ANNO LXIV - N. 2 APRILE - GIUGNO 2012 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO PUBBLICAZIONE TRIMESTRALE DI SERVIZIO COMITATO SCIENTIFICO: Presidente: Michele Dipace. Componenti: Franco Coppi - Giuseppe Guarino - Natalino Irti - Eugenio Picozza - Franco Getano Scoca. DIRETTORE RESPONSABILE: Giuseppe Fiengo - CONDIRETTORI: Giacomo Arena e Maurizio Borgo. COMITATO DI REDAZIONE: Lorenzo D’Ascia - Gianni De Bellis - Sergio Fiorentino - Paolo Gentili - Maria Vittoria Lumetti - Francesco Meloncelli - Antonio Palatiello - Massimo Santoro - Carlo Sica - Stefano Varone. CORRISPONDENTI DELLE AVVOCATURE DISTRETTUALI: Andrea Michele Caridi - Stefano Maria Cerillo - Luigi Gabriele Correnti - Giuseppe Di Gesu - Paolo Grasso - Pierfrancesco La Spina - Marco Meloni - Maria Assunta Mercati - Alfonso Mezzotero - Riccardo Montagnoli - Domenico Mutino - Nicola Parri - Adele Quattrone - Pietro Vitullo. HANNO COLLABORATO INOLTRE AL PRESENTE FASCICOLO: Federico Basilica, Ignazio Francesco Caramazza, Gabriella D’Avanzo, Eugenio De Bonis, Roberto De Felice, Verdiana Fedeli, Dorian De Feis, Wally Ferrante, Francesco Frigida, Michele Gerardo, Giulio Luciani, Paolo Marchini, Federico Maria Giuliani, Leonello Mariani, Salvatore Messineo, Diego M. Miele, Adolfo Mutarelli, Valérie Peano, Vincenzo Rago, Marina Russo, Francesco Spada, Maria Luisa Spina, Antonio Tallarida, Roberta Tortora, Luca Ventrella, Francesca Zambuco, Laura Zoppo. E-mail: giuseppe.fiengo@avvocaturastato.it - tel. 066829313 maurizio.borgo@avvocaturastato.it - tel. 066829597 ABBONAMENTO ANNUO ..............................................................................€ 40,00 UN NUMERO .............................................................................................. € 12,00 Per abbonamenti ed acquisti inviare copia della quietanza di versamento di bonifico bancario o postale a favore della Tesoreria dello Stato specificando codice IBAN: IT 42Q 01000 03245 348 0 10 2368 05, causale di versamento, indirizzo ove effettuare la spedizione, codice fiscale del versante. I destinatari della rivista sono pregati di comunicare eventuali variazioni di indirizzo AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO RASSEGNA - Via dei Portoghesi, 12, 00186 Roma E-mail: rassegna@avvocaturastato.it - Sito www.avvocaturastato.it Stampato in Italia - Printed in Italy Autorizzazione Tribunale di Roma - Decreto n. 11089 del 13 luglio 1966 INDICE - SOMMARIO EDITORIALE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . .. TEMI ISTITUZIONALI Ignazio Francesco Caramazza, Il patrocinio dello Stato italiano dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo: attività svolte e considerazioni generali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Protocollo di intesa con l’Agenzia del Demanio, Circolare A.G.S. del 19 aprile 2012 prot. 157228 n. 25 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Contenzioso relativo ai precari della scuola, Circolare A.G.S. del 23 aprile 2012 prot. 161476 n. 26 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Azioni di risarcimento danni per fatti occorsi durante la seconda guerra mondiale. Domande risarcitorie proposte contro la Repubblica Federale Tedesca da ex internati militari italiani, ovvero dai loro aventi causa, relative alla vicenda dei militari italiani costretti a prestare lavoro, quale mano d’opera non volontaria, al servizio dell’indutstria bellica del Reich, a seguito di deportazione in Germania in data successiva all’8 settembre 1943 Circolare A.G.S. del 3 maggio 2012 prot. 173512 n. 31. . . . . . . . . . . . Circolare A.G.S. del 31 maggio 2012 prot. 216249 n. 38 . . . . . . . . . . Linee guida in materia di mediazione civile. D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28, “Attuazione dell’art. 60 della Legge 18 giugno 2009, n. 69 in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali”, Circolare A.G.S. del 13 giugno 2012 prot. 235543 n. 41 . . . . Lavoratori a tempo determinato del Comparto Scuola. Parere approvato dal Comitato Consultivo sulla possibilità per l’Amministrazione di nominare supplente un lavoratore che abbia ottenuto sentenza dichiarativa dell’illegittimità dell’apposizione di un termine al contratto di lavoro per un determinato anno scolastico, Circolare A.G.S. del 3 luglio 2012 prot. 265951 n. 45 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Richiesta di patrocinio nei giudizi di primo grado aventi ad oggetto il riconoscimento del diritto del personale a tempo determinaito della Croce Rossa Italiana - CRI al compenso incentivante la produttività ed il diritto alla stabilizzazione, Circolare A.G.S. del 19 luglio 2012 prot. 292609 n. 47 Indennizzo ai sogggetti danneggiati da vaccino e talidomidici (leggi 229/2005 e 244/07). Riconoscimento degli arretrati e condotta da tenere in sede processuale. Ordinanza n. 107669/12 della Corte di Cassazione, Circolare A.G.S. del 24 luglio 2012 prot. 298343 n. 48 . . . . . . . . . . . . . . . CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE Ignazio Francesco Caramazza, Europa: l’unico continente che ha un contenuto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1 ›› 7 ›› 16 ›› 20 ›› 22 ›› 23 ›› 30 ›› 32 ›› 36 ›› 38 ›› 39 Luca Ventrella, Laura Zoppo, La Corte Internazionale di Giustizia si pronuncia sul principio dell’immunità degli Stati dalla giurisdizione . . . . . 1.- Le decisioni della Corte di giustizia dell’Unione europea Valérie Peano, In materia di regolazione dei giochi e scommesse in Italia. Un commento alla sentenza “Costa e Cifone” (C. giustiza, Sez. Quarta, sent. 16 febbraio 2012, cause riunite C-72/10 e C-77/10). . . . 2.- I giudizi in corso della Corte di giustizia Ue Wally Ferrante, Ravvicinamento delle legislazioni, tutela dei consumatori, libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi, libera circolazione dei servizi, libera circolazione delle merci, causa C-59/12. Wally Ferrante, Ravvicinamento delle legislazioni, causa C-109/12 . . CONTENZIOSO NAZIONALE Francesco Meloncelli, Overruling e inammissibilità sopravvenuta del ricorso per cassazione (Cass. civ., Sez. Un., sent. 11 luglio 2011 n. 15144) Diego M. Miele, Supplenze scolastiche e divieto comunitario di abuso di contratti a termine. Brevi spunti di riflessione (rectius: osservazioni in libertà) sulle criticità del “contenzioso di massa”, sulla scia di alcune recenti sentenze della Corte di Cassazione e della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (C. giustizia Ue, Sez. seconda, sent. 26 gennaio 2012, C-586/10, Kücük; Cass. civ., Sez. lav., sent. 13 gennaio 2012 n. 392; Cass. civ., Sez. lav., sent. 20 giugno 2012 n. 10127) . . . . . . . . . . . . Roberto De Felice, Argomentazioni della Cassazione sul diritto alla trascrizione di un atto di matrimonio/celebrato all’estero fra cittadini italiani dello stesso sesso (Cass civ., sez. I, sent. 15 marzo 2012 n. 4184) . . . . . Vincenzo Rago, Unioni tra persone dello stesso stesso: quale tutela? Le ragioni storiche della tutela giuridica della famiglia (Cass civ., sez. I, sent. 15 marzo 2012 n. 4184) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Michele Gerardo, Criteri per la quantificazione del danno ambientale nelle more dell’adozione del D.M. terzo comma dell’art. 311 del d.lgs. 152/06 (Trib. Napoli, VI Sez. civ., sent. 9 luglio 2012 n. 8115). . . . . . . . Federico Basilica, Francesco Frigida, L’Adunanza Plenaria fa il punto sul blocco delle assunzioni per i professori universitari (Cons. St., Ad. Plen., sent. 28 maggio 2012 n. 17) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Stefano Varone, In tema di patrocinio legale e legittimazione processuale delle Istituzioni scolastiche statali (Cons. St., Sez. Sesta, ord. 20 giugno 2012 n. 2370) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . I PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO Maria Luisa Spina, Controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti sugli atti dell’Unità Tecnica amministrativa istituita ex art. 15 OPCM 3920/2011 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Leonello Mariani, Gesualdo d’Elia, Trattamento economico accessorio pag. 45 ›› 61 ›› 87 ›› 93 ›› 103 ›› 133 ›› 168 ›› 197 ›› 203 ›› 215 ›› 230 ›› 233 del personale delle Autorità amministrative indipendenti: applicabilità art. 9, comma 2-bis, d.l. 31 maggio 2010, n. 78 conv., con mod., dalla legge 30 luglio 2010 n. 122 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Verdiana Fedeli, Rimborso spese legali ex art. 18 d.l. 25 marzo 1997 n. 67, conv., dalla legge 23 maggio 1997 n. 135 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Eugenio De Bonis, Transazione fiscale ex art. 182 ter del R.D. nr. 267/1942 - Applicabilità dell’art. 184 R.D. nr. 267/1942 alla società coobligata in caso di scissione societaria ex art. 2506 quater c.c. . . . . . . . . Roberta Tortora, Assegnazione di rivendie di generi di monopolio: concorsi riservati alle categorie espressamente contemplate dalla legge. . . Salvatore Messineo, Sulla esperibilità di una gara unica nazionale con procedura secretata per la gestione del servizio di intercettazioni telefoniche, telematiche ed ambientali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Marina Russo, Sul patrocinio dell’Avvocatura dello Stato nel caso di conflitto di interessi tra Regioni ed enti autorizzati ex art. 43 R.D. 1611/33 Dorian De Feis, In materia di adeguamento prezzi ai sensi dell’art. 115 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Paolo Marchini, Competenza ente parco nazionale alla acquisizione gratuita dell’area di sedime conseguente all’inottemperaza dell’ordine di riduzione in pristino emesso dallo stesso ente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ Antonio Tallarida, La tracciabilità dei flussi finanziari. Il limite dei mille euro. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Francesco Spada, L’incidenza della giurisprudenza di merito sul sistema del lavoro flessibile nell’ambito della P.A.. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . CONTRIBUTI DI DOTTRINA Federico Maria Giuliani, Autotutela interna ed esterna nel contratto tra privato e pubblica amministrazione, anche con riferimento al riparto di giurisdizione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Federico Maria Giuliani, Diritto, pensiero, ed interruzione del sentiero Giulio Luciani, Riflessi applicativi della confisca per equivalente nei reati tributari: un istituto ancora in via di definizione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . RECENSIONI Maria Vittoria Lumetti, Processo amministrativo e tutela cautelare. Studi di diritto processuale amministrativo, Collana diretta da Eugenio Picozza e Bruno Sassani, CEDAM 2012. Presentazione di Ignazio Francesco Caramazza. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Michele Gerardo, Adolfo Mutarelli, Il processo nelle controversie di lavoro pubblico, Giuffrè Editore 2012. Recensione di Maurizio Borgo . . . pag. 239 ›› 245 ›› 250 ›› 255 ›› 258 ›› 268 ›› 270 ›› 278 ›› 285 ›› 297 ›› 307 ›› 317 ›› 324 ›› 345 ›› 348 EDITORIALE Il 30 settembre 2012 l’avv. Ignazio F. Caramazza, ha lasciato, per raggiunti limiti di età, la carica di Avvocato Generale dello Stato, alla quale era stato chiamato dal Governo il 1° marzo 2010 (*). Chi sfoglia, magari anche solo sul web, la collezione della “Rassegna Avvocatura dello Stato”, trova, a partire dal 1965, un riferimento costante ad articoli, studi, interventi ed, in generale, a scritti dell’avv. Ignazio F. Caramazza: dalle prime esperienze di commento sul codice penale ai grandi temi sulla storia e sull’evoluzione del diritto costituzionale ed amministrativo, fino ad un intero volume della Rassegna dedicato al conflitto di attribuzione con la Procura della Repubblica di Milano sul caso Abu Omar a lui affidato per la difesa. Oltre alla continuità dell’impegno di studio e riflessione, messo in tanti anni a disposizione dei colleghi dell’Avvocatura, in questa lunga carrellata di scritti colpisce - per quanti hanno avuto occasione di conoscerlo nella concreta attività d’Istituto - la profonda interazione che si coglie tra la rigorosa qualità scientifica, l’eleganza nell’argomentare e la solidità delle tesi con il modo razionale e concludente di svolgere dall’altra parte il lavoro professionale e gli impegni istituzionali: al Ministero degli Interni, a tre lustri di distanza, ancora ricordano con apprezzamento il suo razionale e proficuo impegno come sottosegretario nel Governo Dini. La stessa recente decisione (molto apprezzata) di mantenere in vita, nella situazione di gravi difficoltà economiche di questi anni, anche l’edizione a stampa della “Rassegna Avvocatura dello Stato” indica in realtà come, per (*) Da: Segreteria Segretario Generale [segreteria.generale@avvocaturastato.it] Inviato: martedì 9 ottobre 2012 11:00 A: avvocati_tutti@avvocaturastato.it; amministrativi_tutti@avvocaturastato.it Oggetto: Nomina dell’Avvocato Generale Con decreto del Presidente della Repubblica in data 8 ottobre 2012 l'Avvocato Michele Dipace è stato nominato Avvocato Generale. Vivissime congratulazioni all'illustre Collega ed i più fervidi auguri al nuovo Avvocato Generale. IL SEGRETARIO GENERALE 2 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 Ignazio Caramazza, non fosse concepibile la continuità nella sua attività professionale ed istituzionale senza un correlato riferimento al rigore logico che la redazione di scritti da pubblicare (e da leggere con l’attenzione che si dedica “alla carta”) necessariamente impongono. In questo contesto la sua esperienza di avvocato dello Stato, e poi di Avvocato Generale, può quindi essere letta, per essere compresa nei suoi tratti distintivi, nella chiave elitaria della cultura giuridica, dell’argomentare accurato ed attento alle prassi e delle scelte sue tutte, anche quelle eventualmente non condivise, fondate comunque su un ragionare lucido, puntuale, “scientifico”. Le esperienze svolte da Ignazio F. Caramazza nella commissione governativa sul procedimento amministrativo e sull’accesso (la legge n. 241 del ‘90) mostrano che l’idea guida è stata quella di appartenere ad un Istituto che, sin dall’origine e nel suo concreto operare, dovesse sempre conservare il suo modo di porsi all’esterno in maniera sobria, elegante ed efficace. Ci lascia così un’Avvocatura dello Stato integra nella salvaguardia dei suoi tradizionali valori istituzionali e nella sua abitudine alla qualità, che, solo avendo mantenute ferme tali connotazioni, sarà forse in grado di adeguarsi ad un’Italia, oramai articolata al suo interno ed europea nelle sue scelte di fondo. Di questo e di tutto quanto hai inteso fare a servizio dell’Avvocatura dello Stato e delle Istituzioni, caro Ignazio, ti siamo grati. G.F. EDITORIALE 3 Elenco delle pubblicazioni di IGNAZIO FRANCESCO CARAMAZZA in Rassegna: Le forche caudine dell’art. 5 del codice penale, 1965, I, 855. Mutata destinazione dei prodotti petroliferi e fraudolento procacciamento di buoni speciali, 1966, I, 248. In tema di repressione penale dei danneggiamenti recati al patrimonio storico, artistico ed archeologico nazionale, 1966, I, 744. In tema di competenza per connessione, 1977, I, 289. L’Avvocatura Generale dello Stato e l’archivio del contenzioso delle amministrazioni pubbliche e delle consultazioni, 1978, II, 115. L’istruttoria nel processo amministrativo: brevi note ai margini di un progetto di riforma, 1980, II, 39. L’equo canone nella locazione di immobili urbani: natura dei compiti dell’ISTAT; giudice competente nelle relative controversie, “anno precedente” cui riferire la valutazione, 1981, I, 736. Il congresso di Messina del 3-8 novembre 1981, 1981, II, 27. In tema di responsabilità civile per fatto del giudice, 1982, I, 297. Depenalizzazione e decriminalizzazione nel diritto comparato, 1982, II, 125. Banche dei dati e privacy del cittadino: il sistema svedese, 1983, II, 13. L’accesso dei cittadini ai documenti della pubblica amministrazione, 1984, II, 141. La prova nel processo amministrativo, 1985, II, 87 (*). Le misure cautelari nel processo amministrativo, 1986, II, 87 (*). Interesse legittimo e procedimento, 1988, II, 1 (*). Il “diritto civile e politico” del cittadino nella cognizione dell’autorità giudiziaria ordinaria: ipotesi di genesi storica dell’interesse legittimo, 1988, II, 83 (*). L’atto amministrativo illegittimo e la dottrina dell’“ultra vires”, 1989, I, 354. Avvocatura dello Stato e giustizia amministrativa, 1989, II, 1 (*). La giurisdizione amministrativa (100 anni dopo l’istituzione della IV sezione del Consiglio di Stato), 1990, II, 1 (*). L’avvocato del processo amministrativo, 1990, II, 11 (*). Il processo amministrativo nella sua evoluzione storica, 1990, II, 57 (*) . La nuova disciplina degli stupefacnti al vaglio della Corte Costituzionale, 1991, I, 199 (*). L’attività della SIAE nella gestione economica dei diritti d’autore, 1991, I, 393 (*). Concessione di committenza e giurisdizione, 1991, I, 459 (*). Appunti sulla tutela cautelare nel processo amministrativo, 1992, II, 1 (*). Problemi attuativi della legge numero 241/90, 1993, II, 1 (*). L’unicità della giurisdizione: un mito ricorrente, 1993, II, 89. Effettività della tutela: ottemperanza, 1994, II, 93 (*). Da una amministrazione senza giudice verso una giustizia senza amministrazione?, 1997, II, 3. Il segreto di Stato, 1998, I, 23. Brevi note sull’incidente di costituzionalità nella fase cautelare, 1998, I, 255. L’informe creatura cambia ancora volto, 1999, II, 87. Equiordinazione dei poteri nei conflitti dinanzi alla Corte, 2000, I, 25. Epilogo di un conflitto tra potere politico e potere giudiziario in tema di segreto di Stato, 2000, I, 39. In ricordo di Massimo Severo Giannini, 2001, I, 18. 4 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 Risarcimento del danno e giudizio amministrativo, 2001, I, 30. I limiti costituzionali della giurisdizione esclusiva, 2001, II, 26. Pubblica Amministrazione e tutela del cittadino, 2002, I, 319. Incidente di costituzionalità e giurisdizione in sede di giudizio cautelare amministrativo. Un dialogo difficile tra complessità e incomprensioni, 2003, I, 220. Il principio “simul stabunt, simul cadent” nello statuto regionale sicialiano, 2003, III, 145. Limiti all’irresponsabilità del Presidente della Repubblica, 2004, II, 547. Le nuove frontiere della giurisdizione amministrativa (dopo la sentenza della Corte Costituzionale 6 luglio 2004 n. 204), 2004, III, 741. Federalismo e autonomie locali, 2004, IV, 1041. Intervento per l’assegnazione del Premio Antonio Sorrentino 2005, 2005, I, VII. Funzione pubblica e giurisdizione, 2005, III, 280. Cenni storici, funzioni ed organizzazione dell’Avvocatura dello Stato: relazione all’incontro tenutosi il 1° marzo 2006 a Rabat (Marocco), 2006, I, 10 (*). Concessione della grazia, conflitto tra poteri dello Stato, 2006, I, 109. Prime evoluzioni della giustizia amministrativa: contributi dell’Avvocatura erariale, 2007, III, 5 (*). Il segreto di Stato: atto III. Con la risoluzione dei sei conflitti di attribuzione la Corte costituzionale completa la relativa disciplina, 2009, I, 13. Discorso di insediamento dell’Avvocato Generale Ignazio Francesco Caramazza. Roma, 14 ottobre 2012, Sala Vanvitelli, Palazzo S. Agostino, 2010, IV, 6. Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato avv. Ignazio Francesco Caramazza in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2011, 2011, I, 1. Audizione dell’Avvocato Generale davanti alla Commissione giustizia della Camera. Legge 117/88, 2011, I, 7. Conferimento del dottorato in legge “honoris causa” all’Avvocato Generale dello Stato. Loyola University di Chicago, 21 maggio 2011, 2011, II, 1. Conferimento del Premio Aldo Sandulli 2011 all’Avvocato Generale dello Stato. Motivazione del premio e testo del ringraziamento, 2011, IV, 1. “Lectio magistralis” dell’avv. Ignazio Francesco Caramazza: “La difesa dello Stato in giudizio e la soluzione italiana”. Introduce il dott. Gianni Letta. Roma, Università Luiss “Guido Carli”, Sala delle Colonne, 2012, I, 1. Intervento dell’Avvocato Generale dello Stato in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, 2012, I, 32. Potere giudiziario e diritto europeo, 2012, I, 63 (*). Il patrocinio dello Stato italiano dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo. Attività svolte e considerazioni generali, 2012, II, 7. Europa: l’unico continente che ha un contenuto, 2012, II, 39. EDITORIALE 5 (*) Coautori degli articoli contrassegnati da asterisco: MARIA LETIZIA GUIDA, La prova nel processo amministrativo, 1985, II, 87. GABRIELLAMANGIA, Le misure cautelari nel processo amministrativo, 1986, II, 87. FRANCESCO SCLAFANI, Interesse legittimo e procedimento, 1988, II, 1. FRANCESCA QUADRI, Il “diritto civile e politico” del cittadino nella cognizione dell’autorità giudiziaria ordinaria: ipotesi di genesi storica dell’interesse legittimo, 1988, II, 83. RUGGERO DI MARTINO, Avvocatura dello Stato e giustizia amministrativa, 1989, II, 1. PAOLO GENTILI, La giurisdizione amministrativa (100 anni dopo l’’istituzione della IV sezione del Consiglio di Stato), 1990, II, 1. MARIA LUISA SPINA, L’avvocato del processo amministrativo, 1990, II, 11. GIANNAMARIA DE SOCIO, Il processo amministrativo nella sua evoluzione storica, 1990, II, 57. FRANCESCO SCLAFANI, La nuova disciplina degli stupefacenti al vaglio della Corte Costituzionale, 1991, I, 199. GABRIELLA PALMIERI, L’attività della SIAE nella gestione economica dei diritti d’autore, 1991, I, 393. GIANNAMARIA DE SOCIO, Concessione di committenza e giurisdizione, 1991, I, 459. FEDERICO BASILICA, Appunti sulla tutela cautelare nel processo amministrativo, 1992, II, 1. PAOLA PALMIERI, Problemi attuativi della legge numero 241/90, 1993, II, 1. MARINA RUSSO, Effettività della tutela: ottemperanza, 1994, II, 93. WALLY FERRANTE, Cenni storici, funzioni ed organizzzazione dell’Avvocatura dello Stato: relazione all’incontro tenutosi il 1° marzo 2006 a Rabat (Marocco), 2006, I, 10. EMANUELA RUSSIANI, Prime evoluzioni della giustizia amministrativa: contributi dell’Avvocatura erariale, 2007, III, 5. WALLY FERRANTE, Potere giudiziario e diritto europeo, 2012, I, 63. TEMI ISTITUZIONALI Il patrocinio dello Stato italiano dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo: attività svolte e considerazioni generali (*) A cura di Ignazio Francesco Caramazza Avvocato Generale dello Stato 1. Nelle precedenti relazioni al Parlamento presentate dalla Presidenza del Consiglio per il contenzioso dinanzi alla Corte di Strasburgo è stata sempre sottolineata la rilevanza del patrocinio dello Stato italiano da parte dell’Avvocatura Generale dello Stato e l’attenzione che l’Istituto ha prestato a questo delicato profilo della sua attività istituzionale. Attenzione ed interesse che sono state manifestate anche al Presidente della Corte nel corso dell’incontro che una delegazione dell’Avvocatura, ha avuto a Strasburgo nel settembre del 2011. Nel corso dell’incontro sono stati illustrati, da un lato, i profili tecnici della Difesa dello Stato in giudizio, con la partecipazione dell’Avvocato dello Stato alle discussioni dinanzi alla Grande Chambre in collaborazione con il co-Agente presso la Rappresentanza permanente e, dall’altro lato, le funzioni propositive e consultive dell’Avvocatura Generale dello Stato in supporto alle iniziative della Presidenza del Consiglio per la definizione dei regolamenti amichevoli (citiamo un esempio per tutti, l’esecuzione della sentenza con la quale la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva sanzionato l’ingiustificata disparità di trattamento subita dai talassemici o eredi di talassemici rispetto (*) Costituisce il presente scritto l’intervento dell’avv. Caramazza all’incontro di studio sul tema “Il sistema europeo di protezione dei diritti umani” che si è svolto il 23 luglio 2012 presso la Nuova Sala Polifunzionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri in occasione della presentazione al Parlamento della Relazione sull’esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo nei confronti dell’Italia per l’anno 2011, redatta ai sensi della legge 9 gennaio 2006, n. 12. 8 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 agli emofiliaci o eredi di emofiliaci. In tale problematica, l’Avvocatura Generale ha reso parere sulle iniziative legislative ed amministrative assunte dal Ministero della Salute e sul conseguente regolamento amichevole da concludere con gli interessati e ritenuto soddisfacente dalla Corte, con la sentenza del 15 marzo 2011). È stato anche illustrato al Presidente il ruolo dell’Avvocatura in supporto all’attività di esecuzione delle sentenze CEDU, con attenzione prioritaria ai profili strutturali delle violazioni riscontrate dalla Corte e conseguente adozione delle misure legislative e amministrative necessarie, oltre che al pagamento tempestivo delle indennità risarcitorie liquidate alle parti (anche sotto questo profilo, citiamo un esempio concernente l’esecuzione della sentenza CEDU sul caso Sud Fondi ed altri, noto anche come caso Punta Perotti, ove l’Avvocatura ha dato impulso ai giudizi dinanzi al giudice nazionale penale al fine di far revocare la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e ritenuta illegittima dalla Corte, con conseguente restituzione ai proprietari e contenimento del risarcimento a questi dovuto). Con i vertici della Corte e della Cancelleria, inoltre, sono stati affrontati i temi “sensibili” del contenzioso che coinvolge l’Italia dinanzi alla CEDU: in primo luogo, durata dei processi e “legge Pinto”, con spiegazione del programma di riforma che ora ha trovato attuazione soprattutto nel decreto legge recante misure urgenti per la crescita del Paese, decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, art. 55 che ha semplificato la procedura di liquidazione dell’indennizzo, sia nelle disposizioni sull’organizzazione dell’attività giudiziaria, quale il decreto- legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modifiche dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, che, all’articolo 37, ha introdotto l’obbligo per i capi degli uffici giudiziari di redigere annualmente un programma per la gestione dei procedimenti civili pendenti, determinando sia gli obiettivi di riduzione della durata dei procedimenti concretamente raggiungibili nell'anno in corso sia gli obiettivi di rendimento dell'ufficio. In secondo luogo, è stata affrontata la situazione nelle carceri italiane, con illustrazione degli interventi programmati e in atto (nell’ambito del “piano carceri” quanto alla costruzione e ristrutturazione di immobili destinati al tal fine, nonché sul piano normativo, secondo le disposizioni ufficializzate con il decreto legge c.d. “svuota carceri” n. 211 del 2011 - Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri - convertito in legge 17 febbraio 2012, n. 9); ancora, a proposito dell’espulsione dei terroristi verso i Paesi di origine, sono state date assicurazioni sugli adeguamenti alle indicazioni della Corte che le Autorità di Sicurezza hanno impartito agli uffici incaricati di eseguire i provvedimenti di espulsione; infine, sull’indennizzo per le espropriazioni indirette, è stata data informazione circa l’adeguamento della legislazione nazionale alle sentenze della Corte (v. nuovo articolo 42-bis d.p.r. 8 giugno 2001 n. 327, inserito con d.l. 6 luglio 2011 n. 98). TEMI ISTITUZIONALI 9 2. Anche nel corso dell’anno 2011 l’Avvocatura dello Stato ha assistito la Presidenza del Consiglio e le Amministrazioni statali che ne hanno fatto richiesta nel contenzioso sui diritti dell’uomo. Come già in occasione dei noti contenziosi concernenti la determinazione dell’indennità di esproprio (caso Guiso-Gallisay), la esposizione del crocifisso nelle scuole (caso Lautsi), le conseguenze delle attività di polizia e di ordine pubblico nel corso dei disordini di Genova in occasione del G-8 (caso Giuliani), contenziosi nei quali un Avvocato dello Stato ha partecipato alla discussione dinanzi alla Grande Chambre unitamente al co-agente in servizio presso la Rappresentanza permanente d’Italia (per i dettagli delle cause e le sentenze si veda la Relazione), anche per i contenziosi relativi ai respingimenti in mare dei profughi, alla concessione delle frequenze radio-televisive, all’inquadramento nei ruoli statali del personale tecnico della scuola, l’Avvocatura dello Stato ha prestato la sua assistenza e patrocinio. In particolare, nel caso Hirsi ed altri, l’Avvocatura ha partecipato all’udienza dinanzi alla Grande Chambre per la difesa dell’intervento della marina militare italiana che aveva bloccato in mare imbarcazioni provenienti dalla Libia e riportato nella località di provenienza i profughi in esecuzione dell’accordo bilaterale poco prima sottoscritto fra l’Italia e la Libia per affrontare il fenomeno dell’immigrazione irregolare in Italia di provenienza libica; nell’occasione, l’Italia ha rivendicato il dovere di tutelare i confini meridionali dell’Unione europea e gli obblighi gravanti sul nostro Paese per la salvaguardia delle dette frontiere ed il rispetto delle strategie assunte dall’Unione, con il sistema Frontex, nel senso - appunto - della promozione della stipulazione di accordi bilaterali con i Paesi terzi e prossimi alle frontiere; in questo caso, il giudizio della Corte di Strasburgo sulla qualifica di “luogo [non] sicuro” della Libia quale destinazione dei profughi respinti non ha coinciso con la valutazione dell’Italia quale Paese di frontiera dell’UE e firmatario di una convenzione bilaterale promossa - come già detto - dalle politiche comunitarie e nel rispetto dei principi guida dettati dall’Unione Europea in materia di immigrazione e asilo; si veda, in particolare, il Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo, nel testo n. 13440/08 del 24 settembre 2008, elaborato dal Consiglio dell’Unione Europea, il quale prevede, fra l’altro: - una limitazione dei flussi migratori perché “l’Unione europea non dispone dei mezzi per accogliere degnamente tutti i migranti” e la conseguente necessità di una loro regolamentazione; - la necessità di “combattere l’immigrazione clandestina, in particolare assicurando il ritorno nel loro paese di origine o in un paese di transito degli stranieri in posizione irregolare”; - il rafforzamento dell’efficacia dei controlli alle frontiere; - la creazione di “un partenariato globale con i paesi di origine e di transito”. La condanna al risarcimento nei confronti dei profughi da parte della Corte non sminuisce la doverosità della difesa degli obblighi derivanti per il nostro Paese dall’appartenenza all’Unione europea 10 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 dinanzi a qualunque Autorità Giudiziaria e di tale obbligo si è fatto carico l’Avvocatura dello Stato dinanzi alla Corte di Strasburgo. Il caso Centro Europa 7 riguarda l’assegnazione delle frequenze per le trasmissioni televisive a cavallo dei due sistemi, analogico e digitale, nonché la corretta applicazione della legge n. 249 del 1997 e del decreto-legge n. 5 del 2001, convertito dalla legge n. 66 del 2001, con regolamento attuativo dell’Autorità garante del 15 novembre 2001 n. 435; la parte ricorrente aveva adito la Corte di Strasburgo dopo aver ricevuto a livello nazionale, a seguito delle pronunce intervenute sia dalla Corte di Giustizia CE che del Consiglio di Stato, un risarcimento ritenuto insufficiente e che pretendeva in misura di gran lunga superiore per la violazione di alcune disposizioni della Convenzione; l’Avvocatura dello Stato, dopo aver seguito il contenzioso sia in sede nazionale che in sede comunitaria, ha partecipato anche alla discussione dinanzi alla Grande Chambre, confermando la linea difensiva già seguita, riuscendo a contenere l’entità del risarcimento richiesto e ad evitare censure sul sistema nazionale della assegnazione delle frequenze. Nel contenzioso concernente il personale ATA, la questione sottoposta all’esame della Corte dei diritti dell’uomo concerneva i diritti patrimoniali rivendicati dal personale con funzioni di assistenti/responsabili amministrativi, collaboratori, assistenti tecnici nelle scuole (personale ATA) transitato dagli enti locali all’impiego statale; all’atto dell’inquadramento di detto personale nei ruoli del Ministero della Pubblica Istruzione, non venne riconosciuta l’anzianità maturata presso gli enti di provenienza e, quindi, a dire dei ricorrenti, il loro trattamento economico risultò inferiore a quello degli impiegati ministeriali con funzioni uguali o similari. Anche questo contenzioso è stato seguito dall’Avvocatura dello Stato in tutte le sedi giudiziarie, nazionali (giudici di merito, Cassazione e Corte costituzionale) e comunitarie (Corte di Giustizia); per questa ragione il Ministero competente ha affidato all’Avvocatura il patrocinio dinanzi alla Corte di Strasburgo; tuttavia, dopo la sfavorevole sentenza della sezione semplice non è stata ammessa la fase dinanzi alla Grande Chambre con rigetto dell’istanza presentata, nonostante l’estrema delicatezza della questione: in vero, la sentenza emessa dalla Corte di Strasburgo costituisce un caso emblematico dei problemi di coordinamento che possono sorgere fra le pronunzie della Corte dei diritti dell’uomo, della Corte costituzionale nazionale e della Corte di Giustizia UE; problemi che non sono nuovi nel panorama giurisprudenziale incrociato ma che, in questa circostanza e in questo momento, vengono in evidenza in termini molto concreti e suscitano notevoli perplessità, anche sotto il profilo dell’esecuzione delle contrastanti pronunzie. L’Avvocatura dello Stato dovrà, quindi, intervenire nel seguito del contenzioso, in primo luogo dando parere all’Amministrazione in sede di esecuzione della pronunzia, atteso che i giudici e i funzionari amministrativi nazionali non sono autorizzati a disapplicare direttamente norme nazionali in TEMI ISTITUZIONALI 11 supposto contrasto con i principi CEDU ma devono rimettere la questione alla Corte Costituzionale (che, come più in dettaglio riferito nella Relazione, aveva giudicato legittima la norma interpretativa censurata da Strasburgo), con la conseguenza che la sentenza Agrati (e altre che dovessero seguire su casi analoghi: sono pendenti altri giudizi proposti dal personale ATA) non è direttamente eseguibile dalle Autorità amministrative né può essere oggetto di esecuzione forzata dinanzi all’A.G. (che dovrebbe - come sopra detto - nuovamente rimettere la questione di legittimità della norma di riferimento alla Corte Costituzionale), senza un preventivo intervento del Legislatore (in modifica dell’art. 8 legge 124/1999, come interpretato dall’art. 1, comma 18, legge 266/2005); ma il Legislatore nazionale è soggetto alle decisioni della Corte di Strasburgo nella valutazione e determinazione delle politiche socioeconomiche dello Stato? e quale linea deve adottare in presenza di una decisione (questa sì, vincolante) della Corte di Giustizia UE che (come nella specie) lascia il giusto margine all’esercizio delle competenze istituzionali da parte degli Organi legislativi e di governo degli Stati? Confidiamo di poter riproporre alla Corte dei diritti dell’uomo le problematiche sopra appena accennate in occasione della discussione degli altri casi simili che saranno prossimamente chiamati in discussione a Strasburgo, dinanzi alle sezioni o dinanzi alla Grande Chambre. 3. Un altro piano di intervento dell’Avvocatura dello Stato concerne l’attuazione del diritto di rivalsa azionato dallo Stato nei confronti degli enti locali e degli altri soggetti responsabili delle violazioni dei diritti umani accertate dalla Corte. Come è stato riferito nella Relazione, le azioni di rivalsa poste in atto ai sensi dell’articolo 16-bis della legge n. 11 del 2005 hanno incontrato un atteggiamento ostativo da parte degli enti obbligati (nello specifico, enti territoriali) al raggiungimento di intese sulle modalità e sui termini di pagamento per il recupero dei crediti vantati dallo Stato, in esecuzione delle sentenze di condanna della Corte di Strasburgo, con conseguente impugnazione dinanzi alle competenti Autorità Giudiziarie dei provvedimenti adottati dalla Presidenza del Consiglio. L’Avvocatura dello Stato sta difendendo la Presidenza in queste azioni giudiziarie, non senza consigliare l’adozione di opportune modifiche alla normativa in vigore al fine di consentire un’indagine sulla responsabilità dell’obbligato e, quindi, una trattativa sull’entità del risarcimento dovuto (allo stato, di gran parte dei provvedimenti impugnati è stata sospesa l’esecutività dai Tribunali amministrativi aditi e si è in attesa delle discussioni del merito dei ricorsi). 4. Questo rapido escursus sulla presenza dell’Avvocatura dello Stato nella gestione del contenzioso connesso al rispetto della Convenzione dei diritti 12 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 dell’uomo non può trascurare un accenno alla quotidiana attività istituzionale dell’Avvocatura che, nel corso dei giudizi dinanzi alle Autorità Giudiziarie nazionali, in tutti i livelli, come nelle consultazioni rese alle Amministrazioni pubbliche affronta i casi in discussione ed impronta la sua attività istituzionale con attenzione al rispetto dei diritti umani, anticipando dinanzi alle Autorità Giudiziarie ed agli Uffici Amministrativi nazionali la relativa problematica, secondo l’auspicio più volte formulato dai Presidenti della Corte di Strasburgo e la funzione sussidiaria della stessa. 5. Da ultimo siano consentite alcune considerazioni di carattere generale che traggono spunto dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo e che portano a rilevare il ruolo fondamentale del Giudice nella società contemporanea e, più in generale, il fenomeno di prepotente crescita del potere giudiziario nell’età della globalizzazione. Si tratta di un fenomeno evidente sia a livello nazionale, sia a livello di ordinamenti sovranazionale ed internazionale. Oltre al livello nazionale e a quello internazionale, vi è come è noto una miriade di ordinamenti sovranazionali: ognuno di essi è dotato di Corti giudiziarie e di organismi quasi giudiziari e semi contenziosi. Sabino Cassese, nella sua recente monografia «I tribunali di Babele», ne ha contati più di duemila. C’è, quindi, questa pluralità di ordinamenti giuridici senza che esista una norma superiore che ne regoli i rapporti, oggi disciplinati soltanto dal c.d. «dialogo tra le Corti». Icasticamente si è detto che il diritto sta prendendo il posto della politica. Quello che una volta, per la regolazione dei rapporti tra ordinamenti statali e superstatali, era compito delle spade degli eserciti e, in tempi “più leggiadri e men feroci”, delle feluche degli ambasciatori, oggi è compito delle toghe dei Giudici. L’area geopolitica in cui questo fenomeno è più evidente è l’Europa, continente nel quale il Giudice nazionale è chiamato quotidianamente a confrontarsi con l’ordinamento dell’Unione europea e con l’ordinamento della CEDU. Vorrei, quindi, tratteggiare la conquistata primazia del diritto giurisprudenziale sia a livello di Stato nazionale, sia a livello di integrazione di ordinamenti nazionali ed ordinamenti sovranazionali. Parto dall’osservazione che l’equilibrio tra i tre poteri tradizionali dello Stato - legislativo, esecutivo e giudiziario - non è fisso, ma è mobile, in relazione al variare del loro corso rispettivo, e questa mobilità è in sintonia con le grandi crisi di trasformazione della società e dello Stato, crisi intercorse da quando i tre poteri emersero dall’indistinto potere detenuto dalle mani del sovrano assoluto. La prima grande crisi di trasformazione è nata dalla rivoluzione francese, matrice dello Stato liberal-borghese e dalla quale nasce egemone il potere legislativo, come si addice all’epoca delle grandi codificazioni. Il potere esecutivo, fortissimo nella sostanza, aveva però un campo d’azione limitato. Alla TEMI ISTITUZIONALI 13 sua nascita, lo Stato liberal-borghese era una sorta di Stato «carabiniere», che aveva il compito di difendere le frontiere all’esterno e l’ordine pubblico all’interno. Il potere giudiziario era, infine, figlio di un Dio minore. Bisogna aspettare il 1872 in Francia e il 1889 in Italia, perché il Giudice amministrativo potesse cominciare a sindacare l’operato dell’amministrazione: dalla rivoluzione francese nasce, infatti, una pubblica amministrazione praticamente sottratta al sindacato giurisdizionale. Tutto cambia con la seconda grande crisi di trasformazione, che si verifica grosso modo a cavallo tra le due Guerre mondiali del secolo scorso, in cui allo Stato liberal-borghese succede lo Stato sociale, o, per dirla con terminologia gianniniana, lo Stato pluriclasse. Il potere esecutivo abbandona le dimesse vesti di guardiano notturno, comincia ad occuparsi di edilizia, di lavori pubblici, di credito, di risparmio, di assicurazioni, di imprese: il potere esecutivo dilaga. Non è un caso che, tra le due Grandi Guerre del secolo scorso, abbiano preso piede le più efficienti e feroci dittature che la Storia ricordi. Il potere legislativo arretra. Il potere giudiziario cresce modestamente, cominciando a esercitare un sempre meno timido sindacato sull’attività della pubblica amministrazione. Le cose cambiano ancora con la terza grande crisi, che vede la successione allo Stato sociale dello Stato di giurisdizione. Stato così chiamato perché l’aumentato rischio di conflitti tra amministrazione e cittadino, l’acuita coscienza delle esigenza partecipative, l’ampliamento della possibilità di ricorso al Giudice a più strati sociali per il generale miglioramento del tenore di vita, hanno portato alla ricerca di nuovi strumenti atti a garantire la legalità. Va sottolineato in proposito l’aumento dei poteri del Giudice nel sindacare la legittimità dell’operato della amministrazione. Questo sia negli ordinamenti di common law, attraverso l’affinamento dello strumento dell’ultra vires, sia nei Paesi a giustizia amministrativa come la Francia, l’Italia e la Germania, in cui il Giudice amministrativo conquista strumenti istruttori, cautelari e decisori sempre più importanti e che sempre più avvicinano il suo potere giurisdizionale a quello spettante al Giudice civile. Su questa linea di tendenza, quasi marea montante a livello planetario, si è innestata poi, in Italia, agli inizi degli anni ’90, l’onda anomala di un potere giudiziario che ha decapitato una classe politica, determinando il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, a seguito di quella che è stata definita «la rivoluzione dei Giudici». Ma veniamo all’ultima grande crisi di trasformazione, che stiamo ancora vivendo e che ha determinato il passaggio dallo Stato di giurisdizione a quello che è stato suggestivamente definito come “Stato minimo”, caratterizzato da una fuga dall’autorità e verso il privato, ma che contraddittoriamente, ha determinato, quanto meno in Italia, un enorme ampliamento dei poteri del giudice amministrativo, divenuto giudice degli atti delle Autorità indipendenti e quindi competente a decidere in quel cruciale settore che è il diritto pubblico 14 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 dell’economia e che ha acquistato nel passaggio del millennio anche quel formidabile strumento di controllo sociale che è la tutela risarcitoria. Tutela che gli era stata sempre negata in passato, anche quando giudicava sui diritti soggettivi, e che è stata invece estesa anche agli interessi legittimi. Parlando, ancora, del «dialogo tra le Corti» come metodo di regolazione delle pluralità degli ordinamenti, noterò come esso si ispiri a due principi fondamentali: uno è il rispetto dell’una Corte nei confronti dell’altra; l’altro è l’autolimitazione, o self restraint. Vi è quindi un diritto giurisprudenziale che determina questa regolazione: formulerò alcuni esempi in merito. Primo esempio, il Caso Handyside: la Corte EDU, nel regolare i rapporti tra la CEDU e gli Stati aderenti, adotta la dottrina del margine di apprezzamento nei confronti del diritto interno dello Stato, in relazione a quelle che sono le peculiarità di ciascun ordinamento, ferma restando, naturalmente, la possibilità della Corte di sindacare la proporzionalità tra misure adottate e finalità perseguite. Secondo esempio, il Caso Bosphorus: la Corte EDU offre un omaggio alla Corte di Giustizia affermando che, laddove sia stata riscontrata una conformità della fattispecie al diritto dell’Unione, si ritiene che quella fattispecie sia stata regolata anche in conformità col diritto CEDU in virtù del principio dell’equivalenza delle garanzie. Terzo esempio, l’atteggiamento della Corte costituzionale italiana, in parte seguita anche da quella polacca e da quella spagnola, nei confronti dell’ordinamento dell’Unione europea, quando pone come controlimite solo la violazione dei principi fondamentali della Costituzione, aggiungendo però veramente «un fiore» offerto al diritto europeo quando, nella prima sentenza in cui afferma questo principio - la n. 232 del 1989 - precisa che trattasi di affermazione di puro stile, in quanto è impensabile che una norma di diritto europeo possa contrastare con i principi fondamentali della Costituzione italiana. Ancora, nel Caso Kadi, la Corte di Giustizia ha affermato la primazia dell’ordine giuridico globale rappresentato dalle Nazioni Unite. Vorrei citare un ultimo caso, relativo ad una sentenza recentissima del Tribunale di Firenze (sent. 14 marzo 2012), in cui il Tribunale ha ritenuto che il giudicato interno, formato da una decisione delle Sezioni unite della Cassazione adottata in seguito a regolamento preventivo di giurisdizione, fosse superato da una successiva sentenza della Corte internazionale di Giustizia dell’Aja. È il caso dell’erede di un ufficiale italiano deportato in Germania, torturato ed ucciso, che aveva fatto causa per danni alla Repubblica Federale di Germania dinanzi al giudice italiano. In sede di regolamento preventivo di giurisdizione, la Suprema Corte aveva affermato la giurisdizione del Giudice italiano, perché in caso di violazione dei diritti umani, in caso di crimini di guerra, non vale il principio della esenzione dello Stato dalla giurisdizione per i fatti adottati iure imperii. La Corte internazionale dell’Aja, però, andando in TEMI ISTITUZIONALI 15 diverso avviso, ha confermato il principio dell’esenzione della giurisdizione dello Stato tedesco da quella di un altro Stato, nella specie quello italiano anche nel caso di commissione di crimini di guerra. L’omologo contrario è avvenuto con la Bulgaria, da parte della Corte di Giustizia (Caso Elchinov) caso in cui il Giudice di rinvio bulgaro, dovendo applicare un principio di diritto elaborato dalla sua Corte suprema, che egli riteneva contrario al diritto europeo, aveva sollevato la questione pregiudiziale dinanzi alla Corte europea di Lussemburgo e la Corte ha deciso che bene aveva fatto e che, anzi, avrebbe potuto addirittura disapplicare il giudicato interno, affermando la vigenza della regola di diritto europeo. Questo, in linea generale per tutti gli ordinamenti. Per quanto riguarda in particolare l’ordinamento europeo, abbiamo qualcosa di più pregnante poiché si tratta di un ordinamento integrato in cui coesistono il pluralismo delle culture dei singoli ordinamenti e la protezione multilivello data dai due ordinamenti sovranazionali. Si è parlato, in proposito, di «triangolo virtuoso» e del Giudice nazionale come Giudice europeo decentrato. In considerazione di tutto quanto sin qui detto, sembra potersi osservare che il dialogo fra gli ordinamenti e la collaborazione fra le Corti segnano un movimento di ritorno nel moto pendolare della storia, determinando il formarsi di un “diritto globale” costituito da principi generali comuni, tendenzialmente applicati, sia pure con margini di apprezzamento, da tutte le Corti che fanno parte di una stessa civiltà giuridica, quali i principi di buona fede, di parità di trattamento, di legalità, di rispetto della dignità umana, di rispetto dei patti conclusi. Sembra quindi delinearsi una rinascita del concetto di diritto come “scienza universale” comune a tutto il mondo civile, così come accadeva prima che, nel secolo decimonono, le codificazioni frantumassero in Europa lo “ius commune” basato sul diritto romano e sul diritto canonico in tante entità nazionali. Come insegnava l’antico dottore “Multa renascentur quae iam cecidere”. 16 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 Avvocatura Generale dello Stato CIRCOLARE N. 25/2012 Oggetto: Protocollo di intesa con l’Agenzia del Demanio. Si trasmette in allegato copia del protocollo di intesa sottoscritto dall’Avvocato Generale e dal Direttore dell’Agenzia del Demanio in data 10 aprile 2012.. L’Avvocato Generale dello Stato Avv. Ignazio Francesco Caramazza PROTOCOLLO DI INTESA TRA L’AVVOCATURA DELLO STATO E L’AGENZIA DEL DEMANIO Visti gli artt. 57 e 65 del d.lgs. 30 luglio 1999 n. 300, l'art. 1 del d.lgs. 3 luglio 2003 n. 173, gli artt. 43, 44 e 45 del r.d. 30 ottobre 1933 n. 1611, lo Statuto dell'Agenzia del Demanio e il nuovo regolamento di amministrazione e contabilità dell'Agenzia del Demanio deliberato dal Comitato di Gestione il 9 giugno 2010; Considerato che, ai sensi dell'art. 72 del d.lgs. n. 300/1999, l'Agenzia del Demanio può avvalersi del patrocinio dell'Avvocatura dello Stato ai sensi dell'art. 43 del r.d. n. 1611/1933; Visto il protocollo d'intesa del 21 giugno 2006, con il quale sono state disciplinate le modalità di collaborazione tra l'Agenzia del Demanio e 1'Avvocatura dello Stato, al fine di assicurare nel modo migliore la piena tutela degli interessi pubblici coinvolti ed un efficiente ed incisivo apporto consultivo dell'Avvocatura dello Stato, nonché lo svolgimento del patrocinio della Agenzia del Demanio affidato alla stessa Avvocatura; Ravvisata la necessità di aggiornare il predetto protocollo anche alla luce delle intervenute modifiche legislative; tra l'Agenzia del Demanio (nel prosieguo l'Agenzia), in persona del Direttore, Dott. Stefano Scalera e l'Avvocatura dello Stato (nel prosieguo l'Avvocatura), in persona dell'Avvocato Generale Ignazio Francesco Caramazza si conviene guanto segue I. ATTIVITÀ CONSULTIVA 1. L'Avvocatura provvede a rendere all'Agenzia le consultazioni e i pareri legali richiesti, in particolare in ordine all'interpretazione normativa ovvero alle determinazioni da assumere in relazione alle questioni di particolare complessità. 2. Allo scopo di razionalizzare gli interventi, l'Agenzia mediante la Struttura centrale competente coordina le richieste di pareri che involgono questioni interpretative di carattere generale. Peraltro, pareri relativi a questioni di rilievo solo locale od a specifiche fattispecie possono essere richiesti dalle Filiali dell'Agenzia alla competente Avvocatura Distrettuale. 3. Considerato che l'efficacia dell'attività consultiva è direttamente correlata alla celere emissione dei pareri richiesti, l'Avvocatura corrisponde con tempestività ai quesiti che Ie vengono rivolti. Qualora l'Agenzia richieda, in via eccezionale, che il parere venga reso entro termini più brevi di quelli di legge, l'Avvocatura segnala prontamente l'eventuale impossibilità di attenervisi. TEMI ISTITUZIONALI 17 4. L'Agenzia informa tempestivamente l'Avvocatura dei principali orientamenti dalla stessa assunti o che intende assumere, in particolare in ordine alla interpretazione di normativa di prima applicazione, al fine di acquisire eventuali suggerimenti e/o pareri, particolarmente nella prospettiva dei riflessi sulla gestione del contenzioso, potenziale o in atto. 5. L'Avvocatura rende il parere sull'opportunità e la convenienza di definire transattivamente le liti in relazione all'alea del giudizio; esprime inoltre il parere m linea legale sugli atti di transazione redatti dall'Agenzia ai sensi dell'art. 13 del r.d. 1611/1933. II. ASSISTENZA E RAPPRESENTANZA IN GIUDIZIO 1. L'Agenzia, attraverso le proprie strutture centrali e periferiche, inoltra all'Avvocatura le richieste di patrocinio con il più ampio margine rispetto alle scadenze e comunque non oltre il decimo giorno anteriore alla stessa fornendo una completa e documentata relazione in fatto e in diritto con riferimento alle specificità di ciascuna controversia, anche in caso di giudizi seriali. Onde instaurare un canale di comunicazione, anche informale, immediato e diretto tra l'Avvocatura e l’Agenzia quest’ultima, all'atto della richiesta di patrocinio, precisa il nominativo del funzionario responsabile del procedimento, con le modalità per la sua immediata reperibilità (telefono, fax, e-mail); analogamente, l'Avvocatura provvede a segnalare alla struttura richiedente dell'Agenzia iI nominativo dell'Avvocato incaricato dell'affare ed i relativi recapiti (telefono, fax, e-mail). 2. In caso di notifica di atti giudiziari presso 1'Avvocatura, quest'ultima provvede, entro dieci giorni, a informarne la competente struttura centrale o periferica dell'Agenzia, segnalando - ove individuato - il nominativo dell'Avvocato incaricato dell’affare e le modalità di reperibilità. L'Agenzia può, sotto la propria responsabilità, esprimere tempestivamente il proprio orientamento nel senso della non convenienza della costituzione in giudizio. 3. L'Avvocatura informa la struttura richiedente degli sviluppi delle controversie in corso dalla stessa curate, comunicando, ove possibile, il numero di R.G. assegnato alla causa e dando comunque pronta comunicazione dell’esito del giudizio con la trasmissione della copia della decisione. L'Avvocatura trasmette copia degli scritti defensionali redatti da essa e della parte avversa alla competente struttura dell'Agenzia, che può richiederli unicamente al fine di essere più compiutamente informata circa l'andamento della lite. In caso di pronuncia sfavorevole per 1'Agenzia suscettibile di gravame, l’Avvocatura rende parere in ordine alla impugnabilità della stessa. 4. L'Avvocatura favorisce l’uniformità della trattazione degli affari consultivi e contenziosi anche secondo criteri di specializzazione, continuità e stabilità dei reciproci contatti. 5. Qualora non condivida, per singole controversie, le richieste dell’Agenzia, l'Avvocatura comunica tempestivamente, previa se del caso acquisizione di supplementi istruttori, il proprio motivato avviso alla struttura richiedente. L'eventuale divergenza insorta tra il competente Ufficio dell'Avvocatura e l’Agenzia circa la condotta processuale da assumere in un giudizio, è risolta, sentito previamente, anche per le vie brevi, il Vice Avvocato Generale dello Stato competente, dal Direttore dell'Agenzia, ai sensi dell'art. 12, secondo comma, della legge 3 aprile 1979, n. 103. 6. L'Avvocatura dà notizia alla competente struttura periferica dell'Agenzia nonchè alla Struttura centrale competente anche delle controversie proposte soltanto nei confronti del Ministero dell'Economia e delle Finanze relative ai beni gestiti dall'Agenzia, e tiene conto di quanto dalla stessa eventualmente prospettato. Per tali controversie l'Agenzia fornisce 1a documentazione in suo possesso utile alla difesa del Ministero. Nelle predette controversie, l'Avvocatura 18 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 si astiene dal chiamare in causa l’Agenzia, salvo che non sia ravvisabile una legittimazione processuale della stessa, conformemente a quanto previsto dalla Circolare dell'Avvocato Generale n. 35/2007. Inoltre, l'Avvocatura sente, quando opportuno, l'Agenzia nello svolgimento dell’attività consultiva nell'interesse del Ministero dell'Economia e delle Finanze relativa ai suddetti beni. 7. Nel caso di conflitto di interessi tra l'Agenzia ed altri soggetti patrocinati dall'Avvocatura, può essere chiesto all'Avvocatura Generale di adoperarsi per comporre i1 conflitto. Qualora il conflitto di interessi permaga, l'Agenzia. può affidare il patrocinio ad avvocati del libero foro con motivata delibera del Direttore dell'Agenzia, sentito l'Avvocato Generale. Salve le ipotesi di conflitto, l’Agenzia può avvalersi dell'assistenza di avvocati del libero foro solo in casi eccezionali, previa apposita motivata delibera del Direttore dell'Agenzia a fronte di richiesta della struttura interessata che individui le peculiarità della controversia, ai sensi dell'art. 43, quarto comma, del r.d. n. 1611/1933, sentito l'Avvocato Generale. 8. L'Agenzia si avvale dell'Avvocatura anche nei procedimenti esecutivi, in quelli fallimentari e di volontaria giurisdizione. 9. L'Agenzia si avvale del patrocinio dell'Avvocatura, salva l’ipotesi di conflitto di interessi, anche laddove intenda costituirsi parte civile in un processo penale previa autorizzazione di cui all'art. 1, quarto comma, l. 3 gennaio 1991 n. 3, ovvero quando sia chiamata a parteciparvi nella qualità di responsabile civile. 10. L'Avvocatura può assumere, ai sensi dell'art. 44 del r.d. n. 1612/1933, la difesa di dipendenti dell'Agenzia nei giudizi civili e penali che li interessano per fatti e cause di servizio, ferma restando la libertà degli stessi di farsi difendere da avvocati di loro fiducia. 11. L'Avvocatura provvede al diretto recupero nei confronti delle contropartii delle competenze ed onorari di giudizio poste a loro carico per effetto di sentenza, ordinanza, rinuncia o transazione. In caso di giudizio conclusosi senza soccombenza per l'Agenzia, ove sia disposta la compensazione, totale o parziale, delle spese di giudizio, così come in caso di transazione dopo sentenza favorevole, trova applicazione il disposto dell’art. 21, commi terzo, quarto e quinto del r.d. n. 1611/1933, avendo riguardo alla natura, durata e complessità della controversia e sulla base delle tariffe professionali applicabili. 12. Per le cause che si svolgono davanti ad Autorità giudiziarie aventi sede diversa da quella della competente Avvocatura, essa garantisce l'assistenza, salvo avvalersi per le funzioni procuratorie dei funzionari dell'Agenzia ai sensi dell'art. 2 del r.d. n. 1611/1933 o, in casi eccezionali, di avvocati del libero foro esercenti nel circondario dove si svolge il giudizio, scelti da un elenco predisposto dell'Agenzia previa procedura selettiva concorsuale. In tali casi, l'Avvocatura trasmette l'atto di delega alla competente struttura territoriale dell'Agenzia ovvero all’avvocato del libero foro designato. Resta inteso che nell'inoltrare la parcella presentata dall’avvocato corrispondente, l'Avvocatura si esprimerà in merito alla congruità. III. ASSISTENZA E RAPPRESENTANZA NELLA MEDIAZIONE OBBLIGATORIA FINALIZZATA ALLA CONCILIAZIONE DELLE CONTROVERSIE CIVILI E COMMERCIALI AI SENSI DEL D.LGS. N. 28/2010 1. Nel procedimento di mediazione obbligatorio previsto dal d.lgs. 28/2010, avente ad oggetto le controversie riguardanti le materie di cui all'art. 5 del suddetto decreto legislativo, l’Agenzia si avvale del proprio personale, concordando - ove occorra - preventivamente con l'Avvocatura le linee defensionali da porre in essere a tutela dell'interesse erariale. Resta fermo il parere sulle transazioni a mente del precedente punto I, numero 5. TEMI ISTITUZIONALI 19 IV. GIUDIZI IN MATERIA DI LAVORO 1. Nelle controversie relative ai rapporti di lavoro e limitatamente al primo grado, l’Agenzia sta in giudizio avvalendosi direttamente dei propri dipendenti come previsto dall'art. 417 bis primo comma c.p.c. L' Avvocatura assicura comunque il patrocinio in primo grado nelle controversie in cui vengano in rilievo questioni di massima o particolarmente rilevanti in considerazione del valore economico o dei principi di diritto in discussione. In ogni caso resta fermo il patrocinio dell'Avvocatura nei giudizi di secondo grado. In caso dì difesa da parte dell'Agenzia, la stessa avrà cura di trasmettere all'Avvocatura competente la sentenza notificata, il fascicolo di primo grado e la richiesta di appello con ogni consentita sollecitudine e, comunque, non oltre quindici giorni prima della scadenza. Le sentenze pronunciate in grado di appello relativamente a controversie di lavoro, notificate presso l'Avvocatura Distrettuale, sono da quest'ultima trasmesse contemporaneamente, oltre che all'Avvocatura Generale, alla struttura dell'Agenzia parte del giudizio di appello, unitamente agli atti essenziali di cui l'Agenzia stessa non sia in possesso. 2. Al fine di garantire 1'efficace tutela dell'Agenzia, l'Avvocatura presta la propria collaborazione alla formazione e all'aggìomamento costante del personale dipendente dall'Agenzia incaricato di svolgere l'attività defensionale in primo grado, anche mediante la promozione di corsi, seminari e conferenze. V. GIUDIZI DAVANTI ALLE COMMISSIONI TRIBUTARIE 1. Davanti alle Commissioni Tributarie, l'Agenzia sta in giudizio a mezzo di propri funzionari. L'Avvocatura tuttavia, conformemente al parere reso con nota prot. 33272 in data 15.3.2007, assicura il proprio patrocinio nelle cause attive di valore superiore a quello indicato nell’art. 12, comma 5 del D.Lgs. n. 546/92, nonché per tutte quelle in grado di appello. L'Avvocatura assicura altresì, fin dal primo grado, il proprio patrocinio nei giudizi particolarmente rilevanti per valore economico o in considerazione dei principi di diritto in discussione. VI. RICORSI PER CASSAZIONE 1. Le richieste di ricorso per Cassazione per le controversie che coinvolgono l'Agenzia vengono inviate all'Avvocatura Generale dalla Struttura centrale competente dell'Agenzia, entro trenta giorni dalla notifica della sentenza o quattro mesi dal deposito della sentenza non notificata, corredate da tutta la documentazione necessaria, fermo restando l'invio degli atti in possesso dell'Avvocatura Distrettuale che abbia curato i precedenti gradi di giudizio. VII. INCONTRI PERIODICI E DISPOSIZIONI FINALI 1. Per l'esame dell'evoluzione del contenzioso concernente le più significative e rilevanti problematiche in discussione nonché al fine di definire congiuntamente e uniformemente le linee di condotta delle controversie in corso e l'interesse alla prosecuzione delle stesse, si tengono incontri periodici a cadenza, di norma, quadrimestrale. A livello centrale, gli incontri si svolgono tra il Vice Avvocato Generale competente e il direttore della Struttura centrale competente dell'Agenzia. Inoltre, ogni Avvocatura Distrettuale indica un proprio avvocato con funzioni di referente. 2. In caso di necessità, la competente struttura dell'Agenzia può richiedere all'Avvocato dello Stato assegnatario del singolo affare un incontro per l'esame congiunto di esso, anche con disamina degli scritti e documenti contenuti nel relativo fascicolo. Qualora analoga richiesta sia fatta dal suddetto Avvocato, il preposto alla competente struttura dell'Agenzia deve solle- 20 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 citamente mettere a disposizione personale qualificato e la documentazione in suo possesso. 3. L'Avvocatura consentirà alla Struttura centrale competente dell'Agenzia, non appena tecnicamente possibile, l'accesso per via informatica al proprio archivio, limitatamente alle controversie nelle quali I'Agenzia è patrocinata. Nelle more, detta Direzione può chiedere copia cartacea di quanto memorizzato nell'archivio stesso; l’Ufficio Archivio e impianti dell'Avvocatura trasmette, a cadenza trimestrale, i numeri di R.G. assegnati alle cause in cui è parte l’Agenzia. Analogo accesso per via informatica sarà riconosciuto, per quanto proficuo e possibile, dall'Agenzia all'Avvocatura. 4. Al fine di garantire in modo completo e celere l'assistenza legale dell'Agenzia in relazione alle funzioni e ai compiti ad essa attribuiti dalla legge, l’Avvocatura provvederà, su richiesta e d'intesa con l’Agenzia, ad individuare uno o più Avvocati dello Stato per l'attività di consulenza in via breve. 5. L'Avvocatura e 1'Agenzia si impegnano a segnalare reciprocarnente tutte le eventuali difficoltà operative che dovessero insorgere nella gestione dei rapporti oggetto del presente protocollo, allo scopo di provvedere, nello spirito della più piena collaborazione, al superamento delle stesse nonchè a rivedere la presente convenzione anche alla luce delle modifiche organizzative che dovessero interessare l’Agenzia. 6. Per quanto non disposto nel presente protocollo, si applicano il Testo Unico approvato con R.D. n. 1611/1933, come integrato e modificato, e le altre disposizioni relative al patrocinio e all'assistenza legale prestati dall’Avvocatura. Roma, 10 aprile 2012 L’Avvocato Generale dello Stato Il Direttore dell’Agenzia Ignazio Francesco Caramazza Stefano Scalera CIRCOLARE N. 26/2012 Oggetto: Contenzioso relativo ai precari della scuola. Com'è noto, sono pendenti avanti ai giudici territoriali, di primo e secondo grado, oltre che in Cassazione, numerosi ricorsi introdotti dai c.d. "precari" della scuola, docenti e non docenti, i quali, deducendo l'illegittimità della reiterazione di "contratti di lavoro a tempo determinato" stipulati con l'Amministrazione scolastica per esigenze non transitorie, chiedono, in via principale, il riconoscimento del proprio diritto alla c.d. conversione dei rapporti a termine in unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato (con decorrenza dalla data di stipula del primo dei contratti dedotti in giudizio, dovendo considerarsi nulli i termini finali apposti dalla P.A.) con il pagamento delle differenze retributive; in via subordinata, la condanna dell'Amministrazione al risarcimento dei danni subiti, con rivalutazione e interessi dalla domanda al saldo. Per quanto riguarda la pretesa conversione del rapporto di lavoro a termine in rapporto a tempo indeterminato, i ricorrenti, in estrema sintesi, richiamano l'applicazione, anche al personale scolastico, del D.Lvo 6 settembre 2001, n. 368 - con cui si è data attuazione alla nota Direttiva 1999/70/CE, che ha a sua volta recepito l'Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dalle organizzazioni intercategoriali a carattere generale - le cui disposizioni recano TEMI ISTITUZIONALI 21 la disciplina sanzionatoria della successione di contratti a termine oltre il periodo dei trentasei mesi, con la conseguente trasformazione del rapporto in contratto a tempo indeterminato. La giurisprudenza di merito appare, sia pure tra oscillanti soluzioni, sufficientemente orientata nel senso di respingere le richieste di stabilizzazione dei rapporti alla luce dell'espresso divieto contenuto all'art. 36, comma 5 del D.L.vo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) secondo cui "la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni..." (v. anche l'art. 9, comma 18 del D.L. n. 70/2011, convertito in legge 12 luglio 2011, n.106 ch ha espressamente escluso l'applicazione del menzionato D.L.vo n. 368/2001 ai "contratti a tempo determinato stipulati per il conferimento delle supplenze del personale docente e ATA"). Per quanto riguarda le richieste risarcitorie, appare prevalere una giurisprudenza sfavorevole all'Amministrazione, in quanto molti giudici di merito, pur riconoscendo la specialità della disciplina delle supplenze nel comparto scolastico, in base alla quale non sono previsti limiti temporali alla reiterazione dei contralti a termine, ritengono tuttavia che il ricorso all'anzidetto sistema di reclutamento configuri un "abuso" non giustificato da ragioni obiettive o provvisorie e, dunque, in contrasto con i risultati perseguiti dalla citata direttiva europea e dal menzionato Accordo quadro che essa recepisce. II danno è liquidato in importi sostanzialmente commisurati alla retribuzione globale di fatto corrisposta al docente; in particolare, alcuni giudici, facendo applicazione delle disposizioni in tema di tutela reale del licenziamento illegittimo, riconoscono un'indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto ex art. 18, comma 4 della legge n. 300/1970 (cfr. la recente sentenza della Corte d'Appello di Roma, sezione lavoro, n. 270/2012); altri, invece, ritenuta l’inapplicabilità "anche in via analogica", del citato art. 18 della legge n. 300/1970, rapportano la misura risarcitoria a un'indennita omnicomprensiva compresa "tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto..." secondo quanto prevede, in materia di contratto di lavoro a tempo determinato, l'art. 32, comma 5 della legge 4 novembre 2010, n. 183 (cosi, ad esempio, la giurisprudenza del Tribunale di Mantova, quale giudice del lavoro). I costi dei numerosi giudizi in corso e gli importi liquidati nelle sentenze di condanna sono elevatissimi. Ed infatti, da una prima stima a campione effettuata dal MIUR - Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia - qui trasmessa dall'Avvocatura Distrettuale di Milano (stima peraltro parziale, in quanto limitata ai soli uffici scolastici rientranti nel distretto della Corte d'Appello di Milano, e non anche di Brescia), si evince che, in relazione agli oltre 2.200 ricorsi pendenti, l'eventuale condanna per risarcimento danni dell'Amministrazione oltre alla sorte, ricompresa tra i dieci e i cinquantanove milioni di euro, comporta anche la refusione di spese legali quantificabili in importi che variano dai tre milioni ai dodici milioni di euro. Attesa la particolare rilevanza e delicatezza della questione (rimessa all'esame del Comitato Consultivo ex art. 26, della legge 3 aprile 1979, n. 103, che si esprimerà a breve in un'apposita seduta, alla quale sarà invitata anche l'Amministrazione patrocinata) è necessario che codeste Avvocature Distrettuali, ciascuna per quanto di competenza, comunichino con 22 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 estrema urgenza e, comunque, non oltre il 15 maggio p.v., lo stato del contenzioso su tutto il territorio nazionale, precisando in particolare: 1 - il numero dei ricorsi pendenti (e, in caso di ricorsi collettivi, il numero dei richiedenti); 2 - l'esito dei giudizi, con riferimento a entrambi i gradi di merito: in tal caso si dovrà chiarire se i giudici abbiano riconosciuto anche la stabilizzazione del rapporto di lavoro dei ricorrenti o se la condanna sia stata limitata al risarcimento del danno ed in quale misura. In attesa che il Comitato Consultivo esprima il proprio definitivo avviso è necessario che le decisioni sfavorevoli all'Amministrazione vengano sempre impugnate avanti al Giudice d'Appello e, quindi, in caso di esito negativo, inviate con congruo anticipo a questa Avvocatura Generale che procederà al ricorso in Cassazione. L’AVVOCATO GENERALE DELLO STATO Avv. Ignazio Francesco Caramazza CIRCOLARE N. 31/2012 Oggetto: Azioni di risarcimento danni per fatti occorsi durante la seconda guerra mondiale. Come è noto, con decisione depositata il 3 febbraio 2012 la Corte di Giustizia Internazionale ha ritenuto che l'Italia abbia violato i principi generali del diritto internazionale ed in particolare quello dell'immunità dalla giurisdizione italiana della Germania per le controversie aventi ad oggetto i danni arrecati ai cittadini italiani tra il 1943 ed il 1945 con attività effettuate iure imperii. Con la medesima pronuncia lo Stato italiano è stato obbligato ad assicurare la cessazione di ogni ulteriore violazione del richiamato principio consuetudinario del diritto internazionale. L'attuazione della sentenza dovrebbe essere assicurata dai giudici competenti in ossequio all'art. 10 primo comma Cost. che appunto prevede l'allineamento dell'ordinamento giuridico italiano alle norme del diritto internazionale tra le quali rientrano a pieno titolo le decisioni della Corte di Giustizia Internazionale. A tale fine, gli avvocati incaricati delle vertenze relative all'oggetto vorranno eccepire il difetto di giurisdizione del Giudice italiano, segnalando sollecitamente alla Avvocatura Generale le ipotesi nelle quali il Giudice di merito intenda discostarsi dalla linea interpretativa sopra richiamata. Oltre al difetto di giurisdizione, nella costituzione in giudizio dovrà altresì sostenersi l'infondatezza della domanda di manleva nei confronti del Governo italiano spiegata dalla Germania nei propri atti difensivi. Ciò, alla luce dell'obiter dictum contenuto nella richiamata pronuncia della Corte dell'Aja laddove, esprimendosi rammarico per la mancata inclusione degli IMI (Internati Militari Italiani) tra le categorie dei beneficiari degli indennizzi erogati dalla fondazione "Memoria, responsabilità e futuro" - istituita da una legge tedesca nell'anno 2000 - si specifica che gli indennizzi previsti dagli accordi bilaterali di Bonn intervenuti tra l'Italia e la Germania nel 1961 non coprivano queste fattispecie. Gli Avvocati Distrettuali vorranno riferire sull'andamento del menzionato contenzioso. L’AVVOCATO GENERALE DELLO STATO Avv. Ignazio Francesco Caramazza TEMI ISTITUZIONALI 23 CIRCOLARE N. 38/2012 Oggetto: Azioni di risarcimento danni per fatti occorsi durante la seconda guerra mondiale - domande risarcitorie proposte contro la Repubblica Federale Tedesca da ex internati militari italiani, ovvero dai loro aventi causa, relative alla vicenda dei militari italiani costretti a prestare lavoro, quale mano d'opera non volontaria, al servizio dell'industria bellica del Reich, a seguito di deportazione in Germania in data successiva all'8 settembre 1943. Si fa seguito alla circolare n. 31/2012 per richiamare nuovamente l'attenzione sulla necessità di intervenire, nell’interesse della Presidenza del Consiglio dei Ministri, nei giudizi di cui all'oggetto. Onde agevolare gli avvocati incaricati dell'elaborazione delle difese, che dovranno essere volte a far dichiarare il difetto assoluto di giurisdizione del giudice italiano e, comunque, anche a contrastare eventuali domande di garanzia che la Repubblica Federale di Germania dovesse avanzare nei confronti dello Stato italiano, nonché ad eccepire la prescrizione del diritto azionato, si allega un fac-simile di atto, contenente una ricostruzione dei fatti rilevanti ai fini del decidere ed argomentazioni spendibili a sostegno delle tesi di cui sopra. L’AVVOCATO GENERALE DELLO STATO Avv. Ignazio Francesco Caramazza Cont. xx AVVOCATURA DISTRETTUALE DI xxxx TRIBUNALE CIVILE DI xxxx COMPARSA DI INTERVENTO VOLONTARIO per La Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente del Consiglio in carica, rappresentata e difesa per legge dall'Avvocatura distrettuale dello Stato di xxx presso i cui Uffici in xxxxxx è legalmente domiciliata nella causa promossa da rappresentato e difeso dagli Avv. -attorecontro La Repubblica Federale Tedesca, in persona dell'Ambasciatore pro tempore in Italia, rappresentata e difesa dagli Avv.ti -convenuto- FATTO Con rituale citazione, l'attore, ha convenuto in giudizio la Repubblica Federale Tedesca chiedendone la condanna al risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non, conseguenti alla detenzione e alle torture subite dal dante causa, in ragione della deportazione e successiva destinazione al lavoro forzato in Germania, 1943-1944. Si premette che il contenzioso trae luogo dal fatto che la vicenda dei circa 130.000 internati militari italiani, che furono costretti a prestare lavoro, quale mano d'opera non volontaria, al servizio dell'industria bellica del Reich a seguito della loro deportazione 24 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 in Germania successiva alla data del 8 settembre 1943, non ha trovato soluzione tra quelle prese in considerazione dalla Fondazione "Memoria, responsabilità e futuro", costituita dallo Stato tedesco con una dotazione di 700 milioni di marchi per risarcire le sofferenza patite dagli internati nei campi di concentramento tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Il Ministero delle Finanze tedesco si è infatti pronunciato nel senso che la posizione di queste centinaia di migliaia di soldati italiani internati nei campi di concentramento come prigionieri di guerra, ma impiegati in un rapporto di lavoro coatto come civili, non può essere presa in considerazione dalla Fondazione perché, nonostante tutto, i medesimi avrebbero mantenuto lo status di prigionieri di guerra. Da tale contesto sono derivate numerose richieste risarcitorie proposte da ex internati militari italiani, avanti ai Giudici italiani. In tutti i giudizi sino ad oggi proposti, la Repubblica di Germania, costituendosi in giudizio, ha sempre eccepito il difetto assoluto di giurisdizione del Giudice italiano, invocando il principio consuetudinario del diritto internazionale dell'immunità dello Stato (in virtù del quale sussiste l'obbligo di astenersi dall'esercitare il potere giurisdizionale nei confronti degli Stati stranieri), proponendo contestualmente avanti alle Sezioni Unite della Corte di cassazione ricorso per regolamento di giurisdizione. È noto che il giudice di legittimità con ordinanze del 28 maggio 2008, nn.14201-14212 ha affermato la giurisdizione dei tribunali italiani. Non ritenendo di potere condividere l'assunto della Corte di Cassazione, la Repubblica tedesca ha adito la Corte intemazionale di giustizia dell'Aja, al fine di far accertare la violazione, da parte della Repubblica italiana, della immunità dalla giurisdizione da riconoscere alla Germania in base al diritto internazionale consuetudinario. Con sentenza del 3 febbraio 2012 (CIJ, Immunitès jurisdictionelles de l'Etat, Allemagne c. Italie), la Corte internazionale di giustizia dell 'Aja ha accolto il ricorso della Repubblica tedesca e per l'effetto riconosciuto "che la Repubblica italiana ha violato il suo obbligo di rispettare l’immunità di cui la repubblica federale di Germania gode ai sensi del diritto internazionale consentendo che fossero promosse contro di essa cause civili sulla base di violazioni del diritto internazionale umanitario commesse dal Reich tedesco tra il 1943 e il 1945" , ha affermato che "la Repubblica italiana deve attivarsi, mediante adozione di una legislazione appropriata, o ricorrendo ad altri metodi a sua scelta, affinché le decisioni dei suoi tribunali e quelle di altre autorità giudiziarie che violano l'immunità di cui la Repubblica federale di Germania gode in base al diritto internazionale cessino di avere effetto". La sentenza in rassegna sancisce l'obbligo per il Governo italiano di riparare integralmente il pregiudizio causato alla Germania dalle pronunce rese in violazione del diritto internazionale, nella forma della restituzione in forma specifica (restitutio in integrum) e, per quanto riguarda i procedimenti in corso, la evidente necessità che la lesione del diritto della Repubblica tedesca sia evitata, mediante una pronuncia che dichiari il difetto di giurisdizione dei tribunali italiani nei confronti della Repubblica federale di Germania. Sussiste quindi l'interesse del Governo italiano ad intervenire nel presente giudizio affinchè i principi posti dal giudice sovranazionale siano correttamente osservati dal giudice nazionale. Tanto premesso, interviene in giudizio con il presente atto la Presidenza del Consiglio dei Ministri, ut supra rappresentata e difesa, che, nel rappresentare che la presente difesa TEMI ISTITUZIONALI 25 è strettamente tecnica per cui devono ritenersi salve le diverse o ulteriori determinazioni dell'autorità politica, contesta la domanda attrice, e in subordine anche quelle che parte convenuta dovesse eventualmente proporre nei confronti della PCM stessa, per i seguenti motivi di DIRITTO 1) Difetto assoluto di giurisdizione. a) La sentenza della CIJ, resa in data 3.2.2012, ha completamente travolto l'impostazione sostenuta dalla Corte di Cassazione, fin dalla sentenza n. 5044/04, secondo cui le norme sulla immunità dalla giurisdizione non possono trovare applicazione quando si tratti di valutare atti assunti in grave violazione di obblighi internazionali posti da norme cogenti, qualificabili come crimini internazionali, come tali imprescrittibili e soggetti al principio della giurisdizione universale. Al contrario, la Corte internazionale di giustizia, nella prospettiva di una ricostruzione del diritto consuetudinario tesa a chiarire i termini del rapporto che sussiste tra l'istituto delle immunità e lo sviluppo di norme internazionali superiori, pur poste a tutela dei diritti dell'uomo, ha riqualificato la natura e l'ambito applicativo della norma consuetudinaria che sancisce l'immunità dalla giurisdizione degli Stati esteri per gli acta jure imperii, ed ha escluso che essa possa incontrare un limite riguardo a comportamenti che costituiscono una violazione di norme di jus cogens. In base a tale principio ha pertanto accertato la responsabilità dello Stato italiano per le pronunce emesse a carico della Germania dai propri giudici. Il rilievo che la sentenza in questione assume nell'ordinamento giuridico italiano non può essere ignorato, rendendo neccessarie una serie di riflessioni in merito alle modalità relative alla sua esecuzione sul piano dell'ordinamento interno, poiché, oltre a sancire l'obbligo risarcitorio, il Govemo italiano è stato dichiarato responsabile anche per aver consentito il riconoscimento e la dichiarazione di esecutività di alcune sentenze greche recanti condanna della Germania e per aver violato l'immunità della Germania dall'esecuzione, consentendo l'iscrizione ipotecaria su "Villa Vigoni", sede di un centro culturale italo-tedesco destinato a favorire gli scambi culturali tra i due Paesi. b) Ciò posto, limitando ovviamente le considerazioni all'esecuzione della sentenza rispetto ai processi che si svolgono in Italia, il primo problema da risolvere attiene alla individuazione del contenuto degli obblighi imposti allo Stato italiano. Nelle proprie conclusioni, la Germania chiedeva al Govemo italiano di adottare tutte le misure necessarie "pour faire en sorte que l'ensemble des decisions de ses tribunaux et autres autorités judiciaires qui contreviennent à l'immunité souveraine de l'Allemagne ne puissent etre exécutées", (CIJ, Immunites juridictionnelles, cit., par. 137). In conformità a tale richiesta, la sentenza sancisce l'obbligo per il Govemo italiano di riparare integralmente il pregiudizio causato alla Germania dai fatti illeciti costituiti dalle sentenze di condanna pronunciate dai tribunali italiani, nella forma della restituzione in forma specifica: ciò comporta, secondo la Corte, non solo la cessazione degli effetti degli atti in vigore, ma anche l’eliminazione degli effetti già prodotti: "Les décisions et mesures contraires aux immunités de juridiction de l'Allemagne qui sont encore en vigueur doivent cesser de produire effet, et les effets de ces décisions et mesures qui se sont déjà produits doivent etre supprimés, de telle sorte que soit rétablie la situation qui existait avant que les faits illicites ne soient commis", (CIJ, Immunites juridictionnelles, cit., par. 137). 26 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 La corretta lettura di tale passo della decisione induce a concludere che l'obbligo della restituzione in forma specifica impegni lo Stato italiano a fare in modo che la giurisdizione nei confronti della Repubblica Federale di Germania venga esclusa, addirittura anche qualora questo comporti la necessità di riaprire procedimenti già conclusi. In tale seconda ipotesi deve ritenersi che, nell'individuare nella restitutio in integrum il contenuto dell'obbligo di riparazione, la Corte presupponga che essa sia materialmente possibile e che l'onere che ne deriva non appaia fuori proporzione rispetto al vantaggio che essa arreca alla parte lesa: in altri termini, la circostanza che la violazione del diritto internazionale derivi dall'attività del potere giudiziario e che alcune decisioni possano avere acquisito l'autorità della cosa giudicata non rappresenta evidentemente, nell'impostazione seguita dalla Corte, un ostacolo alla restituzione in forma specifica nè costituisce circostanza idonea ad escluderne l'obbligo. c) Se dunque la pronuncia in esame sembra travolgere addirittura la possibilità di dare esecuzione alle sentenze di condanna passate in giudicato, rispetto ai procedimenti in corso, la corretta esecuzione della decisione internazionale in esame postula evidentemente che la tutela nei confronti della Repubblica tedesca sia anticipata alla fase iniziale del processo, con conseguente necessità per il giudice adito di dichiarare il difetto di giurisdizione nei confronti della Repubblica Federale di Germania. D'altra parte costituisce ius receptum che il difetto di giurisdizione derivante da una norma internazionale possa essere rilevato d'ufficio dal giudice in qualunque stato e grado del processo (cfr. art. 11 della 1. 31 maggio 1995, n. 218, per il processo civile e art. 20 cod. proc. pen. per i procedimenti penali che vedono la Germania quale parte civilmente responsabile), per cui, in consimili ipotesi, deve ragionevolmente ritenersi che il decisum della Corte internazionale vincoli il giudice internó a rilevare il difetto di giurisdizione, indipendentemente dall'emanazione di una normativa specifica che dia attuazione al giudicato internazionale. È pacifico poi che le sentenze della Corte internazionale di giustizia vincolano le parti in lite riguardo alla controversia decisa, avendo il relativo giudizio natura arbitrale ed essendosi, in base all'art. 94 dello Statuto della Corte, le parti impegnate all'accettazione della relativa decisione: accettazione della decisione che obbliga tutti gli organi dello Stato a darvi attuazione (cfr. sul punto in dottrina, AZAR, L'exécution des décisions de la Cour international de justice, Bruxelles, 2003, p. 40 ss.; PALOMBINO, Gli effetti della sentenza internazionale nei giudici interni, Napoli, 2008). L'attuazione della decisione della CIJ deve essere assicurata dai giudici competenti in base al disposto dell'art. 10, co. 1, della Costituzione, che prevede l'allineamento dell'ordinamento giuridico italiano alle norme del diritto internazionale, tra le quali rientrano a pieno titolo le decisioni della Corte Internazionale di Giustizia, la cui funzione è di decidere le controversie tra Stati "in base al diritto internazionale" (art. 38, par. l, dello Statuto). Ne deriva l'obbligo per i giudici italiani, aditi con azioni risarcitorie derivanti da crimini di guerra contro la Repubblica federale tedesca, di dichiarare il proprio difetto di giurisdizione e quindi l'inammissibilità dell'azione per effetto della sentenza della CIJ del 3.2.2012, da qualificarsi quale norma di diritto internazionale vincolante per l'ordinamento giuridico italiano ex art. 10 della Costituzione. d) In questo senso si è espressa anche la giurisprudenza di merito che, nel prendere atto del principio affermato dalla CIJ per cui gli atti compiuti iure imperii sono coperti da TEMI ISTITUZIONALI 27 immunità e che di conseguenza l'Italia, consentendo azioni civili contro la Germania per il risarcimento dei danni provocati dalla violazione del diritto umanitario commessi dal Reich tra il 1943-1945, ha violato l'obbligo di rispettare il principio stesso, ha dichiarato inammissibili analoghe domande risarcitorie per difetto di giurisdizione del giudice adito. La questione decisa dal giudice di merito (cfr. Tribunale di Firenze n. 1082/2012) riveste una peculiare riIevanza, atteso che il Tribunale ha deciso per l'inammissibilità della domanda, in ragione del rilevato difetto di giurisdizione, nell'ambito di un giudizio ove la questione di giurisdizione era già stata decisa dalla Corte di Cassazione, adita dalla Repubblica tedesca in sede di regolamento preventivo di giurisdizione, con una delle note ordinanze del 2008 affermative della giurisdizione del giudice italiano. Il problema affrontato dal giudice fiorentino è di non poco momento, considerata la aperta contraddittorietà di giudicati sulla giurisdizione incidenti sullo stesso processo: quello della Cassazione e quello, di segno opposto, della CIJ. Il Tribunale, a fronte della precisa eccezione di giudicato interno, ha rilevato come sia "indubitabile che la sentenza pronunciata dalle Sezioni Unite ai sensi dell'art. 41 CPC costituisce giudicato interno sulla sussistenza della giurisdizione. Tuttavia, il caso in esame presenta una forte peculiarità data dal fatto che, ai sensi dell’art. 94 Carta ONU, gli Stati membri delle Nazioni Unite sono obbligati a conformarsi alle sentenze della CIG, mentre 1'art. 11 della Costituzione consente le limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni. Siamo dunque davanti a norme che portano a conclusioni opposte: da una parte, la combinazione dell’art. 324 CPC e dell'art. 2909 CC impone di considerare res judicata la sussistenza della giurisdizione, affermata dalla Suprema Corte, sì che la questione del principio dell'immunità degli Stati per gli acta jure imperii non sarebbe nemmeno più soggetta a valutazione all'interno di questo processo; da un'altra parte, la combinazione dell'art. 94 Carta ONU e dell'art. 11 Costituzione impone di confórmarsi alla prònuncia della CIG, con la conseguenza che la domanda dovrebbe essere dichiarata inammissibile per insussistenza di un potere giurisdizionale in capo al giudice ordinario nazionale. Laddove 1'art. 94 Carta ONU afferma che gli Stati membri sono obbligati a conformarsi alle sentenze della CIG, infatti, non si riferisce ad una particolare istituzione statale (Governo, Parlamento), ma all'insieme delle istituzioni e degli organi che formano lo Stato, tra le quali deve essere annoverata anche la Magistratura. Questo giudice si trova pertanto davanti a due normative che, nella presente fattispecie, gli impongono obblighi contrapposti. Non resta che risolvere il conflitto sulla base della considerazione della diversa forza cogente delle norme menzionate. Invero, mentre gli art. 2909 CC e 324 CPC sono norme aventi valore ed efficacia di legge ordinaria, l 'art. 94 Carta ONU ha valore ed efficacia superiore, dal momento che l 'art. 11 Costituzione eleva a livello costituzionale le norme internazionali pattizie che pure possono limitare la nostra sovranità nazionale (quale è senz'altro l’art. 94 Carta ONU). Ne segue che questo giudice, tenuto ad uniformarsi alle norme di rango superiore prima che alle norme di rango inferiore, deve considerare come prevalente la sentenza della CIG". La soluzione accolta nella specie appare comunque coerente con il sistema, qualora si consideri che il profilo relativo all'incidenza dei giudicati sovranazionali sul giudicato interno si è posto negli ultimi anni, riguardo alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo che, sempre più frequentemente, impegnano gli Stati a permettere la riaper- 28 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 tura dei processi per rimediare alle violazioni della Convenzione, particolarmente in tema di equo processo. In tale contesto è possibile osservare una tendenza della giurisprudenza di legittimità a favorire interpretazioni estensive e analogiche delle norme interne al fine di riaprire procedimenti che avevano acquisito carattere definitivo. 2) In subordine. Inanunissibilità della eventuale chiamata in garanzia dello Stato Italiano. In analoghi precedenti giudizi, la Repubblica tedesca nel costituirsi in giudizio, ha chiamato in garanzia la Repubblica italiana al fine di essere manlevata nel caso di condanna. La chiamata in garanzia spiegata in tali casi si è sempre fondata sul Trattato italo-tedesco di Bonn del 2.6.1961, recepito con Dpr n° 1263 del 14/4/62, sull'Accordo italo-tedesco del 6.2.1961, ratificato con L. n. 404/1964 e sull'art. 77 comma 4° del trattato di pace del 1947. La Repubblica tedesca ha infatti ritenuto che l'art. 2 dell'accordo di Bonn, reso esecutivo con Dpr. N. 1263/1962, conterrebbe una espressa rinuncia, da parte dell'Italia, ad ogni eventuale azione o altra pretesa legale di persone fisiche o giuridiche in ordine a rivendicazioni e richieste ancora pendenti nei confronti della RFG. Tuttavia, con riferimento a tale normativa, la definizione delle rivendicazioni da parte della Repubblica Italiana o di persone fisiche o giuridiche italiane nei confronti della Repubblica Federale di Germania (art. 2. 1° comma) e l'obbligo di manleva della Repubblica Federale di Germania sempre da parte dello Stato Italiano (2° comma) non sembra che possano essere interpretati nel senso voluto da parte convenuta. Infatti l'accordo attiene fondamentalmente alle "questioni economiche" ancora all'epoca dello stesso "pendenti" fra i due Stati, per cui anche quando si fa ivi riferimento alle persone fisiche (o giuridiche), in accordo alla ratio dell'accordo di Bonn la questione oggetto di rinuncia deve avere natura economica. A conferma di ciò è sufficiente leggere il titolo dell'accordo, e delle relative disposizioni, per rendersi conto della natura delle controversie pendenti che con esso si intendevano risolvere: "Questioni economiche". "Dissequestro dei beni tedeschi in Italia", "Marchi d'impresa tedeschi in Italia". Le richieste risarcitorie avanzate dall'attore, trovando titolo in un illecito extracontrattuale, e segnatamente nella lesione di diritti inviolabili dell'uomo, non rientrano pertanto nel genus delle materie oggetto dell'accordo di Bonn. Ciò senza tacere che esso fa riferimento a questioni giuridiche "pendenti ", per cui ha ambito di applicazione limitato alle controversie giudiziali pendenti alla data della sua stipula. Neanche la legislazione successiva, emanata in attuazione della prima parte dell'accordo italo-tedesco del 1961, ha contemplato espressamente la sorte delle azioni risarcitorie proponibili dalle vittime di deportazioni e persecuzioni in genere, come quella oggetto del presente giudizio, limitandosi a contemplare solo alcune tipologie di indennizzo ritenute ammissibili (si fa riferimento alla legge 5 luglio 1964 n° 607). Sul punto deve infine sottolinearsi come anche la CIJ, nella richiamata pronuncia, nell'esprimere rammarico per la mancata inclusione degli IMI (Internati militari italiani) tra le categorie dei beneficiari degli indennizzi erogati dalla fondazione tedesca “Memoria, responsabilità e futuro" - istituita con una legge tedesca del 2000 - (cfr. sentenza CIJ, punto C.99), abbia specificato che gli indennizzi previsti dagli accordi di Bonn intervenuti tra Italia e Germania nel 1961 non coprivano fattispecie quali quelle oggetto del presente giudizio. È appena il caso di rilevare come tale passo della decisione, letto in combinato disposto con il successivo n. 104, ove la Corte testualmente afferma di "non ignorare che l'im- TEMI ISTITUZIONALI 29 munità dalla giurisdizione della Germania, in conformità al diritto internazionale consuetudinario, può precludere il risarcimento del danno per i cittadini italiani interessati. Si ritiene tuttavia che i diritti derivanti dal trattamento degli IMI di cui al paragrafo 99, insieme ad altre richieste di cittadini italiani che non sono state presumibilmente risolte e che hanno costituito la base per i procedimenti italiani potrebbero essere oggetto di ulteriori negoziati che coinvolgano i due Stati interessati al fine di risolvere la questione" (cfr, punto C.104), palesi come la Corte implicitamente neghi che non solo gli accordi bilaterali di Bonn ma neanche il trattato di pace del 1947 abbiano avuto contenuto satisfattivo di ogni pretesa nascente dagli eventi bellici, che conseguentemente devono ritenersi non coperti dalla rinuncia ivi formulata dal governo italiano. Ne deriva che la Repubblica di Germania non può utilmente invocare neanche la disposizione dell'art. 77 comma 40 - che contiene norma analoga all'art. 2 del Trattato di Bonn - del Trattato di Parigi, nella considerazione che anche tale atto ha ad oggetto esclusivamente la regolamentazione di rapporti economici e circoscrive inoltre l'ambito temporale della rinuncia "a qualsiasi domanda contro la Germania e i cittadini germanici pendente alla data del 8 maggio 1945". In questo senso si è pronunciato Tribunale Militare di Roma, con la sentenza del 22/7/97 resa nel procedimento penale a carico di Erich Priebke e Karl Hass per l'eccidio delle Fosse Ardeatine, sentenza con cui gli imputati furono condannati al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili nonostante la difesa degli imputati avesse invocato appunto l'accordo italo tedesco del 1961, nonché la Cassazione penale (n. 1072 del 21.10.2008). Ne discende l'inammissibilità della eventuale domanda di manleva dall'azione risarcitoria che Ia Repubblica Federale Tedesca intendesse spiegare nei confronti dello Stato italiano. 4) In via di ulteriore subordine si eccepisce l’inammissibilità dell'azione principale perché prescritta. È pacifico che tra i fatti, fonte della invocata responsabilità risarcitoria della convenuta, e l'avversaria domanda sono trascorsi circa 60 anni, per cui l'azione risarcitoria si è ormai prescritta, (in termini, cfr. Tribunate di Brescia, n. 1128/2011 del 31.3.2011; Tribunale di Firenze, n. 411/11 del 8.2.2011). *** Tutto ciò premesso, si conclude perché il Tribunale adito voglia accertare l'interesse del Governo italiano a partecipare al presente giudizio e per l'effetto ammettere l'intervento volontario spiegato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri; in via preliminare dichiarare il difetto assoluto di giurisdizione del giudice italiano a conoscere della causa; in subordine, e qualora formulata, dichiarare inammissibile la domanda di garanzia avanzata dalla Repubblica Federale Tedesca; in via ulteriormente subordinata rigettare la domanda attrice per intervenuta prescrizione del diritto azionato. xxxxxx Avvocato dello Stato 30 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 CIRCOLARE N. 41/2012 Oggetto: Linee guida in materia di mediazione civile. D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28, “Attuazione dell’art. 60 della Legge 18 giugno 2009, n. 69 in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali”. I problemi derivanti dalla applicazione alle Amministrazioni pubbliche del D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28, "Attuazione dell'art.60 della Legge 18 giugno 2009, n.69 in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali", hanno condotto, in sede di prima applicazione, alla emanazione di "linee guida" al fine di assicurare uniformità di orientamenti con la Circolare n. 25/2011 del 2 maggio 2011 e con la successiva Circolare n. 29/2011 del 17 maggio 2011. Come comunicato con detta ultima Circolare, a seguito della segnalazione da parte della Avvocatura delle incertezze giuridiche e delle difficoltà pratiche scaturenti dalla applicazione del nuovo istituto ai soggetti fruenti del patrocinio erariale, è stato costituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri un apposito tavolo di lavoro. In quella sede sono stati studiati i possibili interventi a livello legislativo e regolamentare al fine di consentire alla mediazione di perseguire efficacemente, anche nei giudizi nei quali è parte un'Amministrazione pubblica, l'auspicata finalità deflattiva del contenzioso, senza aggravare in modo insostenibile il carico di lavoro dell'Avvocatura. All'esito dei lavori, e in attesa di un eventuale intervento di rango primario, sono state delineate le prime misure modificative e interpretative, in conseguenza delle quali devono oggi esserere assunte con la presente Circolare, le seguenti nuove «linee guida». A modifica delle istruzioni precedentemente impartite con la Circolare n. 25/2011 del 2 maggio 2011 e con la successiva Circolare n. 29/2011 del 17 maggio 2011, si dispone, pertanto, quanto segue. 1. Il procedimento di mediazione finalizzata alla conciliazione si applica anche alle Amministrazioni patrocinate dall'Avvocatura dello Stato. Fanno eccezione, come dispone l’art. 2 del D.Lgs. n. 28/2010, le controversie vertenti su diritti indisponibili. Tra queste ultime si ritiene rientrino i giudizi riguardanti l'equa riparazione per l'eccessiva durata del processo (cd. «Legge Pinto») considerato, per un verso, che argomenti in tal senso possono trarsi dall'art.1, comma 2, della Direttiva 21 maggio 2008 n. 2008/52/CE («La presente direttiva... non si estende... alla materia fiscale, doganale e amministrativa né alla responsabilità dello Stato per atti o omissioni nell'esercizio di pubblici poteri); per altro verso che per tali controversie la richiamata legge prevede una necessaria procedura giurisdizionale, che non appare derogabile da un accertamento tra le parti sull'an e sul quantum dell'indennizzo (cfr., in tal senso l'opinione già espressa in passato dalla Scrivente in sede consultiva, il decreto n. 34/2011 della Corte d'Appello di Brescia, e la dubbia applicabilità - cfr. l'art. 5 comma 4 lett. d) del D.Lgs. n. 28/2010 e art. 3 comma 4 Legge n. 89/2001 - della mediazione ai detti procedimenti in camera di consiglio). 2. Un'interpretazione conforme alla ratio del sistema porta ad escludere altresì che la mediazione trovi applicazione nel caso di controversie relative a diritti promosse dinanzi al Giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva, o comunque dinanzi ad un Giudice diverso da quello ordinario. 3. Trattandosi di procedura non contenziosa, l'Avvocatura è e rimane estranea alla fase di TEMI ISTITUZIONALI 31 mediazione. Gli atti di accesso alla mediazione (art. 4) irritualmente notificati presso l'Avvocatura (non trattandosi di atti avente contenuto giurisdizionale) dovranno pertanto essere inviati senza indugio all'Amministrazione interessata. In tal caso non si provvederà ad impiantare un nuovo affare consultivo, ma si dovrà utilizzare un «affare d'ordine- miscellanea» appositamente costituito, come da successiva comunicazione. 4. Laddove l'Amministrazione, invitata a comparire dinanzi ad un organismo di mediazione, richieda l'intervento dell'Avvocatura, si dovrà, pertanto, declinare la richiesta sottolineando che l'intervento del difensore non è necessario. A questa regola potrà derogarsi solo in casi assolutamente eccezionali giustificati dalla particolare rilevanza della potenziale controversia ovvero dalla natura del soggetto patrocinato; l'Avvocatura - essendo peraltro sprovvista del potere di disporre del diritto - interverrà in ogni caso non in sostituzione del funzionario, ma affiancando lo stesso. 5. Nel trasmettere gli atti notificati, e comunque in ogni altro caso in cui l'accesso alla mediazione sia portato all'attenzione dell'Avvocatura, si vorrà evidenziare altresì all'Amministrazione che, qualora intenda partecipare al procedimento, dovrà presenziare un soggetto a conoscenza dei fatti e munito dei poteri di legge in vista della possibile coclusione dell'accordo. 6. Ove invece l'Amministrazione non intenda partecipare, sarà opportuno che essa comunichi espressamente tale determinazione al mediatore indicandone i motivi (come, ad esempio, nei casi richiamati al n. 1 che precede), anche al fine di prevenire gli effetti previsti dall'art. 8 comma 5 del D.lgs. n. 28/2010. È pertanto necessario che tale comunicazione venga acquisita e prodotta nell'eventuale successivo giudizio. 7. In ogni caso andrà evidenziato all'Amministrazione che la partecipazione alla procedura di mediazione comporta a carico dell'Erario gli oneri previsti dall'art. 16 del D.M. n. 180/2010. 8. In caso di partecipazione alla mediazione, l'Amministrazione potrà certamente avvalersi dell'attività consultiva dell'Avvocatura. Andrà tuttavia scongiurato il rischio (che causerebbe all'Istituto un carico di lavoro insostenibile) che l'Amministrazione, per ogni richiesta di mediazione, richieda sistematicamente un parere all'Avvocatura. Rientrando il potere di transigere tra le attribuzioni dirigenziali (suscettibile anche di valutazione in punto di efficienza), dovrà sottolinearsi che un parere potrà essere richiesto all'Avvocatura solo laddove preceduto da una motivata valutazione da parte del dirigente competente, che si concluda con un giudizio di opportunità favorevole alla conclusione di un accordo, sulla base di una bozza di testo già sufficientemente elaborato. 9. Andrà, per contro, evidenziato che l'Avvocatura dovrà comunque essere sentita in tutte le ipotesi in cui il potenziale accordo riguardi una controversia di particolare rilievo ovvero possa interessare un numero rilevante di analoghe controversie in atto o in potenza. Occorrerà inoltre verificare che di tali situazioni l'Amministrazione abbia reso edotti i propri organi di vertice. 10. In ogni caso si evidenzierà all'Amministrazione che, ove ritenga ipotizzabile una composizione, sarà opportuno richiedere al mediatore che la procedura (nello spirito dei commi 2 e 3 dell'art. 8), si sviluppi secondo tempi congrui affinché la stessa possa disporre del tempo necessario per valutare le richieste oggetto della possibile composizione; è infatti evidente che l'ente pubblico, a differenza del privato, agisce per atti 32 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 procedimentalizzati per legge che possono richiedere tempi non brevissimi (ad esempio nel caso di richiesta di parere all'Avvocatura ed eventuale sottoposizione della questione all'esame del Comitato Consultivo). 11. Attesa la natura non giurisdizionale della fase di mediazione, nei casi in cui la stessa costituisca condizione di procedibilità nelle cause attive, ivi incluse quelle nelle quali l'Amministrazione si presenti nella veste di opponente a decreto ingiuntivo (cfr. art. 5 comma 4 lett. a) del D.Lgs. n. 28/2010), si dovrà invitare l'Amministrazione stessa a procedere direttamente all'atto di accesso di cui all'art. 4, evidenziando che gli oneri economici della procedura sono a suo carico. Analoghe considerazioni valgono per i procedimenti di cui alle successive lettere b) e c) del medesimo art. 5 comma 4, semprechè vi sia interesse dell'Amministrazione alla prosecuzione del giudizio nella fase con rito ordinario. 12. In attesa di una ipotizzata modifica legislativa, e al fine di prevenire, per quanto possibile, problemi relativi alla «scelta del mediatore» (considerata la natura onerosa dell'accesso alla mediazione), fino a nuova indicazione si vorrà suggerire all'Amministrazione di procedere all'individuazione dell'organismo, preferendo quelli che comportino minori oneri per l'Amministrazione, avvalendosi, ove del caso, delle procedure di scelta del contraente normativamente previste (D.Lgs. n. 163/2006 e D.P.R. n. 207/2010). I Vice Avvocati Generali e gli Avvocati Distrettuali vorranno riferire in ordine alle concrete applicazioni dell'istituto nelle controversie di rispettiva competenza entro i1 30 novembre 2012. L’AVVOCATO GENERALE DELLO STATO Avv. Ignazio Francesco Caramazza CIRCOLARE N. 45/2012 Oggetto: Lavoratori a tempo determinato del Comparto Scuola - Parere approvato dal Comitato Consultivo sulla possibilità per l'Amministrazione di nominare supplente un lavoratore che abbia ottenuto sentenza dichiarativa dell'illegittimità dell'apposizione di un termine al contratto di lavoro per un determinato anno scolastico. Si trasmette, per opportuna conoscenza, copia del parere in oggetto, approvato dal Comitato Consultivo nella seduta del 25.5.2012. Si segnala altresì che, in data 20.6.2012, è stata depositata la sentenza n. 10127, con la quale la Corte di Cassazione ha affermato "l'inapplicabilità del principio di conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato, restando applicabile la disciplina delle supplenze, contenuta nel d.lgs. n. 297 del 1994, che non è stata abrogata dal d.lgs. n. 368 del 2001, con conseguente insussistenza di un diritto del docente alla stabilizzazione del rapporto ed al risarcimento del danno in caso di reiterazione delle supplenze, ove non risulti un abuso nell’assegnazione degli incarichi in questione". L’AVVOCATO GENERALE DELLO STATO Avv. Ignazio Francesco Caramazza TEMI ISTITUZIONALI 33 Avvocatura Generale dello Stato Via dei Portoghesi, 12 13/06/2012-237321/2 P 00186 ROMA POSTA PRIORITARIA Roma, Avvocatura Distrettuale dello Stato Partenza n. Via Santa Caterina, 6 25100 BRESCIA Tipo Affare CS 6011/2012 Sez. VII Avv. D’AVANZO p.c. Risposta a nota del 8 febbraio 2012 n. 3597 Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca Dipartimento per l’istruzione D.G. per il personale scolastico Ufficio IX ROMA Oggetto: Ct 1104/2011 - Lavoratori a tempo determinato del Comparto Scuola. Con la nota a riscontro veniva chiesto alla Scrivente di sottoporre all’esame del Comitato Consultivo il seguente quesito di diritto: “se la statuizione contenuta nelle sentenze che condannano il MIUR a risarcire il danno cagionato ai lavoratori dal rinnovo di supplenze scolastiche a termine in pretesa violazione della Direttiva 1999/70/CE comporti altresì il divieto di stipulare nuove supplenze per gli anni scolastici successivi alla pubblicazione della sentenza”. Nella richiesta, ampiamente argomentata, codesta Avvocatura Distrettuale esprimeva l’avviso che la condanna risarcitoria a carico dell’Amministrazione scolastica statuita da alcuni Tribunali del lavoro locali precluderebbe all’Ufficio scolastico soccombente (il quale altrimenti si esporrebbe a responsabilità amministrativa e contabile) di stipulare ulteriori contratti di lavoro a tempo determinato con il personale precario, vittorioso in sede giudiziale, e ciò anche a prescindere dal passaggio in giudicato delle sfavorevoli sentenze, recanti la disapplicazione del regime legale delle supplenze, ritenuto in contrasto con il diritto comunitario. Nel caso di rapporto tra le parti definito con sentenza passata in giudicato veniva immaginata anche la percorribilità di una soluzione di compromesso, con la quale le parti rinunciavano “reciprocamente agli effetti del giudicato, in modo da sollevare il MIUR dall’obbligo di risarcire il danno e scioglierlo dal divieto di stipulare nuovi contratti a termine per gli anni successivi”. Il Comitato Consultivo - all’esito delle sedute del 18 aprile 2012 e del 25 maggio 2012 (quest’ultima tenutasi in composizione integrata, ai sensi dell’art. 26 della n. 103 del 1979, il 25 maggio 2012, con la partecipazione di due funzionari del MIUR) acquisite le informazioni sullo stato del contenzioso sul territorio nazionale richieste dall’Avvocato generale alle Avvocature Distrettuali con la circolare n. 26/2012 - ha condiviso il parere nei termini che seguono. La risposta al quesito in esame è negativa. Innanzitutto, operativamente, si segnala l’opportunità che vengano sempre impugnate le sfavorevoli decisioni rese dai giudici di merito sulla controversa questione di diritto riguardante i precari del Comparto Scuola. 34 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 Ed infatti, pur tenendo conto dei rilievi che si leggono nella richiesta di parere all’esame, secondo cui i costi di gestione del contenzioso seriale, anche in termini di impegno professionale, non sembrerebbero giustificati dalla modesta rilevanza economica delle singole cause, non può non rilevarsi come l’omessa impugnazione delle decisioni di condanna al risarcimento del danno comporta, in sostanza, il riconoscimento di un comportamento contra ius dell’Amministrazione - datore di lavoro per avere illegittimamente utilizzato il lavoratore con contratti a termine oltre il periodo dei 36 mesi. Dette pronunce, pertanto, anche se non dispongono la conversione del rapporto di lavoro - da determinato a tempo indeterminato - non possono essere condivise, in quanto smentiscono in radice la tesi difensiva che si sostiene nell’interesse dell’Amministrazione scolastica nei vari giudizi. Dovranno, pertanto, continuare a coltivarsi le cause in attesa che sulla questione di diritto si pronunci la Corte di Cassazione, la cui decisione deve ritenersi comunque imminente, posto che l’udienza di discussione si è avuta il 5 giugno 2012, nella quale il P.G. ha concluso in senso favorevole alle tesi che si sostengono nell’interesse dell’Amministrazione. I giudizi di cognizione meritano di essere coltivati anche in attesa della pronuncia che verrà resa dalla Corte Costituzionale, investita dal Tribunale di Trento, sezione per le controversie di lavoro, della questione di costituzionalità “dell’art. 4 della legge n. 124 del 1999 e dell’art. 93, comma 1 della legge della Provincia di Trento, 7 agosto 2006, n. 5, con riferimento agli artt. 11 e 117, comma 1 della Costituzione in riferimento alla clausola 5, punto 1, lett. a) dell’accordo quadro CED, UNICE, e CEEP sul lavoro a tempo determinato, alla quale la direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999 ha dato attuazione”. Lo scrutinio di legittimità delle anzidette disposizioni è stato infatti richiesto dal predetto Giudice del lavoro con due distinte ma analoghe ordinanze di rimessione, sicchè, nel caso in cui la Consulta ritenesse di dovere superare alcuni (innegabili) profili di inammissibilità delle pronunce di rimessione, evidenziati da questa Avvocatura Generale nell’atto di intervento del Presidente del Consiglio di Ministri, la soluzione che verrà data sulla questione di diritto non potrà non rilevare ai fini delle valutazioni conclusive sull’opportunità di proseguire o abbandonare il contenzioso in atto. Per quanto riguarda, specificamente, il quesito sottoposto all’esame, non può condividersi l’obiezione di codesta Avvocatura Distrettuale, secondo cui la disapplicazione della normativa interna impedirebbe all’Amministrazione scolastica, quale datore di lavoro, di concludere con il lavoratore - ricorrente vittorioso ulteriori contratti a termine. L’argomento prova troppo: si dovrebbe, infatti, ritenere, per coerenza, che la disapplicazione operi quale obbligo di ottemperanza in relazione a tutto il sistema, a norma dell’art. 5 della legge abolitiva del contenzioso amministrativo (legge n. 2248/1865). Nell’ambito scolastico, invero, l’attribuzione degli incarichi di insegnamento avviene secondo il sistema delle graduatorie e dell’utile collocazione nell’ambito delle stesse del docente, sicchè, ove ricorrano entrambi tali presupposti, non può l’Amministrazione escludere a priori il docente (già ricorrente vittorioso) dal riconoscimento dell’incarico di supplenza. In sostanza i rapporti sono stipulati non a discrezione del datore di lavoro, ma sulla base di una graduatoria dalla quale si attinge, sicchè solo casualmente può capitare che sia attribuito l’incarico alla stessa persona. In questi termini si è espressa, del resto, la Corte d’Appello di Milano con sentenza n. 708/2012 che ha accolto l’appello dell’intestata Amministrazione ritenendo tra l’altro che TEMI ISTITUZIONALI 35 “…l’Amministrazione ha il dovere di attenersi comunque all’ordine della graduatoria, sulla base della quale il lavoratore a termine viene individuato, in applicazione di criteri predeterminati e automatici e in assenza di alcun margine di discrezionalità…”. Per quanto sopra detto, e tenendo conto che la giurisprudenza di diverse Corti d’Appello è favorevole alla tesi che si sostiene nell’interesse dell’Amministrazione (merita di essere segnalato il mutato orientamento, ora favorevole, della Corte di Milano) la proposta, pure avanzata da codesta Avvocatura Distrettuale, di chiedere ai giudici di merito la sospensione delle cause pendenti in attesa delle pronunce della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale e, eventualmente, della Corte europea, non è opportuna sotto diversi profili. - Innanzitutto, come si è sopra detto, all’udienza del 5 giugno 2012 è stato discusso, avanti la Corte di Cassazione il primo dei ricorsi proposti da questa Avvocatura Generale sulla questione di diritto all’esame (CT 18017/2011 – avv. Varone): deve ritenersi pertanto imminente il deposito della decisione da parte del Giudice di legittimità. - In ogni caso, la prospettata iniziativa processuale non appare in linea con il principio della durata ragionevole del giudizio che il legislatore ha inteso assicurare ai sensi del nuovo art. 111 Cost.. - Il “congelamento” del contenzioso non è, comunque, economicamente conveniente, anche considerato che, in entrambi i gradi di merito, parte della giurisprudenza si è già espressa in senso favorevole alla tesi dell’Amministrazione. - Né l’iniziativa trova adeguata giustificazione in relazione alla prospettata necessità di attendere la pronuncia della Corte Costituzionale, giacchè, come si è sopra rilevato, le ordinanze di rimessione del Tribunale del Lavoro di Trento presentano alcuni profili di inammissibilità che potrebbero portare la Corte a una mera pronuncia di rito, senza quindi che venga esaminata la fondatezza della questione, rendendo pertanto inutile l’eventuale sospensione processuale dei giudizi. - Quanto alla pendenza della citata procedura di infrazione n. 2010/2124, si osserva che, al momento, la fase del cd. "precontenzioso", pur non (ancora) archiviata, non risulta ancora rimessa alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea per l’eventuale decisione sull’asserita inosservanza, da parte dello Stato italiano, agli obblighi imposti dall'Unione: anche sotto tale profilo, dunque, la sospensione processuale sarebbe iniziativa quantomeno prematura e tale da indebolire la posizione dell’Amministrazione. In risposta, pertanto, al quesito sottoposto all’esame si ritiene che le sentenze ormai passate in giudicato non possano precludere la possibilità per i docenti di ottenere contratti a tempo determinato per i successivi anni scolastici se ciò lo consenta la loro utile collocazione in graduatoria. In attesa della pronuncia della Corte di Cassazione sulla questione è, quindi, opportuno che si continuino a impugnare tutte le decisioni di condanna rese dai giudici di merito e che non venga richiesta la sospensione dei giudizi pendenti per i motivi di cui si è sopra detto. L’AVVOCATO GENERALE AGGIUNTO Avv. Michele Dipace 36 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 CIRCOLARE N. 47/2012 Oggetto: Richiesta di patrocinio nei giudizi di primo grado aventi ad oggetto il riconoscimento deI diritto del personale a tempo determinato della Croce Rossa Italiana-CRI al compenso incentivante la produttività ed il diritto alla stabilizzazione. Si trasmette per opportuna conoscenza copia della nota in data 17 luglio 2012 n. 289604 con la quale, visto l'art. 417 bis c.p.c., considerate le argomentazioni esposte dall'Ente patrocinato, è stata ravvisata l'opportunità di assicurare alla Croce Rossa Italiana - per un periodo limitato - il patrocinio da parte dell'Avvocatura dello Stato nei giudizi di primo grado dinanzi al Giudice del lavoro nelle controversie indicate in oggetto. Nella detta nota sono chiarite le modalità e i tempi con i quali si dovrà svolgere il detto patrocinio. A tali linee di condotta le SSLL vorranno uniformarsi. L’AVVOCATO GENERALE DELLO STATO Avv. Ignazio Francesco Caramazza Avvocatura Generale dello Stato Via dei Portoghesi, 12 17/07/2012-289604 P 00186 ROMA TELEFAX Roma, Al Direttore Generale di Partenza n. Croce Rossa Italiana Tipo Affare CS 26015/12 Vial Toscana 12 Avv. M. RUSSO 00187 ROMA Risposta a nota del 4.72012 prot. CRI/CC/410131/12 Oggetto: richiesta di patrocinio nei giudizi di primo grado aventi ad oggetto riconoscimento del diritto del personale a tempo determinato al compenso incentivante la produttività ed il diritto alla stabilizzazione. Con la nota in riferimento, si chiede che l'Avvocatura dello Stato assuma - previa valutazione a mente dell'art. 417-bis c.p.c. - il patrocinio della Croce Rossa sin dal primo grado di giudizio nei procedimenti di competenza del giudice del lavoro meglio individuati in oggetto, aventi carattere seriale. La richiesta è motivata dall'estrema rilevanza economica che le suddette controversie, considerate nel loro insieme, potenzialmente presentano, nonché dalla mancanza di figure professionali adeguatamente formate alla trattazione del contenzioso del lavoro. Al riguardo, si osserva quanto segue. La Croce Rossa italiana rientra nel novero dei soggetti che fruiscono del patrocinio cosiddetto "autorizzato" di cui all'art. 43 R.D. 1611/1933. La Scrivente ha già avuto modo di osservare (Circolari nn. 38/98 e 43/2010) che agli enti a patrocinio autorizzato si applica il primo comma dell'art. 417-bis c.p.c., che consente la difesa diretta a mezzo di funzionari nel primo grado di giudizio, e che il secondo comma del medesimo articolo - riferito espressamente alle sole Amministrazioni dello Stato o ad esse equiparate - può comunque applicarvisi in via estensiva. Ne discende che la concessione del patrocinio sin dal primo grado di giudizio è possibile qualora l'Avvocatura ravvisi - all'esito della delibazione ad essa riservata circa le carat- TEMI ISTITUZIONALI 37 teristiche del contenzioso - la ricorrenza di una delle situazioni descritte dall'art. 417- bis comma 2, fra le quali si annoverano i "notevoli riflessi economici". Ciò posto, si osserva innanzi tutto che la mancanza di professionalità specifiche all'interno dell'Amministrazione non può rappresentare, in linea generale, un motivo per derogare alla scelta di principio del legislatore, secondo la quale la difesa diretta dell'Amministrazione nel primo grado di giudizio da parte di funzionari costituisce la regola, mentre il patrocinio dell'Avvocatura costituisce l'eccezione a detta regola, al ricorrere dei presupposti individuati dalla legge. Ciò vale a maggior ragione in considerazione del lungo tempo (quasi quindici anni) ormai trascorso dall'entrata in vigore della norma di cui all'art. 417-bis c.p.c„ tempo nel quale la norma stessa è stata regolarmente applicata. Per supplire a tali carenze, peraltro, sin d'ora si manifesta la disponibilità della Scrivente ad organizzare corsi di formazione del personale incaricato di svolgere il patrocinio nei giudizi di primo grado. Ciò premesso, possono peraltro costituire valida ragione per derogare alla regola generale di cui all'art. 417-bis comma 1 c.p.c. i notevoli riflessi economici del contenzioso; riflessi che, come già ritenuto dalla Scrivente nella richiamata Circolare n. 38/98, devono essere ravvisati non tanto in dipendenza del valore economico della singola controversia o della somma globale pretesa nelle cause seriali quanto - piuttosto - nella diretta ed immediata incidenza sulla norma generale (legislativa o formata dall'ARAN) disciplinante aspetti che si riflettano sul costo del lavoro. Nella specie, vertendosi sulla questione dell'applicabilità ai dipendenti assunti con contratto a tempo determinato della normativa che riconosce il diritto al compenso incentivante la produttività, nonché il diritto alla stabilizzazione, l'assunzione della difesa da parte dell'Avvocatura sin dal primo grado di giudizio appare in effetti opportuna ai sensi dell'art. 417-bis comma 2 c.p.c. In linea di massima - onde evitare la frammentazione della questione in una pluralità di impostazioni difensive, potenzialmente pregiudizievole - la difesa sarà assicurata dalla Scrivente in tutte le cause del tipo in oggetto, così da sollecitare l'auspicato superamento dell'iniziale, sfavorevole orientamento della giurisprudenza, e ciò sia presso la sede generale che presso le sedi Distrettuali. Tuttavia, trattandosi comunque di giudizi seriali, va da sé che - una volta elaborata la linea di difesa e consolidatosi l'orientamento dei giudici di primo grado nell'ambito dei vari distretti - il carattere ripetitivo delle controversie consentirà senz'altro all'Amministrazione, nei giudizi futuri, di riprendere a difendersi direttamente in primo grado a mezzo di propri funzionari, ai quali le singole sedi distrettuali e l'Avvocatura Generale avranno cura di trasmettere modelli di atti cui conformare le difese. L’AVVOCATO GENERALE DELLO STATO Avv. Ignazio Francesco Caramazza 38 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 CIRCOLARE N. 48/2012 Oggetto: Indennizzo ai soggetti danneggiati da vaccino e talidomidici (leggi 229/2005 e 244/07) - riconoscimento degli arretrati e condotta da tenere in sede processuale - Ordinanza n. 10769/12 della Corte di Cassazione. Nella nota n. 72149 del 27.02.2012 in materia di indennizzo ai soggetti danneggiati da vaccino e talidomidici (leggi 229/2005 e 244/07) - parere reso dal Comitato Consultivo in data 24.02.2012 - si è tra l'altro affrontato il problema della condotta da tenere relativamente alla liquidazione ai titolari di indennizzo ex art. 2 della Legge n. 210/92 degli importi arretrati dovuti a titolo di rivalutazione dell'Indennità Integrativa Speciale. Sia pure con le incertezze derivanti dalla complessità della materia e dagli orientamenti manifestati tanto dalla Corte regolatrice quanto dalla Corte Costituzionale, si era in quella sede suggerito di continuare a sostenere la tesi secondo la quale "la corresponsione degli arretrati a titolo di rivalutazione dell'IIS va limitata al solo periodo successivo alla data di entrata in vigore della legge 244/07 (1.1.08)" (cfr. lett. B) del parere, pag. 4 [Rass., 2012, I, 62]), argomentando sulla base del tertium comparationis prescelto dal Giudice delle leggi nella sentenza n. 293/11. A seguito della sopravvenuta pronuncia della Corte di Cassazione (Sez. VI, 27.06.2012, n. 10769), nella quale la questione è stata espressamente affrontata (sia pure in forma estremamente sintetica) e la tesi sopra brevemente riassunta è stata radicalmente disattesa, sembra oggi opportuno abbandonare definitivamente la stessa, omettendo di proporre impugnazioni sul punto o, ove possibile, rinunciando a quelle già proposte, ove siano state l'unico motivo di gravame. In tal senso si è espresso il Comitato Consultivo dell'Avvocatura dello Stato nella seduta del 19.7.2011. A tali linee di condotta le SSLL vorranno pertanto uniformarsi. L’AVVOCATO GENERALE DELLO STATO Avv. Ignazio Francesco Caramazza CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE Europa: l’unico continente che ha un contenuto Ignazio Francesco Caramazza* SOMMARIO: 1. Il significato dell’aforisma - 2. Radici comuni e fattori unificanti - 3. Gli Stati nazionali europei e la loro crisi - 4. Il processo di unificazione europea - 5. L’euro e le prospettive future. 1. Il significato dell’aforisma. L’affermazione del grande pensatore spagnolo Ortega y Gasset con cui ho voluto intitolare la mia conversazione credo sintetizzi meglio di qualunque altro assioma o argomento il paradosso europeo e cioè il paradosso di un continente che è, da un lato, un mosaico di nazioni divise da lingue, tradizioni, abitudini quanto mai diverse e da rivalità secolari, risoltesi sovente in guerre feroci che hanno dilaniato il continente per secoli; dall’altro - e contraddittoriamente - costituisce un aggregato reso omogeneo da radici comuni e da fattori unificanti che fanno dell’Europa non una mera espressione geografica ma un’unità culturale. Un’unità che rende altamente qualificante l’aggettivo “europeo”, quale che sia il sostantivo al quale si accompagna. 2. Radici comuni e fattori unificanti. Orbene, le più importanti radici comuni ed i principali fattori unificanti dell’Europa trovano il comune denominatore in Roma, nella sua storia e nella costante interferenza dei suoi valori con quelli europei, a partire da oltre due millenni addietro. (*) Avvocato generale dello Stato. Le argomentazioni illustrate dall’Autore all’incontro promosso dalla Fondazione Roma Europa - lunedì 10 settembre 2012, Museo dei Fiorentini - costituiscono il presente scritto. 40 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 Senza nessuna pretesa di completezza cercherò di individuarne i principali. La lingua, anzitutto, base di tutte le lingue europee neolatine e che ha, comunque, largamente influenzato anche tutte le altre, atteso che, per secoli, il latino è stata la coinè diálectos della scienza - e più in generale della cultura - e della religione. Il diritto, in secondo luogo: espressione di una scienza giuridica che non ha eguali nella storia e che ha ispirato - anche se in misura diversa - non solo tutti i paesi europei retti da un sistema di “civil law” ma che moltissimi apporti ha dato anche a quelli di “common law”. Non dimentichiamo che è a giuristi di common law che si deve la definizione del diritto romano come “written reason”, la ragione scritta! Quanto alle scienze diverse da quella giuridica, ve ne erano parecchie alle quali per oltre un millennio dopo la caduta dell’impero romano d’occidente gli europei hanno (o avrebbero) potuto utilmente attingere: dalla medicina, alla scienza delle costruzioni, all’astronomia, a tacer d’altro. Scienze tutte molto più avanzate rispetto al livello di conoscenza successivo, quanto meno fino a tutto il secolo XV. Per fare un solo esempio, Cristoforo Colombo non avrebbe sbagliato tanto clamorosamente i suoi calcoli sulle dimensioni della terra se avesse conosciuto gli studi di età romana che la avevano calcolata con un errore inferiore al 2% rispetto alla realtà. La religione, in terzo luogo: Qualunque fede o qualunque agnosticismo si professi, mi sembra indubitabile che il Cristianesimo rappresenti una fortissima radice culturale che ha informato di sé tutto il nostro continente. Papa Benedetto XVI ha di recente sottolineato che il Cristianesimo, pur essendo nato fuori dell’Europa, è in Europa che “ha ricevuto la sua impronta culturale ed intellettuale storicamente più efficace” ed è ovvio che, per questo aspetto, Roma ha giocato un ruolo fondamentale, operando, secondo la autorevole affermazione di Andrea Riccardi, come “la più grande capitale religiosa mondiale”. Credo che il senso profondo del vincolo di religione che lega tutti i paesi europei sia stato reso con perfetta intuizione poetica da uno dei padri fondatori dell’odierna Unione Europea, Robert Schuman quando ha parlato di “Europa delle cattedrali”. Il quarto e forse più importante fattore unificante, infine, non è qualcosa di concreto, ma la suggestione di un mito che condizionò per oltre un millennio la vita politica del continente europeo. Ogni epoca storica ha il suo modello politico di perfetta vita associata: per quasi cinque secoli il mondo civile era vissuto nella convinzione che l’impero romano fosse l’unico modello statuale valido, tanto è vero che, dopo il suo crollo, nel buio e nella confusione di un medio evo privo di punti di riferimento politici precisi, gli sforzi dei migliori furono tesi alla ricostituzione di quell’impero, cui l’affermarsi della Chiesa di Roma aveva aggiunto l’appellativo di Sacro. Quel “Sacro Romano Impero” che non era sacro, non era romano ma, so- CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 41 prattutto, non riuscì mai ad essere un impero. La notazione appena svolta consente di affermare che l’impero romano continuò ad informare di sé (non nella realtà ma nell’immaginario collettivo) il continente europeo per mille anni ancora dopo la caduta dell’impero romano di occidente, riaffermando il mito di Roma come elemento di coesione del continente. 3. Gli Stati nazionali europei e la loro crisi. È solo nel XVII secolo, infatti, che si consolidò - e venne teorizzata da Jean Bodin - una nuova forma di aggregazione politica, lo Stato nazionale, forma che ci ha accompagnato fino ai giorni nostri. Ebbene lo Stato nazionale come modello di entità politica è oggi in crisi. È giunto alla fine del suo ciclo vitale, come già profetizzava anni fa Massimo Severo Giannini ed è pronto a cedere il passo a nuove forme di aggregazione politica. Credo proprio che il crollo del muro di Berlino con quel che lo ha accompagnato e seguito, se non ha segnato la fine della storia, ha messo, però, fine a quel terribile “secolo breve” che ci ha descritto Hobsbawm ed ha accelerato il processo di decomposizione degli Stati nazionali. Gli Stati nazionali di relativamente piccole dimensioni, come sono tutti gli Stati europei, si vedono, infatti, esposti a due fenomeni contrapposti. Da un lato lo sgretolamento dal basso per effetto delle spinte autonomistiche portate dal malessere rivendicativo di un localismo esagerato, fenomeno, questo, non solo italiano ma ormai fenomeno endemico europeo. I casi della Spagna, dell’Inghilterra, del Belgio, della ex Cecoslovacchia, persino della supercentralistica Francia sono sotto i nostri occhi. Dall’altro devono fare i conti con la necessaria aggregazione in strutture di dimensioni tendenzialmente continentali e di tipo confederale, per poter contrastare gli effetti della globalizzazione. È questo il caso dell’Unione Europea, che, però, nonostante l’ammirevole tempestività del suo avvio, che precorse di quasi mezzo secolo le attuali emergenze, si trova, oggi, a metà del guado mentre soffiano, oltre ai venti di tempesta della globalizzazione, anche i venti di guerra di una finanza internazionale disancorata non solo da qualsiasi principio etico, il che non sorprende, ma anche da un retroterra economico proporzionato alla “potenza di fuoco” che quella finanza riesce ad esprimere (grazie a sofisticatissimi strumenti che sviluppano un “effetto leva”) e tale da mettere in ginocchio le economie di Stati sovrani. 4. Il processo di unificazione europea. Occorre convenire, come si è già accennato, che la classe politica europea del secondo dopoguerra era stata lungimirante adoperandosi, con mezzo secolo di anticipo sulla crisi attuale, per la creazione di strutture sopranazionali. 42 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 Raccogliendo l’eredità risorgimentale di Mazzini, Gioberti e Cattaneo e quella fra le due grandi guerre di Aristide Briand, di Luigi Einaudi e di Altiero Spinelli, i più eminenti e lungimiranti uomini politici del secondo dopoguerra - Adenauer in Germania, Spaak in Belgio, Schuman e Monnet in Francia, Bech in Lussemburgo, De Gasperi e Sforza in Italia - gettarono le basi dell’attuale costruzione europea. I tre trattati originari furono sottoscritti, come è noto, nel 1957 e, non a caso, a Roma, ancora una volta chiamata alla sua vocazione europea, senza però riuscire a dar vita, se non in prospettiva di lontano futuro, ad una integrazione politica di stato federale o almeno confederale. I progressi, come è noto, sono stati lentissimi ed assai limitate le cessioni di sovranità degli Stati nazionali all’Unione, cessioni limitate principalmente a settori normativi, soprattutto in campo economico, ed alla funzione giurisdizionale, per quanto di competenza della Corte di Giustizia dell’Unione. Come è noto la normativa europea prevale su quella interna che, se contrastante, deve essere disapplicata dal giudice nazionale e la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea fa stato all’interno degli Stati membri. Il che incide anche in settori assai delicati e sensibili, che trascendono e non di poco il mero dato economico, quali ad esempio la responsabilità dello Stato per attività dei magistrati. Tema, questo, che revoca in dubbio la legittimità dell’attuale normativa nazionale sulla responsabilità civile dei magistrati (legge 13 aprile 1988 n. 117). L’art. 2, comma 2 di detta legge recita infatti che: “Nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove”. Tale principio è stato derogato per i casi di violazione del diritto comunitario: nella sentenza 13 giugno 2006 emessa nella causa C-173/03 “Traghetti del Mediterraneo”, relativa proprio alla legge citata, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha affermato che: “Il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un’interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale. Il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente, quale precisata ai punti 53-56 della sentenza 30 settembre 2003, causa C-224/01, Kobler”. Come è evidente, tale sentenza esige una revisione della normativa nazionale nella materia della responsabilità conseguente a cattivo uso del potere CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 43 giudiziario, materia che, come è noto, tocca non pochi nervi scoperti. Lo stesso dicasi per un’altra Corte Sopranazionale, quella dei Diritti dell’Uomo, incardinata non nell’ordinamento dell’Unione Europea ma in quello nascente dalla Carta Europea dei Diritti dell’Uomo, della cui violazione chiama gli Stati a rispondere (e che in vista di una evoluzione prossima futura non potrà non diventare parte delle future strutture europee). Anche questa Corte interviene su temi quanto mai delicati. Ricordo come importante un caso recente relativo all’Italia, quello del Crocefisso nelle aule scolastiche, e come caso recentissimo la sentenza che ha dichiarato violatrice della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo la legge italiana in materia di procreazione medicalmente assistita (legge 19 febbraio 2004 n. 40) nella parte in cui non consente la diagnosi preimpianto degli embrioni fecondati, diagnosi volta ad evitare la gestazione di feti portatori di malattie ereditarie. Ho citato questi due casi solo per dimostrare come le cessioni di sovranità degli Stati membri all’Europa siano state tutt’altro che irrilevanti, idonee come sono ad incidere su materie altamente sensibili e non è quindi utopistico sperare che si possano compiere ulteriori passi su questa via. 5. L’euro e le prospettive future. Un ulteriore rilevantissimo passo avanti nel cammino sulla via delle cessioni di sovranità è stato, poi, fatto, dall’Unione Europea nel passaggio di millennio con la cessione della sovranità monetaria degli Stati e cioè con la creazione dell’euro. Alcuni economisti segnalarono come l’operazione fosse affetta dal vizio dell’usteron proteron, in quanto è sbagliato costruire un edificio cominciando dal tetto ed è quindi fragile un’unione monetaria che non abbia la solida base di una previa unione politica. Si rispose che l’attuazione dell’euro avrebbe obbligato necessariamente gli Stati membri a procedere ad una rapida unificazione politica. Come ben sappiamo oggi, con il senno di poi, la rapida unificazione politica non vi è stata, l’euro ha funzionato benissimo finchè la temperie economica ha volto al bello ma ha mostrato tutta la sua debolezza in tempi di crisi finanziaria ed economica della gravità di quella che soffriamo in questi anni. Si è visto, infatti, come i debiti sovrani degli Stati europei aderenti all’euro possano essere impunemente aggrediti dalla finanza internazionale e si è capito che un debito sovrano, per essere al sicuro, deve avere alle spalle una sovranità non solo monetaria ed una banca centrale che funga da prestatore di ultima istanza, quale non è la Banca Centrale Europea. Illuminante l’esempio del Giappone che, pur avendo un debito sovrano quasi doppio di quello italiano e di oltre una volta e mezzo quello greco, rispetto ai rispettivi PIL vede la propria moneta, lo yen, al riparo da qualunque attacco speculativo. 44 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 Come sappiamo i governi europei ed i competenti organismi dell’Unione si stanno muovendo per correre ai ripari e porre l’euro in sicurezza, ed il nostro Governo - et pour cause - è in prima linea in questa guerra per una fulminea accelerazione del processo di integrazione politica. Consentitemi di concludere citando la previsione ottimistica che ha fatto di recente Moavero Milanesi, il nostro Ministro per le politiche europee, il quale ha vaticinato il possibile prossimo futuro acquisto da parte di Roma di un ulteriore merito europeistico: quello di saper sfruttare l’attacco al proprio debito sovrano per dare con successo impulso al compimento prossimo venturo del processo di integrazione europea, che dovrà culminare non solo nel salvataggio dell’euro, ma anche nella nascita degli Stati Uniti d’Europa. Mi auguro di tutto cuore che il Ministro Moavero abbia ragione. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 45 La Corte Internazionale di Giustizia si pronuncia sul principio dell’immunità degli Stati dalla giurisdizione Luca Ventrella* Laura Zoppo** SOMMARIO: 1.- Il principio dell’immunità degli Stati dalla giurisdizione nel diritto internazionale: brevi cenni. 2.- La recente giurisprudenza della Corte di Cassazione italiana: la sentenza Ferrini. 3.- (Segue): alcune ulteriori applicazioni dei principi sanciti nella sentenza Ferrini. 4.- (Segue): la sentenza Milde. 5.- Il giudizio avanti alla Corte Internazionale di Giustizia: il ricorso depositato dalla Germania e la domanda riconvenzionale proposta dall’Italia. 6.- (Segue): la decisione della Corte. 7.- (Segue): le opinioni dissenzienti di alcuni giudici. 8.- L’esecuzione della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia. Prime applicazioni: sentenza del Tribunale di Firenze in data 14 marzo 2012. 9.- (Segue): il ruolo dell’Avvocatura dello Stato. 1. Il principio dell’immunità degli Stati dalla giurisdizione nel diritto internazionale: brevi cenni. La norma di diritto internazionale generale in merito all’immunità degli Stati dalla giurisdizione trae origine dal principio di naturale uguaglianza degli Stati sovrani (“par in parem non habet iudicium” ). In ossequio al suddetto principio, è a lungo prevalsa una concezione “assoluta” dell’immunità e solo dopo la fine della prima guerra mondiale si è avuta, ad opera della giurisprudenza italiana e di quella belga, l’elaborazione della teoria dell’immunità “ristretta” o “relativa”, basata sulla distinzione tra atti jure imperii e atti jure gestionis (1). Mentre per i primi, che implicano l’esercizio di funzioni pubbliche statali, resta valida l’esenzione degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile dello Stato territoriale, per i secondi, di carattere strettamente privatistico, tale esenzione viene meno. La regola dell’immunità ristretta era, fino a poco tempo fa, pacificamente riconosciuta e ad essa risulta ispirata anche la Convenzione della Nazioni Unite sull’immunità giurisdizionale degli Stati e dei loro beni, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 21 dicembre 2004 ma non ancora entrata in vigore. (*) Avvocato dello Stato. (**) Dottore di ricerca in Diritto internazionale e dell’Unione europa, già praticante presso l’Avvocatura dello Stato. (1) La ragione di questa inversione di tendenza va ricercata nella sempre maggiore partecipazione degli Stati ad attività imprenditoriali e commerciali, la quale incominciò a quell’epoca a far dubitare che la vecchia norma sull’immunità assoluta potesse coprire anche le controversie relative all’esercizio delle suddette attività privatistiche. V. CONFORTI B., Diritto internazionale, ottava edizione, Napoli, 2010, pp. 252-253. 46 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 2. La recente giurisprudenza della Corte di Cassazione italiana: la sentenza Ferrini. Con la nota sentenza Ferrini (2), la Corte di Cassazione italiana ha dato avvio ad una nuova inversione di tendenza in tema di immunità degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile. La controversia riguardava la richiesta di risarcimento avanzata nei confronti della Repubblica Federale di Germania da un cittadino italiano che nel 1944, durante l’occupazione nazista in Italia, era stato deportato e sottoposto ai lavori forzati. Ebbene, in tale occasione la Corte ha negato allo Stato convenuto l’immunità dalla giurisdizione italiana ritenendo che il principio dell’immunità giurisdizionale degli Stati stranieri non possa operare in presenza della violazione di norme di jus cogens, e in particolare di quelle norme che attengono al rispetto della dignità umana e dei diritti inviolabili della persona. Preliminarmente, la Cassazione ha riconosciuto l’esistenza di una norma consuetudinaria di diritto internazionale che impone a ciascuno Stato l’obbligo di astenersi dall’esercitare il potere giurisdizionale nei confronti degli atti jure imperii degli altri Stati ed ha ammesso altresì che gli atti a suo tempo compiuti dalla Germania costituissero espressione della sua potestà d’imperio, in quanto posti in essere nel corso di operazioni belliche. E tuttavia, secondo la Corte, i suddetti atti erano tali da integrare dei veri e propri crimini internazionali, in quanto consistenti “nella violazione, particolarmente grave per intensità o sistematicità (...), dei diritti fondamentali della persona umana, la cui tutela è affidata a norme inderogabili che si collocano al vertice dell’ordinamento internazionale, prevalendo su ogni altra norma, sia di carattere convenzionale che consuetudinario (...) e, quindi, anche su quelle in tema di immunità” (3). In altri termini, le Sezioni Unite, riscontrata una “antinomia” tra diversi gruppi di norme, tutti appartenenti al diritto internazionale consuetudinario, l’ha risolta dando prevalenza alle norme di rango più elevato, ossia quelle imperative in tema di tutela dei diritti fondamentali, rispetto a quelle considerate inferiori, cioè quelle sull’immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione (4). Ha ritenuto infatti la Suprema Corte che il rispetto dei diritti inviolabili della persona umana abbia ormai assunto il valore di principio fondamentale dell’ordinamento internazionale e, come tale, non possa non riflettersi sulla portata degli altri principi ai quali tale ordinamento è tradizionalmente ispirato: (2) Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 5044 del 11 marzo 2004, Ferrini c. Repubblica Federale di Germania, in Giur. it., 2005, p. 250 ss. V. in proposito GIANELLI A., Crimini internazionali ed immunità degli Stati dalla giurisdizione nella sentenza Ferrini, in Riv. dir. internaz., 2004, n. 3, p. 643 ss. (3) Sentenza n. 5044, cit., par. 9. (4) La Cassazione segue sostanzialmente l’opinione dei giudici di minoranza annessa alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 21 novembre 2001 nel caso Al-Adsani c. Regno Unito, reperibile sul sito web della Corte all’indirizzo www.echr.coe.int (ric. 35763/97). CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 47 in particolare, di quello sulla “sovrana uguaglianza” degli Stati, cui si ricollega il riconoscimento dell’immunità statale dalla giurisdizione civile straniera. 3. (Segue): alcune ulteriori applicazioni dei principi sanciti nella sentenza Ferrini. Il principio della derogabilità della norma sull’immunità degli Stati dalla giurisdizione in caso di crimini internazionali, affermato per la prima volta nel caso Ferrini, ha trovato ulteriore applicazione nella giurisprudenza successiva della Cassazione. Con tredici ordinanze del 29 maggio 2008 (nn. 14200-14212), le Sezioni Unite si sono pronunciate su altrettante domande di regolamento preventivo di giurisdizione proposte dalla Repubblica Federale di Germania relativamente alle richieste di risarcimento danni avanzate da alcuni cittadini italiani (e dai loro eredi) deportati in Germania durante la seconda guerra mondiale per essere utilizzati quale mano d’opera non volontaria al servizio di imprese tedesche (5). In esse, la Corte ha affermato la sussistenza della giurisdizione nazionale, ribadendo che non può riconoscersi l’immunità dalla giurisdizione civile degli Stati stranieri per gli atti jure imperii che siano configurabili come crimini contro l’umanità. Più in dettaglio, la Cassazione si è dichiarata consapevole del fatto che non esista, allo stato, una sicura ed esplicita consuetudine internazionale per cui il principio dell’immunità dello Stato straniero dalla giurisdizione civile per gli atti dal medesimo compiuti jure imperii possa ritenersi derogato a fronte di atti di gravità tale da configurarsi come crimini contro l’umanità. Nondimeno, essa ha ritenuto che un principio limitativo dell’immunità dello Stato che si sia reso autore di crimini contro l’umanità possa presumersi “in via di formazione”, e si è detta cosciente di contribuire, con le proprie decisioni, all’emersione di tale nuova regola conformativa dell’immunità dello Stato estero, ritenuta comunque già insita nel sistema dell’ordinamento internazionale. Secondo la Suprema Corte, la norma consuetudinaria di diritto internazionale che impone agli Stati l’obbligo di astenersi dall’esercitare il potere giurisdizionale nei confronti degli Stati stranieri non può, dunque, essere invocata in presenza di comportamenti dello Stato straniero tali da ledere quei valori universali di rispetto della dignità umana, i quali, trascendendo gli interessi delle singole comunità statali, segnano il punto di rottura dell’esercizio (5) Le citate ordinanze sono formulate in termini essenzialmente analoghi. Basti, quindi, considerarne una per tutte. Si veda, in particolare, Cassazione, Sezioni Unite, ordinanza n. 14201 del 29 maggio 2008, Repubblica Federale di Germania c. Mantelli e altri; Daimlerchrysler c. Mantelli e altri, in Riv. dir. internaz. priv. proc., 2009, n. 3, p. 651 ss. Cfr. in proposito FOCARELLI C., Diniego dell’immunità giurisdizionale degli Stati stranieri per crimini, jus cogens e dinamica del diritto internazionale, in Riv. dir. internaz., 2008, n. 3, p. 738 ss.; DE VITTOR F., Immunità degli Stati dalla giurisdizione e risarcimento del danno per violazione dei diritti fondamentali: il caso Mantelli, in DUDI, 2008, n. 3, p. 632 ss. 48 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 tollerabile della sovranità. Sempre in data 29 maggio 2008, le Sezioni Unite si sono espresse anche in merito al riconoscimento in Italia di una sentenza greca del 2000 che condannava la Germania al pagamento delle spese processuali relative al giudizio intentato dalle vittime del massacro di Distomo, perpetrato dalle forze armate del Reich nel 1944 (6). La Repubblica Federale di Germania aveva infatti impugnato la sentenza del 20 marzo 2007 della Corte d’appello di Firenze, che respingeva l’opposizione da essa proposta avverso il decreto concessorio di exequatur alla sentenza della Suprema Corte greca. In questo caso, quindi, la questione dell’esistenza o meno dell’immunità dello Stato tedesco dalla giurisdizione civile è stata affrontata al fine di accertare l’esistenza dei requisiti per la riconoscibilità ed eseguibilità della sentenza greca in Italia (7). In particolare, la Germania aveva sostenuto la carenza di tali requisiti per contrarietà della sentenza stessa all’ordine pubblico interno. La Cassazione ha però disatteso questo argomento, ritenendo che:“la non estensibilità della immunità dalla giurisdizione civile degli Stati stranieri agli atti iure imperi di questi configurabili come crimini contro l’umanità (...) lungi dal porsi in contrasto, è perfettamente invece in sintonia con il principio già enunciato da questa Corte a Sezioni unite, con la sentenza n. 5044 del 2004” (8). 4. (Segue): la sentenza Milde. Successivamente, la Corte di Cassazione ha avuto modo di tornare sulla questione dell’immunità degli Stati dalla giurisdizione nella decisione relativa al cd. caso Milde (9). (6) Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 14199 del 29 maggio 2008, Repubblica Federale di Germania c. Amministrazione regionale della Vojotia, in Riv. dir. internaz. priv. proc., 2009, n. 2, p. 425 ss. V. FRANZINA P., Norme sull’efficacia delle decisioni straniere e immunità degli Stati dalla giurisdizione civile, in caso di violazioni gravi dei diritti dell’uomo, in DUDI, 2008, n. 3, p. 638 ss.; LOPES PEGNA O., Riconoscimento automatico delle sentenze straniere e immunità degli Stati dalla giurisdizione civile, in Riv. dir. internaz., 2009, n. 3, p. 796 ss. (7) Si trattava di stabilire, tra l’altro, se tale sentenza potesse essere dichiarata esecutiva nel nostro Paese a dispetto del fatto che la stessa risultasse ineseguibile in Grecia per mancanza dell’autorizzazione ministeriale richiesta dall’art. 923 del codice di rito greco ai fini dell’adozione di misure coercitive verso Stati stranieri. Sul punto, la Corte ha affermato che: “[d]etta norma (...) attiene, infatti, alla fase contingente della esecuzione forzata, ma non condiziona né elimina – ed anzi presuppone – la previa acquisizione di efficacia esecutiva della sentenza contro Stato straniero, la cui concreta esecuzione ben può essere quindi attuata in un successivo diverso contesto temporale e/o spaziale”. Sentenza n. 14199, cit., par. 5.1. (8) Ibidem, par. 5.2. (9) Cassazione, Sezione I penale, sentenza n. 1072 del 13 gennaio 2009, Repubblica Federale di Germania e altro, in Riv. dir. internaz. priv. proc., 2009, n. 3, p. 685 ss. Cfr. SERRANÒ G., Immunità degli Stati stranieri e crimini internazionali nella recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, ivi, p. 605 ss.; FRULLI M., La ‘derogabilità’ della norma sull’immunità degli Stati dalla giurisdizione in caso di crimini internazionali: la decisione della Corte di Cassazione sulla strage di Civitella della Chiana, in DUDI, 2009, n. 2, p. 442 ss. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 49 Il 10 ottobre 2006 il Tribunale militare di La Spezia aveva condannato all’ergastolo Max Josef Milde, che all’epoca dei fatti contestati era sergente della divisione paracadutisti corazzata “Hermann Göring”, per il delitto di violenza con omicidio contro privati nemici, pluriaggravata e continuata, riconoscendolo colpevole dell’uccisione di più di duecento persone, tra le quali anziani, donne e bambini, nell’ambito dell’ampia operazione di rastrellamento contro i partigiani e la popolazione civile realizzata dalle truppe tedesche nei territori dei comuni di Civitella in Val di Chiana, di Cornia e di San Pancrazio nella giornata del 29 giugno 1944, come rappresaglia per l’attacco compiuto dai partigiani contro alcuni membri delle forze occupanti nei giorni precedenti. La Repubblica Federale di Germania era stata citata in giudizio dai familiari delle vittime, costituitisi parte civile nel processo penale, e condannata in solido con l’imputato al risarcimento dei danni. La condanna era stata poi confermata dalla Corte militare di appello con sentenza del 18 dicembre 2007. La Germania, nella sua qualità di responsabile civile, ha quindi proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza. Giova precisare che l’Avvocatura dello Stato, costituitasi anch’essa parte civile per la Presidenza del Consiglio dei Ministri nell’ambito del procedimento militare a carico del Milde, nei confronti dell’imputato medesimo, non ha avanzato invece alcuna richiesta di risarcimento nei confronti della Repubblica Federale di Germania quale responsabile civile (così come non lo ha fatto in nessuno degli altri processi che si sono recentemente tenuti davanti ai giudici militari per accertare le personali responsabilità di alcuni ex soldati tedeschi relativamente alle stragi compiute in varie zone del centro Italia dall’esercito nazista in ritirata nell’estate del 1944). Appare inoltre utile riepilogare brevemente le argomentazioni poste dalla difesa della Germania a fondamento del proprio ricorso. Innanzitutto, si è sostenuta l’inammissibilità e l’improponibilità dell’azione civile per il risarcimento dei danni in relazione alla violazione degli obblighi internazionali assunti dall’Italia con l’art. 77 del Trattato di pace del 1947, con gli accordi italo-tedeschi di Bonn del 1961 e con le relative leggi interne di recepimento (10), in forza della rinuncia compiuta con tali atti dallo Stato italiano, anche a nome dei propri cittadini, a fare valere rivendicazioni di carattere economico nei confronti dello Stato tedesco per fatti legati al secondo conflitto bellico. Inoltre, si è ritenuto che l’esercizio della giurisdizione civile italiana fosse precluso dalla piena operatività, nel caso di specie, della norma che sancisce l’immunità degli Stati dalla giurisdizione straniera, negandosi, quindi, che il principio dell’accesso alla giurisdizione civile per la vittima di gravi violazioni dei diritti umani prevalga rispetto alla regola dell’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile, anche alla luce di alcune decisioni sia di tribunali stranieri (10) Rispettivamente d.lgs. 28 novembre 1947, n. 1430 e D.P.R 14 aprile 1962, n. 1263. 50 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 che di corti internazionali (11). La Suprema Corte ha rigettato entrambi i motivi di ricorso. In particolare, i giudici hanno riaffermato con chiarezza l’orientamento ermeneutico abbracciato nella sentenza n. 5044 del 2004 e ribadito nelle decisioni successive sopra citate. A proposito del richiamo operato dalla ricorrente alle varie pronunce emesse dalle Corti supreme di altri ordinamenti, nelle quali è stato attribuito al principio dell’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile un valore assoluto, la Cassazione ha ritenuto di dover sottolineare come “la soluzione della questione dibattuta non possa corrispondere ad un esito di tipo meramente quantitativo e non possa dipendere, perciò, soltanto dal numero, maggiore o minore, delle decisioni che aderiscono all’una o all’altra posizione” (12). Secondo la Corte, infatti, “se è vero che l’esame della prassi dei tribunali dei vari Stati costituisce uno strumento importante per l’accertamento del vigore delle norme consuetudinarie di diritto internazionale, è non di meno certo che il compito dell’interprete non può ridursi ad un computo aritmetico dei dati desunti dalla prassi” (13). Per la Suprema Corte, la questione si risolve piuttosto nello stabilire quale sia il corretto coordinamento tra norme consuetudinarie di differente consistenza qualitativa. Un coordinamento che, sul piano sistematico, non può che basarsi sul criterio del bilanciamento degli interessi, con prevalenza del principio di rango più elevato. Pertanto - ha affermato la Cassazione - il principio consuetudinario dell’immunità giurisdizionale degli Stati non ha una portata assoluta e indiscriminata, ma è destinato a rimanere inoperante nelle fattispecie (11) Per quanto riguarda i tribunali nazionali di altri Stati, si richiama in primo luogo la sentenza del 17 settembre 2002 con cui il Supremo Tribunale Speciale greco ha riformato il principio precedentemente espresso nella decisione della Suprema Corte greca del 2000, sopra indicata (la quale aveva negato alla Germania la possibilità di usufruire dell’immunità dalla giurisdizione civile, ritenendo che lo stesso carattere cogente riconosciuto dagli Stati a certe norme presupponga di per sé una rinuncia implicita all’immunità). Si cita poi la Corte federale di Cassazione tedesca del 26 giugno 2003, che, in più ricorsi presentati contro la Repubblica Federale di Germania da cittadini greci, ha escluso che l’interpretazione restrittiva del principio di immunità degli Stati territoriali nel caso di violazioni di norme di jus cogens costituisca diritto internazionale vigente. E ancora, si ricorda la sentenza del 16 dicembre 2003 della Corte di Cassazione francese relativa ad una fattispecie avente ad oggetto il ricorso di un cittadino francese condotto in Germania durante la seconda guerra mondiale come lavoratore forzato, la quale ha confermato l’applicazione del principio dell’immunità ristretta operata dalla Corte di Appello di Parigi. Si menzionano, infine, la pronuncia del 15 febbraio 2006 della Corte costituzionale tedesca, e da ultimo la sentenza del 14 giugno 2006 della House of Lords, che ha nuovamente ribadito l’applicazione della regola dell’immunità dalla giurisdizione civile anche in caso di gravi violazioni dei diritti umani. Per ciò che concerne, invece, la giurisprudenza dei tribunali internazionali, il riferimento è a tre decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, che hanno ribadito l’applicabilità della regola dell’immunità pur in presenza di violazioni di norme di jus cogens (Al-Adsany c. Regno Unito, sentenza del 21 gennaio 2001, caso n. 35763/97; Mc.Elhinney, sentenza del 21 novembre 2001; Kalogeropoulou e altri c. Grecia e Germania, decisione del 12 dicembre 2002, caso n. 59021/00). (12) Sentenza n. 1072, cit., par. 4. (13) Ibidem. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 51 nelle quali con esso concorra il principio di diritto internazionale consuetudinario che legittima l’esercizio dei mezzi di tutela apprestati per la reintegrazione dei danni provocati da crimini internazionali originati da gravi lesioni dei diritti inviolabili della persona umana. La Corte ha altresì disatteso le eccezioni formulate dalla ricorrente sulla base dell’art. 77 del Trattato di pace del 1947, ritenendo inapplicabile alla fattispecie la regolamentazione posta dal detto Trattato, di cui la Repubblica Federale di Germania non è parte e la cui disciplina riguarda diritti di natura reale relativi a danni materiali e non anche i danni morali che devono essere risarciti ai familiari delle vittime di crimini di guerra. Parimenti priva di fondamento - secondo la Cassazione - è la censura diretta a denunciare la violazione degli accordi di Bonn del 1961. Tali accordi miravano infatti alla definizione di “tutte le rivendicazioni e richieste della Repubblica Italiana, o di persone fisiche o giuridiche italiane, ancora pendenti nei confronti della Repubblica Federale di Germania o nei confronti di persone fisiche o giuridiche tedesche” (art. 2, comma 1), e risultano pertanto inapplicabili ad una controversia non ancora pendente, perché neppure iniziata alla data di stipulazione della convenzione tra i due Stati. 5. Il giudizio avanti alla Corte Internazionale di Giustizia: il ricorso depositato dalla Germania e la domanda riconvenzionale proposta dall’Italia. La Repubblica Federale di Germania si è rivolta alla Corte Internazionale di Giustizia depositando un ricorso il 23 dicembre 2008 al fine di fare accertare e dichiarare la violazione da parte dell’Italia dei suoi obblighi internazionali per non aver rispettato l’immunità giurisdizionale di cui la Germania gode ai sensi del diritto internazionale (14). Oltre a contestare all’Italia il mancato rispetto dell’immunità dello Stato tedesco dalla giurisdizione contenziosa, la Germania ha lamentato anche la violazione delle norme internazionali in materia d’immunità dalla giurisdizione esecutiva per avere le autorità italiane consentito l’iscrizione di un’ipoteca giudiziale su Villa Vigoni (un bene immobile di proprietà tedesca sito in Italia ed utilizzato per fini governativi non commerciali). Infine, essa ha fatto (14) Caso relativo alle immunità giurisdizionali dello Stato (Germania c. Italia), Ricorso della Repubblica Federale di Germania del 23 dicembre 2008, reperibile (come gli altri documenti relativi alla controversia de qua di seguito citati) sul sito web della Corte all’indirizzo www.icj-cij.org. V. ampiamente MARONGIU BUONAIUTI F., Azioni risarcitorie per la commissione di crimini internazionali ed immunità degli stati dalla giurisdizione: la controversia tra la Germania e l’Italia innanzi alla Corte internazionale di giustizia, in DUDI, 2011, n. 5, p. 232 ss. La giurisdizione della Corte Internazionale di Giustizia si fondava, nel caso di specie, sull’art. 1 della Convenzione europea per il regolamento pacifico delle controversie del 29 aprile 1957. Quanto alle questioni di ammissibilità, la Germania ha sottolineato, tra l’altro, come non vi fosse alcuna necessità di procedere all’esaurimento delle vie di ricorso interne, agendo essa nell’esercizio di diritti suoi propri e non in protezione diplomatica in favore dei cittadini tedeschi. 52 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 valere l’illegittimità della concessione in Italia dell’exequatur dei provvedimenti giudiziari greci che avevano accolto alcune pretese risarcitorie avanzate nei confronti della medesima Repubblica Federale. A fondamento delle proprie argomentazioni, la ricorrente ha posto soprattutto la circostanza che la stessa Corte di Cassazione avesse riconosciuto di non essersi limitata ad applicare una norma di diritto internazionale attualmente vigente, ma di avere inteso contribuire allo sviluppo di una consuetudine “in formazione”, così ammettendo che, nell’affermare un’interpretazione restrittiva dell’immunità giurisdizionale, aveva di fatto violato i diritti spettanti allo Stato tedesco. La Germania ha quindi concluso domandando alla Corte l’accertamento della responsabilità internazionale dell’Italia e la declaratoria del suo obbligo di assicurare con ogni mezzo che in futuro i tribunali italiani non ammettano più domande risarcitorie contro lo Stato tedesco per i fatti di cui al secondo conflitto mondiale e di garantire che tutte le decisioni già pronunciate dai tribunali e dalle corti italiane in violazione dell’immunità sovrana della Germania non possano più trovare esecuzione. Nella propria memoria difensiva, l’Italia ha presentato alla Corte una domanda riconvenzionale, chiedendo di accertare la responsabilità della ricorrente per violazione dell’obbligo di risarcimento nei confronti delle vittime italiane dei crimini commessi dalla Germania nazista durante la seconda guerra mondiale e di condannarla ad offrire a tali vittime adeguata riparazione (15). Con ordinanza del 6 luglio 2010, la Corte Internazionale di Giustizia ha però ritenuto che la predetta domanda esulasse dall’ambito della propria giurisdizione e l’ha pertanto dichiarata irricevibile (16). 6. (Segue): la decisione della Corte La decisione finale della Corte si è avuta il 3 febbraio 2012 ed ha ritenuto fondato il ricorso tedesco in relazione a tutti i motivi (17). Innanzitutto, è stata disattesa la tesi avanzata dalla difesa italiana basata (15) Caso relativo alle immunità giurisdizionali dello Stato (Germania c. Italia), Contro memoria dell’Italia del 22 dicembre 2009. (16) Più in dettaglio, si è ritenuto che la questione sottoposta alla Corte per mezzo della domanda riconvenzionale, riferendosi a fatti e situazioni esistenti prima dell’entrata in vigore della Convenzione europea per il regolamento pacifico delle controversie, si ponesse al di fuori del campo di applicazione temporale della Convenzione stessa. V. Immunità giurisdizionali dello Stato (Germania c. Italia), Ordinanza del 6 luglio 2010, par. 30. (17) Immunità giurisdizionali dello Stato (Germania c. Italia), Sentenza del 3 febbraio 2012. Per un primo commento alla sentenza si veda: PADELLETTI M. L., L’esecuzione della sentenza della Corte internazionale di giustizia sulle immunità dalla giurisdizione nel caso Germania c. Italia: una strada in salita?, destinato alla pubblicazione in Riv. dir. internaz., già consultabile sul sito web della Società italiana di diritto internazionale (SIDI) alla pagina www.sidi-isil.org/?page_id=119, nell’ambito del forum dedicato alla discussione della sentenza. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 53 sul c.d. territorial tort principle, secondo cui il diritto internazionale consuetudinario escluderebbe ormai la concessione dell’immunità giurisdizionale in relazione ad atti dello Stato che comportino la morte o la lesione di persone fisiche o comunque cagionino un danno a beni situati nel territorio dello Stato del foro, anche se si tratta di atti jure imperii. A sostegno di questa tesi, l’Italia aveva richiamato, in particolare, l’art. 11 della Convenzione europea sull’immunità degli Stati del 1972 e l’art. 12 della Convenzione della Nazioni Unite sull’immunità giurisdizionale degli Stati e dei loro beni del 2004 (18). Tuttavia, la Corte ha ritenuto che il citato art. 11 dovesse essere letto in combinato disposto con l’art. 31 della Convenzione europea, ai sensi del quale “nessuna disposizione della presente Convenzione tocca le immunità o i privilegi di cui gode uno Stato Contraente per quanto concerne qualsiasi atto od omissione delle proprie forze armate o in relazione con le stesse, quando esse si trovino sul territorio di un altro Stato Contraente”. Tale norma, operando come una vera e propria clausola di salvezza, esclude quindi dal campo di applicazione della Convenzione tutti i procedimenti relativi agli atti di forze armate straniere, con il risultato che l’immunità di uno Stato in relazione ai suddetti atti esula completamente dall’ambito della Convenzione e deve essere determinata con riferimento al diritto internazionale generale. Inoltre, benché la Convenzione delle Nazioni Unite non contenga alcuna disposizione espressa che escluda gli atti delle forze armate dal suo campo di applicazione, tuttavia il commento della Commissione del diritto internazionale al testo dell’articolo 12 stabilisce che tale disposizione non si applica alle situazioni di conflitto armato. La Corte ha preso poi in esame la prassi dei tribunali dei vari Stati in materia d’immunità dello Stato in relazione agli atti delle forze armate (19). Sono state richiamate, in primo luogo, le decisioni della Corte di Cassazione francese nella cause intentate da alcuni cittadini deportati durante l’occupazione tedesca, che hanno costantemente riconosciuto alla Germania il diritto all’immunità. Sono state poi citate le decisioni delle Corti Supreme della Polonia e della Slovenia, che hanno ugualmente concesso alla Germania l’immunità ri- (18) L’art. 11 della Convenzione europea sull’immunità degli Stati recita: “[u]no Stato Contraente non può invocare l’immunità dalla giurisdizione dinnanzi a un tribunale di un altro Stato Contraente se il procedimento concerne il risarcimento di un danno alla persona o materiale risultante da un fatto intervenuto sul territorio dello Stato del foro e se l’autore del danno era ivi presente al momento in cui tale fatto è intervenuto ”. Analogamente, l’art. 12 della Convenzione della Nazioni Unite dispone: “[u]nless otherwise agreed between the States concerned, a State cannot invoke immunity from jurisdiction before a court of another State which is otherwise competent in a proceeding which relates to pecuniary compensation for death or injury to the person, or damage to or loss of tangible property, caused by an act or omission which is alleged to be attributable to the State, if the act or omission occurred in whole or in part in the territory of that other State and if the author of the act or omission was present in that territory at the time of the act or omission”. (19) Sentenza della Corte, cit., par. 72 ss. 54 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 spetto ad atti illeciti commessi sul loro territorio dalle forze armate tedesche durante la seconda guerra mondiale. Infine, si è ricordato come i tribunali tedeschi abbiano escluso che il territorial tort principle possa far venir meno il diritto di uno Stato all’immunità ai sensi del diritto internazionale per gli atti commessi dalle sue forze armate, anche se i fatti sono avvenuti sul territorio dello Stato del foro. L’unico Stato in cui vi è una prassi giurisprudenziale che sembra sostenere la tesi italiana è la Grecia. E tuttavia, il Supremo Tribunale Speciale greco nel 2002 ha rovesciato il principio precedentemente affermato dalla Suprema Corte greca, riconoscendo il diritto della Germania all’immunità e negando che il territorial tort principle sia applicabile agli atti delle forze armate di uno Stato nello svolgimento dei conflitti armati. Su tali basi, la Corte ha quindi ritenuto che il diritto consuetudinario internazionale continui ad esigere che ad uno Stato sia concessa l’immunità nei procedimenti attinenti agli illeciti commessi sul territorio di un altro Stato dalle sue forze armate nel corso di un conflitto. Inoltre, per la Corte è da respingere anche l’ulteriore tesi sostenuta dalla difesa italiana, secondo la quale alla Germania non andava concessa l’immunità in ragione della particolare natura degli atti che erano all’origine dei procedimenti svoltisi dinanzi ai giudici nazionali. Ha osservato in proposito la Corte che, alla luce del diritto internazionale generale vigente, non rileva, ai fini della limitazione del diritto all’immunità giurisdizionale dello Stato, né la circostanza che tale Stato sia accusato di gravi violazioni del diritto dei conflitti armati (20), né che le norme violate abbiano carattere di jus cogens (21). In particolare, sotto quest’ultimo profilo, i giudici de L’Aia hanno sostenuto che non vi sia alcun conflitto tra le norme di diritto cogente e le regole sull’immunità degli Stati dalla giurisdizione. Queste ultime hanno natura processuale e si limitano a determinare se i giudici di uno Stato possano o meno esercitare la giurisdizione nei confronti di un altro Stato, senza minimamente prendere in considerazione la legittimità o illegittimità degli atti che sono alla base del giudizio. Peraltro, proprio in quanto norme processuali, esse ben possono essere applicate oggi nei procedimenti relativi ad eventi verificatisi tra il 1943 e il 1945. Per le stesse ragioni, quindi, concedere l’immunità ad uno Stato estero in conformità al diritto internazionale consuetudinario non equivale a riconoscere come legittima una situazione creata dalla violazione di norme di jus cogens. Infine, priva di fondamento è - nell’opinione della Corte - la tesi secondo cui il diniego dell’immunità alla Germania da parte dei giudici italiani costituisse l’ultima ratio, essendo falliti tutti gli altri tentativi volti ad assicurare un risarcimento adeguato alle vittime italiane (22). Invero, pur esprimendosi (20) Ibidem, parr. 81-91. (21) Ibidem, parr. 92-97. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 55 rammarico per la mancata inclusione degli internati militari italiani tra le categorie dei beneficiari degli indennizzi erogati dalla fondazione “Memoria, responsabilità e futuro” (istituita da una legge tedesca nell’anno 2000), nella sentenza si afferma il principio per cui la questione della sussistenza o meno del diritto di uno Stato all’immunità resta ben distinta da quella relativa al riconoscimento della sua responsabilità internazionale e del conseguente obbligo di riparazione. Inoltre, non v’è nella prassi degli Stati nulla che avvalori la tesi per cui tale diritto all’immunità sia condizionato all’esistenza di mezzi alternativi efficaci per garantire un risarcimento. Nel giungere a queste conclusioni, la Corte, non ignorando che il riconoscimento dell’immunità dalla giurisdizione alla Germania possa precludere il risarcimento del danno per i cittadini italiani interessati, ha pertanto suggerito che i diritti derivanti dal trattamento degli internati militari italiani e dalle altre vertenze di cittadini italiani siano fatti oggetto di ulteriori negoziati tra i due Stati interessati, al fine di giungere ad una soluzione definitiva concordata tra le parti. Quanto all’iscrizione dell’ipoteca giudiziale su Villa Vigoni, la Corte ha richiamato l’art. 19 della Convenzione delle Nazioni Unite sull’immunità e ne ha riconosciuto la valenza consuetudinaria, almeno nella parte in cui si afferma che è condizione imprescindibile per l’adozione di misure esecutive su beni di proprietà di uno Stato estero la destinazione di tali beni a funzioni non governative (23). Essendo invece Villa Vigoni pacificamente impiegata per funzioni pubbliche, la Corte ha ritenuto l’ipoteca inammissibile. Per quanto riguarda, invece, la questione del riconoscimento in Italia delle decisioni greche pronunciate nei confronti dello Stato tedesco, la Corte ha osservato che quando un giudice è chiamato a decidere, come nel caso di specie, dell’exequatur di una sentenza straniera contro uno Stato terzo, egli si trova ad esercitare la propria giurisdizione nei confronti di tale Stato (24). Il giudice dovrà cioè chiedersi se lo Stato convenuto goda o meno dell’immunità dalla giurisdizione, ossia se, qualora una controversia identica a quella decisa all’estero fosse instaurata nel foro, egli sarebbe obbligato dal diritto internazionale ad accordare l’immunità. In altri termini, il procedimento volto a concedere l’exequatur di una sentenza straniera che condanna uno Stato terzo costituisce di per sé un esercizio di giurisdizione contenziosa nei confronti di quest’ultimo. (22) Ibidem, parr. 98-104. (23) Ibidem, parr. 109-120. Il citato art. 19, rubricato “State immunity from post-judgment measures of constraint”, stabilisce che: “No post-judgment measures of constraint, such as attachment, arrest or execution, against property of a State may be taken in connection with a proceeding before a court of another State unless and except to the extent that: (...) (c) it has been established that the property is specifically in use or intended for use by the State for other than government non-commercial purposes and is in the territory of the State of the forum, provided that post-judgment measures of constraint may only be taken against property that has a connection with the entity against which the proceeding was directed”. (24) Sentenza della Corte, cit., parr. 121-133. 56 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 Riconosciuta, quindi, la responsabilità dello Stato italiano sotto tutti i profili indicati, la Corte ha affermato l’obbligo su di esso incombente di porre fine all’illecito e di ristabilire, a titolo di riparazione, la situazione che esisteva prima che l’illecito fosse commesso (25). Pertanto, tutte le decisioni pronunciate e le misure adottate in violazione della regola sull’immunità dovranno essere private dei loro effetti, inclusi eventualmente quelli già prodottisi. Inoltre, la circostanza che alcune delle suddette decisioni siano già passate in giudicato non fa venir meno l’obbligo di riparazione dell’Italia nei termini ivi indicati. 7. (Segue): le opinioni dissenzienti di alcuni giudici. Vale la pena richiamare brevemente alcune delle opinioni dissenzienti annesse alla sentenza della Corte Internazionale di Giustizia in esame. In particolare, nella propria dissenting opinion il giudice Antônio Augusto Cançado Trindade ha espresso il proprio dissenso alla decisione per quanto riguarda sia il metodo seguito che l’intera motivazione, nonché le conclusioni finali. Tale posizione dissenziente si fonda, non solo sulla valutazione delle argomentazioni prodotte dinanzi alla Corte dalle parti in causa, ma soprattutto su questioni di principio, ritenute di fondamentale importanza. Egli ha infatti ritenuto che le violazioni gravi del diritto internazionale umanitario costituiscano crimini internazionali contrari allo jus cogens e che, come tali, non possano essere semplicemente rimosse e dimenticate facendo affidamento sul principio di immunità degli Stati. Il livello di gravità di tali violazioni dovrebbe quindi valere ad eliminare qualsiasi barriera all’esercizio della giurisdizione per garantire adeguata riparazione alle vittime. Secondo Cançado Trindade, tutto ciò non può essere messo in discussione sulla base dell’assunto che non vi sia un conflitto reale tra norme “processuali” e norme “sostanziali”, privando lo jus cogens dei suoi effetti e delle sue conseguenze giuridiche. Il conflitto esiste e il primato deve essere riconosciuto allo jus cogens. Le norme imperative di diritto internazionale dovrebbero quindi prevalere sul privilegio dell’immunità degli Stati, con tutte le conseguenze che ne derivano, evitando così la possibilità di una denegata giustizia e la garanzia di una generale impunità. Il giudice Abdulqawi A. Yusuf, d’altro canto, ha ritenuto di non poter concordare con le conclusioni della maggioranza della Corte a causa del modo marginale in cui è stata trattata la questione a suo parere centrale della controversia, ossia il legame tra il mancato risarcimento dei crimini internazionali commessi dalla Germania e la negazione del diritto all’immunità nei suoi riguardi. Egli ha sostenuto che la recente giurisprudenza italiana debba intendersi come facente parte di un più ampio processo evolutivo diretto ad individuare alcune eccezioni alla regola dell’immunità degli Stati dalla giuri- (25) Ibidem, parr. 134-138. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 57 sdizione. In particolare, quando vi è un conflitto tra il diritto all’immunità e l’obbligo del risarcimento per i danni cagionati dalla commissione di crimini internazionali, se nessun altro mezzo di ricorso è disponibile, dovrebbe ammettersi la prevalenza del diritto fondamentale delle vittime ad ottenere un’adeguata riparazione. Infine, l’opinione dissenziente del giudice ad hoc Giorgio Gaja è tornata ad occuparsi della c.d. “tort exception”, procedendo ad una dettagliata analisi della prassi in materia. La conclusione che lo stesso ne ha tratto è che la diversità fra le decisioni adottate dai vari tribunali nazionali dimostra che la questione si trova in una sorta di “zona grigia” in cui gli Stati possono adottare diverse posizioni senza necessariamente allontanarsi dalle prescrizioni del diritto internazionale consuetudinario. Pertanto, secondo Gaja, la Corte avrebbe dovuto considerare che, almeno per alcune decisioni dei tribunali italiani, l’esercizio della giurisdizione non può essere considerato contrario al diritto internazionale generale. 8. L’esecuzione della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia. Prime applicazioni: sentenza del Tribunale di Firenze in data 14 marzo 2012. La decisione della Corte Internazionale di Giustizia ha senza dubbio imposto una battuta d’arresto ai tentativi della Corte di Cassazione italiana di operare una nuova svolta nell’interpretazione ed applicazione del principio dell’immunità degli Stati dalla giurisdizione. Tuttavia, come emerge chiaramente dall’esame delle opinioni dissenzienti sopra richiamate, la questione resta ancora molto discussa. Per quanto riguarda l’ordinamento interno, comunque, ciò che maggiormente conta sono le ricadute della sentenza in epigrafe sulle decisioni già adottate e su quelle da adottare nei giudizi ad oggi pendenti e in eventuali futuri processi. A tale proposito, preme segnalare una recentissima applicazione, tra le prime conosciute, dei principi enunciati dalla Corte Internazionale di Giustizia da parte del Tribunale di Firenze (26). Nella fattispecie all’esame del giudice fiorentino era stato proposto, in corso di causa, regolamento preventivo di giurisdizione da parte della Repubblica Federale di Germania, convenuta per il risarcimento del danno morale e materiale subito dall’attore in prima persona e in qualità di erede del padre che nel 1944 era stato deportato, costretto al lavoro forzato e infine ucciso. Le Sezioni Unite, con ordinanza n. 14202 del 29 maggio 2008, avevano affermato la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario italiano. Dopo la precisazione delle conclusioni è però intervenuta la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia in esame. (26) Tribunale di Firenze, sentenza del 14 marzo 2012 nella causa n. 16410/2004. 58 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 Il Tribunale si è trovato pertanto di fronte a norme di portata contrastante. Da un lato, il combinato disposto dell’art. 324 c.p.c. e dell’art. 2909 c.c. portava a considerare res judicata la sussistenza della giurisdizione, affermata dalla Suprema Corte, sì che la questione del principio dell’immunità degli Stati per gli acta jure imperii non sarebbe stata nemmeno più soggetta a valutazione all’interno del processo. Dall’altro, invece, il combinato disposto dell’art. 94 della Carta delle Nazioni Unite (che obbliga gli Stati membri dell’ONU a conformarsi alle sentenze della Corte Internazionale di Giustizia) e dell’art. 11 della Costituzione (secondo cui l’Italia consente alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni) imponeva di conformarsi alla pronuncia della Corte, con la conseguenza che la domanda avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile per insussistenza del potere giurisdizionale in capo al giudice ordinario nazionale. Il Tribunale ha quindi ritenuto di dover risolvere il conflitto sulla base della diversa forza cogente delle norme menzionate, affermando che, mentre gli art. 2909 c.c. e 324 c.p.c. sono norme aventi valore ed efficacia di legge ordinaria, l’art. 94 della Carta dell’ONU ha valore ed efficacia superiore poiché l’art. 11 della Costituzione eleva a livello costituzionale le norme internazionali pattizie che possono limitare la nostra sovranità nazionale (quale è appunto il citato art. 94). La soluzione accolta è stata dunque quella di riconoscere la prevalenza della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia sul giudicato interno in punto di giurisdizione formatosi per effetto della pronuncia della Corte di Cassazione. Una soluzione non dissimile, del resto, da quella adottata dalla stessa Cassazione nel caso di processi penali conclusi con sentenze di condanna passate in giudicato, seguite da pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che hanno accertato la violazione dei principi dell’equo processo, in cui pure è stata ammessa la possibilità di ritenere inefficace il giudicato già formatosi (27). Del resto - ha sottolineato il Tribunale - mentre il giudicato interno cristallizza un principio che è precettivo per le parti, la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia non ha efficacia diretta nel rapporto tra privati ma vincola il giudice, come organo statale. Essa è dunque equiparabile ad uno jus superveniens, che, pur non andando ad incidere direttamente sulla disciplina del rapporto in giudizio, ha immediato effetto vincolante sui margini di valutazione che spettano al giudice. Questa sentenza costituisce solo una prima applicazione della decisione de qua della Corte ad opera di un giudice di merito, ma con ogni probabilità aprirà la strada ad una copiosa giurisprudenza conformativa, anche di legittimità. (27) V. ad esempio Cassazione, Sezione I, sentenza n. 6559 del 18 gennaio 2011. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 59 9. (Segue): il ruolo dell’Avvocatura dello Stato. L’attuazione della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia non è però demandata esclusivamente ai giudici. Se è vero che è lo Stato nel suo complesso ad essere obbligato a conformarsi alla decisione della Corte, appare allora evidente che un ruolo di primo piano può essere svolto anche dal Governo italiano, e per esso dall’Avvocatura dello Stato, proprio al fine di garantire che i principi posti dal giudice sovranazionale siano correttamente osservati dal giudice nazionale. Emerge così l’opportunità per l’Avvocatura stessa di intervenire, nell’interesse della Presidenza del Consiglio dei Ministri, in tutti i giudizi già pendenti o che potranno eventualmente essere instaurati a seguito di domande risarcitorie proposte contro la Repubblica Federale di Germania per fatti occorsi durante la seconda guerra mondiale, ed in particolare per la vicenda dei militari italiani deportati in Germania e costretti a prestare lavoro, quale mano d’opera non volontaria, al servizio dell’industria bellica del Reich. Più in dettaglio, tali interventi dovrebbero essere volti innanzitutto a far dichiarare il difetto assoluto di giurisdizione del giudice ordinario. Invero, l’obbligo della restituzione in forma specifica che discende dalla decisione dei giudici de L’Aia impegna lo Stato italiano a fare in modo che la giurisdizione nei confronti della Germania venga esclusa, anche qualora questo comporti la necessità di riaprire procedimenti già conclusi, travolgendo addirittura la possibilità di dare esecuzione alle sentenze di condanna passate in giudicato. Rispetto ai procedimenti in corso, invece, la corretta esecuzione della decisione internazionale postula che la tutela nei confronti della Repubblica tedesca sia anticipata alla fase iniziale del processo, con conseguente necessità per il giudice adito di dichiarare il proprio difetto di giurisdizione. Inoltre - come giustamente affermato nelle puntuali e condivisibili indicazioni contenute nella circolare n. 31/2012 in data 3 maggio 2012 dell’Avvocato Generale dello Stato - le difese dell’Avvocatura dovrebbero essere dirette a contestare le eventuali domande di garanzia avanzate dalla Repubblica Federale di Germania nei confronti dello Stato italiano. In analoghi precedenti giudizi, infatti, la Germania ha spiegato domanda di manleva nei confronti del Governo italiano, fondando la chiamata in garanzia sulle disposizioni del Trattato italo-tedesco di Bonn del 1961. Va tuttavia osservato che la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia in esame, laddove ha affermato - quasi con un obiter dictum - che le questioni poste alla base delle domande risarcitorie avanzate ai giudici italiani non sono state ad oggi risolte (tanto da invitare le parti ad instaurare in proposito ulteriori negoziati), sembra avere al contempo implicitamente (ma inequivocamente) negato che sia gli accordi bilaterali di Bonn, sia il Trattato di pace del 1947, abbiano avuto contenuto satisfattivo di ogni pretesa nascente dagli eventi bellici; le pretese risarcitorie dei cittadini italiani devono pertanto 60 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 ritenersi non coperte dalla rinuncia ivi formulata dal Governo italiano. In conclusione, fermo l’obbligo dello Stato italiano di dare piena attuazione alla pronuncia della Corte mediante l’adozione di una legislazione ad hoc o il ricorso ad altri metodi comunque idonei a far cessare tutti gli effetti delle decisioni interne emesse in violazione del diritto all’immunità della Repubblica Federale, sembra che la soluzione definitiva della questione del risarcimento dei danni cagionati dalla Germania e dalle sue forze armate a cittadini italiani durante la seconda guerra mondiale risulti ormai affidata - anche per effetto ed alla luce delle indicazioni della Corte stessa - alle sole vie diplomatiche. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 61 In materia di regolazione dei giochi e scommesse in Italia. Un commento alla sentenza "Costa e Cifone" (C. giustizia, sent. 16 febbraio 2012, cause riunite C-72/10 e C-77/10, Costa e Cifone) Valérie Peano* SOMMARIO: I. Il caso di specie. - II. L'inapplicabilità del principio di mutuo riconoscimento delle licenze nel settore dei giochi e scommesse e la riaffermazione della legittimità del regime concessorio. - III. La discrezionalità del giudice nazionale limitata dall'opera ermeneutica della Corte di giustizia. - IV. I "contro-limiti " all'ingerenza della Corte di giustizia e considerazioni de iure condendo. Nel presente studio esamineremo la recente sentenza interpretativa pregiudiziale della Corte di giustizia dell'Unione europea in materia di regolazione dei giochi e scommesse in Italia, mettendo in evidenza come il giudice dell'Unione abbia confermato, da una parte, la validità del regime concessorio nazionale mentre, dall'altra, sembra dubitare delle concrete modalità attuative di tale sistema. Si evidenzieranno, altresì, alcune criticità circa il rapporto tra giudice dell'Unione e giudice nazionale, auspicando, da parte di quest'ultimo, la definizione di un quadro giurisprudenziale inequivoco ed omogeneo in materia. I. Il caso di specie. Con la sentenza "Costa e Cifone", la Corte di giustizia è tornata nuovamente a pronunciarsi sulla dibattuta questione interpretativa dei principi di libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi di cui agli articoli 49 e 56 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (in seguito, "TFUE") con riguardo all'attività di intermediazione svolta dai cd. Centri trasmissione dati (in seguito, "CTD") nel settore delle scommesse sportive in Italia, questione, che, negli ultimi anni, ha originato, tanto in sede nazionale che europea (1), un notevole contenzioso. LE DECISIONI DELLA CORTE DI GIUSTIZIA UE (*) Avvocato del libero foro di Roma. Membro del Comitato direttivo della European Association for the Studies of Gambling (EASG). (1) Dinnanzi alla Corte di giustizia dell'Unione europea, vale la pena citare le sentenze del 21 ottobre 1999, Zenatti, C-67/98 (Racc. pag. I-7289); del 6 novembre 2003, Gambelli e a., C-243/01 (Racc. pag. I-13031); del 6 marzo 2007, Placanica e a., C-338/04, C-359/04 e C-360/04 (Racc. pag. I-1891), e del 13 settembre 2007, Commissione/Italia, C-260/04 (Racc. pag. I-7083). 62 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 Nel caso di specie, le questioni pregiudiziali sollevate davanti alla Corte di giustizia da parte della Corte di cassazione traggono origine dai procedimenti penali a carico, rispettivamente, dei sig. Marcello Costa e Ugo Cifone. Entrambi gestori di CTD per conto dell'operatore inglese Stanley International Betting Ltd (in seguito, "Stanley"), licenziatario nel Regno Unito, sono stati rinviati a giudizio in applicazione dell'art. 4 della legge n. 401 del 1989, per aver svolto un'attività di intermediazione di scommesse, in mancanza dell'apposita concessione governativa e dell'ulteriore licenza di polizia necessarie per l'esercizio legittimo dell'attività di raccolta delle giocate (2) come disposto dal R.D. 18 giugno 1931, n. 773 (in seguito, "TULPS") (3). Dinnanzi la Corte di cassazione, i sig. Costa e Cifone hanno fatto valere la violazione dei principi europei di libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi da parte delle norme nazionali di regolazione del settore, con particolare riferimento agli atti di gara in esecuzione ed applicazione dell'art. 38, co. 2 e 4 del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 (in seguito, "decreto Bersani") pubblicati dall'Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato (in seguito, "AAMS"), per la concessione di nuovi punti dedicati sia al gioco ippico che sportivo. Stanley, già esclusa, in quanto parte di un gruppo quotato nei mercati regolamentati, dalla precedente gara del 1999 per la commercializzazione di scommesse su competizioni sportive, ha ritenuto di non partecipare alle procedure di gara del 2006 (4), richiedendone l'annullamento dinanzi al Tribunale amministrativo regionale del Lazio (5). La Corte di cassazione (6) ha posto un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia per chiarire l'interpretazione dell'estensione delle libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi nel settore delle scommesse su eventi sportivi al fine di stabilire "se le citate disposizioni del Trattato consentano o meno una disciplina nazionale che stabilisca un regime di monopolio in favore dello Stato ed un sistema di concessioni e di autorizzazioni che, all'interno di un numero determinato di concessioni, preveda: a) l'esistenza di un indirizzo generale di tutela dei titolari di concessioni rilasciate in epoca anteriore sulla base di una procedura che illegittimamente (2) In linea generale, deve considerarsi che l'attività organizzata al fine di accettare o raccogliere scommesse di qualsiasi genere per conto di terzi, in assenza della concessione, l'autorizzazione o la licenza prevista dall'art. 88 del Regio Decreto 18 giugno 1931, n. 773, articolo 88, integra il reato di cui all'art. 4 della legge n. 401 del 1989 (anche nel caso in cui il soggetto agente operi mediante comunicazioni telematiche avendo ottenuto per l'uso di tali mezzi l'apposita autorizzazione nel rispetto del Decreto Legislativo n. 259 del 2003, articoli 3, 4 e 25 - codice delle comunicazioni). (3) G.U.R.I. n. 146 del 26 giugno 1931, c.s.m. (4) G.U.U.E. procedimenti n. 2006/S-163-175655 e 2006/S-164-176680. (5) Ricorso n. 10869/2006, del 27 novembre 2006, attualmente pendente. (6) Ordinanze del 10 novembre 2009 della Terza Sezione Penale n. 2993/10 e 2994/10 - pubblicate il 25 gennaio 2010. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 63 ha escluso una parte degli operatori; b) la presenza di disposizioni che garantiscono di fatto il mantenimento delle posizioni commerciali acquisite sulla base di una procedura che illegittimamente ha escluso una parte degli operatori (come [l'obbligo] per i nuovi concessionari di collocare i loro sportelli [a una distanza minima] da quelli già esistenti); c) la fissazione di ipotesi di decadenza della concessione e di incameramento di cauzioni di entità molto elevata, tra le quali l'ipotesi che il concessionario gestisca direttamente o indirettamente attività transfrontaliere di gioco assimilabili a quelle oggetto della concessione". Si tratta, in sostanza, di chiarire se il sistema di assegnazione delle concessioni derivanti dai citati bandi di gara del 2006, garantisca la tutela dei diritti di libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi ovvero sia preordinato a mantenere una disparità in favore dei pregressi concessionari. Occorre premettere che, nel caso di specie, le domande di pronuncia pregiudiziale oggetto della sentenza non riguardano tanto le sanzioni penali connesse (7) quanto piuttosto le disposizioni di gara attuative del decreto Bersani e le tipologie di sanzioni ivi previste, quali la decadenza dalla concessione e l'incameramento delle cauzioni per violazione degli obblighi concessori. Nella sentenza in esame, vedremo come la Corte di giustizia ribadisce la legittimità di un sistema concessorio nel settore dei giochi e scommesse ma prosegue nel contestare, puntualmente, la compatibilità delle disposizioni del bando di gara nazionale con il diritto dell'Unione, perchè imprecise, equivoche e finalizzate, nelle condizioni e modalità di accesso, a proteggere le posizioni commerciali degli operatori esistenti. II. L’inapplicabilità del principio di mutuo riconoscimento delle licenze nel settore dei giochi e scommesse e la riaffermazione della legittimità del regime concessorio. In virtù del principio di sussidiarietà che delimita l'intervento dell'Unione (8) nelle materie che non sono di sua competenza esclusiva, come il settore dei giochi e scommesse, la disciplina del settore risulta affidata al singolo Stato (7) Le sanzioni penali connesse sono quelle previste dall'art. 4 della legge 13 dicembre 1989, n. 401, recante interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestine e tutela della correttezza nello svolgimento di manifestazioni sportive (G.U.R.I. n. 294 del 18 dicembre 1989 c.s.m.). (8) Il principio prevede l'intervento normativo dell'Unione nella misura in cui gli obiettivi dell'azione prevista possano essere realizzati meglio a livello europeo ovvero l'azione dell'Unione sia ristretta o sospesa laddove non piu giustificata. Diversamente, il Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE) delimita le competenze esclusive delle istituzioni dell'Unione rispetto a quelle esercitabili dagli Stati membri in base al principio di attribuzione, secondo il quale gli organi dell'Unione dispongono unicamente di quelle funzioni e di quei poteri che gli Stati membri hanno volontariamente convenuto di attribuire loro. Per un approfondimento, v. U. VILLANI, Istituzioni di Diritto dell'Unione europea, Cacucci editore, 2010. 64 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 membro, non essendo stato attuato alcun processo di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri in materia (9). Nella sentenza in epigrafe, la Corte di giustizia riafferma tale competenza e ribadisce un principio già enucleato dai Trattati europei e dalla sua costante giurisprudenza: gli Stati membri, nel determinare le loro scelte di politica legislativa in materia, possono imporre restrizioni all'esercizio dei giochi e delle scommesse (e, quindi, restringere le libertà sancite dagli artt. 49 e 56 TFUE) e ciò anche attraverso la scelta del modello di regolamentazione da adottare, concessorio o autorizzatorio (10). La giurisprudenza pregressa della Corte riconosce che gli Stati membri possano limitare l'accesso al mercato dei giochi ai soli operatori che abbiano conseguito la concessione dai regolatori nazionali (11) in base alle divergenze considerevoli di ordine morale, religioso e culturale esistenti ed in virtù di principi e deroghe previste dai Trattati (12). Con questa sentenza, la Corte riafferma (13) espressamente che le restrizioni imposte dal regime concessorio nazionale possano essere ammesse in quanto rientranti tra le misure in deroga previste dal congiunto disposto degli articoli 51, 52 e 66 TFUE ovvero possano essere giustificate da motivi imperativi di interesse generale, a condizione che esse rispettino i requisiti di necessità, proporzionalità e non discriminazione enunciati dalla Corte. Non solo, quindi, la Corte di giustizia non contesta l'applicazione del sistema concessorio italiano in quanto tale ma anzi esclude coerentemente che, allo stato attuale, esista alcun obbligo di mutuo riconoscimento delle concessioni/ autorizzazioni rilasciate dagli Stati membri (14). Invero, un esplicito avallo al sistema concessorio italiano da parte delle (9) Sono, in questo indicative, l'esclusione della materia dei giochi e delle scommesse dall'ambito di applicazione sia della Direttiva 2000/31/CE sul c.d. commercio elettronico (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio dell'8 giugno 2000, 2000/31/CE, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell'informazione) G.U.C.E. L 178 del 17 luglio 2000, p. 1 ss., che dalla Direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006, 2006/123/CE, relativa ai servizi nel mercato interno), in G.U.C.E. L 376 del 27 dicembre 2006, p. 36 ss. (10) Sentenza Costa e Cifone, punti 12 e 52 e richiama la sentenza Placanica cit.: "un sistema di concessioni può (...) costituire un meccanismo efficace che consente di controllare coloro che operano nel settore dei giochi di azzardo allo scopo di prevenire l'esercizio di queste attività per fini criminali o fraudolenti" (punto 57). (11) Sentenza Corte di Giustizia 3 giugno 2010 in causa C-203/08, Sporting Exchange, punto 48 in Raccolta 2010 1-04695. Sentenza Corte di Giustizia 8 settembre 2009 in causa C-42/07, Liga Portuguesa de Futebol Professional e Bwin International, in Raccolta, 2009, 1-7633, punto 57. Sentenza Corte di Giustizia 8 settembre 2010 in cause riun. C-316/07, da C-358/07 a C-360/07, C-409/07 e C- 410/07, Stolß e a., punto 81 non ancora pubblicata in Raccolta. (12) "La concessione di diritti speciali ed esclusivi tramite un sistema di licenze a talune imprese per accettare scommesse è legittimo se finalizzato a prevenire infiltrazioni criminali" (sentenze Zenatti C- 67/98 cit. e Laara 21 settembre 1999 in Raccolta 1999 1-06067). (13) Sentenza Costa e Cifone, punto 71. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 65 istituzioni europee già si era avuto nel maggio del 2010, allorché la Commissione europea, nella sua veste di "Guardiano dei Trattati dell'Unione" ha chiuso le procedure di infrazione aperte nei confronti dell'Italia nel 2006, con particolare riferimento alla procedura d'infrazione 2003/4616 (IP/06/436) relativa a presunte restrizioni all'esercizio di attività di organizzazione e di raccolta di scommesse sulle competizioni sportive (15). Deve, quindi, ritenersi che la Corte di giustizia, interpellata, abbia inteso confermare la compatibilità con il diritto dell'Unione della previsione del sistema concessorio ltaliano, già sancita dalla Commissione europea. Risulta sintomatico di ciò il cambio di "strategia" difensiva adottato dalla Stanley (16) che, nel 1999, avanzava il diritto di operare attraverso i CTD sul territorio nazionale in applicazione del principio del mutuo riconoscimento della licenza inglese (17), mentre ad oggi, si "limita" a contestare le eventuali violazioni del diritto dell'Unione dei bandi di gara per il rilascio delle concessioni, accettandovi, in linea di principio, l'assoggettamento e risultandovi, in (14) Sentenza Liga Portuguesa de FutebolProfissional, cit., punti 69-72. Sentenza Corte di Giustizia 8 settembre 2010 in causa C-46/08, Carmen Media Group, punti 102 e 103 in Raccolta 2010 I- 08149. Sentenza Corte di Giustizia del 15 settembre 2011, procedimento C-347/09 Dickinger e Oemer, punto 96, non ancora pubblicata in Raccolta, secondo cui "i controlli che l'operatore estero conosce nel Paese membro dove si è stabilito e che lo autorizzano ad effettuare operazioni transfrontaliere possono non essere sufficienti per un altro Paese membro, così che non è contrario al diritto dell'Unione il fatto che il secondo Stato imponga specifici controlli sull'operatore estero abilitato". A livello nazionale, si cita: TAR Emilia Romagna - Bologna, sez. II, 16 marzo 2012 "considerato che dalla giurisprudenza comunitaria e in particolare dalla sentenza della Corte di Giustizia [Costa e Cifone] non si evincono indicazioni nel senso di una incompatibilità comunitaria di un sistema concessorio, come quello italiano, che non prevede il mutuo automatico riconoscimento tra stati delle rispettive concessioni (...)". Consiglio di Stato Sezione 6 - Sentenza del 19 novembre 2009, n. 7300 secondo cui: "La sentenza Placanica riconosce, infatti, che le libertà di stabilimento e di prestazione di servizi non sono state compresse a causa dalla previsione di un regime concessorio in quanto tale. Ciò perché tale regime è sostenuto da ragioni di ordine pubblico e sociale e può essere compatibile con quelle libertà in quanto risulti rispondente ai principi di non discriminazione, di necessità e di proporzione". (15) Comunicato stampa 5 maggio 2010 n. IP/10/504 il quale sebbene titolato con riferimento al gioco a distanza, nel merito si riferisce anche ed archivia la procedura d'infrazione 2003/4616 (IP/06/436) relativa a presunte restrizioni all'esercizio di attività di organizzazione e di raccolta di scommesse sulle competizioni sportive non a distanza. (16) Sentenza TAR Lazio, Roma sez. III ter, 29 ottobre 2002. La sentenza fa valere come la ricorrente Stanley al punto 4.2 "ha dichiarato espressamente di non aver partecipato e di non voler partecipare a detta procedura, di talché nessun'utilità giuridica può essa ritrarre dall'eventuale accoglimento di una censura che concerne le modalità di concreta partecipazione alla gara de qua. Pretestuosa s'appalesa la doglianza attorea secondo cui le norme di gara avrebbero di per sé sole impedito, di fatto, alla ricorrente la partecipazione a quest'ultima, giacché essa non ha mai inteso proporre offerta e, grazie a questo, far constare immediatamente la ristrettezza dei tempi all'uopo assegnati" al punto 4.3 "la domanda attorea è in parte qua in tutta evidenza rivolta a pretendere attraverso il richiamo invero spregiudicato ai principi di diritto comunitario, il travaso nell'ordinamento nazionale delle regole del diritto inglese sulla libertà d'impresa per i bookmakers". (17) La tesi del mutuo riconoscimento delle licenze è stata sostenuta anche oltralpe per contestare il monopolio dell'operatore La Francaise des Jeux, nell'ambito dei ricorsi dinnanzi al Consiglio di Stato Francese n. 330604, 339075 et 342473 Societe Stanley International Betting Limited 30 dicembre 2011. 66 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 alcuni casi, aggiudicataria. Dall'altra parte, sono numerosi quei bookmakers esteri, noti sullo scenario internazionale, che proprio nel 2006 hanno scelto di partecipare ai bandi di gara attuativi del decreto Bersani e di acquisire titoli abilitativi nazionali per operare in Italia. Se la sentenza "Costa e Cifone" avesse inteso comportare riflessi diretti sulla compatibilità dell'intero sistema concessorio nazionale con il diritto dell'Unione, ad avviso di chi scrive, ciò avrebbe necessariamente indotto la Corte di giustizia a limitare nel tempo gli effetti della propria sentenza in ragione del rischio di gravi ripercussioni economiche dovute all'elevato numero di rapporti giuridici costituiti in buona fede sulla base della normativa nazionale (18) nonchè dall'obiettiva e rilevante incertezza sulla portata delle disposizioni dei Trattati europei, incertezza alimentata, come si e visto, dal comportamento (19) della stessa Commissione. III. La discrezionalità del giudice nazionale limitata dall'opera ermeneutica della Corte di giustizia. In mancanza di una normativa di riferimento o di un processo di armonizzazione a livello europeo nel settore dei giochi e scommesse, la giurisprudenza della Corte di giustizia ha guidato l'azione delle istituzioni europee e determinato l'incidenza del diritto dell'Unione nelle legislazioni nazionali in materia. Nel caso di specie, la sentenza in esame si spinge ancora oltre, in quanto la Corte di giustizia si pronuncia in modo particolarmente incisivo circa la compatibilità con il diritto dell'Unione, di alcune disposizioni di gara per l'assegnazione delle concessioni, così rimodulando implicitamente non solo la sfera di discrezionalità nazionale nella regolamentazione delle attività di giochi e delle scommesse bensì anche quella del Giudice richiedente nella definizione della causa principale. In questo caso, la Corte sembra addirittura intromettersi nella successiva attività di verifica della regolamentazione da parte del giudice italiano, quasi a volersi "sostituire" ad esso (20), avvallando la tendenza riscontrata ad utilizzare il meccanismo del rinvio pregiudiziale (21) per estendere la propria cognizione sulla disposizione nazionale e non limitarsi a fornire al Giudice interno gli elementi di interpretazione ricavabili dal diritto dell'Unione ed idonei a consentirgli di pronunciarsi su tale compatibilità per la decisione della causa principale (22). (18) Si rimanda ai diversi interventi ad opponendum nei processi amministrativi diretti a far valere la titolarita di un interesse alla conservazione della normativa in materia di giochi e scommesse sottoposto all'esame del giudice amministrativo (per tutte: sentenza TAR Emilia Romagna - Bologna, sez. I, 14 giugno 2010). (19) Sentenza Corte di Giustizia, Richards C-423/04 sentenza 27 aprile 2006 in Raccolta 2006 1- 03585, punti 40-42. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 67 Tant'è che, in diversi punti della sentenza, la Corte si pronuncia interpretando le disposizioni di gara (23) in considerazione delle finalità economiche sottese alla politica italiana nel settore (24) e le ipotesi sanzionatorie collegate (quali la decadenza della concessione e l'incameramento di cauzioni), contestandone la mancanza di chiarezza (25) e univocità, finendo così per ridurre si- (20) Sorprende l'uso del condizionale nel rimando al giudice nazionale, Sentenza Costa e Cifone, punto 65: "un regime di distanze minime tra punti di vendita potrebbe essere giustificato soltanto qualora fosse escluso - ciò che spetterebbe al giudice nazionale verificare - che il reale obiettivo di tali norme sia quello di proteggere le posizioni commerciali degli operatori esistenti, anzichè quello, invocato dal governo italiano, di incanalare la domanda di giochi d'azzardo entro circuiti controllati" (...) "Inoltre, spetterebbe, se del caso, al giudice del rinvio verificare che I'obbligo di rispettare determinate distanze minime, il quale impedisce l'insediamento di punti di vendita supplementari in zone fortemente frequentate dal pubblico, sia veramente idoneo a realizzare l'obiettivo invocato e avrà effettivamente come conseguenza che i nuovi operatori sceglieranno di stabilirsi in luoghi poco frequentati, assicurando così una copertura a livello nazionale". (21) Secondo il sistema di cooperazione istituito dall'art. 267 TFUE, lo strumento del rinvio pregiudiziale mira ad ottenere l'interpretazione o la validità degli atti delle istituzioni dell'Unione in ordine all'esigenza di assicurare la corretta ed uniforme applicazione del diritto comunitario in tutti gli Stati membri. Nella ripartizione delle funzioni e la cooperazione tra giudice nazionale e Corte di giustizia, la Corte non valuta la compatibilità con il diritto dell'Unione della legge nazionale apparentemente con esso in conflitto. Negli anni, tuttavia, si e assistito ad una "deformazione" del meccanismo del rinvio pregiudiziale interpretativo che finisce, in concreto, per realizzare un controllo indiretto sulla compatibilità delle disposizioni nazionali con il diritto dell'Unione, ove nella sostanza è la disposizione nazionale l’oggetto reale della pronuncia della Corte. (22) DANIELE P. DOMENICUCCI, "Il ruolo del giudice nazionale e la presentazione delle questioni pregiudiziali " ERA - Accademia di diritto europeo - Seminario su "Le direttive contro la discriminazione 2000/43 e 2000/78 nella pratica" Trier, 9-10 maggio 2011. (23) Sentenza Costa e Cifone, punto 58: "Per quanto riguarda più specificamente l'obbligo per i nuovi concessionari di insediarsi ad una distanza minima da quelli già esistenti, imposto dall'articolo 38, commi 2 e 4, del decreto Bersani, tale misura ha come effetto di proteggere le posizioni commerciali acquisite dagli operatori già insediati a discapito dei nuovi concessionari, i quali sono costretti a stabilirsi in luoghi meno interessanti dal punto di vista commerciale rispetto a quelli occupati dai primi". (24) Sentenza Costa e Cifone, punto 62: "il settore dei giochi d'azzardo in Italia è stato per lungo tempo caratterizzato da una politica di espansione finalizzata ad aumentare gli introiti fiscali e dunque, in tale contesto non è possibile invocare alcuna giustificazione fondata sugli obiettivi della limitazione della propensione al gioco dei consumatori o della limitazione dell'offerta di giochi. Nella misura in cui il decreto Bersani ha ulteriormente aumentato in modo significativo la quantità di occasioni di gioco rispetto all'epoca esaminata nella causa Placanica e a., tale conclusione si impone con ancor più forza nella situazione attuale del settore". (25) Sentenza Costa e Cifone, punti 79 e 80 "Il riferimento, contenuto nell'articolo 23, comma 2, lettera a), dello schema di convenzione, alle «ipotesi di reato di cui alla legge 19 marzo 1990, n. 55», che riguarda i delitti di mafia nonché altre forme di criminalità comportanti un grave pericolo per la società, sembra soddisfare le esigenze sopra descritte, salvo verifica da parte del giudice del rinvio. Per contro, e sempre con riserva di verifica da parte del giudice del rinvio, altrettanto non sembra potersi dire per quanto riguarda il riferimento, operato dalla medesima disposizione sopra citata, a ogni altra ipotesi di reato suscettibile di far venir meno il rapporto fiduciario con AAMS. Spetta al giudice del rinvio esaminare se un offerente ragionevolmente informato e normalmente diligente sarebbe stato in grado di comprendere l'esatta portata di tale riferimento". 80 "Nell'ambito di tale esame, detto giudice dovrà in particolare tener conto, da un lato, del fatto che i potenziali offerenti disponevano di un termine inferiore a due mesi per esaminare i documenti relativi alla gara e, dall'altra, del comportamento dell'AAMS a seguito delle richieste di chiarimenti inviatele dalla Stanley". 68 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 gnificativamente l'ambito di valutazione di competenza del giudice nazionale. Ben avrebbe potuto la Corte di giustizia dichiarare irricevibile la domanda pregiudiziale, a norma degli artt. 92 e 104, par. 3, reg. proc., allorché il quadro giuridico del provvedimento di rinvio non appaia sufficientemente chiaro (26). La Corte, invece, ha intenzionalmente voluto (27) restringere i parametri di discrezionalità del Giudice nazionale nella successiva azione di valutazione delle disposizioni nazionali in materia e ciò non solo attraverso l'interpretazione degli artt. 49 e 56 TFUE bensì anche attraverso richiami ulteriori ai principi generali del diritto dell'Unione ovvero criteri giurisprudenziali dalla stessa definiti per gli appalti pubblici (28). L'ingerenza della Corte di giustizia risulta palese anche in materia di diritto penale interno (29), quando sancisce che i principi europei di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi ostano all'applicazione delle sanzioni penali collegate all'art. 88 del TULPS nei confronti dei titolari dei CTD, per la raccolta di scommesse senza concessione o senza autorizzazione di polizia, legati ad un operatore escluso dalla precedente gara in violazione del diritto dell'Unione, "anche dopo la nuova gara destinata a rimediare a tale violazione, qualora quest'ultima gara e la conseguente attribuzione di nuove concessioni non abbiano effettivamente rimediato all'illegittima esclusione di detto operatore dalla precedente gara". (26) DANIELE P. DOMENICUCCI, op. cit. (27) Sentenza Costa e Cifone, punti 89 e 90 "A questo proposito, non vi è dubbio che l'interpretazione delle disposizioni di diritto nazionale spetti, nell'ambito del sistema di cooperazione istituito dall'articolo 267 TFUE, ai giudici nazionali e non alla Corte (sentenza Placanica e a., cit., punto 36). Tuttavia, risulta dalla giurisprudenza citata ai punti 72-74 della presente sentenza che il diritto dell'Unione esige che le condizioni e le modalità di una procedura di gara, quale quella in questione negli odierni procedimenti principali, siano formulate in modo chiaro, preciso e univoco. Non è questo il caso per quanto riguarda l'articolo 23, comma 3, dello schema di convenzione, e ciò malgrado le spiegazioni supplementari fornite dall'AAMS su richiesta della Stanley". 90 "È giocoforza constatare che non si può addebitare ad un operatore, quale la Stanley, il fatto di aver rinunciato a presentare una candidatura per una concessione in assenza di qualsiasi sicurezza sul piano giuridico, fintanto che permaneva incertezza riguardo alla conformità del suo modus operandi alle disposizioni della convenzione da sottoscrivere al momento dell'attribuzione di una concessione. Qualora tale operatore fosse stato escluso, in violazione del diritto dell'Unione, dalla gara precedente oggetto di censura nella citata sentenza Placanica e a., deve ritenersi che la nuova gara non abbia effettivamente rimediato a tale esclusione dell'operatore in questione". (28) A. LA PERGOLA "Brevi note a margine delle sentenze della Corte di giustizia europea nei casi Dickinger e Costa Cifone", 27 febbraio 2012, in Rivista giuridica Lexgiochi.it. Invero, detti criteri erano già stati applicati dalla Corte di giustizia nella sentenza Commissione c. Repubblica Italiana, causa C- 260/04 cit, proprio con riguardo a concessioni per l'esercizio di scommesse ippiche. (29) 11 diritto penale nazionale, inizialmente inquadrato soltanto a livello di cooperazione tra i governi nazionali, con un coinvolgimento marginale delle istituzioni dell'Unione, è stato recentemente assorbito nelle materie "comunitarie" con il Trattato di Lisbona. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 69 IV. I "contro-limiti" all'ingerenza della Corte di giustizia e considerazioni de iure condendo. La sentenza della Corte di giustizia emanata a seguito di rinvio pregiudiziale è obbligatoria per il giudice a quo, vincolato per la definizione della causa principale all'interpretazione fornita. Compete, però, esclusivamente al giudice nazionale del rinvio interpretare la normativa nazionale alla luce dei criteri interpretativi forniti dalla Corte in relazione al diritto dell'Unione (30). La Corte di giustizia non può sostituirsi ad esso ne può vantare competenza per dirimere le oscillazioni e contrasti interpretativi sorti tra i giudici nazionali, proprio come quello sviluppatosi in Italia con riguardo all'attività di intermediazione svolta dai CTD (31), perché è compito dell'ordinamento giuridico interno porre in essere i rimedi atti a sanare tali eventuali contrasti giurisprudenziali interni. Diversamente,"i giudici di grado inferiore potrebbero disporre di un ricorso diretto alla giustizia europea contro le decisioni degli organi di ultima istanza secondo un meccanismo per saltum di cui non vi è traccia nel Trattato CE" (32). A tale conclusione si giunge anche in forza della teoria dei cd. "contro-limiti" elaborati dalla nostra Corte Costituzionale (33), in ragione della quale alcuni principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale vanno necessariamente salvaguardati e limitano la prevalenza del diritto dell'Unione. Tra questi, vi è indubbiamente l'indipendenza della magistratura (34). Invero, il giudice a quo così come qualsiasi altro giudice nazionale chiamato (30) Sentenza Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penale, del 18 maggio 2004, n. 23271 secondo cui "l’art. 234, realizzando una forma di cooperazione tra giudici nazionali e Corte di Giustizia, configura un meccanismo centralizzato di interpretazione del diritto comunitario teso a garantire la certezza del diritto in tutti i casi in cui si deve dare applicazione della norma sottoposta a interpretazione pregiudiziale. Il giudice comunitario ha quindi un monopolio interpretativo del diritto comunitario, ma non ha competenza sul diritto nazionale". (31) Da ultimo, sentenza TAR Liguria sez II. del 29 marzo 2012 n. 451 "È dirimente l'arresto della Corte di Giustizia [Costa Cifone ndr] che ha definitivamente ritenuto incompatibile il regime normativo nazionale che consente di rifiutare l'autorizzazione ai CTD collegato con allibratori stranieri regolarmente abilitati nel Loro Paese per la sola circostanza che richiedente non sia titolare di concessione ovvero agisca per conto di un soggetto privo di concessione. Sicchè per la Corte di Giustizia l'art. 88 TULPS pone un limite ingiustificato alle libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi di cui agli artt. 43 e 49 del Trattato Ue e conseguentemente la norma nazionale va disapplicata". In senso contrario, circa la compatibilità del sistema italiano in materia di scommesse con il diritto dell'Unione europea, sentenza TAR Puglia Lecce sez. I del 23 febbraio 2012 n. 358. (32) Conclusioni dell'Avvocato generale Colomer presentate il 16 maggio 2006, nelle cause riunite Placanica e a., cit., punti 76 ss. (33) Per una recente applicazione, vedasi Corte Costituzionale sentenza del 24 giugno 2010 n. 227. (34) C. BENELLI "La Corte di Giustizia, nello svolgimento dei propri compiti istituzionali, non può trascurare la necessità di rispettare l'identità nazionale degli Stati membri la cui declinazione comporta una particolare attenzione per l'indipendenza dei Giudici nazionali garantita dall'art. 101 comma 2 della nostra Carta Costituzionale", in "Brevissime riflessioni sulle attribuzioni della Corte di Giustizia dell'Unione Europea e sull'indipendenza del Giudice nazionale all'indomani del deposito della sentenza Costa-Cifone" 22 febbraio 2012, in Rivista giuridica Lexgiochi.it . 70 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 a pronunciarsi su di un caso simile ha il dovere di interpretare (35) le disposizioni di diritto nazionale per constatare o meno eventuali violazioni del diritto dell'Unione ed applicare le proprie regole procedurali tese a garantire la concreta esplicazione a livello nazionale delle libertà conferite dai Trattati éuropei. Ci sia consentito riprendere alcuni temi principali della sentenza del giudice europeo per svolgere le considerazioni conclusive. La Corte rileva, innanzitutto l'incompatibilità con il diritto dell'Unione, di un regime di distanze minime tra i punti di vendita di scommesse qualora questo regime sia volto a proteggere le posizioni commerciali degli operatori concessionari già esistenti. Ebbene, è compito del giudice nazionale accertare l'eventuale vulnus attesa l'abrogazione ratione temporis delle distanze minime sin dal 2008 (36). Circa, poi, la mancanza di chiarezza ed univocità delle disposizioni di gara sollevata dalla Corte di giustizia, compete unicamente al giudice nazionale la verifica ed individuazione delle eventuali norme procedimentali all'interno dell'ordinamento nazionale aventi per effetto di impedire ad operatori come Stanley l'impugnazione delle disposizioni di gara o di renderne troppo difficoltosa la partecipazione, in violazione dei principi generali del diritto dell'Unione. Attraverso ordinanze successive (37), la Corte di giustizia ha, peraltro, sancito la legittimità a contestare il bando di gara Bersani da parte di operatori diversi da Stanley per conto dei quali operano CTD, pur non avendo questi partecipato o non essendosi opposti. Tale valutazione compete, invece,soltanto al giudice nazionale il quale deve valutare la legittimazione ad agire di questi operatori in assenza di una azione giurisdizionale ovvero di proposta di una domanda equivalente, in ragione del principio di certezza del diritto che esclude che possa essere rimessa in questione la legittimità di un atto interno da parte di chi, potendolo impugnare, abbia lasciato decorrere il termine all'uopo descritto. In analogia, ci preme sottolineare come, nell'ambito del rinvio pregiudiziale di legittimità di un atto dell'Unione dinnanzi alla Corte di giustizia, non possono esserle sottoposte questioni di validità di atti che il singolo, parte nella causa nazionale, avrebbe potuto impugnare in base all'art. 263, co. 4, TFUE ma che non abbia impugnato nel termine di decadenza di due mesi. Ci conforta, in tal senso, la recente sentenza TAR Puglia (38), in cui è stata affermata la necessità di impugnare le disposizioni del bando di gara attuativo (35) L'organo nazionale conserva la facoltà di rivolgersi nuovamente alla Corte di giustizia perché di fronte a difficoltà di comprensione o di applicazione della sentenza interpretativa o per sottoporle nuovi elementi di valutazione tali da indurre la Corte a risolvere altrimenti una questione già sollevata. (36) L'abrogazione è stata sancita dall'art. 1 bis comma 6 Decreto Legge 25 settembre 2008 n. 149 convertito con modificazioni in legge 19 novembre 2008, n. 184. (37) Ordinanza della Corte di giustizia (Ottava Sezione), 16 febbraio 2012, C-413/10. (38) TAR Puglia, sez. II, del 12 aprile 2012, n. 712/2012. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 71 del decreto Bersani, eventualmente ritenute illegittime sotto il profilo del diritto dell'Unione, entro i termini decadenziali previsti dall'ordinamento italiano. Circa, infine, l'eventuale non applicazione delle sanzioni penali connesse all'esercizio di un'attività organizzata attraverso CTD legati a Stanley, per l'incompatibilità con il diritto dell'Unione sollevata dalla Corte di giustizia, il giudice nazionale penale non può certo condurre a ritenere emanati in favore degli stessi atti amministrativi favorevoli quali autorizzazioni o concessioni rifiutate dall'amministrazione (39). L'eventuale non applicazione delle sanzioni previste per l'esercizio dei CTD non può avere per effetto di creare una "discriminazione a rovescio" di quegli operatori, nazionali ed esteri, che in buona fede hanno scelto di partecipare al bando di gara e di acquisire titoli abilitativi nazionali per operare in Italia, ed a cui questi resterebbero soggetti (40). Il giudice nazionale deve tutelare il legittimo affidamento dei numerosi operatori che hanno scelto di aderire alle procedure di gara del 2006 ovvero le aspettative che gli stessi hanno ragionevolmente nutrito. Conclusivamente, rincresce constatare come la sentenza Costa e Cifone della Corte di giustizia non sia in grado di porre fine alle divergenze interpretative sorte tra i diversi giudici nazionali in materia ed anzi sollecita ulteriori interrogativi sotto diversi profili qui appena accennati. Invero, non è e non può essere compito del giudice europeo dirimere un quadro giurisprudenziale di recepimento incerto e disomogeneo in base al principio di attribuzione sancito dai Trattati europei secondo il quale gli organi dell'Unione dispongono unicamente di quelle funzioni e di quei poteri che gli Stati membri hanno volontariamente convenuto di attribuire loro. L'auspicio è che si giunga ad una definizione di un quadro giurisprudenziale inequivoco ed omogeneo in materia da parte del giudice nazionale, in quanto non pare ragionevole che il regime normativo, riconosciuto a livello europeo quale modello di apertura controllata del mercato, venga così scosso dalle incertezze interpretative che conseguono all'azione ermeneutica del giudice europeo, ad evidente pregiudizio degli operatori e, non ultimo, dei destinatari dei servizi di gioco. (39) Sentenza Corte di Cassazione Terza Sez. Penale del 16 aprile 2009 n. 22719 secondo cui il giudice non si può sostituire a un potere discrezionale di competenza della Pubblica Amministrazione. (40) La disapplicazione della norma penale non può facoltizzare ad esercitare l'attività di gestione e scommesse nel territorio senza titoli abilitativi: "Nella materia in esame la legislazione prevede un regime concessorio ed autorizzatorio che è in sintonia con i principi del Trattato (...) e le norme per la partecipazione alla gara e relativa assegnazione non sono incompatibili con le libertà di prestazione dei servizi e di stabilimento. In questo contesto non pare legittima una disapplicazione in toto della disciplina nazionale che creerebbe un vuoto normativo con la inaccettabile ricaduta che i soggetti non residenti a differenza di quelli nazionali (con conseguente discriminazione a rovescio) potrebbero svolgere liberamente e senza vaglio alcuno una attività che necessita di meccanismi di controllo e valutazione della capacità economica e finanziaria - esercitati dagli organi competenti". Sentenza Corte di Cassazione n. 22719/2009 cit. 72 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 Corte di Giustizia, Quarta Sezione, sentenza del 16 febbraio 2012 - Pres. J.C. Bonichot , Rel. K. Schiemann, Avv. Gen. P. Cruz Villalón - Domande di pronuncia pregiudiziale proposte dalla Corte suprema di cassazione ( Italia) - Procedimenti penali a carico di Marcello Costa (C-72/10) e Ugo Cifone (C-77/10). «Libertà di stabilimento – Libera prestazione dei servizi – Giochi d’azzardo – Raccolta di scommesse su eventi sportivi – Necessità di una concessione – Conseguenze da trarre a seguito di una violazione del diritto dell’Unione nell’attribuzione delle concessioni – Attribuzione di 16 300 concessioni supplementari – Principio di parità di trattamento e obbligo di trasparenza – Principio di certezza del diritto – Protezione dei titolari delle concessioni precedenti – Normativa nazionale – Distanze minime obbligatorie tra punti di raccolta di scommesse – Ammissibilità – Attività transfrontaliere assimilabili a quelle costituenti l’oggetto della concessione – Divieto da parte della normativa nazionale – Ammissibilità» (...) 1 Le domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull’interpretazione degli articoli 43 CE e 49 CE. 2 Tali domande sono state proposte nell’ambito di procedimenti penali instaurati a carico dei sigg. Costa e Cifone, gestori di centri di trasmissione di dati (in prosieguo: i «CTD») contrattualmente legati alla società di diritto inglese Stanley International Betting Ltd (in prosieguo: la «Stanley»), a motivo del mancato rispetto della normativa italiana disciplinante la raccolta di scommesse e, in particolare, del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, recante approvazione del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (GURI n. 146, del 26 giugno 1931), come modificato dall’articolo 37, comma 4, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (supplemento ordinario alla GURI n. 302, del 29 dicembre 2000; in prosieguo: il «regio decreto»). Le suddette domande si iscrivono in contesti di fatto e di diritto simili a quelli sui quali si sono pronunciate le sentenze del 21 ottobre 1999, Zenatti, C-67/98 (Racc. pag. I-7289); del 6 novembre 2003, Gambelli e a., C-243/01 (Racc. pag. I-13031); del 6 marzo 2007, Placanica e a., C-338/04, C-359/04 e C-360/04 (Racc. pag. I-1891), e del 13 settembre 2007, Commissione/Italia, C-260/04 (Racc. pag. I-7083). Contesto normativo 3 La normativa italiana stabilisce, in sostanza, che l’esercizio delle attività di raccolta e di gestione delle scommesse presuppone l’ottenimento di una concessione previa pubblica gara, nonché di un’autorizzazione di polizia. Qualsiasi violazione di tale normativa è passibile di sanzioni penali. Le concessioni 4 Fino alle modificazioni della legislazione applicabile intervenute nel 2002, gli operatori aventi la veste di società di capitali quotate nei mercati regolamentati non potevano ottenere una concessione per i giochi d’azzardo. Tali operatori sono dunque rimasti esclusi dalle gare finalizzate all’attribuzione di concessioni svoltesi nel 1999. L’illegittimità di tale esclusione alla luce degli articoli 43 CE e 49 CE è stata dichiarata, in particolare, nella citata sentenza Placanica e a. 5 Il decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, recante disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale, convertito dalla legge CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 73 4 agosto 2006, n. 248 (GURI n. 18, dell’11 agosto 2006; in prosieguo: il «decreto Bersani »), ha proceduto ad una riforma del settore del gioco in Italia, destinata ad assicurare l’adeguamento di quest’ultimo alle regole imposte dal diritto dell’Unione. 6 L’articolo 38 del decreto Bersani, intitolato «Misure di contrasto del gioco illegale», prevede, al comma 1, l’adozione, entro il 31 dicembre 2006, di una serie di disposizioni «al fine di contrastare la diffusione del gioco irregolare e illegale, l’evasione e l’elusione fiscale nel settore del gioco, nonché di assicurare la tutela del giocatore». 7 L’articolo 38, commi 2 e 4, del decreto Bersani stabilisce le nuove modalità di distribuzione dei giochi d’azzardo riguardanti, da un lato, gli eventi diversi dalle corse dei cavalli e, dall’altro, le corse dei cavalli. In particolare: – si prevede l’apertura di almeno 7 000 nuovi punti di vendita per i giochi d’azzardo riguardanti gli eventi diversi dalle corse dei cavalli, e almeno 10 000 nuovi punti di vendita per i giochi d’azzardo riguardanti le corse dei cavalli; – il numero massimo di punti di vendita per ciascun comune è fissato in proporzione al numero di abitanti e tenendo conto dei punti di vendita per i quali è già stata rilasciata concessione a seguito delle gare del 1999; – i nuovi punti di vendita devono rispettare una distanza minima da quelli per i quali è già stata rilasciata concessione a seguito delle gare del 1999; – l’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato (in prosieguo: l’«AAMS»), operante sotto l’egida del Ministero dell’Economia e delle Finanze, è incaricata della «definizione delle modalità di salvaguardia» dei titolari di concessioni assegnate all’esito delle gare del 1999. Le autorizzazioni di polizia 8 Il sistema di concessioni è collegato ad un sistema di controlli di pubblica sicurezza disciplinato dal regio decreto. A norma dell’articolo 88 di quest’ultimo, la licenza di pubblica sicurezza può essere concessa unicamente a soggetti concessionari o autorizzati da parte di ministeri o altri enti ai quali la legge riserva la facoltà di organizzare o gestire scommesse. Le sanzioni penali 9 L’organizzazione di giochi, anche per via telematica o telefonica, in assenza della necessaria concessione o autorizzazione di polizia costituisce in Italia un reato punibile con la reclusione fino a tre anni ai sensi dell’articolo 4 della legge 13 dicembre 1989, n. 401, recante interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestini e tutela della correttezza nello svolgimento di manifestazioni sportive (GURI n. 294, del 18 dicembre 1989), come modificata dall’articolo 37, comma 5, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (supplemento ordinario alla GURI n. 302, del 29 dicembre 2000; in prosieguo: la «legge n. 401/89»). Procedimenti principali e questione pregiudiziale La Stanley e la sua situazione in Italia 10 La Stanley è autorizzata ad operare come raccoglitore di scommesse nel Regno Unito in virtù di una licenza rilasciata dalle autorità di Liverpool. La Stanley accetta scommesse a quota fissa su vasti palinsesti di eventi, sportivi e non, nazionali e internazionali. 11 La Stanley opera in Italia tramite più di 200 agenzie, aventi la veste di CTD. I CTD sono locali aperti al pubblico nei quali gli scommettitori possono concludere scommesse sportive per via telematica accedendo ad un server della Stanley ubicato nel Regno Unito o in un altro Stato membro, pagare le loro puntate e, eventualmente, riscuotere le vincite. 74 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 I CTD sono gestiti da operatori indipendenti contrattualmente legati alla Stanley. La Stanley opera in Italia esclusivamente attraverso tali punti fisici di vendita al dettaglio e non è dunque un operatore di giochi d’azzardo tramite Internet. 12 È pacifico che, tenuto conto del modus operandi della Stanley, spetta in via di principio a quest’ultima l’obbligo di ottenere una concessione per l’esercizio delle attività di raccolta e di gestione delle scommesse in Italia, ciò che permetterebbe ai CTD di esercitare le loro attività. 13 La Stanley, che faceva parte di un gruppo quotato nei mercati regolamentati, è stata esclusa, in violazione del diritto dell’Unione, dalla gara che ha portato all’attribuzione, nel 1999, di 1 000 concessioni per la commercializzazione di scommesse su competizioni sportive diverse dalle corse dei cavalli, valide per un periodo di sei anni e rinnovabili per altri sei. 14 Le disposizioni del decreto Bersani hanno trovato attuazione mediante procedure di gara avviate dall’AAMS nel corso dell’anno 2006. Il 28 agosto 2006 sono stati pubblicati due bandi di gara in applicazione dei commi 2 e 4 dell’articolo 38 del decreto Bersani, che hanno messo a concorso le concessioni per 500 punti di vendita dedicati di gioco ippico e 9 500 punti di vendita non dedicati di gioco ippico, oltre all’attivazione di reti di gioco ippico a distanza, nonché per 1 900 punti di vendita dedicati di gioco sportivo e 4 400 punti di vendita non dedicati di gioco sportivo, oltre all’attivazione di reti di gioco sportivo a distanza. Tali bandi sono stati pubblicati, in data 30 agosto 2006, anche nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea (procedimenti nn. 2006/S-163-175655 e 2006/S-164-176680). Il termine per la presentazione delle offerte è stato fissato al 20 ottobre 2006 per tutti i tipi di concessione. 15 La documentazione concernente i bandi di gara includeva in particolare un capitolato d’oneri comprendente otto allegati, nonché lo schema di convenzione tra l’AAMS e l’aggiudicatario della concessione relativa ai giochi d’azzardo riguardanti gli eventi diversi dalle corse dei cavalli (in prosieguo: lo «schema di convenzione»). 16 Il suddetto capitolato d’oneri subordinava la partecipazione alla gara, da un lato, a norma del suo articolo 13, alla costituzione di una garanzia bancaria provvisoria e, dall’altro, a norma del suo articolo 14, all’impegno a costituire una garanzia bancaria definitiva a copertura degli obblighi derivanti dalla concessione. 17 Ai sensi dell’articolo 23, comma 2, lettera a), dello schema di convenzione, l’AAMS è tenuta a pronunciare la decadenza della concessione nel caso in cui, «nei confronti del concessionario, del legale rappresentante o degli amministratori del concessionario, siano state adottate misure cautelari o provvedimenti di rinvio a giudizio per tutte le ipotesi di reato di cui alla legge 19 marzo 1990, n. 55, nonché per ogni altra ipotesi di reato suscettibile di far venire meno il rapporto fiduciario con AAMS». 18 L’articolo 23, comma 3, dello schema di convenzione stabilisce inoltre che l’AAMS «procede alla decadenza dalla concessione, previa immediata sospensione cautelativa della sua efficacia, qualora il concessionario commercializzi, in proprio od attraverso società in qualsiasi modo ad esso collegate, sul territorio italiano od anche attraverso siti telematici situati al di fuori dai confini nazionali, giochi assimilabili ai giochi pubblici, ovvero ad altri giochi gestiti da AAMS, ovvero giochi vietati dall’ordinamento italiano». 19 A norma dell’articolo 23, comma 6, dello schema di convenzione, la garanzia bancaria costituita dal concessionario viene incamerata dall’AAMS in caso di decadenza della concessione, fermo restando il diritto dell’AAMS di chiedere il risarcimento del danno ulteriore. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 75 20 A seguito della pubblicazione dei bandi di gara, la Stanley ha nuovamente manifestato il proprio interesse ad ottenere una concessione per la raccolta e la gestione di scommesse, ed ha ottenuto dall’AAMS il supporto informatico necessario per presentare un’offerta. La Stanley ha poi chiesto all’AAMS dei chiarimenti in ordine ad alcune di tali disposizioni che avrebbero potuto costituire potenziali ostacoli alla sua partecipazione alla gara e la cui interpretazione non le sembrava chiara per alcuni aspetti. 21 Con lettera in data 21 settembre 2006, la Stanley ha chiesto all’AAMS se il proprio modello operativo, basato sui CTD ad essa affiliati, venisse considerato da detta amministrazione come contrastante con i principi e con le disposizioni contenute nella documentazione di gara, segnatamente con l’articolo 23, comma 3, dello schema di convenzione, sì che la partecipazione a tali procedure e l’eventuale esito positivo della stessa avrebbero potuto precludere la prosecuzione dell’esercizio dell’attività summenzionata, e ha chiesto inoltre se la prosecuzione di quest’ultima avrebbe potuto integrare una causa di revoca, di decadenza o di sospensione di concessioni eventualmente attribuite. 22 Nella sua risposta del 6 ottobre 2006, l’AAMS ha dichiarato che la partecipazione alle procedure sarebbe stata subordinata alla rinuncia in Italia all’esercizio delle attività transfrontaliere, ed ha affermato al tempo stesso, in particolare, che il nuovo assetto avrebbe consentito ai candidati aggiudicatari di predisporre reti di vendita che potevano anche presentare carattere nazionale. Tuttavia, l’amministrazione suddetta ha richiamato l’attenzione sul fatto che tali reti «ovviamente tend[evano] a sostituire le eventuali vecchie reti e, in questo contesto, le disposizioni di cui all’art. 23 dello schema di convenzione costitui[vano] una corretta tutela degli investimenti operati dai concessionari stessi». 23 In risposta a tale lettera, la Stanley ha chiesto all’AAMS, in data 10 ottobre 2006, di riconsiderare la propria posizione «modificando le previsioni del bando di gara, ed in particolare l’articolo 23 dello schema di convenzione (...) in modo che la scrivente possa partecipare alla selezione, senza essere costretta a rinunciare all’esercizio della propria libertà fondamentale di prestare servizi transfrontalieri». 24 La Stanley ha inoltre trasmesso all’AAMS, il 12 ottobre 2006, il seguente quesito supplementare: «Se, nell’ipotesi in cui essa Stanley decidesse di rinunziare all’espletamento dei propri servizi transfrontalieri in Italia e partecipare alle procedure di gara, gli operatori attuali della propria rete – di carattere nazionale – potrebbero essere affetti da squalificazioni soggettive; in caso di risposta negativa, se gli stessi necessiterebbero di ulteriori requisiti abilitanti o se, invece, potrebbero limitarsi all’adesione dello schema di convenzione tipo predisposto da AAMS». 25 Il 17 ottobre 2006 la Stanley ha fatto presente che non aveva ricevuto alcuna risposta alle proprie richieste di chiarimenti datate 10 e 12 ottobre 2006, risposta di cui essa aveva urgentemente bisogno per poter decidere se partecipare o no alle gare. Il 18 ottobre 2006 l’AAMS ha respinto in via definitiva le richieste di chiarimenti della Stanley, la quale ha così deciso di non partecipare alla gara. 26 La Stanley ha domandato l’annullamento dei bandi e degli atti relativi alle procedure di gara dinanzi al Tribunale amministrativo regionale del Lazio mediante il ricorso n. 10869/2006, del 27 novembre 2006, che è attualmente pendente. 27 Le gare si sono concluse nel mese di dicembre 2006 con l’attribuzione di circa 14 000 nuove concessioni. Le procedure avviate nei confronti dei gestori dei CTD della Stanley 76 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 28 Malgrado il fatto che la Stanley non sia divenuta titolare di una concessione per la raccolta e la gestione di scommesse, i sigg. Costa e Cifone hanno richiesto l’autorizzazione di polizia prevista dall’articolo 88 del regio decreto al fine di esercitare la propria attività quali gestori di CTD. La causa Costa (C-72/10) 29 All’epoca dei fatti oggetto del procedimento principale, il sig. Costa era gestore di un CTD a Roma (Italia) in virtù di un contratto datato 27 maggio 2008. 30 A seguito della richiesta di autorizzazione di polizia presentata dal sig. Costa, alcuni funzionari della polizia di Stato di Roma hanno proceduto, in data 8 ottobre 2008, a controlli presso il CTD da lui gestito, constatando il reato di esercizio abusivo di attività di gioco e scommessa previsto dall’articolo 4 della legge n. 401/89, consistente più precisamente nella raccolta di scommesse su eventi sportivi messa in atto in assenza della concessione e della licenza di pubblica sicurezza necessarie. 31 Con decisione in data 27 gennaio 2009, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma ha dichiarato non doversi procedere nei confronti del sig. Costa «perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato». Secondo il giudice suddetto, da una sentenza della Corte di cassazione italiana riguardante un affare simile risultava che la legislazione penale italiana era contraria al diritto dell’Unione e doveva dunque essere disapplicata (sentenza 27 maggio 2008 nel procedimento n. 27532/08). 32 Il pubblico ministero ha proposto un ricorso per cassazione dinanzi alla Corte suprema di cassazione, con il quale esso sostiene che la normativa nazionale in materia di concessioni e di autorizzazioni di polizia è compatibile con il diritto dell’Unione, e rileva che, in assenza di un provvedimento di diniego di concessione da parte delle autorità italiane, suscettibile di impugnazione dinanzi al giudice amministrativo, il sig. Costa non ha comunque alcun titolo per lamentare violazioni del diritto dell’Unione commesse dalla Repubblica italiana e per chiedere la disapplicazione di una normativa alla quale egli si è volontariamente sottratto. La causa Cifone (C-77/10) 33 All’epoca dei fatti oggetto del procedimento principale, il sig. Cifone era gestore di un CTD a Molfetta, in provincia di Bari (Italia). Il 26 luglio 2007 una richiesta di autorizzazione di polizia era stata presentata al questore di Bari. 34 Il 7 novembre 2007, dinanzi alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Trani è stata presentata una denuncia da parte di una società concorrente, titolare di una concessione rilasciata dall’AAMS in virtù del decreto Bersani. Lo scopo di questa denuncia era di sollecitare l’azione penale nei confronti di una pluralità di intermediari operanti nella provincia di Bari, accusati del reato di esercizio abusivo delle scommesse previsto dall’articolo 4 della legge n. 401/89, fra i quali il sig. Cifone. 35 Il 20 ottobre 2007 la Guardia di Finanza di Molfetta ha proceduto di sua iniziativa al sequestro provvisorio delle attrezzature e dei locali del CTD del sig. Cifone. 36 Il pubblico ministero ha disposto la convalida del sequestro ed ha domandato al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Trani di ordinare il sequestro preventivo penale dei locali e delle attrezzature di tutti gli indagati, fra i quali il sig. Cifone. Con decreto del 26 maggio 2008, detto giudice ha disposto il sequestro preventivo per violazione, in particolare, dell’articolo 4 della legge n. 401/89; tale decisione è stata confermata dal Tribunale del riesame di Bari con ordinanza in data 10 e 14 luglio 2008. 37 Il 9 settembre 2008 il sig. Cifone ha proposto dinanzi al giudice del rinvio un ricorso CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 77 per cassazione avverso l’ordinanza del 10 e 14 luglio 2008. Il sig. Cifone chiede la disapplicazione della normativa nazionale, ivi compresi i suoi effetti in materia penale, a motivo del fatto che essa, confermando la validità delle precedenti concessioni e prevedendo limiti di localizzazione dei nuovi punti di vendita al fine di favorire quelli esistenti, nonché ipotesi di decadenza della concessione aventi carattere gravemente discriminatorio, è contraria al diritto dell’Unione. La questione pregiudiziale 38 Tanto nel procedimento Costa quanto nel procedimento Cifone, la Corte suprema di cassazione ha constatato l’esistenza di dubbi riguardo all’interpretazione dell’estensione della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi e, in particolare, «la possibilità che tale estensione soffra limitazioni da parte di un ordinamento interno che presenta caratteri che si assumono e che appaiono discriminatori ed escludenti nei termini in precedenza ricordati». 39 La Corte suprema di cassazione ha pertanto deciso di sospendere i due procedimenti di cui sopra e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale: «Quale sia l’interpretazione degli articoli 43 CE e 49 CE con riferimento alle libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi nel settore delle scommesse su eventi sportivi, al fine di stabilire se le citate disposizioni del Trattato consentano o meno una disciplina nazionale che stabilisca un regime di monopolio in favore dello Stato ed un sistema di concessioni e di autorizzazioni che, all’interno di un numero determinato di concessioni, preveda: a) l’esistenza di un indirizzo generale di tutela dei titolari di concessioni rilasciate in epoca anteriore sulla base di una procedura che illegittimamente ha escluso una parte degli operatori; b) la presenza di disposizioni che garantiscono di fatto il mantenimento delle posizioni commerciali acquisite sulla base di una procedura che illegittimamente ha escluso una parte degli operatori (come [l’obbligo] per i nuovi concessionari di collocare i loro sportelli [a una distanza minima] da quelli già esistenti); c) la fissazione di ipotesi di decadenza della concessione e di incameramento di cauzioni di entità molto elevata, tra le quali l’ipotesi che il concessionario gestisca direttamente o indirettamente attività transfrontaliere di gioco assimilabili a quelle oggetto della concessione». 40 Con ordinanza del presidente della Corte in data 6 aprile 2010, le cause C-72/10 e C- 77/10 sono state riunite ai fini della fase scritta e orale nonché della sentenza. Sulla ricevibilità della questione pregiudiziale 41 Il governo italiano mette in discussione la ricevibilità della questione pregiudiziale. 42 In primo luogo, esso ritiene che tale questione sia ipotetica. A suo avviso, un’eventuale dichiarazione di incompatibilità della nuova normativa italiana introdotta dal decreto Bersani con il diritto dell’Unione non incide sui soggetti coinvolti nei procedimenti principali, dal momento che la Stanley ha volontariamente deciso di non prendere parte alle gare del 2006 disciplinate da questa nuova normativa. Detto governo lascia intendere che le caratteristiche di un regime di concessione al quale la Stanley non ha partecipato non possono influire sulla situazione penale dei sigg. Costa e Cifone. 43 A questo proposito occorre constatare che, in forza di una costante giurisprudenza, uno Stato membro non può applicare una sanzione penale per il mancato espletamento di una formalità amministrativa qualora l’adempimento di tale formalità venga rifiutato o 78 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 sia reso impossibile dallo Stato membro interessato in violazione del diritto dell’Unione (sentenza Placanica e a., cit., punto 69). Dato che la questione pregiudiziale mira per l’appunto a stabilire se le condizioni cui era subordinata l’attribuzione di una concessione a norma della legislazione nazionale, e che hanno determinato la rinuncia della Stanley a partecipare alla gara in esame nei procedimenti principali, fossero contrarie al diritto dell’Unione, la pertinenza di tale questione ai fini della soluzione delle controversie pendenti dinanzi al giudice del rinvio non può essere messa in discussione. 44 In secondo luogo, il governo italiano sostiene che la questione pregiudiziale è irricevibile in quanto eccessivamente generica. 45 A tal riguardo, è pur vero che la precisione, e persino l’utilità, tanto delle osservazioni presentate dai governi degli Stati membri e dalle altre parti interessate, quanto della risposta della Corte, possono dipendere dal carattere sufficientemente dettagliato delle indicazioni concernenti il contenuto e gli obiettivi della normativa nazionale applicabile alla causa principale. Tuttavia, tenuto conto della separazione delle funzioni tra i giudici nazionali e la Corte, deve ritenersi sufficiente che l’oggetto dei procedimenti principali nonché le sue principali implicazioni per l’ordinamento giuridico dell’Unione si evincano dalla domanda di pronuncia pregiudiziale, al fine di consentire agli Stati membri di presentare le loro osservazioni ai sensi dell’articolo 23 dello Statuto della Corte di giustizia e di partecipare efficacemente al procedimento dinanzi a quest’ultima (sentenza dell’8 settembre 2009, Liga Portuguesa de Futebol Profissional e Bwin International, C-42/07, Racc. pag. I-7633, punto 41). Negli odierni procedimenti principali, la decisione di rinvio soddisfa tali esigenze. 46 Occorre di conseguenza respingere le obiezioni sollevate dal governo italiano in merito alla ricevibilità delle domande di pronuncia pregiudiziale. Sulla questione pregiudiziale 47 Con la sua questione, il giudice del rinvio solleva due problemi che occorre esaminare separatamente. 48 Da un lato, il giudice nazionale è chiamato a decidere se le misure adottate dal legislatore al fine di rimediare all’esclusione illegittima di operatori come la Stanley dalla gara del 1999 siano conformi al diritto dell’Unione. Sebbene, a prima vista, l’attribuzione di circa 16 000 nuove concessioni prevista dal decreto Bersani sembri ad esso giudice conforme alle prescrizioni dettate dalla Corte al punto 63 della citata sentenza Placanica e a., il giudice del rinvio si interroga sulla compatibilità con il diritto dell’Unione della tutela che per certi aspetti il nuovo regime offre alle posizioni commerciali degli operatori risultati aggiudicatari di una concessione al termine della gara del 1999 di fronte alla potenziale concorrenza di operatori che erano stati illegittimamente esclusi da tale gara e che nel 2006 avrebbero potuto, per la prima volta, partecipare ad una gara per l’attribuzione di concessioni. A questo proposito il giudice del rinvio cita, in particolare, l’obbligo previsto dall’articolo 38, commi 2 e 4, del decreto Bersani secondo cui i nuovi concessionari devono insediarsi ad una distanza minima dai concessionari già esistenti. 49 Dall’altro lato, il giudice del rinvio rileva che, sebbene il motivo di esclusione dalla gara del 1999 censurato nella citata sentenza Placanica e a. sia stato eliminato mediante modifiche della legislazione applicabile intervenute nel 2002, una serie di nuove restrizioni è stata introdotta a seguito dell’adozione del decreto Bersani, in particolare mediante la previsione, nell’articolo 23 dello schema di convenzione, di ipotesi di decadenza della concessione e di incameramento di cauzioni. Il giudice del rinvio si CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 79 chiede se tali nuove restrizioni siano compatibili con il diritto dell’Unione. Sulla protezione delle posizioni commerciali acquisite dagli operatori risultati aggiudicatari di concessioni al termine della gara del 1999 50 Con la prima parte della sua questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se gli articoli 43 CE e 49 CE debbano essere interpretati nel senso che essi ostano a che uno Stato membro, il quale abbia escluso, in violazione del diritto dell’Unione, una categoria di operatori dall’attribuzione di concessioni per l’esercizio di un’attività economica e che cerchi di rimediare a tale violazione mettendo a concorso un numero rilevante di nuove concessioni, protegga le posizioni commerciali acquisite dagli operatori esistenti prevedendo in particolare determinate distanze minime tra gli esercizi dei nuovi concessionari e quelli di tali operatori esistenti. 51 Occorre anzitutto ricordare che, come statuito dalla Corte al punto 63 della citata sentenza Placanica e a., spetta all’ordinamento giuridico nazionale stabilire modalità procedurali che garantiscano la tutela dei diritti degli operatori illegittimamente esclusi dalla prima gara, a condizione tuttavia che tali modalità non siano meno favorevoli di quelle applicabili a situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza) e che non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione (principio di effettività). 52 Al medesimo punto della citata sentenza Placanica e a., la Corte ha poi affermato che tanto una revoca e la redistribuzione delle precedenti concessioni, quanto la messa a concorso di un numero adeguato di nuove concessioni potrebbero essere soluzioni appropriate. Entrambe queste soluzioni sono in linea di principio idonee a rimediare, quanto meno per il futuro, all’esclusione illegittima di alcuni operatori, permettendo a questi ultimi di esercitare la loro attività sul mercato alle stesse condizioni applicabili agli operatori esistenti. 53 Tuttavia, ciò non si verifica nel caso in cui le posizioni commerciali acquisite dagli operatori esistenti siano tutelate dalla normativa nazionale. Il fatto stesso che gli operatori esistenti abbiano potuto iniziare la propria attività alcuni anni prima degli operatori illegittimamente esclusi, ed abbiano così potuto insediarsi sul mercato con una certa notorietà e con una clientela propria, conferisce loro un indebito vantaggio concorrenziale. Concedere agli operatori esistenti ulteriori vantaggi concorrenziali rispetto ai nuovi concessionari ha come conseguenza di perpetuare e di rafforzare gli effetti dell’esclusione illegittima di questi ultimi dalla gara del 1999, e costituisce dunque una nuova violazione degli articoli 43 CE e 49 CE nonché del principio di parità di trattamento. Inoltre, una misura siffatta rende eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione agli operatori illegittimamente esclusi dalla gara del 1999 e dunque non rispetta il principio di effettività. 54 In tale contesto, occorre ricordare che le autorità pubbliche che rilasciano concessioni in materia di giochi d’azzardo sono tenute a rispettare le norme fondamentali dei Trattati, e segnatamente gli articoli 43 CE e 49 CE, i principi di parità di trattamento e di non discriminazione a motivo della nazionalità, nonché l’obbligo di trasparenza che ne deriva (v., in tal senso, sentenze del 3 giugno 2010, Sporting Exchange, C-203/08, Racc. pag. I-4695, punto 39, e del 9 settembre 2010, Engelmann, C-64/08, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 49 e la giurisprudenza ivi citata). 55 Pur senza implicare necessariamente un obbligo di procedere ad una pubblica gara, il suddetto obbligo di trasparenza – che si applica qualora la concessione di cui trattasi 80 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 possa interessare un’impresa avente sede in uno Stato membro diverso da quello nel quale la concessione viene attribuita – impone all’autorità concedente di garantire, ad ogni potenziale offerente, un livello di pubblicità adeguato, tale da consentire l’apertura della concessione alla concorrenza nonché il controllo dell’imparzialità delle procedure di attribuzione (citate sentenze Commissione/Italia, punto 24 e la giurisprudenza ivi citata; Sporting Exchange, punti 40 e 41, nonché Engelmann, punto 50). 56 L’attribuzione di tali concessioni deve dunque essere fondata su criteri oggettivi, non discriminatori e noti in anticipo, così da circoscrivere l’esercizio del potere discrezionale delle autorità nazionali (v., in tal senso, sentenza Engelmann, cit., punto 55 e la giurisprudenza ivi citata). 57 Il principio di parità di trattamento impone inoltre che tutti i potenziali offerenti dispongano di uguali opportunità, ed implica dunque che costoro siano assoggettati alle medesime condizioni. Ciò vale a maggior ragione in una situazione quale quella in esame nei procedimenti principali, in cui una violazione del diritto dell’Unione da parte dell’autorità aggiudicatrice interessata ha già avuto come conseguenza una disparità di trattamento in danno di alcuni operatori. 58 Per quanto riguarda più specificamente l’obbligo per i nuovi concessionari di insediarsi ad una distanza minima da quelli già esistenti, imposto dall’articolo 38, commi 2 e 4, del decreto Bersani, tale misura ha come effetto di proteggere le posizioni commerciali acquisite dagli operatori già insediati a discapito dei nuovi concessionari, i quali sono costretti a stabilirsi in luoghi meno interessanti dal punto di vista commerciale rispetto a quelli occupati dai primi. Una misura siffatta implica dunque una discriminazione nei confronti degli operatori esclusi dalla gara del 1999. 59 Quanto a un’eventuale giustificazione di tale disparità di trattamento, risulta da una giurisprudenza consolidata che ragioni di natura economica – come l’obiettivo di garantire agli operatori aggiudicatari di concessioni dopo la gara del 1999 la continuità, la stabilità finanziaria o una giusta remunerazione degli investimenti realizzati – non possono essere riconosciute quali motivi imperativi di interesse generale idonei a giustificare una restrizione di una libertà fondamentale garantita dal Trattato (sentenza Commissione/Italia, cit., punto 35 e la giurisprudenza ivi citata, nonché sentenza dell’11 marzo 2010, Attanasio Group, C-384/08, Racc. pag. I-2055, punti 53-56). 60 Inoltre, il governo italiano non può utilmente far leva, in circostanze quali quelle di cui ai procedimenti principali, sull’asserito obiettivo di garantire una distribuzione uniforme dei punti di vendita dei giochi d’azzardo sul territorio nazionale, al fine, da un lato, di evitare l’esposizione ad un eccesso di offerta per i consumatori che vivono nei pressi di tali esercizi di scommesse e, dall’altro, di prevenire il rischio che i consumatori residenti in luoghi meno coperti dall’offerta di tali servizi optino per i giochi clandestini. 61 È vero che tali obiettivi, attinenti, da un lato, alla riduzione delle occasioni di gioco e, dall’altro, alla lotta contro la criminalità mediante l’assoggettamento a controllo degli operatori attivi in tale settore e l’incanalamento delle attività di gioco d’azzardo entro i circuiti così controllati, rientrano tra quelli riconosciuti dalla giurisprudenza come idonei a giustificare restrizioni alle libertà fondamentali nel settore dei giochi d’azzardo (sentenza Placanica e a., cit., punti 46 e 52). 62 Tuttavia, per quanto riguarda il primo di questi obiettivi, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 63 delle sue conclusioni e come constatato dalla Corte al punto 54 della citata sentenza Placanica e a., il settore dei giochi d’azzardo in Italia è stato per CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 81 lungo tempo caratterizzato da una politica di espansione finalizzata ad aumentare gli introiti fiscali e dunque, in tale contesto, non è possibile invocare alcuna giustificazione fondata sugli obiettivi della limitazione della propensione al gioco dei consumatori o della limitazione dell’offerta di giochi. Nella misura in cui il decreto Bersani ha ulteriormente aumentato in modo significativo la quantità di occasioni di gioco rispetto all’epoca esaminata nella causa Placanica e a., tale conclusione si impone con ancor più forza nella situazione attuale del settore. 63 Per quanto riguarda poi il secondo degli obiettivi invocati, risulta da una giurisprudenza consolidata che le restrizioni imposte dagli Stati membri devono soddisfare il principio di proporzionalità, e che una normativa nazionale è idonea a garantire la realizzazione dell’obiettivo invocato soltanto se i mezzi impiegati sono coerenti e sistematici (sentenza Placanica e a., cit., punti 48 e 53). 64 Orbene, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 67 delle sue conclusioni, le norme sulle distanze minime sono state imposte unicamente ai nuovi concessionari, ad esclusione di quelli già insediati. Pertanto, anche se un regime di distanze minime tra punti di vendita potrebbe essere di per sé giustificato, non si può ammettere che simili restrizioni vengano applicate in circostanze quali quelle in esame negli odierni procedimenti principali, in cui esse penalizzerebbero unicamente i nuovi concessionari che fanno ingresso sul mercato. 65 Ad ogni modo, un regime di distanze minime tra punti di vendita potrebbe essere giustificato soltanto qualora fosse escluso – ciò che spetterebbe al giudice nazionale verificare – che il reale obiettivo di tali norme sia quello di proteggere le posizioni commerciali degli operatori esistenti, anziché quello, invocato dal governo italiano, di incanalare la domanda di giochi d’azzardo entro circuiti controllati. Inoltre, spetterebbe, se del caso, al giudice del rinvio verificare che l’obbligo di rispettare determinate distanze minime, il quale impedisce l’insediamento di punti di vendita supplementari in zone fortemente frequentate dal pubblico, sia veramente idoneo a realizzare l’obiettivo invocato e avrà effettivamente come conseguenza che i nuovi operatori sceglieranno di stabilirsi in luoghi poco frequentati, assicurando così una copertura a livello nazionale. 66 Occorre dunque rispondere alla prima parte della questione sollevata dichiarando che gli articoli 43 CE e 49 CE, nonché i principi di parità di trattamento e di effettività, devono essere interpretati nel senso che essi ostano a che uno Stato membro, il quale abbia escluso, in violazione del diritto dell’Unione, una categoria di operatori dall’attribuzione di concessioni per l’esercizio di un’attività economica e che cerchi di rimediare a tale violazione mettendo a concorso un numero rilevante di nuove concessioni, protegga le posizioni commerciali acquisite dagli operatori esistenti prevedendo in particolare determinate distanze minime tra gli esercizi dei nuovi concessionari e quelli di tali operatori esistenti. Sulle nuove restrizioni introdotte a seguito dell’adozione del decreto Bersani 67 Con la seconda parte del suo quesito, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se gli articoli 43 CE e 49 CE debbano essere interpretati nel senso che essi ostano ad una disciplina nazionale, quale quella in esame nei procedimenti principali, la quale preveda la decadenza della concessione per le attività di raccolta e di gestione delle scommesse, nonché l’incameramento di garanzie pecuniarie costituite allo scopo di ottenere tale concessione, qualora – venga avviato nei confronti del titolare della concessione, ovvero del suo legale rap- 82 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 presentante o dei suoi amministratori, un procedimento penale per qualsiasi ipotesi di reato «suscettibile di far venir meno il rapporto fiduciario con AAMS», così come previsto dall’articolo 23, comma 2, lettera a), dello schema di convenzione, oppure – il titolare della concessione commercializzi, sul territorio nazionale od attraverso siti telematici situati al di fuori dei confini nazionali, giochi d’azzardo assimilabili a quelli gestiti dall’AAMS ovvero giochi d’azzardo proibiti dall’ordinamento giuridico nazionale, così come previsto dall’articolo 23, comma 3, dello schema di convenzione. 68 A questo proposito, risulta dai documenti presentati alla Corte che, sebbene il citato articolo 23 dello schema di convenzione preveda formalmente ipotesi di decadenza della concessione, tali ipotesi di decadenza costituiscono in pratica anche dei presupposti per ottenere una concessione, in quanto un operatore che non li soddisfacesse al momento del rilascio della concessione incorrerebbe immediatamente nella decadenza del titolo ottenuto. Considerato che, alla luce del modus operandi della Stanley, è a quest’ultima che incombe in linea di principio l’obbligo di ottenere una concessione – ciò che consentirebbe ai CTD, quali quelli gestiti dai sigg. Costa e Cifone, di esercitare la propria attività –, qualsiasi ostacolo al rilascio di una concessione alla Stanley limita automaticamente anche le attività di questi ultimi. Osservazioni preliminari 69 In limine occorre ricordare che gli articoli 43 CE e 49 CE impongono l’eliminazione di qualsiasi restrizione alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione di servizi, ancorché applicabile indistintamente ai prestatori nazionali e a quelli degli altri Stati membri, nel caso in cui essa sia idonea a vietare, a ostacolare o a rendere meno attraenti le attività del prestatore stabilito in un altro Stato membro, dove egli fornisce legittimamente servizi analoghi (sentenza Liga Portuguesa de Futebol Profissional e Bwin International, cit., punto 51 e la giurisprudenza ivi citata). 70 È pacifico che una normativa nazionale, come quella controversa nei procedimenti principali, la quale subordini l’esercizio di un’attività economica all’ottenimento di una concessione e preveda varie ipotesi di decadenza della concessione, costituisce un ostacolo alle libertà così garantite dagli articoli 43 CE e 49 CE. 71 Simili restrizioni possono tuttavia essere ammesse in quanto rientranti tra le misure in deroga espressamente previste dagli articoli 45 CE e 46 CE, o possono essere giustificate da motivi imperativi di interesse generale, a condizione che esse rispettino i requisiti di proporzionalità risultanti dalla giurisprudenza della Corte. A questo proposito, la giurisprudenza ha ammesso un certo numero di motivi imperativi di interesse generale, quali gli obiettivi di tutela dei consumatori, di prevenzione delle frodi e dell’incitamento dei cittadini ad una spesa eccessiva legata al gioco, nonché di prevenzione di turbative dell’ordine sociale in generale (sentenza Placanica e a., cit., punti 45, 46 e 48). 72 Dalle disposizioni e dai principi citati al punto 54 della presente sentenza consegue inoltre che, nell’attribuire concessioni quali quelle in esame nei procedimenti principali, l’autorità concedente è tenuta ad un obbligo di trasparenza, consistente in particolare nel garantire, ad ogni potenziale offerente, un livello di pubblicità adeguato, tale da consentire l’apertura della concessione alla concorrenza nonché il controllo sull’imparzialità delle procedure di attribuzione (citate sentenze Commissione/Italia, punto 24 e la giurisprudenza ivi citata; Sporting Exchange, punti 40 e 41, nonché Engelmann, punto 50). 73 Il principio di trasparenza, che costituisce un corollario del principio di uguaglianza, ha in tale contesto essenzialmente lo scopo di garantire che qualsiasi operatore interessato CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 83 possa decidere di partecipare a pubbliche gare sulla base delle informazioni pertinenti, nonché quello di garantire l’esclusione di qualsiasi rischio di favoritismo e arbitrarietà da parte dell’autorità aggiudicatrice. Esso implica che tutte le condizioni e le modalità della procedura di aggiudicazione siano formulate in maniera chiara, precisa e univoca, in modo tale per cui, da un lato, sia consentito a tutti gli offerenti ragionevolmente informati e normalmente diligenti di comprenderne l’esatta portata e di interpretarle nella stessa maniera e, dall’altro, siano fissati dei limiti al potere discrezionale dell’autorità concedente e quest’ultima sia messa in grado di verificare effettivamente se le offerte dei candidati rispondono ai criteri disciplinanti la procedura in questione (v., in tal senso, sentenze del 29 aprile 2004, Commissione/CAS Succhi di Frutta, C-496/99 P, Racc. pag. I-3801, punto 111, nonché del 13 dicembre 2007, United Pan-Europe Communications Belgium e a., C-250/06, Racc. pag. I-11135, punti 45 e 46). 74 Il principio di certezza del diritto esige inoltre che le norme giuridiche siano chiare, precise e prevedibili nei loro effetti, in particolare quando esse possano avere conseguenze sfavorevoli per gli individui e le imprese (v., in tal senso, sentenza del 7 giugno 2005, VEMW e a., C-17/03, Racc. pag. I-4983, punto 80 e la giurisprudenza ivi citata). 75 È alla luce di tali considerazioni che occorre esaminare la seconda parte della questione pregiudiziale. Sulla decadenza della concessione a motivo dell’avvio di un procedimento penale 76 Come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 93 delle sue conclusioni, l’esclusione di operatori i cui gestori abbiano riportato condanne penali può in linea di principio essere considerata come una misura giustificata dall’obiettivo della lotta contro la criminalità. Infatti, come ripetutamente statuito dalla Corte, i giochi d’azzardo comportano rischi particolarmente elevati di reati e di frodi, tenuto conto della rilevanza delle somme che essi consentono di raccogliere e delle vincite che possono offrire ai giocatori (sentenza Liga Portuguesa de Futebol Profissional e Bwin International, cit., punto 63). 77 La decadenza della concessione costituisce tuttavia una misura particolarmente grave per il concessionario, a maggior ragione in circostanze quali quelle degli odierni procedimenti principali, in cui essa determina automaticamente, a norma dell’articolo 23, comma 6, dello schema di convenzione, la perdita di un’ingente garanzia pecuniaria nonché eventuali obblighi di risarcimento dei danni subiti dall’AAMS. 78 Di conseguenza, per consentire ad ogni potenziale offerente di valutare con certezza il rischio che gli vengano applicate simili sanzioni, per garantire l’assenza di rischi di favoritismo o arbitrarietà da parte dell’amministrazione aggiudicatrice e, infine, per garantire il rispetto del principio di certezza del diritto, è necessario che le circostanze nelle quali le suddette sanzioni verranno applicate siano enunciate in modo chiaro, preciso e univoco. 79 Il riferimento, contenuto nell’articolo 23, comma 2, lettera a), dello schema di convenzione, alle «ipotesi di reato di cui alla legge 19 marzo 1990, n. 55», che riguarda i delitti di mafia nonché altre forme di criminalità comportanti un grave pericolo per la società, sembra soddisfare le esigenze sopra descritte, salvo verifica da parte del giudice del rinvio. Per contro, e sempre con riserva di verifica da parte del giudice del rinvio, altrettanto non sembra potersi dire per quanto riguarda il riferimento, operato dalla medesima disposizione sopra citata, a «ogni altra ipotesi di reato suscettibile di far venir meno il rapporto fiduciario con AAMS». Spetta al giudice del rinvio esaminare se un offerente ragionevolmente informato e normalmente diligente sarebbe stato in grado di compren- 84 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 dere l’esatta portata di tale riferimento. 80 Nell’ambito di tale esame, detto giudice dovrà in particolare tener conto, da un lato, del fatto che i potenziali offerenti disponevano di un termine inferiore a due mesi per esaminare i documenti relativi alla gara e, dall’altra, del comportamento dell’AAMS a seguito delle richieste di chiarimenti inviatele dalla Stanley. 81 In ogni caso, risulta da una costante giurisprudenza che le restrizioni imposte dalla normativa nazionale non devono andare oltre quanto è necessario per il raggiungimento dell’obiettivo perseguito (sentenza Gambelli e a., cit., punto 72). Di conseguenza, sebbene in determinate circostanze possa rivelarsi giustificato adottare misure preventive nei confronti di un operatore di giochi d’azzardo sospettato, sulla base di indizi concludenti, di essere implicato in attività criminali, un’esclusione dal mercato in virtù della decadenza della concessione dovrebbe, in linea di principio, essere considerata proporzionata all’obiettivo della lotta contro la criminalità unicamente nel caso in cui fosse fondata su una sentenza avente autorità di giudicato e riguardante un delitto sufficientemente grave. Una legislazione che contempli, anche in modo temporaneo, l’esclusione di operatori dal mercato potrebbe essere considerata proporzionata unicamente a condizione di prevedere un’efficace possibilità di ricorso in sede giurisdizionale nonché un risarcimento del danno subìto nel caso in cui, in un momento successivo, tale esclusione si rivelasse ingiustificata. 82 Consta inoltre – salvo verifica da parte del giudice del rinvio – che la causa di decadenza enunciata all’articolo 23, comma 2, lettera a), dello schema di convenzione ha ostacolato, in pratica, la partecipazione alle gare del 2006 di operatori, come la Stanley, i cui rappresentanti erano all’epoca sottoposti a procedimenti penali avviati prima della pronuncia della citata sentenza Placanica e a., conclusisi con decisioni di proscioglimento in una fase successiva. 83 In tale contesto occorre ricordare che dalla citata sentenza Placanica e a. risulta che la Repubblica italiana non può applicare sanzioni penali per l’esercizio di un’attività organizzata di raccolta di scommesse senza concessione o autorizzazione di polizia a persone legate a un operatore che era stato escluso dalle gare pertinenti in violazione del diritto dell’Unione (punto 70 della sentenza). Tale sentenza è stata pronunciata il 6 marzo 2007, ossia quattro mesi dopo il termine del 20 ottobre 2006 fissato per la presentazione delle candidature nella procedura di gara prevista dal decreto Bersani. 84 Pertanto, qualora al momento della gara prevista dal decreto Bersani fossero pendenti procedimenti penali avviati a carico di un operatore come la Stanley, o di suoi rappresentanti o amministratori, rivelatisi poi privi di fondamento giuridico, segnatamente alla luce della citata sentenza Placanica e a., con la conseguenza di rendere praticamente impossibile la partecipazione di detto operatore alla gara in questione, pena l’immediata declaratoria di decadenza della concessione in ragione dei citati procedimenti pendenti, deve ritenersi che la nuova gara non abbia effettivamente rimediato all’esclusione dell’operatore suddetto dalla gara precedente, censurata nella citata sentenza Placanica e a. 85 Di conseguenza, e per ragioni identiche a quelle enunciate in detta sentenza, non possono essere applicate sanzioni per l’esercizio di un’attività organizzata di raccolta di scommesse senza concessione o senza autorizzazione di polizia nei confronti di persone, quali i sigg. Costa e Cifone, legate a un operatore, come la Stanley, che era stato escluso dalle gare precedenti in violazione del diritto dell’Unione, anche dopo la nuova gara prevista dal decreto Bersani. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 85 86 Tenuto conto della risposta che occorre dare a questa parte del quesito alla luce delle suesposte considerazioni, non è necessario stabilire se e, eventualmente, in quale misura la disposizione censurata violi – così come sostenuto dai sigg. Costa e Cifone – la presunzione di innocenza che costituisce parte integrante delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e che è enunciata all’articolo 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Sulla decadenza della concessione a motivo della commercializzazione di giochi d’azzardo mediante siti telematici situati al di fuori del territorio nazionale 87 Come dimostrato tanto dalla corrispondenza intercorsa tra la Stanley e l’AAMS riepilogata ai punti 21-26 della presente sentenza, quanto dal fatto che l’avvocato generale si è visto costretto a presentare, ai paragrafi 72-89 delle sue conclusioni, due soluzioni alternative fondate su ipotesi di interpretazione dell’articolo 23, comma 3, dello schema di convenzione radicalmente differenti tra loro, quest’ultima disposizione manca di chiarezza. 88 Sussiste infatti incertezza riguardo all’obiettivo e agli effetti di tale disposizione, i quali potrebbero essere o di impedire che un concessionario commercializzi attivamente nel territorio italiano giochi d’azzardo diversi da quelli per i quali egli detiene una concessione, o di impedire qualsiasi attività transfrontaliera in materia di giochi d’azzardo, e in particolare un’attività esercitata con un modus operandi quale quello della Stanley, fondato sul ricorso a CTD. 89 A questo proposito, non vi è dubbio che l’interpretazione delle disposizioni di diritto nazionale spetti, nell’ambito del sistema di cooperazione istituito dall’articolo 267 TFUE, ai giudici nazionali e non alla Corte (sentenza Placanica e a., cit., punto 36). Tuttavia, risulta dalla giurisprudenza citata ai punti 72-74 della presente sentenza che il diritto dell’Unione esige che le condizioni e le modalità di una procedura di gara, quale quella in questione negli odierni procedimenti principali, siano formulate in modo chiaro, preciso e univoco. Non è questo il caso per quanto riguarda l’articolo 23, comma 3, dello schema di convenzione, e ciò malgrado le spiegazioni supplementari fornite dall’AAMS su richiesta della Stanley. 90 È giocoforza constatare che non si può addebitare ad un operatore, quale la Stanley, il fatto di aver rinunciato a presentare una candidatura per una concessione in assenza di qualsiasi sicurezza sul piano giuridico, fintanto che permaneva incertezza riguardo alla conformità del suo modus operandi alle disposizioni della convenzione da sottoscrivere al momento dell’attribuzione di una concessione. Qualora tale operatore fosse stato escluso, in violazione del diritto dell’Unione, dalla gara precedente oggetto di censura nella citata sentenza Placanica e a., deve ritenersi che la nuova gara non abbia effettivamente rimediato a tale esclusione dell’operatore in questione. 91 Alla luce dell’insieme di tali considerazioni, occorre rispondere alla seconda parte della questione sollevata dichiarando che gli articoli 43 CE e 49 CE devono essere interpretati nel senso che essi ostano a che vengano applicate sanzioni per l’esercizio di un’attività organizzata di raccolta di scommesse senza concessione o senza autorizzazione di polizia nei confronti di persone legate ad un operatore che era stato escluso da una gara in violazione del diritto dell’Unione, anche dopo la nuova gara destinata a rimediare a tale violazione, qualora quest’ultima gara e la conseguente attribuzione di nuove concessioni non abbiano effettivamente rimediato all’illegittima esclusione di detto operatore dalla precedente gara. 92 Risulta dagli articoli 43 CE e 49 CE, dal principio di parità di trattamento, dall’obbligo 86 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 di trasparenza, nonché dal principio di certezza del diritto che le condizioni e le modalità di una gara, quale quella in questione negli odierni procedimenti principali, e in particolare le norme contemplanti la decadenza di concessioni rilasciate al termine di tale gara, come quelle dettate dall’articolo 23, commi 2, lettera a), e 3, dello schema di convenzione, devono essere formulate in modo chiaro, preciso e univoco, ciò che spetta al giudice del rinvio verificare. Sulle spese 93 Nei confronti delle parti dei procedimenti principali la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Quarta Sezione) dichiara: 1) Gli articoli 43 CE e 49 CE, nonché i principi di parità di trattamento e di effettività, devono essere interpretati nel senso che essi ostano a che uno Stato membro, il quale abbia escluso, in violazione del diritto dell’Unione, una categoria di operatori dall’attribuzione di concessioni per l’esercizio di un’attività economica e che cerchi di rimediare a tale violazione mettendo a concorso un numero rilevante di nuove concessioni, protegga le posizioni commerciali acquisite dagli operatori esistenti prevedendo in particolare determinate distanze minime tra gli esercizi dei nuovi concessionari e quelli di tali operatori esistenti. 2) Gli articoli 43 CE e 49 CE devono essere interpretati nel senso che essi ostano a che vengano applicate sanzioni per l’esercizio di un’attività organizzata di raccolta di scommesse senza concessione o senza autorizzazione di polizia nei confronti di persone legate ad un operatore che era stato escluso da una gara in violazione del diritto dell’Unione, anche dopo la nuova gara destinata a rimediare a tale violazione, qualora quest’ultima gara e la conseguente attribuzione di nuove concessioni non abbiano effettivamente rimediato all’illegittima esclusione di detto operatore dalla precedente gara. 3) Risulta dagli articoli 43 CE e 49 CE, dal principio di parità di trattamento, dall’obbligo di trasparenza, nonché dal principio di certezza del diritto che le condizioni e le modalità di una gara, quale quella in questione negli odierni procedimenti principali, e in particolare le norme contemplanti la decadenza di concessioni rilasciate al termine di tale gara, come quelle dettate dall’articolo 23, commi 2, lettera a), e 3, dello schema di convenzione tra l’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato e l’aggiudicatario della concessione per giochi d’azzardo relativi ad eventi diversi dalle corse dei cavalli, devono essere formulate in modo chiaro, preciso e univoco, ciò che spetta al giudice del rinvio verificare. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 87 Osservazioni del Governo della Repubblica italiana (avv. Stato Wally Ferrante, AL 18178/12) nella causa C-59/12. Materia: Ravvicinamento delle legislazioni Tutela dei consumatori Libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi Libera circolazione dei servizi Libera circolazione delle merci QUESTIONE PREGIUDIZIALE 1. Con l’ordinanza del 18 gennaio 2012, depositata in data 6 febbraio 2012 dal Bundesgerichtshof – Germania., è stato chiesto alla Corte di Giustizia dell’Unione europea di pronunciarsi, ai sensi dell’art. 267 TFUE, sulla seguente questione pregiudiziale: “Se l’art. 3, paragrafo 1, in combinato disposto con l’art. 2 lett. d) della direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali debba essere interpretato nel senso che l’azione di un professionista, la quale si configuri come pratica commerciale di un’impresa nei confronti dei consumatori, può ravvisarsi anche nel fatto che una cassa malattia del regime legale fornisca informazioni (ingannevoli) ai propri iscritti circa gli svantaggi derivanti agli stessi in caso di passaggio ad un’altra cassa malattia del regime legale”. ESPOSIZIONE DEI FATTI DI CAUSA 2. La questione pregiudiziale trae origine dal ricorso proposto dalla Zentrale zur Bekämpfung unlauteren Wettbewerbs (Centro di repressione della concorrenza sleale) contro una cassa malattia del regime legale, avente natura giuridica di ente di diritto pubblico, volto ad ottenere la condanna di quest’ultima all’inibizione dell’utilizzo di alcune affermazioni apparse nel proprio sito internet da ritenersi ingannevoli e quindi contrarie al diritto della concorrenza. 3. La resistente, infatti, avrebbe taciuto il fatto che, nel caso della riscossione di un contributo supplementare, gli assicurati avrebbero un diritto di recesso speciale previsto dalla legge. 4. La resistente eccepisce l’inapplicabilità delle disposizioni della legge tedesca sulla concorrenza sleale a fronte dell’effetto di “irraggiamento” della direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali. I GIUDIZI IN CORSO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE 88 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 5. Infatti nel caso di specie la cassa malattia, in quanto ente pubblico, non agirebbe con scopo di lucro e, pertanto, non sarebbe qualificabile come “professionista” secondo la definizione di cui all’art. 2, lettere b) e d) della direttiva citata. NORMATIVA COMUNITARIA. 6. Ai sensi dell’art. 2, lett. b) della direttiva 2005/29/CE è qualificabile come professionista “qualsiasi persona fisica o giuridica che, nelle pratiche commerciali oggetto della presente direttiva, agisca nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale e chiunque agisca in nome o per conto di un professionista”. 7. L’art. 2, lett. d) della direttiva definisce pratica commerciale tra imprese e consumatori “qualsiasi azione omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale, ivi compresi la pubblicità e il marketing, posta in essere da un professionista, direttamente connessa alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori”. 8. A norma dell’art. 3, paragrafo 1 della direttiva 2005/29/CE, la stessa si applica alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori poste in essere prima, durante e dopo un’operazione commerciale relativa a un prodotto”. RISPOSTA AL QUESITO 9. La questione sottoposta alla Corte di Giustizia riguarda sostanzialmente la possibilità di qualificare professionisti, ai fini dell’applicazione della direttiva sulle pratiche commerciali sleali, anche organismi o enti di diritto pubblico che svolgono funzioni istituzionali. 10. Il Giudice del rinvio ritiene che l’esito del ricorso, nella parte riguardante la condanna inibitoria, dipenda dall’interpretazione dell’art. 2, lett. b) e d) della predetta direttiva, che offrono rispettivamente le definizioni di “professionista” e di “pratica commerciale”, e dell’art. 3 paragrafo 1 della direttiva 2005/29/CE che ne delimita l’ambito di applicazione. 11. Ritiene il giudice che non sia chiaro se, ai sensi delle richiamate norme, la pratica contestata sia da ritenersi una pratica commerciale tra imprese e consumatori e se la resistente, che, in quanto ente di diritto pubblico, assolve le funzioni del regime legale di assicurazione malattia, abbia agito in qualità di professionista ponendo in essere la misura contestata. 12. Con riferimento all’interpretazione delle nozioni giuridiche di “impresa” e di “attività economica” utilizzate dalla direttiva per definire le pratiche commerciali sleali, il giudice del rinvio richiama i principi emersi da alcune sentenze della Corte di Giustizia secondo i quali si considera un’impresa qualsiasi ente che eserciti un’attività economica a prescindere dal suo status giuridico e dalle sue modalità di finanziamento (sentenza 23 CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 89 aprile 1991, causa C-41/90, Höfner e Elser, punto 21, sentenza 10 gennaio 2006, causa C-222/04, Cassa di risparmio di Firenze e a., punto 107, sentenza 11 dicembre 2007, causa C-280/06, ETI, punto 38 e sentenza del 3 marzo 2011, causa C-437/09, AG2R Prevoyance, punto 41) e si intende come attività economica ogni attività caratterizzata dal fatto di offrire beni o servizi su un determinato mercato (Corte di giustizia, sentenza 18 giugno 1998, causa C-35/96, Commissione/Italia, sentenza 11 luglio 2006, causa C-205/03, FENIN/Commissione, punto 25 e sentenza 3 marzo 2011, causa C-437/09, AG2R Prevoyance, punto 41). 13. Più nello specifico e con riferimento alla qualificazione come imprese dei regimi di previdenza sociale ai fini dell’applicazione degli articoli 81, 82 e 86 CE (ora 101, 102 e 106 TFUE), il giudice richiama una sentenza emblematica della Corte di Giustizia del 16 marzo 2004 (Cause riunite C-264/01, C-306/01, C-354/01 e C-355/01, AOK Bundesverband e altri). 14. In tale sentenza, la Corte ha ritenuto che la nozione di impresa, nel contesto del diritto comunitario della concorrenza, non riguarda gli organismi incaricati della gestione di regimi legali di assicurazione malattia e di assicurazione vecchiaia (e le loro associazioni) che perseguono un obiettivo esclusivamente sociale e non esercitano un’attività economica. 15. Così avviene nel caso delle casse malattia che, anche se il legislatore ha loro concesso un certo margine di libertà nella fissazione del tasso di contribuzione al fine di promuovere una buona gestione, sono legalmente tenute ad offrire ai loro iscritti prestazioni obbligatorie, essenzialmente identiche, che sono indipendenti dall’ammontare dei contributi. 16. Non avendo così alcuna possibilità di influire su tali prestazioni ed essendo riunite in una sorta di comunità fondata sul principio di solidarietà, che permette alle casse malattia di ripartire tra loro i costi e i rischi, esse non sono in concorrenza tra loro, né con istituti privati per la concessione delle prestazioni legali obbligatorie in materia di cure o di medicinali che costituiscono la loro funzione essenziale. 17. La Corte di Giustizia, con la medesima sentenza al punto 58, precisa: “Tuttavia non può escludersi che, ad eccezione delle loro funzioni di natura esclusivamente sociale, nell’ambito della gestione del sistema di previdenza sociale tedesco, la cassa malattia e gli enti che le rappresentano cioè le federazioni di casse, svolgano operazioni a fini diversi da quelli sociali che sarebbero di natura economica. In tal caso le decisioni che esse sarebbero indotte ad adottare potrebbero eventualmente analizzarsi come decisioni di imprese o associazioni di imprese”. 18. Il giudice del rinvio, nell’esprimere i propri dubbi sul fatto che detti principi sviluppati in ambito di applicazione degli artt. 101 e 102 del TFUE siano determinanti anche per l’interpretazione dell’articolo 2, lett. b) e d) della direttiva in materia di pratiche commerciali sleali, solleva dinanzi 90 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 alla Corte di Giustizia, la questione pregiudiziale sopra richiamata. 19. Nell’ordinanza di rinvio, si dà atto che, al fine di rafforzare la concorrenza nel settore pubblico, il legislatore tedesco, attraverso diversi provvedimenti, ha introdotto margini discrezionali a favore delle casse malattie del regime legale per permettere una concorrenza, benché ridotta, in materia di prezzi e qualità tra le casse malattie del regime legale. Gli aventi diritto all’assicurazione sono legittimati, infatti, a scegliere la cassa malattia preferita tra diversi offerenti. 20. Anche se le casse malattia del regime legale non possono stabilire le aliquote contributive (determinate in maniera unitaria per tutte) esse hanno la possibilità di riscuotere contributi supplementari, concedere rimborsi contributivi ed offrire speciali tariffe a scelta. 21. Secondo il giudice del rinvio, se le casse malattia si avvalgono di queste possibilità, entrando in concorrenza con altre casse per attirare gli iscritti, per volontà del legislatore esse agiscono, sotto questo profilo, come imprese. 22. Ciò premesso, ad avviso del Governo italiano, la nozione di “professionista” al pari della definizione di “impresa” e di “attività economica” - strettamente connesse alla qualifica di professionista - va interpretata in modo ampio ed a prescindere dalla qualificazione giuridica rivestita dal soggetto, in piena coerenza con la finalità della direttiva 2005/29/CE di assicurare un livello elevato di protezione dei consumatori. 23. Condizione essenziale deve ritenersi la circostanza che si tratti di un soggetto che agisce sul mercato nell’ambito di un’attività professionale o imprenditoriale economicamente rilevante, ovvero per uno scopo connesso all’esercizio della sua attività d’impresa e che la condotta o l’omissione posta in essere nei confronti dei consumatori sia idonea a condizionarne in modo rilevante le scelte economiche. 24. Con specifico riguardo alla questione degli enti previdenziali c.d. casse malattia, l’Autorità antitrust italiana si è espressa nel senso di riconoscere la qualifica di professionista all’Inpdap - Istituto Nazionale di Previdenza per i Dipendenti dell’Amministrazione Pubblica. 25. Con la delibera del 17 settembre 2008 (Ps698 - Inpdap - Prestazioni creditizie e sociali), l’Istituto è stato ritenuto responsabile e sanzionato per la diffusione di una pratica commerciale scorretta ai sensi dell’articolo 22 del Codice del Consumo, che ha recepito nell’ordinamento italiano la direttiva 2005/29/CE, in quanto, nel prospettare l’offerta di prestiti e mutui erogati dalla Gestione unitaria delle prestazioni creditizie e sociali, aveva omesso di fornire informazioni rilevanti concernenti le condizioni cui resta subordinata la possibilità per il consumatore di fruire dei servizi finanziari reclamizzati. 26. La predetta Autorità, nel caso richiamato, ha rilevato che, se è vero che CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 91 l’erogazione di prestazioni creditizie da parte dell’Inpdap è soggetta ad un regime normativo pubblicistico, la pratica scorretta ascrivibile all’Ente esula completamente dall’attività istituzionale relativa alla gestione del Fondo per il credito, risolvendosi in una forma di pubblicità volta ad attrarre i consumatori in concorrenza con l’attività creditizia di impresa svolta dalle banche. La natura pubblica del soggetto che opera con strumenti privatistici nei confronti dei consumatori, pertanto, non osta alla sua qualifica in termini di “professionista” ed alla conseguente applicazione della disciplina del Codice del Consumo. 27. Il principio secondo il quale la qualificazione di un soggetto come organismo di diritto pubblico non determina di per sé l'esonero dal rispetto delle regole della normativa antitrust trova conferma anche nelle decisioni della giurisprudenza italiana. 28. In tal senso si è espresso il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio (sent. n. 3954/2011), all’esito dell’impugnativa del procedimento PS4732 Passante di Mestre (in cui la natura di concessionario della rete autostradale rivestita da CAV - Concessioni Autostradali Venete non ha influito sulla qualifica dello stesso come imprenditore), rilevando come non sia condivisibile l’assunto secondo il quale una società concessionaria di pubblico servizio non possa qualificarsi quale professionista ai sensi del Codice del Consumo in quanto “la gestione di una infrastruttura stradale costituisce un’attività economicamente rilevante e, quindi, idonea a generare un reddito potenzialmente utile tanto a recuperare l’investimento profuso nella costruzione dell’infrastruttura che a remunerare il capitale”. 29. Il principio si è consolidato anche in seno al Consiglio di Stato (sez. VI, 20 maggio 2001, n. 3013) che ritiene applicabile la normativa antitrust anche agli organismi di diritto pubblico, in quanto l'esenzione prevista dal comma 2 dell' art. 8 legge n. 287 del 1990 (recante norme per la tutela della concorrenza e del mercato) per le imprese che gestiscono servizi di interesse economico generale, opera limitatamente "a tutto quanto strettamente connesso all'adempimento degli specifici compiti loro affidati". 30. Conseguentemente, qualora le summenzionate attività, pur se svolte da organismi di diritto pubblico, prescindano dallo scopo istituzionale per cui quelle pubbliche funzioni sono state conferite, viene meno il nesso funzionale con il carattere non economico dell'attività posta in essere, la quale rientra a pieno titolo nell'ambito dell'attività di impresa privatistica, con conseguente legittima applicazione, limitatamente a tali ipotesi, della disciplina a tutela della concorrenza, prevista dalla legge n. 287/1990. 31. In questa prospettiva, rientrano nella nozione di imprese per il diritto della concorrenza anche istituzioni pubbliche o i monopoli di Stato ovvero le aziende pubbliche, anche incaricate di un servizio pubblico, nella misura 92 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 in cui essi svolgano un’attività economica a scopo di lucro. 32. La dimensione dell’impresa è assolutamente irrilevante, così come la sua forma giuridica o le modalità di suo finanziamento o il fatto che le sia o meno riconosciuta personalità giuridica o che sia di proprietà privata, pubblica o mista. 33. Alla luce di quanto sopra, il Governo italiano condivide l’impostazione espressa dalla Corte di cassazione tedesca nell’ordinanza di rinvio, ritenendo applicabile la direttiva sulle pratiche commerciali sleali alle casse malattie, che seppure enti pubblicistici, rientrano, nei limiti suddetti, nella definizione di “professionista”. 34. La tesi presuppone, quale imprescindibile condizione, che la condotta posta in essere da tali enti non persegua finalità sociali o assistenziali, ma sia connotabile come attività di tipo economico. In tali casi infatti l’Ente è qualificabile come professionista, in quanto agisce come un operatore economico in regime di concorrenza con altri operatori. 35. Di contro, va escluso che l’ente rientri nella nozione di professionista con conseguente inapplicabilità della direttiva, laddove l’attività svolta persegua esclusivamente, e pertanto senza margini di discrezionalità, gli obiettivi sociali pubblicistici ad esso conferiti per la gestione dei regimi di previdenza e assicurazione malattia. 36. In conclusione, il quadro delineato e la necessità di non comprimere la finalità di ampia tutela dei consumatori, che costituisce espresso obiettivo della direttiva, depongono per un’interpretazione ampia della nozione di professionista che ricomprenda, nei termini e con i limiti sopra individuati, gli enti previdenziali. CONCLUSIONI 37. Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere il quesito nel senso che l’art. 3, paragrafo 1, in combinato disposto con l’art. 2 lett. d) della direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali debba essere interpretato nel senso che l’azione di un professionista, la quale si configuri come pratica commerciale di un’impresa nei confronti dei consumatori, può ravvisarsi anche nel fatto che una cassa malattia del regime legale fornisca informazioni (ingannevoli) ai propri iscritti circa gli svantaggi derivanti agli stessi in caso di passaggio ad un’altra cassa malattia del regime legale. Roma, 5 giugno 2012 Wally Ferrante Avvocato dello Stato CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 93 Osservazioni del Governo della Repubblica italiana (avv. Stato Wally Ferrante) nella causa C-109/12. Materia: Ravvicinamento delle legislazioni QUESTIONI PREGIUDIZIALI 1. Con l’ordinanza del 27 febbraio 2012, depositata in data 29 febbraio 2012 dal Korkein hallinto-oikeu – Finlandia., è stato chiesto alla Corte di Giustizia dell’Unione europea di pronunciarsi, ai sensi dell’art. 267 TFUE, sulle seguenti questioni pregiudiziali: 1. "Se la definizione operata in uno Stato membro, conformemente alla direttiva sui dispositivi medici 93/42/CEE, secondo la quale un preparato viene considerato un dispositivo o prodotto medico conforme alla direttiva sui dispositivi medici e munito della marcatura CE, osti a che la competente autorità nazionale di un altro Stato membro definisca il preparato in questione come medicinale, conformemente all'articolo 1, paragrafo 2, lettera b), della direttiva sui medicinali 2001/83/CE, in forza delle sue funzioni farmacologiche, immunologiche o metaboliche. 2. In caso di risposta negativa alla precedente questione, se tale competente autorità nazionale possa definire un preparato come medicinale osservando esclusivamente procedimenti conformi alla direttiva sui medicinali 2001/83/CE o se, prima di iniziare il procedimento relativo alla definizione come medicinale conformemente alla direttiva sui medicinali, debba osservarsi il procedimento relativo alla clausola di salvaguardia di cui all'articolo 8 della direttiva sui dispositivi medici 93/42/CEE o il disposto dell'articolo 18 sulla scorretta apposizione della marcatura CE. 3. Se la direttiva sui medicinali 2001/83/CE, la direttiva sui dispositivi medici 93/42/CEE o altrimenti il diritto dell'Unione (incluse la protezione della salute e della vita umana nonché del consumatore) ostino a che sul territorio del medesimo Stato membro siano in commercio preparati contenenti le medesime sostanze con le medesime funzioni, da un lato, come medicinali necessitanti l'autorizzazione all'immissione in commercio a norma della direttiva sui medicinali 2001/83/CE e dall'altro, come dispositivi o prodotti medici, conformemente alla direttiva sui dispositivi medici 93/42/CEE". ESPOSIZIONE DEI FATTI DI CAUSA 2. La questione pregiudiziale trae origine da una controversia tra l’Agenzia del farmaco finlandese e la società francese produttrice del preparato Gynocaps, commercializzato in Finlandia dal 2006 come dispositivo medico munito di marcatura CE. 3. Il preparato Gynocaps è una capsula vaginale la cui funzione è il ripristino 94 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 dell’equilibrio alterato della flora batterica nella vagina. 4. Il preparato è venduto come dispositivo medico munito di marcatura CE, tra l’altro, nei Paesi Bassi, in Spagna, in Italia e in Francia. 5. L’Agenzia europea per i medicinali non ha preso posizione sulla classificazione del preparato Gynocaps, rilevando però che un prodotto contenente lattobacilli vivi, in ragione della sua funzione e dei suoi effetti, è considerato un prodotto che soddisfa i requisiti di cui alla direttiva 2001/83/CE recante un codice comunitario relativo ai medicinali per uso umano. 6. L’Agenzia del farmaco finlandese, sentita la società francese che produce il preparato Gynocaps, con decisione del 14 novembre 2008, ha affermato che detto preparato non costituisce un dispositivo medico e si adatta all’uso come medicinale. 7. Secondo detta decisione, l’effetto principale di un preparato contenente lattobacilli vivi viene raggiunto, dato lo scopo del suo utilizzo, grazie ad un meccanismo avente effetti farmacologici e metabolici. La commercializzazione del prodotto necessita quindi l’autorizzazione per la vendita di un medicinale. 8. L’Agenzia del farmaco finlandese ha informato della sua decisione l’unità della Commissione europea “Dispositivi cosmetici e terapeutici” assumendo che, in caso di erronea apposizione della marcatura CE (non trattandosi di non conformità ai requisiti in senso proprio), non sarebbe applicabile il procedimento della clausola di salvaguardia di cui all’art. 8 della direttiva 93/42 /CE concernente i dispositivi medici. 9. La società francese ha impugnato la decisione dell’Agenzia del farmaco innanzi al Tribunale amministrativo di Helsinki, che ha respinto il ricorso affermando che il preparato Gynocaps può essere classificato in Finlandia come medicinale a prescindere dal fatto che in altri Stati membri lo stesso sia venduto come dispositivo medico. Ha inoltre precisato che l’obbligo imposto all’importatore di ottenere un’autorizzazione di vendita per il prodotto prima della sua immissione in commercio non può considerarsi in alcun caso una restrizione alle importazioni ai sensi dell’art. 34 TFUE allorché il prodotto rientri nella definizione di medicinale. NORMATIVA COMUNITARIA 10. L’art. 34 TFUE vieta fra gli Stati membri le restrizioni quantitative all’importazione nonché qualsiasi misura equivalente. 11. L’art. 36 TFUE stabilisce che la predetta norma lascia impregiudicata le restrizioni all’importazione giustificate, tra l’altro, da motivi di tutela della salute e della vita delle persone. 12. La direttiva 93/42/CEE concernente i dispositivi medici, all’art. 1, definisce la nozione di dispositivo medico, stabilendo che tale debba intendersi “qualsiasi strumento, apparecchio, impianto, sostanza o altro CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 95 prodotto, utilizzato da solo o in combinazione, compreso il software informatico impiegato per il corretto funzionamento e destinato dal fabbricante ad esser impiegato nell'uomo a scopo di: diagnosi, prevenzione, controllo, terapia o attenuazione di una malattia; diagnosi, controllo, terapia, attenuazione o compensazione di una ferita o di un handicap; studio, sostituzione o modifica dell'anatomia o di un processo fisiologico; intervento sul concepimento, la cui azione principale voluta nel o sul corpo umano non sia conseguita con mezzi farmacologici né immunologici né mediante metabolismo, ma la cui funzione possa essere assistita da questi mezzi” (evidenza nostra). 13. All’art. 4, la predetta direttiva stabilisce che “Gli Stati membri non impediscono nel proprio territorio l'immissione in commercio e la messa in servizio dei dispositivi recanti la marcatura CE di cui all'articolo 17 che dimostra che essi hanno formato oggetto del procedimento di valutazione della conformità ai sensi dell'articolo 11”. 14. L’art. 8, paragrafo 1 della predetta direttiva prevede poi una clausola di salvaguardia a norma della quale qualsiasi Stato membro, qualora constati che un dispositivo installato ed utilizzato correttamente secondo la sua destinazione e oggetto di manutenzione regolare, può compromettere la salute e/o la sicurezza dei pazienti, degli utilizzatori o eventualmente di terzi, prende le misure provvisorie necessarie per ritirare tale dispositivo dal mercato, vietarne o ridurne l'immissione in commercio o la messa in servizio. Lo Stato membro comunica immediatamente tali misure alla Commissione indicando i motivi della non conformità del dispositivo alla direttiva. 15.A norma del paragrafo 3 del citato art. 8, se un dispositivo non conforme è munito di marcatura CE, lo Stato membro competente adotta nei confronti di chi abbia apposto il marchio al dispositivo le misure del caso e ne informa la Commissione e gli altri Stati membri. 16. Infine, l’art. 18 della suddetta direttiva recante “Indebita marcatura CE” stabilisce che “Fatto salvo l'articolo 8: a) ogni constatazione, da parte di uno Stato membro, di indebita marcatura CE, comporta per il fabbricante o il suo mandatario stabilito nella Comunità l'obbligo di far cessare l'infrazione alle condizioni fissate dallo Stato membro; b) qualora l'infrazione si protragga, lo Stato membro deve adottare tutte le misure atte a limitare o vietare l'immissione in commercio del prodotto in questione o a garantirne il ritiro dal commercio, secondo la procedura prevista all'articolo 8”. 17. La direttiva in questione è stata modificata dalla direttiva 2007/47/CE, in vigore dal 21 marzo 2010, non applicabile ratione temporis al caso di specie, come precisato dal giudice del rinvio. 18. La direttiva 2001/83/CE recante un codice comunitario relativo ai medicinali per uso umano, come modificata dalla direttiva 2004/27/CE, al- 96 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 l’art. 1 definisce come medicinale “a) ogni sostanza o associazione di sostanze presentata come avente proprietà curative o profilattiche delle malattie umane; o b) ogni sostanza o associazione di sostanze che possa essere utilizzata sull'uomo o somministrata all'uomo allo scopo di ripristinare, correggere o modificare funzioni fisiologiche, esercitando un'azione farmacologica, immunologica o metabolica, ovvero di stabilire una diagnosi medica". 19. La predetta direttiva, all’art. 2, stabilisce che la stessa si applica “ai medicinali per uso umano destinati ad essere immessi in commercio negli Stati membri, preparati industrialmente o nella cui fabbricazione interviene un processo industriale”. Il paragrafo 2 del citato art. 2 prevede inoltre che: “In caso di dubbio, se un prodotto, tenuto conto dell'insieme delle sue caratteristiche, può rientrare contemporaneamente nella definizione di 'medicinale' e nella definizione di un prodotto disciplinato da un'altra normativa comunitaria, si applicano le disposizioni della presente direttiva”. 20. L’art. 6 della predetta direttiva prevede inoltre che: “Nessun medicinale può essere immesso in commercio in uno Stato membro senza un'autorizzazione all'immissione in commercio delle autorità competenti di detto Stato membro rilasciata a norma della presente direttiva oppure senza un'autorizzazione a norma del regolamento (CEE) n. 2309/93”. RISPOSTA AL PRIMO QUESITO 21. Con il primo quesito, il giudice del rinvio chiede nella sostanza alla Corte di giustizia se il diritto dell’Unione osti a che la competente autorità nazionale classifichi come medicinale un prodotto commercializzato in altri Stati membri come dispositivo medico munito della marcatura CE. 22. Al quesito va data risposta negativa. 23. Preliminarmente si deve osservare che da sempre è stata particolarmente dibattuta a livello comunitario la linea di demarcazione tra i dispositivi medici ed i medicinali. 24. Come si è visto, nella definizione di dispositivo medico (art. 1 della direttiva 93/42/CEE) è indicata la natura del dispositivo (strumento, apparecchio, impianto, sostanza, software o altro), il suo impiego (nell'uomo o sull'uomo), il suo scopo (diagnosi, prevenzione, controllo o terapia, attenuazione o compensazione di ferite o handicap, ma anche studio, sostituzione o modifica dell'anatomia o di un processo fisiologico, o di controllo del concepimento) e, in negativo, il suo meccanismo d'azione (non deve esercitare la sua azione mediante mezzi farmacologici, immunologici, né mediante processo metabolico ma tali mezzi possono solo coadiuvarne la funzione). 25. I medicinali invece sono definiti (art. 1 della direttiva 2001/83/CE) come CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 97 sostanze o associazioni di sostanze utilizzate o somministrate sull'uomo a scopo terapeutico, preventivo, diagnostico ed allo scopo di ripristinare, correggere, o modificare funzioni fisiologiche, esercitando un'azione farmacologica, immunologica, o metabolica. 26. Come si evince dalle predette definizioni, anche un dispositivo medico può essere una sostanza. La discriminante tra la sostanza dispositivo medico ed il medicinale, tenuto conto che il loro scopo è sovrapponibile (terapia, prevenzione, diagnosi, ripristino di funzioni), è che il medicinale agisce con mezzi farmacologici, metabolici ed immunologici, mentre per il dispositivo medico, almeno per quanto riguarda l'azione principale, tali mezzi devono essere esclusi. 27. Comunemente, il dispositivo medico deve esercitare la sua funzione con mezzi fisici: azione meccanica, barriera fisica, lavaggio/irrigazione, sostituzione o supporto per organi o funzioni corporee ecc. 28. La direttiva sui medicinali 2004/27/CE ha previsto la difficoltà di collocazione di alcuni prodotti ed ha, comunque, stabilito che, nel caso in cui sussistano dei dubbi di collocazione di un determinato prodotto (in genere derivanti da una scarsa conoscenza del suo principale meccanismo d'azione) il prodotto stesso dovrà essere classificato come medicinale (art. 2, paragrafo 2). 29. Tuttavia, la predetta direttiva, al considerando 7, dispone altresì, in relazione ai prodotti detti "di frontiera" tra il settore dei medicinali e gli altri settori, che, qualora un prodotto rientri chiaramente nella definizione di altre categorie di prodotti, in particolare prodotti alimentari, integratori alimentari, dispositivi medici, biocidi o cosmetici, la direttiva non dovrebbe essere applicata. 30.A tale proposito, spetta in linea generale al fabbricante individuare la normativa che regola i propri prodotti, tenuto conto della destinazione d'uso ad essi attribuita e del meccanismo d'azione alla base di tale destinazione. 31. Le c.d. direttive di nuovo approccio, e in particolare la direttiva 93/42/CEE, si fondano infatti sul presupposto che è responsabilità del fabbricante qualificare il proprio prodotto, specificando la destinazione d'uso e addossandosi di conseguenza l'onere di ottemperare alle diverse prescrizioni normative previste. 32. Tuttavia, in caso di dubbio, saranno le Autorità competenti degli Stati membri a decidere sulla collocazione dei prodotti borderline. A tal fine è stato istituito presso la Commissione Europea un gruppo di lavoro "Borderline and Classification medical devices expert group" a cui partecipano non solo le Autorità competenti, ma anche i rappresentanti delle imprese di settore. 33. Lo scopo è quello di discutere le problematiche correlate alla corretta collocazione dei prodotti nell'ambito delle diverse direttive ed alla classifi- 98 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 cazione dei dispositivi medici in base al rischio, al fine di assicurare un approccio uniforme tra i paesi dell'Unione Europea. 34. Il gruppo, nell'ambito del proprio mandato, ha redatto un manuale "Manual on borderline and classfìcation in the Community Regulatory Framework for medical devices" che viene aggiornato periodicamente sulla base dei consensi raggiunti. 35. Pur non avendo forza di legge, detto manuale rappresenta un utile strumento a disposizione delle Autorità competenti per le decisioni su prodotti borderline. 36. Il gruppo di lavoro si occupa inoltre dell'aggiornamento delle linee guida MEDDEV relative sia alla classificazione, sia alla collocazione dei prodotti (MEDDEV 2.1/3 Borderline products, drug-delivery products and medical devices incorporating, as an integral part, an ancillary medicinal substance or an ancillary human blood derivative; MEDDEV 2.4/1 part 1 and part 2 Guide lines for the classification of medical devices). 37. Ciò premesso, come ricordato dal giudice del rinvio, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia finché l’armonizzazione dei provvedimenti necessari a garantire la tutela della salute non sarà completata, è difficile evitare che sussistano differenze fra gli Stati membri nella qualificazione dei prodotti come medicinali ovvero come alimenti. Quindi, la circostanza che un prodotto sia qualificato come alimento in un altro Stato membro non può impedire di riconoscergli, nello Stato membro di importazione, la qualità di medicinale, qualora esso ne presenti le caratteristiche (CGUE, sentenza del 15 novembre 2007, causa, C-319/05, Commissione / Germania; sentenza 9 giugno 2005, cause riunite C- 211/03, C-299/03 e C-318/03, HLH Warenvertrieb e Orthica). 38. È stato inoltre chiarito che, in mancanza di armonizzazione e laddove sussistano incertezze allo stato attuale della ricerca scientifica, spetta agli Stati membri decidere in merito al livello al quale essi intendono garantire la tutela della salute e della vita delle persone nonché al requisito di una previa autorizzazione all’immissione in commercio di prodotti alimentari, tenendo conto anche delle esigenze della libera circolazione delle merci nell’ambito della Comunità (CGUE, sentenza 5 marzo 2009, causa C- 88/07, Commissione / Spagna; sentenza 23 settembre 2003, causa C- 192/2001, Commissione /Danimarca; sentenza 5 febbraio 2004, causa C-24/00, Commissione / Francia). 39. La Corte di giustizia ha poi precisato che, poiché l’art. 30 CE (oggi art. 36 TFUE) prevede una deroga, da interpretarsi restrittivamente, al principio della libera circolazione delle merci, per stabilire se un prodotto rientri nella definizione di medicinale, spetta alle autorità nazionali, che agiscono sotto il controllo del giudice, decidere caso per caso, tenendo conto di tutte le caratteristiche del prodotto, tra le quali, in particolare, la CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 99 composizione, le proprietà farmacologiche, immunologiche o metaboliche quali risultano dalle conoscenze scientifiche, le modalità d’uso, l’ampiezza della sua diffusione, la conoscenza che ne hanno i consumatori e i rischi che possono derivare dalla sua utilizzazione (CGUE, sentenza 15 gennaio 2009, C-140/07, Hecht-Pharma GmbH). 40. Alla luce di quanto sopra, il Governo italiano, applicando analogicamente la ratio delle richiamate decisione della Corte di giustizia, ritiene che la classificazione operata da uno Stato membro di un determinato preparato come dispositivo medico non osta a che la competente autorità nazionale di un altro Stato membro definisca il preparato in questione come medicinale in forza delle sue funzioni farmacologiche, immunologiche o metaboliche. RISPOSTA AL SECONDO QUESITO 41. Con riferimento al secondo quesito, il Governo italiano ritiene che, qualora uno Stato membro consideri “dispositivo medico” un preparato conforme alla direttiva sui dispositivi medici e marcato CE, la competente autorità nazionale di un altro Stato membro non possa definire il predetto preparato un “medicinale”, in forza delle sue funzioni farmacologiche, immunologiche, metaboliche, se prima non ha attuato il procedimento relativo alla clausola di salvaguardia prevista dall'art. 8 della direttiva 93/42/CEE o il disposto dell'art. 18 della medesima direttiva sulla scorretta marcatura CE di un prodotto. 42. Infatti, entrambe le modalità di intervento, attuate secondo le procedure previste, tendono a rendere coerente sul mercato comunitario la classificazione di un prodotto e a consentirne una commercializzazione secondo regole quanto più possibile uniformi. RISPOSTA AL TERZO QUESITO 43. Con riferimento al terzo quesito, il Governo italiano ritiene che preparati contenenti le medesime sostanze con le medesime funzioni, possano essere presenti sul territorio del medesimo Stato membro sia come medicinali che come dispositivi medici, qualora la diversa collocazione normativa sia giustificata, tramite idonea documentazione, da differenze di concentrazione e formulazione, via di somministrazione, o differente meccanismo d'azione e destinazione d'uso. 44. Infatti, non si ravvisa alcuna contraddizione nel commercializzare la stessa sostanza sia come dispositivo medico sia come farmaco, purché il prodotto qualificato anche come dispositivo medico, avendo riguardo alla destinazione e alle modalità d'uso, non svolga l'azione principale, nel o sul corpo umano, con mezzi farmacologici, immunologici o mediante processo metabolico, ma la cui funzione possa essere coadiuvata da tali mezzi. 45. Né si dovrebbe porre un problema di confusione ingenerata negli opera- 100 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 tori o negli utilizzatori, giacché i due prodotti dovrebbero essere presentati e gestiti in modo diverso. 46.A tale proposito, basti citare l'esempio di preparati a base di acido ialuronico iniettabili nelle articolazioni, che da tempo coesistono sul mercato comunitario sia come medicinali che come dispositivi medici, pur svolgendo la medesima funzione sulle articolazioni. 47. Nel primo caso (medicinale) il prodotto svolge la sua azione con modalità farmacologiche (ad esempio azione antiinfiammatoria sulla cartilagine), nel secondo caso (dispositivo medico), anche in base alle caratteristiche della sostanza, il prodotto svolge la sua azione con modalità meccaniche (azione lubrificante e ripristino del liquido sinoviale). 48. Altro esempio, può essere la soluzione fisiologica che viene classificata come dispositivo medico se la destinazione d'uso è la detergenza o il risciacquo (ad esempio di lenti a contatto) o l'irrigazione o il lavaggio (ad esempio delle cavità nasali) o come farmaco se per uso iniettabile. 49. Pertanto, si ritiene che impedire che la stessa sostanza possa classificarsi come dispositivo medico o come farmaco potrebbe costituire un ostacolo alla libera circolazione delle merci. 50. Infatti, la classificazione come farmaco o come dispositivo medico non può essere stabilita in via preventiva, partendo dall'esame astratto della sostanza implicata, ma va valutata caso per caso nel concreto, considerando appunto la destinazione, il modo di azione e le circostanze di utilizzo. 51. Con riguardo, nello specifico, agli ovuli vaginali contenenti lattobacilli, fin dal 2004 il Medical Device Expert Group (MDEG) si è occupato di tale problematica. 52. In particolare, la decisione del MDEG (MDEG/MDDC/2004/02) ha stabilito che un prodotto italiano consistente in ovuli vaginali dovesse essere qualificato come medicinale e non come dispositivo medico per il meccanismo di azione metabolico/immunologico. Tale decisione non è tuttavia mai stata formalizzata, né pubblicata sul manuale delle decisioni "Manual on Borderline and Classification", secondo le modalità previste per l'attività del gruppo di lavoro. 53. Successivamente, all'esito di un'indagine tra i vari Stati membri proposta dalla Polonia nel 2007, in cui la maggior parte dei Paesi (14 su 15) concordava nel qualificare il prodotto come medicinale, nel 2009, l'Italia ha sostenuto la proposta di decidere caso per caso in base al ceppo di lattobacillo contenuto nel prodotto. 54. È infatti riportato in letteratura che alcuni ceppi possano agire con un meccanismo di azione meccanico di competizione sterica grazie alla capacità adesiva promossa da legami di Van der Waals, forze elettrostatiche e legami idrogeno dei probiotici alle cellule epiteliali, legame che impedirebbe l'adesione di agenti patogeni alla parete vaginale. CONTENZIOSO COMUNITARIO ED INTERNAZIONALE 101 55. Nella riunione del gruppo Borderline and Classification del maggio 2011, inoltre, la Commissione Europea, sentito anche il parere del servizio legale, ha comunicato che si sta orientando, sulla base di una proposta della Francia, ad escludere i microrganismi viventi dall’ambito di applicazione delle direttive sui dispositivi medici. 56. L'Italia, allo stato attuale, in assenza di una base regolatoria e di una decisione ufficiale a livello europeo, non ha ritenuto di modificare l'inquadramento di tali prodotti, continuando ad accettarli sul proprio territorio come dispositivi medici. CONCLUSIONI 57. Il Governo italiano propone quindi alla Corte di risolvere il primo quesito nel senso che la definizione operata in uno Stato membro, conformemente alla direttiva sui dispositivi medici 93/42/CEE, secondo la quale un preparato viene considerato un dispositivo o prodotto medico conforme alla direttiva sui dispositivi medici e munito della marcatura CE, non osta a che la competente autorità nazionale di un altro Stato membro definisca il preparato in questione come medicinale, conformemente all'articolo 1, paragrafo 2, lettera b), della direttiva sui medicinali 2001/83/CE, in forza delle sue funzioni farmacologiche, immunologiche o metaboliche. 58. Il Governo italiano propone inoltre alla Corte di risolvere il secondo quesito nel senso che tale competente autorità nazionale, prima di iniziare il procedimento relativo alla definizione come medicinale conformemente alla direttiva sui medicinali, debba osservare il procedimento relativo alla clausola di salvaguardia di cui all'articolo 8 della direttiva sui dispositivi medici 93/42/CEE o il disposto dell'articolo 18 sulla scorretta apposizione della marcatura CE. 59. Il Governo italiano propone inoltre alla Corte di risolvere il terzo quesito nel senso che la direttiva sui medicinali 2001/83/CE, la direttiva sui dispositivi medici 93/42/CEE o altrimenti il diritto dell'Unione (incluse la protezione della salute e della vita umana nonché del consumatore) non ostano a che sul territorio del medesimo Stato membro siano in commercio preparati contenenti le medesime sostanze con le medesime funzioni, da un lato, come medicinali necessitanti l'autorizzazione all'immissione in commercio a norma della direttiva sui medicinali 2001/83/CE e dall'altro, come dispositivi o prodotti medici, conformemente alla direttiva sui dispositivi medici 93/42/CEE". Roma, 26 giugno 2012 Wally Ferrante Avvocato dello Stato CONTENZIOSO NAZIONALE Overruling e inammissibilità sopravvenuta del ricorso per cassazione (Cassazione civ., Sez. Un., sentenza 11 luglio 2011 n. 15144) Francesco Meloncelli* SOMMARIO: 1. Il problema affrontato dalla Corte di cassazione nella sentenza 11 luglio 2011, n. 15144 - 2. Le ragioni di interesse della sentenza - 3. La fattispecie controversa e le sue sussunzioni storicamente date - 3.1. La fattispecie controversa - 3.2. La normativa di riferimento e i relativi problemi applicativi - 3.3. La valutazione del rapporto tra la sentenza 11 luglio 2011, n. 15144, e la sentenza 30 marzo 2010, n. 7607 - 4. Le ragioni addotte dalla Corte di cassazione per sostenere la sua soluzione - 4.1. La soluzione adottata dalla Corte di cassazione - 4.2. Le premesse teoriche fatte proprie dalla Corte di cassazione - 4.3. Le specie di mutamento dell’interpretazione normativa giurisprudenziale - 4.4. La particolarità della fattispecie controversa sottoposta all’esame della Corte di cassazione - 5. L’applicazione del principio di diritto (norma giuridica) individuato dalla Corte di cassazione alla specifica controversia sottoposta al suo esame - 6. Rinvio per l’esame dei problemi rimasti aperti dopo la soluzione adottata dalla Corte di cassazione. 1. Il problema affrontato dalla Corte di cassazione nella sentenza 11 luglio 2011, n. 15144. Con l’adozione della sentenza 11 luglio 2011, n. 15144, le Sezioni unite civili della Corte di cassazione hanno affrontato e risolto il problema dell’ammissibilità di un ricorso per cassazione che sia stato proposto in conformità alla norma giuridica che, vigente al momento della notificazione dell’atto d’impugnazione, sia stata mutata, nel corso del giudizio, dalla sopravvenuta diversa interpretazione giurisprudenziale di legittimità delle stesse disposizioni (*) Avvocato dello Stato. 104 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 normative dalle quali era stata tratta la norma precedente (1). Più specificamente, ma in termini più generali rispetto a quelli riguardanti la fattispecie controversa - sulla quale, comunque, ci si soffermerà dettagliatamente più avanti - la questione di diritto che è stata sottoposta alla Corte è consistita nel domandare se un atto d’impugnazione tempestivo, e quindi ammissibile, per la sua conformità alla relativa norma processuale vigente al momento della proposizione dell’impugnazione, così com’essa era stata individuata dalla coeva giurisprudenza di legittimità, possa, e, in caso positivo, entro quali limiti e a quali condizioni, essere riconosciuto tempestivo e, quindi, ammissibile, anche quando, per effetto di un mutamento della giurisprudenza di legittimità posteriore alla proposizione dell’impugnazione, sia stata individuata, dal giudice di legittimità, l’esistenza di una norma giuridica diversa, sotto la quale si dovrebbe effettuare, al momento della decisione del giudice, la sussunzione dell’atto d’impugnazione. Con parole ancora diverse, ma più brevemente, si è domandato se, entro quali limiti e a quali condizioni, il sopravvenuto mutamento interpretativo della normazione processuale, ad opera della giurisprudenza di legittimità, sul termine di proposizione di un’impugnazione possa (non) comportare l’(in)ammissibilità per tardività (tempestività) di un ricorso per cassazione, che sarebbe tempestivo e, quindi, ammissibile alla stregua della norma vigente al momento della sua proposizione, in conformità all’interpretazione coeva della giurisprudenza di legittimità, successivamente abbandonata e sostituita da una nuova norma. Più sinteticamente ancora si potrebbe dire che si è domandato se l’ammissibilità del ricorso per cassazione sia sempre sottoposta al principio tempus regit actum, o, altrimenti, se il mutamento di giurisprudenza di legittimità sulle norme processuali sia sempre retroattivo oppure no. Il principio di diritto, sulla base del quale la Corte ha formulato, a conclusione di un lungo e complesso ragionamento, la sua risposta al quesito, non si trova, purtroppo, espressamente formulato nella sentenza, cosicché resta affidato all’interprete il compito di estrapolarlo e di confezionare la relativa formula dichiarativa. A mio modo di vedere tale principio di diritto potrebbe esser rivestito della seguente formula: “è ammissibile il ricorso per cassazione che, originariamente conforme alla norma giuridica erroneamente individuata dalla precedente costante giurisprudenza di legittimità, sulla quale il ricorrente abbia giustificatamente (o ragionevolmente o incolpevolmente) fatto affidamento, (1) La sentenza è stata già oggetto di commento: v. F. CAVALLA – C. CONSOLO – M. DE CRISTOFARO Le S.U. aprono (ma non troppo) all’errore scusabile: funzione dichiarativa della giurisprudenza, tutela dell’affidamento, tipi di overruling, in Il Corriere giuridico 2011, 1397 ss; R. CAPONI Retroattività del mutamento di giurisprudenza: limiti, in Il Foro italiano 2011, I, 3344 ss.; F. VALERINI Overruling di norma processuale: tsunami interpretativo o cambiamento annunciato?, in Diritto e giustizia 2011, 320 ss.; v. anche E. VINCENTI Note minime sul mutamento di giurisprudenza (overruling) come (possibile?) paradigma di un istituto giuridico di carattere generale, in Cassazione penale 2011, 4126 ss. CONTENZIOSO NAZIONALE 105 diventi successivamente difforme rispetto alla norma giuridica individuata dalla sopravvenuta giurisprudenza di legittimità, correttiva della precedente norma errata” (2). 2. Le ragioni di interesse della sentenza. La decisione adottata dalla Corte è particolarmente interessante per più d’una ragione: a) la prima è che essa affronta temi generali che occupano una posizione di cardine nell’organizzazione dei pubblici poteri e che sono sintetizzati dalla stessa Corte quando afferma che la questione relativa <> (Corte di cassazione 4 maggio 2012, n. 6801); 2) <> (Corte di cassazione 16 aprile 2012, n. 5972); 3) <> (Corte di cassazione, Sezioni unite civili, 27 febbraio 2012, n. 2925). È ovvio che, se la Corte non osserva il vincolo che le è imposto dall’art. 384, primo comma, cpc, di formulare il principio di diritto, ossia la norma giuridica, sulla cui base ha deciso la questione di particolare importanza sottoposta al suo esame, è lasciato all’interprete, tra cui la stessa Corte di cassazione in sede successiva, l’onere di scegliere la forma più idonea ad esprimere la norma individuata. È altrettanto ovvio che si potranno confezionare, di conseguenza, varie formulazioni, che possono dar luogo a ulteriori dubbi. Così, per esempio, v’è da domandarsi se la restrizione alle sole norme processuali operata dalla Corte di cassazione 4 maggio 2012, n. 6801, sia conforme al pensiero espresso dalla sentenza 11 luglio 2011, n. 15144, o non sia esatta e, quindi, correttiva della sentenza che ha introdotto la variazione del 2011. Così, ancora, ci si può domandare quale sia il significato del requisito della conoscibilità oggettiva, posto dalla sentenza 27 febbraio 2012, n. 2925, quando si tenga conto dell’intrinseca natura, propria della conoscibilità, di situazione giuridica oggettiva relativamente soggettiva (su cui F. MELONCELLI Conoscibilità e garanzia del contribuente, in Rassegna dell’Avvocatura dello Stato 2011, III, 91 ss.). 106 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 del contenuto della norma per via interpretativa e novum ius; per coinvolgere, ancor più a monte, la definizione del ruolo del giudice nel sistema costituzionale di divisione dei poteri>>; b) sono, poi, molto interessanti le argomentazioni addotte dalla Corte a sostegno delle sue tesi, che riguardano la natura della norma giuridica, la sua semanticità, i fattori della sua modificazione, le specie di modificazione; c) è, inoltre, di particolare rilievo la classificazione, che la sentenza elabora ed utilizza, delle varie specie di interpretazione normativa giurisprudenziale; d) infine, la Corte, chiudendo il cerchio e tornando al punto di partenza, fornisce quella soluzione del problema processuale relativo all’ammissibilità di un atto d’impugnazione regolato da una normativa giurisprudenzialmente mutante, che s’è poc’anzi presentata. Occorre dire subito che la sentenza è di lettura non facile. Allo sforzo di comprenderla, tuttavia, nessun operatore giuridico, professionale o scientifico, può sottrarsi, per la ovvia ed elementare considerazione che essa proviene da una fonte, le Sezioni unite civili della Corte di cassazione, le cui pronunce sono, non solo istituzionalmente autorevoli, ma soprattutto giuridicamente vincolanti. Al doveroso compito cercherò, dunque, di dare anch’io adempimento, ponendomi, peraltro, alcuni inevitabili confini, ispirati alla duplice esigenza di individuare l’essenza del problema affrontato dalla Corte, e di semplificare al massimo la mia interpretazione della decisione, non facendo mancare, se del caso, le mie perplessità e la manifestazione del mio consenso o dissenso rispetto alle posizioni assunte dalla Corte. 3. La fattispecie controversa e le sue sussunzioni storicamente date. Dopo questa doverosa presentazione occorre, per comprendere esattamente il contributo della Corte, tornare all’origine della controversia specifica sottoposta al suo esame. 3.1. La fattispecie controversa. Il pensiero della Corte è stato elaborato per la necessità di risolvere la seguente controversia: del ricorso per cassazione, proposto da un soggetto A (una Regione) contro una sentenza del Tribunale superiore delle acque pubbliche (d’ora in poi TSAP), l’intimato B ha eccepito pregiudizialmente la tardività e la conseguente inammissibilità; più specificamente, si è dovuto discutere, prima di ogni altra questione, della tempestività del ricorso presentato da una Regione contro una sentenza del TSAP del 7 gennaio 2009, la cui copia integrale è stata ricevuta dalla Regione il 17 febbraio 2009, tramite notificazione a cura della cancelleria del TSAP. La notificazione del ricorso è del 5 gennaio 2010, quindi successiva alla scadenza del termine breve, di 45 giorni decorrenti dal 17 febbraio 2009, che s’è concluso il 3 aprile 2009, ma interna al termine lungo (di un anno e 46 giorni), il cui dies ad quem sarebbe fissato al 4 aprile 2010. CONTENZIOSO NAZIONALE 107 3.2. La normativa di riferimento e i relativi problemi applicativi. Perché il lettore abbia chiari i termini della questione sollevata relativamente al processo in materia di acque, è opportuno richiamare la normativa che disciplina l’impugnazione delle sentenze dei Tribunali delle acque. In base all’art. 183 RD 11 dicembre 1933, n. 1775 (3), il cancelliere del TSAP compie, o fa compiere, anzitutto, una serie di operazioni: 1) pubblicazione della sentenza del TSAP mediante deposito nella cancelleria (art. 183.2); 2) annotazione del deposito in apposito registro (art. 183.3); 3) trasmissione entro tre giorni dal deposito della sentenza all’ufficio del registro (art. 183.3); 4) notificazione dell’avviso alle parti perché provvedano alla registrazione (art. 183.3); 5) restituzione degli atti da parte dell’ufficio del registro; 6) verificatosi tutto ciò, il cancelliere del TSAP notifica, entro cinque giorni dall’ultima operazione, la sentenza alle parti mediante consegna di copia integrale del dispositivo. Inoltre, gli art. 200 e 201 RD 11 dicembre 1933, n. 1775, stabiliscono rispettivamente che contro le decisioni del TSAP pronunciate in grado di appello (avverso le sentenze definitive dei Tribunali Regionali delle acque pubbliche) e contro le decisioni nelle materie contemplate nell'art. 143 (che appartengono alla cognizione diretta del TSAP) è ammesso il ricorso alle sezioni unite della Corte di cassazione (4). Poiché, ai sensi dell’art. 200 RD 11 dicembre 1933, n. 1775, contro le decisioni del TSAP è ammesso ricorso alle Sezioni unite della Corte di cassazione, e poiché, in base agli art. 325 e 326 cpc, il termine perentorio breve per l’impugnazione di una sentenza decorre dalla sua notificazione ad una parte a cura dell’altra parte, si sono posti due problemi. (3) Il testo dei primi quattro commi dell’art. 183 RD 11 dicembre 1933, n. 1775, è il seguente: <<1. Per la pronunciazione e la forma delle sentenze si osservano le norme stabilite negli articoli 356 e 360 del Codice di procedura civile. / 2. La pubblicazione delle sentenze incidentali o definitive avviene mediante deposito in cancelleria, a cura del presidente o di chi ne fa le veci, dell'originale sottoscritto dai votanti. / 3. Il cancelliere annota in apposito registro il deposito ed entro tre giorni da tale deposito trasmette la sentenza con gli atti all'ufficio del registro e ne dà avviso alle parti perché provvedano alla registrazione. / 4. Restituiti la sentenza e gli atti dall'ufficio del registro, il cancelliere entro cinque giorni ne esegue la notificazione alle parti, mediante consegna di copia integrale del dispositivo, nella forma stabilita per la notificazione degli atti di citazione>>. (4) Il testo dell’art. 200, primo comma, RD 11 dicembre 1933, n. 1775, è il seguente: <>. Il testo dell’art. 201 RD 11 dicembre 1933, n. 1775, è il seguente: <>. 108 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 Il primo è quello di stabilire quale sia, tra le due notificazioni, inserite nello speciale procedimento ex art. 183 RD 11 dicembre 1933, n. 1775 (5), quella rilevante per la decorrenza del termine breve d’impugnazione: se quella ex art. 183.3 o quella ex art. 183.4. Val la pena di sottolineare, a questo proposito, che le due notificazioni in questione sono: a) la prima, quella dell’avviso alle parti della trasmissione della sentenza con gli atti all’ufficio del registro (è la quarta operazione dell’elenco steso poc’anzi); è ben vero che l’art. 183.3 non parla di “notificazione dell’avviso”, ma si limita a dire che il cancelliere del TSAP “dà avviso”; tuttavia, si dà per scontato, nella giurisprudenza della Corte di cassazione, che tale avviso debba essere notificato e che esso contenga anche la trascrizione del dispositivo della sentenza; b) la seconda notificazione è quella della sentenza, effettuata mediante consegna di copia integrale del dispositivo entro cinque giorni dalla restituzione della sentenza e degli atti da parte dell’ufficio del registro ex art. 183.4 (è la sesta operazione dell’elenco compilato poco sopra). La soluzione di questo primo problema, fornita dalla giurisprudenza di legittimità, è sempre stata univoca: il termine breve per l’impugnazione non può decorrere dalla prima notificazione, prevista dall’art. 183.3 RD 11 dicembre 1933, n. 1775, cioè dalla cd. comunicazione dell’avviso di deposito della sentenza, perché essa è certamente inidonea, anche se contiene il dispositivo della sentenza, a far decorrere il termine breve dell’impugnazione; infatti, la prima notificazione ha <> (6) e, sulla base di essa, le parti non hanno <> (7). Il secondo problema, che sorge in base alla soluzione adottata per il problema precedente, è quello di stabilire se il termine breve per l’impugnazione - fermo restando, sulla base della pacifica e costante soluzione data al primo problema, il suo decorso dalla seconda notificazione, quella ex art. 183.4 RD 11 dicembre 1933, n. 1775 - inizi a decorrere solo se la sentenza notificata sia stata registrata o se esso inizi a decorrere anche se tale registrazione non sia stata effettuata (8). Per la sentenza 11 luglio 2011, n. 15144, il secondo problema è stato risolto, dapprima e per lungo tempo, sulla base di un orientamento della giuri- (5) La specialità del procedimento di notificazione della sentenza ex art. 183 è estesa fino alla previsione che essa sia effettuata a cura del cancelliere e non di una delle parti. (6) Corte di cassazione 21 agosto 1990, n. 8534. Vi hanno fatto seguito, Corte di cassazione: 21 ottobre 1991, n. 11095; 18 marzo 1992, n. 3353; 11 novembre 1992, n. 12150; 1° dicembre 1994, n. 10245; 15 luglio 1999, n. 394; 15 marzo 2001, n. 10892; 27 giugno 2005, n. 13710; 23 maggio 2006, n. 12084; 13 marzo 2009, n. 6063. (7) V. Corte di cassazione 30 marzo 2010, n. 7607, e 11 luglio 2011, n. 15144. Per la precedente giurisprudenza, v. Corte di cassazione: 21 agosto 1990, n. 8534; 13 marzo 2009, n. 6063. CONTENZIOSO NAZIONALE 109 sprudenza della Corte di cassazione che si sarebbe esteso dal 1991 al 2009, <>. Fino al 2009, dunque, la Corte di cassazione avrebbe ritenuto che il termine breve d’impugnazione di 45 giorni ex art. 202.4 RD 11 dicembre 1993, n. 1775 (9), decorresse dalla seconda notificazione, cioè da quella ex art. 183.4, necessariamente successiva alla altrettanto necessaria registrazione della sentenza notificata. Dalla verifica dei precedenti giurisprudenziali risulta che effettivamente, per la verità a partire ancor prima del 1991, ossia già dal 1986, la giurisprudenza di legittimità si era orientata a ritenere che, nel sistema disegnato dal RD 11 dicembre 1933, n. 1775, <>, cosicché <>, la quale presuppone <> (10). Sempre secondo la sentenza 11 luglio 2011, n. 15144, poi, con la sentenza 30 marzo 2010, n. 7607 (11), le Sezioni unite avrebbero ribaltato quel proprio, (8) Infatti, il termine per l’impugnazione non è quello breve, ma quello lungo ex art. 327 cpc, quando si riscontri la mancanza assoluta della seconda notificazione ex art. 183.4 RD 11 dicembre 1933, n. 1775 (Corte di cassazione: 15 marzo 2001, n. 10892; 27 giugno 2005, n. 13710; 23 maggio 2006, n. 12084; 13 marzo 2009, n. 6063) o la sua invalidità o la sua tardività (Corte di cassazione 10 febbraio 1996, n. 1027) o, per l’appunto, se si ritenesse che la registrazione della sentenza da notificare fosse condizione necessaria per la decorrenza del termine breve, nell’ipotesi di notificazione di sentenza non registrata. (9) Il testo dell’art. 202.4 RD 11 dicembre 1933, n. 1775, è il seguente: <>. (10) Corte di cassazione 21 agosto 1990, n. 8534. Essa è stata preceduta da Corte di cassazione: 15 gennaio 1986, n. 13; 11 ottobre 1988, n. 5483, anche se questa fa riferimento alla <>, ed è stata seguita da Corte di cassazione: 21 ottobre 1991, n. 11095, che esclude la fungibilità della notificazione a cura del cancelliere del TSAP ex art. 183.4. RD 11 dicembre 1933, n. 1775, con la notificazione a cura della parte (come già aveva fatto la sentenza 15 gennaio 1986, n. 13); 18 marzo 1992, n. 3353; 11 novembre 1992, n. 12150; 6 giugno 1994, n. 5491; 1° dicembre 1994, n. 10245; 10 febbraio 1996, n. 1027; 15 luglio 1999, n. 394; 4 aprile 2000, n. 95; 15 marzo 2001, n. 10892; 9 luglio 2001, n. 9321; 27 giugno 2005, n. 13710; 23 maggio 2006, n. 12084; 13 marzo 2009, n. 6063. (11) Cioè in data successiva a quella della proposizione del ricorso per cassazione oggetto della sentenza 11 luglio 2011, n. 15144. 110 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 pur consolidato, pregresso indirizzo. Invero, nel 2010 le Sezioni unite sono intervenute di nuovo sulla questione per decidere se la notifica della copia integrale del dispositivo della sentenza, cioè la seconda notificazione (art. 183.4), comporti, comunque, indipendentemente dalla sua registrazione, la decorrenza del termine breve per impugnare la decisione del TSAP. Le Sezioni unite hanno, per la prima volta in presenza della massa normativa contenuta nelle disposizioni normative formulate fino al 1986, preso le mosse dalla constatazione che, mentre fino al 1972, sulla base del RD 30 dicembre 1923, n. 3269, tutte le sentenze dovevano essere registrate, a partire da quell’anno, in base, prima, all’art. 8 della Parte I della Tariffa, Allegato A, DPR 26 ottobre 1972, n. 634, e, poi, in base all’art. 10, lett. c), DPR 26 aprile 1986, n. 131 (12), sostanzialmente reiterativo dell’analoga disposizione contenuta nel DPR 26 ottobre 1972, n. 634, devono essere registrate solo le sentenze che rientrano tra gli atti soggetti al pagamento dell'imposta di registro. Su questa base le Sezioni unite hanno ritenuto che <<[r]ispetto alla originaria Legge di Registro del 1923 il quadro normativo ... è notevolmente mutato, atteso che mentre in base a (12) Premesso che <> (art. 2.1.a) DPR 26 aprile 1986, n. 131), e che <> (art. 10.1.c) DPR 26 aprile 1986, n. 131), l’art. 8, primo comma, DPR 26 aprile 1986, n. 131, rende obbligatoria la registrazione dei seguenti atti giurisdizionali. <<1. Atti dell'Autorità Giudiziaria ordinaria e speciale in materia di controversie civili che definiscono, anche parzialmente, il giudizio, compresi i decreti ingiuntivi esecutivi, i provvedimenti di aggiudicazione e quelli di assegnazione, anche in sede di scioglimento di comunioni, le sentenze che rendono efficaci nello Stato sentenze straniere e i provvedimenti che dichiarano esecutivi i lodi arbitrali: / a) recanti trasferimento o costituzione di diritti reali su beni immobili o su unità da diporto ovvero su altri beni e diritti ... / b) recanti condanna al pagamento di somme o valori, ad altre prestazioni o alla consegna di beni di qualsiasi natura ... / c) di accertamento di diritti a contenuto patrimoniale ... / d) non recanti trasferimento, condanna o accertamento di diritti a contenuto patrimoniale ... / e) che dichiarano la nullità o pronunciano l'annullamento di un atto, ancorché portanti condanna alla restituzione di denaro o beni, o la risoluzione di un contratto ... / f) aventi per oggetto lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio o la separazione personale, ancorché recanti condanne al pagamento di assegni o attribuzioni di beni patrimoniali, già facenti parte di comunione fra i coniugi; modifica di tali condanne o attribuzioni ... / g) di omologazione>>. L’art. 8, primo comma, DPR 26 aprile 1986, n. 131, è sostanzialmente reiterativo dell’art. 8 della Parte I della Tariffa, Allegato A, DPR 26 ottobre 1972, n. 634. L’art. 66 DPR 26 aprile 1986, n. 131, dispone, poi, quanto segue: <>. CONTENZIOSO NAZIONALE 111 detta legge tutte le sentenze andavano registrate ed era fatto divieto al cancelliere di rilasciarne copia prima della loro registrazione, attualmente [ma, dunque, già dal 1972] vi sono sentenze che vanno registrate e sentenze che non vanno registrate ed anche per quelle che vanno registrate il cancelliere è tenuto a rilasciarne copia prima della registrazione se ciò è necessario per la prosecuzione del giudizio. / Alla luce della illustrata evoluzione normativa in tema di imposta di registro si deve fondatamente escludere che la preventiva registrazione della sentenza, prevista dall'art. 183 del T.U. sulle acque e sugli impianti elettrici possa essere ritenuta "condizione essenziale" per la decorrenza del termine breve di impugnazione derivante dalla notifica della copia dell'estratto integrale della sentenza. ... Conseguentemente deve affermarsi il principio secondo cui, avvenuta la comunicazione dell'avviso di deposito della sentenza (certamente questo inidoneo, ancorché contenente il dispositivo della stessa, a far decorrere il termine breve di 45 giorni, di cui al R.D. n. 1775 del 1933, art. 202) la successiva notifica della copia integrale del dispositivo della sentenza stessa, fa decorrere, comunque, indipendentemente dalla registrazione della sentenza, il termine breve per la sua impugnazione, rilevando la effettuazione della sua registrazione esclusivamente ai fini fiscali>> (Corte di cassazione 30 marzo 2010, n. 7607). 3.3. La valutazione del rapporto tra la sentenza 11 luglio 2011, n. 15144, e la sentenza 30 marzo 2010, n. 7607. In sostanza, dunque, sembra a chi scrive che, almeno dal punto di vista della (ir)rilevanza della registrazione della sentenza, non cambi assolutamente nulla tra il 30 marzo 2010 e l’11 luglio 2011, quanto alla determinazione del dies a quo nel computo del termine breve per l’impugnazione delle sentenze del TSAP, perché la regola che è stata fissata dalla sentenza 30 marzo 2010, n. 7607, continua a valere anche all’11 luglio 2011: decorso del termine breve per l’impugnazione a partire dalla seconda notificazione, ignorando la registrazione della sentenza. Si deve anche mettere in rilievo che nella sentenza n. 7607 del 2010 la Corte di cassazione non fa alcun riferimento alla pregressa propria giurisprudenza, rispetto alla quale la sentenza si ponga espressamente come “ribaltativa”, secondo l’espressione usata nella sentenza qui oggetto di commento. In realtà, la sentenza n. 7607 del 2010 non ribalta affatto il vincolo a far decorre il termine breve dalla seconda delle notificazioni proprie delle sentenze del TSAP, perché lo mantiene ben fermo, ma si limita - non è poco, ma non attua un ribaltamento - ad ampliare l’oggetto della norma, nel senso che rende processualmente irrilevante la registrazione delle sentenze, che continua ad operare solo ai fini tributari. L’unica cosa che cambia è, dunque, che si considera irrilevante, per il decorso del termine breve d’impugnazione, il fatto della registrazione della sentenza oggetto della notificazione, e, corrispondentemente, che si è introdotta, in via interpretativa in sede di giurispru- 112 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 denza di legittimità, una modificazione ampliativa dell’oggetto della norma da applicare quando si debba computare il termine breve d’impugnazione delle sentenze del TSAP. Contrariamente a quel che si sostiene nella sentenza 11 luglio 2011, n. 15144, pare, dunque, che non si possa propriamente parlare di un “ribaltamento”, ma di una mera modificazione della norma sempre adottata in precedenza, se il principio di diritto vigente dopo la sentenza della Corte di cassazione 30 marzo 2010, n. 7607, è, salvo il più ampio oggetto (tutte le sentenze notificate e non soltanto le sentenze notificate registrate), il medesimo di quello vigente antecedentemente (solo le sentenze notificate e registrate). Comunque sia, la sentenza n. 15144 del 2011 intende <> al principio fissato con la sentenza n. 7607 del 2010, <>. Un’ulteriore verifica dell’interpretazione, che s’è ritenuto di dover qui dare, delle sentenze della Corte di cassazione che si sono succedute, può effettuarsi tenendo conto della diversità delle fattispecie controverse nei singoli giudizi: a) nella sentenza 23 maggio 2006, n. 12084, che si assume come campione rappresentativo dell’orientamento giurisprudenziale consolidato fino al 2009, si è esaminata l’eccezione pregiudiziale d’inammissibilità di un ricorso per cassazione contro una sentenza del TSAP e si è deciso nel senso che <>; poiché, nel caso di specie, la notifica ex art. 183.4 non risultava effettuata, <>; b) nella sentenza 30 marzo 2010, n. 7607, ribaltativa, secondo la sentenza 11 luglio 2011, n. 15144, dell’orientamento precedente, si è discusso dell’(in)ammissibilità per tardività del ricorso per cassazione di una società contro una sentenza del TSAP, la cui copia integrale del dispositivo era stata notificata senza che la sentenza fosse stata registrata. Vi si legge: <>, cosicché il ricorso è stato riconosciuto ammissibile (Corte di cassazione 30 marzo 2010, n. 7607); come si vede, nel 2010 le Sezioni unite hanno considerato irrilevante, ai fini processuali, la registrazione della sentenza, rilevante solo ai fini tributari, ed è stato sufficiente, per dichiarare l’ammissibilità del ricorso, constatare che la sua proposizione era caduta entro il termine breve di 45 giorni, senza alcuna necessità di domandarsi che cosa si sarebbe dovuto decidere per la diversa ipotesi in cui il ricorso fosse stato proposto dopo la scadenza del termine breve ma prima della scadenza del termine lungo e che è quella che si è verificata nella controversia decisa con la sentenza che si sta commentando; c) nella sentenza 11 luglio 2011, n. 15144, che si qualifica ad un tempo come confermativa e come continuativa dell’orientamento intrapreso dalla sentenza 30 marzo 2010, n. 7607, in via pregiudiziale si è discusso della tempestività del ricorso presentato da una Regione contro una sentenza del TSAP del 7 gennaio 2009, la cui copia integrale è stata ricevuta dalla Regione il 17 febbraio 2009, tramite notificazione a cura della cancelleria del TSAP; la Regione ha, poi, notificato il suo ricorso il 5 gennaio 2010, ossia dopo la scadenza del termine breve, di 45 giorni, decorrenti dal 17 febbraio 2009, ma interna al termine lungo; anche in questo caso, dunque, al pari di quel che si è verificato per la fattispecie controversa nel giudizio di legittimità conclusosi con la sentenza 30 marzo 2010, n. 7607, si ha a che fare con una sentenza del TSAP che è stata notificata senza che essa sia stata previamente registrata; la decisione della Corte è stata favorevole all’ammissibilità, ma solo perché il mutamento di giurispru- 114 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 denza di legittimità, intervenuto il 30 marzo 2010, era, comunque, posteriore alla proposizione del ricorso della Regione, la quale, sulla base del precedente orientamento giurisprudenziale, ha fatto affidamento sulla disponibilità del termine lungo; quindi, da un lato, la sentenza n. 15144 del 2011 conferma il mutamento giurisprudenziale introdotto nel 2010, nel senso che l’efficacia della notificazione ex art. 183.4 non è più subordinata alla registrazione della sentenza, e si pone come continuativa del nuovo orientamento, perché afferma di ritenere vigente lo stesso principio introdotto nel 2010 ad una diversa fattispecie, ma si pone anche come modificativa in senso riduttivo dell’oggetto della norma introdotta giurisprudenzialmente il 30 marzo 2010, perché la ritiene non applicabile alle ipotesi di tardività nella quale il ricorrente sia incorso in forza dell’affidamento in lui suscitato dalla conoscenza del precedente orientamento giurisprudenziale. La sentenza, infatti, conclude con l’affermazione che <> (§ I.2.4 della sentenza 11 luglio 2011, n. 15144). In sostanza, il rapporto della sentenza 11 luglio 2011, n. 15144, con la sentenza 30 marzo 2010, n. 7607, è in parte confermativo e continuativo e in parte modificativo e nella modificazione, con la quale si è utilizzato il principio di affidamento del cittadino come ulteriore frammento normativo per la composizione della norma da applicare alla nuova fattispecie controversa, sta la ragione della sua novità e della sua rilevanza. 4. Le ragioni addotte dalla Corte di cassazione per sostenere la sua soluzione. 4.1. La soluzione adottata dalla Corte di cassazione. Per comprendere a fondo quale sia la novità introdotta con la sentenza 11 luglio 2011, n. 15144, si consideri ancora, molto più sinteticamente ma anche più esplicitamente, il materiale normativo e giurisprudenziale che si è appena passato in rassegna. La sentenza 11 luglio 2011, n. 15144, contiene, tra le altre affermazioni, quella (§ I.1.2), secondo cui le Sezioni unite vogliono dare continuità all’orientamento del 2010, ribaltativo dell’indirizzo precedente, <>. Traducendo e semplificando, con questa affermazione le Sezioni unite nel 2011 hanno affermato: 1) che la normazione è mutata solo dal, o solo nel, (1972) 1986, con l’in- CONTENZIOSO NAZIONALE 115 troduzione della nuova legge sull’imposta di registro; 2) che l’indirizzo giurisprudenziale mantenuto fino al 2009, che avrebbe ignorato la novità introdotta dalla legge sull’imposta di registro, era errato e che esso è stato corretto solo con la sentenza della Corte di cassazione 30 marzo 2010, n. 7607; il che equivale a dire che la norma giuridica tratta dalla normativa adottata dal (1972) 1986 è stata il risultato di un’interpretazione normativa errata, che avrebbe dovuto tener conto della novità della legislazione e che la norma giuridica esatta - dal (1972) 1986 - è, invece, quella individuata nel 2010, pur mediante l’utilizzazione delle stesse disposizioni normative che erano già state introdotte fin dal (1972) 1986; 3) che la sentenza 11 luglio 2011, n. 15144, è continuativa della correzione del 2010; ma, a questo riguardo, abbiamo già messo in rilievo che il rapporto è più articolato: di conferma, e quindi di continuazione, ma anche di modificazione, nel senso riduttivo dell’oggetto della nuova norma, perché ne esclude gli atti d’impugnazione tardivi per affidamento. 4.2. Le premesse teoriche fatte proprie dalla Corte di cassazione. Tuttavia, per approfondire ulteriormente tale rapporto e per verificare se sia esatta l’interpretazione che s’è finora fornita della sentenza 11 luglio 2011, n. 15144, occorre analizzare le ragioni addotte dalla Corte per sostenere la soluzione da essa adottata per il problema dell’ammissibilità del ricorso per cassazione originariamente valido e divenuto invalido successivamente e derivativamente per overruling giurisprudenziale di legittimità. La sentenza dedica buona parte del suo § I.2.3 alle <>, per poi formulare delle affermazioni molto importanti sul mutamento giurisprudenziale. Devo dire subito che, delle affermazioni in esso contenute aventi valore di presupposto, alcune risultano, per me, di scarsa comprensibilità e mi appaiono, quindi, non facilmente utilizzabili in sede applicativa, mentre altre sono pienamente condivisibili e utili per l’applicazione a specifiche controversie. Così, mi pare difficile condividere la nozione di norma giuridica come <> e che <>. Infatti, nella rapida enunciazione della Corte non pare possibile individuare nemmeno un’assertiva formula di definizione. Comunque, appare quanto mai dubbio che sia soddisfacente una definizione della norma come <>, perché, a prescindere dalla difficoltà della ricerca dei “pensieri diffusi nella società”, ci s’inoltra in una zona nebbiosa, almeno dal punto di vista della scienza giuridica, quando il procedimento di 116 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 formazione degli atti normativi venga descritto in termini di “auscultazione” e di “metabolizzazione” di esigenze della comunità territoriale (di quella sola e non delle altre formazioni sociali ex art. 2 Cost.?). Una definizione siffatta della norma giuridica, poi, è così generica che può ben valere anche per molti altri fenomeni che consistano nell’“espressione di un pensiero diffuso nella società”, come le idee ispiratrici di un movimento, di un’associazione, di un partito politico, di una religione, di categorie di operatori economici o di gruppi sociali non territoriali e così via a non finire, e quindi indica, al più, un genere, di cui forse la norma è una specie. Ma, volendo tornare alla prospettiva tecnico- giuridica, si deve ricordare che la definizione di un istituto giuridico - e la norma giuridica è un istituto perché è l’oggetto di un subsistema normativo - passa necessariamente attraverso svariati e rigorosi passaggi logici, che sono dati dalla cura del rapporto dialettico circolare tra la definizione dell’istituto (della norma, nel nostro caso) per descrizione e per delimitazione oltre che per analogia e per contrapposizione, e l’individuazione del suo regime giuridico, ossia la determinazione della normalità, sotto il profilo della sua struttura (determinazione degli elementi compositivi e della loro relazione) sia della sua funzione (determinazione degli effetti, dello scopo e del fondamento della norma giuridica) e anormalità (invalidità e reazioni ad essa). Infine, pare che nella rapida nozione di norma fornita dalla Corte non si tenga il necessario conto della distinzione tra la norma e la disposizione normativa, perché il legislatore (inteso come qualsiasi titolare di un potere normativo) formula e, quindi, produce le disposizioni normative, ma la norma è il risultato della combinazione, affidata agli interpreti, di disposizioni normative varie e dei risultati di vari formanti del diritto, come del resto emerge in maniera chiara proprio da questa stessa sentenza che si commenta; essa opera, infatti, come un formante del diritto, nel senso che contribuisce alla produzione normativa, combinando le disposizioni presenti nella normazione prodotta da altri. La Corte effettua anche, per la verità, un tentativo di individuazione della struttura della norma giuridica, quando afferma che la sua “suitas” starebbe <>. È ben evidente che si adotta, per questa via, una concezione semantica della norma giuridica, che è esatta, sol che si pensi al fatto incontestabile, di cui anche il legislatore prende atto per la costrizione al riconoscimento della natura delle cose (art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale, premesse al Codice civile), che la norma giuridica è composta di parole di una data lingua, cioè di segni di un codice linguistico coordinati in un insieme tale CONTENZIOSO NAZIONALE 117 da essere portatori di un significato. In termini brevissimi, l’opinione della Corte può essere tradotta nella più semplice formula secondo cui la norma giuridica è una specie del genere di quel comportamento umano che, in quanto caratterizzato dalla semanticità, viene comunemente designato con il nome di “dichiarazione”. Ma, se è così - e non può essere che così - la struttura della norma è la stessa del genere della dichiarazione al quale essa appartiene e, salve le caratteristiche proprie della sua specie, coincide con quella di qualsiasi dichiarazione, la quale com’è noto, ha una struttura ben più complessa di quella che non risulti da una terna di elementi, dei quali è necessario tener conto quando, poi, se ne vogliano individuare i cambiamenti. Quanto al rapporto tra significante e significato, in esso consiste la semanticità del fenomeno della norma giuridica, ma, come in tutti i fenomeni semantici, la sua determinazione è la conseguenza dell’interpretazione della dichiarazione, la quale è data, in primis, dalla convenzione che sia stipulata tra i destinatari della norma e, in caso di mancata stipulazione tra di essi di una convenzione semantica, da un’autorità - tipicamente, ma non solo, il giudice - cui sia delegata la fissazione del significato. Anche qui i vincoli derivano dalla natura delle cose e, in particolare, dalla natura dell’uomo e dalla natura della sua conoscenza e della trasmissione da un uomo ad un altro di quella conoscenza, calata in una dichiarazione. Quanto, infine, a quello che la Corte chiama il giudizio di valore, esso si determina attraverso quella difficile e raffinata interpretazione della norma che viene solitamente qualificata come interpretazione funzionale, perché si sforza di determinare, attraverso l’analisi degli effetti della norma, del suo scopo e del suo fondamento, la linea precisa di demarcazione degli interessi di cui sono portatori i soggetti del rapporto giuridico regolamentato. Nella sezione c) del § 1.2.3 s’impiegano, inoltre, numerose espressioni che sono dedicate alle “dinamiche evolutive” della norma giuridica (13). Non potendo in questa sede operare la valutazione di ciascuna di esse, ci si limita ad osservare, nel complesso, che la Corte sembra presupporre che la struttura della norma resti formalmente identica e che qualcuno dei suoi elementi (il (13) Ci si riferisce, in particolare, alle seguenti espressioni: “mutamento del quadro normativo” (§ I.1.2); “evoluzione normativa” (§ I.1.2); “rilettura della normativa” (§ I.1.2); “assunzione evolutiva, da parte della normativa, di un diverso contenuto” (§ I.1.2); “mutamento sopravvenuto della disciplina” (§ I.1.2); “mutamento sopravvenuto dell’esegesi giurisprudenziale della norma (processuale) o di disposizioni processuali (§ I.2); “indirizzo interpretativo nuovo” (§ I.2); “mutamento di indirizzo interpretativo normativo giurisprudenziale” (§ I.2); “mutamento di giurisprudenza di norme processuali” (§ I.2.2); “reinterpretazione successiva della norma di riferimento” (§ I.2.2); “modificazione dell’interpretazione del contenuto di una norma” (§ I.2.3); “adeguamento del contenuto di una norma” (§ I.2.3); “struttura della norma giuridica” (§ I.2.3.b)); “ricaduta della modificazione di disposizione normativa sul contenuto di altra disposizione normativa” (§ I.2.3.c)); “interpretazione normativa evolutiva” (§ I.2.3.d)); “vivenza della norma” (§ I.2.3.d)); “interpretazione normativa correttiva” (§ I.2.3.e)); “etica del mutamento dell'interpretazione normativa giurisprudenziale” (§ I.2.3 e)); “intervento accertativo del contenuto di una norma” (§ 1.2.3.f)). 118 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 cosiddetto significante testuale) sia polisemico, cosicché l’evoluzione normativa consisterebbe nello scegliere un significato diverso da quello precedentemente utilizzato, ma comunque implicito già nella struttura originaria della dichiarazione. Non sembra che le cose stiano sempre e necessariamente così, se non altro proprio con riferimento alla fattispecie, controversa in causa, alla quale tali convinzioni dovrebbero essere adattate. Infatti, se la controversia verteva sulle condizioni, relative alla registrazione di una sentenza in materia di acque, per l’ammissibilità di un ricorso per cassazione, non pare che la si possa risolvere ricercando la polisemicità del significante, ma effettuando - com’è stato in realtà fatto prima dalla sentenza n. 7607 del 2010 per l’(ir)rilevanza della registrazione delle sentenze e, poi, dalla stessa sentenza n. 15144 del 2011 per il principio di affidamento - una diversa composizione, per esclusione nel 2010 e per inclusione nel 2011, di frammenti normativi forniti dalle disposizioni normative sparse in vari atti normativi adottati in tempi diversi. Le rapide considerazioni critiche appena formulate, rese stringate dal limitato ambito riservato ad una nota di commento, sono, tuttavia, sufficienti per concludere provvisoriamente nel senso che si possa ritenere, non senza qualche fondamento, che la parte dedicata dalla Corte alla teoria della norma giuridica appare di solidità molto dubbia e, quindi, scarsamente utilizzabile per risolvere la questione che era stata sottoposta al suo esame. 4.3. Le specie di mutamento dell’interpretazione normativa giurisprudenziale. Sono, invece, determinanti le prese di posizione successive sulla differenza tra l’interpretazione normativa evolutiva e l’interpretazione normativa correttiva, alla stregua della quale la fattispecie controversa viene concepita dalla Corte come una specie della prima. Seguiamo anche qui, passo passo, il ragionamento esposto nella sentenza e cerchiamo di non perdere l’orientamento. L’affermazione iniziale della Corte, dopo quelle non convincenti esposte a titolo di premessa che abbiamo poc’anzi ricordato, riguarda il mutamento delle disposizioni normative ad opera del titolare del potere di produzione delle norme: rispetto ad un determinato stato della normazione, <<è ben comprensibile come, in prospettiva diacronica, le eventuali successive modificazioni, abrogazioni, sostituzioni delle disposizioni interferenti abbiano una possibile ed automatica ricaduta sul contenuto della disposizione in questione, anche per questa via quindi innescandone processi modificativi>>. Convertendo la formulazione in termini inequivoci, si può dire che dato, al tempo T1, un certo stato della normazione, ossia il fatto che essa è composta con una serie determinata di disposizioni normative, una qualsiasi modificazione, anche di una sola di esse, che intervenga al tempo T2, successivo a T1, può essere la causa di altre modificazioni (l’ “innesco di processi modificativi” di cui parla la Corte), che - ritengo - possono investire tutte le norme che si pos- CONTENZIOSO NAZIONALE 119 sono comporre utilizzando la disposizione normativa modificatrice come frammento di norma da unire con disposizioni preesistenti. La Corte prosegue esprimendosi così: <>. Convertiamo l’asserto allo scopo di intenderci: data, in un momento qualsivoglia, una certa normazione, i soggetti dell’ordinamento - tra loro legati in un dato rapporto giuridico dalla regolamentazione normativa a loro destinata - nella stragrande maggioranza dei casi individuano concordemente le norme a loro dirette e vi si adeguano autonomamente di comune intesa, dando loro attuazione fluida ai casi della loro vita, che sono sempre casi di specie ultima; se, però, - come, per nostra buona sorte e per la buona sorte dell’ordinamento giuridico, accade nella stragrande minoranza dei casi - i destinatari della normazione non si trovassero d’accordo nell’individuazione della norma e nella sua applicazione al loro specifico rapporto giuridico, essi dovrebbero rivolgersi al giudice per chiedergli di dire quale sia la norma giuridica sotto la quale effettuare la sussunzione del loro rapporto; così chiamato a decidere, il giudice non crea la norma, perché egli non produce disposizioni normative, ma, di fronte alla prospettazione, proveniente dalle parti contrapposte, dell’ipotesi che esistano due norme contrastanti, il giudice, utilizzando le disposizioni presenti nella normazione, sceglie una loro possibile combinazione, eventualmente anche diversa da quelle ipotizzate dalle parti e, in questo senso, egli - per usare l’espressione della Corte - “disvela il diritto”, senza “crearlo”. Tutto ciò premesso, la Corte fornisce la definizione di interpretazione normativa evolutiva del giudice: <>. Effettuiamo la solita operazione di conversione. Siano fissati in successione, nella linea di decorso del tempo, i seguenti punti: il momento T1, come il momento in cui il produttore di disposizioni normative abbia introdotto una modificazione della normazione esistente; il momento T2, come il momento nel quale si verifica il fatto giuridico rilevante per l’attuazione di un rapporto giuridico; il momento T3, come il momento nel quale il giudice individua la norma giuridica sulla cui conformazione le parti del rapporto giuridico non hanno trovato l’accordo, tanto 120 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 che hanno chiesto il suo intervento. L’interpretazione normativa che conduce il giudice ad individuare la norma nel momento T3, ma con il riconoscimento che essa esiste “con risalenza al momento dell’inveramento dell’evoluzione della normazione”, cioè fin dal momento T1 in astratto e, in concreto con riguardo al rapporto controverso sottoposto al suo esame, fin dal momento T2, ed ad individuarla in una norma diversa da quella esistente prima del momento T1 è una interpretazione (normativa giurisprudenziale) evolutiva, che è, perciò, necessariamente retroattiva ai fatti, astratto e concreto, del suo “inveramento”, cioè ai fatti giuridici di modificazione, normativa e di specie ultima. Dall’interpretazione normativa evolutiva la Corte distingue, poi, quella correttiva. Dice la Corte: <>. In conversione, tenendo la barra dritta sulla distinzione tra disposizione normativa e norma giuridica, possiamo dire che sulla linea di decorso del tempo si collocano i seguenti momenti: al tempo T1 si pone il momento nel quale è intervenuta l’ultima modificazione delle disposizioni normative aventi per oggetto il rapporto giuridico controverso; per tutto il periodo che va da T1 fino al momento T3, che è il momento della decisione del giudice, successivo ovviamente a T1, la giurisprudenza ha ricavato dalle disposizioni normative, esistenti fin da T1, una data norma; al tempo T2, intermedio tra T1 e T3, si verifica il fatto controverso, sostanziale o processuale, sottoposto all’esame del giudice; al tempo T3 la giurisprudenza ricava da quelle stesse disposizioni, già esistenti al tempo T1 e mai mutate dal legislatore, una norma diversa da quella precedentemente individuata ed applicata: è l’interpretazione normativa giurisprudenziale correttiva. La Corte distingue, poi, due specie di interpretazione normativa giurisprudenziale correttiva: la prima è quella, che si potrebbe chiamare “interpretazione normativa giurisprudenziale correttiva alternativa” a quella precedente, che non è da ritenere scorretta, per la quale <>; essa non sarebbe consentita perché <>; la seconda specie, che sarebbe l’unica ammissibile, è quella che si realizza, quando <> e che si potrebbe, perciò, chiamare “interpretazione normativa giurisprudenziale cor- CONTENZIOSO NAZIONALE 121 rettiva sostitutiva”, perché non è meramente alternativa a quella precedente, ma ad essa s’impone sostituendovisi, perché la precedente era scorretta. In generale, afferma la Corte, ma anche - com’è di interesse nella controversia esaminata nella sentenza in commento - in particolare quando <>. Ossia, in sostanza, l’interpretazione normativa giurisprudenziale correttiva non alternativa, ma necessariamente sostitutiva, è retroattiva fino al momento T1, perché il potere del giudice trova un preciso limite nel potere del legislatore, che s’è già espresso fin dal momento T1 e alla cui volontà non può esser sottratto ciò che s’è verificato nel periodo T1-T3. Queste sono le posizioni assunte dalla Corte che, con le precisazioni formulate nello sforzo di comprenderle, appaiono pienamente condivisibili. In conclusione, se ben s’interpreta il pensiero della Corte, qualsiasi specie di mutamento d’interpretazione normativa giurisprudenziale ammissibile, cioè quelle della specie evolutiva o della specie correttiva sostitutiva, è retroattiva: la prima fino al momento in cui è intervenuta la modificazione normativa e la seconda fino al momento dal quale una normativa esiste. 4.4. La particolarità della fattispecie controversa sottoposta all’esame della Corte di cassazione. A questo punto la Corte, che ci ha convinto della retroattività di ogni mutamento d’interpretazione normativa giurisprudenziale, si domanda se tale regola si debba applicare sempre o se non ricorrano delle ipotesi nelle quali essa non possa essere applicata e debba essere sostituita da una regola diversa. Essa si esprime così: <>. La risposta è lungamente argomentata - e, per i dettagli, si rinvia il lettore al testo della sentenza -, ma l’essenza della tesi è che, se un soggetto abbia fatto affidamento su uno stato della normazione apparentemente stabilizzato dalla giurisprudenza e abbia conseguentemente adottato un comportamento rivelatosi successivamente anormale per il sopravvenuto mutamento giurisprudenziale d’interpretazione normativa, egli non può subire l’incolpevole privazione di diritti fondamentali, tra i quali, per quel che interessa qui in maniera specifica, il diritto di difesa in giudizio. La Corte giunge, quindi, alla seguente conclusione: <>. In sostanza, dunque, si potrebbe dire che la norma giuridica da ritenere ora vigente, ossia il principio di diritto enunciato dalla sentenza in esame, potrebbe essere così formulata: “il mutamento di interpretazione normativa giurisprudenziale, normalmente retroattivo, non retroagisce se il soggetto interessato ha compiuto l’atto processuale applicando la norma giuridica individuata dalla giurisprudenza fino a quel momento incontrastata, anche se successivamente corretta, tanto che su di essa egli ha potuto fare incolpevole affidamento”. Anche questa conclusione è pienamente condivisibile. 5. L’applicazione del principio di diritto (norma giuridica) individuato dalla Corte di cassazione alla specifica controversia sottoposta al suo esame. Resta ora da verificare se il principio di diritto, così laboriosamente ricercato ed individuato dalla Corte, sia stato correttamente da essa applicato alla controversia esaminata. Dice espressamente la sentenza in esame, sotto il § 1.2. intitolato <>: <>. A questo proposito si tratta di verificare due passaggi: quale sia la base del mutamento giurisprudenziale del 30 marzo 2010 e quale sia la natura di tale mutamento. Quanto al primo profilo, i fatti rilevanti per la fattispecie in esame si sono succeduti nel seguente ordine: a) del 1933 sono le norme sul processo in materia di acque pubbliche (RD 11 dicembre 1933, n. 1775); b) al 1940 risalgono le disposizioni normative del codice di procedura civile sui termini per l’im- CONTENZIOSO NAZIONALE 123 pugnazione e sul loro computo (RD 28 ottobre 1940, n. 1443); c) nel 1972 è adottato il DPR 26 ottobre 1972, n. 634, che introduce la distinzione tra sentenze a registrazione obbligatoria e sentenze a registrazione non obbligatoria; d) esso è sostituito dal DPR 26 aprile 1986, n. 131, che però riproduce sostanzialmente la distinzione tra le specie di sentenze introdotta nel 1972; e) seguono le numerose sentenze della giurisprudenza di legittimità dal (1986) 1991 al 2009; f) il 5 gennaio 2010 è proposto il ricorso per cassazione contro una sentenza del TSAP; g) infine, è adottata la sentenza delle Sezioni unite civili della Corte di cassazione n. 7607 del 30 marzo 2010, modificativa dell’orientamento giurisprudenziale del periodo (1986) 1991-2009. Ora, la sentenza in esame, quando afferma che la sentenza n. 7607 del 30 marzo 2010 avrebbe “ribaltato” il “consolidato, pregresso indirizzo”, fa riferimento all’orientamento seguito dalla giurisprudenza di legittimità nel periodo (1986) 1991-2009, e, indicandone la base nel “mutamento, nel frattempo intervenuto, del quadro normativo di riferimento in tema di imposta di registro”, può riferirsi solo alla nuova, rispetto al 1923, legge sull’imposta di registro del (1972) 1986 e a quelle sue disposizioni che elencano le categorie di sentenze che sono a registrazione obbligatoria (art. 8 Tariffa, Parte I, del DPR 26 ottobre 1972, n. 634, e, poi, del DPR 26 aprile 1986, n. 131); se, poi, si cerca d’individuare il periodo, all’interno del quale è intervenuto tale mutamento - “nel frattempo”, dice la Corte - i suoi estremi si collocano, all’inizio, nel 1923, e, alla sua fine, al 30 marzo 2010, perché dopo il (1972) 1986 la legge d’imposta di registro non ha più subito, sotto il profilo che qui interessa, alcun mutamento. In conclusione, tra il 1923 e il 2009 la giurisprudenza di legittimità ha costantemente risolto il problema della determinazione del dies a quo del termine breve per l’impugnazione delle sentenze del TSAP individuandolo nella notificazione, a cura del cancelliere del Tribunale, ex art. 183.4 RD 11 dicembre 1933, n. 1775, di sentenza registrata del TSAP, ossia ignorando le sopravvenute disposizioni normative del (1972) 1986 e, quindi, non utilizzandole per combinare la formula della norma processuale. La formula della norma, che fino al 30 marzo 2010 si è ritenuto che facesse parte dell’ordinamento giuridico fin dal 1923, potrebbe, dunque, essere questa: “il termine breve, di 45 giorni, per impugnare la sentenza del TSAP decorre dalla notificazione della sentenza registrata”. Il 30 marzo 2010, invece, ferma restando la composizione della normazione dell’ordinamento giuridico statale che s’era realizzata fin dal (1972) 1986, la Corte ha ritenuto che, combinando nella formula della norma processuale anche le disposizioni normative del 1972 (1986) erroneamente ignorate da tutti i precedenti collegi, si dovesse adottare la norma, secondo la quale il dies a quo del termine breve per l’impugnazione delle sentenze del TSAP s’identifica con il giorno della notificazione, a cura del cancelliere del Tribunale, ex art. 183.4 RD 11 dicembre 1933, n. 1775, di sentenza del TSAP, di 124 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 qualsiasi sua sentenza, registrata o non registrata. Questa innovazione normativa a me non sembra un rovesciamento, o un ribaltamento, del precedente orientamento giurisprudenziale, perché alla norma (A) non è stata sostituita la norma (-A), ma una modificazione parziale, consistente nel fatto che tutti gli elementi della precedente norma sono stati lasciati immutati meno il suo oggetto, che dalla categoria delle “sentenze registrate del TSAP” è stato convertito nella più ampia categoria delle “sentenze del TSAP”, registrate e non registrate. La formula della norma, che a partire dal 30 marzo 2010 si è ritenuto che facesse parte dell’ordinamento giuridico solo a partire, ma anche fin, dal 1972, potrebbe, dunque, essere questa: “il termine breve, di 45 giorni, per impugnare la sentenza del TSAP decorre dalla notificazione della sentenza”. Ciò chiarito, v’è da domandarsi se la sentenza n. 7607 del 2010, che ha apportato tale modificazione normativa, abbia adottato un’interpretazione evolutiva o un’interpretazione correttiva. Il Collegio che l’ha adottata non s’è espresso sul punto, perché non ha fatto alcun riferimento alla giurisprudenza precedente, rispetto alla quale esso sicuramente innovava, senza però roversciarla. Non è ben chiaro, invece, quale sia l’opinione della sentenza n. 15144 del 2011 al riguardo, perché, da un lato si parla “della illustrata evoluzione normativa”, che è solo quella del (1972) 1986, e, dall’altro, si afferma che la sentenza n. 7607 del 2010 <>. Credo, allora, che la sentenza n. 15144 del 2011 si possa interpretare nel senso che essa ritiene che la normazione si è trasformata nel (1972) 1986, ma della sua trasformazione la giurisprudenza di legittimità non si è accorta fino al 2010, quando le Sezioni unite hanno adottato una sentenza - la n. 7607 del 2010 - che, per un verso, contiene un’interpretazione normativa evolutiva rispetto al 1923, la cui elaborazione si sarebbe dovuto realizzare fin dal 1972 (1986), e che, per altro verso, contiene un’interpretazione normativa correttiva sostitutiva della fallace giurisprudenza accumulatasi nel (quarantennio) trentennio, o poco meno, (1972) 1986 - 2009. La correzione, peraltro, non è un rovesciamento, o ribaltamento, ma una modificazione parziale del suo solo oggetto, nel senso del suo allargamento, perché gli altri elementi strutturali della norma, ossia il contenuto specifico (onere di impugnare entro il termine breve) e i destinatari (parti notificatarie della sentenza), sono rimasti immutati. Rispetto alla sentenza n. 7607 del 2010, poi, la sentenza n. 15144 del 2011 introduce un’altra modificazione della norma individuata un anno prima, nel senso che ha ritenuto tempestivo e, quindi, ammissibile, il ricorso per cassazione della parte del processo conclusosi con la sentenza del TSAP, la quale, CONTENZIOSO NAZIONALE 125 notificataria, a cura del cancelliere, della sentenza non registrata del Tribunale, abbia fondatamente confidato nella vigenza della norma pregressa e, quindi, nella disponibilità del termine lungo. La modificazione ulteriore non è correttiva alternativa della norma scoperta nel 2010, ma correttiva integrativa, nel senso che, verificandosi i presupposti per l’affidamento del cittadino, la norma giuridica rinvenuta dell’ordinamento è la seguente: “è tempestivo e, quindi, ammissibile il ricorso per cassazione della parte, notificataria di sentenza non registrata del TSAP, che, facendo fondato affidamento sulla norma erronea individuata dalla giurisprudenza anteriore al 30 marzo 2010, secondo cui il termine breve decorre dalla notificazione della sentenza registrata, abbia proposto il ricorso prima della scadenza del termine lungo”. Si tratta di una modificazione della norma individuata dalla Corte di cassazione con la sentenza 30 marzo 2010, n. 7607, che interviene in senso riduttivo della sfera dei suoi destinatari, nel senso che la sua formula diviene la seguente: “il termine breve, di 45 giorni, per impugnare la sentenza del TSAP decorre dalla notificazione della sentenza, meno che per la parte che, avendo prestato fondato affidamento nella norma, ritenuta erroneamente vigente fino al 30 marzo 2010, secondo la quale il termine breve decorre dalla notificazione della sentenza registrata, si sia avvalsa del termine lungo”. 6. Rinvio per l’esame dei problemi rimasti aperti dopo la soluzione adottata dalla Corte di cassazione. Con queste considerazioni si potrebbe ritenere concluso, almeno per il momento, il tentativo di interpretare correttamente la complessa sentenza 11 luglio 2011, n. 15144. Non s’ignora - e qualche accenno si è fatto nella nota (2) - che la giurisprudenza successiva della Corte di cassazione ha fatto un’applicazione relativamente diffusa del principio enunciato nel 2011, estendendone l’applicazione ad altre sedi, ma anche restringendola alla sfera processuale, e precisandone i presupposti, con qualche equivoco sul requisito della fondatezza dell’affidamento, individuato, ma senza il dovuto approfondimento, nella cosiddetta conoscibilità oggettiva. Tutti questi temi, invero rilevanti, non possono trovare ovviamente considerazione in questa sede, ove ci si limita a segnalarli perché non sfuggano ad un futuro esame. Cassazione civile, Sezioni Unite, sentenza dell’11 luglio 2011 n. 15144 - Primo Pres. f.f. Vittoria, Pres. Sez. Lupi, Rel. Morelli, P.M. Iannelli (difforme) - Regione Basilicata (avv. Di Giacomo) c. Enel Produzione spa (avv.ti Conte). (...) Svolgimento del processo La Regione Basilicata propone, innanzi a questa Corte, ricorso avverso la sentenza n. 1 del 7 gennaio 2009, con la quale il T.S.A.P. - esclusa la fondatezza di sollevate eccezioni di incosti- 126 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 tuzionalità della L.R. n. 7 del 1999, in riferimento agli artt. 23 e 117 Cost. - ha comunque annullato la delibera giuntale di essa Regione, n. 2628 del 2003, recante aumento della misura del canone di concessione di derivazione di acque pubbliche, adottata sulla base della predetta legge regionale, e che aveva formato oggetto di impugnazione da parte della ENEL Produzione s.p.a., in proprio e quale successore a titolo particolare di Enel Green Power s.p.a., concessionarie appunto, di derivazioni di acque pubbliche regionali per la produzione di energia elettrica. Resistono le predette società, con formulazione di preliminare eccezione di tardività della avversa impugnazione, e con proposizione, altresì, di ricorso incidentale condizionato, reintroduttivo, in via subordinata, della questione di costituzionalità della L.R., in riferimento al solo art. 117 Cost.. Entrambe le parti hanno anche depositato memorie. Motivi della decisione I. Sulla questione pregiudiziale di tardività, o meno, del ricorso in relazione al dies a quo di decorrenza del termine breve per l'impugnazione delle sentenze del T.S.A.P.. 1. Il dato normativo di riferimento. La non tempestività, e conseguente inammissibilità, del ricorso della Regione, è stata eccepita dalle resistenti società sul rilievo che la correlativa notifica è stata effettuata (il 5 gennaio 2010) "dopo la scadenza del termine di decadenza (di 45 giorni)", decorrente dalla data (17 febbraio 2009) di ricezione, da parte della Regione, della copia integrale del dispositivo della sentenza del TSAP (n. 1 del 7 gennaio 2009), notificatale ad istanza della cancelleria del detto giudice. La normativa che viene nella fattispecie in applicazione - ed in relazione alla quale è formulata la riferita eccezione - è quella costituita dal combinato disposto del R.D. n. 1775 del 1933, artt. 183, 200, 201 e 202, (T.U. sulle acque e impianti elettrici). Dispone, in particolare, il citato art. 183, ai suoi terzo e quarto comma, che "il cancelliere annota in apposito registro il deposito (della sentenza) ed entro tre giorni da tale deposito trasmette la sentenza con gli atti all'ufficio del registro e ne dà avviso alle parti perchè provvedano alla registrazione. Restituiti la sentenza e gli atti dall'ufficio del registro, il cancelliere entro cinque giorni ne esegue la notificazione alle parti, mediante consegna integrale del dispositivo, nella forma stabilita per la notificazione degli atti di citazione". A loro volta, gli artt. 200 e 201 stabiliscono, rispettivamente, che contro le decisioni del Tribunale Superiore delle acque pubbliche pronunciate in grado di appello (avverso le sentenze definitive dei Tribunali Regionali delle acque pubbliche) e contro le decisioni nelle materie contemplate nell'art. 143 (che appartengono alla cognizione diretta di detto Tribunale Superiore) è ammesso il ricorso alle sezioni unite della Corte di Cassazione. Il successivo art. 202 disciplina, infine, il termine per proporre tale ricorso, stabilendo che "i termini indicati nell'art. 518 c.p.c., (il codice di procedura civile vigente all'epoca prevedeva il termine di 90 giorni) sono ridotti alla metà e decorrono dalla notificazione della sentenza, fatta a norma dell'art. 183". Il problema che si è posto, in sede di esegesi della predetta normativa, è se la notifica della copia integrale del dispositivo della sentenza comporti, o meno, la decorrenza, indipendentemente dalla sua registrazione, del termine breve ex art. 326 c.p.c., per impugnare la decisione del T.S.A.P.. 1.1. L'iniziale, risalente, e poi consolidatasi, interpretazione del citato R.D. n. 1775 del 1933, art. 183 e ss.. Al quesito interpretativo di cui sopra è stata data soluzione - con la sentenza n. 11095 del 1991, ribadita dalle successive conformi pronunzie nn. 12150/92, 394/99, 10892/01, 13710/05, CONTENZIOSO NAZIONALE 127 12084/06, 6063/09 - nel senso che "la notifica, che il cancelliere fa alle parti, dell'avviso di trasmissione della sentenza del T.S.A.P. all'Ufficio del registro, ai sensi del R.D. n. 1775 del 1933, art. 183, comma 3, è inidonea, ancorchè tale avviso contenga anche la trascrizione del dispositivo, a far decorrere il termine per la proposizione del ricorso per cassazione, che decorre invece, dalla notifica, eseguita a norma del successivo quarto comma della stessa norma", atteso che solo con tale successiva notifica - che presuppone la restituzione della sentenza e degli atti da parte dell'Ufficio del registro - la parte che intende impugnare è messa in grado di apprestare compiutamente le proprie difese (In tal senso, anche le precedenti nn. 13/86 e 8534/90, nonchè 3853/92, con riguardo al dies a quo di decorrenza del termine previsto dall'art. 189, T.U. 1995/33 per la proposizione dell'appello avverso le sentenze del Tribunale Regionale). 1.2. Il rovesciamento della precedente esegesi di cui alla successiva sentenza n. 7607/2010. Con la più recente citata pronunzia n. 7607 depositata il 30 marzo 2010 (in data successiva, per quel che in prosieguo risulterà rilevare, a quella dell'odierno ricorso) queste Sezioni unite hanno però ribaltato quel proprio, pur consolidato, pregresso indirizzo. E ciò sulla base, e in considerazione, del mutamento, nel frattempo intervenuto, del quadro normativo di riferimento in tema di imposta di registro. A riguardo della quale già la sentenza n. 80 del 1966 della Corte costituzionale aveva rimosso il divieto, ai funzionari di cancelleria, di rilascio di copie od estratti di sentenze prima della loro registrazione, e la successiva decretazione legislativa di settore (D.P.R. n. 634 del 1972; D.P.R. n. 131 del 1986) aveva ulteriormente innovato, "atteso che, mentre in base alla legge di registro del 1923, tutte le sentenze andavano registrate... attualmente vi sono sentenze che vanno registrate e sentenze che non vanno registrate, ed anche per le prime il cancelliere è tenuto a rilasciarne copia prima della registrazione se ciò è necessario per la prosecuzione del giudizio" (art. 10, e art. 66, comma 2 tabella allegata, D.P.R. n. 131 del 1986). Per cui, dunque, si è escluso, alla luce della illustrata evoluzione normativa, che la preventiva registrazione della sentenza, prevista dall'art. 183 più volte menzionato, possa essere ancora ritenuta condizione essenziale per la decorrenza del termine breve di impugnazione derivante dalla notifica della copia dell'estratto integrale della sentenza. Dal che, quindi, la conclusione che "avvenuta la comunicazione dell'avviso di deposito della sentenza (certamente questo inidoneo, ancorchè contenente il dispositivo della stessa, a far decorrere il termine breve di 45 giorni, di cui al R.D. n. 1775 del 1993, art. 202) la successiva notifica della copia integrale del dispositivo della sentenza stessa, fa decorrere, comunque, indipendentemente dalla registrazione della sentenza, il termine breve per la sua impugnazione, rilevando la effettuazione della sua registrazione esclusivamente ai fini fiscali". Principio, quello così enunciato, cui questo Collegio non può che dare continuità, in quanto si risolve in una rilettura della normativa in esame che (in senso correttivo rispetto al precedente indirizzo rimasto fermo anche dopo il 1986) ne disvela - compatibilmente con il dato testuale - il diverso contenuto evolutivamente assunto, per effetto e in correlazione al sopravvenuto mutamento di disciplina (quella, appunto, dell'imposta di registro) con essa interagente, nel complessivo quadro delle disposizioni regolatrici del settore di riferimento. 2. Se sopravvenuto mutamento di esegesi della norma processuale di riferimento possa comportare la tardività di un ricorso altrimenti tempestivo alla stregua del diverso diritto vivente alla data della sua proposizione. Il quesito che, su prospettazione della ricorrente Regione, si pone, infatti, a questo punto, è se debba o non operare o se non possa, altrimenti, comunque ovviarsi a la decadenza che, nei suoi confronti, deriverebbe dall'applicazione del nuovo indirizzo interpretativo, atteso che, come 128 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 detto, il suo ricorso è stato proposto oltre il quarantacinquesimo giorno dalla ricevuta notifica della copia integrale del dispositivo (ancorchè in termini rispetto al dies a quo in precedenza individuato in correlazione alla successiva notifica della sentenza art. 183 cit., ex comma 4). Il problema, nel suo profilo più generale, attiene, sul piano diacronico, alla dimensione temporale (in concreto: alla operatività solo "pro futuro" ovvero anche retroattiva) di un arresto innovativo, di pregressa consolidata giurisprudenza, nell'ambito del diritto processuale, dal quale derivi resistenza, in precedenza esclusa, di una decadenza o di una preclusione in danno di una parte del giudizio: secondo la puntuale perimetrazione che, di tale questione, si rinviene nell'ordinanza 8 gennaio 2011 n. 2067, di queste Sezioni unite. Ove, appunto, si precisa, a contrario, che non vengono, per il profilo di cui sopra, in rilievo mutamenti di esegesi di disposizioni processuali nella specie: dell'art. 37 c.p.c., con riguardo agli enucleati limiti alla deducibilità del difetto di giurisdizione che non rappresentino "una svolta inopinata e repentina rispetto ad un precedente diritto vivente consolidato" ma solo Testo di un processo di rilettura da tempo in itinere", e che, comunque, non si risolvano in una compromissione del diritto di azione e di difesa di una parte. 2.1. L'emersione del problema nella giurisprudenza di legittimità e in quella di merito. Il tema, così delineato, era già stato, per altro, intercettato dalla precedente ordinanza n. 14627 del 17 giugno 2010. Nella quale, con il ricorso alla suggestiva metafora del non consentito "cambiamento delle regole del gioco a partita già iniziata", si è escluso che il (recente) mutamento di indirizzo di cui a Sez. un. n. 19161/09 - in tema di impugnabilità in Cassazione, di provvedimenti relativi a compensi liquidati a consulenti in sede penale, nelle forme non più del rito penale, bensì di quello civile - possa pregiudicare la parte che abbia adito la Corte attenendosi alle forme indicate dalla precedente giurisprudenza, non ancora, all'epoca, sul punto, innovata; individuandosi lo strumento tecnico, utile ad evitare un siffatto pregiudizio, nell'istituto della remissione in termine. Il problema è, comunque, poi entrato in circolo, in tutta la complessità delle sue implicazioni, con la sentenza SS.UU. n. 19246 del 9 settembre 2010, che ribaltando un cinquantennale contrario indirizzo interpretativo delle disposizioni sub art. 645 c.p.c. - ha ridotto - in ogni caso alla metà i termini del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo. E ben vero - diversamente che nell'ipotesi di cui alla citata ordinanza n. 14627/2010, in cui le conseguenze del mutamento, in via interpretativa, del rito per l'accesso in Cassazione venivano ad essere, per così dire, gestite direttamente dalla stessa Corte regolatrice - nel caso da ultimo richiamato la nuova lettura dell'art. 645 c.p.c., finiva con il condizionare la sorte delle migliaia di giudizi di opposizione in corso, suscettibili, nel caso di sua immediata applicazione, di essere definiti con la sanzione di improcedibilità conseguente al mancato rispetto dei termini come sopra dimidiati. Evenienza, questa, che la maggioranza dei giudici di merito si è orientata però ad evitare sia pure con varietà di soluzioni. In taluni casi, invero, attestandosi sulla praticabilità dell'istituto della rimessione in termini; in altri casi, attribuendo efficacia vincolante alla giurisprudenza precedente ed assimilando il nuovo arresto ad una sorta di ius superveniens, operante, come tale, solo pro futuro; in altri ancora, ravvisando nella giurisprudenza della Corte Europea, che impone la "conoscibilità della regola di diritto e la ragionevole prevedibilità della sua applicazione", un ostacolo insormontabile alla retroattività del dictum di Sez. un. 19246/2010; in altri casi, infine, privilegiando la lettura esegetica precedente all'overruling (sulla base, per altro, di argomenti che trovano eco nella ordinanza interlocutoria n. 6514 del 22 marzo 2011, con cui la Sezione Terza CONTENZIOSO NAZIONALE 129 ha nuovamente rimesso a queste Sezioni unite la questione interpretativa dell'art. 645 c.p.c.). 2.2. Il contributo della dottrina. Le richiamate pronunzie di legittimità, ed i seguiti nella giurisprudenza di merito, hanno dato occasione anche alla dottrina di approfondire le problematiche del mutamento di giurisprudenza di norme processuali, riflettendo, con varietà di spunti, ora critici ora adesivi, sulle soluzioni già emerse in tema e su quelle ulteriormente possibili. L'opzione di fondo, che ha visto divisi anche gli Autori, resta quella tra il ritenere rituale (insuscettibile, quindi, di invalidazione ex post) l'atto compiuto nel vigore e in conformità alla precedente giurisprudenza, ed il considerarlo, invece, ora per allora, invalido, per difformità alla norma di riferimento come successivamente reinterpretata, con l'attivazione, in questo secondo caso, di meccanismi di tutela dell'affidamento che la parte abbia riposto in un pregresso diritto vivente di cui non fosse prevedibile il mutamento. La scelta tra le due soluzioni ruota intorno al nodo del valore del precedente e dell'efficacia temporale della c.d. overruling: che, a sua volta, incrocia le problematiche, di più ampio respiro, della funzione, meramente dichiarativa o (concorrentemente) creativa, riconosciuta alla giurisprudenza, del suo (eventualmente possibile) inquadramento tra le fonti di implementazione e conformazione dell'ordinamento giuridico e del discrimine tra modificazione del contenuto della norma per via interpretativa e novum ius; per coinvolgere, ancor più a monte, la definizione del ruolo del giudice nel sistema costituzionale di divisione dei poteri. 2.3. Premesse sui temi presupposti o implicati dal quesito in esame. Dalla varietà e complessità dei temi così aggregati intorno alla questione (sub 1.2) in esame, non può prescindersi ai fini della correlativa soluzione, che va quindi ricercata su un piano di logica consequenzialità rispetto alle opzioni di principio, o comunque, alle precisazioni che, in ordine ai temi stessi, preliminarmente esigono di essere operate. A tal fine si osserva quanto segue; a) La norma giuridica - che, nella sua effettività, è l'espressione di un pensiero diffuso che si forma ascoltando le istanze della comunità territoriale e ne metabolizza le esigenze - trova propriamente la sua fonte di produzione nella legge (e negli atti equiparati), in atti, cioè, di competenza esclusiva degli organi del Potere legislativo. Nel quadro degli equilibri costituzionali (ispirati al principio classico della divisione dei poteri) giudici (estranei al circuito di produzione delle norme giuridiche) sono appunto (per disposto dell'art. 101 Cost., comma 2), "soggetti alla legge". Il che realizza l'unico collegamento possibile, in uno Stato di diritto, tra il giudice, non elettivo nè politicamente responsabile, e la sovranità popolare, di cui la legge, opera di parlamentari eletti dal popolo e politicamente responsabili, è l'espressione prima; ma sono soggetti anche alla legge "soltanto", il che, a sua volta, realizza la garanzia della indipendenza funzionale del giudice, nel senso che, nel momento dell'applicazione, e della previa interpretazione, a lui demandata, della legge, è fatto divieto a qualsiasi altro soggetto od autorità di interferire, in alcun modo, nella decisione del caso concreto. b) La suitas della norma giuridica sta poi nella sua struttura ternaria, essendo in essa individuabile un significante (l'insieme, cioè, dei frammenti lessicali di che si compone), un significato, o più possibili significati (e, cioè, il contenuto precettivo, in termini di comando - divieto - permesso, che il significante esprime) ed un giudizio di valore (di avvertita positività, cioè, di un dato bene - interesse, che postula la meritevolezza della creazione di un congegno di protezione del bene stesso all'interno della collettività). c) In ragione, appunto, di tale collegamento tra norma giuridica e valore (che segna il discri- 130 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 mine tra legge fisica o di natura e il diritto come legge assiologica), ed anche del suo inevitabile porsi come elemento (di settore) di un sistema ordinamentale, la norma, una volta posta in essere, non resta cristallizzata in sè stessa, ma è soggetta, ex se, a dinamiche evolutive. Nel senso che, nel tempo, essa è suscettibile di assumere una molteplicità di contenuti, in relazione ed entro il limite dei significati resi possibili dalla plurivocità del significante testuale - per un duplice ordine di fattori propulsivi, interni ed esterni. In relazione al primo profilo viene in rilievo, infatti, la considerazione che l'interesse dalla norma protetto - per la sua insopprimibile connotazione dinamica legata al suo esprimere una tensione della collettività verso un bene della vita - non può evidentemente restare imprigionato nella gabbia del testo della regola iuris, ma di questa invece costituisce l'elemento mobile, quasi linfa vitale, che ne orienta il processo di crescita e ne determina i percorsi evolutivi. Vale a dire che - entro il limite ovviamente già sottolineato di tolleranza ed elasticità del significante testuale - la norma di volta in volta adegua il suo contenuto, in guisa da conformare il predisposto meccanismo di protezione alle nuove connotazioni, valenze e dimensioni che l'interesse tutelato nel tempo assume nella coscienza sociale, anche nel bilanciamento con contigui valori di rango superiore, a livello costituzionale o sovranazionale. Parallelamente, per quanto poi attiene all'incidenza di fattori esterni, è decisivo l'aspetto strutturale - sistematico della regola iuris, quale elemento non in sè autoconchiuso, ma segmento invece di una complessa architettura giuridica, coordinata secondo postulati di unitarietà e completezza. In questo articolato mosaico, ogni disposizione si trova così inserita in settori e subsettori normativi ed investe una serie di relazioni reciproche con norme contigue. Per cui è ben comprensibile come, in prospettiva diacronica, le eventuali successive modificazioni, abrogazioni, sostituzioni delle disposizioni interferenti abbiano una possibile ed automatica ricaduta sul contenuto della disposizione in questione, anche per questa via quindi innescandone processi modificativi. Per cui, in realtà, quello (sotteso alla formula plasticamente descrittiva) del diritto vivente è fenomeno oggettivo: per un verso legato alla natura assiologica della norma e, per altro verso, determinato dalle dinamiche evolutive interne al sistema ordinamentale. Fenomeno che, per la sua complessità, esige la mediazione accertativa della giurisprudenza, che quindi lo disvela, ma non per questo lo crea; nel senso, dunque, che il "diritto vivente" esiste al momento - ma non (solo) per effetto - della interpretazione dei giudici. Nella sequenza dei cui arresti viene, per continenza, così individuato, sul piano storico, il diritto vivente, in senso formale (cfr. Corte cost. nn. 276/74; 129/75 e successive conformi). d) L'interpretazione della regola iuris, che si riflette in siffatte decisioni, può definirsi "evolutiva", ma ciò per traslato, in quanto, appunto, volta ad accertare il significato evolutivamente assunto dalla norma nel momento in cui il giudice è chiamato a farne applicazione (e con risalenza a quello di inveramento di tale evoluzione): accertamento che, a livello di intervento nomofilattico della Corte regolatrice, ha anche vocazione di stabilità, innegabilmente accentuata (in una corretta prospettiva di supporto al valore delle certezze del diritto) dalle novelle del 2006 (art. 374) e 2009 (art. 360 bis c.p.c., n. 1), ma stabilità pur sempre relativa, perchè la vivenza della norma (anche fuori dalla metafora morfologica) è una vicenda, per definizione, aperta. e) Diversa dalla esegesi evolutiva è invece l'interpretazione "correttiva". Con la quale il giudice torna direttamente sul significante, sul testo cioè della disposizione, per desumerne - indipendentemente da vicende evolutive che l'abbiano interessata - un significato diverso da quello CONTENZIOSO NAZIONALE 131 consacrato in un una precedente esegesi giurisprudenziale. E ciò o perchè il nuovo significato sia ritenuto preferibile rispetto a quello - pur compatibile con il testo - precedentemente enucleato ma una tale opzione trova ora netta controindicazione nella recente Sez. Un. n. 10864/2011, secondo cui, su un piano, per così dire, di etica del cambiamento, "una diversa interpretazione non ha ragione d'essere ricercata, e la precedente abbandonata, quando l'una e l'altra siano compatibili con la lettera della legge, essendo preferibile e conforme ad un economico funzionamento del sistema giudiziario l'interpretazione sulla cui base si è già formata una pratica di applicazione", ovvero perchè l'interprete ritenga che la precedente lettura del testo sia errata, perchè frutto di non corretta applicazione dei canoni di ermeneutica della legge. f) Alla luce di tali premesse, nel caso, in particolare, che la overruling correttiva interessi una norma processuale, è difficile sfuggire allora alla conseguenza che l'atto compiuto dalla parte, od il comportamento da esso tenuto, in conformità all'orientamento ovveruled, risulti - ora per allora - non rituale, "inidoneo per effetto appunto del mutamento di indirizzo giurisprudenziale" (così già Sez. 2^ 14627/2010 cit.). Ad una diversa conclusione potrebbe invero giungersi solo ove si ritenga che la precedente interpretazione, ancorchè poi corretta, costituisca il parametro normativo immanente per la verifica di validità dell'atto compiuto in correlazione temporale con essa (ut lex temporis acti). Ma con ciò, all'evidenza, si trasformerebbe una sequenza di interventi accertativi del contenuto della norma in una operazione di creazione di un novum ius, in sequenza ad un vetus ius, con sostanziale attribuzione, ai singoli arresti, del valore di atti fonte del diritto, di provenienza dal giudice: soluzione non certo coniugabile con il precetto costituzionale dell'art. 101 Cost.. g) Quid iuris, però, ove il mutamento di giurisprudenza di regola del processo sia (come nel caso che qui viene in rilievo) duplicemente connotato dalla sua imprevedibilità (per il carattere consolidatosi nel tempo, del pregresso indirizzo) e da un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte che sulla stabilità del precedente abbia ragionevolmente fatto affidamento? In tal caso, sono proprio le peculiari connotazioni dell'overruling che, per la loro eccezionalità (ed auspicabile non reiterabilità), giustificano una scissione tra il fatto (il comportamento della parte risultante ex post non conforme alla corretta regola del processo) e l'effetto, di preclusione, che dovrebbe derivarne. Ma che l'ordinamento, appunto, non tollera che ne derivi, trovando il dispiegarsi dell'effetto retroattivo insuperabile ostacolo, in una siffatta evenienza, nel valore superiore del giusto processo, "la cui portata" - come precisato da Sez. 2^ 14627 cit. "non si esaurisce in una mera sommatoria delle garanzie strutturali formalmente enumerate nel secondo comma dell'art. 111 Cost. (contraddittorio, parità delle parti, giudice terzo ed imparziale, durata ragionevole di ogni processo), ma rappresenta una sintesi qualitativa di esse (nel loro coordinamento reciproco e nel collegamento con le garanzie del diritto di azione e di difesa), la quale risente anche dell'effetto espansivo" dell'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e della corrispondente giurisprudenza della Corte di Strasburgo (cfr. Corte cost., sentenza n. 317 del 2009, punto 8 del Considerato in diritto)". Innegabilmente contrario essendo, infatti, alla garanzia di effettività dei mezzi di azione o di difesa e delle forme di tutela che rimanga priva della possibilità di vedere celebrato un giudizio, che conduca ad una decisione sul merito delle proprie istanze, la parte che quella tutela abbia perseguito con un'iniziativa processuale conforme alla legge del tempo, nel significato attribuitole dalla coeva giurisprudenza di legittimità, ma divenuta poi inidonea per effetto del correlativo mutamento. 132 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 Conforta tale soluzione anche la considerazione dell'esigenza, su cui induce a riflettere autorevole dottrina, del non alterabile parallelismo tra legge retroattiva ed interpretazione giurisprudenziale retroattiva, per il profilo dei limiti, alla retroagibilità della regola, imposti dal principio di ragionevolezza, quali enucleati, al riguardo, da copiosa giurisprudenza della Corte Costituzionale (nn. 118/57; 349/85; 822/88; 233/89; 155/90; 402/93 ex plurimis). E che autorizza a ritenere che ciò che non è consentito alla legge non possa similmente essere consentito alla giurisprudenza. I cui mutamenti, quale che ne sia la qualificazione, debbono, al pari delle leggi retroattive, a loro volta rispettare il principio di ragionevolezza, non potendo frustrare l'affidamento ingenerato come, nel cittadino, dalla legge previgente, così, nella parte, da un pregresso indirizzo ermeneutico, in assenza di indici di prevedibilità della correlativa modificazione. E, per altro, se è pur vero che una interpretazione giurisprudenziale reiterata nel tempo che sia poi riconosciuta errata, e quindi contra legem, non può, per la contraddizione che non lo consente, essere considerata ex temporis, vero è però anche che, sul piano fattuale, quella giurisprudenza ha comunque creato l'apparenza di una regola, ad essa conforme. Per cui, anche per tal profilo, viene in rilievo l'affidamento in quella apparenza riposto dalla parte. Affidamento, ovviamente, tutelabile non oltre il momento di oggettiva conoscibilità (da verificarsi in concreto) dell'arresto nomofilattico di esegesi correttiva. h) Quanto, poi, al mezzo per realizzare, nei sensi sopra indicati, il bilanciamento dei valori in gioco, questo va modulato in correlazione alla peculiarità delle situazioni processuali interessate dall'eventuale (non prevedibile) overruling. Così, nel caso deciso da Sez. 2^ 14627/2010, in cui il ricorso, pur proposto in termini, non rispettava le forme (del rito civile) prescritte dal nuovo indirizzo, lo strumento è stato coerentemente individuato nell'istituto della remissione in termine, così consentendosi alla parte di riproporre ritualmente l'impugnazione. Nel caso, invece, in cui venga, come nella specie, in rilievo un problema di tempestività dell'atto (sussistente in base alla giurisprudenza overruled, ma venuta meno in conseguenza del successivo mutamento di esegesi della regola di riferimento), il valore del giusto processo può trovare diretta attuazione attraverso l'esclusa operatività, come detto, della preclusione derivante dall'overruling nei confronti della parte che abbia confidato nella consolidata precedente interpretazione della regola stessa. 2.4. Soluzione: inapplicabilità alla fattispecie della sentenza 7607/2010 e infondatezza dell'eccezione di tardività del ricorso. Conclusivamente, alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso della Regione va considerato tempestivamente proposto entro il termine lungo, non operando nei suoi confronti la decadenza per mancata osservanza del temine breve decorrente dalla data di ricezione della notifica del dispositivo della sentenza del TSAP. Dal che, quindi, la reiezione della eccezione di inammissibilità della impugnazione, formulata dalle resistenti società. II. Non fondatezza del ricorso principale. (Assorbimento del ricorso incidentale). (...) Il ricorso principale va integralmente, pertanto, respinto. Resta di conseguenza assorbito il ricorso incidentale della società. La delicatezza e novità delle questioni trattate giustifica l'integrale compensazione delle spese di questo giudizio di cassazione tra le parti. P.Q.M. La Corte, a Sezioni unite, riuniti i ricorsi, respinge quello principale e dichiara assorbito l'incidentale. Spese compensate. CONTENZIOSO NAZIONALE 133 Supplenze scolastiche e divieto comunitario di abuso di contratti a termine Brevi spunti di riflessione (rectius: osservazioni in libertà) sulle criticità del “contenzioso di massa”, sulla scia di alcune recenti sentenze della Corte di Cassazione e della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (C. giustizia U.E., Sez. Sec., sentenza 26 gennaio 2012, C-586/10, Kücük; Cassazione civile, Sez. lav., sentenza 13 gennaio 2012 n. 392; Cassazione civile, Sez. lav., sentenza 20 giugno 2012 n. 10127) Diego, M. Miele* SOMMARIO: 1. Le sentenze in materia di abuso dei contratti a termine da parte dei datori di lavoro pubblici. a) Cass. civ. Sez. lavoro, sentenza 13 gennaio 2012, n. 392. b) Corte di Giustizia, Sezione II, sentenza 26 gennaio 2012, (caso Kücük - C-586/10) - 2. Il contenzioso promosso dal personale a termine del Ministero dell’Istruzione. a) Generalità. b) La prima decisione di legittimità - 3. Le sentenze del 2012 e il filone dei “precari della Scuola”: riflessioni sparse in punto di gestione del contenzioso di massa nel settore del pubblico impiego. a) La funzione del “guardiano” dei trattati, la giurisprudenza nazionale e l’attacco “virale” alla normativa nazionale sul reclutamento scolastico. b) Il “convitato di pietra” nel contenzioso dei “precari della Scuola”. c) La prova del danno subito dal lavoratore precario - 4. Conclusioni. 1. Le sentenze in materia di abuso dei contratti a termine da parte dei datori di lavoro pubblici. Le prime due sentenze in commento, pubblicate quasi contemporaneamente, sono intervenute nell’ambito della medesima problematica afferente i limiti all’utilizzo di contratti a termine nell’ambito del pubblico impiego: a) Cass. civ. Sez. lavoro, sentenza 13 gennaio 2012, n. 392 (1). La prima decisione della Suprema Corte presenta due punti salienti: • l’affermazione della specialità della disciplina del lavoro alle dipendenze della Pubblica Amministrazione rispetto al lavoro in ambito privato (constatazione peraltro non particolarmente innovativa (2)), con la conse- (*) Avvocato dello Stato. (1) Così massimata da Foro It., 2012, 2, 1, 412: che “Il divieto di conversione in rapporto a tempo indeterminato nell'ipotesi d'illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro, posto dall'art. 36, D.Lgs. n. 165/2001, assume carattere di specialità, per il lavoro pubblico contrattuale, rispetto al generale sistema sanzionatorio prefigurato in tema di contratto a termine, in armonia con la giurisprudenza costante della Corte di giustizia europea ed in ragione di una più accentuata responsabilizzazione dei dirigenti pubblici e del riconoscimento del diritto al risarcimento di tutti i danni in concreto subiti dal lavoratore”. (2) Cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 15 giugno 2010, n. 14350, in CED Cassazione, 2010. 134 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 guenza che il regime sanzionatorio previsto dall’art. 36 D.lgs. 165/2001 ha carattere esaustivo, alternativo e prevalente sulla disciplina sanzionatoria dell’abuso dei contratti a termine introdotta dal D.lgs. 368/2001 (art. 5); • la notazione che, nel lavoro pubblico, alla illegittimità del contratto a termine per violazione di norme imperative non può che conseguire “un regime sanzionatorio che - con l'escludere ogni effetto reintegrativo stante la regola generale del concorso per l'assunzione del personale - viene ad essere incentrato sul versante dei danni subiti dalla pubblica amministrazione e dal lavoratore”. Il danno da abuso di contratti a termine subito dal lavoratore va tuttavia “provato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento e, quindi, anche attraverso la prova per presunzioni, sottoponendo alla valutazione del giudice precisi elementi in base ai quali sia possibile risalire attraverso un prudente apprezzamento alla esistenza dei danni denunziati”, non trattandosi di danno in re ipsa: conseguentemente (par. 8 della sentenza) la decisione appellata viene confermata proprio sotto questo profilo. b) Corte di Giustizia, Sezione II, sentenza 26 gennaio 2012, (caso Kücük, C- 586/10) (3). La Corte di Lussemburgo si è occupata invece dei criteri per procedere all’accertamento dell’eventuale abuso dei contratti a termine da parte di una pubblica amministrazione, con particolare riferimento al caso di una lavoratrice a termine il cui contratto era stato rinnovato per ben 12 anni di seguito. I passaggi più significativi della pronuncia sono i seguenti: • “la clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro CTD non sancisce un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato, così come non stabilisce le condizioni precise alle quali si può fare uso di questi ultimi, lasciando agli Stati membri un certo margine di discrezionalità in materia” (parr. 48-52). (3) Così massimata da Diritto & Giustizia 2012 (pubblicata con nota di DI GERONIMO): “La clausola 5, punto 1, lettera a), dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che compare in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che l'esigenza temporanea di personale sostitutivo, prevista da una normativa nazionale come quella controversa nella causa principale, può, in linea di principio, costituire una ragione obiettiva ai sensi di detta clausola. Il solo fatto che un datore di lavoro sia obbligato a ricorrere a sostituzioni temporanee in modo ricorrente, se non addirittura permanente, e che si possa provvedere a tali sostituzioni anche attraverso l'assunzione di dipendenti in forza di contratti di lavoro a tempo indeterminato non comporta l'assenza di una ragione obiettiva in base alla clausola 5, punto 1, lettera a), di detto accordo quadro, né l'esistenza di un abuso ai sensi di tale clausola. Tuttavia, nella valutazione della questione se il rinnovo dei contratti o dei rapporti di lavoro a tempo determinato sia giustificato da una ragione obiettiva siffatta, le autorità degli Stati membri, nell'ambito delle loro rispettive competenze, devono prendere in considerazione tutte le circostanze del caso concreto, compresi il numero e la durata complessiva dei contratti o dei rapporti di lavoro a tempo determinato conclusi in passato con il medesimo datore di lavoro”. CONTENZIOSO NAZIONALE 135 • “la sola circostanza che si concludano contratti di lavoro a tempo determinato al fine di soddisfare un’esigenza permanente o ricorrente, del datore di lavoro, di personale sostitutivo non può essere sufficiente, in quanto tale, ad escludere che ognuno di questi contratti, considerati singolarmente, sia stato concluso per garantire una sostituzione avente carattere temporaneo. Sebbene la sostituzione soddisfi un’esigenza permanente, dato che il lavoratore assunto in forza di un contratto a tempo determinato svolge compiti ben definiti facenti parte delle attività abituali del datore di lavoro o dell’impresa, resta il fatto che l’esigenza di personale sostitutivo rimane temporanea poiché si presume che il lavoratore sostituito riprenda la sua attività al termine del congedo, che costituisce la ragione per la quale il lavoratore sostituito non può temporaneamente svolgere egli stesso tali compiti” (par. 38). • “Il mero fatto che un’esigenza di personale sostitutivo possa essere soddisfatta attraverso la conclusione di contratti a tempo indeterminato non comporta che un datore di lavoro che decida di ricorrere a contratti a tempo determinato per far fronte a carenze temporanee di organico, sebbene queste ultime si manifestino in modo ricorrente, se non addirittura permanente, agisca abusivamente, in violazione della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro CTD e della normativa nazionale che la recepisce” (par. 50). • “l’esigenza temporanea di personale sostitutivo, prevista da una normativa nazionale come quella controversa nella causa principale, può, in linea di principio, costituire una ragione obiettiva ai sensi di detta clausola. Il solo fatto che un datore di lavoro sia obbligato a ricorrere a sostituzioni temporanee in modo ricorrente, se non addirittura permanente, e che si possa provvedere a tali sostituzioni anche attraverso l’assunzione di dipendenti in forza di contratti di lavoro a tempo indeterminato non comporta l’assenza di una ragione obiettiva in base alla clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro CTD, né l’esistenza di un abuso ai sensi di tale clausola. Tuttavia, nella valutazione della questione se il rinnovo dei contratti o dei rapporti di lavoro a tempo determinato sia giustificato da una ragione obiettiva siffatta, le autorità degli Stati membri, nell’ambito delle loro rispettive competenze, devono prendere in considerazione tutte le circostanze del caso concreto, compresi il numero e la durata complessiva dei contratti o dei rapporti di lavoro a tempo determinato conclusi in passato con il medesimo datore di lavoro” (par. 56). 2. Il contenzioso promosso dal personale a termine del Ministero dell’Istruzione. L’ambito di più immediata ed interessante applicazione delle due sentenze è stato subito individuato nell’enorme filone contenzioso avviato dai c.d. “precari della scuola”, su cui pertanto è bene dare qualche breve delucidazione di inquadramento. 136 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 a) Generalità. È accaduto che, a partire dal 2010-2011, migliaia di dipendenti del M.I.U.R. hanno presentato distinti ricorsi ai Giudici del Lavoro italiani, denunciando la violazione della direttiva 1999/70/CE (4) (clausole 4 e 5 dell’Accordo) e lamentando un sistematico abuso di potere contrattuale da parte dell’Amministrazione scolastica, consistito nell’applicazione della normativa nazionale che disciplina le supplenze scolastiche (art. 4 della Legge 124/1999), in luogo delle disposizioni comunitarie (indicate come immediatamente prescrittive). Le domande avanzate sono articolate e variegate, il che rende più complessa la gestione di questo contenzioso “di massa” da parte delle singole Avvocature dello Stato, ma possono essere schematizzate come segue: a) conversione dei rapporti di lavoro a termine in un rapporto a tempo indeterminato (perequazione giuridica); b) risarcimento del danno non patrimoniale patito a causa dell’abuso da parte del Ministero dei contratti a tempo determinato (ai sensi della clausola 5 dell’Accordo Quadro (5)) da determinarsi anche in via equitativa; c) riconoscimento delle stesse maggiorazioni stipendiali legate all’anzianità di servizio, di cui godono i lavoratori assunti a tempo indeterminato (in applicazione della clausola 4 dell’Accordo Quadro (6)). La risposta della giurisprudenza di merito, che raramente sembra essersi data pensiero della certezza del diritto, messa a repentaglio dal ricorso frazio- (4) La direttiva 1999/70/CE ha recepito l'Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato - d’ora innanzi “Accordo Quadro” - concluso dall'UNICE (Unione delle confederazioni delle industrie della Comunità europea), dal CEEP (Centro europeo dell'impresa a partecipazione pubblica) e dal CES (Confederazione europea dei sindacati). (5) Recita la clausola 5 dell’Accordo UNICE - CEEP - CES: “Misure di prevenzione degli abusi - 1. Per prevenire gli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma delle leggi, dei contratti collettivi e delle prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative a: a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti. 2. Gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali, e/o le parti sociali stesse dovranno, se del caso, stabilire a quali condizioni i contratti e i rapporti di lavoro a tempo determinato: a) devono essere considerati "successivi"; b) devono essere ritenuti contratti o rapporti a tempo indeterminato”. (6) Recita la clausola 4 dell’Accordo UNICE - CEEP - CES: “Principio di non discriminazione - 1. Per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive. 2. Se del caso, si applicherà il principio del pro rata temporis. 3. Le disposizioni per l'applicazione di questa clausola saranno definite dagli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali e/o dalle parti sociali stesse, viste le norme comunitarie e nazionali, i contratti collettivi e la prassi nazionali. 4. I criteri del periodo di anzianità di servizio relativi a particolari condizioni di lavoro dovranno essere gli stessi sia per i lavoratori a tempo determinato sia per quelli a tempo indeterminato, eccetto quando criteri diversi in materia di periodo di anzianità siano giustificati da motivazioni oggettive.” CONTENZIOSO NAZIONALE 137 nato e in massa contro il tipo legale delle supplenze scolastiche, è stata inizialmente piuttosto favorevole ai lavoratori, cui sono stati riconosciuti significativi risarcimenti. Più di recente, la giurisprudenza delle Corti di appello di Perugia, Milano e Genova sembra aver arrestato la fuga in avanti dei Giudici del lavoro, convergendo sulla negazione della violazione della clausola 5, ma riconoscendo - con la sola eccezione di una sentenza della Corte di appello di Milano - la violazione della clausola 4 dell’Accordo. b) La prima decisione di legittimità. Alle pronunce di merito bisogna ormai affiancare la già celebre sentenza n. 10127 del 20 giugno 2012 della Corte di Cassazione che con un’articolata motivazione ha escluso in radice che il personale scolastico possa essere ritenuto vittima di un abuso di contratti a termine in violazione delle prescrizioni della clausola 5 dell’Accordo quadro. Il merito di tale decisione non costituisce l’oggetto di queste note: ci si limita a pronosticare brevemente che - pur segnando una significativa battuta d’arresto del “filone” - essa non vi porrà immediatamente fine. Sia perché lascia aperta la spinosa questione della violazione della clausola 4 dell’Accordo Quadro, che spesso è stata proposta in via subordinata a quella fondata sulla clausola 5; sia perché - come si dirà più avanti - è ancora possibile un intervento interpretativo della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e la prospettiva di ribaltare il verdetto della Cassazione - unita ad un uso troppo lasco del regolamento delle spese di lite da parte dei Tribunali - sarà per la maggioranza dei ricorrenti un incentivo a insistere sulle posizioni originarie. 3. Le sentenze del 2012 e il filone dei “precari della Scuola”: riflessioni sparse in punto di gestione del contenzioso di massa nel settore del pubblico impiego. Si può ora provare a segnalare alcuni dei punti problematici di questo complesso contenzioso che emergono dalla lettura delle sentenze qui annotate. a) La funzione del “guardiano” dei trattati, la giurisprudenza nazionale e l’attacco “virale” alla normativa nazionale sul reclutamento scolastico. La Corte di Giustizia - nella sentenza Kücük - ha indicato dei criteri interpretativi importanti per definire l’ampiezza del divieto di abuso dei contratti a termine da parte delle pubbliche amministrazioni europee. Essa da un lato conferma che la clausola 5 non è self executing e quindi che le Autorità nazionali hanno un cospicuo margine di intervento nel definire la disciplina settoriale dei lavori a termine; dall’altro ricorda a tutti quale sarà la sede in cui verrà detta l’ultima parola sulla vicenda dei “precari della Scuola”. In effetti, presto o tardi, il Giudice di Lussemburgo sarà chiamato a pronunciarsi sulla compatibilità con l’ordinamento comunitario del sistema ita- 138 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 liano delle supplenze scolastiche e a quell’unica decisione sarà rimesso il giudizio finale sulle deduzioni difensive che oggi le Istituzioni scolastiche (tramite l’Avvocatura dello Stato) si affannano ad illustrare in migliaia di giudizi dispersi in tutta la Penisola. Perfino all’indomani della favorevole sentenza n. 10127/2012 della Corte di Cassazione e perfino nell’ipotesi che la Corte Costituzionale rigettasse la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della Legge 124/1999 sollevata dal Tribunale di Trento (7), l’intervento della Corte di Giustizia resta il vero banco di prova della ragionevolezza del sistema italiano delle supplenze scolastiche. Se questo è ormai l’assetto di un sistema giuridico multilivello come il nostro, allora di fronte a contenziosi di massa in materia di pubblico impiego che - con un vero e proprio “attacco virale” - mettano in discussione l’efficacia della disciplina generale che regola migliaia di rapporti giuridici seriali, l’interesse dello Stato dovrebbe essere quello di addivenire nel più breve tempo possibile ad una decisione uniforme sul piano nazionale e di provocare con la massima urgenza l’intervento chiarificatore della Corte di Giustizia. b) Il “convitato di pietra” nel contenzioso dei “precari della Scuola”. La signora Kücük, nella causa sottoposta al verdetto della Corte di Giustizia non chiedeva altro che la conversione del suo rapporto di lavoro: voleva, cioè, ottenere l’accertamento dell’obbligo del suo datore di lavoro pubblico di assumerla finalmente - dopo 12 anni - con un contratto a tempo indeterminato. Nel filone in esame, la questione è più complessa: sia perché l’art. 36 esclude la conversione dei contratti a termine e ammette solo rimedi risarcitori, ma soprattutto perché i rapporti di lavoro del personale della scuola sono regolati in Italia da una disciplina speciale e derogatoria che non solo consente, ma obbliga, il MIUR ad avvalersi di supplenti scelti attraverso un meccanismo molto trasparente come quello delle graduatorie. La vera singolarità di questo contenzioso, che risalta leggendo “in controluce” la sentenza Kücük, è che i ricorrenti chiedono in massa la condanna risarcitoria di un’Amministrazione che non ha alcuna colpa del loro peculiare status giuridico. Infatti, al cospetto di una norma comunitaria non autoesecutiva quale è la clausola 5 dell’Accordo Quadro, prevale il diritto speciale nazionale: dov’è, dunque, il danno ingiusto? Dov’è la colpa del MIUR, necessaria a giustificare un risarcimento, pure quantificato in via equitativa? E infatti, a ben vedere, i supplenti mettono sotto accusa non la gestione dei loro rapporti contrattuali da parte del MIUR, bensì la complessiva ragionevolezza del sistema di reclutamento scolastico e la sua conformità alla direttiva 1999/70/CE. Da qui la convinzione che la massa dei ricorrenti abbia sbagliato bersaglio: le loro doglianze avrebbero dovuto ammettere prelimi- (7) Ordinanza del 15 novembre 2011. CONTENZIOSO NAZIONALE 139 narmente il carattere non self executing della clausola 5 dell’Accordo ed essere sottoposte non ai Giudici del Lavoro bensì al Tribunale civile di Roma mediante un’azione risarcitoria ordinaria proposta contro il Legislatore (Presidenza del Consiglio) per l’errata trasposizione della direttiva 1999/70/CE nel settore scolastico (8). È auspicabile che i Giudici del lavoro stigmatizzino questo errore di impostazione che è all’origine della dispersione del contenzioso su tutto il territorio nazionale. D’altro canto è pure prevedibile che la questione possa essere riproposta (almeno su iniziativa di chi non abbia già ottenuto una sentenza) sotto questa diversa forma, che risulterebbe più insidiosa in quanto costringerebbe la Presidenza del Consiglio ad una difesa a tutto campo anche sul piano delle ragioni di fondo che giustificano il ricorso a lavoratori a termine e sul piano dei complessivi equilibri di bilancio. Già oggi questo è più di un semplice “scenario”, in quanto risultano promosse (erroneamente anche in sede periferica) molte azioni di responsabilità che estendono il contraddittorio anche nei confronti dello Stato-Legislatore. c) La prova del danno subito dal lavoratore precario. Anche la statuizione centrale contenuta in Cass. Civ. n. 392/2012 - ovvero quella secondo cui il danno da “precarietà” non è in re ipsa, ma può essere dimostrato per mezzo di presunzioni - è di immediato interesse nel filone in esame, in quanto - come si è detto - ciò che più preme ai ricorrenti sembra proprio la “monetizzazione” della loro condizione di lavoratori a termine. Ora, non si può fare a meno di notare che poter “presumere” l’esistenza di un danno non patrimoniale del tipo lamentato dai ricorrenti è quanto di più vicino si possa immaginare al danno in re ipsa: l’uso della prova presuntiva, in buona sostanza, pone al centro dell’accertamento giurisdizionale la sussistenza o meno del diritto all’assunzione a tempo indeterminato e relega in secondo piano la dimostrazione rigorosa del danno. Del resto, una volta accertato il diritto all’assunzione, non è difficile immaginare patimenti emotivi e lesioni di aspettative professionali suscettibili di risarcimento in via equitativa. Proprio per questo motivo è importante il segnale proveniente dalla sentenza n. 10127/2012, che interviene “a monte”, negando l’esistenza di un simile diritto. D’altro canto, e per la stessa ragione, ciò non giustifica un abbassamento della guardia da parte del MIUR (e, in prospettiva, della Presidenza del Consiglio dei Ministri), proprio perché il punto della sussistenza di un diritto all’assunzione a tempo indeterminato potrebbe riservare inaspettati “colpi di coda”, specie nel caso di intervento della Corte di Giustizia. (8) Sulla competenza del Foro romano v. Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 28 agosto 2009, n. 18880. 140 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 4. Conclusioni. In conclusione, mi sembra che dalle sentenze in esame e da uno sguardo d’insieme sulla vicenda processuale dei “precari della scuola pubblica” gli spunti più interessanti si colgano sul piano del metodo, piuttosto che sul piano del merito. Il merito della vicenda è infatti analizzato in modo più che esauriente dalla sentenza n. 10127/2012, sufficiente da sola a contrastare le accuse di abuso di contratti a termine, al punto che le difese erariali potrebbero anche semplicemente riportarsi ad essa. Il problema del metodo resta invece aperto. I numeri impressionanti del “filone” dei “precari della scuola” - al pari di altri contenziosi seriali - denunciano il chiaro vulnus cui sono esposti il bilancio pubblico e la certezza del diritto quando la norma juris che regola migliaia di contratti di lavoro sia fatta oggetto di attacchi concertati, ripetitivi ma autonomi su tutto il territorio nazionale, ciascuno in grado di forzare la norma generale con le leve della primauté comunitaria, nella disponibilità di giudici monocratici con sensibilità molto diverse rispetto ai valori in gioco. Nei mesi scorsi, prima dell’intervento della Corte di Cassazione, il MIUR si è trovato letteralmente paralizzato: in alcuni distretti i Giudici del lavoro confermavano la legittimità del suo operato; in altri lo accusavano di abusi contrattuali ai danni dei suoi dipendenti. È in questa situazione di stallo che si sono inseriti molti ricorrenti, interessati ad ottenere facili risarcimenti, più che a mettere in discussione i loro rapporti di lavoro a termine. Ne è derivato una enorme aggravio di costi ed oneri amministrativi e di cancelleria per uffici, Tribunali e Avvocature distrettuali, ciò che integra di per sé - e a prescindere dall’esito finale del giudizio - un danno grave e attuale per lo Stato. Sottoposto ad una pioggia di migliaia di cause identiche dinnanzi a tutti i giudici nazionali, il datore di lavoro pubblico dovrebbe cercare di sottrarsi alla “trappola” in cui lo spinge la necessità di “inseguire” attraverso i tre gradi di giudizio contenziosi singoli. Il problema di fondo, in cause seriali di questo tipo, è infatti che la sentenza di condanna è immediatamente lesiva per l’Amministrazione condannata al risarcimento, mentre l’eventuale decisione favorevole non vincola gli altri giudici del lavoro e non arresta la massa dei ricorrenti. Sarebbero dunque auspicabili strumenti processuali in grado di paralizzare la “corsa all’oro” in cui si trasforma ogni causa seriale risarcitoria di diritto del lavoro: si potrebbe pensare, de jure condendo, ad istituire un grado unico di merito presso la Corte d’appello oppure, meglio, a rendere obbligatoria un’azione di classe unitaria. L’importante sarebbe sottrarre l’Amministrazione pubblica - il datore di lavoro più esposto a simili cause collettive - al proliferare di decisioni contraddittorie, consentendo un intervento giurisdizionale tempestivo ed accentrato sui nodi giuridici (l’an) sottostanti la questione seriale. CONTENZIOSO NAZIONALE 141 De jure condito, viceversa, i margini di azione sono certamente più stretti. Eppure occorrerà occuparsene già nel prosieguo del “filone” in esame, in quanto la sentenza 10127/2012 della Suprema Corte non ha preso posizione sulla pretesa dei lavoratori a termine di percepire maggiorazioni stipendiali legate all’anzianità alla stregua del personale di ruolo. E la questione è particolarmente delicata, in quanto la clausola 4 su cui tale pretesa si fonda è - al contrario della clausola 5 - effettivamente self executing, con precedenti sfavorevoli della Corte di Giustizia su casi spagnoli (9). A parte insistere per la riunione di ricorsi di analogo tenore, anche su questo fronte l’unica strada sembrerebbe quella di ottenere al più presto una decisione di massimo livello, con l’auspicio che i Tribunali preferiscano attendere le indicazioni del giudice di legittimità invece di costringere le parti a defatiganti appelli. Una prospettiva interessante, in quest’ottica, potrebbe essere quella del procedimento descritto dall’art. 64 del D.Lgs. 30 marzo 2001 n. 165: la domanda fondata sulla clausola 4 (autoapplicativa), diversamente da quella basata sulla clausola 5, pone proprio un problema di compatibilità con il diritto comunitario delle norme del CCNL sul trattamento economico dei supplenti, suscettibile pertanto di decisione parziale impugnabile solo per cassazione. Anche questo potrebbe essere un modo per anticipare il ripristino della certezza del diritto e per ridurre i costi collettivi del contenzioso di massa. Corte di Giustizia, Seconda Sezione, sentenza 26 gennaio 2012 nella causa C-586/10. Pres. J.N. Cunha Rodrigues, Rel. A. Ó Caoimh, Avv. Gen. N. Jääskinen - Bianca Kücük c. Land Nordrhein-Westfalen. Domanda di pronuncia pregiudiziale: Bundesarbeitsgericht - Germania. «Politica sociale – Direttiva 1999/70/CE – Clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato – Contratti di lavoro successivi a tempo determinato – Ragioni obiettive che possono giustificare il rinnovo di contratti siffatti – Normativa nazionale che giustifica il ricorso a contratti a tempo determinato in caso di sostituzione temporanea - Necessità permanente o ricorrente di personale sostitutivo - Considerazione di tutte le circostanze sottese al rinnovo di contratti successivi a tempo determinato» (Omissis) Sentenza 1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo (9) Corte giustizia dell’Unione Europea, sez. II, sent. 13 settembre 2007, proc. C-307/05 (caso Del Cerro Alonso), in Banca dati DeJure; id., sent. 22 dicembre 2010, procc. riun. C-444/09 e C-456/09 (causa Gavieiro - Iglesias Torres), in Guida al diritto 2011, 8, 122. 142 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 1999 (in prosieguo: l’«accordo quadro CTD»), che compare in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato (GU L 175, pag. 43). 2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la sig.ra Kücük e il suo datore di lavoro, il Land Nordrhein-Westfalen (in prosieguo: il «Land»), in merito alla validità dell’ultimo di una serie di contratti di lavoro a tempo determinato successivi conclusi tra l’interessata e il Land. Contesto normativo La normativa dell’Unione 3 La direttiva 1999/70 si fonda sull’articolo 139, paragrafo 2, CE, e, ai sensi del suo articolo 1, mira ad «attuare l’accordo quadro [CTD], che figura nell’allegato, concluso (…) fra le organizzazioni intercategoriali a carattere generale (CES, CEEP e UNICE)». 4 Come risulta dalla clausola 1, lettera b), dell’accordo quadro CTD, obiettivo di quest’ultimo è, in particolare, quello di «creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato». 5 La clausola 5 dell’accordo quadro CTD, intitolata «Misure di prevenzione degli abusi», prevede quanto segue: «1.Per prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma delle leggi, dei contratti collettivi e della prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative a: a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti. 2. Gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali, e/o le parti sociali stesse dovranno, se del caso, stabilire a quali condizioni i contratti e i rapporti di lavoro a tempo determinato: a) devono essere considerati “successivi”; b)devono essere ritenuti contratti o rapporti a tempo indeterminato». 6 La direttiva 92/85/CEE del Consiglio, del 19 ottobre 1992, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento (decima direttiva particolare ai sensi dell’articolo 16, paragrafo 1 della direttiva 89/391/CEE) (GU L 348, pag. 1), stabilisce alcuni requisiti minimi in materia di tutela di dette lavoratrici. 7 Per quanto riguarda il congedo di maternità, la direttiva 92/85 garantisce, all’articolo 8, il diritto ad un congedo di maternità di almeno quattordici settimane ininterrotte che deve includere un periodo obbligatorio di almeno due settimane. 8 L’accordo quadro sul congedo parentale, concluso il 14 dicembre 1995 (in prosieguo: l’«accordo quadro sul congedo parentale»), che figura nell’allegato alla direttiva 96/34/CE del Consiglio, del 3 giugno 1996, concernente l’accordo quadro sul congedo parentale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES (GU L 145, pag. 4), stabilisce prescrizioni minime volte ad agevolare la conciliazione delle responsabilità professionali e familiari dei genitori che lavorano. CONTENZIOSO NAZIONALE 143 9 La clausola 2 dell’accordo quadro sul congedo parentale precisa quanto segue: «1. Fatta salva la clausola 2.2, il presente accordo attribuisce ai lavoratori, di ambo i sessi, il diritto individuale al congedo parentale per la nascita o l’adozione di un bambino, affinché possano averne cura per un periodo minimo di tre mesi fino a un’età non superiore a otto anni determinato dagli Stati membri e/o dalle parti sociali. (...) 5. Al termine del congedo parentale, il lavoratore ha diritto di ritornare allo stesso posto di lavoro o, qualora ciò non sia possibile, ad un lavoro equivalente o analogo che corrisponde al suo contratto o al suo rapporto di lavoro. (...) ». La normativa nazionale 10 L’articolo 14 della legge sul lavoro a tempo parziale e sui contratti a tempo determinato (Gesetz über Teilzeitarbeit und befristete Arbeitsverträge) del 21 dicembre 2000 (BGBl. 2000 I, pag. 1966), come modificato dall’articolo 1 della legge 19 aprile 2007 (BGBl. 2007 I, pag. 538; in prosieguo: il «TzBfG»), intitolato «Possibilità di limitare la durata dei contratti», dispone quanto segue: «1. L’apposizione di un termine ad un contratto di lavoro è consentita quando sia giustificata da una ragione obiettiva. In particolare, una ragione obiettiva sussiste qualora: (...) 3. il lavoratore venga assunto per sostituire un altro lavoratore; (...) ». 11 In caso di invalidità del contratto di lavoro a tempo determinato, quest’ultimo, conformemente all’articolo 16 del TzBfG, è riqualificato come contratto di lavoro a tempo indeterminato. 12 L’articolo 21, paragrafo 1, della legge sull’indennità e sul congedo parentali (Gesetz zum Elterngeld und zur Elternzeit), del 5 dicembre 2006 (BGBl. 2006 I, pag. 2748), come modificata, stabilisce quanto segue: «Un rapporto di lavoro a tempo determinato è giustificato da una ragione obiettiva qualora il/la dipendente sia assunto/a in sostituzione di un altro/a dipendente per la durata totale o parziale di un divieto di lavoro in applicazione della legge sulla tutela della maternità, di un congedo parentale o di un congedo speciale per assistenza ai figli accordato sulla base di un contratto collettivo, di un accordo d’impresa o di un accordo individuale». Causa principale e questioni pregiudiziali 13 La sig.ra Kücük ha lavorato come dipendente presso il Land dal 2 luglio 1996 al 31 dicembre 2007, in forza di tredici contratti di lavoro a tempo determinato. Essa occupava un posto di assistente di cancelleria presso il segretariato della Sezione delle cause civili dell’Amtsgericht Köln (Tribunale distrettuale di Colonia). Questi contratti a tempo determinato venivano conclusi a fronte di congedi temporanei, compresi i congedi parentali di educazione, e di congedi speciali fruiti da assistenti assunti a tempo indeterminato, ed erano diretti a garantire la sostituzione di questi ultimi. 14 Con domanda presentata il 18 gennaio 2008 dinanzi all’Arbeitsgericht Köln (Tribunale del lavoro di Colonia), la ricorrente principale ha fatto valere la durata indeterminata dei suoi rapporti di lavoro per sostenere l’illegittimità del suo ultimo contratto di lavoro, stipulato il 12 dicembre 2006 e che scadeva il 31 dicembre 2007. 15 Secondo la ricorrente principale, la stipulazione di tale contratto a tempo determinato sul fondamento dell’articolo 14, paragrafo 1, punto 3, del TzBfG, il quale contempla una ra- 144 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 gione obiettiva, vale a dire la sostituzione di un altro lavoratore, sarebbe stata ingiustificata. I tredici contratti di lavoro a tempo determinato conclusi in successione e senza interruzione nell’arco di un periodo di undici anni non potrebbero in alcun caso riflettere un’esigenza temporanea di personale sostitutivo. La ricorrente nella causa principale sostiene che un’interpretazione e un’applicazione del diritto nazionale secondo le quali una siffatta «concatenazione di contratti a tempo determinato» dovrebbe essere considerata legittima sono incompatibili con la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro CTD. Essa ha quindi chiesto all’Arbeitsgericht Köln di dichiarare che il rapporto di lavoro tra le parti non era cessato sulla base del contratto a tempo determinato concluso il 12 dicembre 2006, per il periodo compreso tra il 1° gennaio e il 31 dicembre 2007. 16 L’Arbeitsgericht Köln ha dichiarato infondata la domanda della ricorrente principale. Anche l’appello interposto dall’interessata dinanzi al Landesarbeitsgericht (Tribunale del lavoro di secondo grado del Land) è stato respinto. La ricorrente principale, di conseguenza, ha proposto ricorso in «Revision» (ricorso per cassazione) dinanzi al Bundesarbeitsgericht (Tribunale federale del lavoro). 17 Il Land ha fatto valere innanzi ai giudici nazionali che la durata determinata del contratto di lavoro, contestata dalla sig.ra Kücük, era giustificata sul fondamento dell’articolo 14, paragrafo 1, punto 3, del TzBfG. L’osservanza delle condizioni richieste affinché la sostituzione di un altro lavoratore costituisca una ragione obiettiva sarebbe indipendente dal numero di contratti a tempo determinato conclusi in successione. L’interpretazione e l’applicazione della normativa tedesca in tal senso non sarebbero contrarie alla clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro CTD. 18 Nella sua decisione, il giudice del rinvio precisa, per quanto riguarda l’articolo 14, paragrafo 1, punto 3, del TzBfG, che ciò che caratterizza una sostituzione ed è inerente a quest’ultima è il fatto che la sostituzione è temporanea e ha ad oggetto l’esecuzione delle mansioni da parte del sostituto, al fine di soddisfare un’esigenza limitata nel tempo. Detto giudice osserva inoltre che, nel diritto tedesco, la giustificazione del ricorso ad un contratto a tempo determinato in caso di sostituzione di un lavoratore risiede nella circostanza che il datore di lavoro è già vincolato giuridicamente al dipendente che non può temporaneamente adempiere alle sue mansioni, e fa affidamento su un ritorno di quest’ultimo. Tale giustificazione comporterebbe che il datore di lavoro preveda la cessazione dell’esigenza di personale sostitutivo dal momento in cui ritorna il dipendente sostituito. 19 Il giudice del rinvio si interroga sulla qualificazione di un’esigenza di personale sostitutivo come ragione obiettiva ai sensi della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro CTD. Esso chiede, da un lato, se il fatto che tale esigenza sia permanente o frequente e possa essere soddisfatta anche mediante la conclusione di contratti a tempo indeterminato non escluda che una sostituzione costituisca una ragione obiettiva siffatta. Dall’altro, detto giudice chiede alla Corte di fornirgli chiarimenti sulla questione se, e in che modo, i giudici nazionali, nell’ambito del controllo ad essi incombente del ricorso eventualmente abusivo alla sostituzione di un altro lavoratore come ragione che giustifica la conclusione di un contratto di lavoro a tempo determinato, debbano tener conto del numero e della durata dei contratti di lavoro a tempo determinato già conclusi in passato con lo stesso dipendente. Esso aggiunge, al riguardo, che, secondo una giurisprudenza recente, il Bundesarbeitsgericht ha escluso che il numero variabile di contratti a tempo determinato rafforzi il controllo giuridico della ragione obiettiva. 20 Alla luce di quanto precede, il Bundesarbeitsgericht ha deciso di sospendere il procedi- CONTENZIOSO NAZIONALE 145 mento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro [CTD], recepito dalla direttiva 1999/70 (...), osti a che una disposizione nazionale la quale, come l’articolo 14, paragrafo 1, punto 3, [del TzBfG], prevede che il rinnovo di un contratto di lavoro a tempo determinato è giustificato da una ragione obiettiva se il lavoratore viene assunto per sostituire un altro lavoratore, venga interpretata ed applicata nel senso che siffatta ragione obiettiva sussiste anche nel caso di un’esigenza permanente [di personale] di sostituzione, sebbene l’esigenza [di personale] di sostituzione possa essere soddisfatta anche assumendo a tempo indeterminato il lavoratore di cui trattasi per assicurare le sostituzioni rese necessarie da una ricorrente indisponibilità di personale, ma il datore di lavoro si riservi la facoltà di decidere volta per volta ex novo come far fronte all’assenza concreta di lavoratori. 2) In caso di risposta affermativa alla prima questione, se la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro [CTD], recepito dalla direttiva 1999/70 (...), osti all’interpretazione e l’applicazione,, descritte nella prima questione, di una disposizione nazionale come l’articolo 14, paragrafo 1, punto 3, [del TzBfG], in condizioni quali quelle descritte nella prima questione, qualora il legislatore nazionale preveda in una disposizione nazionale quale l’articolo 21, paragrafo 1, della legge tedesca sull’indennità e sul congedo parentali [come modificata], che un rapporto di lavoro a tempo determinato è giustificato da un’esigenza di sostituzione dal momento che si persegue l’obiettivo di politica sociale consistente nell’agevolare i datori di lavoro nella concessione di congedi speciali e i lavoratori nella loro fruizione, in particolare per motivi legati alla tutela della maternità o all’educazione». Sulle questioni pregiudiziali Sulla prima questione 21 Con la sua prima questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’esigenza temporanea di personale sostitutivo prevista da una normativa nazionale come quella di cui trattasi nella causa principale possa costituire una ragione obiettiva ai sensi della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro CTD; se ciò risulti anche qualora tale esigenza di personale sostitutivo sia in realtà permanente o ricorrente e possa essere fronteggiata anche assumendo un lavoratore in forza di un contratto a tempo indeterminato, e se, nella valutazione della questione se il rinnovo di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato sia giustificato da ragioni obiettive contemplate da detta clausola, occorra prendere in considerazione il numero e la durata complessiva dei contratti o dei rapporti di lavoro di questo tipo conclusi in passato con il medesimo datore di lavoro. 22 Il Land sostiene che la sostituzione temporanea di un dipendente rientra tra le ragioni obiettive contemplate dalla clausola 5, punto 1, lett. a), dell’accordo quadro CTD. L’assenza temporanea del dipendente che occorre sostituire comporterebbe un’esigenza provvisoria di assumere un lavoratore supplementare, necessario solo per il periodo del venir meno della prestazione d’opera. Secondo il Land, l’esistenza di un’esigenza permanente di una certa portata di personale sostitutivo non può escludere la validità della conclusione di un contratto a tempo determinato a fini di sostituzione in forza dell’articolo 14, paragrafo 1, punto 3, del TzBfG. Infatti, occorrerebbe verificare la ragione obiettiva addotta in ogni singolo caso concreto di sostituzione e non escludere i casi di sostituzioni permanenti, frequenti e ripetute. Se la validità di uno specifico contratto di lavoro a tempo determinato dovesse dipendere da questo, il datore di lavoro sarebbe costretto a costituire una riserva permanente di personale. Ciò potrebbe essere possibile solo nelle grandi imprese. A parere del Land, la libertà di gestione del datore di lavoro deve essere preservata, 146 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 poiché quest’ultimo deve poter decidere circa l’opportunità e le modalità di un ricorso ad una siffatta riserva per far fronte ad un’esigenza ricorrente di personale sostitutivo. 23 I governi tedesco e polacco fanno valere altresì il potere discrezionale di cui godono i datori di lavoro in forza dell’accordo quadro CTD e sostengono che il diritto dell’Unione consente di giustificare un contratto di lavoro a tempo determinato ai fini di una sostituzione in caso di esigenza ricorrente di personale sostitutivo. Tale situazione si distinguerebbe chiaramente dall’«esigenza permanente e durevole», in quanto gli impedimenti dei dipendenti sostituiti sono limitati nel tempo. Questi ultimi avrebbero il diritto di riprendere il loro posto di lavoro, diritto che il datore di lavoro sarebbe obbligato a rispettare. 24 La ricorrente nella causa principale, da parte sua, non ha presentato osservazioni scritte. 25 Si deve ricordare che la clausola 5, n. 1, dell’accordo quadro CTD mira ad attuare uno degli obiettivi perseguiti da tale accordo quadro, vale a dire limitare il ricorso a una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, considerato come una potenziale fonte di abuso in danno dei lavoratori, prevedendo un certo numero di disposizioni di tutela minima tese ad evitare la precarizzazione della situazione dei lavoratori dipendenti (v. sentenze del 4 luglio 2006, Adeneler e a., C 212/04, Racc. pag. I 6057, punto 63, nonché del 23 aprile 2009, Angelidaki e a., da C 378/07 a C 380/07, Racc. pag. I 3071, punto 73). 26 Quindi, detta disposizione dell’accordo quadro CTD impone agli Stati membri, per prevenire l’utilizzo abusivo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, l’adozione effettiva e vincolante di almeno una delle misure in essa enunciate qualora il diritto nazionale non preveda norme equivalenti. Le misure così elencate al punto 1, lettere a) c) di detta clausola, in numero di tre, attengono, rispettivamente, a ragioni obiettive che giustificano il rinnovo di tali contratti o rapporti di lavoro, alla durata massima totale degli stessi contratti o rapporti di lavoro successivi ed al numero dei rinnovi di questi ultimi (v. citata sentenza Angelidaki e a., punto 74, nonché ordinanza del 1° ottobre 2010, Affatato, C 3/10, punti 43 e 44, e la giurisprudenza ivi citata). 27 Per quanto riguarda la nozione di ragione obiettiva ai sensi della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro CTD, la Corte ha già dichiarato che tale nozione deve essere intesa nel senso che essa si riferisce a circostanze precise e concrete che contraddistinguono una determinata attività e, pertanto, tali da giustificare, in tale peculiare contesto, l’utilizzo di contratti di lavoro a tempo determinato successivi. Dette circostanze possono risultare, segnatamente, dalla particolare natura delle funzioni per l’espletamento delle quali sono stati conclusi i contratti in questione, dalle caratteristiche ad esse inerenti o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro (sentenza Angelidaki e a., cit., punto 96, nonché la giurisprudenza ivi citata). 28 Per contro, una disposizione nazionale che si limitasse ad autorizzare, in modo generale ed astratto attraverso una norma legislativa o regolamentare, il ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato successivi, non sarebbe conforme a criteri come quelli precisati al punto precedente della presente sentenza (sentenza Angelidaki e a., cit., punto 97, nonché la giurisprudenza ivi citata). 29 Infatti, una disposizione di tal genere, di natura puramente formale, non consente di stabilire criteri oggettivi e trasparenti atti a verificare se il rinnovo di siffatti contratti risponda effettivamente ad un’esigenza reale, se esso sia idoneo a conseguire l’obiettivo perseguito e necessario a tale effetto. Una tale disposizione comporta quindi un rischio concreto di determinare un ricorso abusivo a tale tipo di contratti e, pertanto, non è compatibile con CONTENZIOSO NAZIONALE 147 lo scopo e l’effettività dell’accordo quadro CTD (v., in tal senso, sentenza Angelidaki e a., cit., punti 98 e 100, nonché la giurisprudenza ivi citata). 30 Occorre tuttavia rilevare che una disposizione come quella di cui trattasi nella causa principale, la quale consente il rinnovo di contratti a tempo determinato per sostituire altri dipendenti che si trovano momentaneamente nell’impossibilità di svolgere le loro funzioni, non è di per sé contraria all’accordo quadro CTD. Infatti, la sostituzione temporanea di un altro dipendente al fine di soddisfare, in sostanza, esigenze provvisorie del datore di lavoro in termini di personale può, in linea di principio, costituire una ragione obiettiva ai sensi della clausola 5, n. 1, lett. a), di tale accordo quadro (v., in tal senso, sentenza Angelidaki e a., cit., punto 102). 31 Infatti, nell’ambito di un’amministrazione che dispone di un organico significativo, quale il Land, è inevitabile che si rendano spesso necessarie sostituzioni temporanee a causa, segnatamente, dell’indisponibilità di dipendenti che beneficiano di congedi per malattia, per maternità, di congedi parentali o altri. La sostituzione temporanea di dipendenti in queste circostanze può costituire una ragione obiettiva ai sensi della clausola 5, punto 1, lett. a), dell’accordo quadro CTD, che giustifica sia la durata determinata dei contratti conclusi con il personale sostitutivo, sia il rinnovo di tali contratti in funzione delle esigenze emergenti, fatto salvo il rispetto delle esigenze fissate al riguardo dall’accordo quadro CTD. 32 Tale conclusione si impone a maggior ragione allorché la normativa nazionale che giustifica il rinnovo di contratti a tempo determinato in caso di sostituzione temporanea persegue altresì obiettivi di politica sociale riconosciuti come legittimi. Infatti, come risulta dal punto 27 della presente sentenza, la nozione di ragione obiettiva che figura nella clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro CTD comprende il perseguimento di siffatti obiettivi. 33 Come emerge dalla giurisprudenza della Corte, le misure dirette a tutelare la gravidanza e la maternità nonché a consentire agli uomini e alle donne di conciliare i loro obblighi professionali e familiari perseguono obiettivi legittimi di politica sociale (v., in tal senso, sentenze del 7 giugno 1998, Hill e Stapleton, C 243/95, Racc. pag. I 3739, punto 42, nonché del 18 novembre 2004, Sass, C 284/02, Racc. pag. I 11143, punti 32 e 33). La legittimità di questi obiettivi è confermata altresì dalle disposizioni della direttiva 92/85 o da quelle dell’accordo quadro sul congedo parentale. 34 Occorre tuttavia sottolineare che, sebbene possa ammettersi, in linea di principio, la ragione obiettiva prevista da una normativa nazionale come quella di cui trattasi nella causa principale, le autorità competenti, come risulta dal punto 27 della presente sentenza, devono garantire che l’applicazione concreta di tale ragione obiettiva, tenuto conto delle particolarità dell’attività di cui trattasi e delle condizioni del suo esercizio, sia conforme alle esigenze dell’accordo quadro CTD. Nell’applicazione della disposizione del diritto nazionale in esame, dette autorità devono quindi essere in grado di stabilire criteri obiettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo di siffatti contratti risponda effettivamente ad un’esigenza reale e sia atto a raggiungere lo scopo perseguito e necessario a tale effetto. 35 Nella fattispecie, la Commissione europea sostiene che il rinnovo ripetuto di un rapporto di lavoro e la conclusione di numerosi contratti successivi a tempo determinato nonché la durata del periodo durante il quale il dipendente di cui trattasi è già stato impiegato in forza di siffatti contratti dimostrano l’esistenza di un abuso ai sensi della clausola 5 dell’accordo quadro CTD. A parere della Commissione, la conclusione di vari contratti successivi a tempo determinato, segnatamente per un periodo notevolmente lungo, è atta a dimostrare che la prestazione richiesta dal lavoratore interessato non mira a soddisfare 148 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 una semplice esigenza temporanea. 36 A tal proposito, si deve ricordare che la Corte ha già dichiarato che il rinnovo di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato al fine di soddisfare esigenze che, di fatto, hanno un carattere non già provvisorio, ma, al contrario, permanente e durevole, non è giustificato in base alla clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro CTD (v., in tal senso, sentenza Angelidaki e a., cit., punto 103). 37 Infatti, un tale utilizzo dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato sarebbe incompatibile con la premessa sulla quale si fonda l’accordo quadro CTD, vale a dire il fatto che i contratti di lavoro a tempo indeterminato costituiscono la forma comune dei rapporti di lavoro, anche se i contratti di lavoro a tempo determinato rappresentano una caratteristica dell’impiego in alcuni settori o per determinate occupazioni e attività (v. sentenza Adeneler e a., cit., punto 61). 38 Tuttavia, come fatto valere in sostanza dal governo polacco, la sola circostanza che si concludano contratti di lavoro a tempo determinato al fine di soddisfare un’esigenza permanente o ricorrente, del datore di lavoro, di personale sostitutivo non può essere sufficiente, in quanto tale, ad escludere che ognuno di questi contratti, considerati singolarmente, sia stato concluso per garantire una sostituzione avente carattere temporaneo. Sebbene la sostituzione soddisfi un’esigenza permanente, dato che il lavoratore assunto in forza di un contratto a tempo determinato svolge compiti ben definiti facenti parte delle attività abituali del datore di lavoro o dell’impresa, resta il fatto che l’esigenza di personale sostitutivo rimane temporanea poiché si presume che il lavoratore sostituito riprenda la sua attività al termine del congedo, che costituisce la ragione per la quale il lavoratore sostituito non può temporaneamente svolgere egli stesso tali compiti. 39 Spetta a tutte le autorità dello Stato membro interessato garantire, nell’esercizio delle loro rispettive competenze, l’osservanza della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro CTD, verificando concretamente che il rinnovo di successivi contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato miri a soddisfare esigenze provvisorie, e che una disposizione come l’articolo 14, paragrafo 1, punto 3, del TzBfG non sia utilizzata, di fatto, per soddisfare esigenze permanenti e durevoli del datore di lavoro in materia di personale (v., per analogia, sentenza Angelidaki e a., cit., punto 106). 40 Come fatto valere dalla Commissione, spetta a dette autorità esaminare di volta in volta tutte le circostanze del caso concreto, prendendo in considerazione, segnatamente, il numero di detti contratti successivi stipulati con la stessa persona oppure per lo svolgimento di uno stesso lavoro, al fine di escludere che i contratti o i rapporti di lavoro a tempo determinato, sebbene palesemente conclusi per soddisfare un’esigenza di personale sostitutivo, siano utilizzati in modo abusivo dai datori di lavoro (v., in tal senso, ordinanza del 12 giugno 2008, Vassilakis e a., C 364/07, punto 116, nonché sentenza Angelidaki e a., cit., punto 157). Anche se la valutazione della ragione obiettiva addotta deve fare riferimento al rinnovo dell’ultimo contratto di lavoro concluso, l’esistenza, il numero e la durata di contratti successivi di questo tipo conclusi in passato con lo stesso datore di lavoro possono risultare pertinenti nell’ambito di questo esame globale. 41 Al riguardo, è giocoforza constatare che il fatto che il numero o la durata dei contratti a tempo determinato siano oggetto di misure preventive contemplate dalla clausola 5, punto 1, lettere b) e c), dell’accordo quadro CTD non comporta che tali elementi non possano avere alcuna incidenza nell’ambito della valutazione delle ragioni obiettive previste da detta clausola 5, punto 1, lettera a), e addotte per giustificare il rinnovo di contratti suc- CONTENZIOSO NAZIONALE 149 cessivi a tempo determinato. 42 Contrariamente a quanto sostiene il governo tedesco, una siffatta interpretazione della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro CTD non osta in alcun modo alla scelta dei mezzi che questa disposizione lascia agli Stati membri. 43 Infatti, come sostenuto dalla Commissione, tenuto conto dell’obiettivo perseguito dall’insieme delle misure adottate in forza della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro CTD, è necessario, anche in presenza di una ragione obiettiva che giustifica, in linea di principio, il ricorso a successivi contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, che le autorità competenti prendano in considerazione, ove occorra, tutte le circostanze sottese al rinnovo di tali contratti o rapporti di lavoro, poiché queste circostanze possono rivelare indizi di un abuso che detta clausola mira a prevenire. 44 In udienza, in risposta ad un quesito posto dalla Corte, sia il Land sia il governo tedesco hanno riconosciuto l’eventuale esistenza di circostanze nelle quali un datore di lavoro sarebbe obbligato a prendere in considerazione la natura e la portata dei contratti a tempo determinato conclusi con un dipendente. 45 Poiché la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro CTD trova applicazione unicamente in presenza di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato (v., in tal senso, sentenza del 22 novembre 2005, Mangold, C 144/04, Racc. pag. I 9981, punti 41 e 42), sembra logico che l’esistenza di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato risulti pertinente in relazione a tutte le misure adottate sul fondamento di detta clausola. 46 Nell’ambito della sua prima questione, il giudice del rinvio chiede altresì se il fatto che l’esigenza di personale sostitutivo sia, in realtà, permanente o ricorrente e che il datore di lavoro possa rispondere a questa esigenza anche attraverso l’assunzione di un dipendente mediante un contratto a tempo indeterminato non escluda che un’esigenza di personale sostitutivo costituisca una ragione obiettiva ai sensi della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro CTD. 47 A tale riguardo, va ricordato che questo accordo quadro, come risulta dal punto 10 delle sue considerazioni generali, demanda agli Stati membri e alle parti sociali la definizione delle modalità dettagliate di attuazione dei principi e requisiti che esso detta, al fine di garantire la loro conformità al diritto e/o alle prassi nazionali e la debita considerazione delle peculiarità delle situazioni concrete (citate sentenze Adeneler e a., punto 68, nonché Angelidaki e a., punto 71). 48 Come sostenuto dai governi tedesco e polacco, ne consegue che gli Stati membri beneficiano, in base alla clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro CTD, di un margine di discrezionalità nel conseguimento dell’obiettivo previsto da tale clausola, sebbene questo margine sia soggetto alla condizione che essi garantiscano il risultato imposto dal diritto dell’Unione, come risulta non solo dall’articolo 288, terzo comma, TFUE, ma anche dall’articolo 2, primo comma, della direttiva 1999/70, letto alla luce del diciassettesimo considerando di quest’ultima (sentenza Angelidaki e a., cit., punto 80, nonché la giurisprudenza ivi citata). 49 Detto margine di discrezionalità risulta altresì dalla clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro CTD, la quale riconosce agli Stati membri la facoltà, in quanto ciò sia oggettivamente giustificato, di tenere in considerazione le esigenze particolari degli specifici settori d’attività e/o delle categorie di lavoratori considerate (sentenza del 7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, C 53/04, Racc. pag. I 7213, punto 45). 150 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 50 Il mero fatto che un’esigenza di personale sostitutivo possa essere soddisfatta attraverso la conclusione di contratti a tempo indeterminato non comporta che un datore di lavoro che decida di ricorrere a contratti a tempo determinato per far fronte a carenze temporanee di organico, sebbene queste ultime si manifestino in modo ricorrente, se non addirittura permanente, agisca abusivamente, in violazione della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro CTD e della normativa nazionale che la recepisce. 51 Come risulta dal punto 43 della presente sentenza, l’esistenza di una ragione obiettiva ai sensi della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro CTD esclude, in linea di principio, l’esistenza di un abuso, a meno che un esame globale delle circostanze sottese al rinnovo dei contratti o dei rapporti di lavoro a tempo determinato di cui trattasi riveli che le prestazioni richieste del lavoratore non corrispondono ad una mera esigenza temporanea. 52 Inoltre, la Corte ha già osservato che la clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro CTD non sancisce un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato, così come non stabilisce le condizioni precise alle quali si può fare uso di questi ultimi, lasciando agli Stati membri un certo margine di discrezionalità in materia (citate sentenze Adeneler e a., punto 91; Marrosu e Sardino, punto 47, nonché Angelidaki e a., punti 145 e 183). 53 Infatti, la clausola 5, punto 2, lettera b), di detto accordo quadro si limita a prevedere che, «se del caso», tali Stati stabiliscono a quali condizioni i contratti o i rapporti di lavoro a tempo determinato sono «ritenuti (...) a tempo indeterminato». 54 Il fatto di richiedere automaticamente la conclusione di contratti a tempo indeterminato, qualora le dimensioni dell’impresa o dell’ente interessato e la composizione del suo personale comportino che il datore di lavoro debba far fronte ad un’esigenza ricorrente o permanente di personale sostitutivo, oltrepasserebbe gli obiettivi perseguiti dall’accordo quadro CTD e dalla direttiva 1999/70 e violerebbe il margine di discrezionalità riconosciuto da questi ultimi agli Stati membri e, se del caso, alle parti sociali. 55 Spetta al giudice del rinvio, tenuto conto delle considerazioni precedenti, valutare se, nelle circostanze della fattispecie principale, l’impiego di un dipendente per un periodo di undici anni in forza di tredici contratti successivi a tempo determinato sia conforme alla clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro CTD. 56 Si deve quindi risolvere la prima questione dichiarando che la clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro CTD deve essere interpretata nel senso che l’esigenza temporanea di personale sostitutivo, prevista da una normativa nazionale come quella controversa nella causa principale, può, in linea di principio, costituire una ragione obiettiva ai sensi di detta clausola. Il solo fatto che un datore di lavoro sia obbligato a ricorrere a sostituzioni temporanee in modo ricorrente, se non addirittura permanente, e che si possa provvedere a tali sostituzioni anche attraverso l’assunzione di dipendenti in forza di contratti di lavoro a tempo indeterminato non comporta l’assenza di una ragione obiettiva in base alla clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro CTD, né l’esistenza di un abuso ai sensi di tale clausola. Tuttavia, nella valutazione della questione se il rinnovo dei contratti o dei rapporti di lavoro a tempo determinato sia giustificato da una ragione obiettiva siffatta, le autorità degli Stati membri, nell’ambito delle loro rispettive competenze, devono prendere in considerazione tutte le circostanze del caso concreto, compresi il numero e la durata complessiva dei contratti o dei rapporti di lavoro a tempo determinato conclusi in passato con il medesimo datore di lavoro. Sulla seconda questione CONTENZIOSO NAZIONALE 151 57 Poiché la seconda questione è stata posta solo in caso di soluzione affermativa della prima questione, non occorre darle risposta. Sulle spese 58 Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un i cidente sollevato dinanzi al giudice del rinvio, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara: La clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che compare in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretata nel senso che l’esigenza temporanea di personale sostitutivo, prevista da una normativa nazionale come quella controversa nella causa principale, può, in linea di principio, costituire una ragione obiettiva ai sensi di detta clausola. Il solo fatto che un datore di lavoro sia obbligato a ricorrere a sostituzioni temporanee in modo ricorrente, se non addirittura permanente, e che si possa provvedere a tali sostituzioni anche attraverso l’assunzione di dipendenti in forza di contratti di lavoro a tempo indeterminato non comporta l’assenza di una ragione obiettiva in base alla clausola 5, punto 1, lettera a), di detto accordo quadro, né l’esistenza di un abuso ai sensi di tale clausola. Tuttavia, nella valutazione della questione se il rinnovo dei contratti o dei rapporti di lavoro a tempo determinato sia giustificato da una ragione obiettiva siffatta, le autorità degli Stati membri, nell’ambito delle loro rispettive competenze, devono prendere in considerazione tutte le circostanze del caso concreto, compresi il numero e la durata complessiva dei contratti o dei rapporti di lavoro a tempo determinato conclusi in passato con il medesimo datore di lavoro. Cass. civile, Sez. lavoro, sentenza 13 gennaio 2012 n. 392 - Pres. Vidiri, Rel. Meliadò, P.M. Viola (difforme) - A.G. (avv.ti Galleano e Messina) c. Azienda Unità Sanitaria Locale di Trapani (avv.ti Palmeri e Siagura). (...) Svolgimento del processo Con sentenza del 17 luglio 2008, la Corte d'appello di Palermo confermava quella di primo grado, che aveva rigettato la domanda proposta da A.G. al fine di conseguire la trasformazione del suo rapporto di lavoro, instaurato con l'AUSL di Trapani, in rapporto a tempo indeterminato, lamentando al riguardo la mancata applicazione del D.Lgs. 6 settembre 2001 n. 368 ed il contrasto del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 36 con la direttiva comunitaria n. 70/1999. Nel pervenire a tale decisione la Corte territoriale rilevava in sintesi che il divieto di conversione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato trova fondamento, come affermato anche dal giudice delle leggi, nelle esigenze di imparzialità e di buon andamento dell'amministrazione prescritte dall'art. 97 Cost., e che il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 non si pone in contrasto con la disciplina comunitaria, in ragione della specialità del settore quale è quello del pubblico impiego, pure se privatizzato. Avverso tale sentenza A.G. propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi. Resiste con controricorso l'AUSL. 152 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 Alla sensi dell'art. 276 c.p.c., u.c., la motivazione è stesa dal Presidente dott. Guido Vidiri. Motivi della decisione 1. Con il primo motivo del ricorso, proposto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 132 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c. nonchè vizio di motivazione, osservando che, per avere la domanda ad oggetto l'accertamento della illegittimità del termine apposto al contratto e per assumere la richiesta di condanna reintegratoria o risarcitoria carattere consequenziale rispetto a tale accertamento, la Corte di merito erroneamente aveva omesso di pronunziarsi sulla domanda principale, tanto più se si considera che il primo giudice aveva dichiarato la legittimità dell'assunzione a tempo determinato, oltre ad affermare l'applicabilità del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36. 1.1. Con il secondo motivo - deducendo ancora violazione di legge (art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione agli art. 15 preleggi, D.Lgs. n. 368 del 2001, artt. 1 e 11, artt. 2, 3, 4, 11, 24, 35 e 36 Cost., nonchè in relazione alla direttiva n. 70/1999) e vizio di motivazione - il ricorrente si duole che la Corte d'appello, sul presupposto della specialità del rapporto di pubblico impiego, ha finito per escludere in ogni caso l'applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001 anche ai contratti a termine conclusi con la P.A., ribadendo ancora un volta che il citato articolo 35 risulta rispettoso dei principi costituzionali e della legislazione comunitaria. 1.2. Con il terzo motivo - spiegato ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, con riferimento al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, artt. 1126 e 2967 c.c. - il ricorrente rileva che, avuto riguardo alla funzione del risarcimento previsto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, deve escludersi - diversamente da quanto ritenuto dalla Corte territoriale - che il lavoratore sia tenuto a provare il pregiudizio sofferto, dovendosi il danno in questo caso ritenersi in re ipsa. 2. Il ricorso, articolato negli indicati motivi, risulta privo di fondamento. 3. È stato più volte ribadito in sede dottrinaria nonchè in giurisprudenza che il principio secondo cui "lex posterior generalis non derogat legi priori speciali" - giustificato per la migliore aderenza della norma speciale alle caratteristiche proprie della fattispecie oggetto della sua previsione - non può valere, e deve quindi cedere alla applicazione della legge successiva, solo allorquando dalla lettera e dal contenuto di quest'ultima si evince la volontà di abrogare la legge speciale anteriore o allorquando la discordanza tra le due disposizioni sia tale da rendere inconcepibile la coesistenza fra la normativa speciale anteriore e quella generale successiva (cfr. in tali esatti termini: Cass. 20 aprile 1995 n. 4420, cui adde ex plurimis: Cass. 30 agosto 2009 n. 1855; Cass. 6 giugno 2006 n. 13252). 3.1. Ed ancora a livello giurisprudenziale costituisce principio consolidato che l'interesse ad agire, previsto quale condizione dell'azione dall'art. 100 cod. proc. civ. - con una disposizione che consente di distinguere fra le azioni di mera iattanza e quelle oggettivamente dirette a conseguire il bene della vita consistente nella rimozione dello stato di giuridica incertezza in ordine alla sussistenza di un determinato diritto - va identificato in una situazione di carattere oggettivo derivante da un fatto lesivo, in senso ampio, del diritto e consistente in ciò, che senza il processo e l'esercizio della giurisdizione, l'attore soffrirebbe un danno. Da ciò consegue che esso deve avere necessariamente carattere attuale, poichè solo in tal caso trascende il piano di una mera prospettazione soggettiva, assurgendo a giuridica ed oggettiva consistenza. Tale interesse resta invece escluso quando il giudizio risulti strumentale alla soluzione, soltanto in via di massima o accademica, di una questione di diritto in vista di situazioni future o meramente ipotetiche (cfr. in tali sensi: Cass. 23 novembre 2011 n. 24434 ed ancora per analoghe statuizioni: Cass. 23 dicembre 2009 n. 27151; Cass. 28 novembre 2008 n. 28405). 4. Orbene, le statuizioni sopra riportate forniscono le basi teoriche per la declaratoria della CONTENZIOSO NAZIONALE 153 infondatezza del primo e del secondo motivo del ricorso. Ed infatti il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 ha sicuramente riconosciuto la praticabilità del contratto a termine e di altre forme negoziali flessibili nel rapporto di lavoro pubblico, valorizzando il ruolo della contrattazione collettiva con l'attribuire alla stessa una più accentuata rilevanza rispetto al passato; nello stesso tempo la disposizione scrutinata ha però segnato una innegabile e chiara differenza tra il lavoro pubblico e lavoro privato per quanto attiene al contratto a termine, sì da configurasi come norma speciale - volta in quanto tale ad escludere la conversione in contratto a tempo indeterminato ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001 - in ragione di un proprio e specifico regime sanzionatorio. Detto regime, infatti, vietando la costituzione di rapporti lavorativi a tempo indeterminato - e con risultare volto, da un lato, a responsabilizzare la dirigenza pubblica al rispetto delle norme imperative in materia e, dall'altro, a riconoscere il diritto al risarcimento dei danni subiti dal lavoratore a seguito della suddetta violazione - si configura come alternativo a quello disciplinato dal summenzionato D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 5. 4.1. Corollario di quanto ora detto è che non può - contrariamente a quanto ha sostenuto il ricorrente - condividersi con riferimento al sistema sanzionatorio del contratto a termine l'affermazione secondo cui il D.Lgs. n. 368 del 2001 per essere cronologicamente successivo al D.Lgs. n. 165 del 2001, deve regolare integralmente il rapporto lavorativo instauratosi tra l' A. e la AUSL n. ... di Trapani. Ed invero - è bene ribadirlo - nel lavoro pubblico alla illegittimità del contratto a termine per violazione di norme imperative non può che conseguire un regime sanzionatorio che - con l'escludere ogni effetto reintegrativo stante la regola generale del concorso per l'assunzione del personale - viene ad essere incentrato sul versante dei danni subiti dalla pubblica amministrazione e dal lavoratore; danni che assumono anche essi una propria caratterizzazione correlata a negozi, la cui flessibilità assume natura e requisiti distinti da quelli risultanti nel lavoro privato e su cui i suddetti danni vanno conseguentemente parametrati. 5. Nè osta alla conclusione cui si è giunti la ulteriore affermazione del ricorrente che una tale lettura del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 contrasti con le statuizioni della Corte Costituzionale e con la normativa europea. 5.1. Nella sentenza impugnata il giudice d'appello ha evidenziato - con un iter argomentativo corretto sul piano logico-giuridico e quindi non suscettibile di alcuna censura in questa sede - come non sia condivisibile il negare nel settore pubblico la specialità dei rapporti di lavoro flessibile, quale quello derivante dal contratto a termine. Ed infatti il giudice della legge, nel delineare le differenze tra la normativa pubblica e quella privata, ha rilevato - come ricorda la Corte territoriale - che il principio fondamentale in materia di instaurazione del rapporto di impiego alle dipendenze della pubblica amministrazione è quello - del tutto estraneo alla disciplina del lavoro privato - dell'accesso mediante concorso, enunciato dall'art. 97 Cost., comma 3. Norma quest'ultima, che posta a presidio delle esigenze del buon andamento e della imparzialità della amministrazione ha reso doverosa la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di norme imperative - riguardanti l'assunzione o l'impiego dei lavoratori - conseguenze esclusivamente risarcitorie in luogo della conversione in rapporto a tempo indeterminato, prevista invece per i lavoratori privati. Al fine di patrocinare una omogeneità tra posizioni poste a confronto non può dunque sostenersi una uniformità di trattamento tra impiego pubblico e privato, nonostante sia a quest'ultimo del tutto estraneo il principio del concorso (cfr: Corte Cost. 27 marzo 2003 n. 89 che reputa infatti giustificata la scelta del legislatore - cui spetta, nei limiti della ragionevolezza, individuare i casi eccezionali in cui il principio del concorso può essere derogato - di ricolle- 154 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 gare alla violazione di norme imperative in materia di contratto a termine conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio). 5.2. E proprio la delineata distinzione tra il regime sanzionatorio del settore pubblico e di quello privato è stata più volte rimarcata nella normativa comunitaria, come emerge infatti da numerosi interventi della Corte di Giustizia europea, che con una giurisprudenza granitica e da ultimo ribadita con una ulteriore pronunzia (Corte giust. 1 ottobre 2010, causa C-3/10, Affatato) porta ad escludere dall'area del lavoro pubblico l'applicazione delle disposizioni del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 5 - che al fine di evitare il ricorso abusivo ai contratti di lavoro a termine, contempla una durata massima oltre la quale il contratto di lavoro deve ritenersi concluso a tempo indeterminato. Sul versante del ricorso abusivo del contratto a termine si rileva così una ulteriore caratterizzazione del rapporto lavorativo pubblico dal momento che le disposizioni del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 apprestano una normativa articolata capace - prima di ricorrere alla sanzione risarcitoria - di operare in via preventiva con una più accentuata responsabilizzazione dei pubblici dirigenti. 6. Ciò premesso, nessuna censura merita, pertanto, anche sotto tale versante la sentenza impugnata che - dopo avere premesso con riferimento alla direttiva 1999/70 Ce relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato (concluso dall'Unice, dal Ceep e dal Ces) che esso appare rivolto alla imprenditoria privata - mostra di tenere conto della clausola 5 del suddetto accordo e di interpretarla correttamente laddove conclude che l'interferenza di interessi di natura pubblicistica è stata tenuta nella giusta considerazione dal nostro legislatore (in ragione della specificità del settore del pubblico impiego, seppure privatizzato) attraverso l'emanazione proprio del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, e laddove considera detta norma uno strumento adeguato sia per prevenire che per sanzionare adeguatamente la violazione di norme imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego dei lavoratori che hanno un rapporto di lavoro a tempo determinato con la pubblica amministrazione. 7. Motivi di completezza motivazionale inducono questo Collegio a evidenziare come il primo e secondo motivo non possano trovare ingresso in questa sede oltre che per le ragioni in precedenza esposte anche per ulteriori assorbenti considerazioni. 7.1. Come si è già ricordato, il ricorrente ha addebitato alla sentenza impugnata di non avere dato risposta alla sua domanda volta ad ottenere comunque una pronunzia sulla sola illegittimità del contratto a termine avendo un interesse al passaggio in giudicato di tale pronunzia; prescindendo da qualsiasi consequenziale pronunzia sull'applicazione del regime sanzionatorio di cui al disposto del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36. Ed invero, ove l'illegittimità del contratto a termine venisse accertata con un giudicato, potrebbe essergli accordata "una preferenza in occasione dei prossimi reclutamenti di personale o addirittura potrebbe essere disposto un reclutamento straordinario riservato appunto a questi lavoratori", e potrebbero essergli riconosciute anche "aspettative di fatto legate alla discrezionalità politica del legislatore e/o a quella amministrativa degli enti pubblici". 7.2. È' sufficiente per ribadire che i primi due motivi risultano privi di fondamento e richiamarsi anche ai riportati precedenti giurisprudenziali sul carattere di attualità che deve assumere l'interesse ad agire, nonchè alla precedente considerazione che nel settore pubblico il sistema sanzionatorio del contratto a termine non può che essere solo e non altro che quello regolato dal D.Lgs. n. 165, art. 36, e non il diverso assetto sanzionatorio di cui al D.Lgs. n. 368 del 2001, che ha un distinto ambito di operatività. 8. Anche il terzo motivo del ricorso e tutte le restanti censure risultano infondate. 8.1. La Corte territoriale - dopo avere premesso che il D.Lgs. n. 165 del 2001, citato art. 36 CONTENZIOSO NAZIONALE 155 ha inteso garantire il lavoratore interessato al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative - ha poi, nel respingere la domanda dell' A., precisato che la prospettazione del danno da parte dello stesso non risultava supportata da elementi di riscontro probatorio, per essere ancorata ad una eventualità non verificata e cioè ad occasioni di lavoro che si sarebbero potute verificare in futuro. 8.2. Nel ricorso si censura tale punto della decisione di merito sul presupposto che il danno era nel caso di specie in re ipsa, dovendosi quindi il dipendente ritenersi esentato dal relativo onere probatorio. Tale assunto però appare contrario ad un costante indirizzo giurisprudenziale secondo il quale il risarcimento dei danni scaturenti dal rapporto lavorativo - quale ad esempio il danno biologico o quello di perdita di chance - va provato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento e, quindi, anche attraverso la prova per presunzioni, sottoponendo alla valutazione del giudice precisi elementi in base ai quali sia possibile risalire attraverso un prudente apprezzamento alla esistenza dei danni denunziati (cfr. Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008 n. 26972 ed in precedenza Cass., Sez. Un., 24 marzo 2006 n. 6572). 9. I compiti di nomofilachia devoluti a questa Corte di Cassazione inducono ad enunciare - ai sensi dell'art. 384 c.p.c., comma 1, ed in sintesi di quanto statuito nel corso della motivazione - i seguenti principi diritto: il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 36, nel riconoscere il ricorso al contratto a termine e ad altre forme negoziali flessibili nel rapporto di lavoro pubblico, ha valorizzato il ruolo della contrattazione collettiva con l'attribuire alla stessa una più accentuata rilevanza rispetto al passato, ma nello stesso tempo ha rimarcato l'innegabile differenza esistente tra forme contrattuali nell'area del pubblico impiego seppure privatizzato ed in quella del lavoro privato. Ne consegue che la suddetta norma si configura come speciale in ragione di un proprio e specifico regime sanzionatorio, che - per escludere la conversione in un contratto a tempo indeterminato e con il risultare funzionalizzato a responsabilizzare la dirigenza pubblica nel rispetto delle norme imperative in materia nonchè a risarcire i danni che il lavoratore dimostri di avere subito per la violazione delle suddette norme - risulta alternativo a quello disciplinato dal D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 5, escludendone in ogni caso l'applicazione. La giurisprudenza costante della Corte di giustizia europea - di recente ribadita da una ulteriore pronunzia (Corte giust. 1 ottobre 2010, causa C-3/10, Affatato) - porta ad escludere nell'area del pubblico impiego seppure privatizzato l'applicazione del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 368, art. 5, dal momento che nel nostro assetto ordinamentale si rinviene, con le disposizioni di cui al D.Lgs. 5 settembre 2001, n. 165, art. 36, un sistema sanzionatorio capace - in ragione di una più accentuata responsabilizzazione dei dirigenti pubblici e del riconoscimento del diritto al risarcimento di tutti i danni in concreto subiti dal lavoratore - di prevenire, dapprima, e sanzionare, poi, in forma adeguata l'utilizzo abusivo da parte della pubblica amministrazione dei contratti o dei rapporti di lavoro a tempo determinato. 10. Sussistono giusti motivi per la natura, la rilevanza e la complessità delle problematiche trattate, per compensare tra le parti le spese del presente giudizio di cassazione. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del presente giudizio di cassazione. 156 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 Cassazione civile, Sez. lavoro, sentenza 20 giugno 2012 n. 10127 - Pres. Vidiri, Rel. Napoletano, P.M. Fucci (difforme) - A.L. (avv. Pistilli) c. Min. Istruzione, Università e Ricerca (avv. Stato Varone). (...) Svolgimento del processo 1. La Corte di Appello di Perugia, riformando la sentenza di primo grado, rigettava la domanda di A.L., proposta nei confronti del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, avente ad oggetto la conversione in contratto a tempo indeterminato della successione dei contratti a tempo determinato in precedenza stipulati con il detto Ministero per lo svolgimento di mansioni inerenti il settore scolastico ovvero, in via subordinata, la condanna del prefato Ministero al risarcimento del danno subito da quantificarsi in Euro 5000,00 per ogni anno di lavoro svolto. 2. La Corte del merito, per quello che interessa in questa sede, premesso che il complesso della normativa regolante i contratti a termine del comparto scolastico -costituita in particolare dal D.Lgs. n. 297 del 1994 e dalla L. n. 124 del 1999 e da tutte le successive fonti regolamentari e collettive- non era stato abrogato o modificato, stante la sua specialità, dal D.Lgs. n. 165 del 2001 (norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni) e dal D.Lgs. n. 368 del 2001 (disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato), riteneva che il divieto di conversione del contratto a tempo determinato stabilito - D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 36, comma 2, - in via generale per il pubblico impiego operava anche per lo specifico settore della scuola. Tale divieto, secondo la Corte territoriale, trovava giustificazione nella riserva sancita, dall'art. 97 Cost., comma 2, dell'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazione mediante concorso che non contrastava con la disciplina comunitaria contenuta nella direttiva del Consiglio dell'Unione Europea del 28 giugno 1999 n. 70 -emanata in attuazione dell'accordo quadro sui contratti a tempo determinato concluso il 18 marzo 1999- non prevedendo tale accordo, quale unica sanzione dell'illegittima successione di contratti a termine, la conversione del rapporto a tempo indeterminato. 3. Tanto premesso la Corte di Appello rilevava che, stante la ritenuta inapplicabilità della disciplina di cui al citato D.Lgs. n. 368 del 2001, oggetto dell'indagine era quello di accertare se la Pubblica Amministrazione, nella stipulazione di una serie di contratti di lavoro, aveva dato luogo ad un abuso dello strumento delle assunzioni a termine con conseguente diritto del lavoratore, alla stregua della richiamata direttiva, al risarcimento del danno. 4. L'indagine, secondo la Corte territoriale, portava ad escludere un tale abuso. Infatti, osservava la predetta Corte, da un punto di vista generale era indubitabile che le assunzioni a tempo determinato nel settore scolastico, tenuto conto delle ragioni del contenimento della spesa pubblica, erano finalizzate ad assicurare, a fronte di una certa variabilità del numero degli utenti, la costante erogazione del servizio scolastico. Ma anche avuto riguardo alla disciplina del settore, per la Corte del merito, doveva escludersi un abuso del ricorso ai contratti a termine. Invero, precisava la Corte distrettuale, il ricorrente aveva avuto supplenze annuali su organico di fatto -ossia posti non vacanti ma di fatto disponibili-, seguite, con intervallo di due mesi, da supplenze temporanee in sostituzione di personale assente, cui erano succedute, infine, supplenze su organico di diritto -cioè posti disponibili e vacanti- espletate presso molteplici scuole. 5. Per inciso, annotava la Corte di appello, si trattava, comunque, di contratti stipulati ai sensi di specifica disciplina che conteneva in sè l'enunciazione, sia pure con una valutazione com- CONTENZIOSO NAZIONALE 157 piuta ex ante, delle ragioni organizzative poste a fondamento dell'assunzione. Pertanto, anche in ipotesi di applicabilità del D.Lgs. n. 368 del 2001 non poteva ritenersi l'illegittimità delle assunzioni per l'omessa indicazione delle ragioni organizzative, tecniche e produttive che erano destinate a soddisfare. 6. Nessun abuso, in particolare, secondo la Corte del merito, era configurabile rispetto alle assunzioni per la sostituzione di personale assente per malattia o altra causa, con diritto alla conservazione del posto di lavoro, e con riguardo alle supplenze su organico di fatto, giacchè le esigenze da soddisfare erano effettivamente contingenti ed imprevedibili e tali di per sè da far escludere una condotta abusiva. 7. Analogamente la Corte territoriale escludeva la configurabilità di qualsivoglia abuso con riferimento alle assunzioni per supplenze su organico di diritto e tanto in considerazione, e delle ragioni obiettive sottese a tali assunzioni, e della circostanza che ciascun incarico era svincolato dai precedenti, di cui non costituiva nè proroga nè prosecuzione, non senza tener conto che l'amministrazione non poteva scegliere liberamente il lavoratore con cui stipulare il contratto dovendosi attenere alle graduatorie permanenti provinciali per gli incarichi su organico di diritto, o, per le supplenze su organico di fatto o temporaneo, alle graduatorie interne o d'istituto. 8. Avverso questa sentenza A.L. ricorre in cassazione sulla base di due censure, specificate da memoria. 9. Resiste con controricorso il Ministero intimato che deposita, altresì, memoria illustrativa. Motivi della decisione 10. Con la prima censura il ricorrente deduce violazione e/o falsa applicazione del considerando n. 16, dell'art. 2, della Direttiva del Consiglio Ce 1999/70/CE del 28 giugno 1999; nonchè del preambolo (commi 2, 3 e 4, dei punti 6, 7, 10 delle considerazioni generali, della clausola 1, letta B), della clausola 2, punto 1), della clausola 5, punto 1), dell'Accordo Quadro CES-UNICE- CEEP sul lavoro a tempo determinato del 18 marzo 1999, recepito ed allegato alla Direttiva Comunitaria 1999/70/CE; ed, infine, del D.Lgs. n. 368 del 2001, artt. 1, 4,5 (commi 4 e 4 bis), 10, 11, anche in combinato disposto con la L. 4 giugno 1999 n. 124, art. 4. 11. Sostiene il ricorrente che la L. n. 124 del 1999 sui contratti a termine del comparto scuola è stata, contrariamente a quanto affermato dalla Corte di Appello, abrogata dal D.Lgs. n. 368 del 2001 sui contratti a termine essendo la prima disciplina incompatibile con la seconda e non rientrando la L. n. 124 tra quelle menzionate nel D.Lgs. n. 368, art. 10. 12. Argomenta, poi, il ricorrente che, comunque, la menzionata L. n. 124 del 1999 non è conforme al diritto comunitario e tanto, tra l'altro, in considerazione del rilievo che l'Amministrazione è perfettamente a conoscenza delle proprie esigenze di organico, sicchè non vi sono ragioni obiettive per la giustificazione dei rinnovi dei contratti a termine, nè limitazioni alle ripetizioni atteso che i posti sono dichiaratamente vacanti. 13. Richiama, inoltre, il ricorrente le sentenze M. e V. relative ai contratti a termine del comparto sanità nonchè A.. 14. Sottolinea che nel comparto scuola sono possibili reiterazioni ventennali e addirittura trentennali. 15. Contesta, infine, il ricorrente la ritenuta imprevedibilità delle esigenze e chiede porsi questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia in punto di compatibilità tra la disciplina nazionale di cui alla L. n. 124 del 1999 e la Direttiva Comunitaria denunciata. 16. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 36, anche in relazione al considerando n. 16, dell'art. 2, della Direttiva 158 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 del Consiglio Ce 1999/70/CE del 28 giugno 1999; nonchè del preambolo (commi 2, 3 e 4, dei punti 6, 7, 10 delle considerazioni generali, della clausola 1, letta B), della clausola 2, punto 1), della clausola 5, punto 1), dell'Accordo Quadro CES-UNICE- CEEP sul lavoro a tempo determinato del 18 marzo 1999, recepito ed allegato alla Direttiva Comunitaria 1999/70/CE; nonchè ancora del D.Lgs. n. 368 del 2001, artt. 1, 4, art. 5, commi 4 e 4 bis), artt. 10, 11. 17. Deduce, in sintesi, il ricorrente a supporto del motivo in esame - ed a confutazione della tesi espressa dalla Corte del merito circa l'inapplicabilità nel settore pubblico della conversione del contratto a tempo indeterminato in caso di abuso del ricorso ad assunzioni a termine- che questa Corte di cassazione con sentenza n. 9555 del 2010 ha applicato -nel caso di dipendenti INAIL addetti alla custodia di stabili- la sanzione della conversione. 18. I due motivi, in quanto strettamente connessi dal punto di vista logico-giuridico, vanno trattati unitariamente. 19. Rileva, preliminarmente, la Corte che deve ritenersi oramai, principio di diritto vivente, nella giurisprudenza di legittimità, l'affermazione secondo la quale il D.Lgs. n. 165 del 2001 riconosce la praticabilità del contratto a termine e di altre forme negoziali flessibili nel rapporto di lavoro pubblico valorizzando il ruolo della contrattazione collettiva con l'attribuire alla stessa di una più accentuata rilevanza rispetto al passato e prevede, in caso di violazione di norme imperative in materia, un proprio e specifico regime sanzionatorio costituito dal diritto del lavoratore al risarcimento del danno (Cass. 20 marzo 2012 n. 4417, Cass. 31 gennaio 2012 n. 392, Cass. 15 giugno 2010 n. 14350 e Cass. 7 maggio 2008 n. 11161). 20. Principio quest'ultimo non contrastante con la direttiva 1999/70/CE, in quanto idoneo a prevenire e sanzionare l'utilizzo abusivo dei contratti a termine da parte della pubblica amministrazione e che è consequenziale alla configurazione come regolamentazione speciale ed alternativa a quella prevista dal D.Lgs. n. 368 del 2001 relativa alla disciplina generale del contratto a termine (per tutte V. ordinanza 1 ottobre 2010, causa C-3/10, Affatato, punto 40, e giurisprudenza comunitaria conforme ivi richiamata, secondo cui la clausola 5 dell'accordo quadro non osta, in quanto tale, a che uno Stato membro riservi un destino differente al ricorso abusivo a contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione a seconda che tali contratti siano stati conclusi con un datore di lavoro appartenente al settore privato o con un datore di lavoro del settore pubblico). 21. Nella materia di cui trattasi, invero, tale speciale regolamentazione propria del settore pubblico non può ritenersi abrogata da quella stabilita in via generale dal richiamato D.Lgs. n. 368 del 2001 stante l'immanenza della regola lex posterior generalis non derogat legi priori speciali (Cass. 31 gennaio 2012 n. 392 cit.). 22. Nè contrasta con siffatto principio il precedente di questa Corte, di cui alla sentenza del 22 aprile 2010 n. 9555, secondo il quale la deroga alla sanzione della conversione del contratto a termine in rapporto a tempo indeterminato, prevista dal D.Lgs. n. 165 del 2001, trova applicazione per i rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni diversi da quelli di vigilanza e custodia. 23. Tale asserzione, infatti, si basa fondamentalmente sulla considerazione che, come già sancito da questa Corte (sent. 3 agosto 1990 n. 7774), il rapporto fra l'INAIL ed i portieri addetti alla vigilanza e custodia di edifici di proprietà del primo, pur essendo di pubblico impiego, è disciplinato, nel suo contenuto, da un contratto collettivo di natura privatistica che lo sottrae all'operatività della legge sul parastato (n. 70 del 1975), per effetto del successivo D.P.R. n. 411 del 1976, che disciplina il rapporto di lavoro del personale degli enti pubblici e non sul presupposto secondo cui la relativa instaurazione non avviene mediante pubblico concorso e CONTENZIOSO NAZIONALE 159 neppure tramite particolari procedure selettive. Quest' ultimo rilevo, invero è utilizzato, nella struttura argomentativa della Corte, al solo fine di rafforzare la rilevata regolamentazione sostanzialmente "privatistica", del rapporto in parola. D'altro canto il giudice delle leggi, nella sentenza 27 marzo 2003 n. 89, nel giudicare la norma di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001 cit., art. 36, comma 2, conforme ai parametri costituzionali, sanciti dagli artt. 3 e 97 Cost., ha sottolineato che il principio dell'assunzione dei pubblici dipendenti mediante concorso, posto a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell'amministrazione, rende di per sè palese la non omogeneità delle situazioni poste a confronto e giustifica la scelta del legislatore di ricollegare alla violazione di norme imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego dei lavoratori da parte della P.A. conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio, in luogo della conversione in rapporto a tempo indeterminato prevista per i lavoratori privati. Nè la scelta operata dal legislatore, ha sottolineato il predetto giudice, contrasta con il canone della ragionevolezza, in quanto la stessa norma costituzionale individua appunto nel concorso lo strumento di selezione del personale, in linea di principio, più idoneo a garantire l'imparzialità e l'efficienza della P.A. Del resto, mirando il concorso a selezionare tra i concorrenti quelli che possiedono in misura maggiore i requisiti attitudinali e professionali richiesti, non è irragionevole la norma che tuteli i vincitori in modo diverso dai concorrenti che, pur non essendone privi, tuttavia non hanno dimostrato di possedere un uguale grado di preparazione. 24. Tanto precisato osserva il Collegio che, per quanto attiene il comparto della scuola, il citato D.Lgs. n. 165 del 2001 sancisce, all'art. 70, comma ottavo che "Sono fatte salve le procedure di reclutamento del personale della scuola di cui al D.Lgs. 16 aprile 1994, n. 297 e successive modificazioni ed integrazioni". 25. Da ciò consegue, sulla base coordinamento delle previsioni di cui al richiamato D.Lgs. n. 165 del 2001, che il sistema del reclutamento del personale della scuola, di cui al D.Lgs. n. 297 del 1994 e successive modificazioni ed integrazioni, è escluso dall'ambito di applicazione della normativa dei contratti a termine prevista per i lavoratori privati. 26. Rilevano, in particolare, ai fini di cui trattasi, la prima parte dell'art. 2, comma 2 -il quale stabilisce che " I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo 1, titolo 2, del libro 5 del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto"-, e l'art. 36 -il quale, come detto, riconosce la praticabilità del contratto a termine e di altre forme negoziali flessibili nel rapporto di lavoro pubblico rimettendo ai contratti collettivi nazionali la previsione della relativa disciplina "in applicazione di quanto previsto dalla L. 18 aprile 1962, n. 230, dalla L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, dal D.L. 30 ottobre 1984. n. 726, art. 3, convertito, con modificazioni, dalla L. 19 dicembre 1984, n. 863, dal D.L. 16 maggio 1994, n. 299, art. 16, convertito con modificazioni, dalla L. 19 luglio 1994, n. 451, dalla L. 24 giugno 1997, n. 196, nonchè da ogni successiva modificazione o integrazione della relativa disciplina"-. 27. Tanto determina che la disciplina sul reclutamento del personale assunto a termine del cd. settore scolastico, ex D.Lgs. n. 297 del 1994, non può ritenersi abrogata dal D.Lgs. n. 368 del 2001. 28. Quest'ultimo provvedimento legislativo, infatti, costituisce una "successiva" modificazione o integrazione della disciplina sul contratto a termine in generale rispetto alla quale vi è la specifica e generale previsione di esclusione, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 70, ex comma 8, che vale a conferire, altresì, alla normativa relativa al reclutamento in parola il connotato 160 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 di specialità rispetto alla legge in generale, sì da escluderne ogni incidenza da parte di successivi interventi legislativi di tal genere. 29. Ciò, tra l'altro, corrisponde al principio, immanente del nostro ordinamento giuridico secondo il quale lex posterior generalis non derogat legi priori speciali (V. per tutte Cass. 31 gennaio 2012 n. 392 cit.). 30. Nè può sottacersi al riguardo che la già evidenziata specialità della normativa sul reclutamento del personale nel settore della scuola che giustifica -come rilevato- la sua assoluta "impermeabilità" alla disciplina del D.Lgs. n. 368 del 2001, si manifesta anche con riferimento a tutti i restanti settori della pubblica amministrazione, nei quali i contratti di lavoro a termine assumono caratteri differenziati da quelli riscontrabili nell'ambito del personale scolastico, in cui le peculiari finalità ad essi sottese -oltre ad escludere la conversione a tempo indeterminato- portano ad escludere la stessa configurabilità di un abuso del diritto nei termini patrocinati dal ricorrente. 31. A diverse conclusioni non può indurre neanche il D.L. n. 70 del 2011, art. 9 convertito in L. n. 106 del 2011, il quale, con il comma 18, ha aggiunto, al D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 10, il comma 4 bis secondo il quale: "Stante quanto stabilito dalle disposizioni di cui alla L. 27 dicembre 1997, n. 449, art. 40, comma 1, e successive modificazioni, alla L. 3 maggio 1999, n. 124, art. 4, comma 14 bis, e al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 6, comma 5, sono altresì esclusi dall'applicazione del presente decreto i contratti a tempo determinato stipulati per il conferimento delle supplenze del personale docente ed ATA, considerata la necessità di garantire la costante erogazione del servizio scolastico ed educativo anche in caso di assenza temporanea del personale docente ed ATA con rapporto di lavoro a tempo indeterminato ed anche determinato. In ogni caso non si applica l'art. 5, comma 4 bis, del presente decreto". 32. Trattasi, invero, di esplicitazione di un principio che, in quanto già enucleabile, alla stregua di quanto in precedenza rimarcato, dal precedente sistema, non ha comportato alcuna innovazione e risponde, piuttosto, all'esigenza, avvertita dal legislatore, di ribadire, a fronte del proliferare di controversie sulla illegittimità delle assunzioni a termine nel settore in parola, di una regula iuris già insita nella legislazione concernente la cd. privatizzazione del pubblico impiego. 33. E che il suddetto art. 9 non può che aver valore d'interpretazione autentica, per rendere chiaro ed espresso quello che sì evinceva dal precedente sistema normativo, deve ritenersi certo perchè se si dovesse diversamente interpretare, nel senso di consentire la conversione del contratto a termine in contratto a tempo determinato con il conseguente riconoscimento del risarcimento dei danni, si finirebbe per legittimare una totale disapplicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001 con riferimento al personale della scuola. 34. Per di più si determinerebbe una violazione dei criteri di efficienza per incidere sugli organici del personale della scuola e sulla complessa amministrazione del settore e, conseguentemente, penalizzando il merito e gli altri principi posti a fondamento del rapporto di pubblico impiego, nel cui ambito va collocato (con riferimento alle finalità perseguite dalle disposizioni di cui al citato D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 4, 5 e 10) il detto personale. Ed, infine, si finirebbe per attribuire illogicamente alla suddetta norma una portata priva di razionalità ed al di fuori di una logica di sistema. Nel momento in cui attraverso il collegato lavoro (di cui alla L. 4 novembre 2010 n. 183), si andava ad incidere in senso riduttivo sul risarcimento del danno nello stesso tempo si sarebbe, infatti, esposta la pubblica amministrazione ad uno sforamento di bilancio, assicurando al personale della scuola un trattamento diverso e, sotto più versanti, maggiormente favorevole rispetto agli altri dipendenti pubblici, sia sul piano delle condizioni della trasformazione in contratto a tempo indeterminato, sia su CONTENZIOSO NAZIONALE 161 quello risarcitorio (cfr. Cass. 29 febbraio 2012 n. 3056, sulla interpretazione dello ius supervenines L. n. 183 del 2010, ex art. 32, commi, 5, 6, 7sebbene la stessa riconosca che il risarcimento configuri una sorta di penale ex lege da assicurarsi in ogni caso e senza necessità di prova del lavoratore). 35. Tanto precisato mette conto di rilevare che lo speciale regime del reclutamento del personale scolastico cd. precario si articola in un sistema di supplenze regolato dalla L. n. 124 del 1999 cit., art. 4, che ai primi tre commi, testualmente, dispone: "1. Alla copertura delle cattedre e dei posti di insegnamento che risultino effettivamente vacanti e disponibili entro la data del 31 dicembre e che rimangano prevedibilmente tali per l'intero anno scolastico, qualora non sia possibile provvedere con il personale docente di ruolo delle dotazioni organiche provinciali o mediante l'utilizzazione del personale in soprannumero, e semprechè ai posti medesimi non sia stato già assegnato a qualsiasi titolo personale di ruolo, si provvede mediante il conferimento di supplenze annuali, in attesa dell'espletamento delle procedure concorsuali per l'assunzione di personale docente di ruolo. 2. Alla copertura delle cattedre e dei posti di insegnamento non vacanti che si rendano di fatto disponibili entro la data del 31 dicembre e fino al termine dell'anno scolastico si provvede mediante il conferimento di supplenze temporanee fino al termine delle attività didattiche. Si provvede parimenti al conferimento di supplenze temporanee fino al termine delle attività didattiche per la copertura delle ore di insegnamento che non concorrono a costituire cattedre o posti orario. 3. Nei casi diversi da quelli previsti ai commi 1 e 2 si provvede con supplenze temporanee". 36. I criteri in base ai quali sono conferite le supplenze annuali sono precisati dai successivi commi 6 e 7 i quali stabiliscono,ai fini dei successivi regolamenti da adottarsi con D.M.- poi emanati con i D.M. n. 201 del 2000, D.M. n. 131 del 2007 e D.M. n. 430 del 2000-, rispettivamente, che: "per il conferimento delle supplenze annuali e delle supplenze temporanee sino al termine delle attività didattiche si utilizzano le graduatorie permanenti di cui all'art. 401 del testo unico, come sostituito dall'art. 1, comma 6 della presente legge" (comma 6); "per il conferimento delle supplenze temporanee di cui al comma 3 si utilizzano le graduatorie di circolo o di istituto. I criteri, le modalità e i termini per la formazione di tali graduatorie sono improntati a principi di semplificazione e snellimento delle procedure con riguardo anche all'onere di documentazione a carico degli aspiranti" (comma 7). 37. L'art. 399 del T.U., di cui al D.Lgs. n. 297 del 1994, così come modificato dalla L. n. 124 del 1999, rubricato "Accesso ai ruoli", poi, testualmente dispone, ai primi due commi, che: "1. L'accesso ai ruoli del personale docente della scuola materna, elementare e secondaria, ivi compresi i licei artistici e gli istituti d'arte, ha luogo, per il 50 per cento dei posti a tal fine annualmente assegnabili, mediante concorsi per titoli ed esami e, per il restante 50 per cento, attingendo alle graduatorie permanenti di cui all'art. 401. 2. Nel caso in cui la graduatoria di un concorso per titoli ed esami sia esaurita e rimangano posti ad esso assegnati, questi vanno ad aggiungersi a quelli assegnati alla corrispondente graduatoria permanente. Detti posti vanno reintegrati in occasione della procedura concorsuale successiva". 38. Ed ancora l'art. 401 - rubricato "graduatorie permanenti" stabilisce ai primi due commi che: "1. Le graduatorie relative ai concorsi per soli titoli del personale docente della scuola materna, elementare e secondaria, ivi compresi i licei artistici e gli istituti d'arte, sono trasformate in graduatorie permanenti, da utilizzare per le assunzioni in ruolo di cui all'art. 399, comma 1. 2. Le graduatorie permanenti di cui al comma 1 sono periodicamente integrate con l'inserimento dei docenti che hanno superato le prove dell'ultimo concorso regionale per titoli ed esami, per la medesima classe di concorso e il medesimo posto, e dei docenti che hanno 162 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 chiesto il trasferimento dalla corrispondente graduatoria permanente di altra provincia. Contemporaneamente all'inserimento dei nuovi aspiranti è effettuato l'aggiornamento delle posizioni di graduatoria di coloro che sono già compresi nella graduatoria permanente". La L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 605, lett. e), ha, infine, trasformato le graduatorie permanenti in graduatorie ad esaurimento. 39. Da questo articolato normativo emerge, innanzitutto, che il legislatore ha mantenuto, per quanto attiene il reclutamento del personale, il sistema del doppio canale (V. per la disciplina previgente il D.L. n. 357 del 1989, convertito in L. n. 417 del 1989, nonchè la L. n. 1074 del 1971, L. n. 477 del 1973, L. n. 463 del 1978, L. n. 270 del 1982, L. n. 326 del 1984, e L. n. 246 del 1988) in virtù del quale l'accesso ai ruoli avviene per il 50 per cento dei posti mediante concorso per titoli ed esami (D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 399) e, per il restante 50 per cento, attingendo dalle graduatorie permanenti (D.Lgs. n. 297 del 1994, art. 400 cit.). 40. Scopo di tali graduatorie permanenti è quello precipuo, come rilevato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 41 del 2011, d'individuare i docenti cui attribuire le cattedre e le supplenze secondo il criterio di merito al fine di assicurare la migliore formazione scolastica. 41. Nè il sistema di reclutamento in parola si pone in contrasto con l'art. 97 Cost., disponendo questo, al comma 3 che "Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge" (V. Corte cost. n. 89 del 2003 cit.). 42. Emerge, altresì, dal contesto normativo in esame, che il sistema delle graduatorie permanenti -ora ad esaurimento- è funzionalizzato non solo alla garanzia della migliore formazione scolastica, ma anche al rispetto della posizione acquisita in graduatoria la quale, progredendo anche in relazione all'assegnazione delle supplenze (V. D.M. citati in particolare il n. 201 del 2000), garantisce l'immissione in ruolo. 43. In altri termini il conferimento dell'incarico di supplenza, specie quello annuale, è il veicolo attraverso il quale l'incaricato si assicura l'assunzione a tempo indeterminato in quanto, man mano che gli vengono assegnati detti incarichi, la sua collocazione in graduatoria avanza e, quindi, gli permette l'incremento del punteggio cui è correlata l'immissione in ruolo ex art. 399 del T.U. di cui al D.Lgs. n. 297 del 1994 cit.. 44. Inoltre, ed è bene sottolinearlo, la formazione della graduatoria permanente ovvero di circolo o istituto è ancorata a rigidi criteri oggettivi (D.M. citati in precedenza ed in particolare il D.M. n. 201 del 2000) che costituiscono attuazione, come sottolineato da questa Corte (sent. 22 marzo 2010 n. 6851), del principio generale secondo il quale l'assunzione dei dipendenti pubblici, anche non di ruolo, deve avvenire secondo procedure sottratte alla discrezionalità dell'amministrazione (art. 97 Cost., D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35, la cui violazione è sanzionata con la nullità del contratto di lavoro (Cfr.: Cass. 7 maggio 2008, n. 11161). 45. Il sistema delle supplenze in parola rappresenta, pertanto, sotto il profilo in esame, un percorso formativo-selettivo, volto a garantire la migliore formazione scolastica, attraverso il quale il personale della scuola viene immesso in ruolo in virtù di un sistema alternativo a quello del concorso per titoli ed esami e vale a connotare di una sua intrinseca "specialità e completezza" il corpus normativo relativo al reclutamento del personale scolastico. 46. Nè può sottacersi come il sistema in esame risponda anche all'esigenza di parametrare nella scuola una flessibilità in entrata che comporta una situazione di precarietà, bilanciata, però, ampiamente da una sostanziale e garantita (anche se in futuro) immissione in ruolo che, per altri dipendenti del pubblico impiego è ottenibile solo attraverso il concorso e per quelli privati può risultare di fatto un approdo irraggiungibile. Ciò ha portato autorevole dottrina a parlare nella materia scrutinata di una tipologia di flessibilità atipica destinata a trasformarsi CONTENZIOSO NAZIONALE 163 in una attività lavorativa stabile. 47. Per di più a tale sistema di reclutamento non sono certo estranee indifferibili esigenze di carattere economico che impongono -in una situazione di generale crisi economica e di deficit di bilancio facenti parte del notorio- risparmi doverosi per riscontrarsi nel sistema di reclutamento in esame, come detto, una seria prospettiva del riconoscimento di un lavoro a tempo indeterminato pur in assenza di alcuna legge di carattere costituzionale o comunitario capace di garantire, anche in presenza di un effettivo abuso di successione di contratti a termine, un rapporto a tempo indeterminato e pur avendo la Corte Costituzionale reiteratamente affermato che "resta affidata alla discrezionalità del legislatore la scelta dei tempi e dei modi di attuazione della garanzia del diritto al lavoro" (tra le altre, sentenza 13 ottobre 2000 n. 419 e più di recente Corte Cost. 9 novembre 2011 n. 303). 48. E nella stessa direzione è opportuno da un lato rimarcare che - come ha osservato il giudice delle leggi- la politica del reclutamento del personale presso le amministrazioni dello Stato è dettata in conformità del contenimento della spesa pubblica perchè l'assunzione di nuovo personale e le disponibilità economiche dello Stato devono adeguarsi al "principio di coordinamento della finanza pubblica" (Cfr. Corte Cost. 17 dicembre 2004 n. 300), e dall'altro ricordare che, come è noto, la giurisprudenza comunitaria ha più volte evidenziato che nella determinazione della portata applicativa delle direttive un accentuato rilievo va dato alle esigenze di bilancio degli stati membri. 49. Sotto diverso profilo mette conto, poi, di annotare che il sistema in esame è, altresì, oggettivamente funzionalizzato alla esigenza di sopperire alla necessità della copertura dei posti di insegnamento che risultino effettivamente vacanti e disponibili entro la data del 31 dicembre (L. n. 124 del 1999, art. 4, comma 1 cit.), ovvero alla copertura dei posti di insegnamento non vacanti che si rendano di fatto disponibili entro la data del 31 dicembre (L. n. 124 del 1999, art. 4, comma 2 cit.), ovvero ancora ad altre necessità quale quella di sostituire personale assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro (L. n. 124 del 1999, art. 4, comma 3 cit.). 50. Tanto in ragione, fatte salve le "altre necessità", della discrasia tra l'organico di fatto -ossia quello che si forma all'interno dell'Istituto scolastico all'inizio dell'anno scolastico e a seguito della popolazione scolastica che risulta iscritta- e l'organico di diritto -costituito dall'insieme del corpo docente e/o del personale ATA che il Ministero assegna ad un determinato Istituto scolastico in base alla popolazione scolastica che istituzionalmente dovrebbe essere iscritta presso quell'istituto. 51. Risulta confermato, pertanto, che il descritto quadro normativo rappresenta un insieme di fonti che valgono, per la loro completezza, organicità e funzionalizzazione, a costituire un corpus speciale autonomo disciplinante la materia del reclutamento del personale in ordine al quale, non trovando applicazione, come innanzi rilevato, il D.Lgs. n. 368 del 2001 - emanato in attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall'UNICE, dal CEEP e dal CES - va verificata la conformità alla detta direttiva. 52.A tal fine va tenuto conto che, secondo giurisprudenza comunitaria, nell'applicare il diritto interno, i giudici nazionali devono interpretarlo, per quanto possibile, alla luce del testo e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest'ultima e conformarsi, pertanto, all'art. 249, comma 3, CE (V., sentenza 5 ottobre 2004, cause riunite da C 397/01 a C 403/01, Pfeiffer e a., punto 113, e giurisprudenza ivi citata, nonchè sentenza 4 luglio 2006 C-212/04, Adeneler, punto 108). 53. Non senza considerare che tale obbligo di interpretazione conforme riguarda l'insieme delle disposizioni del diritto nazionale, sia anteriori sia posteriori alla direttiva di cui trattasi 164 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 (V., ìn particolare, sentenze 13 novembre 1990, causa C 106/89, Marleasing, punto 8, e Pfeiffer e a., cit., punto 115). 54. Tanto precisato deve ribadirsi, in primo luogo, che l'accordo quadro di cui alla Direttiva del Consiglio Ce 1999/70/CE del 28 giugno 1999 non stabilisce le condizioni precise in base alle quali si può far ricorso al contratto a tempo determinato. 55. È', infatti, sancita soltanto l'adozione, qualora il diritto nazionale non preveda norme equivalenti, di almeno una delle misure in essa enunciate, che attengono, rispettivamente, a ragioni obiettive che giustificano il rinnovo di tali contratti o rapporti di lavoro, alla durata massima totale degli stessi contratti o rapporti di lavoro successivi ed al numero dei rinnovi di questi ultimi, pur restando fermo che gli Stati membri sono tenuti, in generale, nell'ambito della libertà che viene loro riservata dall'art. 249, comma 3, Trattato CEE, a scegliere le forme e i mezzi idonei al fine di garantire l'efficacia pratica delle direttive (V. sentenza 4 luglio 2006 C-212/04, Adeneler cit. punto 65 e sentenza 26 gennaio 2012 C-586/10 Kucuk punto 26 e giurisprudenza ivi citata, nonchè: Cass. 21 maggio 2008 n. 12985). 56. Secondo conforme giurisprudenza comunitaria la nozione di "ragioni obiettive", ai sensi della clausola 5, punto 1, lett. a), dell'accordo quadro, deve essere intesa nel senso che si riferisce a circostanze precise e concrete caratterizzanti una determinata attività e, pertanto, tali da giustificare in questo particolare contesto l'utilizzazione di contratti di lavoro a tempo determinato successivi. 57. Tali circostanze possono risultare segnatamente dalla particolare natura delle mansioni per l'espletamento delle quali siffatti contratti sono stati conclusi e dalle caratteristiche inerenti a queste ultime o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro. 58. Per contro, una disposizione nazionale che si limiti ad autorizzare, in modo generale e astratto attraverso una norma legislativa o regolamentare, il ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato successivi non soddisfarebbe i requisiti precisati nei due punti precedenti. Infatti, una siffatta disposizione, di natura meramente formale e che non giustifica in modo specifico l'utilizzazione di contratti di lavoro a tempo determinato successivi con l'esistenza di fattori oggettivi relativi alle caratteristiche dell'attività interessata e alle condizioni del suo esercizio, comporta un rischio concreto di determinare un ricorso abusivo a tale tipo di contratti e non è pertanto compatibile con lo scopo e l'effettività dell'accordo quadro (sentenza 4 luglio 2006 C-212/04, Adeneler cit. punti da 69 a 72 nonchè sentenza 28 aprile 2009 C- 370/07 Angelidaki punti 101 e segg.). 59. Alla luce della richiamata giurisprudenza comunitaria ritiene questa Corte che il corpus normativo disciplinate il reclutamento del personale, nel consentire la stipula di contratti a tempo determinato in relazione alla oggettiva necessità di far fronte, con riferimento al singolo istituto scolastico - e, quindi, al caso specifico-, alla copertura dei posti di insegnamento che risultino effettivamente vacanti e disponibili entro la data del 31 dicembre, ovvero alla copertura dei posti di insegnamento non vacanti che si rendano di fatto disponibili entro la data del 31 dicembre, ovvero ancora ad altre necessità quale quella di sostituire personale assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro, riferendosi a circostanze precise e concrete caratterizzanti la particolare attività scolastica costituisce "norma equivalente" alle misure di cui alla clausola 5 n. 1, lett. da A) a C) dell'accordo quadro secondo quanto indicato dalla sentenza 28 aprile 2009 C-370/07 Angelidaki cit.. 60. Rileva, altresì, ai fini di cui trattasi, -e con riferimento alle fattispecie regolate dal primo e dalla L. n. 124 del 1999, art. 4, comma 2 cit.- quale fattore oggettivo, relativo all'attività CONTENZIOSO NAZIONALE 165 scolastica, lo stretto collegamento tra la necessità di ricorrere alla supplenza e la ciclica variazione in aumento ed in diminuzione della popolazione scolastica e la sua collocazione geografica. 61. Nè può non considerarsi che, come in precedenza rimarcato, il sistema delle graduatorie per garantire l'oggettività della scelta dell'incaricato, la migliore formazione scolastica (Corte cost. n. 41 del 2011 cit.) e la stessa immissione in ruolo dell'incaricato -la cui posizione in graduatoria progredisce, in ragione dell'assicurato diritto di precedenza, in funzione del numero delle supplenze- comporta necessariamente la reiterazione degli incarichi che, pur tuttavia, come osservato, rimangono temporanei e collegati ciascuno alla specifica e precisa esigenza del singolo istituto scolastico. 62. Al riguardo va ricordato che la direttiva n. 70 del 1999 guarda alla successione di più contratti di rapporti di lavoro a tempo determinato come potenziale fonte di abuso in danno dei lavoratori dipendenti sì da richiedere apposite disposizioni di tutela minima (dirette ad evitare la "precarizzazione" della situazione dei lavoratori suddetti), identificabili non di certo in norme legali o regolamentari limitate ad autorizzare - in modo generale ed astratto il ricorso a ripetuti contratti di lavoro a tempo determinato (sentenza 26 gennaio 2012 C-586/10 Kucuk, punto 28, e sentenza 28 aprile 2009 C-370/07, Angelidaki cit., punto 97). Il fatto che i contratti di lavoro a tempo indeterminato costituiscano la forma comune dei rapporti di lavoro, non esclude però che i contratti di lavoro a tempo determinato possano rappresentare una caratteristica dell'impiego in alcuni settori e per determinate occupazioni e attività, sicchè viene lasciato agli Stati membri una certa discrezionalità nello stabilire le condizioni precise alle quali si può fare uso di questi contratti (sentenza 26 gennaio 2012 C-586/10 Kucuk, cit. punto 52; sentenza 4 luglio 2006 C-212/04, Adeneler, cit. punto 91; sentenza 7 settembre 2006, causa C-53/04, M. e S., punto 47; sentenza 28 aprile 2009 C-370/07, Angelidaki cit. punti 145 e 183). 63. È corollario di quanto ora detto che spetta al giudice nazionale di valutare se in concreto l'impiego di un dipendente per un lungo periodo di tempo in forza di ripetuti e numerosi contratti sia rispettosa della clausola 5, punto 1, dell'accordo quadro (sentenza 26 gennaio 2012 C-586/10 Kucuk, cit. punto 55), che deve ritenersi, nel caso di specie, rispettata perchè il reiterarsi degli incarichi, come rilevato -ma è opportuno ribadirlo- risponde ad oggettive, specifiche esigenze, a fronte delle quali non fa riscontro alcun potere discrezionale della pubblica amministrazione, per essere la stessa tenuta al puntuale rispetto della articolata normativa che ne regola l'assegnazione. 64. Alla stregua delle esposte considerazioni ritiene questa Corte che la specifica disciplina del reclutamento del personale scolastico, ed in particolare quella relativa al conferimento delle supplenze, è conforme alla clausola 5, punto 1, dell'accordo quadro di cui alla Direttiva del Consiglio Ce 1999/70/CE del 28 giugno 1999 e costituisce, quindi, " norma equivalente". 65. Premesso che il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia è ammesso soltanto ove al giudice nazionale si ponga un dubbio relativo alla interpretazione e all'applicazione delle norme comunitarie, ma non nel caso in cui a questi si ponga l'opposto problema di interpretare la norma interna al fine di verificarne la compatibilita con la normativa comunitaria (V. sentenza 17.6.1999 C. 295/97 Piaggio Spa, nonchè: Cass. 22 settembre 2006 n. 20708 e Cass. 15 maggio 2007 n. 11125), osserva il Collegio che la rilevata esistenza di molteplici conformi pronunce della Corte di giustizia delle Comunità Europee sull'interpretazione della norma comunitaria di cui trattasi (V. tutta la uniforme giurisprudenza comunitaria citata nei precedenti punti da 54 a 59 e da 62 a 63) induce a ritenere che si è in presenza di un acte claire. Questo come tale, quindi, - non lasciando spazio ad alcun ragionevole dubbio sulla esegesi della di- 166 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 rettiva 1999/70/CE relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall'UNICE, dal CEEP e dal CES - non impone al presente giudice di ultima istanza l'obbligo di rinviare, in via pregiudiziale, alla predetta Corte di Giustizia la questione d'interpretazione della richiamata norma comunitaria (Cfr. sentenza 6 ottobre 1982, C-283/81, Cilfit nonchè Corte EDU sentenza 20 settembre 2011, ric. nn. 3989/07 e 38353/07, Ullens de Schooten e Rezabek nonchè, per tutte e da ultimo, Cass. 26 marzo 2012 n. 4776). 66. Del resto che il rinvio pregiudiziale non debba essere disposto allorquando la lettura delle direttive comunitarie consenta al giudice nazionale di accertare -attraverso una documentata, ragionata e poi motivata attività ermeneutica- la loro piena compatibilita con le norme interne, risponde al principio ora costituzionalizzato del processo "giusto" e di "ragionevole durata" (art. 111 Cost., commi 1 e 2) dal momento che un ricorso "disinvolto" alla pregiudizale - perchè non sorretto da una congrua e doverosa riflessione ed attenzione - potrebbe, in assenza di un ragionevole dubbio sulla esegesi delle suddette direttive, finire per determinare, oltre che pregiudizievoli ricadute sul versante socio-economico, anche alti costi privi di giustificazione. 67. Dei principi sopra enunciati la sentenza impugnata ha fatto, dunque, corretta applicazione per avere osservato che, nel caso di specie, non è ontologicamente configurabile quell'abuso di diritto ritenuto sanzionabile dalla direttiva e dalla giurisprudenza comunitaria in quanto le ragioni che stanno alla base dei contratti a termine assumono una "oggettiva portata" per riguardare situazioni fattuali rispetto alla quali non è lasciata alcuna discrezionalità alle autorità scolastiche le quali non possono esimersi dall'individuare i soggetti destinatari di tali contratti nel rigoroso rispetto della normativa regolante la materia. 68. La Corte territoriale ponendosi infatti -come espressamente rimarca in continuità con un indirizzo della giurisprudenza di merito- ha sostanzialmente messo in rilievo che la successione di una pluralità di contratti a tempo determinato, attraverso la quale si succedono le supplenze annuali e quelle temporanee - sia per la copertura di posti non vacanti e di fatto disponibili sia per la sostituzione del personale assente per congedo, aspettativa, congedo ecc.-, non concretizza di certo in alcun modo l'abuso ai danni dei lavoratori contemplato dalla direttiva comunitaria perchè una siffatta successione è funzionalizzata a ragioni - è bene ripeterlo - di natura obiettiva, come quelle di assicurare la continuità nel servizio scolastico - obiettivo di rilevanza costituzionale- a fronte di eventi contingenti, variabili ed in definitiva imprevedibili, non solo nelle loro concrete ricadute a livello territoriale per la popolazione scolastica interessata, ma anche nella collocazione temporale. 69. Per concludere, quindi, la sentenza impugnata - essendo pervenuta, sia pure con motivazione parzialmente diversa, ad analogo risultato - va confermata previo l'esercizio dei poteri correttivi di cui all'art. 384 c.p.c., u.c.. 70. Con riferimento, poi, alla domanda del ricorrente a vedersi riconoscere il diritto al risarcimento del danno subito, va affermato che la sua infondatezza è corollario della mancanza di un abuso del diritto nel succedersi di detti contratti. Tale conclusione, infatti, si presenta obbligata per ricavarsi al di là di ogni dubbio, come in precedenza evidenziato, sia dalla normativa statale che da quella comunitaria la piena legittimità del reclutamento del personale scolastico articolato sulla successione di pur numerosi contratti a termine, ravvisandosi un abuso del diritto nel caso - non ricorrente di certo nella controversia in esame - in cui si sia in presenza di supplenze annuali o temporanee al di fuori delle condizioni legislativamente previste (come, ad esempio, nel mancato rispetto delle graduatorie nella assegnazione delle supplenze), che rende azionabile un sistema capace - in ragione di una accentuata responsabilizzazione dei dirigenti pubblici e del riconoscimento del diritto al risarcimento dei CONTENZIOSO NAZIONALE 167 danni subiti dal dipendente - di prevenire, prima, ed eventualmente di sanzionare, poi, in forma adeguata, l'utilizzo abusivo da parte dei suddetti dirigenti dei contratti o dei rapporti di lavoro a tempo determinato (cfr. di recente sul punto: Cass. 13 gennaio 2012 n. 392 cit.). 71. A sostegno di quanto ora detto si è puntualmente osservato in dottrina che se l'ordinamento ha disconosciuto, come detto, con una disposizione di rango costituzionale il diritto alla costituzione di un rapporto a tempo indeterminato, appare arduo poi concepire la risarcibilità di un mancato diritto - quale quello richiesto volto a parametrare il risarcimento ad Euro 5.000,00 per ogni contratto- perchè manca il presupposto stesso della tecnica risarcitoria, che è quello di ripristinare, attraverso la restaurazione dell'ordine giuridico violato, la situazione soggettiva che, garantita da una norma giuridica, venga in concreto a subire una lesione. E proprio disconoscendo ogni rilevanza giuridica ai periodi d'inattività lavorativa nel caso di succedersi delle supplenze questa Corte di Cassazione -seppure in una fattispecie diversa ma con qualche analogia con quella in esame- ha affermato che la categoria del personale supplente si caratterizza per un rapporto di servizio che, fondato su incarichi attribuiti di volta in volta, si interrompe nell'intervallo da un incarico ed un altro per cui non spettano, con riferimento al periodo non lavorato, gli scatti biennali (cfr. in tali sensi Cass. 8 aprile 2011 n. 8060, che invece ha riconosciuto detti scatti ai docenti di educazione musicale per avere visto costoro con apposita e specifica normativa novato il loro rapporto non di ruolo a tempo indeterminato sino alla successiva immissione in ruolo). 72. All'esito delle considerazioni, sinora svolte, nelle quali rimangono assorbite tutte le ulteriori argomentazioni poste a base delle esaminate censure, il ricorso va, pertanto, rigettato. 73. La novità della questione trattata e la complessità della materia giustificano la compensazione delle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità. 168 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 Argomentazioni della Cassazione sul diritto alla trascrizione di un atto di matrimonio/celebrato all’estero fra cittadini italiani dello stesso sesso(*) (Nota a Corte di Cassazione, Sez. I civ., sentenza 15 marzo 2012 n. 4184) Roberto De Felice (**) La vicenda processuale dei coniugi G. ed O., legittimamente tali secondo il diritto olandese, ma che hanno osato chiedere in Italia la trascrizione del loro atto di matrimonio, è approdata a conclusione – dopo quattro anni e più di attesa per il solo grado di cassazione – con la sentenza 4184/12. Sentenza che, va detto francamente, al di là dell’esito, dell’indennizzo per questo immane ritardo che spetterà ai ricorrenti, e di ciò che si possa pensare sul merito della vicenda, non è una gran sentenza (1) e tradisce due contraddittorie linee motivazionali, e quindi un’aspra discussione in seno al Collegio. Inoltre la sentenza non esamina in modo compiuto le doglianze poste e contiene numerosi errori sostanziali che la allontanano di molto dal rigore che ci si dovrebbe aspettare su questioni così delicate. Si deve premettere che il decreto della Corte d’Appello di Roma – oggetto del ricorso per Cassazione – aveva ritenuto “inesistente” il citato matrimonio, e aveva altresì ritenuto che lo stesso comunque non fosse contrario all’ordine pubblico internazionale (che poi sarebbe stata l’unica buona ragione, ex art. 18 DPR 396/00 (2)(3), per negare la trascrizione) (4). Tale ultima statuizione non è stata oggetto di ricorso incidentale (significativamente, né da parte dell’Avvocatura generale, difensore del Sindaco, Ufficiale di Governo, né da parte (*) Per equanimità alle argomentazioni di questo scritto, segue - e a richiesta della Rassegna - il contributo dell’avv. dello Stato Vincenzo Rago. (**) Avvocato dello Stato. Con la collaborazione della dott.ssa Francesca Zambuco, praticante foresene presso l’Avvocatura dello Stato. (1) Sono assolutamente concorde con Aurelio Gentili che la ha definita un prodotto culturale molto discutibile. (2) Decreto del Presidente della Repubblica del 3 Novembre 2000 n. 396: “Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’art. 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127”. Reperibile al seguente link: http://digilander.libero.it/ebaysf0/LEGGI/amministrativo/ dpr_396_2000_stato_civile.htm. (3) Articolo 18 Dpr 396/2000: “Gli atti formati all’estero non possono essere trascritti se sono contrari all’ordine pubblico”. (4) Mi permetto di rinviare al mio articolo su Persona e Danno, disponibile online, che menziona anche le decisioni di merito in modo dettagliato: R. DE FELICE, Diritto di famiglia e ordine pubblico internazionale, http://www.personaedanno.it/index.php?option=com_content&view=article&id=23225&catid=112. CONTENZIOSO NAZIONALE 169 del Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Roma). La prima – maggioritaria – linea motivazionale è una didattica congerie di testi normativi e giurisprudenziali, per la quale la “titolarità del diritto alla trascrizione … dipende dalla soluzione della più generale questione … se la Repubblica Italiana riconosca e garantisca a persone dello stesso sesso … il diritto di contrarre il matrimonio” (5). La premessa è un errore fondamentale, che dimostra quanto il diritto internazionale privato (6) non sia conosciuto. A cosa serve, si chiederà retoricamente? Posta l’esistenza di situazioni transnazionali (un francese ed un tedesco, a Londra, acquistano da uno spagnolo un immobile sito a Milano) il giudice richiesto dell’enforcement di questo contratto, che legge deve applicare? Se dovesse applicare esclusivamente la propria, per la quale gli immobili vanno trasferiti con atti – almeno – redatti per iscritto e con la necessaria indicazione della conformità del bene, nello stato attuale, alla pianta catastale, non si avrebbe necessità del diritto internazionale privato, la cui funzione è precipuamente quella di far “circolare” norme, sentenze, provvedimenti e negozi giuridici da un ordinamento all’altro, con l’osservanza di precise regole e limiti. Infatti l’espressione “diritto internazionale privato” indica il complesso di norme giuridiche statali che disciplina i rapporti privatistici che presentano elementi di estraneità, ovvero punti di contatto (cittadinanza, luogo di svolgimento del rapporto, luogo in cui si trovano i beni, etc.) con ordinamenti giuridici stranieri. Le norme di diritto internazionale privato si caratterizzano, rispetto alle altre dell’ordinamento statuale non per l’origine o la natura, per l’oggetto, la regolamentazione di fatti che presentano elementi di estraneità rispetto allo Stato, e la funzione che, secondo l’orientamento oggi prevalente (7), è duplice (cd. concezione bilaterale). Esse consentono, da un lato, di delimitare l’ambito di applicazione del diritto interno e, dall’altro, di richiamare, se ne ricorrono i presupposti, le norme di diritto straniero. Scendendo nel caso de qua, per un matrimonio il limite alla – limitata – richiesta della sua trascrizione è quello della contrarietà all’ordine pubblico (8). Ho già ricordato in un precedente articolo (9) che, quando ancora il matrimonio in Italia era saldamente indissolubile, i giudici della Suprema Corte (5) Par. 2.1. (6) Legge 31 maggio 1985, n. 218: “Riforma del sistema italiano del diritto internazionale privato”. (7) Tra gli altri vd. TITO BALLARINO, Diritto internazionale privato italiano, VII edizione, Cedam, 2011; EDOARDO VITTA, Diritto internazionale privato, I, Parte generale, Unione Tipografico – Editrice Torinese, 1972. (8) Articolo 16 l. 218/1995: Ordine pubblico “1. La legge straniera non è applicata se i suoi effetti sono contrari all'ordine pubblico. 2. In tal caso si applica la legge richiamata mediante altri criteri di collegamento eventualmente previsti per la medesima ipotesi normativa. In mancanza si applica la legge italiana”. (9) Cfr. nota 4. 170 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 erano unanimi nel ritenere doverosa la delibazione del divorzio di un matrimonio tra italiani contratto all’estero e retto da legislazione divorzista. Dunque, che un istituto giuridico – il matrimonio omogenerico – non sia previsto dalla legge italiana non è ragione sufficiente per negarne l’enforcement in Italia. Entrando nel merito delle argomentazioni addotte risulta così addirittura tedioso, all’interno di questa linea motivazionale maggioritaria, citare in sentenza l’art. 115 c.c. (10) e gli artt. 27 (11) e 28 (12) l. 218/95, ricordare la precedente giurisprudenza per cui la diversità di sesso (presupposto dell’art. 107 c.c. e molte altre norme) rispondente ad una “consolidata e ultramillenaria tradizione” (13) (ma tale era sino al 1815 anche la schiavitù (14)) è un presupposto del matrimonio in Italia e che “l’ordine naturale esige la diversità di sesso dei nubendi”. Infatti tale affermazione è gravissima, oltre che super- (10) Art. 115 c.c. Matrimonio del cittadino all’estero: “Il cittadino è soggetto alle disposizioni contenute nella sezione prima di questo capo, anche quando contrae matrimonio in paese straniero secondo le forme ivi stabilite”. (11) Art. 27 l. 218/1995: Condizioni per contrarre matrimonio “1. La capacità matrimoniale e le altre condizioni per contrarre matrimonio sono regolate dalla legge nazionale di ciascun nubendo al momento del matrimonio. Resta salvo lo stato libero che uno dei nubendi abbia acquistato per effetto di un giudicato italiano o riconosciuto in Italia”. (12) Art. 28 l. 218/1995: Forma del matrimonio “1. Il matrimonio è valido, quanto alla forma, se è considerato tale dalla legge del luogo di celebrazione o dalla legge nazionale di almeno uno dei coniugi al momento della celebrazione o dalla legge dello Stato di comune residenza in tale momento”. (13) Come sottolinea M. GATTUSO in Famiglia e diritto 7/2012: “Matrimonio”, “Famiglia” e Orientamento sessuale: La Cassazione recepisce la “doppia svolta” della Corte europea dei diritti dell’uomo, la dottrina e la giurisprudenza italiane hanno indagato in vario modo la questione della tutela delle unioni omosessuali con conclusioni non sempre univoche rimandando sul punto ai seguenti autori per un quadro generale del dibattito giuridico italiano, cfr.: AA. VV., Amore civile, dal diritto della tradizione al diritto della ragione, a cura di De Filippis e Bilotta, Mimesis, 2010; AA.VV., Le unioni tra persone dello stesso sesso - Profili di diritto civile, comunitario e comparato, a cura di Bilotta, Mimesis, 2008; BONINI BARALDI, Le nuove convivenze tra disciplina straniera e diritto interno, Ipsoa, 2005; BONINI BARALDI, La famiglia degenere Matrimonio omosessualità e costituzione, Mimesis, 2010; WINKLER e STRAZIO, L’abominevole diritto, Il Saggiatore, 2011; AA.VV., La “società naturale” ed i suoi “nemici”. Sul paradigma eterosessuale del matrimonio, a cura di Bin, Brunelli, Guazzarotti, Pugiotto, Veronesi, Giappichelli, 2010; AA.VV., Unioni e matrimoni same-sex dopo la sentenza n. 138 del 2010: quali prospettive, a cura di Pezzini e Lorenzetti, Jovene, 2011; n. 4/2011 di Ianus, interamente dedicato all’argomento. (14) Cfr. Trattato di Parigi del 20 novembre 1815, conclusivo del Congreso di Vienna: ARTICLE ADDITIONNEL. Les hautes Puissances contractantes, desirant sincèrement de donner suite aux mesures dont elles se sont occupées au congrès de Vienne, relativement à l’abolition complète et universelle de la traite des nègres d’Afrique, et ayant déjà, chacune dans ses états, défendu sans restriction à leurs colonies et sujets, toute part quelconque à ce trafic, s’engagent à réunir de nouveau leurs efforts pour assurer le succès final des principes qu’elles ont proclamés dans la déclaration du 4 février 1815, et à concerter, sans perte de temps, par leurs ministres aux cours de Londre et de Paris, les mesures les plus efficaces pour obtenir l’abolition entière et définitive d’un commerce aussi odieux et aussi hautement réprouvé par les lois de la religion et de la nature. Le présent article additionnel aura la même force et valeur s’il était inséré mot à mot au traité de ce jour. Il sera compris dans la ratification dudit traité. CONTENZIOSO NAZIONALE 171 flua, in quanto può portare alla conclusione per cui i ricorrenti e tutti coloro che appartengono a questa minoranza sarebbero fuori dall’ordine naturale - con la conseguenza che sarebbe giuridicamente inesistente il matrimonio omogenerico in Italia oltre che contrario a natura. Per questo il ricorso va respinto, anche sotto il profilo della questione di costituzionalità, per come affermato da Corte Costituzionale 138/2010 (15). Segue un excursus internazionale, di cui va condiviso in linea generale l’assunto che la Carta di Nizza, in base ai suoi artt. 51 e 52, non è un utile parametro, e la diffusa condivisione della sentenza Cedu Schalk & Kopf (16) che nega (in un caso non analogo ma diverso: i ricorrenti si erano visti rifiutare la pubblicazione del matrimonio nel proprio Stato, l’Austria) che la legislazione austriaca, che non prevede il matrimonio omogenerico violi l’art. 12 della Convenzione. Ciò perché, ricordando la motivazione della Corte, non vi è un consensus europeo in materia. Argomento, a nostro avviso, analogo a quello dell’apatico giudice di pace siciliano che neghi l’esecuzione di un contratto tra un creditore non mafioso ed un debitore mafioso perché la maggioranza degli abitanti del luogo non è d’accordo. Si rimarca, poi, che la questione di compatibilità del complesso di norme (come interpretate in appello) che ha negato la trascrizione del matrimonio dei ricorrenti non è stata proposta in ricorso, ma in memoria (poco male) è stata risolta in modo improprio e con riferimento alla pretesa non vincolatività della Carta di Nizza sulla materia, non oggetto di competenza dell’Unione. La parte del Collegio che ciò sostiene non ha tenuto conto che la libertà di circolazione delle persone è materia comunitaria (17) e che quindi per essa si applica in pieno la Carta, con il suo art. 9 (18) ed il suo art. 21 (19). Ora, come quasi ognuno sa, la detta libertà può essere impedita da norme nazionali anche di diritto privato. La Corte di Giustizia dell’Unione, infatti, nel caso dell’attribuzione del cognome ad un bambino fi- (15) C. Cost. 15 aprile 2010, n. 138, in Famiglia e diritto, 653, con nota GATTUSO; in Foro it. 2010, 1367, con note DAL CANTO e ROMBOLI; in Corriere Giuridico 7/2010 si vd. COLAIANNI, Matrimonio omossessuale e Costituzione. (16) Cedu, Schalk e Kopf contro Austria del 24 giugno 2010. (17) Sul punto vd. note a Tribunale di Reggio Emilia, Sez. I Civ., Giud. Tanasi – Decreto 13 febbraio 2012 –X contro Ministero dell’Interno e Questura di Reggio Emilia.Vedi il link da http://www.certidiritti. it/notizie/comunicati-stampa/item/1380-storica-sentenza-tribunale-reggio-emilia-coniuge-stessosesso- di-un-italiano-sposato-in-spagna-ha-diritto-a-vivere-in-italia e la nota dell’Autore in corso di stampa su “Diritto di Famiglia”. (18) Art. 9 Carta di Nizza: Diritto di sposarsi e di costituire una famiglia “Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l'esercizio”. (19) Art. 21 Carta di Nizza: Non discriminazione “1. È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali. 2. Nell'ambito d'applicazione del trattato che istituisce la Comunità europea e del trattato sull'Unione europea è vietata qualsiasi discriminazione fondata sulla cittadinanza, fatte salve le disposizioni particolari contenute nei trattati stessi”. 172 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 glio di due cittadini di diversi Stati, e cittadini di entrambi gli Stati jure sanguinis, ha ritenuto che osti all’applicazione del diritto in questione la legge dello Stato del luogo di nascita che consenta l’attribuzione del solo cognome paterno, anziché dei due cognomi, materno e paterno, come prevedeva una delle due leggi nazionali del bambino (di genitori spagnolo e belga, nato in Belgio). A mio - modestissimo - parere lo status familiare di coniugato è un’altra caratteristica essenziale della personalità che, se non riconosciuta in tutta l’Unione, menoma la libertà di circolazione delle persone: infatti da essa dipendono diversi rapporti ereditari, fiscali, previdenziali, che, se passando dal Regno dei Paesi Bassi all’Italia si perdono, costituiscono un ostacolo che non è di fatto, come la Corte afferma, ma di diritto e contrastano frontalmente con la libertà di circolazione delle persone. Peraltro, nel pensiero della maggioranza del Collegio, la libertà di circolazione si riduce a trasferirsi fisicamente da uno Stato all’altro, e questo, solo a leggere i pertinenti regolamenti comunitari, è assolutamente errato (20). La minoranza ha inserito le sue osservazioni in coda alla sentenza, nonchè intervenendo in punto di “ordine pubblico internazionale”. Precisamente la minoranza ha inserito un inciso – “l’intrascrivibilità di tale atto dipende non già dalla sua contrarietà all’ordine pubblico, ai sensi dell’art. 18 DPR 396/00” – molto importante, sia in sé considerato, sia considerato alla luce della sentenza Schalk & Kopf. Infatti l’art. 12 (21) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come evolutivamente interpretato, priva di rilevanza giuridica la diversità di sesso dei nubendi e questo sia pure in un quadro di rinvio ai singoli legislatori di provvedere sul punto. Infatti la Corte di Strasburgo afferma che “avuto riguardo all’art. 9 … non considera più che il diritto al matrimonio di cui all’art. 12 debba essere limitato in tutti i casi al matrimonio da persone dello stesso sesso” (22). La Corte di Cassazione pertanto, spinta dalla minoranza, nega (contraddicendo la precedente affermazione) che la intrascrivibilità delle unioni omogeneriche dipenda dalla loro inesistenza o invalidità. Tuttavia, nel cercare una sintesi, inventa la categoria della “inidoneità a produrre quale atto di matrimonio … qualsiasi effetto nell’ordinamento italiano” (23). Sembra dunque trattarsi di “inefficacia”. A questo punto all’interprete spetta il compito di indagare sul tipo di inefficacia di cui trattasi. Dal momento che se essa non è conseguenza di nullità, (20) Vedi Direttiva 2004/38/CE e Dlgs 30/2007. (21) Art. 12 Diritto al matrimonio: “A partire dall’età minima per contrarre matrimonio, l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto”. (22) Paragrafo 61. (23) Par. 4.3. CONTENZIOSO NAZIONALE 173 inesistenza o annullabilità ritualmente stabilite è stato provvisorio del negozio giuridico, tipicamente rimessa ad un termine o ad una condizione, volontario o legale. Il negozio matrimoniale ha una disciplina complessa soprattutto con riguardo alle cause di invalidità. Esse appartengono per lo più al novero degli impedimenti, non possono essere rilevate di ufficio ed anche nei casi più gravi (es. bigamia, penalmente rilevante) devono essere accertate dal giudice con sentenza, salva la possibilità del Pubblico Ministero di agire a presidio dell'interesse pubblico. Dal momento che i tentativi di individuare ipotesi ulteriori che sono state ricomprese nella categoria di “inesistenza giuridica” del matrimonio (24) includendo tra queste, quale impedimento soggettivo, anche la differenza di sesso dei nubendi, sono ormai superati (25) esso rimane un negozio giuridico, e dove cessa la disciplina speciale, rivive quella generale della nullità per difetto degli elementi essenziali. Il riferimento va all’art. 1325 c.c. e quindi all’accordo delle parti, alla causa, all’oggetto ed alla forma, ove prescritta dalla legge a pena di nullità. Ebbene l’inidoneità a produrre effetti giuridici, quale quella affermata dalla Suprema Corte nel caso in esame, non può che derivare da un negozio invalido oppure da un negozio valido cui è apposta una condizione o un termine. Tuttavia non essendo nel caso de qua tale ultima ipotesi prospettabile dal momento che il matrimonio è un actus legitimus ovvero un atto che non ammette l’apposizione di elementi accidentali (26) (al pari dell’adozione, del riconoscimento di un figlio naturale, dell’accettazione o della rinuncia all’eredità onde evitare incertezze sulla loro esistenza e durata data la particolare importanza sociale), occorre individuare il vizio sotteso all’unione che ne impedisca la produzione di effetti giuridici. Pare quasi superfluo sottolineare che di inesistenza non può parlarsi in alcun modo ove si è di fronte alla rituale manifestazione di volontà di due soggetti innanzi ad un pubblico ufficiale di voler realizzare i fini e gli obblighi del matrimonio. Infatti un fenomeno giuridicamente rilevante si è prodotto se solo si pensi alle convenzioni patrimoniali eventualmente poste in essere tra i (24) Non sussistendo una «realtà fenomenica che costituisce la base naturalistica della fattispecie » (Cass. 9 giugno 2000, n. 7877); per il ricorrere di “situazioni estreme in cui il matrimonio non sarebbe neppure riconoscibile socialmente”, SESTA, Diritto di famiglia, Padova, 2005, 67; o “quando manchi una fattispecie astrattamente rispondente all’idea di matrimonio nell’ambiente sociale delle parti”, BIANCA, La famiglia, Milano, 2005, 166. (25) La questione non era mai stata affrontata dalla Suprema Corte prima della sentenza in commento ma l’affermazione, condivisa dalla dottrina largamente maggioritaria, si trova, quale obiter, in Cass. 26 maggio 1976, n. 1808, in Rep. giur. it., 1976, 51; Cass. 22 febbraio 1990, n. 1304, in Giust. civ. mass., 1990; Cass. 2 marzo 1999, n. 1739, in Famiglia e diritto, 1999, 327; Cass. 9 giugno 2000, n. 7877, in Famiglia e diritto, 2000, 509 e in Giust. civ., 2000, I, 2897, con nota di LACROCE. (26) Art. 108 c.c.: “la dichiarazione degli sposi di prendersi rispettivamente in marito e moglie non può essere sottoposta né a termine né a condizione. Se le parti aggiungono un termine o una condizione, l’ufficiale dello stato civile non può procedere alla celebrazione del matrimonio. Se ciononostante il matrimonio è celebrato, il termine e la condizione si hanno per non apposti”. 174 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 coniugi e valide secondo l’ordinamento che regola il rapporto. Ciò premesso occorre dunque individuare a quale degli elementi essenziali afferisca il vizio che rende il negozio inidoneo alla produzione di effetti giuridici. Sicuramente il vizio non è riferibile all’accordo, ritualmente presente e non invalido, né alla forma, lecita secondo l’ordinamento nel quale il vincolo è nato, né ancora alla causa che è la creazione del consortium assolutamente indifferente al sesso dei nubendi (27). Per queste ragioni il vizio non potrebbe che afferire all’oggetto del negozio. A questo proposito nel matrimonio omogenerico non può parlarsi di illiceità dell’oggetto dal momento che non esiste una norma di legge che lo vieta ove i divieti sono sempre espressi dal momento che l’illiceità manifesta una disapprovazione dell’ordinamento per il fenomeno. Infatti la stessa Suprema Corte non afferma in alcun passaggio che tale matrimonio sarebbe oggetto di divieto (28). Al contrario il nostro è un ordinamento che reprime le discriminazioni contro gli omosessuali (29) come desumibile dall’art. 3 Costituzione che non può che riferirsi anche all’orientamento sessuale. Se dunque nemmeno in Costituzione viene affermato il principio di eterogeneità del matrimonio (30) ben potrebbe in futuro il legislatore optare per norme che estendano tale istituto anche a coppie omosessuali in sintonia con altri Paesi Europei come quello in cui i soggetti qui ricorrenti hanno contratto matrimonio (31). (27) Contra parla di nullità del matrimonio generico un’isolata ma assai autorevole opinione C. A. JEMOLO, Il matrimonio, in Trattato di diritto civile, diretto da Vassalli, Torino, 1961, 45: “Ora, potrà offendere il senso dei più, sempre influenzato, in questa materia, da ricordi giusnaturalistici, più o meno precisi, il chiamare invalido anziché inesistente il matrimonio tra due persone dello stesso sesso (sebbene altrettanto dovrebbe offendere il sentir dire invalido e non inesistente il matrimonio tra padre e figlia, che secondo l’insegnamento cattolico osta al diritto naturale, o quello tra due persone già legate da altro vincolo matrimoniale o quello tra bambini); ma se si prescinde da queste impressioni, occorre riconoscere che si versa in un caso in cui il negozio formativo c’è stato, e nei suoi elementi formali è stato perfetto, mentre ciò che è mancato è la capacità delle parti, nei loro reciproci rapporti. Questa mancanza di capacità, se si prescinde da impressioni sentimentali e da rimembranze giusnaturalistiche, non mi pare diversa di fronte al diritto da quella propria del caso che contraessero matrimonio padre e figlia o due persone già legate da precedente vincolo” . (28) M. GATTUSO, cit. (29) D. lgs. 216/2003, Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. (30) Ed una definizione di matrimonio non si rinviene né in Costituzione né nella legislazione ordinaria. (31) Ad oggi otto nazioni europee contemplano già una definizione gender-neutral del matrimonio (Olanda, Belgio, Spagna, Norvegia, Svezia, Portogallo, Islanda e Danimarca); analoghe leggi sono state annunciate dal governo in Inghilterra ed in Francia, ma anche Finlandia, Scozia, Lussemburgo e Andorra. Fuori d’Europa, il divieto è stato rimosso in sette Stati degli U.S.A. (tra cui la capitale, Washington D.C., e New York), in Canada, Sudafrica, Argentina e nella capitale messicana. Oltre che in Italia, non vi è alcuna legge in Turchia, Grecia, Cipro, Malta, oltre che in gran parte dei Paesi ex comunisti. Sulle specificità di tali regolamentazioni vd. I matrimoni tra persone dello stesso sesso: livello “federale” e livello statale in Europa e negli Stati Uniti in Rivista di diritto internazionale privato e processuale fondata da Mario Giuliano, 2/2012, a cura di Franco Mosconi e Cristina Campiglio. CONTENZIOSO NAZIONALE 175 Infatti se è vero che l’art. 12 della Cedu non impone ai singoli Stati di garantire l’accesso al matrimonio alle coppie omogeneriche, altrettanto vero è che dopo la più volte citata sentenza Schalk & Kopf sono conformi alla Cedu le leggi nazionali che già hanno realizzato questa apertura (32). La nostra stessa Corte costituzionale pur ritenendo il matrimonio di cui all’art. 29 Cost. riferibile solo a quello contratto tra uomo e donna ammette che il concetto di matrimonio non possa essere “cristallizzato” all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore (33). In conclusione si ritiene il diniego di trascrizione estraneo alla dogmatica giuridica e apposto solo in virtù dell’adesione all’orientamento per cui la diversità di genere sarebbe condizione necessaria implicitamente prevista dal nostro codice civile. Al contrario poi la Corte, riprendendo argomenti di Schalk & Kopf e di Corte Cost. 138/2010, ritiene “artificiale” l’affermazione che una coppia omosessuale non possa godere della vita familiare ai fini dell’art. 8, e che la coppia di fatto omosessuale possa chiedere la tutela di specifiche situazioni per ottenere il trattamento omogeneo a quello assicurato alla coppia coniugata, sollevando le eccezioni di costituzionalità pertinenti. Dunque: un matrimonio validamente contratto all’estero in un ordinamento che acconsente a tale unione non può essere trascritto in Italia (34). Ciononostante agli “omosessuali” va riconosciuto il diritto alla vita familiare il cui presupposto in realtà nel nostro ordinamento è costituito proprio dal matrimonio. Le due affermazioni manifestano il tentativo di sintetizzare le opposte linee di pensiero, seppur si debba dare contezza, come autorevolmente sostenuto , “del positivo intento di contribuire … a sottrarre al divieto o all’irrilevanza un altro, non marginale fenomeno della realtà” (35) . Due conclusioni. La Commissione europea – a processo concluso – se informata del possibile attentato alla libertà di circolazione delle persone, potrebbe adire la Corte europea, sicchè tale via resterebbe aperta. Quanto all’azione avanti la Corte di Strasburgo, la Corte dovrebbe accoglierla perché il matrimonio omogenerico di diritto olandese è protetto dall’art. 12 Convenzione: non riconoscerlo in Italia per ragioni discriminatorie (art. 12) legate all’orientamento sessuale pone seri problemi; anche gli effetti sulla vita privata (32) G. FERRANDO, Diritti delle persone e comunità familiare nei recenti orientamenti della Corte Europea dei diritti dell’uomo in Famiglia, persone e successioni, 4/2012, p. 281 e ss. (33) G. FERRANDO, cit. (34) Una circolare del Ministero dell’Interno (n. 55 del 18 ottobre 2007) invitava gli ufficiali dello Stato Civile a rifiutare la trascrizione di matrimoni omogenerici celebrati all’estero, di cui una cittadina italiana, per contrarietà all’ordine pubblico. (35) P. RESCIGNO, Il matrimonio same sex al giudizio di tre Corti in Il Corriere giuridico 7/2012, 861-864. 176 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 (art. 8) che vedono invertire la posizione dei coniugi ricorrenti da titolari di un’unione di diritto (fiscali, previdenziali, etc.) a “pretendenti” la rimozione di essi tramite apposite azioni giurisdizionali seguite da rimessioni (eventuali e non scontate) alla Consulta pone comunque dei problemi al normale svolgimento della vita matrimoniale che interferiscono sulla vita privata. Corte di Cassazione, Sezione I civile, sentenza 15 marzo 2012 n. 4184. - Pres. Luccioli, Rel. Di Palma, PG (concl. conf.) Fucci - A e B (avv.ti Mariani e Bilotta) contro Sindaco di X e Ministero dell’Interno (avv. gen. Stato) nonché procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Roma. Diritti Umani - CEDU- Diritto alla vita familiare - Coppia omosessuale - Spettanza (Art. 8 Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali) Benché i componenti di una coppia omosessuale conviventi in stabile relazione di fatto non godano, salvo il futuro intervento del legislatore, del diritto a contrarre matrimonio o a trascrivere un matrimonio estero godono del diritto alla vita familiare in forza del quale possono esigere dal giudice ordinario nelle varie situazioni della vita un trattamento omogeneo a quello riconosciuto alla coppia coniugata. Matrimonio - Matrimonio celebrato all’estero - Matrimonio tra persone dello stesso sesso - Contrarietà all’ordine pubblico internazionale - Impossibilità - Inidoneità a produrre effetti Il matrimonio tra due cittadini italiani del medesimo sesso, contratto in un Paese il cui ordinamento lo contempli, non è contrario all’ordine pubblico internazionale, ma non può essere trascritto non già perché inesistente ma perchè inidoneo a produrre effetti nell’ordinamento italiano (art. 18 DPR 396/2000). Unione Europea - Carta dei diritti fondamentali - Matrimonio - Divieto di discriminazione - Inapplicabilità L’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea non si applica alla materia matrimoniale, rimessa ai singoli Stati (art. 12 Cedu e art. 9 Carta di Nizza). (...) MOTIVI DELLA DECISIONE 1. - Con il primo motivo (con cui deducono: “Sulla trascrivibilità del matrimonio tra persone dello stesso sesso contratto all'estero e sulla presunta contrarietà all'ordine pubblico internazionale di tale negozio matrimoniale. Violazione degli artt. 2, 3, 10, 11 Cost.; artt. 9, 21 Carta di Nizza; art. 18 D.P.R. 396/2000”), i ricorrenti criticano il decreto impugnato, sostenendo che: a) l'art. 18 del d.P.R. n. 396 del 2000 - secondo il quale “Gli atti formati all'estero non possono essere trascritti se sono contrari all'ordine pubblico” - deve essere interpretato nel senso che l''ordine pubblico' ivi menzionato, “trattandosi di norma di relazione con ordina- CONTENZIOSO NAZIONALE 177 menti estranei al nostro, deve intendersi come ordine pubblico internazionale e non interno”; b) ciò premesso, “occorre verificare: 1) se l'omosessualità sia un comportamento contrario all'ordine pubblico nel nostro Paese; 2) se sposarsi rientri tra i diritti fondamentali dell'individuo; 3) se dare pubblicità ad un atto negoziale come quello per cui è causa sia idoneo a stravolgere i valori fondamentali su cui si regge il nostro ordinamento”; c) quanto al primo quesito, si impone la risposta negativa sia perché altrimenti si determinerebbero effetti palesemente discriminatori in base all'orientamento sessuale, sia perché disposizioni comunitarie ed interne vietano esplicitamente discriminazioni fondate su tale orientamento; quanto al secondo quesito, si impone invece la risposta affermativa sia perché il diritto a contrarre matrimonio appartiene al novero dei diritti fondamentali, sia perché opinare diversamente comporterebbe negare il rispetto della dignità della persona e delle sue scelte di vita; quanto al terzo quesito, si impone nuovamente la risposta negativa sia in ragione del rilievo che “la clausola dell'ordine pubblico non ha uno scopo protezionistico, poiché al contrario consente di arricchire il nostro sistema con norme straniere, non confliggenti con i caratteri portanti dell'ordinamento del foro”, sia perché non esiste una espressa norma interna che vieti il matrimonio tra persone dello stesso sesso, sia infine perché esistono atti politici (Risoluzione del Parlamento Europeo dell'8 febbraio 1994, sulla parità dei diritti delle persone omosessuali; Risoluzione del Parlamento Europeo del 16 marzo 2000, sul rispetto dei diritti umani nell'Unione Europea) e norme dell'Unione Europea (Regolamento CE n. 2201/2003 del Consiglio del 27 novembre 2003, “relativo alla competenza, al riconoscimento e all'esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, che abroga il regolamento CE n. 1347/2000”, il cui art. 22, lettera a, introduce una nozione di ordine pubblico attenuato; art. 69-11 della Costituzione per l'Europa, che riproduce l'art. 9 della carta di Nizza, il quale riconosce il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia, senza fare alcun riferimento alla diversità di sesso tra i nubendi) che consentono, invece, di ritenere un matrimonio siffatto non collidente con l'ordine pubblico italiano e di evitare fenomeni di discriminazione; d) “Se il matrimonio omosessuale fosse contrario all'ordine pubblico, dovremmo revocare in dubbio la compatibilità del nostro ordinamento con quello comunitario, mentre giuridicamente si dovrebbe rendere ragione di come sia possibile al giorno d'oggi che il loro stare insieme sia ritenuto una minaccia per l'esistenza della società italiana”; e) il rifiuto di riconoscere la legittimità del matrimonio di persone dello stesso sesso collide con il principio di laicità dello Stato, che comporta il divieto di imporre regole tratte da una particolare morale di fonte religiosa. Con il secondo motivo (con cui deducono: “Sulla nozione di matrimonio e sugli effetti giuridici nel nostro ordinamento di un matrimonio tra persone dello stesso sesso. Violazione degli artt. 2, 3, 29 Cost.; art. 12 disp. prel.; 107, 108, 143, 143-bis, 143-ter, 156-bis cod. civ.; art. 28 L. n. 218/1995”), i ricorrenti criticano ancora il decreto impugnato - nella parte in cui afferma che è da considerare 'inesistente' il matrimonio tra persone dello stesso sesso - sostenendo che: a) di fronte ad un fenomeno sociale del tutto nuovo, è errato fare riferimento alla tradizione interpretativa e al suo carattere vincolante, nonostante l'assenza di una norma espressa che vieti il matrimonio tra persone dello stesso sesso; b) “Non applicare le norme dell'istituto matrimoniale ad una coppia gay e lesbica lede il principio fondamentale del nostro sistema di diritto privato del rispetto della persona umana e dei suoi diritti fondamentali (tra cui rientra senz'altro il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia). In secondo luogo, contrasta con il principio di non discriminazione, ricavabile a livello sistematico a partire dall'art. 3, 2 co. Cost. Viola, infine, il principio di libertà e di autodeterminazione sancito dall'art. 13 Cost., 178 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 in base al quale lo Stato non può interferire nelle scelte di vita dei cittadini”. Con il terzo motivo (con cui deducono: “Sul contrasto con la Costituzione e con i principi fondamentali dell'ordinamento comunitario di un'interpretazione delle norme italiane che escluda la possibilità per le persone dello stesso sesso di contrarre matrimonio. Violazione degli artt. 9 Carta di Nizza; artt. 8 e 14 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo; artt. 2, 3, 10, 2 co., Cost.; 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis cod. civ.”), i ricorrenti criticano infine il decreto impugnato, sostenendo che un'interpretazione della vigente disciplina che escluda le coppie omosessuali dal matrimonio collide con la Costituzione e con il diritto comunitario. In particolare - dopo aver premesso che l'impossibilità di procreazione non è causa di nullità del vincolo matrimoniale, bensì, soltanto in certi casi {impotentia coeundi), di annullabilità per errore essenziale - essi sottolineano che: a) “La scelta della Corte d'Appello di Roma di non interpretare evolutivamente le norme in materia di matrimonio crea [...] - a fronte di una situazione sul piano oggettivo (vita in comune) e soggettivo (reciproco affetto e scelta di condividere le proprie esistenze) assolutamente identica sia che si tratti di una coppia eterosessuale sia che si tratti di una coppia omosessuale una disparità di trattamento assolutamente irragionevole e ingiustificata alla luce dell'art. 3 Cost. Anzi, in spregio a questa norma, l'orientamento sessuale, condizione personale su cui non si può fondare alcun trattamento deteriore, è assunto dalla Corte territoriale a presupposto per un'evidente discriminazione”; b) una interpretazione dell'art. 29 Cost. - asistematica, restrittiva e storicamente cristallizzata -, sulla quale si fondasse la legittimità costituzionale del divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso, si porrebbe in contrasto con gli artt. 2 e 3 della Costituzione, nella parte in cui riconoscono e garantiscono ad ogni essere umano il diritto di costituire una famiglia, fondandola sul matrimonio, e il diritto di autodeterminazione del singolo; c) contrariamente a quanto ritenuto dai Giudici a quibus, l'art. 9 della Carta di Nizza ha una vera e propria efficacia precettiva, a séguito del suo inserimento nel trattato costituzionale per l'Europa. 2. - Il ricorso - i cui tre motivi illustrati con memoria possono essere esaminati congiuntamente, avuto riguardo alla loro stretta connessione - non merita accoglimento, anche se la motivazione in diritto del decreto impugnato deve essere corretta, ai sensi dell'art. 384, quarto comma, cod. proc. civ.. 2.1. - La fattispecie in esame è la seguente: in data 1 giugno 2002, A..G. e M..O. , cittadini italiani, hanno contratto matrimonio a L'Aja (Regno dei Paesi Bassi) e, in quanto residenti in Latina, hanno chiesto la trascrizione del relativo atto, formato all'estero, al locale ufficiale dello stato civile, ai sensi del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396. A séguito del rifiuto dell'ufficiale dello stato civile di trascrivere detto atto di matrimonio in forza di precise istruzioni impartite dal Ministero dell'interno (cfr., in particolare, le circolari nn. 2 del 26 marzo 2001 e 55 del 18 ottobre 2007} - ostandovi l'art. 18 dello stesso d.P.R. n. 396 del 2000 (secondo il quale “Gli atti formati all'estero non possono essere trascritti se sono contrari all'ordine pubblico”), per l'identità di sesso dei contraenti il matrimonio -, gli odierni ricorrenti hanno adito con esito negativo, ai sensi degli artt. 95 e 96 del medesimo d.P.R. n. 396 del 2000, prima il Tribunale ordinario di Latina e poi, in sede di reclamo, la Corte d'Appello di Roma, perché fosse accertata l'illegittimità del rifiuto di trascrizione opposto dall'ufficiale dello stato civile del Comune di Latina e, conseguentemente, ordinata la trascrizione del predetto atto di matrimonio. Pertanto, la specifica questione che - per la prima volta - è posta all'esame di questa Corte, consiste nello stabilire se due cittadini italiani dello stesso sesso, i quali abbiano contratto matrimonio all'estero - nella specie, nel Regno dei Paesi Bassi che, con la legge 21 dicembre 2000, n. 9, sull'apertura delle posizioni matrimoniali, ha tra l'altro sostituito l'art. 30, comma CONTENZIOSO NAZIONALE 179 1, del codice civile, il quale dispone che “Un matrimonio può essere celebrato tra due persone di sesso diverso o dello stesso sesso” -, siano, o no, titolari del diritto alla trascrizione del relativo atto nel corrispondente registro dello stato civile italiano. È di tutta evidenza che la risposta a tale specifico quesito dipende dalla soluzione della più generale questione - anch'essa nuova per questa Corte -se la Repubblica italiana riconosca e garantisca a persone dello stesso sesso, al pari di quelle di sesso diverso, il “diritto fondamentale di contrarre matrimonio, discendente dagli articoli 2 e 29 della Costituzione, ed espressamente enunciato nell'articolo 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 e nell'articolo 12 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali” (Corte costituzionale, sentenza n. 245 del 2011, che richiama la sentenza n. 445 del 2002). Infatti, ove la risposta a questo più generale quesito fosse affermativa, ne conseguirebbe che il matrimonio celebrato all'estero tra cittadini italiani dello stesso sesso, quale atto d'esercizio di tale fondamentale diritto, avrebbe immediata validità ed efficacia nel nostro ordinamento, alle condizioni che esso risultasse celebrato secondo le forme previste dalla legge straniera e, quindi, spiegasse effetti civili nell'ordinamento dello Stato della celebrazione, e che sussistessero gli altri requisiti sostanziali relativi allo stato ed alla capacità delle persone previsti dalla legge italiana; con l'ulteriore conseguenza che la trascrizione dell'atto di matrimonio nel corrispondente registro dello stato civile italiano, non avendo natura costitutiva ma meramente certificativa e di pubblicità di un atto già di per sé valido sulla base del principio locus regit actum, formerebbe oggetto di un vero e proprio diritto di ciascuno dei coniugi e costituirebbe, perciò, attività 'dovuta' dell'ufficiale dello stato civile richiesto. 2.2. - Tanto premesso, è opportuno muovere proprio dalla questione specifica dianzi enunciata (cfr., supra, n. 2.1.), relativamente alla quale le norme, di rango primario o sub-primario, rilevanti - ancorché in prima approssimazione, come si vedrà - sono: A) L'art. 115, cod. civ., secondo il quale “Il cittadino è soggetto alle disposizioni contenute nella sezione prima di questo capo, anche quando contrae matrimonio in paese straniero secondo le forme ivi stabilite”: è soggetto, cioè, alle disposizioni di cui ai precedenti articoli da 84 a 88, che disciplinano le “condizioni necessarie per contrarre matrimonio”, come recita la rubrica di detta sezione. Disposizioni queste che, stabilendo gli impedimenti al matrimonio cosiddetti 'dirimenti', pongono certamente, di regola, norme di 'ordine pubblico'. B) L'art. 27, primo periodo, della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), il quale dispone che “La capacità matrimoniale e le altre condizioni per contrarre matrimonio sono regolate dalla legge nazionale di ciascun nubendo al momento del matrimonio”; il successivo art. 28 della stessa legge n. 218 del 1995, secondo cui “Il matrimonio è valido, quanto alla forma, se è considerato tale dalla legge del luogo di celebrazione o dalla legge nazionale di almeno uno dei coniugi al momento della celebrazione o dalla legge dello Stato di comune residenza in tale momento”; l'art. 65 della medesima legge n. 218 del 1995, laddove, nel disciplinare l'efficacia di provvedimenti e di atti stranieri, dispone che “Hanno effetto in Italia i provvedimenti stranieri relativi [...] all'esistenza di rapporti di famiglia [...] quando essi sono stati pronunciati dalle autorità dello Stato la cui legge è richiamata dalle norme della presente legge o producono effetti nell'ordinamento di quello Stato [...], purché non siano contrari all'ordine pubblico [...]”. C) Alcune disposizioni del più volte menzionato d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell'articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), che è certamente qualificabile, sul piano 180 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 delle fonti, come regolamento cosiddetto di 'delegificazione'. Al riguardo, è opportuno sottolineare immediatamente che le relative disposizioni hanno, appunto, natura e valore regolamentare, sicché l'eventuale sindacato della loro legittimità può svolgersi secondo i principi più volte enunciati dalla Corte costituzionale. “Il pieno esplicarsi della garanzia della Costituzione nel sistema delle fonti, in particolare con riferimento a quelle di valore regolamentare adottate in sede di 'delegificazione', non è comunque pregiudicato dall'anzidetta limitazione della giurisdizione del giudice costituzionale. La garanzia è normalmente da ricercare, volta a volta, a seconda dei casi, o nella questione di costituzionalità sulla legge abilitante il Governo all'adozione del regolamento [nella specie, sull'art. 2, comma 12, della citata legge n. 127 del 1997], ove il vizio sia a essa riconducibile (per avere, in ipotesi, posto principi incostituzionali o per aver omesso di porre principi in materie che costituzionalmente li richiedono); o nel controllo di legittimità sul regolamento, nell'ambito dei poteri spettanti ai giudici ordinari o amministrativi, ove il vizio sia proprio ed esclusivo del regolamento stesso” (cfr. la sentenza n. 427 del 2000, n. 4. del Considerato in diritto; cfr. anche, per un'applicazione di tali principi, la sentenza n. 251 del 2001, n. 3. del Considerato in diritto]. Di dette disposizioni rilevano, in particolare: 1) l'art. 9 (che reca la rubrica: “Indirizzo e vigilanza”), comma 1, secondo cui “l’ufficiale dello stato civile è tenuto ad uniformarsi alle istruzioni che vengono impartite dal Ministero dell'interno” (nella specie, l'ufficiale dello stato civile, nel rifiutare la trascrizione per contrarietà dell'atto di matrimonio celebrato all'estero all'ordine pubblico ai sensi dell'art. 18 dello stesso decreto, si è appunto uniformato alle istruzioni generali previamente impartite dal Ministero dell'interno, dianzi citate); 2) l'art. 16, sul matrimonio celebrato all'estero, il quale stabilisce che “Il matrimonio all'estero, quando gli sposi sono entrambi cittadini italiani o uno di essi è cittadino italiano e l'altro è cittadino straniero, può essere celebrato innanzi all'autorità diplomatica o consolare competente, oppure innanzi all'autorità locale secondo le leggi del luogo. In quest'ultimo caso una copia dell'atto è rimessa a cura degli interessati all'autorità diplomatica o consolare”; 3) l'ora menzionato art. 18, sui casi di intrascrivibilità, il quale statuisce che “Gli atti formati all'estero non possono essere trascritti se sono contrari all'ordine pubblico”; 4) l'art. 63, comma 2, lettera c), per il quale “Nei medesimi archivi [di cui all'art. 10] l'ufficiale dello stato civile trascrive: [...] c) gli atti dei matrimoni celebrati all'estero”; 5) l'art. 64 (che reca la rubrica: “Contenuto dell'atto di matrimonio”), comma 1, lettere a), b), c) ed e), secondo cui “L'atto di matrimonio deve specificamente indicare: a) il nome e il cognome, il luogo e la data di nascita, la cittadinanza e la residenza degli sposi [...]; b) la data di eseguita pubblicazione [...]; c) il decreto di autorizzazione quando ricorra alcuno degli impedimenti di legge [...]; e) la dichiarazione degli sposi di volersi prendere rispettivamente in marito e moglie”. Dal complesso di tali disposizioni regolamentari emerge chiaramente che all'ufficiale dello stato civile competente - tenuto ad uniformarsi, si ribadisce, alle istruzioni impartite dal Ministero dell'interno in materia (art. 9, comma 1, cit.) - sono attribuiti penetranti poteri di controllo (anche) sulla trascrivibilità degli atti di matrimonio celebrati all'estero, come risulta inequivocabilmente, in particolare, dalle citate lettere del comma 1 dell'art. 64 che, imponendo precisi contenuti dell'atto di matrimonio trascrivibile, attestano l'esistenza di tali poteri e la astratta legittimità del loro esercizio: è fatto salvo infatti, conformemente ai su richiamati principi affermati dalla Corte costituzionale, il sindacato di costituzionalità sull'art. 2, comma 12, della menzionata legge n. 127 del 1997, abilitante il Governo all'adozione del regolamento, nonché il sindacato giurisdizionale di legittimità sia della norma regolamentare attributiva del CONTENZIOSO NAZIONALE 181 potere (che può essere 'disapplicata', ove ne sussistano i presupposti, ai sensi dell'art. 5 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, All. E), sia del concreto atto di esercizio di tale potere (nella specie, rifiuto di eseguire la trascrizione richiesta), ai sensi dell'art. 95, comma 1, dello stesso d.P.R. n. 396 del 2000. 2.2.1. - Questo essendo il quadro normativo di riferimento rilevante, sia pure in prima approssimazione, per la soluzione della questione specifica in esame, deve essere subito rammentato che la giurisprudenza di questa Corte in materia di matrimoni civili dei cittadini italiani celebrati all'estero è ferma nell'enunciare il già menzionati principio, secondo cui, in base alle norme del codice civile e del diritto internazionale privato, tali matrimoni hanno immediata validità e rilevanza nel nostro ordinamento, sempre che essi risultino celebrati secondo le forme previste dalla legge straniera (e, quindi, spieghino effetti civili nell'ordinamento dello Stato straniero di celebrazione) e sempre che sussistano i requisiti sostanziali relativi allo stato ed alla capacità delle persone previsti dalla legge italiana, e secondo cui tale principio non è condizionato dall'osservanza delle norme italiane relative alla pubblicazione, perché la loro violazione può dar luogo soltanto ad irregolarità suscettibili di essere sanzionate amministrativamente, ovvero alla trascrizione, perché questa ha natura non costitutiva ma meramente certificativa e funzione di pubblicità di un atto già di per sé valido sulla base del principio locus regit actum (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 10351 del 1998, 9578 del 1993, 3599 e 1304 del 1990). Nella specie pertanto, sulla base di tali principi, il matrimonio - ove fosse stato contratto da persone di sesso diverso - sarebbe, in assenza di (altri) impedimenti 'dirimenti', valido ed efficace nell'ordinamento italiano e comporterebbe il dovere dell'ufficiale dello stato civile richiesto di trascrivere nel corrispondente registro il relativo atto formato all'estero. 2.2.2. - Ma la diversità di sesso dei nubendi è - unitamente alla manifestazione di volontà matrimoniale dagli stessi espressa in presenza dell'ufficiale dello stato civile celebrante -, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, requisito minimo indispensabile per la stessa 'esistenza' del matrimonio civile come atto giuridicamente rilevante (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 1808 del 1976, 1304 del 1990 cit., 1739 del 1999, 7877 del 2000). Questo requisito - pur non previsto in modo espresso né dalla Costituzione, né dal codice civile vigente (a differenza di quello previgente del 1865 che, nell'art. 55 ad esempio, stabiliva, quanto al requisito dell'età: “Non possono contrarre matrimonio l'uomo prima che abbia compiuto gli anni diciotto, la donna prima che abbia compiuto gli anni quindici”), né dalle numerose leggi che, direttamente o indirettamente, si riferiscono all'istituto matrimoniale - sta tuttavia, quale 'postulato' implicito, a fondamento di tale istituto, come emerge inequivocabilmente da molteplici disposizioni di tali fonti e, in primo luogo, dall'art. 107, primo comma, cod. civ. che, nel disciplinare la forma della celebrazione del matrimonio, prevede tra l'altro che l'ufficiale dello stato civile celebrante “riceve da ciascuna delle parti personalmente, l'una dopo l'altra, la dichiarazione che esse si vogliono prendere rispettivamente in marito e in moglie” (si veda anche l'art. 108, primo comma). L'inequivocabile corrispondenza di tali parole “marito” e “moglie” - utilizzate dal legislatore in modo assolutamente prevalente rispetto ad altre espressioni di analogo significato -, rispettivamente, con la parte maschile e con la parte femminile dell'atto (e del rapporto} matrimoniale è attestato anche da numerose disposizioni del diritto vigente. In particolare ed a mero titolo esemplificativo, detta corrispondenza è del tutto evidente nel secondo e nel terzo comma dell'art. 5 della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nel testo sostituito dall'art. 9 della legge 6 marzo 1987, n. 74, i quali, in chiarissimo 182 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 riferimento all'art. 143-bis cod. civ. secondo cui “La moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito [...]” -, dispongono che, quando il tribunale pronuncia sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, “La donna perde il cognome che aveva aggiunto al proprio a séguito del matrimonio [secondo comma]”, e che lo stesso tribunale “può autorizzare la donna che ne faccia richiesta a conservare il cognome del marito aggiunto al proprio quando sussista un interesse suo o dei figli meritevole di tutela [terzo comma]”. Il diritto positivo vigente e la giurisprudenza che su di esso si è formata, del resto, non fanno che riflettere anche “una consolidata ed ultramillenaria nozione di matrimonio”, come sottolinea la Corte costituzionale che, nel richiamare tale icastica espressione del Tribunale di Venezia nell'ordinanza di rimessione, conclude sul punto: “In sostanza l'intera disciplina dell'istituto, contenuta nel codice civile e nella legislazione speciale, postula la diversità di sesso dei coniugi [corsivo aggiunto]” (cfr. la sentenza n. 138 del 2010, n. 6 del Considerato in diritto). Postulato non arbitrario, ma fondato su antichissime e condivise tradizioni - culturali (l''ordine naturale' esige la diversità di sesso dei nubendi), prima ancora che giuridiche - che il diritto, come in altri innumerevoli casi, nel rispecchiare, ordina. Al riguardo, tra i molti esempi possibili, può menzionarsi la definizione del matrimonio data dai giuristi romani classici (che designavano l'istituto con i termini di “iustae o legitimae nuptiae” o di “iustum o legitimum matrimonium”): “Iustum matrimonium est, si inter eos qui nuptias contrahunt conubium sit, et tam masculus pubes quam femina potens sit, et utrique consentiant, si sui iuris sunt, aut etiam parentes eorum, si in potestate sunt” (rituli ex corpore Ulpiani, 5, 2). Inoltre, non è senza significato che, a distanza di quasi due millenni, la stessa Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, approvata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, preveda che “Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione” (art. 16, paragrafo 1); analoga previsione è contenuta nell'art. 23, paragrafo 2, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato e aperto alla firma a New York il 19 dicembre 1966 e reso esecutivo con la legge 25 ottobre 1977, n. 881, secondo cui “Il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia è riconosciuto agli uomini e alle donne che abbiano l'età per contrarre matrimonio”). Tutto ciò, “benché la condizione omosessuale non fosse certo sconosciuta”, come nota la Corte costituzionale nella già menzionata sentenza n. 138 del 2010, a proposito del dibattito svoltosi nell'Assemblea costituente sul futuro art. 29 della Costituzione, concludendo sul punto che tale norma costituzionale “non prese in considerazione le unioni omosessuali, bensì intese riferirsi al matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto [corsivo aggiunto]” (Considerato in diritto, n. 9). Ed il richiamo a tale 'tradizione' è significativamente contenuto più volte anche nella sentenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo, di poco successiva a quella della Corte costituzionale (sentenza 24 giugno 2010, Prima Sezione, caso Schalk e Kopf contro Austria) e profondamente innovativa in materia, che verrà analizzata più oltre (cfr., infra, n. 3.3.3.) L'ordinamento giuridico italiano, perciò, ha conosciuto finora, e conosce attualmente - salvo quanto si dirà più oltre (cfr., infra, nn. 3 e 4) -, un'unica fattispecie integrante il matrimonio come atto: il consenso che, nelle forme stabilite per la celebrazione del matrimonio, due persone di sesso diverso si scambiano, dichiarando che “si vogliono prendere rispettivamente in marito e in moglie” (art. 107, primo comma, cod. civ., cit.). La diversità di sesso dei nubendi CONTENZIOSO NAZIONALE 183 è, dunque, richiesta dalla legge per la stessa identificabilità giuridica dell'atto di matrimonio. Proprio di qui la conseguenza, condivisa dalla giurisprudenza di questa Corte e dalla prevalente dottrina, che l'atto mancante di questo requisito comporta la qualificazione di tale atto secondo la categoria non della sua validità, ma della sua stessa esistenza. Categoria, questa dell'inesistenza (la cui prima elaborazione risale ai canonisti medioevali, i quali consideravano appunto inesistente il matrimonio contratto da persone dello stesso sesso, perché, pur in assenza di una norma positiva, contrario al concetto 'naturale' del matrimonio), che consente, sul piano pratico, di impedire il dispiegamento di qualsiasi effetto giuridico dell'atto di matrimonio, sia pure meramente interinale, a differenza dell'atto di matrimonio nullo che, invece, tali effetti può, quantomeno interinalmente, produrre (cfr. artt. da 117 a 129 cod. civ.). Categorizzazione, inoltre, del tutto coerente con la premessa che l'atto di matrimonio tra persone dello stesso sesso, mancando di un requisito indispensabile per la sua stessa identificabilità come tale secondo la fattispecie astratta normativamente prefigurata, non è previsto dall'ordinamento e quindi, in questo senso, 'non esiste'. 2.2.3. - Pertanto - sul piano delle norme, di rango primario o sub-primario, applicabili alla fattispecie in prima approssimazione -, alla specifica questione, consistente nello stabilire se due cittadini italiani dello stesso sesso, i quali abbiano contratto matrimonio all'estero, siano, o no, titolari del diritto alla trascrizione del relativo atto nel corrispondente registro dello stato civile italiano, deve darsi, in conformità con i su menzionati precedenti di questa Corte, risposta negativa. Al riguardo, deve essere infine precisato che, nella specie, l'intrascrivibilità di tale atto dipende non già dalla sua contrarietà all'ordine pubblico, ai sensi dell'art. 18 del d.P.R. n. 396 del 2000 - come, invece, originariamente affermato dall'ufficiale dello stato civile di Latina a giustificazione del rifiuto di trascrizione, in conformità con le menzionate circolari emanate dal Ministero dell'interno, ma dalla previa e più radicale ragione, riscontrabile anche dall'ufficiale dello stato civile in forza delle attribuzioni conferitegli (cfr., supra, n. 2.2), della sua non riconoscibilità come atto di matrimonio nell'ordinamento giuridico italiano. Ciò che, conseguentemente, esime il Collegio dall'affrontare la diversa e delicata questione dell'eventuale intrascrivibilità di questo genere di atti per la loro contrarietà con l'ordine pubblico. 3. - Ma, già da tempo ed attualmente, la realtà sociale e giuridica Europea ed extraeuropea mostra, sul piano sociale, il diffuso fenomeno di persone dello stesso sesso stabilmente conviventi e, sul piano giuridico, sia il riconoscimento a tali persone, da parte di alcuni Paesi Europei (anche membri dell'Unione Europea, come nella specie) ed extraeuropei, del diritto al matrimonio, ovvero del più limitato diritto alla formalizzazione giuridica di tali stabili convivenze e di alcuni diritti a queste connessi, sia - come si vedrà più oltre in dettaglio (cfr., infra, nn. 3.3.1. e seguenti) - un'interpretazione profondamente 'evolutiva' dell'art. 12 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e dell'art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea. Una realtà siffatta esige, quindi, che la specifica questione dianzi esaminata sia considerata nel contesto di quella più generale (cfr., supra, n. 2.1.) consistente nello stabilire se il diritto fondamentale di contrarre matrimonio sia riconosciuto a due persone dello stesso sesso dalla Costituzione italiana e/o se esso discenda immediatamente dai vincoli derivanti allo Stato italiano dall'ordinamento comunitario o dagli obblighi internazionali, in forza dell'art. 117, primo comma, Cost., secondo il quale “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. 184 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 3.1. - Il Collegio ritiene che il diritto fondamentale di contrarre matrimonio non è riconosciuto dalla nostra Costituzione a due persone dello stesso sesso. Al riguardo, com'è noto, la Corte costituzionale - chiamata a decidere, in riferimento agli articoli 2, 3, 29 e 117, primo comma, Cost., la questione di legittimità costituzionale degli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143 bis, 156 bis cod. civ., “nella parte in cui, sistematicamente interpretati, non consentono che le persone di orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso” (questione sollevata in una fattispecie - analoga a quella in esame - di opposizione, ai sensi dell'art. 98 cod. civ., avverso l'atto con il quale l'ufficiale dello stato civile aveva rifiutato di procedere alla pubblicazione di matrimonio richiesta da due persone dello stesso sesso) -, con la più volte menzionata sentenza n. 138 del 2010, ha dichiarato detta questione non fondata, in riferimento agli artt. 3 e 29 Cost., ed inammissibile, in riferimento agli artt. 2 e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 12 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea (cfr. anche le successive ordinanze, di manifesta inammissibilità e di manifesta infondatezza di analoghe questioni, nn. 276 del 2010 e 4 del 2011). In particolare ed in estrema sintesi: 1) la questione sollevata in riferimento agli artt. 3 e 29 Cost., è stata dichiarata non fondata, sia perché l'art. 29 Cost. si riferisce alla nozione di matrimonio definita dal codice civile come unione tra persone di sesso diverso, e questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica “creativa”, sia perché, in specifico riferimento all'art. 3, primo comma, Cost., le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee rispetto al matrimonio; 2) la questione sollevata in riferimento all'art. 2 Cost. è stata dichiarata inammissibile, perché diretta ad ottenere una pronunzia additiva non costituzionalmente obbligata; 3) la medesima questione - sollevata in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., in relazione alle specifiche norme 'interposte', di cui ai già citati artt. 12 della CEDU e 9 della cosiddetta 'Carta di Nizza' - è stata dichiarata del pari inammissibile, perché tali norme interposte, “con il rinvio alle leggi nazionali, [...] conferma[no] che la materia è affidata alla discrezionalità del Parlamento”. Benché si tratti di pronuncia di inammissibilità e di non fondatezza della questione sollevata, perciò priva di efficacia vincolante erga omnes, il Collegio ritiene che non siano individuabili parametri costituzionali o ragioni, diversi da quelli già scrutinati dal Giudice delle leggi, tali da giustificare una nuova rimessione alla Corte costituzionale, tenuto anche conto che, come dianzi rilevato, successivamente alla sentenza n. 138 del 2010 sono state già pronunciate due ordinanze di manifesta infondatezza e di manifesta inammissibilità di questioni analoghe. Al riguardo, non è certamente decisiva in senso contrario l'argomentazione dei ricorrenti, secondo la quale la Corte, mutuando la nozione costituzionale di matrimonio di cui all'art. 29 Cost. dal codice civile, avrebbe arbitrariamente invertito l'ordine e l'oggetto del giudizio di costituzionalità stabilito dalla Costituzione (art. 134): da quello della 'legittimità costituzionale' della legge (e degli atti aventi forza di legge) a quello, per così dire, della 'legittimità della Costituzione'. In primo luogo, infatti, la Corte - nell'affermare che “I costituenti, elaborando l'art. 29 Cost., discussero di un istituto che aveva una precisa conformazione ed un'articolata disciplina nell'ordinamento civile”, sicché, “in assenza di diversi riferimenti, è inevitabile concludere che essi tennero presente la nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942 che [...] stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso” - ha inteso sottolineare con nettezza: per un verso, che il concetto di matrimonio è CONTENZIOSO NAZIONALE 185 stato 'costituzionalizzato' dall'art. 29 nel significato codicistico e che, tuttavia, esso ed anche il concetto di famiglia “non si possono ritenere cristallizzati con riferimento all'epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei principi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell'ordinamento, ma anche dell'evoluzione della società e dei costumi”; ma, per altro verso, che tale interpretazione 'evolutiva' “non può spingersi fino al punto d'incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata”, sicché “Questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica, perché non si tratterebbe di una semplice rilettura del sistema o di abbandonare una mera prassi interpretativa, bensì di procedere ad un'interpretazione creativa” (n. 9. del Considerato in diritto). In secondo luogo, e più in generale, la predetta argomentazione difensiva, per così dire, 'prova troppo', perché la Costituzione, non essendo stata ovviamente concepita e formulata in un 'vuoto normativo', richiama innumerevoli volte concetti, nozioni ed istituti che, elaborati nelle varie branche del diritto, acquistano, con il recepimento nel testo costituzionale, significati nuovi e diversi e, soprattutto, natura, valore e forza propri delle norme costituzionali e, quindi, l'idoneità a costituire parametri del controllo di costituzionalità (si pensi, a mero titolo esemplificativo, all'art. 22 Cost., secondo il quale “Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome [corsivi aggiunti]”, dove tali termini giuridici sono stati appunto mutuati dal codice civile e dalla legge ordinaria sulla cittadinanza n. 555 del 1912, allora vigente). 3.2. - Tuttavia, proprio alcune nuove ed importanti affermazioni, contenute nella stessa sentenza n. 138 del 2010 e relative allo scrutinio della questione sollevata in riferimento all'art. 2 Cost., potrebbero far sorgere il dubbio che il diritto al matrimonio tra persone dello stesso sesso possa derivare immediatamente da tale 'principio fondamentale' della Costituzione. Come sarà subito chiaro, neppure da queste affermazioni può dedursi che esse comportino, secondo la Corte, il riconoscimento costituzionale di tale diritto. La Corte - dopo aver precisato che per 'formazione sociale', di cui all'art. 2 Cost., “deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico” - ha affermato: “In tale nozione è da annoverare anche l'unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone - nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge - il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri. Si deve escludere, tuttavia, che l'aspirazione a tale riconoscimento – che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia - possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio. È sufficiente l'esame, anche non esaustivo, delle legislazioni dei Paesi che finora hanno riconosciuto le unioni suddette per verificare la diversità delle scelte operate. Ne deriva, dunque, che, nell'ambito applicativo dell'art. 2 Cost., spetta al Parlamento, nell'esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette, restando riservata alla Corte costituzionale la possibilità d'intervenire a tutela di specifiche situazioni (come è avvenuto per le convivenze more uxorio: sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988). Può accadere, infatti, che, in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo 186 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 di ragionevolezza” (n. 8. del Considerato in diritto). Con tali espressioni, la Corte ha in definitiva affermato: a) per la prima volta, che nelle “formazioni sociali” di cui all'art. 2 Cost. deve comprendersi anche “l'unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso”, con la conseguenza che le singole persone componenti tale formazione sociale sono titolari del “diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia”, diritto fondamentale che, derivante immediatamente dall'art. 2, discende anche dall'art. 3, primo comma, Cost., laddove questo assicura la “pari dignità sociale” di tutti (i cittadini) e la loro uguaglianza davanti alla legge, “senza distinzione di sesso”, e quindi vieta qualsiasi atteggiamento o comportamento omofobo e qualsiasi discriminazione fondata sull'identità o sull'orientamento omosessuale; b) che, fermo il riconoscimento e la garanzia di tale diritto 'inviolabile', qualsiasi formalizzazione giuridica della unione omosessuale “necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia”, con la conseguenza che, “nell'ambito applicativo dell'art. 2 Cost., spetta al Parlamento, nell'esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette”; c) che deve essere escluso che l'aspirazione a tale riconoscimento giuridico “possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio”; d) che deve, comunque, ritenersi 'riservata' a se stessa “la possibilità d'intervenire a tutela di specifiche situazioni (come è avvenuto per le convivenze more uxorio: sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988)”, potendo accadere che, “in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza”. L'attenta analisi di queste nuove ed importanti affermazioni - di cui il giudice comune deve comunque tener conto nella risoluzione dei casi volta a volta sottopostigli - consente di sottolineare, per quanto in questa sede interessa: da un lato, che l'art. 2 della Costituzione non riconosce il diritto al matrimonio delle persone dello stesso sesso e neppure vincola il legislatore a garantire tale diritto quale forma esclusiva del riconoscimento giuridico dell'unione omosessuale, vale a dire ad 'equiparare' le unioni omosessuali al matrimonio; per altro verso, che il “diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia”, derivante invece immediatamente dall'art. 2 Cost., comporta che i singoli (o entrambi i) componenti della “coppia omosessuale” hanno il diritto di chiedere, “a tutela di specifiche situazioni” e “in relazione ad ipotesi particolari”, un “trattamento omogeneo” a quello assicurato dalla legge alla “coppia coniugata”, omogeneizzazione di trattamento giuridico che la Corte costituzionale “può garantire con il controllo di ragionevolezza”. A quest'ultimo riguardo, la Corte richiama esplicitamente due specifici precedenti: 1) con la sentenza n. 404 del 1988, è stata dichiarata “la illegittimità costituzionale dell'art. 6, primo comma, della legge 27 luglio 1978, n. 392 (Disciplina delle locazioni di immobili urbani}, nella parte in cui non prevede tra i successibili nella titolarità del contratto di locazione, in caso di morte del conduttore, il convivente more uxorio”, nonché la illegittimità costituzionale dell'art. 6, terzo comma, della medesima legge n. 392 del 1978, “nella parte in cui non prevede che il coniuge separato di fatto succeda al conduttore, se tra i due si sia così convenuto”, per violazione del principio di ragionevolezza (art. 3, primo comma, Cost.); 2) con la sentenza n. 559 del 1989, è stata dichiarata “la illegittimità costituzionale dell'art. 18, primo e secondo comma, della legge della Regione Piemonte 10 dicembre 1984, n. 64 (Disciplina delle assegnazioni degli alloggi di edilizia residenziale pubblica ai sensi dell'art. 2, comma secondo, CONTENZIOSO NAZIONALE 187 della legge 5 agosto 1978, n. 457, in attuazione della deliberazione CIPE pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 348 in data 19 dicembre 1981), nella parte in cui non prevede la cessazione della stabile convivenza come causa di successione nella assegnazione ovvero come presupposto della voltura della convenzione a favore del convivente affidatario della prole”, per violazione dell'art. 2 Cost. (“Questa Corte ha già altra volta riconosciuto indubbiamente doveroso da parte della collettività intera impedire che delle persone possano rimanere prive di abitazione, e ha individuato in tale dovere, cui corrisponde il diritto sociale all'abitazione, collocabile tra i diritti inviolabili dell'uomo di cui all'art. 2 della Costituzione, un connotato della forma costituzionale di Stato sociale: cfr. sentenze n. 404 del 1988 e n. 49 del 1987”: n. 3. del Considerato in diritto). È certo, pertanto, che la Corte costituzionale ha escluso che il diritto fondamentale di contrarre matrimonio sia riconosciuto dall'art. 2 della nostra Costituzione a due persone dello stesso sesso, anche se alcune delle su riportate affermazioni, considerate unitamente al richiamo di specifici precedenti, comportano - come si vedrà più oltre (cfr., infra, n. 4.2.) - rilevanti conseguenze sul piano della tutela giurisdizionale dell'unione omosessuale. 3.3. - Con la già menzionata sentenza 24 giugno 2010 (Prima Sezione, caso Schalk e Kopf contro Austria), di poco successiva a quella della Corte costituzionale dianzi richiamata, la Corte Europea dei diritti dell'uomo ha affrontato - per la prima volta - la questione se due persone dello stesso sesso “possono affermare di avere il diritto di contrarre matrimonio” (p.50). 3.3.1. - Al riguardo - per la migliore comprensione del successivo discorso -, è indispensabile premettere il quadro normativo di riferimento e le connesse questioni concernenti l'efficacia delle menzionate norme, convenzionale e comunitaria, nell'ordinamento italiano. A) L'art. 12 (che reca la rubrica: “Diritto al matrimonio”) della CEDU, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva dalla legge 4 agosto 1955, n. 848, stabilisce: “Uomini e donne in età adatta hanno diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali regolanti l'esercizio di tale diritto”. A sua volta, l'art. 14 della stessa Convenzione (che reca la rubrica: “Divieto di discriminazione”) dispone, tra l'altro, che “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza distinzione di alcuna specie, come di sesso [...]” e va letto, con riferimento alla fattispecie, in relazione al precedente art. 8 (che reca la rubrica: “Diritto al rispetto della vita privata e familiare”), laddove (paragrafo 1) statuisce che “Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare”. B) L'art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea (cosiddetta 'Carta di Nizza', ivi proclamata il 7 dicembre 2000, e nuovamente proclamata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, in vista della firma del Trattato di Lisbona) stabilisce: “Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano 1’esercizio”. Tale articolo - come pure i su menzionati articoli della Convenzione Europea - debbono essere interpretati in relazione con: 1) l'art. 6 del Trattato sull'Unione Europea (TUE) - come modificato dal Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, reso esecutivo con la legge 2 agosto 2008, n. 130 (Ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull'Unione Europea e il Trattato che istituisce la Comunità Europea e alcuni atti connessi, con atto finale, protocolli e dichiarazioni, fatto a Lisbona il 13 dicembre 2007), ed entrato in vigore il 1 dicembre 2009 -, il quale stabilisce: “L'Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, 188 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 che ha lo stesso valore giuridico dei trattati [paragrafo 1, primo comma]. Le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell'Unione definite nei trattati [secondo comma]. I diritti, le libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del titolo VII della Carta che disciplinano la sua interpretazione e applicazione e tenendo in debito conto le spiegazioni cui si fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni [terzo comma]. L'Unione aderisce alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell'Unione definite nei trattati [paragrafo 2]. I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali [paragrafo 3]”; 2) l'art. 51 della Carta (che reca la rubrica “Ambito di applicazione” ed è compreso nel Titolo VII, concernente “Disposizioni generali che disciplinano l'interpretazione e l'applicazione della Carta” e richiamato dal su menzionato art. 6, paragrafo 1, terzo comma, TUE) statuisce: “Le disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell'Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell'Unione. Pertanto i suddetti soggetti rispettano i diritti, osservano i principi e ne promuovono l'applicazione secondo le rispettive competenze e nel rispetto dei limiti delle competenze conferite all'Unione nei trattati [paragrafo 1]. La presente Carta non estende l'ambito di applicazione del diritto dell'Unione al di là delle competenze dell'Unione, né introduce competenze nuove o compiti nuovi per l'Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti nei trattati [paragrafo 2]”; 3) l'art. 52, paragrafo 3, della stessa Carta (che reca la rubrica “Portata e interpretazione dei diritti e dei principi” ed è parimenti compreso nel Titolo VII) dispone: “Laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell'Unione conceda una protezione più estesa”. 3.3.2. - Dev'essere a questo punto ancora chiarito, in riferimento alla preliminare questione se l'art. 9 della Carta sia immediatamente applicabile nella specie, che la specifica fattispecie oggetto del presente giudizio - concernente la trascrivibilità, o no, nei registri dello stato civile italiano di un atto di matrimonio di cittadini italiani dello stesso sesso celebrato all'estero - è del tutto estranea alle materie attribuite alla competenza dell'Unione Europea ed inoltre è priva di qualsiasi legame, anche indiretto, con il diritto dell'Unione. Tale chiarimento si rende necessario perché i ricorrenti, con la memoria di cui all'art. 378 cod. proc. civ., hanno formulato la richiesta di “valutare la sussistenza dei presupposti per il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione Europea, affinché [...] chiarisca quale sia l'interpretazione più corretta da dare al disposto combinato degli artt. 9, 21, 51, 52, 53, 54 della Carta di Nizza, in considerazione del riflesso di tale interpretazione sul diritto di libertà di circolazione dei cittadini Europei nell'ambito del territorio dell'Unione”. Il senso di tale richiesta si basa sulla non del tutto esplicitata considerazione che due cittadini dello stesso sesso di uno degli Stati membri dell'Unione, i quali abbiano contratto matrimonio in uno di tali Stati che riconosca un matrimonio siffatto, non potrebbero stabilirsi, con il medesimo status di coniugi, in altro Stato membro che non riconosca invece il matrimonio omosessuale, con conseguente lesione della loro libertà di circolazione e di soggiorno nel territorio degli Stati membri, garantita dall'art. 21, paragrafo 1 (ex art. 18, paragrafo 1, del TCE), del CONTENZIOSO NAZIONALE 189 Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea (TFUE), come avvenuto nella specie. Al riguardo, deve sottolinearsi che la Corte costituzionale, proprio sulla base di un'articolata interpretazione dei su riportati artt. 6, paragrafo 1, secondo comma, del TUE e dell'art. 51 della Carta -nonché del costante orientamento seguito dalla Corte di giustizia dell'Unione Europea sia anteriore che successivo all'entrata in vigore del Trattato di Lisbona (cfr., ex plurimis, la sentenza 29 maggio 1997, nella causa C-299/95, Kremzow; l'ordinanza 6 ottobre 2005, nella causa C-328/04, Attila Vajnai; la sentenza 5 ottobre 2010, nella causa C-400/10, Me B, L. E., nonché la più recente sentenza 15 novembre 2011, nella causa C-256/11, Dereci) - ha affermato il seguente principio: “Presupposto di applicabilità della Carta di Nizza è [...] che la fattispecie sottoposta all'esame del giudice sia disciplinata dal diritto Europeo - in quanto inerente ad atti dell'Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell'Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell'Unione - e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto”; con la conseguenza che tale principio esclude “che la Carta costituisca uno strumento di tutela dei diritti fondamentali oltre le competenze dell'Unione Europea” (n. 5.5. del Considerato in diritto; per un'applicazione esplicita di tale principio, cfr. la sentenza di questa Corte n. 22751 del 2010). Alla luce di tali consolidati principi, è del tutto evidente, perciò, che la su specificata fattispecie, oggetto del presente giudizio, risulta del tutto estranea alle materie attribuite alla competenza dell'Unione Europea, ed inoltre priva di qualsiasi legame, anche indiretto, con il diritto dell'Unione. Decisivo al riguardo è il rilievo che lo stesso art. 9 della Carta, nel riconoscere il “diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia”, riserva tuttavia ai singoli Stati membri dell'Unione il compito di garantirli nei rispettivi ordinamenti “secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l'esercizio”, in tal modo esplicitamente chiarendo che la disciplina generale concernente la garanzia di tali diritti è 'materia' attribuita alla competenza di ciascuno degli stessi Stati membri. Deve in ogni caso aggiungersi che, secondo la Corte di giustizia dell'Unione Europea, “Il diritto alla libera circolazione comprende sia il diritto per i cittadini dell'Unione Europea di entrare in uno Stato membro diverso da quello di cui sono originari, sia il diritto di lasciare quest'ultimo” (cfr. la sentenza 17 novembre 2011, nella causa C-434/10, Aladzhov), sicché appare chiaro che l'impedimento denunciato dai ricorrenti è di mero fatto, non implicando alcuna lesione della loro libertà di circolazione e di soggiorno (gli stessi ricorrenti hanno contratto matrimonio nel Regno dei Paesi Bassi e si sono poi stabiliti in Italia nel Comune di Latina) e dipendendo inoltre, si ribadisce, dalla attribuzione a ciascuno Stato membro dell'Unione della libera scelta di garantire o no il diritto al matrimonio omosessuale. 3.3.3. - La Corte Europea dei diritti dell'uomo, con la richiamata sentenza 24 giugno 2010 (Prima Sezione, caso Schalk e Kopf contro Austria), pronunciata in un caso del tutto analogo a quello in esame - due cittadini austriaci di sesso maschile avevano chiesto all'ufficio dello stato civile di adempiere le formalità richieste per contrarre matrimonio e, a fronte della reiezione della richiesta, avevano dedotto di essere stati discriminati, in violazione degli artt. 12 e 14, in relazione all'art. 8, della Convenzione, in quanto, essendo una coppia omosessuale, era stata loro negata la possibilità di contrarre matrimonio o di far riconoscere la loro relazione dalla legge in altro modo -, ha ritenuto tra l'altro, all'unanimità, che non vi è stata violazione dell'art. 12 e, a maggioranza, che non vi è stata violazione dell'art. 14, in relazione all'art. 8, della Convenzione. 190 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 Nonostante tale dispositivo di rigetto delle richieste dei ricorrenti, la sentenza contiene importanti novità sull'interpretazione sia dell'art. 12 sia dell'art. 14 della Convenzione. A proposito dell'interpretazione dell'art. 12 della CEDU, operata dalla Corte Europea in 'combinato disposto' con l'art. 9 della Carta (cfr., supra, n. 3.3.1.), è opportuno richiamare le “spiegazioni” della stessa Carta - di cui al quinto capoverso del Preambolo ed al paragrafo 7 dell'art. 52 della stessa Carta (“[...] la Carta sarà interpretata dai giudici dell'Unione e degli Stati membri tenendo in debito conto le spiegazioni elaborate sotto l'autorità del Praesidium della Convenzione che ha redatto la Carta e aggiornate sotto la responsabilità del Praesidium della Convenzione Europea”), nonché del su riportato art. 6, paragrafo 1, terzo comma, del TUE (“I diritti, le libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del titolo VII della Carta che disciplinano la sua interpretazione e applicazione e tenendo in debito conto le spiegazioni cui si fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni”) -, in quanto esse, “pur non avendo status di legge, rappresentano un indubbio strumento di interpretazione” (così, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 138 del 2010, n. 10 del Considerato in diritto). Orbene, nelle “spiegazioni” all'art. 52, paragrafo 3, è detto: “Il paragrafo 3 [dell'art. 52] intende assicurare la necessaria coerenza tra la Carta e la Convenzione Europea dei diritti dell'uomo affermando la regola secondo cui, qualora i diritti della presente Carta corrispondano ai diritti garantiti anche dalla CEDU, il loro significato e la loro portata, comprese le limitazioni ammesse, sono identici a quelli della CEDU. [...] Il riferimento alla CEDU riguarda sia la Convenzione che i relativi protocolli. Il significato e la portata dei diritti garantiti sono determinati non solo dal testo di tali strumenti, ma anche dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo e della Corte di giustizia dell'Unione Europea. L'ultima frase del paragrafo è intesa a consentire all'Unione di garantire una protezione più ampia. La protezione accordata dalla Carta non può comunque in nessun caso situarsi ad un livello inferiore a quello garantito dalla CEDU. [...] In appresso è riportato l'elenco dei diritti che, in questa fase e senza che ciò escluda l'evoluzione del diritto, della legislazione e dei Trattati, possono essere considerati corrispondenti a quelli della CEDU ai sensi del presente paragrafo. [...] 2. Articoli della Carta che hanno significato identico agli articoli corrispondenti della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo ma la cui portata è più ampia: - l'articolo 9 copre la sfera dell'art. 12 della CEDU, ma il suo campo d'applicazione può essere esteso ad altre forme di matrimonio eventualmente istituite dalla legislazione nazionale [...]” (corsivi aggiunti). Inoltre, nella stesse “spiegazioni”, concernenti specificamente l'art. 9, è detto: “Questo articolo si basa sull'articolo 12 della CEDU [...]. La formulazione di questo diritto è stata aggiornata al fine di disciplinare i casi in cui le legislazioni nazionali riconoscono modi diversi dal matrimonio per costituire una famiglia. L'articolo non vieta né impone la concessione dello status matrimoniale a unioni tra persone dello stesso sesso. Questo diritto è pertanto simile a quello previsto dalla CEDU, ma la sua portata può essere più estesa qualora la legislazione nazionale lo preveda [corsivo aggiunto]”. Tali spiegazioni, nell'attestare la strettissima correlazione tra la Convenzione e la Carta normativamente sancita dall'art. 52, paragrafo 3, della Carta, che “ha lo stesso valore giuridico dei trattati”, ai sensi dell'art. 6, paragrafo 1, primo comma, del TUE -, danno conto a sufficienza delle ragioni per le quali la Corte Europea ha interpretato l'art. 12 della Convenzione in 'combinato disposto' con l'art. 9 della Carta, il quale “copre la sfera dell'art. 12 della CEDU, ma il suo campo d'applicazione può essere esteso ad altre forme di matrimonio eventualmente istituite dalla legislazione nazionale”. CONTENZIOSO NAZIONALE 191 Tanto premesso, la Corte Europea, in particolare: a) quanto all'interpretazione dell'art. 12 (cfr., supra, n. 3.3.1., lettera A) - dopo aver rammentato la propria consolidata giurisprudenza, secondo cui “l'articolo 12 garantisce il diritto fondamentale di un uomo e di una donna di contrarre matrimonio e di fondare una famiglia. L'esercizio di questo diritto da origine a conseguenze personali, sociali e giuridiche. Esso è soggetto alle leggi nazionali degli Stati Contraenti, ma le limitazioni introdotte in merito non devono limitare o ridurre il diritto in modo o in misura tale da minare l'essenza stessa del diritto [...]” -, ha affermato, tra l'altro, che: 1) “[...] esaminata isolatamente, la formulazione dell'articolo 12 [Uomini e donne] potrebbe essere interpretata in modo da non escludere il matrimonio tra due uomini o tra due donne. Tuttavia, in antitesi, tutti gli altri articoli sostanziali della Convenzione concedono diritti e libertà a tutti o dichiarano che nessuno deve essere sottoposto a certi tipi di trattamento proibito. La scelta della formulazione dell'articolo 12 deve pertanto essere considerata intenzionale. Inoltre, si deve tenere conto del contesto storico in cui è stata adottata la Convenzione. Nel 1950 il matrimonio era inteso chiaramente nel senso tradizionale di unione tra partner di sesso diverso” (p.55); 2) “[...] l'incapacità per una coppia di concepire o di procreare un figlio non inibisce di per sé il diritto di contrarre matrimonio [...]. Tuttavia, tale decisione non permette alcuna conclusione sulla questione del matrimonio omosessuale” (p.56); 3) “Secondo la tesi dei ricorrenti si deve leggere attualmente l'articolo 12 come concedente alle coppie omosessuali l'accesso al matrimonio o, in altre parole, come facente obbligo agli Stati Membri di prevedere tale accesso nelle loro legislazioni nazionali. [...] La Corte non è persuasa della tesi dei ricorrenti. Tuttavia, come essa ha osservato nel ricorso di Christine Goodwin, l'istituto del matrimonio ha subito importanti cambiamenti sociali dall'adozione della Convenzione [...] La Corte osserva che non vi è un consenso generale Europeo in materia di matrimonio omosessuale. Attualmente non più di sei Stati aderenti alla Convenzione su quarantasette permettono il matrimonio omosessuale” (p. 57 e 58); 4) “Passando alla comparazione tra l'articolo 12 della Convenzione e l’articolo 9 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea (la Carta), la Corte ha già osservato che quest'ultima ha volutamente evitato il riferimento agli uomini e alle donne [...]. Il Commentario alla Carta, che è divenuto giuridicamente vincolante nel dicembre 2009, conferma che l’articolo 9 intende avere un campo di applicazione più ampio dei corrispondenti articoli di altri strumenti relativi ai diritti umani [...]. Allo stesso tempo il riferimento alla legislazione nazionale riflette la diversità dei regolamenti nazionali, che spaziano dal permesso dei matrimoni omosessuali al loro esplicito divieto. Facendo riferimento alla legislazione nazionale, l’articolo 9 della Carta lascia decidere agli Stati se permettere o meno i matrimoni omosessuali. Nelle arole del commentario: ... si può sostenere che non vi è ostacolo al riconoscimento delle relazioni omosessuali nel contesto del matrimonio. Tuttavia non vi è alcuna disposizione esplicita che prevede che le legislazioni nazionali debbano facilitare tali matrimoni [corsivo aggiunto]” (p. 60); 5) “Visto l'articolo 9 della Carta, pertanto, la Corte non ritiene più che il diritto al matrimonio di cui all'articolo 12 debba essere limitato in tutti i casi al matrimonio tra persone di sesso opposto. Conseguentemente non si può affermare che l'articolo 12 sia inapplicabile alla doglianza dei ricorrenti. Tuttavia, per come stanno le cose, si lascia decidere alla legislazione nazionale dello Stato contraente se permettere o meno il matrimonio omosessuale [corsivo aggiunto]” (p. 61); 192 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 6) “A tale riguardo la Corte osserva che il matrimonio ha connotazioni sociali e culturali radicate che possono differire molto da una società all'altra. La Corte ribadisce di non doversi spingere a sostituire l'opinione delle autorità nazionali con la propria, dato che esse si trovano in una posizione migliore per valutare e rispondere alle esigenze della società [...] In conclusione, la Corte ritiene che l'articolo 12 della Convenzione non faccia obbligo allo Stato convenuto di concedere l'accesso al matrimonio a una coppia omosessuale come i ricorrenti” (p. 62 e 63); b) quanto all'interpretazione dell'art. 14, in relazione all'art. 8 (cfr., supra, n. 3.3.1., lettera A), ha affermato, tra l’altro, che: 1) “È indiscusso nel presente caso che la relazione di una coppia omosessuale come i ricorrenti rientri nella nozione di vita privata nell'accezione dell'articolo 8. Tuttavia, alla luce dei commenti delle parti la Corte ritiene opportuno determinare se la loro relazione costituisce anche una vita familiare [corsivo aggiunto]” (p. 90); 2) “La Corte ribadisce la sua giurisprudenza radicata in materia di coppie eterosessuali, vale a dire che la nozione di famiglia in base a questa disposizione non è limitata alle relazioni basate sul matrimonio e può comprendere altri legami familiari di fatto, se le parti convivono fuori dal vincolo del matrimonio”. [...] (corsivo aggiunto) (p. 91); 3) “In antitesi, la giurisprudenza della Corte ha accettato solo che la relazione emotiva e sessuale di una coppia omosessuale costituisca vita privata, ma non ha ritenuto che essa costituisca vita familiare, anche se era in gioco una relazione durevole tra partner conviventi. Nel giungere a tale conclusione, la Corte ha osservato che nonostante la crescente tendenza negli Stati Europei verso un riconoscimento giuridico e giudiziario di unioni di fatto stabili tra omosessuali, data l'esistenza di poche posizioni comuni tra gli Stati contraenti, questa era un'area in cui essi godevano ancora di un ampio margine di discrezionalità [...]. Nel caso di Karner [...], relativo al subentro del partner di una coppia omosessuale nei diritti locativi del partner deceduto, che rientrava nella nozione di abitazione, la Corte ha esplicitamente lasciato aperta la questione di decidere se il caso riguardasse anche la vita privata e familiare del ricorrente” (p. 92); 4) “La Corte osserva che dal 2001 [...] ha avuto luogo in molti Stati Membri una rapida evoluzione degli atteggiamenti sociali nei confronti delle coppie omosessuali. A partire da quel momento un notevole numero di Stati Membri ha concesso il riconoscimento giuridico alle coppie omosessuali [...] Certe disposizioni del diritto dell'UÈ riflettono anche una crescente tendenza a comprendere le coppie omosessuali nella nozione di famiglia [...]” (p. 93); 5) “Data quest'evoluzione la Corte ritiene artificiale sostenere l'opinione che, a differenza di una coppia eterosessuale, una coppia omosessuale non possa godere della vita familiare ai fini dell'articolo 8. Conseguentemente la relazione dei ricorrenti, una coppia omosessuale convivente con una stabile relazione di fatto, rientra nella nozione di vita familiare, proprio come vi rientrerebbe la relazione di una coppia eterosessuale nella stessa situazione [corsivo aggiunto]” (p. 94). 3.3.4. - È noto che, secondo il costante orientamento della Corte costituzionale, l'interpretazione e l'applicazione delle norme della Convenzione, pur essendo affidata ai giudici degli Stati contraenti, è attribuita, in via definitiva, alla Corte Europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, la cui competenza appunto “si estende a tutte le questioni concernenti l'interpretazione e l'applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli che siano sottoposte ad essa nelle condizioni previste” dalla Convenzione medesima, con la conseguenza che detti giudici hanno il dovere di interpretare la norma interna in modo conforme alla norma convenzionale fintantoché ciò sia reso possibile dal testo di tale norma e, in caso di impossibilità dell'interpretazione CONTENZIOSO NAZIONALE 193 'conforme', di sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna per contrasto con la norma convenzionale 'interposta', per violazione dell'art. 117, primo comma, Cost.; con l'ulteriore conseguenza che l’interpretazione data dalla Corte Europea vincola, anche se non in modo incondizionato, detti giudici e costituisce il 'diritto vivente' della Convenzione (cfr. l'art. 32 della CEDU; cfr., altresì, ex plurimis, le sentenze della Corte costituzionale nn. 348 e 349 del 2007, n. 80 del 2011 e n. 15 del 2012). Ciò premesso, l'analisi dei su riportati brani della sentenza della Corte Europea mostra inequivocabilmente che essa contiene due novità sostanziali rispetto alla precedente giurisprudenza concernente l'interpretazione degli artt. 12 e 14 della Convenzione, novità correlate alla novità del caso sottoposto all'esame della Corte. A) La prima novità attiene appunto alla questione se il diritto al matrimonio, riconosciuto dall'art. 12 della Convenzione, comprenda anche il diritto al matrimonio tra persone dello stesso sesso. La risposta della Corte non lascia adito a dubbi: “Visto l’articolo 9 della Carta [...], la Corte non ritiene più che il diritto al matrimonio di cui all'articolo 12 debba essere limitato in tutti i casi al matrimonio tra persone di sesso opposto. Conseguentemente non si può affermare che l'articolo 12 sia inapplicabile alla doglianza dei ricorrenti. Tuttavia, per come stanno le cose, si lascia decidere alla legislazione nazionale dello Stato contraente se permettere o meno il matrimonio omosessuale”. Al riguardo, deve sottolinearsi che: 1) la ratio decidendi si fonda - per le ragioni già dette - sull'interpretazione non del solo art. 12, ma di tale disposizione in 'combinato disposto' con l'art. 9 della Carta che, pur avendo “significato identico” a quello dell'art. 12, ha tuttavia “portata più ampia”, in quanto “il suo campo d'applicazione può essere esteso ad altre forme di matrimonio eventualmente istituite dalla legislazione nazionale” (cfr., supra, n. 3.3.3.): si fonda, cioè, sull'interpretazione del diritto fondamentale al matrimonio secondo il criterio magis ut valeat; 2) la ratio decidendi, inoltre, costituisce vero e proprio Overruling (“[...] la Corte non ritiene più che il diritto al matrimonio di cui all'articolo 12 debba essere limitato in tutti i casi al matrimonio tra persone di sesso opposto [...]”) rispetto alla precedente giurisprudenza richiamata dalla stessa Corte, secondo la quale “l'articolo 12 garantisce il diritto fondamentale di un uomo e di una donna di contrarre matrimonio e di fondare una famiglia”; 3) conseguentemente, il diritto al matrimonio riconosciuto dall'art. 12 ha acquisito, secondo l'interpretazione della Corte Europea - la quale costituisce radicale 'evoluzione' rispetto ad “una consolidata ed ultramillenaria nozione di matrimonio” -, un nuovo e più ampio contenuto, inclusivo anche del matrimonio contratto da due persone dello stesso sesso (cfr., supra, nn. 3.3.1., lettera B, e 3.3.3.); 4) secondo la Corte, tuttavia - in piena conformità con l'inequivocabile tenore letterale degli artt. 12 della Convenzione e 9 della Carta -, la 'garanzia' del diritto ad un matrimonio siffatto è totalmente riservata al potere legislativo degli Stati contraenti della Convenzione e/o membri dell'Unione Europea (“Tuttavia, per come stanno le cose, si lascia decidere alla legislazione nazionale dello Stato contraente se permettere o meno il matrimonio omosessuale”); ed è proprio per questa ragione che la Corte ha potuto affermare che, nel caso sottopostole, “l'articolo 12 della Convenzione non fa[ccia] obbligo allo Stato convenuto [nella specie, l'Austria] di concedere l'accesso al matrimonio a una coppia omosessuale come i ricorrenti”. A quest'ultimo riguardo, secondo l'impostazione della Corte, le ora richiamate disposizioni, pur 'riconoscendo' detti diritti, sono state tuttavia formulate in modo tale da separare il 'rico- 194 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 noscimento' dalla 'garanzia' degli stessi: infatti, l'art.12 della CEDU riconosce “il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia”, ma “secondo le leggi nazionali regolanti l'esercizio di tale diritto”; corrispondentemente, l'art. 9 della Carta riconosce “il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia”, ma al contempo afferma che questi diritti “sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l'esercizio”. E la ragione di questa 'separazione' - come emerge nitidamente dalla motivazione della sentenza della Corte Europea - sta nella constatazione delle notevoli ed a volte profonde differenze sociali, culturali e giuridiche, che ancora connotano le discipline legislative della famiglia e del matrimonio dei Paesi aderenti alla Convenzione e/o membri dell'Unione Europea. B) La seconda novità attiene alla questione se la relazione di una coppia omosessuale rientri nella nozione di 'vita familiare' nell'accezione dell'articolo 8 della Convenzione. Anche su tale questione la risposta della Corte è chiarissima: “Data quest'evoluzione [sociale e giuridica] la Corte ritiene artificiale sostenere l’opinione che, a differenza di una coppia eterosessuale, una coppia omosessuale non possa godere della vita familiare ai fini dell’articolo 8. Conseguentemente la relazione dei ricorrenti, una coppia omosessuale convivente con una stabile relazione di fatto, rientra nella nozione di vita familiare, proprio come vi rientrerebbe la relazione di una coppia eterosessuale nella stessa situazione”. Questa estensione alla coppia omosessuale stabilmente convivente del diritto alla 'vita familiare' costituisce coerente conseguenza del riconoscimento ai singoli componenti tale coppia, da parte della Corte Europea, del diritto al matrimonio e del diritto di fondare una famiglia ed attesta ancora una volta la necessità di distinguere tra riconoscimento del diritto al matrimonio omosessuale, altre forme di riconoscimento giuridico della stabile convivenza della coppia omosessuale e riconoscimento ai singoli componenti tale unione di altri diritti fondamentali. 4. - Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, può pervenirsi - ferma restando la decisione di infondatezza del ricorso in esame - ad una risposta maggiormente articolata alle questioni - più generale e specifica - poste a questa Corte dalla presente fattispecie (cfr., supra, n. 2.1.), segnatamente in relazione agli effetti, nell'ordinamento giuridico italiano, della sentenza della Corte costituzionale n. 138 del 2010 (cfr., supra, nn. 3.1. e 3.2.) e della sentenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo 24 giugno 2010 (cfr., supra, n. 3.3.3.). 4.1. - Occorre muovere dal rilievo che, se il diritto di contrarre matrimonio è diritto fondamentale -in quanto derivante dagli artt. 2 e 29 Cost. ed espressamente riconosciuto, come più volte rilevato, dall'art. 16, paragrafo 1, della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948, dall'art. 12 della CEDU del 1950, dall'art. 23, paragrafo 2, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966 e dall'art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea del 2000-2007 -, esso spetta “ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani”, cioè alla persona in quanto tale (cfr., ex plurimis, Corte costituzionale, sentenze nn. 105 del 2001, 249 del 2010, 245 del 2011 cit.). Il riconoscimento di tale diritto fondamentale comporta necessariamente non soltanto l'appartenenza di esso al patrimonio giuridico costitutivo ed irretrattabile del singolo individuo quale persona umana, ma anche la effettiva possibilità del singolo individuo di farlo valere erga omnes e di realizzarlo, nel che consiste la 'garanzia' del suo 'riconoscimento', secondo l'inscindibile binomio contenuto nell'art. 2 Cost. (“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili [...]”). La sentenza della Corte costituzionale n. 138 del 2010 ha negato fondamento costituzionale al diritto al matrimonio tra due persone dello stesso sesso, in riferimento sia agli artt. 3 e 29, CONTENZIOSO NAZIONALE 195 sia all'art. 2 Cost. Dunque, il suo riconoscimento e la sua garanzia - cioè l'eventuale disciplina legislativa diretta a regolarne l'esercizio -, in quanto non costituzionalmente obbligati, sono rimessi alla libera scelta del Parlamento; ciò che trova espressa conferma negli artt. 12 della CEDU e 9 della Carta, i quali riservano appunto alla disciplina legislativa dei singoli Stati contraenti della Convenzione e/o membri dell'Unione Europea la garanzia del “diritto al matrimonio” (CEDU) e dei diritti “di sposarsi e di costituire una famiglia” (Carta). Secondo la sentenza della Corte Europea 24 giugno 2010, invece, il diritto al matrimonio, riconosciuto dal combinato disposto degli artt. 12 della Convenzione e 9 della Carta, include anche quello al matrimonio di persone dello stesso sesso, quale 'nuovo contenuto' ermeneuticamente emergente proprio dai predetti diritti riconosciuti dalla Convenzione e dalla Carta, fermo restando tuttavia che la sua garanzia è rimessa al potere legislativo dei singoli Stati (“Tuttavia, per come stanno le cose, si lascia decidere alla legislazione nazionale dello Stato Contraente se permettere o meno il matrimonio omosessuale. [...] A tale riguardo la Corte osserva che il matrimonio ha connotazioni sociali e culturali radicate che possono differire molto da una società all'altra. La Corte ribadisce di non doversi spingere a sostituire l'opinione delle autorità nazionali con la propria, dato che esse si trovano in una posizione migliore per valutare e rispondere alle esigenze della società”). Tale 'riserva assoluta di legislazione nazionale', per così dire, non significa, però, che le menzionate norme, convenzionale e comunitaria non spieghino alcun effetto nell'ordinamento giuridico italiano, fintantoché il Parlamento - libero di scegliere, sia nell'an sia nel quomodo - non garantisca tale diritto o preveda altre forme di riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali. Dette norme, invece - attraverso gli 'ordini di esecuzione' contenuti nelle su citate leggi che hanno autorizzato la ratifica e l'esecuzione della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo e del Trattato sull'Unione Europea -, sono già da tempo entrate a far parte integrante dell'ordinamento giuridico italiano e devono essere interpretate in senso 'convenzionalmente conforme'. Ed allora, il limitato ma determinante effetto dell'interpretazione della Corte Europea - secondo cui “la Corte non ritiene più che il diritto al matrimonio di cui all'articolo 12 debba essere limitato in tutti i casi al matrimonio tra persone di sesso opposto” -, sta nell'aver fatto cadere il postulato implicito, il requisito minimo indispensabile a fondamento dell'istituto matrimoniale, costituito dalla diversità di sesso dei nubendi e, conseguentemente, nell'aver ritenuto incluso nell'art. 12 della CEDU anche il diritto al matrimonio omosessuale (cfr., supra, n. 2.2.2.). La Corte Europea, in altri termini, sulla base della ricognizione delle differenze, anche profonde, delle legislazioni nazionali in materia, “che spaziano dal permesso dei matrimoni omosessuali al loro esplicito divieto”, ha (soltanto) rimosso l'ostacolo - la diversità di sesso dei nubendi appunto - che impediva il riconoscimento del diritto al matrimonio omosessuale, riservando tuttavia la garanzia di tale diritto alle libere opzioni dei Parlamenti nazionali. 4.2. - Le considerazioni che precedono consentono di pervenire ad una prima conclusione circa la più generale questione se la Repubblica italiana riconosca e garantisca a persone dello stesso sesso, al pari di quelle di sesso diverso, il diritto fondamentale di contrarre matrimonio. Come già sottolineato (cfr., supra, nn. 3.2. e 4.1.), la sentenza della Corte costituzionale n. 138 del 2010, pur negando specifico fondamento costituzionale al riconoscimento del diritto al matrimonio di persone dello stesso sesso, ha tuttavia affermato: che nelle “formazioni sociali” di cui all'art. 2 Cost. è inclusa “l'unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una 196 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 condizione di coppia”; che fermo il riconoscimento e la garanzia di tale diritto 'inviolabile', “nell'ambito applicativo dell'art. 2 Cost., spetta al Parlamento, nell'esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette”, e che, tuttavia, resta “riservata alla Corte costituzionale la possibilità d'intervenire a tutela di specifiche situazioni (come è avvenuto per le convivenze more uxorio: sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988)”, potendo accadere che, “in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza”. A sua volta, la sentenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo 24 giugno 2010 (cfr., supra, n. 3.3.3.) ha affermato anche che “la Corte ritiene artificiale sostenere l'opinione che, a differenza di una coppia eterosessuale, una coppia omosessuale non possa godere della vita familiare ai fini dell'articolo 8”, e che “Conseguentemente la relazione dei ricorrenti, una coppia omosessuale convivente con una stabile relazione di fatto, rientra nella nozione di vita familiare, proprio come vi rientrerebbe la relazione di una coppia eterosessuale nella stessa situazione”. Ed allora, le su riportate affermazioni, considerate unitamente al richiamo di specifici precedenti da parte della Corte costituzionale, non danno adito a dubbi circa il senso e, soprattutto, gli effetti dei dicta delle due Corti nell'ordinamento giuridico italiano. I componenti della coppia omosessuale, conviventi in stabile relazione di fatto, se - secondo la legislazione italiana - non possono far valere né il diritto a contrarre matrimonio né il diritto alla trascrizione del matrimonio contratto all'estero, tuttavia - a prescindere dall'intervento del legislatore in materia -, quali titolari del diritto alla 'vita familiare' e nell'esercizio del diritto inviolabile di vivere liberamente una condizione di coppia e del diritto alla tutela giurisdizionale di specifiche situazioni, segnatamente alla tutela di altri diritti fondamentali, possono adire i giudici comuni per far valere, in presenza appunto di “specifiche situazioni”, il diritto ad un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata e, in tale sede, eventualmente sollevare le conferenti eccezioni di illegittimità costituzionale delle disposizioni delle leggi vigenti, applicabili nelle singole fattispecie, in quanto ovvero nella parte in cui non assicurino detto trattamento, per assunta violazione delle pertinenti norme costituzionali e/o del principio di ragionevolezza. 4.3. - Le medesime considerazioni consentono di pervenire all'altra conclusione circa la specifica questione, consistente nello stabilire se due cittadini italiani dello stesso sesso, i quali abbiano contratto matrimonio all'estero - come nella specie -, siano, o no, titolari del diritto alla trascrizione del relativo atto nel corrispondente registro dello stato civile italiano. La risposta negativa, già data, si fonda però su ragioni diverse da quella, finora ripetutamente affermata, della 'inesistenza' di un matrimonio siffatto per l'ordinamento italiano. Infatti, se nel nostro ordinamento è compresa una norma - l'art. 12 della CEDU appunto, come interpretato dalla Corte Europea -, che ha privato di rilevanza giuridica la diversità di sesso dei nubendi nel senso dianzi specificato (cfr., supra, n. 4.1.), ne segue che la giurisprudenza di questa Corte - secondo la quale la diversità di sesso dei nubendi è, unitamente alla manifestazione di volontà matrimoniale dagli stessi espressa in presenza dell'ufficiale dello stato civile celebrante, requisito minimo indispensabile per la stessa 'esistenza' del matrimonio civile, come atto giuridicamente rilevante - non si dimostra più adeguata alla attuale realtà giuridica, essendo stata radicalmente superata la concezione secondo cui la diversità di sesso dei nubendi è presupposto indispensabile, per cosi dire 'naturalistico', della stessa 'esistenza' del matrimo- CONTENZIOSO NAZIONALE 197 nio. Per tutte le ragioni ora dette, l'intrascrivibilità delle unioni omosessuali dipende -non più dalla loro 'inesistenza' (cfr., supra, n. 2.2.2.), e neppure dalla loro 'invalidità', ma - dalla loro inidoneità a produrre, quali atti di matrimonio appunto, qualsiasi effetto giuridico nell'ordinamento italiano. 5. - La novità di tutte le questioni trattate giustifica la compensazione integrale delle spese del presente grado del giudizio. P.Q.M. Rigetta il ricorso e compensa le spese. Dispone, ai sensi dell'art. 52 del d. lgs. 30 giugno 2003, n. 196, che nel caso di diffusione della presente sentenza siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi delle parti. Unioni tra persone dello stesso sesso: quale tutela? Le ragioni storiche della tutela giuridica della famiglia Vincenzo Rago* La sentenza della Cassazione in commento, Sez I, n. 4184/2012 del 15 marzo 2012, che ha negato la trascrizione di un matrimonio celebrato all’estero da due cittadini italiani dello stesso sesso, confermando i provvedimenti del Tribunale di Latina e della Corte di Appello di Roma, sia pure con diversa e più articolata motivazione, ha tentato di ricostruire i principi in materia di riconoscibilità dell’unione stabile tra soggetti dello stesso sesso. Va subito detto che la decisione è stata accolta con commenti entusiastici da alcuni, che hanno visto in questa sentenza la rottura con schemi del passato e, nel contempo, con veementi critiche da altri (sfociate anche in lettere al Presidente della Repubblica): in proposito, si precisa che, al fine di evitare equivoci, occorre accostarsi a questo tema delicato senza pregiudizi “ideologici”, religiosi o laicisti che siano. La decisione, richiamando alcuni precedenti sia della Corte Costituzionale (in particolare, la sentenza n. 138/2010) sia della Corte Europea dei diritti dell’uomo (sentenza Prima Sezione, caso Schalk e Kopf c/Austria del 24 giugno 2010), e fornendo una interpretazione di varie disposizioni normative e regolamentari, ha offerto un ulteriore contributo al dibattito sulla natura del matrimonio, sul piano giuridico, oltre che sociale, politico, psicologico e culturale. La Cassazione ha affermato i seguenti principi: a) la intrascrivibilità del matrimonio tra persone dello stesso sesso dipende non già dalla contrarietà all’ordine pubblico, ai sensi dell’art. 18 D.P.R. (*) Avvocato dello Stato. 198 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 n. 396/2000, come originariamente affermato dall’ufficiale di stato civile (e dal Tribunale di Latina in primo grado), ma dalla sua non riconoscibilità come atto di matrimonio nell’ordinamento giuridico italiano; b) il diritto di contrarre matrimonio, così come ritenuto dalla Corte Costituzionale, non è riconosciuto dalla nostra Costituzione a due persone dello stesso sesso: 1) sia perché le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee rispetto al matrimonio e, dunque, non vi è violazione degli artt. 3 e 29 Cost. e del principio di uguaglianza; 2) sia perché la materia in questione è affidata alla discrezionalità del Parlamento dei singoli Stati. Dopo avere deciso il caso sottoposto alla sua attenzione, la Cassazione - esorbitando forse dai limiti imposti dal contenuto della domanda giurisdizionale -, e prendendo spunto da alcune affermazioni della sentenza Corte Costituzionale n. 138/2010 e di quella della Corte Europea dei diritti dell’uomo del 24 giugno 2010, ha fatto ulteriori considerazioni sulle unioni tra coppie dello stesso sesso, ed ha chiarito che 1) ai sensi dell’art. 2 Cost., tra le formazioni sociali deve essere ricompresa anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, pur spettando alla discrezionalità del Parlamento di individuare le forme di garanzia e di riconoscimento delle unioni suddette e restando riservata alla Corte Costituzionale la possibilità di intervenire a tutela di specifiche situazioni, attraverso il controllo di “ragionevolezza” (cfr. ad esempio, sentenza Corte Cost. n. 404/1988 che ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 6, primo comma della legge 27 luglio 1978, n. 392 - Disciplina delle locazioni di immobili urbani -, nella parte in cui non prevede tra i successibili nella titolarità del contratto di locazione, in caso di morte del conduttore, il convivente more uxorio; ovvero Corte Cost. n. 559/1989, che ha dichiarato la illegittimità dell’art. 18, primo e secondo comma della L.R. Piemonte 10 dicembre 1981, n. 64 - Disciplina delle assegnazioni di alloggi di edilizia residenziale pubblica - nella parte in cui non prevede la cessazione della stabile convivenza come causa di successione nella assegnazione ovvero come presupposto della voltura della convenzione a favore del convivente affidatario della prole); 2) ai sensi degli artt. 12 e 14 della CEDU (firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dell’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea – c.d. Carta di Nizza del 7 dicembre 2000 e nuovamente proclamata a Strasburgo il 12 dicembre 2007), nonchè dell’art. 6 del Trattato dell’Unione Europea, come modificato dal Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, reso esecutivo con legge 2 agosto 2008, n. 130, e degli artt. 51 e 52 della stessa Carta, “il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia” non fa parte del Diritto dell’Unione Europea, es- CONTENZIOSO NAZIONALE 199 sendo materia riservata ai singoli Stati membri; 3) ai sensi dell’art. 12 della CEDU, così come ritenuto dalla Corte Europea, il diritto di uomo e donna di contrarre matrimonio - pur essendo soggetto alle leggi nazionali -, non può essere limitato o ridotto in maniera tale da minare l’essenza stessa del diritto e, in virtù di quanto disposto dall’art. 9 cit., come interpretato in maniera evolutiva, tale diritto non può più essere limitato al matrimonio di sesso opposto, perchè la relazione di una coppia omosessuale rientrerebbe nella nozione di vita familiare (art. 8 Convenzione). Fermi questi principi la Cassazione ha ritenuto 1) che la decisione della Corte Europea dei diritti dell’uomo abbia ormai rimosso il requisito minimo indispensabile a fondamento dell’istituto matrimoniale, costituito dalla diversità di sesso dei nubendi; 2) che sia comunque riservata alla discrezionalità dei singoli Stati individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni omosessuali; 3) che i componenti di una coppia omosessuale, conviventi in stabile relazione, seppur non possono far valere il diritto a contrarre il matrimonio o di trascrivere un matrimonio celebrato all’estero, possono comunque adire i giudici italiani per far valere, in presenza di specifiche situazioni, il diritto ad un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata e, in questa sede, sollevare le relative eccezioni di illegittimità costituzionale delle disposizioni di legge vigenti, per violazione del principio di parità di trattamento e/o del principio di ragionevolezza. La sentenza in commento, appare sostanzialmente corretta, quanto alla soluzione del quesito giuridico - non spetta la trascrizione in Italia di un matrimonio celebrato all’estero da due persone dello stesso sesso, perché tale matrimonio non può produrre effetto, come tale, nel nostro ordinamento - essendo incontestabile che la nostra Costituzione non riconosce ad omosessuali il diritto di contrarre matrimonio, e che quella in questione è una materia riservata alla discrezionalità dei Parlamenti nazionali dei singoli Stati e non già dell’Unione Europea. Per la verità, questa ultima affermazione appare contraddittoria rispetto alle considerazioni finali della stessa decisione - ovvero che, per il matrimonio, sarebbe venuto meno il vincolo costituito dalla diversità di sesso tra i nubendi - : ed infatti, se il Diritto dell’Unione Europea (e dunque anche la Corte Europea dei diritti dell’uomo) non hanno competenza in materia di diritto di famiglia, allora è evidente che la Corte dei diritti dell’uomo non può, con le sue considerazioni, incidere in alcun modo nella discrezionalità del legislatore, che è pur sempre libero di legiferare in materia di riconoscimento delle unioni omosessuali e non può essere vincolata ai “considerata” di un Tribunale dell’Unione europea. In ogni caso, anche a prescindere da questa considerazione, la sentenza non è affatto convincente nella parte in cui, come detto, il Giudice di legittimità 200 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 ha svolto considerazioni di carattere generale sugli effetti e la tutela da accordare alle unioni omosessuali. Del Pari, la decisione non può essere condivisa, laddove - attribuendo un rilievo decisivo alla decisione della Corte Europea sopra cit.-, ha ritenuto che ai fini della capacità di contrarre matrimonio, sarebbe stato rimosso nel nostro ordinamento il limite fondamentale della diversità di sesso dei nubendi. La Cassazione in particolare, ha ritenuto di raggiungere questa conclusione, in aderenza a quanto statuito dalla Corte europea, in virtù della necessità di tutelare il principio di parità di trattamento tra coppie eterosessuali ed omosessuali. La decisione si fonda su un equivoco: il principio di non discriminazione non ha punti di contatto con il diritto di sposarsi, né questo diritto è “speciale” rispetto al primo, atteso che il diritto di contrarre matrimonio non costituisce una specificazione del diritto di non essere discriminati. La decisione, inoltre, opera un passaggio che non sembra avere un riferimento normativo solido: un conto è dire che le unioni tra persone dello stesso sesso sono una delle formazioni sociali ex art. 2 Cost., altro è dire che sono una formazione “familiare”. Comunque sia, la decisione non può essere condivisa su tale punto: essa, a ben vedere, non ha considerato le lontanissime ragioni storiche che tradizionalmente riservano - nel nostro paese (e non solo) - il matrimonio alle sole coppie eterosessuali, e le motivazioni più profonde che, da millenni, hanno spinto i diversi ordinamenti, ben prima della Chiesa, a tutelare il solo matrimonio eterosessuale, disinteressandosi del legame tra persone dello stesso sesso, che pure è sempre stato conosciuto. Queste ragioni - a prescindere da qualsiasi giudizio di disvalore eticomorale per le unioni omosessuali - fanno parte del diritto naturale e meritano di essere tenute presenti ancora oggi. Il matrimonio ha - da sempre - ricevuto tutela, non già sulla base di una costruzione intimistica ed artificiosa del rapporto tra i coniugi, ma quale è veramente, ovvero un istituto di diritto naturale, che preesiste alla stessa società (civile), sul quale la medesima società fonda la sua essenza e dal quale la società non può prescindere. Il matrimonio ha trovato tutela in quanto fatto rilevante da un punto di vista sociale: è un rapporto privato tra due persone, al quale il diritto presta attenzione particolare, in quanto meritevole di tutela giuridica e che, solo per questo, diventa fatto di interesse sociale. La stessa cosa non avviene con altri fatti “privati”: l’amicizia non è mai stata presa in considerazione dal diritto, pur essendo un rapporto privato, utile e rilevante. Perché è avvenuto questo ? Le diverse decisioni citate in epigrafe ci offrono la grande opportunità di CONTENZIOSO NAZIONALE 201 ricordare le “radici” della tutela della famiglia, essendo sempre vero che l’unico modo di capire (ed accettare) l’oggi è quello di “comprendere” meglio il passato. In questo senso, così come si è precisato in un precedente commento, se è vero che le coppie omosessuali non debbono subire alcuna discriminazione a causa della loro identità ed hanno certamente il diritto al riconoscimento dei loro legami affettivi, alla stessa maniera delle coppie eterosessuali, è compito del diritto quello di stabilire se e quale tutela assicurare ai conviventi di fatto dello stesso sesso (testamento, diritto di locazione, usufrutto, trattamento previdenziale e/o pensionistico, edilizia residenziale, etc.). Altra e diversa questione è se alle “unioni tra persone dello stesso sesso” possa (o addirittura, debba) essere attribuito lo stesso nome di “matrimonio”, con conseguente riconoscimento della stessa tutela giuridica e sociale, prevista per le coppie eterosessuali. La risposta a questo “drammatico” quesito non può che essere negativa, avuto riguardo proprio alle predette ragioni storiche: la difesa del matrimonio da parte del diritto si spiega con la necessità di difendere il bene della famiglia, costitutiva della società. In questo senso la famiglia, contrariamente a quanto ritiene la Corte Europea con la decisione sopra citata (ed anche molti costituzionalisti), è un “bene” naturale, per la semplice considerazione che ogni singola persona è il frutto dell’unione tra un uomo ed una donna e del successivo concepimento: questa caratteristica è assente nelle unioni tra persone dello stesso sesso. Anche nel caso della fecondazione legalmente assistita, nella sostanza, il bambino che può essere allevato da due persone dello stesso sesso - anche se molti non sono d’accordo sulla possibilità di adozione da parte di coppie omosessuali -, nasce ed è pur sempre formato dalla unione di 23 cromosomi maschili e 23 cromosomi femminili. Storicamente, dunque, il riconoscimento da parte dell’ordinamento e la tutela della famiglia si spiega con la necessità di tutelare le nuove generazioni (ed insieme a queste la parte tradizionalmente debole del rapporto, ovvero la madre): il matrimonio, per sua struttura, regolamenta l’esercizio della sessualità al fine di garantire l’ordine delle generazioni: il termine matrimonio significa, appunto, “moenia”, ovvero “difesa” della madre. Questa tutela, come detto, esiste da millenni, preesiste alla nascita della Chiesa, trattandosi di una esigenza connaturata alla nascita della stessa società civile. I rapporti tra omosessuali, quindi, non hanno trovato, nel mondo del diritto, tutela, trattandosi di rapporti di tipo privato, rispetto ai quali il diritto è rimasto estraneo, non già solo per motivi etico-morali, ma perché non ha avvertito la presenza di una ragione di tutela delle generazioni future, come invece avviene nella famiglia eterosessuale. 202 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 Allora, se così è, per attribuire una tutela alle unioni omosessuali, non è sufficiente il richiamo alla disparità di trattamento con le coppie eterosessuali, trattandosi, invero, di situazioni non assimilabili. Né può farsi riferimento al criterio di ragionevolezza, attesa la sostanziale differenza delle fattispecie. Per queste unioni, il legislatore, nell’ambito della sua discrezionalità, sarà allora chiamato a trovare altre forme di tutela giuridica, diverse pur sempre da quelle tipiche del matrimonio, trattandosi di una delle formazioni sociali, tutelabili ex art. 2 Cost. Una soluzione diversa da quella ipotizzata nelle presenti note potrebbe avere gravi conseguenze sulla consistenza stessa dell’istituto del matrimonio, che perderebbe la sua individualità, potendosi attribuire lo stesso nome di famiglia (e la relativa tutela giuridica) anche ad unioni che non hanno la stessa natura, con ripercussioni negative sul tessuto della stessa società civile. CONTENZIOSO NAZIONALE 203 Criteri per la quantificazione del danno ambientale nelle more dell’adozione del D.M. terzo comma dell’art. 311 del d.lgs. 152/06 (Nota a Tribunale di Napoli, VI Sez. civ., sentenza del 9 luglio 2012 n. 8115) Michele Gerardo* I. Vicenda. Con atto di citazione notificato in data 12 maggio 1999 il Ministero dell’Ambiente e la Presidenza del Consiglio dei Ministri hanno citato in giudizio dinanzi al Tribunale di Napoli la società C. P. al fine di conseguire, previo accertamento della responsabilità, la condanna al ristoro dei pregiudizi, rectius: danno ambientale, arrecati alla cd. Darsena San Bartolomeo nel Comune di Castelvolturno alla località Pinetamare mediante un’attività di costruzione e gestione abusiva – a partire dal 1970 e fino al 1995 – di opere. Per la quantificazione del danno ambientale le Amm.ni attrici hanno utilizzato il parametro delineato dall’art. 18 co. 6, 7 e 8 L. 349/86 statuente che: “6. il giudice, ove non sia possibile una precisa quantificazione del danno, ne determina l’ammontare in via equitativa, tenendo comunque conto della gravità della colpa individuale, del costo necessario per il ripristino e del profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo dei beni ambientali. 7. Nei casi di concorso nello stesso evento di danno, ciascuno risponde nei limiti della propria responsabilità individuale. 8. Il giudice, nella sentenza di condanna, dispone, ove possibile, il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile”. Il giudizio è stato definito dal Tribunale di Napoli con la pronuncia della sentenza in rassegna n. 8115, pubblicata il 9 luglio 2012 che ha accolto parzialmente le domande attoree con condanna della convenuta al ristoro del danno ambientale in favore del Ministero dell’Ambiente. II. Aspetti rilevanti della decisione. Tra le varie questioni giuridiche analizzate nella sentenza de qua – natura giuridica unitaria del danno ambientale, rilevanza della condotta lesiva dell’ambiente in data antecedente alla legge n. 349/86, eccezione di prescrizione delle pretese, ecc. – merita di essere evidenziata la disamina del problema del criterio per la quantificazione del danno. Aspetto, quest’ultimo, complesso perchè nelle more del giudizio è entrato in vigore l’art. 5 bis del D.L. 25 settembre 2009 n. 135, conv. con mod. in L. (*) Avvocato dello Stato. 204 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 20 novembre 2009 n. 166 (G.U. n. 274 del 24 novembre 2009 – suppl. ord.), il quale ha modificato gli artt. 303 e 311 del D.L.vo n. 152 del 3 aprile 2006 e precisamente: • prevedendo, mediante la disposizione contenuta nell'art. 5-bis co. 1 lett. b) l'aggiunta al terzo comma dell'art. 311 del richiamato d.lgs. 152/06 del seguente periodo: "Con decreto del Ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, da emanare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione, ai sensi dell'articolo 17, co. 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, sono definiti, in conformità a quanto previsto dal pento 1.2.3 dell’allegato II alla direttiva 2004/35/CE, i criteri di determinazione del risarcimento per equivalente e dell'eccessiva onerosità, avendo riguardo anche al valore monetario stimato delle risorse naturali e dei servizi perduti e ai parametri utilizzati in casi simili o materie analoghe per la liquidazione del risarcimento per equivalente del danno ambientale in sentenze passate in giudicato pronunciate in ambito nazionale e comunitario"; • prevedendo, mediante la disposizione contenuta nell'art. 5-bis co. 1 lett. f) l'aggiunta al primo comma della lett. f) dell'art. 303 del richiamato d.lgs. 152/06 del seguente periodo: "i criteri di determinazione dell'obbligazione risarcitoria stabiliti dall'articolo 311, commi 2 e 3, si applicano anche alle domande di risarcimento proposte o da proporre ai sensi dell'articolo 18 della legge 18 luglio 1986, n. 349, in luogo delle previsioni del commi 6, 7 e 8 del citato articolo 18, o ai sensi del titolo IX del libro IV del codice civile o ai sensi di altre disposizioni non aventi natura speciale, con esclusione delle pronunce passate in giudicato; ai predetti giudizi trova, inoltre, applicazione la previsione dell'articolo 315 del presente decreto". All’evidenza, ferma restando la disciplina dell’an (da rinvenire – tempus regit actum – nelle pertinenti disposizioni dell’art. 18 L. n. 349/86), è mutata la regula juris per determinare il quantum del danno ambientale. Sul punto si è pronunciata la Corte di Cassazione con sentenza n. 6551/11 (pubblicata su questa Rassegna 2011, n. 4, pagg.145 e ss.) intervenuta sulla analoga causa del danno ambientale cagionato dalla costruzione e gestione abusiva del cd. Villaggio Coppola, sempre nel Comune di Castelvolturno, che testualmente enuncia:“L'intera normativa sulla liquidazione del danno ambientale risulta quindi totalmente riscritta, con un rinvio espresso alle previsioni della direttiva comunitaria, la quale prevede, sul punto espressamente richiamato, testualmente quanto appresso: - se non e possibile usare, come prima scelta, i metodi di equivalenza ri- CONTENZIOSO NAZIONALE 205 sorsa-risorsa o servizio-servizio, si devono utilizzare tecniche di valutazione alternative. L'autorità competente può prescrivere i1 metodo, ad esempio la valutazione monetaria, per determinare la portata delle necessarie misure di riparazione complementare e compensativa. Se la valutazione delle risorse e/o dei servizi perduti è praticabile, ma la valutazione delle risorse naturali e/o dei servizi di sostituzione non può essere eseguita in tempi o a costi ragionevoli, l'autorità competente può scegliere misure di riparazione il cui costo sia equivalente al valore monetario stimato delle risorse naturali e/o dei servizi perduti; -- le misure di riparazione complementare e compensativa dovrebbero essere concepite in modo che le risorse naturali e/o i servizi supplementari rispecchino le preferenze e il profilo temporali delle misure di riparazione. Per esempio, a parità delle altre condizioni, più lungo è il periodo prima del raggiungimento delle condizioni originarie, maggiore è il numero delle misure di riparazione compensativa che saranno avviate (…). La peculiarità della disciplina sopravvenuta sta in ciò, poichè essa si applica appunto anche alle domande già proposte, con il solo evidente limite, ricavabile dai principi generali, dei giudizi già definiti con sentenza passata in giudicato. Tanto consente di ritenere che con la citata normativa del d.l. 135/09 e nella 1. 166/09 siano stati completamente neutralizzati, soprattutto ed anche per i giudizi ancora in corso e cioè non ancora conclusi con sentenza passata in giudicato (qual è appunto il presente), i criteri di determinazione del danno già stabiliti dall'art. 18 della legge n. 349 del 1986: e tanto probabilmente, secondo l'opinione dei commentatori, proprio per le difficoltà applicative indotte dalla loro intrinseca contraddittorietà e per il carattere latamente punitivo che pareva discendere dalla previsione legislativa originaria. Peraltro, se così è, deve rilevarsi l'imprescindibile necessità di rivedere espressamente ogni determinazione sulla liquidazione, essendo stati appunto travolti i criteri fissati originariamente della legge 349/86 e comunque rivisti, con efficacia appunto estesa ai giudizi ancora pendenti, tutti i criteri già applicabili. È ben vero che non consta ancora essere stato emanato il decreto attuativo del Ministero, previsto espressamente della richiamata nuova norma di cui al d.l. 135/09; ma il richiamo, come operato da quest'ultima, ai criteri di una specifica previsione di fonte comunitaria ne ha consacrato, ai fini della concrete applicazione nelle singole liquidazioni, la forza precettiva, quand'anche essa non si potesse già di per se ricavare dal contenuto intrinseco delle disposizioni. In tal modo, in luogo dei criteri di liquidazione equitativa già finora presi in considerazione dai giudici del merito, del resto in applicazione delle norme al momento vigenti, vanno applicati gli altri, previsti dalla norma sopravvenuta, ovvero anche soltanto va verificato l'impatto, sui primi, di questi ultimi” (pp. 23 – 27 della sentenza). Sicchè nella quantificazione del danno ambientale va applicato il ius su- 206 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 perveniens contenuto nell’art. 311 co. 2 e 3 D.L.vo n. 152/96 in luogo della normativa (art. 18 comma 6, 7 e 8 L. n. 349/86) vigente alla data della instaurazione della lite. Nella sentenza in rassegna il giudicante tiene conto della novella intervenuta in materia, innovante il criterio per la quantificazione delle pretese, ma con il rilievo che “l'impossibilità obiettiva di procedere nel caso in esame a una aestimatio secondo il metodo preferenziale di equivalenza tra le risorse o i servizi perduti, di valore economico allo stato degli atti assolutamente indeterminabile, con analoghe utilità sostitutive, impone di adottare le tecniche alternative residuali di valutazione equitativa ragguagliate al costo delle misure di riparazione complementare e compensativa da apportarsi, le quali, in mancanza di altri dati disponibili, debbono essere necessariamente ragguagliate all'ammontare della spesa occorrente per ricondurre alla condizione originaria i luoghi, profondamente alterati dall'erezione di costruzioni di vario genere nell'area a ridosso del litorale, dall'innalzamento sulla superficie marina di scogliere artificiali, dallo scavo di un canale navigabile di collegamento tra la darsena e l'avamporto delimitato da argini in elevazione, dalla creazione di un bacino occluso originariamente destinato ad assicurare il ricambio dell'acqua confluita all'interno del naviglio e dalla costruzione della darsena munita di pontili interni di approdo e di attrezzature di alaggio, rimessaggio e rifornimento di carburante”. All’evidenza, per il Tribunale di Napoli, la novella del criterio per la quantificazione delle pretese va applicata anche in assenza del sopraindicato Decreto attuativo del Ministero, con ciò aderendo implicitamente alle conclusioni sul punto della Suprema Corte. Tribunale di Napoli, VI Sez. civ., sentenza del 9 luglio 2012 n. 8115 - Giudice G. Vinciguerra - Ministero Ambiente, Presidenza del Consiglio dei Ministri (avv. Stato Napoli) c. Coppola Pinetamare s.n.c. (avv.ti Olivieri e D’Angiolella) ed altri. (...) MOTIVI DELLA DECISIONE In primo luogo si osserva che le domande principali risarcitorie proposte dalle amministrazioni erariali sono rivolte a ottenere il ristoro dei danni arrecati dall'abusiva realizzazione e dalla successiva messa in esercizio di un complesso portuale turistico attrezzato - dotato di darsena, banchine di attracco e canale artificiale interno di navigazione, corredato da costruzioni adibite a cantieri di rimessaggio, uffici amministrativi e locali di servizio e protetto da dighe foranee - allestito nella località Pinetamare, compresa nel territorio del Comune di Castelvotumo, dalla società convenuta, la quale ha occupato suoli e specchi d'acqua facenti parte del demanio marittimo e del patrimonio dello Stato stravolgendone la configurazione originaria e destinandoli allo stazionamento e al transito di imbarcazioni. Il fatto illecito costitutivo dell'invocata responsabilità ex delicto imputata al debitore è stato quindi individuato nella radicale trasformazione, effettuata dall'artefice e gestore dell'opera compiuta in mancanza di validi titoli amministrativi di carattere ampliativo, della consistenza CONTENZIOSO NAZIONALE 207 iniziale della zona costiera, già completamente disabitata, di appartenenza pubblica. Gli istanti hanno cosi esercitato il diritto, loro devoluto dall'art. 18 L 349/1986, a ottenere l'eliminazione degli effetti lesivi degli interventi effettuati ex adverso, enunciando al capitolo n. 2 delle conclusioni rassegnate nell'atto introduttivo del giudizio una pretesa che, seppure contrassegnata da un'unica causa petendi - rappresentata dalla appropriazione e dalla immutatio degli spazi e dalla conseguente compromissione dell'integrità dell'ambiente - e da un identico petitum mediato, è stata articolata in una pluralità di richieste, rivolte principaliter a ottenere la condanna alla rimozione di tutte le strutture illegittimamente impiantate in alienum, e in via subordinata, nel caso in cui l'invocata restitutio in integrum diretta si fosse rivelata materialmente impraticabile, al pagamento di una somma di danaro in funzione compensativa dei pregiudizi arrecati dalle variazioni apportate in situ. In proposito occorre rilevare come la rinuncia esplicita alla domanda risarcitoria inizialmente avanzata in forma specifica - formulata in sede di emendatio libelli all'esito della conclusione in corso di causa di un accordo transattivo con il quale i contendenti hanno convenzionalmente risolto e disciplinato i soli riflessi di ordine dominicale della vicenda controversa - non può estendere i propri effetti abdicativi al di là del suo ambito obiettivo di incidenza investendo per derivazione anche l'azione risarcitoria per equivalente, inizialmente spiegata in via gradata per il caso in cui la riduzione in pristino fosse risultata impossibile, la quale ha automaticamente assunto nell'ambito del thema decidendum, secondo un meccanismo di sostituzione rispondente alla graduazione degli interessi del creditore delineata in limine litis, il rilievo primario che era stato attribuito all'analoga pretesa poi dismessa, incentrata sui medesimi elementi obiettivi di identificazione perchè caratterizzata soltanto dalla diversità del bene materiale di cui era stata sollecitata l'assegnazione secondo una determinata scala di valori. Infatti l'istituto sanzionatorio speciale contemplato dall'art.18 L. 349/1986 pone a carico del responsabile del danno inferto all'ambiente l'obbligo di riportare alla condizione primigenia, ove possibile, lo stato dei luoghi a proprie spese, la cui irrealizzabilità preclude, per espressa previsione normativa, l'accoglimento della domanda giudiziale diretta a ottenerne l'adempimento, il quale può tuttavia essere reclamato, indipendentemente dalla ricorrenza delle condizioni fattuali per eliminare sotto il profilo naturalistico le conseguenze dell'illecito, anche per equivalente attraverso la corresponsione di un importo, comprensivo dei costi del ripristino non disposto, destinato a indennizzare il pregiudizio patrimoniale inflitto al bene salvaguardato. Cosi l'esclusione volontaria della ricostituzione dello status quo ante, frutto di una scelta processuale discrezionale operata dal danneggiato in conformità ai patti consacrati nell'intesa transattiva stragiudiziale e non dell'emersione di circostanze obiettive ostative alla sua accoglibilità richiamate in citazione, non può indurre a considerare implicitamente ripudiata dai suoi promotori pure l'azione subordinata successivamente divenuta di rango principale, con la quale viene accordato uno strumento alternativo di tutela (Cass. 15726/2010) delle medesime ragioni che, in mancanza di limitazioni, può essere liberamente attivato in via sostitutiva anche nei casi di piena utilizzabilità del rimedio specifico (Cass. SSUU 30250/2008 e Cass. 9709/2004). Le considerazioni svolte impongono quindi di procedere all'esame nel merito della domanda risarcitoria, rispetto alla quale non può ritenersi cessata la materia del contendere a seguito della stipula del contratto di transazione citato, dal cui oggetto, riferito agli aspetti anche risarcitori relativi alla proprietà e al possesso delle aree in mano pubblica, sono state chiaramente escluse le partite concernenti il ristoro del danno patrimoniale ambientale e paesaggistico prodotto dalla loro occupazione. Infatti le reciproche concessioni concordate dalle parti nelle clausole negoziali caratterizzate 208 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 da un tenore letterale univoco, da una portata dispositiva altrettanto chiara e inserite in un contesto sistematico di agevole ricostruzione, hanno riguardato il trasferimento della titolarità di suoli a favore dello Stato, l'accertamento della demanialità di terreni e il conseguente acquisto per accessione delle opere edilizie erette soltanto su alcuni lotti, rimessi al dominio del costruttore per altre porzioni, la valutazione degli immobili ceduti e il rilascio di fondi riconosciuti di proprietà demaniale, la quantificazione dell'indennità dovuta per il loro spossessamento e la definizione delle prestazioni dovute per le alienazioni di beni di proprietà disputata. È stata così stabilita una lex specialis di regolamentazione limitata ai rapporti di ordine patrimoniale derivanti dalla privazione del godimento dei beni pubblici occupati che non attiene alle tematiche, trascendenti le questioni dominicali, concernenti l'alterazione dell'equilibrio naturalistico del territorio e la menomazione delle risorse a fruizione collettiva indifferenziata, le cui conseguenze sono rimaste del tutto estranee alla determinazione pattizia. Tale conclusione trae fondamento dalle indicazioni offerte dall'art. 19 del testo contrattuale, in base alle quali sono state relegate al di fuori dell'ambito applicativo dell'accordo "le pretese e controversie relative a violazioni di qualunque natura riguardanti norme di carattere edilizio, urbanistico, ambientale, paesaggistico e simili". L'esplicita salvezza di tali profili, oggetto di autonoma considerazione ad excludendum da parte dei contraenti, impone quindi di circoscrivere il novero dei danni descritti e liquidati in sede transattiva a quelli derivanti esclusivamente dalla adprehensio degli immobili di pertinenza aliena perpetrata dalla società convenuta. Sotto altro profilo si osserva che gli attori hanno denunciato le condotte illecite perpetrate dall'antagonista, come si è detto rappresentate dalla costruzione e della gestione dell'insediamento portuale composito, nel periodo compreso tra gli anni 1970 e 1995, e quindi in epoca anche anteriore alla predisposizione del mezzo di tutela apprestato dalla L. 349/1986 per preservare l'ambiente, inteso come entità immateriale a godimento collettivo munita di un'identità e di una valenza autonome rispetto al complesso di beni anche di proprietà privata che lo compongono. Tuttavia tale disciplina legale, funzionalmente diretta a proteggere tutte le risorse naturalistiche che caratterizzano un determinato luogo di fronte a condotte illegittime che lo deteriorino o lo distruggano, assume carattere meramente ricognitivo (Cass. 25010/2008, Cass. 1087/1998, Cass. 5650/1996 e Cass. 9211/1995) del preesistente strumento sanzionatorio civilistico di ordine generale, previsto dall'art. 2043 cc, già pienamente utilizzabile per reagire alle aggressioni dell'ambiente, il quale riflette un valore di rango costituzionale, consacrato negli artt. 2, 3, 9, 41 e 42 della Carta fondamentale, promosso e difeso dall'ordinamento che ne ha fatto oggetto di un interesse pubblico fondamentale e assoluto (Cass. 4362/1992), la cui ingiusta deminutio è fonte di una responsabilità aquiliana che la L 349/1986, sprovvista nella sua valenza precettiva essenziale di contenuto innovativo sostanziale, si è limitata a ribadire e a riordinare attraverso l'affidamento agli enti esponenziali della collettività dei consociati dei poteri di far valere i diritti devoluti alla comunità, la definizione della natura del danno inferto al bene ambientale, già riconosciuto aliunde, e l'individuazione dei criteri da adottarsi per la sua liquidazione. Pertanto anche i comportamenti tenuti dalla società convenuta prima dell'entrata in vigore della L. 349/1986 risultano in grado di integrare gli estremi del delictum ravvisato dagli istanti. Per quanto concerne invece l'eccezione di prescrizione - la cui durata quinquennale deve essere accertata anche di ufficio dal Giudice (Cass. 21752/2010, Cass. 11843/2007 e Cass. SSUU 10955/2002) - dei crediti, suscettibili di estinguersi per inattività del titolare seppure derivanti dalla lesione di un bene indisponibile, esercitati dalle autorità amministrative attrici, la tesi tempestivamente propugnata ex parte rei in comparsa di risposta e ribadita nel corso successivo CONTENZIOSO NAZIONALE 209 del giudizio, secondo la quale il completamento dei lavori di costruzione del complesso portuale contrassegnerebbe l'esaurimento istantaneo di una vicenda connotata dalla produzione di effetti lesivi durevoli progressivamente verificatisi de die in diem, non appare condivisibile. L'illecito permanente si caratterizza per la protrazione di un comportamento materiale volontario trasgressivo di norme legali o convenzionali che non si esaurisce uno actu al momento della sua consumazione, in quanto determina una violazione ininterrotta del diritto altrui alimentata continuamente da un'attività perdurante nel tempo, costantemente sorretta dall'elemento psicologico che la anima, la cui effettiva cessazione, alla quale si ricollega il decorso del termine iniziale di perenzione del credito maturato dalla vittima, determina il venir meno dell'evento dannoso che ne costituisce la conseguenza. Viceversa la diversa ipotesi di illecito istantaneo a effetti permanenti va ravvisata laddove il fenomeno lesivo sia propiziato da un comportamento unico che, pur perfezionandosi ed esaurendosi immediatamente, si presenta in grado di spiegare in modo differito la propria capacità offensiva innescando un processo causale i cui esiti, riconducibili geneticamente a un fattore a operatività prolungata, sono destinati a realizzarsi o ad ampliarsi autonomamente nel tempo quale peculiare forma di manifestazione dei risultati di un antecedente ormai non più direttamente attivo (in senso sostanzialmente conforme si vedano Cass. 24528/2007, Cass. 17985/2007, Cass. 10116/2006, Cass. 16009/2000, Cass. 1156/1995 e Cass. 1346/1991). Ebbene nella fattispecie l’attività imputata alla società convenuta risponde in entrambi i suoi aspetti denunciati ai requisiti della prima delle nozioni categoriali richiamate, poichè i duraturi effetti lesivi dell'integrità dell'ambiente, correlati allo stato di fatto creato da un illecito che solo una condotta contraria di ripristino della situazione precedente posta in essere dal suo autore avrebbe potuto eliminare, vanno correlati a un illecito permanente. Invero l'evento dannoso procurato dalla realizzazione dell'opera, isolatamente considerata, è conseguito certamente ad un comportamento che si è concluso con l'ultimazione delle strutture del porto, il cui impianto però ha provocato un'alterazione, dannosa in sé per l'equilibrio ecologico del luogo, che è perdurata nel tempo per effetto di un'ulteriore condotta espressamente ascritta al costruttore, il quale ha mantenuto la disponibilità del complesso lasciandolo immutato nella sua specifica configurazione lesiva del diritto altrui (così Cass. 5381/2007 e Cass. 6512/2004). Tale ulteriore iniziativa ha dunque integrato, nella prospettazione attorea, un illecito commesso con continuità, giacché il fenomeno dannoso non è stato ricollegato soltanto all'attività di allestimento del complesso portuale, ma anche alla sua indebita conservazione, proseguita e sviluppatasi costantemente nel corso del tempo fino alla proposizione della domanda, senza la quale la menomazione lamentata non avrebbe potuto protrarsi. La conclusione raggiunta non esclude tuttavia, almeno sul piano astratto, l'immediata esigibilità - e il correlativo decorso ante causam dell'exordium praescriptionis ex art. 2935 cc - delle ragioni risarcitorie gradualmente acquisite giorno per giorno in maniera frazionata a far data dalla consumazione del delictum di natura permanente (Cass. 5381/2011, Cass. 29583/2008, Cass. 19359/2007, Cass. 17985/2007, Cass. 16564/2002 e Cass. 14861/2000), idonea a determinare nocumenti anche in epoca precedente la cessazione della permanenza della condotta, il cui ristoro può essere invocato indipendentemente dalla persistenza dell'agente lesivo. Tenuto conto quindi che i creditori non hanno prodotto atti stragiudiziali idonei a interrompere ex art. 2943 comma 4 cc il corso della prescrizione, le eventuali poste risarcitorie a maturazione progressiva potrebbero essere riconosciute limitatamente al periodo quinquennale anteriore alla notifica dell'atto di citazione, avvenuta il 12.5.1999, ovvero nell'imminenza della 210 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 cessazione dell'attività lesiva, pacificamente terminata nel maggio 1995. Ciò posto, la costruzione del porto turistico attrezzato presenta i connotati obiettivi e soggettivi dell'illecito extracontrattuale, essendo stata effettuata occupando e mutando vasti spazi del demanio marittimo, assoggettati a vincolo paesaggistico istituito ai sensi della L. 1497/1939 con Dm del 19.5.1965 e successivamente classificati come riserva naturale con Dm 13.7.1977, in mancanza degli indispensabili titoli concessori emessi dalle autorità amministrative preposte al governo del territorio, alla salvaguardia delle bellezze paesistiche e alla tutela del patrimonio demaniale, il cui rilascio non è stato neppure eccepito dal debitore, il quale invece ha espressamente ammesso, tanto negli scritti difensivi elaborati che nella stessa intesa transattiva sopra citata, valutabile in parte qua come confessione stragiudiziale ricognitiva di fatti sfavorevoli alla parte dichiarante, di avere eseguito i lavori di realizzazione dell'insediamento, di averlo messo in esercizio e di averne curato la gestione. Sul punto va disatteso anche l'argomento secondo il quale l'inerzia serbata dal Comune di Castelvolturno, vanamente invitato dalla Coppola Pinetamare s.n.c., utilizzatore di fatto dei beni demaniali su cui è stata realizzata l'infrastruttura portuale, a dare corso al procedimento finalizzato alla cessione all'utente privato delle aree impegnate dall'opera, di appartenenza contestata, ai sensi della L. 177/1992 e della L. 579/1993, ne escluderebbe l’illiceità, poichè l'eventuale assunzione dell'atto traslativo finale inutilmente sollecitato dal richiedente, in grado di consentire ex post l'attribuzione ai privati della proprietà degli spazi demaniali, non avrebbe potuto conferire il crisma della legittimità agli interventi di appropriazione dei beni pubblici che hanno generato anche un degrado ambientale. Peraltro il meccanismo di trasferimento automatico del diritto dominicale di pertinenza statale - dapprima in favore degli enti comunali e poi, dal patrimonio disponibile di questi ove sono transitati, ai detentori materiali - stabilito dal combinato disposto degli artt. 1 e 2 L 177/1992 esclusivamente per i territori di alcune province dell'Italia settentrionale non avrebbe potuto trovare applicazione ratione loci alla fattispecie, mentre invece il diverso e più articolato sistema programmatico ad attivazione facoltativa sancito dalla L 579/1993 subordina la devoluzione ai Comuni dei beni demaniali e la loro successiva alienazione ai possessori all'accoglimento dell'istanza di assegnazione delle aree inoltrata dagli enti comunali, nel caso in esame neppure presentata, con provvedimento ministeriale discrezionale, munito di portata costitutiva, la cui adozione è orientata anche dalla valutazione di compatibilità della vicenda pianificata con i vincoli urbanistici, ambientali e paesaggistici, nella specie manifestamente trasgrediti. Pertanto la società convenuta, artefice di un'iniziativa non autorizzata nella sua interezza dalle autorità competenti e quindi ispirata sotto l'aspetto psicologico da un elemento soggettivo quanto meno colposo, deve essere condannata al risarcimento dei danni che le opere di approntamento del porto hanno arrecato all'ambiente, limitati nel loro ammontare alle sole conseguenze pregiudizievoli del comportamento individuate lesivo della condizione naturale del sito secondo il criterio speciale dettato dall'art. 18 comma 7 L. 349/1986, il quale introduce una vistosa deroga al principio generale di corresponsabilità paritaria tra eventuali condebitori solidali della medesima prestazione di cui all'art. 2055 cc. Per quanto concerne invece il quantum debeatur occorre prendere atto che l'art. 5 bis DL 135/2009, convertito nella L. 166/2009, ha modificato l’art. 311 Dlgs 152/2006 aggiungendovi il comma 3, secondo il quale i criteri di determinazione del risarcimento per equivalente del danno ambientale - applicabili ex art. 303 comma 1 lett.f) anche alle domande di risarcimento proposte o da proporre ai sensi dell'art.18 L. 349/1986 in luogo delle previsioni dei commi 6, 7 e 8 dello stesso art.18 (medio tempore sostituito dall'art.113 Dlgs 152/2006), con esclusione CONTENZIOSO NAZIONALE 211 di quelle coperte da pronunce passate in giudicato - sono definiti, avendo riguardo anche al valore monetario stimato delle risorse naturali e dei servizi perduti e ai parametri utilizzati in casi simili o materie analoghe per la liquidazione del risarcimento per equivalente del danno ambientale in sede giurisdizionale nazionale e comunitaria, con decreto del Ministro dell'Ambiente da emanare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore dell'art. 5 bis DL 135/2009, in conformità a quanto previsto dal punto 1.2.3 dell'All. II alla direttiva CE 35/2004. Le disposizioni sulla liquidazione del danno ambientale, attraverso il rinvio recettizio alla fonte comunitaria, sono state quindi abrogate con efficacia retroattiva, estesa anche ai giudizi in corso di svolgimento, attraverso una modifica dei criteri di individuazione del danno già stabiliti dall'art. 18 L. 349/1986, direttamente sostituiti dalle norme dettate dalla direttiva comunitaria menzionata da integrarsi con la disciplina regolamentare nazionale di attuazione, non ancora approvata. Tuttavia l'impossibilità obiettiva di procedere nel caso in esame a una aestimatio secondo il metodo preferenziale di equivalenza tra le risorse o i servizi perduti, di valore economico allo stato degli atti assolutamente indeterminabile, con analoghe utilità sostitutive, impone di adottare le tecniche alternative residuali di valutazione equitativa ragguagliate al costo delle misure di riparazione complementare e compensativa da apportarsi, le quali, in mancanza di altri dati disponibili, debbono essere necessariamente ragguagliate all'ammontare della spesa occorrente per ricondurre alla condizione originaria i luoghi, profondamente alterati dall'erezione di costruzioni di vario genere nell'area a ridosso del litorale, dall'innalzamento sulla superficie marina di scogliere artificiali, dallo scavo di un canale navigabile di collegamento tra la darsena e l'avamporto delimitato da argini in elevazione, dalla creazione di un bacino occluso originariamente destinato ad assicurare il ricambio dell'acqua confluita all'interno del naviglio e dalla costruzione della darsena munita di pontili interni di approdo e di attrezzature di alaggio, rimessaggio e rifornimento di carburante. Infatti il compendio portuale ha mutato radicalmente in peius l'assetto paesaggistico e naturalistico dello specchio acqueo e di un ampio tratto di territorio costiero paludoso inizialmente privo di qualsiasi installazione postuma, trasformato nei suoi profili orografico e qualitativo perché adibito all'utilizzo per attività di diporto sfigurandone la consistenza e compromettendo la vocazione delle risorse marine e terrestri originariamente intatte asservite alle sole specie animali e vegetali che ne avevano fatto il proprio habitat, la cui bonifica da acquitrini malsani effettuata per garantire l'accessibilità e la fruibilità del luogo per le finalità commerciali perseguite dal costruttore, lungi dal poter essere interpretata come un miglioramento della condizione primigenia del sito, riflette invece un'iniziativa strumentale alla sua illegittima antropizzazione che ha contribuito a sovvertire la situazione dell'area distogliendola dalla sua destinazione. Inoltre le conclusioni rassegnate nella relazione peritale redatta dal consulente tecnico di ufficio rivelano come la predisposizione delle dighe foranee di difesa destinate a ostacolare il moto ondoso diretto verso la terraferma, sprovviste di un dispositivo di ricambio forzato della masse acque confluite all'interno dell'avamporto, abbia ridotto in modo significativo l'ossigenazione del braccio di mare delimitato dalle scogliere artificiali, invero già sensibilmente inquinato da agenti contaminanti di provenienza esterna, favorendone il ristagno e agevolando la proliferazione abnorme di essenze vegetali che hanno reso l'ambiente marino, sicuramente pregiudicato anche dal passaggio di un numero elevato di imbarcazioni dotate di propulsori alimentati da idrocarburi i cui fumi di combustione vengono dispersi nell'atmosfera, meno vivibile per altri organismi e per la fauna ittica anche in considerazione del deposito lungo corso del naviglio di residui di fluidi lubrificanti e di carburante rilasciati dai natanti. 212 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 Le strutture protettive dello specchio di mare antistante l'imbocco del canale che conduce all'insenatura della darsena, intercettando i sedimenti trasportati dal fiume Volturno che sfocia nelle vicinanze e diretti dalle correnti marine, hanno poi determinato una sensibile modifica del fisiologico regime dinamico del litorale e della configurazione della linea rivierasca, caratterizzata dall'accrescimento del lido di sopraflutto e dall'erosione della spiaggia di sottoflutto, accentuando cosi lo squilibrio orografico provocato dalla creazione dell'impianto portuale. In tale contesto non può quindi essere messo in dubbio il significativo impatto ambientale e paesaggistico derivante dalla realizzazione dell'opera, il cui promotore e gestore va pertanto condannato al pagamento della somma, stimata in via forfettaria dal perito, in virtù di un'analisi non sottoposta a censure, in complessivi € 7.252.491,78 al netto degli accessori, da impiegarsi per remunerare i lavori di demolizione di tutte le strutture lesive dell'integrità del patrimonio naturalistico investito dall'intervento e di rimozione dei materiali di risulta. Sul punto va rilevato che la voce risarcitoria appena liquidata - la cui funzione indennitaria di un pregiudizio unitariamente valutato ancora persistente nella sua interezza al momento della proposizione delle domande la sottrae agli effetti dell'eccezione di prescrizione estintiva del credito corrispondente sollevata ex parte rei - rappresenta l'unica posta attiva maturata dal creditore, il quale va individuato nel Ministero dell'Ambiente, affidatario dell'amministrazione del settore e istituzionalmente deputato a esercitare in materia i poteri autoritativi di competenza statale, essendo stata abrogata con valenza ex tunc la norma contenuta nell'art. 18 L. 349/1986 che imponeva di riconoscere anche le partite accessorie, di connotazione latamente punitiva, correlate al profitto economico conseguito dall'autore dell'illecito e all'intensità della sua colpa. Per contro non sembrano sussistenti i presupposti per ravvisare anche un ulteriore danno non patrimoniale, del resto rimasto sostanzialmente imprecisato nella sua natura e nelle sue forme di manifestazione, inflitto al "valore ambiente", la cui nozione legale di bene immateriale insiemistico distinto e autonomo dalle singole entità fisiche inerti, idriche, aeree e animate che lo compongono induce a reputare coincidente il pregiudizio di carattere non strettamente economico derivante dalla sua menomazione con quello già contemplato dall'art. 18 L. 349/1986. Inoltre la qualifica di persona giuridica rivestita dalla vittima dell'evento esclude in radice la configurabilità di una sofferenza morale propiziata sub specie di perturbamento psichico dalla commissione dell'illecito, sicché l'importo complessivamente spettante al dicastero attore deve essere quantificato in € 7.252.491,78. Tale cifra, costituendo l'oggetto di un debito di valore computato per equivalente pecuniario, andrà maggiorato della rivalutazione monetaria ragguagliata alle variazioni periodiche degli indici generali dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati registrati dall'Istat e degli interessi legali compensativi calcolati sulla sorta capitale nominale netta con decorrenza dalla data del deposito della relazione peritale fino al soddisfo, mentre nel periodo anteriore le usurae andranno conteggiate sulla somma progressivamente devalutata a ritroso secondo gli stessi criteri fino alla data di proposizione dell'azione. In proposito non può ritenersi che gli enti pubblici chiamati in causa abbiano concorso alla verificazione del fenomeno di degrado della zona impegnata dall'insediamento con il proprio operato illegittimo, invero non puntualmente specificato attraverso l'indicazione dei provvedimenti in concreto assunti, il quale sarebbe astrattamente in grado di ridurre la responsabilità del debitore, come si è detto tenuto a rispondere esclusivamente delle conseguenze del proprio comportamento in deroga al principio generale codicistico che pone l'obbligazione risarcitoria in via solidale a carico ciascuno degli autori di condotte autonome produttive di un medesimo episodio dannoso. CONTENZIOSO NAZIONALE 213 Infatti gli atti deliberativi, consultivi e autorizzativi versati in produzione di parte convenuta (licenza edilizia per la costruzione del porto turistico e del canale navigabile rilasciata in data 30.6.1964 dal Sindaco del Comune di Castelvolturno; parere favorevole a una proposta di variante progettuale emesso il 13.6.1975 da un funzionario dell'Ufficio del genio civile; nulla osta emanato il 16.6.1969 dalla Soprintendenza regionale ai monumenti all'emissione di una nuova licenza edilizia conforme agli strumenti urbanistici vigenti; concessione del 3.10.1969 dell'uso della sola foce del Lagno, poi trasformato in canale navigabile, accordata dall'intendente di Finanza; parere favorevole regionale alla costruzione di opere di difesa dell'abitato costiero; parere dell'Ufficio del genio civile per le opere marittime nell'ambito del procedimento finalizzato alla costituzione del rapporto concessorio sulle aree demaniali) non risultano in grado di legittimare la costruzione e il mantenimento in funzione del compendio portuale, intrapresi in mancanza di validi titoli giustificativi, per cui la loro approvazione non appare idonea ad assumere alcuna efficacia eziologica concorrente nel meccanismo di determinazione dell'evento dannoso, imputabile in via esclusiva al costruttore e al gestore dell'insediamento. Neppure può riconoscersi rilievo scriminante o anche solo attenuante alla mancata o intempestiva attivazione da parte delle autorità titolari delle prerogative sanzionatorie loro riservate per reprimere ed eliminate gli effetti di un illecito già perpetrato ex alio, il cui unico responsabile non è abilitato neppure a pretendere in via di regresso l'adempimento pro quota della prestazione risarcitoria, da lui dovuta in via esclusiva, nei confronti degli interventori coatti, non qualificabili come condebitori solidali dell'obbligazione reclamata dall'attore. Pertanto si presentano infondate le domande spiegate in sede di simultaneus processus dalla società convenuta per sentire pronunciata la condanna diretta dei chiamati in causa, indicati come corresponsabili di un delictum giuridicamente non ascrivibile quoad effectum già sul piano astratto a una pluralità di soggetti, a soddisfare in proporzione pari almeno alla metà le ragioni vantate dagli attori con la pretesa principale, e per essere sollevata nella stessa misura percentuale minima dalle conseguenze delle propria soccombenza, non essendo ipotizzabile la compartecipazione di estranei alla vicenda da cui è scaturito il diritto fatto valere dal creditore nei riguardi dell'unico titolare a latere debitoris del rapporto controverso. In conclusione occorre prendere atto che l'associazione ambientalistica WWF Italia, interventore volontario ad adiuvandum actoris che ha sollecitato l'accoglimento dell'azione principale, ha esperito nella fase assertiva di questo stesso giudizio anche un ulteriore intervento di tipo litisconsortile, essendosi avvalso della facoltà di sostituirsi alla Provincia di Caserta, accordatale dall'art. 9 comma 3 Dlgs 267/2000, per richiedere la condanna del convenuto alla riparazione, in forma specifica o per equivalente, dei danni patiti dall'ente sostituito a seguito dell'illecito ambientale de quo agitur. Orbene, nel sistema anteriore alla riforma introdotta dall'art. 299 Dlgs 152/2006 che ha "centralizzato" in capo alla sola autorità erariale il potere di agire in giudizio, inapplicabile ratione temporis al caso in discorso, la domanda di ristoro del danno ambientale poteva essere "promossa dallo Stato, nonchè dagli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo", come espressamente previsto dall'art. 18 comma 3 L. 349/1986, interpretato dalla prevalente giurisprudenza nel senso dell'istituzione a beneficio di ciascuna delle amministrazioni menzionate di una propria e autonoma legittimazione processuale concorrente. Nondimeno, a sommesso avviso del relatore, la consolidata concezione in termini unitari del complesso di valori che contrassegna l'ambiente, non scomponibile in modo atomistico nelle sue singole articolazioni paesaggistiche, naturalistiche, ecologiche, faunistiche e urbanistiche devolute alle cure di autorità diverse, induce a preferire l'indirizzo ermeneutico minoritario 214 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 che ravvisa il carattere alternativo della legittimazione assegnata in maniera indistinta e paritaria, oltre che alla Regione, anche agli organi che esprimono le autonomie locali, sebbene questi vantino un vero e proprio diritto soggettivo alla difesa del territorio che ne rappresenta un comune elemento costitutivo, condiviso anche dallo Stato. La natura sussidiaria del potere di azione rimesso all'ente provinciale esclude quindi la proponibilità della domanda enunciata nel suo interesse in concomitanza con la pretesa, qualificata dai medesimi dati obiettivi di identificazione, già avanzata dall'autorità centrale affidataria della legittimazione primaria, in seguito divenuta esclusiva. Le spese processuali relative al giudizio principale seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo ex officio, in mancanza di nota specifica. La trattazione simultanea in tutti gli atti difensivi - esclusi soltanto quelli introduttivi - predisposti dall'Avvocatura erariale e della difesa della società convenuta delle questioni dedotte nelle cause connesse intentate con le azioni di garanzia proposte nei confronti dai dicasteri chiamati in causa e con la domanda risarcitoria avanzata nell'interesse della Provincia di Caserta giustifica invece l'integrale compensazione dei costi di difesa affrontati dalle parti risultate vittoriose. La rilevanza marginale assunta nell'ambito del thema decidendum delle tematiche oggetto delle controversie di garanzia instaurate nei riguardi del Comune di Castelvolturno e della Regione Campania induce a dichiarare irripetibili ex art. 92 comma 2 cpc le spese anticipate dagli interventori coatti assolti dagli addebiti loro rivolti. PQM Il Giudice, definitivamente pronunciando sulle domande proposte come in epigrafe, così provvede: a) dichiara che l'illecita realizzazione e la successiva gestione del complesso portuale denominato Darsena S. Bartolomeo ubicato nel tenimento del Comune di Castelvolturno, effettuate dalla Coppola Pinetamare s.n.c., hanno danneggiato l'ambiente; b) condanna la Coppola Pinetamare s.n.c. al pagamento in favore del Ministero dell'Ambiente di € 7.252.491,78, oltre rivalutazione monetaria secondo ìndici Istat e interessi legali sulla sorta capitale nominale netta dal 25.6.2007 al soddisfo, da maggiorarsi degli ulteriori interessi legali calcolati sulla somma progressivamente devalutata a ritroso dal 25.6.2007 al 12.5.1999; c) rigetta nel resto le azioni principali; d) condanna altresì la Coppola Pinetamare s.n.c. al rimborso in favore del Ministero dell'Ambiente delle spese di lite che liquida in complessivi € 37.347,95, di cui € 150,00 per esborsi, € 6.264,84, € 26.800,00 per onorari ed € 4.133,11 per spese generali ex art. 14 Dm 127/2004; e) pone definitivamente a carico della Coppola Pinetamare s.n.c. gli oneri sostenuti per lo svolgimento della consulenza tecnica di ufficio, pari, per quanto consta, a € 38.875,36 oltre IVA e contributi previdenziali se dovuti, disponendo l'immediata restituzione alle parti attrici delle somme da queste corrisposte a tale titolo in via di anticipazione; f) rigetta le domande promosse dalla Coppola Pinetamare s.n.c. nei confronti dei chiamati in causa e compensa integralmente le relative spese; g) dichiara improponibile l'azione risarcitoria formulata ex art. 9 comma 3 Dlgs 267/2000, nell'interesse della Provincia di Caserta, dalla WWF Italia Ong Onlus contro la Coppola Pinetamare s.n.c., compensando per intero i relativi costi. Cosi deciso in Napoli il 18.5.2012 CONTENZIOSO NAZIONALE 215 L’Adunanza Plenaria fa il punto sul blocco delle assunzioni per i professori universitari (Nota a Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza del 28 maggio 2012 n. 17) Federico Basilica* Francesco Frigida* 1. Con la sentenza in rassegna, l'Adunanza Plenaria fa il punto sulla delicata questione dell’operatività del cosiddetto “blocco delle assunzioni” con riferimento ad un gruppo di professori associati confermati e ricercatori confermati che avevano superato con valutazione di idoneità, a seconda dei casi, i concorsi per professore ordinario e per professore associato banditi dall’Università nel giugno del 2008. Il Consiglio di Stato delinea l'esatta perimetrazione dei concetti di nuova assunzione e di passaggio di qualifica, riconducendo gli avanzamenti professionali ora richiamati all'interno della categoria delle progressioni verticali e attribuendogli, di conseguenza, il crisma dell’assunzione in senso stretto, impedita dal c.d. “blocco delle assunzioni” disposto con il D.L. n. 180/2008 (art. 1, commi 1 e 3), conv. in L. n. 1/2009. 2. L’ordinanza [di rimessione - 1249/12] della Sesta Sezione del Consiglio di Stato appare in certo senso frutto di uno scrupolo, visto che conclude espressamente per l’operatività dell’impedimento quale che sia la soluzione condivisa sulla questione di diritto prospettata. I giudici della Sesta, tuttavia, si mostrano consapevoli della delicatezza della vicenda e sollecitano l’imprimatur dell'Adunanza Plenaria. Ma partiamo dal caso concreto. Alcuni professori associati (ora di seconda fascia) e ricercatori confermati presso l’Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria avevano superato con valutazione di idoneità, rispettivamente, i concorsi per professore ordinario (ora di prima fascia) e per professore associato banditi dall’Ateneo calabrese nel giugno del 2008. Ai sensi dell’art. 5, comma 4, del D.P.R. n. 117/2000 gli stessi venivano proposti per la nomina (c.d. “chiamata”) dai rispettivi Consigli di Facoltà e, perciò, chiedevano all’Università di essere assunti nella qualifica per la quale erano risultati idonei. L’Università aveva però superato il limite del 90% del rapporto tra le spese fisse e la misura del FFO (fondo di finanziamento ordinario) alla data del 31 dicembre 2010 e perciò si vedeva costretta ad opporre un diniego, fon- (*) Avvocati dello Stato. 216 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 dato sull'applicabilità del c.d. “blocco delle assunzioni” disposto dal D.L. n. 180/2008 (art. 1, commi 1 e 3), conv. in L. n. 1/2009. Il divieto di nuove assunzioni - al di sopra di determinati limiti - è previsto specificamente per il personale docente e di ricerca degli atenei dall'art. 1 del D.L. 180/2008 cit. (che reca «Disposizioni urgenti per il diritto allo studio, la valorizzazione del merito e la qualità del sistema universitario e della ricerca »): tale disposizione prevede infatti puntuali limiti di contingentamento alle nuove assunzioni da parte delle università e degli enti di ricerca. I professori e i ricercatori impugnavano il diniego innanzi al TAR per la Calabria - Reggio Calabria, deducendo, in sostanza, la non applicabilità sia del blocco delle assunzioni alle procedure concorsuali interamente sviluppatesi e conclusesi in tempo anteriore all’entrata in vigore della normativa restrittiva, che delle limitazioni di cui al blocco del “turn over”, anche in considerazione della circostanza che il loro accesso alla qualifica immediatamente superiore non avrebbe comportato aggravi di spesa per l’Ateneo, in quanto già prestavano servizio presso la stessa Università. In subordine, eccepivano l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 comma 1 della L. 1/2009, in relazione agli artt. 3 e 97 della Costituzione. Il Tribunale calabrese, con la sentenza n. 666/2011, respingeva i ricorsi, sulla base di tali argomentazioni: 1) l’art. 1, co. 1, D.L. n. 180/2008 - nel prevedere il divieto per le Università che superino il suddetto limite del 90%, di procedere ad assunzioni - contiene una norma applicabile anche alle procedure concorsuali già bandite e/o espletate; 2) il blocco del turn over previsto dall’art. 1, co. 3, d.l. n. 180/2008 andava applicato al caso di specie, anche laddove dalle nuove assunzioni non derivi un aumento di costi, poiché la norma non risponderebbe solo a ragioni finanziarie, ma anche organizzative; ad ogni modo, nel caso specifico non vi sarebbe un aumento di costi solo per i primi tre anni; 3) non risultava violato il diritto all’assunzione o all’aspettativa acquisita, in quanto non vi è una definitiva preclusione all’assunzione, ma solo un suo differimento fino all’esercizio finanziario in cui l’Università rientrerà nei parametri di legge; 4) non erano fondate le censure di costituzionalità, in relazione alla lesione dei principi di uguaglianza, imparzialità, buon andamento dell’amministrazione, autonomia universitaria. Gli appelli dei docenti vertevano tutti sostanzialmente sull'asserita inapplicabilità al caso di specie del c.d. “blocco delle assunzioni”, trattandosi di ricercatori e professori associati già in servizio presso l’Università Mediterranea, che erano risultati idonei nei concorsi, rispettivamente, per professore associato e per professore ordinario. Il che veniva sostenuto sulla base di due ordini di argomentazioni: a) non CONTENZIOSO NAZIONALE 217 si sarebbe trattato di un'assunzione ma di un passaggio a qualifica superiore; b) non vi sarebbe stato alcun aumento di costi in quanto il passaggio di un professore associato (ora di seconda fascia), con una certa anzianità di servizio, alla posizione iniziale di professore ordinario (ora di prima fascia), avrebbe comportato nel primo triennio una riduzione della retribuzione e, quindi, dei costi sostenuti dall’Università. 3. La Sesta Sezione - atteso il carattere di massima della questione sollevata - riteneva opportuno investire l’Adunanza Plenaria, con ordinanza nr. 1249/2012. La lettura della puntuale decisione della Sesta Sezione evidenzia lo scrupolo di definire con la massima ponderazione una questione sulla quale la Sezione sembra avere idee chiarissime. Infatti, dopo aver posto il problema se si tratti di nuova assunzione (come crede giustamente la Sezione) o passaggio di qualifica (come sostengono i docenti), ad avviso della Sesta Sezione, «anche a ritenere che si tratti di passaggio di qualifica, sembra preferibile la soluzione (...) che estende il blocco delle assunzioni ai passaggi di qualifica (...) la ratio legis sembra quella di impedire qualsivoglia “assunzione” conseguente ad un concorso pubblico, anche per coloro che sono già dipendenti dell’Università e conseguono una posizione superiore in virtù di concorso pubblico (...) Il divieto di assunzioni è netto e assoluto, ed essendo riferito alle “assunzioni” tout court, sembra riferirsi a qualunque forma di accesso a una nuova qualifica, con o senza concorso, con concorso pubblico o concorso interno». Tanto rilevato, in ordine all'intento soltanto chiarificatore della scelta effettuata dalla Sesta Sezione, possono essere specificate le due tesi relative alla natura delle progressioni in carriera de quibus. Orbene, secondo un minoritario orientamento giurisprudenziale (Cons. St., Sez. VI, 21 aprile 2010, n. 2217; Cons. St., Sez. VI, 16 novembre 2004, n. 7483), il divieto di assunzione - introdotto dal legislatore per esigenze di carattere finanziario - non si applicherebbe nel caso di ricercatori e professori associati già in servizio che siano risultati idonei nei concorsi, rispettivamente, di professori associati e di professori ordinari, in quanto non si tratterebbe di assunzione ma di passaggio a qualifica superiore. Per contro, secondo l'indirizzo maggioritario, il transito dal ruolo di professore di seconda fascia a professore di prima (come peraltro quello da ricercatore a professore associato), in quanto derivante da concorso pubblico, rappresenta un caso di assunzione in senso stretto e non un mero passaggio di qualifica. Di tale avviso era già stata peraltro la Commissione speciale pubblico impiego del Consiglio di Stato, con il parere 9 novembre 2005, n. 3556. La Sezione remittente esprimeva il proprio convincimento circa l'infondatezza della tesi propugnata dagli appellanti e sulla bontà dell'orientamento ermeneutico per cui «nel caso di specie, la progressione di carriera deriva da 218 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 un concorso pubblico, sicché sembrerebbe trattarsi di assunzione in senso proprio e non di mero passaggio di qualifica». 4. La sentenza in commento ha respinto l’indirizzo per cui i nuovi inquadramenti in ruolo dei docenti sarebbero dei meri passaggi di qualifica, affermando, viceversa, che «il nuovo inquadramento in ruolo del docente è il frutto dell’esito positivo di una procedura concorsuale aperta che dà luogo ad un assunzione in senso proprio e non al mero passaggio di qualifica per effetto di procedura riservata», con la conseguenza che questi inquadramenti soggiacciono alla disciplina del cd. “blocco delle assunzioni”. I giudici di Palazzo Spada richiamano a sostegno di tale tesi la giurisprudenza del Giudice di legittimità che, in tema di riparto di giurisdizione, sottopone alla giurisdizione del giudice amministrativo la cognizione del contenzioso inerente alle procedure riservate finalizzate alla progressione verticale interna, ovverosia al passaggio tra diverse aree di inquadramento delineate dalla contrattazione collettiva (Cass. civ., Sez. Un., 5 maggio 2011, n. 9844; Cass. civ., Sez. Un., 15 ottobre 2003, n. 15403). In sostanza, l’attribuzione di una qualifica superiore – e non di semplice mansione di livello più elevato – a seguito di una procedura concorsuale ha un carattere novativo del rapporto di lavoro. Al riguardo, la Corte regolatrice della giurisdizione, aderendo pienamente alla distinzione tra progressioni verticali ed orizzontali, ha precisato – con un’interpretazione fatta propria dall’Adunanza Plenaria – che: «assume rilevanza determinante, ai fini dell'indicato criterio di riparto della giurisdizione, il contenuto della contrattazione collettiva, sicché in presenza di progressioni, secondo disposizioni di legge o di contratto collettivo, che comportino una progressione verticale nel senso indicato, la cognizione della controversia resta riservata al giudice amministrativo; sussiste, invece, la giurisdizione del giudice ordinario nelle controversie attinenti a concorsi per soli dipendenti interni che comportino il passaggio da una qualifica all'altra, ma nell'ambito della stessa area (o categoria), sia con acquisizione di posizioni più elevate meramente retributive sia con il conferimento di qualifiche superiori, in base a procedure che l'amministrazione pone in essere con le capacità e i poteri del privato datore di lavoro» (Cass. civ., Sez. Un., 5 maggio 2011, n. 9844). Alla stregua di tali considerazioni, la sentenza in commento conclude affermando la natura di progressione verticale dei passaggi da ricercatore a professore di seconda fascia e da professore di seconda fascia a professore di prima fascia, sicché gli stessi vanno qualificati come vere e proprie nuove assunzioni, sottostanti, pertanto, al divieto di nuovi assunzioni stabilito dall’art. 1 D.L. n. 180/20008 conv. in L. n. 1/2009 («soggiacciono al blocco delle assunzioni di cui alla normativa in esame anche le progressioni verticali e le procedure di riqualificazione variamente denominate che sanciscono il pas- CONTENZIOSO NAZIONALE 219 saggio ad una diversa area con la conseguente attribuzione di un nuovo posto per effetto della novazione del precedente rapporto»). 5. L’impianto motivatorio della decisione in parola sembra fondato su solide basi e le conclusioni cui perviene l’Adunanza Plenaria appaiono convincenti. Basta infatti ricostruire il quadro normativo relativo alla carriera del docente universitario e gli orientamenti espressi dalla Corte Costituzionale, dalla Corte di Cassazione e dal Consiglio di Stato, per rendersene conto. Lo status del docente universitario assume una configurazione peculiare all'interno della categoria dei pubblici dipendenti ed in particolare all'interno della species dei dipendenti pubblici in regime di diritto pubblico, precipitato logico della natura sui generis attribuita dall'ordinamento all'Università. Al riguardo, giova evidenziare che la Carta fondamentale, oltre ad affermare la libertà d’insegnamento dell'arte e della scienza («L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento», art. 33, comma 1, Cost.), proclama l'autonomia delle Università nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato («Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato», art. 33, comma 6, Cost.). L'autonomia universitaria, declinata nei suoi profili didattici e organizzativi è, pertanto, strumentale alla libertà di ricerca e di insegnamento del singolo docente. Tanto rilevato, occorre ora precisare che l'insegnamento e la ricerca universitaria sono affidati a tre distinte figure professionali. Ed invero, con il riordino della docenza universitaria effettuato dal D.P.R. n. 382/1980 venne delineata la distinzione - anche in ordine alle modalità di assunzione - tra professori ordinari, professori associati e ricercatori. Ciascuna di queste tre categorie si caratterizza per funzioni e attribuzioni diverse le une dalle altre, pur all'interno di un denominatore comune rappresentato dall'intreccio inscindibile tra ricerca e insegnamento, che distingue la docenza universitaria, nelle sue differenti gradazioni, dalle altre tipologie di docenza. Orbene, ai sensi dall’art. 1, comma 1, del D.P.R. n. 382/1980 «Il ruolo dei professori universitari, comprende le seguenti fasce: a) professori ordinari; b) professori associati». Il comma 2 prevede che: «Nell’unitarietà della funzione docente, le due fasce hanno uguali garanzie di libertà didattica e di ricerca », mentre il comma 5 istituisce «il ruolo dei ricercatori universitari» L’unicità del ruolo non vale tuttavia a rendere concettualmente e funzionalmente indistinte le due fasce di professori. Nel D.P.R. n. 382/1980, infatti, non si ricorre mai alla locuzione “ruolo unico”, ma anzi si evidenzia come quello della libertà di insegnamento e di didattica sia l’unico connotato comune alle due fasce. Le differenze tra i due ordini di professori, come già sopra accennato, sono molteplici. Differenti, invero, sono i requisiti scientifici richiesti per l’accesso ai ri- 220 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 spettivi ruoli (art. 16, comma 1, L. n. 240/2010 e D.P.R. n. 222/11 riguardante il regolamento per il conferimento dell’abilitazione nazionale per l’accesso al ruolo dei professori universitari). Ai professori ordinari sono riservate alcune cariche accademiche, quali quella di Rettore e di Preside di Facoltà. La normativa relativa al pensionamento delle due categorie di docenti è differente con riferimento all’età massima. La retribuzione assegnata alle due fasce è diversa: al professore associato, infatti, spetta il 70% di quella spettante al professore di prima fascia. Ciò posto, è d'uopo evidenziare che, a seguito della riforma introdotta dalla cd. Legge Gelmini n. 240 del 2010, i professori universitari sono divisi in professori di prima fascia (corrispondenti a vecchi ordinari) e professori di seconda fascia (corrispondenti ai precedenti associati). In particolare, ai sensi del già citato art. 16, comma 1, di tale legge: «È istituita l'abilitazione scientifica nazionale, di seguito denominata “abilitazione”. L'abilitazione ha durata quadriennale e richiede requisiti distinti per le funzioni di professore di prima e di seconda fascia. L'abilitazione attesta la qualificazione scientifica che costituisce requisito necessario per l'accesso alla prima e alla seconda fascia dei professori». 6. Tanto premesso, appare evidente che, con riferimento alle due fasce di professori universitari, come rilevato dalla Corte Costituzionale, sussiste «una gerarchia di valori e di funzioni» e che «l'unitarietà della funzione docente non equivale all'unicità del ruolo dei professori universitari. Il sistema normativo del 1980 statuisce una gerarchia di valori e di funzioni tra le due fasce del ruolo dei professori riservando compiti direttivi, organizzativi e di coordinamento all'ordinario acquisito all'istituzione universitaria attraverso più severa selezione concorsuale mirante ad individuare una personalità scientifica compiutamente matura, mentre la diversa modalità del reclutamento dell'associato è preordinata ad accertarne soltanto l'idoneità scientifica e didattica. Ne consegue la non fungibilità del giudizio di conferma in ruolo di quest'ultimo con il giudizio per la nomina ad ordinario, restando l'uno e l'altro vincolati a un diverso grado di accertamento, l'operosità scientifica e didattica di un idoneo e di un maturo» (Corte cost. 25 ottobre 1988, n. 990). Inoltre, in tale pronuncia, la Corte, ha espressamente definito «nuovo status» quello del professore di prima fascia rispetto alla precedente funzione di professore di seconda fascia, sicché non possono esserci incertezze circa la sussistenza nel nostro ordinamento accademico di due distinti ruoli di professori universitari. Giova ora rammentare che, com'è noto, il concorso pubblico si caratterizza in un meccanismo di selezione a carattere aperto e comparativo (Corte Cost. 24 giugno 2010, n. 225). Il principio del concorso pubblico è destinato ad operare in riferimento CONTENZIOSO NAZIONALE 221 all'accesso agli impieghi (art. 97 co. 3 Cost.). Tale espressione, utilizzata per delimitare l'ambito applicativo del principio, va interpretata in senso estensivo: non si riferisce, infatti, soltanto alle procedure finalizzate all'assunzione di personale, preordinate all'ingresso per la prima volta nei ruoli dell'Amministrazione, comprendendo, invece, anche le procedure finalizzate al passaggio dei dipendenti alle qualifiche superiori. Al riguardo, la Corte Costituzionale ha precisato che: «il passaggio ad una fascia funzionale superiore comporta l'accesso ad un nuovo posto di lavoro corrispondente a funzioni più elevate ed è soggetto, pertanto, quale figura di reclutamento, alla regola del pubblico concorso» (Corte Cost. 16 maggio 2002, n. 194). Vale sottolineare che un iniziale orientamento della Corte di Cassazione distingueva tra le procedure dirette all’instaurazione del rapporto di lavoro (per le quali la giurisdizione veniva attribuita al giudice amministrativo) e le procedure volte a consentire la progressione di carriera di lavoratori già dipendenti dall’Amministrazione (per le quali la giurisdizione veniva attribuita al giudice ordinario). I concorsi interni venivano qualificati come procedimenti negoziali di esercizio dello ius variandi della Pubblica Amministrazione e quindi come atti gestionali o di micro-organizzazione di cui all’art. 5, comma 2, D.lgs. n. 165 del 2001. Tale indirizzo era stato poi censurato dalla Corte Costituzionale che aveva posto l’attenzione sulla regola del pubblico concorso come principio costituzionale ineludibile e, pertanto, da evadere solo qualora la progressione non determinasse una novazione del rapporto di lavoro. Le direttive del Consulta avevano portato, pertanto, ad un revirement della Corte di Cassazione, che rivisitava il proprio orientamento, distinguendo tra concorsi misti, concorsi per soli esterni e concorsi interni. Nei primi due casi la regola del concorso rimaneva ferma, nell’ipotesi di concorsi interni, invece, essa poteva venire meno se si trattava di una progressione nell’ambito della stessa area. Diversamente, tornava ad essere vincolante la procedura concorsuale. La Commissione speciale pubblico impiego del Consiglio di Stato - con parere 9 novembre 2005, n. 3556 - recepiva l’orientamento in parola, che costituisce ormai ius receptum a seguito del copioso intervento delle Corti Superiori (ex pluribus: Cons. St. nn. 1355, 1356 e 1357 del 2005; Cass. SS.UU. 26 maggio 2004, n. 10183; Cass. SS.UU. 15 ottobre 2003, n. 15403; T.A.R. Lazio 4 maggio 2004, n. 3756; Cass. SS.UU. ord. 20 maggio 2005, n. 10605). Orbene, nel concetto di assunzione non ricadono solo le procedure volte ad instaurare per la prima volta il rapporto lavorativo, ma anche quelle finalizzate a realizzare la cd. progressione verticale, ovverosia il passaggio tra aree di inquadramento differenti. La conseguenza di quanto rilevato è che soggiacciono alle regole previste dalle norme sul blocco delle assunzioni anche le succitate progressioni cd. ver- 222 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 ticali da un’area ad un’altra poiché, «anche in tal caso, si verifica una novazione del rapporto di lavoro, in quanto si tratta di accesso a funzioni più elevate, qualsiasi sia il nomen della posizione funzionale attribuita dalla contrattazione collettiva, che può divergere da contratto a contratto» (Cons. St., comm. spec. pubblico impiego, cit.). Ad avviso della Commissione, tale interpretazione appare necessitata alla stregua del vigente quadro costituzionale come derivante dall’art. 97 Cost. nella lettura di diritto vivente operata dalla Corte Costituzionale, secondo cui la norma ivi contenuta, per cui ai pubblici uffici, che debbono essere organizzati in modo da assicurare il buon andamento della Pubblica Amministrazione, si accede «mediante concorso salvi i casi stabiliti dalla legge», impone che il concorso costituisca la regola generale per l’accesso ad ogni tipo di pubblico impiego, anche a quello inerente ad una fascia funzionale superiore, essendo lo stesso «il mezzo maggiormente idoneo ed imparziale per garantire la scelta dei soggetti più capaci ed idonei ad assicurare il buon andamento della Pubblica Amministrazione». Vale peraltro evidenziare che in materia di assunzione all'impiego gli interessati non vantano un diritto soggettivo alla nomina, ma solo un interesse legittimo (Cons. Stato Ad. pl. 14/2011 e Cass. SS.UU. 2676/2011). L'assunzione di vincitori di concorsi pubblici, infatti, rientra nella potestà organizzatoria della Pubblica Amministrazione sicché, quando nelle more del completamento della procedura concorsuale vengono in essere circostanze preclusive dell'assunzione stessa, sia di natura normativa (come un blocco generalizzato), sia di natura organizzativa (riordino degli organici connesso, ad esempio, a diminuite esigenze operative di talune strutture) o anche solo finanziaria (difetti di copertura), l'Amministrazione ben può paralizzare l'assunzione o anche annullare la procedura di reclutamento (T.A.R. Toscana - Firenze, sez. II, 7 dicembre 2005, n. 8271; Cons. St., sez. V, 19 marzo 2001, n. 1632; TAR Lazio, sez. II, 2 maggio 1994, n. 547): ed, invero, appartiene alla più ampia discrezionalità amministrativa la determinazione del momento più opportuno per l'inserimento di un vincitore di pubblico concorso (o di idoneo) tra il personale in attività di servizio (Cons. St., V, 23 aprile 1998, n. 465). Pertanto, la scelta di un’Università di procedere all’assunzione di docenti risultati idonei in esito a una procedura concorsuale - che ha contenuto ampiamente discrezionale e fiduciario in relazione agli obiettivi di ricerca e didattici dell'Ateneo - viene a sottostare a un giudizio di compatibilità quanto all'utilizzo delle risorse economiche disponibili ed agli aggravi di spesa sulle disponibilità di bilancio. In proposito, giova inoltre rilevare che, in base all'ordinamento universitario, la chiamata da parte della Facoltà di un docente non è semplicemente atto preparatorio del provvedimento di assunzione, bensì proposta vincolata di nomina con riferimento alle specifiche esigenze didattiche e scientifiche CONTENZIOSO NAZIONALE 223 della Facoltà (art. 5, 4° comma, D.P.R. 23 marzo 2000, n. 117), che deve solo essere formalizzata dal Rettore in conformità (art. 5, comma 5, D.P.R. citato), ove non ostino impedimenti di carattere normativo o vincolistico e quando tali condizioni inibenti siano state superate. Nel caso di specie è incontrovertibile che l’Università doveva necessariamente tener conto dei vincoli per il reclutamento del personale e del blocco delle assunzioni posti per esigenze di contenimento della spesa pubblica e, pertanto, i docenti non potevano validamente fare affidamento sulla delibera di Facoltà disponente la “chiamata”, in assenza del formale atto di nomina, emanato nel rispetto dei limiti di legge e di bilancio. 7. Conclusioni La sentenza in rassegna e l'ampia giurisprudenza di legittimità e costituzionale dalla stessa richiamata offrono numerosi spunti per rimarcare la rilevanza attribuita nel nostro ordinamento al sistema universitario ed alla tutela della libertà della ricerca scientifica e della docenza quale fondamentale fattore di promozione, da un lato, del pluralismo ideologico proprio di ogni sana democrazia e, dall’altro, dello sviluppo sociale e culturale del Paese. Muovendo da tale ineludibile premessa, l’Adunanza Plenaria si pone il difficile obiettivo di bilanciare la centralità che la nostra Costituzione riserva al libero insegnamento dell'arte e della scienza ed all’autonomia delle Istituzioni di alta cultura, delle Università e delle Accademie, con le sempre più pressanti esigenze di stabilità dei conti pubblici e di riduzione di spesa perseguiti dalla recente legislazione in materia di finanza pubblica. È, infatti, percepibile lo sforzo ermeneutico dei Giudici di Palazzo Spada nel voler coniugare la maggiore tutela possibile per i richiamati principi sanciti all’art. 33 della Costituzione con il rispetto del necessario rigore imposto dal Legislatore che, con il già citato art. 1, commi 1 e 3, del D.L. n. 180 del 2008, ha teso, come rilevato dalla Sezione remittente, “ad impedire qualsivoglia assunzione” sancendo “un divieto assoluto e netto”: il c.d., appunto, “blocco delle assunzioni” (1). In definitiva, si apprezza lo sforzo profuso dall’Adunanza Plenaria nel voler dare un’esegesi delle richiamate norme conforme alla loro ratio giustificatrice e, soprattutto, nel voler fornire un’interpretazione “di sistema” (1) Sul tema si vogliono segnalare, in conclusione, al lettore alcuni contributi dottrinali per approfondimenti in materia: ALES, La programmazione impossibile: vincoli al ridimensionamento delle risorse umane nelle organizzazioni pubbliche, in DLM, 2005, 537; BARBERO, Blocco delle assunzionii: le ragioni di una bocciatura, in www.federalismi.it, 13 gennaio 2004; MAINARDI, Il personale, in GDA, 2004, 249; MASTINU, Le acquisizioni di personale delle pubbliche amministrazioni nella legge finanziaria per il 2004, in questa Rivista, 2004, I, 25; PEREZ, Il blocco delle assunzioni nelle università, in GDA, 2004, 243. 224 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 delle stesse disposizioni calata, cioè, nel difficile contesto economico che viviamo e nel quale esse sono maturate. Occorre evidenziare, da ultimo, l’opportuno rilievo conferito dalla sentenza in parola al principio di cui art. 97 Cost., che pone la regola dell'accesso al lavoro nelle pubbliche amministrazioni mediante concorso quale procedura selettiva comparativa ed aperta per il reclutamento dei pubblici impiegati fondata a valorizzarne la capacità e il merito da porre al servizio della Pubblica Amministrazione in generale e dell’Amministrazione delle Università in particolare. Consiglio di Stato, Ad. Plen., sentenza del 28 maggio 2012 n. 17 - Pres. Coraggio, Est. Caringella - F.B. e M.T.R. ed altri (avv. Scoca per delega avv. Romano) c. Università degli Studi Meditrranea di Reggio Calabria (avv. Stato Basilica). (...) FATTO 1. Gli odierni appellanti sono professori associati confermati o ricercatori confermati presso l’Università degli Studi “Mediterranea”di Reggio Calabria, che hanno conseguito il giudizio di idoneità all’esito, rispettivamente, dei concorsi per professore ordinario e per professore associato banditi dalla stessa Università o da altra Università nella seconda sessione dell’anno 2008. Ai sensi dell’art. 5, co. 4, d.P.R. 23 marzo 2000, n. 117, i docenti in esame sono stati proposti per la nomina (c.d. “chiamata”) dai rispettivi Consigli di Facoltà. Gli appellanti hanno quindi chiesto all’Università resistente di essere assunti nella qualifica per la quale sono risultati idonei. A tale richiesta l’Università ha opposto un diniego fondato sulla ritenuta applicabilità del c.d. “blocco delle assunzioni” disposto dall’art. 1 del d.l. 10 novembre 2008, n. 180, convertito dalla legge 9 gennaio 2009, n. 1, in ragione del superamento del limite del 90% del rapporto tra le spese fisse e la misura del FFO (fondo di finanziamento ordinario) alla data del 31 dicembre 2010. 2. Contro i provvedimenti di diniego gli odierni appellanti hanno proposto separati ricorsi innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale della Calabria – sezione staccata di Reggio Calabria. Con la sentenza in epigrafe specificata i Primi Giudici hanno respinto i ricorsi. In sintesi, il Tribunale di prime cure ha tracciato la seguente parabola motivazionale: - l’art. 1, co. 1, d.l. n. 180 del 2008 cit., nel prevedere il divieto, per le università statali che superino il suddetto limite del 90%, di procedere ad assunzioni, reca una norma a regime, dettata sia da ragioni finanziarie che organizzative, applicabile anche alle procedure concorsuali già bandite e/o espletate al momento dell’entrata in vigore della normativa in esame; - non è violato nel caso di specie il diritto all’assunzione o il relativo affidamento, perché non viene in rilievo una definitiva preclusione all’assunzione, ma solo un suo differimento; - quanto, poi, alla posizione di coloro che sono stati dichiarati idonei in forza di concorsi banditi da altre università, si appalesa ostativa all’assunzione la mancanza della previsione dei posti in sede di previa programmazione triennale; - sono manifestamente infondate le dedotte censure di costituzionalità, in relazione alla paventata lesione dei principi di uguaglianza, imparzialità, buon andamento dell’amministrazione e autonomia universitaria. 3. La sentenza è impugnata con quattro separati appelli, sostenuti da censure di identico tenore, CONTENZIOSO NAZIONALE 225 salvo una doglianza aggiuntiva articolata dai soli ricorrenti che hanno conseguito l’idoneità presso università diverse da quella dove prestano servizio attualmente come ricercatori o professori associati. Ai fini che in questa sede rileva, con il terzo motivo, comune a tutti gli appelli, i ricorrenti contestano il capo di sentenza secondo cui il divieto legale sarebbe applicabile anche ai ricercatori e professori associati già in servizio presso l’Università Mediterranea che reclamino l’inquadramento in ruolo presso lo stesso ente, rispettivamente, come professori associati e professori ordinari. A sostegno dell’assunto le parti appellanti pongono il duplice rilievo che non si tratterebbe di assunzione ma di passaggio a qualifica superiore e che la nomina non procurerebbe, in punto di fatto, un aggravio di costi in quanto il transito di un ricercatore o di professore associato, con una certa anzianità di servizio, nella posizione iniziale, rispettivamente, di professore associato o ordinario, non comporta un aggravio finanziario a carico dell’Università. 4. Con Ordinanza n. 1249 del 5 marzo 2012, la sesta sezione di questo Consiglio ha rimesso l’esame della causa all’Adunanza Plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 1, cod.proc.amm., in ragione del contrasto interpretativo sussistente con riferimento proprio alla questione, investita dal terzo motivo comune a tutti gli appelli, dell’applicabilità del blocco di assunzioni anche laddove non si tratti di nuove assunzioni ma dell’attribuzione di una qualifica superiore. 5. Le parti hanno affidato al deposito di apposite memorie l’ulteriore illustrazione delle rispettive tesi difensive. All’udienza del 21 maggio 2012 la causa è stata trattenuta per la decisione DIRITTO 1. Va anzitutto disposta la riunione dei quattro appelli indicati in epigrafe, perché proposti contro la medesima sentenza (art. 96, co. 1, cod.proc.amm.). 2. I ricorrenti, professori associati confermati o ricercatori confermati presso l’Università degli Studi “Mediterranea”, si dolgono della mancata assunzione in ruolo nella fascia superiore di docenza della carriera universitaria, assumendo l’inapplicabilità nei loro confronti del blocco delle assunzioni sancito dall’art. 1 del d. l. 10 novembre 2008, n. 180, convertito dalla legge 9 gennaio 2009, n. 1, posto a fondamento dei provvedimento di diniego impugnati in prime cure. 3. L’esame del tema specifico sottoposto al vaglio di questa Adunanza richiede una sintetica disamina della normativa che regola la materia. Ai sensi dell’art. 1, comma 1, del d.l. n. 180 del 2008 cit. “Le università statali che, alla data del 31 dicembre di ciascun anno, hanno superato il limite di cui all'articolo 51, comma 4, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, fermo restando quanto previsto dall'articolo 12, comma 1, del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31, non possono procedere all'indizione di procedure concorsuali e di valutazione comparativa, nè all'assunzione di personale. Alle stesse università è data facoltà di completare le assunzioni dei ricercatori vincitori dei concorsi di cui all'articolo 3, comma 1, del decreto-legge 7 settembre 2007, n. 147, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 ottobre 2007, n. 176, e all'articolo 4-bis, comma 17, del decreto-legge 3 giugno 2008, n. 97, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 agosto 2008, n. 129, e comunque di concorsi espletati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, senza oneri aggiuntivi a carico della finanza pubblica”. Il successivo comma 3 prevede che “il primo periodo del comma 13, dell'articolo 66 del decreto- legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, è sostituito dai seguenti: «Per il triennio 2009-2011, le università statali, fermi restando 226 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 i limiti di cui all'articolo 1, comma 105, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, possono procedere, per ciascun anno, ad assunzioni di personale nel limite di un contingente corrispondente ad una spesa pari al cinquanta per cento di quella relativa al personale a tempo indeterminato complessivamente cessato dal servizio nell'anno precedente. Ciascuna università destina tale somma per una quota non inferiore al 60 per cento all'assunzione di ricercatori a tempo indeterminato, nonché di contrattisti ai sensi dell'articolo 1 comma 14, della legge 4 novembre 2005, n. 230, e per una quota non superiore al 10 per cento all'assunzione di professori ordinari. Sono fatte salve le assunzioni dei ricercatori per i concorsi di cui all'articolo 1, comma 648, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, nei limiti delle risorse residue previste dal predetto articolo 1, comma 650 ». La disposizione reca, ai commi successivi, ulteriori disposizioni volte a disciplinare la prosecuzione ed il completamento delle procedure di reclutamento di professori di I e II fascia indette nell’anno 2008. Dall’esame del tessuto normativo si ricava che il c.d. blocco delle assunzioni di cui al primo comma dell’art. 1 del d.l. n. 180 del 2008 è una misura sancita da una norma a regime a tenore della quale il superamento del limite di cui all'articolo 51, comma 4, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 determina, quale conseguenza automatica, il precipitato del divieto, a carico delle università statali, di procedere all’espletamento di procedure concorsuali ed all’assunzione di personale fino al rientro nei parametri massimi. Solo alle università che non superino il limite è consentita la prosecuzione delle procedure di selezione indette nel 2008, con la diversa composizione delle commissioni rideterminata ex lege. La disciplina fin qui esposta non persegue finalità di carattere esclusivamente finanziario in quanto è rivolta anche a scopi di organizzazione generale, prefiggendosi l’obiettivo prioritario e strategico di incentivare le università a comportamenti virtuosi nell’ottica del conseguimento dei livelli qualitativi di autodisciplina sinteticamente descritti nella stessa struttura del fondo di finanziamento ordinario e nella più generale architettura del sistema di finanziamento pubblico delle università. Pertanto, il divieto dell’assunzione di nuovo personale non persegue solo lo scopo di evitare l’incremento di spesa, ma mira anche alla finalità di guidare l’ente universitario al rientro nei parametri, costringendolo a sospendere il reclutamento di personale e concorrendo a sostenere quella complessa opera di miglioramento qualitativo del servizio universitario che il legislatore si è prefisso. 4. Tracciato il quadro generale della disciplina in materia di blocco delle assunzioni e della ratio che la sorregge, si può ora passare all’esame della questione specifica dell’applicabilità della normativa in esame al caso della mancata assunzione in ruolo, nella fasce superiori di docenza della carriera universitaria, di professori associati confermati o ricercatori confermati in servizio presso la medesima università. 4.1. In merito alla questione all’applicabilità del blocco delle assunzioni alla fattispecie del passaggio di qualifica, l’Ordinanza di rimessione rileva che la stessa non ha conosciuto una soluzione univoca. Secondo l’orientamento giurisprudenziale ricordato dagli appellanti, il divieto di assunzione di cui alla legge in esame ed alle precedenti discipline di analogo tenore succedutesi nel tempo, in quanto sancito da norme eccezionali non passibili di interpretazione estensiva o di applicazione analogica, non si applicherebbe all’ipotesi di progressione derivante dall’attribuzione di una qualifica superiore al personale già in servizio (Cons. Stato, sez. VI, 21 aprile 2010 n. 2217; 16 novembre 2004 n. 7483; 27 novembre 2001, n.5958). Secondo il diverso orientamento espresso da Cons. Stato, comm. spec. pubblico impiego, pa- CONTENZIOSO NAZIONALE 227 rere 9 novembre 2005, n. 3556/05, il blocco delle assunzioni concernerebbe invece, oltre che le assunzioni derivanti da procedure selettive pubbliche, anche le progressioni da un’area all’altra conseguenti a procedure di riqualificazione del personale dipendente. 4.2. L’Adunanza Plenaria reputa che il divieto di assunzione operi anche per l’inquadramento in ruolo, in una fascia superiore, di docenti già in servizio presso la medesima università. 4.2.1. A sostegno dell’assunto depone, in prima battuta, la considerazione che, nel caso di specie, non viene in rilievo una procedura concorsuale interna finalizzata all’attribuzione di una qualifica superiore ma un diverso inquadramento in ruolo per effetto dell’idoneità conseguita all’esito di un concorso esterno, aperto anche a soggetti non legati da alcun rapporto con l’università e non in possesso, ancora più in radice, dello status di docenti universitari. La circostanza che non si tratti di procedura riservata a soggetti già aventi la qualifica di docenti universitari o comunque legati da un rapporto di lavoro all’amministrazione universitaria, dimostra che la selezione non è finalizzata alla progressione in carriera ma all’assunzione, id est all’instaurazione di un nuovo rapporto di lavoro caratterizzato da una soluzione di continuità rispetto alla pregressa posizione eventualmente rivestita dal soggetto idoneo. Non è chi non veda, d’altronde, come una diversa soluzione ermeneutica, che escludesse l’operatività del divieto solo per i docenti già in servizio presso l’Università che operi la chiamata, discriminerebbe in modo illogico la posizione dei soggetti che abbiano conseguito l’idoneità all’esito della medesima procedura in base al dato, accidentale ed estrinseco rispetto ai caratteri ed alla finalità della procedura selettiva, della sussistenza di un pregresso rapporto con l’amministrazione universitaria. Si deve soggiungere che la ratio legis, identificata nelle richiamate esigenze di contenimento della spesa e di stimolazione di condotte virtuose, si estende anche all’inquadramento in un diverso ruolo di personale docente già in servizio presso l’università. Si deve, in particolare, convenire, sulla scorta di questa prospettiva ermeneutica, che l’assunto, sostenuto dagli appellanti, secondo cui non vi sarebbe aumento di costi in caso di nomina in ruolo di soggetti già inquadrati presso la stessa università ad un livello inferiore è, da un lato, infondato in fatto, e, dall’altro, irrilevante in punto di diritto. Quanto al primo aspetto, infatti, il mancato aumento di costi si registra, in caso di transito ad una fascia superiore della docenza, solo per il primo triennio e non a regime, in quanto la conferma del docente non è un fatto meramente eventuale ma l’evenienza fisiologica da prendere in considerazione ai fini dell’indagine in merito agli effetti finanziari sortiti, alla stregua dell’ id quod plerumque accidit, dall’inquadramento nel nuovo ruolo. D’altro canto, come correttamente ritenuto dal Primo Giudice, il divieto di assunzione risponde a esigenze anche organizzative ed a logiche incentivanti che prescindono dalla sussistenza, o meno, di un immediato aggravio finanziario. 4.2.2. Le considerazioni che precedono consentono di approdare alla conclusione secondo cui il blocco delle assunzioni interessa anche i casi in esame in quanto il nuovo inquadramento in ruolo del docente è il frutto dell’esito positivo di una procedura concorsuale aperta che dà luogo ad un assunzione in senso proprio e non al mero passaggio di qualifica per effetto di procedura riservata. Si deve per completezza osservare, con riguardo al più ampio tema oggetto del contrasto interpretativo prima evidenziato, che risulta preferibile la tesi, sostenuta dal citato parere reso dalla Commissione speciale, che estende il blocco delle assunzioni ai passaggi di qualifica. A fondamento di tale indirizzo si pone il principio, ribadito a più riprese dalla giurisprudenza della Corte delle leggi (v., da ultimo, Corte cost. 10 novembre 2011, n. 299), secondo cui il 228 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 principio del concorso come strumento di accesso all’impiego pubblico (art. 97, comma 3, Cost.) comprende sia le procedure preordinate all’ingresso ex novo di personale nei ruoli dell’amministrazione sia quelle finalizzate al passaggio dei dipendenti ad una qualifica superiore. La regola del concorso pubblico si atteggia, in definitiva, a principio costituzionale, passibile di deroga solo nell’ipotesi in cui la progressione non determini la novazione, con effetti estintivo- costitutivi, del rapporto di lavoro preesistente. La Corte costituzionale, in sede di interpretazione della portata della regola del concorso pubblico, ha altresì sottolineato che la facoltà del legislatore di introdurre deroghe al principio del concorso pubblico aperto è stata delimitata in modo rigoroso, potendo tali deroghe essere considerate legittime solo quando siano funzionali esse stesse alle esigenze di buon andamento dell'amministrazione e ove ricorrano peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico idonee a giustificarle (ex plurimis, sentenze n. 52 del 2011 e n. 195 del 2010). In particolare, si è più volte ribadito che il principio del pubblico concorso, pur non essendo incompatibile, nella logica dell'agevolazione del buon andamento della pubblica amministrazione, con la previsione per legge di condizioni di accesso intese a consentire il consolidamento di pregresse esperienze lavorative maturate nella stessa amministrazione, non tollera, salvo circostanze del tutto eccezionali, la riserva integrale dei posti disponibili in favore di personale interno. La valorizzazione della caratterizzazione sostanzialmente novativa degli effetti sortiti, a fronte della posizione originaria, dall’attribuzione di una qualifica superiore per effetto della procedura concorsuale, è l’argomento posto a sostegno anche dell’indirizzo ermeneutico della Corte di legittimità che, in punto di riparto di giurisdizione, afferma la giurisdizione del giudice amministrativo la cognizione del contenzioso relativo alle procedure riservate volte a sancire la progressione verticale interna, ossia il passaggio tra diverse aree di inquadramento previste dalla contrattazione collettiva. Posto il principio secondo cui, nel rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, l'accesso del personale dipendente ad un'area o fascia funzionale superiore deve avvenire per mezzo di una pubblica selezione, comunque denominata ma costituente, in definitiva, un pubblico concorso - al quale, di norma, deve essere consentita anche la partecipazione di candidati esterni -, si osserva che il quarto comma dell'art. 63 d. lgs. 30 marzo 2001, n. 165, laddove riserva alla giurisdizione del giudice amministrativo "le controversie in materia di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni", fa riferimento non solo alle procedure concorsuali strumentali alla costituzione, per la prima volta, del rapporto di lavoro, ma anche alle prove selettive dirette a permettere l'accesso del personale già assunto ad una fascia o area superiore: il termine "assunzione" deve essere correlato alla qualifica che il candidato tende a conseguire e non all'ingresso iniziale nella pianta organica del personale, dal momento che, oltre tutto, l'accesso nell'area superiore di personale interno od esterno implica, esso stesso, un ampliamento della pianta organica (Cassazione civile, sez. un. 15 ottobre 2003, n. 15403). È stato, da ultimo rimarcato (Cassazione civile, sez. un., 5 maggio 2011, n. 9844), che “per procedure concorsuali di assunzione ascritte al diritto pubblico e all'attività autoritativa dell'amministrazione (alla stregua dell'art. 63, comma 4, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165/2001), si intendono non soltanto quelle preordinate alla costituzione "ex novo" dei rapporti di lavoro, ma anche le prove selettive dirette a permettere l'accesso del personale già assunto ad una fascia o area funzionale superiore, e cioè ad una progressione verticale che consista nel passaggio ad una posizione funzionale qualitativamente diversa, tale da comportare una novazione oggettiva del rapporto di lavoro; tale accesso deve avvenire per mezzo di una pubblica CONTENZIOSO NAZIONALE 229 selezione, comunque denominata ma costituente, in definitiva, un pubblico concorso. Alla stregua dell'interpretazione enunciata, assume rilevanza determinante, ai fini dell'indicato criterio di riparto della giurisdizione, il contenuto della contrattazione collettiva, sicché in presenza di progressioni, secondo disposizioni di legge o di contratto collettivo, che comportino una progressione verticale nel senso indicato, la cognizione della controversia resta riservata al giudice amministrativo; sussiste, invece, la giurisdizione del giudice ordinario nelle controversie attinenti a concorsi per soli dipendenti interni che comportino il passaggio da una qualifica all'altra, ma nell'ambito della stessa area (o categoria), sia con acquisizione di posizioni più elevate meramente retributive sia con il conferimento di qualifiche superiori, in base a procedure che l'amministrazione pone in essere con le capacità e i poteri del privato datore di lavoro”. Si deve allora concludere, in forza dei rilievi fin qui svolti, che soggiacciono al blocco delle assunzioni di cui alla normativa in esame anche le progressioni verticali e le procedure di riqualificazione variamente denominate che sanciscono il passaggio ad una diversa area con la conseguente attribuzione di un nuovo posto per effetto della novazione del precedente rapporto. 5. Alla stregua delle considerazioni fin qui svolte gli appelli riuniti devono essere respinti nella parte in cui ripropongono il motivo dell’inapplicabilità del blocco delle assunzioni all’ipotesi del passaggio dei docenti universitari già in servizio ad una fascia superiore di docenza. Si deve invece rimettere alla Sezione, ai sensi dell’art. 99, comma 4, del codice del processo amministrativo, la definizione del giudizio con riguardo agli altri motivi che investono tematiche estranee al quesito devoluto al vaglio di questa Adunanza Plenaria. Deve essere altresì rimessa alla sentenza definitiva la statuizione sulle spese di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria) definitivamente pronunciando sugli appelli, come in epigrafe proposti, li riunisce e li respinge in parte nei sensi in motivazione specificati. Rimette il ricorso alla Sezione per l’ulteriore definizione del giudizio e per la statuizione sulle spese di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 maggio 2012. 230 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 In tema di patrocinio legale e legittimazione processuale delle Istituzioni scolastiche statali (Nota a Consiglio di Stato, Sezione Sesta, ordinanza 20 giugno 2012 n. 2370) Stefano Varone* Con ordinanza 2370 del 19 giugno 2012 il Consiglio di Stato si è pronunciato su due problematiche di notevole interesse sistematico, inerenti da un lato il regime del patrocinio degli istituti scolastici statali a seguito del conferimento normativo della relativa autonomia, dall’altro la possibilità di agire in giudizio nei confronti del Ministero, tematica quest’ultima che risulta direttamente condizionata dalla natura delle relazioni organizzative fra Ministero e organi periferici dotati di personalità giuridica. Il Collegio, sia pure nell’accertamento sommario che caratterizza la fase cautelare, ha ribadito, quanto al primo aspetto, la sussistenza del patrocinio esclusivo dell’Avvocatura dello Stato, derogabile soltanto seguendo lo speciale procedimento di cui all’art. 5 r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611; quanto al secondo aspetto ha affermato che la contrapposizione fra un istituto scolastico e il Ministero dell’istruzione da luogo ad un conflitto meramente interorganico interno all’Amministrazione statale. Il caso di specie era caratterizzato dall’impugnazione, da parte di un Istituto Scolastico Statale dei provvedimenti inerenti l’articolazione del piano di dimensionamento della rete scolastica, ed in particolare l’istituzione in ambito comunale, di un Istituto d’istruzione superiore con attivazione di un Liceo Scientifico (contestato dalla scuola ricorrente). Al riguardo è utile premettere che la Cassazione (Cass. 28 luglio 2008, n. 20521) ha avuto modo di chiarire che anche dopo l'estensione della personalità giuridica, i circoli didattici, le scuole medie e gli istituti di istruzione secondaria, continuano a costituire organi dello Stato muniti di personalità giuridica ed inseriti nell'organizzazione statale. Difettando pertanto un rapporto intersoggettivo e vertendosi in materia di rapporti interorganici, ogni eventuale contrasto va risolto in sede amministrativa, difettando una autonoma posizione azionabile in sede giurisdizionale. La situazione giuridica di compenetrazione con l’apparato statale non è infatti mutata per effetto dell’art. 21 L. n. 59 del 1997 e del D.P.R. n. 275 del 1999. In tal senso depongono plurimi elementi normativi. In primo luogo la funzione “istruzione” rimane dello Stato, in particolare rimangono statali le funzioni e i compiti in materia di ordinamenti scolastici, di programmi scolastici, di organizzazione generale dell’istruzione scolastica e di (*) Avvocato dello Stato. CONTENZIOSO NAZIONALE 231 stato giuridico del personale, funzioni tutte atte a salvaguardare l’unitarietà del sistema nazionale dell’istruzione (art. 1 , comma 3, lett. q) della L. n. 59 del 1997). In altre parole, rimane alla competenza dello Stato, che la condivide con le istituzioni scolastiche nei limiti di cui all’art. 21 L. n. 59 del 1997 come specificati dal D.P.R. n. 275 del 1999, l’attività di programmazione educativa e didattica e in genere ogni attività che attenga alla predisposizione e alla realizzazione del percorso degli studi inteso in senso proprio come percorso che sbocca nel conseguimento di un titolo di studio. È proprio in virtù di questa conservazione di funzioni e compiti allo Stato che si può dire che le scuole, dopo la loro entificazione, svolgono il ruolo di enti ausiliari o strumentali dello Stato. In secondo luogo va evidenziato il rapporto lavorativo del dirigente scolastico e del personale della scuola, che è da considerare a tutti gli effetti statale (art. 1, comma 3, lett. q) della L. n. 59 del 1997 e d.lgs. 165/2001) (1). Vanno da ultimo richiamati la responsabilità del dirigente scolastico nei confronti dell’amministrazione statale e il mantenimento in capo all’apparato ministeriale del potere di vigilanza in relazione alla funzione di eventuale scioglimento degli organi collegiali della scuola “in caso di persistenti e gravi irregolarità o di mancato funzionamento” (ex art. 28, settimo comma, T.U. n. 297 del 1994, non abrogato dall’art. 17, primo comma, del D.P.R. n. 275 del 1999). A tali profili, inerenti la legittimazione, si aggiungono quelli concernenti il patrocinio in giudizio. Ai sensi dell’art. 14 comma 7 bis del D.P.R. n. 275 del 1999 infatti “L’Avvocatura dello Stato continua ad assumere la rappresentanza e la difesa nei giudizi attivi e passivi davanti le autorità giudiziarie, i collegi arbitrali e le giurisdizioni amministrative e speciali di tutte le istituzioni scolastiche cui è stata attribuita l’autonomia e la personalità giuridica a norma dell’articolo 21 della legge 15 marzo 1997, n. 59 ”. Tale norma non chiarisce espressamente se tale attribuzione rientri nella previsione dell'art. 5 RD n. 1611 del 30 ottobre 1933 (patrocinio obbligatorio delle amministrazioni dello Stato), ovvero in quella di cui all'art. 43 RD 1611/1933 (patrocinio autorizzato delle amministrazioni non statali). Proprio sotto tale profilo risulta particolarmente significativa la pronuncia del Consiglio di Stato che, aderendo alla tesi prevalente dei TAR (2), afferma la natura “obbligatoria” del patrocinio. (1) Cass. civ. Sez. lavoro, 21 marzo 2011, n. 6372 “Anche dopo l'estensione della personalità giuridica, per effetto della legge delega n. 59 del 1997 e dei successivi provvedimenti di attuazione, ai circoli didattici, alle scuole medie e agli istituti di istruzione secondaria, il personale ATA e docente della scuola si trova in rapporto organico con l'Amministrazione della Pubblica Istruzione dello Stato, a cui l'art. 15 del d.P.R. n. 275 del 1999 ha riservato le funzioni relative al reclutamento del personale, e non con i singoli istituti, che sono dotati nella materia di mera autonomia amministrativa”. In precedenza Cass., 13 luglio 2004, n. 12977. (2) Sul tema si erano pronunciate già T.A.R. Calabria Reggio Calabria Sez. 13 gennaio 2010, n. 2 e T.A.R. Lazio, 27 aprile 2006, n. 2987. 232 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 In sostanza, secondo il Consiglio di Stato, la norma di riferimento è rappresentata dall’art. 1 R.D. 30 ottobre 1933 n. 1611 in base al quale la rappresentanza, il patrocinio e l’assistenza in giudizio delle Amministrazioni dello Stato, anche se organizzate ad ordinamento autonomo, spettano alla Avvocatura dello Stato. Si tratta di regime “esclusivo” che può essere derogato solo alle condizioni di cui all’art. 5 del RD 1611/1933: “Nessuna Amministrazione dello Stato può richiedere la assistenza di avvocati del libero foro se non per ragioni assolutamente eccezionali, inteso il parere dell’Avvocato generale dello Stato e secondo norme che saranno stabilite dal Consiglio dei ministri. L’incarico nei singoli casi dovrà essere conferito con decreto del Capo del Governo di concerto col Ministro dal quale dipende l’Amministrazione interessata e col Ministro delle finanze”. Ne consegue che il conferimento dell’incarico ad avvocato del libero foro al di fuori degli stringenti limiti consentiti o senza il rispetto della prevista procedura da luogo ad una ipotesi di inammissibilità del ricorso conseguente alla carenza dello "ius postulandi" (Cass. 23 marzo 2011, n. 6672). Consiglio di Stato, Sezione Sesta, ordinanza del 20 giugno 2012 n. 2370 - Pres. Severini, Est. Giovagnoli R. - Regione Abruzzo, Min. dell’Istruzione, della Università e della Ricerca, Ufficio scolastico regionale per l’Abruzzo, I.T.I.S. “Luigi di Savoia” (avv. Stato Varone) c. Liceo scientifico “F. Masci” (avv. Bucci). In punto ord. cautelare T.A.R. Abruzzo - L'Aquila, Sez. I n. 126/2012, concernente Piano regionale della rete scolastica anno 2012-2013. (...) Ritenuto che risultano già in questa sede assorbenti i profili che investono la sussistenza dello jus postulandi in capo al difensore dell’originario ricorrente, atteso che gli istituti scolastici, sebbene forniti della personalità giuridica, rimangono Amministrazioni dello Stato come tali soggetti al patrocinio esclusivo dell’Avvocatura dello Stato, patrocinio derogabile soltanto seguendo lo speciale procedimento di cui all’art. 5 r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611, che nella specie, come è pacifico, non è stato osservato; Ritenuto, inoltre, che nel caso di specie viene in rilievo un conflitto meramente interorganico interno all’Amministrazione statale (che vede, appunto, contrapposti un istituto scolastico e il Ministero dell’istruzione), che dovrebbe trovare composizione in sede amministrativa e non giurisdizionale; Ritenuto che sussistono i presupposti per compensare le spese della presente fase cautelare; P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) Accoglie l'appello (Ricorso numero: 4080/2012) e, per l'effetto, in riforma dell'ordinanza impugnata, respinge l'istanza cautelare proposta in primo grado. Spese della fase cautelare compensate. La presente ordinanza sarà eseguita dall'Amministrazione ed è depositata presso la segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 giugno 2012. Controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti sugli atti dell’Unità Tecnica Amministrativa istituita ex art. 15 OPCM 3920/2011. (Parere prot. 83183 del 5 marzo 2012, AL 4714/12, avv. MARIA LUISA SPINA) La Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della Protezione Civile e l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli chiedono alla Scrivente di esprimersi sul seguente quesito: “Se l’attività svolta dall’Unità tecnica-amministrativa, istituita ex art. 15 OPCM 3920/2011, con riferimento al settore rifiuti Campania, sia soggetta al controllo preventivo di legittimità della corte dei Conti, in virtù di quanto previsto dall’art. 3, 1° comma, lett. c-bis, L. 20/1994”. Viene, in via ulteriore, richiesto dall’Amministrazione “… se i decreti approvativi dei contratti passivi della prefata Unità tecnica-amministrativa, se di importo superiore alla cd. soglia comunitaria, debbano essere sottoposti al controllo preventivo di legittimità della corte dei Conti, al pari degli analoghi atti delle Amministrazioni dello Stato (ex art. 3, comma 1, lett. g) L. 20/1994”. Prendendo avvio dal quesito comune all’Amministrazione ed all’Avvocatura Distrettuale di Napoli, ritiene la Scrivente che allo stesso deve darsi risposta parzialmente positiva, come di seguito articolata. Non vi è dubbio che il contesto nel quale nasce l’Unità tecnica - amministrativa, istituita presso il Dipartimento della Protezione civile, ad opera dell’OPCM 3920/2011, sia quello post-emergenziale, relativamente al settore rifiuti Campania. La finalità sottesa all’istituzione dell’Unità, infatti, oltre che nel porre in essere “misure di carattere straordinario ed urgente finalizzate a fronteggiare le problematiche inerenti al movimento franoso nel territorio di Montaguto, in provincia di Avellino” risiede nello “assicurare l'adempimento di alcuni dei compiti già posti in capo alle strutture di cui all'articolo 2 del decretolegge 30 dicembre 2009, n. 195 convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2010, n. 26 …”. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO Le strutture alle quali fa riferimento il 1° comma dell’art. 15 sono l’Unità stralcio e l’Unità operativa, a loro volta istituite presso il Dipartimento della Protezione civile, dal DL 195/2009, per attuare il passaggio dalla fase emergenziale alla fase post emergenza rifiuti in Campania. L’art.15 testualmente recita: “1. In considerazione della necessità di provvedere all'adozione di misure di carattere straordinario ed urgente finalizzate a fronteggiare le problematiche inerenti al movimento franoso nel territorio di Montaguto, in provincia di Avellino nonché di assicurare l'adempimento di alcuni dei compiti già posti in capo alle strutture di cui all'articolo 2 del decreto-legge 30 dicembre 2009, n. 195 convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2010, n. 26, è istituita, con decreto del Capo del Dipartimento della protezione civile, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della protezione civile, apposita Unità Tecnica-Amministrativa. 2. L'Unità Tecnica-Amministrativa di cui al comma 1 è preposta, altresì, alla gestione delle attività concernenti: a) i rapporti attivi e passivi già facenti capo alle Unità Stralcio ed Operativa di cui all'articolo 2 del sopra richiamato decreto-legge 30 dicembre 2009, n. 195, assicurando, ove necessario, l'eventuale prosecuzione degli interventi anche infrastrutturali; b) la gestione degli effetti dell'avviso pubblico di accertamento della massa passiva di cui all'articolo 5 del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 13 gennaio 2010, nei limiti delle risorse finanziarie disponibili a tale scopo; c) le attività solutorie di competenza nei limiti delle risorse finanziarie disponibili a tale scopo, tenuto conto delle esigenze di pubblico interesse connesse alle attività dei soggetti creditori; d) le competenze amministrative riferite all'esecuzione del contratto di gestione del termovalorizzatore di Acerra e del relativo impianto di servizio nonché riferite alla convenzione con il Gestore dei Servizi Energetici; e) l'eventuale supporto alla Regione Campania, se richiesto, nelle attività di organizzazione dei flussi dei rifiuti, nella ricorrenza delle oggettive condizioni di necessità ed urgenza normativamente previste”. Al fine di comprendere se l’attività posta in essere dall’Unità tecnica-amministrativa sia suscettibile di scontare il sindacato di legittimità preventivo della Corte dei conti, occorre muovere dal contenuto delle norme relative alle suddette strutture. In particolare, nell’art. 2 del DL 195/2009, conv. in L. 26/2010, veniva previsto: “1. Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, entro sette giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, sono istituite per la chiusura dell'emergenza rifiuti in Campania, nell'ambito della Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento protezione civile, una «Unità stral- 234 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 cio» e una «Unità operativa», utilizzando le risorse umane, finanziarie e strumentali già a disposizione delle Missioni previste dal decreto-legge 23 maggio 2008, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 luglio 2008, n. 123, di seguito denominato: «decreto-legge n. 90 del 2008», che cessano alla data del 31 dicembre 2009. Agli ulteriori oneri di funzionamento e di gestione a carico delle predette unità si provvede nel limite delle disponibilità delle contabilità speciali di cui al comma 2. Le unità predette, coordinate dal Comandante del Comando logistico Sud, sono allocate presso l'attuale sede del Comando medesimo in Napoli e cessano alla data del 31 gennaio 2011, termine che può essere prorogato, per non più di sei mesi, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. 2. Con il medesimo decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri di cui al comma 1, primo periodo, sono altresì individuate le contabilità speciali sulle quali confluiscono le risorse finanziarie già nella disponibilità del Capo della Missione amministrativo-finanziaria e gli introiti derivanti dai conferimenti dei rifiuti presso il termovalorizzatore di Acerra e il relativo impianto di servizio, i ricavi della vendita dell'energia elettrica prodotta dal termovalorizzatore stesso, nonché, nelle more dell'adozione dei provvedimenti di cui all'articolo 6-bis, comma 5, del decreto-legge n. 90 del 2008 e, fatti salvi gli importi dedotti nel bilancio di previsione anno 2009 della regione Campania, gli introiti residuali derivanti dal tributo speciale di spettanza regionale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi urbani”. Il successivo art. 3, individuando i compiti dell’Unità Stralcio, prevedeva testualmente che: “1. L'Unità stralcio di cui all'articolo 2, entro trenta giorni dalla propria costituzione, avvia le procedure per l'accertamento della massa attiva e passiva derivante dalle attività compiute durante lo stato di emergenza rifiuti in Campania ed imputabili alle Strutture commissariali e del Sottosegretariato di Stato all'emergenza rifiuti di cui all'articolo 1 del decreto-legge n. 90 del 2008, di seguito denominate: «Strutture commissariali». Per gli eventuali contenziosi derivanti dall'attuazione del presente articolo si applica l'articolo 4 del decreto-legge n. 90 del 2008. Il piano di rilevazione della massa passiva comprende, oltre ai debiti accertati e definiti, anche quelli derivanti da negozi di transazione. 2. L'Unità accerta i crediti vantati dalle Strutture commissariali e dal Dipartimento della protezione civile nei confronti dei soggetti affidatari del termovalorizzatore di Acerra e degli impianti di selezione e smaltimento dei rifiuti a seguito degli anticipi sul prezzo di costruzione e degli interventi effettuati sugli stessi per garantire il costante ed ininterrotto esercizio di questi. 3. Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, da adottarsi entro il termine di cui al comma 1, sono stabilite le modalità e i termini per la presentazione all'Unità delle istanze da parte dei creditori delle Strutture com- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 235 missariali, nonchè per il riconoscimento e il pagamento dei relativi debiti. 4. A seguito del definitivo accertamento della massa attiva e passiva, contro cui è ammesso ricorso giurisdizionale ai sensi del comma 1, l'Unità stralcio, nei limiti delle risorse finanziarie disponibili, predispone uno o più piani di estinzione delle passività sulla base delle istanze di cui al comma 3 e previa comunicazione degli stessi piani al Ministero dell'economia e delle finanze, provvede al pagamento dei debiti ivi iscritti, dando priorità, in via graduata nell'ambito del piano, ai crediti privilegiati, ai crediti recati da titoli esecutivi definitivi, a quelli derivanti da un atto transattivo tenendo conto della data di esigibilità del credito originario, ai crediti di lavoro, nonchè agli altri crediti in relazione alla data di esigibilità”. Infine, l’art. 4, nell’individuare i compiti dell’Unità operativa, statuiva che: “1. L'unità operativa di cui all'articolo 2 attende: a) alle competenze amministrative riferite agli impianti di cui all'articolo 6 del decreto-legge n. 90 del 2008, ivi comprese quelle concernenti l'esecuzione del contratto di affidamento del termovalorizzatore di Acerra e del relativo impianto di servizio; b) all'eventuale prosecuzione, sulla base di valutazioni della medesima unità operativa, degli interventi anche infrastrutturali e delle relative opere accessorie; c) all'eventuale coordinamento dei flussi dei rifiuti; d) all'organizzazione funzionale del dispositivo militare di cui all'articolo 5; 1.-bis In fase di prima attuazione, fino e non oltre il 31 dicembre 2010, l'Unità operativa, con oneri a carico delle contabilità speciali di cui all'articolo 2, comma 2, del presente decreto, continua, nella ricorrenza di situazioni di urgenza, ad adottare gli interventi alternativi di cui all'articolo 2, comma 12, del decreto-legge n. 90 del 2008 . 2. L'unità operativa, entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, avvia, sentite le rappresentanze degli enti locali, la determinazione dei costi di conferimento dei rifiuti sulla base delle linee guida di cui al decreto del Sottosegretario di Stato alla soluzione dell'emergenza rifiuti in Campania n. 226 del 20 ottobre 2009 inerente al ciclo dei rifiuti nella regione Campania per l'anno 2010. 3. La regione Campania e le relative province, nella ricorrenza di oggettive condizioni di necessità ed urgenza riconosciute tali dall'Unità operativa, possono richiedere alla Unità stessa ogni utile attività di supporto, nonchè l'adozione di azioni di coordinamento in materia di gestione del ciclo dei rifiuti sul territorio campano, con particolare riferimento all'organizzazione dei flussi, ferme restando le responsabilità a legislazione vigente degli enti territoriali competenti al momento della cessazione dello stato di emergenza”. Da quanto riprodotto emerge che: a) l’Unità Stralcio era chiamata a svolgere sostanzialmente attività rico- 236 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 gnitive (comma 4, art. 3 citato), anche a seguito di attività di accertamento (commi 1 e 2, stesso art. 3) delle posizioni attive/passive, derivanti dall’attività delle pregresse strutture commissariali; b) l’Unità Operativa, invece, aveva veri e propri compiti gestionali, sulla base di provvedimenti già adottati in fase emergenziale (lett. a) nonché provvedimentali veri e propri, in ordine alla prosecuzione degli interventi, sulla base di proprie valutazioni, (lett.b) potendosi anche avvalere, nel ricorrere dell’urgenza, dei poteri di cui all’art. 2, comma 12, DL 90/2008 (comma 1 bis) a mente del quale “Nel caso di indisponibilità, anche temporanea, del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti derivante da qualsiasi causa, il Sottosegretario di Stato (ndr.: nella funzione di Commissario Delegato) è autorizzato al ricorso ad interventi alternativi anche attraverso il diretto conferimento di incarichi ad altri soggetti idonei, a valere sulle risorse dei comuni interessati già destinate alla gestione dei rifiuti”. Ne consegue che l’Unità tecnica-amministrativa, dovendo “assicurare l'adempimento di alcuni dei compiti già posti in capo alle strutture di cui all'articolo 2 del decreto-legge 30 dicembre 2009, n. 195 convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2010, n. 26…” nonché “alla gestione delle attività concernenti: a) i rapporti attivi e passivi già facenti capo alle Unità Stralcio ed Operativa di cui all'articolo 2 del sopra richiamato decreto-legge 30 dicembre 2009, n. 195, assicurando, ove necessario, l'eventuale prosecuzione degli interventi anche infrastrutturali; b) la gestione degli effetti dell'avviso pubblico di accertamento della massa passiva di cui all'articolo 5 del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 13 gennaio 2010, nei limiti delle risorse finanziarie disponibili a tale scopo; c) le attività solutorie di competenza nei limiti delle risorse finanziarie disponibili a tale scopo, tenuto conto delle esigenze di pubblico interesse connesse alle attività dei soggetti creditori; d) le competenze amministrative riferite all'esecuzione del contratto di gestione del termovalorizzatore di Acerra e del relativo impianto di servizio nonché riferite alla convenzione con il Gestore dei Servizi Energetici; e) l'eventuale supporto alla Regione Campania, se richiesto, nelle attività di organizzazione dei flussi dei rifiuti, nella ricorrenza delle oggettive condizioni di necessità ed urgenza normativamente previste” deve effettuare, da un lato, attività ricognitiva delle posizioni attive/passive, già facenti capo alle precedenti strutture commissariali, dall’altro, può trovarsi nella necessità di porre in essere una serie di attività che, in virtù di autonoma valutazione ( lett. b) art. 4 DL 195/2009) comportino l’esercizio di tipici poteri emergenziali ai sensi del comma 1-bis dell’art. 4. A questo proposito, e venendo nello specifico della richiesta consultiva, deve rilevarsi che, sulla base del contenuto testuale dell’art. 3, comma 1, lett.cbis, della L. 20/1994, sono soggetti a controllo preventivo di legittimità da parte della Corte dei Conti “i provvedimenti commissariali adottati in attua- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 237 zione delle ordinanze del Presidente del Consiglio dei Ministri emanate ai sensi dell’ articolo 5, comma 2, della legge 24 febbraio 1992, n. 225”. Il controllo andrà, quindi, esercitato nei confronti di atti caratterizzati dall’esercizio di poteri in deroga, ai sensi dell’art. 5 L. 225/1992. Pertanto, si ritiene che gli atti di natura meramente solutoria, posti in essere nell’esercizio delle competenze dell’ex Unità Stralcio, per la definizione di rapporti attivi e passivi pendenti, possono essere ragionevolmente esclusi dal controllo preventivo di legittimità, fatto salvo quello, successivo, di regolarità contabile della Ragioneria dello Stato. Quanto ai provvedimenti posti in essere dall’Unità tecnica-amministrativa nell’esercizio delle competenze dell’ex Unità operativa - relativi all’esecuzione dei contratti afferenti al termovalorizzatore di Acerra ed all’impianto di servizio nonché all’esecuzione di altri interventi infrastrutturali - occorrerà, invece, valutare se gli stessi in concreto comportino o meno esercizio di potere in deroga alla normativa vigente con la conseguenza che solo nel caso in cui l’esito di detta analisi sia positivo, l’atto dovrà scontare il controllo preventivo di legittimità. Tali conclusioni, del resto, si pongono in sintonia con la lettura sostanziale dell’art. 3, 1° comma, lett. c-bis della L. 20/1994, fornita dalle Sezioni riunite di controllo della Corte dei Conti nella deliberazione n. 42/2011, deliberazione nella quale in relazione alla questione di massima: “…, se, nel novero dei “provvedimenti commissariali adottati in attuazione delle ordinanze del Presidente del Consiglio dei Ministri emanate ai sensi dell’ articolo 5, comma 2, della legge 24 febbraio 1992, n. 225” indicati dall’art. 3, comma 1, lett. c-bis), della legge 14 gennaio 1994, n. 20, come modificato da ultimo dal decreto-legge 23 dicembre 2010, n. 225, convertito con modificazioni dalla legge 26 febbraio 2011, n. 10, rientrino non solo i provvedimenti emanati dai commissari delegati - nominati ai sensi dell’art. 5, comma 4, della legge n. 225 del 1992 -, ma anche quelli emanati, ove ne sussistano i presupposti, da altri soggetti…” le Sezioni riunite sono pervenute alle conclusioni secondo le quali è: “… indefettibile accedere ad un’interpretazione sostanziale anche con riguardo alla specifica disposizione recata dal novellato art. 3, comma 1, lett. c-bis), della legge n. 20 del 1994, pur nel rispetto del dato testuale” sicchè le stesse hanno ritenuto che “ … la nozione di “provvedimento commissariale” come “atto provvedimentale emesso dal commissario delegato“ debba essere declinata nel suo significato sostanziale più ampio. Ciò comporta il riferimento, non tanto e non solo alla persona fisica del commissario delegato pro tempore, quanto alla funzione amministrativa extra-ordinem allo stesso attribuita, sulla base della legge, dalle OPCM di protezione civile emanate ai sensi dell’art. 5 della legge n. 225 del 1992. Di talché l’attenzione deve incentrarsi più sul contenuto sostanziale degli atti provvedimentali - piuttosto che sulla provenienza soggettiva formale degli atti stessi - non tanto per evitare patologici atteggiamenti elusivi della norma, 238 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 quanto al fine di corrispondere pienamente alla ratio della norma, oltre che alla lettera della disposizione di legge. Conseguentemente, tra i “provvedimenti commissariali”, assoggettati allo specifico controllo di cui all’art. 3, comma 1, lett. c-bis), della legge n. 20 del 1994, debbono essere considerati, oltre che gli “atti provvedimentali emessi dal commissario delegato”, anche quelli di ogni altro soggetto, che, per investitura del commissario delegato ovvero dell’OPCM di protezione civile, ponga in essere atti di natura provvedimentale che costituiscano esercizio di potere in deroga, ai sensi dell’art. 5 della legge n. 225 del 1992. Omissis… 8. In conclusione, con riguardo alla questione di massima in esame, ritengono le Sezioni riunite che tra i “provvedimenti commissariali”, assoggettabili al controllo di cui all’art. 3, comma 1, lett. c-bis), della legge n. 20 del 1994, rientrino, oltre che gli “atti provvedimentali emessi dal commissario delegato”, anche quelli di ogni altro soggetto, che, per investitura del commissario delegato ovvero dell’OPCM di protezione civile, ponga in essere atti di natura provvedimentale che costituiscano esercizio di potere in deroga, ai sensi dell’art. 5 della legge n. 225 del 1992”. In relazione, infine, alla richiesta formulata dall’Amministrazione - in ordine al possibile controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti sui decreti di approvazione dei contratti passivi della Unità tecnica-amministrativa, se di importo superiore alla cd. soglia comunitaria, ex art. 3, comma 1, lett. g) L. 20/1994 - in disparte il possibile profilo di incompetenza - peraltro recentemente disconosciuto dalla giurisprudenza (Corte dei Conti n. 12/2002) - deve coerentemente affermarsi anche per essi che solo qualora costituiscano provvedimenti emessi nell’esercizio di poteri in deroga, dovranno essere sottoposti al vaglio preventivo di legittimità ai sensi della lett. g) del 1° comma dell’art. 3. La questione è stata esaminata dal Comitato Consultivo che si è espresso in conformità nella seduta del 24 febbraio 2012. Trattamento economico accessorio del personale delle Autorità amministrative indipendenti: applicabilità art. 9, comma 2-bis, d.l. 31 maggio 2010, n. 78 conv., con mod., dalla legge 30 luglio 2010, n. 122. (Parere prot. 124909 del 29 marzo 2012, AL 48121/11, avv.ti LEONELLOMARIANI, GESUALDO D’ELIA) Con il foglio a riscontro codesta Commissione riferisce che, non essendo dotata di un proprio ruolo organico, per lo svolgimento delle proprie attività istituzionali essa si avvale, come previsto dalla norma istitutiva, “di personale, PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 239 anche con qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche o di altri organismi di diritto pubblico in posizione di comando o fuori ruolo … nel limite massimo di trenta unità” (art. 12, comma 2, l. 12 giugno 1990, n. 146). Come parimenti previsto da tale disposizione, “il personale in servizio presso la Commissione in posizione di comando o fuori ruolo conserva lo stato giuridico e il trattamento economico fondamentale delle amministrazioni di provenienza, a carico di queste ultime”, e gode inoltre di “un’indennità nella misura prevista per il personale dei ruoli della Presidenza del Consiglio dei ministri, nonché [de]gli altri trattamenti economici accessori previsti dai contratti collettivi nazionali di lavoro” i quali “gravano sul fondo di cui al comma 5”, vale a dire su “un apposito fondo istituito a tale scopo nel bilancio dello Stato” con il quale “la Commissione provvede all’autonoma gestione delle spese relative al proprio funzionamento” (art. 12, comma 5, l. cit.). Tanto premesso codesto Organismo di garanzia chiede di conoscere se il divieto di cui all’art. 9, comma 2-bis, del d.l. 31 maggio 2010, n. 78 conv., con mod., dalla legge 30 luglio 2010, n. 122 - il quale, com’è noto, stabilisce che “a decorrere dal 1° gennaio 2011 e sino al 31 dicembre 2013 l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, non può superare il corrispondente importo dell’anno 2010 ed è, comunque, automaticamente ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio” - si applichi o meno anche alle autorità amministrative indipendenti, tra le quali rientra anche la Commissione di garanzia di cui alla l. n. 146/1990. Il problema, come evidenziato da codesto Organismo, nasce dal fatto che, mentre il comma 2-bis dell’art. 9 citato - nel disporre il cennato divieto - fa riferimento al trattamento accessorio del personale “delle amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165” - tra le quali non risultano espressamente elencate le autorità amministrative indipendenti -, i precedenti commi 1 e 2 dello stesso art. 9 - i quali, per il medesimo triennio 2011-2013, stabiliscono che il trattamento economico complessivo, comprensivo del trattamento accessorio, dei singoli dipendenti, anche di qualifica dirigenziale, non possa in ogni caso superare il trattamento ordinariamente spettante per l’anno 2010 (comma 1) e sia comunque in varia guisa percentualmente ridotto al superare di certe soglie (comma 2) - si indirizzano al personale “delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi del comma 3 dell’articolo 1 della legge 31 dicembre 2009, n. 196” - tra le quali risultano invece espressamente elencate anche le autorità amministrative indipendenti -. Esaminata la normativa di riferimento questa Avvocatura esprime l’avviso che l’art. 9, comma 2-bis, del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, aggiunto dalla legge 240 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 di conversione 30 luglio 2010, n. 122, si applichi anche alle autorità amministrative indipendenti alle quali, a decorrere dal 1° gennaio 2011 e sino al 31 dicembre 2013, deve pertanto ritenersi inibito destinare al trattamento economico accessorio del personale risorse di ammontare complessivamente superiore al corrispondente importo stanziato nell’anno 2010. Un approdo ermeneutico di tal genere è infatti imposto e necessitato, sul piano dell’interpretazione logico-sistematica, dall’indissolubile relazione, reciproca e biunivoca, indiscutibilmente esistente, ad avviso della Scrivente, tra la norma di cui al comma 1 dell’art. 9 del d.l. n. 78/2010 - la quale, come s’è detto, con disposizione di carattere generale, stabilisce che nel triennio 2011- 2013 il trattamento economico complessivo, comprensivo del trattamento economico accessorio, di tutti i pubblici dipendenti, compresi quelli delle autorità amministrative indipendenti, non può in ogni caso superare il trattamento ordinariamente spettante per l’anno 2010 - e quella di cui al successivo comma 2-bis dello stesso art. 9 - la quale, con disposizione di valenza altrettanto generale e in evidente consecuzione logica, stabilisce che, nello stesso triennio, l’ammontare complessivo delle risorse annualmente destinate al finanziamento del trattamento economico accessorio del personale dipendente non può superare l’importo stanziato nel 2010 -. Si tratta, com’è evidente, di due norme speculari e complementari tra loro le quali, pur muovendo da diversa prospettiva - la prima, il comma 1, ex latere praestatoris, il cui trattamento economico complessivo e, per quanto qui specificamente interessa, quello accessorio, non potrà comunque (“in ogni caso” ) superare, nel triennio considerato, l’ammontare del 2010; la seconda, il comma 2-bis, ex latere datoris, cui, nello stesso triennio, è inibito destinare a quel trattamento risorse complessivamente superiori a quelle stanziate nel 2010 -, convergono al medesimo fine di invarianza della spesa complessiva del personale e, di riflesso, di contenimento della spesa pubblica generale: finalità che, se da un lato, come correttamente evidenziato da codesta Commissione, costituiscono la ratio ispiratrice delle norme in parola, dall’altro, debbono altresì costituire il criterio guida della loro interpretazione. La relazione intercorrente tra le disposizioni in esame comporta quindi che l’applicazione dell’una presuppone necessariamente l’applicazione dell’altra e, per quanto qui interessa, che vi è - e vi dev’essere, per cogenti ragioni di ordine logico - assoluta coincidenza tra le amministrazioni pubbliche - lato sensu intese - tenute ad applicarle e i dipendenti pubblici cui le stesse devono essere applicate. Elementari esigenze di coerenza logica dell’articolato normativo inducono infatti a ripudiare un’interpretazione del combinato disposto dei commi 1 e 2-bis dell’art. 9 del d.l. n. 78/2010 che, da un lato, per il triennio 2011- 2013, assoggetti il trattamento economico, fondamentale ed accessorio, di tutti i dipendenti pubblici, compreso quello previsto dagli ordinamenti delle singole PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 241 autorità amministrative indipendenti, al rispetto del limite introdotto dal comma 1 con riferimento al trattamento spettante per l’anno 2010 e, nel contempo, escluda le sole autorità amministrative indipendenti - e solo queste - dall’osservanza del divieto di cui al successivo comma 2-bis consentendo loro di destinare, nel medesimo triennio, risorse superiori a quelle stanziate nel 2010 allo scopo di finanziare trattamenti economici accessori che, peraltro, in forza di quanto disposto dal comma 1 che precede, non possono comunque superare il livello complessivo di quelli corrisposti nel 2010. Così interpretata la disposizione del comma 2-bis dell’art. 9 del d.l. n. 78/2010 risulterebbe infatti del tutto priva di utilità pratica posto che le maggiori risorse per ipotesi destinate nel triennio 2011-2013 al finanziamento del trattamento economico accessorio del personale in servizio presso le autorità amministrative indipendenti non potrebbero comunque venire in concreto erogate ai dipendenti stante il divieto di incremento di quel trattamento - divieto pacificamente applicabile anche alle predette autorità - stabilito, con riferimento al medesimo torno di tempo, dal precedente comma 1 dello stesso art. 9. Alla stregua delle considerazioni che precedono si impone dunque, ad avviso di questa Avvocatura, un’interpretazione del combinato disposto delle norme in parola che restituisca coerenza logica e utilità operativa alle disposizioni - e, in particolare, a quella di cui al comma 2-bis - le quali - in ragione della stretta correlazione tra le stesse esistente - debbono perciò trovare entrambe applicazione anche nei riguardi delle autorità amministrative indipendenti. A fronte delle argomentazioni che precedono appaiono pertanto recessivi sia il rilievo fondato sulla circostanza - evidenziata da codesta Commissione - che, stante l’incremento di personale verificatosi nel corso del 2011, l’applicazione del comma 2-bis dell’art. 9 del d.l. n. 78/2010 condurrebbe, in concreto, non già all’invarianza, bensì alla riduzione del trattamento economico accessorio spettante al personale in servizio sia le obiezioni basate sulla diversa locuzione utilizzata dall’una e dall’altra disposizione al fine di individuare le amministrazioni destinatarie dei limiti e dei divieti imposti. Sotto il primo profilo è agevole replicare, per un verso, che l’incremento di personale che abbia a verificarsi nel corso del triennio interessato dal “blocco” rispetto alla consistenza di quello in servizio nel 2010 - incremento che, stante il divieto di destinare risorse aggiuntive al finanziamento del trattamento economico accessorio, può in concreto condurre alla riduzione di questo - è evenienza potenzialmente comune a tutte le pubbliche amministrazioni destinatarie della normativa in parola senza che, sotto questo rispetto, emergano ragioni per riservare un trattamento differenziato alle sole autorità amministrative indipendenti. D’altro canto, un’eventualità del genere - vale a dire una possibile riduzione, nel triennio considerato, del trattamento economico accessorio rispetto a quello goduto nel 2010 - è stata in qualche modo considerata dallo stesso le- 242 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 gislatore allorquando ha previsto - al comma 1 dell’art. 9 del d.l. n. 78/2010 - che il trattamento economico - il quale, è bene ricordarlo, è per sua natura essenzialmente variabile anche, ma non solo, in ragione delle risorse di volta in volta disponibili - “non può superare” - e, quindi, non può essere superiore a - quello ordinariamente spettante per l’anno 2010, senza escludere - e tantomeno vietare - che esso sia - in concreto - inferiore: il che può accadere non soltanto, a risorse invariate, a fronte di un aumento di personale, ma, a personale invariato, a fronte di una diminuzione delle risorse a quel trattamento destinate. Quanto al secondo rilievo - basato, come sottolineato da codesta Commissione, sulla esclusione della diretta applicabilità alle autorità amministrative indipendenti delle disposizioni contenute nel d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 -, si osserva che nella fattispecie che ne occupa non si tratta di applicare norme contenute nel t.u. sul lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche - le quali, com’è ben noto, e salvo che non sia diversamente disposto (v., ad es., l’art. 5, comma 3-bis, del d.lgs. n. 165/2001 in tema di poteri di organizzazione), non sono in linea di principio direttamente applicabili alle autorità amministrative indipendenti -, bensì - e ben diversamente - di applicare una norma, di valenza generale, che individua il proprio ambito soggettivo di riferimento rinviando alle “amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”. In questa prospettiva, non può peraltro negarsi che - quantomeno ai fini di cui qui si discute - la locuzione “amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo” contenuta nella norma richiamata dal comma 2-bis dell’art. 9 sia di tale ampiezza e latitudine da ricomprendere nel proprio ambito anche quelle entità statali funzionalmente autonome e ad autonomia garantita che, complessivamente considerate, costituiscono il sistema delle autorità amministrative c.d. indipendenti (v., in proposito, Cons. Stato, sez. VI, 25 novembre 1994, n. 1716 la quale, sul presupposto che l’Autorità garante della concorrenza e del mercato “non è un ente munito di personalità giuridica, distinto, quindi, dallo Stato, ma è un organismo dello stesso sia pure dotato di un alto grado di indipendenza nei confronti del potere esecutivo”, ha affermato che alla stessa spetta il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato che l’art. 1, comma 1, del r.d. 30 ottobre 1933, n. 1611 riserva alle “Amministrazioni dello Stato, anche se organizzate ad ordinamento autonomo”). E non è del resto fuori luogo rammentare che, come sottolinea anche codesto Organismo, lo stesso dibattito sulla diretta applicabilità del d.lgs. n. 165/2001 alle autorità amministrative indipendenti è annoso e lungi dall’essere sopito: di talchè è dato riscontrare, nella stessa giurisprudenza consultiva del Consiglio di Stato, affermazioni ora in un senso ora nell’altro (v., ad es., in tema di iscrizione pensionistica del personale delle autorità indipendenti il parere n. 260/1999 che ha ritenuto non esservi ragione per escludere le c.d. autorità indipendenti dal novero delle amministrazioni dello Stato ad PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 243 ordinamento autonomo di cui all’art. 1, comma 2, dell’allora vigente d.lgs 3 febbraio 1993, n. 29; in senso opposto v. il recente parere n. 870/2010 il quale fa comunque salva la verifica di compatibilità per quelle norme che, pur riferendosi alle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001, “costituiscano espressione di principi generali valevoli per tutte le amministrazioni pubbliche”). E proprio richiamando e valorizzando tale affermazione non può contestarsi che le norme della cui interpretazione si discute costituiscano, per il loro contenuto e per le loro finalità, disposizioni “espressione di principi generali valevoli per tutte le amministrazioni pubbliche” o, comunque, di indirizzi generali di finanza pubblica e che, come tali, siano - e ciò vale, in particolare, per il comma 2-bis dell’art. 9 del d.l. n. 78/2010 - applicabili anche alle autorità amministrative indipendenti. Il che è tanto più vero allorquando, come nella fattispecie, non siano individuabili ragioni che inducano ad escludere le autorità in questione dall’ambito di applicazione di un divieto di carattere generale, valevole per la generalità delle amministrazioni pubbliche e per la generalità dei dipendenti pubblici, quale è quello stabilito dal pluricitato comma 2-bis dell’art. 9 del d.l. n. 78/2010: divieto che - è il caso di evidenziarlo - non pare interferisca in alcun modo né con l’autonomia della quale godono, in generale, le autorità amministrative indipendenti né, in particolare, con l’autonomia con la quale codesta Commissione gestisce il fondo speciale destinato, tra l’altro, al finanziamento del trattamento economico accessorio del proprio personale. In definitiva, la messe degli argomenti che depongono in senso contrario e, soprattutto, l’insuperabile aporia applicativa della quale s’è detto - vale a dire l’inutilità pratica di una previsione che consentirebbe alle sole autorità amministrative indipendenti di destinare risorse aggiuntive al finanziamento di un trattamento economico accessorio che, però, come è certo, non può comunque subire aumenti - inducono a ritenere non decisivo e, in ogni caso, superabile il dato letterale sopra evidenziato il quale - proprio per la palese antinomia che lo caratterizza - non è verosimilmente sorretto da una conforme, consapevole intentio legis, ma è presumibilmente imputabile ad un banale difetto di coordinamento legislativo prodottosi al momento della redazione dell’emendamento poi trasfuso, in sede di conversione in legge del decreto n. 78/2010, nel comma 2-bis dell’art. 9 citato. Diversamente opinando e stante il - pacifico ed incontestato - divieto di incremento del trattamento economico accessorio individuale applicabile, in forza del comma 1 dell’art. 9 del d.l. n. 78/2010, anche al personale delle autorità amministrative indipendenti, onde evitare di impingere nella violazione del canone di cui all’art. 3 della Carta fondamentale dovrebbe darsi razionale e ragionevole giustificazione del differente trattamento riservato a queste ultime nella ipotesi - che si assume marginale, stante il generalizzato blocco 244 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 delle assunzioni - di sopravvenuto incremento del personale nel triennio 2011- 2013: evenienza, questa, la quale, come s’è detto, è comune a tutte le pubbliche amministrazioni e rispetto alla quale non si rinvengono motivi per riservare un trattamento diverso - e di favore - alle sole autorità amministrative indipendenti; soprattutto allorquando, come nel caso di codesta Commissione, non dispongono di personale proprio ma si avvalgono di personale - in posizione di comando o di fuori ruolo - di altre amministrazioni il quale, per il sol fatto di essere destinato a prestare servizio presso un’autorità amministrativa indipendente nel triennio 2011-2013, sfuggirebbe per tal via a quel blocco del trattamento economico accessorio cui sarebbe invece assoggettato se avesse continuato a prestare servizio presso l’amministrazione di appartenenza. Sul presente affare è stato sentito il Comitato Consultivo che nella seduta del 23 marzo 2012 si è espresso in conformità. Rimborso spese legali ex art. 18 d.l. 25 marzo 1997 n. 67, conv. dalla legge 23 maggio 1997 n. 135. (Parere prot. 173747 del 18 aprile 2012, AL 27464/11, avv. VERDIANA FEDELI) Codesta Commissione ha chiesto alla Scrivente parere circa la congruità delle spese legali relative al procedimento penale pendente presso il Tribunale di Roma a carico (...), conclusosi con ordinanza di archiviazione. Al riguardo si osserva quanto segue. I. L'art. 18 del d.l. 25 marzo 1997 n. 67, convertito nella legge 23 maggio 1997 n. 135, stabilisce che "Le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall'Avvocatura dello Stato. Le amministrazioni interessate, sentita l'Avvocatura dello Stato, possono concedere anticipazioni del rimborso, salva la ripetizione nel caso di sentenza definitiva che accerti la responsabilità". Sebbene, tuttavia, la suddetta norma sembri circoscrivere l'intervento alla valutazione della congruità degli onorari di cui è stata chiesta la ripetizione, secondo una giurisprudenza costante (da ultimo, Tar Lazio, Sez. I, 4 luglio 2011 n. 5836) all’Avvocatura dello Stato non è preclusa la verifica della ricorrenza dei necessari presupposti di legge per la concessione del rimborso. La legittimazione della Scrivente a pronunciarsi sull’an debeatur si fonda, in- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 245 fatti, sulla sua istituzionale funzione di organo di consulenza legale delle Amministrazioni dello Stato e degli altri Enti ad esse equiparati, ai sensi della più generale norma contenuta nell'art. 13 del R.D. 30 ottobre 1933 n. 1611. Appare, quindi, opportuno verificare previamente la sussistenza dei requisiti previsti dalla legge in quanto la loro mancanza precluderebbe qualsiasi valutazione circa la congruità delle somme da rimborsare. Invero ai principi indicati nel suindicato art. 18 è stata data attuazione con l’adozione della normativa adottata da codesta Autorità per la concessione di rimborsi delle spese legali relative a giudizi promossi nei confronti dei dipendenti Consob che all’art. 2 subordina l'erogazione del rimborso al ricorrere di due presupposti: a) il procedimento al quale il rimborso si riferisce deve essere stato promosso nei confronti del dipendente in conseguenza di atti o fatti connessi con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali; b) il procedimento deve essersi concluso con sentenza passata in giudicato o con provvedimento non soggetto a gravame che dichiari la totale assenza di responsabilità da parte del dipendente. Scopo della norma è quello di sollevare i funzionari pubblici dal timore di eventuali conseguenze giudiziarie connesse all'espletamento del servizio e tenere perciò indenni i soggetti che abbiano agito in nome, per conto e nell'interesse dell'Amministrazione dalle spese legali sostenute per difendersi dalle accuse di responsabilità. Coerentemente con la ratio della norma, si deve affermare che sussiste il requisito di cui alla precedente lettera a) in tutti i casi in cui gli effetti dell'agire del pubblico dipendente possano essere imputati direttamente all'Amministrazione di appartenenza o quando tale attività sia svolta in diretta relazione con i fini dell'Amministrazione stessa. Occorre, quindi, verificare se in concreto e con carattere di effettività esista un nesso funzionale tra i fatti per i quali gli istanti sono stati perseguiti penalmente ed il servizio proprio dell'Autorità di appartenenza. Nel caso di specie i soggetti richiedenti il rimborso sono stati indagati a seguito di una denuncia- querela presentata da (...) per abuso d'ufficio (art. 323 c.p.) e falso ideologico (art. 479 c.p.). Costui, infatti, aveva adito l'autorità giudiziaria ritenendo che l'indagine condotta dai sopramenzionati dipendenti della CONSOB nonché i provvedimenti adottati nei suoi confronti (contestazione dell'illecito amministrativo "manipolazione del mercato" ex art. 187 ter, comma 1, del T.U.F.) fossero ispirati da ragioni pretestuose e intimidatorie estranee alle finalità istituzionali dell'ente. Si tratta, evidentemente, di attività poste in essere dagli indagati in virtù del rapporto di lavoro intercorrente con codesta Autorità e nell'espletamento del servizio, i cui effetti sono direttamente imputabili all'ente di appartenenza. D'altronde, le stesse fattispecie di reato invocate dal querelante (artt. 246 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 323 e 479 c.p.) presuppongono che il fatto sia stato compiuto "nello svolgimento delle funzioni o del servizio". Accertata la sussistenza del primo requisito di cui all'art. 2 della normativa Consob, occorre ora verificare se la pronuncia definitiva del giudizio a carico dei pubblici dipendenti ne abbia escluso la responsabilità. Come affermato dal Tar Lazio nella pronuncia sopramenzionata, "L'art. 18 in esame costituisce una disposizione dal contenuto di diritto amministrativo e civile non avente natura processualpenalistica, che riconosce in capo al dipendente il rimborso delle spese legali relative a giudizi che si siano conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, da cui risulti quindi acclarata, in via definitiva e certa, l'estraneità del dipendente dai fatti addebitati. A fronte del mancato riferimento, nella norma, a formule assolutorie specifiche, così come invece indicate espressamente nel codice di procedura penale per i benefici riconosciuti per la riparazione per l'ingiusta detenzione di cui agli artt. 314 e 315 c.p.p. (per colui che è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato...), deve ritenersi che la relativa formulazione condiziona, per il riconoscimento del diritto, la verifica della conclusione del giudizio di responsabilità con sentenza o provvedimento che escluda la responsabilità del dipendente, cosicché non può aversi riguardo, ai fini dell’ammissione al beneficio, alla situazione di fatto determinata dalla sequenza dei giudizi intervenuti ed ai meri effetti processuali, posto che le disposizioni dettate a fini processualpenalistici non possono valere con riferimento ai profili extrapenali di cui all'art. 18 citato, riguardante il rimborso delle spese legali a carico delle Amministrazioni di appartenenza del dipendente sottoposto a giudizio. Essendo, ai sensi dell'art. 18 del d.l. n. 67 del 1997, il rimborso delle spese legali relative al giudizio penale cui sia stato sottoposto il dipendente dovuta solo qualora la sentenza conclusiva escluda la sua responsabilità nell'occorso, tale rimborso non può ritenersi spettante nel caso in cui, ad esempio, egli sia stato prosciolto per intervenuta prescrizione, avendo egli la facoltà e l'onere di rinunciare alla prescrizione o comunque di impugnare la sentenza che dichiari per l'effetto estinto il reato, al fine di addivenire ad una pronuncia pienamente assolutoria nel merito (Consiglio di Stato - Sez. VI - 29 aprile 2005 n. 2041). Cosicché devono ritenersi fuoriuscire dal perimetro applicativo della norma le fattispecie in cui il giudizio si sia concluso con decisioni meramente processuali, e la responsabilità del dipendente sia stata esclusa per ragioni di rito a fronte delle quali non è stata, quindi, esclusa con certezza la responsabilità del dipendente. Essendo l’art. 18 espressione del divieto generale di locupletatio cum aliena iactura (artt. 1207, 1720 e 2031 c.c.) arricchito dei contenuti propri che connotano l'amministrazione pubblica (art. 97 Cost.), il meccanismo pecuniario del rimborso delle spese legali sostenute dal dipendente pubblico sottoposto a processo pe- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 247 nale per fatti connessi con l'assolvimento dei suoi obblighi istituzionali può attivarsi solo dove l'identificazione fra la p.a. ed il suo dipendente ingiustamente accusato non lasci adito ad alcun dubbio circa l'esenzione da responsabilità di quest'ultimo". Nel caso di specie il procedimento penale si è concluso con un'ordinanza di archiviazione, quindi in una fase pre-processuale. Chiamata a pronunciarsi sul diritto al rimborso delle spese legali sostenute dagli amministratori locali e dai dipendenti di aziende e amministrazioni autonome nel corso di giudizi per fatti connessi all'espletamento dell'incarico, la giurisprudenza ha costantemente sostenuto che tale pretesa fosse da riconoscere in tutti i casi in cui l'imputato fosse prosciolto con la formula più liberatoria ("perché il fatto non sussiste") e da negare in caso di proscioglimento con formule meramente processuali, ammettendo solo il rilievo della assoluzione intervenuta in fase istruttoria (Cons. Stato, Sez. V, 14 aprile 2000, n. 2242). Più di recente la Suprema Corte di Cassazione (Sez. Lav., 19 novembre 2007, n. 23904) ha rilevato che nell'ipotesi di procedimento penale conclusosi con decreto di archiviazione occorre verificare le ragioni che sorreggono tale provvedimento, dovendosi distinguere tra l'ipotesi contemplata dall'art. 408 c.p.p. (infondatezza della notizia di reato) e quelle indicate dall'art. 411 c.p.p. (assenza di una condizione di procedibilità, estinzione del reato, mancata previsione del fatto come reato). Va, quindi, approfondito se il provvedimento con cui si è concluso il procedimento a carico degli istanti abbia escluso ogni profilo di responsabilità degli indagati. Sul punto l'ordinanza di archiviazione emessa dal G.I.P. di Roma appare chiara laddove afferma che la delibera con cui è stata irrogata la sanzione amministrativa a (...) "appariva, già prima del suo annullamento da parte della competente A.G., per molti aspetti viziata e censurabile sotto svariati motivi nella sua motivazione e nel suo iter decisionale, ma il problema è che un provvedimento amministrativo, ancorché viziato, non è ancora sufficiente a determinare la configurabilità del reato di cui all'art. 323 c.p., per la cui integrazione occorrono ulteriori requisiti che non possono essere considerati esauriti dalla rilevazione del vizio stesso del provvedimento" (pag. 8). Il Giudice ha rilevato, infatti, che per la configurabilità del reato di abuso di ufficio è necessario che l'agente abbia operato con dolo intenzionale, ossia che l'evento (ingiusto vantaggio patrimoniale o ingiusto danno) sia voluto e realizzato come obiettivo immediato e diretto della condotta, e non sia semplicemente un risultato accessorio di questa. Nel caso di specie il G.I.P. ha ritenuto non sussistente l'elemento soggettivo richiesto dall'art. 323 c.p., anche in ragione "dell'estrema difficoltà già soltanto di ipotizzare un accordo preventivo fra i funzionari CONSOB intervenuti nella vicenda al fine di colpire intenzionalmente il (...) con il proprio operato istituzionale" (pag. 9). Il Giudice ha, quindi, concluso osservando che l'iniziativa della CONSOB (i.e., l'operato dei suoi dipendenti), ancorché non fosse stata del tutto estranea da considerazioni di natura personale, 248 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 determinate dall’insofferenza nei confronti di un certo personaggio e dei suoi metodi, non per questo acquista rilevanza penale. Quanto al requisito di cui alla lettera b), ossia che il giudizio di responsabilità si sia concluso "con sentenza passata in giudicato o con provvedimento non soggetto a gravame", si osserva quanto segue. Nella fattispecie concreta, il procedimento si è concluso con un'ordinanza di archiviazione la quale, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 409 c.p.p., è impugnabile con ricorso per cassazione unicamente per l'inosservanza delle disposizioni concernenti la citazione e l'intervento nell'udienza camerale. Essendo trascorsi i termini per impugnare di cui all'art. 585 c.p.p. e non essendo pervenuta alla Scrivente alcuna notizia sulla proposizione del gravame, deve ritenersi che il provvedimento è inoppugnabile, ma revocabile. In caso di riapertura delle indagini, pertanto, dovranno essere restituiti gli importi rimborsati. II. Risolta positivamente la questione relativa all'an debeatur, la Scrivente evidenzia che il diritto del dipendente al rimborso delle spese legali, infatti, deve essere contenuto nei limiti di quanto strettamente necessario, trattandosi di erogazioni gravanti sulla finanza pubblica. Come costantemente affermato dalla giurisprudenza, l'Avvocatura è chiamata ad eseguire "una valutazione caratterizzata essenzialmente da aspetti di discrezionalità tecnica, in quanto riferita al parametro della tariffa penale, nonché alla natura e alla complessità della causa ed all'importanza delle questioni trattate, alla durata del processo, alla qualità dell'opera professionale prestata ed al vantaggio arrecato al cliente" (Cass. Civ., Sez. Lav., 23 gennaio 2007, n. 1418). Nel caso di specie si rileva una prima discrepanza tra il risultato della nota spese emessa il 6 aprile 2011 (€ 12.972,96) e la somma delle parcelle pagate dai tre istanti così come risultanti dalle quietanze rilasciate in data 13-16 maggio 2011 (€ 12.985). Si evidenzia, inoltre, che l'ammontare delle singole voci della nota spese appare superiore rispetto alle tariffe massime stabilite dal Ministero della Giustizia, ma nella maggior parte dei casi superiore anche al valore che si otterrebbe quadruplicando la tariffa massima in ragione di una presunta difficoltà della controversia. Come noto, ai sensi del D.M. 8 aprile 2004 n. 127, in materia penale è data la facoltà di elevare gli onorari fino al quadruplo dei massimi stabiliti qualora la causa richieda "un particolare impegno, per la complessità dei fatti o per le questioni giuridiche trattate", nonché la possibilità di superare anche i massimi così quadruplicati "qualora tra la prestazione dell'avvocato e l'onorario previsto appaia per particolari circostanze del caso - quali, ad esempio, il numero dei documenti da esaminare, l'emissione di ordinanze di applicazione di misure cautelari, la durata della fase procedimentale e dibattimentale, l'entità economica o l'importanza degli interessi coinvolti, la costituzione di parte civile, il risultato ottenuto, la continuità dell'impegno necessario, la frequenza e l'entità dell'assistenza da prestare, il disagio dipen- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 249 dente dalla necessità di frequenti trasferimenti fuori sede o di incombenti da compiere in ore diverse da quelle abituali, etc.-, una manifesta sproporzione". Con riferimento alla sezione "Udienze" si osserva che nella nota spese sono indicate più voci, mentre alla Scrivente risulta che sia stata celebrata un'unica udienza camerale a seguito dell'opposizione alla richiesta di archiviazione formulata dal P.M.. Preme evidenziare che gli istanti hanno conferito la procura all'avv. (...) soltanto il 23 settembre 2010 (dopo la richiesta di archiviazione e la relativa opposizione) e che quindi l'attività difensiva di quest'ultimo si è svolta per un breve periodo, tenuto in considerazione che l'udienza camerale ha avuto luogo il 16 novembre 2010 e l'ordinanza di archiviazione è stata depositata il 14 marzo 2011. Conclusivamente, si ritiene che la brevità del procedimento penale, l'esiguità dell'intervento difensivo posto in essere dall'avvocato, l'identità delle posizioni processuali, la parcella possa essere congruamente ridotta a € 4.825,54, come da prospetto che si allega in copia. Tuttavia, atteso che, ai sensi dell’art. 3 della tariffa professionale penale (D.M. 8/4/2004, n. 127), nel caso di assistenza e difesa di più parti aventi la medesima posizione, la parcella può essere aumentata per ogni parte del 20%, si ritiene che il rimborso spetti complessivamente per €. 7.800. Sui criteri di massima del presente parere è stato sentito il Comitato Consultivo, che si è espresso in conformità nella seduta del 18 aprile 2012. Transazione fiscale ex art. 182 ter del R.D. nr. 267/1942. Applicabilità dell’art. 184 R.D. nr. 267/1942 alla società coobbligata in caso di scissione societaria ex art. 2506 quater c.c. (Parere prot. 158169 del 19 aprile 2012, AL 8048/12, avv. EUGENIO DE BONIS) Codesta Direzione Regionale ha chiesto di conoscere l’avviso della Scrivente in ordine ai quesiti prospettati dalla Direzione Provinciale di Frosinone, riguardanti i rapporti tra l’istituto della “transazione fiscale” come disciplinato dall’art. 182 ter della R.D. nr. 267/1942 (di seguito L.F.) nell’ambito del concordato preventivo e l’art. 184 L.F., con particolare riferimento alla posizione dell’obbligato solidale per effetto di scissione societaria, ai sensi dell’art. 2506 quater del Codice civile. Nel confermare il contenuto della nota prot. 188477 del 6 giugno 2011 di questa Avvocatura, pure richiamata da codesto Ufficio, pare opportuno precisare che la prevalente ricostruzione generale dell’istituto della transazione fiscale emersa in dottrina e nella giurisprudenza di merito (e già illustrata nella 250 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 richiamata nota) è stata recentemente avallata anche dalla Suprema Corte che con due sentenze “gemelle” (Cassazione civile sez. I n. 22931 n. 22932 entrambe del 4 novembre 2011) ha ritenuto in sintesi: a) la facoltatività dell’utilizzo dell’istituto della transazione fiscale nell’ambito del concordato preventivo; b) l’irrilevanza della votazione non favorevole da parte dell'Amministrazione, che non impedisce l'omologazione del concordato se è comunque raggiunta la prescritta maggioranza. c) la non falcidiabilità del credito IVA anche per le procedure cui non sia applicabile ratione temporis l'art. 32 d.l. 29 novembre 2008 n. 185, conv. nella l. 28 gennaio 2009 n. 2 (che ha modificato il comma 1 dell'art. 182 ter L.F. prevedendo che la proposta, quanto all'Iva, può configurare solo la dilazione del pagamento); principio applicabile ad ogni forma di concordato, ancorché proposto senza ricorrere all'istituto della transazione fiscale, attenendo allo statuto concorsuale del credito IVA. Ciò rilevato per ragioni di completezza, si osserva che la “transazione fiscale” formulata nell’ambito di un concordato preventivo, ma anche l’omologazione del concordato preventivo, con falcidia di crediti tributari (diversi dall’IVA), anche se non sia stato preventivamente attivato il procedimento di cui all'art. 182 ter, comma 2, L.F., non estende gli effetti agli eventuali obbligati in solido. L’art. 184, comma 1 L.F. dispone, infatti: “Il concordato omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori al decreto di apertura della procedura di concordato. Tuttavia essi conservano impregiudicati i diritti contro i coobbligati, i fideiussori del debitore e gli obbligati in via di regresso”. Ciò posto in via generale, occorre a questo punto stabilire se la norma sopra citata sia applicabile nella particolare situazione prospetta da codesta Agenzia, riguardante la responsabilità patrimoniale della società risultante all’esito del procedimento di scissione di cui agli artt. 2506 e ss. del Codice civile. Occorre preliminarmente verificare la natura giuridica della responsabilità prevista dall’art. 2506 quater c.c. e stabilire, poi, se, in che misura ed a quali condizioni la società risultante dalla scissione possa essere chiamata a rispondere del debito della società che acceda alla procedura concordataria. L’art. 2506 quater, comma 3 c.c.., stabilisce: “Ciascuna società è solidalmente responsabile, nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa assegnato o rimasto, dei debiti della società scissa non soddisfatti dalla società cui fanno carico”. A fianco alla disciplina civilistica, in tema di imposte sui redditi, l’art. 173 del D.P.R. 917/1986 prevede: - al comma 12: “Gli obblighi tributari della società scissa riferibili a periodi di imposta anteriori alla data dalla quale l'operazione ha effetto sono adempiuti in caso di scissione parziale dalla stessa società scissa o trasferiti, PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 251 in caso di scissione totale, alla società beneficiaria appositamente designata nell'atto di scissione”; - al comma 13: “I controlli, gli accertamenti e ogni altro procedimento relativo ai suddetti obblighi sono svolti nei confronti della società scissa o, nel caso di scissione totale, di quella appositamente designata, ferma restando la competenza dell'ufficio dell'Agenzia delle entrate della società scissa. Se la designazione è omessa, si considera designata la beneficiaria nominata per prima nell'atto di scissione. Le altre società beneficiarie sono responsabili in solido per le imposte, le sanzioni pecuniarie, gli interessi e ogni altro debito e anche nei loro confronti possono essere adottati i provvedimenti cautelari previsti dalla legge. Le società coobbligate hanno facoltà di partecipare ai suddetti procedimenti e di prendere cognizione dei relativi atti, senza oneri di avvisi o di altri adempimenti per l'Amministrazione”. Dalla disposizione del Codice civile sopra riportata (norma di carattere generale) emerge la previsione di una responsabilità solidale delle società partecipanti all'operazione di scissione per i debiti della società scissa dalla stessa non soddisfatti. La giurisprudenza ha inoltre precisato che tale responsabilità solidale «è, però, illimitata per la società a cui il debito, secondo il progetto di scissione ..., fa carico››, mentre è limitata per le altre società, limite individuato dalla norma nel "valore effettivo del patrimonio netto trasferito o rimasto" a ciascuna di esse. (Sul punto cfr. Corte di Cassazione n. 15088/2001 con riferimento alla previgente disciplina contenuta nell’art. 2504 decies c.c., sul punto analoga, nonché in termini, Tribunale Roma sez. IV, sentenza del 3 agosto 2006). La disposizione del T.U.I.R., parrebbe, invece, a differenza della disposizione del Codice civile sopra riportata, non limitare la responsabilità solidale delle società beneficiarie della scissione. La parziale difformità delle disposizioni in commento induce, anche in applicazione del criterio di specialità, a ritenere la norma del T.U.I.R speciale, e, pertanto, prevalente rispetto a quella civilistica (generale). A favore di tale soluzione depongono, da un lato, il criterio letterale (il non aver espressamente limitato la responsabilità solidale, significa averla prevista come piena), dall’altro quello sistematico. Sotto un profilo di interpretazione sistematica c.d. “interna”, l’art. 173 del T.U.I.R., disciplina complessivamente gli effetti tributari della scissione ed, allorché intenda fare riferimento alla disciplina civilistica, il legislatore, ha espressamente richiamato le disposizione di rinvio (cfr. ad esempio il comma 11 dell’art. 173 che, con riferimento alla decorrenza degli effetti della scissione, salve le successive precisazioni, prevede “Ai fini delle imposte sui redditi, la decorrenza degli effetti della scissione è regolata secondo le disposizioni del comma 1 dell'articolo 2506-quater” ). Sotto un profilo di interpretazione sistematica c.d. “esterna” giova richia- 252 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 mare quanto stabilito dall’articolo 15 del D.Lgs. n. 472 del 1997 in materia di sanzioni tributarie che al comma 2 dispone: ‘‘Nei casi di scissione anche parziale di società od enti, ciascuna società od ente e`obbligato in solido al pagamento delle somme dovute per violazioni commesse anteriormente alla data dalla quale la scissione produce effetto’’. Anche quest’ultima disposizione, peraltro espressamente riferita anche alla scissione parziale, non pone alcuna limitazione di responsabilità. In conclusione si ritiene che, ai fini delle imposte sui redditi, nell’ipotesi di scissione (sia totale che parziale) la responsabilità solidale delle beneficiarie non sia soggetta al limite rappresentato dal valore effettivo del patrimonio netto assegnato alla beneficiaria. Così delineata la natura giuridica della responsabilità della società beneficiaria della scissione (solidale, ma limitata, secondo il Codice civile; solidale pura, secondo il T.U.I.R.), non vi è ragione, in ogni caso, per escludere l’applicabilità sul piano soggettivo della disciplina di cui all’art. 184 L.F. che fa salvi i diritti del creditore “contro i coobbligati, i fideiussori del debitore e gli obbligati in via di regresso”. La citata disposizione costituisce, infatti, una deroga alla disciplina comune che invece estende l’efficacia liberatoria della remissione del debito ai coobbligati (art. 1301 c.c.) e consente di profittare della transazione altrui (art. 1304 c.c.); deroga giustificata da un lato in ragione della natura pubblicistica della procedura di concordato preventivo e, dall’altro, in virtù della qualificazione della “transazione fiscale” come sub procedimento della procedura di concordato preventivo, che non può avere, dal punto di vista soggettivo, un’efficacia maggiore e più ampia rispetto a quella propria del procedimento principale. Per effetto di tale deroga, dunque, i soggetti contemplati dall’art. 184 L.F. finiscono per sopportare le conseguenze della crisi del debitorie principale, e sono tenuti a rispondere del debito. Tale disciplina speciale è stata ritenuta da parte della giurisprudenza di legittimità (sia pure con riferimento alla posizione del fideiussore) immune da dubbi di legittimità costituzionale, in riferimento agli art. 3 e 42 cost. “giacché il fideiussore da un lato paga quanto si era assunto l'obbligo di pagare, e dall'altro subisce, in sede di rivalsa, gli effetti del concordato come qualunque altro creditore” (cfr. Cassazione civile sez. III 17 luglio 2003 n. 11200, richiamata in motivazione da Cassazione civile sez. I, 8 febbraio 2005 n. 2532). Né di ostacolo all’applicazione della predetta disciplina è la natura dell’obbligazione solidale della società risultante della scissione prevista sia dal Codice civile che dal T.U.I.R.. Alla luce delle considerazioni sopra esposte, si è dunque dell’avviso che l’art. 184 della L.F. sia applicabile all’ipotesi di coobbligato per effetto di scissione societaria e, pertanto codesta Agenzia possa pretendere dalla società coobbligata il pagamento del debito della società scissa, senza limiti quantitativi PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 253 per le imposte sui redditi e le sanzioni, limitatamente al "valore effettivo del patrimonio netto trasferito o rimasto" alla società coobbligata, nelle altre ipotesi. Tali considerazioni di carattere generale devono, essere, tuttavia, calibrate ed adattate al caso si specie, ove, da quanto sommariamente evidenziato da codesta Agenzia la società ... (di seguito “soc. A”) è già stata chiamata a rispondere del debito della ... (di seguito “soc. B”) derivante da un avviso di accertamento relativo al periodo di imposta 2003 (da quest’ultima impugnato con giudizio pendente in grado di appello). È stato altresì evidenziato che la soc. A ha, dal canto suo, autonomamente impugnato le cartelle di pagamento derivanti dall’iscrizione a ruolo provvisoria dapprima del 50% e poi dei 2/3 dell’importo, quale coobbligata ai sensi dell’art. 2506 quater c.c. (anche i relativi giudizi pendono in grado di appello). Da quanto rappresentato da codesta Agenzia la soc. A ha contestato di poter essere chiamata a rispondere del debito altrui perché: - nel caso di transazione fiscale ciò determinerebbe la cessazione della materia del contendere relativamente ai giudizi tributari pendenti, facendo venire veno anche la maggior pretesa oggetto dell’accertamento oggi in contestazione che non può essere posta a carico del soggetto coobbligato; - l’avviso di accertamento non è mai stato notificato alla soc. A e, pertanto non può costituire titolo nei confronti del coobbligato; - il coobbligato può comunque giovarsi, ai sensi dell’art. 1304 c.c. dell’intervenuta transazione fiscale, sul presupposto che l’art. 184 L.F. sarebbe inapplicabile all’Amministrazione finanziaria. Posto, dunque, che la soc. A ha sostanzialmente, dedotto di non essere, per varie ragioni, tenuta al pagamento del debito della soc. B, appare necessario che le già esposte considerazioni sulla natura della responsabilità della stessa e sull’applicabilità dell’art. 184 L.F. siano opportunamente valorizzate da codesta Agenzia nell’ambito dei giudizi pendenti innanzi alla Commissione Tributaria Regionale, in seno ai quali si evidenzia la disponibilità di questa Avvocatura ad affiancare codesta Agenzia nella difesa in giudizio. A tali considerazioni sarà opportuno aggiungere, rispondendo, sul punto, anche agli specifici quesiti posti da codesta Agenzia ai punti a) b) e c) della nota della D.P. allegata, le seguenti considerazioni: a) l’obbligazione della soc. A non può essere esclusa per effetto della mancata notifica ad essa dell’avviso di accertamento per l’anno 2003, notificato e contestato dalla società in concordato. Da un lato, infatti l’obbligazione della soc. A è un effetto naturale che deriva ex lege dalla scissione, seppure nei limiti già precisati; dall’altro, quantomeno in tema di imposte sui redditi, il già citato comma 13 dell’art. 173 del T.U.I.R, dispone, per quanto qui interessa che “Le società coobbligate hanno facoltà di partecipare ai suddetti procedimenti e di prendere cognizione dei relativi atti, senza oneri di avvisi o di altri adempimenti per l'Amministrazione”. 254 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 A ciò aggiungasi che la cessazione della materia del contendere in caso di chiusura del concordato con transazione fiscale (ex art. 182-ter, comma 5 L.F.), riguarderebbe la controversia promossa dalla soc. B avverso l’avviso di accertamento e non invece le controversie (autonome) introdotte dalla soc. A, che traggono titolo dapprima, in generale, dall’obbligazione nascente dalla scissione, e poi dalla perpetuatio obligationis fondata sull’art. 184 L.F.; b) quanto alla possibilità di agire nei confronti della coobbligata per la parte di credito rimasta insoddisfatta in sede di esecuzione del concordato preventivo, sono state già ampiamente illustrate le ragioni giuridiche che legittimano tale azione; c) per quanto concerne, infine, la questione riguardante l’entità degli importi esigibili dalla coobbligata soc. A la concreta esigibilità del credito sarà condizionata dall’esito dei giudizi pendenti innanzi alla Commissione Tributaria Regionale e promossi dalla soc. A proprio per contestare la propria responsabilità patrimoniale. In relazione alla quantificazione degli importi suscettibili di essere richiesti (l’intero ammontare della pretesa ovvero solo i 2/3 attualmente iscritti a ruolo), si ritiene che la società coobbligata, in caso di esito del giudizio favorevole all’Amministrazione, possa essere chiamata a rispondere dell’intero ammontare della parte residua del debito non soddisfatta in sede concordataria, e, per le imposte cui non è applicabile l’art. 173 del TUIR, nel limite massimo del "valore effettivo del patrimonio netto trasferito o rimasto" alla società coobbligata a seguito della scissione. Si resta a disposizione per ogni eventuale chiarimento. Sui profili di massima della questione è stato sentito il Comitato Consultivo nella seduta del 18 aprile 2012, che si è espresso in conformità. Assegnazione di rivendite di generi di monopolio: concorsi riservati alle categorie espressamente contemplate dalla legge. (Parere prot. 187490 dell’11 maggio 2012, AL 6192/12, avv. ROBERTA TORTORA) L’A.A.M.S. - Ufficio Regionale Monopoli di Stato del Veneto e Trentino Alto Adige - Sezione Staccata di Trento, premesso che l’art. 21 della L. 22 dicembre 1957 n. 1293 prevede che “Nei Comuni con popolazione non superiore ai 30.000 abitanti le rivendite ordinarie di nuova istituzione sono assegnate in esperimento mediante concorso riservato agli invalidi di guerra, vedove di guerra e categorie equiparate per legge ed ai decorati al valor militare (…)” ha chiesto a codesta Avvocatura Distrettuale se possa essere con- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 255 sentita la partecipazione al predetto concorso riservato anche agli orfani di deceduti sul lavoro (nel settore privato). Al fine di fornire risposta al predetto quesito codesta Avvocatura Distrettuale ha predisposto una bozza di parere nella quale, da un lato, è stato posto in evidenza che l’art. 1 L. 15 luglio 1950 n. 539 equipara i mutilati ed invalidi di guerra nonché i congiunti dei caduti in guerra ai congiunti dei caduti per servizio ai mutilati ed agli invalidi per servizio ed ai congiunti dei caduti per servizio, e che il successivo art. 3 chiarisce che “Agli effetti della presente legge si considerano mutilati od invalidi per servizio coloro che alle dirette dipendenze dello Stato e degli enti locali territoriali e istituzionali, hanno contratto, in servizio e per causa di servizio militare o civile, debitamente riconosciuta, mutilazioni od infermità ascrivibili ad una delle categorie di cui alla tabella A, annessa alla legge 19 febbraio 1942, n. 137”, si conclude che, operando l’equiparazione solo per i mutilati ed invalidi, e loro congiunti, alle dipendenze dello Stato e degli enti locali territoriali e istituzionali, non sussiste alcuna equiparazione in favore degli invalidi, e loro congiunti, vittime di infortuni in occasione di lavoro privato. Tale soluzione, tuttavia, fa insorgere in codesta Avvocatura Distrettuale dubbi di costituzionalità della normativa in questione, ritenendosi che “la categoria degli orfani di dipendenti privati deceduti per causa di lavoro - che sulla base di un’interpretazione meramente letterale della disposizione risulterebbe esclusa dalla riserva - appare meritevole di particolare considerazione al pari della categoria degli orfani di dipendenti pubblici caduti per servizio (a meno di non voler ipotizzare una maggiore meritevolezza di quest’ultima categoria proprio in ragione del fatto che, come esplicitato nella bozza di parere, il dante causa di costoro ha perso la vita servendo la pubblica amministrazione)”. Si chiede, pertanto, il parere della Scrivente in proposito. In primo luogo, considerato che il concorso al quale fa riferimento l’A.A.M.S. è concorso riservato agli invalidi di guerra, vedove di guerra e categorie equiparate per legge, appare opportuno individuare le categorie “equiparate per legge”. A tale proposito, come correttamente evidenziato da codesta Avvocatura Distrettuale, si sottolinea che l’art. 1, comma 1°, della L. 15 luglio 1950 n. 539 testualmente recita: “I benefici spettanti, secondo le vigenti disposizioni, ai mutilati ed agli invalidi di guerra, nonché ai congiunti dei caduti in guerra, si applicano anche ai mutilati ed invalidi per servizio ed ai congiunti dei caduti per servizio”. Il successivo art. 3 della medesima legge, poi, chiarisce ulteriormente che “si considerano mutilati od invalidi per servizio coloro che alle dirette dipendenze dello Stato e degli enti locali territoriali e istituzionali, hanno contratto, in servizio e per causa di servizio militare o civile, debitamente riconosciuta, mutilazioni od infermità ascrivibili ad una delle categorie di cui alla tabella A, annessa alla legge 19 febbraio 1942, n. 137”. Pertanto appare indubbio che al concorso in esame possano partecipare, 256 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 oltre ai mutilati e agli invalidi di guerra, anche i mutilati ed invalidi per servizio svolto alle dirette dipendenze dello Stato e degli enti locali territoriali e istituzionali, nonché i loro congiunti. Occorre ora valutare se, in aggiunta a tali categorie, possano partecipare anche i mutilati e gli invalidi per attività di lavoro svolta nel settore privato ed i loro congiunti. Al fine della soluzione del quesito proposto, la Scrivente ritiene che l’indagine debba appuntarsi sull’eventuale sussistenza, nel nostro ordinamento, di un principio di equiparazione dei benefici concessi in favore degli invalidi di guerra o per servizio (o loro orfani) ai benefici concessi in favore degli invalidi per lavoro nel settore privato assoggettati al regime Inail (o loro orfani). Tale equiparazione è stata recentemente esclusa dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 34 del 2011), la quale è stata chiamata a pronunciarsi in ordine alla questione di pretesa incompatibilità con l’art. 3 della Costituzione del diverso trattamento apprestato ai soggetti incollocabili al lavoro assoggettati al regime Inail rispetto a quelli assoggettati al regime delle prestazioni di guerra ed equiparati: i primi, infatti, una volta raggiunto il 65° anno di età non percepiscono alcun ulteriore emolumento, laddove i secondi percepiscono, al raggiungimento della medesima età, una provvidenza sostitutiva di importo pari all’assegno di incollocabilità. In tale occasione, la Corte ha ritenuto che il trattamento giuridico degli invalidi per lavoro nel settore privato (assoggettati al regime Inail) non può essere, in via di mera interpretazione, equiparato al trattamento giuridico previsto in favore degli invalidi di guerra o per servizio, in ragione sia della diversità del complesso di garanzie sottese al regime Inail rispetto a quelle previste per i dipendenti pubblici, che impediscono una comparazione parcellizzata dei rispettivi elementi, sia della sussistenza, per gli invalidi di guerra e per servizio, di una componente latu sensu “risarcitoria”, che non può essere riscontrata nel settore privato. La Scrivente ritiene che da tale pronuncia, seppure riguardante una fattispecie diversa, possano trarsi argomenti anche con riguardo alla soluzione del quesito che ci occupa, nella quale, in via eccezionale, viene attribuito un beneficio esclusivamente agli invalidi di guerra, vedove di guerra e categorie equiparate per legge (tra le quali figurano gli orfani dei dipendenti pubblici caduti per servizio). Tale beneficio risponde alla medesima ratio “risarcitoria” tipica delle provvidenze previste a favore degli invalidi di guerra o per servizio e pertanto, anche in ragione della sua eccezionalità, non può essere esteso a categorie diverse da quelle espressamente contemplate dalla legge. Il presente parere è stato sottoposto, nella seduta del 10 maggio 2012, al Comitato Consultivo, che lo ha approvato all’unanimità. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 257 Sull’esperibilità di una gara unica nazionale con procedura secretata per la gestione del servizio di intercettazioni telefoniche, telematiche ed ambientali. (Parere prot. 223174 del 5 giugno 2012, AL 8121/12, avv. SALVATORE MESSINEO) I - Con la nota che si riscontra Codesto Dipartimento - dopo avere descritto le diverse e non omogenee procedure utilizzate dalle varie Procure della Repubblica per l’acquisizione di servizi di intercettazioni telefoniche, telematiche ed ambientali - evidenzia che esigenze di razionalizzazione del sistema e di risparmio della spesa consigliano di “procedere all’acquisizione di tali servizi in forma centralizzata (ovviamente al fine di consentirne l’utilizzo diretto a ciascuna Procura della Repubblica, senza alcuna possibilità di interferenza da parte” di estranei). Nella stessa nota Codesto Dipartimento riferisce, altresì, che la Commissione Europea, con decisione n. 3019 del giorno 8 luglio 2007, ha già avviato contro l’Italia una procedura di infrazione contestando la violazione delle direttive 92/50 CEE, relativa agli “appalti pubblici di servizi”, e 93/36 CEE, relativa agli “appalti pubblici di forniture”, lamentando l’assenza di un procedimento ad evidenza pubblica europea. Tale procedura - inizialmente sospesa in considerazione della circostanza che con l’art. 2 comma 82 della legge n. 244 del 2007 era stata prevista la realizzazione, entro il 31 gennaio 2008, di un sistema centralizzato di detti servizi - è stata ripresa ed è in atto pendente. Con un primo quesito Codesto Ministero chiede di conoscere se sia “possibile espletare una gara unica nazionale con procedura secretata per l’acquisizione centralizzata del servizio di intercettazioni telefoniche, telematiche ed ambientali”. Nella nota che si riscontra viene invocata al riguardo la disciplina contenuta nell’art. 17 del codice dei contratti pubblici e si richiama, a sostegno, la recente sentenza 14 aprile 2011 n. 2330 con cui la Sezione IV del Consiglio di Stato, in controversia concernente l’affidamento di tali servizi da parte di una Procura della Repubblica, ha ritenuto che “L'utilizzo da parte dell'Amministrazione procedente del modulo procedimentale costituito dalla procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando di gara (trattativa privata), ai sensi dell'art. 57, d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163, e con il criterio di aggiudicazione prescelto dell'offerta economicamente più vantaggiosa ex artt. 57 comma 6 e 83 dello stesso decreto legislativo, è giustificabile in relazione alle peculiarità del servizio da svolgersi, caratterizzato da comprensibili aspetti di delicatezza e segretezza, per cui detto modus procedendi, quanto meno per ciò che attiene il sistema di scelta del futuro contraente, appare congruo oltreché conforme al dettato di cui all'art. 17, cit. d.lgs. n. 163 del 2006, per quanto riguarda i servizi svolti in favore dell'Amministrazione della giustizia (nella specie, servizio intercettazioni telefoniche), richiedenti speciali misure 258 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 di sicurezza e segretezza e particolari modalità di affidamento in deroga alle disposizioni relative alla pubblicità delle gare”. Con note dell’11 maggio 2012 la Scrivente ha richiesto ulteriori notizie e dati di ordine istruttorio al Dipartimento delle politiche europee ed all’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture: cui Essi hanno dato riscontro fornendo le indicazioni infra precisate. Alla luce degli elementi di giudizio così acquisiti si formulano le seguenti considerazioni. 1) Occorre preliminarmente rilevare che il testo dell’art. 17 del d.lgs. 163/2006 non ha (più) il contenuto riferito da Codesto Dipartimento a pag. 5 della nota del 27 febbraio 2012; esso, invero, è stato modificato dall’art. 33 del d.lgs. 15 novembre 2011 n. 208 (pubblicato in GURI 292 del 16 dicembre 2011 ed entrato in vigore il 15 gennaio 2012, come specificato nel successivo art. 36 della stessa fonte normativa); anche la invocata decisione del Consiglio di Stato n. 2330/2011 si fonda sul testo previgente dell’art. 17 cit.. È necessario, pertanto, verificare se ed in qual misura il nuovo testo dell’art. 17 consenta di mantenere ferme le conclusioni raggiunte sulla base del testo previgente. L’esame comparato tra i due testi normativi consente di formulare le seguenti notazioni: • nel testo in vigore fino al 15 gennaio 2012 - quale risultante dalla modifica introdotta con il d.lgs. 113 del 31 luglio 2007 che ha inserito l’“amministrazione della giustizia” tra gli organismi destinatari della previsione in questione - era previsto che “1. Le opere, i servizi e le forniture destinati ad attività della Banca d'Italia, delle forze armate o dei corpi di polizia per la difesa della Nazione o per i compiti di istituto nonchè dell'amministrazione della giustizia, o ad attività degli enti aggiudicatori di cui alla parte III, nei casi in cui sono richieste misure speciali di sicurezza o di segretezza in conformità a disposizioni legislative, regolamentari e amministrative vigenti o quando lo esiga la protezione degli interessi essenziali della sicurezza dello Stato, possono essere eseguiti in deroga alle disposizioni relative alla pubblicità delle procedure di affidamento dei contratti pubblici, nel rispetto delle previsioni del presente articolo”. 2. Le amministrazioni e gli enti usuari dichiarano con provvedimento motivato, le opere, servizi e forniture da considerarsi "segreti" ai sensi del regio decreto 11 luglio 1941, n. 1161 e della legge 24 ottobre 1977, n. 801 o di altre norme vigenti, oppure "eseguibili con speciali misure di sicurezza"; • nel nuovo testo dell’art. 17 del codice, fissato dal cit. art. 33 d.lgs. 208/2011, si prevede che “1. Le disposizioni del presente codice relative alle procedure di affidamento possono essere derogate: a) per i contratti al cui oggetto, atti o modalità di esecuzione è attribuita una classifica di segretezza; b) per i contratti la cui esecuzione deve essere accompagnata da speciali misure di sicurezza, in conformità a disposizioni legislative, regolamentari o am- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 259 ministrative. 2. Ai fini dell'esclusione di cui al comma 1, lettera a), le amministrazioni e gli enti usuari attribuiscono, con provvedimento motivato, le classifiche di segretezza ai sensi dell'articolo 42 della legge 3 agosto 2007, n. 124, ovvero di altre norme vigenti. Ai fini dell'esclusione di cui al comma 1, lettera b), le amministrazioni e gli enti usuari dichiarano, con provvedimento motivato, i lavori, i servizi e le forniture eseguibili con speciali misure di sicurezza individuate nel predetto provvedimento”. Come è agevole constatare, nel primo testo, lo specifico riferimento all’amministrazione della giustizia e la formula normativa “nei casi in cui sono richieste misure speciali di sicurezza o di segretezza in conformità a disposizioni legislative, regolamentari e amministrative vigenti” offrivano argomenti puntuali per ritenere sottratte alle comuni “disposizioni relative alla pubblicità delle procedure di affidamento dei contratti pubblici” contenute nel codice le procedure di affidamento dei servizi di intercettazione di cui necessitano le Procure. Nel testo normativo attualmente vigente è stato eliminato il limite correlato al riferimento soggettivo a ‘Banca d'Italia, forze armate, corpi di polizia per la difesa della Nazione o per i compiti di istituto, amministrazione della giustizia, ecc.’: non sussistendo una valida ragione per proteggere in modo difforme il medesimo interesse pubblico tutelato con la previsione in questione sol perché esso riguardava ‘opere, servizi e forniture destinati ad attività’ affidate ad altri soggetti diversi da quelli sopra elencati. L’ambito di operatività e di applicazione del regime derogatorio è ora fissato facendo leva solo su aspetti che attengono direttamente all’oggetto e/o alle modalità o ai contenuti di esecuzione del contratto, qualunque sia il soggetto o l’apparato interessato al contratto. Il nuovo testo normativo diversifica - anche sul piano degli oneri di motivazione dei relativi provvedimenti - le tipologie di ragioni giustificative della scelta dell’amministrazione di derogare alle normali procedure di affidamento: a seconda se esse siano riconducibili ad esigenze correlate alla ‘segretezza’ o alla ‘sicurezza’; • per quanto attiene alle esigenze di ‘segretezza’ - considerate nella lett. a) dell’art. 17 - esse si connotano per il fatto che deve trattarsi di “contratti al cui oggetto, atti o modalità di esecuzione è attribuita una classifica di segretezza”: alla stregua della ‘definizione’ contenuta nell’art. 1 dello stesso d.lgs. 208/2011 per “d) informazioni classificate”, si intende “qualsiasi informazione o materiale, a prescindere da forma, natura o modalità di trasmissione, alla quale è stato attribuito un determinato livello di classificazione di sicurezza o un livello di protezione e che, nell'interesse della sicurezza nazionale e ai sensi della legge 3 agosto 2007, n. 124, concernente il sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto, del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri in data 8 aprile 2008 e del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 12 giugno 2009, n. 7, ri- 260 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 chieda protezione contro appropriazione indebita, distruzione, rimozione, divulgazione, perdita o accesso da parte di un soggetto non autorizzato o contro qualsiasi altro tipo di pregiudizio”. Consegue che non basta che nel contratto vengano in rilievo attività e notizie in relazione alle quali fonti normative o amministrative impongano ai soggetti che le svolgano o che ne vengano a conoscenza obblighi di segreto; l’amministrazione per potere derogare alla procedure ordinarie deve dimostrare, specificandolo nel provvedimento con cui esterna la suddetta volontà, che effettivamente nel contratto vengano in rilievo “oggetto, atti o modalità di esecuzione” cui sia “attribuita una classifica di segretezza” nel senso appena indicato. • per quanto attiene alle esigenze di ‘sicurezza’ - considerate nella lett. b) dell’art. 17 - la formula normativa utilizzata appare meno restrittiva: vi si parla di “contratti la cui esecuzione deve essere accompagnata da speciali misure di sicurezza, in conformità a disposizioni legislative, regolamentari o amministrative”. In parte qua il dato normativo appare in linea di ‘continuità’ con il testo previgente: nel quale - come si è visto - al fine di derogare alle procedure ordinarie era sufficiente che le ‘misure speciali di sicurezza’ fossero ‘richieste…in conformità a disposizioni legislative, regolamentari e amministrative vigenti”. Consegue che l’amministrazione per potere derogare alla procedure ordinarie deve dimostrare, specificandolo nel provvedimento con cui esterna la suddetta volontà, che effettivamente, in base ed ‘in conformità a disposizioni legislative, regolamentari e amministrative vigenti’, l’esecuzione del contratto ‘deve essere accompagnata da speciali misure di sicurezza’. 3) All’esito di tale esame comparativo tra i due testi normativi ritiene la Scrivente che le pur significative modifiche recate dal nuovo testo non siano tali da giustificare una soluzione difforme da quella cui è pervenuto il Consiglio di Stato con la richiamata decisione n. 2330/2011: le cui statuizioni appaiono ancora attuali e riferibili anche al vigente art. 17. Sono, invero, rimaste sostanzialmente immutate le particolari ‘peculiarità del servizio’ di intercettazioni telefoniche, telematiche ed ambientali di cui necessitano gli apparati giudiziari e le Procure: servizio che è indubbiamente “caratterizzato da comprensibili aspetti di delicatezza e segretezza” e che continua a richiedere - per come accertato nella suddetta pronuncia del Consiglio di Stato - “speciali misure di sicurezza e segretezza e particolari modalità di affidamento”. Il servizio di intercettazioni, invero, sia per le modalità di esecuzione, sia per l’esecuzione stessa richiede particolari cautele che trovano fondamento in specifiche norme: le intercettazioni, infatti, hanno, per loro natura, oggetto ‘incerto’ e non definito né definibile preventivamente; esse - anche quando sono finalizzate nei confronti di singoli indagati - si connotano per coinvolgere PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 261 un numero indefinito ed incerto di persone: e siffatta evenienza non è nè prevenibile né rara, bensì piuttosto elevata (si parla di percentuali che si aggirano intorno al 50% dei casi con riguardo alle intercettazioni telefoniche, per raggiungere quasi la soglia della generalità dei casi con riguardo alle intercettazioni ambientali). Ciò comporta la necessità che il servizio di intercettazioni sia presidiato da penetranti cautele: imposte non solo dalla circostanza che vengono trattati dati sensibili, coperti da diverse tipologie di segreto (d’indagine, professionale o di altra natura) stabilito dalle relative leggi, ma anche dal fatto che possono venire trattati dati relativi ad atti classificati o addirittura coperti da segreto di Stato (come espressamente previsto dalla l. 124/2007). Alla luce di tali considerazioni, pertanto, appare possibile sostenere che con riguardo al servizio di intercettazioni telefoniche, telematiche e ambientali di cui necessitano gli uffici giudiziari e le Procure sia applicabile la disciplina derogatoria prevista nel nuovo testo dell’art. 17: venendo in rilievo aspetti che consentono di sussumere la fattispecie in ambedue le tipologie ivi considerate nelle lettere a) e b). 4) Codesto Ministero si mostra consapevole del fatto che “la giurisprudenza comunitaria formatasi in argomento ritiene che le deroghe al Trattato costituiscono ipotesi eccezionali, delimitate ed insuscettibili di interpretazione estensiva e che, in tali circostanze, spetta allo Stato membro che intende avvalersi di tale facoltà fornire la prova che le esenzioni non superano i limiti previsti (cfr. Corte giust. CE, 16 settembre 1999, in causa C-414/97, Commissione/ Spagna; 15 maggio 1986, in causa C-222/84, Johnston; 26 ottobre 1999, in causa C-273/97, Sirdar/Army Board)”. Nella nota che si riscontra Codesto Ministero ritiene invocabili per giustificare la deroga alle procedure ordinarie le seguenti ragioni: a) “secondo le vigenti disposizioni del codice di procedura penale, tutte le attività di intercettazione sono coperte, sino alla discovery, dal segreto investigativo, al pari di ogni altra attività di acquisizione delle fonti di prova”; b) “la natura particolarmente invasiva di tale mezzo investigativo - destinato ad incidere sul diritto alla segretezza delle conversazioni private (munito di copertura costituzionale espressa) - ha imposto ulteriori e specifiche modalità di custodia dei dati inerenti le intercettazioni”; c) “le esigenze già evidenziate, di custodia e gestione di tali dati, impongono particolari cautele anche per garantire la segretezza della singola indagine nonché l’assoluta impermeabilità della custodia dell’intero sistema gestionale di cui è responsabile il Procuratore della Repubblica”; d) “le attività di intercettazioni possono, assai spesso, interferire con questioni inerenti la sicurezza nazionale, tanto che il legislatore italiano si è determinato a prevedere una specifica disciplina allorché nell’ambito di un’indagine penale vengano intercettate comunicazioni di appartenenti ai servizi di sicu- 262 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 rezza dello Stato (si veda al riguardo quanto dispone l’art. 270 bis c. p. p.)”. 5) Gli aspetti della problematica correlati alla disciplina vigente nell’Unione Europea risultano esaminati ulteriormente da Codesto Ministero nella successiva lettera n. 37105 del 2 maggio u. s.. Ivi è stato rappresentato che, nel corso delle audizioni del 1° marzo, del 22 marzo e del 29 marzo 2012, “i membri della Commissione non hanno sollevato obiezioni in ordine alle ragioni di riservatezza e sicurezza che sorreggono la scelta dell’amministrazione di procedere all’indizione di una gara unica secretata, concentrando la loro attenzione soltanto sulla necessità che, in ogni caso, l’amministrazione adotti trasparenti modalità di pubblicazione del bando di gara e segnalando tra le possibili opzioni la possibilità di utilizzare le procedure previste dalla direttiva 2009/81 recepita con d.lgs. 15 novembre 2011 n. 208, tenuto conto di quanto disposto dagli artt. 2 lettera d), 5, 13, e 17 dello stesso decreto attuativo”; nella stessa lettera Codesto Dipartimento segnala che “anche negli altri paesi dell’Unione europea l’acquisizione dei servizi in questione non risulta disposta con procedure di evidenza pubblica”. 6) L’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori servizi e forniture, con la sua nota del 15 maggio 2012 n. 46318 - con cui ha dato riscontro alla richiesta istruttoria volta ad avere copia di atti in cui Essa ha esaminato l’espressione normativa “misure speciali di sicurezza”- ha trasmesso copia del ‘parere sulla normativa’ reso nell’adunanza del 2-3 aprile 2008 (vale a dire di parere nel quale si è tenuto conto della disciplina previgente alla direttiva 2009/81/CE del 13 luglio 2009 e al d.lgs. 208/2011). Ivi si ricorda che la disciplina contenuta nel testo originario dell’art. 17 del d.lgs. 163/2006 si conformava alle direttive CE 17 e 18 del 2004: secondo l’AVCP “Con riferimento alla nozione di sicurezza nazionale, la giurisprudenza comunitaria ritiene che gli Stati possano invocarla soltanto a fronte di minacce reali e sufficientemente gravi (Corte di Giustizia, 13 marzo 1984, c. 16/1983)”. 7) Anche il Dipartimento per le politiche europee con la nota del 22 maggio 2012 n. 4058 ha fornito specifiche indicazioni sui profili attinenti la disciplina comunitaria. Il Dipartimento, con riguardo allo stato attuale della procedura di infrazione, ha precisato che “i servizi della Commissione …, pur non escludendo a priori la possibilità di una segretazione totale degli appalti pubblici relativi all’acquisizione di questi beni e servizi, con esclusione di qualsivoglia forma di messa in concorrenza, hanno sottolineato, tuttavia, come una soluzione del genere sarebbe non sempre e comunque difficilmente giustificabile anche alla luce di quanto precisato a suo tempo dalle autorità italiane in risposta alla procedura di infrazione n. 2006/4404”. (A tale riguardo nella stessa lettera si riferisce che “le Autorità italiane avevano precisato alla Commissione europea che - salvo un nucleo ristretto di acquisizioni strettamente collegate alla penetrazione e alla impenetrabilità del nuovo sistema tecnologico che doveva PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 263 essere assoggettato al regime di segretazione ai sensi dell‘articolo 14 della direttiva 2004/18/CE ... - i beni e i servizi non direttamente connessi alla sicurezza del sistema sarebbero stati acquisiti attraverso procedure di gara conformi alle regole della direttiva n. 2004/18/CE”). Ad avviso del Dipartimento per le politiche europee - che fa propri suggerimenti manifestati dai servizi della Commissione -, la “strada maggiormente percorribile .., potrebbe essere .., quella di utilizzare una procedura negoziata con pubblicazione di un bando di gara”: secondo il Dipartimento “il ricorso a questa procedura ... nella direttiva 2004/18/CE” è possibile “solo per le fattispecie elencate nell’art. 30” e che nella direttiva n. 2009/81/CE la sua adozione costituisce una facoltà per gli Stati. Soggiunge ancora il Dipartimento che “con adeguata motivazione” l’appalto dei servizi di intercettazione ‘potrebbe rientrare.., nell‘ambito di applicazione di quest’ultima direttiva” - e dei suoi artt. 2 e 3 - “ove si dimostri .., che negli appalti in questione gli aspetti relativi alla sicurezza non siano scindibili da quelli che non rivestono le stesse esigenze” e sempre che si dimostri “che nella fattispecie esistono informazioni ‘classificate o protette’, così come determinate dalla legislazione statale e che la natura dell‘appalto non consenta di stabilire a priori su quali tipi di informazione si andrà ad operare”. 8) Le considerazioni svolte dal Dipartimento mettono in luce le reali difficoltà che la lettura del quadro normativo pone. A tal riguardo va considerato che il richiamato art. 25 della direttiva 2009/81/CE, in realtà, ha demandato alla legislazione interna dei singoli Stati la definitiva disciplina concernente le procedure utilizzabili: l’art. 25, invero, prevede al 1° comma che “Per aggiudicare gli appalti, le amministrazioni aggiudicatrici/ gli enti aggiudicatori applicano le procedure nazionali adattate ai fini della presente direttiva”. E nella specie il nostro legislatore è intervenuto con il cit. d.lgs. 208/2011. Alla stregua di quanto previsto nel comma 1 dell’art. 33 di tale d.lgs.: a) la regola generale è nel senso che il codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs. 163/2006 si applica anche “ai contratti pubblici aggiudicati nei settori della difesa e della sicurezza”; b) in via di eccezione, l’intera disciplina contenuta nel codice non si applica: • ai contratti - indicati nell’art. 2 del d.lgs. 208/2011 - “aventi per oggetto: a) forniture di materiale militare e loro parti, di componenti o di sottoassiemi; b) forniture di materiale sensibile e loro parti, di componenti o di sottoassiemi; c) lavori, forniture e servizi direttamente correlati al materiale di cui alla lettera a), per ognuno e per tutti gli elementi del suo ciclo di vita; d) lavori, forniture e servizi direttamente correlati al materiale di cui alla lettera b), per ognuno e per tutti gli elementi del suo ciclo di vita; e) lavori e servizi per fini specificatamente militari; f) lavori e servizi sensibili”; 264 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 • ai c.d. contratti ‘esclusi’ elencati all’art. 6 dello stesso decreto legislativo 208/2011 (vale a dire: con riguardo “ai contratti disciplinati da: a) norme procedurali specifiche in base a un accordo o intesa internazionale conclusi tra l'Italia e uno o più Stati membri, tra l'Italia e uno o più Paesi terzi o tra l'Italia e uno o più Stati membri e uno o più Paesi terzi; b) norme procedurali specifiche in base a un accordo o intesa internazionale conclusi in relazione alla presenza di truppe di stanza e concernenti imprese stabilite nello Stato italiano o in un Paese terzo; c) norme procedurali specifiche di un'organizzazione internazionale che si approvvigiona per le proprie finalità; non si applica altresì a contratti che devono essere aggiudicati da una stazione appaltante appartenente allo Stato italiano in conformità a tali norme” oltre che “a) ai contratti nel settore della difesa, relativi alla produzione o al commercio di armi, munizioni e materiale bellico di cui all'elenco adottato dal Consiglio della Comunità europea con la decisione 255/58, che siano destinati a fini specificatamente militari e per i quali lo Stato ritiene di adottare misure necessarie alla tutela degli interessi essenziali della propria sicurezza; b) ai contratti per i quali l'applicazione delle disposizioni del presente decreto obbligherebbe lo Stato italiano a fornire informazioni la cui divulgazione è considerata contraria agli interessi essenziali della sua sicurezza, previa adozione del provvedimento di segretazione; c) ai contratti per attività d'intelligence; d) ai contratti aggiudicati nel quadro di un programma di cooperazione basato su ricerca e sviluppo, condotto congiuntamente dall'Italia e almeno uno Stato membro per lo sviluppo di un nuovo prodotto e, ove possibile, nelle fasi successive di tutto o parte del ciclo di vita di tale prodotto. Dopo la conclusione di un siffatto programma di cooperazione unicamente tra l'Italia e uno o altri Stati membri, gli stessi comunicano alla Commissione europea l'incidenza della quota di ricerca e sviluppo in relazione al costo globale del programma, l'accordo di ripartizione dei costi nonché, se del caso, la quota ipotizzata di acquisti per ciascuno Stato membro; e) ai contratti aggiudicati in un paese terzo, anche per commesse civili, quando le forze operano al di fuori del territorio dell'Unione, se le esigenze operative richiedono che siano conclusi con operatori economici localizzati nell'area delle operazioni; a tal fine sono considerate commesse civili i contratti diversi da quelli di cui all'articolo 2; f) ai contratti di servizi aventi per oggetto l'acquisto o la locazione, quali che siano le relative modalità finanziarie, di terreni, fabbricati esistenti o altri beni immobili o riguardanti diritti su tali beni; g) ai contratti aggiudicati dal governo italiano a un altro governo e concernenti: 1) la fornitura di materiale militare o di materiale sensibile; 2) lavori e servizi direttamente collegati a tale materiale; 3) lavori e servizi per fini specificatamente militari, o lavori e servizi sensibili; h) ai servizi di arbitrato e di conciliazione; i) ai servizi finanziari, ad eccezione dei servizi assicurativi; l) ai contratti d'impiego; m) ai servizi di ricerca e sviluppo diversi da quelli i cui benefici appartengono esclusivamente all'ammi- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 265 nistrazione aggiudicatrice o ente aggiudicatore perché li usi nell'esercizio della sua attività, a condizione che la prestazione del servizio sia interamente retribuita da tale amministrazione aggiudicatrice o ente aggiudicatore”; c) infine, come si è sopra detto, il 3° comma del cit. art. 33, modificando l’art. 17 del codice dei contratti (d.lgs. 163/2006), prevede una facoltà di deroga, espressamente limitata alle sole norme dello stesso codice “relative alle procedure di affidamento”: tale facoltà di deroga può essere esercitata unicamente “a) per i contratti al cui oggetto, atti o modalità di esecuzione è attribuita una classifica di segretezza; b) per i contratti la cui esecuzione deve essere accompagnata da speciali misure di sicurezza, in conformità a disposizioni legislative, regolamentari o amministrative”. Come si vede, anche alla stregua della previsione contenuta nell’art. 25 della direttiva 2009/81/CE, la disciplina base cui occorre fare capo è quella dettata dal nuovo art. 17 del codice dei contratti (d.lgs. 163/2006), nel testo risultante dalla modifica recata dall’art. 33 d.lgs. 208/2011. Si è già detto supra - al punto 3 della presente nota - che l’indicata norma può trovare applicazione nella fattispecie: sotto ambedue le ipotesi considerate alle lettere a) e b). Si ripete: il servizio di intercettazioni telefoniche, telematiche ed ambientali di cui necessitano gli apparati giudiziari e le Procure si connota di particolari ‘peculiarità’ e di pregnanti “aspetti di delicatezza e segretezza”: e richiede - per usare le parole del Consiglio di Stato - “speciali misure di sicurezza e segretezza e particolari modalità di affidamento”. Si è visto supra - nel ricordato punto 3 della presente nota - che effettivamente negli appalti in questione gli aspetti relativi alla sicurezza non appaiono scindibili dagli altri e non è possibile stabilire a priori ed in via preventiva quali tipi di informazione si acquisiranno nel corso delle intercettazioni (avendo esse, per loro natura, oggetto e persona ‘incerti’ e non definiti né definibili preventivamente: e ben potendo acquisirsi dati sensibili, anche concernenti atti classificati o atti, comunque, coperti da segreti - d’indagine, professionale o di altra natura - espressamente tutelati dalla legge). Una volta affermata l’applicabilità della disciplina derogatoria fissata dal nuovo articolo 17, è necessario, ovviamente, assolvere scrupolosamente gli oneri di motivazione e di giustificazione ivi previsti. 9) È opportuno evidenziare, tuttavia, che la suddetta norma non impone all’amministrazione alcun obbligo di discostarsi dalle ordinarie regole del codice “relative alle procedure di affidamento”: la norma conferisce, invece, all’amministrazione un potere funzionale, che va esercitato apprezzando e valutando con scrupolo se ed in che limiti sia opportuno nell’interesse pubblico derogare alle procedure ordinarie. La Scrivente ritiene che nell’ambito di tali doverosi apprezzamenti debba darsi rilevante peso agli impegni in precedenza assunti con la Commissione e 266 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 di cui ha riferito il Dipartimento delle politiche europee. Nella scelta delle concrete deroghe alle procedure di affidamento dovrebbe venirsi incontro nel massimo grado possibile ai desiderata dei servizi della Commissione: e, quindi, - in conformità al suggerimento del suddetto Dipartimento - la scelta dovrebbe farsi ricadere, quanto meno, su “una procedura negoziata con pubblicazione di un bando di gara” (quale ora disciplinata dall’art. 17, commi 2 e ss. d.lgs. 208/2011). In ogni caso si ribadisce che le specifiche deroghe debbono essere compiutamente giustificate e motivate: seguendo al riguardo le indicazioni e i suggerimenti formulati dal Dipartimento per le politiche europee e, quindi, esplicitando in modo esaustivo le ragioni che dimostrino che “negli appalti in questione gli aspetti relativi alla sicurezza non siano scindibili da quelli che non rivestono le stesse esigenze”. Va evidenziato altresì che l’art. 17 del codice dei contratti (d.lgs. 163/2006) prevede che anche la formale ‘dichiarazione’ relativa al fatto che “i lavori, i servizi e le forniture” sono “eseguibili con speciali misure di sicurezza” debba essere espressamente motivata e che anche la stessa ‘individua(zione)’ di tali ‘speciali misure di sicurezza’ debba essere effettuata “nel predetto provvedimento”; come pure - e vi si fa cenno per l’ipotesi in cui si voglia giustificare la deroga con richiamo a ragioni di segretezza sussumibili nella lettera a) dello stesso art. 17 del codice - è necessario che anche l’attribuzione delle ‘classifiche di segretezza’ avvenga “con provvedimento motivato”. Ovviamente vanno eseguiti in modo puntuale e rigoroso gli adempimenti e passaggi procedimentali ‘minimi’ ed indefettibili imposti dai commi 4 e 5 dello stesso art. 17 del codice: sicché, ove codesta amministrazione - disattendendo il ricordato ‘suggerimento’ del Dipartimento per le politiche europee - intenda procedere a ‘gara informale’, ad essa debbono essere “invitati almeno cinque operatori economici, se sussistono in tale numero soggetti qualificati in relazione all'oggetto del contratto e sempre che la negoziazione con più di un operatore economico sia compatibile con le esigenze di segretezza e sicurezza”. Va soggiunto, inoltre, che nel contratto - ai sensi del comma 3° del nuovo art. 17 del codice dei contratti d.lgs. 163/2006 - va espressamente inserita la previsione che gli “operatori economici” chiamati ad eseguirlo debbono essere “in possesso dei requisiti previsti dal presente codice e del nulla osta di sicurezza, ai sensi e nei limiti di cui all'articolo 42, comma 1-bis, della legge n. 124 del 2007”. II - Con un secondo quesito, Codesto Dipartimento chiede se la “gara possa essere affidata per lotti territorialmente distinti ed, eventualmente, per differenti tipologie di servizi”. È nozione di comune esperienza che le tecniche di acquisto centralizzato contribuiscono ad aumentare la concorrenza e ad ottimizzare gli acquisti: sicché, in via di principio ed in termini generali - salve ragioni particolari, peraltro PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 267 qui non esternate, che inducano a valutazioni di segno diverso -, è buona regola effettuare un’unica gara. Nella specie, inoltre, la legge 244/2007, all’art. 2, comma 82 - significativamente rubricato “Razionalizzazione del sistema delle intercettazioni telefoniche, ambientali e altre forme di comunicazione informatica o telematica” - sembra imporre siffatta soluzione: ivi si prevede, invero, che “Il Ministero della giustizia provvede entro il 31 gennaio 2008 ad avviare la realizzazione di un sistema unico nazionale, articolato su base distrettuale di corte d'appello, delle intercettazioni telefoniche, ambientali e altre forme di comunicazione informatica o telematica disposte o autorizzate dall'autorità giudiziaria, anche attraverso la razionalizzazione delle attività attualmente svolte dagli uffici dell'amministrazione della giustizia.”. Resta ancora da dire che la suddivisione in più lotti sotto la soglia comunitaria, ove non sia giustificata da esigenze obiettive, può essere apprezzata quale elusione della normativa comunitaria: con conseguente illegittimità degli atti. III - Quanto alla possibilità di procedere all’“acquisizione di tali servizi in modalità forfettaria in modo da evitare che la quantificazione del dovuto dipenda da operazioni di fatturazione per ogni singola operazione di intercettazione e per singolo procedimento” non si ravvisano particolari ostacoli normativi: tale soluzione appare praticabile in un contesto - quale quello riferito nella nota che si riscontra - contrassegnato dalla circostanza che codesta amministrazione possiede già “dati statistici sufficientemente consolidati in ordine al numero dei bersagli, al loro tasso di incremento annuale nonché alla durata media di ogni singola operazione tecnica per ciascuna delle opzioni investigative che il P.M. intenda utilizzare (intercettazioni telefoniche, ambientali, informatiche, telematiche, attività di videosorveglianza, etc.)”, sicché appaiono sussistere i presupposti fattuali per fissare un equilibrato dosaggio del corrispettivo erogabile in relazione alle varie tipologie di intercettazioni. Sulle questioni di massima trattate nella presente consultazione è stato sentito il Comitato consultivo: che nella seduta del 25 maggio 2012 si è espresso in conformità. Sul patrocinio dell’Avvocatura dello Stato nel caso di conflitto di interessi tra Regioni ed enti autorizzati ex art. 43 R.D. 1611/33. (Parere prot. 237302 del 13 giugno 2012, AL 14274/12, avv. MARINA RUSSO) Con la nota in riferimento, l’Avvocatura Distrettuale in indirizzo ha richiesto alla Scrivente di esprimersi in relazione alla possibilità - in presenza 268 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 di una situazione di conflitto di interessi fra Regioni ed enti autorizzati a valersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato ex art. 43 comma 1 del R.D. 1611/33 - di limitare l’esclusione degli enti dal patrocinio stesso, a mente del comma 3 dell’art. 43 cit., ai soli casi di conflitto di interessi con le Regioni a patrocinio necessario. L’Avvocatura Distrettuale ha inoltre prospettato, per l’eventualità in cui al quesito venisse data risposta negativa, la possibilità di ipotizzare un intervento normativo chiarificatore. Tutto ciò premesso, la Scrivente ritiene che al quesito debba darsi risposta negativa, per le ragioni che qui di seguito si illustreranno, mentre un intervento normativo non appare necessario. Come noto, la legge deve essere interpretata secondo “il senso fatto palese dal significato proprio delle parole, secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore” (art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale). Prendendo le mosse dal dato testuale, si osserva che l’art. 43 comma 3 non reca riferimento alcuno al tipo di patrocinio fruito dalle Regioni, sicché nulla autorizza, sul piano dell’interpretazione letterale, a ritenere una limitazione della portata della norma che si fondi sul regime di rappresentanza e difesa in giudizio della Regione. Tale limitazione non sembra giustificarsi neppure sul piano costituzionale atteso che, mentre gli enti sono, per loro natura, portatori di interessi settoriali, le Regioni esprimono invece interessi di portata più generale. Sembra, peraltro, che neppure gli elementi, pur interessanti, individuati a livello sistematico dall’Avvocatura in indirizzo forniscano assoluta certezza in relazione alla volontà del legislatore di limitare l’esclusione del patrocinio degli enti ai soli casi di conflitto con Regioni a patrocinio necessario. Si rammenta, in proposito, che l’Avvocatura Distrettuale di Cagliari ravvisa nella collocazione della norma di cui all’art. 43 comma 3 un indizio dell’intenzione del legislatore nel senso di cui si è detto sopra, affermando che: “… la collocazione sistematica della norma che ha introdotto il citato terzo comma dell’art. 43 (art. 11 l. 3 aprile 1979 n. 103) dopo la norma che ha regolato il patrocinio necessario delle regioni (art. 10 l. 103), potrebbe portare a ritenere che l’esclusione del patrocinio in favore degli enti autorizzati nel caso di conflitto con le regioni si riferisca appunto, al conflitto con le regioni godenti del patrocinio necessario, e non a quelle che solo sporadicamente si avvalgono dell’opera dell’Avvocatura (cfr art. 107 D.P.R. 24 luglio 1977 n. 616)”. L’argomento, tuttavia, non convince del tutto, atteso che - all’epoca dell’introduzione del patrocinio necessario delle Regioni a Statuto ordinario (art. 10 l. 103/79) - il patrocinio facoltativo delle stesse era già previsto (art. 107 del D.P.R. 616/77), né l’introduzione del primo ha determinato l’abrogazione del secondo (Cass. SS.UU. 1672/82). Ne discende che, ove il legislatore avesse effettivamente inteso differen- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 269 ziare la disciplina del patrocinio in situazioni di conflitto d’interesse fra enti a patrocinio autorizzato e Regioni, regolamentandolo in base al tipo di rappresentanza e difesa utilizzata da queste ultime, ben avrebbe potuto e dovuto farlo espressamente, atteso che ambedue le categorie di patrocinio (facoltativo e necessario) erano presenti nell’ordinamento nel momento in cui si è legiferato sul suddetto conflitto di interesse. Pertanto - in mancanza tanto di un riferimento testuale, quanto di un fondamento costituzionale nonché di un sicuro indice dell’intenzione del legislatore di circoscrivere l’esclusione del patrocinio degli enti ai soli casi di conflitto con le Regioni a patrocinio obbligatorio - si ritiene che la correttezza dell’interpretazione dell’art. 43 comma 3 prospettata da codesta Avvocatura rimanga quanto meno dubbia. In ragione di tale incertezza, è senz’altro preferibile, in situazioni di conflitto di interesse fra un ente a patrocinio autorizzato ed una qualsiasi Regione, indipendentemente dal tipo di patrocinio di cui fruisce la Regione stessa e ferma restando la necessità di valorizzare il ruolo di mediazione dell’Avvocatura per la composizione del conflitto, declinare comunque il patrocinio dell’ente, onde non esporlo alle conseguenze che deriverebbero dal difetto di rappresentanza processuale. Ciò, del resto, è quanto opportunamente praticato dall’Avvocatura distrettuale in indirizzo nel caso di specie che ha suscitato il quesito. Le considerazioni esposte sopra inducono altresì a ritenere non necessaria la sollecitazione di un intervento normativo nel senso prospettato dall’Avvocatura in indirizzo. Sulla questione è stato sentito, nella seduta dell’8 giugno 2012, il Comitato Consultivo, che si è espresso in conformità. In materia di adeguamento dei prezzi ai sensi dell’art. 115 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici). (Parere prot. 262536 del 2 luglio 2012, AL 37612/10, dott. DORIAN DE FEIS) Con la nota in riscontro, codesta Agenzia ha richiesto alla Scrivente un parere in ordine alle seguenti questioni: 1) Se, in relazione al disposto di cui all’art. 115 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (c.d. Codice dei contratti pubblici), ai sensi del quale “tutti i contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture debbono recare una clausola di revisione periodica del prezzo. La revisione viene operata sulla base di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili dell’acquisizione di beni e servizi sulla base dei dati di cui all’articolo 7, 270 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 comma 4, lettera c) e comma 5”, sia necessaria, ai fini della nascita dell’obbligo, in capo alla Pubblica Amministrazione appaltante, di svolgere l'attività istruttoria volta all'accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del compenso revisionale, apposita istanza, da parte della impresa affidataria del servizio, di adeguamento dei corrispettivi, ovvero se l’istruttoria di cui al citato art. 115 debba essere avviata d’ufficio dalla stazione appaltante. 2) Se sia legittimo prevedere nel contratto specifiche modalità di presentazione dell’istanza. 3) Se possa considerarsi legittima l’istanza di adeguamento dei corrispettivi presentata dall’impresa affidataria del servizio successivamente alla scadenza del contratto o, comunque, con riferimento a prestazioni già eseguite. 4) Se sia corretto il calcolo dell’adeguamento operato sulla base del c.d. indice F.O.I., in caso di mancata pubblicazione, da parte dell’I.STAT., dei dati relativi all’andamento dei prezzi di mercato dei principali beni e servizi acquistati dalle Pubbliche Amministrazioni. 5) Se l’adeguamento dei prezzi vada calcolato facendo decorrere il relativo intervallo inflazionistico dalla stipula del contratto ovvero dalla presentazione dell’offerta e, nel primo caso, se il termine finale di tale intervallo debba coincidere con il mese in cui è stata presentata l’istanza o con quello in cui è avvenuta la stipula del contratto. Attesa la rilevanza generale delle questioni prospettate, questa Avvocatura ha provveduto ad acquisire la posizione dell’Ufficio Legislativo del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e dell’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e Forniture. 1) Con riferimento al primo quesito, si osserva quanto segue. Come noto, in materia di appalti pubblici di servizi e forniture, l’ordinamento prevede che i contratti ad esecuzione periodica e continuativa debbano contenere obbligatoriamente una clausola di revisione periodica del prezzo. È, altresì, stabilito che la revisione sia il risultato di una istruttoria condotta dai dirigenti responsabili sulla base dei dati raccolti e resi pubblici, semestralmente, dall'I.STAT. ed, annualmente, dall'Osservatorio dei contratti pubblici (art. 115 del decreto legislativo cit., che, sul punto, ha recepito il contenuto dell’art. 6, quarto comma, della legge 24 dicembre 1993, n. 537). Come ricordato da codesta Agenzia, la natura imperativa della norma determina la nullità delle clausole contrattuali difformi e l’inserimento automatico della clausola revisionale nei contratti ad esecuzione continuativa e periodica (artt. 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile; cfr., sul punto, Consiglio di Stato, Sez. V, 2 novembre 2009, n. 6709; Consiglio Stato, Sez. V, 20 agosto 2008, n. 3994; T.A.R. Lazio – Roma, Sez. I, 2 aprile 2009, n. 3571). La disposizione in commento ha inteso introdurre il principio della automatica revisione dei prezzi nei contratti pubblici ad esecuzione continuata o periodica, anche a prescindere da una espressa previsione di tale riconosci- PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 271 mento nello specifico regolamento contrattuale, al fine di tutelare l’interesse pubblico a che le prestazioni di beni o servizi da parte degli appaltatori non subisca, col tempo, una diminuzione qualitativa a causa degli aumenti dei prezzi dei fattori della produzione, incidenti sulla percentuale di utile considerata, con conseguente incapacità dell’impresa appaltatrice di far fronte compiutamente alle stesse prestazioni, e per assicurare un costante equilibrio tra le prestazioni dedotte in contratto, in modo da mantenere inalterato il c.d. sinallagma contrattuale, che potrebbe essere compromesso dalla durata del contratto e dalla modifica dell'andamento dei prezzi che nel frattempo dovesse verificarsi. La previsione di un meccanismo di revisione del prezzo di un appalto di durata su base periodica dimostra, quindi, che la legge ha inteso munire i contratti di forniture e servizi di un meccanismo che, a cadenze determinate, comporti la definizione di un “nuovo” corrispettivo per le prestazioni oggetto del contratto riferito alla dinamica dei prezzi registrata in un dato arco temporale di riferimento, con beneficio di entrambi i contraenti, poiché l’appaltatore vede ridotta, anche se non eliminata, l’alea propria dei contratti di durata, e la stazione appaltante vede diminuito il pericolo di un peggioramento di una prestazione divenuta onerosa. Premesso quanto sopra, è di indubbia rilevanza stabilire se sia necessaria, al fine di ottenere la revisione del prezzo del contratto, un’apposita istanza dell’impresa interessata, ovvero se la stazione appaltante debba procedere d’ufficio, qualora ravvisi l’esistenza dei presupposti onde pervenire all’adeguamento del prezzo. Infatti, se si afferma che l’obbligo di provvedere alla revisione dei prezzi da parte dell'Amministrazione appaltante sorga solo in seguito ad una specifica istanza di parte volta al riconoscimento del compenso revisionale, mancando la dimostrazione di tale presupposto, l’impresa affidataria del servizio non potrà in alcun caso agire in giudizio al fine di ottenere l’adeguamento del prezzo. Sul punto, l’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e Forniture ha affermato, testualmente, quanto segue: “trattandosi di diritto che ha titolo direttamente dalla legge, il diritto alla revisione dei prezzi sussiste in capo all’appaltatore prima, e indipendentemente, dalla istanza rivolta all’amministrazione, istanza che ne costituisce semplicemente la modalità di esercizio. Alla luce di tale considerazione, si deve ritenere che l’amministrazione possa procedere all’istruttoria di cui all’art. 115 anche in assenza dell’istanza dell’appaltatore derivando l’obbligo di revisione dei prezzi direttamente dalla norma di legge”. L’Ufficio Legislativo del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha, invece, espresso questa posizione: “con riferimento al primo ed al secondo quesito, le modalità di presentazione dell’istanza di revisione da parte dell’appaltatore, in assenza di specifiche disposizioni fissate al riguardo, sembra possano essere fissate a livello contrattuale, sempre che non risultino parti- 272 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 colarmente gravose per l’esecutore del contratto”. Preso atto della posizione assunta dalle Amministrazioni interpellate, la Scrivente ritiene debba distinguersi a seconda che la variazione dei costi sostenuti dall’impresa appaltatrice sia in aumento ovvero in diminuzione. Qualora si registri un aumento dei costi dei fattori della produzione idonei ad incidere sulla percentuale di utile originariamente stimata dall’impresa, si ritiene che l'attivazione del procedimento amministrativo nel quale svolgere l'attività istruttoria volta all'accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del compenso revisionale non possa che conseguire, necessariamente, ad istanza del soggetto interessato a mantenere inalterato il c.d. sinallagma contrattuale, ovvero l’impresa affidataria del servizio (sul punto, T.A.R. Campania - Napoli, Sez. I, 1° luglio 2008, n. 6506). Nella diversa ipotesi in cui si registri una diminuzione dei costi sostenuti dall’impresa appaltatrice per l’esecuzione della prestazione, poiché in tal caso a beneficiare dell’istituto della revisione dei prezzi sarà la stessa stazione appaltante, la procedura potrà essere avviata d’ufficio dall’Amministrazione (cfr., in tal senso, il punto 2.7 della Circolare del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti 4 agosto 2005, n. 871, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’11 agosto 2005, n. 186). In tal caso, il responsabile del procedimento dovrà accertare, con proprio provvedimento, il credito dell’Amministrazione appaltante e procedere ad eventuali recuperi. 2) Con riguardo al secondo quesito, si osserva che la più recente giurisprudenza amministrativa ha ritenuto legittima la clausola, apposta nel capitolato di oneri e di servizio, che specifichi le modalità di presentazione della suddetta istanza (sia relativamente alla tempistica - nel caso di specie, entro la scadenza di ogni periodo contrattuale annuale - sia quanto alle modalità di spedizione dell’istanza, ad esempio esigendo il mezzo della raccomandata con ricevuta di ritorno), in quanto risponde alla ragionevole e concreta esigenza di certezza della Pubblica Amministrazione senza incidere in alcun modo sulla consistenza del diritto dell'impresa, determinandone unicamente una modalità di esercizio. Sul punto, si è significativamente affermato che “escludere che l'Amministrazione possa disciplinare i tempi e le forme richiesti per l'esercizio del diritto in parola, peraltro nella consapevolezza e con il consenso della controparte privata (dotata peraltro di specifica competenza, data la sua qualità di "imprenditore"), significherebbe porre un limite alla volontà contrattuale da un lato privo di concrete giustificazioni, anche nella prospettiva dell'interesse pubblico, e, dall'altro lato, inutilmente penalizzante per le esigenze della stazione appaltante” (sul punto, T.A.R. Puglia - Lecce, Sez. III, 15 ottobre 2009, n. 2299, confermata da Consiglio di Stato, Sez. V, 6 ottobre 2010, n. 7331). Conclusivamente, appare del tutto legittima, in conformità al citato orientamento giurisprudenziale, la clausola del capitolato di oneri di servizio che PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 273 preveda che l’istanza di adeguamento dei corrispettivi ex art. 115 del Codice dei contratti pubblici, da parte dell’impresa che vi abbia interesse, sia trasmessa alla stazione appaltante a mezzo di raccomandata con avviso di ricevimento, con possibilità, da parte della stazione appaltante medesima, di prevedere un termine di decadenza (convenzionale) entro il quale la suddetta istanza possa essere presentata, purché tale termine non renda eccessivamente difficile od oneroso, all’impresa affidataria, l’esercizio del diritto in parola, secondo quanto statuito dall’art. 2965 c.c. Dello stesso tenore le posizioni assunte, sul punto, dalle Amministrazioni interpellate. In particolare, secondo quanto prospettato dall’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e Forniture, le modalità di presentazione dell’istanza “possono essere disciplinate nel contratto, purché le prescrizioni (modi e tempi) ivi indicate non costituiscano delle condizioni decadenziali”. 3) Con riguardo al terzo quesito prospettato a questo Legale Ufficio, si ritiene che l’istanza di adeguamento dei corrispettivi possa essere presentata, dall’impresa affidataria del servizio, in linea di principio, anche successivamente alla scadenza del contratto, purché entro il termine di prescrizione stabilito per le prestazioni che devono essere rese in modo periodico, e quindi nel termine di prescrizione quinquennale dettato dall’art. 2984, n. 4), del codice civile (Consiglio di Stato, Sez. III, 19 luglio 2011, n. 4362). Ciò, in primis, in quanto, come sopra ricordato, lo scopo primario dell’istituto disciplinato dall’art. 115 del c.d. Codice dei contratti pubblici è individuato anche nel rendere attuale, nell’interesse dell’appaltatore, il prezzo contrattuale in base al variare del costo della vita, qualora quest’ultimo superi un certo limite di tollerabilità, perseguendo, pertanto, la finalità di assicurare un costante equilibrio tra le prestazioni dedotte in contratto, in modo da mantenere inalterato il c.d. sinallagma contrattuale, che potrebbe essere compromesso dalla durata del contratto e dalla modifica dell'andamento dei prezzi che nel frattempo dovesse verificarsi. La richiesta di revisione potrà, pertanto, essere formulata dalla parte interessata anche dopo la scadenza del contratto, allorquando la variazione in aumento dei costi sostenuti dall’impresa per il corretto espletamento della prestazione sia avvenuta durante la vigenza del contratto (secondo quanto chiarito da Consiglio di Stato, Sez. V, 20 agosto 2008, n. 3994), perché, in tal caso, permane l’esigenza di mantenere inalterato il c.d. sinallagma contrattuale. Nello stesso senso, con riguardo a tale ultimo punto, la posizione espressa dall’Ufficio Legislativo del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, secondo il quale “sembrerebbe che la pretesa alla revisione dei prezzi [successivamente alla scadenza del contratto o, comunque, riferita a prestazioni già eseguite] sia da considerarsi legittima, sulla base delle pronunce di giustizia amministrativa che connotano come diritto soggettivo la suddetta pretesa”. 274 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 Conforme è la posizione manifestata dall’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici di Lavori, Servizi e Forniture: “non può ritenersi decaduto dal diritto alla revisione dei prezzi l’appaltatore che avanzi istanza dopo la scadenza del contratto da cui, secondo costante giurisprudenza, non può neppure farsi derivare l’acquiescenza dell’appaltatore (Consiglio di Stato, sez. V, 20 agosto 2008, n. 3994; TAR Piemonte Torino, sez. I, 12 maggio 2010, n. 2378)”. Come già chiarito, tuttavia, l’istanza di adeguamento dei corrispettivi potrà essere presentata, dall’impresa affidataria del servizio, in linea di principio, anche successivamente alla scadenza del contratto, purché entro il termine di prescrizione stabilito per le prestazioni che devono essere rese in modo periodico, e quindi nel termine di prescrizione quinquennale dettato dall’art. 2984, n. 4), del codice civile. Ciò in quanto, come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa, la natura imperativa della disposizione di cui all’art. 115 del c.d. Codice dei contratti pubblici, tale da imporre l’inserimento della relativa clausola nei contratti ad esecuzione periodica o continuativa – anche modificando ed integrando, come già osservato, la difforme volontà delle parti ai sensi dell’art. 1339 del codice civile – non conduce a configurare i rispettivi crediti come diritti soggettivi indisponibili, in quanto tali sottratti al regime prescrizionale (sul punto, cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, 15 luglio 2011, n. 4329, il quale ha chiarito che “ … il diritto alla revisione si prescrive, per ciascun rateo del corrispettivo contrattuale, a decorrere dal termine di pagamento del rateo stesso, così come si prescriverebbe il diritto al pagamento del rateo, se questo non venisse pagato, ovvero il diritto all’integrazione, se il rateo venisse pagato in un importo inferiore a quello contrattualmente dovuto. E poiché il diritto al pagamento dei singoli ratei è soggetto a prescrizione quinquennale, questo è il termine da applicare anche al diritto di chiedere la revisione”). 4) Circa il quarto quesito, si ritiene del tutto legittima la revisione dei prezzi d’appalto operata sulla base dell'indice di variazione dei prezzi per le famiglie di operai ed impiegati (c.d. “indice F.O.I.”), mensilmente pubblicato dall'I.STAT., in assenza della pubblicazione, da parte dello stesso I.STAT. o della Sezione Centrale dell’Osservatorio dei Contratti Pubblici (cui l’art. 115 del c.d. Codice dei contratti pubblici demanda l’individuazione dei costi standardizzati per tipo di servizio in relazione a specifiche aree territoriali) della rilevazione ed elaborazione dei costi dei principali beni e servizi acquisiti dalle Pubbliche Amministrazioni, mentre non sembra ammissibile l’utilizzo di diversi criteri (come le tabelle ministeriali sul costo orario di lavoro ovvero i bollettini delle singole associazioni imprenditoriali) e ciò per la fondamentale ragione che la variazione dei costi non deve essere parametrata al variare dei costi nel settore, in quanto la finalità dell’istituto è quella di ancorare il prezzo contrattuale alla soglia qualificata di inflazione. Con la precisazione, tuttavia, che l’utilizzo del suindicato parametro non PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 275 esime la stazione appaltante dal dovere di istruire il procedimento tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto al fine di esprimere la propria determinazione tecnico-discrezionale, ma segna il limite massimo oltre il quale, salvo circostanze eccezionali che devono essere provate dall'impresa, non può spingersi nella determinazione del compenso revisionale (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. V, 9 giugno 2009, n. 3569; Consiglio di Stato, Sez. VI, 15 maggio 2009, n. 3003; Consiglio di Stato, Sez. V, 20 agosto 2008, n. 3994; Consiglio di Stato, Sez. V, 9 giugno 2008, n. 2786). In particolare, è stato di recente precisato che l’attività istruttoria della stazione appaltante deve rivolgersi all’accertamento dei “prezzi del mercato dei principali beni e servizi acquisiti dalle pubbliche amministrazioni”, con riferimento specifico all’oggetto del contratto sul quale deve essere operata la revisione del prezzo, e che pertanto, ai fini della determinazione del compenso revisionale, occorre rilevare eventuali variazioni di prezzo incidenti sul compenso con riferimento ad una particolare categoria di consumatori (le Pubbliche Amministrazioni) e ad un oggetto o una tipologia della fornitura o del servizio coincidenti o assimilabili a quello su cui deve essere operata la revisione. Del tutto conformi, sul punto, i pareri espressi dalle Amministrazioni interpellate. 5) Con riferimento alla quinta ed ultima questione sottoposta all’attenzione della Scrivente, si ritiene che l’adeguamento dei prezzi vada calcolato facendo decorrere il relativo intervallo inflazionistico dalla presentazione dell’offerta, e non dalla stipula del contratto. Infatti, se la clausola di revisione periodica dei prezzi nei contratti pubblici ha, come già osservato, lo scopo di tenere indenni gli appaltatori della Pubblica Amministrazione da quegli aumenti dei prezzi dei fattori della produzione che, incidendo sulla percentuale di utile stimata, potrebbero indurre l'appaltatore a svolgere il servizio o ad eseguire la fornitura a condizioni deteriori rispetto a quanto pattuito o, addirittura, a rifiutarsi di proseguire nel rapporto, con inevitabile compromissione degli interessi della Pubblica Amministrazione, appare chiaro come la stima dell’appaltatore sulla percentuale di utile derivante dalla esecuzione del contratto venga effettuata, in primo luogo, al momento di presentazione dell’offerta, essendo questo il momento in cui lo stesso valuta i costi da sostenere, e, in base a questi, formula l’offerta stessa. Ciò risulta avvalorato dall’orientamento dominante della Corte di cassazione, secondo cui “in tema di revisione dei prezzi di appalto di opera pubblica, i prezzi correnti durante l’esecuzione dell’opera vanno confrontati con quelli correnti alla data di presentazione dell’offerta; pertanto, deve farsi riferimento non già alla tabella nota alla data dell’offerta e riguardante prezzi correnti in un periodo anteriore, bensì alla tabella che riproduce i prezzi relativi al momento in cui l’offerta è stata effettuata, ancorché tale tabella sia stata redatta e resa pubblica solo successivamente” (cfr., ex multis ed a mero 276 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 titolo esemplificativo, Corte di cassazione, I Sezione Civile, 25 febbraio 2004, n. 3726; Corte di cassazione, I Sezione Civile, 11 marzo 1995, n. 2822; cfr., altresì, Commissione ministeriale ricorsi prezzi opere pubbliche del 9 luglio 2002: “Ai fini del calcolo del compenso revisionale, il momento di riferimento iniziale continua ad essere la data dell’offerta allorché il sistema di aggiudicazione prescelto non prevede come atto terminale del procedimento l’aggiudicazione oppure quando sono intercorsi più di sei mesi tra l’offerta e l’aggiudicazione” ). Tale impostazione sembra coerente, peraltro, con quanto statuito dal Consiglio di Stato, il quale ha affermato che “scopo primario della disposizione ex art. 6, co. 4, l. 537/1993, come modificato dall'art. 44 l. 724/1994, confermata dall'art. 115 del d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163, è chiaramente quello di tutelare l'interesse pubblico a che le prestazioni di beni o servizi da parte degli appaltatori delle amministrazioni pubbliche non subiscano col tempo una diminuzione qualitativa a causa degli aumenti dei prezzi dei fattori della produzione, incidenti sulla percentuale di utile considerata in sede di formulazione dell'offerta, con conseguente incapacità del fornitore di far fronte compiutamente alle stesse prestazioni” (Consiglio di Stato, Sez. V, 2 novembre 2009, n. 6709; negli stessi termini, cfr. T.A.R. Puglia, Lecce Sez. II, 9 febbraio 2012, n. 262). Anche se soltanto incidentalmente, il Supremo Consesso della Giustizia amministrativa fa riferimento a scostamenti di costi che possano verificarsi tra il momento in cui l’impresa affidataria del servizio abbia formulato l’offerta alla stazione appaltante (essendo questo il momento in cui la stessa valuta i costi da sostenere, ed in base a questi formula l’offerta stessa) e la fase successiva, nella quale le prestazioni (periodiche o continuative) vengano in concreto eseguite. Sembra pertanto, sia per ragioni sistematiche e di ordine logico, sia per motivi di opportunità - in relazione al citato orientamento giurisprudenziale - valutare l’eventuale innalzamento dei costi che l’impresa deve sostenere ai fini dell’espletamento del servizio dal momento della formulazione dell’offerta e non da quello - successivo - della stipula del contratto. Infine, per ciò che concerne la determinazione dell’intervallo temporale su cui calcolare la revisione, si rappresenta che la giurisprudenza amministrativa ha affermato il diritto dell’appaltatore al compenso revisionale a partire dalla scadenza del primo anno di contratto, in quanto, pur in assenza di una espressa indicazione normativa al riguardo, i contratti pubblici ad esecuzione continuata o periodica vengono stipulati per più annualità, per cui la revisione va calcolata al termine di ogni anno contrattuale (cfr., ex multis, T.A.R. Puglia - Lecce, Sez. II, 29 novembre 2007, n. 4111; T.A.R. Lazio - Roma, Sez. I quater, 2 aprile 2009, n. 3579; T.A.R. Lazio - Roma, Sez. III quater, 2 marzo 2010, n. 3247). Il presente parere è stato sottoposto all’esame del Comitato Consultivo PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 277 278 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 di cui all’art. 26 della legge 3 aprile 1979, n. 103, nella seduta del 15 giugno 2012, il quale si è espresso in conformità. Competenza Ente Parco Nazionale alla acquisizione gratuita dell’area di sedime conseguente all’inottemperanza dell’ordine di riduzione in pristino emesso dallo stesso ente. (Parere prot. 296245/6 del 21 luglio 2012, AL 47802/11, avv. PAOLO MARCHINI) L’Avvocatura in indirizzo riferisce che l’Ente Parco Nazionale del Cilento - Vallo di Diano ha richiesto un parere in relazione alla disciplina dell’acquisizione gratuita dell’area di sedime conseguente all’inottemperanza dell’ordine di riduzione in pristino di opere edilizie abusivamente costruite nell’area del Parco. Più precisamente, si interroga la scrivente Avvocatura Generale sulla possibilità per l’Ente Parco di acquisire tale area, come avvenuto in precedenti casi (1), in virtù del potere di vigilanza sulla conformità degli interventi eseguiti all’interno delle aree la cui salvaguardia gli è attribuita, o se l’acquisizione spetti di diritto al patrimonio comunale. A parere della Avvocatura Distrettuale la competenza dominicale spetterebbe al Comune alla stregua dell’art. 31, comma 6, del d.P.R. n. 380/2001 (c.d. “testo unico edilizia”). È convinzione di questo G.U. che, nelle ipotesi in cui ricorrano le condizioni per l’acquisizione gratuita dell’area per effetto delle violazioni edilizie accertate, ai sensi del citato art. 31, la titolarità spetti all’Ente Parco Nazionale, alla stregua dell’evoluto quadro normativo di settore che si va ad illustrare. *** § 1. L’art. 7, comma 6 della legge n. 47 del 1985 ante testo unico sull’edilizia. La legge 28 febbraio 1985 n. 47 recante “Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie”, pubblicata nella Gazz. Uff. 2 marzo 1985, n. 53, S.O., riproduce la disposizione contenuta nell'art. 15, terzo comma, della legge 28 gennaio 1977, n. 10, che prevedeva la acquisizione in proprietà dell’area, quale sanzione di secondo grado, nel caso di interventi eseguiti in assenza di permessi di costruire, di totale difformità o con variazioni essenziali e di inottemperanza al- (1) L’Ente allega la propria ordinanza n. 60/2011, con cui è stata disposta l’acquisizione gratuita in proprio favore di opere abusive costruite sul territorio del Parco. Tale ordinanza tuttavia, nel dispositivo, richiama non già l’art. 31, comma 6, DPR 380/2001, norma che disciplina i casi in cui l’acquisizione spetta ad enti diversi dal Comune, bensì il comma 3 del medesimo articolo, relativo ai casi di acquisizione del bene e dell’area di sedime al patrimonio comunale. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 279 l’ordinanza di demolizione emanato dalla Amministrazione cui compete la vigilanza sull’osservanza dei vincoli esistenti. In particolare il comma 6 dell’art. 7 [poi abrogato dall'art. 136, D.Lgs. 6 giugno 2001, n. 378, con la decorrenza indicata nell'art. 138 dello stesso decreto e dall'art. 136, D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, con la decorrenza indicata nell'art. 138 dello stesso decreto, e poi ulteriormente trasfuso nell'art. 31 del testo unico emanato con il suddetto D.P.R. n. 380 del 2001, attualmente vigente], attribuisce la competenza “dominicale” (ossia legittimante l’acquisizione in proprietà dell’area) a seconda che il vincolo ambientale concorra o meno con altri vincoli di in edificabilità. Recita l’art. 7, rubricato: “Opere eseguite in assenza di concessione, in totale difformità o con variazioni essenziali”: “Sono opere eseguite in totale difformità dalla concessione quelle che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto della concessione stessa, ovvero l'esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile. Il sindaco, accertata l'esecuzione di opere in assenza di concessione, in totale difformità dalla medesima ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi del successivo articolo 8, ingiunge la demolizione. Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita. L'accertamento dell'inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine di cui al precedente comma, previa notifica all'interessato, costituisce titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente. L'opera acquisita deve essere demolita con ordinanza del sindaco a spese dei responsabili dell'abuso, salvo che con deliberazione consiliare non si dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o ambientali. Per le opere abusivamente eseguite su terreni sottoposti, in base a leggi statali o regionali, a vincolo di inedificabilità, l'acquisizione gratuita, nel caso di inottemperanza all'ingiunzione di demolizione, si verifica di diritto a favore delle amministrazioni cui compete la vigilanza sull'osservanza del vincolo. Tali amministrazioni provvedono alla demolizione delle opere abusive ed al ripristino dello stato dei luoghi a spese dei responsabili dell'abuso. Nella ipotesi di concorso dei vincoli, l'acquisizione si verifica a favore del patrimonio del comune. 280 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 Il segretario comunale redige e pubblica mensilmente, mediante affissione nell'albo comunale, l'elenco dei rapporti comunicati dagli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria riguardanti opere o lottizzazioni realizzate abusivamente e delle relative ordinanze di sospensione e lo trasmette all'autorità giudiziaria competente, al presidente della giunta regionale e, tramite la competente prefettura, al Ministro dei lavori pubblici. In caso d'inerzia, protrattasi per quindici giorni dalla data di constatazione della inosservanza delle disposizioni di cui al primo comma dell'art. 4 ovvero protrattasi oltre il termine stabilito dal terzo comma del medesimo articolo 4, il presidente della giunta regionale, nei successivi trenta giorni, adotta i provvedimenti eventualmente necessari dandone contestuale comunicazione alla competente autorità giudiziaria ai fini dell'esercizio dell'azione penale. Per le opere abusive di cui al presente articolo, il giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui all'articolo 17, lettera b), della legge 28 gennaio 1977, n. 10 , come modificato dal successivo articolo 20 della presente legge, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita”. Già la Corte Costituzionale, con ordinanza n. 82 del 1991 - in relazione alla analoga ipotesi sanzionatoria prevista dall'art. 15, terzo comma, della legge 28 gennaio 1977, n. 10 - aveva affermato che la gratuita acquisizione al patrimonio indisponibile del comune dell'area sulla quale insiste la costruzione abusiva rappresenta la reazione dell'ordinamento al duplice illecito posto in essere da chi dapprima esegue un'opera abusiva, e poi non adempie all'obbligo di demolirla, in conformità della regola secondo cui "l'ordinamento reagisce, oltre che sulle cose costituenti il prodotto dell'illecito, anche su quelle strumentalmente utilizzate per commetterlo". Secondo il cennato indirizzo della Corte l'acquisizione gratuita dell'area non è dunque una misura strumentale, per consentire al comune di eseguire la demolizione, né una sanzione accessoria di questa, ma costituisce una sanzione autonoma che consegue all'inottemperanza all'ingiunzione, abilitando poi il sindaco ad una scelta fra la demolizione di ufficio e la conservazione del bene, definitivamente già acquisito, in presenza di "prevalenti interessi pubblici"; il che significa la destinazione a fini pubblici, sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o paesaggistici. § 2. La legge quadro sulle aree protette L. n. 394/1991. Con l’intervento della legge n. 394 del 1991 (d’ora in poi “Legge quadro”) sono stati introdotti nell’ordinamento giuridico nuovi strumenti: il Programma triennale per le aree naturali protette (art. 4); il Regolamento del parco (art. 11); il Piano del Parco (art. 12); il Nulla osta (art. 13) ed il Piano pluriennale economico e sociale per la promozione delle attività compatibili (art. 14). L'intento è quello di creare un "sistema organico" per la gestione dei territori sottoposti a tutela. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 281 Nell'art. 12, titolato "Piano per il Parco", è previsto che il Piano del Parco suddivida il territorio, a seconda del diverso grado di protezione, in quattro zone: 1. Riserve integrali - zone A - "nelle quali l'ambiente naturale è conservato nella sua integrità"; 2. Riserve generali orientate - zone B - "in cui è vietato costruire nuove opere edilizie o ampliare le costruzioni esistenti. Eseguire opere di trasformazione del territorio e dove sono consentite le utilizzazioni produttive tradizionali; eseguire gli interventi di gestione delle risorse naturali e la manutenzione delle opere esistenti"; 3. Aree di Protezione - zone C - "dove possono continuare secondo gli usi tradizionali le attività agro-silvo-pastorali, nonché la pesca e la raccolta di prodotti naturali ed è incoraggiata anche la produzione artigianale di qualità"; 4. Aree di promozione economica e sociale - zone D - "nelle quali sono consentite attività compatibili con le finalità istitutive del parco, finalizzate al miglioramento della vita socio-culturale della collettività locale ed al miglior godimento del parco da parte dei visitatori". Quindi fra i nuovi strumenti, il Piano del Parco è quello che riveste maggiore importanza in quanto consente di governare e pianificare in maniera più idonea gli interventi sul territorio. La legge quadro n. 394 del 1991 fonda il sistema di tutela delle aree protette sugli articoli 29 e 30. La prima norma conferisce all'organismo di gestione dell'area naturale protetta, in persona del suo legale rappresentante, il potere di disporre l'immediata sospensione delle attività esercitate in difformità dal piano, dal regolamento o dal nullaosta, e di ordinare la riduzione in pristino o la ricostituzione di specie vegetali o animali a spese del trasgressore. Sotto il profilo sanzionatorio occorre poi distinguere tra: - sanzioni pecuniarie; - sanzioni ripristinatorie. Le sanzioni pecuniarie sono quelle previste dall'art. 30, secondo comma della legge n. 394 del 1991; le sanzioni ripristinatorie sono quelle che tendono ad eliminare gli effetti dell'attività illecita e consistono: - nella riduzione in pristino (demolizione di manufatto abusivo, riempimento di cava, eliminazione di rifiuti abusivamente scaricati, con bonifica dell'area); - nella ricostituzione di specie vegetali o animali (ad esempio: impianto di alberi in zona boschiva distrutta o danneggiata, ripopolamento di un lago). Dall’interpretazione letterale si desume l’obbligatorietà di dette sanzioni ("ordina") e la loro esclusività, atteso che il sintagma "in ogni caso" sembra impedire la possibilità di ricorrere a rimedi sostitutivi in alternativa. L'inosservanza delle misure ripristinatorie è disciplinata dall'art. 29, secondo comma, che rinvia alla disciplina dell’art. 27 della l. 28 febbraio 1985, n. 47, corrispondente all’attuale art. 41 del D.P.R. 380/01, e non contempla 282 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 l’acquisizione in proprietà dell’area (2) (che si connette invece, come detto, alle specifiche violazioni previste dall’art. 31 del predetto d.p.r.). L’assenza di una disciplina, nella legge quadro, della acquisizione in proprietà da ineseguito ordine di demolizione promanato dall’Ente Parco, può agevolmente giustificarsi con il fatto che tale disciplina era già contemplata dal citato comma 6 dell’art. 7 della legge n. 47/1985, sia nel caso di “monovincolo”, sia in quello di “plurivincolo”, sicché non vi era necessità di una sua rinnovazione. § 3. La Legge 9 dicembre 1998 n. 426. Con la legge 9 dicembre 1998 n. 426, recante nuovi interventi in campo ambientale e pubblicata nella Gazz. Uff. 14 dicembre 1998, n. 291, il legislatore pone la prima significativa deroga alla regola generale dettata dal comma 6 dell’art. 7 della legge n. 47/1985 in tema di competenza “dominicale” nella fattispecie di plurivincolo di inedificabilità. Infatti, l’art. 2 oblitera del tutto la competenza comunale. Dispone tale norma: “Interventi per la conservazione della natura. 1. Nelle aree naturali protette nazionali l'acquisizione gratuita delle opere abusive di cui all'articolo 7, sesto comma, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, e successive modificazioni ed integrazioni, [n.d.r.: ora art. 31 d.p.r. n. 380 del 2001] si verifica di diritto a favore degli organismi di gestione. Nelle aree protette nazionali, i sindaci sono tenuti a notificare al Ministero dell'ambiente e agli Enti parco, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, gli accertamenti e le ingiunzioni alla demolizione di cui all'articolo 7, secondo comma, della citata legge n. 47 del 1985. Il Ministro dell'ambiente può procedere agli interventi di demolizione avvalendosi delle strutture tecniche e operative del Ministero della difesa, sulla base di apposita convenzione stipulata d'intesa con il Ministro della difesa, nel limite di spesa di lire 500 milioni per l'anno 1998 e di lire 2.500 milioni a decorrere dall'anno 1999”. Il testo non contempla ipotesi di plurivincolo, sicché esse devono ritenersi (2) Art. 29. Poteri dell'organismo di gestione dell'area naturale protetta. 1. Il legale rappresentante dell'organismo di gestione dell'area naturale protetta, qualora venga esercitata un'attività in difformità dal piano, dal regolamento o dal nulla osta, dispone l'immediata sospensione dell'attività medesima ed ordina in ogni caso la riduzione in pristino o la ricostituzione di specie vegetali o animali a spese del trasgressore con la responsabilità solidale del committente, del titolare dell'impresa e del direttore dei lavori in caso di costruzione e trasformazione di opere. 2. In caso di inottemperanza all'ordine di riduzione in pristino o di ricostituzione delle specie vegetali o animali entro un congruo termine, il legale rappresentante dell'organismo di gestione provvede all'esecuzione in danno degli obbligati secondo la procedura di cui ai commi secondo, terzo e quarto dell'articolo 27 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, in quanto compatibili, e recuperando le relative spese mediante ingiunzione emessa ai sensi del testo unico delle disposizioni di legge relative alla riscossione delle entrate patrimoniali dello Stato, approvato con regio decreto 14 aprile 1910, n. 639. PARERI DEL COMITATO CONSULTIVO 283 ricomprese nella competenza dominicale dell’ente parco nazionale. § 4. Il Testo Unico sull’edilizia d.P.R. n. 380/2001. La questione sembrava definitivamente risolta con riferimento alle aree protette nazionali, se non fosse che il legislatore interviene nuovamente in deroga, reintroducendo la doppia competenza, segnatamente quella comunale in caso di plurivincolo. Infatti al comma 6 dell’art. 31 del testo unico sull’edilizia è scritto: “Per gli interventi abusivamente eseguiti su terreni sottoposti, in base a leggi statali o regionali, a vincolo di inedificabilità, l'acquisizione gratuita, nel caso di inottemperanza all'ingiunzione di demolizione, si verifica di diritto a favore delle amministrazioni cui compete la vigilanza sull'osservanza del vincolo. Tali amministrazioni provvedono alla demolizione delle opere abusive ed al ripristino dello stato dei luoghi a spese dei responsabili dell'abuso. Nella ipotesi di concorso dei vincoli, l'acquisizione si verifica a favore del patrimonio del comune”. § 5. La legge 27 dicembre 2006 n. 296. Solo con la legge finanziaria per il 2007 (“Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato”, pubblicata nella Gazz. Uff. 27 dicembre 2006, n. 299, S.O.) all’art. 1 si deroga ancora - ed allo stato attualmente vigente, definitivamente - al testo unico sull’edilizia, attribuendo stavolta la competenza dominicale in via principale all’ente parco (ora anche regionale) e, solo in via sussidiaria, al Comune. Infatti, l’art. 1, comma 1104, dispone ora che “Nelle aree naturali protette l'acquisizione gratuita delle opere abusive di cui all'articolo 7, sesto comma, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, e successive modificazioni, (…allo stato della legislazione vigente, art. 31, sesto comma, d.p.r. n. 380 del 2001) si verifica di diritto a favore degli organismi di gestione ovvero, in assenza di questi, a favore dei comuni. Restano confermati gli obblighi di notifica al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare degli accertamenti, delle ingiunzioni alla demolizione e degli eventuali abbattimenti direttamente effettuati, come anche le procedure e le modalità di demolizione vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge”. La norma citata risolve dunque espressamente il quesito posto dall’Ente parco, attribuendo prevalenza al vincolo ambientale rispetto a quello urbanistico ed edilizio e disponendo che l’acquisizione della proprietà dell’area, nei casi sopra specificati, si realizza a proprio favore. Ad avviso di questa Avvocatura l’acquisto opera ope legis allorquando si determinano le condizioni di fatto previste dalla norma, in guisa che il provvedimento di acquisizione adottato dall’Ente parco ha carattere dichiarativo, e non costitutivo. Non di meno, tale provvedimento dovrà essere opportunamente trascritto, ai sensi degli artt. 2643 e 2645 c.c., al fine di assicurargli le 284 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 debite forme di pubblicità e di rendere opponibile ai terzi l’acquisto avvenuto. La questione è stata esaminata dal Comitato consultivo che si è espresso in conformità nella seduta del 15 giugno 2012. Il presente parere è trasmesso anche al Ministero dell’Ambiente e del Territorio e del Mare, quale Amministrazione vigilante sugli Enti parco, allo scopo di assicurare l’uniforme applicazione della normativa considerata. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ La tracciabilità dei flussi finanziari. Il limite dei mille euro Antonio Tallarida* SOMMARIO: 1. Premessa - 2. La tracciabilità in genere - 3. Tipologie di tracciabilità dei flussi finanziari - 4. La tracciabilità generale dei movimenti finanziari - 5. La tracciabilità nelle commesse pubbliche - 6. Le leggi del 2010 - 7. Gli elementi essenziali dell'istituto - 8. Gli obblighi dei soggetti pubblici - 9. La filiera degli operatori economici - 10. Gli obblighi dei soggetti privati - 11. La tracciabilità attenuata - 12. La tracciabilità e il Fisco - 13. La digitalizzazione della P.A. - 14. Conclusioni. 1. Premessa. Quando nell’estate 2010, con l'approvazione del "Piano straordinario contro le mafie" è divenuto di attualità il tema della tracciabilità (in inglese, traceability) dei flussi finanziari, molti dei non addetti ai lavori hanno pensato che si trattava di un nuovo istituto, che si andava ad aggiungere alle altre new entry dei nostri giorni: la due diligence, lo spread, la spending review, e così via, istituti di incerta o poco conosciuta definizione. Eppure, di tracciabilità, come nuova frontiera dei diritti, nel contrasto dell'illegalità, si parlava già da vari anni, nei più svariati campi. 2. La tracciabilità in genere. Premesso che per tracciabilità si intende la possibilità di acquisire complete informazioni circa il procedimento (process chain) attraverso il quale si per- (*) Vice Avvocato Generale dello Stato. Costituisce il presente scritto la relazione (rielaborata) dell’Autore al convegno “Conformità, trasparenza e controlli nei rapporti con la Pubblica Amministrazione” organizzato da Dexia Crediop unitamente ad AICOM - Associazione Italiana Compilance. Convegno tenutosi il 25 giugno 2012. 286 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2 /2012 viene a un prodotto o a un pagamento, si possono ricordare come applicazioni: - la tracciabilità in campo alimentare, in voga ai tempi della mucca pazza per i mangimi, della mozzarella blu, del batterio killer e così via, di cui all'art. 18 del Reg. CE 178/2002 e soprattutto all'art. 5 del Reg. CE 852/2004 che ha introdotto il sistema di autocontrollo dei punti critici (HACCP), che si coniuga con 1'etichettatura (ora ridisciplinata dal Reg. CE 1169 del 25 ottobre 2011) e con il sistema di certificazione ISO 25000; - la tracciabilità in campo industriale, dei processi di prodotto, di cui ad esempio, in campo farmaceutico, alle direttive 92/25/CEE e 2001/83/CE, nonché al DM 2 agosto 2001 e al successivo DM 15 luglio 2004 istitutivo presso l'AIFA della Banca dati centrale di tutte le confezioni di medicinali immessi in commercio in Italia, anche questa collegata con l'etichettatura (d.lgs. 24 aprile 2006, n. 219); - la tracciabilità dei rifiuti, urbani e speciali, che, ai sensi dell'art. 188 bis del cod. ambiente, "deve essere garantita dalla loro produzione sino alla loro destinazione finale", e che ha portato all'instaurazione di un doppio canale di controllo: quello cartaceo (articolato su tre documenti, il Formulario di identificazione, il Registro di scarico e carico, il Modello unico di individuazione ambientale) e quello informatico imperniato sul SISTRI (che è stato ulteriormente rinviato sino al 31 dicembre 2013 dall'art. 52 del d.l. n. 83/2012), gestito dal Comando Carabinieri Tutela dell'Ambiente (D.M. 17 dicembre 2009), e sul Catasto dei rifiuti (art. 189 cod. amb.), quale strumenti di lotta contro la malavita e la illegalità, purtroppo assai diffuse nel campo della gestione dei rifiuti speciali. 3. Tipologie di tracciabilità dei flussi finanziari. Proprio a questa finalità, ossia la lotta alla criminalità organizzata, si ispira la tracciabilità dei flussi finanziari. Al riguardo possono distinguersi • una tracciabilità generale dei movimenti finanziari, • una tracciabilità specifica relativa ai contratti pubblici di appalto e alle commesse pubbliche, • una tracciabilità attenuata. Tutte hanno per denominatore comune i mezzi di pagamento e sono destinate ad integrarsi tra loro in modo da costruire una rete di garanzia della legalità dei pagamenti al di sopra dei mille euro. 4. La tracciabilità generale dei movimenti finanziari. La tracciabilità generale è disciplinata dal d.lgs. 21 novembre 2007, n. 231, di recepimento della Terza direttiva antiriciclaggio (2005/60/CE) ed è incentrata sul ruolo cardine dell'Unità di informazione finanziaria (UIF) istituita presso la Banca d'Italia e sulla collaborazione attiva e passiva degli interme- LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 287 diari abilitati e degli altri esercenti attività finanziaria. Questi infatti hanno l'obbligo di adeguata verifica della clientela, quando si instaurano rapporti continuativi o anche occasionali che comportino movimentazione di mezzi di pagamento di importo pari o superiore a 15.000 euro o in casi sospetti (art. 15), verifica questa approfondita ed estesa sino alla individuazione dell'effettivo titolare del rapporto e, per gli agenti in attività finanziaria, estesa anche alle operazioni di importo inferiore. Essi, inoltre, ma anche le società di gestione di servizi finanziari, i fabbricanti d'oro e preziosi, gli antiquari, le case d'aste, gli uffici della P.A. ecc., quando "sanno, sospettano o hanno motivi ragionevoli per sospettare”, in relazione alle caratteristiche, entità e natura, o sulla base di appositi indicatori di anomalia, che si tratti di operazioni di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo hanno l'obbligo di segnalarle all'UIF (art. 41) per il successivo inoltro della segnalazione alla DIA e alla Guardia di Finanza (art. 47). Essa tende quindi ad intercettare i flussi finanziari che dall'economia criminale si indirizzano verso quella legale. A tal fine l'UIF provvede all'analisi finanziaria delle segnalazioni ricevute e fa parte di una rete di 116 analoghe unità (FIU) che si scambiano informazioni finanziarie ed investigative in materia. In questa logica le ultime manovre finanziarie hanno progressivamente modificato e integrato il decreto legislativo suddetto (v. DD.LL. 138 e 201/11) vietando il trasferimento di denaro contante e di libretti di deposito o titoli al portatore di importo pari o superiore ad euro mille e prescrivendo che l'emissione di assegni bancari o postali di importo superiore deve contenere la clausola di non trasferibilità (art. 49) sotto pena di sanzioni amministrative (art. 58). In tal modo si cerca di ridurre l'uso del contante, di difficile individuazione e di incanalare la movimentazione finanziaria attraverso gli istituti bancari o le Poste, soggetti al controllo della Banca d'Italia e delle altre Autorità preposte. Ciò comporta la necessità della previa formale identificazione del soggetto pagatore, con conseguente riduzione della sua riservatezza. Ulteriore effetto - già osservato dall'ABI - è l'aumento dell'utilizzo delle carte di credito e di quelle prepagate o bancomat e l'emergere di nuovi strumenti di pagamento elettronici (Paypal, credits telefonici ecc. ). Il decreto Salva Italia (d.l. n. 201/2011) ha inoltre disposto il pagamento di tutte le spese della P.A. centrali e locali mediante l'utilizzo di strumenti telematici con accreditamento su conti correnti o di pagamento dei creditori o con altri strumenti elettronici, fermo che gli eventuali pagamenti di cassa non possono superare i mille euro. Stipendi e pensioni devono essere pagati con strumenti elettronici bancari o postali, ivi comprese le carte prepagate. I conti correnti per i soggetti della fascia debole devono essere aperti a condizioni favorevoli, previa convenzione Consip (art. 12, comma 2). Il recente D.L. 6 luglio 2012, n. 95, recante disposizioni urgenti sulla revisione della spesa pubblica, ha previsto l’utilizzazione generalizzata delle 288 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2 /2012 carte elettroniche istituzionali, di cui all’art. 4 d.l. n. 78/2010, per pagamenti e rimborsi a favore di cittadini e utenti (art. 8, c. 1, lett. a). È chiaro che queste disposizioni, nel mentre rendono sempre più tracciabile tutta la spesa pubblica, hanno creato difficoltà per i cassieri e i tesorieri pubblici, determinando il cambio delle tradizionali procedure amministrative e contabili, ingenerando nuove responsabilità e trasformandone la funzione per la progressiva scomparsa del maneggio del pubblico danaro. 5. La tracciabilità nelle commesse pubbliche. Facendo tesoro di queste esperienze è nata e si è sviluppata la tracciabilità dei flussi finanziari derivanti dalle commesse pubbliche, volta a colpire il fenomeno inverso, ossia i movimenti di denaro che si indirizzano dall'economia legale verso attività o imprese illegali. Si intende cioé evitare che le risorse pubbliche finiscano con l'alimentare la criminalità organizzata. Già in precedenza si era cercato di contrastare il fenomeno con misure specifiche o limitate, quali: - l'art. 176, cod. contratti app. pubblici (d.lgs. n. 163/2006), cosi modificato dal secondo correttivo (d.lgs. n. 113/2007), che prevede come contenuto degli accordi per la sicurezza antimafia delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi di carattere strategico, da stipularsi da parte del general contractor secondo le prescrizioni del CIPE, "misure per il controllo del flusso finanziario", concernenti anche le risorse a carico dei promotori o derivanti da qualunque altra modalità di finanza di progetto. La delibera attuativa CIPE 3 agosto 2011, n. 58/2011, ha disposto in tal senso, prevedendo che "le procedure di tracciamento finanziario dei pagamenti si conformano alle previsioni di cui agli art. 3 e 6 della legge n. 136/2010 e s.m.i." (punto 5); - l'art. 16, comma 5, D.L. 28 aprile 2009, n. 39, che nell'affidare al Prefetto di L'Aquila il coordinamento delle attività di prevenzione delle infiltrazioni della criminalità organizzata nelle opere connesse agli interventi per l'emergenza e la ricostruzione dopo il terremoto, dispone che "per l'efficacia dei controlli antimafia nei contratti pubblici ... è prevista la tracciabilità dei relativi flussi finanziari"; - l'art. 3 quinquies, comma 5, D.L. 25 settembre 2009, n. 135, per le opere e gli interventi connessi all'EXPO Milano 2015, che contiene una disposizione in tutto analoga. Il DPCM 18 ottobre 2011 attuativo richiama le Linee guida per i controlli antimafia adottate dal CCASGO e dispone che "si applicano le disposizioni sulla tracciabilità dei rispettivi flussi finanziari previste dagli art. 3 e 6 della legge 13 agosto 2010, n. 136"; - l 'art. 17 quater, comma 4, D.L. 30 dicembre 2009, n. 195, sulla prevenzione delle infiltrazioni della criminalità organizzata negli interventi per la realizzazione degli istituti penitenziari, che prevede anch'esso "la tracciabilità dei flussi finanziari", con modalità da definirsi con DPCM. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 289 La tracciabilità dei flussi finanziari comunque era già prevista anche in campi diversi da quello degli appalti e committenze di lavori: così, la legge 18 giugno 2009, n. 69, recante disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, stabilisce che per prevenire l'indebito utilizzo delle risorse stanziate sui Fondi strutturali comunitari o sul FAS impiegate negli interventi così finanziati “sono definite le modalità e le procedure necessarie a garantire l’oggettiva tracciabilità dei flussi finanziari" (art. 14). 6. Le leggi del 2010. L'esistenza di questo nutrito nucleo di disposizioni in materia di tracciabilità dei flussi finanziari e la loro eterogeneità di attuazione, demandata agli istituti più disparati (il CIPE, la PCM, il CCASGO presso il Ministero dell'Interno, gli accordi di sicurezza, ecc.) non poteva non postulare una reductio ad unitatem, una loro ricostruzione unitaria per quanto possibile, coerente con le finalità di alto valore sociale perseguite. Si è giunti così alle leggi del 2010 (L. 13 agosto 2010, n. 136 e D.L. 12 novembre 2010, n. 187), con le quali il percorso disegnato dal legislatore, come ben scrive 1'AVCP nella sua determina n. 4/2011, "organizza e mette a regime l'esperienza e prassi consolidate, sia pure calibrate su specifici interventi o settori di attività", la cui ratio "è quindi quella di prevenire infiltrazioni malavitose e di contrastare le imprese che, per la loro contiguità con la criminalità organizzata, operano in modo irregolare ed anticoncorrenziale. A tal fine, tra l'altro, la legge prevede che i flussi finanziari, provenienti da soggetti tenuti all'osservanza del Codice e diretti ad operatori economici aggiudicatari di un contratto di appalto di lavori, servizi o forniture, debbano essere tracciati, in modo tale che ogni incasso e pagamento possa essere controllato ex post. Dunque, la legge non si occupa dell'efficienza della spesa pubblica, ma si preoccupa di stabilire un meccanismo che consenta agli investigatori di seguire il flusso finanziario proveniente da un contratto di appalto, al fine di identificare il soggetto che percepisce il denaro pubblico. con la finalità di evitare, mediante un meccanismo di trasparenza, che finisca nelle mani delle mafie. L'informazione tracciante opera con le stesse proprietà di un codice identificativo e deve, pertanto, essere funzionale all'attività ricostruttiva dei flussi; inoltre, occorre garantire che non sia dispersa l'informazione finanziaria identificativa del contratto o del finanziamento pubblico a cui è correlata ogni singola movimentazione di denaro soggetta a tracciabilità” (par. 1). 7. Gli elementi essenziali dell'istituto. Ma vediamo, in grandi linee, quali sono i pilastri dell'istituto, i suoi elementi costitutivi, le ricadute in termini di organizzazione e procedure per le imprese e la stessa P.A. Il sistema di tracciabilità delineato dal legislatore, e interpretato dal- 290 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2 /2012 l'AVCP (con due determinazioni n. 8 e 10 del 2010 e una sostitutiva n. 4 del 2011), si articola su tre fondamentali elementi e su una serie di connessi adempimenti, imposti alla P.A. in primis, come generatrice del flusso finanziario principale e sui privati e le imprese direttamente interessate da questo. Essi consistono: 1) nell'obbligo di veicolare tutte le rimesse pubbliche e i connessi pagamenti lungo la filiera operativa attraverso conti correnti bancari o postali dedicati, anche se non in via esclusiva; 2) nell'obbligo di utilizzare strumenti tracciabili per i pagamenti (bonifico o altro strumento idoneo); 3) nell’obbligo di indicare in tali strumenti il CIG (e CUP, se obbligatorio). Tali obblighi trovano applicazione nei contratti pubblici di appalto di lavori, servizi e forniture, anche dei settori speciali, o esclusi (ad es. segretati, di produzione di armi e materiale bellico, ecc.), sottoscritti dopo la data del 7 settembre 2010, anche se relativi a bandi precedenti (per i contratti in corso era previsto l'adeguamento e al termine del periodo transitorio - 17 giugno 2011 - l'inserzione automatica della clausola di tracciabilità); le concessioni di lavori e servizi, i contratti di partenariato pubblico privato (compresa la locazione finanziaria); i contratti di subappalto, subforniture e sub servizi; i contratti in economia, compresi il cottimo fiduciario e gli affidamenti diretti (non invece, i lavori in amministrazione diretta, per difetto del requisito dell'appalto). Tutti questi a prescindere dal sistema di aggiudicazione e dal valore, che può essere anche modico. Anche i contratti di appalto stipulati con operatori economici non stabiliti in Italia sono soggetti al regime in questione (in tal senso si è espressa 1'AVCP sentito il Ministero dell'Interno e l'Avvocatura Generale dello Stato). Sembrerebbero non soggetti invece i contratti per i servizi di Tesoreria degli Enti Locali, essendo il tesoriere un organo funzionale dell'ente territoriale. 8. Gli obblighi dei soggetti pubblici. Nell'ambito dei contratti pubblici di appalto di lavori, servizi e forniture, i soggetti pubblici tenuti al rispetto delle disposizioni sulla tracciabilità sono innanzitutto le stazioni appaltanti (intendendosi per queste le amministrazioni aggiudicatrici, e cioè le Amministrazioni dello Stato, gli Enti territoriali, gli Enti pubblici non economici, gli organismi di diritto pubblico, le loro associazioni, unioni e consorzi nonché gli enti aggiudicatori, incluse le imprese pubbliche: artt. 3, 32 e 207 cod. appalti). Su questi soggetti gravano precisi obblighi propedeutici ed attuativi per l'operatività del sistema: - indicare nell'avviso o lettera di gara che il contratto susseguente é sottoposto al regime di tracciabilità e di monitoraggio; - inserire all'atto della stipula del contratto una apposta clausola, a pena LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 291 di nullità assoluta, con la quale l'appaltatore si assume l'obbligo di tracciabilità dei flussi finanziari (art. 3, c. 8, L. 136/10); - verificare che nei contratti sottoscritti dall'appaltatore con i subappaltatori, subcontraenti della filiera di imprese a qualsiasi titolo interessati ai lavori, servizi e forniture, sia inserita, a pena di nullità assoluta, la suddetta clausola di tracciabilità (art. 3, c. 9, L. cit.); - far registrare il responsabile del procedimento (RUP) presso il Sistema di Monitoraggio delle Gare (SIMOG) dell'AVCP, che attribuisce un numero di gara ad ogni nuova procedura di affidamento e determina altresì l'importo del contributo dovuto (in relazione al valore presunto del contratto); - richiedere, attraverso il RUP all'Autorità l'attribuzione del Codice identificativo di gara (CIG) per l'opera o ciascun lotto di questa; - indicare il CIG (o i CIG) nell'avviso pubblico, lettera di invito o richiesta di offerta per l'appalto; - effettuare tutti i pagamenti sul conto corrente dedicato dell'impresa appaltatrice con bonifici bancari o postali, indicando il CIG (e CUP, se obbligatorio ex art. 11 L. n. 30/2003: è il codice unico di progetto, per il monitoraggio degli investimenti pubblici, assegnato dal CIPE), sotto pena di distinte sanzioni pecuniarie amministrative, in caso di non utilizzo di banche o Poste, di uso di contante o di mancata indicazione del CIG/CUP (art. 6, L. n. 136/10); - segnalare le infrazioni agli obblighi di tracciabilità dell'appaltatore e subcontraenti al MEF e alla Guardia di Finanza (art. 51 d.lgs. n. 231/07) al Prefetto della Provincia ove ha sede la stazione appaltante (art. 3, c. 8, L. 136/10) e all'AVCP (contra però questa con Faq 3.6); - risolvere il contratto in caso di mancato utilizzo da parte dell'appaltatore del bonifico bancario e postale (art. 3, c. 9 bis, L. 136/10). Come si vede dall'elencazione, certo non esaustiva, degli obblighi gravanti sulle stazioni appaltanti, si tratta di impegni complessi che implicano la necessità di istituire, nell'ambito della propria struttura amministrativa, degli uffici dedicati e specializzati, che possano seguire l'appalto in tutte le sue fasi, dal bando all'aggiudicazione, all'esecuzione, ai pagamenti, sotto pena di apposite sanzioni. Il rischio di aggravare la procedura, di rallentare gli adempimenti per la necessità di rigorosi controlli e di ritardare i pagamenti è più che evidente, ed è stato già denunziato da più parti. Ciò è tanto più vero, dal momento che non è sempre agevole individuare le imprese della filiera cui debba applicarsi la tracciabilità, o i contratti atipici soggetti alla stessa, o la tipologia dei pagamenti assoggettati alle restrizioni poste dalla normativa, anche perché questa non è limitata a quella sui contratti pubblici di appalto di lavori, servizi e forniture. Infatti, a questa sono soggetti anche i finanziamenti pubblici volti a sovvenzionare detti contratti (art. 3, c. 1, L. n. 136/10), ma poi la tracciabilità dei pagamenti è espressamente prevista, indipendentemente dagli appalti, anche 292 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2 /2012 per tutti gli interventi oggetto di finanziamento a valere sui Fondi strutturali comunitari o sul Fondo per le aree sottoutilizzate (art. 14, L. n. 69/2009). 9. La filiera degli operatori economici. Ma non meno pressanti sono gli obblighi imposti sulle aziende e le imprese dal complesso della normativa sulla tracciabilità finanziaria nel campo dei contratti pubblici di appalto. Qui i soggetti privati tenuti agli obblighi di tracciabilità sono gli appaltatori, i sub-appaltatori, i subcontraenti della filiera delle imprese, i concessionari di finanziamenti pubblici anche comunitari. Grande interesse ha destato il dibattito sulla definizione dei confini della "filiera" (nozione questa molto usata in agricoltura, dove si parla anche di filiera corta o cortissima). Sinteticamente - attenendoci alle indicazioni dell'AVCP - può ritenersi che per quanto concerne i lavori pubblici, per il concetto di filiera occorre far capo al DPR n. 150/2010 ( "tutti i soggetti che intervengono a qualunque titolo nel ciclo di realizzazione dell'opera, anche con noli e forniture di beni e prestazioni di servizi, ivi compresi quelli di natura intellettuale, qualunque sia l'importo dei relativi contratti"), in coerenza anche con le Linee guida antimafia per l'Abruzzo, mentre per i contratti di forniture e servizi occorre avere riguardo a un criterio di ragionevolezza per cui "l'ultimo rapporto rilevante ai fini della tracciabilità è quello relativo alla realizzazione del bene oggetto della fornitura principale, con esclusione dalla filiera rilevante di tutte le subforniture destinate a realizzare il prodotto finito" (det. n. 4/2011, pag. 14). Così nel caso di acquisto da grossista, è tracciabile l'acquisto da parte di questo dei prodotti da fornire; nel servizio di mensa o di trasporto scolastico, è tracciata la provvista ad es. di bevande o il noleggio (non l'acquisto) del mezzo di trasporto. Secondo 1'AVCP, rientrano nella tracciabilità anche i pagamenti infragruppo, con conseguenti obblighi della società mandataria e delle società mandanti, quelli dai cessionari di crediti da corrispettivi di appalto e quelli per i servizi legali o per il servizio sostitutivo della mensa (buoni pasto). Sono invece esclusi i pagamenti tra soggetti pubblici (anche in house), o per sponsorizzazioni (trattandosi di contratto attivo), o per risarcimenti e indennizzi (perché fatti a soggetti estranei al rapporto contrattuale). 10. Gli obblighi dei soggetti privati. Gli obblighi che fanno carico all'appaltatore sono: - sottoscrivere la clausola di tracciabilità; - aprire un conto corrente dedicato o destinarne uno già esistente, anche se non in via esclusiva; - comunicare alla stazione appaltante gli estremi del conto corrente dedicato entro 7 giorni dalla sua accensione (o della prima utilizzazione se gia esi- LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 293 stente), nonchè il cod. fiscale e le generalità della persona autorizzata ad operare sullo stesso e ogni successiva modifica; - inserire nei subcontratti, a pena di nullità assoluta, un'apposita clausola di tracciabilità; - comunicare alla stazione appaltante o all'amministrazione concedente e alla Prefettura competente, ogni notizia di inadempimento della propria controparte agli obblighi di tracciabilità; - effettuare tutti i pagamenti, utilizzando per ogni contratto il conto corrente dedicato e bonifici bancari o postali o altro strumento idoneo (le Ri.Ba. e SE.PA, già indicato dal CIPE, non il RID o il MAV), sotto pena di risoluzione del contratto. indicare gli strumenti di pagamento utilizzati, il CIG (e il CUP, se obbligatorio), anche per reintegrare il C.C. indicato. Il tutto sanzionato con pene pecuniarie amministrative percentuali (dal 5 al 20% e dal 2 al 5%) o da 500 a 3.000 euro, irrogate dal Prefetto del luogo ove ha sede la stazione appaltante. E l'art. 9 della L. n. 136/10 ha alzato i limiti edittali della turbativa d'asta (punita con la reclusione da 6 mesi a 5 anni e con la multa) rendendo cosi applicabili le misure coercitive, la custodia cautelare, l'arresto in flagranza e le intercettazioni telefoniche (art. 353 c.p.) ed ha introdotto un nuovo reato di turbata libertà di scelta del contraente in sede di bando di gara (art. 353 bis c.p.). Indubbiamente la tracciabilità comporta maggiori costi bancari per la movimentazione finanziaria e maggiori costi amministrativi per la gestione del contratto e il controllo dei flussi sul conto corrente dedicato. La struttura aziendale deve conseguentemente attrezzarsi, anche per tutte le misure antimafia (v. infatti le Linee guida CCASGO, fatte proprie dal CIPE, che prescrivono a tal fine l'inserimento nel quadro economico dell'opera di un'aliquota forfettaria, non soggetta a ribassi d'asta). Tali maggiori costi, peraltro, se possono incidere sull'ammontare dell'offerta e determinare un abbassamento del livello di concorrenzialità del prodotto finale sui mercati, sono o dovrebbero essere compensati dalla sottrazione dell'impresa alle estorsioni e alle infiltrazioni della malavita. 11. La tracciabilità attenuata. Per attenuare l'impatto delle disposizioni in questione, la legge stessa si preoccupa di assoggettare alcune operazioni ad una tracciabilità attenuata, consistente nella possibilità di utilizzare strumenti di pagamento diversi dal bonifico bancario o postale, purchè idonei a garantire la tracciabilità dell'operazione e senza bisogno di indicare nello strumento di pagamento il CIG/CUP: - i pagamenti per stipendi ai dipendenti, per consulenti, le spese generali (cancelleria, abbonamenti, utenze, ecc.) e quelle di provvista di immobilizzazioni tecniche, purché eseguite su un conto corrente dedicato (art. 3, c. 2, L. 136/2010), anche se riferite a più commesse; 294 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2 /2012 - i pagamenti per contributi ad enti previdenziali, assicurativi e istituzionali, quelli a favore dei gestori e fornitori di pubblici servizi, il versamento dei tributi, fermo restando l'obbligo di documentare la spesa; le spese giornaliere sul fondo cassa, sino a 1500 euro, salvo l'obbligo di rendicontazione ed escluso sempre il contante; le spese sul fondo economale, disciplinato in via regolamentare (art. 3, c. 3). La reintegrazione del conto corrente dedicato, utilizzato per pagamenti non riferibili ad interventi di appalti pubblici, deve avvenire sempre mediante bonifico bancario o postale e gli altri strumenti tracciabili (art. 3, c. 3). L'art. 6 del D.L. n. 187/2010 ha interpretato l'espressione relativa agli strumenti di pagamento diversi nel senso che deve trattarsi di strumenti differenti dal bonifico ma idonei ad assicurare la tracciabilità dell'operazione finanziaria (quindi, in questi casi, è utilizzabile anche il RID e il MAV). La complessità del sistema è attenuata anche da alcune semplificazioni introdotte dall'AVCP nella procedura di rilascio del CIG, al fine di agevolare gli adempimenti della stazione appaltante per gli appalti di modesto valore economico e per altre tipologie di contratti (per i servizi esclusi, per quelli affidati direttamente, ecc.). Si tratta del CIG semplificato (o Smart CIG), che può ottenersi con l'immissione di un numero ridotto di informazioni. Tale CIG può essere acquistato anche in carnet di 50 CIG, validi 90 giorni. Vi è poi il CIG Master che è quello relativo a procedura di gara che comprende una molteplicità di lotti. Per quelli affidati al medesimo operatore è possibile utilizzare il medesimo CIG Master, fermo l'obbligo di riportare nei contratti l'elenco completo di tutti i CIG dei lotti affidati. Invece il CIG Derivato è quello richiesto per identificare i singoli contratti stipulati a valle di un accordo quadro. Nonostante queste agevolazioni il sistema rimane complesso e forse non è possibile fare altrimenti. 12. La tracciabilità e il Fisco. Ma la tracciabilità non esaurisce i suoi effetti nel contrasto della criminalità organizzata, in quanto, assicurando una maggiore trasparenza della spesa pubblica e privata, ben si presta ad essere utilizzata anche a fini di lotta all'evasione fiscale. Ed infatti, sempre la manovra Monti (D.L. n. 201/11) ha imposto ulteriori obblighi sul fronte della tracciabilità dei flussi finanziari (oltre alla limitazione del contante): - obbligo per tutti gli intermediari finanziari di comunicare all'Agenzia delle Entrate le movimentazioni finanziarie e le altre informazioni utili per i controlli fiscali; - obbligo dei professionisti e delle imprese di istituire un conto corrente LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 295 dedicato all'attività svolta, se vogliono usufruire del nuovo regime premiale (esonero dalle scritture contabili ai fini delle imposte dirette; adozione del criterio di cassa per la determinazione dell'imponibile IRPEF; versamento IVA in unica soluzione annuale); - verifiche fiscali senza limiti di tempo (è venuto meno il limite di 15 giorni, posto appena pochi mesi prima, dal decreto sviluppo n. 70/11); - obbligo di comunicare le infrazioni della tracciabilità al MEF e alla Guardia di Finanza, che ne dà tempestiva comunicazione all'Agenzia delle Entrate (art. 51). A queste, si devono aggiungere i seguenti ulteriori poteri attribuiti al fisco: - accedere ai conti correnti del contribuente per acquisire elementi utili a determinare il suo reddito; - acquisire dati e informazioni personali, anche sensibili, dalle Amministrazioni pubbliche, previa apposita comunicazione (art. 7, c. 2, lett. h) D.L. 70/2011). 13. La digitalizzazione della P.A. Da ultimo, occorre considerare che la progressiva digitalizzazione della Pubblica Amministrazione è destinata a comportare un cambio di cultura per consentire la transizione e il passaggio dal versamento cartaceo a quello informatico e così dalla moneta reale a quella elettronica. In questo quadro di modernizzazione, sotto la spinta della comunicazione europea COM (2010) 245, è stata istituita una cabina di regia per l'attuazione dell'agenda digitale italiana (D.L. 1 febbraio 2012, n. 5, art. 47), nella cui missione è inclusa anche la messa a punto delle "modalità per effettuare i pagamenti con modalità informatiche nonchè le modalità per il riversamento, la rendicontazione da parte del portatore dei servizi di pagamento e l'interazione tra i sistemi e i soggetti coinvolti nel pagamento" (comma 2 bis, lett. i). All'istituzione di un'apposita Agenzia ha poi provveduto direttamente il recente decreto legge recante misure urgenti per la crescita del Paese del 22 giugno 2012, n. 83, che le ha attribuito la funzione, tra l'altro, di supportare "le iniziative in materia di digitalizzazione dei flussi documentali dell'Amministrazione e di vigilare sulla gestione delle procedure di organizzazione e di acquisizione di beni e servizi" (artt. 19 e 20). Non solo, perché proprio con quest'ultimo decreto le frontiere della trasparenza si sono spostate ulteriormente in avanti, prevedendosi la pubblicazione sulla rete internet di tutte le spese superiori a mille euro, concesse ed erogate a qualsiasi titolo (sovvenzioni, contributi, sussidi, incentivi, compensi professionali, ecc.) da parte delle singole amministrazioni, da effettuarsi con modalità tali da consentire facilmente la ricerca delle informazioni, anche in formato tabellare (art. 18: amministrazione aperta). In tal modo viene a permettersi un controllo generalizzato della spesa 296 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2 /2012 pubblica, affidato a tutti i cittadini, impensabile fino a poco tempo fa, e assai utile a supportare la garanzia di legalità perseguita con lo strumento della tracciabilità dei flussi finanziari. Lo sforzo certo richiesto alla P.A. è imponente specie in tempi di stretta nelle risorse umane e materiali, ma la sua trasformazione in "casa di vetro", aperta al controllo di tutti può essere un'arma vincente nella lotta contro l'illegalità. 14. Conclusioni. La tracciabilità quindi dei flussi finanziari non è solo strumento assai utile di lotta alle infiltrazioni criminali, al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo, all'evasione fiscale, ma anche occasione per migliorare e ammodernare la P.A. Il limite dei mille euro rappresenta un ragionevole punto di equilibrio tra l’esigenza di consentire un minimo di spesa corrente e la necessità di non disperdere l’informazione finanziaria. Tuttavia, essa è venuta crescendo in fretta e tumultuosamente, accumulandosi oneri e obblighi a carico di tutti (stazioni appaltanti, concessionari, imprese pubbliche, società private, aziende, utenti e cittadini), cosi da postulare, in tempi migliori, una rivisitazione generale dell'istituto e un maggiore coordinamento tra le varie Autorità preposte (1). (1) Pochi gli scritti specifici in materia, per lo più, in formato elettronico: FEDERICI FEDERICA, Tracciabilità dei flussi finanziari significativamente intitolata “Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia”, 2012, in www.ildirittoamministrativo.it. BARBIERO ALBERTO, Tracciabilità dei flussi finanziari relativi agli appalti ed ai finanziamenti pubblici, 2011, in wwwalbertobarbiero.net. LILLI FRANCESCO, La tracciabilità dei flussi finanziari in Giust. amministrativa, 2011, n. 1. LORI ELISA, La disciplina della tracciabilità dei flussi finanziari in Giust. amm., 2011, n. 2. CAVALLO MARIA BARBARA, La traccibilità dei flussi finanziari negli appalti pubblici in Giur. merito, 2011, n. 6. RUGGERI GIANGIACOMO, Brevi riflessioni sulla tracciabilità dei flussi finanziari in Nuova Rassegna di legislazione, dotttrina, giurisprudenza, 2011, n. 9. AA.VV., Ridotto il limite di utilizzo di denaro contante in La settimana fiscale, 2011, n. 38. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 297 L’incidenza della giurisprudenza di merito sul sistema del lavoro flessibile nell’ambito della P.A. Francesco Spada* Nel rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, l’art. 36, co. 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 prevede la facoltà di utilizzo del contratto di lavoro a tempo determinato, inteso quale strumento di flessibilità nel reclutamento del personale (1). Prima di esaminare la disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, appare opportuno richiamare l’attenzione sul principio generale affermato dal legislatore all’art. 36, comma 1, ossia quello dell’affermazione del modello standard del rapporto di lavoro a tempo indeterminato e della limitazione del ricorso alle forme flessibili ad ipotesi residuali rigidamente circostanziate: “per le esigenze connesse con il proprio fabbisogno ordinario le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato (…)”. In altre parole, il co. 1 disegna un nesso virtuoso (2) tra dipendenti in servizio e fabbisogno delle amministrazioni, dal momento che queste ultime determinano il proprio fabbisogno sulla base delle attività istituzionali chiamate a svolgere e il fabbisogno si esprime, poi, attraverso la definizione delle dotazioni organiche. Le assunzioni a tempo indeterminato comportano, infine, l’immissione in ruolo del personale e, quindi, la copertura della relativa dotazione organica, determinando così il completamento del circolo virtuoso descritto. Il co. 2 stabilisce, poi, che le pubbliche amministrazioni possono avvalersi “delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa”. L’attuale formulazione dell’art. 36 è frutto di una serie di recenti interventi legislativi (3), nati dall’esigenza di reagire al contesto caratterizzato dall’emer- (*) Dirigente di II fascia del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Ha svolto la pratica forense presso l’Avvocatura Generale dello Stato. Il presente contributo riflette le opinioni dell’Autore e non impegna in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza. (1) Sul contratto a tempo determinato nel lavoro pubblico, in generale, BATTISTI, Il contratto a termine nelle pubbliche amministrazioni, in PERONE (a cura di), Il contratto di lavoro a tempo determinato nel d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, Torino, 255 e ss.; DEMICHELE, Contratto a termine e precariato, Milano, 2009; D’ONGHIA – RICCI (a cura di), Il contratto a termine nel lavoro privato e pubblico, Milano, 2009; DI PAOLA – FEDELE, Il contratto di lavoro a tempo determinato, Milano, 2011, 527 e ss.; MEZZACAPO, Profili problematici della flessibilità nel lavoro pubblico: il contratto a tempo determinato, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 2003, 516 e ss. (2) In questo senso, Dipartimento della Funzione Pubblica, circolare n. 3/2008. (3) Il riferimento è al decreto legge n. 112/2008 e al decreto legge n. 78/2009. 298 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2 /2012 genza del fenomeno del precariato, determinato, a sua volta, da un uso eccessivo del lavoro flessibile, spesso utilizzato come strumento di elusione del principio costituzionale dell’accesso al pubblico impiego tramite concorso. In particolare, gli interventi legislativi succedutisi a partire dal 2008 hanno, da un lato, disegnato una disciplina più ampia e complessa della speciale procedura di stabilizzazione già introdotta dalla legge finanziaria per il 2007 e, dall’altro, imposto misure restrittive e di rigore sull’utilizzo del lavoro flessibile, ribadendo con forza la centralità dell’assunzione a tempo indeterminato e del concorso pubblico. Sulla base del rinvio operato dal co. 2, dunque, anche alle amministrazioni pubbliche si applica la normativa di cui al d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, che rappresenta la fonte di disciplina generale del contratto di lavoro a termine, in recepimento della direttiva comunitaria 1999/70/CE del 28 giugno 1999 relativa all’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato (4). Dalla disposizione di cui al co. 2 consegue una quasi totale omogeneità (5) della regolamentazione del contratto a tempo determinato nel rapporto di lavoro pubblico ed in quello privato, con particolare riguardo, tra l’altro, alle disposizioni relative alla forma scritta del contratto, ai divieti di utilizzo nelle ipotesi previste dalla legge, alla proroga del termine di durata iniziale, al principio di non discriminazione tra lavoratori a termine e lavoratori a tempo indeterminato. Affermata, in linea di principio, la tendenziale assimilazione del regime giuridico del lavoro pubblico a quello del lavoro privato, in coerenza con i principi espressi, in generale, dall’art. 2, co. 2, del d.lgs. n. 165/2001, la disposizione rinvia alla contrattazione collettiva per la disciplina della materia, fermo restando che, secondo l’orientamento prevalente, si tratterebbe di un rinvio privo di valore precettivo, in quanto la contrattazione collettiva potrebbe soltanto integrare la disciplina legislativa. La principale finalità dell’intervento della contrattazione collettiva è, in concreto, quella di garantire ai dipendenti con rapporto di lavoro a tempo determinato la tutela prevista dal vigente quadro normativo, in quanto gli stessi sono destinatari del medesimo trattamento economico e giuridico del personale a tempo indeterminato, con l’esclusione di quegli istituti che non sono coerenti con la temporaneità della prestazione richiesta (6). Tuttavia, la specialità del rapporto di lavoro pubblico emerge anche nella (4) Il legislatore comunitario persegue, in sintesi, un duplice obiettivo: da un lato, evitare la discriminazione dei lavoratori a termine rispetto a quelli a tempo indeterminato e, dall’altro, evitare gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti a termine, richiedendo la sussistenza di “ragioni oggettive” per il rinnovo dei rapporti a termine (cfr. clausola 5, n. 1, dell’Accordo quadro). (5) In questo senso, CARABELLI U. – CARINCI M.T., Il lavoro pubblico in Italia, 2007, 118 e ss. (6) L’ARAN, con parere 24 maggio 2011, ha escluso, ad esempio, che i dipendenti con contratto di lavoro a tempo determinato possano usufruire dei permessi di studio di cui all’art. 13 del CCNL Ministeri del 16 maggio 2001. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 299 materia del contratto a tempo determinato, presentando alcuni significativi elementi di differenziazione rispetto al settore privato. In primo luogo, il sistema della c.d. “causale generale”, previsto dall’art. 1, co. 1, del d.lgs. n. 368/2001 per il contratto a tempo determinato nel settore privato (7), non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni, le quali, ai sensi dell’art. 36, co. 2, del d.lgs. n. 165/2001, possono ricorrere all’utilizzo del contratto a termine esclusivamente per esigenze “temporanee” ed “eccezionali” (8), nel rispetto delle previsioni previste dai contratti collettivi nazionali dei singoli comparti di riferimento (9). In secondo luogo, nell’ambito del rapporto di lavoro pubblico, non si applica il principio dell’assunzione diretta e nominativa dei lavoratori, in quanto la pubblica amministrazione – in forza del principio costituzionale dell’accesso tramite concorso pubblico agli impieghi (art. 97, co. 3, Cost.) – è tenuta a stipulare il contratto a termine nel rispetto inderogabile delle procedure di reclutamento (concorsuali e/o selettive) tipiche del lavoro pubblico (art. 35, d.lgs. n. 165/2001). Infine, la specialità del rapporto di lavoro pubblico determina l’inapplicabilità della regola della conversione del contratto a termine illegittimo in contratto a tempo indeterminato, nell’ipotesi in cui il giudice accerti la nullità della clausola appositiva del termine, regola che è, al contrario, pacificamente ammessa per il contratto a tempo determinato concluso nel settore privato (10). Sotto questo profilo, infatti, il legislatore stabilisce, all’art. 36, co. 5 del d.lgs. n. 165/2001 che “la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato”. (7) Come noto, nel settore privato, l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro è consentita “a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività del datore di lavoro”. (8) Nel settore privato, l’identico presupposto richiesto per la stipula di contratti a termine viene attenuato, atteso che è possibile far ricorso a tale tipologia di lavoro flessibile anche per l’attività ordinaria dell’impresa. (9) Nel settore pubblico, quindi, le causali risultano specificate, con riferimento ai singoli comparti, dalla contrattazione collettiva. Ad esempio, il CCNL Ministeri del 16 maggio 2001 prevede, all’art. 19, che le amministrazioni possano stipulare contratti a tempo determinato nei seguenti casi: sostituzione di personale assente con diritto alla conservazione del posto; sostituzione di personale assente per gravidanza e puerperio; particolari esigenze straordinarie, anche derivanti dall’assunzione di nuovi servizi o dall’introduzione di nuove tecnologie, non fronteggiabili con il personale in servizio; attività connesse allo svolgimento di specifici progetti o programmi predisposti dalle amministrazioni, quando alle stesse non sia possibile far fronte con il personale in servizio; temporanea copertura di posti vacanti nelle diverse categorie, per un periodo massimo di otto mesi e purché siano avviate le procedure per la copertura dei posti stessi. (10) Nel settore privato, l’art. 5, co. 4, del d.lgs. n. 368/2001 prevede infatti che “Quando si tratta di due assunzioni successive a termine, intendendosi per tali quelle effettuate senza alcuna soluzione di continuità, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del primo contratto”. 300 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2 /2012 Il legislatore esclude, quindi, l’applicabilità di una tutela di carattere ripristinatorio, prevedendo una tutela di carattere risarcitorio, nel senso che il lavoratore pubblico assunto con contratto a tempo determinato illegittimo ha diritto unicamente al “risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative”, la cui concreta quantificazione è demandata alla valutazione del giudice di merito. La Corte Costituzionale (11) ha ritenuto che la sanzione del risarcimento non determinerebbe alcuna disparità di trattamento rispetto ai lavoratori del settore privato, ma si limiterebbe a disciplinare in modo diverso i rapporti di lavoro pubblici in ossequio al principio di cui all’art. 97 Cost. Parte della giurisprudenza ritiene che il lavoratore possa usufruire soltanto della tutela prevista dall’art. 2126 c.c., nel senso che conserverà il diritto alla retribuzione, alle competenze accessorie ed al versamento dei contributi previdenziali per tutto il periodo in cui ha avuto esecuzione la prestazione lavorativa. Ma, ove si accogliesse questa soluzione, la sanzione prevista non avrebbe alcuna portata dissuasiva: la tutela di cui all’art. 2126 c.c. appare, quindi, insufficiente (12), nel senso che spetterà ai giudici verificare, di volta in volta, se vi sia spazio per il risarcimento di danni ulteriori. Al riguardo, sono state prospettate soluzioni diverse. In dottrina, taluno (13) ha ipotizzato che il lavoratore ha diritto ad ottenere un risarcimento del danno pari alle retribuzioni non percepite dalla data di scadenza dell’ultimo contratto a termine sino a quella di nuova assunzione. Altra parte della dottrina (14) si sofferma sul danno all’immagine, alla reputazione, alla professionalità e alla perdita di chance. Anche in giurisprudenza sono stati adottati approcci differenti. Parte della giurisprudenza sostiene che, nel caso previsto dall’art. 36, co. 5, si profilerebbe una responsabilità extracontrattuale dell’amministrazione, ai sensi dell’art. 2043 c.c., con la conseguenza che il lavoratore deve dimostrare di aver subito effettivamente i danni lamentati. In particolare (15), “il danno risarcibile ex art. 36 del d.lgs. n. 165/2001 (11) Corte cost., 27 marzo 2003, n. 89, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 2003, 355 e ss., con nota di M.G. GRECO, La disciplina del contratto a termine nel pubblico impiego supera il vaglio di costituzionalità. (12) In dottrina si è osservato (CARABELLI U. – CARINCI M.T., cit.) che detta tutela risarcitoria risulta di scarso rilievo pratico e, quindi, priva di concreta efficacia dissuasiva: ad esempio, in tema di apposizione e proroga del termine, nonché di reiterazione del contratto, si è osservato che se il dipendente ha prestato attività lavorativa, percepito la retribuzione e si è visto accreditati i contributi spettanti, allora è difficile configurare un danno per il medesimo, risarcibile ai sensi della disposizione. (13) SOTTILE, Sanzioni per il contratto a termine nel lavoro pubblico e Corte di giustizia europea, in Diritto del mercato del lavoro, 2007, 131 e ss. (14) SANTUCCI, Sulla disparità di trattamento tra dipendente pubblico e privato con riguardo alla disciplina del contratto a termine, in Diritto del mercato del lavoro, 2003, 220 e ss. (15) Tribunale Foggia, 6 novembre 2006, in Il lavoro nella giurisprudenza, 2007, 1099 e ss. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 301 viene ricollegato all’abusivo utilizzo, da parte della P.A., di una prestazione lavorativa, oltre i modi ed i tempi consentiti dalle norme imperative, rientrando a pieno titolo nella categoria dei danni da illecito aquiliano, fonte di pregiudizio risarcibile nei limiti del danno emergente e del lucro cessante (c.d. interesse positivo)”. Secondo un diverso orientamento (16), il risarcimento del danno avrebbe natura contrattuale, con conseguenze differenti sul piano dell’onere della prova e, soprattutto, con conseguente risoluzione del contratto. Alla nullità del contratto, stante la impossibilità di ipotizzare la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato per come disposto dal d.lgs. n. 368/2001, conseguirebbe l’obbligo della pubblica amministrazione di risarcire il danno nelle forme del danno emergente e del lucro cessante (17). Anche per la quantificazione del danno risarcibile, sono stati proposti diversi criteri applicativi di riferimento (18). Secondo un primo orientamento (19), il quantum del risarcimento deve essere determinato sulla base dei criteri previsti per il risarcimento del danno spettante al lavoratore illegittimamente licenziato nell’area della c.d. “tutela reale” (art. 18 dello Statuto dei lavoratori: legge 20 maggio 1970, n. 300). In particolare, alcune decisioni hanno sommato le mensilità previste dall’art. 18, co. 4 e 5, della legge n. 300/1970 (5 mensilità di retribuzione globale di fatto quale importo minimo della misura del risarcimento + 15 mensilità di retribuzione globale di fatto corrispondente all’importo dell’indennità sostitutiva della reintegrazione), condannando il datore di lavoro pubblico al risarcimento di una somma pari a 20 mensilità. Un diverso indirizzo giurisprudenziale ricollega invece il danno risarcibile alle retribuzioni non percepite per il tempo mediamente necessario per trovare una nuova occupazione stabile, tenuto conto della zona geografica, dell’età anagrafica, del sesso e del titolo di studio dei lavoratori (20). Tale decisione è stata tuttavia riformata dal Giudice di appello (21), che ha previsto quale metodo di quantificazione del danno, il sistema sanzionatorio previsto dall’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (in materia di licenziamento del danno nell’area della c.d. “tutela obbligatoria”), commisurando dunque il risarcimento del danno al pagamento di un’indennità compresa tra 2,5 e 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. (16) Tribunale Rossano, 4 giugno 2007. (17) MARCIANÒ, Lavoro a termine come terreno di confronto tra lavoro privato e lavoro pubblico, in Il lavoro nella giurisprudenza, 2008, 867 e ss. (18) Per una ricostruzione di sintesi, cfr. Fondazione Studi Consulenti del Lavoro Parere n. 2 del 2 febbraio 2012. (19) Appello Genova 9 gennaio 2009; Trib. Foggia 5 novembre 2009. (20) Tribunale Rossano, 13 giugno 2007. (21) Appello Catanzaro, 1 aprile 2010. 302 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2 /2012 Un ulteriore orientamento (22) ritiene che il risarcimento del danno subito dal lavoratore per illegittima stipulazione del contratto a termine è pari alle retribuzioni spettanti dalla data del licenziamento sino a quella dell’emanazione della sentenza, con decurtazione dell’eventuale aliunde perceptum. Un altro indirizzo (23) ritiene che, in caso di reiterata stipulazione di contratti a termine illegittimi, il lavoratore ha diritto, sotto il profilo risarcitorio, a percepire le differenze retributive corrispondenti alle retribuzioni che avrebbe percepito se fosse stato assunto a tempo indeterminato fin dalla conclusione del primo contratto a termine e quelle effettivamente corrisposte. Un altro orientamento (24) ha invece commisurato il danno al numero ed alla durata complessiva dei rapporti a termine succedutisi negli anni, il cui trascorrere diminuirebbe la possibilità di rinvenire un impiego e determinerebbe un ragionevole affidamento sulla possibilità di protrarsi ulteriormente dei rapporti stessi. Infine, secondo un recente orientamento, un idoneo parametro di quantificazione del danno potrebbe essere rappresentato dall’art. 32, co. 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (c.d. Collegato Lavoro), secondo cui “nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 [e cioè: 1. numero dei dipendenti occupati; 2. dimensioni dell’impresa; 3. anzianità di servizio del lavoratore; 4 comportamento e condizioni delle parti] ”. È importante, infine, segnalare uno specifico orientamento (25), per il quale il danno risarcibile non è “una misura sanzionatoria automatica (che) risponde al generale paradigma della responsabilità civile, così da doversi ammettere e liquidare solo nel caso in cui il lavoratore postuli specifiche voci di danno effettivo, fornendone allegazione e prova rigorose”. Inoltre, l’amministrazione condannata al risarcimento del danno nei confronti del lavoratore deve successivamente agire per il recupero delle somme versate nei confronti dei dirigenti che hanno commesso la violazione delle disposizioni in materia di contratto a tempo determinato con “dolo” o “colpa grave” (art. 36, co. 5, terzo periodo, del d.lgs. n. 165/2001). Sulla natura giuridica della responsabilità dei dirigenti si discute: secondo l’orientamento dominante, si tratterebbe di una responsabilità amministrativa per danno erariale, esperibile innanzi alla Corte dei Conti. (22) Tribunale Milano, 25 maggio 2010. (23) Tribunale Treviso, 20 luglio 2010; Tribunale Padova, 1 ottobre 2010; Tribunale Civitavecchia, 8 aprile 2010. (24) Tribunale Orvieto, 19 novembre 2010. (25) Tribunale Trieste, 28 maggio 2011. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 303 Secondo un diverso avviso, invece, si tratterebbe di una responsabilità contrattuale che dovrebbe essere fatta valere dall’amministrazione, su cui graverebbe un obbligo di recupero delle somme illegittimamente corrisposte. Infine, al dirigente che sia stato ritenuto responsabile della violazione non può essere erogata la retribuzione di risultato ed è imputata la c.d. “responsabilità dirigenziale” ai sensi dell’art. 21 del d.lgs. n. 165/2001 (art. 36, co. 5, quarto periodo, del d.lgs. n. 165/2001). Pur in presenza di una disposizione che prevede espressamente l’inapplicabilità della conversione al contratto a termine nel pubblico impiego, la giurisprudenza di merito, nei suoi sviluppi più recenti (26), ha ampliato gli spazi di tutela dei lavoratori interessati da fenomeni di abuso di contratti a tempo determinato, ammettendo la trasformazione del contratto a termine illegittimo anche nel rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, sulla base di un’interpretazione evolutiva della norma, nel più ampio quadro delineato dalla direttiva comunitaria 1999/70/CE e dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. La questione è ampiamente dibattuta sia in dottrina che in giurisprudenza. La Corte Costituzionale (27), intervenuta sulla materia, ha affermato che la disciplina di cui al d.lgs. n. 165/2001 non viola alcun principio costituzionale, in quanto l’accesso mediante concorso mette in evidenza la disomogeneità del rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni rispetto al lavoro alle dipendenze di datori privati e giustifica la scelta del legislatore di ricollegare, alla violazione di norme imperative, conseguenze soltanto risarcitorie e patrimoniali. Successivamente, il Tribunale di Genova (28) ha rimesso alla Corte di Giustizia la questione della conformità alla direttiva comunitaria n. 1999/70/CE della disciplina contenuta nell’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001. La Corte di Giustizia (29) ha richiamato l’Italia al rispetto del principio di parità di trattamento, precisando comunque che è da considerarsi legittima una normativa nazionale (come è il caso dell’art. 36, co. 5, del d.lgs. n. 165/2001) che esclude, in caso di utilizzo abusivo di successivi contratti a termine da parte delle pubbliche amministrazioni, la c.d. conversione automatica del rapporto a tempo indeterminato (nonostante tale trasformazione sia prevista per i contratti a termine illegittimi conclusi nel settore privato), purché l’ordinamento interno preveda altre misure sanzionatorie – alternative alla tutela conservativa del rapporto di lavoro – che siano idonee a soddisfare l’effetto (26) Tribunale Siena, 27 settembre 2010; Tribunale Livorno, 25 gennaio 2011; Tribunale Trani, 19 settembre 2011; Tribunale Trani, 15 marzo 2012, n. 1545. (27) V. nota n. 11. (28) Tribunale di Genova, ordinanza 21 gennaio 2004, in Il lavoro nella giurisprudenza, 2004, 893 e ss. (29) Corte di giustizia, 7 settembre 2006, n. 53. 304 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2 /2012 utile, in termini di “dissuasività” e di “effettività” delle prescrizioni stabilite dal legislatore comunitario. In tali ipotesi, secondo la Corte di Giustizia, spetta al giudice nazionale verificare la soddisfazione dei requisiti di “adeguatezza” della sanzione, cioè “di carattere non soltanto proporzionato, ma altresì sufficientemente effettivo e dissuasivo”. Secondo la Corte, quindi, non è obbligatorio per gli Stati membri prevedere come sanzione a carico del datore di lavoro la conversione dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato, essendo richiesto soltanto che eventuali misure siano tali da garantire una tutela effettiva. Rispetto all’orientamento espresso dalla Corte di Giustizia, la giurisprudenza di legittimità non ha adottato una posizione ufficiale, a differenza di quella di merito. Va infatti rilevato che, dando seguito alle indicazioni fornite dalla giurisprudenza comunitaria, alcuni giudici di merito nazionali (30), con specifico riferimento a fattispecie relative all’utilizzo reiterato di contratti a termine con il medesimo lavoratore, hanno ritenuto che la tutela risarcitoria prevista dall’art. 36, co. 5, del d.lgs. n. 165/2001 per le ipotesi di illegittima apposizione del termine non può essere considerata una tutela effettiva, in quanto “debole e pertanto non conforme al diritto comunitario, poiché le condizioni di applicazione nonché l’applicazione effettiva delle relative disposizioni di diritto interno ne fanno uno strumento inadeguato a prevenire e, se del caso, a sanzionare l’utilizzo abusivo da parte della pubblica amministrazione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato successivi ”. Secondo questo orientamento – che potrebbe incidere notevolmente sull’intero sistema del lavoro flessibile nell’ambito delle pubbliche amministrazioni – il giudice nazionale è tenuto a “disapplicare” la normativa nazionale di cui all’art. 36, co. 5, del d.lgs. n. 165/2001, in quanto in contrasto con le prescrizioni della direttiva comunitaria e con la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ed a riconoscere al lavoratore la conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato, con relativa riammissione in servizio nelle medesime mansioni precedentemente svolte. I casi trattati dalla giurisprudenza di merito sopra richiamata riguardano, in particolare, le controversie instaurate da dipendenti del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, titolari di una pluralità di contratti a tempo determinato per lo svolgimento di attività di docenza successivi, interrotti in coincidenza delle ferie estive, ripetuti nel tempo. L’analisi dei Giudici del lavoro prende le mosse dall’individuazione della ratio giustificatrice del contratto di lavoro a tempo determinato, che, ai sensi (30) V. nota n. 26. LEGISLAZIONE ED ATTUALITÀ 305 del citato art. 36, co. 2, del d.lgs. n. 165/2001, può essere stipulato “per rispondere ad esigenze temporanee ed eccezionali ”. I Giudici osservano, al riguardo, che l’insegnamento non può essere considerato “esigenza temporanea ed eccezionale”, rientrando, piuttosto, nell’ordinaria attività istituzionale del Ministero. Da ciò i Giudici desumono, quale corollario logico, l’illegittimità dei contratti di lavoro a tempo determinato stipulati con i ricorrenti, per carenza dei presupposti richiesti dalla normativa. Sul piano normativo, poi, l’attenzione dei Giudici di merito nelle sentenze in esame è posta, in primis, sulla direttiva 28/6/99/70CE, che individua due principi, quello di non discriminazione tra lavoratori a termine e lavoratori a tempo indeterminato e quello di prevenzione dell’abuso derivante dalla reiterazione del lavoro a termine. Nel rapporto di lavoro pubblico, essendo vigente il divieto di conversione del rapporto di lavoro a tempo determinato a tempo indeterminato sancito dall’art. 36, co. 5, del d.lgs. n. 165/2001, al lavoratore a tempo determinato assunto in violazione di norme di legge è riconosciuto dall’ordinamento giuridico soltanto il diritto al risarcimento del danno, con una scelta legislativa sostenuta dalla regola, costituzionalmente sancita, dell’accesso al pubblico impiego attraverso procedure concorsuali. Tuttavia, osservano i Giudici, il precetto costituzionale non sarebbe, in realtà, sacrificato sia perché lo stesso art. 97 Cost. prevede che il legislatore ordinario possa derogare a siffatta regola, sia perché per le assunzioni a tempo determinato vale il principio secondo cui le stesse devono essere effettuate nel rispetto delle procedure di reclutamento di cui all’art. 35 del d.lgs. n. 165/2001. Di conseguenza, l’argomento per cui la conversione del rapporto di lavoro a tempo determinato nel settore pubblico sarebbe contrario alla Costituzione non assumerebbe alcun pregio; cadrebbe, dunque, il principale motivo – ossia la violazione dell’art. 97 Cost. – finora utilizzato dalla giurisprudenza per negare la conversione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato nel rapporto di lavoro pubblico. Di fronte all’eccessivo ricorso da parte della pubblica amministrazione al contratto a tempo determinato, si desume che la sanzione apprestata dall’ordinamento giuridico sia tutt’altro che efficace: ciò sarebbe, peraltro, confermato da una recente pronuncia della Corte Costituzionale (31), che ha chiarito che la stabilizzazione del rapporto è la tutela più intensa che il lavoratore precario possa ricevere e che il risarcimento assume, chiaramente, valore logicamente secondario. A fronte dell’orientamento della giurisprudenza di merito fin qui indicato, (31) Corte Costituzionale, sentenza 9 novembre 2011, n. 303, relativamente alle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 32 della legge n. 183/2010. 306 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2 /2012 si deve considerare che, anche di recente, la giurisprudenza di legittimità ha assunto una posizione nettamente diversa. Al riguardo, appare opportuno riportare il contenuto di una recente pronuncia della Corte di Cassazione (32), secondo cui “in materia di pubblico impiego, un rapporto di lavoro a tempo determinato non è suscettibile di conversione in uno a tempo indeterminato, stante il divieto posto dall'art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, il cui disposto è stato ritenuto legittimo dalla Corte costituzionale (Sent. n. 98 del 2003) e non è stato modificato dal d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, contenente la regolamentazione dell'intera disciplina del lavoro a tempo determinato con la conseguenza che, in caso di violazione di norme poste a tutela dei diritti del lavoratore, in capo a quest'ultimo, essendogli precluso il diritto alla trasformazione del rapporto, residua soltanto la possibilità di ottenere il risarcimento dei danni subiti ”. Insomma, per i giudici di legittimità, nel lavoro pubblico alla illegittimità del contratto a termine per violazione di norme imperative non può che conseguire un regime sanzionatorio che - con l'escludere ogni effetto reintegrativo, stante la regola generale del concorso per l'assunzione del personale - viene ad essere incentrato sul versante dei danni subiti dalla pubblica amministrazione e dal lavoratore. D’altra parte, la giurisprudenza costante della Corte di giustizia europea - di recente ribadita da una ulteriore pronunzia (33) - porterebbe ad escludere l'applicazione dell’art. 5, co. 4, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 368 nell'area del pubblico impiego seppure privatizzato. Non resta che comprendere se la posizione dei giudici di legittimità rispetto all’orientamento di recente inaugurato da una parte – in realtà sempre più cospicua - della giurisprudenza di merito sarà differente da quella fin qui assunta sulla materia, posto che i nuovi indirizzi della giurisprudenza di merito potrebbero incidere notevolmente sull’intero sistema del lavoro flessibile nell’ambito delle pubbliche amministrazioni. (32) Cassazione, 20 marzo 2012, n. 4417. (33) Corte di giustizia, 1 ottobre 2010, causa C-3/10, Affatato. CONTRIBUTI DI DOTTRINA Autotutela interna ed esterna nel contratto tra privato e p.a., anche con riferimento al riparto di giurisdizione Federico Maria Giuliani* SOMMARIO: 1. Autotutele, privilegi, esternalità, internalità. - 2. L’esternalità del provvedimento di secondo grado: a) il problema della incidenza sul contratto tra legge finanziaria 2005 ed art. 21-nonies, legge 241/90 ex lege 15/2005. Giurisdizione: rinvio. - 3. (Segue): b) revoca ed annullamento dell’aggiudicazione, ante contratto o prima del suo controllo. - 4. (Segue): c) l’autotutela post contratto e controllo. - 5. L’intervento pubblico revisionale “dall’interno” del contratto. 1. Autotutele, privilegi, esternalità, internalità. Risalente istituto di diritto pubblico (con esso si retrocede, infatti, all’inizio del secolo XX), l’autotutela ha trovato espressione normativa soltanto con la legge n. 241/1990. Di essa, quale prerogativa della pubblica amministrazione (privilegium fisci), si conoscono varie forme, non sempre univocamente denominate. Al di là, comunque, degli attributi nominalistici, si dà nella sostanza un’autotutela amministrativa (detta talora anche decisoria), quando la P.A. esercita il potere di rivedere i propri deliberata, poiché in essi ravvisa, col senno del poi, profili d’illegittimità ovvero d’inopportunità (a volte sopravvenuta), nella cura funzionale del pubblico interesse. Si dà invece autotutela esecutiva quando la P.A., in forza di norme apposite, forzatamente persegue ed attua i suoi provvedimenti, imponendosi direttamente nella sfera giuridica dei privati. Anche i ricorsi giustiziali sono ricondotti all’autotutela, poiché in altro essi non si concretizzano se non in una revisione, su impulso dell’ammini- (*) Cassazionista del libero Foro e saggista giuridico. 308 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 strato, di quanto la P.A. ha precedentemente deliberato. Altrettanto fermo è il fatto che l’autotutela amministrativa o è officiosa, ovvero è su istanza di parte. Trattandosi, però, di attività pubblica pienamente discrezionale anche nell’an, l’istanza privata non pone l’amministrato in una posizione di aspettativa di diritto a ricevere una risposta, sì che giammai si forma in questo caso un silenzio rifiuto. Al più, qualora l’istanza di autotutela si riveli ex post fondata - poiché il provvedimento de quo è giudizialmente annullato -, allora il privato può essere riconosciuto come titolare del diritto al risarcimento dei danni, che sono promanati dal fatto di essersi dovuto egli attivare nel giudizio amministrativo, a fronte dell’inerzia della P.A. sulla istanza di revisione. (Consta giurisprudenza civile, sul punto, nella materia fiscale, laddove l’amministrazione finanziaria è stata condannata - con conferma in Cassazione - a rifondere al contribuente le spese di giudizio sostenute per adire la commissione tributaria, mentre l’istanza di autotutela - ex art. 5 d.m. n. 37 dell’11 febbraio 1997 - pendeva senza risposta alcuna). Si diceva, poco più sopra, di un privilegio dell’amministrazione poiché, assai diversamente, in diritto privato vige il principio giusta il quale non ci si può fare giustizia da sé, né si può retrocedere de plano su atti e deliberazioni tamquam non esset, cioè senza il consenso di controparte. Isolati e tipici, infatti, sono nel sistema civilistico i casi di autotutela, per lo più denominati diritti potestativi, giacché implicano specularmente una soggezione. Emblematici in tal senso sono il recesso dal contratto di durata, l’exceptio inadimpleti contractus, l’esercizio della clausola risolutiva espressa. Che se poi si pongono in comparazione l’autotutela della P.A. e il contratto - in una sorta di endiadi tra “pubblico” e “privato” -, si suole ancora distinguere, con un linguaggio a volte criticato in dottrina, fra autotutela esterna (al negozio appunto) ed interna. La prima s’impone sul contratto, stipulato dall’amministrazione, e lo intacca a mezzo dell’esercizio del potere autoritativo (la potestà funzionalizzata, direbbe una dottrina classica), che appartiene fisiologicamente alla P.A.. Di contro, l’autotutela interna, ancorché sia parimenti esercitata - incidendo sul contratto - dal soggetto pubblico paciscente, si attua jure privatorum, cioè in forza di norme attributive di potestà paritetiche alla controparte privata: dunque potestà non autoritative. 2. Esternalità del provvedimento di secondo grado: a) il problema della incidenza sul contratto tra legge finanziaria 2005 ed art. 21-nonies, legge 241/90 ex lege 15/2005. Giurisdizione: rinvio. Esiste un micro-plesso di norme, contemplative dell’autotutela esterna. Tra queste, scarsa o nessuna attenzione - per vero incomprensibilmente - riceve in dottrina l’art. 1, comma 136, legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Finanziaria 2005). A mente di esso - del tutto in vigore -, onde perseguire “risparmi o minori CONTRIBUTI DI DOTTRINA 309 oneri finanziari” la P.A. può sempre disporre annullamento d’ufficio di provvedimenti illegittimi, quand’anche la loro esecuzione sia in atto. Se - aggiunge la prescrizione - detto annullamento intacca rapporti contrattuali (o “convenzionali”), l’amministrazione deve indennizzare i privati per il pregiudizio patrimoniale che promana dall’autotutela (e peraltro si dà un termine massimo, in ogni caso, di tre anni dalla data d’efficacia provvedimentale, onde potersi procedere a un siffatto provvedimento di secondo grado). Al riguardo, si notano all’essenza due aspetti di non poco momento. Anzitutto il presupposto dell’intervento pubblicistico non è ivi indicato nell’assenza di risorse adeguate (ché detta assenza, per giurisprudenza costante, legittima in re ipsa l’autotutela), bensì nella ricerca del risparmio. Ciò apre un panorama di possibilità enorme, giacché a ben vedere è sufficiente che la P.A. s’imponga un obiettivo di minori oneri finanziari, onde potere provvedere in secondo grado. Qui, evidentemente, la decisione di opportunità di ridurre costi, o comunque di risparmiare, assurge ex lege, in capo alla P.A., a “ragione d’interesse pubblico”, ex norma generale di cui all’art. 21-nonies, legge n. 241/1990 (ciò sebbene la formula attuale di detto articolo promani dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15, di poco tempo ma posteriore alla Finanziaria di cui sopra). Il secondo aspetto da lumeggiare, in ordine all’art. 1(136) legge 311/2004, è la previsione, in esso contemplata, dell’indennizzo a beneficio del privato, intaccato in un contratto (o convenzione-accordo) per effetto del decisum amministrativo di secondo grado. Qui siamo al nucleo dell’autotutela esterna, cioè proprio all’incidenza dell’intervento revocatorio della P.A. su di un già esistente contratto di diritto privato (od accordo “ibrido” pubblico/privato). Gli è che però, a ben vedere, nel (sopravvenuto) art. 21-nonies nulla si contempla - a differenza che per la revoca ex art. 21-quinquies - in punto d’indennizzo. Ond’è che insorge un serio quesito di coordinamento fra la norma speciale anteriore e quella generale (se pur di poco) posteriore. Dottrina ha lamentato una infelice mancanza di modifica della disposizione della Finanziaria dopo che, di lì a poche settimane, fu introdotta una prescrizione generale di diversa indole quoad indemnitatem. Se non che codeste lagnanze de jure condendo a poco conducono in ermeneutica, giacché il problema resta e deve essere risolto, in qualche modo, dall’interprete. Atteso che - come rilevato - la norma contemplativa dell’indennizzo è per un verso successiva e per altro verso generale, si assiste a una collisione tra due canoni ermeneutici: quello, cioè, per cui lex posterior derogat priori (in base al quale l’indennizzo non sarebbe dovuto ex lege 241 successiva), e di contro quello per cui lex specialis derogat generali (giusta il quale l’indennizzo spetterebbe invece al contraente, ex Finanziaria espressiva di norma chiaramente speciale). Tale nodo interpretativo aggrava a fortiori, sotto più di un risvolto, il ricorrente silenzio dottrinale - in tema di autotutela esterna - 310 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 circa l’art. 1, comma 136, legge 30 dicembre 2004, n. 311 (quasi che questo fosse stato abrogato dalla modifica del 2005 all’art. 21-nonies su citato; cosa invece impensabile, poiché la legge successiva generale non cancella affatto quella anteriore speciale). La soluzione più equilibrata sembra quella di (ri-)qualificare, alla luce della norma posteriore, lo “annullamento” di cui alla Finanziaria come revoca. Sì che la la contraddizione di cui sopra si elide e rimane soltanto l’ampio spazio discrezionale, di cui pure si è detto. E per il vero le questioni aperte non si arrestano qui. Ché se è vero - come è vero - che il comma de quo dell’art. 1 della Finanziaria 2005 afferisce ad annullamenti officiosi che vanno ad “incidere” su contratti già stipulati fra privati e pubbliche amministrazioni, non possono trarsi corollari de plano in ordine alle sorti dei contratti stessi. O meglio, se in specie il contratto è sussumibile (siccome incluso od escluso, ma non estraneo) sotto il codice De Lise, è bensì vero che, per ipotesi, l’atto rilevante interviene quando la fase pubblicistica dell’assegnazione si è già conclusa, e per converso è già iniziata quella privatistico-contrattuale. Pur tuttavia, per un verso è ben nota la giurisdizione esclusiva ex art. 133, c. 1, lett. e) n. 1) c.p.a., ma per altro verso - anche se la procedura di aggiudicazione è finita - resta da vedere quale sia la sorte patologica del contratto, atteso che l’art. 121 c.p.a., con la sua prescritta “inefficacia” contrattuale, si riferisce all’annullamento giudiziale dell’aggiudicazione, e non già all’annullamento officioso di un atto della procedura di evidenza pubblica post stipula del contratto. Su questo punto metterà conto di ritornare oltre. 3. (Segue): b) revoca ed annullamento dell’aggiudicazione, ante contratto o prima del suo controllo. L’art. 11 del codice contratti pubblici - in tutto centrale nella disciplina sezionale - contiene al suo interno un comma 9 che, in punto di autotutela amministrativa, è reputato essere, quanto meno da una parte degli interpreti, foriero di corollari di non poco momento. Ed invero ivi è stabilito che, se la stipulazione del contratto non avviene entro il termine fissato, allora l’aggiudicatario può sciogliersi da ogni vincolo. Ora non vi è chi non veda come, da un siffatto disposto, può inferirsi che l’aggiudicazione siccome tale non costituisce accettazione di una presunta offerta formulata con la domanda di partecipazione alla gara. Ciò è, del resto, evincibile ex comma 7 dello stesso art. 9 cod. contr.; e peraltro, sulla scorta di questo argomento, non è un caso che parte della dottrina escluda che il bando costituisca, civilisticamente, un invito a offrire. E se l’aggiudicazione non accetta proposta di sorta, al momento dell’aggiudicazione - ergo ante negotium - ci si colloca ancora nel procedimento pubblicistico. Sì che non sembra essere ancora insorto un obbligo di stipulare in capo al soggetto aggiudicatore, tant’è CONTRIBUTI DI DOTTRINA 311 che se la P.A. rimane inerte dopo l’aggiudicazione, e non stipula il contratto, è peregrino affermare che l’aggiudicatario possa agire ex art. 2932 c.c. Si registrano, invero, arresti di Cassazione assertivi della giurisdizione ordinaria su cotali domande, proposte ex art. 2932; ma in primo luogo la giurisdizione è una cosa e la fondatezza della domanda nel merito un’altra; in secondo luogo la tesi dell’obbligo “a concludere un contratto” non appare coonestabile in diritto amministrativo. E siccome, appunto, non vi è quest’obbligo - e si è ancora, prima della stipula, nell’alveo del potere autoritativo -, tale potere non è coartabile con gli strumenti civilistici. Non solo, ma il periodo successivo del comma 9 dell’art. 11 cod. contr. pubbl., detta la regola per cui, se l’aggiudicatario - non invitato a contrarre - si scioglie dai vincoli come detto sopra, non gli spetta indennizzo di sorta, ma soltanto la rifusione della spesa (documentata) per la partecipazione alla gara. Il che, quanto meno in un angolo ermeneutico, sembra evocare l’interesse negativo della responsabilità pre-contrattuale, per recesso ingiustificato dalle trattative, siccome tale aquiliana. Questa lettura, però, è messa in crisi da un recente revirement – già molto discusso - della Cassazione a sezione semplice (autunno 2011), giusta il quale la responsabilità pre-contrattuale non è (più) da reputarsi aquiliana (come da diritto vivente pregresso), bensì contrattuale, ed in specie da contatto sociale qualificato. Sicché bisogna, in questa prospettiva, pensare piuttosto alla violazione dell’affidamento inculcato e alla (violazione della) buona fede oggettiva; epperò il diniego finanche dell’indennizzo (di cui al citato art. 11, comma 9, codice De Lise) risulta essere in controtendenza rispetto agli artt. 1218 e 1223 c.c. (arg. ex artt. 1175 e 1375 c.c.). Si potrebbe, al più, eventualmente sostenere che l’inerzia del soggetto aggiudicatore possa fare scattare l’art. 31 c.p.a., dacché sussiste termine per la conclusione del contratto dopo l’aggiudicazione, che è quello di cui al 1° periodo dell’art. 11, comma 9, cod. contr. Se non che codesto, più che un “termine per la conclusione del procedimento amministrativo”, ex art. 31 c.p.a., pare piuttosto un termine endo-procedimentale, interno all’iter di assegnazione/ evidenza pubblica. E, del resto, non va dimenticato che, nel 1° periodo del comma 9 dell’art. 11, sono esplicitamente fatti salvi i casi di autotutela (sull’aggiudicazione), capaci a quanto pare di mettere da parte il termine ivi previsto. Sì che sembra doversi concludere che l’aggiudicatario, il quale subisca un’autotutela inficiante l’aggiudicazione prima della stipula del contratto - od a fortiori assista all’inerzia della stazione nel procedere a stipulazione -, nulla possa lamentare. Al più gli spetterà una rifusione delle spese sostenute per partecipare alla gara. Quanto al giudice competente per la condanna alla rifusione di queste ultime, non sembrano esservi dubbi nel senso di trattarsi - in via esclusiva - del g.a. (ex art. 133 c.p.a., punto ult. cit.), atteso che la fase privatistica post-sti- 312 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 pulatoria non soltanto non esiste ancora, ma proprio della sua assenza - e del suo solo corollario - si discetta. Orbene il ragionamento sin qui condotto, prima di conchiudersi, deve ancora confrontarsi con un dato letterale normativo, dal quale non può prescindersi in un tale contesto. Ancora osservando l’art. 11, comma 9, 2° periodo, codice De Lise, ci si avvede del fatto che ivi non è soltanto contemplato lo “scioglimento da ogni vincolo” dell’aggiudicatario - post aggiudicazione e ante contratto -, bensì anche il “recesso dal contratto”. Tale ipotesi si riferisce chiaramente alla seconda branca del periodo ipotetico d’inizio comma, laddove si legge: “se il controllo di cui all’art. 12, comma 3, non avviene nel termine previsto”. Il rinvio va all’approvazione eventuale del contratto da parte dell’organo gerarchico o comunque preposto. Sì che, sulla scorta di questo dato, va desunto che, all’aggiudicatario, compete soltanto il suddetto rimborso-spese per la gara, anche nel caso in cui il contratto sia stato stipulato sì, ma non debitamente controllato/approvato. Qui, in termini di giurisdizione, il clivage tra procedura di aggiudicazione e fase privatistica post stipula è più problematico, dacché stipula vi è bensì stata, e tuttavia manca un apposito atto pubblicistico (il controllo/l’approvazione), che è integrativo della efficacia della fattispecie negoziale. Sì che, in termini di giurisdizione, sul fatto se il controllo è negativo oppure semplicemente non giunge nel tempo, si può dibattere enfatizzando l’uno piuttosto che l’altro aspetto dei due versanti. Peraltro, almeno secondo parte della dottrina, la norma va letta (ancora) non soltanto come facente riferimento alla inerzia e all’assimilato controllo negativo, ma anche come inerente all’ipotesi di annullamento in autotutela dell’aggiudicazione, ancora argomentando dall’inciso del 1° periodo dello stesso comma 9 dell’art. 11 ( “fatto salvo l’eventuale esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti”). 4. (Segue): c) l’autotutela post contratto e controllo. L’autotutela non conosce, di regola, termini di esercizio, stante la piena discrezionalità che la contraddistingue (sull’an, il quando, il quomodo). Sì che essa può andare a invalidare gara ed aggiudicazione anche dopo che il contratto è stato stipulato. Ciò accade in prassi quando, per esempio, nonostante il disposto di cui al comma 8° dell’art. 11 cod. contratti, il soggetto aggiudicatore stipula il contratto con il primo classificato prima di avere ultimato la verifica del possesso dei requisiti richiesti. Sicché poi, o d’ufficio o su istanza di una parte interessata, la stazione appaltante si avvede dell’assenza di uno o più dei requisiti stessi; ergo accerta di avere stipulato il contratto in assenza di talune condizioni, ed interviene in autotutela annullatoria. In un siffatto contesto una prima questione che si pone attiene ai profili CONTRIBUTI DI DOTTRINA 313 di responsabilità della P.A. La negligenza di essa vìola il chiaro disposto della legge, epperò si è in presenza di un’agere (“a monte” del contratto) illegittimo, rispetto al quale si profila l’applicazione dell’art. 30 cpv. c.p.a. Con qualche complicazione, invero, se il ritardo nella verifica dei requisiti è dipeso da altre amministrazioni, come nel caso in cui il fisco abbia tardato nel fornire dati e notizie rilevanti, ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. g), cod. contr. Altro caso è quello del D.U.R.C. tardivo. Altra fattispecie di possibile responsabilità del soggetto aggiudicatore, che interviene in autotutela sulla gara dopo la stipula del contratto, è stata divisata in giurisprudenza sotto l’aspetto della violazione dell’affidamento dell’aggiudicatario. Se, cioè, quest’ultimo ha avuto modo di confidare in buona fede nella prosecuzione dell’appalto già in executivis, la successiva autotutela esterna, motivata da sopravvenute ragioni di pubblico interesse (e.g. risorse finanziarie insufficienti), è stata considerata dai giudici originativa di un obbligo di risarcimento del danno. È un danno, questo, che interviene durante la fase esecutiva del contratto (non cioè prima della stipula), e che pertanto può ricondursi a responsabilità contrattuale - o da contatto sociale qualificato -, sostanzialmente per violazione dell’art. 1375 c.c. Vi è da registrare, comunque, un difficile coordinamento fra questo genere di arresti giurisprudenziali e l’art. 1, comma 136, citato sopra al par. 2: questo infatti, proprio nel caso di autotutela per problemi finanziari, fa menzione di un indennizzo e non di un risarcimento. Vi è da sottolineare, peraltro, lo iato rispetto a una norma di diritto comune qual è l’art. 1671 c.c., ove si menziona bensì un “tenere indenne”, ma poi si prevede la corresponsione di tutto il mancato guadagno. Altra è la questione che attiene alle sorti giuridiche del contratto a seguito dell’autotutela esterna dopo la stipula. Qui si registra un divario di posizioni dottrinali le quali, partendo dal concetto per cui con l’autotuela viene meno la risalente legittimazione a contrarre, pervengono a corollari diversi, che dalla inefficacia vanno alla nullità o all’annullabilità. Al riguardo, è bensì vero che il contratto stipulato da persona priva della capacità di agire è annullabile ex art. 1425 cpv. c.c.. Però è anche vero che ivi si presuppone che il vizio del contratto stia nel sinallagma genetico, mentre nella ipotesi in esame esso interviene sul sinallagma funzionale, cioè in executivis. Lo stesso argomento critico vale per la nullità di cui all’art. 1418 c.c., le cui cause non sopravvengono nella fase esecutiva, ma esistono all’atto della posizione in essere del negozio. Sì che, in questa prospettiva, la figura della inefficacia pare la più consona, atteso che, accanto ai casi di relatività soggettiva della inattitudine a produrre effetti, la inefficacia stessa contraddistingue proprio nel sistema - secondo una tesi ricostruttiva - situazioni di patologia sopravvenuta. A coonestare l’assunto in parola, del resto, si pongono gli artt. 121 s. c.p.a., i quali - al termine di una lunga diatriba dottrinale e giurisprudenziale sul punto - hanno optato espressamente per la inefficacia, nella ipotesi 314 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 di annullamento dell’aggiudicazione da parte del giudice. Non mancano, inoltre, talune incertezze interpretative sul versante del riparto giurisdizionale. Ché si discute qui di casi di revoca od annullamento dell’aggiudicazione sì, ma post stipulationem. Ond’è che l’essere entro la fase privatistica - e non più concorsuale - evoca in sé il giudice ordinario, con il conforto letterale della norma sulla giurisdizione esclusiva in materia appaltizia (art. 133, comma 1°, lett. e n. 1, c.p.a., facente riferimento alle “procedure di affidamento di lavori pubblici”). Ed in effetti la Corte di Cassazione si è posta, anche di recente, lungo questa linea direttrice, ritenendo che incomba al g.o. di giudicare sulla legittimità o meno dell’autotutela post-contrattuale, e d’inferirne la sussistenza o meno, nel singolo caso, di patologie contrattuali derivate. Di queste, detto altrimenti, deve occuparsi l’a.g.o., siccome giudice del rapporto privatistico. Diversamente, però, ha argomentato il Consiglio di Stato in un recente arresto. Quivi è stata affermata la giurisdizione del g.a., poiché - si è detto in buona sostanza - al centro della vicenda vi è l’esercizio di un pubblico potere; ed inoltre - si è aggiunto -, se l’autotutela esterna risulta essere stata legittimamente esercitata (cosa che solo il g.a. è chiamato a stabilire perché iudex della potestà autoritativa), sul piano negoziale s’invera una caducazione automatica del contratto. Tale caducazione ipso jure, in una siffatta prospettiva ermeneutica, è sostanzialmente la conseguenza materiale dell’esercizio del pubblico potere; sì che il giudice amministrativo può rilevare la conseguenza stessa in fatto, senza sostituirsi al giudice delle patologie dei contratti privatistici, che rimane il g.o. 5. L’intervento pubblico revisionale “dall’interno” del contratto. In tema di autotutela c.d. interna (definizione questa cui si obietta che, in verità, non si è in presenza di autotutela di sorta), si può iniziare con il rilevare che, certo, essa si riferisce a scelte e atti della P.A., i quali vanno a incidere sullo svolgimento di contratti già in essere. E lo fanno jure privatorum, epperò in posizione paritetica della P.A. rispetto al privato. È d’altronde anche vero che, come parte della dottrina perspicuamente osserva, non può mai esistere autentica pariteticità tra l’amministrazione e l’amministrato. Ché la P.A. deve orientare ogni sua scelta, non soltanto provvedimentale, al perseguimento del pubblico interesse; sì che anche quanto, jure privatorum, quella esercita un diritto potestativo nascente da contratto, lo fa anzitutto a seguito di un atto deliberativo interno di natura pubblicistica (da parte dell’organo o dell’ufficio competente), e comunque lo fa poiché nel predetto deliberare ha contemperato l’interesse pubblico primario con quelli secondari e quelli privati coinvolti. Di contro, il soggetto privato decide nel suo foro interno, e tendenzialmente lo fa per il proprio interesse (anche nelle donazioni - si osserva - vi è la ricerca di un qualche “ritorno benefico”, almeno CONTRIBUTI DI DOTTRINA 315 sul piano socio-morale o religioso). In questo contesto il comma 1-bis dell’art. 1 del codice procedimentale, inserito ex lege 15/2005, al di là del suo peculiare iter nei lavori preparatori finisce con l’attestare non tanto una scontatezza, quanto piuttosto la tendenziale capacità di diritto privato della pubblica amministrazione. Capacità che, funditus, non è affatto scontata. Non lo è se è vero che, ancora nel 2011, l’Adunanza Plenaria del Supremo Consesso ha dovuto precisare che, per esempio, un pubblico ateneo non ha la stessa capacità di un qualsivoglia privato; sì che non può decidere di costituire una società commerciale non strumentale, destinata alla ricerca del lucro entro il mercato concorrenziale. Ecco che dunque, in primo luogo, quando si considera l’autotutela interna si deve presupporre che il relativo atto sia contemplato, per legge o per contratto, nella sfera di capacità di diritto privato della P.A. Dopodiché l’art. 21-sexies legge 241/90 - non a caso introdotto in uno con il comma 1-bis dell’art. 1 - è la disposizione di legge la quale, per antonomasia, focalizza l’autotutela interna. Interposto, infatti, fra la revoca di cui all’art. 21-quinquies e l’annullamento di cui all’art. 21-nonies, l’art. 21-sexies disciplina un diritto potestativo emblematico nella materia privatistica dei contratti, cioè il recesso unilaterale. La disciplina che ne sortisce, per i contratti stipulati dalla P.A. anche al termine di una procedura di evidenza pubblica, è alquanto significativa: l’amministrazione non può, invocando il principio dell’autotutela - quindi il suo privilegio pubblicistico di riesame -, recedere sempre e comunque dai contratti stipulati. Essa deve, piuttosto, stare alle clausole pattizie del singolo contratto - che invero possono, ex art. 1322, contemplare ipotesi di recesso o generalizzarne la potestà di esercizio -, e deve altresì osservare la legge, atteso che questa a sua volta contempla talune facoltà di recesso per i paciscenti (artt. 1373, 1537 cpv., 2437 c.c., ecc.). Accanto al recesso, vi sono poi altri diritti soggettivi, contemplati dalla legge o dal contratto, onde permettere alla parte di rivedere la situazione negoziale e retrocedere - per così dire - rispetto ad essa. Si pensi all’esercizio di una clausola risolutiva espressa, alla risoluzione per inadempimento, o per impossibilità/ eccessiva onerosità sopravvenuta, ovvero alla clausola ex art. 1382. Qui non si pongono peculiari problemi giurisdizionali di riparto, giacché il giudice competente sul contratto è quello ordinario, il quale di regola non deve indagare i motivi - di scelta giuspubblicistica - che stanno a monte dell’esercizio della potestà privatistica (o comunque del diritto contrattuale esercitato). Piuttosto, come se avesse di fronte a sé due parti private, il g.o. è chiamato a decidere sulla sussistenza o meno dei presupposti civilistici per l’esercizio stesso. Ci si può domandare se la controparte, che subisce l’iniziativa della P.A., possa mettere in discussione i predetti motivi pubblici in una qualche sede 316 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 giurisdizionale, mettendo in discussione la scelta fatta dall’amministrazione sul piano della cura dell’interesse cui essa è preposta. Per lo più si tratta di scelte di merito/opportunità, come tali non sindacabili (fatta eccezione per i giudizi amministrativi anche di merito). Ma non può esludersi la sussistenza di un provvedimento, assunto a monte dell’intervento “nel contratto”, suscettibile di essere impugnato con fondamento avanti al g.a. Con il corollario logico- giuridico per cui, se poi il provvedimento stesso è annullato dal T.A.R. (e/o dal C.d.S.), l’esercizio della potestà o del diritto negoziale subisce una patologia derivata, poiché ne viene meno la base fondativa. Il che rievoca la questione del caducamento automatico, di qui si è detto sopra al par. 4. Oppure - ed anche questo è un aspetto già evocato in precedenza (v. par. prec.) - può darsi che il privato metta in discussione, alla radice, la capacità della P.A. di assumere quella determinata scelta negoziale. Il che richiama l’arresto dell’Adunanza Plenaria sull’ateneo, che aveva costituito una società commerciale solo per operare concorrenzialmente sul mercato e fare utili. Ivi, sul piano del riparto, il Supremo Consesso ha ravvisato la competenza del giudice ordinario per accertare la eventuale patologia riflessa degli atti societari. Al contempo però - mette conto di sottolinearlo -, sulla incapacità giuridico-decisoria dell’ente pubblico a una siffata intrapresa, il Consiglio di Stato, nell’esame della questione pregiudiziale di giurisdizione, si è reputato del tutto competente. Ed ha infatti annullato la delibera dell’ateneo, donde poi è nata la società in oggetto. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 317 Diritto, pensiero ed interruzione del sentiero Federico Maria Giuliani,LL.M.* SOMMARIO: 1. I nostri Prolegomeni erano positivamente conchiusi. Necessità dell’apertura, tra negatività dialettica ed ermeneutica – 2. Tecnica e fondamento, ermeneutica e potenza in diritto – 3. Relativismo e nichilismo giuridici, come trasposizione di categorie dell’essere in quelle del dover-essere. Gius-positivismo moderato e formalismo misto – 4. Superamento dell’antinomia tradizionale tra gius-positivismo e gius-naturalismo. Il realismo neo-costituzionalista – 5. Per un fallibilismo positivista nel metodo. L’interrompersi del cammino. 1. I nostri Prolegomeni erano positivamente conchiusi. Necessità dell’apertura, tra negatività dialettica ed ermeneutica. Passa via questa vita, braccata da ius. Esso, tracimando ovunque, manca solamente in eros. A volte invade anche quest’andito, e l’implosione trionfa. Sicché verrebbe da titolare questo scritto, parafrasando Codignola e Vittorio Gassman sul teatro: les méfaits du droit. Ovvero: fa male, il diritto. Troppo corrivi i nostri Prolegomeni (1): meditazioni pseudo-concilianti, sull’onda di un hegelismo di maniera, tale per cui ogni tensione era composta nel movimento, da ciò sortendo un’armonia reperita, metodologicamente, da prima. Ma viene da chiedersi: quale armonia poteva essere quella, se è vero che - come perspicuamente lumeggiato - «il diritto, se valutato in termini di diritto e di obliquo, rivela una natura decisamente obliqua»? (2). In questa prospettiva astigmatica, cioè, jus diventa zoppa negatività esistente. Né ha rilevanza il fatto che, se del caso, l’obliquità riguardi la positività del diritto, anziché la sua essenza. Non rileva poiché, ad ogni buon conto, se «obliquo» è il contenuto (il diritto), dritto non può essere nemmeno il contenente, cioè la coscienza dell’homo iuris. Questa è malleabile per sua natura, rispetto al percepito/vissuto; e perciò ne risente, per forza di cose. Di tutto ciò i Prolegomeni nulla dicevano, appartenendo ad altre primavere. Erano troppo ontici, per dirla con Heidegger. E nessuna traccia, in essi, vi era di una coscienza storica - per dirla invece con Gentile. Si pensi, per esempio, alla mancanza di presa di cognizione dell’abbrutimento culturale italiano che - pasolinianamente - rovina giù, a partire dalla fine del mondo contadino. Si dirà che tutto questo non ha a che fare col diritto. (*) Saggista giuridico. Avvocato del libero Foro (Milano) e cassazionista. (1) F.M. GIULIANI, Diritto e pensiero (Prolegomeni), in Contr. impr., 2008, p. 335, passim. (2) GALGANO, Tutto il rovescio del diritto, Milano, 2007, p. 17. 318 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 Invece non è così (3). Già proprio Pasolini, riflettendo sul suo teatro <>, aveva a cuore che in platea presenziasse la figura-tipo dell’avvocato colto, esponente dei gruppi avanzati della borghesia. Ed un giurista critico contemporaneo, per nulla scevro dal tecnicismo giuridico, lamenta anche il dominio dell’homo iuris iper-specializzato (4). È, dunque, nelle pieghe di una negatività irrisolta, che il fenomeno del diritto deve essere ripensato, dopo quei Prolegomeni e le loro intemperanze d’immaturità. 2. Tecnica e fondamento, ermeneutica e potenza in diritto. Il dominio della tecnica, anche in diritto, trova in Italia il suo allarme in un illustre Giurista Filosofo (5), che ha dialogato molto con Emanuele Severino. Ma, premesso l’abbrutimento del dominio della tecnica nel giure, esistono, a parere di chi scrive, due questioni primarie, strettamente connesse fra loro: a) il tema del fondamento (Grund) del diritto, poiché nel parlare dell’imbarbarimento mette conto di capire che cosa rovina, esattamente, al fondo; b) dipoi la questione ermeneutica, perché a seconda della soluzione del tema dell’interpretazione, si (pro)pone (implicitamente) un fondamento di diversa fattura. Non è un caso che - per esempio - sul formalismo giuridico (6), si è autorevolmente osservato che a esso è sotteso un larvato senso morale sub-giuridico - ancorché, paradossalmente, proprio il formalismo predichi l’esatto opposto. Sì che l’ipotizzato senso morale consiste, secondo questa opinione, in quel che segue: l’assoluta univocità di soluzioni, proposta dai formalisti (almeno “puri”), è propria di settori alieni al diritto. Detto altrimenti, il rigido formalismo giuridico interpretativo finisce con l’introdurre un’assolutezza acconcia ad altre discipline del sapere, laddove invece è proprio il formalismo a concepire il diritto come una sfera del tutto autonoma. Il che rappresenta un’auto-contraddizione, contraria al “principio firmissimo” (7). Rispetto alla visione formalistica, si può pensare dunque al diritto come a un linguaggio segnico/semantico, cui occorre accostarsi con dialettica critico- ermeneutica. Esiste, ancora, un filone di pensiero il quale, del diritto, enfatizza il tratto (3) Cfr. BALDASSARRE, Se si «politicizza» la costituzione, in A.A.V.V., Costituzione: una riforma sbagliata, a cura di BASSANINI, Firenze, 2004, p. 38. (4) G. ROSSI, Perché filosofia, Milano, 2008, p. 13 ss. (5) IRTI, Nichilismo giuridico, Bari, 2004. (6) DWORKIN, Law’s Empire, Cambridge Mass., 1985, p. 45 s.; DENOZZA, La struttura dell’interpretazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1995, p. 6 s. (7) Sulle critiche al formalismo nei termini su accennati, vedi GUASTINO, Realismo e antirealismo nella teoria dell’interpretazione, in Ragion pratica, 2001, p. 44; BARBERIS, Filosofia del diritto. Un’introduzione teorica, Torino, 2005, p. 221 ss.; LUZZATTI, La politica della legalità. Il ruolo del giurista nell’età contemporanea, Bologna, 2005, p. 283 ss. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 319 di forza/potenza/procedura (8). Certo taluno può osservare che la forza (bìa) è la modalità, con la quale il diritto si (im)pone, aggiungendo che però una cosa diversa continua a essere il Grund fondante di tale (im)posizione. Se, cioè, per fondamento del diritto s’intende ad esempio l’esigenza di una convivenza sociale, il necessario imporsi di quello con atti di potenza non sposta il fondamento stesso. Quest’ultima notazione rischia di essere fragile. Perché l’interrogarsi sul fondamento di qualche cosa implica la domanda sul senso del fondato. E se si scopre che quel “qualche cosa” promana da forza/potenza, il suo senso/la sua essenza non può non risentirne. Troppo facile, cioè, sarebbe dire che così è perché così non può non essere. Sarebbe come mescolare finalità ed essenza. E fare tautologie. 3. Relativismo e nichilismo giuridici, come trasposizione di categorie dell’essere in quelle del dover-essere. Gius-positivismo moderato e formalismo misto. Si ha l’impressione che l’idea del diritto, quale forza/potenza, si accompagni bensì al gius-positivismo, piuttosto che al gius-naturalismo. Ma questo abbinamento rischia di essere corrivo. Piuttosto, sembra che ciò che s’impone di forza sia piuttosto un legame tra diritto e relativismo giuridico. Di questo, come noto, le origini storiche sono antichissime, risalendo ai Sofisti (9). Rispetto, però, al gius-relativismo (classico) spazio-temporale, si segnala un tentativo contemporaneo di superamento storico, il quale va alla ricerca di una giuridica «universalità ritrovata» (10). Tale ultimo spunto possiede un suo lustro per più d’una ragione. Anzitutto, da esso spira una ventata d’ossigeno sotto la cappa di un clima di riflessione contorta che, viceversa, rischia di farsi sterilmente greve. In secondo luogo, il relativismo come tale è categoria concettuale che attiene all’essere (all’ontologia), e non già al dover-essere (alla de-ontologia). Sì che che la trasposizione di quello dall’una sfera all’altra lascia alquanto perplessi (11). Da segnalare, in aggiunta, è l’opinione secondo cui l’anti-relativismo giu- (8) M.A. CATTANEO, Diritto e forza. Un delicato confronto, Padova, 2005, passim. Ma, già in passato, si consulti per tutti PASCAL, I pensieri, trad. it. B. NACCI, Milano, 1994, pp. 22, 28, 31 s.; BENJAMIN, Angelus Novus, trad. it., Torino, 1995, p. 9 ss.; SCHIMITT, Le categorie del ‘politico’, trad. it., Bologna, 1984, p. 37 ss. (9) Cfr. UNTERSTEINER, I sofisti, Milano, 1996, passim. (10) GALGANO, La globalizzazione nello specchio del diritto, Bologna, 2005, passim. (11) Per una nota critica al relativismo in generale, vedi ovviamente RATZINGER, Europa. I suoi fondamenti, Cinisello Balsamo, 2004, passim; ID., Europa, relativismo. Islam, Cinisello Balsamo, 1985, p. 89 ss.; ID. - PERA, Senza radici, Milano, 2004, p. 116. Contra, però, si consulti per esempio AA.VV., Il bello del relativismo. Quel che resta della filosofia nel XXI secolo, a cura di AMBROSI, Venezia, 2005, passim e spec. a p. 23 (ove si riprende un’opinione puntualmente espressa, sul tema, da Massimo Cacciari). 320 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 ridico difficilmente si staccherebbe dal gius-naturalismo (12). Quanto ai possibili eccessi - su di un altro versante - del gius-positivismo, già da tempo una chiara dottrina ne aveva preso le distanze (13). Così, attenuando gli accenti enfatici del gius-positivismo teorico (cd. ideologico), quella scuola di pensiero faceva (e può ancora oggi fare) emergere un gius-positivismo metodologico. In questa prospettiva il problema ermeneutico taglia trasversalmente il vetusto binomio «naturalismo/positivismo», approdando all’idea della plurisignificanza della norma. La quale idea non è affatto agli antipodi del giusformalismo cd. misto (14). 4. Superamento dell’antinomia tradizionale tra gius-positivismo e gius-naturalismo. Il realismo neo-costituzionalista. Non è un caso che si sia, di recente, asserita con agudeza l’obsolescenza della dicotomia tra gius-naturalismo e gius-positivismo (15). Nuovi correnti di pensiero spingono in avanti da tempo, se pure in direzioni diseguali. Il riferimento va in particolare al gius-realismo e al neo-costituzionalismo. Il secondo, sul tema della ermeneutica giuridica, si esprime in termini molto rigidi: <>. E ciò propone assumendo anche la denominazione di formalismo interpretativo in senso stretto. Si è già ricordato, d’altronde (16), il formarsi di una proposizione più attenuata - la cd. mista - del formalismo stesso. Tuttavia, oltre a quanto appena notato sui possibili legami (ancorché impliciti) tra formalismo e gius-naturalismo (17), gli è che, secondo i neo-costituzionalisti statunitensi, esiste un legame necessario tra diritto e morale, in particolare negli studi costituzionali. Di modo che il <> - con un approccio di oggettivismo etico - non è, in un questa prospettiva, <>; ciò nonostante l’indecifrabilità oggettiva di ogni singola regola morale. Sì che l’antinomia naturalismo/positivismo vacilla oltremodo, quando per esempio i neo-costituzionalisti statunitensi da un lato appaiono in linea sì col gius-naturalismo - poiché affermano la bastevolezza, in sé e per sé, della norma giuridica -; ma dall’altro lato sembrano attingere al gius-positivismo, quando affermano l’unicità della soluzione ermeneutica della norma stessa (18). (12) PASSERIN D’ENTREVES, La dottrina del diritto naturale, Milano, 1980, passim. (13) BOBBIO, Il positivismo giuridico, Torino, 1979, passim – ripreso poi, adesivamente, da BARBERIS, op. cit., p. 15 ss. (14) BARBERIS, op. cit., p. 17. (15) G. ROSSI, op. cit., passim. (16) Supra, par. 2. Adde, a modo proprio, DENOZZA, L’interpretazione delle norme tra scetticismo e «pluralismo cognitivo», in Materiali per una storia della cultura giuridica, 2007, n. 2, p. 1 ss. (17) V., supra, par. 2. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 321 Quanto al ricordato gius-realismo (anch’esso di derivazione nordamericana, oltre che scandinava), è bensì vero che esso si propone come anti-formalista (19). Tuttavia, particolarmente nel filone nordeuropeo, questa impostazione è radicalmente anti-positivistica. Si pensi a quando essa sostiene che la norma, di per sé stessa, costituisce vuota formula, insuscettibile di essere interpretata senza il decisivo apporto soggettivo - e persino emotivo - dell’interprete (20). Se dunque il formalismo possiede tratti - impliciti o espliciti - di connessione al gius-naturalismo, sembra di scorgere una certa quale bi-polarità del realismo rispetto all’antinomia classica tra naturalismo e positivismo giuridici. Il che, in qualche modo, rievoca ciò che abbiamo visto accadere nel neocostituzionalismo. Nondimeno, appare piuttosto arduo leggere l’antipositivismo realista in ottica squisitamente naturalista. E ciò conferma, ancora una volta, il superamento - o quanto meno la sfumatura dogmatica - del tradizionale dualismo tra natura e positività. Non è un caso che, come già ricordato, rispetto a quell’antinomia classica siano state introdotte distinzioni e sotto-classi (o sotto-categorie) già da tempo, con una relativa (nel senso di non assoluta) adesione o meno a esse; a seconda dei singoli punti e casi, con un approccio abilmente segmentato (21). 5. Per un fallibilismo positivista nel metodo. L’interrompersi del cammino. Osservava un abile scrittore che, di una vera e propria critica del diritto, finisce con il non occuparsi né il diritto stesso, né la filosofia del diritto. Il primo perché non tollera deviazioni dalle regole positive; la seconda perché è attenta al fenomeno in generale, piuttosto che ai suoi fondamenti e alla loro estrinsecazione positiva (22). Che il diritto non “si pensi” - direbbe lo Heidegger - era persino rilevato nei nostri Prolegomeni (il che è tutto dire). D’altra parte, c’è da stupirsene assai poco, perché concepire il diritto come fatto e fenomeno, è già un negare la filosofia del diritto (23). Ed è altersì vero che l’homo iuris, congestionato nel solo diritto dato(si) positivamente, s’invera come Dasein amputato, dis-tratto da ogni questione sul senso (24). Sì che, se si è consci di una crisi della giuridicità (25) - e se si è sensibili (18) BARBERIS, op. cit., p. 8 – 48. (19) Fra gli altri, vedi LLEWELLYN, Jurisprudence. Realism in Theory and Pratice, Chicago, 1962, pp. 42 – 76. (20) HAEGERSTROEM, Inquires into the Nature of Law and Moral, Uppsala, 1953, passim. (21) Acutamente - e dialetticamente - BOBBIO, op. cit., pp. 279 - 285. (22) Paolo ROSSI, La pena di morte. Scetticismo e dogmatismo, Milano, 1978, p. 33 s. (23) Autorevolmente GENTILE, I fondamenti della filosofia del diritto, Roma, 1923, p. 8. (24) Ancora GENTILE, La filosofia dell’arte, Firenze, 2003, p. 5; cui adde DEL VECCHIO, Lezioni di filosofia del diritto, III ed., Roma, 1936, p. 119. (25) La quale - secondo P. ROSSI, op. cit., p. 41 ss. - risalirebbe, in Italia, al tardo-storicismo e al crocianesimo. 322 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 a un certo gius-relativismo (sempre che questo sia una categoria adatta al dover-essere) (26) -, si avverte il rischio dell’insorgere di un’idea del diritto come mera <>. Nozione, questa, la cui paternità nazionale è contesa tra Gentile e Tilgher. Ma il decadentismo spengleriano e, particolarmente, la nicciana morte di dio - con il connesso “pensiero debole” postmoderno - non conducono di necessità a un gius-positivismo ideologico - checché ne pensino taluni, sedicenti e isolati, epigoni odierni dello stesso Spengler (privi di rigore veruno). Ben vengano, allora, il fallibilismo e il popperismo, e l’idea della verità come metodo (stante l’impossibilità - in diritto - dell’esperimento empirico). Ben venga una laicità che rifiuta l’irruzione ecclesiale nel diritto statuale. Nel contempo, però, si presti anche attenzione (e ciò vale contro i nostri Prolegomeni) a non scivolare nel gius-nichilismo di maniera. Questo, non a caso, è denunziato con brillio da Severino ed Irti: e in nessun modo da essi abbracciato. Si può, cioè, essere pacatamente gius-relativisti (nei limiti, e alle condizioni, di cui sopra), non aderendo al formalismo estremo, ed essere nel contempo sensibili all’urgenza del non-abbandono al Nulla. Non vi è contraddizione tra l’essere gius-positivisti temperati e gius-relativisti pacati. Si è positivisti, perché non si ammette che il diritto sia inquinato da altro, anche se nel tema ermeneutico si ammette la pluri-significanza della norma. Si è, al contempo, relativisti, perché il diritto muta spazio-temporalmente; ed è anzitutto forza della parola, del concetto, del dettato. Messa così da parte l’insensatezza propria del nichilismo - cioè l’alienazione estrema di ciò che, di per sé, non può darsi -, la questione della verità giuridica diventa una critica fallibilista senza fine. Nient’affatto irrazionale, così come non accade in scienza empirica (27), perché non si ha in mente un sofisma, ma una ermeneutica in senso filosofico. Al fondo sta, comunque, la moltitudine - spinozo-mazziniana più che marxiana -, ad auto-legittimare la forza, con cui le norme s’impongono e sono imposte. Può essere che, proprio da questa forza, possano trarsi altri spunti, contrari all’alienazione di tecnica e consumo. In questo quadro, il contesto prettamente critico - che fu dei nostri Prolegomeni con quella finale (assai conciliante) “armonia reperita” - da una parte non è incompatibile col gius-positivismo fallibilista, e dall’altro lato lascia im- (26) V., supra, par. 3. (27) Cfr. PERELMAN, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, trad. it., Torino, 1966, p. 536. Che se poi, per avventura, un ipotetico contraddittore opinasse che così si scivola verso l’affabulazione incontrollata (cfr. Filippo GALLO, L’interpretazione del diritto è ‘affabulazione’?, LED ed., s.l. ma Torino, 2005, passim), allora va ricordato (proprio sulle orme del Perelman) che la lezione sulla possibilità di contraddire proviene, in età moderna, dallo Hegel, con il cui pensiero a quel punto bisogna misurarsi (cfr., infatti, AA.VV., Hegel e il nichilismo, a cura di MICHELINI e MORANI, Milano, 2003, passim). CONTRIBUTI DI DOTTRINA 323 mutata una certà inanità esistentiva, ribadendo però un progetto esistenziale. Questo, allo stato dell’arte dei Prolegomeni, era semplice tentativo di compenetrazione tra l’ontico e l’ontologico. Non si dà però ancora, ad oggi, una fuoriuscita netta, cioè il conseguimento del positivo logico-ontologico. È, cioè, questo un sentiero tuttora “spezzato”. 324 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 Riflessi applicativi della confisca per equivalente nei reati tributari: un istituto ancora in via di definizione Giulio Luciani* SOMMARIO: 1. L’introduzione della confisca per equivalente nel diritto penale tributario. – 2. Rapporti tra confisca e misure cautelari reali: la funzione del sequestro “per equivalente”. – 3. La confiscabilità del patrimonio dell’ente collettivo all’interno e al di fuori del sistema di responsabilità ex d.lgs. 231/2001. – 4. La costituzione di parte civile dell’Agenzia delle Entrate: individuazione del danno “ex delicto”. – 5. (segue) Sequestro e confisca di valore pari all’imposta evasa esautorano il ruolo della parte civile? 1. L’introduzione della confisca per equivalente nel diritto penale tributario. A partire dal 2008 è stato introdotto nell’ambito dei reati tributari lo strumento della confisca per equivalente, misura di sicurezza patrimoniale volta a colpire non quei determinati beni che costituiscano profitto o prezzo dell’attività criminosa, bensì il tantundem del vantaggio conseguito (1). La tipologia di confisca in esame è stata già sperimentata dal legislatore in altre categorie di fattispecie incriminatrici, con finalità di volta in volta diverse perché connaturate a distinte forme di tutela penale (2). Al fine di delineare il perimetro di operatività e le ricadute applicative della confisca per equivalente in materia tributaria – istituto che in tale settore può ancora considerarsi ad uno stadio embrionale di sviluppo dottrinale e giurisprudenziale – occorre, anzitutto, individuare la funzione rivestita in generale dalla misura confiscatoria. La dottrina non è mai approdata ad una soluzione univoca sulla natura di tale provvedimento, che altro non è se non una espropriazione a favore dello Stato di cose a vario titolo ricollegabili ad un reato (3). Si è tentato di qualificarla come una pena accessoria o una sanzione sui generis, poiché si discosterebbe quanto a presupposti dalle misure di sicurezza, alle quali è stata invece ricondotta dalla volontà legislativa – dato l’inserimento nel titolo VII del libro I del codice penale, rubricato appunto “misure di sicurezza”. Se (*) Ammesso alla pratica forense presso l’Avvocatura dello Stato. Dottorando di ricerca in Diritto penale presso l’Università degli Studi “Roma Tre”. (1) L’art. 1, comma 143 della L. 24 dicembre 2007, n. 244 (Finanziaria 2008) ha esteso ai reati tributari le disposizioni di cui all’art. 322-ter del codice penale (che prevede la confisca per equivalente nei delitti contro la p.a.), con ciò estendendo alla materia fiscale, altresì, l’istituto del “sequestro per equivalente”, prodromico e strumentale all’omonima forma di confisca. (2) Si vedano, oltre all’art. 322-ter c.p. per i delitti contro la p.a., l’art. 644 c.p. in materia di usura, l’art. 640-quater c.p. per alcune ipotesi di truffa e l’art. 600-septies c.p. per i delitti di prostituzione minorile e pedopornografia. (3) Si legge nella Relazione al progetto definitivo del codice penale che le cose confiscabili «provenendo da fatti illeciti penali o in altra guisa collegandosi alla loro esecuzione, manterrebbero viva l’idea e l’attrattiva del reato». CONTRIBUTI DI DOTTRINA 325 sono, infatti, innegabili i profili di prevenzione insiti nella confisca, tuttavia non viene assunto quale suo presupposto la pericolosità del soggetto, bensì la pericolosità della cosa oggetto di ablazione (4). La dottrina ha, invece, ritenuto che tale pericolosità debba intendersi in relazione al soggetto agente, poiché la cosa in sé non reca danno ma può costituire incentivo per il reo, qualora continui a disporne, a commettere nuovi illeciti (5). Si può, pertanto, accogliere la riconduzione della confisca in forma specifica alle misure di sicurezza, in quanto provvedimento di carattere general-preventivo fondato su una valutazione di pericolosità lato sensu, ma non si può negare che l’ablazione, soprattutto nella forma “per equivalente”, abbia anche una portata afflittiva. Rispetto alla confisca generale disciplinata dall’art. 240 c.p. che, mirando a colpire “cose che servirono o furono destinate a commettere il reato” e “cose che ne sono il prodotto o il profitto”, persegue finalità specialpreventive collegate alla pericolosità del bene confiscato, la misura “per equivalente” di cui all’art. 322-ter c.p., estesa ai reati tributari, prescinde del tutto da qualsiasi nesso di pertinenzialità della cosa con l’illecito commesso. Venuto meno tale legame, l’unico in grado di qualificare la confisca per equivalente come misura di sicurezza in senso stretto, se ne deve riconoscere il carattere sanzionatorio e la finalità repressiva, posto che, secondo una definizione ormai consolidata in giurisprudenza, essa costituisce una «forma di prelievo pubblico a compensazione di prelievi illeciti» (6). Ammessa la sua natura sanzionatoria, non può nemmeno parlarsi, però, di una pena principale o accessoria – date le incompatibilità di struttura ed effetti – ma può intendersi, anche se impropriamente, come un tertium genus di sanzione tra le misure di sicurezza e le pene (7). L’indagine sulla natura della confisca “di valore”, se meramente preventiva o anche retributiva-repressiva, si riflette immediatamente sull’applica- (4) Così evidenzia F. MANTOVANI, Diritto Penale, Padova, 2007, p. 782. (5) Per questa interpretazione, ampiamente condivisa, si veda M. MASSA, voce Confisca, in Enc. dir., Milano, 1961, p. 983. Dettagliatamente sulla c.d. teorica della “pericolosità della cosa” si veda M. TRAPANI, voce Confisca: II) diritto penale, in Enc. giur. Treccani, vol. VIII, 1988, p. 1. (6) Interpretazione fatta propria da Cass. pen., SS.UU., 22 novembre 2005, n. 41936 e più volte ripresa dalla stessa giurisprudenza di legittimità e seguita da quella di merito. (7) Rileva correttamente F. MAZZACUVA, Confisca per equivalente come sanzione penale: verso un nuovo statuto garantistico, in Cass. pen., 2009, p. 3417, come la confisca “di valore” sia sovrapponibile nel contenuto alla pena pecuniaria, data l’inflizione di una sofferenza patrimoniale, ma non richieda una commisurazione in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p. (dovendosi esclusivamente calcolare in funzione di un valore connesso al fatto commesso), né possa configurarsi autonomamente in quanto è strutturalmente “accessoria” alle sanzioni di cui all’art. 17 c.p., le uniche che qualificano il fatto come reato. Neppure può, però, accostarsi tale confisca alle pene accessorie stricto sensu, dato che la “operatività di diritto” di queste ultime non coincide con la “obbligatorietà” della confisca (che è pur sempre rimessa alla determinazione esplicita del giudice). Diversamente, si riconosce natura di pena principale alla confisca per equivalente nel sistema ex d.lgs. 231 del 2001, che non dà luogo, però, a responsabilità penale, bensì ad un’ibrida forma di responsabilità amministrativa da reato. 326 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 zione o meno delle garanzie legalitarie, in particolare del principio di irretroattività. Le misure di sicurezza non sono, infatti, coperte dal divieto di applicazione retroattiva (art. 25, comma 3° Cost. e art. 200 c.p.), perciò l’introduzione della confisca per equivalente in campo tributario, ove se ne ammettesse la pura funzione special-preventiva e dunque la natura di misura di sicurezza, potrebbe trovare applicazione anche rispetto ai reati fiscali di cui al d.lgs. n. 74 del 2000 commessi anteriormente all’entrata in vigore della legge. La Corte di Cassazione ha, però, statuito l’irretroattività della disposizione, ribadendo la funzione afflittiva della confisca per equivalente e richiamando, pertanto, l’art. 2 c.p. che, nel disciplinare la successione delle leggi penali nel tempo, dà attuazione alla garanzia di irretroattività (art. 25, co. II Cost.) e fa salva la ratio di certezza del diritto (8). È piuttosto agevole comprendere quale sia stato l’intento che ha mosso il legislatore nell’estendere la disciplina della confisca per equivalente al settore tributario, cioè la presa d’atto della difficile azionabilità dello strumento fornito originariamente dal codice penale all’art. 240. Secondo questo modello confiscatorio, infatti, il vantaggio conseguito dal reo deve individuarsi come collegato all’attività criminosa da un nesso di pertinenzialità e, una volta accertato, deve essere appreso nella forma specifica in cui si sia concretizzato. Tutt’altra cosa è espropriare il tantundem di quel vantaggio, cioè una somma di denaro del patrimonio del soggetto agente di pari valore rispetto al suo illecito arricchimento. Maggiori garanzie di successo nell’apprensione che, pur tradendo finalità che oltrepassano la mera prevenzione avuta di mira dall’art. 240 c.p., sono sembrate al legislatore come imprescindibili nel settore dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione – da cui l’introduzione dell’art. 322-ter c.p. – e poi in altre fattispecie incriminatrici, tra cui quelle tributarie. Il limite applicativo della confisca in forma specifica è, infatti, duplice: da un lato, nell’imperniarsi sul “nesso di pertinenzialità” tra profitto confiscato ed attività del reo, impone al giudice di provare e motivare la diretta derivazione causale della cosa dal (8) Così, ex multis, Cass. pen., sez. III, 20 ottobre 2008, n. 39172. Con tale presa di posizione, ribadita dalla Corte Costituzionale nell’ordinanza n. 97 emessa il 22 aprile 2009, si è arginato il rischio di un’applicazione della confisca per equivalente anche ai reati tributari commessi prima del 1° gennaio 2008 (data di entrata in vigore della L. n. 244/2007) – applicazione retroattiva che alcuni giudici di merito avevano tentato di sostenere – richiamando sia un’espressa previsione della L. n. 300/2000 (attuativa della Convenzione OCSE del 17 dicembre 1997 sulla lotta alla corruzione dei pubblici ufficiali), che nell’introdurre l’art. 322-ter ne sanciva l’irretroattività, sia la natura repressiva della confisca per equivalente. Sostiene, infatti, la Corte di legittimità che l’ablazione del patrimonio del reo in proporzione corrispondente all’arricchimento conseguente al delitto sia una misura sostanzialmente sanzionatoria e afflittiva, del tutto distinta dalla confisca di cui all’art. 240 c.p. Anche la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo ha escluso l’applicabilità retroattiva di una forma di confisca per equivalente, perché in contrasto con i princìpi espressi dall’art. 7 CEDU (nella parte in cui dispone che «non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso»), confermandone la natura sanzionatoria (Sent. n. 307A/1995, Welch v. Regno Unito). CONTRIBUTI DI DOTTRINA 327 reato (9); dall’altro, mirando a colpire il conseguimento di un bene economico aggiuntivo rispetto al patrimonio del colpevole, sfuggono alla sua presa tutti i vantaggi che si siano conseguiti sotto forma di risparmio dei beni già posseduti. Tali aspetti propri della confisca ordinaria costituivano un ostacolo invalicabile proprio in materia tributaria, posto che il provento tratto dal reato fiscale si sostanzia prevalentamente in un risparmio d’imposta (cioè in un minus di costi sostenuti dovuto al mancato o inesatto versamento fiscale o ad un rimborso non spettante). L’individuazione ex post nel patrimonio del reo dei beni che avessero costituito prezzo o profitto del reato risultava pressocché impossibile, dato che questi coincidevano con beni già posseduti, dunque confusi nel patrimonio complessivo o reinvestiti (10). Il riconoscimento normativo della confiscabilità del tantundem del risparmio d’imposta conservato dall’evasore è stato, pertanto, indispensabile e fortemente atteso dagli organi giudiziari per uscire dal fastidioso impasse in cui si era arenata l’applicazione della confisca ai trasgressori degli obblighi tributari penalmente rilevanti. Difatti, finchè fosse rimasto fermo il limite della pertinenzialità del denaro con l’attività criminosa, sarebbe stato del tutto arbitrario sequestrare il patrimonio di qualsiasi soggetto indiziato di illeciti fiscali facendo ricorso a “collegamenti esclusivamente congetturali”(11), dato che il contribuente indagato poteva opporre sempre la derivazione delle somme confiscate da attività commerciale lecita. 2. Rapporti tra confisca e misure cautelari reali: la funzione del sequestro “per equivalente”. La predisposizione di un nuovo strumento volto ad espropriare “somme equivalenti” al profitto illecitamente conseguito ha prodotto conseguenze inevitabili sulle misure cautelari reali, dato il ruolo anticipatorio che esse possono assumere rispetto alla confisca. In linea generale il decreto di sequestro preventivo (sia nella forma in senso stretto ex art. 321, co. I c.p.p., sia in quella speciale finalizzata alla confisca di cui ai commi II e II-bis) può confluire direttamente nella confisca, determinando la definitività dell’espropriazione. Tale convergenza è sicuramente agevolata dalla medesima modalità di esecuzione del sequestro preventivo e della misura confiscatoria, cioè l’apprensione materiale del bene (denaro o altra cosa che abbia costituito profitto (9) Sull’interpretazione rigorosa del “nesso di pertinenzialità” richiesto dalla confisca ex art. 240 c.p., la giurisprudenza ha avuto modo di soffermarsi in diverse occasioni, tra cui Cass. pen., sez. IV, 5 aprile 2005, n. 21703, affermando il dovere del giudice di «dar conto con puntuale motivazione della particolare e diretta correlazione tra la cosa e il reato, in base alla quale viene espresso il giudizio di pericolosità derivante dal mantenimento della cosa medesima nella disponibilità del reo». (10) Chiaro è sul punto L. DELLA RAGIONE, La confisca per equivalente nel diritto penale tributario, in Dir. pen. cont. (www.dirittopenalecontemporaneo.it, 13 novembre 2010). (11) Cfr. Cass. pen., SS.UU., 9 luglio 2004, n. 29951. 328 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 o prezzo del reato) e la sua acquisizione al patrimonio pubblico (12): una volta intervenuto l’ordine di confisca, il bene viene alienato o distrutto, se non ne è prevista altra specifica destinazione – come l’assegnazione diretta ad enti pubblici. Quale sia la ricaduta applicativa della confisca per equivalente sulle misure cautelari si comprende chiaramente ove si prenda in considerazione il c.d. sequestro preventivo finalizzato alla confisca, strumento conosciuto dal codice di rito e che costituisce l’esempio immediato della consequenzialità che può esistere tra misura cautelare reale e misura di sicurezza patrimoniale. La disciplina del sequestro ai fini della confisca è piuttosto scarna poiché, nella sostanza, si è di fronte ad un sequestro preventivo e ciò che muta rispetto alla sua tipologia base sono parzialmente i presupposti. Infatti, fermo restando il fumus delicti, non sembra direttamente richiesto dalla norma il periculum (13), essendo sufficiente e necessario che il bene oggetto di sequestro sia confiscabile (così l’art. 321, co. II e II-bis c.p.p.). Questa tipologia di sequestro, in parte autonoma rispetto alla forma preventiva in senso stretto e a quella conservativa, in parte riconducibile per volontà legislativa alla prima delle due, a seguito dell’introduzione della confisca per equivalente ha subìto due importanti innovazioni: anzitutto non è più soltanto facoltativa, cioè rimessa alla scelta discrezionale del giudice, ma, ove finalizzata proprio alla confisca del tantundem, diviene obbligatoria (così secondo il comma II-bis dell’art. 321 c.p.p.) (14); inoltre, dovendo assumere inevitabilmente i caratteri della misura di confisca che mira ad anticipare, se non è possibile l’acquisizione in forma specifica dei beni che abbiano costituito profitto o prezzo del reato, il sequestro colpirà il valore corrispondente a tale provento, svincolandosi dal principio della pertinenza della cosa all’illecito e della sua pericolosità. Si parla, dunque, di un sequestro “per equivalente” obbligatorio, ogniqualvolta si debbano produrre in chiave preventiva gli effetti di un successivo ordine di confisca, anch’essa per equivalente. Di fronte al riconoscimento normativo di tale forma di sequestro – seppur avvenuto in modo implicito attraverso la tecnica del rinvio, all’interno del co- (12) Si deve tener presente che le modalità di esecuzione del sequestro – formulate in via originaria come acquisizione diretta al patrimonio pubblico (vecchio art. 104 disp. att. c.p.p.) – sono state modificate dal c.d. “pacchetto sicurezza” L. n. 94/2007. L’art. 104 novellato accosta l’attuazione del sequestro preventivo alle modalità esecutive previste dal c.p.c. (pignoramento in primis), al fine di rendere conoscibile per i terzi l’esistenza di un vincolo sul bene. (13) Periculum costituito nel sequestro preventivo in senso stretto dalla possibilità che «la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati» (art. 321, co. I c.p.p.). (14) Facoltativo era e rimane il sequestro ai fini di confisca previsto dal II co. dell’art. 321 c.p.p., in base al quale «il giudice può altresì disporre il sequestro delle cose di cui è consentita la confisca». Stabilisce, invece, il comma II-bis, introdotto nel 2001, che «nel corso del procedimento penale relativo ai delitti previsti dal capo I del titolo II del libro secondo del codice penale < cioè l’ambito applicativo originario della confisca per equivalente ex art. 322-ter c.p. > il giudice dispone il sequestro dei beni di cui è consentita la confisca». CONTRIBUTI DI DOTTRINA 329 dice processuale, all’art. 322-ter del codice penale – meritano di essere esaminati due importanti aspetti, che sono stati dibattuti in dottrina ed in giurisprudenza senza arrivare ad un’unanime soluzione interpretativa. Innanzi tutto, ci si deve interrogare sulla possibilità che il sequestro per equivalente venga disposto anche in funzione conservativa o se sia esclusivamente da ricondursi alla disciplina ed alla natura proprie del sequestro preventivo. Alcuni Autori hanno, infatti, sostenuto che la nuova misura cautelare reale sarebbe da assimilare al sequestro conservativo (di cui agli artt. 316 e ss. c.p.p.), piuttosto che a quello preventivo, poiché tende al recupero dell’arricchimento illecito attraverso la sua apprensione coatta. Questa interpretazione, rimasta minoritaria, ha fatto perno sulla funzione conservativa che rivestirebbe il sequestro per equivalente, poiché esso finisce per costituire una garanzia patrimoniale per la successiva esecuzione della confisca (15). Ciò attraverso una lettura che potrebbe definirsi elastica della formula “ogni altra somma dovuta all’erario dello Stato”, contenuta nell’elenco di crediti pubblicistici e civilistici a garanzie dei quali può chiedersi il sequestro conservativo (art. 316 c.p.p.) (16). Se si fa rientrare sotto tale categoria residuale anche la somma che si presume dovuta a titolo di confisca per equivalente, potendosi questa per certi versi accostare nel contenuto ad una pena pecuniaria, allora il sequestro disposto a tal fine acquista una funzione conservativa – ferma restando la legittimazione del pubblico ministero a richiederlo, in quanto si tratta di credito pubblicistico, e non della parte civile costituitasi per il danno ex delicto (sebbene persona offesa e danneggiata sia, di norma, lo Stato, ed in particolare, in materia di reati tributari, l’Agenzia delle Entrate). Quale che sia la funzione in concreto svolta dal sequestro per equivalente, ciò che ci porta ad escludere di esser di fronte ad una misura cautelare conservativa sono numerosi argomenti testuali, a partire dalla collocazione topografica data dal legislatore, cioè il suo inserimento nella norma che disciplina il sequestro preventivo (art. 321 c.p.p.). Sono, tuttavia, le differenze strutturali e procedurali tra le due forme principali di sequestro ad impedire che possa (15) Rileva A. BARGI, La rarefazione delle garanzie costituzionali nella disciplina della confisca per equivalente, in GI, 2009, p. 2073, come definire preventivo il sequestro ai fini della confisca per equivalente sia una “truffa delle etichette”, che nasconde un mezzo di garanzia patrimoniale dietro le sembianze di una misura cautelare preventiva. Per ulteriori argomenti a favore di questa tesi minoritaria, cfr. F. VERGINE, Confisca e sequestro per equivalente, Milano, 2009, pp. 248 e ss., secondo il quale «la confisca di valore […] consistendo in un prelievo pubblico a compensazione del prelievo illecito, sembra condividere la tipica natura restitutoria-compensativa delle obbligazioni garantite dal sequestro conservativo». (16) Secondo l’art. 316 c.p.p. la parte civile può chiedere la misura conservativa a garanzia delle obbligazioni civili derivanti dal reato. Sono, invece, crediti pubblicistici – che legittimano il p.m. a chiedere il sequestro conservativo – la pena pecuniaria (multa e ammenda), le spese di procedimento ed ogni altra somma dovuta all’erario dello Stato: in quest’ultima formula rientrerebbero, secondo Cass. pen., sez. III, 11 giugno 2004, n. 38710, i c.d. crediti “endoprocessuali”, cioè i crediti che nascono direttamente a favore dello Stato-ordinamento per effetto dell’esercizio della giurisdizione penale, dovendosi escludere, invece, i crediti dello Stato per imposta, interessi o altre sanzioni non penali. 330 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 parlarsi di una natura ibrida per il sequestro per equivalente, nonostante si sia sporadicamente affermato in giurisprudenza che la comune natura cautelare consentirebbe di estendere in via analogica la disciplina del sequestro preventivo a quello conservativo e viceversa (17). Si tratta di differenze non di poco conto, dal momento che la misura cautelare conservativa ex art. 316 c.p.p. può essere disposta solo dopo l’esercizio dell’azione penale ed è sempre facoltativa, mentre il sequestro preventivo viene richiesto anche nella fase procedimentale delle indagini preliminari ed è obbligatorio quando finalizzato alla confisca di valore (comma II-bis art. 321 c.p.p.). Non si deve, altresì, dimenticare che il sequestro conservativo si esegue attraverso il pignoramento, con soddisfacimento, in via privilegiata, dei crediti garantiti sul prezzo del ricavato della vendita dei beni; mentre confisca e sequestro preventivo sono accomunati dalla medesima modalità attuativa, cioè consistono nell’acquisizione diretta del bene o denaro al patrimonio pubblico (18). Tale sequestro per equivalente, se proprio gli si vuole riconoscere un’autonomia rispetto a quello preventivo puro e a quello conservativo, si caratterizza per l’essere strettamente funzionale ad anticipare la misura ablatoria della confisca senza né prevenire il pericolo che potrebbe derivare dalla permanenza del bene nella disponibilità del reo, né volerne costituire una garanzia patrimoniale. Resta ferma, però, l’applicabilità in toto della disciplina del sequestro preventivo di cui agli artt. 321 e ss. c.p.p., nel rispetto della volontà legislativa. Altra questione afferente ma da tenersi distinta rispetto al sequestro per equivalente ai fini della confisca, è l’eventualità che l’Amministrazione finanziaria, purché costituitasi parte civile, intenda chiedere il sequestro conservativo dei beni dell’imputato per la tutela dei propri crediti (imposta, interessi e sanzioni), dimostrando fumus boni iuris e periculum in mora, posto che l’eventuale richiesta di misura cautelare conservativa da parte del pubblico ministero non giova direttamente alla tutela del credito dell’Agenzia delle Entrate (19). Per giurisprudenza consolidata la misura di cautela preventiva può concorrere con il sequestro conservativo disposto a garanzia delle somme vantate dalla (17) Cfr. Cass. pen., sez. VI, 30 maggio 1994, in CED n. 199079. (18) Ferma restando la riforma delle modalità esecutive del sequestro preventivo (si veda infra nota 12), che tuttavia non scalfisce la ratio storica del legislatore che aveva distinto sotto il profilo attuativo questa forma di sequestro da quello conservativo, riconducendo interamente il secondo al pignoramento secondo il rito civilistico. (19) Si veda L. IMPERATO, Misure cautelative per la tutela dei crediti erariali, in Atti del convegno “Frodi Iva: analisi del fenomeno e adeguatezza degli interventi di contrasto”- Genova 1 dicembre 2005 (http://liguria.agenziaentrate.it). Pur coincidendo, di fatto, il valore sequestrato ai fini della confisca per equivalente con l’evasione d’imposta (a cui mira, in primissima istanza, l’Agenzia delle Entrate costituitasi parte civile), si evidenzia come la richiesta da parte dell’Amministrazione finanziaria di una misura cautelare conservativa possa rivelarsi un efficace strumento di tutela da adottare prima che si concluda la procedura di verifica ed emissione degli atti di cui all’art. 22 del d.lgs. 472/1997 (contestazione e/o irrogazione della sanzione), qualora il procedimento penale risulti più “immediato” e rapido rispetto a quello amministrativo di verifica, nonostante la provvisorietà degli effetti della misura cautelare. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 331 parte civile, avendo le due misure finalità e modalità di esecuzione diverse, perciò è senz’altro ammissibile la coesistenza dei due tipi di sequestro sugli stessi beni (20). Un secondo aspetto che merita di essere esaminato ed attiene al sequestro per equivalente è costituito dai diversi effetti che questo e l’omonima forma di confisca producono in ipotesi di concorso di persone nel reato. Si pensi, proprio in materia tributaria, a tutti i casi in cui la condotta illecita del contribuente sia stata in vari modi “istigata” dal consulente fiscale attraverso la prospettazione di meccanismi e stratagemmi di evasione d’imposta. Occorre preliminarmente stabilire se e quali limiti incontri la confisca di valore in capo a ciascun concorrente, valutandone poi i rapporti con la misura cautelare corrispondente. La giurisprudenza della Cassazione, pur non avendo assunto un’univoca posizione sul punto, si è pronunciata prevalentemente a favore di una tesi che estenda il quantum confiscabile ad ogni soggetto che abbia concorso nel reato prescindendo da divisioni pro quota, cioè dal valutare l’effettivo incameramento del profitto da parte di uno piuttosto che di un altro imputato. Secondo tale indirizzo, infatti, troverebbe applicazione il principio “solidaristico” sotteso alla disciplina del concorso di persone, in base al quale tutte le conseguenze sanzionatorie sono imputate per intero a ciascun compartecipe. La somma confiscabile incontrerebbe l’unico limite della commisurazione al provento illecitamente conseguito, mentre l'eventuale riparto tra i concorrenti costituirebbe mero fatto interno a questi ultimi privo di rilevanza penale (21). Un opposto orientamento minoritario ritiene, invece, che la natura intrinsecamente sanzionatoria della confisca imponga di limitare l’espropriazione al valore che sia effettivamente entrato nel patrimonio di ciascun correo, ciò anche in applicazione di fondamentali principi in materia penale, tra cui quello della responsabilità personale (22). Procedendo a rigor di logica, le stesse interpretazioni formulate in materia di confisca dovrebbero estendersi, mutatis mutandis, al sequestro per equivalente, in quanto anticipatorio e funzionale alla successiva misura di sicurezza obbligatoria; si riscontrano, tuttavia, pronunce volte a distinguere i margini applicativi delle due forme (20) Si veda, da ultimo, Cass. pen. Sez. III, 21 giugno 2006, n. 21491. (21) Cfr. Cass. pen., sez. fer., 28 luglio 2009, n. 33409, in cui si afferma che la confisca deve essere ricollegata «non all’arricchimento personale di ciascun correo, ma alla corresponsabilità di tutti nella commissione dell’illecito». Conforme, Cass. pen., sez. II, 21 febbraio 2007, n. 9786. Recentemente, ha ribadito l’operatività del principio solidaristico in ambito concorsuale Cass. pen., sez. II, 31 maggio 2012, n. 20976. (22) A favore di una confisca rigorosamente pro quota, nel rispetto degli artt. 3 e 27 Cost., si è espressa Cass. pen., sez. VI, 20 febbraio 2009, n. 10690. Difatti, la pena deve essere proporzionata alla gravità del fatto, assegnandosi al giudice il potere-dovere di commisurare la gravità della sanzione alla responsabilità del reo. Ricorda correttamente S. CAPOLUPO, Estesa ai reati fiscali la confisca per equivalente, in Il Fisco, 2008, p. 592, come l’incidenza del grado di partecipazione concorsuale sia confermata dall’art. 114 c.p. (che consente una diminuzione della pena per i contributi di minima importanza). 332 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 espropriative proprio in base alle diverse esigenze che realizzano, ancorando la sola confisca al limite della quota di ciascun concorrente e consentendo un’estensione indifferenziata del sequestro a tutti i compartecipi (23). 3. La confiscabilità del patrimonio dell’ente collettivo all’interno e al di fuori del sistema di responsabilità ex d.lgs. n. 231/2001. Il legislatore del 2001, tenendo presente la cospicua entità dei vantaggi patrimoniali illeciti conseguibili da una società, ha espressamente introdotto nel sistema di responsabilità amministrativa da reato degli enti la confisca dei profitti derivanti da attività criminosa, riconoscendone la veste e funzione di sanzione principale piuttosto che di misura di sicurezza (art. 9 d.lgs. 231/2001) (24). Hanno trovato, pertanto, una chiara e sintetica disciplina normativa sia lo strumento confiscatorio, in forma specifica e per equivalente, all’art. 19 del d.lgs. 231/2001, sia il sequestro disposto ai fini della confisca all’art. 53 – la cui rubrica “sequestro preventivo” non lascia alcun margine di dubbio sulla natura attribuita alla misura cautelare dal legislatore (25). Alla volontà legislativa di neutralizzare ed espropriare il vantaggio economico illecito conseguito dalle persone giuridiche non corrisponde, tuttavia, un intento parimenti esplicito di colpire l’ente in materia penal-tributaria. In dottrina è oggetto di forti critiche, infatti, la mancanza di coordinamento tra l’estensione della confisca per equivalente ai reati fiscali (mediante la Finanziaria 2008) e l’esclusione dei reati tributari dall’elenco di fattispecie che costituiscono presupposti per la responsabilità degli enti ex d.lgs. 231/2001, quasi che si tratti di una svista del legislatore piuttosto che di una sua scelta consapevole (26). (23) Così Cass. pen., sez. II, 20 settembre 2007, n. 38599, in cui si afferma che la provvisorietà del sequestro e la sua natura cautelare ne consentono una reiterazione – cioè la richiedibilità dell’intero importo ai singoli concorrenti – in modo da garantire l'effettiva confisca anche ove uno solo degli imputati o indagati sia poi riconosciuto colpevole. Mentre la moltiplicazione della confisca (provvedimento destinato alla definitività) si tradurrebbe in un’inammissibile ed illegittima eccedenza nel recupero del vantaggio illecito. Conformemente, cfr. Cass. pen., sez. VI, 28 gennaio 2009, n. 5401 e Cass. pen., sez. V, 24 gennaio 2011, n. 13277. (24) La norma descrive uno schema quadripartito di sanzioni per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato: sanzione pecuniaria, sanzioni interdittive, confisca e pubblicazione della sentenza. Cfr. anche infra nota 7. (25) Peraltro, l’art. 53 d.lgs. 231/2001 rinvia, per il funzionamento della misura cautelare ivi prevista, proprio alla disciplina dettata dal c.p.p. per il sequestro preventivo (art. 321 e ss.). (26) L. DELLA RAGIONE, La confisca per equivalente nel diritto penale tributario, cit., evidenzia la contraddizione tra rafforzamento repressivo nei confronti della persona fisica che abbia commesso un reato tributario e mancato allargamento dei reati-presupposto proprio a tali fattispecie. Sono, infatti, le società e gli enti in genere che producono maggiori ricchezze e possono, nella veste di contribuenti, evadere ingenti somme d’imposta. La responsabilità penale individuale – cioè quella che colpisce il rappresentante legale della persona giuridica – non riesce ad incidere sulle dinamiche di mercato improntate a pratiche illegali nella stessa misura in cui può farlo un’azione repressiva diretta al patrimonio sociale e all’attività d’impresa. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 333 È questo un problema di forte attualità, che sta continuando a far discutere sia nelle aule giudiziarie che nelle fucine del diritto in un’ottica de iure condendo; capire se la commissione di uno dei reati tributari disciplinati nel d.lgs. 74/2000, ove avvenga nell’interesse o a vantaggio dell’ente, possa legittimare un ordine di confisca per equivalente solo nei confronti del soggetto apicale o subordinato che ne sia penalmente responsabile o piuttosto nei confronti dell’ente e del suo patrimonio. La questione può risolversi solo in via interpretativa, dal momento che le istanze riformistiche portate avanti dalla c.d. Commissione Greco non hanno trovato una risposta positiva per quanto riguarda proprio l’estensione dell’elenco dei reati-presupposto del d.lgs. 231/2001 alle fattispecie tributarie (27). Un primo motivo ostativo a tale estensione applicativa del modello di responsabilità degli enti potrebbe rinvenirsi nel ritenere la persona giuridica soggetto “estraneo al reato”, il che costituirebbe un limite all’applicazione dell’istituto della confisca per equivalente ex art. 322-ter c.p. Ma trattasi di argomento debole e poco condivisibile se si pensa al fatto che il reato tributario, pur riconducibile materialmente ad un amministratore della società, di fatto ha prodotto un profitto, in termini di risparmio, di cui si avvantaggia principalmente l’ente stesso. Una tesi più convincente – che è a fondamento della continua esclusione dei reati fiscali dalle numerose novelle intervenute sul d.lgs. 231/2001 – sottolinea, invece, l’esistenza già di una duplice risposta dell’ordinamento a fronte di un reato tributario commesso a vantaggio dell’ente: la sanzione penale nei confronti della persona fisica, autore diretto dell’illecito, e la sanzione tributaria nei confronti dell’ente (attraverso il combinato disposto degli artt. 11, co. I del d.lgs. 472/1997 e 19, co. II del d.lgs. 74/2000) (28). Il sistema sarebbe, secondo questa impostazione, già completo e autosufficiente, punendo il trasgressore del precetto penale con la sanzione comminata dalla norma incriminatrice e privando l’ente di qualsiasi vantaggio economico derivante dall’evasione tributaria – quest’ultimo deve corrispondere all’Erario, una volta accertata in sede tributaria la sua responsabilità, sia le somme non versate (compresi gli interessi) che un ulteriore importo a titolo (27) I lavori della c.d. Commissione Greco, terminati pochi anni fa, proponevano l’inserimento nel decreto 231/2001 di una serie di illeciti penali, in particolare alcuni previsti dal Testo Unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (T.U.F.) e dal Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (T.U.B.) e quelli tributari disciplinati dal d.lgs. 74/2000. Da ultimo sono stati qualificati come reati-presupposto della responsabilità amministrativa degli enti i reati ambientali (art. 25- undecies d.lgs. 231/2001), ma gli illeciti fiscali ancora non figurano nel decreto in questione (recentemente non ha trovato accoglimento l’emendamento al ddl del d.l. n.16/2012, convertito in L. n. 44/2012, che proponeva l’inserimento di un art. 25-duodecies rubricato “reati tributari”). (28) Dalle norme richiamate si evince un’esclusione della perseguibilità penale della persona fisica, della società, dell’associazione o dell’ente nell’interesse dei quali abbia agito l’autore della violazione fiscale – purché non siano persone fisiche ritenute concorrenti nel reato – ribadendo la sola responsabilità per la sanzione tributaria. 334 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 di sanzione (29). È quindi tappa obbligata, in un percorso di riforma che inserisca nel d.lgs. 321/2001 i reati tributari, il coordinamento con questa duplice risposta dell’ordinamento, quantomeno con la sanzione amministrativa-tributaria, per evitare che il moltiplicarsi di misure sostanzialmente compensative del mancato prelievo si traducano in un illegittimo guadagno per l’Erario a danno del contribuente. I risultati interpretativi raggiungibili in astratto sono due e opposti, ammettere o non ammettere la confiscabilità del patrimonio dell’ente per i reati tributari commessi nel suo interesse dai rappresentanti legali. La mancanza di un’espressa presa di posizione da parte del legislatore nell’ambito del d.lgs. 231/2001 può essere letta o come una grossa dimenticanza – il che è da escludersi se si guarda ai diversi tentativi di portare alla sua attenzione il problema, sempre rigettati in sede di riforma – o come una scelta dettata, se non imposta, dal già esistente sistema di responsabilità penale e tributaria o, infine, come un nulla osta tacito per la giurisprudenza affinché la soluzione venga trovata nel caso concreto, purché in applicazione di principi saldi e positivizzati. È proprio in quest’ultima direzione che si è mossa la Cassazione con una recente pronuncia che sembra fornire una regola di diritto in grado di risolvere il problema della confiscabilità dei beni dell’ente, portando l’intera questione al di fuori del raggio d’azione del d.lgs. 231/2001. È stato cioè affermato che in base al rapporto di “immedesimazione organica” tra società e persona fisica che abbia agito nella veste di suo rappresentante legale, pur potendosi imputare il reato solo a quest’ultimo, le conseguenze patrimoniali sanzionatorie debbano ricadere proprio sulla persona giuridica (30). La Corte ha escluso, infatti, che possa intendersi la società come soggetto “estraneo” all’illecito penale, per un duplice ordine di ragioni: anzitutto, perché gli incrementi economici si sono prodotti interamente a suo vantaggio; inoltre, perché l’amministratore indagato aveva la disponibilità dei beni aziendali, quantomeno in via di fatto, perciò ente e persona fisica sono piuttosto in un rapporto di stretta “intraneità”. Pur non travolgendo il principio di personalità della responsabilità penale ex art. 27 Cost. – canone costituzionale che in ogni ipotesi di responsabilità ibrida di società si considera preservato in extremis dal rapporto organico con i rappresentanti, posto alla base del funzionamento dell’ente stesso – la pronuncia è stata oggetto di critiche e, data la sua stringata motivazione, merita d’essere letta nella sua ratio oltre il dato testuale. Occorre chiedersi di quali istanze si sia fatta portatrice la giurisprudenza (29) Per un approfondimento di questa tesi fatta propria dal legislatore, si veda C. SANTORIELLO, Reati fiscali e responsabilità degli enti, in Il Fisco, 2010, p. 3616. (30) Cass. pen., sez. III, 7 giugno 2011, n. 28731, secondo cui «il reato è addebitabile all’indagato, ma le conseguenze patrimoniali ricadono sulla società a favore della quale la persona fisica ha agito, salvo che si dimostri che vi è stata una rottura del rapporto organico». CONTRIBUTI DI DOTTRINA 335 di legittimità: se abbia voluto legiferare in materia penale violando il principio di tassatività (art. 25, co. II Cost.) o abbia invece proceduto ad un’interpretazione estensiva, pienamente ammissibile, del dettato normativo. Nella decisione è espressamente escluso l’ambito di operatività del d.lgs. 231/2001, pertanto non si può contestare alla Corte un apporto creativo di diritto, in aperto contrasto con il divieto di analogia legis (peraltro qui in malam partem) in materia penale. Non vengono, infatti, surrettiziamente introdotti in via pretoria i reati tributari tra i delitti-presupposto della responsabilità degli enti né viene costruito un nuovo regime sanzionatorio a loro carico (31). La soluzione trovata dalla Suprema Corte risulta, invece, condivisibile sotto più profili. Anzitutto è rispettosa della volontà legislativa e si dimostra consapevole dei motivi ostativi ad una riforma del d.lgs. 231/2001, rimanendo così al di fuori dello schema di responsabilità amministrativa degli enti. Ma soprattutto rimarca il concetto di “immedesimazione organica” quale principio di diritto che non solo è ormai regola consolidata nella disciplina di qualunque rapporto societario lato sensu, ma trova in materia di reati fiscali un suo fondamento positivo nell’art. 1, co. I lett. e) del d.lgs. 74/2000, che lega in maniera chiara ed inscindibile il fine della condotta del legale rappresentante – cioè l’elemento psicologico del dolo specifico – all’ente per conto del quale agisca (32). La confisca operante nei confronti dell’ente per i reati tributari, ove si sia avvantaggiato di un risparmio d’imposta, sarebbe quindi non quella prevista dall’art. 19 d.lgs. 231/2001, bensì quella disciplinata in via generale dal combinato disposto degli artt. 1, co. 143 L. 244/2007 e 322-ter c.p., cioè una misura ablatoria che viene legittimamente traslata dalla persona fisica a quella giuridica in virtù dell’immedesimazione organica. Unico limite dell’interpretazione estensiva data dalla Cassazione potrebbe ravvisarsi nel non aver tenuto conto dell’esistenza di un sistema sanzionatorio tributario che già colpisce il patrimonio sociale, ma non deve dimenticarsi la distinta operatività dei piani del processo penale e di quello tributario, i diversi tempi e strumenti che essi hanno a disposizione e il fatto che la pronuncia in questione riguardasse un ricorso avverso il rigetto del riesame di un ordine di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, cioè un contesto di esigenze cautelari del tutto peculiare e prodromico al processo. Una volta affermata in via pretoria la diretta confiscabilità del patrimonio (31) Sul rischio di una analogia legis messa in atto dalla giurisprudenza si veda L. DELLARAGIONE, La Suprema Corte ammette il sequestro preventivo funzionale alla successiva confisca per equivalente dei beni della persona giuridica per i reati tributari commessi nel suo interesse dal legale rappresentante, in Dir. pen. cont. (www.dirittopenalecontemporaneo.it, 29 settembre 2011). (32) Art. 1, co. I lett. e) d.lgs. 74/2000: «riguardo ai fatti commessi da chi agisce in qualità di amministratore, liquidatore o rappresentante di società, enti o persone fisiche, il "fine di evadere le imposte" ed il "fine di sottrarsi al pagamento" si intendono riferiti alla società, all'ente o alla persona fisica per conto della quale si agisce». 336 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 dell’ente per i reati tributari commessi nel suo interesse, si pone un ulteriore problema, cioè quello di ammettere o meno una duplice ablazione nei confronti sia della persona fisica che della persona giuridica. Se, infatti, tale cumulo è senz’altro da escludersi in termini di confisca – essendo questa uno strumento sanzionatorio idoneo a divenire definitivo, che assicurerebbe allo Stato un doppio prelievo compensativo del tutto ingiustificato – è sul piano del sequestro per equivalente che può venirsi a configurare, data la provvisorietà che caratterizza la misura cautelare. A differenza dell’ambito concorsuale in cui siano coinvolte più persone fisiche (33), la peculiarità di una duplicazione del sequestro sia nei confronti dell’amministratore che dell’ente risiede nella forzatura interpretativa di considerare la persona giuridica alla stregua di un correo. Secondo un orientamento ormai consolidato – di cui si può agevolmente prevedere un’estensione alla materia penal-tributaria data la recente pronuncia esaminata (34) –, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca può incidere contemporaneamente ed indifferentemente sia sulla persona fisica indagata che sull’ente che ne abbia tratto profitto, purché entro i limiti dell’entità del vantaggio conseguito (35). Dunque, pur evitandosi un’esorbitanza del vincolo sequestrativo dai confini del provento illecito, di fatto si è introdotto un criterio cumulativo che, nel porre su un piano di fungibilità la responsabilità penale individuale e la responsabilità “ibrida” della societas (ex d.lgs. 231/2001), inevitabilmente si scontra con principi fondamentali quali il divieto di responsabilità per fatto altrui e la tassatività degli strumenti sanzionatori (artt. 27 e 25 Cost.)(36). Il pericolo insito nell’interscambio tra persona fisica e persona giuridica può essere superato solo attraverso una lettura del sistema di responsabilità degli enti che sia il più possibile fedele alle sue linee di fondo. Applicando, infatti, la confisca direttamente alla società che abbia lucrato un risparmio d’imposta – e ciò o estendendo la portata del d.lgs. 231/2001, o muovendosi (33) Si veda già infra nota 23 sul cumulo di confisca e sequestro nei confronti di più soggetti concorrenti. (34) Cass. pen., sez. III, 7 giugno 2011, n. 28731. (35) Cfr., da ultimo, Cass. pen., sez. VI, 5 marzo 2009, n. 26611, in cui si ribadisce che «data la convergenza di responsabilità della persona fisica e di quella giuridica e avuto riguardo all’unicità del reato come “fatto” riferibile a entrambe, deve trovare applicazione il principio solidaristico che informa lo schema concorsuale […] con il limite, però, che il vincolo cautelare d’indisponibilità non deve essere esorbitante, nel senso che non deve eccedere, nel complesso, il valore del detto profitto e non deve determinare ingiustificate duplicazioni, posto che dalla unicità del reato non può che derivare l’unicità del profitto». (36) Per interessanti argomenti contra tale criterio cumulativo introdotto dalla giurisprudenza cfr. E. LORENZETTO, Il sequestro preventivo funzionale alla confisca di valore nei rapporti tra persona fisica ed ente, nota a Cass. pen., sez. VI, 5 marzo 2009, 26611, in Cass. pen., 2010, p. 4276. L’A. riporta, quale esempio, l’ipotesi in cui vi sia un concorrente extraneus nel reato commesso dal soggetto in posizione apicale o sottoposto: questi potrebbe essere inciso dal vincolo reale del sequestro per l’intero profitto dell’ente – in base alla riaffermata solidarietà concorsuale – pur essendo del tutto estraneo al contesto collettivo nel cui interesse si è realizzato l’illecito. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 337 al di fuori di tale corpus normativo in base a principi generali – si vuole traslare il carico sanzionatorio sul diretto destinatario del vantaggio fiscale, l’ente appunto. Lo stesso meccanismo dovrebbe, allora, valere in ambito cautelare con l’ordine di sequestro, cioè responsabilizzando in primis l’ente e, solo ove il suo patrimonio risulti incapiente, colpendo in seconda istanza il suo rappresentante legale (37). Tale impostazione, cioè l’adozione di un criterio individuale anziché cumulativo, appare come la più condivisibile in un contesto come quello in esame che manca di un intervento legislativo di coordinamento e che è rimesso in buona parte all’opera interpretativa dei giudici. 4. La costituzione di parte civile dell’Agenzia delle Entrate: individuazione del danno “ex delicto”. Una rilevante conseguenza dell’introduzione della confisca per equivalente in ambito tributario è data dai possibili profili di incidenza sulla risarcibilità del danno direttamente collegato al reato fiscale. Essendo pacifico il riconoscimento di un pregiudizio all’Erario ogniqualvolta il contribuente trasgredisca l'obbligo tributario, calcolabile nel quantum di imposta rimasta scoperta, ci si vuole qui interrogare sulla ripercussione delle misure ablatorie di valore (sequestro e confisca) sul soddisfacimento del credito risarcitorio dello Stato nei confronti del reo. Legittimata a costituirsi parte civile, a mezzo dell’Avvocatura dello Stato, è l’Agenzia delle Entrate, trattandosi di danni di natura fiscale dunque ricompresi nel campo d’azione dell’Amministrazione Finanziaria. Sulle modalità di intervento dell’Agenzia nel processo penale si deve, anzitutto, tener conto di recenti divergenze interpretative. Ferma restando l’applicabilità in toto delle disposizioni del codice di procedura penale sui tempi di costituzione (38), la L. n. 3/1991 stabilisce che «la costituzione di parte civile dello Stato nei procedimenti penali deve essere autorizzata dal Presidente del Consiglio dei Ministri» (art. 1, comma IV). Tale autorizzazione, la cui ratio risiede evidentemente nella necessità di garantire una unitarietà di indirizzo politico-amministrativo, costituisce presupposto formale indispensabile per la partecipazione dell'Agenzia delle Entrate al giudizio penale, secondo quanto stabilito dalla stessa Presidenza su parere conforme (37) Concorda sulla correttezza di un beneficium excussionis a favore della persona fisica L. MARZULLO, Ancora in tema di sequestro per equivalente funzionale alla confisca del profitto del reato: prime applicazioni (e stessi dubbi) dopo l'intervento delle sezioni unite penali, nota a Cass. pen., sez. II, 6 novembre 2008, n. 45389, in Cass. pen., 2010, p. 2717. Contra si è recentemente pronunciata Cass. pen., sez. II, 31 maggio 2012, n. 20976, negando che possa ammettersi una preventiva escussione nei confronti dell’ente. (38) In base all’art. 79 c.p.p., l’Agenzia delle Entrare deve costituirsi parte civile per l’udienza preliminare ovvero fino alla verifica di cui all’art. 484 c.p.p. (in cui il giudice, prima di dichiarare l’apertura del dibattimento, accerta la regolare costituzione delle parti). È importante ricordare come l’Agenzia, prima di intervenire nel processo (cioè durante le indagini preliminari), possa avvalersi delle prerogative riconosciute alla parte offesa (artt. 90 e 91 c.p.p.), posto che, oltre ad essere soggetto danneggiato deve considerarsi, anzitutto, soggetto passivo dell’illecito penale, in quanto titolare dell'interesse giuridico protetto. 338 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 dell'Avvocatura. Ciò se si accetta una ricostruzione delle Agenzie fiscali come organi statali, in quanto attributarie di funzioni pubbliche direttamente riferibili allo Stato (39). Un orientamento di recente espresso dalla Suprema Corte, però, ha rimesso in discussione la qualifica dell'Agenzia delle Entrate, negandole la natura di organo dello Stato: pur dotata di personalità giuridica, sarebbe un distinto soggetto a cui è rimesso l'esercizio dei poteri in materia di imposizione fiscale, rimanendo in capo allo Stato la titolarità dell'obbligazione tributaria (40). Quindi, secondo questa lettura del rapporto Stato-Agenzie, non troverebbe applicazione la norma che prescrive il rilascio dell'autorizzazione del Presidente del Consiglio dei Ministri per la costituzione di parte civile dell'Amministrazione Finanziaria nel processo penale. Con o senza provvedimento autorizzativo, occorre circoscrivere il danno risarcibile ex art. 185 c.p. a favore dell'Agenzia fiscale intervenuta nel giudizio penale. Accogliendo in larga parte il nostro codice penale la tesi della Scuola classica sul danno da reato, per cui l'azione risarcitoria ha natura meramente privatistica e non può in alcun modo porsi in funzione complementare o sostitutiva rispetto alla pena, e dovendosi tener distinto il danno dall'offesa penale, è indispensabile valutare di volta in volta quale sia la ricaduta (patrimoniale e non) del reato fiscale sullo Stato. Il bene o interesse leso dall'illecito tributario è da individuarsi nell'ordine finanziario statale, definendosi in tal modo l'offesa penalmente rilevante che è tutt'uno con la figura criminosa; il danno ex art. 185 c.p. non costituisce, invece, ratio dell'incriminazione ma conseguenza ulteriore ed eventuale, in rapporto di causa ad effetto con la fattispecie penale (41). La voce principale del danno arrecato dal reato tributario allo Stato è senz'altro costituita dal tributo evaso, cioè dalla mancata percezione da parte del fisco di quanto dovuto in base all'obbligo contributivo sancito a carico di ciascun individuo dall'art. 53 Cost. Pertanto, l'Agenzia delle Entrate nel costituirsi parte civile mira ad un risarcimento di quanto illegittimamente erogato a titolo di credito d'imposta o rimborso non spettante (danno emergente) e delle somme non corrisposte per versamento inesatto o del tutto mancante del debito impositivo (lucro cessante). Nell'importo così calcolato devono, inoltre, ricomprendersi gli interessi legali e le eventuali sanzioni amministrative comminate al contribuente evasore. Se questo è il danno fiscale (39) Si veda l'interessante sintesi di C. SIGNORILE, Partecipazione dell'Agenzia delle Entrate al procedimento penale e status dei verificatori in Atti del convegno “Frodi Iva: analisi del fenomeno e adeguatezza degli interventi di contrasto” - Genova 1 dicembre 2005 (http://liguria.agenziaentrate.it). (40) Così Cass. pen., sez. II, 6 dicembre 2010, n. 43302, che mette in risalto l'avvenuta successione a titolo particolare delle agenzie fiscali nei poteri e nei rapporti giuridici facenti capo al Ministero (a partire dalla loro istituzione con d.lgs. n. 300/1999), con successiva scissione tra titolarità dell'obbligazione tributaria ed esercizio del potere impositivo. (41) Per un approfondimento sulla funzione del danno da reato e sulle diverse tesi dei rapporti tra reato e danno, F. MANTOVANI, Diritto Penale, cit., pp. 869-875. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 339 in senso stretto, percepibile ictu oculi, tuttavia non esaurisce il contenuto della pretesa risarcitoria azionabile dalla parte civile. Viene, altresì, in rilievo un pregiudizio arrecato al buon andamento dell'Amministrazione Finanziaria, sulla cui sussistenza non possono nutrirsi dubbi, ove si pensi al carattere fraudolento che accomuna tutti i reati fiscali volti ad aggirare l'accertamento tributario eseguito dagli uffici dell'Agenzia. Si tratta di una voce di danno che richiede un'ulteriore indagine interpretativa, dovendosi comprendere se abbia, cioè, riflessi di natura patrimoniale o non patrimoniale sull'amministrazione. Alla seconda categoria di pregiudizio apparterrebbe il c.d. danno all'immagine dell'Agenzia fiscale, cioè una diminuzione del suo prestigio e quindi dell'affidamento dei cittadini nella regolarità del suo operato (42). Ma è evidente come un danno del genere non possa mai riallacciarsi alla condotta di evasione tributaria del contribuente, posto che l'immagine dell'Agenzia delle Entrate non verrebbe direttamente pregiudicata dal privato che ometta di versare l’imposta. Il danno all'immagine in tanto può configurarsi, infatti, in quanto vi sia un nesso funzionale o organico tra l'autore del reato e la pubblica amministrazione presunta lesa, cioè nel caso in cui la condotta illecita sia posta in essere dal funzionario dell’agenzia fiscale (43). Il pregiudizio al corretto funzionamento dell'Agenzia non ne intaccherebbe, dunque, l'“esistenza” in sé (danno non patrimoniale), bensì si esplicherebbe come uno sviamento della sua attività, un danno (di natura patrimoniale) all'efficienza dell'azione fiscale – sia sul piano dell’accertamento che della riscossione tributaria. La Cassazione ha da tempo affermato il principio per cui la costituzione di parte civile dell'Amministrazione Finanziaria non si limita al risarcimento del quantum di imposta rimasto scoperto, ma deve mirare ad un ristoro dello sviamento e del turbamento procurato alla sua attività (44). Sarebbe tale “danno ulteriore” a caratterizzare la pretesa risarcitoria in esame, determinando un quid pluris rispetto al tributo evaso, da calcolarsi nelle risorse umane e nei mezzi investiti nell'accertamento di attività criminose complesse che fanno ricorso a prestanomi, esterovestizioni e società costruite “a scatole cinesi” (45). (42) La giurisprudenza ha ormai superato la tradizionale limitazione della risarcibilità del danno d'immagine ai soli reati contro la pubblica amministrazione, ammettendo che qualsiasi reato comune possa generare una lesione del prestigio dell'organo amministrativo. Cfr. Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Toscana, 18 marzo 2011, n. 90. (43) A titolo esemplificativo, si veda Cass. pen., sez. III, 12 ottobre 1992, n. 9725, in cui l'Amministrazione Finanziaria venne ritenuta legittimata a costituirsi parte civile in un processo per delitto di falso in atto pubblico. L'interesse leso dal reato in questione, cioè la genuinità e credibilità del documento, si sarebbe direttamente ripercosso sull'affidabilità dell'amministrazione a cui apparteneva il pubblico ufficiale incriminato (Agenzia delle Entrate), i cui atti devono costituire garanzia di fedeltà e completezza degli introiti tributari. (44) Così Cass. pen., sez. III, 22 maggio 1991, n. 5554. (45) C. SIGNORILE, Partecipazione dell'Agenzia delle Entrate al procedimento penale e status dei 340 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 Chiarite quali siano le voci del danno ex delicto risarcibile, si pone all’attenzione dell’interprete un ulteriore nodo da sciogliere: se l’art. 185 c.p. si riferisca solo a danni ricollegati a reati o se, in via interpretativa, possa estendersi anche ai danni prodotti dagli illeciti amministrativi degli enti ex d.lgs. 231/2001 (46). Data, infatti, la natura peculiare della responsabilità degli enti per illeciti penali commessi a loro vantaggio da soggetti in posizione apicale o subordinata (tertium genus a cavallo tra responsabilità penale e amministrativa), occorre capire la portata della norma del codice penale che stabilisce che «ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole». Ad una prima lettura del dato normativo, sembrerebbe un’illegittima applicazione dello strumento analogico far discendere anche dall’illecito amministrativo contestato all’ente ex art. 5 d.lgs. 231/2001 l’esistenza di un danno risarcibile, poiché trattasi di una fattispecie che, per quanto geneticamente connessa al reato-presupposto, tuttavia si fonda su autonomi requisiti strutturali. La tassatività del sistema penale imporrebbe l’esclusione della costituzione di parte civile dell’Agenzia delle Entrate per il risarcimento dei danni cagionati dall’ente, posto che il reato-presupposto non è ad esso imputabile. Pur in assenza di una legittimazione ad agire in sede penale ex art. 185 c.p. e 74 c.p.p., nulla vieta, però, al soggetto danneggiato di promuovere un’azione risarcitoria davanti al giudice civile, se vi siano i requisiti ex art. 2043 c.c., cioè se l’illecito amministrativo abbia cagionato all’amministrazione lesa un danno ingiusto sorretto da dolo o colpa (47). È opinabile, tuttavia, la ricostruzione dell’applicazione dell’art. 185 c.p. al danno prodotto dall’ente come ricorso all’analogia, vietata in diritto penale a maggior ragione se in malam partem. In assenza di disposizioni contrarie all’interno del d.lgs. 231/2001, può ben sostenersi che la risarcibilità del danno ex delicto si attagli anche alla responsabilità degli enti, ciò non in applicazione dello strumento analogico, bensì interpretando in modo estensivo la norma del codice penale. Una lettura evolutiva dell’art. 185 c.p. risulta, infatti, imposta non dall’esigenza di creare diritto in via giurisprudenziale, ma di espandere la sua portata fino ai limiti richiesti dall’ordinamento e consentiti dalla ratio legis della disposizione. La presenza di norme che riconoscono alla condotta ripaverificatori, cit., sviluppa ampiamente il tema del “danno ulteriore”, individuandolo nella disfunzionalità causata all'attività dell'Agenzia delle Entrate, distolta dai propri compiti istituzionali per rintracciare casi patologici all’interno del sistema contributivo. (46) Sulla responsabilità dell’ente per reati tributari commessi dal suo rappresentante legale – e quindi per comprendere la rilevanza del quesito se il danno prodotto dall’ente sia risarcibile oppure no nel processo penale – si veda infra § 3. (47) Interessante l’argomentazione posta a sostegno di un’ordinanza di esclusione della parte civile emessa dal G.u.p. del Tribunale di Milano, in data 26 gennaio 2009. Ivi si afferma, altresì, che l’assenza di una disciplina o quantomeno di un rinvio espresso all’interno del d.lgs. 231/2001 alle norme del c.p.p. sulla costituzione di parte civile escluda alla radice l’ammissibilità di pretese risarcitorie nel giudizio promosso per la responsabilità degli enti, dato il principio per cui ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit. CONTRIBUTI DI DOTTRINA 341 ratoria o risarcitoria dell’ente un effetto attenuante della pena pecuniaria o addirittura preclusivo delle sanzioni interdittive (artt. 12 e 17 del d.lgs. 231/2001) depone senz’altro a favore dell’esistenza di un obbligo diretto in capo all’ente di ristoro del danno a norma delle leggi civili (48). Pertanto, il nesso eziologico che collega il pregiudizio al reato può configurarsi anche nel complesso sistema di responsabilità amministrativa da reato degli enti, posto che altrimenti verrebbe meno l’attuazione delle garanzie del processo penale a cui, invece, mostra stretta fedeltà il d.lgs. 231/2001. 5. (segue) Sequestro e confisca di valore pari all’imposta evasa esautorano il ruolo della parte civile? Tracciati, da un lato, i limiti applicativi del nuovo istituto ablatorio attribuito al giudice penale anche in materia di reati tributari – cioè la confisca per equivalente ed il sequestro ad essa prodromico – ed inquadrato, dall’altro, il danno cagionato all’Agenzia delle Entrate di cui questa può chiedere il risarcimento costituendosi direttamente parte civile nel processo avviato, balza all’occhio dell’interprete una considerazione d’ordine eminentemente pratico: quale utilità ricavi l’Agenzia intervenendo nel giudizio penale per recuperare il tributo evaso se già opera, in via obbligatoria, uno strumento contenutisticamente sanzionatorio qual è la confisca di valore, che è commisurata proprio sullo scoperto d’imposta. La questione va risolta su due piani, uno di stretta dogmatica, l’altro processualistico. Per quanto concerne il primo profilo d'indagine, non possono in alcun modo confondersi lo strumento confiscatorio con la condanna al risarcimento dei danni ex art. 185 c.p.. Seppur talora coincidenti nel quantum poiché parametrati al vantaggio illecito conseguito dal contribuente, cioè al risparmio d’imposta, si tratta di istituti dalle finalità se non contrapposte quantomeno ben distinte. Come si è già avuto modo di accennare brevemente (49), offesa penale e c.d. danno criminale attengono, secondo l’impostazione “neoclassica” fatta propria dal legislatore del ’30, il primo ad una risposta pubblicistica e sanzionatoria dell’ordinamento al fatto di reato, il secondo ad una tutela privatistica interamente rimessa alla volontà del danneggiato (50). Perciò la confisca è una misura che viene comminata dallo Stato, assieme ad altra pena in (48) Così il G.u.p. del Tribunale di Milano, con ordinanza del 24 gennaio 2008, che pone l’attenzione sul rinvio contenuto nell’art. 34 del d.lgs. 231/2001 alle disposizioni del c.p.p.“in quanto compatibili”. (49) Si veda il § 4. (50) Tesi opposta era quella formulata dalla Scuola positiva – che non ha trovato accoglimento nella redazione del codice Rocco – per cui i danni civili avrebbero anche una funzione sanzionatoria, oltre che riparatoria. Peraltro, secondo l’impostazione “carneluttiana” sul danno criminale, qualsiasi reato produrrebbe un pregiudizio risarcibile ex art. 185 c.p., non potendosi questo configurare solo quale conseguenza ulteriore ed eventuale dell’illecito penale. Sul punto si veda, sinteticamente, F. MANTOVANI, Diritto Penale, cit., pp. 869-875. 342 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 senso stretto, ogniqualvolta sia stato offeso un determinato interesse tutelato, mentre i danni civili sono riconosciuti al privato solo se dal reato siano derivate conseguenze pregiudizievoli. L'errore interpretativo che si compie nella problematica de qua è determinato dalla coesistenza in capo allo Stato sia della facoltà di punire che della qualifica di soggetto danneggiato (questa seconda formalmente attribuita all’Agenzia delle Entrate) (51); da ciò la collocazione di confisca e danno sul medesimo piano e l'idea che la prima precluda ed escluda il secondo. Deve, inoltre, ricordarsi come il danno risarcibile non si esaurisca nel calcolo dell’evasione, ma vi si debba ricomprendere quel “danno funzionale ulteriore” di cui si è già detto – e difficilmente riparabile in sede amministrativa o civile – cioè il turbamento all’attività dell’agenzia fiscale, da quantificarsi nelle risorse umane e nei mezzi adoperati per fini evidentemente extra-istituzionali (52). Su un piano di ordine processuale, ci si deve interrogare su vantaggi e svantaggi della costituzione di parte civile, cioè di una presa di posizione attiva dell’Amministrazione Finanziaria nel processo penale che le conferisca poteri ulteriori rispetto a quelli basilari riconosciuti alla persona offesa. Oltre, infatti, ai diritti di informativa e ai poteri sollecitatori di cui goda l'offeso, che possono spingersi sino ad esortare il g.i.p. ad un controllo sull'eventuale inattività del pubblico ministero (53), il soggetto danneggiato che si sia costituito parte civile esercita una propria azione all'interno del processo penale ed è attributario a tal fine di una serie di prerogative. In primis, l'Agenzia delle Entrate potrà, ove interessata a rafforzare la pretesa risarcitoria, chiedere il sequestro conservativo dei beni del contribuente ex art. 316 c.p.p. Sebbene, infatti, sia stato ormai introdotto in forma obbligatoria il sequestro preventivo per equivalente finalizzato alla confisca (art. 321, comma II-bis c.p.p.), ciò non priva di utilità l'ablazione conservativa, dato il riconoscimento da parte della giurisprudenza di una possibile coesistenza delle due misure cautelari reali sui medesimi beni (54). La parte civile può, altresì, contribuire attivamente alla formazione della prova in sede dibattimentale espletando l'onere di presentazione delle liste te- (51) Emblematica di tale sovrapposizione di ruoli in capo al “soggetto” Stato è la definizione che dà Cass. pen., sez. VI, 18 febbraio 2009, n. 13098 che, nel trattare di confisca per equivalente nei reati tributari, ritiene che essa assolva alla “funzione di ripristino dell’ordine finanziario dello Stato leso dall’illecito tributario”; ove è evidente come lo strumento confiscatorio sia indirizzato a sanzionare l’offesa penalmente rilevante (cioè la lesione l’interesse dell’ordine finanziario), ma di fatto ripristini il pregiudizio erariale. Sanzione e danno che si confondono nella realtà materiale, ma che vanno tenuti distinti in diritto. (52) Cfr. la già citata Cass. pen., sez. III, 22 maggio 1991, n. 5554. (53) Diritti di informativa quali quelli previsti dagli artt. 335 co. III, 360, 369, 419 co. I, 429 co. IV c.p.p.; poteri sollecitatori e di partecipazione di cui agli artt. 90 co. I, 327-bis, 401 co. V, 406 co. III, 408 co. II c.p.p. (54) Cfr. infra note 19 e 20 sull’utilità e sulla possibilità di una richiesta di sequestro conservativo da parte dell’Agenzia. Si ricordi che il sequestro conservativo può essere, invece, richiesto da parte del pubblico ministero solo a tutela dei crediti endoprocessuali e non dei crediti risarcitori della parte civile (principio già ribadito da Cass. pen., sez. III, 7 agosto 1996, n. 2890). CONTRIBUTI DI DOTTRINA 343 stimoniali, da depositarsi in cancelleria almeno sette giorni prima della data fissata per il dibattimento (art. 468, co. I c.p.p.). È quindi nell'interesse del danneggiato non solo costituirsi nel processo penale instaurato, ma farlo tempestivamente, cioè nei tempi stabiliti per il deposito delle liste, affinché possa avvalersi dei propri testimoni e consulenti tecnici, nella maggior parte dei casi funzionari esperti dell'Agenzia in grado di fornire notevoli contributi all'accertamento dell'evasione d'imposta (55). Quindi si può affermare con sicurezza una maggior garanzia di successo della pretesa risarcitoria dell'Amministrazione Finanziaria all'interno del processo penale – sia per la voce del danno pari al tributo non riscosso (con interessi ed eventuali sanzioni), sia per quella del c.d. “danno ulteriore”. Se, infatti, da un lato ha il vantaggio di trovarsi inserita in un procedimento accusatorio ad iniziativa del pubblico ministero in cui non ha l'onere di dimostrare con ogni mezzo possibile il danno sofferto, al tempo stesso l'Agenzia delle Entrate può far accedere al giudizio, ove lo ritenga proficuo, il vasto patrimonio di verifiche tecniche acquisite in via amministrativa dai propri dipendenti (56). Non deve, poi, dimenticarsi la celerità della giustizia penale (rispetto agli altri rami della giurisdizione), quantomeno perché impostata secondo tempi più ristretti, e la possibilità per la parte civile di proporre direttamente impugnazione anche contro la sentenza di proscioglimento, naturalmente “ai soli effetti della responsabilità civile” (art. 576 c.p.p.), portando in un nuovo grado di giudizio penale l'azione civile intrapresa, anche al fine di evitare eventuali sfavorevoli estensioni extrapenali dell'efficacia del giudicato prodottosi. Deve, a tal riguardo, tenersi conto dell'inquadramento ormai prevalente sui rapporti tra giudizio penale e giudizio tributario, posto che un'efficacia vincolante della pronuncia del primo nei confronti della Commissione Tributaria successivamente adita condizionerebbe notevolmente la scelta dell'Amministrazione Finanziaria se costituirsi o meno parte civile. In base all'art. 654 c.p.p., l'efficacia del giudicato penale nel processo tributario è sottoposta ad una duplice condizione: che l'accertamento dell'obbligo fiscale dipenda dagli stessi fatti materiali esaminati dal giudice penale e che la legge non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa. La giurisprudenza della Suprema Corte è salda nell'affermare l'autonomia dei due giudizi, avendo fornito un'interpretazione rigorosa del dato normativo. Anzitutto, la ricostruzione del reato fiscale fatta dal giudice penale si fonda sull'accertamento sia dell'elemento oggettivo che della colpevolezza del soggetto agente, a diffe- (55) Decadenza dalla facoltà di presentazione delle liste che si ricava espressamente dal combinato disposto degli artt. 79, co. III e 468, co. I c.p.p. (56) Sulla configurazione dei funzionari dell'Agenzia come soggetti di polizia giudiziaria, ove individuino la sussistenza di reati tributari nell'ambito della loro attività di verifica e accesso, si veda C. SIGNORILE, Partecipazione dell'Agenzia delle Entrate al procedimento penale e status dei verificatori, cit. 344 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 renza del carattere squisitamente obiettivo del giudizio tributario che si limita ad accertare i presupposti di esistenza del tributo. Ma il vero ostacolo ad un automatismo di efficacia del giudicato penale è costituito dalle peculiarità del sistema probatorio operanti in sede tributaria: cioè il divieto di giuramento e prova testimoniale e l'ammissibilità di presunzioni semplici di esistenza o inesistenza di un fatto (inidonee, invece, a supportare una pronuncia penale di condanna, a meno che non siano “gravi, precise e concordanti” ex art. 192, co. II c.p.p.) (57). Riconoscere l'autonomia dei due giudizi non significa escluderne reciproche influenze, dal momento che, ferme restando le regole processuali che caratterizzano i due settori, ciascun giudice nel suo libero convincimento è condizionato da quanto è avvenuto nel giudizio parallelo. Basti riflettere sulla ambivalenza dei contributi tecnici di funzionari e consulenti, che possono accedere ad entrambi i processi consentendo un'uniformità di soluzioni. Il rischio di un “conflitto” di giudicati, tuttavia, esiste – e non potrebbe essere diversamente, dato che accertamento della responsabilità penale e verifica dei presupposti d'imposta devono necessariamente muoversi su distinti binari –, soprattutto se si tiene conto della diversa definizione di “imposta evasa” ai fini fiscali e a quelli penali. Ai sensi dell'art. 1 comma IV del d.lgs. n. 471/1997 l'evasione tributaria è data dalla differenza tra ammontare dell'imposta liquidata con l'accertamento e somma liquidabile in base alle dichiarazioni del contribuente. Dato l'ampio ricorso a presunzioni in sede di accertamento fiscale, il calcolo dell'evasione non è strettamente ancorato a realtà fattuali riscontrabili. Ai fini penali, invece, l'art. 1 d.lgs. n. 74/2000 individua l'evasione nella differenza tra imposta dovuta e imposta indicata in dichiarazione (e non quella liquidabile in base a tale dichiarazione secondo strumenti e calcoli presuntivi) (58). La valutazione sull'opportunità per l'Agenzia delle Entrate di costituirsi o meno parte civile, a mezzo dell'Avvocatura dello Stato, deve compiersi, quindi, caso per caso, non tanto pensando agli effetti a cui già condurrebbe in via di fatto la confisca per equivalente in materia tributaria – cioè al recupero a vantaggio dell'Erario delle somme illecitamente risparmiate del contribuente – bensì prendendo in esame tutte le utilità derivanti da un intervento in sede penale, di cui si è detto, e comparandole alla rilevanza degli interessi statali (patrimoniali e non) che emergano dal fatto concreto. (57) Cfr. Cass. civ., sez. V., 3 maggio 2002, n. 6337. Concordemente Cass. civ., sez. V, 16 maggio 2005, n. 10269; Cass. civ., sez. V, ord. 8 luglio – 12 ottobre 2010, n. 21049. (58) Sull'esclusione delle presunzioni tributarie nel processo penale, cfr. Cass. pen., sez. III, 25 novembre 2011, n. 43695. RECENSIONI MARIA VITTORIA LUMETTI (*), Processo amministrativo e tutela cautelare. Presentazione di Ignazio Francesco Caramazza. (Studi di diritto processuale amministrativo, Collana diretta da EUGENIO PICOZZA e BRUNO SASSANI. CEDAM, 2012, pp. I-XXXI-702) Si tratta della prima opera, dopo l’entrata in vigore del codice processuale amministrativo, che affronta in maniera sistematica e globale tutta la problematica del processo cautelare amministrativo in ogni fase e grado del giudizio, compresi il processo di ottemperanza, la revocazione, l’accesso, il silenzio, il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, il giudizio risarcitorio, la sospensione della sentenza pendente ricorso in Cassazione e in Adunanza plenaria, la rimessione alla Corte di giustizia e alla Corte costituzionale. Il libro, alimentato dalla passione che il processo amministrativo è ancora in grado di suscitare ed arricchito dall’esperienza quotidiana nelle aule giudiziarie, si propone di offrire una visuale completa della tutela cautelare nel processo amministrativo, anche in raffronto con altri processi e alla luce delle innovazioni recate dal codice e dal diritto comunitario. Il lavoro dedica ampio spazio alle nuove regole della competenza contro il forum shopping, alla graduazione dell’urgenza e alla sua prognosi sommaria, ai casi di fumus qualificato, di periculum bilaterale, all’efficacia ad tempus delle ordinanze cautelari, alla translatio iudicii, ai meccanismi di filtro e alla selezione del contenzioso operata dal giudice. Affronta altresì la sempre più emergente figura delle corsie acceleratorie (giudizio immediato, abbreviato, abbreviato speciale), dei nuovi (antefatto cautelare) e vecchi riti (minicautelare, silenzio, accesso, ottemperanza), nonché il legame rafforzato tra procedimento amministrativo e processo cautelare, percorrendo l’evoluzione dell’equilibrio tra fase cautelare e di merito. Il libro analizza anche come il rito cautelare, superando il limite suo proprio di strumentalità e provvisorietà, si attesti sempre più come il mezzo determinante per la soluzione definitiva e rapida della controversia, e dedica un ampio exscursus alla funzione nomofilattica del giudice cautelare, allo stile motivazionale delle pronunce, all’analisi economica e sociologia sistemica della tutela cautelare nonchè alla gestione della complessità giuridica applicata al processo amministrativo in generale. (*) Avvocato dello Stato. 346 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 PRESENTAZIONE La tutela cautelare si è caratterizzata come forza propulsiva di evoluzione della giustizia amministrativa fin dall'istituzione dei Tribunali amministrativi regionali e tale spinta si è accentuata dopo l'entrata in vigore della legge n. 205 del 2000 e del codice processuale amministrativo. La giurisprudenza e la dottrina ne hanno tratteggiato i passaggi salienti arricchendone i contenuti attraverso la progressiva evoluzione da una tutela basata esclusivamente sullo strumento della sospensione dell'atto amministrativo lesivo di interessi oppositivi ad una tutela molto più estesa, in parte assimilabile a quella processualcivilistica nel quadro preconizzato da Fazzalari con la colorita espressione "settecentizzazione della giustizia". Lo strumento della sospensiva è stato, in altri termini, il "cavallo di Troia" grazie al quale il giudizio sul rapporto, tramite l'evoluzione giurisprudenziale, è penetrato attraverso la ben munita cinta che presiedeva la cittadella del giudizio sull'atto nella sua classica conformazione. Sin dalla seconda metà degli anni '70 del secolo scorso si consolidò, infatti, una giurisprudenza che consentiva al ricorrente di ottenere, in sede cautelare, assai di più di quanto non potesse ottenere in sede definitiva. Si pensi solo al caso dell'ammissione con riserva del concorrente escluso dal concorso, che in sede cautelare ottiene quel "bene della vita" (la partecipazione al concorso) che non avrebbe mai ottenuto in sede di merito. La misura cautelare - a compimento dell'evoluzione - non si configura più soltanto come strumento di conservazione provvisoria di una situazione che rischia di essere irreparabilmente pregiudicata, ma anche - e soprattutto - come mezzo efficace che consente la momentanea modifica della situazione di fatto e diritto dedotta in giudizio, fermi restando gli effetti destinati a scaturire dalla definizione del merito della controversia. La sua evoluzione è andata di pari passo con la progressiva trasformazione del processo amministrativo, originariamente strettamente impugnatorio, correlato all'accertamento della legittimità o meno dell'atto amministrativo, ed ora vero e proprio giudizio sul rapporto, volto ad accertare la fondatezza della pretesa sostanziale fatta valere per il conseguimento del bene della vita. Per catturare i benefici di una salutare distorsione prospettica, si è giunti a consentire al giudice amministrativo di concedere misure cautelari propulsive che sollecitano la riedizione dell'esercizio del potere da parte dell'amministrazione, in relazione ad interessi anche pretensivi, nonché di adottare misure positive direttamente sostitutive, sia pure in via provvisoria, dell'azione amministrativa, come nel caso dell'ammissione con riserva a pubblici concorsi o a procedure di gara. Il codice processuale amministrativo, sulla scia della L. n. 205 del 2000, recepisce gli orientamenti giurisprudenziali ampliativi della sfera di applicabilità della tutela cautelare e del tipo di misure concedibili, provvedendo inoltre a dotare it testo normativo di nuovi incisivi strumenti, destinati a rendere ancor piu efficace e satisfattoria la tutela giurisdizionale. Volendo compiere, per brevi cenni, una rapidissima carrellata sui contenuti dell'opera, con riferimento agli articoli del codice presi in esame, si osserva che alle misure cautelari non solo sono dedicate la parte centrale del codice, ossia il titolo II del libro (articoli da 55 a 62), ma anche ulteriori disposizioni nelle diverse fasi del processo. Sono solo otto gli articoli dedicati al processo cautelare (dal 55 al 62) ma il codice è disseminato di norme che lo riguardano: articoli 10, comma 2 e 11, comma 7 (sulla questione di giurisdizione e sul regolamento preventivo), 15, comma 2 e 5, 7, 8, 9, 10, 47, comma 2 (sulla competenza), 48, comma RECENSIONI 347 2 (sulla trasposizione del ricorso straordinario), articoli 21, 34, comma 1 lett. c (ottemperanza cautelare), 31, comma 1 e 3 e 32 (silenzio), 43, comma 1 e 3 (motivi aggiunti, riunione dei ricorsi), 42 (ricorso incidentale e domanda riconvenzionale), 30, commi 3, 4, 5, 6 e 34, comma 1 lett. c, 34, commi 2 e 3 (risarcimento dei danni e disapplicazione incidenter tantum), 36 (pronunce interlocutorie), 37, 41, commi 1, 2, 3, (contraddittorio), 38 e 106 (rinvio interno che legittima l’applicazione del cautelare nella revocazione e nei riti speciali), 39 (rinvio esterno), 87 (procedimenti in camera di consiglio, ossia il rito cautelare, di esecuzione delle ordinanze cautelari, del silenzio, dell'acccesso, dell'ottemperanza, dell'opposizione ai decreti che pronunziano estinzione o improcedibilità del giudizio), 98 (appello cautelare), 99 (sospensione davanti all'Adunanza Plenaria), 108 opposizione di terzo, 111 (Cassazione), 112 (ottemperanza interpretativa), 114, comma 3, 5, 7 (ottemperanza), 116 (accesso), 117 (silenzio), 119, comma 3 e 4 (rito abbreviato), 120, comma 8 (rito abbreviato speciale), 125, comma 1 e 2 (periculum bilaterale), 129 (processo elettorale). Le recenti novità legislative hanno esaltato anche il requisito del periculum in mora quale proprium della tutela cautelare, e non solo nel processo amministrativo ma anche in quello civile. Il codice stesso enfatizza il requisito del pregiudizio grave e irreparabile (art. 59) o dell'estrema gravità e urgenza (art. 56) od ancora della eccezionale gravità e urgenza (art. 61). In un climax ascendente del periculum, la temperatura del danno e della sua gravità muove dal pregiudizio grave ed irreparabile di cui agli articoli 55, comma 1, 98, comma 1, 119, comma 3 (in questo caso arricchito dalla fondatezza), 120, comma 8 (non menzionato ma che si dà per scontato), 125, comma 2 (dove diventa bilaterale e solo irreparabile, orfano della gravità, ma si sa, nel più ci sta anche il meno) ed approda come abbrivio finale all'eccezionale gravità e urgenza (artt. 61, comma 1 e 111), passando medio tempore per l'estrema gravità (artt. 56, comma 1 e 119, comma 4). La previsione, poi, della tutela ante causam, introduce l'evenienza di un'ulteriore fase processuale, sia pure assorbita da quella collegiale, che anticipa temporalmente l'intero asse del processo e a fortiori la rafforza. L'equilibrio tra fase cautelare e di merito, sarà quindi necessariamente inciso dallo spazio che il giudice darà alla tutela cautelare ante causam, e quindi dal significato che verrà, in concreto, attribuito al presupposto di "eccezionale gravità e urgenza" che ne contrassegna il rilascio. Sembra così che il rito cautelare, superando il limite suo proprio di strumentalità e provvisorietà, si attesti sempre più come lo strumento determinante per la soluzione definitiva e rapida della controversia: la norma del codice (art. 57) che obbliga il giudice a provvedere sulle spese con l'ordinanza che decide sull'istanza cautelare, consolida ed anzi, accresce il carattere di autonomia del rito. In conclusione, il ponderoso volume di Maria Vittoria Lumettí analizza in modo completo ed approfondito tutte le problematiche della tutela cautelare amministrativa, traendone anche spunto per interessanti considerazioni di teoria generale sulla giustizia amministrativa nella sua evoluzione e sui suoi rapporti con la giustizia civile. IGNAZIO FRANCESCO CARAMAZZA Avvocato Generale dello Stato 348 RASSEGNA AVVOCATURA DELLO STATO - N. 2/2012 M. GERARDO, A. MUTARELLI (*), Il processo nelle controversie di lavoro pubblico. (Giuffrè Editore - Milano 2012, pp.1-270) Il volume in rassegna si segnala per costituire la prima opera in cui le controversie di lavoro pubblico (privatizzato) vengono analizzate in chiave rigorosamente processuale. Intento dichiarato degli autori è infatti di dar vita ad una raccolta e sistematizzazione in un corpus unitario delle polverizzate disposizioni (non solo) processuali che vengono in rilievo nello specifico contenzioso del pubblico impiego in cui si intersecano problematiche di natura amministrativa, processuale e del lavoro che danno vita ad un impasto normativo in cui talora appare arduo districarsi. È del resto noto che a tale tipo di contenzioso è stata sin qui riservata solo una trattazione parziale nell’ambito del diritto processuale civile e del lavoro; parzialità che già da tempo appariva ingiustificata in relazione al rilievo numerico ed economico del contenzioso in questione. In tal senso anche l’ultima Relazione Generale della situazione economica del Paese (2010) evidenzia che nel periodo 2000-2009 le controversie di lavoro pubblico hanno subito un incremento rispetto all’anno di riferimento 1999, che ha raggiunto il picco massimo nel 2004 (nella misura del 713%) e che per l’anno 2009 si è ancora attestato al 276%. L’obiettivo di una considerazione autonoma e specialistica viene perseguito dagli Autori, sul piano interpretativo, ricostruendo compiutamente la disciplina del processo coinvolta in una visione organica e, sul piano operativo, dando conto dei più recenti orientamenti emersi in dottrina e giurisprudenza di cui vengono evidenziati non solo i punti di possibile “attrito” ma anche, in chiave propositiva, soluzioni compositive e possibili letture alternative delle norme interessate. Dopo aver tratteggiato l’evoluzione della giurisdizione, il volume si sofferma sui confini della cognizione ordinaria e amministrativa, esaminando altresì i relativi poteri riconosciuti all’autorità giudiziaria nei diversi ambiti. La parte centrale dell’opera è dedicata alla disamina del procedimento di cognizione analizzato alla luce delle problematiche che nell’ambito del processo del lavoro caratterizzano le controversie di lavoro pubblico, mentre l’ultimo capitolo affronta lo spinoso tema dell’esecuzione delle sentenze nei confronti delle pubbliche amministrazioni. Una aggiornata appendice ricostruttiva delle P.A. destinatarie del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato chiude il volume. Quest’opera costituisce una invitation au voyage nel pianeta del processo del lavoro pubblico privatizzato, connotandosi altresì per una immediata fruibilità esaltata anche da sintesi casistiche sulle problematiche maggiormente ricorrenti nella pratica. M.B. (*) Avvocati dello Stato. Finito di stampare nel mese di ottobre 2012 Servizi Tipografici Carlo Colombo s.r.l. Via Roberto Malatesta n. 296 - Roma