto (cor)responsabile del verificarsi di un infortunio, ogni qualvolta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l'obbligo di conoscere e segnalare. Ne deriva che la mancata conoscenza o segnalazione rileva una condotta omissiva da parte del RSPP a quello che è l’obbligo posto a suo carico di individuare i fattori di rischio per i lavoratori e tale mancanza contribuisca a cagionare colposamente una lesione personale colposa in danno di un lavoratore che integra il reato di cui all’articolo 590 del Codice penale; se poi ricorrono le condizioni - lesioni gravi o gravissime -, è procedibile d’ufficio ai sensi del comma 5 di detta norma: ciò in quanto l’omissione di condotte doverose in relazione alla funzione di Rspp realizza la violazione dell’intero sistema infortunistico, senza che abbia alcuna rilevanza il mancato apprestamento di una specifica sanzione penale per la violazione del sistema (19). Quindi due sono le considerazioni desumibili: la prima che se il RSPP non avesse tenuto una condotta omissiva, ma avesse conosciuto e segnalato al datore di lavoro una situazione pericolosa non si può infatti apoditticamente escludere, che alla segnalazione non avrebbe fatto seguito l'adozione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a neutralizzare detta situazione; la seconda che, a parere della Suprema Corte, non può essere ritenuto esimente il fatto che la normativa di settore escluda la sanzionabilità penale o amministrativa di eventuali comportamenti inosservanti dei componenti del servizio di prevenzione e protezione, atteso che occorre distinguere nettamente il piano delle responsabilità prevenzionali, derivanti dalla violazione di norme di puro pericolo da quello delle responsabilità per reati colposi di evento, quando, cioè, si siano verificati infortuni sul lavoro o tecnopatie. Se dunque risulta stabile nelle diverse stagioni legislative, la configurazione della mappazione dei rischi come strumento essenziale dell'intero sistema antinfortunistico, l'omissione di condotte doverose in relazione alla funzione di responsabile o di addetto al servizio di prevenzione e protezione (20) realizza la violazione dell'intero sistema antinfortunistico, senza che abbia alcuna rilevanza il mancato apprestamento di una specifica sanzione penale per la violazione di sistema. Infatti la mancata previsione del rischio e dei mezzi per contenerlo è stata individuata come causa incidente sulla mancata adozione di adeguati presidi personali, di adeguata informazione e in definitiva come causa concorrente nella determinazione dell'evento reato (21). In altri termini qualora il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, agendo con imperizia, negligenza, imprudenza o inosservanza di leggi (19) Corte di Cassazione Penale 18 marzo 2010 n. 16134. (20) Corte di Cassazione Penale Sez. IV del 15 febbraio 2007 n. 15226. (21) Corte di Cassazione Pen. Sez. IV del 26 ottobre 2007 n. 39567. 348 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 e discipline, abbia dato un suggerimento sbagliato o abbia trascurato di segnalare una situazione di rischio, inducendo, così, il datore di lavoro ad omettere l'adozione di una doverosa misura prevenzionale, risponderà insieme a questi dell'evento dannoso derivatone, essendo a lui ascrivibile un titolo di colpa professionale che può assumere anche un carattere addirittura esclusivo. In definitiva, atteso che tra i compiti del RSPP, dettagliati dalla richiamata normativa, rientra anche l'obbligo dell'individuazione dei fattori di rischio e delle misure da adottare per la sicurezza e la salubrità dell'ambiente di lavoro, egli può essere tenuto a rispondere, proprio perché la sua inosservanza si pone come concausa dell'evento, dell'infortunio in ipotesi verificatosi, proprio in ragione dell'inosservanza colposa dei compiti di prevenzione attribuitigli dalla legge. Circa la figura del preposto va detto che, essa trova la sua definizione nell’ art. 2 del D.Lgs. 81/08, come la persona che, in ragione delle competenze professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell' incarico conferitogli, sovraintende alla attività lavorativa e garantisce l'attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa. Il ruolo di preposto la cui attribuzione deve risultare non solo nell’organigramma, ma deve essere corredata, da una pienezza di poteri, può spettare a chiunque si trovi in una posizione di supremazia sia pure embrionale, tale cioè da porlo in condizione di dirigere l'attività lavorativa di altri operai soggetti ai suoi ordini (22); per cui qualora il preposto nell'esercizio dell’attività lavorativa, abbia tollerato l’instaurazione di una prassi contra legem, pericolose per gli addetti, è responsabile dell’infortunio, anche qualora lo stesso si sia verificato in un momento in cui non fosse presente sul luogo di lavoro (23). Una responsabilità, quella del preposto, che si concretizza nella inosservanza dei doveri di sorveglianza e controllo dell'attività dei lavoratori sottoposti e, ugualmente al RSPP, di segnalare al datore di lavoro eventuali pericoli. Occorre tenere anche nel debito conto che il preposto, nella filiera delle responsabilità derivante da violazioni delle norme sulla sicurezza si colloca ad un livello gerarchico inferiore rispetto al datore di lavoro e dirigente, per cui ciò giustifica che gli obblighi e le responsabilità incombono in via prioritaria sul datore di lavoro, per il ruolo verticistico che esso ricopre, e non sono trasferibili a quest’ultimo, che, sovrintende alla attività lavorativa e garantisce l'attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori. Ciò ci consente di affermare che, ferme restando le responsabilità in capo al preposto, è sul datore di lavoro e sul dirigente che incombe quindi anche l’obbligo di un controllo e vigilanza nei confronti del preposto, circa il rispetto (22) Corte di Cassazione, Sez. IV Penale, Sentenza 14 gennaio 2010, n. 1502. (23) Corte di Cassazione Sez. IV 14 dicembre 2010 n. 5013. DOTTRINA 349 delle disposizioni di legge e di quelle, eventualmente impartitegli, onde per cui se l’infortunio si verifichi, il datore di lavoro e il dirigente non possono trincerarsi dietro la non conoscenza, ad esempio di una prassi rischiosa, poiché tale ignoranza costituisce, di per sè, una colpa per inosservanza al dovere di vigilare sul comportamento del preposto delegato a far rispettare le norme infortunistiche (24). 5. Conclusioni I gravi e ripetuti incidenti sul lavoro richiedono quindi al datore di lavoro, per la sua figura di garante e di figura verticistica, di accrescere sempre di più il livello della sicurezza a favore del prestatore di lavoro, attraverso una maggiore attenzione alla cultura della “safety” in azienda, mediante una mirata sorveglianza sul sistema, una metodica attività di vigilanza, una costante informazione e formazione del personale, una attenta definizione delle procedure, un’efficace comunicazione, un monitoraggio delle procedure e un pieno coinvolgimento dell’intera organizzazione aziendale. Il datore di lavoro ricopre quindi una indiscutibile posizione di garanzia, in quanto ex lege onerato dell’obbligo di prevenire la verificazione di eventi dannosi connessi all’espletamento dell’attività lavorativa e quindi il datore di lavoro, è e rimane il titolare della posizione di garanzia nella subiecta materia, poiché l'obbligo di effettuare la valutazione dei rischi e di elaborare il documento contenente le misure di prevenzione e protezione, appunto in collaborazione con il RSPP, fa pur sempre capo a lui. Si profila tuttavia secondo la Giurisprudenza lo spazio per una (concorrente) responsabilità del RSPP, ogni qualvolta si verifichi un infortunio oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che quest’ultimo avrebbe avuto l'obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che, se avvisato, il datore di lavoro, alla segnalazione avrebbe fatto seguito l'adozione delle necessarie iniziative idonee a neutralizzare detta situazione di pericolo (25). La mancanza di una sanzione penale o amministrativa di eventuali comportamenti inosservanti da parte del servizio di prevenzione e protezione, non significa che questi possano e debbano ritenersi in ogni caso totalmente esonerati da qualsiasi responsabilità penale e civile derivante da attività svolte nell'ambito dell'incarico ricevuto, dovendosi distinguere nettamente il piano delle responsabilità prevenzionali, derivanti dalla violazione di norme di puro pericolo, da quello delle responsabilità per reati colposi di evento, quando, cioè, si siano verificati infortuni sul lavoro o tecnopatie. Quindi qualora il responsabile del servizio di prevenzione e protezione agendo con imperizia, negligenza, imprudenza o inosservanza di leggi e di- (24) Corte di Cassazione Sez. IV 14 dicembre 2010 n. 5013. (25) Corte di Cassazione Penale Sez. IV, 13 marzo 2008. 350 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 scipline, abbia dato un suggerimento sbagliato o abbia trascurato di segnalare una situazione di rischio, inducendo, così, il datore di lavoro ad omettere l'adozione di una doverosa misura prevenzionale, risponderà insieme a questi dell'evento dannoso derivatone, essendo a lui ascrivibile un titolo di colpa professionale che può assumere anche un carattere addirittura esclusivo. Tra i compiti del RSPP rientra infatti, secondo la normativa, anche l'obbligo dell'individuazione dei fattori di rischio e delle misure da adottare per la sicurezza e la salubrità dell'ambiente di lavoro. Ne deriva che secondo le regole generali, il RSPP può essere tenuto a rispondere - proprio perché la sua inosservanza si pone come concausa dell'evento - dell'infortunio in ipotesi verificatosi proprio in ragione dell'inosservanza colposa dei compiti di prevenzione attribuitigli dalla legge. Nella catena della sicurezza sul lavoro, anche la figura del preposto, ha un ruolo importante, essendo chiamato a sovraintendere alla attività lavorativa, a garantire l'attuazione delle direttive ricevute a controllare la corretta esecuzione da parte dei lavoratori, esercitando un funzionale potere di iniziativa. Un ruolo che può spettare a chiunque si trovi in una posizione di supremazia sia pure embrionale, tale cioè da porlo in condizione di dirigere l'attività lavorativa di altri operai soggetti ai suoi ordini (26). Ne deriva che qualora il preposto nell'esercizio dell’attività lavorativa, abbia tollerato l’ instaurazione di una prassi contra legem, pericolose per gli addetti, è responsabile dell’infortunio anche qualora lo stesso si sia verificato in un momento in cui non fosse presente sul luogo di lavoro (27). Va tuttavia rimarcato come nella filiera delle responsabilità derivante da violazioni delle norme sulla sicurezza il preposto si colloca ad un livello gerarchico inferiore rispetto al datore di lavoro e dirigente, per cui su questi ultimi incombe quindi anche l’obbligo di un controllo e vigilanza nei confronti del preposto, circa il rispetto delle disposizioni di legge e di quelle, eventualmente impartitegli, onde per cui se l’infortunio si verifichi, il datore di lavoro e il dirigente non possono trincerarsi dietro la non conoscenza, ad esempio di una prassi rischiosa, poiché tale ignoranza costituisce, di per sè, una colpa per inosservanza al dovere di vigilare sul comportamento del preposto delegato a far rispettare le norme infortunistiche (28). (26) Corte di Cassazione, Sez. IV Penale, 14 gennaio 2010, n. 1502. (27) Corte di Cassazione Sez. IV 14 dicembre 2010 n. 5013. (28) Corte di Cassazione Sez. IV 14 dicembre 2010 n. 501. DOTTRINA 351 Principio dell’apparenza giuridica, società apparente e tutela dei terzi contraenti Federico Maria Giuliani* SOMMARIO: 1. Introduzione sull’apparentia juris. - 2. La società apparente: a) “tipo”, scopi, critiche di esso. - 3. (Segue): b) l’oltrepassamento della società occulta e l’ambiguità dell’art. 1414 cpv. - 4. (Segue): c) la società di fatto come creazione giurisprudenziale solutrice, in uno con la teoria della contraddizione ancipite. 1. Introduzione sull’apparentia juris Non può negligersi che, nel lessico e nel sistema del codice civile, il riferimento a soggetti o situazioni “apparenti” compaia più volte in diversi contesti. Viene in considerazione, per esempio, col suo dettato lessicale l’art. 534 cpv. (erede apparente), o gli artt. 1414 cpv., 1415(1) e 1416(1) (contratto e titolare apparente nella simulazione); oppure ancora si rammenta l’art. 1835 (impiegato della banca che, per il libretto di deposito a risparmio, appare addetto al servizio). Altre volte il concetto dell’apparenza, pur non essendo letteralmente menzionato, è piuttosto evidente nella sua emersione. Così accade nel caso dell’art. 1398 (falsus procurator), dell’art. 1159 (usucapione decennale), dell’art. 1396 (modificazione o estinzione della procura verso i terzi); e ancora è il caso dell’art. 1445 (acquisto in buona fede dei terzi da contraenti di negozio annullabile) e dell’art. 1729 (mancata conoscenza, da parte del mandatario, della intervenuta estinzione del mandato). Da qui, però, ad affermare con certezza che, nell’ordinamento civilistico esiste un concetto generale di apparenza del diritto, il passo è tutto meno che immediato. Indici normativi inclinano bensì alla tutela della buona fede in situazioni di apparenza giuridica non rispondente alla sostanza: buona fede che, quando l’apparire è indotto da una condotta in specie consapevole del dante origine alla datità fenomenica, diventa affidamento ingenerato da altri epperò meritevole di tutela. Tuttavia residuano, al fondo, talune perplessità sistemiche e teoretiche. Sotto il primo aspetto, non si può escludere che, nelle pieghe del sistema, il contemperamento degli interessi ex lege a volte scelga di non tutelare appieno il soggetto al quale, senza sua colpa, una determinata apparenza giuridica si manifesta. Per esempio in tema di società per azioni, l’annullamento o la nullità di una delibera assembleare fa bensì salvi i diritti acquistati da terzi in buona fede in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione; ma d’al- (*) Cassazionista del libero Foro e saggista giuridico. 352 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 tronde obbliga tutti i soci, a prescindere da quelli cui l’atto unilaterale collettivo era “apparso”, in buona fede, come del tutto valido (artt. 2377, comma 7 ed art. 2379, ult. c.). Sul piano della teoresi, inoltre, non si può prescindere da un importante scuola di pensiero capitolina (che da Santoro-Passarelli in nuce si è poi sviluppata con Irti, Orlandi, Gentili), la quale, trattando dei temi più diversi (dottrine generali, solidarietà passiva, simulazione), ha icasticamente sottolineato quel che segue. La contrapposizione tra fenomeno e noumeno, e dunque tra apparenza formale e quidditas sostanziale, attengono all’essere e non al dover essere, cioè all’ontica e non alla deontica; e siccome il diritto appartiene a quest’ultima e non alla scienza di ciò che è, in/per esso siffatte contrapposizioni rischiano di forviare non poco. Il fatto estrinseco/intrinseco - ivi si dice - per il diritto è bruta datità, che diventa significativa solamente quando è integrativo della fattispecie legale, che lo qualifica, lo disciplina, lo vieta in un modo o nell’altro a seconda dei casi. E del resto conferme di queste e altre notazioni, in direzione ( “ostinata” e) contraria all’apparentia juris tout court, emergeranno infra nelle riflessioni a seguire. 2. La società apparente: a) “tipo”, scopi, critiche di esso Si potrebbe essere indotti a pensare de plano che, essendo - quanto meno geneticamente - la società un contratto (inter alia ex art. 2328, c. 1), non vi sia ragione di dubitare che essa sia simulabile, atteso che il contratto sociale non è certo negozio unilaterale non recettizio, rectius con destinatari non determinati (categoria quest’ultima cui la simulazione non si attaglia). Qualche dubbio però già lo pone, dopo la riforma societaria del 2003, il regime di nullità dell’atto costitutivo delle società per azioni (di cui all’art. 2332), secondo cui la più radicale patologia contrattuale è ormai compressa a tre casi-limite, e peraltro non pregiudica l’efficacia degli atti compiuti, dalla/nella società nulla, dopo la iscrizione nel registro delle imprese. Non solo, ma la causa di nullità può essere rimossa e iscritta, con il che quella non può più essere dichiarata. Ciò per un verso non segue il parametro di cui all’art. 1418 - ché per esempio la indeterminatezza/indeterminabilità dell’oggetto, ovvero la violazione di norme imperative tout court sembrano lasciare intatto il contratto sociale; e per altro verso in tal guisa s’intacca il noto brocardo, secondo cui ciò che è nullo non produce nessun effetto. Evidentemente (come ha perspicuamente osservato l’Angelici nelle sue lezioni di diritto commerciale post riforma), il legislatore ha fatto prevalere, sul regime generale delle nullità, altri interessi ed esigenze, poste alla base della società per azioni come attività sul mercato dei traffici. E per il vero i dubbi sulla simulabilità della società, come società apparente, non sono finiti qui. DOTTRINA 353 Secondo autorevole dottrina (Jaeger), la società apparente non sarebbe tanto un caso speciale di simulazione contrattuale, quanto piuttosto una creazione giurisprudenziale (per vero coonestata da parte della dottrina tra cui Galgano). Creazione che ha bensì - si dice - nella sostanza il fine di tutelare i terzi nel caso di fallimento, dacché costoro sono senza colpa caduti nel tranello di pensare che un ente vi fosse, diverso dai singoli soci; tal che lasciarli in balia di nessuna tutela creditoria nella decozione, ovvero a rincorrere i singoli soci affermandone la responsabilità solidale, appare immeritevole di essere opinato. E pur tuttavia tale scuola di pensiero non manca di lumeggiare le anomalie contraddittorie insite in una siffatta applicazione dell’apparenza simulatoria. Così si è detto che, nel caso di società apparente in accomandita, per il qual tipo non vi è ragione di denegare la simulabilità una volta attestatala per gli altri, non è dato di capire come poi, nella disciplina fallimentare, si possano distinguere i soci illimitatamente responsabili - cui opporre la mera apparenza appunto - dagli altri. Si dirà: ma siccome sono soci apparenti non importa che siano apparentemente responsabili in misura limitata o illimitata; e tuttavia, se apparentia juris si dice esserci, essa deve rappresentare qualche cosa di preciso secondo le regole giuridiche nelle loro varie forme; viceversa c’è qualche cosa che non va nell’assunto di partenza, e bisogna rimeditare il tutto. Sennò quale società simulata/apparente fanno valere i terzi creditori nel fallimento? Quella solo - e per forza di cose - in nome collettivo? È una tesi, ma prova troppo poco. Diciamo, del resto, solo in nome collettivo giacché, a ben vedere, la obiezione su menzionata si riconnette all’art. 1414 cpv., ult. parte. Infatti, atteso che in linea generale (v. art. 2251) i contratti costitutivi delle società commerciali debbono essere fatti quanto meno per iscritto (artt. 2296) - se non per atto pubblico (art. 2328) -, non può avere effetto tra le parti un contratto dissimulato concluso con la forma della mera oralità, se non con quella della mera attuazione comportamentale. E, se non può avere effetto fra le parti, non è affatto scontato che i terzi possano farlo valere (ex art. 1415 cpv.) quando esso pregiudica i loro diritti di credito. Poiché, tanto per cominciare - come osserva l’ultima giurisprudenza di legittimità sulle clausole simulatorie di prezzo nelle vendite immobiliari -, il patto simulatorio/dissimulato, che difetta di forma legale, non può essere provato né per testimoni né per presunzioni (arg. ex artt. 2725 e 2729 cpv.): il che già inchioda l’interessato a una probatio diabolica (e ricollega a quanto si diceva sopra sul clivage tra soci illimitatamente e limitatamente responsabili nel fallimento). Inoltre, non può escludersi una diversa lettura, giusta la quale il fatto che manchi, nel contratto simulato, la forma prescritta per il contratto dissimulato, elimina in radice che questo possa essere comunque provato: il “tra esse”, cioè, di cui all’art. 1414 cpv. c.c., costituisce pleonasmo visto l’art. 1418 cpv.; e la “nullità” del contratto simulato in quanto tale (nemmeno poi 354 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 condivisa da tutta la dottrina, che alle volte predilige la “inattitudine a produrre effetti”) non è la stessa cosa di quella del dissimulato. Un ipotetico contraddittore potrebbe opinare che, in presenza di una società apparente - o di un’apparenza di società -, non vi è da provare alcun negozio dissimulato, poiché la società apparente non nasconde alcunché, bensì costituisce l’espressione - a mezzo di vari indici - della esistenza di un ente che in verità non c’è. Simulazione assoluta, in altre parole, e non già relativa; tal che piuttosto l’onus probandi investe la sussistenza degli indici esteriori necessari per indurre un’apparenza/un affidamento societario, piuttosto che il contenuto di un quid sotterraneo e non esteriorizzato. Può essere. Ma il ragionamento non mena assai lontano, poiché comunque si tratta di provare l’esistenza di un contratto apparente, che però è formale ex lege, il che, se allontana dall’art. 1414 cpv. - il quale alla forma del contratto dissimulato fa riferimento -, rimbalza però sui citati artt. 2725 e 2729 cpv. Ecco che allora si fa strada, nella mente dell’interprete, la figura della società occulta, e l’esigenza di raffrontarla con la società apparente. Si pensa infatti: se la prova della società apparente… “appare” diabolica, perché il contratto di società è formale, allora può essere che si debba ragionare in termini di una società che non è stata “formalizzata”, e che pure vi è - epperò è occulta. Ciò prima di rassegnarsi al deludente esito di una società apparente relegato alla società semplice senza apporti immobiliari o di mobili registrati. Deludente sì, ma in specie contraddittorio. Ché se il fine precipuo della figura dell’apparenza societaria è tutelare i creditori nel fallimento (v. supra), la tigre “è di carta”, sol che si pensi che la società semplice, non potendo svolgere attività commerciale, non fallisce (artt. 2249 c.c. ed art. 1 legge fall.). 3. (Segue): b) l’oltrepassamento della società occulta e l’ambiguità dell’art. 1414 cpv. Se la società apparente si manifesta e risulta tale nell’affidamento dei terzi, anche se i soci apparenti nel sostrato veridico non sono soci, viene da dire che la società occulta è il rovescio. Che, cioè, essa non si manifesta in alcun modo come ente e compagine sociale, eppur vi è nella sostanza delle cose. Oltrepassando questo linguaggio a-giuridico, e piuttosto lumeggiando gli interessi in gioco, la società occulta - in uno con l’imprenditore occulto di bigiaviana memoria - nasce idealmente, ancora una volta, a tutela dei creditori in ispecie fallimentari. Per i creditori, cioè, non è la stessa cosa potersi rivalere su - e se del caso far fallire - un imprenditore individuale, invece che una società composta di quello stesso soggetto oltre ad un altro, persona fisica o giuridica illimitatamente responsabile (atteso che, dopo la riforma del 2003, la vexata quaestio della possibile partecipazione di società di capitali in società di persone si è finalmente conchiusa in senso positivo). Ora però, anche a questo proposito, un po’ come si è visto accadere con DOTTRINA 355 la società apparente, perspicua dottrina (Denozza) tende a ridimensionare la categoria giuridica. Ché - si osserva - per un verso la teoria bigiaviana dell’imprenditore occulto (cui si connette quella della società occulta) è risalente e non è mai stata massivamente condivisa; per altro verso le spinte che stavano alla sua base, sul piano degli interessi, sono oggidì oltrepassate dall’art. 147 legge fall. Ed invero, ai sensi di tale norma, i soci illimitatamente responsabili, quand’anche non persone fisiche e “risultanti” dopo la dichiarazione di fallimento, falliscono ipso jure per il fallire della società commerciale partecipata - sempre che questa sia una s.a.p.a. ovvero una s.n.c. o una s.a.s. Al che viene da chiedersi: ha qualche cosa tutto ciò a che fare con l’istituto della simulazione? Certo si è che vi è un ostentamento - per esempio l’impresa individuale - e di contro un nascondimento - per esempio un socio occulto (persona fisica o giuridica) di quello, per di più col tratto della responsabilità illimitata. Ma, in materia societaria, ancora si dubita che ci si possa muovere sul piano semplicemente contrattuale, concependo la dissimulazione assoluta di un contratto di società. Piuttosto, si preferisce dire che ciò che è fatto oggetto di ostensione, e per l’opposto di nascondimento, è nella sua propria essenza un’attività. Ma per le attività, si chiosa, non si dà simulazione (Distaso). Tal che, sebbene anche in subiecta materia emergano interessi di tutela di terzi creditori, la figura della società occulta non permette di scavare oltre nel solco della società apparente. In effetto, come da presentimento, nella società occulta il problema formale del contratto sociale svapora. Ma ciò non tanto perché in questa, a differenza che nella società apparente, il contratto sociale è dissimulato anziché simulato; ché, comunque, diversamente dal “contratto (...) apparente” (art. 1414 cpv.) - cioè a dire anche un non-contratto - sussiste au fond nella società occulta un contratto sociale per cui s’impongono i requisiti di forma. Per parte sua, nel caso della società apparente, il contratto sotteso - per definizione un non contratto - può bensì essere fatto valere, ma sembrerebbe che, per apparire, il contratto stesso si debba manifestare coi suoi crismi di forma legale. Viceversa, più che un apparire, esso si palesa come flatus vocis o fantasma, cui nessuna persona non dissennata dà credito (nel senso di affidamento) sia pur come mero noumeno. All’uopo conviene dire due parole, ancora, sul capoverso dell’art. 1414. Ci si è domandati, in dogmatica, se ivi la sussistenza dei requisiti legali di sostanza e di forma vada riferita al contratto esibito oppure a quello occultato. Ebbene, osservando sintatticamente il periodo dell’alinea, si vede che il soggetto del verbo “ha effetto” è “il contratto dissimulato” - quello cioè “diverso da quello apparente”; dopo di che, c’è forse un “ne” di troppo (“ne sussistano”), ché bastava dire “purché sussitano”. Ma quel “ne” assume un portato, sol che si provi a leggere il periodo omettendolo, col che si ha la sensazione che il sus- 356 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 sistere dei requisiti di sostanza e di forma si riferisca a un che d’imprecisato, a un nulla o a un tutto - il che fa lo stesso. Ecco che allora “ne sussistano” significa che “ivi” - cioè nello stesso contratto dissimulato - debbono sussistere detti requisiti, per come la legge lo regola sul piano della forma a seconda di quale contratto esso sia. E non di meno taluno ha opinato che non si legge “ivi” bensì “ne”, e che pertanto quest’ultima particella vada riferita a ciò che è più sopra, cioè al “contratto (...) apparente”; sicché in quest’angolo il contratto nascosto può bensì produrre effetti (tra le parti), ma purché esso abbia gli stessi crismi di forma esistenti o prescritti quanto al contratto apparente. Ora non vi è chi non veda che tutta la problematica della forma, riferita alla società apparente, in tanto ha un senso in quanto si adotti la seconda lettura - testé prospettata - dell’art. 1414 cpv.; nel senso cioè che il non-contratto di società - scil. l’assenza di esso - può valere a dispetto dell’apparenza societaria purché abbia, quale controdichiarazione, la forma scritta. Quanto all’atto notarile, il pubblico ufficiale non può, per ordinamento che gli compete, rogare una dissimulazione assoluta; e quindi al più l’atto pubblico non sarà un noncontratto (cioè appunto una controdichiarazione nullificante rispetto all’apparire), bensì una società con una diversa compagine partecipativa. 4. (Segue): c) la società di fatto come creazione giurisprudenziale solutrice, in uno con la teoria della contraddizione ancipite Che sia forse la nozione di società di fatto a illuminare i nostri temi? Anche qui siamo in presenza di una creazione giurisprudenziale, tanto è vero che le corti hanno consolidato da tempo la nota triade di elementi, i quali debbono sussistere acciocché di società di fatto possa parlarsi: a) fondo comune; b) alea comune; c) affectio societatis. Prescindendo dalle questioni insite in codesta triade - come per esempio la impalpabilità dell’affectio (tal che si parla di prova diabolica) -, fatto si è che, al manifestarsi dei tre indici scatta - anche e sopra tutto verso l’amministrazione finanziaria - un ente di fatto, che non può essere una società di capitali (ancora per la forma notarile), ma quanto meno una società di persone, anche commerciale, sotto la specie della “società irregolare” di cui all’art. 2297. E qui vi è un primo passo in avanti, alla luce del diritto vivente in parola. L’art. 2297 non disciplina il contratto di società irregolare siccome concluso oralmente (a dispetto dell’art. 2296), ma in quanto non (ancora) iscritto nel registro delle imprese (alla camera di commercio competente per territorio). Dal che è inferibile che la forma scritta dei contratti di società commerciali di persone non è a pena di nullità, bensì mezzo per la pubblicità. Ulteriore corollario è quello per cui non occorre che una società apparente, per potersi manifestare come tale, sia dotata au fond di una controdichiarazione “nullificatrice” in forma scritta. Per la contraddizione che non lo consente. E ancora l’art. 1414 cpv. c.c. va probabilmente letto nel senso che i requisiti DOTTRINA 357 di forma debbono sussistere in capo al contratto dissimulato/occulto, identificati a mezzo delle norme legali sul tipo di contratto che le parti vogliono sia “effettivamente” - cioè il simulato corretto dal dissimulato (sì che, nel caso della clausola simulata sul prezzo della compravendita immobiliare, occorre che il sovrappiù di numerario “in nero” sia pattuito anch’esso per iscritto). Orbene, rispetto alla società apparente, la società di fatto sembra possedere una qualche differenza strutturale. Nel senso che nella prima una società si manifesta come tale anche se per vero non c’è; mentre nella seconda essa si manifesta per quel che è, nonostante non sia stata regolarizzata al registro delle imprese - ergo si manifesta come esistente al di là della insussistente pubblicità. Che se poi ci si muove verso la società occulta, viene da dire che questa non appare eppure c’è; mentre la società di fatto appare e, nonostante il difetto di pubblicità, vi è altresì. Sono differenze che sfumano non poco, sol che si esca dal dogma volontaristico e dunque ci si distacchi dal volere non formalizzato dei soci. Non è un caso che in dottrina (Cottino, Galgano) si discuta sull’autonomia effettiva delle tre figure, non essendo essa affatto scontata. Sul piano degli interessi, è sempre il terzo contraente - creditore - a essere al centro dell’attenzione. Talché si pensa che il creditore della società apparente meriti tutela siccome tale, poiché egli è incorso nell’affidamento di buona fede, giusta il quale l’ente societario esiste. Per parte sua, il contraente creditore della società occulta, si pensa meriti tutela sulle orme dell’art. 1415 cpv. c.c. Infine, quanto alla società di fatto, di nuovo l’affidamento in ciò che si palesa effettualmente, dovrebbe far divisare, in capo al terzo contraente, una tutela facente capo, in buona sostanza, all’art. 1415, primo comma, c.c. A questo punto, però, torna in considerazione quella dottrina anti-ontologista - e piuttosto de-ontica -, di cui si è fatta menzione all’inizio di questo scritto (par. 1, in fine). Se ci si pone in quell’ottica prospettica, si debbono abbandonare le categorie dell’essere e dell’apparire - che si è visto condurre, nella nostra materia, a taluni confondimenti e difficoltà probatorie -, per concepire l’idea di un nucleo diverso delle fattispecie. Un nucleo che è quello della contraddizione ancipite, tale per cui indici contrattuali, che depongono in un certo segno (esistenza di una società o viceversa), si giustappongono ad altri indici, pure effettuali, che depongono nella direzione esattamente opposta (inesistenza di una società o viceversa). Ebbene, sussistendo una sì fatta ambiguità, l’ordinamento - si dice - non la vieta ma neppure la sostiene e l’appoggia. Ché piuttosto esso impone ai consociati di essere quanto più univoci e meno ambigui possibile, onde non ingenerare misunderstandings in capo ai terzi, contraenti ed in ispecie creditori. Tal che l’ancipitezza testé detta va risolta, ermeneuticamente, in un senso o nell’altro, proprio nell’interesse dei terzi. E tra i due (o più) corni della fiamma, prevarrà obiettivamente quello che: a) o genera affidamento (arg. ex 358 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 art. 1415 c. 1° ); b) oppure merita di essere maieuticamente portato a galla per non danneggiare chi, dal sostrato (semi)nascosto, trae nocumento (arg. ex art. 1415 cpv.). Il che pare un’endiadi contraddittoria, sì che non si capisce quale dei due risvolti, di testo e contesto negoziale, si dia per essente per i terzi. E qui la legge, a rigore - sol che si esamini il mentovato art. 1415 nella sua totalità -, induce l’interprete a ritenere che: a) il terzo creditore può di per sé risolvere l’ancipitezza (con)testuale, facendo emergere ciò che ictu oculi non risulta ma nell’insieme prevale; b) invece il terzo, che non è direttamente creditore di uno dei soggetti del rapporto contrattuale ancipite bensì successore a titolo particolare da uno di quelli, merita tutela laddove non si sia avveduto dell’ancipitezza del (con)testo, e sia per l’effetto - in buona fede - caduto nella lettura più immediata e superficiale dell’ancipitezza stessa (magari non avvedendosi neppure della contraddizione da dipanare). E allora tutto si fa questione, eminentemente, di “testo e contesto” (per dirla con Irti), cioè d’interpretazione di langue e parole, di segni e indici e stati di cose. E, per vero, tutto ciò non spazza via i problemi legati al formalismo negoziale, di cui si è ampiamente detto. Infatti, nella maieutica di testo e contesto, l’art. 1414 cpv. permane al centro della deontica e, secondo la preferibile lettura di tale disposto (supra, par. 3, in fine), bisogna pensare che - una visione punitiva per le sole parti sul piano del formalismo apparendo opinabile - non soltanto tra i contraenti dell’ancipitezza, ma anche verso i terzi, occorra che l’eventuale forma legale (di testo e contesto) sia rispettata in toto, senza degradare - in porzioni dell’ambiguità - verso forme meno rigorose di quelle prescritte. Certo, fattispecie e disciplina giurisprudenziale della società di fatto aprono in subiecta materia qualche scorcio sul punto della forma; ma si tratta di un alcunché di limitato, risolvendosi nella sola collettiva e nell’accomandita semplice (arg. ex artt. 2297 e 2315). RECENSIONI PAOLO TOGNI (*), Un certa visione dell’ambiente 2. Presa d’aria 2008-2010. Prefazione di Altero Matteoli e Maurizio Lupi. (I Paperback di Tempi - Distribuzione Itacalilibri.it) Stile critico e pungente Tra gli obiettivi dell’autore di questo volume, che raccoglie numerosi articoli apparsi sulla rivista Tempi, c’è certamente quello di offrire ai lettori la possibilità di interrogarsi e prendere coscienza in modo originale, delle varie questioni e dei temi di volta in volta affrontati. Leggendo la raccolta non si può, infatti, fare a meno di notare lo stile volutamente pungente, spesso critico e diretto con cui l’autore si approccia nei suoi scritti. Chi d’altronde conosce Paolo Togni, anche non profondamente, sa già che da buon toscano non avrebbe potuto avere una verve diversa su quasivoglia argomento trattato. La sua impostazione anche cruda, se si vuole, ha il pregio innovativo di giungere in modo chiaro a tutti. E tutti, anche coloro che non ne condividono le opinioni, le critiche e gli apprezzamenti, non possono non riconoscergli l’onestà intellettuale con cui maneggia le innumerevoli tematiche e problematiche di cui si occupa. Altero Matteoli Quanto più l’uomo si conosce, tanto più progredisce “Quanto più l’uomo si conosce, tanto più progredisce”. Mi sembra giusto e importante iniziare da qui, da questa frase di Gandhi, per spiegare l’importanza di un libro come questo che raccoglie gli articoli del mio amico Paolo Togni. Perché quando si parla di ambiente, è sempre stata la mia convinzione, non si può prescindere da due temi fondamentali: lo sviluppo (*) Il Prof. Togni, è stato docente universitario, dirigente della P.A., ha ricoperto diversi incarichi presso il Ministero dell’Ambiente. Attualmente è direttore della SSTAM (Scuola Superiore Territorio, Ambiente, Management) dell’Università di Perugia. Dal 2006 collabora con il settimanale “Tempi” per il quale cura la rubrica di ecologia - naturale ed umana - “Presa d’aria” e questo volume, il secondo della serie, raccoglie le rubriche pubblicate nel 2008-2010. 360 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 e la centralità della persona. Non si può infatti parlare di tutela ambientale in astratto, quasi fosse uno schema fisso da applicare a qualsiasi realtà. Negli ultimi anni il dibattito sulle conseguenze dell’inquinamento su scala locale e globale ha spinto i Governi e le organizzazioni internazionali a definire politiche in grado di affrontare questioni che fino a qualche anno fa erano relegate ai margini dell’agenda istituzionale: l’uso sostenibile delle risorse naturali (produzione ed utilizzo corretto dal punto di vista ecologico), la salvaguardia della salute umana, dell’ambiente e del patrimonio culturale. Le stesse questioni che Paolo, con occhio critico, attento, ma soprattutto competente, ha tentato di affrontare, settimana dopo settimana, nella sua rubrica su Tempi. Quella che viene pubblicata oggi è una raccolta di interventi scritti in modo semplice, lineare, ma mai banali che spiegano e suggeriscono idee, sviluppando il dibattito sulla necessità di far progredire lo sviluppo sostenibile. Attenzione, però, non si tratta di discussioni filosofiche, gli articoli di Paolo sono il frutto di un’esperienza diretta, vissuta nella responsabilità di ruoli operativi di primo piano sia a livello nazionale, come capo di Gabinetto e direttore generale del ministero dell’Ambiente, che locale, come Capo Dipartimento Ambiente al Comune di Roma. È da questa esperienza, ne sono certo, che nasce l’idea che le politiche di tutela del territorio, se non mettono al proprio centro la persona, se non puntano a rispondere anzitutto ai bisogni reali del cittadino, rischiano di essere assolutamente inefficaci. Per questo, il volume che ho l’onore di introdurre con questo breve intervento, non è una “fredda” raccolta interessante idee e spiegazioni, ma va di molto oltre. Come quando, intervenendo nel dibattito creazione/evoluzione, Paolo richiama le parole con cui il Sommo Pontefice Pio XII, nel confermare l’origine prima della materia e dello spirito in un atto creativo della Suprema Volontà, lasciava al giudizio di una scienza più progredita la definizione del processo evolutivo della parte materiale. A dimostrazione che la religione non è nemica della scienza a patto che questa non si ponga come processo arido, ma tenga conto della verità ultima del Creato. Non a caso, nei suoi scritti, Paolo si occupa spesso di ecologia umana, prendendo in esame i rapporti tra le istituzioni, tra istituzioni e cittadini, e tra i diversi soggetti presenti nella società. Credo di poter affermare che gli articoli contenuti in questo libro siano legati da un unico filo conduttore: il legame intrinseco tra l’uomo e l’ambiente nel quale vive. Un punto di vista fondamentale e imprescindibile. Albert Einstein diceva che “La cosa pìù importante è non smettere mai di domandare”. Sono tante le domande che nascono leggendo questo libro e, per fortuna, ci sono anche molte intelligenti risposte. Maurizio Lupi Introduzione dell’Autore Le regole esistono da sempre. Quando il Creatore pose la prima pietra dell’Universo, in essa erano scritte tutte le leggi naturali che conosciamo e che mai potremo arrivare a conoscere: non esiste legge fisica, chimica o biologica che sia venuta in essere in un momento successivo a quello. Lo stesso vale per tutte le norme che regolano l’essenza dei rapporti dei singoli uomini tra di loro, nella società e con la comunità: il diritto naturale. Tutte le leggi della natura e il diritto naturale esistono da sempre e sempre esisteranno, immutabili ed uguali a se stesse: sono queste norme a determinare i meccanismi dell’evoluzione materiale, RECENSIONI 361 dai quali non sono toccate e che non le riguardano, e a stabilire la rispondenza dei comportamenti umani al volere divino. La loro conoscenza avviene secondo quello che Michelangelo riteneva fosse il metodo per realizzare la scultura: per forza di levare, cioè liberando quello che già esiste nella sua forma definita dalla materia che lo contiene. Nell’andare dei tempi l’uomo, frutto estremo e coronamento della Creazione, ha molto studiato le regole e intorno alle regole, ottenendo risultati grandi anche se ancora parziali. La conoscenza sempre più approfondita delle regole naturali ha determinato lo sviluppo della scienza e della tecnologia al quale la razza umana è pervenuta ad oggi, e maggiori approfondimenti determineranno i grandi, ulteriori progressi che la attendono, e che è facile prevedere che avvengano con accelerazione crescente. Minor impegno si è profuso, in special modo negli ultimi tempi, nelle ricerche e negli approfondimenti sul Diritto Naturale: l’illusione luciferina dell’onnipotenza umana ha infatti indotto molti a pensare che essenziali siano le norme del diritto positivo, ed a trascurare quelle poste dal Creatore, dall’esistenza e dall’applicazione delle quali sappiamo derivare la qualificazione dell’essere vivente a uomo. Tra le regole del Diritto Naturale la prima e la meno osservata è quella che garantisce ad ogni uomo la libertà. Ogni uomo, per il semplice fatto di esser nato, è destinato ad esser libero, e la sua responsabilità viene a determinarsi in proporzione all’effettivo esercizio della sua libertà. Tuttavia uomo libero non si nasce, si diventa: questo diritto viene eredito in astratto, ma si realizza con sforzi e fatica. La capacità di esercitare la libertà infatti non è connaturata: essa deve conquistarsi attraverso una progressiva conoscenza del mondo e di se stessi, e attraverso l’esercizio costante di una critica vigile e severa, verso se stessi, verso gli altri individui, verso i comportamenti che si tengono e verso la società. Per esser uomini liberi occorre saper esprime, in ogni momento, valutazioni proprie e originali su quanti e quanto ci circonda. Certo è più facile diventare uomo libero per chi vive in un contesto sociale nel quale gli sia garantita protezione dai soprusi dello Stato e dei suoi simili, gli sia consentito di svolgere la propria personalità e di esprimere le proprie opinioni; noi oggi e qui abbiamo la fortuna di trovarci in queste condizioni, ma la storia ci insegna che si può esser uomini liberi anche sotto regimi di feroce dittatura e nella privazione di ogni libertà materiale, come hanno dimostrato di recente, tra molti altri, il cardinale Mindszenty ed il cardinale Van Thuan. Uomo libero è chi risponde delle proprie idee e convinzioni e degli atti che coerentemente ne derivano solo alle regole poste dal Padre Eterno ed alla propria coscienza; divenire uomo libero significa impegnarsi, secondo le regole di verità che ci sono connaturate, e cioè retta coscienza e corretta conoscenza, per arrivare a maturare giudizi, opinioni e regole di comportamento propri, non mutuati da altri e non necessariamente allineate all’opinione corrente, su ogni singolo comportamento ed accadimento pubblico o privato: significa affermare tali giudizi ed opinioni, sempre e dovunque, senza rispetto umano, con fortezza e sincerità solo mitigate dalla giusta misura di carità e prudenza; significa essere disposti a battersi per le proprie idee e per i propri programmi; significa, anche e soprattutto, essere disposti in ogni momento a pagare un prezzo per tutto questo, un prezzo che può anche essere alto, e normalmente lo è; un prezzo che sotto le dittature è spesso arrivo alla tortura e alla morte, e che nei Paesi liberi può andare dal vedersi frenato nel processo di crescita lavorativa all’essere socialmente discriminato in quanto disturbatore del coro dei conformisti. Essere uomo libero significa anche aver consapevolezza di sé. Da molti, specialmente in passato, si proclamava il grande valore della virtù della modestia, ma questa grande virtù 362 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 1/2012 non consiste nel battersi il petto chiedendo perdono per la propria pochezza e proclamando di non valere nulla; i miei buoni maestri, ohimè molti decenni fa, mi insegnarono che la vera umiltà consiste nell’avere una percezione precisa e realistica di se stessi, del proprio valore e del valore della propria attività, e nel comportarsi in conseguenza. È vera umiltà attribuirsi il giusto volare, valutare le proprie opere, giudicare correttamente se le opere siano state pari alle capacità e alle opportunità, e nel caso dalla valutazione risulti che non si è fatto tutto quanto si sarebbe potuto, allora solo bisognerà dare su di sé un giudizio giustamente severo. Tommaso d’Aquino è stato proclamato santo per avere esercitato in modo eroico le virtù del cristiano, tra le quali è certamente compresa la modestia, ma solo nel senso che ho detto prima, se non avesse avuto consapevolezza di sé e del suo valore, se si fosse adagiato in un rimpianto sentimentalistico per la propria pochezza, non ci avrebbe lasciato la mole meravigliosa e sterminata dei suoi ragionamenti, e l’umanità sarebbe oggi ben più misera di quanto in effetti non sia. Lo status di uomo libero comporta la necessità di trarre ispirazione per i propri pensieri e per le proprie azioni solo dalle proprie conoscenze e convinzioni, plasmate sulla verità che si conosce, utilizzando un procedimento corretto; dal che scaturisce la conseguenza di trovarsi spesso in contrasto con coloro che conoscono altro, d’altro sono convinti, o comunque non hanno correttamente portato a termine la loro ricerca della verità. La quale resta comunque sempre raggiungibile da chi, con retta coscienza e rettamente informata ragione, la cerca; con l’aiuto della Grazia è poi possibile constatare che la verità e la Rivelazione sono due facce della Creazione, tra di loro non differenti, tutt’altro che inconciliabili: aspetti diversi della stessa realtà. Purtroppo non sembrano essere moltissimi gli uomini che possiedono retta coscienza e corretta conoscenza: avviene quindi spesso di trovarsi in presenza di una maggioranza di persone con le quali non ci si trova d’accordo; che tale maggioranza possa essere numericamente schiacciante; che chi la pensa in maniera difforme dalla maggioranza venga considerato un mascalzone, uno stravagante o un demente: ed è proprio in queste situazioni che è possibile misurare il vero tasso di libertà di una persona. Certamente non è libero chi fa acriticamente propri l’opinione o il giudizio altrui, o chi adegua le sue idee a quelle dominanti; altrettanto certamente non è uomo libero chi non abbia costruito un proprio sistema di pensiero; e tanto più si dimostra di essere liberi quanto più fermamente si seguono e si affermino le proprie idee, tenendo ferma la barra verso la verità e la giustizia, o per lo meno verso quelle posizioni che abbiamo riconosciuto come tali. Di tutto questo porto in me e nella mia storia una piccola esperienza vissuta, naturalmente non indenne dalle cadute e dalle debolezze connaturate alla condizione umana ed alla mia persona in particolare. Acquisite le premesse di cui sopra, resta da constatare il fatto che non è facile, per l’uomo libero, far sentire la sua voce. La maggioranza di conformisti che domina nella società è costantemente sostenuta e rafforzata nella sua ottusa stolidità dal conformismo dai mezzi di comunicazione. Ameno nel nostro Paese, è molto difficile trovare tra stampa, radio e televisione voci che, ricercando ed esprimendo la propria libertà, discordino dall’opinione dominante, salvo per quanto riguarda le questioni propriamente politiche, che però vengono normalmente sottratte alle regole della verità per essere consegnate a quelle della faziosità. Ed è doloroso dover constatare che tale situazione deriva certamente anche dal fatto che grandissima parte della politica ha perso il complesso di visione strategica/disegno della società futura/programmi amministrativi che nel passato recente aveva caratterizzato l’azione RECENSIONI 363 e la comunicazione dei partiti. È questo un discorso che varrà certo la pena di approfondire in altro momento ed in altro contesto: qui basterà ricordare che questo processo di impoverimento della dialettica si autoalimenta, ed il suo crescere ne moltiplica vastità e profondità; e che, per quanto è funzionale a questo discorso, l’effetto di tale processo è l’impoverimento dell’articolazione del pensiro comunicato e la difficoltà di trasmette le proprie idee e le proprie valutazioni nella quale si dibatte chi si pone fuori dal coro. Per chi ritenga di aver da dire qualcosa che si ponga al di fuori delle usuali affermazioni conformistiche è quindi tanto più importante trovare persone e mezzi che gli permettano di esprimere con chiarezza e sincerità, in libertà. Io ho avuto la fortuna grande di averlo trovato in Luigi Amicone, nei suo collaboratori e in “Tempi”. In quasi cinque anni di collaborazione, per oltre duecento puntate pubblicate, nessuno mi ha dettato indirizzi o contenuti per la mia rubrica, e in questa raccolta dei pezzi pubblicati negli anni 2008, 2009 e 2010, con articolazione di contenuti non sempre pienamente coerenti con la linea del giornale, sta la patente ed inoppugnabile dimostrazione della assoluta libertà che mi è stata concessa, e della quale non mi sono fatto scrupolo di approfittare. Approfondire la conoscenza del sistema delle regole, e criticarne criteri e modalità di applicazione è l’obiettivo che mi sono posto in questa attività, e per questo motivo spero che al fondo di ogni pagina, in fondo ad ogni ragionamento, risulti che è proprio questo il problema che ho voluto affrontare. Anche se l’approccio è articolato, e va dall’analisi degli aspetti materiali del mondo alle considerazioni sull’ecologia umana, depurata del contingente, ogni pagina è una pagina sulle regole. O almeno, questo è quanto credo e spero. Chi avrà voglia di sfogliare le pagine che seguono vi troverà opinioni diverse ed articolate: molte di queste, o anche tutte, potranno non esser condivise, e si potrà dare un giudizio negativo sugli scritti e sul loro autore: ma quello che mi farebbe molto piacere sarebbe che, terminata la lettura, del mio lavoro vengano riconosciute sincerità e coerenza. In aggiunta agli articoli pubblicati da Tempi compaiono in questo volume pochi altri scritti, comparsi in occasioni diverse su pubblicazioni diverse: costituiscono anch’esse una parte del mio discorso con amici e non amici. Che tutti, gli uni e gli altri, ringrazio per l’attenzione che vorranno riservarmi. Paolo Togni Finito di stampare nel mese di giugno 2012 Servizi Tipografici Carlo Colombo s.r.l. Via Roberto Malatesta n. 296 - Roma